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Amatevi gli uni gli altri... lettera del parroco alla comunità

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Amatevi gli uni gli altri... lettera del parroco alla comunità
PARROCCHIA SAN BASILIO - SAN DOMENICO
REGALBUTO (EN)
Amatevi gli uni gli altri
Lettera ai parrocchiani sul senso di appartenenza alla comunità ecclesiale
e sull’urgenza di promuovere relazioni fondate sull’amore
Carissimi parrocchiani,
dopo aver sottoposto alla vostra attenzione le osservazioni sull’andamento della vita parrocchiale,
mi rivolgo ancora una volta a tutti voi con la presente lettera. Con essa vi invito a riflettere sul senso
dell’essere comunità parrocchiale, sulla sua importanza, la sua necessità. In un tempo come il nostro
in cui vanno crescendo a dismisura le tendenze individualistiche, cioè quegli atteggiamenti che
esasperano i comportamenti personali privandoli di ogni riferimento all’altro, mi sembra quanto mai
opportuno ricordarci che essere comunità «consiste nel non essere più semplicemente uno vicino
all’altro, ma nell’essere uno presso l’altro, in una esperienza di reciprocità, in un dinamico flusso
dell’io al tu»1.
Spero che questa lettera, che vi giungerà prima della Quaresima, possa diventare oggetto di
riflessione, confronto e approfondimento non solo nelle vostre famiglie, ma anche in piccoli gruppi
che appositamente si organizzeranno in tutto il territorio della parrocchia per riunirsi e discuterne il
contenuto. Si chiarirà così meglio il cammino che, come battezzati, dobbiamo percorrere e la meta a
cui siamo chiamati.
Desidero con tutto il cuore che possiate crescere nella grazia di Dio, nell’esperienza dell’amore del
Signore Gesù che per noi ha dato la vita e giungere a sperimentare la forza della sua risurrezione.
1. Sento di appartenere ad una comunità?
Poiché siamo diventati cristiani formiamo un solo corpo, un’unica grande famiglia: la Chiesa. La
Chiesa, innanzi tutto, è una perché uno è il suo Signore, Gesù Cristo; è santa perché è il corpo di
Cristo, è la sposa che Egli ha legata a sé con il dono della sua vita; è cattolica cioè universale; è
apostolica, cioè fondata sulla fede degli Apostoli che sono stati i primi testimoni di Gesù Cristo.
Oltre alla sua dimensione universale la Chiesa vive una sua dimensione locale: è la Chiesa
diocesana dove sussiste la Chiesa di Cristo. La Diocesi, a sua volta, si articola, per questioni
organizzative e pastorali, nelle comunità parrocchiali. Noi viviamo nella comunità parrocchiale San
Basilio e San Domenico, a Regalbuto, nella diocesi di Nicosia di cui è attualmente vescovo,
successore degli Apostoli, Mons. Salvatore Muratore.
Qualche domanda: Sento di appartenere alla Chiesa universale di cui suo capo visibile è il Papa,
successore dell’apostolo Pietro, Benedetto XVI? Mi sento suo membro vivo? Sento di appartenere
alla Chiesa che vive nella nostra diocesi di Nicosia? Mi sento membro vivo della Chiesa che vive
nella sua dimensione parrocchiale di San Basilio e San Domenico qui a Regalbuto? Mi sento
gloriato di questa appartenenza, appassionato, attivamente partecipe?
Non ci vuole molto per capire, purtroppo, che molti cristiani non si sentono parte viva della Chiesa,
non avvertono l’appartenenza ad una comunità particolare e quindi non vi partecipano, ed in tal
modo la privano dell’apporto di doni, di vitalità, di ricchezze personali che andrebbero messe a
sevizio di tutti. Ci chiediamo allora: a che cosa serve una ricchezza personale di qualsiasi natura
essa sia, se non viene utilizzata e resa disponibile? Ciò che è destinato al servizio di tutti ma viene
1
Martin Buber, in Oreundici, novembre 2009, p. 10.
1
impiegato per scopi unicamente egoistici diventa inevitabilmente strumento di ogni sorta di danno,
di colpa, di male.
L’uomo è radicalmente, strutturalmente un essere sociale. Esso non può vivere se non all’interno di
una comunità. Ogni comportamento individualistico – cioè vivere pensando solo a se stessi, al
proprio benessere, ai propri interessi, facendo del proprio modo di pensare e di agire l’unico punto
di riferimento – produce solamente divisioni, sfruttamenti, contrasti, guerre, morte.
2. Che cosa è una comunità?
La parola comunità deriva dal termine communio che può essere inteso secondo due sensi. Se lo si
fa derivare dal termine cum-munio significa: difendersi insieme; se invece lo si fa derivare dal
termine cum munus, significa: mettere insieme i propri doni. Questi due significati non sono
separabili e riassumono il senso di ogni comunità. Ogni comunità è l’ambiente dove si riceve
accoglienza, protezione e nello stesso tempo si mettono in comune i propri beni, le risorse umane e
spirituali per il bene comune. Cioè si realizzano nella comunità quelle condizioni ottimali nelle
quali ogni singolo membro può pervenire serenamente allo sviluppo della sua maturità e
all’acquisizione di condizioni indispensabili a una vita dignitosa e sicura. I due significati
sostanziano il senso di ogni comunità a cui ognuno di noi appartiene: quella familiare, quella
sociale, quella del lavoro, quella del tempo libero e quella della nostra crescita umana e spirituale.
Quest’ultima è quella di cui voglio parlarvi.
La comunità naturale di fede è la propria parrocchia. Oggi sono sempre più diffuse altre comunità di
appartenenza che vengono scelte per la qualità di quello che offrono sul piano spirituale. Ma è sul
nostro essere comunità parrocchiale che voglio intrattenermi con voi. Quando si parla di vita di
comunità spesso si va alla ricerca di una comunità perfetta, ideale. Molti immaginano di trovare una
comunità irreale dove tutti sono perfetti e quando sperimentano che gli altri hanno gli stessi propri
limiti, scontenti e delusi per non avere trovato la perfezione, lasciano.
Perché cerchiamo la perfezione negli altri e molto meno in noi stessi? Dovremmo invece
concentrarci sulle persone più significative della nostra vita con le quali abitualmente ci
incontriamo, viviamo le nostre giornate, scambiamo i nostri pensieri e che costituiscono l’ambiente
spontaneo in cui siamo chiamati ad essere elemento di comunione, a cui dobbiamo offrire le nostre
ricchezze e lo stimolo verso la creatività. Una comunità parrocchiale come la nostra, che a sua volta
è formata da tante piccole comunità familiari, può diventare il sale che dà sapore e senso ai fatti
della vita personale e sociale e operare un reale cambiamento arricchendo di nuovi stili operativi la
difficile realtà storica in cui viviamo.
3. Costruire prossimità: le relazioni sono sempre più astratte e malate
Non possiamo non accorgerci che le relazioni interpersonali che viviamo sono sempre più astratte e
direi anche malate. Quale posizione occupano gli altri nella mia vita? Le risposte a questa domanda
possono essere molteplici a secondo del rapporto che noi abbiamo con le persone che incontriamo
nella nostra vita. Se gli altri li abbiamo in simpatia allora le relazioni diventano gradite,
appassionanti, quasi da non poterne fare a meno: abbiamo bisogno della compagnia altrui e se
manca la cerchiamo a tutti i costi. Non si può accettare di stare soli perché l’uomo è un essere
sociale, relazionale. Ma se gli altri con i quali inevitabilmente si incrocia la nostra quotidianità sono
degli estranei, delle persone che incontro casualmente nell’inevitabile intrecciarsi di rapporti che la
vita sociale ci presenta, le cose vanno diversamente. Se poi gli altri sono gli stranieri che vengono
ad occupare il nostro territorio, gli emarginati della nostra moderna e progredita società, coloro che
hanno bisogno di particolari cure e attenzioni che richiedono tempo e rinunce, allora le cose stanno
molto diversamente. E se siamo poi sollecitati, da qualche evento, ad alzare lo sguardo e dare
un’occhiata al mondo, ci accorgiamo di quante altre gravi problematiche passano sotto i nostri
occhi: sottosviluppo, fame, sfruttamento dell’uomo fino all’inverosimile, il proporsi e il riproporsi
2
di malattie devastanti, danni climatici causati dal crescente inquinamento e dallo sfruttamento
sempre più aggressivo del territorio, le stragi dimenticate. Tutto questo meriterebbe la nostra
attenzione ma spesso ci chiudiamo a riccio lasciando tutto questo dentro il freddo televisore o nel
cestino che raccoglie la carta dei nostri giornali. (Mah…? Devo essere proprio io a risolvere i mali
del mondo?) Proviamo a fare attenzione alla qualità delle relazioni che viviamo con gli altri. Non vi
sembra che va crescendo l’indifferenza, il fastidio di dare tempo gratuitamente agli altri? Non vi
sembra che l’aggressività nei rapporti sociali – da quella verbale a quella fisica - è in aumento
insieme alle volgarità, alle insulsaggini? Non vi sembra che la stragrande maggioranza della gente
oggi vada alla ricerca dei propri diritti senza mai chiedersi quali siano i propri doveri?
È proprio vero: le relazioni diventano sempre più astratte e malate.
Va sempre crescendo la ricerca del bene individuale a discapito del bene collettivo: basta guardare
come trattiamo le cose che sono della collettività. Tutti conosciamo bene un modo di pensare
abbastanza comune: “la cose di tutti sono di nessuno”. E che dire ancora della crescita esponenziale
della febbre del gioco, del ‘gratta-e-vinci’, di tutti i tipi di scommesse? È stata creata la terribile
illusione che vincere è facile e sicuro a che così si possono risolvere tutti i problemi legati
all’incertezza del futuro.
A questo punto sorge una domanda: da dove viene tutto questo? Da dove hanno origine questi
atteggiamenti negativi? Ci possono essere molte risposte ma credo che la radice di tutto stia nel
fatto che l’uomo moderno già da parecchi decenni si sia emancipato da Dio. Una certa filosofia del
secolo scorso, che affonda le sue radici nel XIX secolo, ha lanciato il grido di liberazione:
Finalmente Dio è morto!, finalmente ci siamo emancipati dalla religione! la Chiesa resterà solo per i
pavidi, i timidi, per coloro che temono la morte e che vogliono dipendere dal potere clericale. Così
sì è andato modellando un uomo che non vorrebbe dipendere più da nessuno se non da se stesso e
dai suoi desideri, e che l’unico limite che si dà è quello impostogli dal possesso dei mezzi per
raggiungere gli scopi che si propone: voglio, posso, faccio. Non ha più importanza se quello che
desidero risponde ad un’etica, non ha più importanza se quello che faccio procura del danno agli
altri: è sovrano il mio desiderio di potere e niente e nessuno deve mettersi sulla mia strada,
altrimenti… Così è nato il super uomo. E questo super uomo non ha fatto altro che scatenare scenari
rabbrividenti che, purtroppo, ben conosciamo. E cos’altro ancora si sta preparando?
Ce ne dobbiamo preoccupare? Direi proprio di si.
Nel nostro tempo c’è in corso una nuova terribile epidemia che rischia di annientare la razza umana.
No, non è l’ennesima preoccupante influenza virale che colpisce il corpo umano. Questa di cui vi
parlo colpisce l’animo umano e si diffonde con una rapidità impressionante. L’origine di questa
malattia è nel cuore umano. Il nome di questa “pandemia” è: non abbiamo più nessuno da amare2.
È stata contaminata la sostanza dell’uomo, cioè è morto l’uomo e resta soltanto la sua maschera, un
involucro senza anima. La morte di Dio ha causato la morte dell’uomo. Non è possibile scindere
l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo. Uccidendo Dio abbiamo ucciso il prossimo e
uccidendo il prossimo abbiamo ucciso Dio. Le prime numerosissime vittime di questa pandemia dei
tempi moderni sono i nostri giovani, generati in un contesto in cui l’amore è relegato nel mondo
della virtualità.
Noi “cristiani” siamo dentro tutto questo e ne siamo anche la causa principale visto che la
stragrande maggioranza ci professiamo tali. Come facciamo a conciliare questi atteggiamenti
negativi che contraddistinguono le nostre relazioni con l’esigenza posta da Gesù a farsi prossimo di
chi incontriamo sulla strada? La parabola del buon samaritano appare come una testimonianza
lontana nel tempo e nel cuore. Noi, i cristiani, abbiamo la responsabilità di avviare un forte
cambiamento di rotta a andare vigorosamente contro corrente, se vogliamo vaccinare questa società
e immunizzarla da questo terribile virus della mancanza di amore. Gesù ha lasciato noi uomini,
credenti di oggi, come a conclusione della sua vita terrena con il piccolo drappello dei discepoli, a
2
A. Paoli, in: Oreundici, novembre 2009, p. 4.
3
continuare la sua opera nel mondo. Il mondo, l’umanità, deve raggiungere un compimento che
consiste nel realizzare il massimo grado dell’amore così come Gesù ce lo ha comandato e insegnato
con la testimonianza inequivocabile della sua intera vita. Noi battezzati abbiamo la grave e oggi
urgente responsabilità di indicare questa strada non più con le sole formule della fede ma anche con
la testimonianza della vita. Non basta credere, bisogna anche amare. Gesù nel suo lungo discorso
d’addio, così come ce lo ha lasciato l’evangelista Giovanni ha detto:
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi.
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete
miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa
quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici perché tutto ciò che ho udito dal
Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me. Ma io ho scelto voi e vi ho
costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che
chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni
altri (Gv 15, 12-17).
Non più servi ma amici? Si, vedete a quale grado di intimità Gesù ci ha introdotti? E l’amico è colui
al quale possiamo ricorrere nel bisogno sicuri che lo troveremo pronto ad aiutarci. E allora
ricorriamo a Lui per ottenere la guarigione da questa terribile malattia, della mancanza di amore, di
cui soffre oggi il mondo.
4. Costruiamo una comunità nuova
A questo punto, cari fratelli e sorelle, dobbiamo considerare l’impegno che ci compete come
comunità cristiana, come Chiesa che vive in questa porzione di mondo ma che è dentro il mondo e
che è espressione dell’intero Corpo di Cristo. Sappiamo bene che quanto viene prodotto di buono in
una parte del corpo non rimane circoscritto in quella parte ma entra in circolazione nel tutto. Siamo
consapevoli, quindi, del fatto che quanto di buono metteremo in atto nella nostra seppur piccola
esperienza di comunità parrocchiale non solo produrrà del bene in noi ma anche nell’intero corpo
ecclesiale e nell’intera umanità. Per far questo dobbiamo diventare consapevoli che tutta la vita
pastorale della comunità parrocchiale deve essere unitaria e programmata a realizzare questo nobile
e urgente compito: scongiurare il contagio della grave pandemia della mancanza di amore. Dagli
impegni più semplici alle attività più impegnative tutto deve tendere a questo: riscoprire e far
riscoprire che ogni uomo - dal più piccolo al più grande, dal più povero al più ricco, dall’emarginato
al più integrato, dal malato al sano - è un fratello da amare. E per fare questo dobbiamo rivolgere
tutta la nostra attenzione a Gesù ed imparare da lui. Se non riscopriamo il suo modo di amare e non
lo facciamo diventare anche il nostro, ogni nostra attività, ogni iniziativa pastorale è destinata al
fallimento e provocherà una maggiore diffusione del virus di cui stiamo parlando. Amare come ha
amato Gesù è l’unico modo per salvare il mondo. Noi cristiani, dunque, abbiamo una responsabilità
più grande di qualunque altro uomo sulla terra:
Fate attenzione a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto
anche ciò che crede di avere (Lc 8, 18).
Se non portiamo il frutto di un amore nuovo per che cosa saremmo stati scelti e costituiti?
Se amate quelli che vi amano, che merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se
date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche
i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste (Mt 5, 46-48).
Quanto è importante che poniamo l’attenzione su quel “voi”. Il Signore Gesù si rivolge proprio a
noi: questo pronome contiene tutta la forza della nostra elezione ad essere suoi discepoli; contiene
tutta la pregnanza indicativa rivolta a coloro che appartengono alla sua compagnia; sta ad indicare
coloro che hanno abbandonato tutto per seguire il Maestro e percorrere la via nuova, la via del
cristianesimo. Il “voi” non sta ad indicare la cerchia ristretta di un gruppo di privilegiati, chiuso
nella ricerca del proprio benessere spirituale, che creano un ambiente isolato sordo al grido
4
dolorante dell’umanità. Il “voi” rimanda al mandato che il Signore stesso darà al termine della sua
vita terrena, prima di ritornare al Padre:
Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà
battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che
accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demoni, parleranno
lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà
loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno (Mc 16, 15-18).
Tutta l’azione pastorale allora è veramente tale quando permette agli uomini di incontrare Gesù.
«Noi cominciamo a incontrarci con Gesù quando la nostra fiducia in Dio uguaglia la sua, quando
crediamo nell’amore com’egli credeva, quando ci avviciniamo a chi soffre come lui si avvicinava,
quando difendiamo la vita come lui la difendeva, quando vediamo gli altri con il suo sguardo,
quando affrontiamo la vita e la morte con il suo coraggio, quando contagiamo la buona notizia
come egli la contagiava»3.
Mentre vi scrivo questa lettera, è già trascorso il 25° anniversario del mio sacerdozio (Regalbuto, 22
dicembre 1984-2009) e ringrazio il Signore di avermi conservato nella sua amicizia che sento
sempre più forte e profonda. Sin da giovane ho scelto di seguire Gesù, è stato sempre il mio punto
di riferimento, l’unico grande amore della mia vita. Non ho mai “divorziato” da questa scelta
anche se mi sono sentito peccatore, anche se spesso mi sono addormentato come i suoi amici. So
che ancora ho tanto da capire, da crescere nell’amore e c’è una responsabilità pastorale che devo
portare a termine, non da solo, ma insieme a voi tutti, cari parrocchiani, facendo crescere la nostra
comunità nelle dimensioni che lo Spirito Santo le darà di raggiungere. Il nostro cammino certo non
comincia adesso, il cristianesimo a Regalbuto esiste da decine di secoli, arricchito dalla
testimonianza di innumerevoli uomini e donne di fede, religiosi e sacerdoti che si sono man mano
susseguiti fino ai nostri giorni. Però il nostro tempo ci chiede una rinascita della vita cristiana, un
profondo rinnovamento perché possiamo tornare ad onorare la croce di Cristo con la risurrezione
dell’amore e della prossimità. Ho fatte mie delle bellissime parole di Don Arturo Paoli, piccolo
fratello di C. de Foucauld, che qui vi riporto perché, come saggi consigli, possiamo assimilarli:
«Dovremmo servirci degli strumenti della tecnica esclusivamente come strumenti di lavoro;
dovremmo mettere in allarme i genitori che i bambini oggi sono martirizzati, che in questa società
c’è un attacco furibondo all’infanzia. Mettere un bambino davanti a un videogiochi tutta la giornata
è un delitto (Pietro Barcellona). Dovremmo sederci il meno possibile davanti allo schermo
televisivo coscienti che la televisione è astutamente usata per farci accettare passivamente le
peggiori trasgressioni della giustizia, senza sentire la minima pena di far transitare il popolo italiano
in un tempo che è il più decadente della sua storia secolare, almeno pensando al tempo in cui il
nostro popolo è diventato un’unica nazione. Dovremmo curare degli incontri di giovani dei due
sessi con la finalità di contribuire alla redenzione dell’umanità creando in loro il fascino della
“responsabilità”, l’orgoglio di mettere la loro vita al servizio di una liberazione dell’amore esiliato e
dimenticato. La nostra storia risorgimentale ci dovrebbe ricordare il risveglio della gioventù per una
causa ben meno significativa di quella cui attualmente anela tutta l’umanità. Dovrebbero essere
capaci di sconfiggere il sesso consumista che è la peggiore droga e una delle cause fondamentali
dell’effetto della lontananza dall’amore, causa di morte dell’amore…»4.
Chi di voi mi conosce meglio sa che spesso mi sono soffermato su questi argomenti. Credo che sia
arrivato il tempo in cui tutti coloro che crediamo di conservare la fede ci impegniamo a pregare non
solamente per pregare ma con la precisa intenzione di salvare l’amore dalla sua morte, e quindi di
salvare ogni uomo che è stato infettato da questa nefasta epidemia di cui non c’è alcun antidoto se
non il Vangelo. Vi ricordate le parole di Gesù: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non
crederà sarà condannato»?
3
4
Dalla prefazione del libro Jesus, Pagola, PPC, in Oreundici, novembre 2009, p.5.
(Oreundici, novembre 2009, p. 6).
5
Dobbiamo impegnarci a riflettere sull’argomento di questa lettera e comprendere l’importanza della
comunità, centro propulsore di vita, tessuto di relazioni, luogo della condivisione dei beni di ognuno
e luogo dove tutti sono custoditi, in special modo i più piccoli e più deboli. Bisogna che ritorniamo
a riflettere sull’importanza dell’amicizia che, riscoperta e vissuta come prima conseguenza
dell’amore, ci consente di uscire dall’atteggiamento della sfiducia verso il prossimo, dalla paura, dal
sospetto, facendoci così tessere rapporti costruttivi, prudenti, veri, onesti, retti. Bisogna pregare ed
impegnarsi perché le nostre famiglie ritornino ad essere quegli spazi comunitari vitali che oggi
vanno mancando sempre di più e la cui mancanza provoca un crescente disagio nella vita dei
giovani, superando disgregazione e aggregazioni raggiunte solo strumentalmente alla vita
quotidiana. Non si può negare ai giovani, che non hanno scelto loro di nascere, ma che come si dice
sono frutto dell’amore dei genitori, lo spazio, l’aria, la gioia di esistere insieme, la passione di
vivere secondo un senso preciso.
5. Conclusione
Gesù rimane il nostro insuperabile Maestro: Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. È alla
sua scuola che dobbiamo tornare con pronta decisione. Se ci allontaniamo da questa via di
apprendimento e di conversione, faremo un cammino rovesciato: anziché rinascere come comunità
di fede al servizio dell’umanità intera e del Regno di Dio regrediremo ad “agenzie del sacro”, a
“distributori di servizi religiosi”, e non certo a comunità che provocano la crescita e la maturità
dell’uomo. Siamo chiamati a convertirci, non con un semplice atto in cui rimangono
superficialmente coinvolti i nostri sentimenti, ma rimettendo in discussione noi stessi cominciando
da quelli che per primi frequentiamo assiduamente la parrocchia. Non possiamo chiedere la
conversione agli altri se prima non diventiamo una “Chiesa” di persone che vogliono cambiare vita.
Sono Chiesa coloro che hanno un desiderio forte di conversione, coloro che riportano al centro della
loro vita la Parola di Dio, la comprensione e l’attuazione dello stile di Gesù Cristo e l’adesione alla
sua Persona. La Chiesa non è una comunità di “perfetti” ma di persone consapevoli dei propri limiti
e dei propri peccati e che per questo, ogni giorno, invocano il perdono di Dio e celebrano il
Sacramento della Redenzione, l’Eucaristia. Essi sono coloro che riportano al centro della loro
attenzione la lettura della storia, «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini
d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono»5.
Non una Chiesa di elite, né una Chiesa di massa, ma una Chiesa che diventi un vero popolo di
fratelli e di sorelle:
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati,
quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo
Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti
(Ef 4,4-6).
Saluto ognuno di voi augurandovi di realizzare in pieno la vostra vita perché i doni che il Signore vi
ha concesso possano giungere a maturazione, non solo per la vostra gioia ma anche per il bene di
tutta la nostra comunità, della Chiesa e del mondo intero.
Regalbuto, 10 gennaio 2010
Festa del Battesimo del Signore
P Alessandro Magno
5
Gaudium et spes, n. 1
6
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