Doveri e responsabilità degli amministratori di società in crisi
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Doveri e responsabilità degli amministratori di società in crisi
Opinioni Diritto societario Amministratori Doveri e responsabilità degli amministratori di società di capitali in crisi di Renato Rordorf Nel quadro della disciplina generale dettata dal codice in tema di responsabilità degli amministratori di società di capitali, e ponendo specialmente l’accento sull’obbligo di curare l’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili della società, lo scritto analizza in particolare la responsabilità in cui possono incorrere gli amministratori quando la società versi in stato di crisi, sotto tre diverse prospettive: la responsabilità per aver cagionato o aggravato la crisi, la responsabilità per non averne tempestivamente colto i sintomi e non avervi prontamente reagito, la responsabilità per avere malamente adoperato gli strumenti giuridici che oggi l’ordinamento pone a disposizione dell’imprenditore per fronteggiare la crisi nel modo migliore e per limitarne gli effetti dannosi. Nella prima di tali prospettive viene soprattutto evidenziata la distinzione tra violazione di regole di buona amministrazione e violazione del dovere giuridico di diligenza; nella seconda ci si sofferma anche sugli effetti delle disposizioni, recentemente introdotte nella legge fallimentare, in forza delle quali la presentazione di domande di concordato preventivo o di omologazione di accordi di ristrutturazione del debito sospendono le prescrizioni del codice civile in tema di ricapitalizzazione o liquidazione della società che abbia preso il proprio capitale; nella terza si considerano le conseguenze che la maggiore possibilità di dar vita a tentativi di soluzioni negoziate della crisi potrebbero provocare in termini di responsabilità degli amministratori sociali (*). Una duplice premessa Un discorso ordinato sui doveri e sulla conseguenti possibili responsabilità degli amministratori di una società di capitali in crisi - cui naturalmente si correlano anche i doveri e le responsabilità degli organi di controllo - dovrebbe partire dall’esame delle regole generali che disciplinano i compiti dei medesimi amministratori. Quasi sempre la crisi dell’impresa non è altro che il fattore da cui quelle responsabilità sono messe meglio in luce, ma per il resto non fa che dare ad esse una particolare curvatura ed aggiungervi qualche elemento di specificità. Impostare il tema in termini generali richiederebbe, però, un tempo ben maggiore di quello del quale io qui dispongo. Molto quindi dovrà quindi esser dato per scontato, e mi limiterò solo a quei profili di responsabilità destinati a venire maggiormente in evidenza quando la società si avvii verso uno stato di crisi o già ci si trovi. In quest’ottica mi sembra che possa risultare utile distinguere tre possibili scenari di eventuale responsabilità degli amministratori: Le Società 6/2013 a) per aver cagionato o aggravato la crisi dell’impresa; b) per non aver percepito tempestivamente i sintomi della crisi o non avervi prontamente reagito; c) per aver malamente adoperato gli strumenti necessari o utili a fronteggiare la crisi o a limitarne gli effetti. Un approccio al tema che volesse essere completo e sistematico richiederebbe anche, però, che si distinguesse la situazione degli amministratori della società per azioni da quella degli amministratori della società a responsabilità limitata, essendo ben noto che il legislatore della riforma ha inteso evitare che quest’ultima società costituisca poco più che una riproduzione in piccolo dell’altra. Ai fini del discorso che mi accingo a svolgere, tuttavia, insisteNota: (*) Relazione tenuta in occasione della giornata di studio sul tema ‘‘La crisi d’impresa nell’attuale contesto socio-economico: strategie e strumenti di risanamento’’, svoltasi in Lecce, il 23 novembre 2012, per iniziativa del Dipartimento di Scienza dell’Economia dell’Università del Salento. 669 Opinioni Diritto societario re su questa distinzione avrebbe un sapore inutilmente scolastico: perché, se pure è innegabile che il D.Lgs. n. 6/2003 ha differenziato le regole di amministrazione nei due tipi di società, restano nondimeno fermi alcuni principi comuni che, specialmente in relazione alla crisi d’impresa, consentono senz’altro di svolgere un discorso sostanzialmente unitario. Responsabilità per aver causato (o concorso a causare) la crisi Le ragioni da cui può derivare la crisi di un’impresa sono, evidentemente, le più varie. Non necessariamente esse dipendono da comportamenti ascrivibili a chi dell’impresa ha la gestione; ma talvolta sı̀, o almeno può accadere che i comportamenti del gestore e le sue scelte imprenditoriali concorrano a cagionare o ad aggravare la crisi. Quelle scelte imprenditoriali restano, nondimeno, insindacabili ad opera del giudice, ancorché possano aver avuto effetti negativi sull’andamento economico dell’impresa, giacché occorre tenere sempre ben distinte la business judgment rule e la rule of law. Solo la violazione di quest’ultima - cioè di doveri derivanti da vere e proprie regole di diritto - è idonea a generare responsabilità giuridica, mentre le ragioni di opportunità imprenditoriale e la valutazione del buono o cattivo esito dell’attività d’impresa restano estranee a questo ambito, potendo semmai assumere rilievo soltanto nella dinamica del rapporto di fiducia che deve esistere, ove titolarità e gestione del capitale impiegato facciano capo a soggetti distinti, tra i soci e chi amministra la società (1). Ma tra i doveri giuridici che gravano sull’amministratore v’è quello, di primaria importanza, di curare che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società sia adeguato alla natura ed alla dimensione dell’impresa. A questo dovere allude espressamente l’art. 2381 c.c., che specificamente lo imputa agli ‘‘organi delegati’’ (comma 5), cioè agli amministratori delegati o al comitato esecutivo, ma prescrive altresı̀ che l’intero consiglio di amministrazione debba valutarne l’adempimento, sulla base delle informazioni fornitegli (comma 3). Ai sindaci tocca poi vigilare sull’adeguatezza di quegli assetti e della loro concreta attuazione (art. 2403, comma 1, richiamato per il consiglio di sorveglianza dall’art. 2409 terdecies, comma 1, lett. c). Benché dettato con riferimento alla sola società per azioni e benché apparentemente volto soltanto a disciplinare il funzionamento degli organi ammini- 670 strativi collegiali, pare difficile dubitare che il dovere di curare che la società sia dotata di un assetto organizzativo adeguato gravi sempre e comunque su coloro che sono chiamati ad amministrarla. Si tratta, cioè, di una norma che esprime un principio generale dell’amministrazione societaria (2): principio destinato ad operare anche qualora la società non si sia dotata di un organo di amministrazione consiliare o non abbia, comunque, istituito la figura dell’amministratore delegato o il comitato esecutivo. Allo stesso modo, pur nel diverso inquadramento che si ritenga di dover dare ai doveri di diligenza gravanti sull’amministratore di una società a responsabilità limitata, pare indubbio che vi sia compreso anche il compito di organizzare adeguatamente l’impresa affidata alla sua gestione, trattandosi di una funzione intrinseca al fatto stesso dell’amministrare una struttura destinata alla produzione di beni o servizi. L’adeguatezza degli assetti societari, d’altronde, è nozione essenzialmente relativa, dovendo esser commisurata «alla natura e alle dimensioni dell’impresa» (come si esprime il citato quinto comma dell’art. 2381), di modo che essa risulta perfettamente modulabile in rapporto alle diverse esigenze di un’impresa media o piccola, quale è per lo più quella gestita in forma di società a responsabilità limitata, e nulla pertanto consente di ritenerla estranea o incompatibile neppure con la più generica nozione di diligenza richiesta per l’amministrazione di quest’ultimo tipo di società, in qualsiasi forma la si attui (3). Ma allora, se è vero che, come si è già ricordato, le Note: (1) In tal senso, da ultimo, Cass. 12 febbraio 2013, n. 3409; ed ancor prima Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, in Giust. civ., 1997, I, 2780, in questa Rivista, 1997, 1389, in Foro it., 1998, I, 3247, in Giur. it., 1998, 287 ed in Riv. dir. comm., 1998, II, 13. In dottrina la letteratura sul punto è assai ampia, ed è spesso volta a sottolineare i margini d’incertezza e di discrezionalità applicativa nella ricerca del sottile confine tra insindacabilità delle scelte economiche e difetto di diligenza imputabile all’amministratore a titolo di responsabilità giuridica. Si veda da ultimo, per tutti, P. Piscitello, La responsabilità degli amministratori di società di capitali tra discrezionalità del giudice e business judgement rule, in Riv. soc., 2012, 1167 ss. (2) È persuasivo il rilievo di P. Abbadessa, Profili topici della nuova disciplina della delega amministrativa, in (Abadessa - portale) diretto da, Il nuovo diritto delle società, Milano, 2007, v. 2, 493, secondo cui, già prima della riforma societaria del 2003, «non poteva certo dubitarsi che nell’obbligo di amministrazione diligente rientrasse anche quello di curare che la società fosse provvista di un assetto organizzativo adeguato». (3) In argomento si vedano per tutti R. Mangano, La responsabilità degli amministratori di srl - Dalla diligenza del mandatario alla ragionevolezza delle scelte gestionali, 11; e G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, in Commentario Schlesinger, Milano, 2010, II, 1047 ss. Le Società 6/2013 Opinioni Diritto societario scelte imprenditoriali dell’amministratore sono insindacabili, pur se abbiano provocato o concorso ad aggravare la crisi dell’impresa, lo stesso non può dirsi ogni qual volta tali negative conseguenze siano riconducibili, in tutto o in parte, ad un difetto di organizzazione dell’impresa medesima. Non è la scelta di compiere una determinata operazione imprenditoriale, risultata poi dannosa, a venire in rilievo in questo caso, bensı̀ il fatto che, rispetto a quella scelta, la società non sia stata attrezzata adeguatamente sotto l’aspetto organizzativo. L’amministratore è perfettamente libero nell’individuare le finalità dell’agire imprenditoriale (purché, ovviamente, resti entro i confini del lecito), ma è tenuto - in termini di dovere giuridico - a curare che gli strumenti di cui la società dispone per realizzare quelle finalità siano adeguati allo scopo: sotto il profilo sia dell’organizzazione interna dell’impresa sia, in modo più specifico, dell’idoneità ad assicurare la corretta e veritiera rappresentazione contabile delle operazioni compiute, quale condizione per valutarne costantemente gli effetti e per poterne dare conto. Non diversamente, del resto, nei gruppi d’imprese si atteggia il dovere di attenersi ai «principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale», che l’art. 2497, comma 1, c.c. pone a carico dell’ente capogruppo (e, di riflesso, a carico dei suoi amministratori) nei rapporti con le altre società del medesimo gruppo (4). Doveri tutti che, naturalmente, comportano l’applicazione di criteri e di regole elaborati essenzialmente dai cultori della scienza aziendalistica, ma che assumono - giova ripeterlo - una sicura valenza giuridica: onde la loro eventuale violazione ben può esser fonte di responsabilità per l’amministratore, se ne sia derivato danno per la società, per i soci, per i creditori o per i terzi. Ed è appunto su questo piano che credo si possa con maggior frequenza configurare un addebito di responsabilità a carico degli amministratori per avere cagionato o concorso a cagionare (o ad aggravare) la crisi della società, fermo ovviamente restando il non sempre agevole onere per l’attore di dimostrare i danni che, in simili situazioni, siano imputabili alla violazione del dovere di adeguatezza di cui s’è detto. fattori in nessun modo imputabili a mala gestio degli amministratori. Il dovere di diligenza cui costoro sono tenuti impone loro, nondimeno, di saperne percepire tempestivamente i sintomi e di reagire in modo adeguato. Anche sotto questo profilo, perciò, può configurarsi una responsabilità dell’amministratore che, o per inadeguatezza dell’assetto contabile ed organizzativo dell’impresa o per la mancata adozione di provvedimenti prescritti dalla legge in presenza di determinati presupposti, abbia tenuto un comportamento non coerente con il manifestarsi dei sintomi di crisi ed abbia cosı̀ concorso ad aggravare il danno. Gli amministratori debbono predisporre strumenti organizzativi che consentano loro di venire tempestivamente a conoscenza dell’avvicinarsi dello stato di crisi o di una situazione di squilibrio finanziario idoneo a sfociare nell’insolvenza. Essi debbono, cioè, porsi in condizione di esprimere un giudizio sulla continuità aziendale, ed essere in grado di constatare se eventualmente sia divenuto impossibile conseguire l’oggetto sociale, a causa della situazione economico-finanziaria dell’impresa, cosı̀ da accertare tempestivamente il verificarsi della causa di scioglimento consistente nella perdita del capitale sociale. Basta porre mente alle prescrizioni degli artt. 2446 e 2447 del codice (cui corrispondono, per la società a responsabilità limitata, gli artt. 2482 bis e ter) per comprendere come anche qui siano in gioco non solo generiche regole di buona amministrazione ma veri e propri doveri giuridici, la cui violazione, se dannosa, è perciò idonea a generare responsabilità. L’obbligo di convocare ‘‘senza indugio’’ l’assemblea per gli opportuni provvedimenti e di sottoporle un’apposita situazione patrimoniale, non appena si sia verificata la perdita di oltre un terzo del capitale sociale, evidentemente presuppone che l’amministratore sia in grado di rilevare nel più breve tempo possibile il verificarsi di un simile evento e che, dunque, egli abbia avuto cura di predisporre un’organizzazione amministrativa e contabile adeguata a questo scopo. Dirò tra breve del recente intervento del legislatore che, in presenza di una domanda di Responsabilità per tardiva percezione della crisi o inadeguata reazione (4) Sulla connessione esistente tra l’adeguatezza degli assetti organizzativi dell’impresa ed i principi di corretta gestione imprenditoriale cui deve attenersi l’ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento di un gruppo di società, si veda F. Galgano, Direzione e coordinamento di società, in Commentario Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 2005, 102 ss.; sul più specifico tema della crisi dei gruppi d’imprese, U. Tombari, Crisi di impresa e doveri di «corretta gestione societaria e imprenditoriale» della società capogruppo, in Riv. dir. comm., 2011, I, 631 ss. La crisi dell’impresa, soprattutto in un’epoca in cui l’interconnessione dei fenomeni economici su scala mondiale produce incontrollabili effetti di propagazione da un mercato all’altro, ben può dipendere da Le Società 6/2013 Nota: 671 Opinioni Diritto societario concordato preventivo o di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, ha stabilito una temporanea sospensione dell’operatività degli articoli del codice civile da ultimo menzionati, ma va qui subito sottolineato come tale sospensione non operi anche per il primo comma dell’art. 2446 e per i primi tre commi dell’art. 2482 bis. Il dovere degli amministratori di porsi in condizione di percepire tempestivamente l’avvenuta perdita del capitale, per poterne informare senza indugio i soci, resta quindi in tutti i casi invariato; e, benché le citate diposizioni del codice espressamente contemplino soltanto l’ipotesi di uno sbilancio patrimoniale della società, è agevole intendere come analoghi doveri di diligente monitoraggio e di tempestiva informazione gravino sull’amministratore anche con riferimento ad eventuali situazioni di squilibrio economico e finanziario, se tali da mettere in pericolo la capacità dell’impresa di continuare a stare sul mercato operando in condizioni di normalità. (Segue): la responsabilità conseguente alla perdita del capitale sociale Rimanendo però sul terreno dello sbilancio patrimoniale, è appena il caso di ricordare che il venir meno del divieto di nuove operazioni dopo lo scioglimento della società, contemplato dal previgente art. 2449, comma 1, c.c. (e drammatizzato dall’operare di diritto delle cause di scioglimento prima della riforma societaria del 2003), è oggi rimpiazzato da due obblighi degli amministratori, tra loro concatenati: quello di accertare senza indugio il verificarsi della causa di scioglimento e provvedere ai conseguenti adempimenti pubblicitari, sotto pena di responsabilità verso la società, i creditori, i soci ed i terzi (art. 2485); e quello, al verificarsi di una causa di scioglimento, di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, con analoga previsione di responsabilità (art. 2486). Da tali disposizioni, lette anche unitamente a quelle dettate dalla legge fallimentare in tema di bancarotta semplice (sulle quali brevemente poi tornerò), sembra potersi ricavare la regola generale dell’illegittimità del proseguimento dell’attività d’impresa se non per finalità meramente conservative - in presenza di una situazione di crisi ormai irreversibile. Non so se possa addirittura affermarsi che, in siffatta situazione, l’interesse dei creditori, da vincolo all’autonomia della gestione, diventi scopo della stessa. Certamente, però, il verificarsi di una causa di scioglimento (se non rimossa secondo le modali- 672 tà consentite dalla legge) incide sull’oggetto sociale, imprimendo ad esso una curvatura liquidatoria che non manca di riflettersi sui poteri e sui doveri degli amministratori. Come già sopra accennato, però, l’art. 182 sexies l.fall. (recentemente introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) stabilisce che gli effetti del verificarsi della causa di scioglimento della società per perdita del capitale, ove sia stata depositata una domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, sono sospesi a partire dalla data di deposito della domanda e fino alla relativa omologazione. Se una siffatta domanda non sia presentata, continua dunque ad applicarsi il regime ordinario, in base al quale la perdita di oltre un terzo del capitale sociale e la conseguente discesa di questo al di sotto del limite legale comporta, oltre ai doveri d’immediata convocazione dell’assemblea e di redazione della situazione patrimoniale da parte degli amministratori di cui già s’è detto, anche la drastica alternativa, per la società, tra il ricapitalizzarsi o il porsi in liquidazione (salvo i casi, non frequentissimi, in cui si possa optare per la trasformazione in società di tipo diverso senza necessità di operare sul capitale). Ma a questa alternativa la società può ora però sottrarsi, almeno temporaneamente, imboccando la strada del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. La nuova previsione, evidentemente ispirata all’intento di favorire il ricorso a soluzioni negoziali della crisi ritenute meglio in grado di preservare il residuo valore dell’impresa, presenta diversi profili problematici, che tuttavia non è questo il luogo per indagare. Qui interessa soltanto porne in luce i riflessi sui doveri degli amministratori e sulle loro eventuali responsabilità; e poiché s’è visto che il verificarsi di una causa di scioglimento della società - ivi compresa la perdita del capitale nella misura indicata dai citati artt. 2446, 2447, 2482 bis e ter - fa sorgere in capo agli amministratori l’obbligo di adempiere le relative prescrizioni pubblicitarie e di astenersi dal compiere atti non meramente conservativi, è sulla sospensione di questi obblighi che giova fermare brevemente l’attenzione. Si badi, però, che, per il periodo anteriore al deposito della domanda di ammissione del concordato o di omologazione dell’accordo, l’applicazione dell’art. 2486 (quindi il dovere di astenersi dal compiere atti non meramente conservativi) è espressamente fatta salva dal secondo comma del citato art. 182 sexies; ed è pertanto ben chiaro che la presen- Le Società 6/2013 Opinioni Diritto societario tazione della domanda di concordato o di ristrutturazione dei debiti non può in alcun caso sanare le responsabilità già eventualmente maturate (5). Ne risulta altresı̀ confermata, per il periodo precedente alla presentazione di una delle suindicate domande, la necessità che l’amministratore, avendo tempestivamente percepito la perdita del capitale, provveda senza indugio agli adempimenti di cui al citato art. 2446, comma 1, e si astenga dal compiere operazioni incompatibili. È la presentazione della domanda, come s’è detto, che segna la cessazione dei limiti operativi derivanti dall’applicazione del citato art. 2486, dovendosi da quel momento in poi l’amministratore non più preoccuparsi degli anzidetti limiti, bensı̀ attenersi a quanto previsto dal (o comunque compatibile col) piano di concordato o con i termini dell’accordo di ristrutturazione, oltre che rispettare il regime autorizzatorio del procedimento concordatario. Ma la domanda potrebbe non essere immediatamente corredata dal piano di concordato, stante l’attuale formulazione dell’art. 161, comma 6, l.fall., e ci si è chiesti se sia logico ammettere che, nel periodo occorrente per il perfezionamento del piano, il citato art. 2486 resti tuttavia inoperante. Occorre però considerare che in tale periodo il debitore non può compiere atti di straordinaria amministrazione senza l’autorizzazione del tribunale, e non pare irragionevole ipotizzare che gli atti per i quali tale autorizzazione necessita coincidano di fatto con quelli non meramente conservativi che sarebbero altrimenti vietati dal menzionato disposto dell’art. 2486 (6). Escluderei che la mancata successiva omologazione del concordato o dell’accordo di ristrutturazione, al pari della loro eventuale successiva risoluzione, facciano venir meno retroattivamente gli effetti sospensivi previsti dal citato art. 182 sexies, e possano quindi comportare il rischio per gli amministratori di vedersi in seguito imputare, a titolo di responsabilità, il mancato adempimento degli obblighi pubblicitari conseguenti al verificarsi della causa di scioglimento della società oppure il compimento di attività d’impresa non meramente conservative. Ipotizzare che gli amministratori restino esposti ad un tale rischio, dipendente dall’esito finale (mai scontato) delle procedure intraprese, significherebbe vanificare l’intento legislativo di favorire il ricorso alle suindicate soluzioni negoziali della crisi (7). Non sono però altrettanto sicuro che si possa pervenire alla medesima conclusione anche nel caso in cui la proposta concordataria sia dichiarata inammissibile dal tribunale, perché una siffatta situazione equivale a certificare l’insussistenza sin dal Le Società 6/2013 principio delle condizioni indispensabili alla presentazione di quella proposta e potrebbe quindi mettersi in dubbio che la presentazione di una domanda inammissibile sia idonea a produrre gli effetti sospensivi dell’ordinario regime di scioglimento della società stabilito dal codice civile; effetti che, d’altronde, la nuova disposizione della legge fallimentare che si sta commentando vuole restino sospesi «sino all’omologazione» (ma forse meglio si sarebbe dovuto dire ‘‘sino a che il tribunale si pronunci sull’omologazione’’), per ciò stesso lasciando intendere che la sospensione presuppone non solo l’avvio ma anche lo svolgimento della procedura concordataria fino all’approdo naturale del giudizio di omologazione. I dubbi però non finiscono qui. S’è appena detto che la sospensione degli obblighi conseguenti alla perdita del capitale sociale ed allo scioglimento della società, che ne dovrebbe di regola conseguire, è destinata a durare sino a quando il giudice si sia pronunciato sull’omologazione del concordato o dell’accordo di ristrutturazione, ma non è subito chiaro cosa succede qualora il decreto col quale il tribunale abbia accolto o rigettato la domanda di omologazione venga impugnato con reclamo alla corte d’appello (con possibilità anche di eventuale successivo ricorso per cassazione). Posto che al decreto di omologazione l’art. 180 l.fall. conferisce provvisoria esecutività, sarei propenso a ritenere che, con la sua pronuncia, lo speciale regime dettato dall’art. 182 sexies giunga comunque al termine; e per evidenti ragioni logiche e sistematiche lo stesso dovrebbe dirsi anche nel caso in cui l’omologazione venga negata, ancorché la relativa decisione sia soggetta ad impugnazione. Una volta, invece, che il concordato o l’accordo di ristrutturazione siano stati omologati, l’ordinario regime codicistico sembrerebbe destinato a riprendere vigore. Se, dunque, la società versi ancora nelle Note: (5) Secondo T. Ariani, Disciplina della riduzione del capitale per perdite e concordato preventivo, in Fall., 2013, 117-118, qualora la causa di scioglimento della società sia già stata iscritta nel registro delle imprese, la presentazione di una domanda di concordato non ne fa venir meno lo stato di liquidazione, ed un tale effetto si potrebbe conseguire solo mediante un’apposita successiva delibera di revoca della liquidazione, presumibilmente da adottare nell’ambito dell’esecuzione del piano concordatario. (6) Nello stesso senso G. Strampelli, Capitale sociale e struttura finanziaria nella società in crisi, in Riv. soc., 2012, 652 ss. (7) In argomento si vedano anche T. Ariani, op. cit., 118-119; e P. Montalenti, La gestione dell’impresa di fronte alla crisi tra diritto societario e diritto concorsuale, in Riv. dir. soc., 2011, 820 ss. 673 Opinioni Diritto societario condizioni previste dai citati artt. 2446 e 2447 del codice, si riproporrà la necessità di ricapitalizzarla o di liquidarla (salva l’ipotesi di trasformazione regressiva, ove ne sussistano i presupposti). Ma è intuitivo che questa situazione non potrà non essere stata contemplata nel piano concordatario o nell’accordo di ristrutturazione, onde appare ragionevole ipotizzare che la suindicata alternativa sarà sciolta in conformità alle previsioni di quel piano o di quell’accordo. Ne consegue che anche i doveri degli amministratori (o liquidatori) risulteranno diversamente conformati a seconda che si tratti di un concordato liquidatorio oppure di un concordato con continuità implicante la prosecuzione dell’attività dell’impresa da parte del medesimo soggetto societario. La responsabilità per la gestione della società nell’ambito delle procedure concorsuali Ancora una quarantina di anni fa un autore prestigioso, come il Provinciali (8), non esitava a definire l’insolvenza come un fatto illecito - la colpa sarebbe stata in re ipsa, derivante dalla violazione dell’obbligo insito nel dettato dell’art. 2740 c.c. - e vedeva nella dichiarazione di fallimento la sanzione per la violazione di quell’obbligo. Il mutamento di prospettiva intervenuto da allora è impressionante. Basta notare che oggi la possibilità di accedere alla procedura di concordato preventivo (o di ottenere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti) non presuppone neppure più il blando requisito della ‘‘meritevolezza’’ soggettiva dell’imprenditore insolvente. Ma i rapporti economici, e quindi anche quelli tra creditore e debitore, in qualche misura sono sempre anche rapporti di potere: il diritto li regola proprio per segnare i limiti entro cui tale potere può essere legittimamente esercitato. Nella logica della legge fallimentare del 1942 (che si voglia seguire o meno la drastica impostazione del Provinciali) prevaleva, evidentemente, il potere del creditore di assoggettare al proprio soddisfacimento i beni del debitore, sino al punto da limitare per certi aspetti anche la libertà e le capacità di quest’ultimo. Adesso i rapporti sono mutati a favore del debitore, di cui è accresciuto il potere d’imporre ai creditori (o ad alcuni tra essi), a certe condizioni, un sacrificio dei propri interessi: basti pensare al nuovo regime delle prededuzioni ed all’estrema facilità di paralizzare le azioni esecutive e cautelari mediante la presentazione di domande di concordato o di omologazione di ac- 674 cordi di ristrutturazione ancora in divenire. È stato puntualmente osservato che «ammettere la possibilità di richiedere l’accesso a soluzioni concordate della crisi di impresa da parte di società versanti in condizioni di squilibrio patrimoniale esonerando i soci dall’obbligo di ricapitalizzazione e consentendo (seppur subordinatamente all’autorizzazione del tribunale e all’attestazione di un esperto) altresı̀ alla società di contrarre ulteriore indebitamento ... accentua il rischio gravante sui creditori preesistenti in caso di insuccesso del tentativo di risanamento» (9). La scelta del legislatore di favorire le prospettive di soluzione delle crisi d’impresa che dovrebbero meglio riuscire, almeno nelle intenzioni, a salvaguardare il valore residuo di cui l’impresa stessa sia portatrice, pur se con l’imposizione di rischi più elevati ai creditori, può essere ovviamente apprezzata o criticata, a seconda dei punti di vista. Ma, a prescindere da un tale giudizio, mi pare si possa convenire sul rilievo per cui, in un sistema ben equilibrato, ad ogni potere dovrebbe corrispondere un pari livello di responsabilità, e quanto più il primo si accresce tanto più dovrebbe divenire rigorosa la seconda. È per questa ragione che, quantunque il legislatore non sia direttamente intervenuto per rendere più stringente la responsabilità dell’imprenditore (o dell’amministratore della società) che eventualmente abusi della vasta gamma di strumenti oggi posti a sua disposizione per meglio fronteggiare lo stato di crisi, questo tema, se non m’inganno, è destinato in un prossimo futuro ad acquisire forte attualità, anche mediante il recupero di regole o di principi rimasti immutati nella riforma della legge fallimentare, ma che nel nuovo quadro sistematico sono suscettibili di una significativa rivalutazione. Per decenni la grande maggioranza delle azioni di responsabilità intentate dalle curatele fallimentari nei confronti di amministratori e sindaci di società fallite si sono fondate sull’addebito mosso agli organi sociali di aver violato il dovere di astenersi dal compimento di nuove operazioni dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, di regola ravvisata nella perdita del capitale sociale. Ho già accennato al diverso quadro normativo scaturito dalla riforma del diritto societario e di quello fallimentare, con la formale eliminazione del divieto di nuove operazioni (sostituito dall’obbligo di compieNote: (8) R. Provinciali, voce Insolvenza (dir. priv.) in Enc. dir., Milano 1971, XII, 782-3. (9) G. Strampelli, op. cit., 662. Le Società 6/2013 Opinioni Diritto societario re solo atti conservativi) (10) e con la già ricordata possibilità di sospendere gli effetti del verificarsi della causa di scioglimento mediante la presentazione di domande di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione dei debiti. È probabile che, di conseguenza, le azioni di responsabilità assumeranno un differente indirizzo, e che i curatori dovranno acconciarsi a scrutinare i comportamenti degli organi sociali in una prospettiva almeno in parte diversa. Il che, sia detto per inciso, potrebbe riflettersi anche sulla sempre difficoltosa tematica dell’individuazione del danno e del nesso di causalità tra il comportamento illegittimo dell’agente ed il danno medesimo (11). Penso, ad esempio, alla valutazione della possibile illiceità (non solo dal punto di vista penale, ma anche ai fini della responsabilità civile) del comportamento dell’amministratore che abbia compiuto operazioni gravemente imprudenti per ritardare il fallimento, o si sia astenuto dal chiedere il fallimento della società ormai inevitabile, se ciò abbia comportato un aggravamento del dissesto (artt. 217, nn. 3 e 4, e 224 l.fall.). È ben vero che l’introduzione del nuovo art. 217 bis, volto proprio ad evitare che il rischio d’incorrere in responsabilità penale disincentivi le soluzioni negoziali della crisi auspicate dal legislatore, ha esentato dal reato di bancarotta gli atti compiuti in esecuzione di concordati preventivi, accordi di ristrutturazione dei debiti e piani di risanamento attestati, nonché i pagamenti ed i finanziamenti che il giudice abbia autorizzato a norma del precedente art. 182 quinquies. Ma non mi pare che ciò impedisca di configurare la responsabilità civile degli amministratori per il ritardo nella dichiarazione di fallimento, in conseguenza di tentativi infruttuosi di dar vita a soluzioni alternative di risoluzione della crisi, quando ne difettavano manifestamente i presupposti e tali tentativi abbiano peggiorato le condizioni patrimoniali della società; cosı̀ come sicuramente non la esclude il ricorso abusivo al credito con dissimulazione dello stato d’insolvenza (artt. 218 e 225 l.fall.). Ma, soprattutto, potrebbe venire in evidenza la responsabilità per il cattivo esito di domande di concordato preventivo o di omologazione di accordi di ristrutturazione o di piani attestati, se sia dipeso dalla scorretta tenuta delle scritture contabili o da altri fatti derivanti da cattiva organizzazione dell’impresa; fatti che non potrebbero certo esser scriminati dall’eventuale attestazione positiva del professionista indipendente di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), l.fall. È certo più problematico, ma forse non sempre del Le Società 6/2013 tutto impossibile, rovesciando in certo senso la prospettiva, ipotizzare che l’amministratore incorra in responsabilità per aver lasciato fallire la società senza fare ricorso a soluzioni alternative, quando ve ne sarebbero state invece le condizioni e si possa dimostrare che ciò avrebbe meglio salvaguardato i valori del patrimonio sociale. Può certo venire in gioco anche a questo riguardo un profilo di valutazione imprenditoriale, come tale non sindacabile in termini strettamente giuridici, ma di nuovo non può escludersi che sia invece l’inadeguata organizzazione dell’impresa, imputabile all’amministratore a titolo di colpa per negligenza, ad aver impedito il tempestivo ricorso a procedure alternative al fallimento ed, in ipotesi, meno penalizzanti anche per i creditori. Note: (10) Mutamento, peraltro, sotto alcuni aspetti più formale che sostanziale. Solo per brevità mi permetto di rinviare, al riguardo, a quanto scritto in La responsabilità degli amministratori di spa per operazioni successive alla perdita del capitale, in questa Rivista, 2009, 277 ss. (11) Su cui vedi Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538, in Giur. it., 2005, 1637, ed, in tempi più recenti, Cass. 4 luglio 2012, n. 11155. 675