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IL PRIVATE EQUITY IN TEMPO DI CRISI
Corso di Laurea magistrale in Amministrazione, Finanza e Controllo Prova Finale di Laurea IL PRIVATE EQUITY IN TEMPO DI CRISI Relatore Ch.mo Prof. Giorgio Stefano Bertinetti Correlatore Ch.mo Prof. Ugo Rigoni Laureando Francesco Meneghello Matricola 987054 Anno Accademico 2012 / 2013 1 INDICE IN T R O D U Z IO N E ........................................................................................... 3 P A R T E 1 : IL M E R C A T O D E L C A P ITA L E D I R IS C H IO ............................................. 6 1 . L 'A T T IV IT À T IP IC A D E G L I O P E R A T O R I D I PR IV A T E E Q U IT Y .............................. 7 1 .1 . O R I G I N E E F I N A L I T À D E L L ’A T T I V I T À D I P R I V A T E E Q U I T Y ................................................. 8 1 .1 .1 . L ’a m b ito E u ro p e o .................................................................................................... 8 1 .2 .2 . L ’a m b ito ita lia n o .................................................................................................... 9 1 .2 . G L I O B I E T T I V I D E L P R I V A T E E Q U I T Y ................................................................................ 10 1 .3 . L A C L A S S I F I C A Z I O N E D E L L E O P E R A Z I O N I D I P R I V A T E E Q U I T Y ....................................... 12 2 . L 'A T T IV IT À D I F U N D R A IS IN G . .................................................................... 1 5 3 . IL P R O C E S S O D I IN V E S T IM E N T O . ............................................................... 1 9 4 . IL R IS C H IO D E L L ’IN V E S T IM E N T O N E L P R IV A T E E Q U IT Y . ................................ 2 4 5 . S T R U T T U R A O R G A N IZ Z A T IV A D E I F O N D I D I P R IV A T E E Q U IT Y ........................ 2 9 6 . L E T IP O L O G IE D I F O N D I D I P R IV A T E E Q U IT Y ............................................... 3 3 7 . L 'E V O L U Z IO N E D E L M E R C A T O IT A L IA N O D E L P R IV A T E E Q U IT Y F IN O A L 2 0 0 7 .. 3 5 7 .1 . L ’A T T I V I T À D I I N V E S T I M E N T O .......................................................................................... 35 7.2. L’ATTIVITÀ DI RACCOLTA E DI DISINVESTIMENTO ........................................................................... 38 P A R T E 2 : L A C R IS I F IN A N Z IA R IA E IL P R IV A T E E Q U IT Y ...................................... 4 3 1 . IL C O N T E S T O E C O N O M IC O D O P O IL 2 0 0 8 . .................................................. 4 4 2 . A N A L IS I D I U N A S T R U T T U R A F IN A N Z IA R IA D I L B O N E L M E R C A T O E U R O P E O .... 5 6 3 . A N A L IS I D I U N A S T R U T T U R A F IN A N Z IA R IA D I B U Y O U T P R E C E D E N T E A L L A C R IS I . ............................................................................................................... 6 0 4 . L E C A U S E D E L L A C R IS I E IL L O R O E F F E T TO S U L L ’A T T IV IT À D I P R IV A T E E Q U IT Y 6 4 5 . Q U A L I S O N O S T A T E L E C O N S E G U E N Z E D E L C R E D IT C R U N C H S U L L ’A T T IV IT À D I P R IV A T E E Q U IT Y . ........................................................................................ 6 8 P A R T E 3 : A N A L IS I D E L M E R C A T O IT A L IA N O D E L P R IV A T E E Q U IT Y E V E N T U R E C A P IT A L ..................................................................................................... 7 9 1 .1 . E F F E T T I S U L L ’A T T I V I T À D I R A C C O L T A .............................................................................. 80 1 .2 . E F F E T T I S U L L ’A T T I V I T À D I I N V E S T I M E N T O ....................................................................... 89 1 .2 .1 . L ’a ttiv ità d i e a rly sta g e ...................................................................................... 97 1 .2 .2 . L ’a ttiv ità d i e x p a n sio n ........................................................................................ 99 1 .2 .3 . L ’a ttiv ità d i b u y o u t ............................................................................................ 101 1 .3 . E F F E T T I S U L L ’A T T I V I T À D I D I S I N V E S T I M E N T O .............................................................. 104 1 .4 . A N A L I S I D E L S E T T O R E P R I V A T E E Q U I T Y S U L L A B A S E D E I S U R V E Y K P M G C O R P O R A T E F I N A N C E .................................................................................................................................... 108 C O N C L U S IO N I ........................................................................................... 1 1 4 B IB L IO G R A F IA .......................................................................................... 1 2 8 2 INTRODUZIONE Le operazioni di private equity coprono una varietà di soluzioni che hanno una caratteristica in comune: la ricerca di fondi che possano finanziare un progetto di investimento in una società target. I fondi di private equity possono essere paragonati a dei talent scout di investimenti nel mondo imprenditoriale, che investono anni e risorse nel valutare il potenziale di ogni impresa, per comprendere i loro rischi e le soluzioni per evitarli. La fonte solitamente è un fondo il cui obiettivo è quello di investire specificatamente in società non quotate piuttosto che in società quotate. L’attività di private equity a livello europeo ha registrato un forte sviluppo nell’ultimo decennio sia sul piano quantitativo sia su quello delle innovazioni tecniche. Le società di private equity hanno raggiunto in questo periodo elevati tassi di rendimento sui capitali investiti, che hanno portato ad un aumento dei fondi a loro disposizione, e ad un netto aumento delle dimensioni delle singole operazioni svolte. L’escalation nell’aumento dei fondi a disposizione, dei prezzi di acquisto, e della leva finanziaria hanno permesso al settore di raggiungere nel biennio 2006-‐2007 livelli di attività mai registrati. Tuttavia il ciclo economico positivo ha subito una forte contrazione nel biennio 2008-‐2009, causando elevate perdite alle società presenti nei portafogli delle società di private equity. Allo stesso modo della crisi dei mutui sub-‐prime, l’ambito del private equity ha registrato l’esplosione di una bolla speculativa relativa alle operazioni di LBO (leveraged buyout). La forte propensione verso questo tipo di operazioni1 è stata supportata dal settore bancario. Sebbene anche l’Italia abbia vissuto un forte sviluppo del settore, questo sbilanciamento dell’attività di private equity non è stato così marcato come negli Stati Uniti e in Inghilterra (i mercati principali a livello mondiale). Tuttavia, 1 Nel 2006, più dell’80% del capitale raccolto dal settore private equity è stata utilizzato per operazioni di LBO. E €71 miliardi su €90 sono stati allocati per operazioni di buyout. Fonte: ECB, Leveraged Buyouts and Financial Stability, Monthly Bulletin, August 2007 3 anche in Italia è stato attribuita molta meno importanza alle operazioni cosiddette di venture capital ed di expansion dato il maggiore livello di rischio sottostante queste tipologie di operazioni. Tuttavia, è bene ricordare che il tessuto economico italiano è prevalentemente composto da piccole e medie imprese, e lo sbilanciamento del settore private equity verso certe tipologie di operazioni più votate alle speculazione finanziaria e all’arbitraggio piuttosto che alla creazione di valore d’impresa risulta dannoso per l’economia italiana. È quindi obiettivo dell’elaborato analizzare come queste distorsione del settore del private equity abbia influenzato lo sviluppo di determinate tipologie di operazioni a scapito di altre. Infatti, il peggioramento delle condizioni economiche, la diminuzione del capitale di debito e la competizione più forte per la sopravvivenza, sono fattori che sommati possono riportare l’attività di private equity verso operazioni più consone al sostenimento della tipica attività imprenditoriale nazionale. Inoltre, l’aumentata avversione degli istituti bancari a concedere prestiti rispetto al periodo pre-‐crisi, sta lasciando ampi e proficui spazi all’attività di private equity che svolgerebbe in questo modo quell’attività di supporto finanziario e di advisory così poco presente nell’attività imprenditoriale italiana. Il presente elaborato si prefigge quindi l’obiettivo di valutare se sono avvenuti cambiamenti nel settore del private equity causati dalla recente crisi finanziaria, e nondimeno dalla crisi europea del debito sovrano. Il fine infatti è capire se questo avvenimento ha cambiato le “regole del gioco” del settore private equity, e se i benefici hanno superato gli aspetti negativi, che una crisi economica generalmente crea. Sebbene, quindi, l’attenzione si focalizzi sul mercato italiano, non mancano riferimenti al più ampio mercato europeo e ovviamente a quello americano, da sempre più evoluto e da dove è iniziato il processo di crisi economica. Con riferimento alla strutturazione del lavoro, la prima parte tratterà i circuiti del capitale di rischio non quotato: il private equity e venture capital. Si dedicherà spazio alle caratteristiche tipiche delle operazioni e alla strutture di governo utilizzate dalle private equity firm. La prima parte quindi verrà conclusa esponendo la panoramica sull’attività del settore in Italia fino al 2007. 4 Nella seconda parte invece il protagonista principale sarà la crisi finanziaria e i suoi collegamenti con l’attività del private equity: verrà analizzato come il nuovo business model adottato dagli istituti bancari ha permesso lo sviluppo di operazioni speculative piuttosto che di sviluppo imprenditoriale. Nella terza e ultima parte quindi verrà analizzato il mercato del private equity dal 2007 al 2012, nelle sue tre attività principali, al fine di evidenziare i potenziali cambiamenti subiti e in atto, e le possibili tendenze che potranno svilupparsi. 5 Parte 1 Il mercato del capitale di rischio 6 1. L'attività tipica degli operatori di Private Equity Agli inizi degli anni Ottanta, l’apporto di capitale di rischio, da parte di operatori professionali, in aziende non quotate e ad alto potenziale di sviluppo con il fine ultimo di realizzare un capital gain a seguito della dismissione, veniva definito venture capital. In particolare, tali operazioni avevano come oggetto principalmente aziende ad alto contenuto tecnologico. Nel corso del tempo, l’attività di investimento istituzionale nel capitale di rischio, definita attualmente private equity, si è sviluppata in un ampia gamma di possibilità di intervento. Tuttavia, l’acquisizione di partecipazioni significative in imprese, in un’ottica di medio-‐lungo periodo, con l’obiettivo di ottenere alti rendimenti al momento dell’exit è rimasto il comune denominatore durante questa evoluzione della disciplina. Attualmente l’attività di private equity, secondo la prassi diffusa negli Usa, include due tipologie di investimento nel capitale di rischio delle imprese: operazioni di venture capital e operazioni di buyout. Collegate alla prima categoria si trovano due tipologie specifiche di investimenti: l’early stage financing, che sta a indicare il finanziamento delle start-‐up; e l’expansion financing, a indicare il finanziamento di imprese già mature, che necessitano di un apporto di risorse per consolidare la loro crescita. Nel Vecchio continente, in passato, si faceva corrispondere il termine venture capital alle operazioni finalizzate a sostenere la nascita di nuove imprese. Al contrario il termine private equity rappresentava le operazioni finalizzate a sviluppare attività già esistenti oppure a gestire i cambiamenti di proprietà dell’impresa. Negli ultimi anni, si è giunti alla totale standardizzazione della terminologia europea con quella statunitense, grazie anche alla presenza di associazioni di private equity a livello di singolo paese e a livello continentale. Tale organismo in ambito europeo è l’European Venture Capital Association 2 (EVCA) ovvero l’associazione europea del venture capital, che definisce il private equity come i fondi usati per apportare “equity capital to enterprises not quoted on a stock market”. Continuando nella definizione, si specifica che il private equity può essere utilizzato per sviluppare nuovi 2 EVCA è stata costituita nel 1983 a Bruxelles, e ad oggi annovera più di 1200 membri. È l’associazione che riunisce tutti gli operatori di private equity e venture capital sul mercato a livello europeo. 7 prodotti e tecnologie, per espandere il capitale umano, per dare vita ad acquisizioni o per rafforzare la solidità finanziaria di una società; inoltre può risolvere questioni legate alla proprietà e alla gestione, come una ricambio generazionale, un buyout o un buyin di società il cui management è gestito da manager con esperienza3. E infine, definisce il venture capital come “a subset of private equity investments made for the launch, early development, or expansion of a business”. Infine, sempre secondo la definizione fornita dall’EVCA, il private equity rientra “under the umbrella of ‘alternative investments’” 4 , la quale ingloba anche assets come venture capital, hedge funds, real estate commodities e collateralized debt obligations (CDOs). Quindi l'investimento nel capitale di rischio è considerato un investimento alternativo alla stregua di hedge funds o CDOs, ovvero strumenti ad elevato grado di rischio, a cui d'altra parte corrispondono rendimenti elevati. 1.1. Origine e Finalità Dell’Attività Di Private Equity 1 .1 .1 . L’a m b ito E u ro p e o Il Paese che ha svolto il ruolo più importante nell’origine e nell’evoluzione del private equity in Europa è stato il Regno Unito, dove già nell’800 venivano realizzati investimenti nelle American Railways da parte di fondi comuni di investimento inglesi (investment trusts). Inoltre subito dopo la seconda guerra 3 “Private equity is an engine for economic growth and provides vital sources of finance for growing, non-‐listed companies. Private equity invests in companies at all stages of their development and has adapted to the different need of companies by offering a range of specific investment structures. Private equity offers early-‐stage companies seed and start-‐up funding and development stage businesses expansion funding, all of which are usually referred to as venture capital. Later stage companies receive private equity via buyout, buyin turnaround and acquisition financing. Private equity can be used to develop new products and technologies, to expand working capital, to make acquisitions, or to strengthen a company’s balance sheet. It can also resolve ownership and management issues. A succession in family-‐owned companies, or the buyout and buyin of a business by experienced managers may be achieved by using private equity funding” – EVCA, Further comments to the Basel Committee: the risk profile of private equity and venture capital”, February 2004 4 Con il termine “alternative investments”, si fa riferimento a investimenti che possiedono le seguenti caratteristiche: la ricerca di un profitto assoluto, che è la ricerca di raggiungere una rendita positiva indipendentemente dal fatto che i prezzi degli asset stiano salendo o scendendo; la libertà di scambiare tutte le classi di asset e un ampio ventaglio di strumenti finanziari mentre si ricorre a una varietà di stili, strategie e tecniche di investimento in differenti mercati, e l’affidamento sulle capacità di investimento del manager e l’applicazione di un chiaro processo di investimento per sfruttare le inefficienze del mercato e le opportunità identificando e comprendendone cause e origini. (www.aima.org) 8 mondiale, venne fondata la 3i5, Investing in Industry, che operava fornendo capitale di rischio a imprese con elevate prospettive di crescita. Tuttavia, in Europa, solo nei primi anni Ottanta, nacque un vero e proprio mercato del venture capital e del private equity, grazie all’istituzione dell’EVCA. Lo sviluppo del settore è stato caratterizzato da una forte crescita nella seconda metà degli anni Novanta, seguita da un improvviso declino nel 2000. Fino a circa la metà del 2007, il private equity europeo ha vissuto un nuovo periodo di significativa espansione, includendo un periodo di due anni (dal 2003 a metà 2005) nel quale l’attività di investimento in Europa ha superato quella americana. In seguito, alla crisi finanziaria del 2008, l’attività ha ripreso lentamente un percorso di miglioramento e attualmente il mercato europeo ha raggiunto un grado di maturità quasi equiparabile a quello americano, da sempre leader in questa attività. 1 .2 .2 . L ’a m b ito ita lia n o Come in Europa, la nascita di un vero e proprio settore di operatori professionali nell’attività del venture capital e del private equity è fatta risalire all’istituzione dell’associazione di categoria avvenuta nel 1986, grazie all’iniziativa di nove società finanziarie private e di emanazione bancaria. All’epoca il nome era AIFI, Associazione Italiana delle Finanziarie di Investimento, ma attualmente è conosciuta come Associazione Italiana del Private Equity e del Venture Capital. Nel corso degli anni, il settore ha subito una notevole evoluzione in relazione ai cambiamenti del contesto economico e finanziario e al quadro normativo che si sono sviluppati in Italia. Sul piano normativo, l’evoluzione del settore è stata dettata principalmente dai seguenti interventi: • delibera del CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio) del febbraio 1987: in seguito a tale delibera anche le aziende di credito furono abilitate allo svolgimento di suddetta attività 5 3i, nato nel 1945 con un capitale gestito di 15 milioni di £, oggi è una dei più importanti investors a livello mondiale, con £12 miliardi di assets che ha come core business il private equity, le infrastrutture e la gestione del debito. 9 (fino al 1986, le aziende di credito non potevano svolgere l’attività di investimento nel capitale di rischio). • emanazione del Testo Unico in materia bancaria e creditizia nel settembre 1993 (D.Lgs. 385/93) • emanazione della Legge 344/93, istitutiva dei fondi di investimento mobiliare chiusi: rilevante in quanto queste strutture sono divenute il principale strumento per lo svolgimento dell’attività di investimento nel capitale di rischio in aziende non quotate. Tuttavia, si nota come già al momento dell’emanazione, la legge presentava alcuni limiti che impedivano al mercato italiano di confrontarsi con i competitors europei6. • emanazione del Testo Unico della Finanza nel febbraio 1998 (D.Lgs. 58/98): ha introdotto la struttura della Società di Gestione del Risparmio (SGR). Importante se si considera che tra il 2000 e il 2010 il numero delle SGR attive nella gestione di fondi di private equity è passato da 11 a 687. Per quanto riguarda l’espansione del fenomeno private equity, bisogna sottolineare che nella prima fase, che abbraccia più o meno due lustri, dal 1986 al 1996, solo un numero limitato e stabile di operatori era attivo nel mercato. Successivamente, dal 1997 al 2001 grazie alla diffusione delle nuove tecnologie e del settore dotcom, gli operatori sono aumentati considerevolmente. Il periodo seguente è proseguito con stabilità tra gli operatori, culminando con un andamento negativo tra il 2008 e il 20098. 1.2. Gli Obiettivi Del Private Equity Il private equity è l'attività di investimento nel capitale di rischio di imprese generalmente non quotate che va a sostenere progetti di crescita, tipicamente 6 In particolare, il vincolo alla composizione del portafoglio del fondo, imponeva le seguenti quote: tra il 40% e l’80% titoli di società non quotate, e quote non superiori al 20% per titoli di Stato italiani, stranieri e titoli azionari quotati. Inoltre, era negato al fondo l’acquisto di più del 5% di azioni o quote per ogni società quotata, e meno del 30% per ogni società non quotata. Relativamente alle quote di sottoscrizione, il tetto era fissato a 100 milioni di lire (51.645,69€), oppure 400 milioni di lire (€206.582,76), qualora la raccolta fosse effettuata attraverso meccanismi di sollecitazione del pubblico risparmio. (Gervasoni A., Sattin F.L., “Private Equity e venture capital – manuale di investimento nel capitale di rischio”, Guerini e Associati, Milano, 2000) 7 Banca d’Italia, Il private equity in Italia: un analisi sulle “imprese target”, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers) Numero 98, Luglio 2011 8 Banca d’Italia, Il private equity in Italia, Questioni di Economia e Finanza, Occasional Papers, Numero 41, Febbraio 2009 10 acquisizioni e fusioni, di crescita di valore per mezzo di ristrutturazioni e turnaround aziendali. Il soggetto che investe in questo tipo di struttura generalmente non esige una remunerazione immediata, al contrario del soggetto che fornisce capitale di debito. Il debito, soprattutto quello di emanazione bancaria, è per definizione un capitale impaziente, che mal si collega con le operazioni di private equity. Al contrario il private equity dovrebbe fornire capitale paziente, dovrebbe selezionare progetti con buone prospettive di rendimento nel medio termine e in situazione di razionamento finanziario. Quest'ultima situazione tuttavia non individua aziende in difficoltà finanziarie, ma piuttosto società nelle fasi si avviamento che registrano flussi di cassa bassi e necessità di capitali; oppure società mature che desiderano attuare un espansione dimensionale il cui progetto però richiede consistenti risorse finanziarie. Il rischio elevato tuttavia è l'altra caratteristica intrinseca di questa attività, e il tasso di default delle operazioni di early stage o start-‐up ne è la prova: la metà delle iniziative solimante portano alla perdita del capitale. Tuttavia, risulta elevato anche il tasso di rendimento: questo valore espresso dall'IRR, è circa del 20% annuo. A fronte di questo alto rischio, le società di private equity tipicamente esercitano un controllo molto stretto sulla gestione: entrano in partecipazioni con quote significative spesso di maggioranza o di minoranza qualificata mai inferiore al 20%-‐30%. Inoltre, richiedono di entrare nel consiglio di amministrazione, per monitorare il più attentamente possibile l'elevato grado di rischio da gestire. L'approccio è quindi diverso dal mercato public nel quale i rischi negoziati sono medio-‐bassi. La società che ha rischi elevati deve andare sul mercato private, cioè nella negoziazione privata, nella quale soggetti come gli investitori professionali possono dedicare tempo e risorse all'analisi del profilo di rischio e alla gestione del processo di creazione del valore. Un aspetto ulteriore del tema del rischio degli investimenti di private equity è legato alla durata degli investimenti e alla loro illiquidità. Il ciclo temporale tipico di un veicolo di private equity è determinato da una prima fase, il fundraising, della durata di massimo 48 mesi, un secondo periodo detto investment period, che varia dai 5 ai 6 anni e infine la fase del disinvestimento, dai 5 ai 10 anni. Questa suddivisione tuttavia può variare poiché ogni 11 investimento ha il suo percorso e quindi le fasi possono anche sovrapporsi. Infatti la realizzazione dei disinvestimenti e della ridistribuzione agli investitori possono cominciare quando è in corso la fase di investimento. Quindi, si sono sviluppate modalità diverse di creazione di liquidità. Questa, con riferimento agli strumenti di investimento, è correlata allo stile di investimento del fondo: fondi di buyout hanno in portafoglio asset con una vita media molto più breve rispetto a un fondo di venture capital. In una certa misura la liquidità è legata anche alla formula dei fondi di fondi. 1.3. La Classificazione Delle Operazioni Di Private Equity I fondi di private equity, secondo la letteratura classica, tendono a specializzarsi in corrispondenza degli stadi del ciclo di vita delle imprese, come sintetizzato nella figura seguente. Figura 1 -‐ Cambiamento del rischio e dei finanziamenti al variare della stadio del ciclo di vita delle imprese Ad ogni stadio di sviluppo dell’azienda corrisponde un diverso intervento dell’investitore istituzionale. Generalmente, le operazioni di investimento sono le seguenti: • -‐Early Stage Financing o Finanziamento dell’Avvio (comprende Seed Financing, Start-‐Up Financing, First Stage Financing): letteralmente Seed Financing significa finanziamento del seme. Si interviene infatti a 12 finanziare l’idea imprenditoriale, quando non è ancora presente il prodotto. Gli operatori, a causa dell’elevata rischiosità dell’investimento, sono altamente specializzati nei vari settori industriali in questione, e il loro apporto finanziario è contenuto. In queste operazioni, se da un lato il ritorno atteso dagli investimenti è molto alto, dall’altro è elevatissimo anche il tasso di insuccesso: in Europa nel 2011 il 20,7% delle operazioni di venture capital, cioè 205 su 991, si è concluso con un write off9, cioè un fallimento, quando lo stesso risultato ha interessato solo il 7,4% delle operazioni nella categoria Buyout & Growth10. Con l’evolvere del ciclo di vita una parte del rischio operativo si riduce, e si passa alla fase start-‐up financing, l’avvio dell’attività produttiva, e il first stage financing, valutazione commerciale del prodotto o servizio. In queste fasi e soprattutto nell’ultima, è necessario potenziare il capitale investito netto per accompagnare la crescita del capitale circolante netto. • Expansion Financing Stages (comprende Growth Stage Financing ed Expansion Capital): è la seconda macro-‐categoria di interventi e riguarda lo sviluppo e il consolidamento di aziende già avviate. Questi interventi possono essere messi in pratica attraverso l’aumento o la diversificazione diretta della capacità produttiva, l’acquisizione di altre aziende o rami di azienda, oppure l’integrazione con altre realtà imprenditoriali (cluster venture11). In questi casi, è già presente un mercato conosciuto e sono disponibili più informazioni che diminuiscono il grado di rischio di queste operazioni. Inoltre, l’esistenza di un prodotto o servizio e di uno storico è utile nella fase di due diligence 12, configurandosi come supporto concreto all’attività di valutazione. 9 Abbattimento totale del valore della partecipazione detenuta da un investitore nel capitale di rischio, a seguito della perdita di valore permanente della società partecipata ovvero della sua liquidazione o fallimento 10 EVCA, Yearbook 2012 11 Tipologia di intervento finalizzata al raggruppamento, cluster appunto, di più società operative indipendenti, integrabili verticalmente od orizzontalmente e caratterizzate da considerevoli similitudini, possedute da una holding svolgente un ruolo di coordinamento strategico. È particolarmente importante perché dà la possibilità di utilizzare al meglio le capacità manageriali e imprenditoriali esistenti nelle varie società. Inoltre, risultano più vantaggiose le condizioni a cui si possono attrarre investimenti, grazie alla maggiore diversificazione di portafoglio. 12 Questa espressione indentifica l’insieme delle attività, svolte dall’investitore o per mezzo di consulenti esterni, volte ad analizzare il valore e le condizioni di un’azienda o di un ramo di essa, con il fine ultimo di acquisizione o investimento. Il processo raccoglie tutte le informazioni relative all’impresa, come la struttura societaria e organizzativa, 13 • La terza e ultima fase è quella del cambiamento ed è quella maggiormente indipendente dallo stadio di sviluppo raggiunto dall’impresa. Spesso il cambiamento è indotto dalla volontà di uno o più azionisti della società in questione di abbandonare l’attività e infatti si parla di replacement capital: la ristrutturazione della compagine azionaria, tramite la sostituzione di uno o più soci non più coinvolti nell’attività aziendale. Secondo questa pratica chi tra i soci non è interessato a strategie di lungo termine e di sviluppo ha l’opportunità di uscire dalla compagine societaria. In caso di cambio totale della proprietà, l’obiettivo dell’operatore è quello di supportare finanziariamente il cambiamento e generalmente tali operazioni rientrano nella macro-‐categoria buyouts. All’interno di questa è possibile distinguere tra sostituzione della compagine societaria con manager interni (management buy in) o esterni (management buy out). Infine la fase di turnaround, che indica gli investimenti di ristrutturazione delle imprese in crisi, attraverso l’avvicendamento del gruppo proprietario o manageriale: risultano spesso fondamentali per la risoluzione di crisi aziendali, più o meno profonde. il mercato di riferimento, i fattori critici di successo, le strategie commerciali, le procedure gestionali e amministrative, i dati economo-‐finanziari e gli aspetti fiscali e legali. 14 2. L'Attività di Fundraising Descritta la struttura tipica di un fondo di private equity, si prosegue analizzando l'attività di fundraising, ovvero la raccolta delle fonti necessarie all'attuazione della fase successiva di investimento. Questa fase è importantissima, e deve essere pianificata e preparata in anticipo: si deve assicurare che sia completata entro un periodo di tempo ragionevole dopo la prima chiusura del fondo. Tipicamente i termini di mercato indicano che la chiusura di questa fase dovrebbe avvenire entro 12-‐18 mesi dalla prima chiusura, a meno che non ci sia il consenso dei Limited Partner (come verrà esplicitato in seguito sono i soci a responsabilità limitata)13. L'attività di raccolta, come tuttavia anche l'intera attività di private equity, può essere pesantemente influenzata da fattori strutturali. La legislazione finanziaria, societaria e fallimentare infatti incidono sull'attività di private equity e possono danneggiare il settore nella competizione con i mercati internazionali. Secondo una ricerca, Global Venture Capital Country Attractiveness Index Study 2009-‐2010, i 6 fattori chiave che determinano l'attrattività del mercato del private equity di un Paese sono: • l’attività economica • la cultura imprenditoriale • la profondità del mercato di capitali • la tassazione • la tutela dell’investitore e la corporate governance • l’ambiente umano e sociale In base a tali indicatori, l’Italia si trova al 32° posto, preceduta da paesi come Portogallo, India, Cile, Sud Africa, Spagna, e Malesia. Se si escludono i paesi non-‐UE, il ranking migliora e l'Italia passa al 13° posto, con Regno Unito, Svezia e Olanda che rispettivamente occupano i primi 3 posti. Infine, mentre nel periodo compreso tra il 2007 e il 2011 paesi come Portogallo, Germania, Belgio, Croazia, Francia, Ungaria, Austria, Danimarca, Olanda e Regno Unito hanno visto un miglioramento, l’Italia non ha seguito lo stesso trend14. 13 EVCA Handbook, Professional Standards for the Private Equity and Venture Capital Industry, January 2012 14 Groh A., Liechtenstein H., Lieser K., “Global Venture Capital Country Attractiveness Index Study 2009-‐2010”, 2011 Annual 15 Non è compito di questo elaborato analizzare nello specifico gli indicatori precedentemente elencati, tuttavia è evidente come il nostro Paese registri consistenti deficit per ogni singolo indicatore di attrattività, e in particolare come la cultura imprenditoriale e la tassazione siano probabilmente quelli più dannosi. L'attività di fundraising tuttavia non si limita a questi fattori. Infatti la reputazione e il brand delle società di private equity influenzano fortemente tale attività. Infatti, l’esperienza maturata, la dimensione del fondo e le competenze, unite alla forza negoziale, danno un vantaggio competitivo al soggetto che li possiede: devono quindi dimostrare un buon track record. Inoltre, una decisione di finanziamento da parte di un Limited Partner è anche influenzata dal modo in cui viene impostata la condivisione dei rendimenti tra i Limited Partners e i manager: esiste infatti competizione tra i fondi in base alle management fees applicate, all'hurdle rate, e alla priorità nella realizzazione dei rendimenti tra Limited Partners e manager. Inoltre, gli investitori istituzionali possono essere affiancati dai gatekeepers, soggetti che forniscono l’attività di consulenza e l’accesso ai migliori fondi del mercato grazie al loro pluriennale rapporto con i fondi di private equity. I dati derivanti dallo studio, che annualmente svolge Deloitte15 sul sentiment del settore, confermano quanto appena esplicitato: i fattori più importanti per la determinazione della scelta di un fondo piuttosto che un altro sono la reputazione, prezzo e condizioni contrattuali offerte. Infine, la fase di fundrasing può essere influenzata anche da fattori congiunturali. Infatti, aspettative di crescita dell’economia reale generalmente possono favorire il commitment degli investitori. Mentre una fase economica con bassi tassi di interesse, può essere favorevole per il finanziamento tramite buyout e quindi aumentare le opportunità di investimento. Passando quindi alla fase operativa, l'attività inizia generalmente con la decisione di adottare o meno advisors locali: questa decisione è influenzata dalle dimensioni del fondo e dal livello di espansione che si vuole raggiungere. Successivamente c’è la fase vera e propria di raccolta che impegna il fondo per circa un anno. In ambito europeo, le statistiche permettono di distinguere tra l'attività di fundraising svolta da fondi di venture capital, di buyout, e infine generalisti. 15 "Italy Private Equity Confidence Survey, Outlook per il secondo semestre 2012", Deloitte 16 Per i primi, nel 2011, l'analisi evidenzia come le government agencies 16 abbiano rappresentato la prima fonte di capitale (34%), seguita dagli individui privati (14,9%) e dagli investitori industriali (12,1%). Relativamente ai fondi di buyout, gli operatori che hanno erogato più risorse sempre nel 2011 sono stati fondi pensione (22,4%), le banche (17,5%), i fondi di fondi (16,8%), e i fondi sovrani17 (13,2%). Infine i fondi generalisti hanno raccolto le proprie risorse principalmente dai family offices (34,1%), individui privati (25,6%), government agencies (12,7%) e banche (11,1%). Si nota quindi una importante differenza tra i fondi generalisti e di venture capital e i fondi di buyout, relativamente all'origine dei finanziamenti, che probabilmente è dovuta alla diverse finalità che questi fondi perseguono. Rispetto alla provenienza geografica invece si nota che la maggior parte dei capitali (i valori dentro le parentesi si riferiscono al 2008), deriva dai paesi del Nord-‐Europa (Regno Unito, Irlanda, Francia, Benelux, Austria, Germania, Svizzera, Danimarca, Finlandia, Norvegia, e Svezia) che hanno prodotto il 47,9% (39,9%) della raccolta, mentre il Sud Europa ha registrato appena il 3,9% (3,3%). Infine al di fuori dell'Europa, il Nord America ha contribuito per il 20,3% (38,9%), l'Australia e l'Asia per il 14,7% (7,8%) e il resto del mondo per lo 0,1% (0,3%). A livello europeo quindi i principali operatori che erogano capitali nell'attività di fundraising sono le government agencies, i fondi pensione e le banche. Tuttavia, i fondi di buyout hanno raccolto risorse da operatori che generalmente non risultano i protagonisti nel fundraising dei fondi di venture capital e generalisti. La motivazione può essere ricercata nella marcata differenza di queste tipologie di operazioni, che sarà in seguito analizzata. A livello di provenienza geografica dei capitali si nota che la fonte principale è rappresentata dai paesi del Nord-‐Europa e dagli Stati Uniti. Per l'Italia è disponibile una statistica diversa che evidenzia la raccolta per tipologia di fonte. Questa mostra come i fondi di fondi abbiano rappresentato la prima fonte di capitale (34%), seguiti dalle banche (28%), dalle compagnie assicurative (15%) e dai fondi pensione (11%). Infine relativamente alla provenienza geografica dei capitali, risulta che la maggior parte dei fondi ha 16 Istituzioni o agenzie nazionali, regionali, ed europee per l'innovazione e lo sviluppo (includono le strutture come l'EBRD o l'EIF) 17 Fondi di investimento controllati dallo stato che gestiscono i patrimoni derivanti dalle riserve nazionali 17 avuto origine domestica (79%) mentre la componente estera ha registrato una quota del 21% della raccolta complessiva. 18 3. Il Processo di Investimento Una volta terminata la fase di fundraising, lo step successivo è il processo di investimento. Come in precedenza evidenziato, “la regola base degli investimenti in venture capital e private equity è di realizzare rendimenti medi elevati in attività intrinsecamente ad alto rischio”18. In seconda battuta, l’aspetto più importante da tenere in considerazione è la scelta del settore nel quale investire. In tal senso, risulta molto importante il cosiddetto market mapping: la creazione di un database di aziende di un certo settore che evidenzi i drivers macro e microeconomici. Tipicamente lo scopo di questa attività è quello di identificare le compagnie e i settori che hanno la crescita potenziale più consistente. Ad esempio negli Stati Uniti il settore del venture capital ha cambiato spesso il focus di settore negli ultimi 20 anni: negli anni ’80 era il settore energetico, successivamente l’ingegneria genetica e infine internet. Ciò che accomunava queste scelte era il tasso di sviluppo elevato19. Anche la specializzazione accresce la creazione di trattative. Uno studio del 2006 di Losson ha scoperto che il tasso di remunerazione dei fondi di private equity decresce con la diversificazione per paese, ma aumenta con la diversificazione tra attività. Il focus di settore è una strategia comune negli Stati Uniti e sta diventando prevalente anche tra gli investitori di private equity europei. Nello studio, ad opera di Ernst & Young, delle più grandi trattative del 2006 nel private equity, gli investitori americani riportavano che il focus di settore era un vantaggio in 2/3 dei loro deals. In Europa invece rappresentava un vantaggio nel 25% dei casi. E comunque, in entrambi i casi, queste trattative “sector-‐focused” avevano performance superiori alla media. Altro fattore da tenere in considerazione è il timing, cioè la scelta della fase del ciclo di vita dell’impresa in cui entrare. Naturalmente la scelta è arbitraria e quindi l’investimento in un’azienda può essere effettuato in qualsiasi fase. Tuttavia si tende a escludere le fasi di consolidamento e maturità, e allo stesso tempo le fasi di start-‐up a causa dell’elevata incertezza sia tecnologica che di mercato. È quindi la fase intermedia la più interessante per gli investitori, anche se bisogna specificare che non è sempre uniforme e quindi si possono 18 Forestieri G., Corporate & Investment Banking, Egea, Milano, 2009 19 D. Teten, C. Farmer, “Where are the Deals? Private Equity and Venture Capital Funds’ Best Practices”, The Journal of Private Equity, Winter 2010 19 incontrare opportunità che presentano tassi di crescita crescenti oppure situazioni che si avviano verso la stabilizzazione. Schematicamente la procedura di investimento si articola in una serie di stadi, e di seguito si cerca di tracciare un processo tipico di investimento. La prima fase prende il nome di Deal Flow: consiste nella “capacità di generare un flusso continuo di opportunità di investimento di buona qualità”,20 ovvero il numero di opportunità di investimento disponibili. Infatti, in questa fase, il primo step è l’individuazione dell’impresa target, che in Italia, risulta più complicato rispetto a mercati più evoluti come Gran Bretagna e Stati Uniti, a causa della scarsa conoscenza degli strumenti di private equity. Questo momento è anche molto importante e selettivo, dato che circa meno del 5% dei business plan ricevuti dai fondi di private equity si traducono nella scelta di investimento nell'impresa target 21 . Il business plan riveste quindi un ruolo altamente importante ed è il principale strumento utilizzato dall'investitore per valutare le prospettive del business. Infatti, costringe i team manager a fissare i loro obiettivi, a fare delle previsioni sulle performance attese e strutturare il business model che useranno. Il vero tratto distintivo per un'impresa che desidera entrare in un progetto di private equity è quindi e la prospettiva di produrre rendimenti maggiori di quelli che si possono realizzare attraverso investimenti in società quotate22. Dal momento che le società di private equity ricevono centinaia di business plan ogni anno, la società target dovrà convincere quindi gli investitori sulla bontà delle prospettive del proprio business. Se il business plan, viene ritenuto valido si passa alla fase della due diligence e valutazione, considerata dai gestori di private equity il fattore determinante delle performance dei private equity. Essi infatti dedicheranno tempo e risorse in questo processo, aiutati da avvocati, consulenti tributari, revisori contabili, esperti in assicurazioni e rischio, con lo scopo di definire un valore dell’impresa accettabile come prezzo per chiudere la negoziazione. La fase successiva viene definita Deal structuring e comprende la stipulazione di clausole contrattuali volte a regolare il rapporto tra il fondo investitore e la società partecipata. È fondamentale dal momento che la struttura contrattuale 20 Forestieri G., Corporate & Investment Banking, Egea, Milano, 2009 21 EVCA, Barometer September 2007 22 Gervasoni A., Donadonibus J., Papilj P., “Caratteristiche strutturali ed operative dei fondi paneuropei di investimento in capitale di rischio”, Liuc Papers n.137, Serie impresa e mercati finanziari 1, dicembre 2003 20 deve far convergere gli interessi dell’imprenditore e dell’investitore, per favorire al massimo il successo dell’operazione. Quindi tra gli argomenti maggiormente trattati si trovano le “regole di ripartizione dei risultati prodotti e di compenso del gestore dei fondi, di formazione dei consigli di amministrazione e delle prassi gestionali e informative, di vincolo di comportamento per la società (i covenants23), di criteri di apporto dei capitali che costituiscono l’investimento, di modalità di uscita dall’investimento da parte del fondo”24. Relativamente all’apporto di capitali, una delle clausole più diffuse, specialmente nell’attività di venture capital in senso stretto è quella dello staged financing. Questa attività si caratterizza per il fatto che l’apporto complessivo del private equity viene conferito in tranche successive, via via che la società partecipata dimostra di essere in grado di realizzare effettivamente il business plan concordato. Lo scopo è quello di incrementare la capacità di controllo e di disciplina del finanziatore; e di ridurre il rischio che lo stesso si trova ad assumere: tipicamente questo permette di limitare le perdite in caso di insuccesso. In seconda battuta anche la scelta degli strumenti finanziari attraverso cui operare l’apporto di capitali risulta determinante. L’uso di convertible security25 o di convertible preferred stocks26 è una prassi molto ricorrente e si 23 Se un’operazione non procede come pianificato, ci saranno una serie di strumenti di monitoraggio, o covenants, che allerteranno la banca mutuante. Questi covenant sono stabiliti prima che sia concesso il prestito. Tipicamente i covenants possono includere: livelli minimi di EBITDA, di copertura degli interessi, di indebitamento; oppure restrizioni come: distribuzione dei dividendi, accordi addizionali sui prestiti, fusioni ed acquisizioni, altri investimenti, ritiro del debito. Se una società infrange uno o più di questi limiti, la banca avrà tipicamente una serie d’opzioni relativamente a questa situazione. Queste includono la rinegoziazione del prestito o, la nomina di un curatore fallimentare per vendere l’azienda o i suoi asset per ripagare i prestiti. La negoziazione dei covenant è tuttavia una parte cruciale nella gestione del rischio delle operazioni per la società, per la banca e per il private equity. Ci sono due misure comuni di “gearing”: “interest cover” misura la capacità di servire il costo interessi in una struttura di prestito in essere e il “capital gearing” misura il rapporto tra debito totale e equity totale in ogni investimento. Quando i tassi di interesse sono bassi, o l’interest cover sale e il capital gearing rimane costante, o l’ammontare totale del debito aumenta per mantenere l’interest cover costante. Durante la decade passata, il capital gearing è aumentato poiché l’interest cover è stato largamente tenuto costante: questo ha portato all’aumento del livello dell’indebitamento societario. 24 Forestieri G., Corporate & Investment Banking, Egea, Milano, 2009 25 “A convertible security is a security—usually a bond or a preferred stock—that can be converted into a different security—typically shares of the company's common stock. In most cases, the holder of the convertible determines whether and when to convert. In other cases, the company has the right to determine when the conversion occurs”, U.S. Securities and Exchange Commission, www.sec.gov/answers/convertibles.htm 26 Termine inglese che indica le azioni privilegiate convertibili. Negli Stati Uniti queste azioni ricevono un interesse fisso e vantano un diritto prioritario per il rimborso o il pagamento degli interessi o entrambi e possono, ad opzione del portatore, essere convertite in azioni ordinarie della stessa società ad una data futura e a condizioni prestabilite. L'azionista utilizzerà la propria opzione di conversione se riterrà che i dividendi sulle azioni ordinarie saranno, in futuro, 21 spiega con la possibilità di rafforzare i diritti di controllo e di avere una partecipazione adeguata al valore creato in caso di successo. Passando poi alla fase di monitoraggio (Monitoring) uno degli aspetti distintivi del private equity è che il finanziatore non è solo apportatore di capitali, ma è anche investitore attivo. Quindi egli richiede un’informativa dettagliata e costante per tenere sotto controllo l’andamento dell’azienda e individuare i problemi tempestivamente. Il monitoring viene effettuato attraverso l’analisi di alcuni indicatori economico-‐reddituali, e attraverso la partecipazione alle riunioni del Consiglio di Amministrazione. In questa fase si delinea anche quello che è l’approccio dell’investitore: hands on o hands off. Col primo termine si intende la partecipazione attiva dell’investitore nella società in cui ha investito. Questo approccio comporta la rappresentanza nel Consiglio di Amministrazione (nel quale ha spesso diritto di veto nelle decisioni più importanti), essere informato mensilmente sui risultati aziendali, effettuare frequenti visite in società e, alle volte, nominare manager di fiducia nelle posizioni più rilevanti. Al contrario l’approccio hands off prevede un partecipazione meno impegnata, restando tuttavia valida la rappresentanza nel Consiglio di Amministrazione27. Infine l’Exit. Quest’ultima fase è sempre più considerata una fase chiave di tutto il processo. Gompers e Lerner sostengono infatti che il bisogno di exit dagli investimenti influenza ogni aspetto del ciclo del private equity, dalla disponibilità di aumentare il capitale ai tipi di investimenti che vengono effettuati. L’exit o disinvestimento può avvenire secondo diverse modalità. Attraverso un’IPO, e quindi la dismissione totale o parziale tramite un’ Offera Pubblica di Vendita. Le aziende che intraprendono questa soluzione solitamente sono caratterizzate tanto da percorsi di private equity convincenti quanto da prospettive di crescita elevate. Questo implica che per i buyouts in fase di maturità, la probabilità di IPO dovrebbe generalmente essere minore rispetto agli altri investimenti di private equity. Si può quindi assumere che man mano che ci si allontana dalla fase early stage, tanto meno probabile sarà un exit tramite la quotazione. superiori agli interessi che fruttano le azioni privilegiate di sua proprietà o se il corso delle azioni ordinarie tenderà a salire rispetto a quello delle azioni privilegiate. 27 http://www.aifi.it/IT/PDF/Pubblicazioni/Guide/Guida_al_VC_PE.pdf 22 La seconda ipotesi nella fase di disinvestimento è la vendita, che può essere suddivisa in trade sales, secondary sales e buybacks. Le trade sales si riferiscono alle vendite nei confronti di un investitore strategico, e tipicamente sono le più diffuse e le più profittevoli. Le secondary sales, quindi le vendite ad altri investitori istituzionali, alla stregua dei buybacks (riacquisto da parte del vecchio proprietario o management) sono essenzialmente associate a profitti più bassi. Il vantaggio delle vendite, rispetto a un’operazione di quotazione, sono le opportunità di liquidare l’investimento celermente, le minori restrizioni e la possibilità di influenzare l’investimento in base alle necessità degli investitori strategici. Infine l’ultima ipotesi è il “write off, cioè l’abbandono dell’investimento in caso di insuccesso”28. Chiaramente questa opzione deve essere l’ultima possibilità che il management deve prendere in considerazione, poiché indica chiaramente l'esito negativo dell'operazione. Figura 2 – Evoluzione del processo di investimento del private equity. Fonte: EVCA, Guide on Private Equity and Venture Capital for Entrepreneurs, November 2007 28 Forestieri G., Corporate & Investment Banking, Egea, Milano, 2009 23 4. Il rischio dell’investimento nel private equity Dalla rassegna sulle caratteristiche dell'attività di private equity, risulta chiaro come questa tipologia sia particolarmente rischiosa. Di conseguenza i Limited Partners incontrano una serie di rischi che possono condizionare sul valore dei loro investimenti. Di seguito quindi, si analizza il profilo di rischio del settore, partendo da un elenco delle tipologie di rischio: • Il rischio di finanziamento: è il rischio che affrontano i Limited Partner nel momento in cui non sanno con esattezza quando otterranno i flussi di cassa che ripagheranno l’investimento iniziale. • Il rischio di liquidità: solitamente un investimento in fondi di private equity non è liquido e ha un orizzonte temporale di lungo periodo, in quanto prima del disinvestment period è difficile per un investitore trasferire le proprie quote a terzi. I Limited Partner possono vendere le loro quote, tuttavia, il mercato secondario per gli investimenti in private equity è relativamente diffuso e altamente inefficiente. Le caratteristiche del mercato secondario, quindi, espongono gli investitori al rischio di liquidità. Inoltre, i prezzi del mercato secondario sono spesso influenzati da fattori che vanno oltre il valore esatto della partnership e questo spesso si traduce in prezzi distorti ovvero scontati. Per esempio, gli investitori in condizioni di vendita obbligata devono accettare sconti sul NAV29. • Il rischio di mercato: la fluttuazione del mercato ha un impatto sul valore degli investimenti presenti in portafoglio. La soluzione è definire il valore e come i movimenti del mercato lo condizionano. I metodi per valutare un asset sono principalmente due. Il primo è la sua valutazione corrente di mercato, o una stima di quella che potrebbe essere. Il secondo è il valore attuale dei flussi di cassa futuri. Generalmente, la liquidità e l’arbitraggio presenti nel mercato tendono 29 Il Nav è il valore ottenuto dalla differenza tra il totale delle attività e delle passività del fondo. È ottenuto sottraendo dal valore dei titoli in portafoglio comprensivo dei ratei d’interesse sulle cedole i debiti imputabili al fondo comune. Questo valore è diviso per il numero delle quote esistenti, per ricavare il valore di queste ultime (Morningstar.it). In base alla normativa italiana e della prassi internazionale, il NAV viene calcolato almeno semestralmente dal fondo. Il valore totale netto del fondo è pari al valore corrente, alla data di riferimento della valutazione, delle attività che lo compongono, al netto delle eventualità passività, ed il calcolo si basa sui criteri di valutazione indicati da Banca d’Italia, che devono essere mantenuti costanti. Questi criteri variano a seconda che l’investitore detenga una partecipazione in una società quotata o meno; nel primo caso il valore è determinato in base all’ultimo prezzo disponibile rilevato sul mercato di negoziazione. Nella seconda ipotesi le partecipazioni devono essere valutate al costo di acquisto, eventualmente da svalutare o rivalutare. 24 ad allineare i due metodi di valutazione. La mancanza di liquidità e altre deficienze del mercato tendono a fare divergere questi due approcci alternativi, soprattutto nelle secondary transactions. Il rischio del capitale: in aggiunta al rischio di perdere il capitale • investito dovuto alla mancanza di liquidità, gli investitori in private equity affrontano il rischio di lungo termine di non recuperare il valore del loro capitale investito nel momento della patrimonializzazione. Questo particolare rischio può essere influenzato da una serie di fattori: i. L’esposizione al mercato del capitale di rischio: basse valutazioni dell’equity, rendono difficile il disinvestimento a prezzi elevati. Il vantaggio tuttavia, risiede nella possibilità per i manager di decidere in modo totalmente indipendente il periodo in cui effettuare i disinvestimenti e possono quindi attendere condizioni migliori e più accettabili. ii. Tassi di interesse e termini di rifinanziamento: gli investimenti di private equity possono essere finanziati con debito e i manager possono aver bisogno di rifinanziare le passività maturate della società target. Cambiamenti sostanziali nei tassi di interesse possono impattare sul valore delle società target e sulla distribuzione di capitale agli investitori. iii. Esposizioni al rischio di cambio: il valore degli investimenti di private equity può essere influenzato dalla volatilità del tasso di cambio30. Definite quindi le tipologie di rischio tipiche che affronta l'attività di private equity, si prosegue cercando di posizionare l'investimento nel capitale di rischio nel panorama degli strumenti finanziari. La seguente figura mostra le principali tipologie di strumenti finanziari disponibili e il rischio associato a queste, che possono essere utilizzate per definire la struttura finanziaria di una società. 30 EVCA, Private Equity Fund Risk Measurement Guidelines, January 2011 25 Figura 3 -‐ Strumenti finanziari e profilo di rischio/rendimento associato. Fonte: Gilligan J., Wright M., Private Equity Demystified – An explanatory guide – Second Edition, ICAEW Corporate Finance Faculty Come si nota dallo schema, gli strumenti finanziari principali sono l'equity, il debito mezzanino, il debito senior e il capitale liquido. Un investimento di private equity è spesso effettuato utilizzando una combinazione di differenti strumenti finanziari che insieme generano il rendimento richiesto. Tipicamente il management investe solamente nel rischio più elevato, e nello strumento finanziario a più alta remunerazione. Lo scopo è quindi quello di minimizzare il costo del capitale, collegato a un determinato profilo di rischio, utilizzato per finanziare l’impresa target. Il risparmio così ottenuto può essere indirizzato per il finanziamento di investimenti e acquisizioni o per la distribuzione presso gli investitori nel capitale di rischio che sostengono il rischio più elevato. Tuttavia, l'equity ha dei vantaggi rispetto al debito senior nella composizione della struttura finanziaria. Tipicamente, infatti, gli investitori in capitale di rischio non richiedono mensilmente o trimestralmente il pagamento di interessi. Inoltre, le condizioni dell'equity risultano molto più flessibili del debito e presentano meno covenants. Questi investitori cercheranno di allineare i loro interessi con quelli del management team, cosa che non sempre è possibile col debito. Infatti mentre gli investitori in equity diventano partner, i prestatori di debito diventano creditori. I primi quindi avranno maggiori incentivi ad aiutare i proprietari della società a rendere il business profittevole, mentre i creditori si preoccuperanno principalmente della solvenza o meno del debitore. 26 Infine cercheranno di assistere il management nella massimizzazione del valore del business durante il periodo di investimento. Proprio il valore aggiunto del business è il motivo per cui l'equity è solitamente più oneroso del debito, per fornire il rendimento appropriato per l'elevato grado di rischio. Tuttavia, mentre l'equity può risultare più oneroso nel lungo periodo, il debito è più legato ai cash flow e ciò può rendere il debito più costoso e potenzialmente limitante per la crescita. L'equity quindi si delinea come la soluzione migliore per finanziare le società che si trovano ad un punto di svolta durante una fase di crescita, società che cercano ulteriore supporto manageriale, società che desiderano disinvestire entro un periodo di 3-‐7 anni, società che vogliono sostenere la loro struttura finanziaria e società che hanno intenzione di effettuare un management buyout. Il debito, invece, si divide principalmente in 2 forme: senior e subordinato. Il primo è meno costoso del secondo ma spesso contiene covenants maggiori e più estesivi. Inoltre, la maggior parte dei fornitori di debito si aspetta che la società garantisca il debito con crediti commerciali, altri asset societari, immobili, garanzie personali, o altre fonti di reddito nel caso in cui i cash flow siano insufficienti a ripagare il debito. Nel caso di liquidazione, le obbligazioni del debito senior hanno la precedenza su tutte le altre obbligazioni e sull'equity. Generalmente, il debito senior è l'alternativa di finanziamento meno costosa, e molte società quindi cercano di finanziare la maggior parte dei loro bisogni di capitali usando il debito senior fornito dalle banche. Tuttavia il debito senior può assumere forme differenti con diversi interessi e condizioni di rimborso. La forma più comune viene definita tranche “A” e prevede un rimborso diretto. Altre forme, chiamate tranche “B” e “C”, possono avere scadenze e condizioni di rimborso che prevedono interessi con tassi più elevati rispetto alle tranche “A” e rimborso del capitale posticipato (fino al disinvestimento dal buyout). Il debito quindi è più adatto al finanziamento di uno specifico progetto che preveda un arco temporale definito. PRIVATE EQUITY Orizzonte temporale di medio-‐lungo periodo Capitale non liquidabile prima dell'exit DEBITO SENIOR Orizzonte temporale di breve periodo Se la solvibilità del mutuatario viene meno, i capitali probabilmente non sono liquidabili; può essere richiesto il pagamento delle rate del 27 prestito, se i covenant non vengono rispettati Fornisce una base di capitale solida e flessibile Utile fonte di finanziamento se il rapporto con lo scopo di assecondare futuri piani di debito/equity risulta bilanciato e la società crescita e sviluppo presenta buoni cash flow Rimborsi del capitale, dividendi e interessi Richiede cash flow stabili per ripagare il dipendono dai bisogni della società e sono rimborso del capitale e degli interessi calcolati su quanto questa può produrre I profitti dell'investitore dipendono dal Dipende dalla capacità della società di successo e dalla crescita dell'attività. Più rimborsare gli interessi e di mantenere il valore successo avrà la società, migliori rendimenti delle garanzie prestate per un determinato otterranno gli investitori prestito Se l'attività è in sofferenza, gli investitori saranno trattati alla stregua degli altri azionisti, Se l'attività è in sofferenza il mutuante ha il dopo le banche e gli altri mutuanti, e diritto di rifarsi sulle garanzie prestate probabilmente perderanno il loro investimento Se l'attività ha probabilità di fallire, la società di Se l'attività ha probabilità di fallire, il mutuante private equity si impegnerà per assicurare che può mettere l'attività la società venga aiutata Un vero partner, che condivide rischi e rendimenti, con consulenza ed esperienza per Assenza di consulenza assistere l'attività Il debito mezzanino o subordinato è un tipo di debito invece che generalmente ha sia le caratteristiche del debito che quelle del capitale di rischio. Generalmente si ricorre a questo strumento quando, laddove venga pagato un premio importante sul valore del patrimonio, la società di buyout abbia assets insufficienti per ottenere ulteriore credito ma produca cash flow stabili e consistenti. Per il mutuante, risulta essere più rischioso del debito senior poiché presenta garanzie minori31. Tuttavia, questa maggiore esposizione al rischio rispetto al debito senior, come evidenziato nel grafico, comporta anche un più elevato tasso di interesse. Quindi, è principalmente utilizzato nelle operazioni di ricapitalizzazione o acquisizione. Inoltre, può essere una valida alternativa per quelle realtà che registrano tassi di crescita medi, consistenti cash flow, e che non vogliono effettuare il disinvestimento entro un periodo di 7 anni32. 31 AA.VV., The Implications of Alternative Investment Vehicles for Corporate Governance, Centre for Management Buy-‐ out Research, 2007, pagg. 39-‐40 32 DCA Partners, Understanding a Firm's Different Financing Options -‐ A closer look at Equity vs. Debt, http://dcapartners.com/advisory/presentations/DCA_FinancingOptions-‐EquityvsDebt.pdf 28 5. Struttura Organizzativa Dei Fondi Di Private Equity La struttura organizzativa dei fondi di private equity non è la stessa nei diversi paesi europei, a causa di fattori come la legislazione, la struttura del mercato e l'attrattività dello Stato. Perciò, le strutture legali relative ai fondi di investimento di private equity variano da paese a paese. Tuttavia, si possono distinguere due tipologie principali nella struttura dei fondi: i fondi con una durata limitata, in genere con durata decennale, e i fondi senza limiti temporali. La prima tipologia è la più comune, e si basa su un accordo di partnership tra gli investitori istituzionali e il management team del fondo di investimento. Le strutture maggiormente utilizzate sono le Anglo-‐Saxon Limited Partnership nei paesi anglosassoni, le FCPR (Fonds Commun de Placement à Risques) in Francia e altre forme simili come la SICAR in Lussemburgo, il Private PRICAF in Belgio o il Fondo Chiuso in Italia33. La Limited Partnership34 è, quindi, il modello maggiormente utilizzato come veicolo di investimento per le attività di private equity e di venture capital e di tale struttura si dà illustrazione di seguito (Figura 2). Lo schema è assimilabile a quello di una società in accomandita, la quale consta di due categorie di soci. I soci a responsabilità limitata (Limited Partner) e i soci a responsabilità illimitata (General Partner). I General Partner organizzano e gestiscono il fondo, dalla selezione delle opportunità di investimento fino al disinvestimento e alla liquidazione; i Limited Partner forniscono la maggior parte del capitale e permettono la costituzione del fondo. 33 EVCA, “Guide on Private Equity and Venture Capital for Entrepreneurs”, November 2007 34 Istituto approvato nel Regno Unito dall’Inland Revenue e dal Department of Trade and Industry nel 1987 29 Figura 4 -‐ Modello di fondo di investimento di private equity. Fonte: EVCA, “Guide on Private Equity and Venture Capital for Entrepreneurs”, November 2007 All’interno della categoria Limited Partner rientrano gli investitori istituzionali e individuali. I primi sono soggetti “specializzati nella gestione di portafogli finanziari e sono dotati di competenze specifiche”35 : fondi pensione, fondi sovrani, banche, fondazioni, compagnie di assicurazioni e fondi di fondi. I singolo investitori individuali sono individui dotati di ampio patrimonio, generalmente identificati con i termini Business Angels e High Net Worth Individual. Questi soggetti sono attirati dall'elevato tasso di remunerazione potenziale del private equity e spesso sono soggetti con una notevole esperienza manageriale e/o imprenditoriale che desiderano supportare aziende in fase di start-‐up, con elevate potenzialità di sviluppo, e la necessità di finanziamenti anche non elevati36. Nello schema si fa riferimento anche ai family offices, ovvero società di gestione dei patrimoni privati di investitori (spesso famiglie) con ingenti possibilità economiche, che rientrano nella categoria degli investitori individuali. I General Partner apportano, invece, competenze manageriali e finanziarie e quindi hanno un ruolo chiave nella partnership. Inoltre, possono organizzare capital calls o stage financing, ovvero “somministrazioni progressive di capitale”37, in base alla quali vengono erogate ulteriori iniezioni di capitale alle 35 Forestieri G., Corporate & Investment Banking, Egea, Milano, 2009 36 Banca d’Italia, Il private equity in Italia: un analisi sulle “imprese target”, Questioni di Economia e Finanza, Occasional Papers, Numero 98, Luglio 2011 37 Arnone M., Bellavite Pellegrini C., Graziadei F., Il venture capital per lo sviluppo – Un’analisi delle economie emergenti, Vita e Pensiero, Milano, 2006 30 imprese già oggetto di finanziamento. Le motivazioni per le ricapitalizzazioni possono riguardare la necessità di investimenti addizionali da parte della società target, il supporto temporaneo a insufficienti cash flow che possono minacciare la violazione degli accordi presenti, e infine il desiderio degli azionisti di ricevere ulteriori dividendi. Ovviamente, qualsiasi apporto ulteriore di debito alla società target può essere approvata solamente con il consenso di tutti i membri della sindacazione38. E non risulta così raro che le banche, in qualità di partecipanti alla sindacazione, respingano le richieste di ricapitalizzazione avanzate dai manager del fondo di LBO: i motivi possono essere la struttura della proposta troppo aggressiva (quindi il rapporto di indebitamento viene ritenuto troppo elevato), un rimborso dei dividendi troppo ingente, e che i covenant legati al debito siano stati indeboliti. Infine il rifiuto alla ricapitalizzazione può derivare anche dal fatto che il rischio di impresa viene passato ai creditori39. La società di gestione ha il compito di gestire il fondo e viene remunerata attraverso un compenso pari all’1% o al 2% del capitale impiegato, a cui si aggiunge una performance fee (carried interest) variabile dal 20% al 30% dei profitti ottenuti durante la vita del fondo. I General Partner, quindi, possiedono un’opzione call sul 20% del rendimento atteso futuro, sulla quale il Limited Partner stabilisce il prezzo di esercizio: questo schema di incentivi economici legato alle plusvalenze realizzate è spesso rafforzato dall’investimento diretto. Inoltre, spesso il regolamento stabilisce che tale proporzione si applichi solo se viene superata una soglia minima di ritorno (hurdle rate) 40 , rispetto all’investimento iniziale da parte dei sottoscrittori, i quali possono godere di ulteriori clausole a tutela dei loro diritti patrimoniali. In particolare, l’hurdle 38 Deriva dalla parola inglese syndication e nel linguaggio finanziario e bancario descrive un'operazione di vasta portata, quale l'emissione di un prestito obbligazionario, effettuata da più banche che costituiscono un consorzio al fine di frazionare il rischio insito nell'operazione: è il prestito concesso al prenditore di fondi da un pool di banche. Generalmente nella fase pre-‐mandato il debitore cerca di sollecitare l’interesse di più banche per la presentazione di offerte competitive ad assumere il ruolo di arranger. La banca selezionata riceve il mandato di lead arranger ed è quindi responsabile della negoziazione con il debitore dei termini fondamentali del prestito. Nella fase invece post-‐mandato il debitore e il lead arranger danno esecuzione alla commitment letter che contiene i termini dell’operazione, gli impegni e i compensi e costituisce la base su cui si svolge la negoziazione con le banche partecipanti alla sindacazione. Successivamente una quota significativa dei prestiti sindacati è negoziata sul mercato secondario, aumentando la liquidità, diminuendo il rischio e allargando il numero dei potenziali investitori. 39 ECB, Large banks and private equity-‐sponsored leveraged buyouts in th EU, April 2007 40 http://www.borsaitaliana.it/azioni/come-‐quotarsi/guide/guidaallavalutazione.pdf 31 rate è quel “tasso di rendimento minimo, sopra il quale scattano i meccanismi di incentivazione per i gestori dei fondi chiusi (carried interest)”41. I sottoscrittori del fondo, Limited Partner, ricevono il 70-‐80% delle plusvalenze realizzate, a fronte di un impegno finanziario del 98-‐99%42. Figura 5 -‐ La struttura di una Limited Partnership. Fonte: Forestieri G., Corporate & Investment Banking, Egea, Milano, 2009 Può essere utile un esempio per chiarire il funzionamento di questa particolare struttura. Una società di private equity, che possiamo chiamare PE Partners, crea un fondo di private equity, definito PE1, con €2 miliardi di capitale versato dai Limited Partner. Con una management fee del 2%, PE Partners riceverebbe €40 milioni all’anno per i 5 anni del periodo di investimento. Le fee in questione potrebbero svanire nei seguenti 5 anni qualora la società PE Partners uscisse dall’investimento o vendesse i suoi investimenti. Le management fee tipicamente terminano dopo dieci anni, sebbene il fondo possa essere esteso per un periodo ulteriore. 41 Solitamente viene definito in base all’IRR e correlato al free risk rate che l’investitore può ottenere nello stesso paese nel quale opera il fondo. Dopo che hurdle rate viene realizzato c’è generalmente il cosiddetto catch up, un lasso di tempo durante il quale i manager ricevono una fetta di utili sempre maggiore fino a pervenire a una ripartizione tra investitori e gestori nella misura di 80:20. Tale schema si accompagna al cosiddetto vesting arrangement, disposizione volta a incentivare la fedeltà degli investment manager, in base alla quale la corresponsione del carried interest avviene lungo un certo lasso di tempo anziché in un’unica soluzione. 42 Forestieri G., Corporate & Investment Banking, Egea, Milano, 2009 32 Quindi, PE Partners investirebbe la differenza tra i €2 miliardi e il totale delle management fee. Se gli investimenti di PE Partners si rivelassero di successo e PE Partners fosse in grado di realizzare €6 miliardi dai suoi investimenti, quindi con un profitto di €4 miliardi, PE Partners riceverebbe un carried interest o quota di profitto di €800 milioni (o 20% dei €4 miliardi di profitto). In conclusione, alle management fee che oscillano tra i €300 e i €400 milioni va sommato il carried interest, portando così PE Partners a ricevere fino a €1,2 miliardi43. 6. Le Tipologie Di Fondi Di Private Equity Riprendendo la distinzione tra fondi generalisti e specializzati, si deve sottolineare che attualmente sempre meno fondi tendono a essere generalisti, ovvero senza una specializzazione di settore o di business, mentre la maggior parte dei fondi di private equity si sta specializzando in determinati settori industriali, servizi o società in una particolare fase del ciclo di vita, in una certa dimensione o anche con una specifica copertura geografica. La maggior parte delle società di private equity raccolgono i loro fondi da fonti esterne, principalmente da investitori istituzionali, e vengono definiti indipendenti. Al contrario, le società di private equity, che ottengono i loro fondi principalmente dal gruppo di cui sono emanazione, vengono definite captive. Esse hanno come fonte di capitali, la società capogruppo o altre imprese affiliate, non ricorrendo direttamente al mercato dei capitali. Tuttavia, si osserva che sempre più, le società definite captive raccolgono le risorse anche da fonti esterne e sono quindi identificate come semi-‐captive44. Riguardo la dimensione dell’investimento, questa è spesso collegata alla fase di sviluppo della società. Gli investitori in private equity spesso detengono una quota importante in aziende molto giovani perché forniscono il capitale altrimenti assai difficile da raccogliere attraverso le fonti tradizionali (come le banche) e perché solitamente sono ampiamente coinvolti nella predisposizione dell’operazione. Tuttavia, la dimensione degli investimenti in queste fasi sono 43 Kaplan S., Strömberg P., “Leverage Buyouts and Private Equity”, Journal of Economic Perspectives, Volume 23 Number 1, Winter 2009, pp 121-‐146 44 BVCA, PriceWaterHouseCoopers, “A guide to private equity”, October 2004 33 ridotte rispetto a quelle osservabili nella fase di sviluppo o in quelle successive45. Inoltre, le dimensioni dei fondi di private equity variano in relazione all’ambito geografico degli investimenti. Quindi, i fondi locali, o country funds 46 , che svolgono l’attività di investimento all’interno dei confini nazionali, hanno tipicamente dimensioni comprese fra i 50 milioni e i 500 milioni di euro. Negli ultimi anni, si sono sviluppati i cosiddetti mega funds o fondi paneuropei 47 e i fondi globali, ovvero fondi facenti capo a istituzioni internazionali, con dimensioni molto superiori alla media degli operatori del settore. Altri investitori istituzionali sono i principali sottoscrittori di questi soggetti e generalmente questi mega funds si appoggiano a una rete di advisors locali48. I fondi paneuropei come si può evincere dalla denominazione gestiscono investimenti localizzati in ambito europeo e hanno dimensioni comprese fra i €500 milioni e i €5 miliardi: generalmente tendono a concentrare i propri investimenti su poche operazioni ma con dimensioni importanti (grandi e mega deal). A dicembre 2011 i primi 5 fondi paneuropei gestivano assets per 102.814,1 milioni di euro: in particolare, il primo (Templeton Global Bond Fund) ne gestiva il 30,7%49. In Italia, nel 2007, i fondi pan-‐europei erano 35 e rappresentavano una quota del 25% del totale degli operatori attivi nel mercato. Nel 2011, erano 49 e rappresentavano una quota del 28,7%. Infine, i fondi globali hanno la capacità di investire in società a livello internazionale e forniscono opportunità di diversificazione. Agiscono come una copertura contro i rischi di inflazione e di cambio e la loro dimensione varia fra i €2 miliardi e i €10 miliardi. 45 EVCA, Guide on Private Equity and Venture Capital for Entrepreneurs, November 2007 46 Sono fondi comuni di investimento di tipo aperto o chiuso che impiegano il denaro raccolto tra i sottoscrittori nel mercato mobiliare di un singolo paese e quindi generalmente sono contraddistinti dal nome del paese in cui investono. 47 Fondi d’investimento in capitale di rischio in imprese non quotate che pongono il rispettivo focus anche oltre i confini nazionali, grazie all’utilizzo di società advisor collocate nelle aree ritenute più rilevanti 48 Gervasoni A., Sattin F. L., Private equity e venture capital – manuale di investimento nel capitale di rischio, Guerini e Associati, Milano, 2000, pag. 68 49 Reuters, European Fund Market Review – 2012 Edition, 2012 34 7. L'evoluzione Del Mercato Italiano del Private Equity Fino Al 2007 L'industria del Private Equity e del Venture Capital nel triennio 2005/2007 ha vissuto una fase particolarmente positiva in un contesto economico in evoluzione dove le imprese hanno potuto usufruire di riforme strutturali dei mercati, della diffusione delle conoscenze tecniche e organizzative e di investimenti in ricerca e sviluppo. In questo periodo il contributo dei fattori finanziari è stato maggiormente utilizzato: è il periodo in cui il settore degli operatori professionali e specializzati nell'attività di investimento nel capitale di rischio ha avuto la maggiore espansione. 7.1. L’Attività Di Investimento L’attività di investimento è la sola attività che ha vissuto una crescita costante (se non si considera l’anno 2004) in termini di ammontare investito, raggiungendo il valore record di €4,2 miliardi nel 2007, segnando un Figura 6 -‐ Analisi evolutiva d ell’attività di investimento. Fonte: Nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi Italiano) Mercato incremento del 12,5% rispetto al 2006. Trend simile anche per il numero di operazioni, considerando però il triennio 2005-‐2007. Infatti dal 2000, in cui le operazioni erano 646, si era registrata una costante diminuzione, che ha visto il 2004 come l’anno più negativo per l’attività di investimento. L’attività di investimento dunque nel periodo 1999-‐2007 è praticamente divisa in due parti e il 2004 fa da spartiacque, in particolare segnando la fine del percorso di crescita avvenuto tra il 1999 e il 2003, che è ripreso nel 2005. 35 In particolare il triennio 2005/2007 ha visto crescere il mercato del Private Equity e del Venture Capital per numero di operazioni, per aumento dei capitali investiti, e per il coinvolgimento di circa 250 imprese diverse ogni anno. La maggior parte degli investimenti ha interessato imprese localizzate nel nostro Paese, anche se nel 2007 si è registrata un’importante inversione di tendenza per cui gli investimenti all’estero per la prima volta dal 2001 hanno superato per numero quelli effettuati in Italia. Inoltre, sempre dal 2001 si è registrata una certa stabilità tra investimenti a favore di società già partecipate dallo stesso operatore o da altri investitori nel capitale di rischio (operazioni follow on) e società soggette per la prima volta al fenomeno private equity (operazioni initial). Il panorama quindi dell’attività di investimento nel periodo 2000-‐2007 si caratterizza per quantità sempre maggiori di capitale di rischio destinato a nuovi investimenti, con un accenno di cambiamento proprio nel 2007 per quanto riguarda il focus geografico dell’attività. Per quel che riguarda l’attività svolta dalle diverse categorie di investitori monitorati, i fondi pan-‐europei in questo periodo hanno investito maggiormente e, soprattutto dal 2005, hanno aumentato nettamente il loro Figura 7 – Distribuzione degli investimenti per tipologia di operatore (2007 – 2012). Fonte: Nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi Mercato Italiano) impegno nel settore, anche se il numero di investimenti rimane basso, a differenza delle SGR. Le SGR infatti rappresentano la categoria di operatori che ha realizzato il maggior numero di investimenti nel corso dell’anno, seguite appunto dagli operatori di emanazione pubblica/regionale. Questi ultimi 36 tuttavia hanno investito quantità ampiamente ridotte rispetto alle SGR, che insieme alle banche sono stati i principali operatori nel periodo 2000-‐2007. Il numero di operazioni e l’ammontare investito dai fondi di early-‐stage è invece diminuito nettamente tra il biennio 2001-‐2002 e il biennio 2006-‐2007. Seguendo invece la dinamica delle tipologie di operazioni finanziate, i buyout sono il segmento di mercato verso il quale è confluita la maggior parte delle risorse investite: nel 2007, sono stati investiti €3.295 milioni, in aumento rispetto al 2006 del 34,82%, e del 275,28% rispetto al 2000. L’espansione così forte del fenomeno buyout può essere spiegata, almeno in Italia, con necessità di ricambio generazionale, caratteristica strutturale delle PMI italiane, che ha come obiettivo la sostituzione delle compagini azionarie. L'utilizzo del buy out è un tipico intervento anche in realtà francesi e tedesche, per caratteristiche simili delle imprese europee. Figura 8 – Evoluzione dell’ammontare investito e d el numero di transazioni per tipologia di operazioni (1999 – 2007). Fonte: Nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi Mercato Italiano) Questa attività è seguita a notevole distanza dal segmento expansion, rimasto pressoché costante dal 2000 al 2007 toccando minimi di €441 milioni e massimi di €1.094 milioni. Ciò che è variato tuttavia è il numero di operazioni di expansion soggette a investimento, che rispetto al 2000 hanno subito un costante declino, portando ad avere più capitali investimenti in un numero minore di operazioni (l’investimento medio nel 2006 era €10,4 e nel 2007 era €7 milioni contro una media di €3,9 milioni). La maggiore attenzione per imprese mature o in fase avanzata di crescita e di medie dimensioni hanno portato al sottosviluppo del segmento dell'early 37 stage, il cui numero di operazioni è diminuito drasticamente a 49 nel 2002 , quando solo due anni prima erano 339. I capitali investiti hanno seguito il medesimo trend, che ha determinato anche un minor investimento medio per operazione. L’attività di replacement, invece, continua ad avere un ruolo marginale con un numero di operazioni parti a 14 nel 2007, in calo del 44% rispetto al 2006. Figura 9 – Distribuzione del numero di investimenti per classi di fatturato (€ mln) (2004 – 2007). Fonte: Nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi Mercato Italiano) Relativamente alla distribuzione degli investimenti per classi di fatturato delle aziende target, l’evoluzione che ha interessato il settore nel corso del periodo 2004-‐2007 evidenzia un ulteriore incremento delle operazioni su aziende di piccola e media dimensione (con un fatturato inferiore ai 50 milioni di Euro), che rappresentano, il principale target verso cui sono indirizzati gli investimenti di private equity e venture capital in Italia (pur avendo attratto risorse per circa il 16% del totale nel 2007), con una media del 71% sul numero complessivo di operazioni. 7.2. L’Attività Di Raccolta e Di Disinvestimento Nel periodo 2000-‐2007 la raccolta media è stata di circa €2,1 miliardi, con una quasi perfetta parità tra fonti nazionali (€1.051 milioni) ed estere (€1.081 milioni). L’evoluzione invece dell’attività di fundraising ha subito un parabola 38 discendente tra il 2001 e il 2005, con una media di €1.763 milioni, per poi crescere, o rimbalzare usando un termine borsistico, del 125% nel biennio 2006-‐2007. È altresì importante sottolineare che i valori registrati nel 2007 sono superiori a quelli del 2000 ma di appena €103 milioni, a indicare una sorta di andamento ciclico nell’attività di fundraising. “L’incremento che ha caratterizzato il volume delle sole risorse raccolte sul mercato è stato contestualmente accompagnato da un aumento del numero di operatori che hanno effettuato attività di fundraising nel corso del 2007, saliti a quota 24, contro i 19 del 2006. Di questi, 13 sono riconducibili a SGR che gestiscono fondi chiusi di diritto italiano e a cui è attribuibile oltre il 61% dei capitali raccolti sui mercati nel 2007 (€1.437 milioni). Si tratta di un’incidenza significativa, se si considera che le sole risorse raccolte da questa tipologia di operatori nel corso del 2007 risultano superiori del 60% rispetto al totale della raccolta indipendente del 2005”50. Figura 10 – Evoluzione dell’origine geografica dei capitali raccolti sul mercato (2000 – 2007). Fonte: Nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi Mercato Italiano) Inoltre, questi risultati sono stati ottenuti grazie ad un record nell’apporto di capitale estero, dimostrando come sia fondamentale la presenza di capitale di origine internazionale, data la scarsa partecipazione patrimoniale degli investitori domestici nei confronti del settore del private equity. Le quote di capitali provenienti dal settore bancario sono rimaste durante tale periodo le più elevate, subendo però il ritorno dei fondi di fondi che nel 2006-‐ 2007 hanno fatto registrare i maggiori apporti di risorse al settore del private 50 AIFI, Il Mercato Italiano del Private Equity e del Venture Capital, Milano, 31 Marzo 2008 39 equity, e contribuendo quindi significativamente all’aumento della raccolta nel panorama italiano. Quote di misura inferiore sono da attribuire a più operatori tra cui le assicurazioni e le fondazioni bancarie con quote del 10% circa ciascuno. Figura 11 – Evoluzione dell’origine dei capitali raccolti sul mercato per tipologia d i fonte (€ mln) (2000 – 2007). Fonte: Nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi Mercato Italiano) Per quanto riguarda la dinamica dei disinvestimenti, il trend ripercorre quello della raccolta. L’ammontare medio disinvestito è stato pari a circa €1,1 miliardi anche se l’ammontare disinvestito per ogni singola operazioni è risultato in continua crescita. Infatti mentre nel 2000, si registravano valori di €2,5 milioni ad operazione, nel 2007 erano 5 volte superiori: nel 2000 l’ammontare disinvestito per 186 operazioni era di €465 milioni, nel 2007 per 21 operazioni in più era di quasi €2,2 miliardi superiore. Una differenza sostanziale mai registrata prima che ad un occhio attento poteva risultare strana, economicamente positiva, ma finanziariamente pericolosa. Tuttavia, il fattore di effetto di fiducia precedente ad ogni crisi non ha permesso al mercato di percepire il rischio latente, facendo sì che un spirale virtuosa portasse i valori lontani da quelli reali, gonfiandoli in modo inverosimile. 40 Figura 12 – Evoluzione dell’attività di investimento (2000 – 2007). Fonte: Nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi Mercato Italiano) Infine, dal grafico precedente si nota che le partecipazioni dismesse sono state acquisite principalmente da partner industriali (trade sale) con una media di 80 operazioni e hanno rappresentato percentualmente il principale acquirente. Da parte di investitori finanziari (secondary sale) sono state acquisite in media Figura 13 –Evoluzione dell’attività di disinvestimento (1999 – 2008). Fonte: Nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi Mercato Italiano) 41 21 operazioni, anche se nel corso degli anni il loro peso percentuale è aumentato, seguendo il trend delle quotazione in Borsa che nel 2007 ha raggiunto quota 18%, con 37 operazioni (la media era del 9% con appena 10 operazioni). Positivo infine il dato sui write off, indicatore che migliora quando diminuisce. Infatti dal 2003 è iniziata una costante diminuzione di questa tipologia di disinvestimenti, raggiungendo appena 4 operazioni nel 2007 e indicando una buona stabilità del mercato e di conseguenza una congiuntura economica favorevole. 42 Parte 2 La Crisi Finanziaria e il Private Equity 43 1. Il Contesto Economico Dopo il 2008 Il contesto economico mondiale, come è ben noto, è cambiato radicalmente dopo il 15 settembre 2008, data del fallimento dell'investment bank Lehman Brothers. Tuttavia, la recessione economica iniziò negli Stati Uniti nel Dicembre 2007 e fu aggravata dal successivo fallimento di Bear Stearns e appunto di Lehman Brothers. La recessione è terminata ufficialmente nel giugno 2009, ma la crisi finanziaria ed economica non è stata ancora superata. A livello macroeconomico, i primi segnali di peggioramento si sono manifestati nel primo trimestre del 2008: i dati del PIL sul trimestre precedente a livello mondiale facevano segnare i primi valori negativi (solamente il Canada in quel periodo registrava il valore positivo dello 0,1%). Tuttavia, il picco negativo è stato registrato il primo trimestre 2009: in questo periodo la Germania ha perso il 3,5%, il Giappone il 4,2% e l'Italia il 2,9%. Solamente, dal secondo trimestre del 2009 è iniziata una lenta ripresa con un debole aumento dei valori del PIL. 44 Figura 14 – Crescita congiunturale del Pil il termini reali (dal p rimo trimestre 2008 al secondo trimestre 2012). Fonte: OECD, Quarterly National Accounts -‐ First Quarter of 2010, Maggio 2010 Come prima si sottolineava, la crisi è tuttora presente e il grafico lo evidenzia: il trend di crescita si interrompe tra il secondo e il terzo trimestre 2010, coinvolgendo, con proporzioni diverse, ma sempre in modo negativo, Francia, Germania, Italia, Regno Unito. La situazione peggiora se si analizza la variazione del Pil rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Infatti il picco negativo, registrato sempre nel primo trimestre del 2009, si attesta su valori medi del 4,75% (media della variazione del Pil dei paesi presenti nel grafico), quando tale valore è del 2,33% se si considerano le variazioni del Pil sul trimestre precedente. Inoltre l’inversione di tendenza del secondo trimestre vede l’Italia come uno dei paesi con le percentuali peggiori (l’ultimo trimestre 2009 il valore segna un -‐0,1% rispetto allo stesso trimestre del 2008.)51 51 OECD Quarterly National Accounts, First Quarter of 2010, 31 May 2010 45 Figura 16 -‐ Crescita congiunturale del Pil il termini reali (dal p rimo trimestre 2008 al secondo trimestre 2012). Fonte: Fonte: OECD, Quarterly N ational Accounts -‐ First Quarter of 2010, Maggio 2010 Analizzando i corsi azionari, troviamo evidenza di come questi abbiano rispecchiato l’andamento generale dell’economia. I primi mesi del 2009 si sono segnate perdite consistenti, a cui è seguito un forte miglioramento, grazie alla politiche di aiuti pubblici in America ed Europa52. Tuttavia, possiamo notare come dal luglio 2011, l’indice europeo abbia intrapreso un andamento negativo, opposto a quello americano, proprio a causa dell’acutizzarsi della crisi del debito in paesi come Grecia, Spagna, Portogallo e la stessa Italia: i valori raggiunti dall’indice Euro Stoxx 50 infatti si sono avvicinati pericolosamente ai minimi toccati nel marzo 2009. 15 – Andamento degli indici azionari: S&P500 (linea verde), Eusto Stoxx 50 (linea gialla), e Figura FTSE MIB (linea arancione) (6/12/2008 – 9/06/2013). Fonte: Bloomberg 52 www.bloomberg.com 46 Tuttavia fino al 2007, bassi tassi di interesse, ampia liquidità e il consolidamento dell’economia, hanno supportato l’espansione dell’attività di M&A in Europa. Questi sviluppi, però, hanno portato ad una competizione più feroce fra gli investitori e i finanziatori nel mercato dei LBO. Sebbene le banche svolgessero delle accurate analisi sul credito nelle transazioni LBO, non si può escludere che tale competizione abbia incoraggiato le banche a compromettere la loro due diligence e ad allentare i loro standard sui prestiti a causa della rapida crescita del mercato. L’analisi del mercato europeo dell’attività di M&A, di cui è parte il settore private equity, mostra infatti che il numero delle operazioni è diminuito costantemente dal 2008, registrando un crollo drammatico del 75%. Dal punto di vista delle dimensioni delle operazioni, ha subito una sorprendente aumento tra il 2007 e il 2008, mentre il numero delle operazioni iniziava il suo declino. Nel biennio 2008-‐2010 l’ammontare investito è diminuito in maniera molto lieve, salvo poi più che dimezzarsi nel 2011, toccando il minimo, se si considera il periodo 2004-‐2011. Figura 17 – Operazioni M&A in Europa (2004 – 2011). Fonte: Dealogic Nel panorama italiano la situazione è stata anche peggiore perché la flessione ha riguardato sia il numero di operazioni, che l’ammontare investito. Infatti, la diminuzione del volume delle operazioni è stata dell’81% tra il 2007 e il 2011. Il numero delle operazioni è passato da 495 nel 2008 ad appena 197 nel 2009, registrando una graduale ripresa dal 2010 con 279 operazioni effettuate. Il nuovo scenario, che si è delineato quindi in seguito alla crisi, si caratterizza per la riduzione delle transazioni e del valore delle operazioni, spostando il focus su operazioni di dimensioni ridotte e in numero minore. 47 Figura 18 – Operazioni M&A in Italia (2004 – 2011). Fonte: Dealogic Portando il focus sull’attività di private equity, si guarda alle statistiche relative all’evoluzione del mercato del private equity tra il 2000 e il 2011 attraverso gli indicatori principali del settore: i fondi raccolti, gli investimenti e i disinvestimenti. Sia dal lato della raccolta che dal lato degli impieghi è evidente che il turning point si registra a cavallo tra il 2007-‐2008 e gli effetti negativi, anche nel settore del private equity si registrano nel 2009. Figura 19 – Ammontare dei fondi raccolti, degli investimenti e dei disinvestimenti effettuati in Europa (€ miliardi) (2000 – 2011). Fonte. EVCA, Yearbook 2012 Secondo i dati forniti dall’EVCA, l’ammontare di fondi raccolti dalle società di private equity in Europa durante il 2006 ha raggiunto un record di €112 miliardi, rispetto ai €72 miliardi dell’anno precedente. Gli investimenti hanno invece raggiunto il valore massimo nel 2007 con €72 miliardi, consolidando il valore dell’anno precedente fermo a €71 miliardi. 48 Questa forte espansione del mercato del private equity ha sicuramente portato dei benefici all’economia ed è positivo che abbia raggiunto dei livelli tanto elevati. Tuttavia, in particolare modo dopo la crisi, il private equity è stato criticato per le sue strutture finanziarie eccessive: l’utilizzo esagerato del debito per acquisire il controllo delle società target; l’uso di strutture complesse per ridurre o eliminare l’imposizione fiscale; investimenti in operazioni di buyout piuttosto che nel venture capital. Ad esempio uno studio del 2007 (“Leverage and Pricing in Buyouts: An Empirical Analysis”, Axelson U., Jenkinson T., Stromberg P., Weisbach M. S.) condotto su 153 operazioni di buyout (con un EV medio superiore al 1$ miliardo) realizzate tra il 1985 e il 2006 da grandi società di private equity, ha mostrato che le società target post-‐operazione avevano un livello di Debito/EV del 67%, contro il 14% delle società quotate. Inoltre la media del debito netto sull’EBITDA era del 5,4% nei buyout e appena l’1,1% nelle società quotate53. Secondo i dati di Standard&Poor’s, i prezzi di acquisto in Europa hanno raggiunto il picco nel 2006 con un valore di 8,4. E lo stesso andamento ha avuto il multiplo EV/EBITDA, che ha superato il record raggiunto nel 1998, con Figura 20 -‐ Evoluzione multipli Price/EBITDA e EV/EBITDA nelle operazioni di LBO. Fonte: Standard&Poor’s Capital IQ un valore di 8,8. Ancora, nel 2006 il debito bancario era la principale fonte per le operazioni di LBO, rappresentando metà dei ricavi totali dei LBO. E tuttavia, la struttura dei prestiti bancari delle operazioni in Europa può essere vista ancora come 53 CEPR, Private Equity: Origins, Growth, and Business Model – Management, Employment, and Sustainability, February 2012 49 abbastanza conservativa. Infatti, il debito senior “Tranche A” rappresentava circa il 23% dei prestiti totali concessi dalle istituzioni bancarie, quando nel mercato statunitense tale percentuale non raggiungeva l’1% (0,8%). Tuttavia, la forte competizione nel mercato LBO europeo aveva aumentato la propensione al rischio dei potenziali creditori, come evidenziato dalla proporzione sempre maggiore di debito più rischioso nelle operazioni di LBO. Figura 21 -‐ Struttura dei debito bancario n elle operazioni di LBO (%) . Fonte: Standard&Poor's Capital IQ Tuttavia, nonostante questa tendenza, la media dello spread a tre mesi per le “tranche B” e le “tranche C” nel 2006 ha subito un declino, grazie al contesto economico stabile e alla forte competizione nelle operazioni di LBO. Come è noto, alti livelli di debito aumentano i rischi di dissesto finanziario in particolare durante periodi di bassa crescita economica come quelli attuali. Tuttavia, queste considerazioni non sembrano essere prese in considerazione nell’ambito del private equity, nonostante l’evidenza che alti livelli di indebitamento tipici di un’operazione di LBO portano a tassi più elevati di fallimento e ristrutturazione54. Da un punto di vista di stabilità finanziaria, il motivo dell’attenzione sul segmento LBO del mercato private equity deriva non solo dalle dimensioni ma anche dal livello significativo del coinvolgimento delle banche nell’attività di finanziamento degli LBO. Infatti il coinvolgimento del settore bancario nel fornire capitali al venture capital e il finanziamento del debito in sofferenza, al 54 Uno studio condotto sui tassi di fallimento mondiali tra le società partecipate da private equity considerate nel periodo Gennaio 1970 e giugno 2007 mostra che le queste società con elevati livelli di indebitamento hanno registrato più elevati livelli di default rispetto alle società quotate. (CEPR, Private Equity: Origins, Growth, and Business Model – Management, Employment, and Sustainability, February 2012) 50 contrario, tende a essere più limitato dovuto al fatto che queste attività generalmente incorporano un livello di rischio più elevato. E il fatto che questi rischi vengano ignorati è fondamentale, se si considera che situazioni simili nell’ambito del private equity si sono già registrate nel passato. Infatti, l’era dei grandi leveraged buyout cominciò nel 1979, con l’operazione di buyout da parte di KKR. Questa operazione, che comportò un minimo impegno da parte della società acquirente, KKR, fu finanziata tramite debito, contratto dalla società target, cioè la Houdaille Corporation. Questa transazione portò sorprendenti guadagni per gli azionisti e servì come modello per le operazioni che seguirono. Infatti, gli anni Ottanta furono molto positivi per lo sviluppo delle operazioni di buyout e per i corporate raiders55, ovvero i precursori degli odierni hedge fund e operatori di private equity, che acquisivano grandi quantitativi di azioni sul mercato, e utilizzavano il leverage per l’acquisizione o ristrutturazione delle società target. Questa, cosiddetta “golden age” del private equity iniziata con l’operazione Houdaille si concluse con un’altra transazione sempre da parte di KKR (il buyout record di RJR Nabisco per $31,1 miliardi nel 1989), e per molti aspetti la seconda “golden age” del periodo 2003-‐2007 ricorda esattamente ciò che accadde nella prima ondata di private equity negli anni Ottanta. In quel periodo le caratteristiche della maggior parte delle transazioni riguardavano: • Società mature e stabili del middle market (dai $5 ai $100 milioni) o divisioni di società più grandi • Prezzi di acquisto sull’EBITDA modesti • Disinvestimento tramite una IPO o una vendita in 3-‐5 anni con un ritorno atteso del 25% • Il 60-‐85% delle operazioni erano finanziate con debito fornito da banche e società finanziarie • I Limited Partners erano principalmente fondi pensioni Il cambiamento verso operazioni di più grandi dimensioni avvenne nel periodo 1987-‐1989, quando i prezzi di acquisto passarono da 6 a oltre 9 volte l’EBITDA. Allo stesso modo aumentarono anche i livelli di indebitamento, da 4x a oltre 6x. E curiosamente tali valori non furono più raggiunti fino al 2007. La 55 Predatori finanziari o scalatori: finanzieri con pochi scrupoli che lanciano offerte di acquisto ostili nel tentativo di impossessarsi di imprese spesso in difficoltà con l’aiuto di arbitraggisti e mediante acquisizioni non pubblicizzate di consistenti pacchetti azionari 51 conferma si trova nella stampa di quel periodo che infatti definiva l’ambito del private equity in questo modo: "It was so much easier to go to the public markets. It was cheaper, and there were very few covenants...it was fantasy...smart money was able to raise dumb money from passive investors -‐ money that would accept high risks for skimpy rewards". La fine di questa prima ondata iniziò nel 1989, quando i mercati dei capitali iniziarono a peggiorare, scoppiò la crisi delle savings e loans (attività deregolamentata nel 1982 dall’amministrazione Reagan che portò queste realtà a fare investimenti rischiosi con i risparmi dei clienti) e la recessione fu la naturale conseguenza. Nei primi anni Novanta, la crisi delle savings and loans (S&L) e il collasso di Drexel Burnham peggiorarono la situazione e furono seguite dal fallimento dei leveraged buyout a causa dell’assenza di credito. La crisi delle S&L portò all’approvazione nel 1989 del Financial Institutions Reform, Recovery, and Enforcement Act (FIRREA), che impose limitazioni all’attività delle S&L. Infine la recessione economica nel 1990 rivestì un ruolo particolarmente importante sulle società cariche di debiti acquisite nelle operazioni di LBO e fu segnata dalla bancarotta di società miliardarie come Federated Department Stores, Seamens, Revco, Walter Industries, FEC Trucking, e Eaton Leonard56. La crisi attuale è stata causata da fattori simili a quelli della crisi degli anni Ottanta. Le società target venivano acquisite a prezzi elevati, e ottenere dei prestiti era semplice: quindi i fondi accettavano di pagare qualsiasi prezzo per qualsiasi società target in tutti i settori. Inoltre, l’effetto leva aumentò l’IRR delle società ma aumentò allo stesso tempo il grado di rischio. Grazie alle condizioni stabili del mercato, gli investitori e le istituzioni aumentarono la loro soglia del rischio alla ricerca di rendimenti più elevati. Endowments e fondi pensione furono attratti dagli alti rendimenti offerti dal mercato del private equity. I fondi raccolti nel periodo 2004-‐2007 superarono il totale di quelli raccolti dal settore dai primi anni Ottanta, e quindi per i fondi diventò normale raccogliere capitali per oltre $20 miliardi. Allo stesso tempo, il mercato del debito divenne più accomodante e gli standard di copertura più flessibili. In modo simile al mercato dei subprime, le tecniche di securitization furono utilizzate per espandere le fonti di capitale di debito a disposizione per le operazioni di LBO, trasformando il mercato dei 56 CEPR, Private Equity: Origins, Growth, and Business Model – Management, Employment, and Sustainability, Febbraio 2012 52 prestiti da un mercato bancario istituzionale ad un mercato dei capitali. Le banche stesse concedevano prestiti da raggruppare e poi vendere a veicoli di investimento che raccoglievano i fondi. Secondo i dati Standard & Poor’s, nel 2006, più dell’80% del capitale raccolto dai fondi di private equity fu diretto alle operazioni di LBO. Allo stesso modo, in Europa €71 miliardi su €90 totali raccolti dai fondi di private equity furono allocati per operazioni di buyout57. Questa situazione culminò nella transazione record di $43,8 miliardi del 2007, tramite la quale un gruppo guidato dalle società di private equity Kohlberg Kravis Roberts & Co. KKR.UL e Texas Pacific Group TPG.UL, ha acquisito la Texas power company (TXU)58. E proprio come negli anni Ottanta, anche se su scala maggiore, una forte raccolta di capitali portò all’incremento della competizione per la realizzazione delle operazioni migliori. Il risultato furono operazioni caratterizzate da un eccessivo utilizzo del debito, e da prezzi troppo elevati. In effetti, le società di private equity spostarono il focus degli investimenti dalle imprese al mercato dei capitali, dedicandosi alla raccolta piuttosto che all’investimento. In seguito al crollo dei mercati nell’estate del 2007, a causa della crisi dei subprime, le società di private equity non riuscirono più ad ottenere risorse. Le valutazioni crollarono e l’apporto dei Limited Partners sparì come conseguenza dell’assenza di opportunità di disinvestimento. Il mix di perdite in portafoglio e il ristretto numero di partner ridussero la distribuzione di compensi e l’attività di raccolta. La situazione peggiorò nel 2008, con perdite in portafoglio tra il 30% e il 40% anche per le più importanti società internazionali del settore come KKR, Blackstone e Carlyle. In particolare, i fondi di dimensioni fino a $2,5 miliardi persero il 20% del loro valore nel periodo tra dicembre 2007 e dicembre 2008; i mega fondi il 35% nello stesso periodo59. Quanto accaduto nel 2007-‐2008 rispecchia ciò che avvenne nella prima grande espansione dell’attività di private equity degli anni Ottanta. Infatti il mercato del private equity segue un andamento ciclico fatto di forti 57 ECB, Leveraged Buyouts and Financial Stability, Monthly Bulletin, August 2007 58 “Private equity buys TXU in record deal”, Reuters.com, 26 feb 2007 59 Athanese P., Collete C., “LBOs in Theory and Practice, Learning Outcomes of a Crisis”, Journal of Modern Accounting and Auditing, September 2011, Vol. 7, No. 9, pg. 913 53 espansioni e contrazioni dovute all’attività di fundraising e alle condizioni dei mercati. I General Partner cercarono di massimizzare i loro profitti attraverso operazioni e le fee derivanti da attività di consulenza. Dall’altra parte i Limited Partner soffrirono la mancanza di allineamento degli incentivi con i General Partner. I primi infatti delegano la selezione delle opportunità di investimento e delle strutture più adatte a realizzarle ai General Partner, i quali per questa attività come è noto ricevono dei compensi. Tuttavia, le performance derivanti dalle transazioni sono pesantemente influenzate dalle condizioni dei mercati di capitali. La forte espansione di questi ultimi nel periodo 2003-‐2007, e in particolare il mercato del debito, sfociò in operazioni con strutture finanziarie più aggressive con livelli di debito crescenti e con minori coperture legate all’incremento del rischio: una situazione quindi molto simile a quella degli ultimi anni Ottanta. Utilizzando quindi le tecniche di securitization, la capacità di credito aumentò notevolmente mediante il raggruppamento e piazzamento di prestiti nel mercato tramite le cosiddette “shadow banks”60. Le banche appoggiarono l’attività di private equity dal momento che permetteva loro di ottenere fee in qualità di arranger. In questo nuovo modello di business, denominato successivamente “originate to distribute”, le banche potevano incrementare la loro capacità di prestito attraverso la vendita della maggior parte delle loro esposizioni61. In questo modo ricevevano ingenti fee per coprire e sindacare ai private equity i prestiti, che rappresentavano la parte più consistente nella struttura finanziaria delle società target62. Ad esempio, durante la prima metà del 2007, le società di private equity pagarono più di $8,4 miliardi in fee alle banche. Questo però permise alle private equity firms di ottenere un forza negoziale nei confronti degli istituti bancari con riferimento ai termini e ai covenant dei prestiti. La crisi del credito interruppe il finanziamento tramite CLO e ridusse il loro acquisto di prestiti, lasciando i bilanci delle banche mutuanti pieni di prestiti non investiti in operazioni di private equity. 60 Le “shadow banks” sono entità non bancarie come hedge funds e altri veicoli di investimenti come i “loan funds”. 61 Nel settembre 2007 le esposizioni degli istituti bancari americani nei confronti delle operazioni LBO più importanti erano le seguenti: Citibank $37 miliardi; Bank of America $31 miliardi; Lehman Brothers $29 miliardi; JP Morgan Chase $28 miliardi; e Goldman Sachs $21 miliardi. 62 Ad esempio, nell’operazione record TXU da $44 miliardi i debiti rappresentavano l’84% del totale. La dimensione dell’operazione richiese l’intervento di più banche nella veste di arranger come Citigroup, Goldman Sachs, Credit Suisse, e Lehman Brothers. Infine fino all’80% dei prestiti erano piazzati tramite fondi CLO. 54 Le istituzioni affrontarono non solo un aumento del rischio di default, ma anche l’esposizione sul mercato poiché i prezzi dei prestiti crollarono nel mercato secondario63. Fu quindi la conferma dei buyout come vere e proprie operazioni speculative, che nulla avevano a che fare con gli obiettivi primari dell’attività di private equity. L’utilizzo di tali forme di indebitamento in forma così estesa è stato reso possibile anche da bassi tassi di interesse. Tale condizione permette di poter ripagare l’indebitamento a un costo più basso, rendendo possibili operazioni di valore molto elevato, altrimenti non possibili tramite l’equity. L’utilizzo di una quantità elevata di debito tuttavia porta risultati positivi in una situazione di stabilità o crescita economica; al contrario si rileva decisamente dannoso nei momenti di crisi economica. Quindi le operazioni di LBO sono quelle che più dipendono dalle fluttuazioni dei tassi di interesse: periodi con tassi di interessi bassi infatti agevolano l’attività di Leveraged buyout. Infatti, secondo Axelson, Stromberg e Weisbach (2007), durante periodi di sviluppo economico i fondi di private equity tendono a finanziare qualsiasi progetto, anche quelli meno remunerativi, e al contrario, in situazioni di recessione solamente le operazioni migliori vengono intraprese poiché aumenta l’avversione al rischio degli investitori64. 63 Rizzi V. J., “Back to the future again: Private equity after the crisis”, Journal of Applied Finance, Issues 1 & 2, 2009 64 Athanese P., Collete C., “LBOs in Theory and Practice, Learning Outcomes of a Crisis”, Journal of Modern Accounting and Auditing, September 2011, Vol. 7, No. 9, pg. 912 55 2. Analisi Di Una Struttura Finanziaria Di LBO Nel Mercato Europeo I leveraged buyout sono tra le attività che le società di private equity possono svolgere. Il mercato del Private Equity, come già visto, è diventato un importante risorsa di fondi nei mercati del corporate finance dei paesi sviluppati. Gli specifici bisogni di finanziamento delle società target dipendono per la maggior parte dalla fase di sviluppo in cui questa si trova. Perciò, si definiscono 2 principali tipi di fondi di private equity, i fondi venture capital e i fondi leveraged buyout. Questi ultimi sono tipicamente coinvolti in acquisizioni finanziate con debito di società mature. Le motivazioni che sottostanno a questo segmento di attività includono il finanziamento di espansioni industriali, consolidamenti, turnaround o vendite di divisioni o sussidiarie. Questa tipologia di attività si è sviluppata ampiamente nell’ultimo decennio grazie ai bassi costi di emissione del debito e al crescente numero di investitori e istituzioni che sono stati attratti dagli elevati tassi di rendimento del mercato. In Europa, i fondi LBO e i fondi di gestione hanno forme legali diverse. A causa del fatto che le società di LBO spesso hanno bisogno di raccogliere importanti quantità di capitale, la maggior parte dei fondi LBO sono creati in quei paesi che permettono la forma della Limited Partnership. La figura seguente mostra un tipico esempio di LBO nella forma Limited Partnership. Anche in questo caso i General Partner investono importi significativi dei loro patrimoni personali nella partnership (che corrispondo a circa un 3/5% dei capitali totali raccolti). La maggior parte del capitale di rischio viene immesso dai Limited Partners (investitori istituzionali che includono fondi pensione, assicurazioni, hedge funds e in misura minore le banche). Una volta che la società target è stata identificata viene raccolto il capitale di debito al fine di finanziare l’acquisizione. Il debito quindi può essere concentrato su una holding creata dal fondo di LBO o assunto direttamente dalla società target. Il debito viene strutturato in diversi strati con differenti caratteristiche e scadenze. Chi crea queste tranche di debito (principalmente le banche) può conservare il debito o venderlo a investitori istituzionali. In seguito all’operazione i cash flow della società target vengono usati per ripagare il debito entro le scadenze del progetto. 56 Le LBO partnership sono tradizionalmente coinvolte in progetti a lungo termine e nettamente illiquidi che investono in società target in un spazio temporale fino a 10 anni. Conseguentemente, il capitale di rischio investito nella partnership è destinato a rimanere committed per il periodo di vita del fondo o fino a che tutte le partecipazioni non vengono disinvestite. Al momento dell’exit, la società target deve essere venduta al prezzo maggiore possibile al fine di creare profitto e massimizzare i rendimenti per gli investitori. IPO, trade sale, secondary sale e ricapitalizzazione sono le quattro soluzioni principali di un disinvestimento. Il finanziamento con debito di un LBO è tipicamente specifico per ogni operazione e coinvolge come visto diversi layer di maturità. Il ritorno atteso per gli obbligazionisti ovviamente dipende dalla loro posizione nella struttura delle scadenze. Le banche possono allo stesso tempo fornire il capitale di debito che investire in capitale di rischio come Limited Partners nella medesima operazione. La struttura del debito è quella esposta in precedenza e include i seguenti elementi: debito senior, che consiste in revolving facilities, e senior loan tranches A, B, e C, second lien loan, mezzanine loans, high-‐yield bonds and payment-‐in-‐ kind (PIK) notes65. Il debito senior è il principale e ,dal punto di vista del debitore, la risorsa più economica per finanziare una transazione di LBO, essendo garantito tramite gli asset e le quote della società target. Questo strumento è generalmente emesso in varie tranches, ognuna delle quali presenta differenti profili di rischio e condizioni di rimborso. A parte i revolving loans, la tranche Senior A (o “Term Loan A”) sono il tipo di debito più sicuro, tradizionalmente caratterizzato da un programma di ammortamento con scadenze tra i 6 e 7 anni. Tranche di debito con scadenze più basse, come “Senior B” e “Senior C”(o “Term B e C” tipicamente presentano strutture “bullet” in base alle quali il debito non incorpora rimborsi periodici di capitale e viene rimborsato completamente a scadenza. Il debito di tipo “bullet” permette alle società target di assumere multipli di indebitamento più elevati poiché i programmi di ammortamento back-‐ended riducono la pressione sui cash flow grazie all’abolizione del rimborso del debito durante i primi anni di investimento. Tuttavia, avendo un rischio 65 Acronimo di Payment-‐In-‐Kind e anche conosciuto come “pay if-‐you-‐can debt”: è un titolo che consente all'impresa di scegliere di pagare gli interessi o i dividendi attraverso altri titoli; i debitori conservano il capitale durante un periodo economico negativo attraverso il passaggio al pagamento di interessi in forma non liquida. 57 maggiore, il debito senior con un rating minore comporta anche interessi maggiori). Mezzanine loans e high-‐yield bonds sono componenti aggiuntivi della tipica struttura dell’LBO. Questo tipo di debito può avere opzioni legate alla parte equity come warrants collegati all’obbligazione. Essendo subordinato sia al debito senior che a quello high-‐yield, il debito mezzanine è più costoso per chi lo emette a causa del livello più elevato di rischio di credito incorporato. Inoltre è possibile che i covenant siano più stringenti, e che si determini l’allargamento della base azionaria nel caso di esercizio dell’equity kicker66 a scadenza. Tuttavia, i lati positivi sono molteplici e di seguito vengono presentati: è una fonte di fondi complementare al debito e al capitale, è quindi adatto a società non quotate e con un alto tasso di sviluppo; richiede alti requisiti informativi; avendo anche una componente di capitale di rischio è possibile aumentare il leverage senza deteriorare il rating e quindi il premio al rischio. Come già accennato i prenditori di fondi sono generalmente imprese in rapida crescita e soggetti speciali come veicoli di LBO e di Project Finance poiché la caratteristica della mezzanine finance è che il carico degli oneri di muove in funzione della liquidità: quindi il costo del debito sarà più basso quando la liquidità è al minimo. Tabella 1 – Ciclo di vita e fonti di finanziamento. Fonte: Forestieri G., Corporate & Investment Banking, Egea, Milano, 2009 Tuttavia, nell’ultimo decennio nuovi layer della struttura del capitale degli LBO, come il debito second-‐lien, sono stati introdotti nel mercato LBO europeo. I prestiti second-‐lien sono strumenti alternativi al finanziamento mezzanino, i cui diritti di rivalsa vengono soddisfatti dopo i prestiti firts-‐lien ma prima delle obbligazioni e del debito mezzanino: possono quindi essere definiti come un mix tra il debito senior e quello mezzanino con riferimento ai termini e condizioni67. 66 È l’opzione che consente di convertire il credito in azioni della società: se l’azione ha registrato buone performance ed è “in-‐the-‐money” il finanziatore mezzanino (generalmente un fondo di private equity o un banca) potrà mantenere la posizione azionaria o uscire. 67 Questo tipo di debito si classifica al pari del diritto di rimborso del debito senior, ma è garantito con un priorità secondaria rispetto al debito senior. Ovvero, il second-‐lien debt è subordinato al debito senior solo in termini di ricavi 58 Si sono sviluppati come sostituti effettivi e a basso costo delle tradizionali obbligazioni mezzanine e high-‐yield (i.e. junk bonds). Secondo S&P, si sono sviluppati rapidamente e hanno raggiunto il picco nel 2006 con più di $29 miliardi, rappresentando almeno l’8% dei prestiti istituzionali. In Europa è stato utilizzato come forma alternativa di finanziamento per le operazioni di buyout e di ricapitalizzazione; tra il 2006 e il 2007 è diventato una parte sempre presente nei finanziamenti degli LBO. Tuttavia, ha perso di importanza nel 2008 ed è scomparso dal mercato nel 2009. Per gli LBO di grandi dimensioni, le banche estendono anche bridge loans, il cui scopo è di fornire finanziamenti temporanei fino a che i finanziamenti di lungo termine non vengono attuati. Questi strumenti hanno scadenze di breve periodo (da 3 a 24 mesi), sono generalmente rimborsati da o tramutati in un finanziamento permanente una volta che il finanziamento a lungo termine è stato emesso. I bridge loans sono costituiti da tassi di interesse relativamente alti ma includono requisiti limitati sul collaterale, e tipicamente includono incentivi per il rimborso in anticipo. Questa grande varietà di strumenti di debito fornisce un’ampia flessibilità per le società target di impostare il rimborso del debito, consentendo allo stesso tempo livelli di indebitamento maggiori se comparati con il tradizionale capitale di debito della banca68. collaterali: se il collaterale deve essere liquidato, i creditori del debito senior hanno la priorità sui flussi di cassa del collaterale 68 ECB, Large banks and private equity-‐sponsored leveraged buyouts in th EU, April 2007 59 3. Analisi Di Una Struttura Finanziaria Di Buyout Precedente Alla Crisi Data la presenza importante della componente debito nelle operazioni di buyout e in particolare di LBO, si procede quindi ad analizzare come si sia evoluta questa struttura, composta da varie forme di indebitamento, attraverso un’indagine svolta dalla Federal Reserve nel 200769. Questo studio ha messo in luce, ancor prima dell’inizio della crisi, come la componente debt sia cambiata nel tempo. La tabella seguente mostra come è cambiato il mercato delle operazioni LBO dal 1997 al 2007. É evidente come sia aumentato il numero delle operazioni, il numero di fondi di private equity impegnati in questi investimenti e in particolare come sia “esploso” il valore medio delle operazioni. Questo infatti era pari a $329 milioni nel 2000 per un totale di 27 operazioni. Ma nel 2007, con appena 4 operazioni in più il valore era quasi 5 volte superiore. LBO dal 1997 al 2007 Anno N.ro di LBO Valore medio delle operazioni ($ mln) N.ro di PE che hanno svolto LBO 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 9 14 17 27 12 5 12 9 20 25 31 407 198,9 113,2 329,0 230,4 93,9 235,5 752 773,3 1108,5 1598,3 7 7 8 17 2 3 2 8 18 22 25 Fonte: Federal Reserve Bank of San Francisco, Symposium on Private Equity, October 2007 Relativamente alla struttura finanziaria delle operazioni di buyout, dai dati precedenti al 2005, risulta che la struttura dei buyout, prima che l’operazione venisse intrapresa, era costituita da equity per il 64% e il restante 36% da capitale di debito sia garantito che non garantito, registrando un valore debito/EBITDA del 2,4. In seguito all'operazione, tale struttura vedeva la parte di equity più che dimezzata (31%), e sostituita da debito mezzanino (21%), 69 Federal Reserve Bank of San Francisco, Symposium on Private Equity, October 2007 60 debito term-‐A (35%) e secured bank revolver 70 , portando il rapporto debito/EBITDA a 7. Figura 22 – Fonte: Federal Reserve Bank of San Francisco, Symposium on Private Equity, October 2007 Con questo tipo di struttura, quindi, il multiplo debito/EBITDA, prima e dopo l'operazione, risultava diverso e in aumento. Come è evidente, i multipli post-‐ buyout sono molto elevati, raggiungendo il valore di 10 nel 2007; hanno avuto una crescita esponenziale dal 2002, e sono maggiori dei valori registrati dal settore industriale. 70 Linea di credito nella quale il mutuatario paga una commitment fee e gli viene quindi concesso l'utilizzo di fondi nel momento del bisogno. Di solito è usato per scopi operativi, fluttuando ogni mese in base alle esigenze del mutuatario. 61 Figura 23 -‐ Multipli prezzo di acquisto buyout (dimensione operazione/EBITDA). Fonte: Pitchbook Andando quindi ad analizzare la struttura finanziaria nei buyout successiva al 2005 si nota un ulteriore cambiamento, non tanto a livello di percentuale di equity (31%), ma piuttosto a livello di debito. La percentuale del debito mezzanino (PIK) rimane fissa al 21%: tuttavia, vengono inseriti second-‐lien term debt covenant lite 71(6%), e first lien term-‐B debt covenant lite (21%) (dove covenant lite rappresenta termini e condizioni del prestito meno stringenti), il first lien term bank debt si riduce all'11% e il secured bank revolver al 10%. 71 Questi prestiti, che concedono ai mutuatari credito con poche, o addirittura nessuna condizione, si sono sviluppati durante l’ultima decade quando molti prestiti covenant-‐lite o cov-‐lite sono stati utilizzati dai private equity sponsor per finanziare operazioni di buyout. Questi prestiti, sorprendentemente, durante la crisi finanziaria hanno avuto un tasso di default minore rispetto ai prestiti che presentavano termini e condizioni standard. Il motivo, secondo Standard & Poor’s LCD, è che solo i mutuatari più forti economicamente, o comunque quelli che presentavano minori probabilità di fallimento, riuscivano a prendere a prestito a queste condizioni. Nei primi 3 mesi del 2011, l’emissione di prestiti cov-‐lite ha registrato la cifra di $22 miliardi, il 25% dei nuovi prestiti sindacati, quasi come il totale di quelli emessi nel 2006; mentre nel 2007 tale cifra raggiunse quasi $100 miliardi. (“Moody’s warns on covenant-‐lite loans”, The Financial Times, March 10, 2011) 62 Figura 24 -‐ Nuova struttura finanziaria di un buyout successiva al 2005. Fonte: Federal Reserve Bank of San Francisco, Symposium on Private Equity, October 2007 Questa tendenza che vede meno debiti bancari garantiti e meno covenants porta i mutuatari ad avere regole meno stringenti. La struttura quindi è cambiata registrando meno covenants sul debito bancario, più "lite-‐covenants" sui prestiti, maggiore accesso alla sindacazione, più second lien e sub-‐debt. L’obiettivo quindi era quello di ottenere rendimenti più elevati attraverso l’aumento della leva finanziaria. Le strutture finanziarie risultavano quindi più complesse a causa dei multipli livelli di finanziamento diretti a investitori con una differente propensione al rischio. La somma di questi fattori ha quindi portato la leva finanziaria e il valore delle operazioni a una crescita esponenziale dal 2003. 63 4. Le Cause Della Crisi e il Loro Effetto Sull’Attività di Private Equity Nell’attività bancaria tradizionale, la banca concedeva prestiti che andavano a formare un portafoglio, sebbene alcuni dei prestiti di dimensioni maggiori potevano essere condivisi tra banche diverse attraverso il processo di sindacazione. In questa situazione, gli istituti bancari erano prudenti poiché consapevoli che ogni perdita sarebbe ricaduta sul proprio singolo bilancio. Tuttavia, durante la seconda ondata di buyout degli anni 2000, l'attività di prestito delle banche è aumentata sensibilmente. L’impatto di questa crescita ebbe come conseguenza il cambiamento da parte delle banche del business model nel mercato dei buyout: riducendo la proporzione di debito detenuto nei loro bilanci e generando la maggior parte dei loro proventi attraverso fee derivanti dalla sindacazione dei prestiti. BANCHE 1 2 3 4 5 6 RUOLO Lead Arranger Underwriter Underwriter Participating Participating Participating FEE Arranging Underwriting Underwriting Up-‐front Up-‐front Up-‐front ARRANGING 1,5 mld UNDERWRITING 500 mln 500 mln FINAL TAKE 300 mln 250 mln 250 mln 250 mln 250 mln 250 mln Tabella 2 – Esempio di ruoli e fee in un sindacato di finanziamento. Fonte: Forestieri G., Corporate & Investment Banking, Egea, Milano, 2009 Alla crescita delle sindacazioni, non si contrapponeva però un aumento della domanda di credito. La disponibilità di opportunità di sindacazione perciò incrementò l’interesse dei partecipanti al mercato del buyout con l’obiettivo di concedere prestiti con margini meno elevati e in quantità maggiori. La diffusione dei CDO, concepita specificatamente per servire il mercato dei buyout, introdusse il fenomeno dello “spezzettare” il rischio nei prestiti di buyout: in questo modo i CDO finanziavano fino al 50% del debito nelle operazioni di buyout più grandi in termini di dimensioni. Quindi, negli ultimi dieci anni le banche sono cambiate e hanno iniziato ad agire come “arrangers” di prestiti piuttosto che come “lenders”. La proporzione di prestiti detenuti dalle “arrangers” o “lead banks" in seguito ad un’operazione è diminuita nel corso degli anni. In questo modello bancario, massimizzare la quantità di credito era diventato l’obiettivo primario. Tuttavia il fattore determinante per il successo di questo modello era la capacità di sindacare i prestiti ad altre banche e ad altri investitori, come i CDO. 64 Per raggiungere un’ampia sindacazione, un prestito deve essere venduto al mercato da un gruppo di sindacazione all’interno di un banca, o alternativamente venduto al mercato azionario come un’obbligazione. Nel modello precedente la banca dava accesso alla sua due diligence solo a un numero limitato di altre banche. Successivamente un’agenzia di rating veniva ingaggiata dall’emittente principale per valutare il grado di rischio e dare un voto al prestito, secondo le norme di mercato. L’accordo tra l’agenzia di rating e l’emittente però è stato esaminato attentamente: infatti le fee dell’agenzia di rating erano pagate dal soggetto sponsor dell’emissione obbligazionaria. Perciò le agenzie erano incentivate a dare una valutazione che fosse in accordo con la valutazione personale fatta dall’emittente. Questa tipica situazione di conflitto di interessi però, non fu considerata tale, sostenendo che il rischio di reputazione per l’agenzia di rating garantiva la serietà e l’indipendenza del giudizio: le agenzie di rating quindi non avrebbero valutato in modo positivo il prestito, se ciò avesse intaccato la loro reputazione. Tuttavia, è ben noto quanto compiacente sia stato il comportamento delle agenzie di rating e quanto questa ipotesi si sia rivelata sbagliata. Nel nuovo modello le maggiori fonti di entrate per la banca “lead” erano le fee derivanti dall’“arranging” del debito e dalla sindacazione piuttosto che dagli interessi derivanti dall’attività di prestito. Questo modello tuttavia fallì e il mercato smise effettivamente di operare a causa di quello che è noto come credit crunch. Il modello, infatti, si basava proprio sulla capacità di vendere prestiti ad altre istituzioni. L’incapacità di sindacare e vendere prestiti impedì alle banche di essere nella condizione di prestare, tra le altre cose, al mercato finanziario, che incorpora anche il private equity. Ciò che aveva spinto le banche a cambiare il proprio business model erano i vantaggi derivanti dalla sindacazione, che portava dei vantaggi sia agli “arrangers” della sindacazione che ai partecipanti alla stessa. Per i primi significava un nuovo modello di business con rendimenti più elevati rispetto a quelli tradizionalmente raggiungibili nel modello bancario. Infatti, gli “arrangers” non solo ricevevano fee tramite l'attività di “arranging”, ma erano anche in grado di forzare il cross-‐selling di altri servizi bancari nei confronti di chi prendeva a prestito. Era comune quindi che, nel momento della concessione di un prestito, determinati altri servizi bancari fossero attivati e 65 gestiti dal soggetto “arranger” (ad esempio la copertura, l’assicurazione o altri servizi di consulenza). Anche per i membri della sindacazione il processo aveva dei vantaggi. Un primo fattore era il rafforzamento delle competenze e delle capacità come leva della creazione di valore. In pratica la partecipazione di due o più società di private equity incrementava le competenze e le capacità preposte alla valutazione e selezione dell’investimento. Questa motivazione si collega alla seconda, in base alla quale si crea un network esteso e approfondito derivante da relazioni stabili e approfondite delle relazioni di sindacazione. La sindacazione, inoltre, può essere un modo efficace per compensare le asimmetrie informative e le inefficienze comunque presenti in un portafoglio di private equity tradizionale. Anche il miglioramento dei processi decisionali rientra tra i vantaggi della sindacazione degli investimenti. È sicuramente collegato alla prima motivazione, poiché si sostiene che un pool di esperienze e capacità siano alla base di decisioni meno aleatorie. Infine è bene considerare la cosiddetta window dressing. Secondo questa teoria, per un gestore partecipare a un investimento sindacato può risultare positivo per il miglioramento del profilo delle performance dei fondi gestiti. In pratica, attraverso la sindacazione si riesce ad ottenere un evidenza di buon andamento del portafoglio, anche se questa può essere soltanto apparente. Infatti, la critica che viene mossa a questo comportamento è che le informazioni comunicate alle agenzie non siano utili se i manager dei fondi pianificano le loro decisioni di investimento in base alla comunicazione dei dati al mercato. I fund managers infatti possono temporaneamente modificare i pesi degli asset in modo da farli apparire in modo diverso. Inoltre, i dati disponibili possono indurre in errore gli investitori. La motivazione di questa pratica abusiva, conosciuta come window dressing, è la percezione dei manager che le informazioni di portafoglio hanno un importante influenza sulle opinioni degli investitori riguardanti le loro capacità tecniche. I manager sono indotti a migliorare la loro immagine per attrarre maggiori investitori, rimpiazzando in breve tempo valori in perdita e rischiosi con asset vincenti e più sicuri. Questo conflitto tra i manager dei fondi e gli investitori è tuttora una materia scottante nel campo delle ricerche finanziarie. I primi a sottolineare questa pratica furono Haugen e Lakonishok nel 1988. Essi indicavano il 66 fenomeno del window dressing come il fattore principale nella creazione di elevati ritorni per stock piccoli e di perdite dopo la fine dell’anno.72 72 Ortiz C., Sarto J. L., Vicente L. – “Portfolios in disguise? Window dressing in bond fund holdings”, Journal of banking and finance, Vol. 36 n°. 2, 2012, pag. 418-‐427 67 5. Quali Sono State Le Conseguenze Del Credit Crunch Sull’Attività Di Private Equity Le principali conseguenze dell’ampia sindacazione di prestiti attraverso il mercato finanziario furono principalmente due: per prima cosa il rischio globale si diffuse tra molte istituzioni; in secondo luogo diventò sempre più difficile stabilire dove venissero gestiti i rischi all’interno del sistema finanziario. La figura seguente semplifica i flussi di rischio per illustrare come questo sia disseminato tra il prestatore originario e un’ampia varietà di istituzioni e come questo rischio possa ritornare alla stessa banca che li ha emessi. In questo schema (Figura 9) si evidenzia come un rischio “securitised” (cartolarizzato) attraverso un CDO o una SIV si introduca nel mercato globale obbligazionario con una valutazione di credito emessa da un’agenzia di rating. Figura 25 -‐ Fonte: Gilligan J., Wright M., Private Equity Demystified – An explanatory guide – Second Edition, ICAEW Corporate Finance Faculty Durante il periodo precedente al credit crunch, si sosteneva che questa dispersione del rischio attraverso il sistema finanziario mondiale avrebbe ridotto il rischio sistemico. Purtroppo, questa supposizione si è rilevata errata e la mancanza di trasparenza, creata mediante il processo di securitisation ha creato un mercato nel quale un repentino crollo nella fiducia ,si trasforma in una drammatica riduzione della liquidità nell’intero mercato bancario. Tuttavia, ciò è accaduto perché le istituzioni non sono state capaci di dare un prezzo ai prodotti sintetici attraverso il processo di securitisation. Quando il meccanismo di prezzo è fallito, il libero mercato ha smesso di operare. In 68 cambio, ciò ha creato crisi dei finanziamenti a breve termine per le banche e altre istituzioni finanziarie che dipendevano dall’attività di prestito delle banche, e ancor di più il rischio di bancarotta. Molti leveraged loans73 sfruttarono la crescita nel numero dei partecipanti al mercato obbligazionario che era cresciuto ampiamente sulle spalle del mercato immobiliare americano. L’espansione del mercato dei sub-‐prime portò molta più liquidità, sfruttata ampiamente dagli “arrangers” dei prestiti. Questi soggetti hanno usato lo stesso processo che era impiegato nel mercato dei mutui per concedere prestiti facilmente. Le banche "lead" hanno usato sempre più le agenzie di rating per emettere traded bonds direttamente nei buyout di più grandi dimensioni o nel mercato di fascia intermedia tramite un processo di securitisation strutturato grazie ai CDO74 e simili special purpose vehicle (SPV). 73 Generalmente viene definito leveraged lending il debito successivo a un'operazione, considerando il rapporto di indebitamento o il rapporto debito/EBITDA. Quando il debito totale è superiore al 50% delle attività o i prestiti eccedono di circa 3 volte il valore dell'EBITDA, la maggior parte delle banche definisce e gestisce il rapporto di credito com un prestito leverage loan. Indica quindi l'ulteriore indebitamento in una struttura finanziaria molto rischiosa. I principali rischi del leveraged lending sono: 1) il rischio di credito aumenta in qualsiasi prestito e rappresenta il rischio di capitale e proventi del prestatore dovuto al rischio dell’insolvenza da parte del mutuatario. Questo include il rischio di sottoscrizione precedente alla sindacazione. 2) Il rischio di liquidità cresce quando una banca commette un errore nel strutturare le sue attività e passività. Quando questa ha prestiti a breve termine che supportano prestiti a medio e lungo termine una crisi di liquidità può causare il fallimento della banca stessa. 3) Il rischio di prezzo sale nelle sindacazioni sottoscritte perché i termini per il mutuatario sono definiti prima della sindacazione stessa. Quando il mercato stima i rischi in modo diverso dalla valutazione sottoscritta della banca al comando, il prezzo pagato per ogni particolare obbligazione può crollare e il sottoscrittore sosterrà una perdita. 4) I rischi di reputazione sono l’effetto della percezione pubblica ostile nei confronti delle prospettive di un’istituzione. Nella finanza del debito questo include il particolare danno reputazionale che può incorrere quando strutture complesse sono messe in piedi le quali sono percepite con lo scopo di evitare obbligazioni morali, come la creazione di special purpose vehicle offshore caratterizzati per il fatto di evitare la tassazione. 5) I rischi strategici includono la capacità di un’organizzazione di gestire le sue esposizioni nei confronti di un mercato particolare e i cambiamenti all’interno del mercato in cui opera. Questo potrebbe includere avere una struttura organizzativa che effettivamente monitora il portafoglio prestiti per permettere che le decisioni siano fatte in tempo. 6) I rischi di compliance crescono quando prodotti finanziari nuovi e innovativi vengono sviluppati ma non erano stati specificatamente presi in considerazione dalle autorità di vigilanza. L’emittente di qualsiasi sindacazione prenderà la responsabilità della legalità dell’operazione. 74 I CDO esistono da molti anni come veicoli che permettono alle banche di vendere prestiti obbligazionari, così aumentando l'efficienza del capitale e i rendimenti sul capitale, ma sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi anni. SIV invece è semplicemente l'entità legale che ingloba i prestiti e le attività che sono mescolati per formare i CDO. Le forme base di CDO sono principalmente due: 1) balance sheet deals: coinvolgono una banca che vende una parte del suo portafoglio prestiti a una SIV. Questa paga per le attività derivanti dai ricavi di un’emissione obbligazionaria, o derivanti da una serie di contratti per trasferire il rischio di default ad altri investitori, di solito utilizzando un CDS (una polizza assicurativa contro l’insolvenza). Questi deal sono tipicamente costruiti per permettere a una banca di gestire il suo capitale in modo efficiente. 74 Gli arbitrage deals , invece, cercano di catturare la differenza tra il rendimento di un underlying asset e il costo delle obbligazioni emmesse dalla SIV per acquistare le attività e può essere caratterizzato da due modalità diverse. La prima coinvolge una strategia di trading, nella quale la SIV attivamente tratta le obbligazioni per creare rendimento (questi tipi di veicolo erano altamente coinvolti nel mercato dei prestiti sub-‐prime). 2) La seconda è definita cash-‐flow deals. Questi sono i più importanti nel mercato della sindacazione degli LBO. In queste transazioni, la SIV prende parte alla sindacazione del debito. Questa crea un portafoglio di prestiti finanziati da 69 Come si è già notato, le operazioni nelle quali l’utilizzo del capitale di debito è solitamente più elevato sono le operazioni i buyout. Osservando quindi, gli investimenti in questa tipologia di operazione, si può capire che impatto ha avuto il credit cruch su questa attività. Tuttavia, se in America il mercato dei leveraged loan è presente da diversi decenni, il concetto di leveraged loan in Europa è abbastanza recente e impensabile prima dell’introduzione della moneta unica europea. Infatti prima del 2000, le banche locali concedevano prestiti in valuta locale alle operazioni di LBO all’interno del paese. In seguito, la situazione rimase tale, ma alcune grandi banche si distinsero nel mercato dei leveraged loan. Queste istituzioni crearono non solo il business della creazione e sindacazione dei leveraged loan, ma anche gestirono grandi quantità delle operazioni che intermediavano. Questa situazione era in netto contrasto con quella negli Stati Uniti, dove le banche erano state da tempo escluse dal ruolo di intermediazione, agendo come arranger ma poi vendendo le operazioni a investitori istituzionali, principalmente compagnie di assicurazioni e fondi pensione. Nel vecchio continente, questo coinvolgimento delle istituzioni nel mercato dei prestiti cominciò solo una volta che i CLO si svilupparono tra il 2003 e il 2007. Gli investitori istituzionali erano sempre più attratti dai CLO perché fornivano capitale di debito a buon mercato, e pro-‐soluto, con rendimenti elevati. 74 capitale proprio e bridge financing dai suoi banchieri. Una volta che il portafoglio è grande abbastanza, la SIV emetterà una serie di obbligazioni garantite dai prestiti. Le obbligazioni senior vengono valutate da un’agenzia di rating e sono valutate per prime. Queste sono acquistate dagli investitori nel mercato obbligazionario. Anche le obbligazioni mezzanine vengono emesse però in seguito a quelle senior. Queste hanno un tasso di interesse più elevato, ma che porta più rischio e quindi vengono vendute a investitori che ricercano asset con rendimenti più alti, spesso hedge fund e investitori in asset alternativi. Infine, ogni profitto o perdita sugli underlying asset viene rimborsato alle obbligazioni senza valutazione che vengono per ultime. Queste ultime hanno rendimenti e rischi che sono comparabili con l’equity. Vengono quindi vendute a investitori alla ricerca di rendimenti pari al capitale di rischio e di solito sono detenute dai manager della SIV. Questo processo del già definito “slicing and dicing” permette al rischio di essere disseminato per tutto il mercato e rende inoltre difficile capire esattamente dove si trova il rischio. I manager dei CDO ottengono rendimenti nello stesso modo dei manager dei fondi di private equity. Infatti, ricevono fee e carried interest. Quindi, molti fondi di CDO sono sponsorizzati e gestiti da gruppi affiliati a manager di fondi di private equity, nei quali investono. Infine la maggior parte dei fondi CDO investono in uno o una combinazione di senior secured loans, mezzanine loans, high yields bonds, investment grade loans e SME 70 Figura 26 – Volume annuale d ei prestiti istituzionali e dell’arbitraggio dei CLO. Fonte: Standard & Poor’s LCD Leveraged Loan Review – US/Europe 1Q10 I CLO e gli investitori istituzionali quindi assunsero un ruolo sempre più importante nell’emissione di nuovi prestiti, che rappresentavano nel 2007 il 56,5% della domanda di sindacazione, riducendo la quota delle banche al 36,4%.75 L’effetto sul private equity è stato una crescita dell’ammontare degli investimenti in operazioni di buyout esponenziale dal 1988 al 2006; diminuita leggermente solo nel triennio 2001-‐2003 a causa della crisi successiva alla bolla Figura 27 – Quota di mercato per gli investitori nel mercato p rimario dei leveraged loan. Fonte: Standard & Poor’s LCD Leveraged Lending Review 1Q10 speculativa della new economy e del dot.com. (iniziata nel 1994 con la quotazione di Netscape, società sviluppatrice del primo browser commerciale per internet). Dal 2004 al 2006 è stato il periodo in cui la credit bubble si è 75 BNY Mellon Asset Management, Investing in Debt: Opportunities in Leveraged Loans, June 2010, pagg. 8-‐10 71 sviluppata per poi culminare nel 2008 con la crisi economica più grave dopo quella del 1929. Come approfondito, la crisi finanziaria fu anche e soprattutto conseguenza di un uso incontrollato del capitale di debito e il settore private equity non ne rimase estraneo. Infatti nelle operazioni di buyout e soprattutto di LBO si è assistito ad una escalation nell’utilizzo della componente debito per il finanziamento di tali operazioni. 28 – Attività di buyout in Europa, 1999-‐2006. Fonte: Nostra elaborazione sui dati CMBOR Figura In Europa nel biennio 2006-‐2007 il volume annuale di prestiti è stato superiore ai €150 miliardi. Nel 2009, invece, si sono registrate appena 29 operazioni nelle quali è stato utilizzato capitale di debito, per un valore di €13,1 miliardi. Invece, il 2010 e il 2011 sono stati anni di recovery, registrando valori sicuramente più coerenti con quelli del biennio 2002-‐2003 che con quelli del 2006-‐2007, quando il totale dei prestiti superava i €100 miliardi. Il volume del debito senior nel 2011 ammontava a €43,3 miliardi, quindi leggermente superiore ai €42,4 miliardi del 2010. In particolare il dato del 2011 è ascrivibile per il 23,5% a operazioni di finanziamento non LBO. Le operazioni di LBO invece hanno registrato la loro massima espansione tra il 2004 e il 2007, registrando il picco nel 2006 con €164,5 miliardi. Tuttavia in seguito hanno subito un crollo netto, perdendo in un solo anno il 54,5% in termini di volume delle operazioni e in due anni il 94,1%. L’attività è ripresa molto lentamente nel 2010 e nel 2011 registrando però valori ancora minori rispetto al 2004. La quantità di senior loan destinata al finanziamento di questo operazione conferma quanto anticipato: la percentuale media infatti di debito senior sul valore totale delle operazioni per il periodo 2004-‐2007 è dell’84% e se non si 72 considera il 2006, questa sale al 90%. Al contrario tra il 2008 e il 2010 tale valore si attesta al 48%, al 38% nel biennio 2009-‐2010, e addirittura al 20% nel 2010. Inoltre, mentre nel 2009 si sono registrati 16 LBO finanziati attraverso €5 miliardi di debito senior, nei primi 10 mesi del 2008 tale cifra era di €47,8 miliardi e le operazioni 100. Ancora più evidente è il confronto col il 2007, in cui le 251 operazioni di LBO sono state finanziate con €140 miliardi (-‐98% tra il 2007 e il 2009). Mentre nel 2007 la dimensione media dei leveraged loans e degli LBO era pari a €566 milioni, il 2011 registrava €328 milioni, cifra quest’ultima più bassa di quella registrata nel 2002-‐2004 (€400 milioni). Inoltre, operazioni con utilizzo di debito senior superiore al miliardo si sono ridotti a meno del 2% delle nuove emissioni del settore LBO, mentre nel 2007 erano superiori al 14%. Figura 29 – Ammontare di debito nelle operazioni di LBO (2004-‐2008). Fonte: Nostra elaborazione sui dati Standard & Poor’s LCD Data la struttura delle operazioni di LBO, è chiaro come l’azzeramento nel volume dei prestiti dal 2008 abbia chiaramente impattato su questa tipologia di operazione. Per compensazione, la quantità media di equity utilizzata nelle operazioni di LBO europee è sensibilmente aumentata raggiungendo il record dell’ultimo decennio al 53% nel 2009. Gli anni di minimo ovviamente si sono registrati nel triennio 2005-‐2007, con una media del 34%. Anche gli anni successivi al 2009 73 hanno mantenuto il trend di diminuzione nell’utilizzo del debito, registrando quote di equity del 51% nel 2010 e del 48% nel 2011. Allargando il focus al settore private equity, l’utilizzo della componente equity sul volume totale delle operazioni (grafico S&P LCD e Thomson Financial), registra anche in questo caso una forte diminuzione nel triennio 2005-‐2007, per poi aumentare del 19% tra il 2007 e il 2009. Il picco del 2002 è riferibile alla già citata crisi avvenuta nel 2001. Seppure di dimensioni minori questa crisi è utile per confrontare il rapporto debito/EBITDA e debito senior/EBITDA di quel periodo con quello più recente. Tali valori infatti nel 2009 fanno registrare il record negativo (del periodo 1999-‐ 2010) rispettivamente a 4,1x e 3,3x: leggermente più bassi di quelli del 2002 che registravano 4,24x e 3,39x. Tuttavia nel momento di massima espansione, ovvero il 2007, i valori del debito sull’EBITDA sono stati nettamente più alti rispetto al biennio 1999-‐2000 che ha preceduto la crisi del 2001. Figura 30 – Volumi di equity e di d ebito in rapporto all’EBITDA. Fonte: Nostra elaborazione sui dati Standard & Poor’s LCD La conferma del crescente trend nelle percentuali di debito utilizzate nelle operazioni di buyout viene espressa anche nel grafico successivo. Il cambiamento in Europa avviene nel 2005 e mentre il rapporto medio non subisce forti aumenti, i valori massimi aumentano del 42% tra il 2007 e il 2005. 74 Figura 31 – Rapporto medio debito/ebitda nelle operazioni europee di buyout. Fonte: Thomson Financial Questo ancora una volta a indicare come nel settore del private equity si fosse creata una distorsione rispetto a quelli che dovevano essere gli obiettivi dell’investimento nel capitale di rischio. Data la dimensione elevata di queste tipologie di investimenti è quindi interessate suddividere la struttura di finanziamento per operazioni con valore inferiore e superiore ai €100 milioni, cercando di capire se ci siano importanti differenze al variare della dimensione. Relativamente alle operazioni di valore inferiore ai €100 milioni, il grafico mostra la situazione già ampiamente discussa: diminuzione della componente debito e netto aumento dell’equity. In particolare tra il 2000 e il 2007 la percentuale media di debito utilizzata è stata del 46,2%, mentre lo stesso dato tra il 2008 e la prima metà del 2011 ha registrato il 27,8%. L’equity invece non è mai stato così utilizzato come nel periodo 2009-‐2011. Valori in diminuzione anche per le altre forme di finanziamento non-‐equity, che registrano un dimezzamento nel 2009. 75 Figura 32 -‐ Struttura delle operazioni per i buyout europei gestiti da società di private equity: operazioni superiori ai €100 milioni. Fonte: CMBOR Tuttavia se si considera l’ammontare relativo alla percentuale che debito ed equity hanno avuto sul valore totale delle operazioni , emerge che gli unici anni in cui l’equity ha prevalso sul capitale di debito sono stati solo 4: il 2000, 2008, 2009, 2010 e la prima metà del 2011. Il dato forse più importante è quello del 2000, in quanto hanno simile al 2007 e quindi utile al confronto. L’anno 2000, nonostante fosse ancora un anno di espansione del settore, vede infatti una quota di equity superiore di quasi €1 miliardo rispetto al capitale di debito. Questo contrasta con quanto accaduto nel 2007, a conferma di un sistema che aveva preso strade diverse rispetto al passato e difficilmente percorribili nel lungo termine. A livello invece di valore totale delle operazioni, la diminuzione è stata netta, considerando che nel 2000 si registrava un valor di €7.740 milioni, mentre nel 2009 era appena di €1.799 milioni. Inoltre, è evidente come l’impatto di questa crisi finanziaria sia stato molto più elevato di quello successivo alla crisi del 2001, dato che nel 2002, cioè nel momento di massima depressione economica, il valore totale delle operazioni era due volte e mezza quello del 2009. 76 Figura 33 – Struttura delle operazioni p er i buyout europei gestiti d a società d i private equity: operazioni inferiore ai €100 milioni. Fonte: CMBOR La situazione non è diversa considerando le operazioni con valore superiore ai €100 milioni. In particolare tra il 2000 e il 2007 la percentuale media di debito utilizzata è stata del 54,6%, quindi leggermente superiore a quella delle operazioni più piccole, mentre lo stesso dato tra il 2008 e la prima metà del 2011 ha registrato il 39,5%. Anche la componente debito mezzanino che aveva una quota stabile di circa il 10%, è scomparsa tra il 2009 e 2010. Le altre forme di finanziamento invece hanno avuto un declino rispetto al periodo 200-‐2002, in cui rappresentavano anche il 10% della struttura totale di finanziamento. Figura 34 – Struttura delle operazioni p er i buyout europei gestiti d a società d i private equity: operazioni superiori ai €100 milioni. Fonte: CMBOR 77 Tuttavia se si considera l’ammontare relativo alla percentuale che debito ed equity hanno avuto sul valore totale delle operazioni emerge che gli unici anni in cui l’equity ha prevalso sul capitale di debito sono stati solo il 2009, 2010 e la Figura 35 -‐ Struttura delle operazioni per i buyout europei gestiti da società di private equity: operazioni superiori ai €100 milioni. Fonte: CMBOR prima metà del 2011. La differenza nei valori è ampiamente diversa da quelli visti in precedenza, ma soprattutto ciò che risalta è il netto gap tra l’ammontare di equity e di debito utilizzati. Nel 2005 avviene un importante aumento della quantità di indebitamento che passa dai €25,4 miliardi del 2004 a €39,1 miliardi. Ma la crescita continua nei due anni successivi e nel 2007 raggiunge il valore di quasi €56 miliardi, più che raddoppiando il valore del 2004, e quadruplicando quello del 2001. A livello invece di valore totale delle operazioni, la diminuzione è stata ancora più netta rispetto ai deal più piccoli. Il divario infatti tra il 2007 e il 2009 è stata impressionante: se nel 2007 il valore totale delle operazioni raggiungeva i €96.536 milioni, nel 2009 tale cifra era quasi nulla (60,49 milioni), registrando un calo praticamente del 100%. Inoltre, è evidente come il valore di tali operazioni abbia raggiunto un record storico nel 2007, lontanissimo da quello dei primi anni 2000, e quindi come, date le dimensioni di questo settore, l’impatto in seguito alla crisi sia risultato devastante. 78 Parte 3 Analisi Del Mercato Italiano del Private Equity e Venture Capital 79 1.1. Effetti Sull’Attività Di Raccolta Il presente capitolo si pone l'obiettivo di mostrare ed analizzare l'evoluzione del mercato italiano del private equity e venture capital in seguito al 2007, alla luce delle considerazioni espresse nei capitoli precedenti. Seguendo la metodologia utilizzata dall'Associazione Italiana del private equity e venture capital, AIFI, si porrà l'attenzione su tre principali attività, seguendo il seguente ordine: la raccolta, l'investimento e il disinvestimento. La raccolta, o fundraising, è la fase iniziale e molto delicata dell'attività di private equity. Il grafico di seguito fornisce una panoramica dell’evoluzione dei fondi raccolti e degli investimenti tra il 2007 e il 2012 in Italia, espressi in milioni di euro. Figura 36 – Attività di fundraising e di investimento 2007 – 2012 (in milioni di euro). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). I dati relativi all’attività di raccolta già dal 2008 segnano una calo rispetto al 2007 (-‐25,1%). Il 2009 tuttavia è l’anno peggiore, con un calo del 57,8% rispetto al 2008 e un ammontare di fondi raccolti inferiore al miliardo. Il dato del 2010 invece è importante per due motivi: la raccolta si porta nuovamente sopra i due miliardi (+128,5% rispetto al 2009) e non deriva da un risparmio alla voce investimenti, i quali seppure in calo rimangono consistenti. Questo dato positivo tuttavia non si conferma nel 2011/2012 e la raccolta ritorna nuovamente sotto la soglia dei due miliardi di euro, a fronte di un’attività di investimento che rimane stabile sopra i €3 miliardi. In particolare il 2012, registra segnali di miglioramento (+29% la raccolta di capitali rispetto al 2011), anche se il risultato è influenzato dall’attività di un 80 singolo operatore, che ha raccolto oltre €500 milioni (pari al 37% della raccolta totale). Per quanto riguarda la provenienza di tali risorse risulta preponderante il reperimento di capitali sul mercato finanziario italiano e internazionale da parte di operatori indipendenti. Una quota minore invece è riconducibile alle società capogruppo dei veicoli di investimento di tipo captive, mentre le risorse riguardanti i capital gains derivanti da disinvestimenti realizzati nel periodo e disponibili nuovamente a essere investiti sono scomparsi dopo il 2008, mentre nel 2007 raggiungevano anche i €75 milioni. È forse uno dei dati più importanti derivanti dal mercato in quanto esprime sia la redditività derivante dai disinvestimenti che la predisposizione a reinvestire tali somme in nuovi progetti. È inoltre importante segnalare che, per metodologia internazionale, i dati della raccolta non considerano le risorse riconducibili ai fondi pan-‐europei con base stabile nel nostro Paese, sottostimando, il valore complessivo delle risorse disponibili sul mercato. Infatti qualora si considerassero anche questi capitali, l’ammontare dell’attività di fundraising in Italia risulterebbe molto più elevato (colonne azzurre). Tuttavia, anche questi operatori dal 2009 hanno ridotto il loro commitment: infatti i valori del 2008 sono superiori a quelli del 2009/2010 considerati insieme, e il 2012 si conferma addirittura l’anno peggiore, rendendo la differenza tra il valore complessivo delle risorse disponibili sul mercato e il valore totale della raccolta più bassa anche di quella registrata nel 2009. 81 Figura 37 – Provenienza dei capitali raccolti (in milioni di euro) Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Con riferimento all'origine geografica degli stessi fondi, è significativo notare come ci sia una sorta di inversione di tendenza dopo il 2007, con la forte diminuzione dei capitali raccolti sul mercato finanziario internazionale: una media del 18% tra il 2008 e il 2012 contro il 51% del lustro precedente al 2008, e un dimezzamento (da 10 a 5) degli operatori che raccolgono capitali all’estero. È sicuramente un segnale inequivocabile dell’impatto della crisi sugli operatori esteri, mentre è un segnale positivo degli investitori italiani che nonostante la crisi hanno mantenuto il loro commitment e anzi nel 2010 l’hanno fortemente incrementato. Tuttavia, l’effetto negativo della mancanza di capitali esteri riguarda il periodo 2011/2012, in cui si registrano valori molto bassi, anche se in crescita. Tuttavia, l’anno peggiore relativamente alle fonti estere è stato proprio il 2010, anno in cui l'unica fonte di capitale straniero è stata quella degli investitori individuali. La mancanza di capitali esteri quindi sta pesando sull’attività di raccolta, sebbene i fondi nostrani siano in un primo momento riusciti a compensare questa mancanza. L’auspicio è che quindi quello di attirare nuovi investitori, magari anche da paesi asiatici. Inoltre questi dati hanno anche evidenziato quanto l’impatto della crisi sia stato dirompente all’estero, traducendosi in una marcata diminuzione di fondi esteri. 82 Figura 38 – Evoluzione dell’origine geografica dei capitali raccolti sul mercato (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). L’analisi della raccolta per tipologia di fonte evidenzia come i soggetti esteri che più hanno fatto mancare il loro apporto sono stati sicuramente i fondi di fondi (tipicamente di matrice internazionale), il cui commitment è passato dal 100% nel 2007 all'80% nel 2011 (e a 0% nel 2010). Anche i fondi pensione esteri hanno avuto un percorso simile registrando una quota del 92% nel 2007, del 33% nel 2011, e toccando lo 0% nel 2010. I segnali peggiori tuttavia arrivano dai dati del 2012, che evidenziano un’attività di fundraising quasi assente dall’estero, a parte il comparto assicurativo e le società di private equity che hanno contribuito solamente con risorse internazionali. 83 Figura 39 – Origine geografica dei capitali raccolti sul mercato per tipologia d i fonte (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). A livello di fonti di fundraising notiamo ancora una volta come dal 2007 in poi la situazione sia cambiata a causa della crisi finanziaria internazionale. Il settore bancario ha visto la peggior diminuzione in tal senso, riducendo le proprie sottoscrizioni al settore private equity dell’82% dal 2007 al 2009, passando da €802 milioni ad appena €45 milioni. Non meglio i fondi di fondi che diminuiscono il loro apporto di risorse del 79% nello stesso arco temporale. In generale tutti i soggetti indicati nell’analisi hanno apportato meno risorse in maniera minore o maggiore tra il 2007 e il 2009, e in ogni caso con cali maggiori del 15%. 84 Figura 40 – Origine geografica dei capitali raccolti sul mercato per tipologia d i fonte. Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Tuttavia segnali positivi si intravedono dal 2010, in cui si evidenzia un trend di ripresa, anche se non per tutti: in particolare banche, fondi di fondi, fondazioni bancarie e accademiche, gruppo industriali, settore pubblico, assicurazioni, fondi pensione ritornano protagonisti mentre gli investitori individuali; invece gli investitori individuali hanno ulteriormente diminuito l’apporto di risorse e le società di private equity non hanno contribuito ad apportare risorse. Il dato del 2010 tuttavia non viene confermato nel 2011, e infatti fondazioni bancarie, gruppi industriali, mercato dei capitali e la voce “Altro”76 azzerano le loro sottoscrizioni nei confronti del settore. Sempre nel 2011 fondi di fondi e banche confermano il loro ruolo centrale nell’attività di limited partner: le banche fanno segnare rispetto al 2009 +546% e i fondi di fondi +86%. Valori tuttavia lontani da quelli segnati nel biennio 2006-‐2007, periodo nel quale soprattutto i fondi di fondi avevano avuto una crescita esponenziale. Nel 2006 infatti erano la maggiore fonte di capitali per il private equity (€953 milioni). Inoltre, i fondi di fondi stessi raccoglievano i finanziamenti dagli stessi investitori che finanziavano direttamente i fondi di private equity. Il non ancora citato settore pubblico ha raggiunto il record di ammontare di capitali fornito al private equity nel 2010 con €188 milioni, che corrisponde ad un aumento quasi cinque volte superiore al valore registrato nel 2005. Tuttavia se si considera la percentuale sul totale di questa classe, il record è stato 76 Altro comprende unclassified, sovereign wealth funds, other asset managers, family offices 85 raggiunto nel 2009 con una percentuale del 12,8%. Un incremento abbastanza intuibile e che ha coinvolto anche gli altri Paesi europei durante la crisi, come evidenziano i seguenti dati estratti dall'"Yearbook 2012" dell'EVCA. Tabella 3 – Ammontare e percentuale di fundraising d elle government agencies in Europa (2007 – 2011). Fonte: EVCA, Yearbook 2012 Gli ultimi dati a disposizione si riferiscono al 2012 e sono riassunti nel grafico seguente. È evidente come alcune categorie perdano il loro ruolo di fornitori di capitale nel corso del tempo: è il caso delle assicurazioni, degli investitori individuali, e dei soggetti che compongono la voce “Altro”. Si regista invece un ritorno di banche, fondazioni bancarie, settore pubblico e fondi pensione, dato che importanti player come i fondi di fondi e i gruppi industriali perdono ampie quote. Figura 41 – Origine dei capitali raccolti sul mercato per tipologia di fonte nel 2012. Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Infine è utile studiare quale destinazione avranno questi capitali, ovvero capire quali classi di investimento saranno finanziate mediante l’utilizzo dei fondi raccolti. Come illustrato nel grafico le tipologie di investimento target che richiamano più risorse sono i buyout ed expansion. A differenza degli altri grafici in questo sono stati inseriti i dati del 2006, in quanto particolarmente significativi. In tale anno infatti le uniche tipologie di operazioni a ricevere i finanziamenti derivanti dal fundraising sono state buyout e l’expansion. Notiamo, inoltre, che i buyout hanno avuto sempre un peso importante tra il 2006 e il 2009, salvo poi subire un forte declino nel biennio 2010-‐2011. Nel 86 2007, nel picco della sua diffusione, alle operazioni di buyout sono state destinati €1,58 miliardi, salvo poi perdere il 90% delle risorse (ovvero €1.417.210.000) tra il 2008 e il 2011. Percorso diverso hanno seguito le operazioni di expansion che hanno ricevuto meno fondi, durante il boom del mercato del buyout, nel 2007, toccando in quest’ultimo anno la soglia minima di €249 milioni. Figura 42 – Distribuzione della raccolta per tipologia di investimento target (2006 – 2012). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Tuttavia, proprio quando il fenomeno buyout è venuto meno, le risorse per le operazioni di expansion sono cresciute e sono state finanziate da circa 1,8 miliardi di euro nel biennio 2010-‐2011. Interessante è notare come l’exploit della tipologia di buyout sia episodico, infatti anche nel 2006 è stata l’expasion la tipologia di operazione che ha ricevuto più risorse, un pò in controtendenza rispetto alla prassi europea che vede la tipologia di buyout (colonne verdi) come il destinatario preferito della attività di raccolta; anche se anche in ambito europeo la quantità di risorse disponibili si è nettamente ridotta nel biennio 2009/2010. Figura 43 – Fondi raccolti per tipologia di investimento target. Fonte EVCA, Yearbook 2012 87 Relativamente all’early stage, le risorse messe a disposizione non hanno mai superato i €113 milioni (quota raggiunta nel 2008), se si considerano quelli destinati al settore a contenuto tecnologico, mentre l’ammontare è ancora più basso (€60.560.000 nel 2007) se si considerano gli interventi di early stage nei settori non tecnologici. Infine dal 2008 sono state destinate più risorse alle operazioni di replacement e turnaround, considerando che tra il 2008-‐2011 la media è stata di quasi €322 milioni, mentre nel 2007 il valore era di €181 milioni. Sicuramente si può considerare un incremento importante, ma ancora insufficiente date le opportunità di origination presenti in seguito alla crisi per questo segmento dedicato ai piani di ristrutturazione e di rilancio di aziende in difficoltà. In particolare l’argomento verrà ripreso in seguito quando il focus si sposterà sugli investimenti. 88 1.2. Effetti Sull’Attività di Investimento L’attuale capitolo tratta l’attività di investimento e seguendo l’esposizione adottata nel precedente capitolo, si fornisce una panoramica generale dell’attività per poi entrare più nel dettaglio. Il grafico seguente illustra l’ammontare degli investimenti nel settore del private equity dal 2007 al primo semestre del 2011. Abbiamo già visto nel primo capitolo come l’evoluzione di tali investimenti in Italia sia stata positiva e continua, ma soprattutto consistente (nel 1998, non raggiungeva il miliardo di euro, mentre nel 2008 registrava il record di €5,46 miliardi). È quindi un segnale di come il settore costituisca oggi uno strumento alternativo importante al finanziamento dell’attività di impresa in Italia. Come evidenziato già per il segmento di fundraising, anche quello dell’investimento è stata pesantemente influenzata dalla crisi finanziaria internazionale. Tuttavia mentre l’attività di raccolta ha subito gli effetti della crisi già nel 2008, gli investimenti hanno registrato nel 2008 il loro anno migliore in termini di volumi e numero di operazioni. Infatti la quantità di capitale investita nel periodo 2009-‐2010 è stata nettamente inferiore a quella del 2008, con valori più che dimezzati, ma non eccessivamente negativi, se si considera che risultano comunque superiori a quelli registrati nel 1998-‐1999, ovvero un periodo di forte espansione in virtù della già citata bolla speculativa della new economy. Una accenno di ripresa è arrivato nel 2011, in cui si è registrato un ritorno dell’attività di investimento, che ha raggiunto nuovamente i livelli del 2006. La nota negativa tuttavia arriva dai dati del 2012, che risultano scarsi rispetto al 2011, e quindi non confermano il trend positivo dell’anno precedente. Questi valori, che sono probabilmente dovuti all’incertezza economica nella zona euro e delle difficoltà specifiche dell’Italia, quindi non indicano una completa ripresa ma piuttosto un periodo interlocutorio che il settore del private equity sta attraversando. 89 Figura 44 – Evoluzione dell’attività di investimento (in milioni di euro). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Da un analisi della distribuzione degli investimenti per tipologia si nota subito che la voce più importante, come era lecito aspettarsi in virtù dei dati sulla raccolta, è l’attività di buyout, seguita dall’expansion. In particolare, nel periodo peggiore gli investimenti in operazioni di buyout hanno rappresentato il 53% degli investimenti totali e le operazioni sono state 113; mentre il 2007 è stato l’anno record con quasi €3,3 miliardi, confermando la grande espansione di questa tipologia di investimento anche in Italia. La seconda attività per importanza, l’expansion, ha registrato un buona ripresa già nel 2010, aumentando progressivamente le quantità nei 2 anni successivi e proprio nel 2012 ha raggiunto il record dell’ultimo quinquennio con €926 Figura 45 – Distribuzione degli investimenti per tipologia (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). 90 milioni. Questo dato indica che probabilmente un cambiamento nel segmento target è avvenuto a causa della congiuntura economica negativa negli anni successivi al 2008. Il settore expansion infatti ha registrato valori pari e superiori a quelli pre-‐crisi in un periodo decisamente non florido nel mercato del private equity italiano e altrettanto negativo in termini macroeconomici. 46 – Evoluzione dell’attività di investimento e del numero di operazioni per tipologia (2007 – Figura 2012). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Dato positivo arriva anche dagli investimenti di venture capital, che hanno superato le 100 operazioni nel 2010 e 2011, per poi raggiungere le 136 nel 2012, e superare quindi per la prima volta l’attività di expansion. Abbastanza stabile, e in notevole aumento nel 2012, l’ammontare investito in questo segmento. Rispetto al periodo precedente quindi l’attività di investimento si focalizza più sui segmenti expansion ed early stage, lasciando in secondo piano l’attività di buyout che continua comunque a rappresentare il comparto del mercato verso il quale è confluita la maggior parte delle risorse (€2.069 milioni), specificando tuttavia che tale dato deve essere considerato alla luce della tipologia di operazione che generalmente prevede l’acquisto totale o quasi totale della società target e su imprese già mature. Data quindi l’entità della crisi, è utile osservare le variazioni in termini di volumi e numero di operazioni tra il 2008 e il 2012 e che impatto hanno avuto sull’attività di investimento del private equity. 91 Il segmento early stage è l’unico che non subisce variazioni negative nel periodo osservato, sia in termini di volumi che di numero di operazioni effettuate. Le variazioni più importanti sono state subite dalle attività di turnaround e replacement, e questi ultimi sono il segmento che in assoluto ha registrato il calo di investimenti più elevato (-‐95%). Le operazioni di expansion invece fanno registrare un valore leggermente negativo per numero di operazioni, ma realizzano un +11% in termini di investimenti. Ancora migliore è stato l’andamento delle operazioni di early stage che hanno registrato incrementi di operazioni per il 55% e di volumi investiti per il 17%. Le operazioni di buyout hanno sempre il record nell’ammontare degli investimenti effettuati (bolla blu: €2.261 milioni), anche grazie a una riduzione di appena il 28% rispetto al 2008. Tuttavia hanno subito una forte contrazione nel numero delle operazioni (-‐42%). 47 – Distribuzione degli investimenti per tipologia e confronto dei valori tra il 2008 e il 2012. Figura Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). La distribuzione degli investimenti per classi di fatturato delle aziende target evidenzia come le aziende di piccola dimensione (con un fatturato inferiore ai €50 milioni), pur avendo attratto risorse per circa il 25% del totale, rappresentino anche per i 2012, il principale target verso cui sono indirizzati gli investimenti di private equity e venture capital in Italia, con una quota dell’80% sul numero complessivo di operazioni. Al contrario per le operazioni oltre i €250 milioni di euro, la diminuzione è forte soprattutto nel 2012 e indica che le operazioni di grandi dimensioni sono diventate meno frequenti, diversamente da quanto accadeva nel biennio 2006-‐2007. 92 Figura 48 – Distribuzione percentuale del numero di investimenti per classi di fatturato delle aziende target (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Guardando alla distribuzione geografica degli investimenti, si nota immediatamente un particolarità: il 2007 infatti è l’anno in cui gli investimenti all’estero raggiungono record sia in termini di numero di operazioni che di ammontare investito. La particolarità sta nel fatto che, escluso proprio il 2007, dal 2006 al 2012, soprattutto a livello di ammontare investito, le società target soggette ad operazioni di private equity sono esclusivamente società italiane. Risulta infine interessante notare la differenza esistente tra l’ammontare medio investito considerando o meno i cosiddetti mega deal77. È evidente infatti che tra il 2006 e il 2012, l’ammontare investito medio escludendo le Figura 49 – Distribuzione del numero e dell’ammontare di investimenti realizzati (2006 – 2012). Fonte: Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). 77 Investimenti di importo compreso tra i 150 e 300 milioni di euro (large deal) o maggiore di 300 milioni di euro (mega deal), AIFI 93 operazioni di grandi dimensioni, è rimasto abbastanza costante, oscillando tra i €13 e i €22 milioni. Tuttavia, in alcuni anni la differenza tra questi valori e l'ammontare totale degli investimenti risulta importante: in particolare, proprio nel 2007, anno in cui il gap è di €23,1 milioni. Tale spread riassume la quantità di operazioni di grandi dimensioni svolte in un dato periodo di tempo. Negli anni della crisi finanziaria i cosiddetti mega deal sono diminuiti e infatti la differenza a cui si faceva riferimento in precedenza è stata di €4,3 milioni nel 2008 e di €6,2 milioni nel 2009. In particolare, la conferma viene anche dal numero di large e mega deals che non ha mai superato le tre operazioni tra il 2006 e il 2011, ad eccezione del 2007 con cinque. Figura 50 – Ammontare investito medio (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). L’analisi della distribuzione settoriale delle società oggetto di investimento evidenzia come nell’ultimo anno i settori dell’energia&utilities e dei computer abbiano rappresentato i principali target di investimento in termini di numero di operazioni, con una quota dell’11% ciascuno, seguiti dal comparto dei servizi non finanziari (10%). Rispetto al 2011, cresce in modo significativo il numero di operazioni realizzate nei settori dell’aerospaziale e difesa (+300%) e della chimica (+200%), mentre diminuisce il peso dei comparti tradizionali, quali i trasporti e la logistica (-‐60%) e il tessile (-‐50%). 94 Figura 51 – Distribuzione settoriale del numero di investimenti realizzati (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Per quanto riguarda le imprese attive nei settori ad alta tecnologia, il numero di operazioni realizzate a favore di aziende definite dagli stessi operatori “high tech” è passato da 104 nel 2011 a 139 nel 2012, e l’incidenza sul numero totale di operazioni è cresciuta dal 32% al 40%. Questo aumento rappresenta sicuramente un segnale positivo e in controtendenza rispetto al passato. In termini di ammontare, le risorse investite in aziende high tech hanno rappresentato il 26% del volume complessivo (€824 milioni) contro l’8% dell’anno precedente. In particolare, i settori in cui si evidenzia il maggior numero di operazioni sono quello dei computer, del medicale, e dei servizi non finanziari che, in termini di numero, hanno rappresentato il 51% degli investimenti in imprese high tech effettuati nel corso del 2012. 95 Figura 52 – Evoluzione del peso percentuale degli investimenti in imprese high-‐tech (2006 – 2012). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Dal punto di vista numerico il numero degli investimenti il 2012 sembra suggerire una dinamica molto diversa rispetto al 2007, con un aumento netto del numero degli investimenti e una diversificazione settoriale. Infatti mentre nel 2007 settori come quello dei media&entertainment, del biotech e dei servizi finanziari non avevano numeri importanti, il 2012, vede un focus degli investimenti proprio su questi settori. Figura 53 – Distribuzione settoriale del numero di investimenti in imprese high-‐tech. Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). 96 1 .2 .1 . L ’a ttiv ità d i e a rly sta g e Con riferimento alle operazioni di early stage, abbiamo appena visto come l’ammontare investito in questa segmento abbia subito un calo dal 2008 al 2011, e come sia tendenzialmente basso. Figura 54 – Attività di investimento nel segmento early stage. Fonte: Nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi Mercato Italiano) L’andamento delle operazioni è invece crescente e anche in anni di congiuntura economica negativa come quelli successivi al 2008, registra una perdita minima nel 2009, recuperando tuttavia nel 2010 e 2011, in cui si registra il record nel numero di operazioni. Dal grafico però si intuisce anche che nonostante l’aumento delle operazioni di early stage, l’investimento complessivo è diminuito costantemente dal 2009, portando il rapporto di investimento per operazioni a € 7.547,17 nel 2011, quando lo stesso rapporto nel 2008 era praticamente il doppio. Chi ha fornito le risorse più ingenti a questo segmento sono stati gli operatori regionali e pubblici, seguiti dai fondi di early stage e dalle SGR. Tuttavia, i primi due operatori hanno subito un lento declino dal 2009 al 2012, che si è contrapposto alla crescita delle SGR. Queste ultime in particolare hanno registrato valori importanti passando dal 7% nel 2007 al 41% nel 2012, invertendo quindi i rapporti di forza presenti nel periodo pre-‐crisi. Ancora più importante è stato il cambiamento per il settore bancario che ha diminuito il suo impegno economico dai €13 milioni del 2009 ai €2,46 del 2011. Da gli ultimi dati del 2012 non rilevano grandi differenze fatta eccezione per la scomparsa dei country funds e il ritorno dei fondi pan-‐europei in minima parte. 97 Figura 55 -‐ Distribuzione percentuale del numero di investimenti di early stage per tipologia di operatore (2007 – 2012). Fonte: Nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi Mercato Italiano) 98 1 .2 .2 . L ’a ttiv ità d i e x p a n sio n Come visto in precedenza, l’attività di expansion non ha subito particolari crisi nel numero delle operazioni finanziate. Tuttavia nel 2009 è evidente il crollo nella quantità degli investimenti effettuati. Evidentemente le quantità sono molto diverse dall’attività di early stage, proprio perché con l’expansion si fa riferimento a quell’investimento in imprese mature che desiderano sviluppare l’attività d’impresa tipicamente attraverso l’espansione della gamma di prodotti o geografica. A differenza di altri segmenti il record di investimenti viene effettuato nel 2006 (€1.094 milioni). Invece il record negativo anche in questo caso viene registrato nel 2009 (€371 milioni). Nonostante ciò il segmento ha già dal 2010 registrato miglioramenti e grazie al continuo miglioramento nell’ultimo biennio sono stati raggiunti nel 2012 valori vicini al 2006 (+150% rispetto al 2009). 56 – Evoluzione dell’attività di investimento nel segmento expansion. Fonte: nostra elaborazione Figura su dati AIFI (Analisi mercato italiano). L’ammontare investito medio esclusi i large e mega deal è diminuito molto rispetto al 2006, e il trend successivo al 2008 ha registrato una media sempre inferiore ai €6 milioni. I valori medi invece disponibili solo per gli anni 2006 e il 2012 mostrano che l’investimento medio considerando le operazioni di grandi dimensioni è nettamente più elevato; come era lecito aspettarsi, nel 2006 tale valore era l’80% maggiore rispetto al 2012. 99 Figura 57 – Ammontare investito medio per tipologia di operazione nel 2012. Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Nel dettaglio, dall’analisi della tipologia di investitori attivi nel segmento, emerge, come le SGR generaliste siano gli investitori che hanno realizzato il maggior numero di investimenti dal 2010 al 2012. Infatti in precedenza, erano gli operatori regionali/pubblici ha detenere il primato. Accanto a questi 2 soggetti, risaltano per importanza banche e country funds. Tuttavia, il settore bancario, come già visto per l’early stage, non investe più nel segmento expansion come accadeva nel 2007. Infine, un ruolo minore, hanno svolto storicamente i fondi pan-‐europei e i fondi di early stage. Figura 58 -‐ Distribuzione percentuale del n.ro di investimenti di expansion per tipologia di operatore. Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). 100 1 .2 .3 . L ’a ttiv ità d i b u y o u t Gli investimenti nell’attività di buyout sono quelli più importanti dal punto di vista dell’ammontare di capitale coinvolto. Nel picco del 2007, la cifra degli investimenti ha raggiunto quasi i €3,3 miliardi e solo nel 2009-‐2010 è scesa sotto i €2 miliardi. Come abbiamo visto per i precedenti segmenti di investimento, la crisi finanziaria internazionale ha influito anche nelle operazioni di buyout, sia a livello di numero di operazioni che a livello di ammontare. Il trend è stato negativo dal 2008 al 2010, registrando il minimo nel 2010, a (€1,65 miliardi), circa un terzo di quanto investito nel 2007. Infine nel 2011, si è registrato un incremento del 37%, che si è confermato anche nel 2012, con cifre pressoché simili sia per volumi che per numero di operazioni. Figura 59 – Andamento dell’attività d i investimento n el segmento buyout (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Con riferimento all’origine dei capitali investiti nelle operazioni di buyout si nota subito come SGR e fondi pan-‐europei abbiano svolto un ruolo centrale in tutto il periodo 2007-‐2012. Nonostante ciò, entrambi hanno investito in un numero di operazioni minore tra il 2009 e 2012, causando un calo del 28% in termini di ammontare investito nelle operazioni di buyout. Le banche hanno naturalmente diminuito fortemente i loro investimenti nel 2009, mentre non ne hanno effettuati nel 2010 e nel 2012. 101 Figura 60 – Distribuzione percentuale del numero di investimenti di buyout per tipologia di operatore (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione su dati AIFI (Analisi mercato italiano). Nelle operazioni di buyout tipicamente il debito gioca un ruolo molto importante, ed è stato analizzato nel precedente capitolo quale peso possa avere nelle operazioni di private equity. Si indaga quindi la componente debito nelle operazioni di buyout in Italia, alla luce di quanto visto a livello europeo. Relativamente all’andamento dal 2004 al 2011 abbiamo una conferma di quanto visto in precedenza: nel periodo di crisi finanziaria l’utilizzo del debito ha subito un netto calo, incidendo sulla possibilità di svolgere operazioni sia di grandi dimensioni che ordinarie. In particolare nel 2009 l’ammontare del debito utilizzato ha toccato il minimo di €12,9 milioni, registrando una contrazione del 75% rispetto al 2006. Figura 61 – Andamento del debito e rapporto debito/equity nelle operazioni di buyout (2004 – 2011). Fonte: Nostra elaborazione sui dati del PEM 102 Tuttavia, è interessante notare come già dal 2010 la ripresa nell’utilizzo del debito è stata rapida e consistente, culminata nel 2011 con il record di debito utilizzato nel periodo 2004-‐2011 di €52,5 milioni. In particolare questo valore risulta fortemente influenzato dalle operazioni avvenute in imprese di grandi dimensioni78 avvenute proprio nel 2011. Con riferimento al livello medio del grado di leva nel 2011 è risultato pari a 1,2x in lieve contrazione rispetto al valore 2010, quando si attestava a 1,3x. Tuttavia, è evidente che il grado di leva uguale a 2x nel 2005 non sia più stato raggiunto, a indicare che è avvenuto un cambiamento nelle quantità e nel mix di risorse finanziarie utilizzate in queste operazioni. Infine il debito netto erogato risulta essere 2,3 volte l’EBITDA dell’impresa target rivelando ancora una volta la distanza dal valore medio pre-‐crisi (4,8x nel 2006). 78 Alpitour (Amount Invested €100 milioni, Net Debt/EBITDA 15,3), Ansaldo Energia (Amount Invested €225 milioni, Net Debt/EBITDA 8,8), Coin (Amount Invested €395,8 milioni, Net Debt/EBITDA 14,8), Moncler (Amount Invested €418 milioni, Net Debt/EBITDA n.d.), Savio (Amount Invested €130 milioni, Net Debt €349,2 milioni) 103 1.3. Effetti Sull’Attività Di Disinvestimento Anche l’attività di disinvestimento è stata condizionata dalle turbolenze dei mercati finanziari, che hanno sia reso più difficile le dismissioni delle partecipazioni degli operatori sia inciso in modo significativo sulla valorizzazione delle società in portafoglio. Nell’ultimo decennio l’ammontare disinvestito, calcolato al costo di acquisto delle partecipazioni ha seguito una forma “a doppia V” tipica del mercato borsistico. Fino al 2007 l’aumento dell’ammontare disinvestito e del numero di operazioni è stato stabile e costante. Dal 2008 invece il numero di transazioni dismesse ha avuto un calo pressoché continuo mentre i valori delle dismissioni sono stati altalenanti. Inoltre, dal grafico sembrerebbe che il 2009, anno peggiore in assoluto come si è potuto constatare fino ad ora, proponga segnali positivi per il segmento dei disinvestimenti e in crescita rispetto all’anno precedente. Tuttavia nel 2009 l’85% dell’ammontare complessivo ha riguardato i cosiddetti write off, quindi svalutazioni totali o parziali delle società in portafoglio, con conseguente riduzione della quota detenuta o uscita definitiva dalla compagine azionaria. Tale percentuale è quantificabile in €1.547 milioni di svalutazioni: i write off complessivamente sommati tra il 2003 e il 2012, escludendo proprio il 2009, raggiungono appena €1 miliardo. Dopo il 2009, l’ammontare di write off è diminuito e nel 2012 sia è attestato su valori appena superiori (€94,1 milioni, ovvero il 5,99%) a quelli del 2006. Figura 62 – Evoluzione dell’attività di disinvestimento (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi mercato italiano) 104 Per quanto riguarda le altre modalità di cessione delle partecipazioni, la vendita a partner industriali (trade sale) continua a rappresentare il canale di disinvestimento preferito in termini di numero, con un’incidenza media nel periodo 2007-‐2012 del 44,2% e nel 2012 del 47%. La tipologia di disinvestimento che rimane invece più bassa in termini di numero di operazioni è quella della quotazione in borsa, a dimostrazione che questa strada ha ancora margini di crescita importantissimi in Italia. Figura 63 – Distribuzione percentuale del numero di disinvestimenti per tipologia (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi mercato italiano) Approfondendo l’analisi delle modalità di cessione in termini di ammontare, si segnala che la vendita a operatori industriali si è configurata come il principale canale utilizzato (in particolare il dato del 2011 risente di alcune operazioni di dimensioni significative), seguita dalla vendita ad altri investitori che ha registrato valori più costanti soprattutto nel triennio 2010-‐2012. 105 Figura 64 – Evoluzione dell’ammontare disinvestito per tipologia (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi mercato italiano) Con specifico riferimento alla tipologia di investitori, le SGR generaliste risultano nel periodo di osservazione le più attive sul fronte delle dismissioni, seguite dagli operatori regionali/pubblici e banche italiane. Figura 65 – Distribuzione percentuale del numero di disinvestimenti per tipologia di operatore (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi mercato italiano) Analizzando invece l’attività di disinvestimento a livello di numero per singolo canale, si è deciso di confrontare i dati del 2007 e del 2012 per evidenziare eventuali cambiamenti. È evidente una certa prevalenza e continuità delle banche per quanto concerne la cessione mediante il canale borsistico, seguite da SGR generaliste, fondi pan-‐europei e investment companies. Una situazione non volatile si riscontra anche nell’ambito delle trade sale. Invece un cambiamento importante ha coinvolto alcuni attori nel segmento della vendita ad altri 106 investitori. In questa categoria infatti, mentre le SGR generaliste sono stabili, fondi pan-‐europei e operatori di early stage prendono il posto a banche e operatori regionali/pubblici. Figura 66 – Distribuzione percentuale del numero di disinvestimenti per canale e tipologia di operatore. Fonte: nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi mercato italiano) Dalla stessa analisi, condotta in termini di risorse disinvestite emerge invece la netta prevalenza del ruolo degli investitori pan-‐europei in tutte le tipologie di disinvestimento, ad eccezione dei write off, che ha visto dapprima le banche nettamente coinvolte nel 2007 e poi le SGR nel 2012. Figura 67 – Distribuzione percentuale dell’ammontare di d isinvestimenti per canale e tipologia di operatore. Fonte: nostra elaborazione sui dati AIFI (Analisi mercato italiano) 107 1.4. Analisi Del Settore Private Equity Sulla Base Dei Survey KPMG Corporate Finance É infine utile studiare quali sono stati i risultati in termini di rendimento sul capitale investito nel panorama italiano del private equity. Per fare questa analisi, si sono presi in esame i dati del survey che ogni anno KPMG pubblica su questa tipologia di investimento. Lo studio monitora ogni anno sempre più operatori di Private Equity e Venture Capital, e proprio nel 2011 è stato raggiunto il record di 92 operatori. Il 2011 è sicuramente un anno di ripresa dell’attività di investimento: infatti gli operatori che presentano operazioni realizzate sono 47 contro le 26 del 2010, e le 23 del 2009; mentre le transazioni dismesse sono 85, segnando +63% rispetto al 2010 e +83% rispetto al 2009. Tabella 4 – Evoluzione principali indicatori sul private equity. Fonte: nostra elaborazione sui dati KMPG Corporate Finance – Private Equity In termini di volumi di investimento il cash out79 totale risulta quasi triplicato, passando da €628 milioni nel 2010 a €1.784 milioni nel 2011, e più che raddoppiato rispetto al 2009, e addirittura superiore al 2007. Questo data così importante è il frutto sia dell’aumento del numero dei disinvestimenti, che dell’incremento della dimensione media di investimento, passata da €12,1 milioni nel 2010 a €21 nel 2011. Quest’ultimo dato inoltre è il migliore dal 2007. In termini di cash in 80 totale l’incremento è ancora maggiore dovuto alla diminuzione del 26,2% dei write off registrati nell’anno. Il cash multiple81 è in miglioramento nel 2011 e si attesta su un valore più vicino a quelli pre-‐crisi facendo registrare 1,6x contro lo 0,7x del 2010 e lo 0,4x del 2009. 79 Cash out: capitale investito dai fondi 80 Cash in: capitale incassato dai fondi in tutte le sue forme (prezzo di cessione ed eventuali dividendi) 108 Dall’analisi delle performance dei disinvestimenti emerge subito che il 2011 è stato l’anno della svolta, con un IRR lordo dei disinvestimenti realizzati che è tornato in positivo per il 12,6%. Il 2009 e il 2010 avevano registrato infatti rendimenti negativi, e in particolare il dato del 2009 era il primo negativo dall’inizio delle statistiche. Il motivo è legato alla diminuzione dell’impatto dei write off in termini di volumi: hanno infatti riguardato €274 milioni contro i €366 milioni del 2010. Il rendimento del quartile superiore per performance 82 registra una diminuzione rispetto al 2010 e rimane ancora al di sotto dei valori ottenuti tra il 2007 e il 2010. Interessante è notare l’enorme differenza con i rendimenti del 2007, praticamente 4 volte superiori. Il quartile superiore per ammontare investito83 invece segue lo stesso percorso della performance complessiva del campione, ovvero torna in territorio positivo (14,3%) dopo 2 anni di rendimenti negativi. Figura 68 – Performance “from inception” (2007 – 2011). Fonte: nostra elaborazione sui dati KMPG Corporate Finance – Private Equity Il breakdown per classe di IRR realizzato conferma il generale miglioramento delle performance. Nello specifico, nel 2011 le operazioni con IRR negativo o concluse con write off, registrano una significativa diminuzione in termini di cash out, poiché passano dall’80% nel 2010 al 25% nel 2011. Tuttavia questo dato ha il suo lato negativo nel senso che l’incidenza per numero è in aumento nel 2011 (da 46,2% a 48,2%). 81 Il cash multiple è il rapporto tra cash in e cash out 82 Rappresenta il cluster costituito dal 25% dei disinvestimenti con i rendimenti maggiori 83 Rappresenta il cluster che raggruppa il 25% delle operazioni caratterizzate dai maggiori volumi di investimento 109 Le transazioni con IRR compreso tra 0% e 20% registrano un incremento sia in termini numerici, da 29% nel 2010 36% nel 2011, che in termini di cash out, da 10% nel 2010 al 63% nel 2011. In particolare, come si evince dal grafico, bisogna sottolineare il forte incremento in termini di cash out delle operazioni con rendimento compreso tra il 10% e 20%. Le transazioni con IRR compreso tra il 20% e il 50% sono in netta diminuzione sia in termini numerici, sia in termini di cash out. Le operazioni con IRR maggiore del 50% mostrano invece un lieve incremento per cash out. In particolare si registrano 3 transazioni con performance superiori al 100%, quando nel 2010 tale numero era stato zero. Figura 69 – Breakdown per classe di IRR realizzato (2007 – 2011). Fonte: nostra elaborazione sui dati KMPG Corporate Finance – Private Equity Complessivamente, il dettaglio per classe di IRR mostra un contesto in forte miglioramento, che si può sintetizzare in un netto decremento dell’incidenza (in termini di cash out) delle operazioni con IRR negativo/Write Off, dall’87% nel 2009 al 25% nel 2011; convergenza della maggioranza delle operazioni di mercato verso performance medie; lieve incremento delle operazioni outstanding, dal 5% nel 2009 ad oltre il 10% nel 2011. Analizzando questi dati si evidenzia la diminuzione degli investimenti riguardanti aziende target nel segmento expansion, passato al 40%, ma tuttavia sui livelli del 2007. Le operazioni di MBO/MBI sono aumentate raggiugendo il 38% dopo, 2 anni negativi al 30% e 29% e sono ritornate sui livelli del 2007. 110 Figura 70 – Breakdown per fase del ciclo di vita delle aziende target (incidenza per numero) (2007 – 2011). Fonte: nostra elaborazione sui dati KMPG Corporate Finance – Private Equity Le operazioni riguardanti le prime fase del ciclo di vita registrano un incremento del 10% nell’ultimo anno, e si riportano ai valori positivi del 2008. Infine le operazioni replacement, finalizzate alla sostituzione degli azionisti di minoranza si attestano stabilmente intorno al 10%. Concludendo, si nota che le operazioni di development o expansion e MBO/MBI sono quelle prevalenti, raggiungendo circa il l’80% del totale e confermano il trend degli ultimi anni. In termini di rendimenti, le attività che ottengono i risultati più positivi sono gli MBO/MBI che registrano ben 32 operazioni con un rendimento medio del 15,3%, e quindi si portano su valori più simili a quelli del 2008. Figura 71 – Andamento IRR Lordo Aggregato e numero di operazioni (2007 – 2011). Fonte: nostra elaborazione sui dati KMPG Corporate Finance – Private Equity Invece le operazioni di development registrano rendimenti lievemente negativi per il secondo anno consecutivo, su un totale di 34 operazioni. La particolarità di questi investimenti è stato il loro andamento rispetto al mercato in termini 111 di rendimento: il 2008 ha ottenuto rendimenti più bassi del 2007 (9,6%), ma il 2009 ha registrato una ripresa con rendimenti del 13,6% su 17 operazioni. Le operazioni di replacement hanno invece registrato il record in termini di rendimento nel 2010 (23%), salvo poi registrare bassi risultati nel 2011(11,7%). Il dato più negativo è però quello delle operazioni di early stage con un rendimento di -‐82,5% nel 2011. Tuttavia bisogna evidenziare che queste operazioni sono storicamente contraddistinte da elevata volatilità, come si evince dal grafico, e quindi il dato ha una significatività limitata. In sintesi, il mercato vede una importante ripresa nel 2011, in termini sia di attività di investimento che di rendimenti. Le cause del miglioramento possono essere la riduzione dell'incidenza dei write off, le buone performance dei disinvestimenti realizzati, con particolare riferimento ad alcune operazioni di MBO/MBI aventi ad oggetto target di grandi dimensioni. L’analisi from Inception per tipologia di operatore conferma la prevalenza nel mercato italiano dei Country Fund/SGR per numero di operazioni, dato che anche nel 2009 non scendono sotto le 31. In termini di rendimenti Figura 72 – Performance “from inception” per tipologia di operatore (2007 – 2011). Fonte: nostra elaborazione sui dati KMPG Corporate Finance – Private Equity 112 In generale è possibile osservare che la maggior parte delle operazioni ha avuto come obiettivo il finanziamento dello sviluppo delle aziende del mid-‐ market spesso realizzato senza fare ricorso a leva finanziaria. Nel 2011 molte aziende sono state oggetto di acquisizioni da parte di fondi italiani e stranieri. Le difficoltà nel reperire risorse finanziarie, l'aumento del costo del debito e le prospettive di crescita industriale ancora incerte, per valorizzare le partecipazioni da tempo nel portafoglio di diversi fondi di PE, la quotazioni in Borsa potrebbe rappresentare possibile via d'uscita. L'alternativa resta quella della cessione ad un altro fondo o ad un soggetto industriale. per il 2011 sembra che l'Interesse dei fondi di PE sia su 2 tipologie di società: aziende manifatturiere con significativa presenza industriale e commerciale nei principali mercati internazionali; e le imprese focalizzate sul mercato domestico, operanti in business nei quali novità normative o tecnologiche potrebbero determinare opportunità di concentrazione della filiera 113 CONCLUSIONI In questo contesto di profonda crisi economica, l’obiettivo dell’elaborato era duplice: capire se il mercato del private equity era stato interessato dalla crisi finanziaria internazionale (dato che gli operatori del private equity appartengono al mondo della finanza), e se questa poteva aver influito sugli operatori, in termini di numero di attività e di volumi. Dall’analisi empirica svolta, è evidente che il settore del private equity è cambiato e senza dubbio si può affermare che era un risultato abbastanza prevedibile data l’entità del credit crunch a livello globale. Tuttavia, non altrettanto intuibile era il risultato che si sarebbe evidenziato. Di seguito quindi, vengono evidenziati i cambiamenti subiti dal settore del private equity italiano in seguito alla crisi: • L’attività di raccolta è nettamente, mentre gli investimenti soprattutto negli ultimi 2 anni sono stati consistenti, sebbene distanti dai volumi registrati nel 2007. Questo in parte può essere spiegato con le disponibilità di capitali non investiti che i fondi hanno sperimentato successivamente al 2007: il cosiddetto “dry powder”. Secondo l’AIFI “al 30 giugno 2011 le risorse dei private equity italiani disponibili per investimenti, al netto delle disponibilità degli operatori pan-‐europei e captive, ammontavano a circa €7,8 miliardi”84. In particolare, il Fondo italiano d’Investimento ha avuto un ruolo importante investendo €205 milioni in 9 fondi di private equity (Progressio Investimenti II, Wisequity III, Finanza e Sviluppo Impresa, Gradiente I, Alto Capital III, Vertis Capital Parallel, Arca Impresa Parallel, Neip III, e Winch Italia). 84 “I soldi ci sono. L’Italia aspetta”, Peveraro S., Milano Finanza, 13 giugno 2012 114 Fonte: http://www.fondoitaliano.it/cms-‐assets/documents/43910-‐832336.130112-‐mf.pdf • Mentre nel 2007 l’attività di raccolta all’estero eccedeva quella italiana (€1.726 milioni contro €1.302, ovvero il rapporto estero/italia era pari a 1,33), dal 2008 il rapporto è cambiato, il rapporto di cui sopra è stato pari a 0,47 nel 2009 e addirittura 0,02 nel 2010 (inoltre i capital gains sono passati da €175 milioni nel 2007 a €1 nel 2012, mentre nel 2010 e 2011 sono stati nulli) • Nell’attività di raccolta le banche e i fondi di fondi rimangono i principali attori anche in seguito alla crisi: a parte il 2008/2009 infatti hanno sempre rappresentato più del 50% delle fonti di capitale per il settore. • Gli investimenti in buyout, nonostante rimangano gli investimenti che attirano più risorse, hanno assunto meno importanza, alla luce dell’aumento del focus su operazioni dei segmenti expansion ed early stage: questi ultimi due segmenti infatti tra il 2010 e il 2011 registrano volumi di investimento mai registrati mentre, il segmento buyout, 115 sebbene superiore alla somma dei due precedenti in termini di ammontare investito, registra valori in calo. • Incremento importante degli investimenti in imprese high tech sia in termini di numero di operazioni che per ammontare • Sia gli investimenti in early stage ed expansion registrano l’aumento significativo da parte delle Sgr mentre l’apporto degli istituti bancari diminuisce nettamente • L’attività di investimento in buyout diminuisce sia in termini di volumi che di numero di operazioni: da €3.295 milioni nel 2007 con 87 operazioni a 65 operazioni con €2.069 milioni investiti ; in particolare vengono meno gli investimenti delle banche, e diminuiscono quelli delle Sgr e dei fondi pan-‐europei; sempre nel segmento buyout si registra, come evidenziato ampiamente, la diminuzione del rapporto debito/equity e dell’utilizzo del debito netto. • I casi di aziende in crisi si sono quasi estinti dato che nel 2012 si sono registrati write-‐off per appena un 6% del totale dei disinvestimenti, ovvero €94 milioni, mentre erano superiori al miliardo e mezzo nel 2009, e imputabili solamente al settore bancario. Il numero di disinvestimenti si è ridotto ma l’ammontare è aumentato, a significare un valore medio per operazione disinvestita superiore rispetto al passato; la modalità principale di exit non è cambiata negli anni e la principale rimane quindi quella della trade sale; non si sono registrati grandi cambiamenti neanche per le altre modalità di disinvestimento. • In termini di rendimenti chi ha resistito maggiormente alla crisi sono i fondi pan-‐europei che hanno aumentato il loro Irr lordo aggregato ( mentre sia banche che Country fund/Sgr hanno avuto perfomance in calo rispetto al 2007 e addirittura negative. Sulla base di queste considerazioni e da quanto evidenziato nei precedenti capitoli, è evidente che l’attività di private equity è stata troppo sbilanciata verso determinati tipi di intervento, i buyout (nel 2007 il 78,5% degli investimenti in Italia erano destinati ad operazioni di buyout, mentre negli anni successivi tale quota non hanno mai superato il 65%), mentre dal 2008 la situazione è cambiata sia a livello italiano e ancora di più a livello internazionale. 116 E’ probabile che questa tipologia di operazione sia stata maggiormente utilizzata per i maggiori rendimenti ottenibili sottostimando nel contempo un aspetto rilevante, il rischio sottostante. Si era giunti quindi ad un aumento dell’attività di indebitamento accompagnato da un declino della qualità del credito, e, nel contempo, tre fattori erano indice della futura creazione di una bolla speculativa: il rapporto debito/ebitda aveva raggiunto il record nel 2007, rendendo le società soggette a rischio di default nel caso di declino delle performance finanziarie; la scarsità di liquidità per il rimborso del debito delle società controllate da un LBO; e il tasso di copertura degli interessi che avevano raggiunto nel 2007 il minimo di 10 anni a 1,7x. Questa situazione era stata creata anche grazie agli istituti bancari che come evidenziato nei capitoli precedenti avevano modificato il loro modello di business, passando dal tradizionale “originate to hold” al “originate to distribute”, liberando così capitale proprio e liquidità e quindi aumentando la propria capacità di concedere finanziamenti (come evidenziato in figura). In Europa infatti l’emissione annuale di senior loans è quadraplicata da €41 miliardi nel 2002 a €166 miliardi nel 2007. I fondi di private equity hanno colto in pieno questa opportunità di creare rendimenti importanti attraverso l’acquisto di grandi società e la loro strutturazione come LBO. Infatti circa l’86% dell’attività di prestito nel mercato primario in Europa tra il 2005 e il 2007 aveva operatori di private equity come sponsor. E il successo degli LBO dipendeva anche dalla presenza di finanziamenti con capitale di debito a basso costo. La crescita dell’institutional loan market fu il fattore principale allo sviluppo dell’attività di LBO in Europa: gli investitori istituzionali infatti fornivano appena il 10% del finanziamento nel 2001, ma nei successivi 6 anni hanno raggiunto il 67% e i veicoli di CLO sono stati la tipologia di investitore istituzionale più importante degli ultimi dieci anni, fornendo fino al 63% Figura 73 – Volume annuale d ei senior leveraged loan europei. Fonte: S&P Capital IQ LCD 117 dell’intero finanziamento istituzionale nel 2007. Accanto ai fattori congiunturali, è importante anche considerare i fattori normativi che possono e potranno influenzare il settore del private equity. Interessante è notare quindi come impatterà la normativa di Basilea 3 85 . Secondo lo studio svolto dall’EVCA in collaborazione con E&Y, gli istituti bancari continueranno a riposizionarsi sui business domestici e modificheranno i propri bilanci al fine di costituire un buffer86 di capitale per portare il Core Tier 1 ratio87 delle banche al 9%88. Nell’attuale regolamentazione di Basilea 2, le banche devono detenere un ammontare importante di capitale per coprire il rischio derivante dagli investimenti in PE. Quindi l’inasprimento dei fondamentali creerà delle difficoltà alle banche che vorranno investire in PE nel rispettare i coefficienti di liquidità e di capitale. Infatti a ogni esposizione sarà assegnato un determinato coefficiente di rischio basato sulla qualità del credito della controparte e di conseguenza la banca dovrà disporre di sufficienti risorse per coprire tutte le proprie esposizioni. In particolare per il private equity e il venture capital, considerati come le classi di attività tra le più rischiose, sono stati suggeriti coefficienti di rischio pari al 150% o anche superiori. Dal punto di vista della liquidità, è noto come l’investimento in private equity sia tipicamente illiquido anche se lo sviluppo di un mercato secondario negli ultimi anni sta cambiando anche questa aspetto. È indubbio che tale illiquidità mal si sposa con la necessità di rispettare i due nuovi rapporti di liquidità: il rapporto di copertura della liquidità e il rapporto di “net stable funding” (NSFR). 85 Secondo diversi analisti, dovrebbe pesare per €20 miliardi sul sistema italiano, per €50 miliardi sul sistema tedesco e per oltre €100 miliardi su Francia e Regno Unito. (Banca d’Italia) 86 Aggiunta al rapporto: patrimonio di qualità primaria / attività ponderate (Banca d’Italia) 87 Rapporto tra il patrimonio di base di una banca (Tier 1) e gli impieghi (attività della banca come i prestiti alle famiglie per i mutui) ponderati per il rischio (ossia “pesati” sul rischio implicito dei singoli impieghi calcolato dalla stessa banca): in pratica spiega con quali risorse “primarie” la banca può garantire i prestiti che effettua alla clientela e i rischi che possono derivare da sofferenze, incagli e altri crediti deteriorati. (Banca d’Italia) 88 European Loan 2012 Book, S&P Capital IQ LCD 118 Figura 74 -‐ Scadenze nell’attuazione della regolamentazione di Basilea 3. Fonte: EVCA, Implications of Basel III / Solvency II regulatory changes on Private Equity, EVCA CFO-‐COO Summit, 17 June 2011 Il primo obbligherà le banche a implementare riserve finanziarie per assicurare la resistenza in condizioni di mercato estremamente negative per un periodo di 30 giorni, ricercando quindi asset liquidabili più semplicemente o riserve in denaro. Il secondo rapporto misurerà l’ammontare di risorse stabili da detenere per un orizzonte temporale superiore all’anno determinate sulla base dei fattori del rischio di liquidità. La conseguenza quindi sarà che tutti i titoli illiquidi e i prestiti superiori all’anno dovranno essere coperti da finanziamenti stabili. Si stima che questo irrigidimento delle regole comporterà un decremento dei rendimenti sull’equity (ROE) per gli istituti bancari di circa il 4% in Europa e del 3% in America, rendendo le banche soggetti meno appetibili per gli investimenti da parte del settore PE. Tuttavia è anche possibile che il rialzo dei tassi sui prestiti per evitare il deterioramento del ROE bancario, possa rendere più società disponibili a valutare la formula del PE. La regolamentazione di Basilea 3 dovrà essere completamente operativa dal 2019, ma gli istituti bancari si stanno già muovendo in tale direzione, e anche in Italia, questo avvicinamento si nota guardando le statistiche relative al settore private equity. La congiuntura economica negativa ha sicuramente influito: dal 2007 gli investimenti del settore bancario italiano sono diminuiti costantemente raggiungendo il minimo nel 2012, con un valore di €111 milioni con appena 15 operazioni, contro le 38 del 2007. 119 Quindi, al fine di seguire le nuove regole, è probabile che questi valori diminuiranno ulteriormente negli anni, favorendo l’aumento delle operazioni con più equity e meno debito. I fondi di private equity quindi potrebbero essere appunto la risposta, data la loro attitudine a rafforzare il capitale delle aziende nelle quali entrano. In questo senso potrebbero esserci anche ripercussioni sulla struttura economico finanziaria delle imprese italiane, che da sempre è sbilanciata, dal lato del reperimento dei fondi, in favore del debito bancario (traducendosi in bassi impieghi di capitale di rischio). Questa caratteristica è una anomalia che non coinvolge gli altri competitors europei i quali sviluppano la struttura finanziaria in modo diverso. Ad esempio per le aziende con un fatturato di €50 milioni, la quota dei finanziamenti bancari sul totale attivo si colloca tra il 20 e il 25% in Italia, mentre è fra il 5% e il 15% negli altri paesi89. Figura 75 – I d ebiti d elle PMI in alcuni paesi europei (valori mediani). Fonte: “La ricapitalizzazione delle imprese fa bene alle banche”, Balda F., Romano G., lavoce.info, 27/07/2012 I dati suindicati vengono anche confermati dalla ricerca della società NPV Capital Partners, che analizzando i bilanci di più di 56mila imprese, ha evidenziato un forte squilibrio tra il debito e il patrimonio delle aziende italiane: fissando il punto di equilibrio a due, la media italiana si attesta sopra il quattro. In Italia infatti il finanziamento alle imprese è per il 90% a carico delle banche e soltanto il 10% viene raccolto sul mercato. Un sistema quindi distante da 89 “La ricapitalizzazione delle imprese fa bene alle banche”, Balda F., Romano G., lavoce.info, 27/07/2012 120 quello americano in cui il rapporto è inverso e il sistema bancario fornisce il 40% dei finanziamenti alle imprese, mentre il resto è finanziato dal mercato. La conseguenza più immediata e logica di un sistema strutturato in questo modo è che quando le banche si trovano in difficoltà come in questo prolungato periodo di crisi, impegnate come sono a sostenere il debito pubblico, le imprese sono i primi soggetti a venire danneggiati. Infatti con l'aumento del rischio paese, sono peggiorate le condizioni di raccolta delle banche italiane sui mercati all'ingrosso e sono aumentati i tassi sui prestiti alle imprese. A questa situazione si è aggiunto il netto calo degli investimenti in capitale di rischio da parte di soggetti stranieri: uno dei cambiamenti più importanti avvenuti in ambito private equity, e che è diventato la prassi negli ultimi 5 anni. Il risultato di questi fenomeni è stato l’orientamento verso imprese con fatturato inferiore ai €30 milioni (nel 2012 erano il 72% del totale, nel 2008 il 56% e nel 2008 il 45% Questa tendenza ha impattato anche sull’attività di buyout, essendo questa, come già più volte sottolineato, legata all’acquisto totale o quasi delle società target che si trovano nella fase di maturità del ciclo di vita. Tuttavia, almeno in Italia, l’iniziale diminuzione del numero di operazioni in seguito alla crisi, si è stabilizzata nei successivi periodi e la composizione delle aziende target nel segmento buyout non sembra eccessivamente cambiata. Il 2012 però non ha confermato tale trend e se si confrontassero i dati del 2007 e del 2012 , si noterebbe che solo il settore medium (€ 15-‐€ 149,9 milioni) è rimasto invariato mentre le operazioni relative al settore small e large hanno subito variazioni negative. Figura 76 – Distribuzione percentuale del numero di investimenti di buyout per classe dimensionale (2007 – 2012). Fonte: nostra elaborazione sui dai AIFI (Analisi Mercato Italiano) 121 È avvenuto quindi un trasferimento sul segmento expansion ed early stage, causando lo spostamento del focus su società con fatturato minore, tipiche dell’economia italiana. La conferma della tendenza verso operazioni di dimensioni più piccole arriva anche dalla ricerca dell’Osservatorio Private Equity Monitor dell’Università Cattaneo di Castellanza, supportato da Argos Soditic Italia, Ernst&Young, Fondo Italiano di Investimento Sgr, Lek Consulting e studio legale SJ Berwin. L’incidenza infatti delle società con fatturato al di sotto dei €30 milioni sul totale delle operazioni è cresciuta del 10% passando dal 36% del 2011 al 46% del 2012. La conseguenza è stata la variazione anche delle valutazioni medie delle società oggetto di acquisizione, che sono scese dai €53,5 milioni del 2011 a €46,5 milioni nel 2012, nonostante l’aumento dei multipli sull’Ebitda: da 6,3 a 6,8. I multipli pagati mediamente rispetto al fatturato (EV/Sales) hanno registrato un trend stabile intorno ad 1,0x nel periodo 2001 -‐ 2012. Meno stabili invece il multiplo EV/Ebitda, che ha visto un aumento costante dal 2001, subendo un rallentamento solamente nel 2009. La tendenza quindi registrata nel 2010-‐2012 è stata quindi quella verso operazioni di dimensioni più piccole e soprattutto nei segmenti early-‐stage ed expansion. Con riferimento al primo si è registrato un aumento delle operazioni non controbilanciato da un aumento dell’investimento medio, che da €2,7 milioni nel 2010 è passato ad appena €0,8 nel 2012. Questi dati mostrano quindi una positiva proliferazione e nascita di micro-‐start-‐up che però faticano a svilupparsi, soprattutto se confrontati con gli altri paesi europei: in Germania il mercato del venture capital investe 7 volte le risorse italiane e in Francia 5 volte90. In pratica bisognerebbe superare il cosiddetto “equity gap”, ovvero la mancanza di risorse per passare dalla fase di idea o progetto a quella di sviluppo. A tal proposito, sarà interessante nei prossimi mesi l’attuazione della disciplina sulle start-‐up innovative e gli incubatori certificati, contenuta nel decreto legge “Sviluppo-‐bis” (d.l. 179/2012; legge di conversione 221/2012). L’obiettivo 90 “Se le startup restano nane”, Tremolada L., Il Sole 24 Ore 122 infatti che si pone la normativa è evitare lo squilibrio tra scarsa capitalizzazione ed eccessivo ricorso al credito bancario (quando possibile). Una prima norma riguarderebbe la possibilità di remunerare amministratori, dipendenti e collaboratori con l’assegnazione di azioni, quote, strumenti finanziari emessi dalle stesse società, senza che il reddito da lavoro derivante dalla loro attribuzione concorra alla formazione del reddito imponibile ai fini fiscali e contributivi dei soggetti che li accettano. In questo modo si consentirebbe il pagamento di lavoratori e apportatori di opere e servizi con strumenti finanziari e quindi si riducendo i flussi di cassa necessari e il ricorso al credito bancario. Il secondo aspetto riguarda gli sconti fiscali per gli investitori: negli anni 2013-‐ 2014-‐2015 i soggetti Irpef potranno fruire di una detrazione dall’imposta lorda nella misura del 19% per un investimento d’importo massimo di €500.000 nel capitale sociale delle start-‐up innovative o in organismi di investimento collettivo del risparmio che investono prevalentemente in esse; mentre per le persone giuridiche ci sarà la possibilità di dedurre dal loro reddito imponibile Ires il 20% della somma investita che non può superare €1,8 milioni per ognuno dei tre anni; e la detrazione d’imposta è subordinata al mantenimento dell’investimento per almeno due anni. Alla luce dell’ammontare investito nel segmento early stage questa norma potrebbe portare una notevole espansione degli investimenti. Infine il decreto prevede una novità importante, ovvero la raccolta di capitale sociale attraverso portali on line la cui gestione è riservata a società di investimento, banche abilitate alle attività di investimento e soggetti iscritti in un apposito albo istituito presso la Consob. Questa tipologia di fundraising viene definita crowdfunding, e si sta sviluppando molto velocemente, soprattutto negli Stati Uniti, mentre in Italia è ancora agli inizi: ne sono state censite 16 di cui solo 2 equity-‐based. In attesa dell’attuazione di queste importanti normative, si può dunque concludere che la crisi finanziaria del 2008 in Italia ha cambiato il settore del private equity e nonostante il concetto di crisi sia sempre associato con fattori di negatività, nel campo del capitale di rischio ciò non si è rilevato corretto. La riprova naturalmente non si avrà mai, ma sicuramente il focus l’utilizzo di capitale di rischio piuttosto che debito non si sarebbe verificato, snaturando il concetto stesso di private equity. Infatti, se le operazioni di buyout sono 123 comunque un segmento dell’attività di private equity, l’utilizzo di quote consistenti di debito al fine di creare rendimenti consistenti per gli investitori ma senza apportare benefici alla società target, è un’operazione di arbitraggio piuttosto che di vero e proprio private equity il cui obiettivo primario è quello di supportare in diverse forme la società target a diventare possibilmente le migliori nel proprio settore. Molto probabilmente l’assenza della crisi, non avrebbe causato la caduta della redditività e dei flussi di cassa delle aziende, rendendo la struttura sproporzionata e portando le società al dissesto (probabilmente avrebbe spostato in futuro l’evento). Nel corso dell’elaborato si è evidenziato che molte società comprate dalle società di private equity a prezzi evidentemente non di mercato, e appesantite dai debiti hanno dovuto rinegoziare le loro posizioni debitorie (in particolare incidenza dei debiti €30 miliardi su 47 aziende nel 2010). I famosi casi di Ferretti, Argenta, N&W, Fiorucci probabilmente si sarebbero evitati. Tuttavia, le operazioni di dimensioni minori sarebbero state trascurate e rimaste in disparte, apportando un danno ingente all’economia italiana che si basa proprio su imprese di piccole e medie dimensioni: l’Italia è al primo posto nell’UE per numero di PMI, 3.813.805 società su un totale di 3.817.05891. Invece, proprio le dimensioni della crisi hanno portato il focus degli operatori su operazioni di dimensioni minore, data l’impossibilità delle aziende di servire debiti onerosi, come dimostrato anche dai dati del Pem che mostrano come l’operazione più frequente sia quella dell’expansion, quando invece nel passato era il buyout. Questo cambiamento, collegato anche ad un volume di investimenti importante e abbastanza stabile dal 2010, deve essere visto in modo positivo sotto due punti di vista. Come primo aspetto, il capitale di rischio ha avuto il ruolo importante di supporto alle imprese in assenza di capitale di provenienza bancaria; secondariamente la mancanza di debito a buon mercato ha permesso alle società di private equity di focalizzarsi sulla crescita delle società target piuttosto che sulla semplice e degenerante speculazione finanziaria. Evidenziato quindi come la crisi abbia migliorato il settore del private equity in Italia, si è ritenuto utile guardare al mercato europeo ed americano, data la sua 91 European Commission, Scheda informativa SBA 2012 – Italia, 21 Marzo 2013 124 importanza e sviluppo a livello globale, come proxy per i futuri sviluppi del settore. Guardano gli ultimi dati disponibili si nota una situazione paragonabile al periodo pre-‐crisi, e quindi non auspicabile. Infatti nei primi 3 mesi del 2013, il tasso di interesse dei prestiti ha raggiunto il valore più basso dall’inizio della crisi, diminuendo in un anno del 7%. Di conseguenza, le operazioni con un maggior uso del leverage sono tornate in auge negli Stati Uniti ed un esempio sono quelle che hanno visto come società target Dell, Virgin Media e Heinz. Il motivo principale è che il costo del debito è basso, la richiesta è elevata, ma la domanda è bassa. Come si vede chiaramente dal grafico le società di private equity stanno usando almeno tanto debito per il finanziamento dei propri deal quanto ne necessitavano prima della crisi finanziaria. Naturalmente meno capitale proprio investe il private equity, più elevato sarà il rendimento al momento dell’exit. Ma più aumenta il prestito, più aumenta la spesa per il rimborso dello stesso, portando al dissesto finanziario in mancanza di flussi di cassa positivi. Dai dati in figura si evidenzia che dall’inizio del 2008, le società di PE hanno immesso in media una percentuale di equity pari al 42% nelle operazioni, mentre nel secondo semestre del 2012 la percentuale è scesa al 33%, quindi molto vicina al record del 2006 (31%) e del 2007 (30%). Ancora il rapporto debito/EBITDA delle società acquisite in operazioni di LBO negli ultimi 6 mesi del 2012 è salito a 5,5, quindi superiore a 5,4 del 2006 e appena inferiore al record del 2007 (6,2). Questo proprio grazie alla diminuzione dei tassi di interesse dall’8,84% nel 2007 a 6,67% nel 2012. 125 Inoltre associato a questo ritorno delle operazioni ad alta leva negli Stati Uniti, si deve evidenziare che in Europa, nei prossimi 5 anni, dovranno essere rimborsati quasi $550 miliardi di prestiti contratti per operazioni di LBO da società europee nel biennio 2006-‐2007. L’ammontare di debito indicato è enorme di per sé, ma la situazione di fragilità dell’economia europea e l’irrigidimento dei requisiti di capitale per le banche (Basilea 3) potrebbero rendere la situazione ancora peggiore. Fonte: “Clock Ticks on Buyout Debt”, Cimilluca D., WSJ, March 6 2012 L’aumento infatti dei tassi di interesse danneggerebbe decisamente sia le banche che le società di private equity, i cui rendimenti sono stati abbassati a causa della mancanza di mercati secondari stabili e di IPO. Questo aspetto di rimborso del debito, il cosiddetto “wall of debt” che le società di private equity stanno attraversando ricorda il periodo del 2004, quando iniziò la seconda “golden age” dei buyout. Il credito a buon mercato aiutò a sostenere una storica ondata di attività di LBO su entrambe le sponde dell’Atlantico, poiché le società di PE compravano società utilizzando un mix di capitale proprio e prevalentemente debito. Il boom durò quasi 5 anni, fino alla crisi finanziaria del 2008. E in Europa questo grande flusso di debito derivò principalmente dal settore bancario. Tuttavia alcuni fattori stanno cospirando contro la volontà delle banche di sborsare più fondi nella forma dei leveraged loans. Ad esempio , molte delle società sono pesantemente esposte nei confronti di mercati nazionali spenti; l’economia dell’euro zona si sta impoverendo. Come già visto, le nuove regolamentazioni stanno imponendo alle banche di detenere più capitali e di 126 ridurre l’indebitamento. Inoltre, l’abilità dei cosiddetti fondi CLO, tradizionalmente acquirenti del debito degli LBO, di comprare nuovo debito è limitata, poiché molti di questi fondi arriveranno a scadenza e dovranno corrispondere i rendimenti ai propri investitori.92 La situazione quindi che si delinea per il prossimo futuro è di estrema instabilità ed incertezza. L’auspicio quindi è che il settore del private equity si concentri su operazioni meno speculative e più edificanti, come è accaduto nel periodo successivo al 2009, al fine di supportare le società target, prive del sostegno bancario a causa dell’irrigidimento della regolamentazione europea sulla solvibilità degli istituti stessi. 92 “Clock Ticks on Buyout Debt”, Cimilluca D., WSJ, March 6 2012 127 BIBLIOGRAFIA • AA.VV., The Implications of Alternative Investment Vehicles for Corporate Governance, Centre for Management Buy-‐out Research, 2007, pagg. 39-‐40 • AIFI, Il Mercato Italiano del Private Equity e del Venture Capital, Milano, 31 Marzo 2008 • AIFI, Il mercato italiano del Private Equity e Venture Capital, 2003 • AIFI, Il mercato italiano del Private Equity e Venture Capital, 2004 • AIFI, Il mercato italiano del Private Equity e Venture Capital, 2005 • AIFI, Il mercato italiano del Private Equity e Venture Capital, 2006 • AIFI, Il mercato italiano del Private Equity e Venture Capital, 2007 • AIFI, Il mercato italiano del Private Equity e Venture Capital, 2008 • AIFI, Il mercato italiano del Private Equity e Venture Capital, 2009 • AIFI, Il mercato italiano del Private Equity e Venture Capital, 2010 • AIFI, Il mercato italiano del Private Equity e Venture Capital, 2011 • AIFI, Il mercato italiano del Private Equity e Venture Capital, 2012 • AIFI – KPMG Corporate Finance, 2007: consolidating growth!, Aprile 2008 • AIFI -‐ KPMG Corporate Finance, 2008: a bumpy ride, Giugno 2009 • AIFI -‐ KPMG Corporate Finance, 2009: into the storm…, Maggio 2010 • AIFI -‐ KPMG Corporate Finance, 2010: a long dawn…, Maggio 2011 • AIFI -‐ KPMG Corporate Finance, 2011: back to returns!, Maggio 2012 • Arnone M., Bellavite Pellegrini C., Graziadei F., Il venture capital per lo sviluppo – Un’analisi delle economie emergenti, Vita e Pensiero, Milano, 2006 • Athanese P., Collete C., “LBOs in Theory and Practice, Learning Outcomes of a Crisis”, Journal of Modern Accounting and Auditing, Vol. 7, No. 9, 2011, pp. 912-‐913 • Axelson U., Jenkinson T., Weisbach M. 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