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I Racconti fantastici di Igino Ugo Tarchetti tra realismo e

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I Racconti fantastici di Igino Ugo Tarchetti tra realismo e
I Racconti fantastici di Igino Ugo Tarchetti
tra realismo e decadentismo
di Bernardina Moriconi
I Racconti fantastici di Igino Ugo Tarchetti costituiscono un prezioso contributo
ai fini della conoscenza della produzione letteraria di questo scrittore, una produzione le cui direttrici principali sono ravvisabili da un lato nella polemica sociale e
antimilitarista (si pensi ai romanzi Paolina e Una nobile follia), dall’altro nel processo
di progressiva decadenza e degenerazione della passione amorosa che raggiunge
l’acme in Fosca – l’opera certo più nota dello scrittore scapigliato – e nel racconto
Bouvard.
Pubblicati dall’editore Treves nel 1869, questi racconti, già a partire dai titoli
delle singole composizioni – I fatali, Le leggende del castello nero, La lettera U (Manoscritto d’un pazzo), Un osso di morto, Uno spirito in un lampone –, sembrano attestare
l’interesse del Tarchetti1 per uno specifico genere, quello gotico o dell’orrore molto
in voga nel corso del diciannovesimo secolo soprattutto nella letteratura d’oltralpe:
in essi, però, sono anche enucleabili numerosi elementi peculiari alla poetica e soprattutto alla sensibilità tarchettiana.
È indubbio infatti l’ascendente esercitato sul giovane scrittore piemontese da
autori come la Radcliffe, Hoffmann, Poe, Gautier ecc., la cui influenza è peraltro
ravvisabile anche in altri componimenti dell’artista scapigliato. Però il tema “pauroso” nei Fantastici rimane sempre piuttosto marginale: la narrazione non incute orrore né tanto meno è impregnata di quella suspense così abilmente propinata da Poe ai
suoi lettori. Per Ghidetti, studioso della Scapigliatura e del Tarchetti in particolare,
di cui ha curato la pubblicazione di tutte le opere2, questi racconti sono “opera di
calco e intarsio”3, mentre il Bosco in un saggio del 1959 sosteneva che Tarchetti
«non riesce a comunicare questo brivido di terrore come un Poe o un Hoffman, a
darci il senso dell’ossessione misteriosa»4.
Si muove insomma al nostro autore l’accusa di non riuscire a far lievitare la materia che, rimanendo allo stato grezzo, o anche svigorendosi nell’ironia o
nell’intento documentario, non coinvolge il lettore, il quale «non è trascinato a sentire che, una volta partiti da certe premesse, tutto si svolge ineluttabilmente. Si resta
ai margini»5.
Interesse peraltro condiviso da altri autori scapigliati, come documenta il volume curato da G. Finzi
Racconti neri della Scapigliatura, Milano, Mondadori, 1995
2 I. U. Tarchetti, Tutte le opere, a cura di E. Ghidetti, Bologna, Cappelli, 1967. È questa l’edizione cui si
fa riferimento nelle citazioni.
3 E. Ghidetti, Trachetti e la Scapigliatura lombarda, Napoli, Libreria Scientifica Editrice,1968, p. 214.
4 U. Bosco, Il Tarchetti e i suoi “Racconti fantastici”, in Realismo romantico, Roma, Sciascia, 1959, p. 135.
5 Idem.
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Ciò è indubbiamente vero: si pensi alla tendenza tarchettiana a eludere o sottacere proprio quei “segreti” e “misteri” che circondano protagonisti e luoghi delle
sue invenzioni narrative e che se fossero invece rivelati servirebbero ad avvalorare
(e chiarire) il carattere soprannaturale delle vicende esposte.
Ne I fatali, ad esempio, il legame tenebroso e distruttivo che unisce due personaggi – entrambi fatali, cioè, in parole povere, menagrami – non viene svelato neanche in conclusione del racconto:
Ora quali erano i legami che congiungevano quelle due persone e quei due nomi? Quale
era il vero nome di ciascuno di quei due uomini? /…/ È un enimma che né io, né alcuno
di coloro a cui ho raccontato questa storia ha potuto mai decifrare.6
Nelle Leggende del castello nero, parimenti, il protagonista, pur dichiarando di essere venuto a conoscenza delle tenebrose vicende che ammantavano di terrore i resti
del castello, non svela nulla di ciò al lettore:
Chiesi ad un pastore che cosa fossero quelle rovine, e mi rispose: – Sono le rovine del
castello nero; non conoscete la leggenda del castello nero? Veramente ve ne sono di molte
e non si narrano da tutti allo stesso modo; ma se desiderate di saperla come la so io… se…
– Dite, dite – /…/ E intesi da lui un racconto terribile, un racconto che io non rivelerò
mai, benché altri il possa allo stesso modo sapere, e sul quale ho potuto ricostruire tutto
l’edificio di quella mia esistenza trascorsa.7
Ora, se queste reticenze circa fatti fondamentali all’economia della narrazione
siano attribuibili a una incapacità dello scrittore a sbrigliare matasse eccessivamente
intricate, o se ciò derivi piuttosto dalla volontà di mantenersi sul vago, al fine di accentuare il mistero, non possiamo saperlo con sicurezza. Sta di fatto che nei Racconti fantastici, come già accennato in apertura, compaiono alcuni tratti tipici della scrittura tarchettiana ed è su questo che ci soffermeremo brevemente.
A cominciare proprio da quel gusto per il mistero e l’irrazionale che, presente in
numerose opere dello scapigliato, si era manifestato nelle forme esplicite di magia e
occultismo nei racconti L’elixir dell’immortalità (del 1865) e Riccardo Waitzen (1867),
che fa parte, quest’ultimo, di quella trilogia intitolata Amore per l’arte8 i cui protagonisti – tutti artisti –, per il modo anomalo e spesso patologico di vivere l’esperienza
amorosa, sono analizzati dall’autore come “casi clinici”.
E in fondo “casi clinici” sono anche i protagonisti dei Racconti fantastici, coinvolti, loro malgrado, in situazioni che trascendono l’umana percezione e nelle quali
l’ignoto e l’irrazionale si manifestano nelle loro molteplici possibilità: dall’influsso
sinistro esercitato da alcuni individui (I fatali) alla metempsicosi (Lo spirito in un lampone), dallo spiritismo (Le leggende del castello nero, Un osso di morto) alla pazzia (La letteI. U. Tarchetti, Racconti fantastici, in Tutte le opere, cit., vol. II, p. 40.
Ivi, p. 55.
8 I tre racconti, che prendono il nome dai loro protagonisti, sono: Lorenzo Alviati, Riccardo Waitzen e
Bouvard.
6
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ra U). Ma ciò che riveste indubbio interesse è il taglio scientifico (o pseudo tale)
che caratterizza queste narrazioni tarchettiane, il cui dato ricorrente è l’imparzialità
del personaggio-voce narrante che rivendica a sé il ruolo di semplice osservatore
dell’evento eccezionale di seguito esposto:
Io non voglio dimostrarne né l’assurdo, né la verità. Credo che nessuno lo possa fare
con argomenti autorevoli. Mi limito a raccontare fatti che hanno rapporto con questa superstizione.9
La narrazione assume pertanto il carattere di un imparziale resoconto, suscettibile di svariate interpretazioni da parte dei lettori. Così avviene in apertura di Un
osso di morto:
Lascio a chi mi legge l’apprezzamento del fatto inesplicabile che sto per raccontare.10
E ancora in Uno spirito in un lampone:
Mi attenterò a raccontare, con quanta maggior esattezza mi sarà possibile, questa avventura meravigliosa, benché comprenda essere cosa estremamente difficile l’esporla in tutta la
sua verità e con tutti i suoi dettagli più interessanti.11
Proprio questa volontà di approccio obiettivo con la materia narrata ha indotto
la critica a individuare nei Racconti fantastici un’impronta naturalistica, che si manifesta – secondo il Ghidetti – in quell’«uso continuo, che a volte ha il sapore di un
mero, sbrigativo espediente di riprodurre brani di diari, di lettere o, comunque, documenti a sostegno dei fatti narrati»12. D’altra parte, una sensibilità naturalistica (o
prenaturalistica) è ravvisabile anche in altre opere dell’artista: e se già l’Arrighi considerava Fosca un romanzo per certi aspetti naturalista avanti lettera13, nel racconto
Lorenzo Alviati sono stati evidenziati «accenti che sembrano anticipare,
nell’equazione genio-malato, certe enunciazioni tipiche del successivo romanzo naturalista d’impianto positivistico»14. Quel che è certo, per tornare ai Fantastici, è che
questa equidistanza rispetto alla materia trattata, mentre affranca l’autore da qualsivoglia presa di posizione, garantisce al contempo l’oggettività della sua narrazione,
che si configura spesso proprio come esemplificazione di una domanda posta come premessa teorica all’inizio del racconto. Si legga a tal proposito l’incipit dei Fatali:
Esistono realmente esseri destinati ad esercitare un’influenza sinistra sugli uomini e sulle
cose che li circondano? È una verità di cui siamo testimoni ogni giorno, ma che alla nostra
I. U. Tarchetti,. cit., p. 9.
Ivi, p. 65.
11 Ivi, p. 73.
12 E. Ghidetti, Introduzione a I. U. Tarchetti, Tutte le opere, cit., p. 41.
13 Cfr. P. Arrighi, Le vérisme dans la prose narrative italienne, Paris, Boivin, 1937, p. 144.
14 E. Ghidetti, Introduzione, cit., p. 37.
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ragione freddamente positiva, avvezza a non accettare che i fatti quali cadono sotto il dominio dei nostri sensi, ripugna sempre di ammettere.15
In apertura della narrazione viene quindi posto il quesito circa l’effettiva esistenza di individui dotati di quel potere malefico che prende comunemente il nome
di iettatura: una superstizione antica e diffusa nel popolo e i cui effetti deleteri finiscono col ripercuotersi in genere proprio su colui che gode di questa triste nomea
(si pensi al Chiàrchiaro della Patente pirandelliana) o anche – ed è il caso estremo –
su chi è convinto di possedere poteri fascinatori: è il caso dello scrittore-musicista
Hoffmann, citato dallo stesso Tarchetti nel corso del racconto:
Il numero di coloro che credettero essere perseguitati da un essere fatale è infinito: lo è
del paro il numero di quelli che credettero essere fatali essi stessi, Hoffmann, buono ed affettuoso, fu torturato tutta la vita da questo pensiero.16
La vicenda di questo primo racconto è imperniata su ben due enigmatiche figure di fatali, il barone di Saternez e il conte di Sagrezwitch17, rivali, sebbene legati da
misteriosi quanto tenebrosi vincoli, che giungono allo scontro diretto (nel quale il
primo troverà la morte) non prima però di aver seminato lutti e distruzione col loro solo apparire. Il conte di Sagrezwitch, in particolare, il più potente e malefico dei
due, «/…/ si trovava nell’America del Sud allorché bruciò la chiesa di S. Jago in cui
perirono più di mille persone; egli viaggiava /…/ sulla ferrovia del Pacifico allorché avvenne quello scontro in cui perdettero la vita più di trecento viaggiatori; egli
era a Pietroburgo allorché rovinò il palazzo del principe di Jakorliff in cui tante nobili dame e tanti dignitari dello stato trovarono la morte. Nelle miniere irlandesi e
in quelle di Alstau Moor in Scozia /…/ ogni sua visita ha segnalato qualcuna di
quelle catastrofi che sono tanto frequenti e tanto temute nelle miniere»18.
Tarchetti per questo racconto si è probabilmente ispirato alla novella Jettatura19
di Théophile Gautier, che narra una storia di amore e morte tra due giovani aristocratici stranieri, sullo sfondo di quella Napoli ritenuta la patria della iettatura.
Gautier, che durante il suo tour in Italia20 aveva soggiornato per qualche tempo
nella città campana, ebbe modo di leggervi una curiosa pubblicazione settecenteI. U. Tarchetti, Tutte le opere cit., p. 7.
Ivi, p. 9.
17 Interessante la scelta dei nomi dei due personaggi fatali, in cui Tarchetti ha introdotto (in modo
forse inconsapevole) segmenti semantici di matrice diabolica: il primo nella parte iniziale, quel “Sat”
che evoca Satana e satanismo in genere; il secondo, nella parte finale, “witch”, che com’è noto in inglese significa “strega”.
18 I. U. Tarchetti, cit, pp. 18-19.
19 Questa novella comparve a puntate tra il giugno e luglio del 1856 sul «Moniteur Universel» col titolo Paul d’Aspremont. Nel 1857 uscì in volume col titolo definitivo di Jettatura.In Italia venne pubblicata
solo nel 1887 nella Biblioteca Universale Sonzogno nella traduzione, incompleta, di Teodoro Serrao.
È probabile perciò che Tarchetti l’abbia letta in francese.
20 Il viaggio, iniziato alla fine del luglio del 1850, durerà quattro mesi e comprenderà le seguenti tappe:
lago Maggiore, Milano, Verona, Venezia, Padova, Ferrara, Firenze, Roma e Napoli. Un resoconto di
tale viaggio si ritrova nel volume Italia del 1852 successivamente ampliato e ripubblicato col titolo
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sca, intitolata Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura21 di Nicola Valletta22, pubblicazione da cui probabilmente lo scrittore francese trasse spunto e che viene citata nel corso della narrazione23. A Napoli, per la verità, fioriva già da lungo tempo
una vasta letteratura sul malocchio ben documentata successivamente da Ernesto
De Martino nel suo celebre saggio del 1959 intitolato Sud e magia24. Qui leggiamo
che, tra gli altri, anche Dumas si interessò dell’argomento, tracciando, tra il serio e
il faceto, la biografia di un noto iettatore napoletano, indicato come “Principe di
***” che probabilmente adombra la figura realmente esistita del duca di Ventignano, la cui potenza distruttiva ricorda molto quella attribuita da Tarchetti al suo personaggio, conte di Sagretzwitch. Mentre però l’autore dei Tre moschettieri si conforma maggiormente alla tendenza partenopea a tracciare figure di iettatori volutamente grottesche, Gautier – secondo De Martino – ne fornisce un’interpretazione
ancora romantica e nel complesso inefficace proprio per «lo stridente contrasto tra
due incompatibili orientamenti culturali, l’eroe satanico del romanticismo europeo
e lo jettatore napoletano»25.
Al di là comunque dei precedenti che possono avere in qualche modo influenzato il Tarchetti, sono rintracciabili ne I fatali alcuni elementi ricorrenti nella produzione del Nostro. A cominciare dall’inesausto desiderio d’amore e di bontà espresso dal protagonista e che ritroviamo in tante figure tarchettiane:
Egli era nato per il bene. /…/ Egli avrebbe voluto amare, beneficare, gioire della felicità che avrebbe sparso d’ intorno a sé, gettare delle corone sulle teste di tutti gli uomini…e
un destino crudele, tremendo, ineluttabile lo condannava a compiere il male, a schiacciare
sotto il peso della sua fatalità tutti quegli esseri buoni ed affettuosi che lo circondavano.26
Voyage en Italie. Cfr. la Nota al testo di Paolo Tortonese in T. Gautier, Arria Marcella. Jettatura Napoli,
Guida, 1984, p. 150.
21 La forma letteraria della “cicalata”costituisce per Benedetto Croce il “rampollo in prosa della poesia
bernesca, in lode delle cose non lodevoli e in asserzione delle verità non vere”.Cfr. B. Croce, La cicalata di Nicola Valletta, in «Quaderni di critica», 1945, n.3, p. 20 e sgg.
22 Nicola Valletta fu un personaggio noto soprattutto per il suo grande sapere, tanto da ottenere a soli
venticinque anni la cattedra di filosofia morale presso l’Università di Napoli e successivamente quella
di Diritto amministrativo. Nonostante ciò e pur appartenendo alla generazione di Filangeri e di Cuoco, pare che si ritenesse egli stesso vittima della iettatura e che questo convincimento lo abbia indotto
a scrivere la Cicalata. (Cfr. T. Gautier, Arria Marcella, Jettatura, cit., pp. 141-142 ).
23 «Dopo aver preso e sfogliato parecchi volumi, il giovane cadde sul trattato della Jettatura del signor
Nicola Valletta; /…/ Valletta definisce la jettatura, insegna a riconoscerla e fornisce i mezzi per preservarsene. /…/ Sebbene non cercasse di penetrarli, i segreti dell’inferno si rivelavano spontaneamente a lui; non poteva impedirsi di sapere, e aveva ormai piena coscienza del su fatale potere: era
uno iettatore! Ed era pur costretto ad ammetterlo con se stesso: tutti i segni distintivi descritti da Valletta erano su di lui». T. Gautier, op. cit., pp. 92-93.
24 Cfr. in particolare i paragrafi 6 (Illuminismo napoletano e magia) e 8 (Regno di Napoli e jettatura)
dell’edizione di Sud e magia edita da Feltrinelli (Milano) nel 1980.
25 E. De Martino, op. cit., p. 129.
26 I. U. Tarchetti, I fatali, in Tutte le opere, II, cit., p.34.
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Anche la figura femminile del racconto, la giovane Silvia, legata da un intenso
amore al “fatale” barone di Saternez, e per questo consunta, esattamente come accade all’Alicia Ward del racconto di Gautier, si ricollega idealmente ad altre figure
femminili tarchettiane, di cui parimenti lo scrittore ci presenta la progressiva decadenza fisica. Il contrasto tra i due contrapposti stadi (quello dell’avvenenza-salute e
quello del deperimento-bruttezza) era stato rappresentato precedentemente nel
personaggio di Paolina dell’omonimo romanzo, alla quale soltanto la morte restituisce temporaneamente la purezza dei lineamenti alterati, in questo caso, da più
concrete sofferenze fisiche e psicologiche:
Paolina è distesa sul suo letto; la morte, riconciliata con lei, sembra averle ridonato, come un nemico generoso, ciò che le tolse: le tinte della salute, la mollezza dei profili, la lucidità delle chiome, lo stesso sorriso della felicità, tutte le apparenze della giovinezza/…/.27
Un contrasto analogo lo ritroviamo in Silvia dei Fatali:
Dio! Quanto mutata! Appena era possibile riconoscerla. Quella fanciulla che io aveva
veduto sì robusta, sì serena, sì vivace non era più che un’ombra del passato, non aveva più
che un riflesso pallido e incerto della sua bellezza di un tempo. Non che la sua antica avvenenza fosse del tutto svanita, ma si era alterata /…/ I suoi capelli avevano quel lucido morto che hanno ordinariamente i capelli degli infermi /…/.28
E ancora, il suddetto contrasto è ravvisabile in Fosca dove la contrapposizione
tra i due binomi bellezza-salute e bruttezza-malattia si realizza stavolta attraverso il
ricorso a due figure femminili, che alludono a una antitesi già a partire dal dato semantico dei rispettivi nomi: Clara e Fosca.
L’indugiare con compiaciuta morbosità, da parte dello scrittore, sulla descrizione delle malattie (e delle loro manifestazioni esteriori) che affliggono le sue eroine
denota la tendenza tarchettiana, non tanto, potremmo dire, per un determinato tipo di donna, quanto piuttosto per la donna in una determinata fase: la fase che prelude alla morte, quando – scrive l’artista – si vede «sparire la donna e formarsi
l’angelo, pur rimanendo angelo e donna a un tempo»29.
Queste infermità, insomma, e la morte che quasi sempre ne consegue, assumono, nell’ottica tarchettiana, un valore quasi catartico, dal momento che “non vi è
che la morte che possa purificare l’amore, che possa santificarlo, eternarlo /…/»30.
Una trasformazione ancora più lugubre e repentina viene rappresentata nel racconto successivo, Le leggende del castello nero31:
Tarchetti, Paolina, ivi., I, p. 367. E ancora, in Lorenzo Alviati, leggiamo: «La malattia aveva come
modificate le sue sembianze, aveva dato al suo volto qualche cosa di sì pallido, di sì mobile, di sì trasparente, che la sua natura appariva trasfigurata, spiritualizzata, mutata essenzialmente da quella di
prima. La sua vitalità era affluita tutta allo sguardo /…/». (Tutte le opere, cit. I, pp. 586-587).
28 Tarchetti, I Fatali, ivi, II p. 27.
29 Tarchetti, Lorenzo Alviati, ivi, p. 586.
30 Ivi, p. 589.
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La sua bellezza non era della terra; la sua voce era dolce, ma debole come l’eco di una
nota; /…/ Noi passammo alcuni istanti così abbracciati /…/ Per un momento io subii tutta l’ebbrezza di quell’amplesso senza avvertirla: ma non m’e era posato su questo pensiero,
non era appena discesa in me la coscienza di quella voluttà, che sentii compiersi in lei
un’orribile trasformazione. Le sue forme piene e delicate che sentiva fremere sotto la mia
mano, si appianarono, rientrarono in sé, sparirono; e sotto le mie dita /…/ sentii sporgere
qua e là l’ossatura d’ uno scheletro… Alzai gli occhi rabbrividendo e vidi il suo volto impallidire, affilarsi, scarnarsi, curvarsi sopra la mia bocca; e colla bocca priva di labbra imprimervi un bacio disperato, secco, lungo, terribile…32
La tendenza a soffermarsi sulle categorie contrapposte di bellezza-bruttezza, salute-malattia, vita-morte risulta un altro elemento ricorrente della poetica tarchettiana, nella quale si palesa spesso una dolente, ma quasi compiaciuta consapevolezza della caducità della natura corporea dell’uomo. Ciò appare anche in alcuni componimenti poetici della raccolta Disjecta, penso in particolare alla breve lirica intitolata Memento!33, in cui la componente orrida viene raggiunta proprio mediante la
giustapposizione di elementi antitetici:
Quando bacio il tuo labbro profumato,
Cara fanciulla, non posso obbliare
che un bianco teschio v’è sotto celato.
Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,
Obbliar non poss’io, cara fanciulla,
Che vi è sotto uno scheletro nascoso.
E nell’orrenda visione assorto,
Dovunque o tocchi o baci, o le man posi…
Sento sporger le fredde ossa di morto!34
Il racconto Le leggende del castello nero si configura nella forma di memoriale, scritto dallo stesso protagonista sei mesi prima della sua prematura e preannunciata fine, come ci informa lo scrittore che compare in una postilla che chiude il racconto,
nella quale sostiene di aver ritrovato egli stesso queste pagine, tra le carte
dell’amico, e di averle pubblicate.
Il tema delle memorie svolge un ruolo significativo nella narrativa dell’artista,
come conferma Maria Cristina Cafisse in un saggio intitolato appunto La “memoria”
nella poetica di I. U. Tarchetti35.
31 Questo racconto era già stato pubblicato, in appendice, su «Il Pungolo» di Milano, nn. 19 e 20 del
settembre 1867 e poi in «Presagio-Strenna» del 1868, sempre a Milano, col titolo Il sogno di una vita.
Frammento.
32 Tarchetti Le leggende del castello nero, in Tutte le opere, cit. p. 51.
33 Questa composzione comparve per la prima volta su «Il Gazzettino» del 30 novembre 1867.
34 Tarchetti, Tutte le opere, cit., II, p. 459.
35 Il saggio è apparso in «Esperienze letterarie», a. VI, n. 4, 1981, pp. 87-101.
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La memoria costituisce infatti per Tarchetti la fonte principale cui possa attingere un artista poiché essa «permette di trovare nel passato i motivi ispiratori dei
racconti»36. Quando però il passato è molto lontano, quasi remoto nella nostra coscienza, allora interviene il sogno per riportarlo alla luce. È quanto accade al protagonista delle Leggende del castello nero, un ragazzo di quindici anni, che proprio durante il sonno viene a scoprire di essere la reincarnazione di un non meglio identificato
Arturo, vissuto nel sedicesimo secolo e protagonista di una tenebrosa e confusa
vicenda di amore e morte che vede coinvolti anche la donna soggetta alla repentina
e spaventosa metamorfosi, cui si accennava prima. Il sonno diventa insomma una
fase di transizione – o un varco – tra la vita attuale e una precedente esistenza, i sogni costituiscono a loro volta una labile traccia di eventi realmente accaduti.
Ho detto il sonno. E che cosa è il sonno? Siamo noi ben certi che la vita del sonno non
sia una vita a parte, un’esistenza distaccata dall’esistenza della veglia? Che cosa avviene in
noi in quello stato? chi lo sa dire? Gli avvenimenti a cui assistiamo o prendiamo parte nel
sogno non sarebbero essi reali? Ciò che noi chiamiamo con questo nome non potrebbe essere che una memoria confusa di quegli avvenimenti?... 37
L’elemento onirico, frequente in tutta la narrativa tarchettiana, si configura nei
Racconti come dimensione prevalentemente magica, un mezzo attraverso il quale la
sfera dell’”extraumano” entra in quella dell’ “umano”: il che permette allo scrittore
– con tecnica che abbiamo visto essergli consueta – di insinuare nel lettore il dubbio riguardo alla veridicità o meno dell’evento straordinario narrato.
Ciò appare evidente soprattutto in Un osso di morto dove si narra della apparizione, nottetempo, preannunciata da una precedente seduta spiritica, dello spirito di
un tale che viene a rivendicare un proprio osso (una rotella del ginocchio), che, adibito a fermacarte, si trova nella casa in cui alloggia temporaneamente il protagonista di questa breve gosth-story. L’evento, il mattino successivo, viene considerato
un sogno dallo stesso protagonista-io narrante, fino a che questi non si accorge con
raccapriccio che l’osso è sparito e al suo posto è rimasto il nastro nero con cui il
fantasma, nell’apparizione notturna, teneva legato lo stinco della gamba sinistra al
femore in mancanza della rotella del ginocchio.
Il sogno, al di là dell’uso che ne fa lo scrittore in questo racconto, riveste un
ruolo primario nella Weltanschauung del Tarchetti, il quale, per una sorta di intuizione psicanalitica, concepisce lo stadio onirico come momento di liberazione dai
vincoli e dalle costrizioni che l’uomo si autoimpone durante la veglia:
M. C. Cafisse, La “memoria” nella poetica di I. U. Tarchetti, cit., p. 96. Un valore consolatorio assumono le memorie legate alla fanciullezza. Così scriveva, a tal proposito, nel racconto Lorenzo Alviati:
«Dolci e serene memorie dell’infanzia, voi formate tutto il segreto de’ miei affetti, tutto il tesoro delle
mie più care predilezioni. Oh potessi, dal sepolcro in cui giacete, evocarvi almeno un istante, per riabbellire del vostro sorriso fugace questi miei giorni sconsolati e sofferenti!». In Tarchetti, Tutte le opere, cit., I, p. 562.
37 Tarchetti, Le leggende del castello nero, op. cit., p. 44.
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Tutto il meraviglioso dei sogni consiste in quell’ignoranza della verità, e in
quell’impotenza di criterio che ha luogo per ciascuno in quello stato. Lo stesso può dirsi di
quel dolce sognare dei fanciulli ad occhi aperti, e di quell’eterno vaneggiare e fantasticare
che molti uomini semplici e immaginosi fanno anche in età più avanzata.38
Pertanto, dal momento che proprio grazie al sogno l’uomo riesce a librarsi al di
là della propria limitatezza corporea, esso diviene di fondamentale importanza nella
vita, costituendo una sorta di risarcimento ai tanti dolori che costellano l’esistenza
terrena. Così scriveva Tarchetti in una lettera a Carlotta39:
Se io fossi certo che i morti sognano, vorrei oggi stesso addormentarmi ritentando la
mia antica abitudine dell’oppio. Bello il sognare! Ma il destarsi spaventa e distrugge tutta la
bellezza del sogno.40
E, ancora, in una delle prose che compongono i Canti del cuore41, leggiamo:
Io ti ho sognata. L’amore solamente può creare dei sogni così belli, né molti anni di vita
potranno darmi un simile godimento. Oh perché i sogni passano così presto! Moriamo…
forse nella tomba si sogna.42
Un altro elemento caratterizza però Un osso di morto: ci riferiamo alla marcata ironia che connota questo racconto, un’ironia che contribuisce notevolmente a mitigare il carattere tetro della vicenda narrata, che pure viene ricercato con diversi, e
piuttosto scontati, espedienti: la seduta spiritica, i tetri rintocchi della mezzanotte,
persino l’apparizione del fantasma ricoperto da un lenzuolo bianco, in ossequio ai
più banali canoni dell’immaginario ultraterreno. Questi elementi macabri, o presunti tali, vengono stemperati proprio grazie alla soffusa ironia che permea questa narrazione e che traspare già quando lo spirito preannuncia la visita notturna al protagonista, il quale cerca goffamente di sottrarvisi:
– Per carità… vi scongiuro… non vi disturbate… manderò io stesso… vi saranno altri
mezzi meno incomodi…43
Essa trapela anche dal colloquio notturno tra il fantasma:
– Perdonate se ho dovuto disturbarvi nel colmo della notte… in quest’ora… capisco
che la è un’ora incomoda… ma…44
Tarchetti, Pensieri, ivi, II, p. 487.
Con la giovane Carlotta Ponti, Tarchetti ebbe una relazione travagliata, che durò poco più di un
anno, a partire dal 1863 e di cui rimane traccia in un epistolario comprendente ben 74 lettere. Cfr.
Lettere a Carlotta Ponti, in Tarchetti, Tutte le opere, cit., II, p. 567 e sgg.
40 Ivi, p. 584.
41 Apparsi per la prima volta nella «Rivista minima» del 1865.
42 Tarchetti, Canti del cuore, in Tutte le opere, cit., II, p. 443.
43 Tarchetti, Un osso di morto, cit., p. 68.
44 Ivi, p. 70.
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e l’annichilito padrone di casa:
– Oh! È nulla, è nulla /…/ io vi debbo anzi ringraziare della vostra visita… io mi terrò
sempre onorato di ricevervi nella mia casa…45
Un dialogo, quindi, che ricalca in chiave quasi grottesca stereotipate formule di
cortesia, come si desume ancora dal goffo tentativo del protagonista di discorrere
del più e del meno:
– Che notizie ne recate dall’altro mondo? – Io chiesi allora, vedendo che la conversazione languiva, durante quella sua operazione.46
Se, dunque, in Un osso di morto è proprio il sorriso a dare vivacità alla narrazione,
spunti ironici sono rintracciabili anche nel racconto intitolato Uno spirito in un lampone, l’unico dei Fantastici ambientato nel sud del Paese, che Tarchetti aveva visitato
da militare47: l’azione si svolge in quella terra calabra che Giuseppe Autiero, in un
recente saggio dedicato proprio a questo racconto, definisce come luogo
«dell’alterità, della lontananza, della magia dell’arretratezza antropologica»48 e quindi sfondo ideale per questa vicenda. Qui viene infatti narrato l’evento prodigioso
capitato a un signorotto locale, il barone di B, il quale, avendo colto e mangiato dei
lamponi che crescevano in un terreno situato a poca distanza dal suo castello, terreno che era stato teatro – qualche tempo prima – dell’uccisione di una fanciulla
del luogo, viene posseduto dallo spirito della ragazza49, spirito che però non sopraffà la personalità del barone, ma convive in una sorta di sovrapposizione con
quella, apportando e provocando nel nobile inusitate sensazioni e soprattutto un
nuovo modo di considerare la realtà circostante e le persone: come quando – ed
ecco un esempio di quell’ironia cui si accennava prima – imbattutosi in una brigata
di giovani che lo salutano, il barone si sorprende a chinare timidamente il capo e ad
arrossire – lui, dongiovanni incallito – “come una fanciulla”. Il racconto, inoltre,
delineando nel protagonista un personaggio dimidiato, sfrutta quel tema del “doppio”, caro alla letteratura in genere e a quella ottocentesca in particolare, come doIdem.
Ivi, p. 71.
47 In qualità di addetto al commissariato militare nel 1861 Tarchetti venne stanziato col suo reggimento a Foggia, quindi a Lecce, Taranto e Salerno.
48 G. Autiero, Una (disorganica) summa di ‘topoi’ fantastici: Uno spirito in un lampone di Igino Ugo Tarchetti, in
A. D’Elia, La tentazione del fantastico. Racconti italiani da Gualdo a Svevo, Pellegrini Editore, 2007, p. 90.
49 La possessione per il luogo e i personaggi che coinvolge – un nobile e una sua lavorante – si carica,
per Autiero nel già menzionato saggio, di implicazioni sociologiche e rituali: «Nelle comunità meridionali, l’omicidio non è mai un fatto individuale, cui risponde solo l’apparato poliziesco e giudiziario;
l’assassinio di una ragazza immediatamente investe la capacità di reazione dell’intera comunità, che si
sente attaccata e deve reagire ristabilendo la giustizia popolare con ogni mezzo. In questo caso, ciò
non è avvenuto: l’assassino sembra averla fatta franca /…/ Il giovane barone è dunque ridotto a inconsapevole strumento della vendetta, che muove dalla ragazza stessa, in assenza di una reazione comunitaria o poliziesca». Ivi, pp. 85-86.
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cumenta il volume Io e l’altro. Racconti fantastici sul Doppio50, che manifesta la presenza
di tale tema in un cospicuo numero di artisti stranieri e italiani, tra i quali ultimi è
inserito anche il Tarchetti con questo racconto.
Il tema delle peregrinazioni e trasmigrazioni dell’anima, presente in Uno spirito in
un lampone, secondo Giovanni De Castro viene ripreso dai lavori di ErckmannChatrian, in cui compare frequentemente51. In particolare, come ribadisce anche
Remo Cesarani in un saggio sulla letteratura fantastica in Italia52, questa narrazione
tarchettiana risentirebbe dell’influsso del racconto dei due scrittori alsaziani intitolato Le Bourgmestre en bouteille53; mentre il Mariani – oltre alla suddetta opera – cita,
tra le fonti, anche Tobias Guarnerius di Charles Rabou e Avatar del Gautier54.
Eppure, nonostante le pur evidenti suggestioni esercitate sul Nostro dai suddetti autori, nel corso della narrazione si nota un ambiguo accostamento di elementi
desunti dalla sfera del paranormale (la metempsicosi) e di altri che rimandano a
quel positivismo scientifico che iniziava ad imporsi e che induceva il Tarchetti a
“tradurre in termini di analisi medica le conseguenze di quello sdoppiamento della
personalità”55:
Ma è singolare questa sensazione che provo alla testa, questo peso… E che cosa sono
questi strani desideri che sento, queste volontà che non ho mai avute, questa specie di confusione e di duplicità che provo in tutti i miei sensi? /…/ Non è possibile, sento nel cervello qualche cosa che si è disorganizzato, cioè… dirò meglio… che si è organizzato diversamente da prima…56
E alla fine del racconto a prevalere sembra che sia proprio la scienza, dal momento che – come sottolinea appropriatamente il Bosco – lo scrittore “crede nelle
trasmigrazioni degli spiriti; ma non ignora le virtù degli emetici”57: sarà infatti grazie alla somministrazione di un emetico che il barone riuscirà a recuperare la sua
interezza psichica.
Un interesse prevalentemente scientifico prevale invece ne La lettera U, il cui
sottotitolo, Manoscritto d’un pazzo, mentre anticipa l’argomento del racconto, conferma l’interesse dell’autore per le varie forme di deviazione della psiche umana: un
interesse già manifestato in precedenti prove, in particolare in Un suicidio all’inglese e
Il volume, a cura di G. Davico Bonino, è edito nel 2004 da Einaudi.
Cfr. G. De Castro, Il romanzo contemporaneo, in C. Cattaneo, Scritti filosofici, letterari e vari, Sansoni, Firenze, 1957, p.659.
52 R. Ceserani, Fantastic and literature, in AA.VV, Enciclopedia of italian literary studies, CRC Press, 2006,
pp. 685-686.
53 Questo racconto fa parte della raccolta Contes populaires, pubblicata nel 1862.
54 Il primo racconta di un liutaio che riesce a trasferire l’anima della propria madre nella cassa di un
violino; il secondo, Avatar, narra la storia di un giovane conte, innamorato non corrisposto di una
donna sposata, che, con l’aiuto di un medico capace di prodigi, riesce a trasferirsi nel corpo del marito
della donna da lui amata, il che innesca una serie di complicate vicende Cfr. G. Mariani, Storia della
Scapigliatura, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1971 (prima ed. 1967), pp. 424-425.
55 G. Mariani, ivi, p. 424.
56 Tarchetti, Un osso di morto, cit., p. 76.
57 U. Bosco, Il Tarchetti, op. cit., p. 26.
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Una nobile follia, ma non si può non pensare anche alle aberrazioni sessuali di Lorenzo Alviati e Bouvard – protagonisti degli omonimi racconti della già citata raccolta Amore nell’arte – che culmineranno per entrambi nella pazzia.
Il racconto si presenta, stavolta, sottoforma di manoscritto vergato in prima
persona dal pazzo stesso, che ripercorre le fasi progressive del suo male, che da innocua idiosincrasia per la vocale “U”, si trasforma in una patologica mania di persecuzione, che lo porta a sfiorare la tragedia (il personaggio si avventerà sulla moglie, colpevole di non voler mutare il suo nome, contenente la lettera fatidica), dopodichè sarà rinchiuso in un manicomio, dove scriverà le memorie che costituiscono questo singolare racconto, e dove morirà di lì a poco, come informa la stringata
nota che chiude la narrazione
La lettera U è imperniato proprio sull’orrore suscitato sul protagonista da questa
lettera, intesa sia nella sua versione grafica (“Quella linea che si curva e s’inforca –
quelle delle due punte che vi guardano immobili, che si guardano immobili – quelle
delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime –
quell’arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando – e
nell’interno quel nero, quel vuoto, quell’orribile vuoto /…/”)58, sia come segno
fonico (“Non rabbrividite? Non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito
della fiera, il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura sofferente e agitata? Non comprendete che vi è qualche cosa d’infernale, di profondo, di tenebroso in quel suono?”)59. Tale fobia diviene lo spunto per una narrazione in cui
l’interesse scientifico dell’autore per le diverse forme di malattia mentale si mescola, ancora una volta, all’intento ironico: basti pensare al raccapriccio del personaggio quando, deciso a sposarsi, dopo aver incontrato e debitamente scartato due
fanciulle per la sola ragione che entrambe recavano nel nome la vocale malefica
(Ulrica e Giulia), è quasi in procinto di convolare a nozze con una terza, allorché
scopre che il nome di quest’ultima – Annetta – è il diminutivo di Susannetta e che:
«inorridite! Aveva altri cinque nomi di battesimo: Postumia, Uria, Umberta, Giuditta e Lucia»60. Il tutto viene poi enfatizzato dal gusto per il divertissment che si manifesta in forme di sperimentalismo grafico (una serie di “U” in caratteri progressivamente più piccoli); un espediente, quest’ultimo, comunque non nuovo, dal momento che soluzioni analoghe le ritroviamo nel Tristram Shandy dello Sterne, il quale
in questo romanzo del 1760 aveva adottato delle stranezze tipografiche (spazi
bianchi o sezioni di pagine annerite, capitoli composti anche di un solo rigo, righi
costituiti da asterischi o trattini...)61. La stessa insofferenza del protagonista del racconto tarchettiano per la vocale U non sembra molto dissimile – e forse, quindi, da
quella derivata – dall’idiosincrasia che il padre del protagonista del romanzo sterniano nutre per il nome Tristram, tanto da «scrivere espressamente una DISSERTarchetti, La lettera u, in Tutte le opere, cit., p. 58.
Ivi, p. 59.
60 Ivi, p. 62.
61 Nell’edizione di Garzanti (1983) del Tristram Shandy cfr., a titolo d’esempio, le pp. 32, 33, 36, 160,
104, 564, 577.
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TAZIONE su questo singolo argomento /…/, per spiegare al mondo con grande
schiettezza e umiltà le ragioni del suo aborrimento»62.
L’influenza dell’autore inglese è peraltro riscontrabile in altre opere dell’artista
scapigliato63 e si riconnette alla sua stessa concezione dell’umorismo che ritroviamo
nelle due narrazioni che compongono la raccolta dei Racconti umoristici, ma soprattutto in uno scritto del 1865, Ad un moscone. Viaggio sentimentale nel giardino Balzaretti,
il cui sottotitolo è esemplato sul celebre Viaggio sentimentale di Lorenzo Sterne, mentre il titolo richiama l’episodio del moscone del già menzionato Tristram Shandy.
L’ammirazione del Tarchetti per lo Sterne trova un’esplicitazione nella parte a lui
dedicata nel saggio Idee minime sul romanzo64, in cui osserva:
Sterne fu detto il caposcuola del romanzo umoristico, ma sotto quel velo dell’umorismo
e della satira ha nascosto quanto di nobile e di affettuoso e di commovente fosse mai racchiuso in un libro. Il satiro è sempre un maligno quando non è un cattivo. Sterne non poteva essere tale.65
È probabile inoltre – se prestiamo fede a ciò che racconta Farina sulla scarsa
padronanza della lingua inglese da parte del Tarchetti – 66 che questi abbia conosciuto lo Sterne tramite la mediazione del Foscolo, cioè di un autore particolarmente caro al Tarchetti, proprio in onore del quale egli aveva adottato come secondo
nome quello di Ugo67.
Ne La lettera U, la molteplicità, dunque, di elementi e di suggestioni si compone
in un amalgama nel complesso convincente, dal gusto vagamente surreale: il che
spiega come i critici abbiano sottolineato la modernità de La lettera “U, giudicato “il
migliore” (Bosco) e “il più originale” (Ghidetti) fino al punto da essere considerato
L. Sterne, Tristram Shandy, ivi, p. 52.
Per l’nfluenza sterniana su Tarchetti, e altri autori italiani, cfr. G. Rabizzani, Sterne in Italia. Riflessi
nostrani dell’umorismo sentimentale, Roma, 1920. Su tale argomento si rinvia inoltre a R. Severi, Tarchetti e
Sterne: considerazioni sui “viaggi sentimentali”, in «Rivista di Letterature moderne e comparate», gennaiomarzo 1984, fasc. I, pp. 53-64 e M. Muscariello, L’umorismo di Igino Ugo Tarchetti, ovvero la passione delle
opinioni, in AA.VV., Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, Pisa, 1990, pp.
231-263.
64 Pubblicate per la prima volta nella «Rivista minima» del 31 ottobre 1865.
65 Tarchetti, Idee minime sul romanzo, in Tutte le opere, cit., II, pp. 530-531.
66 «/…/ egli in verità sapeva l’inglese pochissimo, appena il tanto da intendere alla meglio Shakespeare e Byron e tradurre ad orecchio Dickens». S. Farina, La mia giornata. Care ombre, STEN, Torino 1913,
p. 34.
67 Lo scrittore, assieme a Salvatore Farina, Federico Aime, Albino Ronco cui si aggiunsero Roberto
Rossetti e Girolamo Faldella, dette vita nel 1864 a un cenacolo artistico che, dal nome della via milanese in cui sorgeva, si denominò “dei Fiori Chiari”, i cui sodali dovevano aggiungere al proprio nome
di battesimo quello di qualche grande che ammirassero particolarmente. «Igino – scrive il Farina – fu
ribattezzato Igino Ugo per la simpatia letteraria da lui sentita per Foscolo, del quale apprezzava più
che altro un canto (i Sepolcri), un’imitazione in forma di romanzetto (Iacopo Ortis) e una traduzione
splendida (Il viaggio sentimentale di Lorenzo Sterne)». S. Farina, La mia giornata. Care ombre, cit., p. 21.
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“tra i precedenti ottocenteschi dell’avanguardia futurista”68 o da essere collocato
“tra Rimbaud e il futurismo animistico”69.
Ciò che si ricava pertanto dalla lettura dei Racconti fantastici è il desiderio di Tarchetti di cimentarsi nel genere nero per una scelta tanto letteraria quanto scientifica
e, ancor prima, pscicologico-esistenziale. A conferma di ciò, si pensi all’ambiguo
fascino che il regno dell’oltretomba esercitava sul Tarchetti, quasi un’attrazione che
lo induceva – lo racconta il Girelli70 – a passeggiare per i viali dei cimiteri suburbani, di cui divenne un frequentatore abituale, noto, addirittura, ai custodi e ai becchini.
Suggestionato indubbiamente dalla lettura di Hoffmann, di Poe, di Nerval, di
Gautier ecc. lo scrittore si sofferma a indagare i miti e le superstizioni; gli incontri e
gli scontri tra sogno e realtà, tra sogno e ricordo; tra vita e morte; tra vita attuale e
vita precedente: analizzando tali rapporti separatamente nei vari racconti che compongono la raccolta, laddove, negli autori sopra citati, proprio l’osmosi prodotta
dalla commistione di questi elementi, genera quell’atmosfera, di volta in volta, orrida, tenebrosa, magica, onirica: fantastica sempre.
In queste composizioni dell’autore scapigliato si nota piuttosto, l’abbiamo visto,
il tentativo – già attuato nella letteratura francese dopo il 1850 – di conciliare scienza e soprannaturale che instaurano, nella narrativa tarchettiana, un rapporto quasi
simbiotico71: così era accaduto in un precedente racconto L’elixir dell’immortalità72,
che, pur segnando il trionfo del “magico puro”, evidenzia nella figura di Menenio
Agrippa, medico e alchimista realmente vissuto, l’aspetto dello scienziato piuttosto
che quello di uno stregone dotato di poteri straordinari. Così, nei Fantasici, il barone di B. di Uno spirito in un lampone – come già detto – viene liberato della presenza
soprannaturale entrata nel suo corpo non con il ricorso a pratiche esorcistiche, ma
mediante un prosaico (e razionale) ritrovato medico (l’emetico), la cui somministrazione e il conseguente effetto vengono raccontati in una scrittura essenziale e
asciutta che sembra ricalcare non tanto la fine di un racconto, quanto un resoconto
da cartella clinica:
Cfr. B. Stagnitti, Alterità e afasia in Tarchetti.”La lettera U”, in «Studi sul Settecento e l’Ottocento: rivista internazionale di italianistica» n. 1, 2006, pp. 89-93.
69 Cfr l’Introduzione di Anna Modena a I. U. Tarchetti, Fosca e i Racconti fantastici, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2004, (La biblioteca di Repubblica, 54).
70 F. Girelli, Vent’anni di giornalismo, Codogno Tip. Cairo, 1896, pp. 210-217.
71 Sull’originalità del fantastico tarchettiano si è soffermato Piero Pieri nelle pagine introduttive del
volume, da lui curato assieme a N. D’Antuono, I. U. Tarchetti, Racconti fantastici, Millennium, Bologna
2003 in cui si legge: «Tarchetti tenta una rivoluzione copernicana all’interno del fantastico ottocentesco: spostarlo sul terreno della narrazione realista; il più idoneo per fare del mondo fantastico uno
strumento scientifico di analisi scrutante con occhio oggettivo gli sconosciuti principi immateriali attivi fra le segrete pieghe del mondo. Così la realtà naturale non è disgiunta da quella soprannaturale;
va solo conosciuta attraverso la scienza della letteratura /…/ interfaccia dialogante fra la ‘materia’ del
conosciuto e lo ‘spirito’ dell’ignoto” (pp. X, XIV).
72 Questo racconto venne pubblicato una prima volta nel 1865 col titolo Il mortale immortale (dall’inglese)
e ripubblicato nel 1868 col titolo mutato di L’elixir dell’immortalità (imitaozine dell’inglese.)
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Fu data subito al barone di B. una forte dose di emetico che gli fece rimettere i frutti
non digeriti, e lo liberò dello spirito della fanciulla.73
Questa interesse scientifico che connota l’intera sua produzione narrativa è attestato anche dalla curiosità che lo scrittore manifestò per le teorie formulate dal Mesmer74, assertore di quel metodo di cura (che da lui prese il nome di mesmerismo)
imperniato sul magnetismo animale. Tarchetti stesso volle cimentarsi in esperimenti del genere, giungendo – stando al racconto dell’amico Salvatore Farina – ad addormentare la sorella Amalia. Tali esperimenti risalgono al 1867: forse non è un
caso che nel settembre di quello stesso anno fossero pubblicate sul «Pungolo» Le
leggende del castello nero e che tra il ’67 e i primi del ’68 venissero composti gli altri
Racconti fantastici.
D’altra parte, la stessa passione per le scienze, se è un dato generalizzato riconducibile al fervore positivistico dell’epoca che induceva a indagare i più disparati
settori della realtà fenomenica e no, in Tarchetti appare costantemente filtrata attraverso una sensibilità che anticipa alcune istanze che saranno proprie del Decadentismo. Abbiamo visto infatti l’atteggiamento di distaccato agnosticismo che
l’autore ostenta di fronte a eventi di cui è impossibile dimostrare tanto l’assurdità
quanto la verità; egli si limita, in queste occasioni narrative, a registrare il fenomeno, che esiste nella misura in cui vi siano coloro che credono in tale esistenza. Si
noti, ad esempio, come egli si esprimesse, ancor prima della pubblicazione dei Racconti fantastici, a proposito dello spiritismo:
Io vorrei conoscere se coloro i quali, mercé questo mezzo, continuano a convivere in
ispirito coi loro cari, hanno la fede assoluta nella realtà di questa convivenza. Se essi credono, il fenomeno esiste.75
Attuato, dunque, anche il superamento dell’indagine esclusivamente scientifica,
si va facendo strada in Tarchetti la convinzione che l’origine prima di qualsivoglia
fenomeno apparentemente o realmente misterioso vada rintracciata nella nostra
stessa interiorità: compare, in nuce, nello scrittore scapigliato quello che per Binni
sarà determinante per i Decadenti, la scoperta del subcosciente «che anima, svelando i legami sottili delle corrispondenze, il nuovo regno delle sensazioni (non materia, non spirito, ma terzo regno originale e premateriale; prespirituale)»76.
Quella del subcosciente, naturalmente, è una nozione appena abbozzata nello
scrittore, che ancora non ne ha – né può averne – consapevolezza: ed è forse anche da questo che deriva la sua tendenza a caricare di valenze, di volta in volta, ocTarchetti, Uno spirito in un lampone, in Tutte le opere, cit, p. 85.
Franz Anton Mesmer (1734-1815). Medico austriaco, dedito a ricerche sull’ipnosi e sulle attività
paranormali della psiche. Identificò il fluido proveniente dagli astri con la forza magnetica della calamite ed elaborò una teoria secondo cui questo fluido entrava nell’uomo divenendo “magnetismo animale”.
75 Tarchetti, Riccardo Waitzen, in Tutte le opere, cit., I, p. 601.
76 W. Binni, La poetica del Decadentismo, Sansoni, Firenze, (prima edizione 1936), 1968.
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culte, extraumane, paranormali, fatti e situazioni cui qualche tempo dopo la psicanalisi avrebbe dato ben diversa interpretazione.
O forse, la ragione dell’attrazione a tratti morbosa per i risvolti arcani, tenebrosi
persino orripilanti dell’esistenza va individuata, più semplicemente, nelle vicende
biografiche di Tarchetti: lo scrittore, che amava aggirarsi tra i viali dei camposanti e
che sosteneva essere la vita a trent’anni non altro che «un immenso cimitero, sulle
cui tombe noi veniamo a lamentare le gioie dell’esistenza che ci è sfuggita, e
l’aridità dell’esistenza che ci rimane»77, quasi presagiva che la sua esistenza, tormentata da malattie, debiti e amori infelici, avrebbe avuto un epilogo precoce: Tarchetti, nato il 29 giugno 1839 muore il 25 marzo 186978.
Non aveva ancora trent’anni.
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Tarchetti, Lorenzo Alviati, in Tutte le opere, I, p. 562 (e ancora, ivi, a p. 570 «ogni uomo che è giunto a
trent’anni è già sopravvissuto a sé stesso»).
78 Un attacco di tifo mal curato contribuì ad affrettare la fine del giovane scrittore, già malato di tisi.
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