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il cuore dei preti
Marco Garzonio (a cura di) IL CUORE DEI PRETI L’educazione sentimentale ed affettiva dei sacerdoti Prefazione del card. Carlo Maria Martini Contributi di G. Rigoldi, F. Scaparro, E. Ronchi, M. Garzonio, G. Barbareschi, R. Martinelli © EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2010 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino ISBN 978-88-215-6782-7 Prefazione del card. Carlo Maria Martini «T re cose sono per me così misteriose, che non le comprendo: il percorso dell’aquila nell’aria, il sentiero del serpente tra le rocce, la rotta della nave in alto mare. E ce n’è soprattutto una quarta: la via dell’amore tra un uomo e una donna» (Prov 30,18-19). Si pensa spontaneamente a questo proverbio dell’Antico Testamento quando si leggono questi contributi sul tema dell’affettività. Ci troviamo di fronte a quel grande «guazzabuglio del cuore umano» (Manzoni), che «ha le sue ragioni che la mente non conosce» (Pascal), a quella realtà che non si può definire esattamente, eppure costituisce il nucleo di ogni cosa. Se il mondo è stato creato per amore e Gesù ci ha amato tanto da dare la sua vita per noi, vuol dire che questa realtà è al centro e al fondo di tutto, sia in questo 5 Il cuore dei preti mondo che nell’altro. E i preti non fanno eccezione a questo fatto, anche se il celibato per il Regno impone uno stile di vita particolare. I contributi di questo libro sono di persone che si interrogano appunto sulla vita affettiva del prete celibe per il Regno. Forse bisognerebbe aver avuto molte vite, e in ciascuna di esse molte esperienze, per poter dare un giudizio sulla materia contenuta in queste conferenze. Capisco qui un poco perché gli orientali parlino della reincarnazione delle anime, quasi per dare all’uomo la possibilità di rivedere i suoi atti e di riparare i suoi errori. Non è solo l’educazione del prete che qui è in gioco, ma tutta la sua vita. Essa può essere esposta più o meno a temporali affettivi: in ogni caso l’emozione e l’affettività impregnano di sé la vita del prete, come quella di qualunque altro uomo o donna su questa terra. Talvolta sembra di trovarsi come di fronte a un abisso, nel quale non ci si deve gettare in volo libero, se non per una misteriosa ispirazione. E per volare sull’abisso non esistono regole, ma soltanto la lealtà e la sincerità del cuore. Può darsi che si arrivi a momenti rispetto ai quali san 6 Prefazione Giovanni della Croce, nella Salita al monte Carmelo dice che non c’è più sentiero: si avanza unicamente sotto la guida dello Spirito. Perciò penso che in queste cose non è possibile dare regole generali. Rimangono però alcuni principi fondamentali. Ad esempio, quello espresso da sant’Ignazio nei suoi Esercizi Spirituali: «Ciascuno sappia che tanto vantaggio ricaverà in tutte le cose spirituali quanto più si libererà dall’amore, dal volere e dall’interesse propri». Ma è soprattutto alla Parola di Dio cui vogliamo ricorrere. Vi sono frasi del Vangelo che vengono in mente a tale proposito. E non solo quelle in cui si dice (Mt 5,28): «Chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» oppure si afferma (Mt 18,9): «Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo cavalo e gettalo via da te», ma anche quelle in cui si esorta l’uomo a una più grande dedizione, come (Mt 10,39): «Chi avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà» e (Mt 5,8): «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio». 7 Il cuore dei preti Anche san Paolo enuncia criteri generali molto utili per tale discernimento, ad esempio nella lettera ai Galati (Gal 5,22): «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé: contro queste cose non c’è legge». In conclusione penso che nei seminari si faccia bene a educare i ragazzi e i giovani alla rinuncia personale e alla custodia del cuore. Verrà il tempo in cui Dio stesso guiderà chi lo cerca sopra ogni cosa verso affetti sinceri, senza secondi fini. Certamente l’educazione dei futuri presbiteri non deve contenere proposte sbagliate. Tale sarebbe ad esempio la convinzione esplicita che «chi dice donna dice danno» (come detto efficacemente nel titolo del contributo del prof. Scaparro), come anche ogni altro atteggiamento di misoginia. I lettori troveranno in queste pagine ampio materiale per riflettere su un tema grande, sul quale non si finirebbe mai di pensare. Perciò ogni contributo è utile e desiderabile. Carlo Maria Card. Martini 8 Introduzione di Marco Garzonio Q uesto libro nasce dall’incontro fra due amici. Il primo è don Gino Rigoldi, non da oggi uno dei preti simbolo della Chiesa Ambrosiana. Il secondo è il sottoscritto, che ha la fortuna di fare due mestieri: lo psicoanalista e scrivere. Don Gino mi ha messo a parte di alcuni vissuti che gli era capitato di condensare dentro di sé, con grande chiarezza, in occasione di una riunione fra sacerdoti. Si era trovato di fronte a tanta solitudine, ad un senso di isolamento, ad un’incapacità di lavorare insieme. E aveva dovuto misurarsi anche con una depressione che serpeggiava tra i suoi confratelli. Insieme a lui, per parte mia, ho condiviso il mio disagio di fedele laico, che nel frequentare la chiesa e nella pratica religiosa ha avuto più di un’occasione per riscontrare 9 Il cuore dei preti negli uomini di Dio una lontananza emotiva, una difesa. Buona collaborazione, anche, ma modalità ingessate nel porsi e nell’accogliere, un muoversi con il freno a mano tirato. Come se nelle relazioni venisse posto uno sbarramento difficile da superare: volti compìti, posture rigide, linguaggio appropriato, adempimenti puntuali, fretta. E, al fondo, un coinvolgimento impalpabile, per non parlare di una buona dose di estraneità. Don Gino è uno che non si arrende; mai. Mi ha confessato il suo malessere, il contrasto che avvertiva, perché il carburante della sua vita sono gli affetti che ha dato e che ha ricevuto, da sempre. Per lui è la cosa più naturale: non ci sarebbe neanche bisogno di starne tanto a parlare. Si è risentito e mi ha detto che non si poteva andare avanti in quel modo, che bisognava fare qualcosa per trasmettere ciò che lui ha sempre avvertito come un obiettivo del suo sacerdozio: andare alla ricerca del volto affettuoso del Signore. Nemmeno io sono una persona che sta tranquilla, che si adagia e si adatta facilmente, accondiscendente alle situazioni e non mi piace il lamento che serve a sfogare i malumori 10 Introduzione ma poi lascia tutto come prima. I miei maestri, a incominciare da Giuseppe Lazzati, mi hanno insegnato un certo modo di essere fedele laico. Il cardinal Martini lo ha sintetizzato con queste parole evocative della testimonianza impressa appunto da Lazzati a intere generazioni, lui che aveva dedicato la vita all’educazione dei giovani: «Servizio umile e incondizionato alla Chiesa, ma in piedi e con franchezza». Quasi un motto da far campeggiare nelle parrocchie, nelle associazioni, negli uffici curiali. Direi in ogni luogo in cui i cristiani hanno occasione di ritrovo e di presentazione agli altri. È anche grazie alla consapevolezza di un dovere di riconoscenza per i doni che mi sono stati elargiti nella vita che mi trovo a sottrarre tempo al mio lavoro e ai miei cari (i quali generosamente, ma anche con qualche sacrificio, me lo concedono) e svolgo un’opera di animazione culturale. E proprio in ragione della responsabilità che ho nel condurre l’Ambrosianeum ho detto a don Gino: «Non teniamoci questi discorsi tra noi. Parliamone. Coinvolgiamo altri amici. Condividiamo i nostri pensieri con chi ci sta. E vedrai che saranno tanti». 11 Il cuore dei preti Già, perché come cattolici soffriamo di una povertà grande oggi: manca un’opinione pubblica nella Chiesa e della Chiesa. V’è tanta opinione pubblica sulla Chiesa (vien detto di tutto e di più), che molti protagonisti subiscono e altri, più smaliziati, sfruttano. Sono le leggi del mondo, non solo dei media, strumenti che costituiscono un’opportunità, certo, ma anche una tentazione formidabile, anche fra i cristiani, soldati semplici e graduati. Ma di un bene prezioso quale è l’opinione pubblica nella Chiesa pochi si occupano, ancor meno la incrementano, tantissimi la temono e cercano di dissuadere un tale esercizio. Anche se il Concilio ha posto la sua coltivazione tra i fondamenti dell’evangelizzazione e della riforma interna della Chiesa. La cristianità si costruisce e si rigenera continuamente se ci si ferma a riflettere, se circolano idee, si fanno sperimentazioni, se ci si interroga e ci si confronta, se si dibatte. Lo spirito di ricerca dovrebbe animare il cristiano, mentre lo mortificano il conformismo, l’ignavia, l’accidia, il «ma chi te lo fa fare». È così che insieme a don Gino abbiamo deciso di 12 Introduzione osare. E di mettere quindi in cantiere un’iniziativa che raccogliesse le preoccupazioni comuni su come si è sacerdoti oggi e individuasse piste di ricerca da condividere poi con altri. Si poteva fare. L’Ambrosianeum è “una zona franca”. Me lo ha detto il cardinale Tettamanzi poco tempo fa, quando, con i colleghi del Consiglio, sono andato a fargli gli auguri di Natale e gli ho portato i programmi svolti e i propositi per il futuro della nostra Fondazione. E io, con gli altri, ho preso quell’affermazione come un attestato di stima e come un’esortazione, calda e pressante. Nella disposizione amicale dell’Arcivescovo, oggi vergognosamente attaccato solo perché svolge il ministero d’amore del sacerdote in una città, la grande Milano, e in un’Italia che hanno perso un po’ la bussola della prossimità, ho ritrovato il riconoscimento di ruoli diversi, ma nello spirito di una comune ricerca, e un ulteriore stimolo a proseguire nella strada intrapresa. Un indirizzo di marcia, cioè, che si richiama ai Padri fondatori (l’Ambrosianeum è nato nel 1946), a quei cattolici che, all’indomani della lotta di Liberazione, diedero un contributo determinante alla nascita della Co13 Il cuore dei preti stituzione repubblicana, soprattutto nella elaborazione della prima parte, quella dei valori della persona, della cittadinanza attiva, dei diritti e dei doveri. Ed ebbero numerosi preti con cui ritrovarsi nella comune passione culturale e civile: Turoldo, De Piaz, Mazzolari, De Luca. Per non parlare di Sturzo. Oggi come allora si tratta di avere il coraggio delle idee e delle cose quotidiane. E, per noi, di esercitare appieno la responsabilità di fedeli laici che ci compete, in quanto cristiani adulti, senza stare ad aspettare benedizioni né contraccambi (spesso neanche ringraziamenti), fuori da comode logiche di appartenenza. Rischiando, se necessario. La Chiesa, i cristiani, il mondo hanno bisogno di cultura (l’Ambrosianeum è una fondazione culturale). E questa è certo fatta anche di progetti ambiziosi e convegni generali, ma può ambire ad incidere quando si fa pratica quotidiana, quando diviene fatto di popolo. Specificherei: popolo di Dio, per fare un ulteriore e necessario riferimento a una preziosa locuzione conciliare. Non sarebbe stato possibile arrivare ai testi che il libro raccoglie se non avessimo subito trovato importanti 14 Introduzione corrispondenze. Le consonanze erano forse immaginabili viste le persone che avevamo deciso di coinvolgere. Ma è il quadro d’assieme che fa particolarmente stimolante il risultato. Abbiamo voluto avere al nostro fianco un religioso, padre Ermes Ronchi, che, in San Carlo al Corso, porta avanti l’ammaestramento di un altro frate, cui Milano e il Paese devono molto della rinascita spirituale e dell’impegno civile del dopoguerra: David Maria Turoldo. Nel dire di sentimenti e affetti senti in padre Ermes l’eco, la pregnanza, la tensione all’assoluto e il radicamento quasi carnale della poesia di Turoldo (chi non ricorda le vibrazioni di “O sensi miei”?). E poi puntavamo sul laico che ascolta e raccoglie i patimenti dell’animo: lo psicoterapeuta. Fulvio Scaparro era, ed è, la persona competente e sensibile che tutti conosciamo, lo specialista che non fa sconti, perché non si risolvono i problemi e non si cresce se non ci si affranca dalle collusioni e dalle reticenze, dalle immaturità. Ci tenevamo, infine, ad avere la testimonianza preziosa di un sacerdote milanese che ormai chiamiamo affettuosamente “il Patriarca”. È don Giovanni Barbareschi, consacrato 15 Il cuore dei preti prete a Ferragosto del ’44, a 22 anni, e il giorno dopo rinchiuso a San Vittore per aver prestato aiuto ad ebrei e partigiani e per la sua partecipazione alla redazione e alla diffusione del giornale clandestino “Il Ribelle”. Con i suoi 88 anni, lucidissimo e attivo sino a suscitare non si sa bene se sorpresa o ammirazione, certo gratitudine commossa, don Giovanni riesce a star vicino alle persone in crisi (e molti preti ne sanno qualcosa), ai giovani (oggi ormai nonni!) che ha formato nella Fuci, negli scout, nella Casa Alpina di Motta, al liceo Manzoni, e a chiunque gli chiede comprensione più che consiglio. Noi due, don Gino ed io, avremmo completato il quadro degli interventi, riportando e sviluppando il seme, che era nato nel nostro incontro iniziale da cui tutto è scaturito, secondo i nostri rispettivi impegni, competenze e sensibilità. Don Gino, sacerdote che nel ministero e nell’impegno sociale porta la domanda tenera di Gesù a quello che egli stesso ha posto a capo della Chiesa: «Pietro, mi vuoi bene tu?». Ed io che mi calo con uomini e donne nei recessi inconsci alla ricerca di un senso da dare alla vita. Avendo sempre nella memoria quel che 16 Introduzione dice Pascal: «Esistono ragioni del cuore che la ragione non conosce». Oltre che Io, vigore, forza e volontà, siamo anche tenerezza, creatività, soprattutto un mondo oscuro da decifrare, a incominciare da quello che ogni notte riceve le sciabolate di luce dei sogni. Può sembrar banale dire che è stata calda e di partecipazione intensa l’accoglienza del pubblico quella mattina di un sabato di metà ottobre, in cui abbiamo presentato le nostre relazioni, e l’eco che ne è venuta. Credo che la riprova migliore dell’accoglienza in diretta venga dall’intervento che don Romano Martinelli (direttore spirituale emerito al Seminario arcivescovile di Venegono) ha fatto nella discussione e che gli abbiamo chiesto di poter riportare in appendice al volume. Quanto all’interesse più generale prodotto dal materiale che abbiamo elaborato e offerto, la vera rispondenza è venuta dall’editore. Don Elio Sala non ci ha pensato due volte quando l’ho messo a parte dell’iniziativa. «Mi interessa molto. Certo, lo facciamo. E alla svelta». E mentre la San Paolo avviava il lavoro redazionale un’altra idea ha preso corpo: chiedere al cardinal Mar17 Il cuore dei preti tini di scrivere la prefazione al libro. Milano, la Chiesa tutta, il Paese intero hanno un debito di riconoscenza enorme con Martini. La sua voce di testimone del Vangelo e della radicalità dell’annuncio di morte e resurrezione di Gesù ha rappresentato un punto di riferimento importante in anni di trasformazioni epocali (è stato arcivescovo di Milano per più di 22 anni, dall’inizio del 1980 al settembre del 2002). Ed anche oggi si fa sentire, alta, forte, autorevole, come quella degli antichi profeti di Israele. Chiedere al Cardinale uno scritto, anche breve, che facesse da guida e luce è stato un gesto di riconoscenza, non solo uno sperare in un suggello autorevole e che dà indubbio lustro e sostegno. Voleva essere un ribadire che la nostra epoca ha bisogno di maestri, di testimoni, di persone autentiche. E che i cristiani e la Chiesa debbono con urgenza spalancare le finestre e far entrare aria pulita nei nostri ambienti. Purificarsi è un’esigenza vitale, altrimenti come potremo pretendere di essere testimoni della speranza che è in noi? Alla fine, in fase di messa a punto del volume, ha preso forma l’ultimo adempimento, il titolo. Il cuore 18 Introduzione dei preti è idea felicissima dell’editore. Racchiude gran parte di quanto si voleva dire e fa da apripista per tutti i discorsi che seguiranno. E che saremo felici di aver dato il contributo a stimolare. Il fatto stesso di aver l’opportunità di gettare semi è l’autentica, vera ricompensa per chi si dedica a un lavoro di tipo culturale. Senza preoccuparsi degli esiti immediati. Un giorno don Loris Capovilla mi confidò di come papa Giovanni l’avesse benevolmente rimproverato per la preoccupazione che egli rivelava di fronte a un’iniziativa che stavano per intraprendere: «Alius seminat, alius metet». Come si sarà capito il nostro intento non era di entrare nel merito della questione relativa al celibato dei preti. Tanto meno volevamo farci coinvolgere in una polemica in cui anche tra i cristiani si riflette una modalità purtroppo molto diffusa nel dibattito culturale, indipendentemente dall’oggetto in esame, e cioè l’atteggiamento secondo cui sembra più importante attribuire all’interlocutore un’appartenenza che stare ad ascoltare le argomentazioni che l’altro porta. Il tema del celibato è senz’altro importante, ma abbiamo ritenuto che prima 19 Il cuore dei preti venisse proprio la questione che ci ha occupato, il qui e ora: come affrontare e gestire l’universo sentimentale e affettivo del sacerdote oggi, nella situazione di trasformazioni profonde della società e del vissuto religioso. È un compito che tocca evidentemente i protagonisti e l’istituzione Chiesa. E verso gli sforzi, le fatiche, le sofferenze anche v’è da nutrire molto rispetto da parte di tutti. Ma la felicità dei preti è un problema che tocca e coinvolge tutti i fedeli. Esiste una responsabilità anche nostra, dei fedeli laici di farsi carico delle difficoltà – che in molti passaggi dei contributi riportati nel volume sono evidenziate – e di collaborare fattivamente, ciascuno per sé e come comunità, a che vengano individuate prospettive, realizzati interventi, messe in cantiere sperimentazioni. Facendo eco al titolo non sembri poi troppo banale scherzarci anche, cedere al gioco di parole e dire magari che “anche i preti hanno un cuore”. Anzi, è la verità che proprio si vorrebbe ribadire e trasmettere con questo libro. Molto spesso hanno un cuore grande. Come tante volte accade è una verità talmente semplice che 20 Introduzione però poi, quando vanno trovate corrispondenze pratiche, risulta difficile da tradurre in gesti concreti nella vita di tutti i giorni. D’altra parte la cristianità sembra arrivata a un punto critico, quasi di non ritorno. Non esiste alternativa: o contribuiamo tutti a che i cuori dei preti sprigionino e ricevano calore, togliendo quella patina di abitudinarietà, oppure tutti pagheremo un prezzo molto elevato, di natura esistenziale. Perché un cristianesimo senza partecipazione affettiva si riduce a una dottrina, non è un annuncio di salvezza. 21 La necessità di amare di don Gino Rigoldi N el recente Sinodo del clero ambrosiano celebrato nel 2009 presso il seminario di Seveso S. Pietro, molti intervenuti hanno lamentato la difficoltà come preti a lavorare insieme. Spesse volte è stato usato il termine “solitudine” per esprimere la propria condizione di fronte alle difficoltà pastorali ed alla complessità dei problemi della attuale situazione politica e sociale. Ad un primo sguardo si potrebbe pensare si tratti di una difficoltà soprattutto organizzativa, logistica, ma in realtà, ad ascoltare bene le parole, a guardare bene gli atteggiamenti delle persone credo non sia sbagliato riconoscere che molti parlavano di una solitudine anche personale, umana, una sofferenza 23 Il cuore dei preti profonda che talora è stata dichiarata anche esplicitamente. A conferma, nella frequentazione di molte parrocchie dove vado a ragionare di educazione con i preti, i genitori, i giovani, spesso, alla fine, vengo invitato a “prendere un caffè e a scambiare quattro chiacchiere”. Il tema principale è quasi sempre legato alla fatica di lavorare insieme tra preti, alla assenza della comunità sacerdotale. A chiedere con chi vivi o se nella comunità parrocchiale ci sono buone collaborazioni, è come spalancare uno spazio di insoddisfazione, talvolta di dolore espresso in mille modi, talora accusatori, talvolta autocolpevolizzanti. Quando poi la risposta è che “l’amore di Dio mi basta”, allora il segnale di una solitudine pesante, pensata come inevitabile e invincibile diventa chiaro. Uomini di grandi relazioni fino all’ora di cena e talora anche dopo e poi a casa in compagnia dei ricordi, di un libro o della televisione. Abitazioni lucide, ordinate, deserte. Mi hanno fatto una grande pena e posto un interroga24 La necessità di amare tivo alcuni amici preti caduti in profonda e lunga depressione dopo la morte della anziana madre. Orfani e soli. Per la cronaca è significativo ricordare che la maggior parte dei tentativi di vita comune tra sacerdoti si è chiusa in pochi mesi. Sono assolutamente convinto che sia necessario iniziare a discutere della vita affettiva dei sacerdoti, dei religiosi e delle religiose intanto perché la affettività sta nella normalità della vita di ognuno e poi perché delle buone capacità di relazione ma soprattutto le amicizie sono una necessità non solo per l’equilibrio della vita di tutti, compresi i preti, ma sono anche la premessa per la serenità in tutte le relazioni e nella vita parrocchiale. Come primo passo per la riflessione, ho cercato di esaminare me stesso, le motivazioni che mi spingono a lavorare con i giovani, a predicare le parole ed i gesti di Gesù Cristo. La prima ed indispensabile fonte è la preghiera , una ricerca affettuosa del volto del Signore e l’ascolto assiduo della sua Parola. Seduto nella mia stanza o in una chiesa, come fossi 25 Il cuore dei preti presente in compagnia dei discepoli a guardare Gesù operare e ad ascoltare la sua parola antica, viva e forte per oggi. Insieme con la preghiera anche tentando coerenza con il Grande Comandamento dell’amore, io so che la mia energia e la mia speranza, la capacità di affrontare le difficoltà, sono legate al fatto di vivere e lavorare con molte persone che sono mie amiche e miei amici, agli affetti che nascono dalla accoglienza, al calore del volersi bene. Per me queste relazioni sono le proteine della vita, un calore che scalda il cuore e tiene vivo il piacere di condividere progetti e imprese di solidarietà, di educazione, di testimonianza di fede. Non riuscirei a vivere senza questi umani “amori in corso”. Io credo che la stessa possibilità di essere accogliente, capace di ascolto, la stessa disponibilità nei confronti delle persone che incontro, abbiano come premessa necessaria e insostituibile il fatto della sicurezza e del piacere di essere voluto bene e di voler bene ad un gruppo di uomini e di donne che chiamo i miei amici, le mie amiche. 26 La necessità di amare Del resto tutti sanno che per amare molte persone, è necessario di amarne in maniera importante un numero limitato che diventa la tua famiglia, il tuo luogo degli affetti. Senza non si può. Assolutamente vere sono le parole che don Milani ha scritto per gli insegnanti ma che possono essere tranquillamente usate per i sacerdoti, i religiosi e le religiose: “i professori son come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. Ci sono tante altre creature da servire» (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, 1996, Libreria Editrice Fiorentina, pp. 41-42). Con un piccolo scambio, potremmo parafrasarla dicendo che i preti, pensando di dover amare tutti, finiscono per non amare nessuno. Lo spazio dell’amore Ma, prima di tutto, dobbiamo scegliere quale prospettiva dare al termine amore. Nella fitta rete di rimandi 27 Il cuore dei preti che Benedetto XVI intesse nella sua prima enciclica, Deus caritas est, si disegna quello spazio tra eros e agape dentro al quale il cristiano è chiamato a tracciare il proprio percorso. In quello spazio troviamo le diverse dimensioni dell’amore, da quello filiale a quello sponsale, dalle passioni brucianti alle salde amicizie, fino all’amore per Dio e di Dio. «In opposizione all’amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo [agape, rispetto ad eros] esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro». Per lo scopo di questo scritto, vorrei limitarmi a considerare la dimensione amicale, quegli affetti verso amici e amiche che sappiamo essere fondamentali per la pienezza della persona. Tenendo sempre a mente che l’amore è «… un’unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l’una o l’altra dimensione può emergere maggiormente. Dove però le due dimensioni si distaccano completamente l’una dall’altra, si profila una caricatura o in ogni caso una forma riduttiva dell’amore». 28 La necessità di amare Se l’amore di Dio e per Dio arricchisce di nuove dimensioni le relazioni umane, non dobbiamo dimenticare che le prime esperienze concrete di amore avvengono tra persone, sulla Terra. L’amore per Dio e l’amore per gli uomini stanno naturalmente insieme, anzi l’uno include e valorizza l’altro. La tensione verso un ordine divino dell’amore non deve farci dimenticare la dimensione finita dell’esistenza umana, una finitudine che constatiamo nella nostra capacità di poter conoscere e amare un numero limitato di persone. Ma proprio a partire da questo limite, forse grazie a questo limite, noi sentiamo la tensione verso Dio. Molti – credo troppi – sacerdoti o religiosi e religiose sono in relazione per dieci, dodici ore al giorno con tutti coloro che arrivano con i propri problemi, domande, richieste o – purtroppo più raramente – con le proprie gioie. Ma spesso quegli stessi sacerdoti che ascoltano e cercano di servire gli altri non vivono affetti e relazioni amicali profonde e durevoli. Allora la solitudine può diventare condizione di sofferenza e – temo – di possibile aridità affettiva ed evaporazione del sogno che pur li ha mossi dal principio. 29 Il cuore dei preti Gesù stesso non ha solo parlato di amore per il prossimo, si è comportato da uomo capace di amare e di essere amato. Sin dall’inizio si è scelto un gruppo di uomini e di donne per costituire la prima comunità che ha voluto educare con pazienza e onestà, con dolcezza ma anche con duri rimproveri. Era la comunità dei suoi amici e delle sue amiche, persone con le quali ha condiviso i giorni buoni e alle quali ha poi chiesto che vegliassero con lui mentre l’angoscia gli attanagliava il cuore. E quando Pietro vive la negazione di aver conosciuto Gesù come un grande tradimento del cuore, Gesù stesso risana la ferita con una domanda che continua a suscitare tenerezza: «Pietro, mi vuoi bene tu?». Gesù desiderava, chiedeva che i suoi amici lo amassero. Di fronte alla tomba di Lazzaro Giovanni dice che «Gesù scoppiò in pianto» perché «Gesù voleva molto bene a Lazzaro, a Marta e a Maria». Più laicamente, per quel che vivo nei rapporti con i giovani, per quel che affermano gli studi di psicologia e di pedagogia, io sono abituato ad indicare e ad insegnare che il pilastro dell’educazione è «come si sta con 30 La necessità di amare gli altri», la relazione onesta e costruttiva, l’amicizia e l’amore, insomma. Amare ed essere amati è un bisogno naturale e necessario (“originario fenomeno umano”, dice Benedetto XVI). La risposta a questo bisogno contribuisce in maniera fondamentale alla strutturazione della persona, all’immagine che ci si costruisce di sé, degli altri, del mondo. E per tutta la vita l’amore è il luogo del benessere e della crescita costante della persona. La mancanza di affetti determinati e riconosciuti è una delle strade che conduce alla depressione. E la solitudine del cuore è un male dei nostri tempi che tocca anche molti sacerdoti, religiosi e religiose. Se l’amore è un bisogno, la tentazione di classificarlo come una debolezza deve però essere respinta. Affermare che «mi basta l’amore di Dio», negando così il bisogno di affetto e di tenerezza tra persone, è anche obliare che l’amore per gli altri – amore dato e ricevuto – è un comandamento simile all’amore per Dio. È negli affetti quotidiani che impariamo a cercare e a costruire le relazioni d’amore. Lo stato di bisogno caratterizza l’esistenza umana, 31 Il cuore dei preti ma nel nostro immaginario spesso è associato ad uno stato di debolezza, di minorità. La rinuncia ai bisogni, dunque, sembra diventare una affermazione di forza e di indipendenza dalle passioni. Sembra allora che si voglia accettare l’amore in generale, astratto, ma non quello determinato, concreto. Sarebbe come affermare di aver bisogno di acqua, ma rinunciare al sorso d’acqua, aver bisogno di ossigeno, ma rinunciare a respirare questa aria, qui e ora. Un bisogno negato, però, non è affatto un bisogno estinto, è piuttosto un bisogno che, muto, cercherà nuove forme di espressione e di soddisfazione. E allora non diventerà più una scelta consapevole, ma una necessità, a quel punto e in alcuni casi incontrollabile. C’è però un altro aspetto che contribuisce alla cattiva fama dell’amore presso noi religiosi: il suo aspetto di involontarietà, in particolare quando l’amore si presenta come innamoramento. Sembra allora che la persona sia trascinata nella passione senza la partecipazione della propria volontà, senza scelta, insomma. È questo un equivoco che mi sembra molto pernicioso. L’amore, nella sua pienezza di significato, non è mai una perdita. Temere di 32 La necessità di amare “perdere la testa”, di uscire dal solco del proprio percorso, rivela quasi un’identificazione tra amore e ingorda passione dei sensi. Ma l’amore, l’affetto, l’amicizia non devono essere identificati necessariamente con la sensualità, per quanto essa ne sia talvolta una componente non secondaria. Ne abbiamo riprova pensando, per esempio, all’amore filiale, scevro da ogni connotazione erotica, all’amicizia salda tra amici, fratelli. Un abbraccio può essere un piacere dell’anima e del corpo, non necessariamente un eccitamento della libido. L’amore è una cornice che può racchiudere innumerevoli forme: se abbiamo percepito una forma d’amore che ci ha impaurito o suscitato repulsione, non possiamo perciò stesso rompere la cornice ma dovremmo invece affrontare a viso aperto quali forme di amore alberghino in noi. Annichiliti dagli “opposti” Qualcuno potrebbe affermare che la mobilità imposta al sacerdozio non è conciliabile con relazioni affettive 33 Il cuore dei preti stabili. Costruire legami per poi doverli sciogliere al primo cambio di sede sembra inutile. Anzi, i periodici spostamenti sembrano suggerire proprio che non ci deve essere un legame personale con il prete, il quale è una figura di mediazione e non deve essere protagonista lui stesso di una vita di relazione affettiva. Ma noi sappiamo, al contrario, che gli affetti abitano nel cuore indipendentemente dallo spazio e dal tempo. Sappiamo che l’incontro con un caro amico o una cara amica dopo anni di lontananza ricrea gli stessi sentimenti del tempo passato, perché è rimasto vivo l’amore. C’è però un aspetto di questa resa affettiva di fronte al “nomadismo” del prete che credo valga la pena approfondire. Al ricordo dell’affermazione di don Milani citata sopra, ora si sostituisce quello di un giovanissimo studente nordafricano che un giorno mi chiese: «Se dobbiamo morire, perché dobbiamo studiare?». Così sembra dire anche il prete: «Se devo abbandonare questa comunità parrocchiale, perché devo creare amicizie importanti e stabili? Non la imbroglio io, forse, se lascio che mi ami quando so che presto dovrò lasciarla?». Di34 La necessità di amare menticando che proprio nel momento terribile dell’abbandono Gesù ha stretto intorno a sé gli affetti. Così, mentre con don Milani si poteva paradossalmente dire che si vorrebbe amare “tutti o nessuno”, ora sembra che si debba concludere che si vorrebbe amare “per sempre o mai”. Invece io credo che sia proprio la dimensione finita dell’esistenza terrena lo spazio entro il quale possiamo realizzare la parola di Gesù. È proprio il limite, la finitezza che ci devono spingere ad avere cura del “giardino di Dio” e ad accendere qui ed ora la nostra capacità di amare e di essere amati. Il disprezzo della finitudine rischia di produrre gli stessi esiti del nichilismo. Tutto e Nulla possono confondersi. Educazione e relazione Per quello che mi capita di conoscere – ed è certamente una conoscenza buona ma incompleta – nei luoghi della formazione dei sacerdoti, dei religiosi e delle religiose, la cura dei rapporti interpersonali e 35 Il cuore dei preti dell’amicizia, l’abitudine alla relazione onesta e amicale, l’addestramento a lavorare insieme dandosi reciprocamente valore, non è il contenuto dell’educazione che viene impartita. Ci sono le regole di seminario o di istituto, ma l’incontro delle umanità, il darsi valore, la comunicazione interpersonale, la cura gli uni degli altri, il lavorare insieme non sono al centro del progetto educativo. A mio parere, questa è una carenza di sostanza che incide tanto nel benessere personale quanto nella qualità dell’azione pastorale che siamo chiamati a svolgere. Qui emerge una questione di sostanza che raramente le autorità ecclesiastiche conoscono e rispettano: la competenza che devono avere sacerdoti e laici dedicati all’educazione dei giovani che si avviano al sacerdozio. Buonissimi, bravissimi sacerdoti colti e ubbidienti, ricchi di cultura teologica e di spiritualità, ma ai quali non è richiesta una specifica competenza educativa rivolta all’implementazione delle capacità relazionali e alla gestione dell’affettività e delle emozioni. È vero che dai seminari escono lo stesso tanti “buoni preti”, ma 36 La necessità di amare un obiettivo fondamentale come l’equilibrio affettivo e una solida e consapevole capacità relazionale non può accadere “per fortuna” o per le qualità proprie di una persona. Da questo punto di vista l’atteggiamento di chi sceglie gli educatori del seminario religioso o secolare non è molto diverso dall’apparente buon senso di chi immagina che l’essere adulto, padre o madre, prete, frate o suora, sia di per sé un’abilitazione ad essere educatori. Anche nei gruppi di religiosi e religiose mi è capitato molto raramente di trovare una figura che, con cognizione di causa e competenza, avesse cura della comunità intesa come luogo di condivisione, di fraternità, di progetto comune. Anche qui, come nel caso del ruolo educativo degli educatori, sembra quasi che prevalga l’idea che basti il nome “comunità” perché si generino armoniosamente tutte le dinamiche positive. Invece c’è la regola ma, come si sa, la regola, per bella che sia, si anima se è proposta dal volto fraterno di una sorella o di un fratello. Anche Gesù era allergico alle regole senza 37 Il cuore dei preti relazione. Come in una qualsiasi altra relazione, è necessario che anche in comunità ci sia cura e attenzione quotidiana per favorire i processi positivi, altrimenti il rischio di diventare una comunità di estranei risulta tutt’altro che improbabile. Riguardo alla relazione d’amore o di amicizia con entrambi i sessi, occorre fare alcune precisazioni. Una delle convinzioni più frequenti è che l’attitudine alla relazione sia legata al carattere, al temperamento. È fuor di dubbio che talune caratteristiche aiutino ad avere una vita relazionale ricca e positiva, ma gli antropologi e gli psicologi affermano che il carattere di una persona deriva in primo luogo dalla qualità delle relazioni con i genitori a partire dai primi anni di vita. Più precisamente, è convinzione condivisa che siano determinanti i primi tre anni di vita, durante i quali si cominciano a costruire (in maniera più o meno positiva) l’identità, la stima di sé e la capacità relazionale. La relazione – prima struttura dell’amore – è, deve essere una scelta e una disciplina, che per i cristiani è il primo comandamento, declinato come l’amore per Dio. 38 La necessità di amare Quali relazioni? La relazione è il pilastro di ogni educazione, non è mai una condizione della quale, una volta stabilita, non ci si debba più curare. È invece un bene da cercare e costruire giorno per giorno: esige silenzio, ascolto, trasparenza, dialogo, perdono, speranza, fede in Gesù. Non se ne può fare a meno. Ovviamente non ogni relazione richiede la stessa intensità di ascolto e di dialogo. Noi preti, come molti laici, incontriamo molte persone, spesso per motivi di funzione. Normalmente basta la buona educazione, un sorriso, la pazienza: questa è una prima declinazione della relazione. Altre volte siamo chiamati in campo a livello più profondo. Un giorno ho cercato di spiegare a due seminaristi la differenza che mi sembrava di cogliere tra loro e alcuni preti che conosco. Dicevo loro di immaginarsi di essere per strada in una notte fredda e tempestosa e di incontrare un giovane ragazzo straniero, conosciuto alcuni giorni prima, che chiede aiuto. Probabilmente – dicevo loro – voi gli avreste dato dieci euro e un nu39 Il cuore dei preti mero di telefono, e poi un saluto frettoloso. Ecco, altri preti che conosco forse anche loro gli avrebbero dato qualche soldo, ma poi lo avrebbero portato a casa propria. Due esempi di relazione non ancora affettiva, ma certamente effettiva. Io non riesco a immaginare una relazione che sia diversa e contemporaneamente umana e cristiana. Certo, ogni relazione di accoglienza deve fare i conti con la realtà, la disponibilità di tempo, di competenza nella relazione, di disponibilità di strumenti concreti, altrimenti ci si lascia prendere dalle pulsioni di onnipotenza, che alla fin fine sono distruttive. Ma le lontananze emotive troppo spesso rimandano ad un egoismo sostanziale camuffato da ragionevoli motivi. È clamorosa la quantità di alloggi che sono e restano vuoti per la riduzione del clero di fronte alla disperazione di molte famiglie che non hanno una casa dignitosa o sono addirittura senza casa. Questa è appunto una seconda declinazione della relazione, quando cioè incontri un bisogno e te ne fai carico pur mantenendo vivo il senso del limite legato alle condizioni reali. Se però si rimane senza risposta di fronte a bisogni per i quali è possibile 40 La necessità di amare trovare le risorse, allora non sei in relazione, non ti assumi la responsabilità. Il peso delle ragionevoli preoccupazioni è quasi sempre sovrastimato rispetto al peso del bisogno che si incontra nello sguardo dell’altro. C’è una terza declinazione della relazione, più vicina alla valenza affettiva. Si tratta del rapporto che il sacerdote, la religiosa o il religioso hanno con i propri collaboratori. Disastrosa è la gestione auto centrata delle strutture parrocchiali, a partire dall’oratorio fino alla parrocchia in generale. Riconoscere responsabilità al gruppo dei collaboratori è un passaggio fondamentale, necessario e ragionevole, per altro raccomandato dai documenti ecclesiali a partire dal Concilio Vaticano II. Di norma un gruppo si forma per gestire un progetto, talvolta per organizzare un evento: richiede disponibilità, ma soprattutto competenza e tempo. E deve assumersi responsabilità vere e condividere il progetto pastorale. Si tratta di gruppi che hanno bisogno di cure e di formazione, normalmente da affidare a persone competenti, mai al religioso o religiosa che, invece, deve far parte del gruppo. 41 Il cuore dei preti Un gruppo sano che condivide un progetto – che è anche un ideale, un sogno – ha bisogno di competenza, come dicevo, ma soprattutto di rapporti stretti, chiari, sinceri, caldi. Un gruppo ha numeri limitati e confini, identifica persone e relazioni. Spesso è proprio in queste strutture che si scorgono le possibilità di relazioni amicali forti. Ovviamente si trova quel che si cerca: i rapporti e la loro qualità si possono definire anche come incontri di due o più desideri, disponibilità, bisogni, impegni. Occorre però sempre attenzione ad evitare di costituire un gruppo esclusivo e autoreferenziale, povero di ascolto e di servizio per la comunità all’interno della quale il gruppo si forma. Ogni forma di amore nasce per una qualche affinità, cresce e si stabilizza se diventa decisione e cura. Credo che stia qui il problema: la scelta della ricerca e dell’offerta affettiva vissuta come un grande, necessario, legittimo bene contrapposto a un’equidistanza affettiva spacciata, troppo spesso, come virtù. “Per tutti” può significare – e spesso significa – “per nessuno”. Va da sé che l’equilibrio e la soddisfazione affettiva sono il 42 La necessità di amare calore per scaldare una vita “buona”. Senza si rischia la correttezza fredda e distante. Un’obiezione ricorrente, che spesso diventa un giudizio, è quella secondo la quale un rapporto stretto e tendenzialmente esclusivo tra il sacerdote, per esempio, e l’oratorio o il gruppo è dannoso perché se poi il prete viene trasferito allora se ne vanno anche i giovani. Ma un rapporto stretto di stima e di fiducia è una condizione necessaria della relazione e dell’educazione, non è possibile che avvenga diversamente. Il giovane, il bambino deve avvertire che tu ascolti proprio lui, è proprio a lui che dai valore e proprio a lui offri i tuoi pensieri più belli e, ovviamente, se il contatto si stabilisce, nasce un tipo di dipendenza. La dipendenza fa parte dell’esperienza relazionale e affettiva e, come tale, va gestita con competenza proprio perché stiamo parlando di relazioni che sono anche educative. Eliminare l’affettività per eliminare la dipendenza non è una scorciatoia, è un vicolo cieco. L’arte di educare è sì quella di offrire una relazione, ma anche di avviare verso la consapevolezza, l’auto43 Il cuore dei preti nomia di pensiero, la responsabilità personale. L’arte di educare e di gestire un gruppo si impara. Parte da un’occasione, diventa un’intenzione e si solidifica con una competenza acquisita con lo studio, il confronto, la verifica. L’arte dell’educazione ha inizio, per l’adulto educatore, da una buona educazione e orientamento della propria vita affettiva, spirituale e fisica. Crisi e terapie Infine sono per me sorprendenti e sbagliati i consigli che da anni diversi direttori spirituali, alcuni anche molto noti e presenti nei media nazionali, danno ai giovani preti quando entrano in crisi. La ricetta è sempre quella preconfezionata: «Devi pregare di più e leggere di più il Vangelo». Ovviamente occorre sempre pregare molto e il Vangelo deve essere il libro di riferimento quotidiano, ma potrebbe anche capitare che la crisi derivi da motivi diversi da una preghiera recitata stancamente. Per esempio, da una solitudine che non si riesce più a sop44 La necessità di amare portare, spesso proprio da una solitudine del cuore, da un isolamento rassegnato. Una figura paradossalmente staccata dalla comunità della quale pur ne sarebbe il riferimento. Mi è capitato di conoscere un giovane prete che, essendosi innamorato ed avendo molto onestamente e fiduciosamente comunicato ai suoi superiori il suo innamoramento, è stato avviato ad un percorso di cura psicologica come se l’innamoramento fosse una patologia, mentre di solito è negando questo evento misterioso che si generano patologie e sofferenze psicologiche. L’innamoramento è un avvenimento normalmente straordinario che va affrontato a viso aperto perché radicato nella persona umana, radicato nel cuore della persona umana. Non è dunque una semplice questione di rispetto o contravvenzione delle regole ecclesiastiche. Perché un conto è rispettare il celibato, un altro è congelare il cuore. Certi consigli ecclesiastici assomigliano al comportamento di colui che, di fronte a una persona indigente in cerca di cibo, consigliasse “tre pateravegloria” invece che un piatto di pastasciutta. L’apostolo Andrea insegna. 45 Il cuore dei preti Io ho l’opinione che la causa di molta infelicità e di aridità, la perdita del “sogno” da parte di molti preti e religiosi siano legate non tanto alla mancanza di fede quanto allo scarso esercizio dell’amore quotidiano, alla mancanza dell’ossigeno che si genera nelle quotidiane relazioni affettive. L’affermazione: «Mi basta l’amore di Dio e per Dio» è falsa come gli Omega d’oro che ti vendono a Napoli per trenta euro. Per accorgertene, però, devi fermarti e grattare la superficie. Noi preti in primis non dobbiamo più affermare, pregare, cantare affermazioni del tipo «sei tutto per me, ho bisogno solo di Te, Te solo e il mondo non conta». Come ogni donna e ogni uomo, i sacerdoti e le religiose, anche dopo aver formulato il voto di castità e credo proprio per essere fedeli al voto, hanno bisogno di comunità, di amicizia di persone con le quali ridere e sulle spalle delle quali piangere i propri dolori. Proprio come è capitato di fare a Gesù Cristo il quale così disse dei propri amici: «Da questo riconosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). 46 La necessità di amare La dignità dei figli Ancora oggi, però, invece che riconoscerci “figli” e “fratelli” indugiamo con appellativi quali “umili servi” e “miserabili peccatori”, o dubitiamo dell’amore di Dio implorandolo di non abbandonarci. Al contrario, dobbiamo avere fede di essere preziosi di fronte a Dio. Se siamo amabili per il Signore, come può una persona non considerarsi degna di essere amata anche da se stessa? L’argomento certo non è nuovo. In altri ambiti si parla, per esempio, di autostima come di un necessario sentimento di sé per poter avere una buona relazione con gli altri. Io voglio continuare ad usare il termine amore, perché identifica meglio la parola evangelica. E amore e cura di sé, se non diventano narcisismo o vanità, sono indispensabili per amare il prossimo. L’idea che minore sia la cura di sé e maggiore sia la cura che puoi dedicare all’altro è una semplificazione deviante del concetto di sacrificio. Amare se stessi, dunque, e permettere di essere amati 47 Il cuore dei preti sono aspetti indissolubilmente legati alla capacità di amare l’altro. Chi tra noi, oggi, vorrebbe stare dalla parte di coloro che hanno criticato aspramente Gesù per aver accettato lo “spreco” del prezioso unguento cosparso sui suoi piedi? 48 “Chi dice donna dice danno?” di Fulvio Scaparro I o non so cosa significhi essere sacerdote. Posso solo, in tutta umiltà, esercitare quel po’ di empatia di cui dispongo per cercare di comprendere il mondo interno di quei sacerdoti con cui ho avuto a che fare, anche professionalmente, nel corso della mia vita. Qualcuno di loro, in passato, si è rivolto a me per cercare aiuto per motivi che, di solito, non dovrebbero essere trattati da e con uno psicologo: la normale attrazione per una donna, l’innamoramento, la passione. L’uomo che sta davanti a me, nel momento in cui ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale, si è impegnato di fronte a Dio di dedicarsi, letteralmente, anima e corpo, alla diffusione della sua parola, alla dedizione agli altri, 49 Il cuore dei preti all’ascolto degli altri. Ma ora chiede di essere ascoltato da me, uno di quegli “altri”, di non essere lasciato solo in un momento in cui i sentimenti e le emozioni sembrano far vacillare le scelte e gli impegni un tempo solennemente assunti. Ho letto da qualche parte che la visione laica mal sopporta la “diversità” del sacerdote e non tiene conto del fatto che «il celibato sacerdotale è una continua provocazione, un continuo ricordare che dietro quell’uomo, apparentemente solo, c’è qualcun Altro!». E, poco cristianamente, quella stessa fonte aggiunge: «È dura per uno schiavo [l’uomo laico] vedere un uomo libero [il sacerdote]». Ma nella mia stanza non si confrontano uno schiavo (io) e un uomo libero (lui). Per me e per lui vale forse quello che diceva Albert Schweitzer: «La coscienza tranquilla è un’invenzione del diavolo». Né io né lui siamo liberi, ma aneliamo alla libertà; né io né lui siamo schiavi, ma abbiamo orrore della schiavitù. Si può lottare e morire per la libertà ma non mi risulta che qualcuno abbia messo a repentaglio la propria vita per 50 “Chi dice donna dice danno?” essere schiavo. Ed essere liberi o schiavi non è questione di matrimonio o celibato e forse nemmeno di essere credenti o noncredenti. Guardo quest’uomo tormentato dai sensi di colpa e penso che lui ed io vorremmo poter scrivere, alla fine della nostra vita, come Newton (5 febbraio 1675): …a me sembra di essere stato soltanto come un fanciullo che giocava sulla riva del mare e che si divertiva a trovare di tanto in tanto un ciottolo più levigato o una conchiglia più bella del comune, mentre il grande oceano della verità si stendeva sconosciuto davanti a me. Forse, io e lui non chiediamo altro: che non ci si impedisca, fino all’ultimo minuto della nostra vita, di giocare sulla riva del mare e scoprire quel poco di insolito e sorprendente che il grande oceano si compiace di depositare sulla battigia. Ma ecco che dall’interno della Chiesa mi si dice, a proposito del celibato dei preti, che una coscienza onesta non può accettare tutto questo e che chiunque pretenda 51 Il cuore dei preti di cambiare la realtà ecclesiale deve accettare il fatto che le dicotomie sono irreali, nessun corpo, neppure sociale, può essere diviso in due. «Non esiste una “Chiesa istituzione” separata o separabile dalla “Chiesa carismatica” o dalla “Chiesa-popolo di Dio”». Costi quel che costi, anche se per guadagnare in termini di umanità (!), spiritualità ed efficacia apostolica, si perderà qualcosa in termini di presenza capillare nel territorio. Tradotto in italiano corrente questo significa che di preti così, di sacerdoti che nutrono dubbi sul celibato, possiamo farne a meno. Meglio pochi ma buoni, dunque. Ma per fortuna non tutti, all’interno della Chiesa, la pensano così né hanno le stesse granitiche certezze. Il 19 maggio di quest’anno ho letto sul Corriere della Sera un brano della conversazione tra don Verzè e il cardinale Martini. All’affermazione di don Verzè che sostiene: «Io penso che anche ai sacerdoti dovrebbe essere presto tolto l’obbligo del celibato, poiché temo che per molti il celibato sia una finzione [!]», il cardinale Martini risponde: 52 “Chi dice donna dice danno?” «Lei affronta un problema molto importante, dicendo che ai sacerdoti andrebbe tolto l’obbligo del celibato. È una questione delicatissima. Io credo che il celibato sia un grande valore, che rimarrà sempre nella Chiesa: è un grande segno evangelico. Non per questo è necessario imporlo a tutti, e già nelle Chiese orientali cattoliche non viene chiesto a tutti i sacerdoti». Non vado oltre, ma questa apertura mi fa pensare che forse, molto lentamente, il tema del celibato come quello del sacerdozio delle donne sta cominciando ad essere affrontato. A proposito delle donne, nel 2009 appare ancora radicata, non solo nella Chiesa cattolica, la millenaria diffidenza nei loro confronti. Sono ancora viste come un pericolo per chi, sia esso un prete o un soldato, ha scelto una dura militanza, una ferrea disciplina interiore ed esteriore, che la donna, portatrice di affetti, emozioni e prospettive di lunga durata (amore, famiglia, figli, casa…) può soltanto minacciare. Come ritenevano i generali di un tempo (e ancora qualcuno di loro oggi), una relazione stabile con 53 Il cuore dei preti una donna rende fragili e poco combattivi. Meglio un “amore” mercenario che un’unione stabile. E, del resto, in tempo di guerra è sempre stato accettato, nei fatti anche se non nelle dichiarazioni ufficiali, lo stupro delle donne come bottino di guerra e il fiorire dei bordelli attorno alle caserme e agli accampamenti. Ogni “campo di Marte” è circondato da un “campo di Venere” ben visto dalle alte gerarchie, convinte che quello squallido remedium concupiscentiae tranquillizzi le truppe, non le distragga dagli impegni bellici e tolga loro dalla testa il “pericolo” insito in ogni relazione stabile e ricca di affetti con la donna. Dobbiamo liberarci dell’ipocrisia dilagante che vede una grande profusione di elogi e complimenti alle virtù femminili, lo strombazzare i successi di una donna su centomila, la parità virtuale dei diritti e una realtà quotidiana sconcertante. Nella Chiesa e fuori dobbiamo tenerci buone troppe lobby: • quelle politiche, per le quali il riconoscimento reale 54 “Chi dice donna dice danno?” dei diritti e delle capacità delle donne, significherebbe uno sconvolgimento della distribuzione del potere e delle poltrone, delle gerarchie e soprattutto del modo stesso di concepire la politica, con conseguente drastico ridimensionamento del peso maschile nella vita pubblica; • quelle del mondo del lavoro, dell’industria pubblica e privata, dei sindacati che, come avviene in politica, non osano parlare con chiarezza della questione e tacitamente emarginano le donne in posizioni subalterne; • quelle religiose, soprattutto delle grandi religioni monoteiste, forse le più forti di tutte, storicamente responsabili insieme a quelle militari di avere instillato nelle coscienze l’idea dura a morire che le uniche donne accettabili siano la madre umile e silenziosa “angelo del focolare”, la servitrice fedele oppure la creatura nata per il piacere del maschio, un piacere naturale a cui bisogna però porre rimedio (la donna come remedium concupiscentiae) ma pericolosamente confinante con il peccato. Una creatura che infiacchisce le virtù guerriere (anche 55 Il cuore dei preti nel senso della lotta per affermarsi nella vita e nel lavoro) del maschio, che tende a creare legami affettivi e radici stabili, mentre il maschio è servitore, lavoratore e guerriero migliore se non è appesantito dalle ragnatele tessute attorno a lui dalla donna-ragno. Ma chi osa opporsi a queste lobby? Chi osa dire che “il re è nudo” e che oggi permangono vivi e vegeti vecchi pregiudizi contro le donne? In un mondo sempre più ingabbiato in guerre fomentate da “ismi” di ogni genere (nazionalismi, fondamentalismi, integralismi e fanatismi) chi si azzarda ad accusare i padroni della nostra vita? Ha senso parlare dell’educazione sentimentale ed affettiva del prete senza riflettere sulla storia e sull’attualità della condizione femminile? Non è sufficiente riconoscere quanto male sia stato fatto, ieri ed oggi, alle donne e quali vantaggi il mondo ricaverebbe dalla loro liberazione. Occorrono fatti: in famiglia, nella scuola, nel lavoro, nella ricerca scientifica, nell’espressione artistica, nella Chiesa, bisogna favorire l’affermazione della donna, accettando come 56 “Chi dice donna dice danno?” una risorsa preziosa la sua differenza e la sua specificità. In uno slancio di ottimismo, seguo quello che diceva Goethe: «Di ciò che è scaturito non siamo più padroni, ma siamo padroni di renderlo innocuo». 57 I baci non dati di padre Ermes Ronchi Premessa I baci non dati. Queste parole sono il titolo di una poesia di un frate milanese, Davide Maria Montagna, che parlando dell’amore lontano conclude: un giorno tutti i baci non dati saranno dati. E già con queste poche note opera uno sfondamento di senso, una apertura d’orizzonte per il tema che ci interessa. Perché “non dati”? Per mille motivi: per solitudine, per paura, per senso di colpa, per scelta precisa, per fedeltà alla regola, per durezza di cuore, per incapacità, per impotenza d’amare. Ogni vissuto personale interpreta l’espressione o come rimpianto per amicizie non vissute, o come progetto 59 Il cuore dei preti per addentrarsi in quello spazio di misteri che è lo spazio tra eros e agape, con cui invece si sono misurati grandi spirituali, attraverso amore d’amicizia uomo-donna celebrato in pienezza, liberamente, creativamente. Segnando le orme di una storia della spiritualità altra, misconosciuta, e dove il divino porta intensificazione dell’umano, incremento di vita. E dove, anziché decreto di colpevolezza, ogni evento d’amore appare decretato dal cielo. Christos Yannaras scrive: «Esso non è privilegio dei virtuosi né dei saggi, è offerto a tutti, con pari possibilità. Ed è la sola pregustazione del Regno, il solo reale superamento della morte. Perché solo se esci dal tuo io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro di lui»1. Forse per questo la parola Dio è sempre stata coniugata con la parola “amore”. Se c’è qualcosa sulla terra che apre la via alla trascendenza, questa cosa è l’amore. Maria è aperta all’angelo proprio perché è già entrata 1 Ch. Yannaras, Variazioni sul Cantico dei Cantici, Interlogos, Schio (VI) 1994, p. 25. 60 I baci non dati nelle cose dell’amore. Proprio perché innamorata, ha detto il primo sì a Giuseppe, Maria può percepire il messaggio dell’Assoluto. Il cuore è la porta degli dèi, dicevano gli antichi. Gli uomini hanno paura delle donne. E i religiosi una paura raddoppiata. È una paura che viene da lontano, più lontano dell’idea di peccato, più della temibilità dell’eros, viene da lontano quanto la vita. È una paura avvertita fin dal primo giorno. Non è solo paura del corpo, del volto e del cuore della donna, ma anche paura della vita e paura di Dio. Perché queste tre cose sono molto vicine: la donna, la vita e Dio (Ch. Bobin). Paura anche per la fatica di concepire un’attrazione reciproca che non sia legata a doppio filo con la genitalità e la procreazione, ma sia come l’armonia di eros e agape che insieme scrivono, come all’origine, la parabola più universale del sogno di Dio, di cui è intrisa tutta la creazione, la più carica di rivelazioni! 61 Il cuore dei preti Introduzione Mi soffermo su di un concetto determinante: non smarrire la polifonia dell’esistenza. Dio non copre tutte le gamme d’onda del nostro cuore. L’amore di Dio non risponde a tutte le dimensioni del cuore dell’uomo, neppure del cuore del monaco. Dio non pretende di essere unico, geloso sbocco. Adamo vede Dio e non è felice. Dio non gli basta. «Non è bene che l’uomo sia solo...», solo con Dio. Gesù stesso offre tre oggetti all’amore: ama Dio, ama il tuo prossimo, come ami te stesso. La polifonia, appunto, dell’amore. Polifonia non è figlia di sottrazioni, ma di addizioni. «Amerai il Signore con tutto il cuore» (Dt 6,5) non significa: «Ama Dio solamente, riservando tutto il cuore a lui», ma: «Amalo con totalità, senza mezze misure». Così devi, allo stesso modo, amare il tuo amico: «Con tutto il cuore», senza riserve. Ma non solo il tuo amico, il genitore, il figlio, lo sposo. 62 I baci non dati La totalità del cuore non significa esclusività. «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3), chiede il Signore, ma non già: «Non avrai altro amore all’infuori di me». L’espressione «polifonia dell’esistenza» è stata coniata da Bonhoeffer in una lettera a un amico: Il rischio implicito in ogni grande amore è quello di smarrire la polifonia dell’esistenza. Voglio dire che Dio e la sua eternità pretendono di essere amati dal profondo del cuore, senza però che l’amore terreno ne venga danneggiato o indebolito; qualcosa come un cantus firmus, in rapporto al quale le altre voci della vita formino il contrappunto. Solo quando ci troviamo in questa polifonia la vita è totale. L’amore terreno, sponsale o amicale o familiare, segue la legge del contrappunto, autonomo e correlato al “canto fermo”. Un rischio implicito in ogni grande amore, terreno o celeste, di appartamento o di monastero, è quello di 63 Il cuore dei preti smarrire, in nome di un amore totalizzante, la polifonia dell’esistenza, la totalità della vita. La perdita della polifonia è stata una delle conseguenze più negative di un malinteso amore sacro, che si è tradotto – in troppi ambienti religiosi – in diffidenza verso l’amicizia, freddezza di rapporti, acidità delle relazioni, brinate sui sentimenti, distorsioni affettive. E soprattutto la malattia più temuta da Gesù: la sklerokardía, la durezza del cuore. È come immiserire la vita, perché all’infuori delle relazioni non esiste manifestazione dell’infinito quaggiù. La cosa più importante dell’esistenza restano i rapporti umani. Perso il cuore plurale, la vita spirituale vegeta come frutto di sottrazioni, si disidrata nell’illusione di amare Dio perché non ama nessuno sulla terra! D’altra parte, si potrà perdere la polifonia dell’esistenza anche coltivando soltanto rapporti umani; nell’ansia di significare tutto per l’altro, senza la luce dei grandi pensieri e di un oltre. 64 I baci non dati La maturità degli uomini spirituali Mi soffermo su due vicende esemplari d’amicizia uomo-donna, più eloquenti di ogni mia parola. Bernardo di Chiaravalle Il polemista spietato contro Abelardo, uno degli inventori dell’amore in Occidente, il predicatore di crociate, è anche il «seduttore della Borgogna», come dice Guglielmo di Saint-Thierry. Scrive la Regola per i monaci guerrieri, i temibili Templari, i più efficienti soldati dell’epoca, e poi scrive struggenti lettere d’affetto a Ermengarda. Colui che fa muovere duchi e regine fino al suo monastero, allunga i suoi viaggi per poter incontrare la sua amica Ermengarda. Due lettere a Ermengarda (Epistola 116 ed Epistola 117, redatte verso il 1135) sono rivelative. Ecco uno stralcio della prima lettera: 65 Il cuore dei preti Alla sua amata Ermengarda. Dio ti conceda di leggere nel mio cuore come su questa pergamena. Allora vedresti quale profondo amore il dito di Dio ha inciso per te nel mio cuore, nel più intimo del mio essere. Il mio cuore è vicino a te, anche se il mio corpo è lontano. Se non puoi vederlo, non devi far altro che scendere nel tuo cuore e lì vi troverai il mio. Non puoi dubitare che io senta per te lo stesso affetto che tu provi per me, a meno che tu non pensi di amarmi più di quanto io ti ami, e che tu non reputi il tuo cuore più grande del mio. Concedimi l’amore che Dio ha impresso in te per me. Bernardo è un monaco nella sua piena maturità, attorno ai quarant’anni. Ermengarda è una contessa vedova, che ha perso il figlio Conan III, duca di Bretagna, alla crociata. La lettera non contiene notizie, richieste, consigli, riflessioni spirituali, informazioni pratiche, ma effusioni affettuose e persino amorose, che possono stupire. È un 66 I baci non dati parlare da dentro il luogo dei misteri, mai su di esso, di uno che ha scelto di vivere il rischio d’amare. La lettera è, nello stile letterario dell’epoca dei trovadori, «una tenzone amorosa», una competizione, in cui vince chi ama di più. Non ha altro scopo che far sapere tutta la forza dell’affetto, custodirla e coltivarla. L’amore non può mai rimanere quello che è, ha bisogno di crescere. L’amore deve essere sempre in cammino, in volo, in combattimento. Ha uno scopo, questa amicizia, o non è invece essa stessa il proprio scopo? L’amicizia è un fine o un mezzo? L’amicizia è un paradosso spirituale che avvicina a Dio avvicinandoti a un cuore. Che ti rivela a te stesso: solo con l’amico puoi permetterti la totale libertà. Fiore selvatico sulle nostre strade, miele selvatico dei nostri deserti, per la polifonia dell’esistenza, per la pienezza del vivere. Bernardo qui è finalmente libero dalla tirannia di una vita fatta di scopi da raggiungere. Che si misura sempre con domande e con doveri: che cosa devo fare? A che 67 Il cuore dei preti scopo devo farlo? Perché devo? Tutta una lunga serie di “perché” senza fine. Ad essi Bernardo oppone una protesta di bellezza, l’insurrezione della tenerezza: «Amo perché amo, amo per amare!». Dichiara il suo bisogno di amare e di essere amato; chi vuole amare, come farlo, chiarendo il proprio modo di amare. Una maturità che non è frutto di diminuzioni, ma di addizioni. Un divino cui non corrisponda un rigoglio dell’umano non merita che ad esso ci dedichiamo (D. Bonhoeffer). Non è diminuendo l’umano che in noi cresce lo spazio del divino. Un’espressione felice di Bernardo nella seconda lettera dice: «Lo scoppio della tua allegria dona salute all’anima». Il riso di Ermengarda porta salute, benessere, guarisce l’anima di Bernardo. La sua riserva di gioia! L’abate ascolta il riso di una donna, lo ascolta e dentro quel riso trova una medicina del vivere, la salute per la sua anima, un benessere dell’intera sua persona, toccata d’allegria, contagiata di sorriso. 68 I baci non dati Francesco d’Assisi A spiazzare i luoghi comuni: la vera amica di Francesco d’Assisi non è Chiara. Quella che lui desidera accanto, che manda a chiamare quando sente vicina sorella morte, l’amica che spesso l’ha accolto in casa sua, quella dei piatti speciali, per la quale viene anche sospesa la clausura, è Iacopa dei Settesoli, nobile romana, vedova di Graziano Frangipani. A lei è indirizzato l’ultimo scritto del santo: A madonna Iacopa serva di Dio frate Francesco poverello di Cristo. Sappi, carissima, che Cristo m’ha rivelato il fine della vita mia, il quale sarà in brieve. E però se tu mi vuoi trovare vivo, veduta questa lettera, ti muovi e vieni a Santa Maria degli Agnoli; imperò che, se per infino a [sabato] non sarai venuta, non mi potrai trovare vivo. E arreca teco panno di cilicio nel quale si rinvolga il corpo mio, e la cera che bisogna per la sepoltura. Priegoti ancora che tu mi arrechi di quelle cose da man69 Il cuore dei preti giare, delle quali tu mi solevi dare quand’io era infermo a Roma. Francesco muore in mezzo ai suoi fratelli, ma testimone di totale libertà di fronte al loro giudizio, convoca un’amica, tra i molti volti presenti cerca un volto assente. Cerca un volto la cui tenerezza ha smosso in lui melodie che ancora risuonano, e che con la sua sola presenza gli restituirà – dice il cronista – «grande allegrezza e consolazione». Amicizia come riserva di gioia, sintomo che hai toccato il cuore dell’essere. Nel momento supremo della vita vuoi accanto le persone supreme. Francesco cerca l’amica; il suo ultimo cantico è quello dell’amicizia. Iacopa ha portato il panno funebre, i ceri e i “mostaccioli”, dolcetti di miele e mandorle, dei quali Francesco ha confessato con semplicità e tanta leggerezza il desiderio. Francesco non è disamorato della vita, anzi mostra di averla amata anche nelle sue manifestazioni sensibili; i sensi non sono negati, ma sono «divine tastiere» (D.M. Turoldo). Più ameremo la vita senza 70 I baci non dati riserve, più saremo anche capaci di provare felicità (J. Moltmann). Con l’amica egli può permettersi un tenerissimo momento di debolezza e di verità umana insieme: «Portami quei biscotti con i quali ti prendevi cura di me, con cui mi hai curato tante volte a Roma». Una preghiera che l’amica ha già esaudito, perché nessuno ti conosce così a fondo come l’amico: l’amore è conoscenza, sosteneva Guglielmo di Saint-Thierry, «amor ipse intellectus», l’intelletto d’amore di Dante. Non dei biscotti ha desiderio Francesco, ma della mano che li porge. Neppure della mano ha bisogno, ma del cuore che guida la mano. Il panno, i ceri e i biscotti sono un candido pretesto. Come l’amato del Cantico dei Cantici, che bussa alla porta dell’amata: «Aprimi, sorella mia, amica mia, colomba mia, perfetta mia. La mia testa è coperta di rugiada» (Ct 5,2). Ma avere la testa bagnata non è la ragione per cui l’amato vuole entrare, è ben altro il motivo: è il desiderio di appartenersi. Così Francesco ha bisogno di avere accanto Iacopa, 71 Il cuore dei preti perché l’amicizia è una sorgente di vita, perché l’amica è come un sacramento che trasmette grazia, che aggiunge pienezza a pienezza, per una pienezza del vivere e insieme del morire. Perché rinforza il cuore nel momento in cui il cuore può venir meno. L’amicizia è il sacramento più possente, sacramento di ogni momento, e che possiamo ricevere fino all’estremo (Sorella Maria). «Se vuoi vedermi ancora vivo...». L’amica è libera, può ancora sottrarsi. Se vuoi: mendicante d’amore, di un amore rispettoso e fidente. «Mentre che questa lettera si scriveva, fu da Dio rivelato a santo Francesco che madonna Iacopa era presso al luogo». Occhi di Francesco quasi ciechi, ma che vedono oltre, che sanno da sempre l’arrivo di Iacopa. Il desiderio sa di essere desiderato. L’amico scrive, e la pergamena è come intrisa di inchiostro e dell’eco di un ricominciante Cantico dei Cantici: «Vieni, amica mia». Egli sa, come nel Cantico, che l’amica viene. 72 I baci non dati Conclusione 1. La fede, la santità non sarà mai una diminuzione, ma un accrescimento di vita. È polifonia dell’esistenza. Acquisire fede è acquisire un incremento d’umano, una intensificazione della vita. Nominare Cristo equivale a confortare tutta la vita. Non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano (D. Bonhoeffer). Unica vocazione non è adempiere i precetti, ma avere più vita, in pienezza. Il criterio ultimo di valore è la qualità delle relazioni, se esse siano vivificanti oppure mortificanti. 2. Queste amicizie non hanno bisogno di niente, sono assolute, sciolte da ogni legame che non sia la costruzione di sé nella gioia. Non devono dichiarare uno scopo che le legittimi o le giustifichi, non sono amicizie spirituali, sono amicizie e basta, senza aggettivi, senza alibi. Nude. Umane. Si ama l’amico senza altra ragione che l’essere lui tuo amico e tu amico suo. La certezza di essere stato amato un giorno, anche 73 Il cuore dei preti una volta sola, in modo disinteressato, salva dall’ignoranza della vita. E di Dio. 3. Bernardo e Francesco sono tra i coraggiosi, pochi, che si avventurano in quello spazio di mistero e di rivelazioni, che è lo spazio tra eros e agape. E la fede ha bisogno dell’eros perché le presti il suo linguaggio, anche se fatto solo di frammenti, di balbettii, perché il suo è il solo linguaggio universale che può comunicare Dio agli uomini come esperienza d’amore. Saper parlare nel linguaggio dell’amore significa possedere il dono delle lingue, poter essere compresi da tutti. «Se tu ascoltassi un istante la lezione del cuore, faresti lezione ai teologi» (Gialâl ad-Dîn Rûmî). 4. L’eros ha bisogno della fede. La pienezza della vita, vocazione unica di tutti, non chiede di spegnere le passioni ma di convertirle. Oggi il discorso su eros e agape è ridotto a etica, impoverito a morale, tra divieti e sanzioni. Nel Medioevo c’era una teologia delle passioni: come strumento rivelativo. L’eros ha oggi bisogno di essere custodito, difeso, e di qualcuno che torni a farlo parlare con il suo vero linguaggio, quello 74 I baci non dati dell’esperienza religiosa, perché «l’obiettivo del desiderio, nel suo slancio originario, è Dio» (O. Clément). Liberare il desiderio per desiderare Dio. Vi auguro il desiderio di avere desideri. Ciò che la fede non custodisce, non ama, non cura e non difende, ciò che lascia fuori dalla sua porta, diventa oggetto di rapina, come la pecora che il pastore abbandona, perché «l’eros è la forma più minacciata e più pericolosa dell’amore, sempre sull’orlo dell’abisso» (H. Gollwitzer). L’eros ha bisogno della custodia della fede, del cantus firmus, non per essere regolamentato, ma per poter fiorire in tutta la sua bellezza. Testi allegati Ci sarà un tempo in cui tutti «i baci non dati saranno dati». O amore, in terra lontana... 75 Il cuore dei preti quando i baci non dati saranno dati? (o amore, in terra lontana...) ormai migrano gli uccelli verso il sud (o amore, in terra lontana...) torneranno domani gli uccelli dai mari del sud? (o amore, in terra lontana...) i baci non dati un giorno tutti saranno dati: 76 I baci non dati o amore, in terra lontana! D.M. Montagna, I baci non dati Superiore all’affetto non c’è nulla. Val più una goccia di affetto che un mare di spiritualità. Tutti abbiamo debiti d’amore e quelli dovranno passare sempre innanzi ai così detti interessi spirituali. Di un segno di affetto ha estremo bisogno l’animo umano. Si pensa a dare il pane. Sì. Ma chi domanda pane può non averne bisogno estremo; di questo pane ha invece bisogno ogni cuore stanco... E ogni cuore è stanco. (Sorella Maria) ... sessualità è trepida cifra di Dio entro la carne della storia umana. Senza il suo fiorire 77 Il cuore dei preti luminoso, opaca resta ogni vita. Solo l’incontro verace di cuori amanti ci pone alla soglia del mistero più fragrante... D.M. Montagna, Scoperta di umanità Anche in Dio vivono eros e agape, passione e dono, attrazione e gratuità. In questo territorio che sta tra eros e agape, senza fondamentalismi lontani dalla verità della vita, si colloca l’amicizia. E contiene qualcosa di entrambi. Non esiste amicizia tra uomo e donna senza una iniziale attrazione, senza una forma di eros primigenio e redento. Il grande lavoro del cuore consiste nel purificare il fremito di ogni passione appena nata. C’è una guerra che dura fino alla fine, dice uno dei 78 I baci non dati più grandi uomini spirituali di tutti i tempi, abba Antonio del deserto, ed è la guerra del cuore. Una guerra in cui la pace non coincide con la sconfitta dell’avversario. A esplorare questo territorio intermedio, polemico per sua natura, i monaci poeti possedevano una vera teologia della passione amorosa, mentre noi ci accontentiamo di un’etica degli affetti, di una serie di prescrizioni. È urgente che la Chiesa riprenda a trattare i temi vitali dell’uomo, come il grande dono dell’eros, una spiritualità che parli al cuore, il posto del corpo, l’al di là, il rapporto con la natura e il cosmo, facendone una teologia, riconoscendoli come luogo teologico, e non riducendoli solo a una morale. Ogni vivente ha una vita affettiva, parte alta e forte della sua identità, necessaria per essere felice. Possiamo negarla, ma non eliminarla. La dimensione degli affetti, fondamentale per l’equilibrio della persona, necessaria per vivere (se non amiamo, non viviamo, 1Gv 3,14), e per vivere con gioia, è un autentico luogo teologico: l’amicizia rivela qualcosa di Dio. Ogni vivente nasce come persona appassionata, e 79 Il cuore dei preti quel malinteso spirito religioso che ci spinge a negare le nostre passioni inaridisce le sorgenti della vita e rende molti cristiani dei predicatori di cose morte. Bisogna non tanto soffocare, ma convertire le passioni; non raggelare, ma liberare i desideri per desiderare Dio. Soltanto chi ama la vita è sensibile al richiamo del Vangelo: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». 80 Indice Prefazione, del card. Carlo Maria Martini pag. 5 Introduzione, di Marco Garzonio » 9 La necessità di amare » 23 » 49 » 59 » 81 di don Gino Rigoldi “Chi dice donna dice danno?” di Fulvio Scaparro I baci non dati di padre Ermes Ronchi Eros e creatività di Marco Garzonio La paternità sacerdotale pag. 107 di don Giovanni Barbareschi Una voce dall’interno di don Romano Martinelli Stampa - Società San Paolo, Alba (Cn) - Printed in Italy » 115