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il cuore dei preti
Marco Garzonio
(a cura di)
IL CUORE DEI PRETI
L’educazione sentimentale ed affettiva
dei sacerdoti
Prefazione
del card. Carlo Maria Martini
Contributi di
G. Rigoldi, F. Scaparro, E. Ronchi, M. Garzonio,
G. Barbareschi, R. Martinelli
©
EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2010
Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
www.edizionisanpaolo.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino
ISBN 978-88-215-6782-7
Prefazione
del card. Carlo Maria Martini
«T
re cose sono per me così misteriose, che non le
comprendo: il percorso dell’aquila nell’aria, il
sentiero del serpente tra le rocce, la rotta della nave in alto
mare. E ce n’è soprattutto una quarta: la via dell’amore tra
un uomo e una donna» (Prov 30,18-19). Si pensa spontaneamente a questo proverbio dell’Antico Testamento
quando si leggono questi contributi sul tema dell’affettività. Ci troviamo di fronte a quel grande «guazzabuglio
del cuore umano» (Manzoni), che «ha le sue ragioni che
la mente non conosce» (Pascal), a quella realtà che non
si può definire esattamente, eppure costituisce il nucleo
di ogni cosa. Se il mondo è stato creato per amore e Gesù
ci ha amato tanto da dare la sua vita per noi, vuol dire che
questa realtà è al centro e al fondo di tutto, sia in questo
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Il cuore dei preti
mondo che nell’altro. E i preti non fanno eccezione a
questo fatto, anche se il celibato per il Regno impone uno
stile di vita particolare. I contributi di questo libro sono
di persone che si interrogano appunto sulla vita affettiva
del prete celibe per il Regno.
Forse bisognerebbe aver avuto molte vite, e in ciascuna di esse molte esperienze, per poter dare un giudizio
sulla materia contenuta in queste conferenze. Capisco
qui un poco perché gli orientali parlino della reincarnazione delle anime, quasi per dare all’uomo la possibilità
di rivedere i suoi atti e di riparare i suoi errori. Non è
solo l’educazione del prete che qui è in gioco, ma tutta la
sua vita. Essa può essere esposta più o meno a temporali
affettivi: in ogni caso l’emozione e l’affettività impregnano di sé la vita del prete, come quella di qualunque
altro uomo o donna su questa terra. Talvolta sembra di
trovarsi come di fronte a un abisso, nel quale non ci si
deve gettare in volo libero, se non per una misteriosa
ispirazione. E per volare sull’abisso non esistono regole,
ma soltanto la lealtà e la sincerità del cuore.
Può darsi che si arrivi a momenti rispetto ai quali san
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Prefazione
Giovanni della Croce, nella Salita al monte Carmelo
dice che non c’è più sentiero: si avanza unicamente sotto
la guida dello Spirito.
Perciò penso che in queste cose non è possibile dare
regole generali. Rimangono però alcuni principi fondamentali. Ad esempio, quello espresso da sant’Ignazio
nei suoi Esercizi Spirituali: «Ciascuno sappia che tanto vantaggio ricaverà in tutte le cose spirituali quanto
più si libererà dall’amore, dal volere e dall’interesse
propri».
Ma è soprattutto alla Parola di Dio cui vogliamo ricorrere. Vi sono frasi del Vangelo che vengono in mente
a tale proposito. E non solo quelle in cui si dice (Mt
5,28): «Chiunque guarda una donna per desiderarla ha
già commesso adulterio con lei nel suo cuore» oppure
si afferma (Mt 18,9): «Se il tuo occhio ti è occasione di
scandalo cavalo e gettalo via da te», ma anche quelle in
cui si esorta l’uomo a una più grande dedizione, come
(Mt 10,39): «Chi avrà trovato la sua vita, la perderà; e
chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà» e
(Mt 5,8): «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio».
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Il cuore dei preti
Anche san Paolo enuncia criteri generali molto utili per
tale discernimento, ad esempio nella lettera ai Galati (Gal
5,22): «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace,
pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio
di sé: contro queste cose non c’è legge».
In conclusione penso che nei seminari si faccia bene
a educare i ragazzi e i giovani alla rinuncia personale e
alla custodia del cuore. Verrà il tempo in cui Dio stesso
guiderà chi lo cerca sopra ogni cosa verso affetti sinceri,
senza secondi fini.
Certamente l’educazione dei futuri presbiteri non
deve contenere proposte sbagliate. Tale sarebbe ad
esempio la convinzione esplicita che «chi dice donna
dice danno» (come detto efficacemente nel titolo del
contributo del prof. Scaparro), come anche ogni altro atteggiamento di misoginia. I lettori troveranno in queste
pagine ampio materiale per riflettere su un tema grande,
sul quale non si finirebbe mai di pensare. Perciò ogni
contributo è utile e desiderabile.
Carlo Maria Card. Martini
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Introduzione
di Marco Garzonio
Q
uesto libro nasce dall’incontro fra due amici. Il
primo è don Gino Rigoldi, non da oggi uno dei
preti simbolo della Chiesa Ambrosiana. Il secondo è il
sottoscritto, che ha la fortuna di fare due mestieri: lo
psicoanalista e scrivere. Don Gino mi ha messo a parte
di alcuni vissuti che gli era capitato di condensare dentro
di sé, con grande chiarezza, in occasione di una riunione
fra sacerdoti. Si era trovato di fronte a tanta solitudine,
ad un senso di isolamento, ad un’incapacità di lavorare
insieme. E aveva dovuto misurarsi anche con una depressione che serpeggiava tra i suoi confratelli. Insieme
a lui, per parte mia, ho condiviso il mio disagio di fedele laico, che nel frequentare la chiesa e nella pratica
religiosa ha avuto più di un’occasione per riscontrare
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Il cuore dei preti
negli uomini di Dio una lontananza emotiva, una difesa.
Buona collaborazione, anche, ma modalità ingessate
nel porsi e nell’accogliere, un muoversi con il freno a
mano tirato. Come se nelle relazioni venisse posto uno
sbarramento difficile da superare: volti compìti, posture
rigide, linguaggio appropriato, adempimenti puntuali,
fretta. E, al fondo, un coinvolgimento impalpabile, per
non parlare di una buona dose di estraneità.
Don Gino è uno che non si arrende; mai. Mi ha
confessato il suo malessere, il contrasto che avvertiva,
perché il carburante della sua vita sono gli affetti che
ha dato e che ha ricevuto, da sempre. Per lui è la cosa
più naturale: non ci sarebbe neanche bisogno di starne
tanto a parlare. Si è risentito e mi ha detto che non si
poteva andare avanti in quel modo, che bisognava fare
qualcosa per trasmettere ciò che lui ha sempre avvertito come un obiettivo del suo sacerdozio: andare alla
ricerca del volto affettuoso del Signore. Nemmeno io
sono una persona che sta tranquilla, che si adagia e si
adatta facilmente, accondiscendente alle situazioni e
non mi piace il lamento che serve a sfogare i malumori
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Introduzione
ma poi lascia tutto come prima. I miei maestri, a incominciare da Giuseppe Lazzati, mi hanno insegnato un
certo modo di essere fedele laico. Il cardinal Martini lo
ha sintetizzato con queste parole evocative della testimonianza impressa appunto da Lazzati a intere generazioni, lui che aveva dedicato la vita all’educazione dei
giovani: «Servizio umile e incondizionato alla Chiesa,
ma in piedi e con franchezza». Quasi un motto da far
campeggiare nelle parrocchie, nelle associazioni, negli
uffici curiali. Direi in ogni luogo in cui i cristiani hanno
occasione di ritrovo e di presentazione agli altri.
È anche grazie alla consapevolezza di un dovere di
riconoscenza per i doni che mi sono stati elargiti nella
vita che mi trovo a sottrarre tempo al mio lavoro e ai
miei cari (i quali generosamente, ma anche con qualche
sacrificio, me lo concedono) e svolgo un’opera di animazione culturale. E proprio in ragione della responsabilità che ho nel condurre l’Ambrosianeum ho detto a
don Gino: «Non teniamoci questi discorsi tra noi. Parliamone. Coinvolgiamo altri amici. Condividiamo i nostri
pensieri con chi ci sta. E vedrai che saranno tanti».
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Il cuore dei preti
Già, perché come cattolici soffriamo di una povertà
grande oggi: manca un’opinione pubblica nella Chiesa
e della Chiesa. V’è tanta opinione pubblica sulla Chiesa (vien detto di tutto e di più), che molti protagonisti
subiscono e altri, più smaliziati, sfruttano. Sono le leggi
del mondo, non solo dei media, strumenti che costituiscono un’opportunità, certo, ma anche una tentazione
formidabile, anche fra i cristiani, soldati semplici e
graduati. Ma di un bene prezioso quale è l’opinione
pubblica nella Chiesa pochi si occupano, ancor meno la
incrementano, tantissimi la temono e cercano di dissuadere un tale esercizio. Anche se il Concilio ha posto la
sua coltivazione tra i fondamenti dell’evangelizzazione
e della riforma interna della Chiesa. La cristianità si
costruisce e si rigenera continuamente se ci si ferma a
riflettere, se circolano idee, si fanno sperimentazioni,
se ci si interroga e ci si confronta, se si dibatte. Lo spirito di ricerca dovrebbe animare il cristiano, mentre lo
mortificano il conformismo, l’ignavia, l’accidia, il «ma
chi te lo fa fare».
È così che insieme a don Gino abbiamo deciso di
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Introduzione
osare. E di mettere quindi in cantiere un’iniziativa che
raccogliesse le preoccupazioni comuni su come si è sacerdoti oggi e individuasse piste di ricerca da condividere poi con altri. Si poteva fare. L’Ambrosianeum è “una
zona franca”. Me lo ha detto il cardinale Tettamanzi
poco tempo fa, quando, con i colleghi del Consiglio,
sono andato a fargli gli auguri di Natale e gli ho portato
i programmi svolti e i propositi per il futuro della nostra
Fondazione. E io, con gli altri, ho preso quell’affermazione come un attestato di stima e come un’esortazione,
calda e pressante. Nella disposizione amicale dell’Arcivescovo, oggi vergognosamente attaccato solo perché
svolge il ministero d’amore del sacerdote in una città, la
grande Milano, e in un’Italia che hanno perso un po’ la
bussola della prossimità, ho ritrovato il riconoscimento
di ruoli diversi, ma nello spirito di una comune ricerca, e
un ulteriore stimolo a proseguire nella strada intrapresa.
Un indirizzo di marcia, cioè, che si richiama ai Padri
fondatori (l’Ambrosianeum è nato nel 1946), a quei cattolici che, all’indomani della lotta di Liberazione, diedero un contributo determinante alla nascita della Co13
Il cuore dei preti
stituzione repubblicana, soprattutto nella elaborazione
della prima parte, quella dei valori della persona, della
cittadinanza attiva, dei diritti e dei doveri. Ed ebbero
numerosi preti con cui ritrovarsi nella comune passione
culturale e civile: Turoldo, De Piaz, Mazzolari, De Luca. Per non parlare di Sturzo. Oggi come allora si tratta
di avere il coraggio delle idee e delle cose quotidiane. E,
per noi, di esercitare appieno la responsabilità di fedeli
laici che ci compete, in quanto cristiani adulti, senza
stare ad aspettare benedizioni né contraccambi (spesso
neanche ringraziamenti), fuori da comode logiche di
appartenenza. Rischiando, se necessario. La Chiesa, i
cristiani, il mondo hanno bisogno di cultura (l’Ambrosianeum è una fondazione culturale). E questa è certo
fatta anche di progetti ambiziosi e convegni generali, ma
può ambire ad incidere quando si fa pratica quotidiana,
quando diviene fatto di popolo. Specificherei: popolo
di Dio, per fare un ulteriore e necessario riferimento a
una preziosa locuzione conciliare.
Non sarebbe stato possibile arrivare ai testi che il libro raccoglie se non avessimo subito trovato importanti
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Introduzione
corrispondenze. Le consonanze erano forse immaginabili viste le persone che avevamo deciso di coinvolgere.
Ma è il quadro d’assieme che fa particolarmente stimolante il risultato. Abbiamo voluto avere al nostro fianco
un religioso, padre Ermes Ronchi, che, in San Carlo al
Corso, porta avanti l’ammaestramento di un altro frate, cui Milano e il Paese devono molto della rinascita
spirituale e dell’impegno civile del dopoguerra: David
Maria Turoldo. Nel dire di sentimenti e affetti senti in
padre Ermes l’eco, la pregnanza, la tensione all’assoluto
e il radicamento quasi carnale della poesia di Turoldo
(chi non ricorda le vibrazioni di “O sensi miei”?). E poi
puntavamo sul laico che ascolta e raccoglie i patimenti
dell’animo: lo psicoterapeuta. Fulvio Scaparro era, ed è,
la persona competente e sensibile che tutti conosciamo,
lo specialista che non fa sconti, perché non si risolvono
i problemi e non si cresce se non ci si affranca dalle collusioni e dalle reticenze, dalle immaturità. Ci tenevamo,
infine, ad avere la testimonianza preziosa di un sacerdote milanese che ormai chiamiamo affettuosamente
“il Patriarca”. È don Giovanni Barbareschi, consacrato
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Il cuore dei preti
prete a Ferragosto del ’44, a 22 anni, e il giorno dopo
rinchiuso a San Vittore per aver prestato aiuto ad ebrei
e partigiani e per la sua partecipazione alla redazione e
alla diffusione del giornale clandestino “Il Ribelle”. Con
i suoi 88 anni, lucidissimo e attivo sino a suscitare non
si sa bene se sorpresa o ammirazione, certo gratitudine
commossa, don Giovanni riesce a star vicino alle persone in crisi (e molti preti ne sanno qualcosa), ai giovani
(oggi ormai nonni!) che ha formato nella Fuci, negli
scout, nella Casa Alpina di Motta, al liceo Manzoni, e
a chiunque gli chiede comprensione più che consiglio.
Noi due, don Gino ed io, avremmo completato il quadro
degli interventi, riportando e sviluppando il seme, che
era nato nel nostro incontro iniziale da cui tutto è scaturito, secondo i nostri rispettivi impegni, competenze
e sensibilità. Don Gino, sacerdote che nel ministero e
nell’impegno sociale porta la domanda tenera di Gesù
a quello che egli stesso ha posto a capo della Chiesa:
«Pietro, mi vuoi bene tu?». Ed io che mi calo con uomini e donne nei recessi inconsci alla ricerca di un senso
da dare alla vita. Avendo sempre nella memoria quel che
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Introduzione
dice Pascal: «Esistono ragioni del cuore che la ragione non conosce». Oltre che Io, vigore, forza e volontà,
siamo anche tenerezza, creatività, soprattutto un mondo
oscuro da decifrare, a incominciare da quello che ogni
notte riceve le sciabolate di luce dei sogni.
Può sembrar banale dire che è stata calda e di partecipazione intensa l’accoglienza del pubblico quella
mattina di un sabato di metà ottobre, in cui abbiamo
presentato le nostre relazioni, e l’eco che ne è venuta.
Credo che la riprova migliore dell’accoglienza in diretta venga dall’intervento che don Romano Martinelli
(direttore spirituale emerito al Seminario arcivescovile
di Venegono) ha fatto nella discussione e che gli abbiamo chiesto di poter riportare in appendice al volume.
Quanto all’interesse più generale prodotto dal materiale
che abbiamo elaborato e offerto, la vera rispondenza è
venuta dall’editore. Don Elio Sala non ci ha pensato
due volte quando l’ho messo a parte dell’iniziativa. «Mi
interessa molto. Certo, lo facciamo. E alla svelta».
E mentre la San Paolo avviava il lavoro redazionale
un’altra idea ha preso corpo: chiedere al cardinal Mar17
Il cuore dei preti
tini di scrivere la prefazione al libro. Milano, la Chiesa
tutta, il Paese intero hanno un debito di riconoscenza
enorme con Martini. La sua voce di testimone del Vangelo e della radicalità dell’annuncio di morte e resurrezione di Gesù ha rappresentato un punto di riferimento
importante in anni di trasformazioni epocali (è stato
arcivescovo di Milano per più di 22 anni, dall’inizio del
1980 al settembre del 2002). Ed anche oggi si fa sentire,
alta, forte, autorevole, come quella degli antichi profeti di Israele. Chiedere al Cardinale uno scritto, anche
breve, che facesse da guida e luce è stato un gesto di
riconoscenza, non solo uno sperare in un suggello autorevole e che dà indubbio lustro e sostegno. Voleva essere
un ribadire che la nostra epoca ha bisogno di maestri,
di testimoni, di persone autentiche. E che i cristiani e
la Chiesa debbono con urgenza spalancare le finestre e
far entrare aria pulita nei nostri ambienti. Purificarsi è
un’esigenza vitale, altrimenti come potremo pretendere
di essere testimoni della speranza che è in noi?
Alla fine, in fase di messa a punto del volume, ha
preso forma l’ultimo adempimento, il titolo. Il cuore
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Introduzione
dei preti è idea felicissima dell’editore. Racchiude gran
parte di quanto si voleva dire e fa da apripista per tutti
i discorsi che seguiranno. E che saremo felici di aver
dato il contributo a stimolare. Il fatto stesso di aver l’opportunità di gettare semi è l’autentica, vera ricompensa
per chi si dedica a un lavoro di tipo culturale. Senza
preoccuparsi degli esiti immediati. Un giorno don Loris
Capovilla mi confidò di come papa Giovanni l’avesse
benevolmente rimproverato per la preoccupazione che
egli rivelava di fronte a un’iniziativa che stavano per
intraprendere: «Alius seminat, alius metet».
Come si sarà capito il nostro intento non era di entrare nel merito della questione relativa al celibato dei
preti. Tanto meno volevamo farci coinvolgere in una
polemica in cui anche tra i cristiani si riflette una modalità purtroppo molto diffusa nel dibattito culturale,
indipendentemente dall’oggetto in esame, e cioè l’atteggiamento secondo cui sembra più importante attribuire
all’interlocutore un’appartenenza che stare ad ascoltare
le argomentazioni che l’altro porta. Il tema del celibato
è senz’altro importante, ma abbiamo ritenuto che prima
19
Il cuore dei preti
venisse proprio la questione che ci ha occupato, il qui e
ora: come affrontare e gestire l’universo sentimentale e
affettivo del sacerdote oggi, nella situazione di trasformazioni profonde della società e del vissuto religioso.
È un compito che tocca evidentemente i protagonisti
e l’istituzione Chiesa. E verso gli sforzi, le fatiche, le
sofferenze anche v’è da nutrire molto rispetto da parte
di tutti. Ma la felicità dei preti è un problema che tocca
e coinvolge tutti i fedeli. Esiste una responsabilità anche
nostra, dei fedeli laici di farsi carico delle difficoltà –
che in molti passaggi dei contributi riportati nel volume
sono evidenziate – e di collaborare fattivamente, ciascuno per sé e come comunità, a che vengano individuate
prospettive, realizzati interventi, messe in cantiere sperimentazioni.
Facendo eco al titolo non sembri poi troppo banale
scherzarci anche, cedere al gioco di parole e dire magari
che “anche i preti hanno un cuore”. Anzi, è la verità
che proprio si vorrebbe ribadire e trasmettere con questo libro. Molto spesso hanno un cuore grande. Come
tante volte accade è una verità talmente semplice che
20
Introduzione
però poi, quando vanno trovate corrispondenze pratiche,
risulta difficile da tradurre in gesti concreti nella vita di
tutti i giorni. D’altra parte la cristianità sembra arrivata a un punto critico, quasi di non ritorno. Non esiste
alternativa: o contribuiamo tutti a che i cuori dei preti
sprigionino e ricevano calore, togliendo quella patina di
abitudinarietà, oppure tutti pagheremo un prezzo molto
elevato, di natura esistenziale. Perché un cristianesimo
senza partecipazione affettiva si riduce a una dottrina,
non è un annuncio di salvezza.
21
La necessità di amare
di don Gino Rigoldi
N
el recente Sinodo del clero ambrosiano celebrato
nel 2009 presso il seminario di Seveso S. Pietro,
molti intervenuti hanno lamentato la difficoltà come
preti a lavorare insieme.
Spesse volte è stato usato il termine “solitudine” per
esprimere la propria condizione di fronte alle difficoltà
pastorali ed alla complessità dei problemi della attuale
situazione politica e sociale.
Ad un primo sguardo si potrebbe pensare si tratti
di una difficoltà soprattutto organizzativa, logistica,
ma in realtà, ad ascoltare bene le parole, a guardare
bene gli atteggiamenti delle persone credo non sia
sbagliato riconoscere che molti parlavano di una
solitudine anche personale, umana, una sofferenza
23
Il cuore dei preti
profonda che talora è stata dichiarata anche esplicitamente.
A conferma, nella frequentazione di molte parrocchie dove vado a ragionare di educazione con i preti,
i genitori, i giovani, spesso, alla fine, vengo invitato a
“prendere un caffè e a scambiare quattro chiacchiere”.
Il tema principale è quasi sempre legato alla fatica di
lavorare insieme tra preti, alla assenza della comunità
sacerdotale. A chiedere con chi vivi o se nella comunità parrocchiale ci sono buone collaborazioni, è come
spalancare uno spazio di insoddisfazione, talvolta di
dolore espresso in mille modi, talora accusatori, talvolta
autocolpevolizzanti.
Quando poi la risposta è che “l’amore di Dio mi basta”, allora il segnale di una solitudine pesante, pensata
come inevitabile e invincibile diventa chiaro.
Uomini di grandi relazioni fino all’ora di cena e talora anche dopo e poi a casa in compagnia dei ricordi,
di un libro o della televisione.
Abitazioni lucide, ordinate, deserte.
Mi hanno fatto una grande pena e posto un interroga24
La necessità di amare
tivo alcuni amici preti caduti in profonda e lunga depressione dopo la morte della anziana madre. Orfani e soli.
Per la cronaca è significativo ricordare che la maggior parte dei tentativi di vita comune tra sacerdoti si è
chiusa in pochi mesi.
Sono assolutamente convinto che sia necessario iniziare a discutere della vita affettiva dei sacerdoti, dei
religiosi e delle religiose intanto perché la affettività sta
nella normalità della vita di ognuno e poi perché delle
buone capacità di relazione ma soprattutto le amicizie
sono una necessità non solo per l’equilibrio della vita di
tutti, compresi i preti, ma sono anche la premessa per la
serenità in tutte le relazioni e nella vita parrocchiale.
Come primo passo per la riflessione, ho cercato di
esaminare me stesso, le motivazioni che mi spingono
a lavorare con i giovani, a predicare le parole ed i gesti
di Gesù Cristo.
La prima ed indispensabile fonte è la preghiera , una
ricerca affettuosa del volto del Signore e l’ascolto assiduo della sua Parola.
Seduto nella mia stanza o in una chiesa, come fossi
25
Il cuore dei preti
presente in compagnia dei discepoli a guardare Gesù
operare e ad ascoltare la sua parola antica, viva e forte
per oggi.
Insieme con la preghiera anche tentando coerenza con
il Grande Comandamento dell’amore, io so che la mia
energia e la mia speranza, la capacità di affrontare le difficoltà, sono legate al fatto di vivere e lavorare con molte
persone che sono mie amiche e miei amici, agli affetti che
nascono dalla accoglienza, al calore del volersi bene.
Per me queste relazioni sono le proteine della vita,
un calore che scalda il cuore e tiene vivo il piacere di
condividere progetti e imprese di solidarietà, di educazione, di testimonianza di fede.
Non riuscirei a vivere senza questi umani “amori in
corso”.
Io credo che la stessa possibilità di essere accogliente,
capace di ascolto, la stessa disponibilità nei confronti delle persone che incontro, abbiano come premessa necessaria e insostituibile il fatto della sicurezza e del piacere di
essere voluto bene e di voler bene ad un gruppo di uomini
e di donne che chiamo i miei amici, le mie amiche.
26
La necessità di amare
Del resto tutti sanno che per amare molte persone, è
necessario di amarne in maniera importante un numero
limitato che diventa la tua famiglia, il tuo luogo degli
affetti. Senza non si può.
Assolutamente vere sono le parole che don Milani ha
scritto per gli insegnanti ma che possono essere tranquillamente usate per i sacerdoti, i religiosi e le religiose: “i
professori son come i preti e le puttane. Si innamorano
alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno
tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. Ci
sono tante altre creature da servire» (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, 1996, Libreria
Editrice Fiorentina, pp. 41-42). Con un piccolo scambio,
potremmo parafrasarla dicendo che i preti, pensando di
dover amare tutti, finiscono per non amare nessuno.
Lo spazio dell’amore
Ma, prima di tutto, dobbiamo scegliere quale prospettiva dare al termine amore. Nella fitta rete di rimandi
27
Il cuore dei preti
che Benedetto XVI intesse nella sua prima enciclica,
Deus caritas est, si disegna quello spazio tra eros e agape dentro al quale il cristiano è chiamato a tracciare il
proprio percorso. In quello spazio troviamo le diverse
dimensioni dell’amore, da quello filiale a quello sponsale, dalle passioni brucianti alle salde amicizie, fino
all’amore per Dio e di Dio. «In opposizione all’amore
indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo [agape, rispetto ad eros] esprime l’esperienza dell’amore che
diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il
carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro». Per lo
scopo di questo scritto, vorrei limitarmi a considerare la
dimensione amicale, quegli affetti verso amici e amiche
che sappiamo essere fondamentali per la pienezza della
persona. Tenendo sempre a mente che l’amore è «…
un’unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta
in volta, l’una o l’altra dimensione può emergere maggiormente. Dove però le due dimensioni si distaccano
completamente l’una dall’altra, si profila una caricatura
o in ogni caso una forma riduttiva dell’amore».
28
La necessità di amare
Se l’amore di Dio e per Dio arricchisce di nuove dimensioni le relazioni umane, non dobbiamo dimenticare che le
prime esperienze concrete di amore avvengono tra persone, sulla Terra. L’amore per Dio e l’amore per gli uomini
stanno naturalmente insieme, anzi l’uno include e valorizza
l’altro. La tensione verso un ordine divino dell’amore non
deve farci dimenticare la dimensione finita dell’esistenza
umana, una finitudine che constatiamo nella nostra capacità di poter conoscere e amare un numero limitato di persone. Ma proprio a partire da questo limite, forse grazie a
questo limite, noi sentiamo la tensione verso Dio.
Molti – credo troppi – sacerdoti o religiosi e religiose
sono in relazione per dieci, dodici ore al giorno con tutti
coloro che arrivano con i propri problemi, domande,
richieste o – purtroppo più raramente – con le proprie
gioie. Ma spesso quegli stessi sacerdoti che ascoltano e
cercano di servire gli altri non vivono affetti e relazioni
amicali profonde e durevoli. Allora la solitudine può diventare condizione di sofferenza e – temo – di possibile
aridità affettiva ed evaporazione del sogno che pur li ha
mossi dal principio.
29
Il cuore dei preti
Gesù stesso non ha solo parlato di amore per il prossimo, si è comportato da uomo capace di amare e di
essere amato. Sin dall’inizio si è scelto un gruppo di
uomini e di donne per costituire la prima comunità che
ha voluto educare con pazienza e onestà, con dolcezza ma anche con duri rimproveri. Era la comunità dei
suoi amici e delle sue amiche, persone con le quali ha
condiviso i giorni buoni e alle quali ha poi chiesto che
vegliassero con lui mentre l’angoscia gli attanagliava il
cuore. E quando Pietro vive la negazione di aver conosciuto Gesù come un grande tradimento del cuore, Gesù
stesso risana la ferita con una domanda che continua a
suscitare tenerezza: «Pietro, mi vuoi bene tu?». Gesù
desiderava, chiedeva che i suoi amici lo amassero. Di
fronte alla tomba di Lazzaro Giovanni dice che «Gesù
scoppiò in pianto» perché «Gesù voleva molto bene a
Lazzaro, a Marta e a Maria».
Più laicamente, per quel che vivo nei rapporti con i
giovani, per quel che affermano gli studi di psicologia
e di pedagogia, io sono abituato ad indicare e ad insegnare che il pilastro dell’educazione è «come si sta con
30
La necessità di amare
gli altri», la relazione onesta e costruttiva, l’amicizia e
l’amore, insomma. Amare ed essere amati è un bisogno
naturale e necessario (“originario fenomeno umano”,
dice Benedetto XVI). La risposta a questo bisogno contribuisce in maniera fondamentale alla strutturazione
della persona, all’immagine che ci si costruisce di sé,
degli altri, del mondo. E per tutta la vita l’amore è il
luogo del benessere e della crescita costante della persona. La mancanza di affetti determinati e riconosciuti
è una delle strade che conduce alla depressione. E la
solitudine del cuore è un male dei nostri tempi che tocca
anche molti sacerdoti, religiosi e religiose.
Se l’amore è un bisogno, la tentazione di classificarlo
come una debolezza deve però essere respinta. Affermare che «mi basta l’amore di Dio», negando così il
bisogno di affetto e di tenerezza tra persone, è anche
obliare che l’amore per gli altri – amore dato e ricevuto
– è un comandamento simile all’amore per Dio. È negli
affetti quotidiani che impariamo a cercare e a costruire
le relazioni d’amore.
Lo stato di bisogno caratterizza l’esistenza umana,
31
Il cuore dei preti
ma nel nostro immaginario spesso è associato ad uno
stato di debolezza, di minorità. La rinuncia ai bisogni,
dunque, sembra diventare una affermazione di forza e di
indipendenza dalle passioni. Sembra allora che si voglia
accettare l’amore in generale, astratto, ma non quello
determinato, concreto. Sarebbe come affermare di aver
bisogno di acqua, ma rinunciare al sorso d’acqua, aver
bisogno di ossigeno, ma rinunciare a respirare questa
aria, qui e ora. Un bisogno negato, però, non è affatto un
bisogno estinto, è piuttosto un bisogno che, muto, cercherà nuove forme di espressione e di soddisfazione. E
allora non diventerà più una scelta consapevole, ma una
necessità, a quel punto e in alcuni casi incontrollabile.
C’è però un altro aspetto che contribuisce alla cattiva
fama dell’amore presso noi religiosi: il suo aspetto di
involontarietà, in particolare quando l’amore si presenta
come innamoramento. Sembra allora che la persona sia
trascinata nella passione senza la partecipazione della
propria volontà, senza scelta, insomma. È questo un equivoco che mi sembra molto pernicioso. L’amore, nella sua
pienezza di significato, non è mai una perdita. Temere di
32
La necessità di amare
“perdere la testa”, di uscire dal solco del proprio percorso, rivela quasi un’identificazione tra amore e ingorda
passione dei sensi. Ma l’amore, l’affetto, l’amicizia non
devono essere identificati necessariamente con la sensualità, per quanto essa ne sia talvolta una componente non
secondaria. Ne abbiamo riprova pensando, per esempio,
all’amore filiale, scevro da ogni connotazione erotica,
all’amicizia salda tra amici, fratelli. Un abbraccio può
essere un piacere dell’anima e del corpo, non necessariamente un eccitamento della libido. L’amore è una cornice
che può racchiudere innumerevoli forme: se abbiamo
percepito una forma d’amore che ci ha impaurito o suscitato repulsione, non possiamo perciò stesso rompere
la cornice ma dovremmo invece affrontare a viso aperto
quali forme di amore alberghino in noi.
Annichiliti dagli “opposti”
Qualcuno potrebbe affermare che la mobilità imposta
al sacerdozio non è conciliabile con relazioni affettive
33
Il cuore dei preti
stabili. Costruire legami per poi doverli sciogliere al
primo cambio di sede sembra inutile. Anzi, i periodici spostamenti sembrano suggerire proprio che non ci
deve essere un legame personale con il prete, il quale è
una figura di mediazione e non deve essere protagonista lui stesso di una vita di relazione affettiva. Ma noi
sappiamo, al contrario, che gli affetti abitano nel cuore
indipendentemente dallo spazio e dal tempo. Sappiamo
che l’incontro con un caro amico o una cara amica dopo
anni di lontananza ricrea gli stessi sentimenti del tempo
passato, perché è rimasto vivo l’amore.
C’è però un aspetto di questa resa affettiva di fronte
al “nomadismo” del prete che credo valga la pena approfondire. Al ricordo dell’affermazione di don Milani
citata sopra, ora si sostituisce quello di un giovanissimo studente nordafricano che un giorno mi chiese: «Se
dobbiamo morire, perché dobbiamo studiare?». Così
sembra dire anche il prete: «Se devo abbandonare questa comunità parrocchiale, perché devo creare amicizie
importanti e stabili? Non la imbroglio io, forse, se lascio
che mi ami quando so che presto dovrò lasciarla?». Di34
La necessità di amare
menticando che proprio nel momento terribile dell’abbandono Gesù ha stretto intorno a sé gli affetti. Così,
mentre con don Milani si poteva paradossalmente dire
che si vorrebbe amare “tutti o nessuno”, ora sembra
che si debba concludere che si vorrebbe amare “per
sempre o mai”. Invece io credo che sia proprio la dimensione finita dell’esistenza terrena lo spazio entro il
quale possiamo realizzare la parola di Gesù. È proprio
il limite, la finitezza che ci devono spingere ad avere
cura del “giardino di Dio” e ad accendere qui ed ora la
nostra capacità di amare e di essere amati. Il disprezzo
della finitudine rischia di produrre gli stessi esiti del
nichilismo. Tutto e Nulla possono confondersi.
Educazione e relazione
Per quello che mi capita di conoscere – ed è certamente una conoscenza buona ma incompleta – nei
luoghi della formazione dei sacerdoti, dei religiosi e
delle religiose, la cura dei rapporti interpersonali e
35
Il cuore dei preti
dell’amicizia, l’abitudine alla relazione onesta e amicale, l’addestramento a lavorare insieme dandosi reciprocamente valore, non è il contenuto dell’educazione
che viene impartita. Ci sono le regole di seminario o
di istituto, ma l’incontro delle umanità, il darsi valore,
la comunicazione interpersonale, la cura gli uni degli
altri, il lavorare insieme non sono al centro del progetto educativo. A mio parere, questa è una carenza
di sostanza che incide tanto nel benessere personale
quanto nella qualità dell’azione pastorale che siamo
chiamati a svolgere.
Qui emerge una questione di sostanza che raramente le autorità ecclesiastiche conoscono e rispettano: la
competenza che devono avere sacerdoti e laici dedicati
all’educazione dei giovani che si avviano al sacerdozio.
Buonissimi, bravissimi sacerdoti colti e ubbidienti, ricchi di cultura teologica e di spiritualità, ma ai quali non
è richiesta una specifica competenza educativa rivolta
all’implementazione delle capacità relazionali e alla
gestione dell’affettività e delle emozioni. È vero che
dai seminari escono lo stesso tanti “buoni preti”, ma
36
La necessità di amare
un obiettivo fondamentale come l’equilibrio affettivo e
una solida e consapevole capacità relazionale non può
accadere “per fortuna” o per le qualità proprie di una
persona.
Da questo punto di vista l’atteggiamento di chi sceglie gli educatori del seminario religioso o secolare
non è molto diverso dall’apparente buon senso di chi
immagina che l’essere adulto, padre o madre, prete,
frate o suora, sia di per sé un’abilitazione ad essere
educatori.
Anche nei gruppi di religiosi e religiose mi è capitato
molto raramente di trovare una figura che, con cognizione di causa e competenza, avesse cura della comunità intesa come luogo di condivisione, di fraternità, di
progetto comune. Anche qui, come nel caso del ruolo
educativo degli educatori, sembra quasi che prevalga
l’idea che basti il nome “comunità” perché si generino
armoniosamente tutte le dinamiche positive. Invece c’è
la regola ma, come si sa, la regola, per bella che sia, si
anima se è proposta dal volto fraterno di una sorella o di
un fratello. Anche Gesù era allergico alle regole senza
37
Il cuore dei preti
relazione. Come in una qualsiasi altra relazione, è necessario che anche in comunità ci sia cura e attenzione
quotidiana per favorire i processi positivi, altrimenti
il rischio di diventare una comunità di estranei risulta
tutt’altro che improbabile.
Riguardo alla relazione d’amore o di amicizia con
entrambi i sessi, occorre fare alcune precisazioni. Una
delle convinzioni più frequenti è che l’attitudine alla relazione sia legata al carattere, al temperamento.
È fuor di dubbio che talune caratteristiche aiutino ad
avere una vita relazionale ricca e positiva, ma gli antropologi e gli psicologi affermano che il carattere di
una persona deriva in primo luogo dalla qualità delle
relazioni con i genitori a partire dai primi anni di vita.
Più precisamente, è convinzione condivisa che siano
determinanti i primi tre anni di vita, durante i quali si
cominciano a costruire (in maniera più o meno positiva) l’identità, la stima di sé e la capacità relazionale.
La relazione – prima struttura dell’amore – è, deve essere una scelta e una disciplina, che per i cristiani è il primo comandamento, declinato come l’amore per Dio.
38
La necessità di amare
Quali relazioni?
La relazione è il pilastro di ogni educazione, non è
mai una condizione della quale, una volta stabilita, non
ci si debba più curare. È invece un bene da cercare e
costruire giorno per giorno: esige silenzio, ascolto, trasparenza, dialogo, perdono, speranza, fede in Gesù. Non
se ne può fare a meno. Ovviamente non ogni relazione
richiede la stessa intensità di ascolto e di dialogo.
Noi preti, come molti laici, incontriamo molte persone, spesso per motivi di funzione. Normalmente basta
la buona educazione, un sorriso, la pazienza: questa è
una prima declinazione della relazione.
Altre volte siamo chiamati in campo a livello più
profondo. Un giorno ho cercato di spiegare a due seminaristi la differenza che mi sembrava di cogliere tra loro
e alcuni preti che conosco. Dicevo loro di immaginarsi
di essere per strada in una notte fredda e tempestosa e
di incontrare un giovane ragazzo straniero, conosciuto
alcuni giorni prima, che chiede aiuto. Probabilmente
– dicevo loro – voi gli avreste dato dieci euro e un nu39
Il cuore dei preti
mero di telefono, e poi un saluto frettoloso. Ecco, altri
preti che conosco forse anche loro gli avrebbero dato
qualche soldo, ma poi lo avrebbero portato a casa propria. Due esempi di relazione non ancora affettiva, ma
certamente effettiva. Io non riesco a immaginare una
relazione che sia diversa e contemporaneamente umana
e cristiana. Certo, ogni relazione di accoglienza deve
fare i conti con la realtà, la disponibilità di tempo, di
competenza nella relazione, di disponibilità di strumenti
concreti, altrimenti ci si lascia prendere dalle pulsioni
di onnipotenza, che alla fin fine sono distruttive. Ma
le lontananze emotive troppo spesso rimandano ad un
egoismo sostanziale camuffato da ragionevoli motivi. È
clamorosa la quantità di alloggi che sono e restano vuoti
per la riduzione del clero di fronte alla disperazione di
molte famiglie che non hanno una casa dignitosa o sono
addirittura senza casa. Questa è appunto una seconda
declinazione della relazione, quando cioè incontri un
bisogno e te ne fai carico pur mantenendo vivo il senso
del limite legato alle condizioni reali. Se però si rimane
senza risposta di fronte a bisogni per i quali è possibile
40
La necessità di amare
trovare le risorse, allora non sei in relazione, non ti assumi la responsabilità. Il peso delle ragionevoli preoccupazioni è quasi sempre sovrastimato rispetto al peso
del bisogno che si incontra nello sguardo dell’altro.
C’è una terza declinazione della relazione, più vicina alla valenza affettiva. Si tratta del rapporto che il
sacerdote, la religiosa o il religioso hanno con i propri
collaboratori. Disastrosa è la gestione auto centrata delle
strutture parrocchiali, a partire dall’oratorio fino alla
parrocchia in generale. Riconoscere responsabilità al
gruppo dei collaboratori è un passaggio fondamentale,
necessario e ragionevole, per altro raccomandato dai
documenti ecclesiali a partire dal Concilio Vaticano II.
Di norma un gruppo si forma per gestire un progetto,
talvolta per organizzare un evento: richiede disponibilità, ma soprattutto competenza e tempo. E deve assumersi responsabilità vere e condividere il progetto
pastorale. Si tratta di gruppi che hanno bisogno di cure e
di formazione, normalmente da affidare a persone competenti, mai al religioso o religiosa che, invece, deve far
parte del gruppo.
41
Il cuore dei preti
Un gruppo sano che condivide un progetto – che è
anche un ideale, un sogno – ha bisogno di competenza,
come dicevo, ma soprattutto di rapporti stretti, chiari,
sinceri, caldi. Un gruppo ha numeri limitati e confini,
identifica persone e relazioni. Spesso è proprio in queste strutture che si scorgono le possibilità di relazioni
amicali forti. Ovviamente si trova quel che si cerca: i
rapporti e la loro qualità si possono definire anche come
incontri di due o più desideri, disponibilità, bisogni,
impegni. Occorre però sempre attenzione ad evitare di
costituire un gruppo esclusivo e autoreferenziale, povero di ascolto e di servizio per la comunità all’interno
della quale il gruppo si forma.
Ogni forma di amore nasce per una qualche affinità,
cresce e si stabilizza se diventa decisione e cura. Credo
che stia qui il problema: la scelta della ricerca e dell’offerta affettiva vissuta come un grande, necessario, legittimo bene contrapposto a un’equidistanza affettiva
spacciata, troppo spesso, come virtù. “Per tutti” può
significare – e spesso significa – “per nessuno”. Va da
sé che l’equilibrio e la soddisfazione affettiva sono il
42
La necessità di amare
calore per scaldare una vita “buona”. Senza si rischia
la correttezza fredda e distante.
Un’obiezione ricorrente, che spesso diventa un giudizio, è quella secondo la quale un rapporto stretto e
tendenzialmente esclusivo tra il sacerdote, per esempio,
e l’oratorio o il gruppo è dannoso perché se poi il prete
viene trasferito allora se ne vanno anche i giovani. Ma
un rapporto stretto di stima e di fiducia è una condizione
necessaria della relazione e dell’educazione, non è possibile che avvenga diversamente. Il giovane, il bambino
deve avvertire che tu ascolti proprio lui, è proprio a lui
che dai valore e proprio a lui offri i tuoi pensieri più
belli e, ovviamente, se il contatto si stabilisce, nasce un
tipo di dipendenza. La dipendenza fa parte dell’esperienza relazionale e affettiva e, come tale, va gestita con
competenza proprio perché stiamo parlando di relazioni
che sono anche educative. Eliminare l’affettività per
eliminare la dipendenza non è una scorciatoia, è un vicolo cieco.
L’arte di educare è sì quella di offrire una relazione,
ma anche di avviare verso la consapevolezza, l’auto43
Il cuore dei preti
nomia di pensiero, la responsabilità personale. L’arte
di educare e di gestire un gruppo si impara. Parte da
un’occasione, diventa un’intenzione e si solidifica con
una competenza acquisita con lo studio, il confronto,
la verifica. L’arte dell’educazione ha inizio, per l’adulto educatore, da una buona educazione e orientamento
della propria vita affettiva, spirituale e fisica.
Crisi e terapie
Infine sono per me sorprendenti e sbagliati i consigli
che da anni diversi direttori spirituali, alcuni anche molto noti e presenti nei media nazionali, danno ai giovani
preti quando entrano in crisi. La ricetta è sempre quella
preconfezionata: «Devi pregare di più e leggere di più il
Vangelo». Ovviamente occorre sempre pregare molto e
il Vangelo deve essere il libro di riferimento quotidiano,
ma potrebbe anche capitare che la crisi derivi da motivi diversi da una preghiera recitata stancamente. Per
esempio, da una solitudine che non si riesce più a sop44
La necessità di amare
portare, spesso proprio da una solitudine del cuore, da
un isolamento rassegnato. Una figura paradossalmente
staccata dalla comunità della quale pur ne sarebbe il
riferimento.
Mi è capitato di conoscere un giovane prete che,
essendosi innamorato ed avendo molto onestamente e
fiduciosamente comunicato ai suoi superiori il suo innamoramento, è stato avviato ad un percorso di cura psicologica come se l’innamoramento fosse una patologia,
mentre di solito è negando questo evento misterioso che
si generano patologie e sofferenze psicologiche. L’innamoramento è un avvenimento normalmente straordinario che va affrontato a viso aperto perché radicato nella
persona umana, radicato nel cuore della persona umana.
Non è dunque una semplice questione di rispetto o contravvenzione delle regole ecclesiastiche. Perché un conto
è rispettare il celibato, un altro è congelare il cuore. Certi
consigli ecclesiastici assomigliano al comportamento di
colui che, di fronte a una persona indigente in cerca di cibo, consigliasse “tre pateravegloria” invece che un piatto
di pastasciutta. L’apostolo Andrea insegna.
45
Il cuore dei preti
Io ho l’opinione che la causa di molta infelicità e di
aridità, la perdita del “sogno” da parte di molti preti e
religiosi siano legate non tanto alla mancanza di fede
quanto allo scarso esercizio dell’amore quotidiano, alla
mancanza dell’ossigeno che si genera nelle quotidiane
relazioni affettive. L’affermazione: «Mi basta l’amore
di Dio e per Dio» è falsa come gli Omega d’oro che
ti vendono a Napoli per trenta euro. Per accorgertene,
però, devi fermarti e grattare la superficie.
Noi preti in primis non dobbiamo più affermare,
pregare, cantare affermazioni del tipo «sei tutto per
me, ho bisogno solo di Te, Te solo e il mondo non
conta». Come ogni donna e ogni uomo, i sacerdoti e le
religiose, anche dopo aver formulato il voto di castità e
credo proprio per essere fedeli al voto, hanno bisogno
di comunità, di amicizia di persone con le quali ridere
e sulle spalle delle quali piangere i propri dolori. Proprio come è capitato di fare a Gesù Cristo il quale così
disse dei propri amici: «Da questo riconosceranno tutti
che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli
altri» (Gv 13,35).
46
La necessità di amare
La dignità dei figli
Ancora oggi, però, invece che riconoscerci “figli” e
“fratelli” indugiamo con appellativi quali “umili servi” e “miserabili peccatori”, o dubitiamo dell’amore
di Dio implorandolo di non abbandonarci. Al contrario, dobbiamo avere fede di essere preziosi di fronte
a Dio.
Se siamo amabili per il Signore, come può una persona non considerarsi degna di essere amata anche da se
stessa? L’argomento certo non è nuovo. In altri ambiti si
parla, per esempio, di autostima come di un necessario
sentimento di sé per poter avere una buona relazione
con gli altri. Io voglio continuare ad usare il termine
amore, perché identifica meglio la parola evangelica.
E amore e cura di sé, se non diventano narcisismo o
vanità, sono indispensabili per amare il prossimo. L’idea
che minore sia la cura di sé e maggiore sia la cura che
puoi dedicare all’altro è una semplificazione deviante
del concetto di sacrificio.
Amare se stessi, dunque, e permettere di essere amati
47
Il cuore dei preti
sono aspetti indissolubilmente legati alla capacità di
amare l’altro.
Chi tra noi, oggi, vorrebbe stare dalla parte di coloro
che hanno criticato aspramente Gesù per aver accettato lo “spreco” del prezioso unguento cosparso sui suoi
piedi?
48
“Chi dice donna dice danno?”
di Fulvio Scaparro
I
o non so cosa significhi essere sacerdote. Posso solo,
in tutta umiltà, esercitare quel po’ di empatia di cui
dispongo per cercare di comprendere il mondo interno
di quei sacerdoti con cui ho avuto a che fare, anche
professionalmente, nel corso della mia vita.
Qualcuno di loro, in passato, si è rivolto a me per
cercare aiuto per motivi che, di solito, non dovrebbero essere trattati da e con uno psicologo: la normale attrazione per una donna, l’innamoramento, la
passione.
L’uomo che sta davanti a me, nel momento in cui ha
ricevuto l’ordinazione sacerdotale, si è impegnato di
fronte a Dio di dedicarsi, letteralmente, anima e corpo,
alla diffusione della sua parola, alla dedizione agli altri,
49
Il cuore dei preti
all’ascolto degli altri. Ma ora chiede di essere ascoltato da me, uno di quegli “altri”, di non essere lasciato
solo in un momento in cui i sentimenti e le emozioni
sembrano far vacillare le scelte e gli impegni un tempo
solennemente assunti.
Ho letto da qualche parte che la visione laica mal
sopporta la “diversità” del sacerdote e non tiene conto
del fatto che «il celibato sacerdotale è una continua provocazione, un continuo ricordare che dietro quell’uomo, apparentemente solo, c’è qualcun Altro!». E, poco
cristianamente, quella stessa fonte aggiunge: «È dura
per uno schiavo [l’uomo laico] vedere un uomo libero
[il sacerdote]».
Ma nella mia stanza non si confrontano uno schiavo
(io) e un uomo libero (lui). Per me e per lui vale forse quello che diceva Albert Schweitzer: «La coscienza
tranquilla è un’invenzione del diavolo». Né io né lui
siamo liberi, ma aneliamo alla libertà; né io né lui siamo schiavi, ma abbiamo orrore della schiavitù. Si può
lottare e morire per la libertà ma non mi risulta che
qualcuno abbia messo a repentaglio la propria vita per
50
“Chi dice donna dice danno?”
essere schiavo. Ed essere liberi o schiavi non è questione di matrimonio o celibato e forse nemmeno di essere
credenti o noncredenti.
Guardo quest’uomo tormentato dai sensi di colpa e
penso che lui ed io vorremmo poter scrivere, alla fine
della nostra vita, come Newton (5 febbraio 1675):
…a me sembra di essere stato soltanto come un fanciullo
che giocava sulla riva del mare e che si divertiva a trovare
di tanto in tanto un ciottolo più levigato o una conchiglia
più bella del comune, mentre il grande oceano della verità
si stendeva sconosciuto davanti a me.
Forse, io e lui non chiediamo altro: che non ci si
impedisca, fino all’ultimo minuto della nostra vita, di
giocare sulla riva del mare e scoprire quel poco di insolito e sorprendente che il grande oceano si compiace
di depositare sulla battigia.
Ma ecco che dall’interno della Chiesa mi si dice, a
proposito del celibato dei preti, che una coscienza onesta
non può accettare tutto questo e che chiunque pretenda
51
Il cuore dei preti
di cambiare la realtà ecclesiale deve accettare il fatto che
le dicotomie sono irreali, nessun corpo, neppure sociale,
può essere diviso in due. «Non esiste una “Chiesa istituzione” separata o separabile dalla “Chiesa carismatica”
o dalla “Chiesa-popolo di Dio”». Costi quel che costi,
anche se per guadagnare in termini di umanità (!), spiritualità ed efficacia apostolica, si perderà qualcosa in
termini di presenza capillare nel territorio.
Tradotto in italiano corrente questo significa che di
preti così, di sacerdoti che nutrono dubbi sul celibato,
possiamo farne a meno. Meglio pochi ma buoni, dunque.
Ma per fortuna non tutti, all’interno della Chiesa, la
pensano così né hanno le stesse granitiche certezze.
Il 19 maggio di quest’anno ho letto sul Corriere della
Sera un brano della conversazione tra don Verzè e il
cardinale Martini.
All’affermazione di don Verzè che sostiene: «Io penso che anche ai sacerdoti dovrebbe essere presto tolto
l’obbligo del celibato, poiché temo che per molti il celibato sia una finzione [!]», il cardinale Martini risponde:
52
“Chi dice donna dice danno?”
«Lei affronta un problema molto importante, dicendo
che ai sacerdoti andrebbe tolto l’obbligo del celibato. È
una questione delicatissima. Io credo che il celibato sia
un grande valore, che rimarrà sempre nella Chiesa: è un
grande segno evangelico. Non per questo è necessario
imporlo a tutti, e già nelle Chiese orientali cattoliche
non viene chiesto a tutti i sacerdoti».
Non vado oltre, ma questa apertura mi fa pensare
che forse, molto lentamente, il tema del celibato come
quello del sacerdozio delle donne sta cominciando ad
essere affrontato.
A proposito delle donne, nel 2009 appare ancora
radicata, non solo nella Chiesa cattolica, la millenaria
diffidenza nei loro confronti. Sono ancora viste come
un pericolo per chi, sia esso un prete o un soldato, ha
scelto una dura militanza, una ferrea disciplina interiore
ed esteriore, che la donna, portatrice di affetti, emozioni e prospettive di lunga durata (amore, famiglia, figli,
casa…) può soltanto minacciare.
Come ritenevano i generali di un tempo (e ancora qualcuno di loro oggi), una relazione stabile con
53
Il cuore dei preti
una donna rende fragili e poco combattivi. Meglio un
“amore” mercenario che un’unione stabile.
E, del resto, in tempo di guerra è sempre stato accettato, nei fatti anche se non nelle dichiarazioni ufficiali,
lo stupro delle donne come bottino di guerra e il fiorire
dei bordelli attorno alle caserme e agli accampamenti. Ogni “campo di Marte” è circondato da un “campo
di Venere” ben visto dalle alte gerarchie, convinte che
quello squallido remedium concupiscentiae tranquillizzi
le truppe, non le distragga dagli impegni bellici e tolga loro dalla testa il “pericolo” insito in ogni relazione
stabile e ricca di affetti con la donna.
Dobbiamo liberarci dell’ipocrisia dilagante che vede
una grande profusione di elogi e complimenti alle virtù
femminili, lo strombazzare i successi di una donna su
centomila, la parità virtuale dei diritti e una realtà quotidiana sconcertante.
Nella Chiesa e fuori dobbiamo tenerci buone troppe
lobby:
• quelle politiche, per le quali il riconoscimento reale
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“Chi dice donna dice danno?”
dei diritti e delle capacità delle donne, significherebbe
uno sconvolgimento della distribuzione del potere e delle poltrone, delle gerarchie e soprattutto del modo stesso
di concepire la politica, con conseguente drastico ridimensionamento del peso maschile nella vita pubblica;
• quelle del mondo del lavoro, dell’industria pubblica
e privata, dei sindacati che, come avviene in politica,
non osano parlare con chiarezza della questione e tacitamente emarginano le donne in posizioni subalterne;
• quelle religiose, soprattutto delle grandi religioni
monoteiste, forse le più forti di tutte, storicamente responsabili insieme a quelle militari di avere instillato
nelle coscienze l’idea dura a morire che le uniche donne
accettabili siano la madre umile e silenziosa “angelo del
focolare”, la servitrice fedele oppure la creatura nata per
il piacere del maschio, un piacere naturale a cui bisogna
però porre rimedio (la donna come remedium concupiscentiae) ma pericolosamente confinante con il peccato.
Una creatura che infiacchisce le virtù guerriere (anche
55
Il cuore dei preti
nel senso della lotta per affermarsi nella vita e nel lavoro) del maschio, che tende a creare legami affettivi e
radici stabili, mentre il maschio è servitore, lavoratore e
guerriero migliore se non è appesantito dalle ragnatele
tessute attorno a lui dalla donna-ragno.
Ma chi osa opporsi a queste lobby? Chi osa dire che
“il re è nudo” e che oggi permangono vivi e vegeti vecchi pregiudizi contro le donne? In un mondo sempre più
ingabbiato in guerre fomentate da “ismi” di ogni genere
(nazionalismi, fondamentalismi, integralismi e fanatismi) chi si azzarda ad accusare i padroni della nostra
vita? Ha senso parlare dell’educazione sentimentale ed
affettiva del prete senza riflettere sulla storia e sull’attualità della condizione femminile?
Non è sufficiente riconoscere quanto male sia stato
fatto, ieri ed oggi, alle donne e quali vantaggi il mondo
ricaverebbe dalla loro liberazione. Occorrono fatti: in
famiglia, nella scuola, nel lavoro, nella ricerca scientifica, nell’espressione artistica, nella Chiesa, bisogna
favorire l’affermazione della donna, accettando come
56
“Chi dice donna dice danno?”
una risorsa preziosa la sua differenza e la sua specificità.
In uno slancio di ottimismo, seguo quello che diceva
Goethe: «Di ciò che è scaturito non siamo più padroni,
ma siamo padroni di renderlo innocuo».
57
I baci non dati
di padre Ermes Ronchi
Premessa
I baci non dati. Queste parole sono il titolo di una
poesia di un frate milanese, Davide Maria Montagna,
che parlando dell’amore lontano conclude: un giorno
tutti i baci non dati saranno dati. E già con queste poche note opera uno sfondamento di senso, una apertura
d’orizzonte per il tema che ci interessa.
Perché “non dati”? Per mille motivi: per solitudine,
per paura, per senso di colpa, per scelta precisa, per
fedeltà alla regola, per durezza di cuore, per incapacità,
per impotenza d’amare.
Ogni vissuto personale interpreta l’espressione o come rimpianto per amicizie non vissute, o come progetto
59
Il cuore dei preti
per addentrarsi in quello spazio di misteri che è lo spazio
tra eros e agape, con cui invece si sono misurati grandi
spirituali, attraverso amore d’amicizia uomo-donna celebrato in pienezza, liberamente, creativamente.
Segnando le orme di una storia della spiritualità altra,
misconosciuta, e dove il divino porta intensificazione
dell’umano, incremento di vita. E dove, anziché decreto
di colpevolezza, ogni evento d’amore appare decretato
dal cielo.
Christos Yannaras scrive: «Esso non è privilegio dei
virtuosi né dei saggi, è offerto a tutti, con pari possibilità. Ed è la sola pregustazione del Regno, il solo reale
superamento della morte. Perché solo se esci dal tuo
io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa
domandi a Dio e perché corri dietro di lui»1.
Forse per questo la parola Dio è sempre stata coniugata con la parola “amore”. Se c’è qualcosa sulla terra
che apre la via alla trascendenza, questa cosa è l’amore.
Maria è aperta all’angelo proprio perché è già entrata
1 Ch. Yannaras, Variazioni sul Cantico dei Cantici, Interlogos, Schio
(VI) 1994, p. 25.
60
I baci non dati
nelle cose dell’amore. Proprio perché innamorata, ha
detto il primo sì a Giuseppe, Maria può percepire il
messaggio dell’Assoluto. Il cuore è la porta degli dèi,
dicevano gli antichi.
Gli uomini hanno paura delle donne. E i religiosi una
paura raddoppiata.
È una paura che viene da lontano, più lontano
dell’idea di peccato, più della temibilità dell’eros, viene da lontano quanto la vita. È una paura avvertita fin
dal primo giorno. Non è solo paura del corpo, del volto
e del cuore della donna, ma anche paura della vita e
paura di Dio. Perché queste tre cose sono molto vicine:
la donna, la vita e Dio (Ch. Bobin).
Paura anche per la fatica di concepire un’attrazione
reciproca che non sia legata a doppio filo con la genitalità e la procreazione, ma sia come l’armonia di eros
e agape che insieme scrivono, come all’origine, la parabola più universale del sogno di Dio, di cui è intrisa
tutta la creazione, la più carica di rivelazioni!
61
Il cuore dei preti
Introduzione
Mi soffermo su di un concetto determinante: non
smarrire la polifonia dell’esistenza.
Dio non copre tutte le gamme d’onda del nostro
cuore. L’amore di Dio non risponde a tutte le dimensioni del cuore dell’uomo, neppure del cuore del
monaco.
Dio non pretende di essere unico, geloso sbocco.
Adamo vede Dio e non è felice. Dio non gli basta. «Non
è bene che l’uomo sia solo...», solo con Dio.
Gesù stesso offre tre oggetti all’amore: ama Dio, ama
il tuo prossimo, come ami te stesso. La polifonia, appunto, dell’amore. Polifonia non è figlia di sottrazioni,
ma di addizioni.
«Amerai il Signore con tutto il cuore» (Dt 6,5) non
significa: «Ama Dio solamente, riservando tutto il cuore
a lui», ma: «Amalo con totalità, senza mezze misure».
Così devi, allo stesso modo, amare il tuo amico: «Con
tutto il cuore», senza riserve. Ma non solo il tuo amico,
il genitore, il figlio, lo sposo.
62
I baci non dati
La totalità del cuore non significa esclusività. «Non
avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3), chiede il Signore, ma non già: «Non avrai altro amore all’infuori
di me».
L’espressione «polifonia dell’esistenza» è stata coniata da Bonhoeffer in una lettera a un amico:
Il rischio implicito in ogni grande amore è quello di smarrire la polifonia dell’esistenza. Voglio dire che Dio e la sua
eternità pretendono di essere amati dal profondo del cuore,
senza però che l’amore terreno ne venga danneggiato o
indebolito; qualcosa come un cantus firmus, in rapporto al
quale le altre voci della vita formino il contrappunto.
Solo quando ci troviamo in questa polifonia la vita
è totale.
L’amore terreno, sponsale o amicale o familiare, segue la legge del contrappunto, autonomo e correlato al
“canto fermo”.
Un rischio implicito in ogni grande amore, terreno
o celeste, di appartamento o di monastero, è quello di
63
Il cuore dei preti
smarrire, in nome di un amore totalizzante, la polifonia
dell’esistenza, la totalità della vita.
La perdita della polifonia è stata una delle conseguenze più negative di un malinteso amore sacro, che
si è tradotto – in troppi ambienti religiosi – in diffidenza verso l’amicizia, freddezza di rapporti, acidità delle
relazioni, brinate sui sentimenti, distorsioni affettive. E
soprattutto la malattia più temuta da Gesù: la sklerokardía, la durezza del cuore.
È come immiserire la vita, perché all’infuori delle relazioni non esiste manifestazione dell’infinito quaggiù.
La cosa più importante dell’esistenza restano i rapporti
umani.
Perso il cuore plurale, la vita spirituale vegeta come
frutto di sottrazioni, si disidrata nell’illusione di amare
Dio perché non ama nessuno sulla terra!
D’altra parte, si potrà perdere la polifonia dell’esistenza anche coltivando soltanto rapporti umani; nell’ansia
di significare tutto per l’altro, senza la luce dei grandi
pensieri e di un oltre.
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I baci non dati
La maturità degli uomini spirituali
Mi soffermo su due vicende esemplari d’amicizia
uomo-donna, più eloquenti di ogni mia parola.
Bernardo di Chiaravalle
Il polemista spietato contro Abelardo, uno degli
inventori dell’amore in Occidente, il predicatore di
crociate, è anche il «seduttore della Borgogna», come
dice Guglielmo di Saint-Thierry. Scrive la Regola per
i monaci guerrieri, i temibili Templari, i più efficienti
soldati dell’epoca, e poi scrive struggenti lettere d’affetto a Ermengarda. Colui che fa muovere duchi e regine
fino al suo monastero, allunga i suoi viaggi per poter
incontrare la sua amica Ermengarda.
Due lettere a Ermengarda (Epistola 116 ed Epistola
117, redatte verso il 1135) sono rivelative. Ecco uno
stralcio della prima lettera:
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Il cuore dei preti
Alla sua amata Ermengarda.
Dio ti conceda di leggere nel mio cuore come su questa
pergamena. Allora vedresti quale profondo amore il dito
di Dio ha inciso per te nel mio cuore, nel più intimo del
mio essere.
Il mio cuore è vicino a te, anche se il mio corpo è lontano. Se non puoi vederlo, non devi far altro che scendere
nel tuo cuore e lì vi troverai il mio.
Non puoi dubitare che io senta per te lo stesso affetto
che tu provi per me, a meno che tu non pensi di amarmi
più di quanto io ti ami, e che tu non reputi il tuo cuore più
grande del mio.
Concedimi l’amore che Dio ha impresso in te per
me.
Bernardo è un monaco nella sua piena maturità, attorno ai quarant’anni. Ermengarda è una contessa vedova,
che ha perso il figlio Conan III, duca di Bretagna, alla
crociata.
La lettera non contiene notizie, richieste, consigli,
riflessioni spirituali, informazioni pratiche, ma effusioni
affettuose e persino amorose, che possono stupire. È un
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I baci non dati
parlare da dentro il luogo dei misteri, mai su di esso, di
uno che ha scelto di vivere il rischio d’amare.
La lettera è, nello stile letterario dell’epoca dei trovadori, «una tenzone amorosa», una competizione, in
cui vince chi ama di più. Non ha altro scopo che far
sapere tutta la forza dell’affetto, custodirla e coltivarla.
L’amore non può mai rimanere quello che è, ha bisogno
di crescere. L’amore deve essere sempre in cammino,
in volo, in combattimento.
Ha uno scopo, questa amicizia, o non è invece essa
stessa il proprio scopo?
L’amicizia è un fine o un mezzo?
L’amicizia è un paradosso spirituale che avvicina a
Dio avvicinandoti a un cuore. Che ti rivela a te stesso:
solo con l’amico puoi permetterti la totale libertà.
Fiore selvatico sulle nostre strade, miele selvatico
dei nostri deserti, per la polifonia dell’esistenza, per la
pienezza del vivere.
Bernardo qui è finalmente libero dalla tirannia di una
vita fatta di scopi da raggiungere. Che si misura sempre
con domande e con doveri: che cosa devo fare? A che
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Il cuore dei preti
scopo devo farlo? Perché devo? Tutta una lunga serie di
“perché” senza fine. Ad essi Bernardo oppone una protesta di bellezza, l’insurrezione della tenerezza: «Amo
perché amo, amo per amare!».
Dichiara il suo bisogno di amare e di essere amato;
chi vuole amare, come farlo, chiarendo il proprio modo
di amare.
Una maturità che non è frutto di diminuzioni, ma di
addizioni. Un divino cui non corrisponda un rigoglio
dell’umano non merita che ad esso ci dedichiamo (D.
Bonhoeffer). Non è diminuendo l’umano che in noi cresce lo spazio del divino.
Un’espressione felice di Bernardo nella seconda lettera dice: «Lo scoppio della tua allegria dona salute
all’anima».
Il riso di Ermengarda porta salute, benessere, guarisce l’anima di Bernardo. La sua riserva di gioia! L’abate
ascolta il riso di una donna, lo ascolta e dentro quel riso
trova una medicina del vivere, la salute per la sua anima,
un benessere dell’intera sua persona, toccata d’allegria,
contagiata di sorriso.
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I baci non dati
Francesco d’Assisi
A spiazzare i luoghi comuni: la vera amica di Francesco d’Assisi non è Chiara.
Quella che lui desidera accanto, che manda a chiamare quando sente vicina sorella morte, l’amica che
spesso l’ha accolto in casa sua, quella dei piatti speciali, per la quale viene anche sospesa la clausura, è
Iacopa dei Settesoli, nobile romana, vedova di Graziano Frangipani.
A lei è indirizzato l’ultimo scritto del santo:
A madonna Iacopa serva di Dio frate Francesco poverello di Cristo.
Sappi, carissima, che Cristo m’ha rivelato il fine della
vita mia, il quale sarà in brieve. E però se tu mi vuoi trovare vivo, veduta questa lettera, ti muovi e vieni a Santa
Maria degli Agnoli; imperò che, se per infino a [sabato]
non sarai venuta, non mi potrai trovare vivo. E arreca teco
panno di cilicio nel quale si rinvolga il corpo mio, e la cera
che bisogna per la sepoltura.
Priegoti ancora che tu mi arrechi di quelle cose da man69
Il cuore dei preti
giare, delle quali tu mi solevi dare quand’io era infermo
a Roma.
Francesco muore in mezzo ai suoi fratelli, ma testimone di totale libertà di fronte al loro giudizio, convoca un’amica, tra i molti volti presenti cerca un volto
assente. Cerca un volto la cui tenerezza ha smosso in
lui melodie che ancora risuonano, e che con la sua sola
presenza gli restituirà – dice il cronista – «grande allegrezza e consolazione». Amicizia come riserva di gioia,
sintomo che hai toccato il cuore dell’essere.
Nel momento supremo della vita vuoi accanto le persone supreme. Francesco cerca l’amica; il suo ultimo
cantico è quello dell’amicizia.
Iacopa ha portato il panno funebre, i ceri e i “mostaccioli”, dolcetti di miele e mandorle, dei quali Francesco ha confessato con semplicità e tanta leggerezza il
desiderio. Francesco non è disamorato della vita, anzi
mostra di averla amata anche nelle sue manifestazioni sensibili; i sensi non sono negati, ma sono «divine
tastiere» (D.M. Turoldo). Più ameremo la vita senza
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I baci non dati
riserve, più saremo anche capaci di provare felicità (J.
Moltmann).
Con l’amica egli può permettersi un tenerissimo momento di debolezza e di verità umana insieme: «Portami
quei biscotti con i quali ti prendevi cura di me, con cui
mi hai curato tante volte a Roma». Una preghiera che
l’amica ha già esaudito, perché nessuno ti conosce così
a fondo come l’amico: l’amore è conoscenza, sosteneva
Guglielmo di Saint-Thierry, «amor ipse intellectus»,
l’intelletto d’amore di Dante.
Non dei biscotti ha desiderio Francesco, ma della
mano che li porge. Neppure della mano ha bisogno, ma
del cuore che guida la mano.
Il panno, i ceri e i biscotti sono un candido pretesto.
Come l’amato del Cantico dei Cantici, che bussa alla
porta dell’amata: «Aprimi, sorella mia, amica mia, colomba mia, perfetta mia. La mia testa è coperta di rugiada» (Ct 5,2). Ma avere la testa bagnata non è la ragione
per cui l’amato vuole entrare, è ben altro il motivo: è il
desiderio di appartenersi.
Così Francesco ha bisogno di avere accanto Iacopa,
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Il cuore dei preti
perché l’amicizia è una sorgente di vita, perché l’amica
è come un sacramento che trasmette grazia, che aggiunge pienezza a pienezza, per una pienezza del vivere e
insieme del morire. Perché rinforza il cuore nel momento in cui il cuore può venir meno.
L’amicizia è il sacramento più possente, sacramento
di ogni momento, e che possiamo ricevere fino all’estremo (Sorella Maria).
«Se vuoi vedermi ancora vivo...». L’amica è libera,
può ancora sottrarsi. Se vuoi: mendicante d’amore, di
un amore rispettoso e fidente.
«Mentre che questa lettera si scriveva, fu da Dio rivelato a santo Francesco che madonna Iacopa era presso al luogo». Occhi di Francesco quasi ciechi, ma che
vedono oltre, che sanno da sempre l’arrivo di Iacopa.
Il desiderio sa di essere desiderato. L’amico scrive, e la
pergamena è come intrisa di inchiostro e dell’eco di un
ricominciante Cantico dei Cantici: «Vieni, amica mia».
Egli sa, come nel Cantico, che l’amica viene.
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I baci non dati
Conclusione
1. La fede, la santità non sarà mai una diminuzione,
ma un accrescimento di vita. È polifonia dell’esistenza. Acquisire fede è acquisire un incremento d’umano, una intensificazione della vita. Nominare Cristo
equivale a confortare tutta la vita. Non ci interessa un
divino che non faccia fiorire l’umano (D. Bonhoeffer).
Unica vocazione non è adempiere i precetti, ma avere
più vita, in pienezza. Il criterio ultimo di valore è la
qualità delle relazioni, se esse siano vivificanti oppure
mortificanti.
2. Queste amicizie non hanno bisogno di niente, sono
assolute, sciolte da ogni legame che non sia la costruzione di sé nella gioia.
Non devono dichiarare uno scopo che le legittimi o
le giustifichi, non sono amicizie spirituali, sono amicizie e basta, senza aggettivi, senza alibi. Nude. Umane.
Si ama l’amico senza altra ragione che l’essere lui tuo
amico e tu amico suo.
La certezza di essere stato amato un giorno, anche
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Il cuore dei preti
una volta sola, in modo disinteressato, salva dall’ignoranza della vita. E di Dio.
3. Bernardo e Francesco sono tra i coraggiosi, pochi, che si avventurano in quello spazio di mistero e di
rivelazioni, che è lo spazio tra eros e agape. E la fede
ha bisogno dell’eros perché le presti il suo linguaggio,
anche se fatto solo di frammenti, di balbettii, perché il
suo è il solo linguaggio universale che può comunicare
Dio agli uomini come esperienza d’amore.
Saper parlare nel linguaggio dell’amore significa
possedere il dono delle lingue, poter essere compresi
da tutti. «Se tu ascoltassi un istante la lezione del cuore,
faresti lezione ai teologi» (Gialâl ad-Dîn Rûmî).
4. L’eros ha bisogno della fede. La pienezza della
vita, vocazione unica di tutti, non chiede di spegnere
le passioni ma di convertirle. Oggi il discorso su eros
e agape è ridotto a etica, impoverito a morale, tra divieti e sanzioni. Nel Medioevo c’era una teologia delle passioni: come strumento rivelativo. L’eros ha oggi
bisogno di essere custodito, difeso, e di qualcuno che
torni a farlo parlare con il suo vero linguaggio, quello
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I baci non dati
dell’esperienza religiosa, perché «l’obiettivo del desiderio, nel suo slancio originario, è Dio» (O. Clément).
Liberare il desiderio per desiderare Dio. Vi auguro il
desiderio di avere desideri.
Ciò che la fede non custodisce, non ama, non cura
e non difende, ciò che lascia fuori dalla sua porta, diventa oggetto di rapina, come la pecora che il pastore
abbandona, perché «l’eros è la forma più minacciata e
più pericolosa dell’amore, sempre sull’orlo dell’abisso»
(H. Gollwitzer). L’eros ha bisogno della custodia della
fede, del cantus firmus, non per essere regolamentato,
ma per poter fiorire in tutta la sua bellezza.
Testi allegati
Ci sarà un tempo in cui tutti «i baci non dati saranno
dati».
O amore, in terra
lontana...
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Il cuore dei preti
quando i baci
non dati
saranno dati?
(o amore, in terra
lontana...)
ormai migrano
gli uccelli
verso il sud
(o amore, in terra
lontana...)
torneranno domani
gli uccelli
dai mari del sud?
(o amore, in terra
lontana...)
i baci non dati
un giorno tutti
saranno dati:
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I baci non dati
o amore, in terra
lontana!
D.M. Montagna, I baci non dati
Superiore all’affetto non c’è nulla. Val più una goccia
di affetto che un mare di spiritualità. Tutti abbiamo debiti d’amore e quelli dovranno passare sempre innanzi
ai così detti interessi spirituali. Di un segno di affetto
ha estremo bisogno l’animo umano. Si pensa a dare il
pane. Sì. Ma chi domanda pane può non averne bisogno
estremo; di questo pane ha invece bisogno ogni cuore
stanco... E ogni cuore è stanco.
(Sorella Maria)
... sessualità è
trepida cifra di Dio
entro la carne
della storia umana.
Senza il suo fiorire
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Il cuore dei preti
luminoso, opaca resta
ogni vita.
Solo l’incontro verace
di cuori amanti
ci pone alla soglia
del mistero
più fragrante...
D.M. Montagna, Scoperta di umanità
Anche in Dio vivono eros e agape, passione e dono,
attrazione e gratuità.
In questo territorio che sta tra eros e agape, senza fondamentalismi lontani dalla verità della vita, si colloca
l’amicizia. E contiene qualcosa di entrambi.
Non esiste amicizia tra uomo e donna senza una iniziale attrazione, senza una forma di eros primigenio e
redento. Il grande lavoro del cuore consiste nel purificare il fremito di ogni passione appena nata.
C’è una guerra che dura fino alla fine, dice uno dei
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I baci non dati
più grandi uomini spirituali di tutti i tempi, abba Antonio
del deserto, ed è la guerra del cuore. Una guerra in cui la
pace non coincide con la sconfitta dell’avversario.
A esplorare questo territorio intermedio, polemico
per sua natura, i monaci poeti possedevano una vera
teologia della passione amorosa, mentre noi ci accontentiamo di un’etica degli affetti, di una serie di prescrizioni. È urgente che la Chiesa riprenda a trattare i temi
vitali dell’uomo, come il grande dono dell’eros, una
spiritualità che parli al cuore, il posto del corpo, l’al di
là, il rapporto con la natura e il cosmo, facendone una
teologia, riconoscendoli come luogo teologico, e non
riducendoli solo a una morale.
Ogni vivente ha una vita affettiva, parte alta e forte
della sua identità, necessaria per essere felice. Possiamo
negarla, ma non eliminarla. La dimensione degli affetti,
fondamentale per l’equilibrio della persona, necessaria
per vivere (se non amiamo, non viviamo, 1Gv 3,14),
e per vivere con gioia, è un autentico luogo teologico:
l’amicizia rivela qualcosa di Dio.
Ogni vivente nasce come persona appassionata, e
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Il cuore dei preti
quel malinteso spirito religioso che ci spinge a negare
le nostre passioni inaridisce le sorgenti della vita e rende
molti cristiani dei predicatori di cose morte.
Bisogna non tanto soffocare, ma convertire le passioni; non raggelare, ma liberare i desideri per desiderare
Dio. Soltanto chi ama la vita è sensibile al richiamo del
Vangelo: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
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Indice
Prefazione, del card. Carlo Maria Martini
pag.
5
Introduzione, di Marco Garzonio
»
9
La necessità di amare
»
23
»
49
»
59
»
81
di don Gino Rigoldi
“Chi dice donna dice danno?”
di Fulvio Scaparro
I baci non dati
di padre Ermes Ronchi
Eros e creatività
di Marco Garzonio
La paternità sacerdotale
pag. 107
di don Giovanni Barbareschi
Una voce dall’interno
di don Romano Martinelli
Stampa - Società San Paolo, Alba (Cn) - Printed in Italy
» 115
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