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In prima persona... - Consiglio Regionale della Basilicata

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In prima persona... - Consiglio Regionale della Basilicata
“La carrozzina più bella
che io abbia utilizzata era blu:
il colore non era il motivo della sua bellezza,
la cosa che la rendeva speciale
era la possibilità di fare impennate
come su un vero ciclomotore”
Le storie
in
prima
persona
Mi mancava la possibilità
di muovermi autonomamente
Quando cambiai casa e quartiere cominciò un periodo di grande
isolamento, ma anche di grande sofferenza: mi sentivo prigioniera del mio corpo e della mia abitazione.
Sono una persona con disabilità dall’età di 12 anni, a causa di
una poliartrite giovanile. Sono laureata in sociologia. Lavoro
dal 1980 nella formazione professionale.
Dopo la fase acuta della mia malattia ho trascorso dieci anni
della mia vita a letto o seduta.Vivevo in un quartiere del centro storico che, per le caratteristiche della mia abitazione posizionata in un cortile, mi ha comunque garantito l’opportunità di vivere una vita di relazione molto intensa con i miei pari e con le persone adulte con cui quotidianamente ero in contatto. In questo periodo ho letto molto e di tutto, lavoravo a maglia, con l’uncinetto e con il ricamo. Mi ero costruita un mondo di attività che mi faceva sentire serena e a volte anche felice di vivere. Mi mancava comunque molto la possibilità di potermi muovere autonomamente. E quando dopo molti anni a
letto cominciai ad alzarmi, mi vergognavo comunque molto del
mio corpo deformato, ma ancora di più non lo accettava mia
madre. Quando cambiai casa e quartiere cominciò un periodo di grande isolamento, ma anche di grande sofferenza: mi sentivo prigioniera del mio corpo e della mia abitazione. Fu così
che esplose in me il bisogno di autonomia: sentivo di dover conquistare la mia libertà. I percorsi di autonomia attraversarono,
così, molte sfere della mia persona: recuperai la funzionalità
fisica al massimo possibile, sfidando la chirurgia ortopedica che
avrebbe voluto desistere dal restituirmi l’uso delle mie gambe, ripresi gli studi per accrescere il mio bagaglio di saperi, conoscenze e competenze e, finalmente, arrivò il lavoro quale condizione essenziale per la mia autonomia economica e di scelta, per il resto molto fai da te.... nessuna assistenza personale, nessuna possibilità di trasporto per favorire la mia mobilità, l’assoluto niente ha fatto da supporto a questo processo. Non
ritengo, comunque, che questo mio percorso sia stato molto dissimile da quello di tante altre persone anche non disabili, vo31
glio semplicemente affermare che l’utilizzo dei “normali” servizi scolastici, sanitari, formativi e lavorativi per me, da quel momento in poi, sono stati una conquista costruita giorno per giorno, tappa per tappa, poichè nella generalità dei casi, ho scoperto,
c’era scarsa predisposizione ad accogliere i miei bisogni di persona con disabilità.
Pertanto, nel processo verso la conquista della mia autonomia
vi è stata tanta determinazione, in alcuni momenti enorme coraggio, in altri molta solidarietà ed in altri ancora profonda solitudine, sicuramente grossa fatica. Soprattutto la fatica di
continuare ad interrogarsi, senza mai smettere, sulle modalità e sulla necessità di sconfiggere una logica che vede da una
parte la persona disabile, che lotta per affermare il proprio diritto di persona con pari dignità, e dall’altra la percezione che
gli altri hanno di te e che nell’inconscio collettivo stabilisce la
relazione: disabilità uguale disuguaglianza, discriminazione, disparità di diritti e di opportunità.
Vincenza Ferrarese
Melfi
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Mio zio Ezio è una persona unica e disabile
Con lui sto benissimo e gli voglio molto bene: non lo cambierei con
nessun altro.
Anche io conosco persone disabili. Ho uno zio che si chiama Ezio ed è disabile. Lui ama stare in compagnia e trascorre
il suo tempo a chiacchierare, a disegnare, a cantare con noi,
i suoi nipoti.
Quando vado a casa sua, o lui viene da me, non vuole che me
ne vada mai, o che esca con le mie amiche. Lui racconta molte barzellette.
Quando sono insieme a lui e lo vedo così, mi dispiace molto,
perché non meritava questo e nessuno lo merita.
Con lui sto benissimo e gli voglio molto bene: non lo cambierei
con nessun altro.
É una persona unica, sensibile, dolce, allegra, piena di vita proprio come me. Perciò non vedo alcuna differenza e non riuscirei
a vergognarmi di lui.
Serena Franchino
Scuola media di Tricarico
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Ogni giorno vissuto con i disabili è particolare
Per me un loro sorriso vale più di ogni altra cosa.
Il 2003 è l’anno dedicato ai disabili, l’anno in cui si dovrebbe
pensare ed agire di più in favore di queste persone.
Secondo me, si dovrebbe pensare sempre ai disabili, soprattutto quando queste persone vivono con noi.
Io vivo ogni giorno questa esperienza, perché ho due fratelli
ed una cugina che hanno problemi di handicap.
Un giorno particolare passato con loro non mi viene in mente, perché ogni giorno vissuto con loro è particolare; infatti una
cosa che per noi è normale, come camminare o mangiare da
soli, per loro è una cosa diversa.
È particolare ogni cosa che facciamo con loro: ad esempio nel
giocare, nel mangiare, perché non hanno la mano ferma.
Per me un loro sorriso vale più di ogni altra cosa, perché mi
accorgo che mi vogliono molto bene e loro, comunque, hanno molti amici che vogliono loro bene e spesso partecipano alle feste con entusiasmo.
Annalisa Amato
Scuola media di Tricarico
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Voglio essere una locomotiva
La storia di Davide e della sua mancata integrazione scolastica nel
racconto del padre:“ Ho capito ancora più intensamente che l’avere
un figlio in situazione di handicap significa riprendere a lottare per
garantire a lui e agli altri figli in apparenza normodotati di vivere la
scuola come ambito di vita, come luogo di incontro, di studio e soprattutto
di relazione”.
Davide frequenta la prima media. I medici lo hanno classificato come un bambino affetto da atassia e da una sindrome
disgenetica molto rara. La psicologa, pur ammettendo che “è
brutto dirlo”, all’ultimo incontro ci ha detto che è stato seguito
finchè aveva dei miglioramenti auspicabili, ora ciò che è dato è dato.
Quest’anno abbiamo fatto richiesta scritta alla dirigente scolastica di attivare il Gruppo Lavoro Handicap (G.l.h.)di Istituto
con la nostra partecipazione, di compartecipare alla stesura del
Piano Educativo Individualizzato (Pei) e di firmare come genitori tale documento.
Abbiamo avuto un incontro congiunto dove l’insegnante di sostegno ha dato una lettura funzionale di nostro figlio, senza chiederci nulla rispetto a lui, ma aspettando il parere dell’équipe
di neuropsichiatria e della psicologa rispetto alle osservazioni da lui compiute. I termini da lui utilizzati sono stati “psicomotricità”, “riabilitare”, “bimbo molto lento”, rivendicando la
propria conoscenza del mondo dei sub-normali.
Davide ha dodici anni. Come genitori ci siamo sentiti affranti e arrabbiati e questo nostro stato d’animo è stato letto, da parte dell’insegnante curricolare presente, come tipico di persone conflittuali che vogliono controllare la scuola.
Allora come padre ho capito ancora più intensamente che l’avere un figlio in situazione di handicap significa riprendere a
lottare per garantire a lui e agli altri figli in apparenza normodotati
di vivere la scuola come ambito di vita, come luogo di incontro, di studio e soprattutto di relazione.
Sono passati due mesi dall’inizio della scuola (gennaio 2002,
ndr) e ne siamo completamente delusi. Rispetto al “Glh” nessuna risposta, del “Pei” nessuna notizia, ma soprattutto ci
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giungono notizie di corridoio che andremo presto a verificare e chiarire: Davide alcune ore le passa con altri in situazioni di handicap nel “laboratorio di sostegno”. Per altri bambini
la scuola è solo il laboratorio di sostegno. Che tristezza!
Questa maledetta definizione - “laboratorio di sostegno” – ci dice che se anche Davide non andasse a scuola – quella vera che
ha superato le scuole speciali – qualcuno andrebbe a cercarlo?
L’anno scorso, all’uscita della scuola, Davide mi disse una frase che mi lasciò di stucco. Disse che era stufo di essere un vagone e sognava di essere una locomotiva.
Perchè era così complicato avere con la scuola, con i servizi neuropsichiatrici, dei tavoli di lavoro dove discutere, ragionare e
progettare insieme a noi genitori percorsi di integrazione
scolastica e sociale,da cui nessuno può pensare di tornare indietro?
Un bambino in situazione di handicap ha bisogno di una
speciale normalità, non solo di interventi speciali.
Giona Cravanzola - Legnago
Redazione di SEMPRE
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Il mondo ha paura della diversità...
La storia di Alessandro nel racconto dei genitori adottivi: “Abbiamo
molto battagliato e combattuto con grande determinatezza al suo
fianco, per aiutarlo ad essere accolto, accettato e integrato”.
Alessandro è stato trovato che aveva all’incirca un anno di vita, completamente abbandonato sotto una panchina del dispensario delle Suore Salesiane di un piccolo paese in Haiti
(Caraibi), nel novembre del 1990. Era molto grave, denutrito,
varie ferite nel corpo. Ricevette le prime cure e poi la Suora
responsabile della struttura trovò una nutrice che si occupasse
di lui. Telefonò a noi, chiedendoci se desideravamo accogliere Alessandro e quindi avviare le pratiche per un’adozione internazionale.
Abbiamo detto subito sì ad Alessandro, l’accogliemmo tra le
nostre braccia e nella nostra casa dopo sei mesi, nel giugno del
1991. E’ il primo dei nostri 4 figli. Con lui abbiamo adottato anche Marinella, di un anno più giovane di Alessandro, e dopo
4 mesi dal loro ingresso nella nostra famiglia mia moglie
Paola partorì Anna. Diventammo, così, nel 1991, in pochi mesi, da giugno a ottobre, genitori di tre figli, nel progetto genitoriale adottivo e naturale.
Dopo due anni abbiamo desiderato e concepito responsabilmente Mariachiara, figlia desiderata e preziosa quanto gli altri.
Alessandro è stato sempre un bambino stupendo, gioioso, solare, trasparente, affettuoso, con un grandissimo bisogno di essere amato, ma un bambino sempre in movimento, mai fermo,
con la testa sempre altrove, mai attento a niente. Fin dalla scuola materna, aveva grandi difficoltà a portare a termine le consegne date, stare dentro le regole, intessere buone e serene relazioni con i coetanei. Ma la bomba scoppiò quando fece l’ingresso alla scuola elementare. Lì rivelò nella sua totalità tutti
i bisogni interiori, psicologici, affettivi, relazionali. Un bambino
con una grande iperattività, con un grave deficit dell’attenzione.
Tutto ciò gli creava grande difficoltà nel comportamento, nelle relazioni con i bambini, le insegnanti e tante volte degenerava in aggressività verbale e anche fisica. Emersero anche difficoltà dell’apprendimento e una lieve epilessia.
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Alessandro era la grande preoccupazione delle insegnanti, del
dirigente scolastico, dei catechisti...
Come genitori abbiamo molto battagliato e combattuto con grande determinatezza al suo fianco, per aiutarlo ad essere accolto, accettato e integrato.
Abbiamo capito che il mondo che hai intorno ha paura della
diversità; rifiuta i diversi, i problematici, gli handicappati. È più
facile eliminare, puntare il dito, accusare, usare la cattiveria, anziché tirarsi su le maniche e aiutare, comprendere, accogliere, amare, essere vicino, solidali.
Ora Alessandro ha quasi 14 anni. È stato analizzato a valutato in questi anni da tanti “esperti”, ma nessuno aveva mai parlato di ADHD. Poi, il caso. Leggiamo un articolo scritto da Giulia
e Raffaella D’Errico, autori del “Progetto ADHD Parents for
Parents” e identifichiamo subito in quei sintomi quelli del nostro Alessandro. Nasce così in noi la speranza, dopo esserci rivolti al Centro di riferimento più vicino. Alessandro sarà monitorato e seguito. Speriamo che tutto ciò possa portare in
Alessandro maggiore autostima, serenità, buone relazioni con
i compagni e non farlo trovare di fronte al rifiuto da parte dei
genitori dei compagni e alle paure da parte degli insegnanti.
Anche noi genitori, lo speriamo, respireremo un po’ di più.
Puntiamo sul positivo. Crediamo che tutto quello che abbiamo vissuto, anche se con fatica e sacrificio, ci ha aiutati a crescere, ci ha fortificati come persone, come coppia, come famiglia.
Franco e Paola Crivellari - Rosolina (Ro)
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Un sogno d’amore
A circa 14 anni mia figlia Down si è perdutamente innamorata dei
componenti di un famoso complesso musicale. A tutti racconta il
suo grande amore per questi uomini e, per buona pace dei benpensanti,
aggiunge sempre che, anche se li ama tutti e quattro, ne sposerà
uno solo: l’unico scapolo.
Mia figlia è una persona Down; aveva 10 anni quando è comparso il ciclo mestruale. In casa nostra non ci sono falsi o veri tabù, io stessa non ho mai avuto remore a mostrarmi a mia
figlia, quindi sapeva quello che doveva aspettarsi quando sarebbe diventata grande, per questo ha accettato le mestruazioni
con grande naturalezza.
A circa 14 anni si è perdutamente innamorata dei componenti
di un famoso complesso musicale ed è iniziato il suo Grande
Sogno.
A tutti racconta il suo grande amore per questi uomini e, per
buona pace dei benpensanti, aggiunge sempre che, anche se
li ama tutti e quattro, ne sposerà uno solo: l’unico scapolo.
Questo dimostra, a mio avviso che, se certi concetti sono per
lei troppo astratti, come possono esserlo le regole della nostra
morale, è comunque in grado di cogliere le norme su cui si basa la nostra società.
Contemporaneamente all’innamoramento è comparsa un’improvvisa timidezza nei confronti dei suoi coetanei maschi, timidezza dovuta sia ad una nuova consapevolezza di sè, sia ad
un vago senso di inadeguatezza nei loro confronti; mia figlia
è una ragazza carina e molto piacevole e devo confessare che
la comparsa in lei dei sintomi del risveglio dei sensi mi preoccupava un pò.
Questa timidezza e il suo innamoramento nei confronti dei suoi
musicisti preferiti l’ha posta al riparo dalle avances che i suoi
compagni di scuola manifestavano nei suoi confronti. All’epoca
lei frequentava una scuola di formazione professionale per ragazzi disabili.
Mi rendo conto che questo sogno d’amore chiude mia figlia in
un mondo tutto suo e le vieta di avere rapporti affettivi con ragazzi reali, ma lei è felice ed io, pur cercando di attirarla nel no39
stro mondo attraverso altri stimoli, non la forzo ad avere conoscenze che potrebbero metterla in imbarazzo. Ritengo mia
figlia sufficientemente cosciente e aperta nei miei confronti da
chiedermi aiuto, se mai comparisse in lei l’esigenza di frequentare
ragazzi della sua età.
Ma il problema non si limita ad avere un amore, il problema
più grosso è come aiutarla a viverlo in modo soddisfacente, questo amore, ed ho constatato che anche un sogno può riempire la vita; d’altra parte anche a noi persone comuni capita di
vivere amori fatti d’illusione.
Mia figlia riesce ad articolare il suo sogno vivendolo come se
fosse reale e, attraverso la sua personale lettura della realtà che
la circonda, riesce a vivere il suo amore virtuale in tutti i suoi
aspetti. Per esempio, si è resa conto che per essere una buona moglie doveva imparare a cucinare e a rigovernare la casa,
poi si è chiesta come sarebbe stata la sua casa e che mobili l’avrebbero arredata.
E non solo questo.
Ad un certo punto, molte tra le mie amiche sono rimaste incinte. Mia figlia ha colto subito il rapporto “amore-matrimonio-figlio”, perciò un giorno mi si è presentata davanti e mi ha
detto: “Mamma, io voglio un figlio”.
Shock, panico, terrore!
Dopo un attimo di smarrimento - vi garantisco che stava parlando seriamente – ho esclamato: “Oh no, sono troppo giovane per diventare nonna, aspetta ancora un po’, ti prego!”.
Per fortuna lei associa la figura della nonna ad una persona anziana con i capelli bianchi, perciò si è messa a ridere e mi ha
dato ragione. Io ho tirato un sospiro di sollievo.
Il giorno dopo, però, si è precipitata in libreria e si è comprata tutti i libri disponibili su gravidanza, parto e svezzamento.
Anch’io mi sono precipitata in libreria e le ho comprato libri
di educazione sessuale adatti alla sua età mentale; poi, facilitata dalla mia preparazione professionale e dalla presenza in
casa di libri di anatomia, ho cercato di spiegarle come nascono i bambini.
Non so con certezza quanto abbia capito, conto sulla grande
confidenza che c’è tra noi per correggere gli errori e sedare gli
slanci, con la più grande naturalezza possibile.
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Ogni notte mia figlia sogna, dormendo, i suoi innamorati ed
è probabilmente durante uno di questi sogni, o nel dormiveglia, che ha scoperto l’autoerotismo.
Io non ho avuto il coraggio di insegnarglielo, ma sono felice
di sapere che è arrivata a scoprirlo da sola; questo per me è un
segnale che mi dà la misura di quanto lei sia consapevole del
proprio corpo e mi dice che, da sola, sa capire e gestire i
messaggi che le invia il piano fisico.
Naturalmente la situazione non è sempre idilliaca.
Ci sono dei momenti di crisi, dovuti anche alle difficoltà che
le capita di incontrare nel suo cammino, che determinano il
bisogno di avere fisicamente vicino la persona amata; in questi momenti non le basta più sognare il suo innamorato, vorrebbe che lui arrivasse e la portasse via, per vivere insieme una
favola d’amore.
A volte mi dice: “So che quando mi sposerò tu sarai triste e sola, ma ognuno deve vivere la propria vita con la persona che ama”.
Questi sono per me momenti di sofferenza, perché so che questo sogno non si avvererà mai…Non escludo la possibilità che
un giorno mia figlia possa conoscere un ragazzo come lei, innamorarsi di lui, sposarlo e vivere così l’amore in tutti i suoi
aspetti, come persona normale, ma attualmente questa possibilità è recondita, essenzialmente per due ragioni: dubito che
lei rinunci al suo sogno perché ne è appagata; non vedo momenti di socializzazione sufficientemente allettanti, dal suo punto di vista, che possano fornirle l’occasione di conoscere ragazzi adatti a lei e non so fino a che punto posso augurarmi che
questo accada.
Grazie al “sogno d’amore” di mia figlia anch’io sono al sicuro da preoccupazioni più reali, quindi, per ora le lascio vivere questa fantasia.
Secondo me questo amore virtuale ha comunque impresso alla vita di mia figlia una forte spinta evolutiva; dal punto di vista fisico l’ha portata a conoscere il proprio corpo e a scoprirne
le potenzialità e le funzioni; dal punto di vista emotivo la
spinge ad esplorare una vasta gamma di sentimenti; la sua mente poi viene stimolata a trovare soluzioni autonome ai problemi
quotidiani e il suo spirito non può che trarre vantaggio da questa massa, sempre in movimento, di esperienze.
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Per ora, in mia figlia, questo sogno soddisfa il bisogno d’amore
presente in ogni essere umano e quando arrivano i momenti
difficili, quelli che nessun “libro” può lenire e io non so più che
fare, adotto il metodo più antico del mondo: la abbraccio e la
amo di più.
Maura Cattanei
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