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Cristiani e buddhist..
MISSIONE OGGI MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 17 Cristiani e buddhisti Quale dialogo? Il buddhismo è un fenomeno religioso molto complesso e diversificato al suo interno, al punto che, molto più correttamente, bisognerebbe parlare di “buddhismi”. La vastità del campo d’indagine ci impone inevitabilmente dei limiti, per questo focalizzeremo la nostra attenzione sugli elementi essenziali. Il buddhismo si presenta, infatti, con un ricco e vasto corpus di scritti, composto da sūtra, insegnamenti e precetti, commentari, aforismi, epistolari che sono giunti a noi in pāli, sanscrito, cinese, tibetano, giapponese e che coprono l’arco di un millennio. Si presenta anche differenziato in “Veicoli” e in numerose “Scuole”, con notevoli differenze dottrinali. Non è dunque facile avere una visione sintetica. Per questo, dopo una breve presentazione storica delle origini, concentreremo la nostra riflessione su quello che potremmo definire “il cuore” del buddhismo, ossia quel nucleo “intangibile” dell’insegnamento del Buddha che ci interpella in modo particolare come cristiani e come missionari. Prenderemo in considerazione due questioni fondamentali nel dialogo cristiano-buddhista: quella “teologica”, una religione “senza Dio”; e quella “cosmologica”, il rifiuto dell’idea di creazione, rimandando ad altra occasione l’altrettanto rilevante questione “antropologica”, l’uomo-essere karmico. Si tratta di uno studio che mira ad un dialogo esigente con il buddhismo, nelle sue molte asimmetrie con il cristianesimo, per non cadere in preconcetti o precomprensioni da una parte o in ingenui irenismi dall’altra. di Maria De Giorgi Missione Oggi | marzo 2014 17 WIKIMEDIA.ORG WIKIMEDIA.ORG dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 18 Buddha l’asceta silenzioso dei Sakya VITA DEL BUDDHA S Maria De Giorgi, missionaria di Maria (saveriana), dal 1985 è in Giappone, impegnata nel dialogo interreligioso presso il Centro Shinmeizan. Ha conseguito il dottorato in teologia all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul rapporto tra buddhismo della “Terra pura” e cristianesimo. 18 Missione Oggi | marzo 2014 econdo le tradizioni buddhiste più antiche, Siddharta, noto come il Buddha, l’Illuminato, sarebbe nato nel 566 a.C. nella zona nordorientale dell’India, al confine con l’attuale Nepal, non lontano da Kapilavatthu, capitale della piccola repubblica dei Sakya, di cui suo padre Suddhodana era capo. Alla sua nascita, un asceta profetizzò a suo padre che Siddharta sarebbe diventato un grande re o un grande santo. Nell’intento di farne un grande re, il padre gli diede un’accurata educazione e lo allevò in ogni sorta di benessere e di piaceri. A 16 anni Siddharta si sposò ed ebbe un figlio, Rahula. A ventinove anni, rotte le barriere della prigione dorata che suo padre gli aveva costruito attorno, si avventurò fuori del palazzo e scoprì l’amara realtà della vita di tutti i giorni: incontrò malati e anziani, vide defunti portati alla cremazione e infine incontrò un monaco. Questa esperienza cambiò radicalmente la sua vita. Lasciò la famiglia, abbandonò la vita reale, e cominciò a cercare, come molti altri in quel tempo, la via della liberazione dalle esistenze e dalle morti, il cui susseguirsi senza fine imprigiona l’individuo. In quel tempo, infatti, era particolarmente diffusa la credenza della trasmigrazione delle anime e gli abitanti di questa zona vivevano nel timore di rinascere tra i dannati, gli animali, gli spiriti affamati, con la speranza vaga di giungere ad una liberazione finale oltre la morte. Dopo un periodo trascorso nel più severo ascetismo rischiando di morire di stenti, Siddharta si rese conto che quella non era la via per giungere alla liberazione. Abbandonate le forme estreme di ascesi, si concentrò sulla meditazione (anapanasati) attraverso la quale scoprì la “via me- Nei testi che ci sono giunti, la narrazione della sua vita è un misto di storia, leggenda e mito diana”, un sentiero di moderazione tra i due estremi del piacere e della mortificazione estrema. A trentacinque anni, mentre sedeva in meditazione nei pressi di Bodh Gaya, finalmente raggiunse la “retta visione” delle cose, emancipandosi dal ciclo delle nascite e rinascite. Siddharta era ormai diventato un Buddha, un Illuminato. Trascorse il resto della sua vita insegnando a tutti la “via” del risveglio che aveva scoperto. Attorno a lui, i discepoli che si riunirono formarono il sangha, l’ordine monastico. Secondo la tradizione, morì a 80 anni, nel 483, nei pressi di Kushinagari. Nei testi che ci sono giunti, la narrazione della sua vita è un misto di storia, leggenda e mito. La maggior parte degli studiosi attuali accetta che egli sia vissuto, abbia insegnato e fondato l’ordine monastico, ma sono critici sui dettagli delle biografie antiche. Il momento cruciale della vita di Siddharta Gautama, che divide la sua esistenza in un prima e un poi, è la famosa notte del Vesak durante la quale Siddharta, seduto in profonda meditazione sotto l’albero di pippala (ficus religiosa), raggiunse l’illuminazione, ossia la “retta visione” del reale. Ma cosa ha “visto”, “sperimentato” il Buddha in quella notte? Asvaghosa lo racconta nel cap. XIV della sua Buddhacarita: “Avendo egli compreso la causa della nascita e della morte, giunse gradualmente alla verità”. La verità che “vide” il Buddha in questa notte è la verità di pratītya samutpāda o della “genesi condizionata” (W. Rahula, L’insegnamento del Buddha, Paramita, Roma dossier L’insegnamento del buddha 1994, p. 65), ossia la verità che niente di ciò che esiste ha in sé la ragione o la radice della propria esistenza, che tutto è con-causato. Qui sta il nucleo dell’insegnamento del Buddha dal quale sono derivate, come corollari, la dottrina delle “Quattro nobili verità”, del karma e dell’anattā (non sé). Vediamo brevemente i singoli elementi. GENERAZIONE INTERDIPENDENTE Il termine sanscrito pratītya samutpāda (pāli, patittya samuppada), comunemente tradotto con generazione, produzione interdipendente, divenire causato o genesi condizionata, è assai difficile da rendere nelle lingue occidentali perché non trova in esse un corrispettivo adeguato. Espressa dapprima con termini quali nidāna, paccaya (condizione), hetu (causa, condizione precedente), samudaya (origine), l’idea di “un’origine reciprocamente condizionata in virtù di un funzionalismo cosmico” (R. Panikkar, Il silenzio del Buddha, Mondadori, Milano 2006, p. 108) trovò progressivamente espressio- TRAVELWITHSMILE.COM FOTOPEDIA.COM MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 19 In alto, a sinistra: Kuśīnagari (India), tempio buddhista edificato nella località dove, secondo la tradizione, morì il Buddha. Sopra: Bodh Gaya (India), grande statua del Buddha. A pag. 18 (da sinistra): Kathmandu (Nepal), monastero buddhista Shakya; Isola di Giava (Indonesia), tempio buddhista Borobudur, bassorilievo raffigurante (al centro) il principe Siddharta Gautama mentre si rade i capelli. Missione Oggi | marzo 2014 19 WIKIMEDIA.ORG dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 20 Le quattro nobili verità Le Quattro nobili verità sono: Dukkha (tutto è sofferenza, impermanenza); Samudaya (il sorgere o l’origine di dukkha); Nirodha (la cessazione di dukkha); Marga (il sentiero che conduce alla cessazione di dukkha). Il Buddha, ormai convinto, si rivolse allora ai cinque asceti che erano stati suoi compagni e, nel Parco dei Daini a Benares, per loro diede avvio alla ruota del Dharma predicando le Quattro nobili verità e insegnando la pratica dell’Ottuplice sentiero. Così facendo, il Buddha cercò di rendere accessibile e comprensibile a tutti la “difficile” dottrina di pratitya samutpada. Le Quattro nobili verità, infatti, non sono altro che la “verità fondamentale” del buddhismo, ossia la dottrina della generazione interdipendente, riformulata e predicata alla gente comune. Sappiamo che i cinque asceti ascoltarono il sermone del Buddha, lo misero in pratica, ne verificarono la veridicità, raggiunsero l’ “occhio del Dharma” (cioè il livello di conoscenza che permette di percepire il principio della generazione dipendente) e, quindi, l’illuminazione. Dukkha Dukkha viene normalmente tradotto con “sofferenza”, ma il termine è riduttivo. Scrive W. Rahula in proposito: “La parola pali dukkha (in sanscrito duhkkha) nel senso ordinario significa ‘sofferenza’, ’tormento’, ‘dolore’ o ‘miseria’, come opposto alla parola sukha, che significa ‘felicità’, Bodh Gaya (India), tempio Mahabodhi, nel luogo dell'Illuminazione del Buddha. 20 Missione Oggi | marzo 2014 ne compiuta solo nel composto pratītya samutpāda che, apparve per la prima volta nel Suttanipata (v. 653). Con tale espressione il buddhismo afferma che: a) tutti i fenomeni che vengono all’esistenza sono causati; b) tutti gli esseri sono legati tra loro da una relazione di interdipendenza per cui “quando questo esiste, quello esiste; quando viene meno questo, quello viene meno”; c) ogni relazione di causa-effetto si attua solo attraverso la mediazione di una “condizione” (pratyaya), per cui pratītya samutpāda non indica solo una semplice relazione sequenziale e unidirezionale di causa-effetto, ma una relazione di causalità reciproca e simultanea. È questa la “verità” che Siddhārta intuì in quella not- te di plenilunio del mese di Vesakh e che sta al cuore del suo messaggio. Rettamente intesa, pratītya samutpāda indica: a) la natura e la struttura del reale; b) il modo di esistere di tutto ciò che viene all’esistenza, scompare e ritorna ad essere; c) il dharma in quanto divenire del reale, che non lascia spazio ad eccedenze metafisiche. “Chi vede pratītya samutpāda vede il dharma e chi vede il dharma vede pratītya samutpāda” (Grande sūtra dell’impronta dell’elefante). Dopo aver raggiunto il supremo risveglio, per sette giorni il Buddha rimase in profonda contemplazione gustando la pace e la libertà del cuore. Quindi, sopraffatto dalla compassione per tutti gli esseri immersi nell’eterno mare della na- WIKIMEDIA.ORG dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 21 ‘piacere’ o ‘tranquillità’. Ma il termine dukkha come prima nobile verità, che rappresenta il punto di vista del Buddha sulla vita e sul mondo, ha un significato filosofico più profondo e un senso enormemente più ampio. Esso include anche idee più profonde come quelle di ‘imperfezione’, ’vacuità’, ‘insostanzialità’. Quindi è difficile trovare un vocabolo che comprenda tutti i concetti racchiusi nel termine dukkha in quanto prima nobile verità e pertanto è meglio non tradurlo, piuttosto che fornire un’idea sbagliata traducendolo con ‘sofferenza’ o ‘dolore’” (L’insegnamento del Buddha, p. 18). Secondo la filosofia buddhista, l’io non è che una combinazione di forze o energie mentali e fisiche che cambiano continuamente e che possono essere divise in cinque aggregati: a) ruphakanda o aggregato della materia; b) vedanakkhanda o aggregato delle sensazioni (fisiche e mentali); c) sannakkhandha o aggregato delle percezioni; d) samkharakkhanda o aggregato delle formazioni mentali; vinnanakkhanda o aggregato della coscienza. Ciò che, dunque, chiamiamo “essere” o “io” non è che un nome convenzionale dato alla combinazione di questi aggregati. Essi sono tutti impermanenti e in continuo cambiamento. La nobile verità di dukkha, dunque, insegna che non c’è una sostanza immutabile, non c’è nulla dietro le cose che possa definirsi come un sé permanente (atman), un’individualità, niente che possa realmente chiamarsi “io”. I cinque aggregati uniti insieme sono lo stesso dukkha, impermanenza e cambiamento. Samudaya La seconda nobile verità riguarda l’origine di dukkha, ossia tanha, la sete, il desiderio che produce la rinascita e il ri-divenire e che si alimenta: a) della sete del piacere dei sensi; b) della sete di esistenza e di divenire; c) della sete della non-esistenza. È questa sete, questo desiderio che, manifestandosi in vari modi, dà origine a tutte le forme di sofferenza e alla continuità degli esseri. Non è tuttavia una causa prima perché tutto è relativo e interdipendente. Anche tanha, infatti, obbedisce alla legge della generazione interdipendente e a, sua volta, dipende dall’apparizione di qualcos’altro, dalla sensazione, dal contatto ecc. Nirodha La terza nobile verità è l’estinzione della sete, la cessazione del dukkha, il nirvana. Il nirvana, indicibile perché al di là di ogni possibile espressione, non è né causa né effetto. È la verità ultima al di là della logica e del ragionamento; è vedere le cose come sono realmente, senza illusione o ignoranza, sapendo che non c’è nulla di assoluto nel mondo, che tutto è relativo, condizionato e impermanente e che scita-morte, sentì sorgere in sé il desiderio di predicare a tutti ciò che aveva visto e compreso. Ben presto, però, si rese conto che la gente comune non avrebbe potuto né vedere né capire una verità così “profonda e difficile” e pensò di rimanere in silenzio. Fu allora che Brahma, avendo intuito l’intenzione del Beato, gli si avvicinò per indurlo a sostenere il primitivo proposito di proclamare a tutti gli esseri il sentiero che porta alla pace e alla liberazione dalla sofferenza e dalle passioni. LA DOTTRINA DEL NON-SÉ Per dottrina del non sé, s’intende propriamente la dottrina dell’anātman secondo cui die- non c’è una sostanza immutabile e assoluta come un sé, un’anima o atman dentro o fuori di noi. È, in altre parole, la cessazione della continuità e del divenire. Marga Marga è il “sentiero di mezzo” che dà la visione e la conoscenza, che conduce alla calma, alla visione profonda, al risveglio, al nirvana; è l’Ottuplice sentiero composto da: a) retta comprensione; b) retto pensiero; d) retta parola; e) retta azione; f) retta condotta di vita; g) retto sforzo; h) retta consapevolezza; i) retta concentrazione. L’Ottuplice sentiero condensa in sé tutto l’insegnamento che il Buddha, per oltre quarant’anni anni, propose a tutti secondo le capacità di comprensione di ognuno. La successione degli otto livelli non è cronologica perché tra essi vi è simultaneità, l’uno aiuta lo sviluppo dell’altro e tutti insieme realizzano la disciplina buddhista di sila (moralità), samadhi (disciplina mentale), prajña (saggezza). Sila presuppone: retta parola, retta azione, retta condotta di vita. Samadhi presuppone: retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione. Prajña presuppone: retto pensiero, retta comprensione. Il sentiero è dunque un modo di vivere che può essere seguito, praticato e sviluppato da chiunque. È una disciplina del corpo e della mente, un autosviluppo che porta all’autoliberazione. tro i fenomeni non esiste nulla che possa essere considerato un “io”, un ‘ātman, un “sé” o una qualche sostanza immutabile. Essa è la naturale conseguenza di pratītya samutpāda, per la quale ogni cosa è condizionata, relativa e interdipendente. Nonostante alcuni autori sostengano che il Buddha non avrebbe insegnato questa dottrina, frutto piuttosto di elaborazioni posteriori e di interpolazioni di testi a lui attribuiti, non si può negare che “la concezione dell’anātman è un punto centrale del buddhismo come religione viva” e che “la tradizione viva del Buddhismo è quella di una concezione anātmica” (R. Panikkar, Il silenzio del Buddha, p. 76), ovvero della dottrina del non- sé. Missione Oggi | marzo 2014 21 NELL’AFFRONTARE IL BUDDHISMO DA UN PUNTO DI VISTA TEOLOGICO, IL PRIMO PROBLEMA CHE SI PONE È QUELLO DEL “SILENZIO” SU DIO. IL BUDDHISMO È, INFATTI, UN SISTEMA A-TEISTA CHE PRESCINDE DALLA QUESTIONE DELL’ESISTENZA DI DIO. DA QUI LA RICORRENTE DOMANDA SE SIA UNA RELIGIONE O UNA FILOSOFIA. PER UN AUTENTICO DIALOGO CON IL CRISTIANESIMO PER IL QUALE DIO È IMPRESCINDIBILE, IL TEMA È DI FONDAMENTALE IMPORTANZA. IL RIFERIMENTO A Una religione senza Dio? La questione teologica IL “SILENZIO” DEL BUDDHA G li scritti buddhisti sono concordi nel tramandarci la reticenza del Buddha a parlare di Dio e delle questioni metafisiche. Lungo i secoli, questo “silenzio” è stato, però, oggetto di diverse interpretazioni: vi è chi ha sottolineato la dimensione terapeutica o pragmatica di tale silenzio, chi la dimensione contemplativa. R. Panikkar, da parte sua, ritiene che il Buddha “non soltanto tace, ma che la sua risposta è il silenzio” e, ancora, che “il Buddha non dà alcuna risposta perché elimina la domanda” (Il silenzio del Buddha, p. 251). Isola di Miyajima (Giappone), tempio Daishoin, Buddha silenzioso. 22 Missione Oggi | marzo 2014 SILENZIO TERAPEUTICO Nei sūtra primitivi, il Buddha è spesso rappresentato come un medico che, diagnosticato il male e la sua causa, ne indica la guarigione e ne prescrive i rimedi. Ce ne dà conferma il noto episodio riportato nel sūtra Culamalunkya, in cui Malunkyaputta pone al Buddha le famose domande: “Il mondo è eterno o temporale? Il mondo è finito o infinito? Il principio vitale è il corpo? L’anima esiste dopo la morte?”. Il Buddha, rispondendo a Malunkyaputta, paragona la bramosia metafisica del discepolo alla stupidità di un uomo colpito da una freccia avvelenata che agli amici e parenti che volevano aiutarlo obiettò che non voleva farsi estrarre la freccia fino a quando non avesse saputo chi l’aveva colpito (in R. Gnoli, La rivelazione del Buddha, vol. 1, Mondadori, Milano 2001, pp. 225ss.). Con questa risposta il Buddha intende dimostrare che la situazione religiosa appartiene ad una dimensione completamente differente da FLICKR.COM TREKEARTH.COM dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 22 FLICKR.COM WIKIMEDIA.ORG dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 23 quella metafisica. Questa risposta “terapeutica”, tuttavia, non esaurisce il problema e – come riconosce il filosofo buddhista Y. Takeuchi – nel “silenzio metafisico del Buddha rimane pur sempre qualcosa di misterioso (Il cuore del buddhismo, EMI, Bologna 1989, p. 36). SILENZIO PRAGMATICO La più antica interpretazione del silenzio del Buddha si trova probabilmente nella sezione Maha-vagga del Samyutta-Nikaya del canone Pāli: “Una volta il Benedetto soggiornava presso Kosambi nella foresta di simsapa. Quindi, raccogliendo alcune foglie di simsapa nella ma- no, chiese ai monaci: ‘Che cosa pensate, monaci? Sono più numerose le poche foglie di simsapa nella mia mano o quelle nella foresta dei simsapa?’. ‘Le foglie nella mano del Benedetto sono poche in numero, signore. Quelle nella foresta sono più numerose’. ‘Allo stesso modo, monaci, quelle cose che ho conosciuto direttamente ma non ho insegnato sono molte di più [di quelle che ho insegnato]. E perché non le ho insegnate? Perché non sono connesse con la meta, non si riferiscono ai principi della vita santa, e non conducono al disincanto, al distacco, alla cessazione, alla conoscenza, al risveglio, all’Illuminazione. Ecco perché non le ho insegnate’ [...] ” (56.31). Secondo Takeuchi, questa interpretazione del “silenzio” del Buddha può essere intesa come: a) espressione della fede dei discepoli nella sua onniscienza. Tale fede li portò a concludere che, mentre il Buddha conosceva la soluzione di tutti i problemi metafisici, tenne loro nascosta tale soluzione perché non necessaria alla “nobile ricerca”; b) atteggiamento pragmatico del Buddha nei confronti del problema religioso e, per questo, indifferente ad ogni tipo di problema metafisico; c) rifiuto della trascendenza: “Da un punto di vista puramente filosofico, l’intenzionale silenzio del Buddha nei confronti di Dio, dell’anima individuale e del principio supremo corrisponde ad una risposta negativa e ad un rifiuto di tale trascendenza. Il netto contrasto tra il suo insegnamento dell’anātman e la dottrina dell’ātman propria delle Upanishad ne è una conferma” (Il cuore del buddhismo, p. 39). PER APPROFONDIRE MARIA A. DE GIORGI SALVATI PER GRAZIA ATTRAVERSO LA FEDE Emi, Bologna 1999 pp. 485; € 21,00 presso: [email protected] In alto, a sinistra: Dengfeng (Cina), tempio di Shaolin, uno dei re celesti che rappresenta la protezione del mondo e la liberazione dalla sofferenza. Sopra: Hangzhou (Cina), Amitabha Buddha con i suoi assistenti Bodhisattva Avalokitesvara, e Mahasthamaprapta Bodhisattva. Missione Oggi | marzo 2014 23 SILENZIO CONTEMPLATIVO Il sorriso del Buddha e il suo silenzio sono la stessa e identica cosa. Entrambi sono una comunicazione immediata che colma la distanza che separa un’esistenza dall’altra PER APPROFONDIRE GIANGIORGIO PASQUALOTTO BUDDHISMO Fattore “R” Emi, Bologna 2012 pp. 158; € 12,00 presso: [email protected] Una terza interpretazione è quella contemplativa (dhyāna, samādhi), sebbene non manchi di punti deboli. A tal proposito vi è una leggenda, nota come Sermone del fiore, tramandata soprattutto dalla tradizione Zen che narra: “Un giorno mentre il Buddha era seduto con i suoi discepoli si chinò a cogliere un fiore di loto. Lo guardò e le sue labbra si aprirono al sorriso. Nessuno dei discepoli fu in grado di cogliere il significato di ciò. Solo Kasyapa sorrise con lui. Il Buddha lo notò e disse: ‘Sii, d’ora innanzi un messaggero del cuore del buddhismo’” (questo sermone è narrato in un sūtra spurio la cui autenticità è molto discussa, noto come Ta-fa-t’ien-wangfo-iching, la cui edizione più antica risale all’XI secolo). Il sorriso del Buddha e il suo silenzio sono la stessa e identica cosa. Entrambi sono una comunicazione immediata che colma la distanza che separa un’esistenza dall’altra. SILENZIO COME “PLACARSI DELLA DOMANDA” A sostenere questa interpretazione è soprattutto R. Panikkar per il quale l’apofatismo buddhista è ontico e ontologico: “Il Buddha non solo tace, ma assume il silenzio come risposta. Ancor più, il Buddha non dà alcuna risposta perché elimina la domanda. Dissolve, cioè, la radice stessa del problema non cercando di negare direttamente e violentemente Dio né di armonizzare le diverse risposte, ma mostrando la superfluità della domanda su Dio e sul mondo ultraterreno, la vacuità di ogni possibile risposta e la nichilità di tutta la questione, senza per questo compromettere l’esito di una possibile salvezza e liberazione” (Il silenzio del Buddha, pp. 253-254). Un simile approccio e una tale visione del mondo pongono certamente delle grosse sfide alla visione cristiana del reale che riconosce un inizio, un fine e un senso di tutto ciò che esiste nell’amore creativo, oblativo e kenotico di un Dio che è Padre, Figlio, Spirito, relazione sussistente d’amore da cui tutto ha origine e a cui tutto ritorna. Offre, però, anche importanti stimoli di riflessione e di indagine per una più profonda intelligenza dei dati che la rivelazione cristiana ci dona. IL SILENZIO: PAROLA ULTIMA O PENULTIMA? Raimon Panikkar. 24 Missione Oggi | marzo 2014 cammino religioso è la presa di coscienza della precarietà di tutti gli esseri: “Tutto è dukkha”, sofferenza, imperfezione, vacuità, insostanzialità. Da questo dato esperienziale e incontrovertibile, il Buddha è giunto a intuire la “suprema verità” del divenire causato di tutte le cose (pratītya samutpāda) e della non sostanzialità di tutti gli esseri (anicca), verità “profonda e difficile” da capire per rendere accessibile la quale elaborò la dottrina delle Quattro nobili verità. A questo proposito, è significativo che Il grande discorso delle cause, contenuto nel MANUEL AGULLA dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 24 Analizzando l’insegnamento del Buddha, abbiamo visto che il punto di partenza del suo Il Buddha non solo tace, ma assume il silenzio come risposta. Ancor più, il Buddha non dà alcuna risposta perché elimina la domanda Dīgha Nikāya, inizi con un dialogo tra Ānanda e il Buddha a proposito della difficoltà di rettamente comprendere la legge del divenire causato o “generazione interdipendente” (in R. Gnoli, La rivelazione del Buddha, vol. 1, p. 47). Il fatto che il Buddha stesso affermi che nei confronti di pratītya samutpāda ci sia “mancanza di comprensione e di penetrazione” perché essa è più “profonda e difficile” di quanto appaia a prima vista, significa che questa “verità”, nella sua evidenza rimane pur sempre inafferrabile, indicibile e misteriosa (cfr. S. Agostino, Confessioni XII,14,17: “Meravigliosa profondità della tua Parola! Eppure, ecco, la superficie ci si stende davanti e ci accarezza come fanciul- l irra A nalizzando l’insegnamento del Buddha, abbiamo visto che il “cuore” è l’intuizione di pratitya samutpada, ossia che tutto ciò che esiste è interdipendente e che nulla di ciò che esiste ha in sé la ragione del proprio esistere. L’aver visto le “cose così come sono”, nella loro vacuità, ha dischiuso al Buddha anche l’infinito orizzonte del nirvana, di quella “regione irraggiungibile” della non-rinascita, che tutto il buddhismo considera ineffabile, indicibile, inesprimibile. E poiché “il silenzio appartiene al mistero” (Gregorio Nazianzeno, Oratio 8,22: PG 35,813) di fronte all’ineffabile il Buddha non solo tace, ma elimina alla radice qualunque domanda, in particolare quella su Dio o sul suo Essere (cfr. R. Panikkar, Il silenzio di Dio, pp. 251. 256). Di fatto, però, Buddha, eliminando alla radice la domanda su Dio come non opportuna al fine terapeutico che si propone, non elimina la questione in sé. Oserei dire che la sua è una epochè metodologica. Tacendo su Dio, ma additando come meta la “regione irraggiungibile” del nirvana, apre pur sempre all’oltre. Il suo silenzio non è parola ultima ma penultima e, come tale, va intesa a partire dal contesto del suo tempo e dalla finalità che si propone. In questo senso, mi sembra importante la precisazione di R. Panikkar: “La domanda non era questa [...]. Siddharta si è sempre rifiutato drasticamente di lasciarsi ‘raggirare’ nella dialettica del proprio tempo su Dio” (Il silenzio del Buddha, p. 256). Qual era la dialettica del tempo di Buddha su Dio? Quale idea di Dio il Buddha rifiuta o rimuove? Qualunque possa essere la risposta, il suo “silenzio” rimane un alto monito all’homo religiosus di ogni tempo a non confondere la “domanda” e soprattutto a non imprigionare l’Assoluto in qualsivoglia categoria mentale, né a ridurlo alle dimensioni della propria mente. E qui possiamo riconoscere al buddhismo un importante ruolo propedeutico e demitizzante, contro la ricorrente tentazione umana di creare un dio a propria immagine e somiglianza. La demitizzazione di false immagini di Dio e la ricerca del suo vero volto a partire dall’esperienza del dolore è, in fondo, anche un grande tema biblico, in particolare del libro di Giobbe. Ed è un tema di estrema attualità, soprattutto di fronte ai fondamentalismi religiosi perseguiti in nome di Dio. Del Buddha possiamo dire che, prescindendo dal mistero di Dio, con tenacia unica nella storia del pensiero religioso, ha sondato la “vacuità” (Rm 8,20) dell’essere e sul suo abisso si è fermato immobile senza nulla chiedere. Non riceve risposte perché non pone domande. La sua grandezza sta nel non aver forzato le soglie del Mistero oltre i limiti della ragione umana. Ma il Mistero resta. Un Mistero che auto-rivelandosi chiede all’uomo non solo una comprensione di ragione ma anche di fede. Questa precisazione è importante per non confondere i livelli e per porre le corrette premesse del dialogo cristiano/buddhista. Se, infatti, da un punto di vista antropologico, il buddhismo è certamente una grande scuola di sapienza in cui viene insegnata “la radicale insufficienza di questo mondo mutevole” (Nostra aetate 2), da un punto di vista teologico, il suo “silenzio” metafisico lascia senza risposte la domanda insopprimibile sul senso e il fine della vita umana e di questo mondo mutevole. Se è vero – come attesta Nostra aetate – che “gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la sorte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo” (n. 1), il cristianesimo – proprio per la differenza teologica che lo distingue dal buddhismo – è portatore di una “Parola” creatrice capace di fecondare il silenzio del nulla (Gn 1,1ss), di “tenere insieme” tutte le cose” (Col 1,17), di svelarne l’origine, il senso e il fine (Gv 1,3). L’aver visto le “cose così come sono”, nella loro vacuità, ha dischiuso al Buddha anche l’infinito orizzonte del nirvana, di quella “regione irraggiungibile” della non-rinascita, che tutto il buddhismo considera ineffabile, indicibile, inesprimibile RETIREEDIARY.WORDPRESS.COM Il silenzio “metafisico” del buddhismo ci interpella dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 25 dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 26 AWANGTEH.BLOGSPOT.IT li: invece, meravigliosa profondità, o mio Dio, meravigliosa profondità”). Questa consapevolezza del Buddha ci aiuta a capire anche la sua reticenza e il suo silenzio davanti alle questioni metafisiche, che la tradizione ci ha tramandato come avyakrta-vastu (questioni non disputate dal Buddha) in sanscrito, e muki in sino-giapponese. I testi buddhisti elencano quattordici avyakrta-vastu o muki, riducibili a quattro problemi fondamentali: l’eternità del mondo, la sua finitezza, l’esistenza dopo la morte, l’identità tra anima e corpo. I testi buddhisti elencano quattordici avyakrta-vastu o muki, riducibili a quattro problemi fondamentali: l’eternità del mondo, la sua finitezza, l’esistenza dopo la morte, l’identità tra anima e corpo DIRE O NON DIRE DIO? Longmen (Cina), statua di Vairocana Buddha in uno dei numerosi santuari rupestri. 26 ca attribuiti allo stesso Buddha: “Esiste, o monaci, un non-nato, un non-divenuto, un noncreato, un non-formato. Se, o monaci, non esistesse questo non-nato, non divenuto, noncreato, non-formato non si potrebbe conoscere alcuna via di salvezza [sottrarsi] da ciò che è nato, divenuto, creato, formato. Ma, o monaci, poiché esiste un non-nato, un non-divenuto, un non-creato, un non-formato si può conoscere una via di salvezza da ciò che è nato, divenuto, creato, formato (in R. Gnoli, La Rivelazione del Buddha, vol. 1, p. 698.). Commentando Missione Oggi | marzo 2014 Sebbene il problema dell’esistenza di Dio non sia esplicitamente menzionato, vi è però soggiacente e attraversa tutto il buddhismo. Per coglierlo nella sua autentica portata, è importante partire dal contesto culturale e religioso in cui il Buddha ha vissuto e l’idea della divinità che permeava tale ambiente e chiedersi: il Buddha ha taciuto-rimosso idee inadeguate di Dio o ha negato la Realtà Ultima, personale e trascendente che la tradizione monoteista chiama “Dio”? La domanda non è di facile risposta. Se alcuni testi buddhisti ci autorizzano a dire che il Buddha ha ammesso l’esistenza dei deva, gli autori buddhisti sono unanimi nel dire che il Buddha ha categoricamente rifiutato l’idea di un Dio personale e creatore.Ciò detto, però, non va taciuto che la tradizione buddhista conosce anche un’altra interpretazione trasmessaci dagli Udāna, antichi versi in forma metri- questo famoso detto, lo studioso buddhista giapponese, H. Nakamura, scrive: “Il Buddha credeva in qualcosa che durava dietro i fenomeni mutevoli del mondo dell’esperienza” (cit. in H. Dumoulin, Buddhismo, Queriniana, Brescia 1981, p. 77). Queste posizioni contrastanti sono indicative dell’insopprimibilità della questione. Tacendo, il Buddha elimina forse la domanda, ma non la questione in sé. La questione, per altro, è di cruciale importanza non solo per una retta comprensione del buddhismo, ma anche per il dialogo con il cristianesimo per il quale il riferimento a Dio è costitutivo. Da un punto di vista cristiano, infatti, non possiamo fare a meno di domandarci se il “silenzio” del Buddha sia aperto a una sorta di trascendenza, come sembrerebbero insinuare gli Udāna, o se, invece, sia la “parola” ultima e definitiva che consacra il nihilismo, l’evanescenza di tutte le cose e la loro “pura contingenza” come affermano alcuni studiosi buddhisti (cfr. R. Panikkar, Il silenzio Buddha, p. 77). LASTAMPA.IT dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 27 La differenza “teologica” tra la visione del buddhismo e quella del cristianesimo si riflette anche sul piano cosmologico e sulla visione del mondo. Prescindendo da Dio e da ogni riferimento metafisico, lo sguardo del Buddha sul mondo non può che cogliere “la contingenza in se stessa avulsa da ogni fondamento” (R. Panikkar, Il silenzio del Buddha, p. 109); il mondo non può che apparirgli come impermanente. Da qui anche l’appropriato nome di samsara (mare del mutamento). La mancanza dell’idea di creazione La questione cosmologica UNO DEI PUNTI PIÙ DELICATI DEL DIALOGO I l filosofo M. Abe (1915-2006), della Scuola di Kyoto, noto per il suo impegno nel dialogo buddhista-cristiano, soprattutto per aver approfondito il tema della śūnyatā (vuoto), in rapporto a quello della kenosi, afferma, d’accordo con tutta la tradizione buddhista, che “il buddhismo che insegna la legge della generazione interdipendente e considera l’interdipendenza tra gli esseri come la verità, non accetta la dottrina della creazione” (“Substance, Process, and Emptiness”, in Japanese Religions 11/1980/23). Quest’affermazione ci pone certamente di fronte ad uno dei punti più delicati del confronto buddhista-cristiano. Per il cristianesimo, infatti, il riferimento a Dio “creatore del cielo e della terra” è imprescindibile. Per addentrarci in questo non facile terreno, prendiamo in considerazione le interpretazioni che, lungo i secoli, le varie Scuole buddhiste hanno dato di pratītya samutpāda. Incroceremo quindi queste interpretazioni con la nozione di creazione nel pensiero biblico e cristiano, per giungere ad alcune riflessioni conclusive. LA “VERITÀ” DEL BUDDHA INTERPRETATA Presentando l’insegnamento primitivo del Buddha, abbiamo visto che pratītya samutpāda Missione Oggi | marzo 2014 27 è la “suprema eterna verità” intuita dal Buddha la notte dell’illuminazione; è il Dharma stesso, la Realtà così com’è, la forma/non forma dinamicamente sorgiva di tutti i fenomeni che ne rende possibile la manifestazione e l’esistenza, il venir meno e il riapparire di nuovo. Per questo, solo a partire da pratītya samutpāda è possibile comprendere la cosmologia buddhista e la sua visione del reale. Nel corso dei secoli, questa “verità” fu diversamente interpretata al punto che – come afferma Y. Takeuchi – “la storia dell’India, della Cina e del Giappone” può esse- e Hua-yen, nate in Cina rispettivamente nel VI e nel VII-VIII secolo d.C., rappresentano i due tentativi più significativi di superare speculativamente la contraddizione, ereditata dall’India. La prima scuola considera la natura ultima delle cose come vijñāna o coscienza: è la onnisciente mente del Buddha che comprende tutta la realtà fenomenica, per cui ogni cosa nel mondo è parte della coscienza del Buddha e ogni cosa possiede la “natura Buddha”. La seconda scuola sostiene che tutti i fenomeni particolari sussistono nell’unità dell’Unica mente assoluta e che questa re considerata “come una varietà d’interpretazioni dello spirito fondamentale della dottrina della generazione dipendente del buddhismo primitivo”. Possiamo addirittura dire che “ogni paese ha sviluppato un proprio approccio in relazione ai propri retroterra etnici, dando così origine alle principali scuole e sette conosciute” (Il cuore del buddhismo, p. 117). Mente unica non è indipendente o trascendente i singoli fenomeni. Insegna la perfetta inter-penetrazione dell’assoluto, chiamato “principio”, e dei fenomeni. Queste speculazioni, però, non rispondevano sufficientemente al bisogno di concentrazione e di concisione proprio del cammino religioso. Per questo, in Cina sorsero anche la Scuola Zen e quella della Terra pura, per raggiungere l’illuminazione non già attraverso la speculazione mentale, ma attraverso la meditazione e la pratica religiosa. Per quanto riguarda l’idea di pratītya samutpāda c’è da tener conto anche di altri elementi linguistici culturali che hanno caratterizzato l’assimilazione del pensiero buddhista in Cina. Troviamo infatti una insolita affinità tra l’idea di pratītya samutpāda, tradotta in cinese con engi e il termine cinese, di derivazione taoista, jinen che significa “natura”. Jinen è formato da due ideogrammi ji e nen che significano rispettivamente: “da sé”, “spontaneamente” e “proprio così”, “così com’è”. Da un punto di vista grammaticale, jinen non è un sostantivo, ma una forma avverbiale che non indica persone e cose nella loro sostanzialità, ma il loro modo di essere e la loro relazionalità. È facile dunque VOANEWS.COM dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 28 PER APPROFONDIRE MARIA DE GIORGI LA VIA DEL TÈ NELLA SPIRITUALITÀ GIAPPONESE Uomini e profeti Morcelliana, Brescia 2007 pp. 69; € 7,00 presso: [email protected] Monaci buddhisti pregano durante la cerimonia inaugurale della Conferenza internazionale su pace mondiale e buddhismo a Mumbai, India. 28 Missione Oggi | marzo 2014 IN INDIA. La contrapposizione tra l’interpretazione di pratītya samutpāda come “vuoto” (sūnyatā) di Nāgārjuna (circa 150-250 d.C.: una delle prominenti figure del buddhismo Mahāyāna, considerato il fondatore della Scuola Madhyamaka) e quella degli Yogācāra che, con la sua tesi della “coscienza intersoggettiva” come processo conoscitivo, creò all’interno del buddhismo indiano “una contraddizione che non ha potuto essere risolta” (Y. Takeuchi, Il cuore del buddhismo, p. 118). IN CINA. Il buddhismo cinese cercò una soluzione sviluppando un proprio sistema del tutto originale che diede a pratītya samutpāda un’interpretazione più esistenziale. Le scuole T’ien-t’ai capire perché quando il buddhismo entrò in Cina fece suo questo termine che anche per la sua funzione grammaticale ben esprimeva la visione buddhista del reale basata su engi. LA NOZIONE CRISTIANA DI “CREAZIONE” ARCHIVIO SAVERIANI IN GIAPPONE. Il Giappone ereditò dalla Cina questo ricco patrimonio religioso e culturale che seppe assimilare e adattare dando vita a nuove sintesi. L’idea di jinen radicata nella visione buddhista di engi ha plasmato profondamente la mentalità giapponese ed è uno degli elementi che rende difficile comprendere e accettare l’idea di creazione, La nozione di creazione ha una posizione centrale nel cristianesimo, costituendo addirittura il contenuto del primo articolo del Credo. Un dato che merita di essere rilevato perché – soprattutto a causa della deriva apologetica provocata dall’Illuminismo – l’idea cristiana di creazione è stata, per un certo periodo, equiparata alla nozione metafisica del rapporto causale tra Dio, Essere supremo, e gli esseri contingenti. La riduzione razionalista che derivò pose la dottrina della creazione al di fuori – per così dire – del quadro tradizionale del Credo collocandola in quello dei preambula fidei, preliminari alla rivelazione e, accessibili, di diritto, alla ragione. Per contro, la teologia del XX secolo ha avviato un rinnovamento della dottrina che l’ha situata nella prospettiva della salvezza e, in continuità con la migliore tradizione della Chiesa, l’ha riletta a partire dal mistero trinitario di Dio. SECONDO LA BIBBIA come sintetizza con chiarezza Abe. Secondo quest’ultimo, la “retta visione” del reale basata su engi (pratītya samutpāda) avvia un processo di “conversione” della mente che presuppone un fondamento logico. Abe individua questo fondamento nella cosiddetta co-dependent originatology. Con quest’espressione da lui stesso coniata, Abe intende riferirsi alla struttura fondamentale di pratītya samutpāda attraverso la quale sono rese possibili le varie forme di generazione dipendente. Una tale visione del reale sembrerebbe porsi in diretta e irreversibile contrapposizione con quella biblico-cristiana che concepisce il reale come espressione dell’opera di Dio. Per dovere di completezza, però, è doveroso accennare qui ad un’altra prospettiva che ci viene dagli antichi testi buddhisti. Negli Udāna, infatti, troviamo l’esplicito riferimento ad una “realtà non nata, non diveniente, non composta” che sembra andare oltre la relazione di generazione dipendente (VIII,3). Questa tensione interna al buddhismo, come le altre contraddizioni non risolte, lungi dallo svuotare di significato e di attualità il confronto con l’idea cristiana di creazione, rende tale confronto ancora più stimolante e necessario. dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 29 Un primo dato di cui tener conto è che narrando della creazione del mondo e dell’uomo /donna, la Bibbia non intende descrivere la struttura o le origini dell’universo, né porre l’accento sulla sua genesi e relativa modalità. Intende, bensì, affermare che tutta la creazione è dotata di senso, ha una sua ragione ultima e un suo fine. Per la Bibbia, il mondo e l’uomo/donna in esso, non sono né natura né cosmo, né formano una totalità chiusa che si genera e rigenera, ma una radicale novità dell’amore. A questo proposito, mi sembrano stimolanti alcune riflessioni di E. Levinas, per il quale il senso profondo della creazione biblica va individuato “nell’introduzione della paradossale alterità fra tutto ciò che esiste e Dio” (cfr. Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1990, p. 106). Un secondo dato di cui temer conto riguarda la peculiare posizione dell’uomo/donna in rapporto alle altre creature. La creazione dell’uomo/donna si caratterizza, infatti, per una duplice eccedenza rispetto agli altri esseri: a) l’uomo/donna non è una parte del mondo, un prodotto della natura, ma il suo destinatario, per cui la creazione biblica è e resta esplicitamente antropocentrica; b) l’uomo/donna è creato a immagine e somiglianza di Dio e come suo corresponsabile nella gestione del creato (Gn 1,26-27). Per la Bibbia solo attraverso la creazione dell’uomo/donna si svela il senso ultimo e Un primo dato di cui tener conto è che narrando della creazione del mondo e dell’uomo /donna, la Bibbia non intende descrivere la struttura o le origini dell’universo, né porre l’accento sulla sua genesi e relativa modalità Centro di spiritualità e dialogo Shinmeizan (Giappone), monaco durante la cerimonia del té. Missione Oggi | marzo 2014 29 Il buddhismo ci provoca a ripensare la dimensione relazionale dell’essere creato C on l’intuizione di pratatya samutpada, il Buddha vede tutto il cosmo nel suo divenire e nella sua mutua connessione e comprende che la relazione d’interdipendenza è il “modo” di essere delle cose. Vede, cioè, la relatività radicale e costitutiva di tutto, la concatenazione universale di tutte le cose. Nulla, infatti, ha in sé la ragione del proprio esistere; nulla ha una natura propria. Tutte le cose si sostengono solo in quanto si ritrovano nel flusso del divenire, nel samsara. Nulla può sfuggire a questa condizionalità radicale e costitutiva: anche all’uomo non è riservata una “dignità” particolare e lo stesso Buddha viene incluso nella concatenazione universale. È legittimo perciò chiederci: pratatya samutpada non attira, alla fine, in un circolo vizioso: tutto dipende da tutto, ogni essere dipende dagli altri, e questi da quelli così come questi da quello. Ma il tutto da chi dipende? (cfr. R. Panikkar, Il silenzio di Buddha, p. 113). Il Buddha, a questo interrogativo non risponde. Giunto sulla soglia del Mistero tace: ha compreso l’intima natura delle cose, ha colto la precarietà del tutto, ha intuito l’ineffabilità del “non-nato, non-divenuto, non-creato, nonformato”, ma non ha “visto” – per così dire – il “perno” della ruota attorno a cui tutto gira in modo non causale, ma armonico e coerente; il “nodo” da cui tutto si squaderna, per usare la bella espressione di Dante (Paradiso XXXIII), e, coerentemente con le sue premesse tace. Resta tuttavia il punto fermo della relazionalità di tutte le cose e della loro reciproca interdipendenza-solidarietà come acquisizione inequivocabile. Ed è su questo punto che il confronto e il dialogo possono rivelarsi particolarmente fecondi. Fin dalle sue prime pagine la Bibbia presenta la creazione di tutte le cose come opera di Dio. In questo modo afferma sia: a) la dipendenza ontologica di tutto ciò che esiste da 30 Missione Oggi | marzo 2014 lui, b) sia l’intrinseca precarietà dell’essere creato: ciò che esiste, esiste in quanto ha una relazione vitale con Dio (Sl 104, 29-30); c) pur nella sua precarietà, l’essere creato ha una sua bellezza/bontà (tob, kalon, bonum) intrinseca che gli deriva dall’essere “creatura” Dio, e ha, soprattutto, una sua finalità (Gn 1,10; Sap 1,14; 11,24-26). La Bibbia coglie l’ordine e l’armonia del cosmo come espressione dell’opera creatrice di un Dio che conosce la voce di ogni sua creatura: “Lo Spirito del Signore riempie la terra e, tenendo insieme ogni cosa (synesteken) ne conosce la voce (Sap 1,7). Vi è un elemento di unità che salda gli esseri tra loro in un ordine superiore che non è caos e non è caso: è il “piano” di Dio. L’intuizione biblica di questo “piano”, che tiene insieme tutte le cose nella loro singolarità e mutua relazionalità, si farà via via più chiara con la presa di coscienza del ruolo del Cristo/Logos nella creazione. Il Logos, il Figlio, per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato fatto, è il “perno” che “tiene insieme tutte le cose”, che dà loro senso; che le riscatta dalla precarietà perché le pone in rapporto con Dio. Dagli elementi emersi, appare evidente che la Bibbia ha una visione dinamica e relazio- Dobbiamo essere grati al buddhismo di provocarci a ripensare la dimensione relazionale così essenziale dell’essere creato. È su questa base che il dialogo con il buddhismo può, infatti, rivelarsi particolarmente fecondo sia a partire dai punti convergenti sia da quelli divergenti Pierre Teilhard De Chardin. CONTEMPLARLAIC.BLOGSPOT.IT dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 30 nale dell’essere creato per il quale la relazione a Dio e l’interazione reciproca sono elementi costitutivi del suo stesso DNA. In particolare, l’essere umano è compreso sulla base della triplice relazione che lo costituisce fin dall’origine: relazione a Dio, relazione uomo-donna, relazione al mondo. Come scrive in Caritas in veritate Benedetto XVI: “La rivelazione cristiana sull’unità del genere umano presuppone un’interpretazione metafisica dell’humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale” (n. 55). Dobbiamo essere grati al buddhismo di provocarci a ripensare la dimensione relazionale così essenziale dell’essere creato. È su questa base che il dialogo con il buddhismo può, infatti, rivelarsi particolarmente fecondo sia a partire dai punti convergenti sia da quelli divergenti. Nella visione biblico-cristiana la relazione che lega tra loro gli esseri – orientandoli come individui e come tutto organico a Dio, non è una legge inesorabile che si autoperpetua, una ruota che gira su se stessa senza fine, ma un rapporto “filiale” che ha il suo radicamento nella relazione intratrinitaria sussistente di Dio, ossia nel mistero della Trinità. Una visione che deriva non dall’intuizione mistica, ma dalla rivelazione divina e che presuppone un’adesione di fede. Non a caso, S. Tommaso scrive che la conoscenza (di fede) delle persone divine è necessaria per avere un’adeguata comprensione della creazione (Summa Theologica, I,32,I ad 3). A prescindere da questa conoscenza non è possibile cogliere rettamente l’essere delle cose, la loro relazionalità e mutua interazione; il senso e il destino ultimo del mondo e dell’uomo. Questa diversa “conoscenza” è certamente l’elemento discriminante tra la visione buddhista, basata sull’intuizione, e quella cristiana del mondo e dell’uomo, basata sulla rivelazione. Cionondimeno, la nozione buddhista di pratityta samutpada è una potente provocazione a rivisitare e approfondire aspetti della teologia della creazione ancora non sufficientemente esplorati, quali: la solidarietà cosmica di tutti gli esseri, il loro comune destino, la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo; le implicazioni di una cristologia cosmica che riscopra, come già auspicava Teilhard de Chardin, il ruolo cardine di Cristo “qui replet omnia, in quo omnia constant”; nel quale e per il quale tutto è stato fatto, nel quale tutto trova coesione e compimento. radicale di tutta la creazione: essa è dono che la libera volontà di Dio offre all’uomo /donna, costituiti liberi, e cioè capaci di accogliere il dono o di rifiutarlo, di collaborare con Dio o di ergersi contro di Lui. È il misterioso dramma della libertà umana cui Dio non ha temuto di sottoporre la sua opera. Gn 3 narra miticamente il tragico tradimento di questa libertà, mentre Gn 4, in modo ancor più drammatico, narra le sue conseguenze. Nel Nuovo Testamento, la riflessione si arricchirà ulteriormente attraverso la presa di coscienza della mediazione creatrice del Verbo (Col 1,15-20; Ef 1,3-14; Gv 1,1-18). È il misterioso dramma della libertà umana cui Dio non ha temuto di sottoporre la sua opera IL PENSIERO CRISTIANO Sebbene la teologia abbia impiegato secoli prima di elaborare una dottrina della creazione, gli insegnamenti veterotestamentari, arricchiti dalla novità del Nuovo Testamento, appaiono chiaramente nella riflessione teologica già dai primi secoli. La creazione, per altro, è sempre stata oggetto di un possesso sereno nella Chiesa e non ha mai dato adito a difficili controversie, come per altri argomenti dogmatici. Con lo sviluppo progressivo del dogma, vennero via via evidenziate tre dimensioni dell’azione creatrice di Dio: la creatio prima, la creatio continua e la creatio escathologica. In questo contesto mi limiterò ad alcune riflessioni a partire dalla creatio prima sia perché essa – a torto o a ragione – è considerata l’aspetto che distingue la concezione cristiana del mondo da quelle delle altre tradizioni religiose o filosofie antiche, sia perché presenta spunti di particolare interesse nel dialogo con il buddhismo. La nozione classica che definisce la creatio prima, ossia l’azione creatrice “in principio”, è la creatio ex nihilo. Questa nozione, per i significati metafisici che ha assunto lungo i secoli, è stata spesso equivocata, soprattutto da una certa critica scientista. In realtà, essa ha avuto una funzione critica e un ruolo importante nello sviluppo e nella formulazione del dogma. Nihil, infatti, è il concetto a cui la teologia è ricorsa per distinguere nettamente il concetto di creazione da quello di produzione e per sottrarre l’azione creatrice alla concatenazione cronologica tipica del rapporto di produzione. Nel rapporto di produzione infatti – di cui la dinamica produttiva del karma è un esempio tipico – vi è soggiacente il principio filosofico che attribuisce al passato una priorità sul futuro. A partire da tale principio, un evento o una situazione della natura vengono spiegati a partire da ciò che li ha preceduti. Nella prospettiva della creatio ex nihilo, invece, l’esistente è compreso non a partire dal passato, ma da qualcosa di radicalmente nuovo, inedito, che viene solo da Dio e dalla sua infinità libertà. Non a caso l’idea della creatio ex nihilo ha il suo radicamento biblico nella speranza della risurrezione dai morti (2Mac 7,28; Rm 4,17; 2Cor 4,14), che ha trovato nella risurrezione di Cristo il suo inveramento definitivo. È solo nell’evento pasquale di Cristo, che la fede cristiana comprende in pienezza anche la verità della creazione: come Dio ha richiamato alla vita nuova il suo Figlio dall’abisso della morte, così dall’abisso del nulla chiama all’esistenza tutte le cose: “Aperta la mano dalla chiave dell’amore, le creature vennero alla luce” (S. Tommaso, In libros sententiarum 2, prol.). In questa prospettiva, la creatio ex nihilo rivela in pienezza il suo significato come creatio ex plenitudine amoris. Una pienezza d’amore che sgorga dalla libertà e dall’intimità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; che si riversa con sovrabbondanza su tutto il creato e risana in radice il cuore dell’uomo peccatore. È alla luce di questa ontologia che il pensiero cristiano interpreta l’antropologia e penetra il mistero della salvezza umana fino a poter dire con S. Tommaso: “È un’opera più grande trasformare in giusto un empio che creare il cielo e la terra” (Summa Theologica, I-II, q. 113, a. 9). dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:50 Pagina 31 La creazione è sempre stata oggetto di un possesso sereno nella Chiesa e non ha mai dato adito a difficili controversie, come per altri argomenti dogmatici Città del Vaticano, cappella Sistina, Michelangelo, la creazione (particolare). Missione Oggi | marzo 2014 31 CHRIS BRITISH dossier MO_marzo_2014_Layout 1 10/03/2014 08:51 Pagina 32 Per non concludere n dossier non è certamente sufficiente per approfondire tematiche vaste come quelle da noi affrontate. Spero che serva almeno per farci cogliere l’estrema complessità del buddhismo. Le varie tradizioni buddhiste non sono riducibili a mere tecniche di meditazione. Veicolano, infatti, una specifica visione del mondo e dell’uomo di cui occorre essere consapevoli, proprio in vista di un dialogo costruttivo e fecondo da ambe le parti. Il grande teologo Romano Guardini (nella foto) scriveva già negli anni Trenta: “Non c’è che un personaggio che potrebbe dare l’idea di vicinanza a Gesù: Buddha. Quest’uomo rimane un grande mistero. Vive in una libertà impressionante, quasi sovrumana, anche se dotato di una bontà possente come una forza cosmica. Buddha è forse l’ultimo genio religioso col quale il cristianesimo dovrà confrontarsi. Nessuno ha ancora messo in luce il suo significato cristiano. Il Cristo forse non ha avuto un precursore solamente nell’Antico Testamento, Giovanni, l’ultimo dei profeti, ma un altro in mezzo alla civiltà antica, Socrate, e un terzo che ha detto l’ultima parola della filosofia e dell’ascetismo religioso dell’Oriente: Buddha. Egli è libero, ma la sua libertà non è quella di Cristo. Forse non è che la conoscenza ultima e terribilmente liberatrice della 32 Missione Oggi | marzo 2014 ARTHUR GRÖGER U vanità del mondo decaduto. La libertà di Cristo invece promana dal suo radicarsi completo nell’amore di Dio; la sua disposizione è la volontà, grave come quella di Dio, di salvare il mondo” (Il Signore, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 404-406). Il dialogo cristiano-buddhista è certamente ancora all’inizio. Le asimmetrie sono molte ed esigono rigorosità di linguaggio e di concetti per non cadere in preconcetti o precomprensioni da una parte o in ingenui irenismi dall’altra. Dal punto di vista teologico, ci sono certamente molti aspetti del pensiero buddhista che vanno meglio conosciuti ed esplorati e aspetti del pensiero cristiano che vanno meglio spiegati e fatti comprendere agli interlocutori buddhisti. L’impegno deve essere reciproco. Ricordo un piccolo fatto, per me particolarmente significativo. Da anni partecipo, insieme al padre saveriano Franco Sottocornola, ad un gruppo di studio cristiano-buddhista che si incontra periodicamente a Fukuoka (Giappone). Due anni fa abbiamo dedicato i nostri incontri all’antropologia (chi è l’uomo per il buddhismo e chi è l’uomo per il cristianesimo). A me fu chiesto di presentare il fondamento della dignità umana dal punto di vista cristiano. Cercai di spiegare il significato dell’essere persona, creata a “immagine e somiglianza di Dio”. Durante la discussione, un bonzo del Jado Shinsha disse: “Dopo aver ascoltato la sua esposizione mi sembra di capire meglio anche le conseguenze di queste premesse. Mi rendo conto che come buddhisti non abbiamo un fondamento dottrinale per affrontare, ad esempio, il discorso dei diritti umani”. Ne seguì un dibattito molto interessante che mi ha ulteriormente convinta che, nel dialogo, è più importante suscitare domande che dare risposte. Solo così, infatti, la ricerca verso la verità può avanzare nel rispetto reciproco. La scorciatoia che cerca di far convergere tutte le religioni in un minimo comune denominatore è il vero grande ostacolo al dialogo perché nega la specificità di ciascuna. Paradossalmente, proprio le asimmetrie rendono il dialogo fecondo e creativo. Ogni tradizione religiosa ha una sua “verità non-negoziabile” ed è proprio a partire da questo nucleo “non negoziabile” che il dialogo può diventare catarsi, ricerca e ascolto, via che avvicina alla verità e apre a una più profonda condivisione fondata n “sull’unità della verità” (Benedetto XVI).