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Il valore intimo dello Spazio

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ringraziamenti
Marco Petreschi e Marcello Pignatelli che hanno speso delle bellissime parole che mi lusingano e mi incoraggiano veramente dal profondo. Marco Petreschi per essere stato una spalla vigorosa che mi ha sostenuto nel corso del XX ciclo di dottorato in Architettura degli Interni
e Allestimento, di cui è stato il coordinatore, e che ha permesso la concretizzazione di questo lavoro. Paola Coppola Pignatelli, un vero e proprio angelo caduto dal cielo, con la quale
ho avuto il privilegio di confrontarmi su queste tematiche indorandole di quella sensibilità che
solo una donna poteva accordare. Grazia che ostinatamente continua a crederci e a commuoversi. Chi mi è, ed è stato, vicino. Tutte le persone da cui ho potuto attingere i frammenti che costituiscono quello che sono.
In Copertina:
Senza Titolo
Grazia Sernia
Maniera nera e rotella su rame
mm 200x870, 2002
Tutti i diritti riservati:
© 2010 Edizioni Kappa, Roma
Via Silvio Benco, 2 - Tel. 06/2793903 - 00177 Roma
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IL VALORE INTIMO DELLO SPAZIO
Massimo Valente
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INDICE
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Prefazione
11
Introduzione
21
Lo Spazio Vuoto
37
Interno Esterno
55
Dal recinto alla corte
77
Giardino e universo
101
Il sistema degli oggetti
131
Lo spazio intimo
161
Bibliografia
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Prefazione
Quante volte un architetto nella sua casa ha modificato la disposizione non solo degli
oggetti in essa contenuti, ma persino gli arredi da lui stesso disegnati? Quante volte
ha rielaborato, rispetto all'idea iniziale dei suoi progetti, infinite nuove soluzioni manipolando e riassemblando le parti componenti degli spazi che andava configurando
nella sua mente?
Se il costruire fosse connesso, nella sua risoluzione finale, a una o più formule matematiche l'esito ultimo non potrebbe che essere uno. Ma così non è, perchè ogni
oggetto, in relazione ad un altro, sprigiona un'energia che fa vibrare tutto il suo intorno e dunque, lo spazio che l'involucra. Pertanto il controllo progettuale di quest'ultimo è estremamente complesso a causa della grande variabilità che presentano le
parti che lo compongono.
Il sistema degli oggetti, ad esempio, occupa un ruolo fondamentale nella composizione architettonica, specie degli interni e, questi oggetti ci dice l'autore, si fronteggiano e giocano un ruolo a volte più morale che spaziale.
Ogni interno con le sue componenti e suppellettili che lo definiscono lega emotivamente e affettivamente gli esseri che lo vivono in quanto questi attribuiscono loro un
valore non solo materico e tattile, ma perfino esistenziale.
Questa modalità è illustrata sulle tracce di un'interpretazione derivata indubbiamente dalla filosofia di Jean Baudrillard, di cui Massimo Valente se ne fa portatore e ne
prosegue gli esiti. Invita così il lettore e perfino l'operatore, a non considerare gli arredi come elementi meramente funzionali, bensì come componenti architettoniche cariche di significati cui vanno attribuiti valori emozionali, affettivi e psicologici.
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Valga per tutti l'esempio nella progettazione dell'uso di mobili antichi (lo studio dei
quali del tutto ignorato nelle scuole di Architettura) che spesso è adottato anche da
grandi architetti che, sapientemente, svincolandosi da tesi funzionaliste, ne comprendono il reale valore emotivo che sono in grado di provocare nell'utente e pertanto li adottano affiancandoli alla loro produzione come strumenti progettuali a compimento del loro lavoro.
I mobili antichi, infatti, secondo l'autore, rappresentano le reliquie di un passato che
non è il nostro, ma hanno la capacità di marcare la nostra esistenza di attaccamento alla vita, prolungandola attraverso la consapevolezza della loro decrepitezza, che
magicamente somma la loro alla nostra età.
Spesso, in alcune pagine del testo, sembra quasi che chi lo ha scritto si lasci trascinare da un'irrefrenabile volontà di attribuire alle componenti d'arredo una sorta di
energia o potere animistico che rischia forse, inconsapevolmente, di porre nel dimenticatoio qualunque valore tecnico o tecnologico indispensabile al corretto compimento del costruire. Certo così non è, conoscendo Massimo Valente che ho avuto il piacere di seguire nei suoi studi all'interno del XX ciclo del Dottorato di ricerca di
Architettura degli Interni e Arredamento da me diretto nel triennio 2004-2007.
Direi piuttosto che questa sua interessantissima ricerca è tesa ad avvalorare un convincimento comune, ovvero, che l'aspetto tecnico della nostra disciplina non può e
non deve mai essere neutrale nel suo svolgersi in quanto consapevolmente o inconsapevolmente si carica di contenuti altri dalla mera routine manualistica e professionale. A conferma di ciò va detto che Massimo fa parte di un equipe che sta progettando un grattacielo a Doha nel Qatar, dunque la sua conoscenza tecnica è più che
elevata. Ed è forse per questa ragione che, scontrandosi giornalmente con i problemi quotidiani del costruire avverte più di altri il desiderio di ricercare ovunque indagando con viva curiosità contenuti e significati nascosti negli interstizi della nostra
disciplina. A somiglianza delle spugne, come lui stesso ci narra nel testo, necessita
costantemente di assorbire, per arricchire il suo sapere, nuove linfe e informazioni.
Ma appena queste sono soddisfatte, esattamente nell'istante successivo della loro
comprensione, si spenge in lui la brama di ricercare ciò che ha acquisito in un settore, per passare immediatamente ad un altro.
E così l'autore riparte per nuove mete ed obiettivi con l'aiuto indispensabile della fantasia che in tal modo si rigenera in continuazione ricreando l'incontenibile desiderio
di esplorare e verificare nuovi itinerari.
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L'arte dei giardini, l'arredo, l'oggettistica, il design, la percezione psicologica e visiva,
perfino lo scavare fin troppo intimistico nelle sensazioni del proprio animo creano in
lui tutti questi infiniti interessi dai quali trae le sue originali ed acute riflessioni. Il tutto
superando caparbiamente le ragioni funzionaliste delle componenti e degli istrumenti del progettare ingegnandosi a dimostrare come questi si trasformino in vere e proprie protesi attraverso le quali manipolare la nostra coscienza e, in un certo qual
modo, ci forniscono, nel vissuto dei nostri spazi, le ragioni e le illusioni di una agognata stabilità. Distinguere dunque il manifestarsi di queste emanazioni vuol dire
svelare l'anima vera delle case e pertanto lo spazio abitato diviene un angolo del
mondo a partire dal quale gli oggetti che lo compongono sono frammenti della nostra
interiorità che si è su di essa cucita nel corso del tempo. La casa dunque, intesa non
semplicemente come spazio interno, bensì come spazio intimo.
Così indagando, attraverso l'interno e l'esterno di tante architetture nel corso del
tempo, l'autore ricuce i tanti esempi illustrati nel testo attraverso una concezione di
spazio assoluto e di spazio relazionale. Tale metodo risente a tratti del pensiero di
Arnheim e in tal modo traccia il suo originale itinerario di ricerca e, tra le tante, indica un'ipotesi suggestiva del comporre architettura ricercandone la qualità attraverso
una serie di concetti legati alla mutevolezza della percezione psicologica che è insita in ogni individuo.
Tale metodo, apparentemente semplice, è svelato gradualmente in modo sommesso, quasi bisbigliandolo al lettore, che scoprirà mano a mano che in architettura,
come in tante altre espressioni dell'anima, non esiste una verità, un centro, ma ne
esistono tanti, infiniti poiché comunque si indaghi, si studi o si ricerchi ci si accorgerà che il centro è in ogni dove l'uomo ricerchi se stesso.
E' indubbio così che ognuno, pur nell'infinita diversità delle varie teorie, avrà il suo
centro.
Per tali ragioni Massimo Valente, con quel suo fare pacato e riverente che lo connota, ci invita a considerare e forse a sopportare tantissime architetture pur se diverse
e contraddittorie tra loro, a patto di rispettarle per trarne insegnamento, in una sorta
di tollerante par condicio.
Il libro rivela dunque, attraverso tanti esempi supportati da una nutrita bibliografia,
l'essenza del suo pensiero, ovvero, il credere che l'architettura sia permeata da una
sorta di relativismo ove ogni uomo o architetto che sia rappresenta un “io” che misura il mondo che lo circonda con una metrica in continua variazione incline più alla
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meditazione che al calcolo. In conclusione possiamo affermare che lo spazio risulta
privo di certezze e si configura come luogo di continue esplorazioni, pur se ammantate da dubbi costruttivi che proiettano in avanti, nel loro evolversi, le mutazioni, le
modificazioni e persino le diverse e contraddittorie interpretazioni della nostra disciplina.
Marco Petreschi
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Introduzione
Il valore intimo dello spazio: nel titolo appaiono incise tre parole chiave, assi portanti di tutto lo scritto.
Lo spazio è il luogo dove opera l'architetto, l'autore del libro, che però, aldilà del
mestiere specifico, si destreggia con abilità e notevole competenza fra antropologia
culturale, filosofia, psicologia, letteratura, musica allegando una scelta di citazioni
significative: da G. Bachelard a C. Levi Strauss, da M. Heidegger a Platone, da I.
Calvino a C. Baudelaire, da U. Eco a M. Foucault, senza trascurare, come d'obbligo
per un addetto ai lavori, immagini e parole dei più famosi architetti dai più antichi ai
contemporanei.
Questa enunciazione bibliografica, che attinge perfino all'Università di Oxford, induce il lettore a servirsi di fonti prestigiose di informazione, ma documenta anche lo
svolgimento dei capitoli nei suoi aspetti complessi e articolati: uno di essi ad esempio si insinua fra "Interno-Esterno", non solo per commentare i luoghi, compresa la
relazione tra edifici, oggetti e persone, ma anche per discutere di solitudine e comunicazione, con riferimenti indiretti ai presupposti freudiani di inconscio, io e super-io,
toccando l'intimità dell'individuo e sfiorando la delicatezza dell'anima per finire nel
disagio esistenziale.
A proposito di "Spazio Vuoto" (è il titolo del primo capitolo) l'autore segnala l'importanza dell'intervallo tra le note musicali, che con questo metodo formano lo spartito
e consentono al direttore d'orchestra l'interpretazione personale del testo, enfatizzando o meno pause e toni.
Il concetto di vuoto rimanda alla frase latina horror vacui - amor infiniti, a sottolinea-
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re una delle nostre antinomie ontologiche. Qui il sottoscritto, esperto in psicologia
analitica, si rivolge a C.G. Jung, quando descrive la strutturale ambivalenza dell'uomo: da questa deriva la sua insicurezza, la tematica del dubbio, che potrebbe cadere nella nevrosi fobico-ossessiva, dove si esige di tenere tutto sotto controllo prima
di muoversi, di prevedere tutte le possibili evenienze, con il risultato di rimanere
immobile per paura di sbagliare, che si traduce in paura di vivere.
Rivolgendosi ai massimi sistemi l'uomo è stretto tra la mancanza di senso (a che
serve questa iniziativa, tutto passa, non sappiamo da dove veniamo e dove andremo a finire) e lo slancio verso quell'assoluto, destinato a fornire sicurezza certa, con
il rischio di subire il vincolo del dogma e di perdere la libertà di pensiero e di scelta.
Jung ricorda l'enantiodromia, così definita dalla saggezza dell'antica Grecia, quando
l'uomo è sbattuto da un esterno all'altro per la dinamica degli opposti, incapace di
raggiungere la coniuctio oppositorum: si tratta invece di assumere il comando della
manovra, di girare la sbarra a destra o a manca, a secondo della circostanza, determinati a raggiungere la mèta; naturalmente non sto parlando di opportunismo, ma di
chiarezza di idee e di forza di volontà, pur consapevoli dei propri limiti.
L'altra parola, che campeggia nel titolo, recita "valore"; termine abusato, omnicomprensivo, così da scivolare perfino in politica (Italia dei Valori). Ma il testo non allude
a significati mondani, come denaro, prestigio tecnico, primato professionale, bensì si
riferisce a coerenza e onestà intellettuale, sostenute da sano ottimismo, da ideali
forti, da sensibilità estetica ed entusiasmo per la vita.
È importante indicare, oltre agli argomenti trattati dal libro, lo stile della scrittura, che
formula accostamenti lessicali con aggettivi e sostantivi plasmati ad arte, innalza
slanci poetici, tesse l'elogio della fantasia; annuncia poi l'avvento della revêrie, che
attiva lo svelamento dei ricordi evidenziandone i più rilevanti nel dolore o nella gioia
e permette di sognare l'impossibile.
Quanto esposto finora non esclude un rigoroso studio sul rapporto dell'uomo con lo
spazio attraverso secoli e millenni: dalla vita nomade a quella sedentaria. Qui l'autore fornisce una serie di esempi, illustrati da fotografie evocative, che non mi consentono un riassunto ed una lettura adeguata; è più prudente citare puntualmente il
testo, evitando le virgolette, che implicherebbero fastidiosi appesantimenti.
L'autore parte dalle origini della specie, dal Paradiso, il primo giardino, di cui non
conosciamo erbe, fiori, frutti. Sappiamo però che lì si sono conosciuti Adamo ed Eva
e risulta che abbiano fatto l'amore, dato che Eva ha partorito Caino e Abele; sulla sto-
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ria dei due fratellini ci viene però fornita una versione alquanto inconsueta: essi non
rappresentano il cattivo ed il buono, il male ed il bene, come sembra suggerire la
Genesi, ma il risultato di una opportuna e paritetica divisione di compiti nella gestione del mondo. Caino infatti si sarebbe occupato dell'agricoltura ed Abele della pastorizia; a Caino, lo stanziale, sarebbe spettata la proprietà di tutta la terra, ad Abele, il
nomade, quella di tutti gli esseri viventi. Di conseguenza il primo sarebbe divenuto
l'homo faber, atto a praticare le neri arti della tecnica, mentre il secondo, l'homo
ludens, era destinato, nell'andare, ad un lavoro che privilegia l'aspetto meditativo ed
intellettuale.
Circa l'andare l'autore ci dice che l'uomo camminando ha costruito il paesaggio naturale intorno a sé ed ha operato due delle fondamentali caratteristiche della composizione architettonica: divide lo spazio - misura lo spazio.
Poi l'uomo stabilisce il limes, il sentiero che fa da confine, traccia il solco, che segna
il limite del raggruppamento sociale; successivamente ruota una semplice pietra da
una posizione orizzontale a quella verticale: i menhir (vedi il meraviglioso allineamento di Carnac in Bretagna, IV-III millennio a.c.) rappresentano la prima costruzione fisica del territorio e insieme la relazione simbolica tra terra e cielo.
Estraggo altri spunti, dove si descrivono e si mostrano con ottime foto i giardini più
svariati (ancora un capitolo del libro), da quelli del Re Sole a Versailles, a Villa D'Este
a Tivoli, ai sinuosi parchi inglesi, per passare ai giardini a terrazze, come illustra il
progetto del Bramante per il Belvedere. C'e davvero tanto materiale da farsi una cultura per chi non è del mestiere.
Uno sguardo va anche al giardino arabo-islamico, che è innanzitutto geometria,
come appare evidente nei giardini dell'Alhambra a Granata, che l'autore accosta al
disegno dei tappeti persiani.
È opportuno osservare il passaggio dal recinto, atto a circoscrivere all'esterno, alla
corte che racchiude all'interno lo spazio aperto, fino ad arrivare ai chiostri medioevali, solidi ricami di architettura, pronti alla preghiera ed al raccoglimento: il sacro si
inserisce e permea tutte le costruzioni attraverso i secoli, dal piccolo al grande; dalla
cella, che nell'antichità accoglieva l'immagine della divinità, dalla Porziuncola d'Assisi
al S. Pietro dei Papi. Nell'arte romana il tempio è al centro del Foro, la sacralità pagana lo investe di luce. In lontananza svettano obelischi e minareti.
Sono molti gli argomenti esposti nel libro, forse troppi perché si fa una certa fatica e
selezionarli e memorizzarli, comunque sempre puntuali ed avvincenti; sono pagine
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non adatte ad essere scorse con superficialità, ma pronte per una consultazione
approfondita.
Adesso entriamo nella casa, nell'intimità, un mondo nel mondo, diversa a seconda
che sia domus (proprietà personalizzata, dominio) oppure aedes (edificio qualsiasi),
home-house: è il luogo della protezione, degli affetti familiari: nei contatti con l'ambiente il soggetto, che abita il suo spazio privato, sbatte contro muri e pareti, che pure
gli sono noti e cari, spalanca le finestre, si rannicchia nell'angolo, che gli consente di
difendersi dal pericolo, perché lui ha le spalle coperte e l'aggressore può presentarsi solo da davanti.
Lo spazio domestico promuove un dialogo con gli oggetti e tra gli oggetti, che ricordano i tempi delle scelte, le emozioni del passato, i cambiamenti nei giochi delle parti
spostando mobili e soprammobili a seconda dello stato d'animo; si può carezzare il
legno levigato caldo o il marmo freddo del tavolo, ricevendo in contraccambio rassicurazione e tranquillità.
Ho evocato sopra l'ombra dell'aggressore, perché nel libro, ricco di arte, di idealismo
e di metapsicologia e deliberatamente dedicato al costruire, non si fa cenno del suo
contrario la destrudo, quel furore distruttivo scatenato dall'istinto di morte, di freudiana memoria, che ha raso al suolo architetture eccelse e sotterrato milioni di esseri
umani. Di Caino, all'inizio dello scritto, si trascura il dettaglio che sembra abbia ucciso il fratello per diventare il padrone unico.
So bene che quest'ultimo punto non rappresenta lo scopo del libro; la mia nota
rischia di essere fuori dal contesto e di avere un sapore politico; ma senza eccedere in riferimenti inopportuni quanto dolorosi ricordiamoci che la guerra c'è sempre
stata perché l'aggressività è insita nell'essere umano: tuttavia si può sperare e si
deve adoperarsi affinché venga controllata e trasformata in forza motrice e creativa;
a proposito è di ieri ground zero, lo spazio vuoto delle torri gemelle. E noi ricostruiamo per la fortuna degli architetti: la fatica di Sisifo.
Dopo questa sparata, fondata sul pessimismo della ragione e sull'età di chi scrive
questa prefazione, dichiaro subito che lo sparo non intendeva e tanto meno avrebbe
potuto uccidere l'immortalità degli architetti sommi, meritevoli dell'apprezzamento
sereno e pacifico del libro.
Quindi chiamo in campo l'ottimismo della volontà per concludere questo breve riassunto, che spero vi induca a leggere il racconto per intero.
Dopo aver camminato a lungo nello spazio esteso e raccolto, desidero accedere agli
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inviti dell'autore e mi colloco in un giardino Zen da lui stesso descritto: in realtà ho
avuto occasione di frequentare quel giardino. Su di un fondo di ghiaia e sabbia sono
disposte in ordine sparso una serie di pietre, intrinsecamente mute: mentre si acuisce l'attenzione e la concentrazione mentale inizia il dialogo di quelle pietre, apparentemente indifferenti e immobili, scambio di silenzi, che animano le pietre. Aleggia
la parola dello Spirito, non quello Santo, ma quello emanato dalla meditazione dell'uomo, che pensando in quell'aura sublime sovrasta il caos, la violenza e l'ansia
della corsa, che ci circonda e ci spinge; verso che cosa??
Marcello Pignatelli
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Cosa significa sapere abitare?
In questa domanda, forse più di ogni altro argomento, è concentrato lo scopo del
libro ma, diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, non vi fornirò una risposta oggettiva, una verità comune, piuttosto delle immagini o degli spunti su cui, se
volete, riflettere; e questo perchè credo che la soluzione ciascuno la dovrà trovare
dentro di sè.
Il libro vuole essere un sistema aperto, un suggerimento bisbigliato, comunicare la
mia interpretazione in merito ad alcune questioni sulle quali ho avuto il privilegio di
soffermare i miei pensieri.
Gli argomenti sono tutti molto complessi e spesso, come cavalli imbizzarriti, sfuggono da tutte le parti, quindi spero sarete comprensivi nei confronti di quelli che
sembrerebbero dati per scontati (perchè non lo sono), e per quelli che sembreranno
non del tutto esaustivi, ma sono certo che chiunque volesse approfondire, può trovare una maggiore scientificità nei testi citati in bibliografia.
Il libro è frutto di una ricerca durata tre anni presso la Facoltà di Architettura "Valle
Giulia", la Facoltà di Architettura “Ludovico Quaroni” ed in parte presso la “Oxford
Brooks University”, e quello che ne consegue è la sintesi di tale ricerca.
Il fine che mi propongo è quello di evidenziare che tra le qualità di uno spazio c'è
quella di incidere sulle caratteristiche psicologiche di un individuo, mi interessa
capire quando questo diventa una stanza, ed al di là dell'aspetto geometrico comprendere qual è, a parità di condizioni fisiche, la differenza tra il pieno ed il vuoto,
qual è il concetto di limite o meglio perché gli oggetti sono limitati, quale è la differenza tra interno ed esterno, quale la differenza tra casa intesa come involucro e la
capacità di qualsiasi luogo di essere casa, per arrivare a definire quale possa essere
il valore di uno spazio intimo in quanto spazio ispirato, luogo in cui sia possibile
parlare a sé stessi e simpatizzare con il nostro essere immensificante.
Saltellando tra un passato ormai molto remoto e la contemporaneità, certo che molte
altre argomentazioni possono essere state trascurate, considerando un campo di
ricerca spesso al di fuori del contesto architettonico, arrampicandomi su specchi
inclinati, tra simbolico e fisico, dal più grande al più piccolo, in una riduzione di
scala che arriva ad analizzare quello che Baudrillard definisce il sistema degli
oggetti, cercherò di dimostrare come questi, al di là di una mera tesi funzionalista,
all'interno della casa divengono dei medium attraverso i quali linkare i nostri stati
d'animo.
La casa allora si espande oltre i confini fisici dello spazio che sottende per divenire
un corpus di immagini che forniscono ragioni ed illusioni di stabilità.
Distinguere queste immagini significa svelare l'anima della casa.
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lo spazio vuoto
A seconda della modalità attraverso la quale prendiamo in considerazione lo spazio, si generano i diversi significati che noi convogliamo in esso.
Da una parte lo spazio sarà considerato come un'entità autocontenuta, un vuoto contenitore senza limiti, così come assunto nel Timeo da Platone, dall'altra, come spazio relazionale, il limite dei corpi, un luogo,
nel modo in cui è inteso da Aristotele nella "Fisica".
Postulato iniziale è quello di considerare lo spazio in termini di relazione.
Da questo punto di vista la modalità attraverso la quale le cose sono organizzate nello spazio determina
la qualità e la struttura dello spazio stesso, in quanto delimitato dalle relazioni che sottendono le cose.
Queste relazioni sono in parte esistenti ma sono soprattutto create dall'uomo per compensare una esigenza di controllo: quella che egli opera sull'ambiente che lo circonda.
La più semplice di queste relazioni è quella che lega un emittente e un ricettore.
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Eppure la tensione che si sprigiona dal loro "inattingibile colloquio" permea lo spazio di una sottile e continua vibrazione. Seppur isolati nella
vasta esplanade gli edifici, infatti, "si lanciano appelli a distanza ".
Gregory P., 1998
1.
Che cos’è lo spazio?
A me è stato insegnato che un bicchiere riempito a metà, a seconda del punto di
vista, può essere considerato mezzo pieno o mezzo vuoto, che una salita se percorsa in senso invero, è un discesa.
A seconda del punto di vista attraverso il quale prendiamo in considerazione le cose
o gli eventi, le stesse cose e gli stessi eventi possono cambiare di significato, pur
mantenendo entrambi la propria validità.
Ecco, questo è uno di quei casi.
A seconda della modalità attraverso la quale prendiamo in considerazione lo spazio,
si generano i diversi significati che noi convogliamo in esso.
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Le due possibili caratteristiche prese in considerazione esaminano lo spazio da una
parte come entità autonoma, autocontenuta, e dall'altra, in termini di relazioni che si
intessono tra gli elementi che lo compongono.
A seconda del modello a cui si farà riferimento potremmo allora parlare di "spazio
assoluto" o di "spazio relazionale".
Questi due modelli derivano direttamente dalle concezioni filosofiche di Platone e
di Aristotele e tutt'ora, a partire dalle definizioni restituite dalla terminologia, come
in una losanga infinita, appaiono a tratti convergenti ed entrambe valide, ed a tratti
divergenti.
Tuttavia esiste una differenza tra lo spazio assoluto e lo spazio relativo, che Rudolph
Arnheim individua come fondamentale ai fini della comprensione delle relazioni che
determinano lo spazio in architettura.
Se infatti consideriamo lo spazio come un vuoto contenitore, questo esisterebbe a
prescindere dagli oggetti in esso contenuti. Tale affermazione si rispecchia nell'assunto newtoniano di una base assoluta di riferimento, rispetto alla quale tutte le
distanze, le velocità o le dimensioni hanno misure parimenti assolute.
Geometricamente ciò corrisponde ad un sistema di coordinate cartesiane, cui si possono
riferire tutte le posizioni, le dimensioni o i movimenti in uno spazio tridimensionale.
Se per esempio non viene dato che un semplice elemento sferico, la sua posizione
spaziale rispetto a tale sistema sarà determinata da tre coordinate indicanti le distanze dallo schema di riferimento.1
Se invece immaginiamo lo spazio come definito a partire dagli oggetti in esso contenuti, come differenza, la sfera isolata in questo sistema tridimensionale non
potrebbe avere riferimenti con altri oggetti e quindi, non avrebbe neppure coordinate spaziali che la possano identificare. Sarebbe appunto un unico centro isolato circondato simmetricamente dal vuoto.
Non c'è un alto o un basso, né sinistra né destra, né dimensione o velocità, e neppure
la distanza terminabile in alcun genere. C'è solo un unico centro, circondato simmetricamente dal vuoto in quanto manca una direzione in qualche modo distinguibile da
un'altra, sicché di conseguenza la nozione stessa di direzione non si presenta affatto.
In questo caso lo spazio è una sfera centralmente simmetrica infinitamente estesa.2
1 ARNHEIM R., The Dynamic of Architectural Form, trad. It. La dinamica della forma architettonica, Feltrinelli,
Milano, 1981, p. 20
2 Ibidem, p. 20
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Diversamente, la sensazione dello spazio, non deriva esclusivamente dalla maniera
in cui ci appare, attraverso la percezione spontanea, ma assume una caratteristica
ben più complessa ed importante di quella di essere un semplice vuoto, di assenza
di materia; questo luogo fluido non è dato di per sè, ma si modifica in funzione delle
relazioni tra gli oggetti naturali o artificiali in esso contenuti, e dalle relative risposte percettive che si generano nella mente dell’osservatore. È fattore dinamico che
soggiace alle relazioni tra gli oggetti e si modifica in funzione di queste.
Da questo punto di vista l'opera dell'architetto sta nella comprensione di tali relazioni e nell'organizzare gli oggetti in maniera tale che questi rispettino la giusta distanza, la distanza critica, che corrisponde a quella che Rudolf Arnheim chiama "densità", intesa come caratteristica degli interspazi che si formano tra gli oggetti.
Se lasciamo da parte l'aspetto puramente fisico, dal punto di vista percettivo scopriremo che essi dipendono da una forte attrazione e repulsione. Gli oggetti che sembrano troppo vicini l'uno all'altro manifestano una repulsione reciproca: essi vogliono restare lontani.
Wolfsburg, Germania, Parque de Castello, 2004 Topotek1, (foto di Hanns Joosten)
L’architettura è fatta di limiti; lo spazio che le cose sottendono non è legato esclusivamente alla loro forma
geometrica, ma è il risultato di un insieme di forze che agiscono, come in un campo magnetico, sia in
attraziane che in repulsione. Il colore può enfatizzare o meno tali proprietà.
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Codici di geometria esistenziale, Franco Battiato, Gli Uccelli
Le sedie sono compresse tra due edifici nello
spazio lasciato libero dall’architettura ed invertono il loro ruolo ordinario che le vede come
oggetti di sostegno dell’uomo; occupano lo spazio dell’uomo rendendolo inaccessibile e generando un volume.
Doris Salcedo. Ottava Biennale di Instanbul 2003
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A una distanza un po' più grande l'intervallo può rivelarsi quello giusto, oppure gli
oggetti possono sembrare attirati l'uno all'altro.
Questo spazio vuoto soggiace quindi ad una specie di forza di gravità che agisce in
maniera indifferenziata, sia in attrazione che in repulsione.
Tale forza è quella che non permette agli oggetti di toccarsi, essendo tale distanza,
questa densità, quella che determina, procedendo dall'interno verso l'esterno o viceversa, l'intervallo fra i quadri sulla parete, o la disposizione dei mobili in una stanza o le giuste distanze tra gli edifici isolati, come nel caso della Piazza dei Miracoli di Pisa.
Quadri, mobili od edifici, possono essere considerati come un piccolo centro gravitazionale e la qualità dello spazio che essi definiscono, è determinata dalla distanza
tra essi intesa come equilibrio, come giusta relazione che si instaura tra i vari elementi del sistema.
È la "bolla " come definita dalla prof.ssa Paola Coppola Pignatelli, o le norme prossemiche su cui Edward T. Hall richiama l'attenzione riferendosi alle connotazioni
psicologiche e sociali delle distanze spaziali nei rapporti quotidiani interpersonali.
Ognuno di noi infatti, ha un proprio spazio di azione, un’aura all'interno della quale
nessuno può entrare se non con il nostro implicito consenso.
Allo stesso modo, gli oggetti trovano la loro essenza in questo fluido invisibile,
luogo aristotelico, esistono all'interno del mondo in cui sono inseriti, in uno spazio
che gli appartiene per diritto di nascita e che, proprio in virtù di questo diritto, porta
con sé quella distanza minima che ne conferma la propria indipendenza; quella che
permette di non confondersi con gli altri oggetti che sono tra loro vicini.
E' come se “dietro ogni cosa o creatura, quando vorrebbe accostarsi a un'altra, c'è un
elastico che si tende. Se no le cose potrebbero magari confondersi tutte. E in ogni
movimento c'è un elastico che non ti lascia mai fare proprio tutto quello che vorresti”.3
La modalità attraverso la quale le cose sono organizzate nello spazio, determina la
qualità e la struttura dello spazio stesso, in quanto confinato dalle relazioni sottese
dagli oggetti che lo compongono. La giusta distanza è una delle qualità dello spazio,
ed è una forma di rispetto del nostro baricentro magnetico, meravigliosamente rappresentato dalle nuvole dinamiche degli stormi in migrazione.
E’ il giusto equilibrio.
Se ci soffermiamo ad analizzare l’immagine del calice con i due volti in negativo, ci
accorgiamo di come la percezione si modifichi in funzione della distanza tra i profili.
Questa operazione, che viene fatta nel caso specifico lavorando sul rapporto figura
3 MUSIL ROBERT, L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1957, p.382
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Ogni elemento viene analizzato sotto
il profilo psicologico e la relazione
percettiva sarà essenzialmente quella fra l’osservatore e l’oggetto osservato. Di qui la definizione di spazio,
che non è più “assoluto”, dato di per
sé, ma la cui esistenza è verificata soltanto in presenza di cose percepibili,
che permettono di introdurre i concetti di dimensione, distanza e connessione lineare. In architettura esso è
creato da una particolare costellazione di oggetti naturali o artificiali alla
quale l’architetto reca il suo contributo determinando un proprio sistema
spaziale, che è il prodotto del più
semplice scheletro strutturale compatibile con la situazione fisica e psicologica: «Ogni edificio è per se stesso
una costellazione, e la suddivisione si
spinge fino all’arredamento di una
singola stanza, nella quale tavoli,
armadi o letti propongono un particolare sistema spaziale». Ne discende
il concetto di interspazio come densità, distanza che stabilisce un particolare rapporto di lontananza e di collegamento, influendo sull’insieme del
complesso architettonico non solo
dal punto di vista metrico, ma in termini di dinamicità, quasi come forze
di attrazione e repulsione. È ovvio che
il vuoto non è semplicemente connesso all’assenza di materia; uno spazio privo di costruzioni può essere nondimeno pervaso da forze percettive
e pieno di densità, che possiamo
chiamare sostanza visiva.
ARNHEIM R., The Dynamic of
Architectural Form, trad. It. La dinamica della forma architettonica
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Piazza dei Miracoli, Pisa. Complesso del Duomo, Battistero e
Torre. A seconda del punto di vista è la torre che può sembrare dritta.
Oscar Niemeyer, Il congresso nazionale brasiliano, a Brasilia
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sfondo, non è diversa da quella che può avvenire nell’ambito spaziale. Alla giusta
distanza si genera un equilibrio che non comporta gerarchie dal punto di vista percettivo, tanto da rendere valida sia la visione dei volti che la visione del calice. Se si elimina uno dei due elementi è evidente che il sistema decade e non si percepisce altro
che uno dei due volti di profilo. Anche variando il rapporto tra figura e sfondo la
gerarchia percettiva non cambia, sia che il calice sia in bianco, sia se il calice sia in
nero. Al variare della distanza ci accorgiamo di come, snaturata nel nostro bagaglio
culturale la visione del profilo del calice in quanto eccessivamente dilatata, nel sistema si genera una gerarchia che privilegia la percezione dei profili di un volto.
Analogamente variando il rapporto di vicinanza ed attraverso una operazione di
ripetizione dello stesso elemento l’immagine che ne deriva è quella di un porticato
o di una serie di archi perdendo il riferimento con entrambe le figure di partenza.
Quindi è la relazione di vicinanza o di lontananza che influisce sull’aspetto percettivo dello stesso elemento.
Dal momento che lo spazio viene percepito in funzione della relazione che gli oggetti instaurano tra loro e con noi stessi, è opportuno anche soffermarsi sulle dinamiche
attraverso le quali la mente percepisce queste relazioni. Uno spazio privo di oggetti
è infatti, per certi versi, una contraddizione in termini, in quanto la percezione di
esso si verifica solo in presenza di cose percepibili; è la sostanza che appare per
mezzo della luce.
2.
Come dice Perec, “lo spazio è ciò che arresta lo sguardo, ciò su cui inciampa la
vista, se (lo sguardo) non incontra niente, non vede niente”; è quindi definito a partire dalle cose percepibili, e necessita evidentemente che dall'altra parte ci sia un
ricettore, che è il soggetto percepente. La maniera attraverso la quale la mente recepisce le informazioni che attinge dall'esterno, avviene per mezzo di sinapsi semplici che progressivamente aumentano il grado di complessità del sistema.
La più semplice forma di organizzazione della struttura mentale è quella che determina la relazione tra due punti, che secondo il principio di semplicità della Gestalt è di
tipo lineare: considerati due punti, in quanto minima struttura spaziale, non solo la
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La nostra esigenza di determinare relazioni è così dirompente da consentire alla mente di collegare per mezzo
di rette dei punti (le stelle) che si trovano ad anni luce di distanza nell’infinito esteso creando delle geometrie
universali inesistenti che costituiscono il linguaggio virtuale dell’intelletto.
Grafico di Munari tratto dal libro Design e
Comunicazione visiva che illustra le possibili
modalità attraverso le quali la mente filtra le informazioni
recepite
dal
mondo
esterno
Illusioni ottiche
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relazione tra questi è di tipo lineare, ma virtualmente, la mente ne ricostruisce la retta
invisibile che li sottende. In un progressivo aumento di complessità, la mente riconosce anche ciò che non vede, privilegiando nel processo di ricostruzione, una consonanza di immagini estratte dal cilindro della propria memoria. La ricerca di queste immagini avviene per gradi di similitudine mettendo a sistema le figure più prossime rispetto ai nostri livelli di conoscenza esperenziale, privilegiandone alcune rispetto ad altre.
L'uomo vede ciò che sa. O meglio l’uomo riconosce ciò che conosce.
La nostra personalità è soggetto che si costruisce a partire dalle informazioni che la
mente recepisce dall'ambiente esterno; le incamera, le cataloga, per poi rielaborarle
attraverso un processo che deriva direttamente dalla modalità attraverso la quale ci
siamo cuciti addosso tali esperienze nel corso della nostra esistenza, secondo l'assunto di Worsworth per il quale "il bambino è il genitore dell'uomo".
In base a queste considerazioni è evidente che la mente può riconoscere solo quello
che apprende, ed esclude, di conseguenza, una realtà ugualmente e potenzialmente
valida, attraverso un processo di ri-organizzazione delle nostre esperienze precedenti.
Queste esperienze sono le nostre radici, distinguono le nostre esistenze, e ci permettono una personale interpretazione dello spazio in quanto risposta culturale della
nostra conoscenza all’apparenza del mondo. Nella fantasia dell’autore del “Piccolo
Principe” l’immagine di un serpente che ha mangiato un elefante demolisce tutti i filtri culturali che ci siamo o ci hanno imposto non consentendo di rendere credibile tale
figurazione e, di conseguenza, la nostra risposta culturale non ci restituisce altro che
la visione della sagoma di un cappello. Di converso siamo in grado di riconoscere le
figure di una mongolfiera o di un pinguino nella conformazione di uno stormo di
uccelli in volo, allo stesso modo in cui riconosciamo immagini che neppure esistono, se non disegnate in maniera fittizia nella nostra mente a partire dagli elementi che
le circoscrivono, come nel caso dei triangoli in negativo, fino a sperimentare i limiti
della nostra percezione nella deformazione cinetica di linee che appaiono curve ma
che invece sono parallele.
Quante volte riconosciamo in oggetti, edifici, automobili, l’immagine antropomorfa
di un volto umano?
Siamo noi che attribuiamo un senso alla realtà che di per sè è sempre la stessa.
Immagine illusoria di un cappello che cela la sagoma di un serpente che ha mangiato un elefante
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Immagine antropomorfa di un volto
umano enfatizzata dall’espressione
di stupore e dal profilo in ombra
che sottolinea la sagoma del naso.
Giardino Ryoan ji, Kyoto
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3.
Ma da dove nasce questa esigenza di dare alle cose un significato?
Come può incidere sulla qualità dello spazio?
Se per esempio prendiamo in considerazione una serie di pietre, costituenti i giardini zen, disposte su un fondo di sabbia o di ghiaia, estrapolate dal loro contesto, non
sono altro che semplici sassi, e non possiedono quindi particolari valori intrinseci.
Ma se le analizziamo dal punto di vista dialettico, in relazione, queste pietre determinano nella loro disposizione un ulteriore elemento, esterno da esse, capace di conferire loro un significato altro, frutto della loro particolare combinazione.
Lo spazio vuoto diventa lo strumento attraverso il quale tali oggetti, intrinsecamente muti, acquisiscono significato attraverso le relazioni che tra essi si attuano, creando non nuovi oggetti ma nuove relazione tra oggetti, uniche ed irripetibili, la cui
identità è somma di identità.
“Tutto ciò che esiste, tutto ciò che cresce è il risultato di un'inspiegabile e assolutamente misteriosa cooperazione di fattori eterogenei […] Forze contrastanti, anzi
escludentesi a vicenda, si combinano nella creazione di un nuovo stato".4
Yann Tiersen, Sur Le Fil
4 PIANKOFF A., Mithological Papiry, New York, 1957, p. 29
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Se prendiamo in considerazione una composizione musicale, la pausa, rappresenta
lo spazio vuoto tra due note; una nota muta, l'intervallo che ne identifica la durata.
In mancanza di tale intervallo non potrebbe esservi composizione risultando questa
o come una nota assoluta, una singola nota continua, oppure come un silenzio assoluto, una singola pausa continua.
La pausa è la caratteristica di quella che è stata precedentemente definita la densità.
“Nelle composizioni musicali, se noi ascoltiamo solo note non udiamo musica:
l'ascolto della musica si basa sul riconoscimento dell'intervallo fra le note, della loro
disposizione e della loro spaziatura”.5
È l'intervallo fra le note che definisce il ritmo e la melodia, che è ciò che caratterizza una composizione musicale da un'altra. Ed è in funzione di come tali intervalli,
questi spazi vuoti o note mute, sono tra loro organizzati che è possibile, attraverso
l'utilizzo di solo sette elementi, creare una infinita possibilità di variazioni.
Allostessomodoincuilaprosodiaorganizzapermezzodegliaccentiedellepauselastrutturadiuntestolintervalloscandisceiritimidellaletturaefornisceunainterpretazioneoggettivadiunraccontochealtrimentirisulterebbeincomprensibile.
Ecatepec Città del Messico, Messico, 2006 Foto di Scott Peterman.
L’intervallo può essere inteso anche come interruzione di un sistema. La totale mancanza di diversificazione
rende praticamente impossibile riconoscere una casa dall’altra. Isobare immobiliari. Niente di più sociale che
il monotono e ripetitivo ritmo cromatico e formale.
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Lo spazio vuoto da questo punto di vista, si identifica come il filo di sutura che lega
ciò che è di per sé indipendente, e ciò che ne determina il valore è il modo attraverso cui "ciò che non c'è" viene percepito.
Ed è questo elemento, questa giusta distanza che è venuta spesso a mancare nella
nostra epoca, per ragioni molteplici, tali da causare ed aver causato danni psicologici, sociologici, estetici, di cui siamo le vittime.
Se prendiamo come esempio un qualunque centro storico italiano, la modalità
aggregativa delle abitazioni non ha nulla a che vedere con lo spazio lasciato libero
tra gli edifici di una qualsiasi periferia urbana progettata secondo la matematica dei
numeri dell’urbanistica. Distanze prive di personalità.
Si tratta allora di recuperare la capacità, o meglio la coscienza, di una capacità diastematica, di riappropriopriarsi della abilità di controllo di questi intervalli, la cui
peculiarità è di enfatizzare l’identità delle cose che delimitano, restituendo loro la
giusta dignità.
Diastema significa appunto, qualcosa che separa due eventi, due oggetti, due note
(come nel caso della musica); ed è proprio una situazione adiastematica o antidiastematica, di assenza di intervallare, quella contro la quale ritengo si debba reagire.
Quell'aspetto di separazione, di pausa, di interruzione, capace di evidenziare determinati elementi - non solo in campo artistico - è stato sempre presente in maniera spontanea nel corso delle diverse età. […]6
Se gli intervalli vengono visti solo come spazi morti, vuoti, non vi sarebbe alcun criterio
per preferire una distanza ad un'altra al di fuori delle considerazioni di ordine pratico.
Solo in questo caso lo spazio può essere considerato un vuoto, in quanto prescinde
da qualsiasi tipo di rapporto di reciprocità, e il vuoto in questo senso è quindi una
mancanza di rapporti.
L'intervallo è invece la struttura che definisce la qualità dello spazio per mezzo della
modalità con cui le cose sono in esso organizzate.
Si ha un bel riunire trenta raggi in un mozzo,
l'utilità della vettura dipende da ciò che non c'è.
Si ha un bel lavorare l'argilla per fare vasellame,
l'utilità del vasellame dipende da ciò che non c'è.
Si ha un bell'aprire porte e finestre per fare una casa,
l'utilità della casa dipende da ciò che non c'è.7
5 ALBERS J., Interazione del colore, Edizioni Pratiche Editrice, 1971
6 DORFLES G., L'intervallo perduto, Einaudi, Torino, 1980
7 TAO TE CHING, il libro della via e della virtù, Milano, 1973
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interno esterno
Le relazioni che l'uomo instaura con il suo habitat costituiscono una forma di lettura del territorio che attraverso la conoscenza dello spazio che lo circonda, non è altro che una forma primaria di controllo.
Questa esigenza di controllo si tradurrà, nel corso del tempo, in quella che è definibile come una delle
principali attività dell'uomo: quella di limitare lo spazio.
La consapevolezza di sé è il primo passo per la definizione di uno spazio interno, quello dell'io, inteso come
coscienza del mondo come esterno da sé.
La prima forma di costruzione simbolica del territorio, prima che fisica, è individuata per mezzo dell'azione
del camminare, azione che è simultaneamente una forma di lettura e scrittura del paesaggio.
Attraverso l'azione del camminare l'uomo opera due fondamentali caratteristiche della composizione
architettonica: divide e misura lo spazio.
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Siamo in una pianura; la catena dell'Himalaya chiude magnificamente il
paesaggio a Nord. La più piccola costruzione appare imponente […] il
problema ottico divenne decisivo quando bisognò determinare la posizione dei palazzi. Si fecero costruire dei pali […] si tentava una prima
occupazione del terreno. Gli angoli dei palazzi furono indicati con dei
pali bianchi e neri. Ci si accorse che gli intervalli tra gli edifici erano troppo larghi. Con grande ansietà e angoscia bisognò prendere una decisione su questo terreno illimitato […] non era più un problema di ragionamento ma di sensazione. Chandigar non era una città di podestà, di principi o di re rinchiusi nelle mura e di vicini ammucchiati l'uno sull'altro.
Bisognava occupare la pianura. […] punto giusto, distanza giusta.
Le Corbusier, 1974
1.
Perchè l’uomo possiede l’innata esigenza di limitare lo spazio?
Le relazioni che l'uomo instaura con il suo habitat, se spogliate di tutti gli elementi
di disturbo ai quali soprattutto oggi siamo sottoposti, costituiscono essenzialmente
una forma di lettura del territorio che assurge ad una atavica necessità di controllo
che, attraverso la conoscenza dello spazio intorno, non è altro che una forma primaria di protezione.
Questa esigenza di controllo si tradurrà, nel corso del tempo, in quella che è definibile come una delle principali attività dell'uomo: quella di limitare lo spazio.
Essendo egli stesso il tramite di tale relazione, questo limitare si traspone in una
forma di miniaturizzazione del mondo, il cui fattore di scala è il suo proprio corpo.
Quali sono le dialettiche attraverso le quali l’uomo attua questa forma di limitazione?
La storia dell'architettura ci ha consegnato nel corso del tempo degli strumenti,
archetipi, attraverso i quali abbiamo imparato a distinguere le forme contenute nello
spazio, a limitarle, a partire dai dati sensibili della loro fisicità; muri, confini, recinti, elementi puntali o lineari, piani verticali o orizzontali, superfici, segnali artificiali o naturali, un semplice filare di alberi, lo skyline di una montagna o la linea di
frangia della battigia; tutto ciò contribuisce ad arginare lo spazio attraverso i limiti
imposti alla nostra percezione visiva.
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[…] Onde
Cioè … vedete lì, dove l'acqua arriva … sale sulla spiaggia poi si ferma … ecco,
proprio quel punto, dove si ferma … dura proprio solo un attimo, guardate ecco, ad
esempio, lì … vedete che dura solo un attimo, poi sparisce, ma se uno riuscisse a
fermare quell'attimo … quando l'acqua si ferma, proprio quel punto, quella curva …
è quello che io studio. Dove l'acqua si ferma.
E cosa c'è da studiare?
Bè, è un punto importante … a volte non ci si fa caso, ma se ci pensate bene lì succede qualcosa di straordinario...[…]
Lì finisce il mare.
Il mare immenso, l'oceano mare, che infinito corre ogni sguardo, l'immane mare
onnipotente - c'è un luogo dove finisce, e un istante - l'immenso mare, un luogo piccolissimo e un istante da nulla.[…]
La natura ha la sua perfezione sorprendente e questo è il risultato di una somma di
limiti. La natura è perfetta perché non è infinita. Se uno capisce i limiti, capisce
come funziona il meccanismo. Tutto sta nel capire i limiti. Prendete i fiumi, per
esempio. Un fiume può essere lungo, lunghissimo, ma non può essere infinito.
Perché il sistema funzioni, deve finire. […]
Per dire: una foglia di un albero, se voi la guardate per bene, è un universo complicatissimo: ma finito. […]
Sono studi faticosi, e anche difficili, non si può negarlo, ma è importante capire.
Descrivere. L'ultima voce che ho scritto è stata tramonti. Sapete, è geniale questa
cosa che i giorni finiscono. I giorni e poi le notti. E di nuovo i giorni. Sembra scontato, ma c'è del genio. E là dove la natura decide di collocare i proprio limiti, esplode lo spettacolo. I tramonti. […]
Così sono arrivato al mare. Il mare. Finisce, anche lui, […]1
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La natura stessa è di per sé il risultato di una somma di limiti", somma di identità
eterogenee, un continuo cominciare e finire, di giorni e di notti, equinozi e solstizi.
Il concetto di limite è insito nella struttura stessa delle cose, nel loro essere al tempo
stesso confine e forma; “il segreto della forma sta nel fatto che essa è limite: essa è
la cosa stessa ed al tempo stesso il cessare della cosa, il territorio in cui l’essere ed
il non-essere-più della cosa sono una cosa sola”.2
Siamo quindi circondati da una moltitudine di cose limitate, e questa loro limitatezza non può che facilitare il nostro bisogno di controllo che è talmente forte da permettere alla mente di riconoscere limiti anche laddove questi non siano fisicamente
percepibili; infatti siamo in grado di riconoscere la figura di un triangolo anche se
non materialmente disegnato; siamo in grado di chiudere l’immagine di un cerchio
anche se abbozzato nella figura di un arco.
Analogamente altri sistemi ci permettono di tracciare dei confini spesso immaginari,
sistemi fitti fitti di reti, caratterizzate da punti, e linee che congiungono i punti, tracciati che determinano una divisione tra due zone od interi territori; sistemi di relazioni interpersonali, i cui legami, prima che fisici, costituiscono un circuito di ragnatele,
di rapporti intricati, anch'essi alla ricerca di una forma o di una propria identità.
A Ersilia, per stabilire i rapporti che reggono la vita della città, gli abitanti tendono i
fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri o grigi o bianco-e-neri a seconda se segnano relazioni di parentela, scambio, autorità, rappresentanza. Quando i fili sono tanti
che non ci si può più passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case vengono smontate, restano solo i fili e i sostegni dei fili […]
Così viaggiando nel territorio di Ersilia incontri le rovine delle città abbandonate,
senza le mura che non durano, senza le ossa dei morti che il vento fa rotolare: ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma.3
Se la nostra esigenza di controllo è talmente forte da consentire alla mente di ricostruire confini che sono spesso psicologici, è perchè è anzitutto un bisogno emotivo, quello di sentirsi in un interno , che condiziona primariamente la costruzione psicologica di uno spazio che procede per diversi gradi di complessità a partire dalla
relazione simbolica che l'uomo assume nei confronti del proprio habitat.
L'uomo è l'inizio di questo processo di ri-costruzione del mondo, punto di quella
retta che, attraverso l'azione del camminare, diventerà quella prima linea tracciata
1 BARICCO A., Oceanomare, Rizzoli, Milano, 1993
2 SIMMEL G., La Metafica della Morte, per la citazione di Simmel e per approfondimenti di questa tematica, si
rimanda al corso di e-learning "Links and Boundaries" curato dalla prof. arch. Paola Coppola Pignatelli.
3 CALVINO I., Le Città invisibili, Einaudi, Torino, 1972
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sulla terra, quella linea che a breve, sarebbe divenuta superficie.
Prima di arrivare a costruirsi uno spazio all'interno nel senso fisico del termine, l'uomo deve essersi costruito un proprio spazio interno in maniera simbolica.
Durante le migrazioni o semplicemente nel corso del vagare alla scoperta del territorio, l’uomo deve aver inizialmente ricercato negli elementi naturali i riferimenti
che gli garantissero il riconoscimento della strada percorsa, un pò come avveniva
nella storia di Charles Perrault, Le Petit Poucet: si lasciava dietro delle tracce.
Solo in un secondo momento, ed a causa della mutevolezza dell’habitat naturale,
l'uomo diverrà il protagonista della costruzione fisica di un mondo entro un mondo
al quale egli reca il suo personale contributo, che è funzione del livello culturale
della società alla quale appartiene, ed all'interno del quale, le relazioni che egli intesse con esso, tendono a significare un valore piuttosto che un altro.
In principio era sufficiente la sola presenza dell'uomo a rendere lo spazio denso di
significati. È lui che attraverso l’azione del camminare riconosce all’interno del paesaggio gli elementi scelti dalla direzione del suo sguardo e così facendo popola lo
spazio di una serie di relazioni tra questi riferimenti che di conseguenza vivono di una
nuova esistenza che va al di là del loro scopo specifico; si permeano di nuovi significati, si animano del suo interesse mutando la loro statica ed indifferente esistenza.
"Maybe the zone is a very complex system of tolls... I have no idea what goes on here
in the absence of man. But as soon as someone arrives everything goes haywire... the
zone is exactly how we created it ourselves, like the state of our spirits... but what is
happening, that does not depend on the zone, that depends on us."4
Prima del neolitico non esisteva alcun segno che l'uomo avesse introdotto artificialmente nel territorio al fine di ricostruire quell'ordine artefatto che distingue uno spazio che potremmo definire irrazionale da uno di tipo razionale.
Lo spazio irrazionale è uno spazio autoreferenziato, che basta a sé stesso in quanto
manca di quelle relazioni che un soggetto esterno è in grado di conferirgli, ma che
le possiede in maniera latente, potenziale, è natura allo stato puro.
Lo spazio razionale è quello in cui è il soggetto che inizia ad instaurare delle relazioni tra gli elementi che lo costituisco, e a definire, a partire da queste, un sistema
al quale attribuire dei valori.
Nel momento in cui l’uomo inizia a popolare lo spazio con gli oggetti situati, quan4 La zona è forse un sistema molto complesso di insidie, ... non so cosa succede qui in assenza dell'uomo, ma non appena
arriva qualcuno, tutto comincia a muoversi ... la zona in ogni momento è proprio come l'abbiamo creata noi, come il nostro
stato d'animo ... ma quello che succede, non dipende dalla zona, dipende da noi. Stalker regia di A. Tarkovskij, 1979
5 LE CORBUSIER, Vers une architecture, Flammarion, Paris, 1926
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do introduce una serie di segnali artificiali, amplifica la lettura del territorio e per
mezzo di queste nuove relazioni dichiara la propria identità nei confronti del mondo,
trovando in esso un proprio posto, ed al tempo stesso queste nuove relazioni costituiscono un atto attraverso il quale avviene la conoscenza del proprio habitat, dei
pericoli che esso cela, delle eventuali vie di fuga.
L'uomo assume così, il controllo di una porzione di mondo, conseguenza di una
innata necessità di protezione, che è senso profondo di attaccamento alla vita.
L'uomo rappresenta in questo sistema uno dei due punti di quella retta a partire dalla
quale tracciare un percorso, che, conformemente alla morfologia del territorio, lo
collegherà con il fiume o con il resto dei membri della tribù, divenendo solco.
L’uomo primitivo ha fermato il suo carro, decide che sarà qui il suo posto. Sceglie
una radura, abbatte gli alberi troppo vicini, spiana il terreno intorno; apre il cammino
che lo collegherà al fiume o a quelli della tribù appena lasciata; pianta i picchetti che
fisseranno la tenda. La circonda con una palizzata in cui ricava una porta. Il cammino è rettilineo quanto gli permettono i suoi strumenti, le sue braccia, il tempo. I picchetti della tenda descrivono un quadrato, un esagono, un ottagono. La palizzata
forma un rettangolo con quattro angoli, uguali, retti. La porta della capanna si apre
sull’asse del recinto e la porta del recinto sta di fronte alla porta della capanna.5
Questa linea incarna il significato di separazione ed al tempo stesso di collegamento; la stessa linea, in un sistema successivo a tre incognite, genererà nella forma pura
del triangolo, il più semplice grado di definizione di uno spazio chiuso.
E non è un caso che un ideogramma sumero rappresenti lo spazio cintato di un giardino nella forma naturale di un poligono con tre vertici e con un albero al centro.
Shibboleth, termine di origine biblica, è utilizzato per escludere qualcuno da un gruppo, è la frattura del mondo moderno
Doris Salcedo . Tate Modern
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La linea rappresenta il primo segno di divisione di un territorio, ne è il limite ed al
tempo stesso il percorso; coerentemente con il proprio significato etimologico, limite, derivato dal latino limes, voleva dire "via traversa e sentiero che fa da confine".
Solcare il terreno è un gesto primitivo che ancora oggi usiamo per disegnare i contorni di una figura sulla sabbia allo stesso modo in cui i nostri antenati rappresentarono effigi sull'argilla di una grotta; è un gesto spontaneo di limitazione dello spazio, che non deve essere stato molto diverso da quello stesso gesto che i nostri progenitori devono probabilmente aver compiuto per identificare in terra il luogo in cui
sarebbe dovuto sorgere un muro, ed ancor prima ha rappresentato il modo in cui
domare le acque per irrigare i campi spostando la vita ove fosse necessario.
Predecessore dei nostri spiccati, il solco, divisione bidimensionale, quando interrotto segnalava sul terreno il punto in cui sarebbe dovuta sorgere una porta.
Come la linea rappresenta al tempo stesso il limite e il collegamento, la porta rappresenta la dicotomia tra interruzione ed attraversamento.
La linea del solco prodotto dall'aratro segnava i limiti della città, ed al tempo stesso
nella sua interruzione il punto a partire dal quale segnalare l'accesso ad essa.
2.
Prima ancora però di operare il primo gesto consapevole di costruzione fisica e geografica del territorio (quello della rotazione di una semplice pietra), l'uomo possedeva una forma simbolica attraverso la quale comprendere e trasformare il paesaggio:
il camminare.
Attraverso l'azione del camminare, l'uomo disegna il territorio con linee virtuali
scandite dalle proprie scelte in merito all'orientamento, o con segnali concreti sul
terreno, lasciati dai solchi del proprio tragitto.
Prima del neolitico, l'unica architettura simbolica capace di modificare l'ambiente
era il camminare, un'azione che è simultaneamente atto percettivo e atto creativo,
che è contemporaneamente lettura e scrittura del territorio.
La necessità biologica di cercare il cibo deve essere stata una delle principali motivazioni che hanno spinto l'uomo, da una posizione di centro immobile, verso una
direzione, azione in potenza che, in maniera inconsapevole, trasforma simbolicamente il paesaggio per mezzo della linea che sottende un predeterminato punto di
riferimento che appartiene a quella retta che diviene tracciato del suo percorso.
Questa linea, che implica una scelta del cammino verso una determinata direzione,
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divide in due il territorio, attuando la prima separazione simbolica di due spazi.
“È camminando che l'uomo ha cominciato a costruire il paesaggio naturale che lo
circondava.”6
La sola presenza fisica dell'uomo in uno spazio, implica una trasformazione del
luogo e dei suoi significati.
La sola presenza fisica dell'uomo in uno spazio non mappato, ed il variare delle percezioni che ne riceve attraversandolo, è una forma di trasformazione del paesaggio
che, seppure non lasci segni tangibili, ne modifica culturalmente il significato, trasformandolo in un luogo.
Camminare produce luoghi. "Il percorso è stato la prima azione […] che ha penetrato i territori del caos costruendovi un nuovo ordine sul quale si è sviluppata l'architettura degli oggetti situati".7
Attraverso l'azione del camminare l'uomo inconsapevolmente opera due delle fondamentali caratteristiche della composizione architettonica:
divide lo spazio
misura lo spazio
Attraverso l'azione del camminare l'uomo determina dei tracciati, classifica l’ambiente, lo nomina attraverso gli eventi che esso gli fornisce ed al tempo stesso lo
misura attraverso i propri passi, che derivano dalla conformazione del suo stesso
corpo. Gli eventi che gli si presentano nel corso del suo cammino sono i punti visibili o invisibili, fissi o mutevoli, a partire dai quali costruire una mappa geografica
costituita da segni anch'essi visibili o invisibili ed in continua evoluzione, e che di
conseguenza necessitavano di una grande abilità nel loro riconoscimento, vettori che
collegano aspetti di per sé privi di valori intrinseci; "la mappa è un vuoto dove i percorsi connettono pozzi, oasi, luoghi sacri, spazi buoni per il pascolo".
“La capacità di saper vedere nel vuoto dei luoghi e quindi di saper dare i nomi a questi luoghi è una facoltà appresa nei millenni che precedono la nascita del nomadismo.
La percezione/costruzione del paesaggio nasce infatti con le erranze condotte dall'uomo nel paleolitico. Se in un primo periodo gli uomini possono essersi serviti
delle piste aperte nella vegetazione dalle migrazioni stagionali degli animali, è probabile che da una certa epoca in poi abbiano cominciato essi stessi ad aprire nuove
piste, ad imparare ad orientarsi con riferimenti geografici, ed infine a lasciare nel
6 CARERI F., Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einauidi, 2006, p. 3
7 Ibidem, pp. 3 e ssg.
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paesaggio alcuni segni di riconoscimento sempre più stabili. La storia delle origini
dell'umanità è una storia del camminare, è una storia di migrazione di popoli e di
scambi culturali e religiosi avvenuti lungo i tragitti intercontinentali. È dalle incessanti camminate dei primi uomini che abitarono la terra che si deve l'inizio della
lenta e complessa operazione di appropriazione e di mappatura del territorio.”8
È il walkabout, descritto da Bruce Chatwin in "The Songlines", che disegna un sistema di percorsi che rappresentano la mappatura del territorio australiano. Ogni montagna, ogni fiume, ogni landmark naturale del territorio appartiene ad un sistema di
storie/percorso che intrecciandosi di continuo costruiscono la "Storia del Tempo del
Sogno". I vuoti che venivano ad essere determinati all'interno di tali tracciati, nella
mappatura delle storie percorso, non potevano essere, per il nomade, del tutto vuoti,
ma erano densi di significati.
L'azione del camminare è stata in grado di operare divisioni ad un livello che possiamo definire pseudo-fisico, ed allo stesso modo, ha permesso all'uomo, attraverso
il suo stesso corpo, di dimensionare lo spazio che lo circondava.
Il tempo che doveva impiegare per percorrere un paesaggio doveva in qualche
maniera essere stato prima o poi collegato con il numero dei passi impiegati per
transitarlo.
3.
Fino adesso abbiamo avuto modo di riflettere su come l’uomo abbia in origine sentito la necessità di crearsi dei punti di riferimento legati fondamentalmente ad una
esigenza di orientamento. Questi punti di riferimento costituivano i limiti del suo
spazio conosciuto, che in quanto tale, in maniera simbolica, è possibile definire
come un interno.
Da questo punto di vista lo spazio esterno è quello che è fuori da un certo limite
chiamato interno, nel senso che è aldilà del limite dello spazio perlustrato: lo spazio
esterno era tale in quanto sconosciuto.
8 Ibidem, p. 22
9 CHATWIN B., The Songlines, tr. it. Le vie dei Canti, Adelphi, Milano, 1988
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Ma allora quando è che si è generata la confusione tra spazio interno e spazio esterno?
Il modo attraverso il quale l'uomo ha imparato a distinguere spontaneamente uno
spazio esterno da uno interno, deve essere in qualche modo derivato dalla primitiva
separazione dell'umanità tra nomade e sedentaria; da questa divisione deriverebbero due diversi tipi di abitare e quindi di concepire lo spazio.
Questa prima fondamentale distinzione, facendo un passo indietro, deriva dall'originaria separazione dell'umanità nei due generi maschile e femminile, alla quale corrisponde anche in questo caso, una diversa modalità di vivere lo spazio che deriva
dalla propria sessualità. Lo spazio sessuale dell'uomo è rivolto all'esterno, è il territorio della caccia, lo spazio sessuale della donna è tutto rivolto all'interno, è il vissuto del focolare domestico.
A seguire, come descritto dalla Genesi, ci fu una seconda macro divisione nel lavoro e tale distinzione fu incarnata in maniera diretta nelle figure dei figli di Adamo ed
Eva: Caino ed Abele. Per volere di Dio, Caino si sarebbe infatti occupato dell'agricoltura ed Abele della pastorizia. Adamo ed Eva lasciarono così ai loro figli un'equa
spartizione del mondo: a Caino la proprietà di tutta la terra e ad Abele quella di tutti
gli esseri viventi. Dalle radici etimologiche dei due nomi deriva la distinzione tra
l'Homo faber, colui che assoggetta la natura al fine di costruire un universo personale e artificiale e quella di Homo ludens, che attraverso il gioco costruisce un effimero sistema di relazioni tra uomo e natura.
"i nomi dei figli di Adamo sono una coppia di opposti complementari. "Abele" deriva dall'ebraico
hebel e significa "fiato" o "vapore": è un termine che si riferisce ad ogni cosa animata e che sia transuente, compresa la sua vita. La radice di "Caino" sembra sia il verbo kanah: "acquisire", "ottenere",
"possedere", e quindi "governare" o "soggiogare". "Caino" significa anche "fabbro ferraio", e poiché
in numerose lingue - perfino il cinese - le parole che significano "violenza" e "assoggettamento" sono
collegate alla scoperta del metallo, forse è destino di Caino e dei suoi discendenti praticare le nere arti
della tecnologia"9
Gli alberi in Africa sono importanti come i campanili in Europa: segnano lo spazio e il tempo […]
COPPOLA PIGNATELLI P., Emozioni di Pietra, op. cit., p. 124
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Camminando l’uomo riconosce nel territorio dei punti visibili o invisibili, tracce della mappa del suo percorso, segnali di un orientamento psicologico e fisico, confini del suo spazio interno, dello spazio perlustrato. Orme sulla sabbia.
E’ al differente uso del lavoro che corrisponde quindi un differente uso dello spazio.
Da una parte il lavoro di Abele consisteva nell'andare, una attività che privilegia l'aspetto meditativo ed intellettuale, dall'altra il lavoro di Caino consisteva nello stare, cui corrisponde una attività di tipo prevalentemente produttivo e stanziale.
È insito nell'etimologia dei due nomi il significato che assumono i diversi modi di vivere il territorio. È in questa separazione dell'umanità tra nomade e sedentaria che sembra
affermarsi in maniera definitiva la distinzione tra spazio esterno e spazio interno, perchè
da una parte avremo uno spazio fisico e materico, quello della caverna, dall'altra uno
spazio psicologico e simbolico, quello della tenda.
Questa incertezza sull'architettura ha le sue origini fin dall'infanzia dell'umanità. Le
due grandi famiglie in cui è suddiviso il genere umano vivono due differenti spazialità: quella della caverna e dell'aratro che scava nelle viscere della terra il proprio spazio e quella della tenda che si sposta sulla superficie terrestre senza incidervi tracce
persistenti. Ai due modi di abitare la terra corrispondono due modi di concepire l'ar-
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chitettura stessa: un'architettura intesa come costruzione fisica
dello spazio e della forma, contro un'architettura intesa come percezione e costruzione simbolica .10
L'architettura, in quanto arte del costruire, sembrerebbe in origine
essere stata un'invenzione sedentaria nata come spazio dello stare;
in realtà la relazione che la lega al nomadismo è più profonda e
deriva direttamente da quel percorso tracciato attraverso l'azione
del camminare.
“E’ probabile infatti che sia stato piuttosto il nomadismo, e più
esattamente l'erranza, a dar vita all'architettura facendo emergere
la necessità della costruzione simbolica del paesaggio. Tutto ciò
cominciò prima della nascita del concetto stesso di nomadismo ed
avvenne durante le erranze intercontinentali dei primi uomini del
paleolitico, molti millenni prima della costruzione dei templi e
delle città. Nomade: "nomos in greco significa "pascolo", e "nomade" è un capo o un anziano del clan che presiede alla distribuzione dei pascoli … il verbo nemein - "pascolare", "pascere", "disporre o spargere" - ha sin dai tempi di Omero un secondo significato:
"distribuire, ripartire, dispensare", riferito soprattutto alla terra,
onori, carni e bevande. Nemesis è "l'amministrazione della giustizia" e quindi della "giustizia divina". Nomisma significa "moneta
corrente": da qui numismatica … E infatti tutti i nostri termini
monetari - capitale, scorta, pecunia, beni mobili, sterlina, forse
l'idea stessa di crescita - hanno origine nel mondo pastorale”.11
Indipendentemente dai punti di vista, esiste un medesimo elemento che fissa un punto di contatto a partire dal quale individuare l’attuale divergenza delle due macro interpretazioni dello spazio e che
costituisce probabilmente il germe originario del fare lo spazio;
questo elemento è il percorso. Il percorso è il filo di sutura di
entrambe le concezioni spaziali affermandosi da una parte come
fattore generato, risultato del limite spaziale tanto caro al modello
insediativo, oppure come connessione, tracciato e faro delle peregrinazioni delle società nomadi.
10 CARERI F., Walkscapes. Camminare come pratica estetica, op. cit., pp. 14 ssg.
11 CHATWIN BRUCE, The Songlines, op. cit.
Hermes ed Hestia sono le
divinità greche che incarnano la distinzione tra le
due modalità di vivere lo
spazio.
Cfr. Coppola Pignatelli P.,
Spazio e immaginario,
Officina, Roma, 1982
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4.
È l'atto consapevole di rotazione di una semplice pietra, dalla sua naturale giacitura
orizzontale in posizione verticale, a costituire il primo gesto di costruzione artificiale del paesaggio, collocando in relazione simbolica la terra con il cielo, nella ricerca di quella verticalità che taglia trasversalmente tutte le forme di architettura dalla
torre di Babele, alla cattedrale gotica, ai grattacieli contemporanei, e rappresenta la
massima diversificazione tra le società primitive e quelle arcaiche.
Tutti gli sforzi dell'uomo condotti per vincere la forza di gravità e per congiungere
l'uomo al Dio, derivano probabilmente, da tale semplice gesto.
Queste pietre rivolte al cielo, al di là di tutti i significati di cui furono intrise, tra simbolico e sacrale, geometrico e geografico, da elementi lineari verticali, si moltiplicheranno per divenire superficie, ed ancora, nella loro ripetizione ritmica, il volume
che identifica una determinata porzione di territorio da questi recinta, come nel caso
del Cromlech di Stonhenge.
I menhir rappresentano la prima forma di costruzione fisica del territorio circostante, da
cui deriveranno le infinite dialettiche attraverso le quali l'uomo ha confinato in maniera sempre più condensata lo spazio, in quella ricerca di protezione e di identità che a
breve avrebbe portato alla nascita delle più complesse costruzioni architettoniche.
L'allineamento di Carnac, in Bretagna, risalente al IV-III millennio a.C., è il più grande schieramento di menhir esistente al mondo, una sorta di enorme tempio a cielo
aperto utilizzato probabilmente come luogo di processioni e di riti sacri collegati al
rito dell'eterna erranza e alla venerazione del sole. Per i suoi particolari orientamenti
astronomici è stato definito come un grande calendario di pietra. Era un luogo in cui
si incontravano periodicamente le diverse comunità.12
12 CARERI F., Walkscapes. Camminare come pratica estetica, op. cit., p. 40
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5.
Se fino a questo momento abbiano analizzato quale fosse il rapporto dell'uomo con
la terra, è importante capire che, oltre alle relazioni che l'uomo instaurava con il territorio, ve ne fossero altre che mettevano in relazione l'uomo con l'universo.
Nel passaggio dalle modifiche dello spazio operate nella grotta alla costruzione dei
primi modelli insediativi intervengono fattori prevalentemente legati al sacro, attraverso opere che testimoniassero in terra la presenza degli dei pagani, al fine di
monopolizzarne la loro benevolenza.
Tali esigenze si trasformeranno nel più remoto modello insediativo che si conosca e
che sancirà definitivamente il passaggio da una società di tipo nomade ad una di tipo
stanziale: le città cosmogoniche.
Se da una parte abbiamo visto come per i popoli migratori esistessero delle mappature invisibili o comunque dal carattere metamorfico, in trasformazione, dall'altra
parte gli unici elementi di riferimento fissi, quelli in grado di definire un carattere di
permanenza, le costanti universali, erano le stelle, che assicuravano certezze sull'orientamento, stabilivano delle distanze relative, e quindi un rapporto di reciprocità tra uomo e cosmo.
“II mondo, nella sua cosmogonica concezione generale, risultava come distinto in
due diversi piani: il cielo non soltanto era "altro" dalla terra, ma aiutava ad orientarsi negli spostamenti, definiva le stagioni, dava un'estetica alla notte, conteneva
forme di misurazione che aiutavano i gruppi sociali per la loro organizzazione collettiva, stabiliva scansioni, denotava tempi e permetteva il sorgere di calendari,
attraverso i quali la memoria collettiva poteva acquisire più sicuri punti di riferimento sui periodi trascorsi.”13
13 DELLA PERGOLA G., Le Citta' Antiche, Cosmogoniche, Testo e Immagine, Torino, 2000
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Il cambiamento della società da nomade a stanziale determinerà lo svilupparsi di tutta
la dialettica architettonica e della spontanea distinzione tra spazio esterno e spazio
interno, che giungerà fino a noi, a partire dalla costruzione dei limiti di sé stessa.
La configurazione attraverso la quale l'uomo ha iniziato a costruirsi un proprio recinto, rappresentava la città in relazione al cosmo e quindi doveva in qualche maniera
richiamare alla forma di organizzazione dell'universo così come percepito dall'uomo.
In ogni città arcaica sono infatti rintracciabili tipologie architettoniche comuni: la
ziggurat, l'osservatorio astronomico, la dimora dei re, dei sommi sacerdoti, il tempio, la necropoli, la città dei morti.
Disseminate in maniera discreta e puntuale, il territorio sul quale queste erano insediate, doveva necessariamente essere molto ristretto, e di conseguenza, tutti i membri della società dovevano vivere in una posizione centrale.
In ogni città arcaica c'era un punto privilegiato, un centro del centro ove doveva passare l'axis mundi, collegamento diretto tra terra e cielo.
C'era - si racconta - un gruppo di antenati che vagava nel deserto portando con sé un
lungo palo. Ogni sera piantavano con cura il palo sul suolo per creare il luogo dell'accampamento. Nel far questo una sera, ruppero accidentalmente il palo. Ora, mancando del mezzo per creare uno spazio speciale in cui abitare, diventarono tristi e stanchi, ed alla fine si accasciarono al suolo e morirono.14
Diversamente da quanto si potrebbe spontaneamente immaginare, la dialettica tra
spazio esterno e spazio interno, come oggi viene interpretata, non si deve in maniera esclusiva al passaggio dell'uomo da raccoglitore-cacciatore a agricoltore-pastore;
la nascita dei primi insediamenti umani non deriva dalla necessità di ricercare posti
in cui trattenere il nostro lungo cammino sulla terra o per il culto dei defunti, bensì,
è fortemente legata alla cultura religiosa.
Sole, cielo, stelle, oltre ad identificare il dio pagano, che garantiva raccolti o li
distruggeva, come per le fasi lunari, dettavano l'incedere progressivo e ripetitivo del
tempo, attraverso cui interpretare il modello del mondo che agiva; la ripetizione del
mondo, determinò la formulazione di calendari, elementi fondamentali sui quali
scrivere i tempi dei vari rituali. Questi rituali necessitavano di una dimora stabile.
La prima architettura doveva avere riferimenti sicuramente in tal senso. Il tempo
umano venne così trasformato in tempo religioso, favorendo la formazione di caste
14 MOORE C.W., MITCHELL W.J, TURNBULL W. JR, The poetic of garden, tr. it. La poetica dei giardini, Franco Muzzio
Editore, Padova, 1991, p.34
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privilegiate come quella dei sacerdoti e di conseguenza una forma di architettura
dalle caratteristiche riconoscibili.
“La primigenia architettura dovette dunque essere sacra in ogni sua dimensione:
verso l'alto, segnale che l'altissimo era in mezzo alla comunità, verso l'orizzonte,
perché insistesse ben impiantata sulla terra, verso l'interno, con addobbi e ornamenti sacri, verso l'esterno, segnato dalla presenza del recinto sacro.
Questo ultimo era pensato come capace di diffondere le sue virtù su tutto il resto del
territorio, attraverso le porte che aprivano il recinto alle quattro direzioni, territorializzando così il sacro fino a fargli assumere i caratteri dell'antropologia locale, fino
a renderlo un Dio nostro”.15
Elemento strutturante di tali società era il luogo sacro, protetto da un recinto considerato anch'esso sacro; il più importante valore che poteva essergli attribuito era,
prima ancora che fisico, di tipo simbolico non potendo evidentemente la natura
interferire con qualcosa che in realtà non esisteva, almeno in maniera tangibile.
Il più importante di questi luoghi sarebbe stato quello attraversato dall'axis mundi.
“Costruendo uno spazio per la divinità, egli immaginava di poter "racchiudere" la
divinità dentro quel territorio: dunque così, spazializzandola, la catturava, costringendola a dimorare là”.16
La città doveva rappresentare in terra le leggi che regolavano l'universo in cielo, e
tale caratteristica sarà quella che suturerà, soprattutto all'inizio, anche lo spazio del
giardino. Essere al centro, all'interno, doveva essere tuttavia più importante che essere protetti da un imponente recinto. La città doveva avere un forte valore inclusivo,
ed è la forza riconosciuta nel gruppo che deve aver contribuito alla formazione dei
primi insediamenti umani. Essere all'intero doveva assumere un significato molto
più importante di quello di essere in uno spazio chiuso. Essere all'interno doveva rappresentare un senso di inclusione sociale, di appartenenza al gruppo. Questo doveva
costituire per i nostri avi, il senso più importante di essere “in”.
A partire da questo macroinquadramento ove si sono cercate le ragioni piuttosto che
le forme, successivamente, seguendo un processo di incremento di densità che procede dall'esterno verso l'interno, si privilegerà la ricerca di quei modelli attraverso i
quali l'uomo abbia, nella costruzione delle città o dei giardini, non solo riprodotto
quelle leggi cosmiche, ma ricostruito fisicamente uno spazio che è ricorsivamente
un interno, un mondo in un mondo, i cui limiti si distinguono esclusivamente per il
grado di apertura o chiusura che questi sottendono.
15 DELLA PERGOLA G., Le Citta' Antiche, Cosmogoniche, op. cit., p.34
16 Ibidem, p.33
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dal recinto alla corte
Se la capacità di percepire i limiti dello spazio avviene per mezzo delle relazioni che la mente ricostruisce
attraverso i segnali che il mondo ci pone di fronte, tale capacità non può che amplificarsi attraverso l'erezione di muri, atto architettonico primevo e confine più evidente della forma dell'architettura costruita.
La modalità attraverso la quale l'uomo circoscrive il proprio territorio sottende ad un processo di tipo dinamico all'interno del quale altri elementi contribuiscono ulteriormente a suddividere lo spazio.
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In un modo o nell'altro ci sentiamo tutti insicuri, no?
Wolfe T., 2005
1.
Una serie di pietre, disposte a formare un circolo, possono essere sufficienti per
ricreare nell'immensa solitudine del deserto, un mondo nel mondo, un santuario, ove
sia possibile soffermarsi a pregare; nella serie, la più semplice variazione dimensionale di una di queste pietre, può determinare un punto privilegiato che identifichi,
nel suo orientamento, la direzione verso la quale dirigere tali preghiere.
Siamo di fronte alla creazione a tutti gli effetti di uno spazio interno. Uno spazio
intimo forse sarebbe una terminologia più appropriata, ove l'uomo possa soffermarsi mantenendo attiva la sola relazione con il Dio.
“È qualcosa di analogo alla misteriosa decisione che ha creato Stonehenge. È terrificante. È l'inizio dell'architettura. Non è ricavato da un manuale, non deriva da
esempi pratici. Deriva dalla sensazione che deve esserci un mondo entro il mondo.
Un mondo dove la mente umana - capite? - in qualche modo si fa più acuta”.1
Un recinto, che non necessita di essere chiuso per definire la forma intuita del cerchio, diviene quella casa del Dio o la casa in cui essere in contatto con esso, quella
dimora che per altre religioni un tempo era chiusa e raccolta nello spazio della cella,
inavvicinabile se non al sacerdote, all'interno del tempio.
La realtà perde i suoi connotati e nella mente dell'uomo la visione si amplia, completando uno spazio che non è ancora architettura, attraverso una risposta emotiva
di volontà di presenza; rapporto tra uomo e Dio.
1 KAHN L. I., Conferenza all'Eth di Zurigo, in Idea e Immagine, a cura di Norberg-Shulz C., Officina edizioni,
Roma, 1980, p.121
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Moschea nel deserto. Una serie di pietre disposte nella forma intuibile del cerchio costituiscono il luogo di
preghiera. La pietra centrale indica l’orientamento verso cui dirigere tali preghiere.
Quello che avverrà in seguito non potrà che essere una evoluzione di questo gesto,
che è un istinto primitivo, un archetipo.
Un recinto che, al pari di un solco inflitto sulla terra, rappresenta il confine primo
dello spazio fisico e l'archetipo formale, a partire dal quale, saranno generate le
matrici insediative della civiltà umana.
Sebbene sia inequivocabile il valore di confine che può essere espresso per mezzo
di un muro, atto architettonico primevo, quello che si vuole evidenziare è come in
realtà l'uomo operi una forma costante e progressiva di miniaturizzazione del mondo
e di come questa attività non si concluda con l'erezione di quattro pareti a divisione
di un esterno da un interno.
Quando Louis Isadore Kahn parla delle principali istituzioni dell'uomo, identifica
queste come "unità esistenziali complete [che] debbono essere considerate "piccoli
mondi". Kahn infatti parlando delle origini dell'architettura usa Stonehenge come
esempio rappresentativo dell'ispirazione a creare "un mondo entro il mondo".
Chiama il piccolo mondo "un luogo di concentrazione", ove la mente dell'uomo si
affina. "Potremmo anche dire che le aspirazioni dell'uomo rappresentano dei fulcri
della struttura esistenziale e che le istituzioni come le loro "case" sono i centri intorno a cui si organizza lo spazio esistenziale. "L'architettura, crea il senso di un mondo
entro il mondo, e questo senso lo dà la stanza". 2
Ma cosa si intende per stanza?
2 NORBERG-SCHULZ C., Idea e Immagine, , Officina edizioni, Roma, 1980, p.14
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Ciò che determina una "stanza" non è dettato da particolari configurazioni architettoniche dello spazio, ma, come nell'esempio della moschea nel deserto, dal valore
che noi diamo ad esso; “quando uno spazio è consapevole di ciò che vuole essere
diventa una stanza, ossia un luogo con un particolare carattere”.3
Come avveniva per gli axis-mundi nelle società cosmogoniche, un solo elemento
naturale può bastare ad identificare un determinato luogo, attraverso il valore che
noi rivolgiamo in esso. Un albero può essere il punto di riferimento per una comunità, a partire dal quale, grazie al grado di protezione che questo può offrire, organizzare uno spazio con un particolare carattere. Un uomo sotto un albero era per
Louis Kahn il principio che ha fatto nascere l'istituzione della scuola.
La posizione della scuola all'interno del barrio è di regola definita dalla presenza di
un grande albero fronzuto, un albero gigante, che protegge dal sole e dalla pioggia e
che costituisce il punto di riferimento della comunità.4
Un luogo diventa una stanza
quando è consapevole di ciò
che vuole essere. Gli oggetti
amplificano questa consapevolezza identificando uno spazio
per un uso specifico e trasformandolo così in un luogo.
3 Ibidem, p. 12
4 COPPOLA PIGNATELLI P., Emozioni di Pietra, Edizioni scientifiche Ma. Gi., Roma, 2004, p. 124
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3.
La scelta di nominare questo capitolo "dal recinto alla corte" esprime la volontà di
sottolineare un processo dinamico di coagulamento della materia che determina i
confini dello spazio, in una successione graduale di densità, che vede nel muro, il
suo carattere di limite fenomenologicamente più incisivo.
Tuttavia, il muro non costituisce il grado ultimo di questo processo di ricostruzione
"di un mondo entro il mondo".
La stessa radice etimologica della parola chiarisce come sia implicito nel suo significato l'appartenenza ad un sistema più complesso che si spinge alla definizione stessa
dei limiti dell'insediamento umano. Con murus, infatti, (e più anticamente moirus,
moerus, che ha la stessa radice di moe-nia, con il significato di trincerare, difendere), i
Romani intendevano soltanto la muraglia costruita per fortificare la città, in contrapposto a paries - parete - che indicava il muro di una casa o di qualunque altro edificio.
Questo processo dinamico risponde alla caratteristica strutturante che Rudolph
Arnheim attribuisce allo spazio, che è quella di espandersi, coerentemente con quanto avviene in un qualsiasi insediamento umano, che, se non destinato a perire, non
può far altro che ampliarsi, estendendosi al di là dei suoi stessi confini, trasformando i limiti dei propri limiti.
Tutto ciò che è spaziale tende ad espandersi. “Lo spazio cavo di una piazza si espande con la forza dei suoi poteri vettoriali, ma gli edifici che la circondano possiedono anch'essi una loro forza di espansione, sicché possono tenerlo sotto controllo.
Perciò sotto il profilo dinamico la portata di una piazza non è semplicemente determinata dalla sua area geometrica, ma dall'interazione tra espansione centrifuga e
vincoli circostanti. L'equilibrio che ne risulta rispecchia l'esatto rapporto fra i poteri delle parti contendenti.”5
La radice della parola spa con il significato di "stendere", o dal greco span col significato di "tirare a sé" e dal latino pandere con il significato di "allargare, spalancare",
giustifica di per sé l'esigenza di confinamento di un fluido che come fosse acqua
necessita di dighe, di limiti che ne contrastino la sua stessa natura, che è appunto quella di espandersi. Così, come per uno spazio cavo di una piazza, anche per le superfici isolate, “l'effetto dei volumi non si arresta ai loro reali limiti fisici. Anch'essi esercitano un certo potere di irradiazione che pur non lasciandosi misurare concretamente ha tuttavia una sua esistenza reale, come nell'area di un campo elettromagnetico.
I nostri occhi lo percepiscono ed esso si estrinseca nella nostra reazione psichica."6
5 ARNHEIM R., The dynamics of architectural form, tr. it. La dinamica della forma architettonica, Milano, 1981, p. 102
6 GIEDION S., The eternal present, tr. it.L’e, p. 524
7 PROUST M., Alla ricerca del tempo perduto, Torino, Einaudi
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E’ una successione dinamica di frammenti; una finestra costituisce il limite tra le
pareti di una camera; a sua volta lo spazio tra due finestre individua e limita un tratto di parete; all'interno di quel tratto di parete un quadro suddivide il piano e contiene al suo interno una scena ulteriore per mezzo del soggetto stesso della propria rappresentazione, inquadrato dentro la propria cornice; in questo processo di miniaturizzazione il muro è l'elemento che più degli altri risponde al suo valore di confine,
ma non il solo.
Al di fuori di un ambiente domestico il processo di limitazione dello spazio non
cambia, tuttavia i confini tendono più facilmente a smaterializzarsi articolandosi
attraverso relazioni spesso virtuali definite per mezzo di una serie di immagini semplici, come nel caso dei minareti, o come nel caso della rappresentazione stellare di
elementi lineari puntuali realizzata per mezzo degli obelischi che, come una stella
cometa, nello svettare al di sopra della struttura cittadina, guidavano i pellegrini
durante le processioni; un sistema che non differisce a sua volta con la costruzione
simbolica del paesaggio che le popolazioni nomadi scritturavano durante le rotte
delle loro peregrinazioni, e che, via via che ci si avvicina alla dimensione umana,
verso lo spazio domestico, aumenta il grado di chiusura per divenire fisica e sempre
più densa.
Un elemento lineare può essere sufficiente a creare “d'improvviso in un'immensa pianura limitata all'orizzonte da foreste frastagliate, un segno costituito dalla punta snella di un campanile, così esile, rosea, da sembrar soltanto tracciata sul cielo da un'unghia, e che avesse voluto dare al paesaggio, al quadro tutto naturale, quel tenue segno
d'arte, quella unica indicazione umana”7, oppure squarciare in due il paesaggio di una
lacerazione culturale che è segno indistinguibile della follia delle nostre in-differenze.
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Come in una stupa, in una serie di cerchi concentrici, i limiti dello spazio divengono più serrati, pietre su pietre che contengono, nei limiti che definiscono al loro
interno, spazi sempre più piccoli.
In un processo opposto a quello naturale, che vede il grande formarsi dal piccolo,
ovvero un albero formarsi da un seme, l'uomo applica un suo particolare ordinamento del mondo, partendo dal grande per arrivare, in un incremento di densità, fino al
più piccolo oggetto, artefatto, che possa essere in un altro precedentemente contenuto; "dal più lontano, dal più esterno procediamo verso lo spazio più vicino e più
interno, quello della nostra domesticità quotidiana, delle quattro pareti di casa
nostra, in un progressivo incremento di pienezza; fino a che l'affollarsi degli oggetti crei un massimo di densità, di peso specifico, di compattezza, di durezza inscalfibile di un nocciolo di intimità, che è guscio cheratinoso alla materia molle delle
nostre identità fragili".8
Procedendo verso l'interno, i limiti dello spazio non si esauriscono con quelli imposti verticalmente dalle quattro pareti, ed orizzontalmente dal pavimento e dal soffitto, ma proseguono fino ad arrivare ad una riduzione di scala ove il controllo da parte
dell'uomo risulta totale.
Nello spazio interno della casa a corte, ad esempio, è particolarmente evidente come
il carattere del muro rappresenti una parte di questo processo dinamico di inclusione, essendo lo spazio centrale della casa, un esterno, ad identificarsi come un limite dello spazio interno.
Elemento architettonico antichissimo, la corte, che etimologicamente deriva dal latino "cum + hortus", ovvero terreno recintato, trae origine dall'atto primordiale di circoscrivere un territorio tramite un recinto; gesto costruttivo che include l'intenzione
di affermare un'identità, separare il dentro dal fuori, definire una proprietà, creare un
riparo o una difesa.
Si può quindi affermare che la corte non è nient'altro che l'evoluzione più complessa
della forma originaria del recinto.9
Se è vero come è stato osservato precedentemente che è un fattore culturale che ci
induce ad individuare come spazio interno quello della casa, o, più in generale, quello definito da un muro, quando prendiamo in considerazione una casa a corte o a
patio, questo spazio interno, quello della casa, si caratterizza, come un filtro tra
8 BELLASI P., Il Giardino del Pelio, Costa & Nolan, Trento, 1995, pp 23 e ssg.
9 MORETTI G., BORI D., La Casa di Hatra, Edizioni Tipoarte, Bologna, 2005, pp. 54 ssg.
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l'esterno e l'esterno. La corte, rappresenta parte di questo processo di delimitazione
ed è concepito per essere un interno, anzi rappresenta il vero fulcro della casa, attorno al quale ruotano le funzioni dell'abitare. Ruotano intorno ad un elemento che in
principio doveva aver privilegiato una forma circolare, la forma più naturale a circoscrivere un uomo o un animale acciambellato.
La pianta primitiva di una capanna era un cerchio; forma questa che sta alla base di
tanti simboli preistorici. Come gli uccelli che si costruiscono nidi rotondi ed ovali,
l'uomo scavò per sé, nel terreno, caverne rotonde od ovali. […]
le capanne ad una sola stanza, circolari o ovali, sembrano infatti aver costituito in
tutto il mondo la prima forma di abitazione; esse venivano raggruppate spesso per
formare una casa a più stanze.10
Sino al periodo predinastico le tombe egiziane erano semplicemente fosse o pozzi circolari o ovali, poco profondi, dove veniva deposto il morto ripiegato su se stesso.11
Di seguito sono stati presi in considerazione tre esempi per cercare di evidenziare come
la costruzione di uno spazio sia qualcosa che va al di là dei limiti imposti dalle pareti.
Negli insediamenti trogloditici di Matmata, o come a Gharyan, in Libia, un pieno
che non è ancora un luogo, si caratterizza per la totale mancanza del muro; lo spazio insediativo è scavato all'interno del terreno; una serie di pozzi, profondi dai sette
ai dieci metri e di diametro non superiore ai dodici, costituiscono la parte centrale
dell'abitazione, l'evoluzione dello spazio cavernicolo e l'anticipazione di quello che
sarà il tipo a patio o a corte. Un vuoto scaturisce, come nel caso del progetto di
Chillida per il monte Tindaya, dal processo di escavazione della materia, processo
di estrazione che si traduce nell'immissione di spazio all'interno della terra. Come
descritto dall’autore, “c'è molta gente che lavora nella montagna togliendo pietra
senza rendersi conto che quando estraggono la pietra stanno mettendo lo spazio dentro la montagna”.12
10 GEIDION S., The Eternla Present, op. cit., p. 186
11 Ibidem, p. 507
12 CHILLIDA E., Montaña Tindaya, Madrid, 1996, p. 62
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Questo spazio, al quale si accede per mezzo di un tunnel posto in superficie, distribuisce le varie parti dell'abitazione e si struttura come una vera e propria stanza,
volumetrica, a cielo aperto.
Processo organizzativo inverso, ma del tutto simile nel risultato, è quello del progetto
per i Global Peace Container, di Richard J. L. Martin, per una comunità giamaicana.
Un esterno, per mezzo di una serie di container, dicotomia tra la produzione industriale primomondiale e la povertà terzomondiale, viene circoscritto e trasformato in
uno spazio chiuso, un interno, a partire dalla semplice giustapposizione di una serie
di quattro elementi che, prima di allora, erano connotati da una loro precisa identità
oggettiva e funzionale.
However, the prime modification that has to occur is to fill the crates with sentimental content. Prior to this act
the container can still be viewed as a functional object used to transport goods around the world. But unload
the freight and replace it with an individual, a group, or a family and the crate suddenly becomes a home.
MARTIN R.J.L., Global Peace Container, in xtreme Houses, a cura di Courtenay S., Thopam S., Prestel, 2002, p. 54
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La domanda che sorge spontanea è come sia possibile che un oggetto precostituito,
che ha una funzione completamente diversa da quella abitativa, possa costituirsi in
tempo quasi reale, come casa, come un interno? Cosa permette di trasformare un
oggetto che poco prima era un contenitore per il trasporto di merci, in una casa?
Lo spazio rimasto libero al centro, è ancora un esterno, e come nella casa a pozzo
trogloditica, ne rappresenta il fulcro. Diversamente quando una copertura viene
posta a chiusura di questo spazio, si determina la struttura funzionale del soggiorno
o dell’aula di una scuola, gerarchia dell’ambiente comune, enfatizzato per dimensioni e forma.
Un abbraccio raccoglie, è uno spazio consapevole, l’archetipo di protezione.
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La risposta a queste domande sta nel significato che l'uomo trasferisce in questi spazi,
che da freddi prodotti del mondo globalizzato diventano spazio intimo per mezzo di
quei contenuti emozionali (to fill the crates with sentimental content), che sono i
medesimi di quelli che Louis Kahn introduce parlando del carattere di una stanza.
Siamo noi a trasformare i luoghi per mezzo dei valori che ad essi attribuiamo.
"Quando uno spazio è consapevole di ciò che vuole essere diventa una stanza, ossia
un luogo con un particolare carattere".
I significati che noi trasferiamo in un determinato ambiente sono gli stessi che trasferiamo più in generale verso le cose di cui ci circondiamo, in quel sistema degli
oggetti che analizzeremo in seguito; sono gli stessi che riversiamo nelle relazioni
interpersonali.
L'uomo continua ad essere il soggetto della costruzione del proprio sistema strutturale di riferimento.
Siamo noi a conferire valori a ciò che "addomestichiamo", che letteralmente rendiamo domestico; creiamo dei legami, di fili bianchi, neri o grigi, attraverso i quali ci
abbandoniamo all'ineluttabilità di avere bisogno degli altri.
In quel momento apparve la volpe.
"Buongiorno", disse la volpe.
"Buongiorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
"Sono qui", disse la voce, " sotto al melo […]"
"Chi sei?" domandò il piccolo principe, "sei molto carino […]"
"Sono una volpe", disse la volpe.
" Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, "sono così triste […]"
"Non posso giocare con te" disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah! Scusa", fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
"che cosa vuol dire "addomesticare"?"
"Non sei di queste parti tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?"
"Cerco gli uomini", disse il piccolo principe.
"Che cosa vuol dire "addomesticare"?"
"Gli uomini", disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. è molto noioso! Allevano
anche delle galline. è il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?"
" No", disse il piccolo principe. "Cerco degli amici.
Che cosa vuol dire "addomesticare"?"
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"è una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"[…]"
"Creare dei legami?"
"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a
centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non
sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi
avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te
unica al mondo".
"Comincio a capire", disse il piccolo principe. "C'è un fiore […] credo che mi abbia
addomesticato […]"
"Che cosa bisogna fare?" domandò il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le
parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino"
Il piccolo principe ritornò l'indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe.
"Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad
essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma
se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore […] Ci
vogliono i riti".
"Che cos'è un rito ?" disse il piccolo principe.[…]
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.[…]
"Addio", disse la volpe.
"Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore.
L'essenziale è invisibile agli occhi".13
I valori che noi conferiamo ad uno spazio vanno ben al di là della geometria che lo
identifica. La connotazione di un interno, è stabilita, oltre che da una particolare
configurazione architettonica, anche in funzione del nostro stato d'animo, della
nostra predisposizione mentale, dalla capacità di esprimere la nostra personalità e
dal grado di intimità che si stabilisce, ad esempio, a seconda del numero di persone
presenti in un determinato luogo.
“Un maestro uno studente non è il medesimo quando si trovi tra poche persone, in
una stanza raccolta, col caminetto, oppure in una sala vasta e alta, tra molte altre persone. […] Mentre scrivo qui da solo, nel mio studio, le cose che ho detto pochi gior13 SAINT-EXUPÉRY A., Le petite prince, tr. it. Il piccolo principe, Bompiani, Milano, 1964
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ni fa di fronte a molte persone, a Yale, mi appaiono diverse. Gli spazi hanno il potere di determinare gli atteggiamenti”.14
Il contenuto emozionale è personalità, non è dimensione stabile dello spirito, ma si
plasma in funzione degli stati d'animo che pervadono il nostro essere. Siamo anche
noi a infondere, a seconda dei nostri sentimenti, il carattere ad un determinato luogo.
Le quindici pietre del giardino di Ryoan ji disposte su un letto di sabbia e ghiaia, la
stessa sabbia e la stessa ghiaia, i menhir, i templi, le case, tutte le nostre istituzioni,
non sono nulla se private del valore che noi conferiamo loro, allo stesso modo in cui
le rose del piccolo principe non sono nulla se non sono addomesticate, "sono belle
ma sono vuote".
Addomesticare significa infondere nella casa il senso heideggerdiano di saper abitare; sapere abitare significa divenire responsabili nei confronti di ciò che è stato
addomesticato.
Il terzo ed ultimo esempio, è rappresentato da un progetto di Tadao Ando per la
Casa Nakayama a Nara, in Giappone.
Qui lo spazio è completamente ripiegato su se stesso, privo di qualsiasi contatto con
un esterno che potrebbe addirittura non esistere. Mondo a sé stante, raccolto, nel suo
volume che ne determina la forma alla quale appartengono contemporaneamente sia
lo spazio interno che lo spazio esterno. Il giardino minerale è concepito come un
interno, ed anche in assenza della copertura, la sensazione è quella di sentirsi dentro un unico volume scavato.
Il valore della corte, nella sua relazione con la casa, è addirittura gerarchizzato,
rispetto all'involucro, nella sua dimensione a doppia altezza.
Tadao Ando, Casa Nakayama, Nara Giappone
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4.
Gli archetipi di protezione e confine, per molto tempo, sono confluiti nel significato simbolico e fisico che l'uomo ha trasposto nella materialità del muro.
Il muro ci ha offerto nel corso della storia la possibilità di dispiegare il mondo.
Avere le spalle al muro, significa porre il mondo di fronte all'uomo, verso un'unica
direzione possibile. E questa direzione ha sempre fornito quel senso di protezione
che deriva dalla consapevolezza che nulla può accadere alle nostre spalle, nel luogo
privo della vista. Il semplice schienale di una sedia può assumere un valore molto
differente che va al di là della sua semplice funzione apparente. Non è sufficiente
che le sedie ci sorreggano comodamente, “devono anche darci l'impressione di
coprirci la schiena, come se in qualche misura dovessimo respingere il timore ancestrale di essere aggrediti da un predatore”15.
Se preso in considerazione come elemento isolato, il senso di protezione che il muro
doveva assicurare, lasciava tuttavia ancora un margine di vulnerabilità.
La più semplice configurazione possibile che garantisse l'adeguato grado di protezione deriva dalla partecipazione di almeno due elementi, che, uniti insieme a formare
un angolo, rappresentano un vertice di mondo, all'interno del quale è posto l'uomo.
Nell'angolo regna il silenzio, è un luogo privo di preoccupazioni. L'angolo è ciò che
meglio rappresenta l'essenza protettiva di un muro, il germe fondativo di una camera o di una casa.
Ogni angolo in una casa […] è per l'immaginazione, una solitudine, vale a dire il
germe di una camera, il germe di una casa. […]
Nell'angolo, non si parla a sé stessi, e, se ci si ricorda delle ore nell'angolo, ci si ricorda di un silenzio, di un silenzio dei pensieri […]
In primo luogo, l'angolo tuttavia, è il primo rifugio dell'essere: l'immobilità.
È una sorta di mezza scatola, metà muro e metà porta.
L'immobilità si irradia, in quanto tutto è davanti a me, e niente po' essere alle mie
spalle. È una certezza.16
Se da una parte, nel corso della storia, l'evoluzione dei modelli culturali e delle
conoscenze tecnologiche si fondono in una comune ricerca di incremento di complessità del sistema spaziale architettonico determinando un decadimento dei valori
archetipi del muro, dall'altra, i ricapitalizzati criteri organizzativi, consentono all'invo14 KAHN L. I., Forma e progettazione da The Voice of America, in Idea e Immagine, op. cit., p. 71
15 DE BOTTON A., The Architecture of Happiness, tr. it., Architettura e felicità, Ugo Guanda Editore, Parma, 2006, p. 246
16 BACHELARD G., La poetique de l'espace, tr. it. La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari, 1975, pp. 159 e ssg.
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lucro esterno di affrancarsi dal ruolo di limite ultimo nella strutturazione dello spazio.
Questa evoluzione linguistica, dettata dalla ricerca di una nuova libertà formale e
distributiva, si traduce da un lato in una volontà di apertura verso l'esterno, e dall'altro in una articolazione più complessa dello spazio architettonico.
L'interno da questo definito, risulterà ancora organizzabile, costituendo un ulteriore
grado di clausura; quello di uno spazio nello spazio.
Del resto è raro, se non nel caso del tempio, trovare nella storia dell'architettura la
formulazione di uno spazio che sia completamente impenetrabile, come quello, ad
esempio, della cella del Dio. Questo significa che anche la più piccola delle aperture tra due ambienti implica una volontà di relazione che è quindi il segno indistinguibile della loro differenza, ed è in questa differenza che si attua la dialettica tra ciò
che è esterno da ciò che è interno, essendo ogni spazio necessariamente rinchiuso in
un altro, a sua volta contenuto.
Che forse nella stessa architettura non siano già presenti interni inclusi in altri, come nel
tempio periptero e nella basilica romana o ancora nelle navate centrali delle chiese circondate da navatelle, transetto, ambulacri, et caetera? È lecito concludere che la fenomenologia spaziale dell'architettura è materia tanto complessa da contenere ogni possibile conformazione, ivi compresa quella di un ambiente che ne contiene un altro.17
Il valore emotivo che l'uomo attribuisce alla sua vita, collabora alla definizione della
qualità della struttura spaziale, che è funzione anche del grado di relazione che assume nei confronti del suo reciproco esterno. Ciò che è esterno non è tale esclusivamente per il fatto di essere sotto il cielo.
Lo spazio può essere dilatato o compresso a piacere se solo siamo disposti a desiderarlo.
La mia casa è diafana, ma non di vetro. Apparterrebbe piuttosto alla natura del vapore. I suoi muri si condensano e si allentano secondo il mio desiderio. Talvolta li stringo attorno a me …. Ma talvolta, lascio allargarsi i muri della mia casa nel loro spazio proprio, quello della infinita estensibilità.18
“Il progetto dell'interno […] non è il momento della dotazione della strumentazione
di arredo per far finalmente funzionare un'architettura che altrimenti si direbbe
vuota, è un'azione di costruzione dentro la costruzione”19.
17 DE FUSCO R., introduzione a L'interno nell' interno. Una fenomenologia dell'arredamento, di Imma Forino,
Alinea, Firenze, 2001
18 SPYRIDAKI G., Mort lucide, ed. Seghers, Buchnummer des Verkäufers, 1953, p.35
19 DE GIORGI M., Disegno di comportamenti in interni, in Rassegna, n. 58, 1994, pag. 22
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Del resto la storia ci ha consegnato una vasta serie di esempi a dimostrazione del fatto
che, tanto nell'architettura pubblica che in quella privata, questa costruzione nella
costruzione ha origini remote e che quindi non sia essa una prerogativa esclusiva della
libertà espressiva concessa dalle nuove tecnologie della società contemporanea.
Il ciborio o il baldacchino nell'architettura religiosa o lo studiolo costituiscono alcuni dei casi che potrebbero essere presi in considerazione.
Questa occasione non rappresenta certo la sede ove riprodurre un catalogo di quegli
esempi che potrebbero essere di sostegno alla comprensione dei concetti esposti.
Tuttavia progetti recenti testimoniano palesemente, quale possa essere la qualità di uno
spazio che ne occupa, progressivamente, un altro precedentemente chiuso.
Nella sala progettata da Frank O'Ghery per la DG Bank a Berlino, ad una scala che
potremmo definire addirittura urbana, una delle sue tipiche forme amebiche emerge dalla
zona centrale e copre una sala conferenze, inondando lo spazio della sua presenza.
Nella Naked House, progetto di Shigeru Ban, sono le scatole-stanza il vero argomento della spazialità.
All'interno di un unico anonimo involucro generalizzato, troviamo una serie di queste
"stanze" che non solo si affrancano, nella loro indipendenza, dalla struttura che le
accoglie, ma sono mobili, e quindi libere di assumere qualsiasi posizione, variando di
volta in volta la configurazione tradizionalmente imposta e fissa dell’ interno.
Potremmo definirle a tutti gli effetti degli oggetti.
La stessa copertura come fossimo in uno spazio urbano, diventa luogo abitabile.
La configurazione dell’involucro è allora una flessibile e mutevole organizzazione
di tali stanze, che rappresentano a loro volta, un interno al quale il senso di protezione perduto lascia, nello spazio vuoto, una completa libertà d'azione.
L'articolazione dei volumi scende di scala; questi sono ridefiniti per mezzo di ulteriori elementi, che, indipendentemente dal loro proprio grado di autonomia in termini di conformazione architettonica, diventano spazi ove soggiornare, alla spasmodica ricerca di una propria identità.
Sviluppo di quel microspazio che ha visto spesso dame soggiornare sulle sedute
ricavate negli ampi imbotti imposti dalla muratura nella costruzione, con il passare
del tempo, la stessa finestra ha ricercato una propria autonomia, che consentisse di
avere, nella medesima stanza, un diverso grado di privacy; è anche questo desiderio
che trasforma tale spazio nell'erker o nella baywindow; protuberanze del confine,
scambio sociale, intercettatori di luce.
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Frank O'Ghery, DG Bank, Berlino
Shigeru Ban, Naked House, Saitama
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5.
Se fino a questo momento abbiamo potuto constatare come il muro, ora come allora, non fosse l'unico elemento per mezzo del quale definire confini, parallelamente
anche l'evoluzione tecnologica tende a ridimensionarne lentamente il suo valore
archetipo per trasformarlo, in maniera più o meno esclusiva, in una valvola per la
modulazione della luce. “Il muro ci ha circondati per lungo tempo, finché l'uomo
rinchiuso in esso, avvertendo una nuova libertà, ha voluto guardare fuori. Si diede
da fare per aprire un varco. Il muro si lamentò: "ti ho pur protetto". E l'uomo replicò: "apprezzo la tua fedeltà, ma io sento che i tempi sono cambiati"20.
Se il muro cessa di essere l'unico elemento di definizione della struttura architettonica, quando, in un incremento di trasparenza, cessa di essere oggetto di protezione
del corpo e dello spirito dell'uomo, quando le capacità tecnologiche offerte dal progresso incoraggiano una maggiore libertà strutturale, la superficie minerale si smaterializza a vantaggio di un altro elemento: il vetro.
Fra gli elementi di una stanza, il più meraviglioso è la finestra. Il grande poeta americano Wallace Stevens stuzzicava l'architetto: "che fettina di sole ha la tua casa?".
Parafrasando: che fettina di sole entra nella tua stanza? Che gamma di modulazioni
offre la luce, dalla mattina alla sera, da giorno a giorno, da stagione a stagione, nell'arco di tutto l'anno?21
Le finestre non sono più una "ferita nella parete", non sono più neppure delle finestre; da necessità funzionale, climatica od igienica diventano esse stesse pareti, confini effimeri della forma, che al loro interno amplificano la ricerca di spazi privi di
chiusure, divisi per mezzo degli oggetti che tratteggiano la funzione specifica che
questi rappresentano.
"L'apertura non è una zona, una parte ritagliata, all'interno della parete, ma è la
parete stessa”.22
La conseguenza della mancanza di necessità di protezione si traduce quindi nella
ricerca di apertura verso il mondo.
Ne deriva una perdita di spessore del muro, non inteso in senso geometrico, ma
come diceva Giò Ponti, inteso come una perdita di valori intrinseci, della sua consistenza, della sua autenticità.
Sia le stanze che le case stesse “superano la cesura tradizionale del muro, che le ren20 LOUIS I. K., La stanza, la strada e il patto umano, in A+U, n.1 1973
21 Ibidem
22 VENDITTELLI E., La casa fredda, Edizioni Kappa, Roma, 1997, p. 55
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deva spazi-rifugio. Le stanze si aprono, comunicano, si frammentano in angoli, in
zone aperte, in settori mobili. Le finestre non sono più orifizi imposti all'irruzione
dell'aria e della luce, che giungeva dall'esterno per posarsi sugli oggetti, per illuminarli "come dall'interno". Più semplicemente le finestre non esistono più e la luce,
intervenendo liberamente, è diventata funzione universale dell'esistenza delle
cose”.23
In questa nuova frontiera, la superficie trasparente ribalta tutte le certezze precedenti, inverte i ruoli, e diviene il mezzo di comunicazione segnico che troverà il suo
apice negli oggetti, che essa rende visibili all'interno della casa.
Il vetro piuttosto che inteso come elemento di relazione tra lo spazio interno ed il
mondo pubblico, diventa il modo attraverso il quale l'interno cede un po' di se stesso al di fuori.
Le superfici trasparenti sono delle vetrine nella loro essenza piuttosto che delle finestre, non sono più fatte per guardare fuori ma per esser visti, in quel Videor ergo sum
che caratterizza la società mediatica contemporanea.
D'altronde, la consapevolezza della sua fragilità, determina un distacco, una inconscia distanza di sicurezza che ci prendiamo a garanzia della nostra incolumità, che
tende ad allontanarci dalla sua superficie, facilitando in questi termini, l'immagine
limitata dalla cornice visiva che le finestre inquadrano.
“È il grado zero della materia: come il vuoto sta all'aria, così il vetro sta alla materia. […] Ma il vetro materializza al livello più elevato l'ambiguità fondamentale dell'ambiente: quella di essere alternativamente vicinanza e distanza, intimità e rifiuto
dell'intimità, comunicazione e non comunicazione”.24
Di converso il più piccolo pertugio, come nel caso della serratura del portale di
accesso al giardino degli aranci a Roma, sembra amplificare la visione del mondo.
Il buco, il pertugio di una parete, al contrario del vetro, ha infatti un potere attrattivo, tende ad avvicinare l'occhio.
L'ostentazione di tutta questa trasparenza, porta inevitabilmente alla perdita di quel
valore protettivo che il muro ha assolto in maniera prolissa accompagnando il corso
dell'evoluzione dell'uomo; un materiale terreno, fatto di argilla, lascia il posto ad un
materiale etereo fatto di sabbia che spacca i limiti visivi e introduce nuove relazioni tra natura e architettura.
Il più piccolo pertugio, la più piccola delle porte è un elemento che separa due spazi
e li rende uno esterno dall'altro e sarà in funzione del grado di apertura che si gene23 BAUDRILLARD J., Les Sysème des Objets, op. cit., 26
24 Ibidem, p. 53
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rerà un diverso grado di relazione, e di conseguenza il senso di appartenenza o meno
allo stesso sistema.
Ricorsivamente, attraverso l'architettura, l'uomo realizza uno spazio telescopico, in
cui ciò che è limitato lo è per disuguaglianza, per quell'affermazione identitaria che
implica che ciò che è esterno, lo è in quanto diverso da sè.
Come in una stanza, anche in un giardino o più in generale in uno spazio a cielo
aperto è possibile sentirsi, fisicamente o psicologicamente, particolarmente riparati,
tanto da avere la sensazione di essere a tutti gli effetti in uno spazio interno, "concluso e protetto". Dentro un edificio, nonostante ci si trovi in un luogo "concluso e
protetto", è possibile di converso sentirsi a disagio, in uno spazio che non ci appartiene o in cui, più semplicemente, il filtro che osmoticamente dovrebbe separarci
dall'esterno è talmente dirompente da determinare una sensazione di trovarci a tutti
gli effetti in uno spazio aperto.
Gare de L’Est, Paris. Le Fabuleux destin d'Amelie Poulain, regia di Alain Mougenot
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giardino e universo
Soffermarsi sul giardino è un'occasione per evidenziare come il processo di limitazione dello spazio in cui
dimora l'uomo, non è esclusivo appannaggio della casa, ma che all'esterno, ove è maggiormente sentita la dialettica tra horror vacui ed amor infiniti, l'uomo opera una forma di ordinamento del mondo che
rispecchia le stesse modalità attraverso le quali si è sempre protetto dal mondo circostante.
Le matrici dei modelli insediativi a partire dal carattere di sacralità, scandiscono la formazione sia delle
città quanto dei giardini.
In principio erano dio e il Caos.
La creazione del mondo è
la Grande Opera che scaturisce
dal disegno e dalla Sapienza del
Grande Architetto.
L’ordine divino
inizia con l’operazione geometrica
di delimitare i confini dell’universo
col Compasso.
Egli disponeva i cieli
e poneva un cerchio
sulla superficie dell’abisso
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Le dehors est tojour un dedans
Le Corbusier
Un recinto non deve essere necessariamente formato da muri; può essere sottinteso […] grazie a delle colonne che ne definiscono gli angoli.
Opera in questo modo il motivo Kashmiri del char-chenar.
Moore C. W.,
1.
A prescindere dalle testimonianze riportate dalle religioni in merito alla comparsa
dell'uomo sulla terra, egli si è trovato sicuramente inserito in un habitat precedentemente costituito privo di quelle regole, che da allora in poi, saranno imposte dalla
ragione sulla natura nella ricostruzione da parte dell'uomo, di un suo personale ordinamento del mondo.
Le stesse testimonianze documentano come, sin dalle origini il rapporto tra uomo ed
habitat, abbia portato alla creazione di miti e leggende che determinarono, in principio, delle fondamentali archetipiche formulazioni in merito all'approccio di modificazione dello spazio.
Il giardino, o più in generale lo spazio esterno, al pari dei primi insediamenti umani
è stato da sempre caratterizzato da fattori che lo hanno reso dipendente, nella sua
evoluzione, sia dallo stato sociale che da quello religioso, introiettato chiaramente
nella condizione storica alla quale esso faceva riferimento.
Di questa evoluzione quello che voglio evidenziare, è come, nella manipolazione del
suo habitat, l'uomo abbia da sempre avuto come fine ultimo quello di delimitare lo
spazio che egli dimora, attraverso tutti i possibili strumenti che la mente gli metteva a
disposizione, per definire un determinato grado di organizzazione del suo ambiente.
La modalità attraverso la quale la mente riconosceva le cose ed i confini tra esse, non pote-
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va che essere la stessa, a prescindere che ci si riferisse a spazi esterni o a spazi interni.
Linee tratteggiate dalla mente, punti, elementi lineari verticali, rette, muri, o il nulla dei
confini geografici, sono gli strumenti che l'uomo usa per organizzare questi confini.
La maniera attraverso la quale organizziamo il nostro ambiente rispecchia la medesima modalità sia in termini di linguaggio, che di struttura conformativa, tanto nello
spazio del giardino quanto in quello minerale proprio dell'architettura, ed al pari di
questa ne subisce i corsi e ricorsi storici, nell'oscillazione aritmica tra razionale e irrazionale. Questa oscillazione è quella alla quale cerca di dare una spiegazione
Worringer in Astrazione ed Empatia, asserendo che esiste una costante alternanza
che è tipica dell'agire umano, tra l'organizzazione di tipo razionale e quella organica
che ritroviamo tanto nella struttura dei castra romani o nell'organizzazione spontanea di alcuni insediamenti, quanto nella ripartizione quadripartita del giardino persiano o nelle linee morbide di una serpentine propria dei giardini inglesi.
Un giardino alla pari del luogo dell’abitare, è sempre una creazione architettonica,
ed in quanto tale assoggettato alle medesime leggi organizzative.
“Non esiste un giardino che non sia, in qualche modo, un quadro offerto agli occhi,
e nello stesso tempo, una creazione architettonica … questa perpetua oscillazione tra
naturalezza e artificio, tra estetica pittoresca ed estetica architettonica, tra sensazione e struttura, costituisce l'evoluzione stessa dell'arte dei giardini, definisce gli stili
e permette di classificarli”.1
Le matrici formali che all'inizio sembrerebbero procedere parallelamente nell'organizzazione delle città e dei giardini, ad un certo punto si contamineranno a vicenda,
e si fonderanno incrociandosi nei giardini rinascimentali, per poi dividersi nuovamente nelle vaste aree dei giardini inglesi o in quelle apparentemente miniaturizzate dei giardini orientali. Il giardino, al pari del luogo del riparo, è considerato sin dall'inizio come uno spazio chiuso.
Già in precedenza, nell'analizzare il concetto di vuoto, si è evidenziato come tale
spazio non sia poi così vuoto e di come tale vuoto sia in realtà quella densità, quella distanza, psicologica o fisica, di cui noi stessi abbiamo bisogno per distinguere le
cose le une dalle altre. E questa distanza, essendo legata alle relazioni che tendono
ad affermare la molteplicità delle forme identitarie contenute in uno spazio, è necessariamente vincolata all'azione del disporre; istintivamente percepiamo la necessità
di tale distanza e questo disporre è una cosa che ci appartiene.
Le cose disposte rispondono quindi ad una naturale predisposizione che non permet1 GRIMAL P., L'art des jardins, tr. it. L'arte dei giardini, una breve storia, Donzelli Editore, Roma, 2005, p. 5
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La distanza è una forma di rispetto per l'essenza che ogni cosa porta con sé. È un baricentro magnetico
te loro di toccarsi, ritagliandosi nello spazio un proprio ambito di mondo.
Abbiamo visto come la semplice azione del camminare comporti la determinazione
di tracciati e di come questi possano definire dei campi, illusori o reali, inconsapevoli o consapevoli, e di come le linee che li sottendono disciplinino ciò che è dentro o fuori da essi.
Abbiamo anche visto come le prime forme di città rispecchiassero in terra un mondo
altro, che doveva essere rappresentazione e dimora del Dio pagano.
Evidentemente anche il giardino non poteva essere immune da tali influenze e sin
dalle sue origini doveva possedere un fortissimo carattere sacro.
Il giardino è stato da sempre uno spazio organizzato, e fortemente relazionato con
l'architettura dalla quale prende in prestito i suoi stessi strumenti, oscillando tra
naturale ed artificiale, esaltandoli aritmicamente, ed attraverso questi, nel corso del
tempo, ha privilegiato questo o quello aspetto formale e/o funzionale.
Come è stato detto, è un'ipotesi, condivisa tra gli antropologi, che il giardino, semplicemente inteso come una porzione di terreno recintato con rami e pietre a difesa
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dalle minacce esterne, sia, dopo il luogo del riparo, la casa, la forma più antica di
organizzazione dello spazio. È loro opinione che questo processo di delimitazione
fu lento e graduale e certamente da collegarsi alla trasformazione dell'uomo da cacciatore-raccoglitore a coltivatore-allevatore.
Se da una parte il semplice assoggettamento delle leggi della natura da parte dell'uomo rappresentava una forma di dominio e di conseguenza una forma di affermazione della propria identità, dall'altra la necessità di protezione favorì l'innalzamento di
recinti anche nel giardino, che, in quanto luogo che doveva rispecchiare in terra la
grandezza della formulazione celeste, e quindi contenere il Dio, non poteva che
essere cinto. Il luogo sacro doveva dunque essere cinto.
L'uomo nasce in un giardino. Tutte le leggende narrate fin dai miti più antichi collocano il luogo natale dell'umanità in un recinto protetto, nel grembo materno che
custodisce e salvaguarda la vita.2
Fin dalla sua apparizione sulla terra quindi l'uomo si è dovuto confrontare con il
mondo naturale, rapportandosi con esso in maniera dialettica, tra la consapevolezza
ancestrale di appartenenza al cosmo, e la sua istintiva necessità di protezione in un
continuo ritorno, quello dettato dai ritmi dell'universo, in sistole e diastole, oscillando tra l'horror vacui e l'amor infiniti.
La paura del vuoto ed al tempo stesso, dialetticamente, l'amore per lo spazio aperto,
hanno determinato, un progressivo incremento di pienezza, limitando all'esterno,
l'immenso che si schiudeva davanti ai propri occhi, attraverso una serie di strumenti che saranno quelli propri dell'architettura.
Come nell'architettura in un percorso inverso al naturale processo produttivo della
natura che vede il grande formarsi dal piccolo, anche nel giardino l'uomo opera un
proprio personale ordinamento del mondo, che però in questo caso si risolve da una
parte nell'assoggettamento alle proprie esigenze delle leggi naturali in relazione alla
necessità di produzione dei raccolti, ed dall'altra, dal punto di vista formale, è specchio delle leggi cosmiche che regolano l'universo.
Se da una parte l'uomo che cerca riparo sensibilizza il suo rifugio nelle più interminabili delle dialettiche (horror vacui), la consapevolezza di sé lo porta a relazionarsi con il
cosmo (amor infiniti) ricercando in esso le regole di cui il territorio circostante era privo.
Nella relazione dialettica tra città ed natura, le matrici geometriche attraverso le
2 VENTURI FERRIOLO M., Introduzione a Kepos, in: G. Baldan Zenoni-Politeo (a cura di), Intorno al giardino,
Milano, Guerini e Associati, 1993, p. 6
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quali si organizzarono gli insediamenti umani ed il giardino rispecchiano entrambe
quel carattere sacro a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza, condividendo
all'origine, come vedremo nel giardino persiano, o nei castra romani, una configurazione quadripartita.
Al centro degli assi principali dell'uno o dell'altro, non poteva che trovarsi il principio fondativo iniziale, sia questo un axis-mundi, una fontana, un tempio o il foro.
Nel giardino, come per le prime forme di civiltà, confluirono in principio magia e
religione, nel tentativo di comprendere lo stupore della vita e di contenere quei meccanismi, allora indeterminabili.
Credenze che nel tempo si purificheranno di tutte le superstizioni che avevano consentito la sua stessa formazione, ma che nella loro evoluzione continueranno
comunque ad essere sempre presenti come matrici fondamentali che lo hanno caratterizzato fin dalla sua nascita.
La storia ci restituisce il luogo natale del giardino sugli altipiani di Persia e di Media,
in mezzo al deserto, come se la cacciata dall'Eden avesse in qualche modo costretto l'uomo a riprodurre quel mondo meraviglioso che era il paradiso, proprio laddove era impensabile realizzarlo.
E paradiso fu proprio il nome con il quale i persiani chiamarono i loro giardini, dal
latino Paradisus dal greco Paradeisos e questo dal persiano Pairidaez con il significato di recinto, parco, giardino, indica come il senso del termine sia, sin dalle origini, riferito ad un luogo limitato e recinto.
A sinistra miniatura che rappresenta un giardino persiano con la fonte centrale e i quattro canali di acqua
divergenti. A destra rappresentazione della struttura quadripartita del mondo con i quattro fiumi sacri
orientati verso i quattro punti cardinali.
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2.
Sebbene le prime testimonianze iconografiche attendibili siano riferibili alla geograficizzazione dei giardini in Egitto, tuttavia, l'organizzazione di questo spazio, l'impostazione predominante dal punto di vista simbolico e formale, anche in mancanza di fonti letterarie ed iconografiche certe, sembra in realtà derivare, all'inizio, da
quella dei giardini persiani.
L'impianto del giardino, in principio, era forzatamente geometrico e diviso in quattro parti. Due assi ortogonali erano evidenziati da un viale e da una linea d'acqua.
All'intersezione degli assi c'era il fulcro dell'attenzione sia esso un palazzo, un padiglione o una fontana. La fontana è il corrispondente dell'axis-mundi, o dello spazio
plurifunzionale del foro, è l'incrocio del "cardo" e del "decumano".
Come nella città, questi due assi distribuivano il giardino in quattro sezioni, ed a partire da queste, organizzavano la sua espansione.
Il cardo e decumano nel giardino si traspongono simbolicamente nei quattro fiumi
divergenti che scaturivano dalla medesima sorgente nell'Eden. Tigri, Eufrate,
Ghicon e Pison (identificabili con il Nilo ed il Gange), "sorgono al centro del mondo
e, formando una croce, si dirigono verso i quattro punti cardinali, e costituiscono
una struttura geografica di matrice simbolica. "
Le principali testimonianze iconografiche in merito alle matrici organizzative dei
giardini finora descritte, derivano, per larga misura, dalla tessitura dei tappeti persiani. La visione del mondo, come precedentemente detto, rappresentava l'ordine
cosmico dell'universo, ed il loro scopo era quella di riportare, durante il periodo
invernale, all'interno del palazzo, i motivi cari e propri dei giardini. L'esterno, per
mezzo di altri strumenti, veniva riportato all'interno.
Come si envice dall’immagine del tappeto che segue, si vede che il giardino è “disegnato all'interno di un vasto recinto rettangolare e si ordina attorno a due assi perpendicolari la cui intersezione è segnata da un bacino evidentemente quadrato. Al
centro del bacino una fontana; quattro pesci - forse delfini dorati - la fiancheggiano.
I due grandi assi sono evidenziati da un lungo canale, scrupolosamente rettilineo, sul
bordo del quale sono piantate, a intervalli regolari, delle conifere - pini o cipressi che vi si riflettono. I muri di cinta sono mascherati da rosai rampicanti. All'interno
di ogni zona rettangolare due altri canali sono disposti a croce attraverso una rotonda ombreggiata da quattro grandi alberi a foglie caduche: querce, olmi, platani o
sicomori. I rettangoli allungati disegnati in questo modo fra le maglie di questo
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sistema di canali sono divisi in aiuole poste ad un livello inferiore a quello dei viali
così come alla superficie dell'acqua. Ciò permette un'irrigazione facile e mantiene il
fresco nella terra coltivata. Questo procedimento rimane diffuso in tutti i tempi fra i
giardinieri orientali. Necessario a causa della forte evaporazione naturale, al tempo
stesso definisce uno stile che si ritrova dall'Iran al Marocco. Le aiuole sono alternatamente riempite di fiori dai colori vivaci, fra i quali dominano la rosa, il nontiscordardimé, il tulipano, oggetto di una predilezione tutta particolare; di arbusti, come
oleandro e mirto, ed anche di melograni, di aranci, di limoni, i cui frutti sono altrettante tentazioni offerte al visitatore. La stretta disciplina che regnò sull'ordine generale è assente nel dettaglio di queste pitture. All'interno di ogni casella i fiori sono
seminati apparentemente a caso. Non si trovano quei ricami vegetali del giardino
romano e più generalmente del giardino occidentale, ma la libertà di una natura
capricciosa. Così il giardino persiano è come un bosco sacro in cui vengono ad unirsi gli elementi fondamentali dell'universo. Bacini e canali sono qui sprovvisti di
margini in pietra. L'architetto veglia con cura a che la superficie dell'acqua raggiunga esattamente il livello del viale che fiancheggia. Così il cielo, la terra e le piante
confondono i loro riflessi, e lo sguardo passa dall'uno all'altro senza transizione
alcuna: universo di sogno o di meditazione, confusione di forme, in cui solo la luce
conferma o nega a suo piacimento la realtà. Si capisce allora come nella musica persiana il giardino sia espresso da temi definiti, che ci sia una "musica del giardino"
come c'è per noi una musica del notturno. Perché la musica raggiunge anch'essa - e
più di qualunque altra la musica persiana - questa evanescenza di luci e di forme, questa dilatazione melodica dei colori e dei riflessi, che si svolge fra le maglie del ritmo”.3
3 GRIMAL P., L'arte dei giardini, op. cit., pp. 32 ssg
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Rileggendo questo brano ed estrapolandone delle parti notiamo una discreta consonanza delle matrici formali con quelle tipiche di un insediamento urbano di una
qualsivoglia città.
Disegnato all'interno di un vasto recinto rettangolare […] con muri di cinta […] con
due grandi assi evidenziati da un lungo canale, scrupolosamente rettilineo […] altri
[…] disposti a croce attraverso una rotonda ombreggiata.
Come nello spazio minerale, nel giardino, i recinti, che a breve migreranno verso il
muro, ne definiscono i limiti e gli conferiscono un carattere di spazio chiuso, stanze a cielo aperto; nel corso della loro evoluzione altri elementi ne struttureranno l'organizzazione, amplificandone il grado di contaminazione.
3.
Questa contaminazione era già presente nel giardino romano nel quale viene introdotta una ricerca di tipo plastico attraverso la composizione artificiale di paesaggi
pseudo-naturali. Il giardiniere romano è il "topiarius" cioè progettista di paesaggi, e
la sua arte era l'ars topiaria.4
Le scelte formali che costituiscono la struttura di questo spazio non sembrerebbero
del tutto originali, essendo derivate da elementi appartenenti all'architettura della
città, e deve moltissimo alla pittura greca, che, nel suo spogliarsi dalle evocazioni di
carattere mitologico, tende a rappresentare, piuttosto che allegorie, dei veri e propri
scenari in cui vediamo come scrive Vitruvio, "porti, promontori, rive, sorgenti,
canali, santuari, boschi sacri, montagne, greggi e pastori".
Rappresentazioni di questo tipo, venivano riprodotte lungo le grandi superfici murarie
lasciate libere alle spalle dei porticati, o sui muri prospicienti i ginnasi o le piazze.
Elementi organizzativi in cui si evidenzia una volontà di scelte legate alla differenziazione delle funzioni e del conseguente uso dello spazio erano già presenti nei
giardini egizi ove era solito trovare una vasca per le acque e dei padiglioni.
Nel giardino romano, questi padiglioni che prendono il nome di “dietae”, divengono episodi che definiscono gerarchie prospettiche, organizzano lo spazio che diventa maggiormente complesso.
L'unitarietà del giardino si perde a vantaggio di una settorializzazione in "cellule",
sotto-spazi, ciascuno dei quali è a servizio di una parte dell'edificio.
Sono delle stanze, in quanto unità minima, che come nella casa, diversificano gli
ambienti che sottendono, per il tipo di funzione specifica.
4 La differenza tra la progettazione del paesaggio e la potatura plastica deriva dal termine che i romani usavano per
definire quest'ultima. Nemora Tonsilia deriva da nemus-moris che significa bosco e da tonsilis-e con il significato
di tosato.
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“L'invenzione dei romani consistette semplicemente nel distaccare, in qualche
modo, il paesaggio dipinto e nel trasportarlo nell'area all'aperto che bordava il portico. Là dove i greci avevano una pista per la corsa o l'area pavimentata di un'agorà, i romani si concessero un giardino. In origine il giardino romano non è dunque
altro che un quadro proiettato nelle tre dimensioni dello spazio, un diorama costruito con i materiali veri della natura. […] Ignorano le vaste prospettive, e ciascuno
degli elementi che le compone è chiuso su sé stesso. Gli è sufficiente "servire" un'ala
o un portico determinato: il giardino rimane strettamente un quadro offerto ogni
istante alla presenza umana. Quando una stanza non si può aprire sul giardino, non
è raro che se ne suggerisca lo scenario attraverso dipinti inquadrati da finestre in
trompe l'oeil”.5
Se il giardino nasceva come diorama dei paesaggi bidimensionali greci, attraverso
la pittura questo influenza a sua volta lo spazio dell'abitazione, insediando i muri
della casa per mezzo di rappresentazioni naturali, di scenari dipinti, che sfondavano
i limiti imposti dalle mura agli spazi domestici; lo stesso atrium, che altro non era
che una camera d'ingresso, perde la struttura minerale che ne caratterizzava precedentemente il piano base, per ornarsi nel tempo di piante da giardino, ed in alcuni
casi arriva ad assumere un ruolo gerarchico per dimensione nei confronti dell’abitazione, come nel peristilio della Casa del Fauno a Pompei.
5 GRIMAL P., L'arte dei giardini, op. cit., p. 19
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5.
Le matrici organizzative fin ora descritte, non si riferiscono in maniera esclusiva agli
aspetti comuni che i giardini avevano con l'architettura, ma in uno spontaneo processo evolutivo, come nel caso del giardino arabo, fondono il concetto estetico di
paradiso di derivazione sassinide, che sviluppa i temi legati alla cosmogonia del
mondo, e lo spazio romano dell'atrium.
“È il luogo creato da Allah per premiare i beati con i piaceri sublimati dei sensi.
Perciò i suoi elementi devono essere ordinati secondo leggi altrettanto rigide quanto quelle della prosodia, affinché svolgano una funzione significante e il giardino
trascenda la propria realtà fisica.
Ne discende che il giardino arabo-islamico è in primo luogo geometria.
Non c'è da sorprendersi che il nome arabo del giardino sia rawda, termine che significa addestrare, ammaestrare, e che è omofona del termine arabo per indicare la matematica.
Il giardino metafora del paradiso, cioè il giardino geometrico, resterà separato dalle
piantagioni utilitarie”.6
Chiaramente gli arabi svilupparono un proprio modello culturale; il giardino arabo
diventa geometria quando introduce l'archeotipo formale del firdaws persiano, mentre l'influenza romana-bizantina è maggiormente evidente all'interno delle corti, dei
patios, la cui derivazione appartiene sia alla cultura ellenistica la cui corte è pavimentata, sia al peristilio romano ove invece era facilmente riscontrabile la presenta
di piante e di fontane poste al centro della struttura.
Se i motivi sopra descritti trovano una evidente definizione formale nei giardini
dell'Alhambra di Granata, tuttavia mi preme evidenziare come se da una parte l'introduzione di elementi tipici del giardino sconfina nello spazio interno attraverso le rappresentazioni a trompe l’oeil che troviamo nella casa romana, dall'altra il senso di clausura
imposto dal recinto faccia confluire in questo spazio, quei valori che in seguito tratteremo parlando della casa e che tendono ad evidenziarlo come spazio intimo.
“Il muro che divide il territorio selvaggio da quello colonizzato segna per altro verso
anche la demarcazione ideale e spaziale tra la vita nomade e la vita sedentaria.
In questi giardini si combinano gli elementi di base in modo da produrre dei risultati complessivi originali: infatti in questo contesto prende forma e assume particolare valore un tipo di giardino di carattere intimo, a corte, detto patio”.7
Alle matrici religiose, altri fattori si sommano nella formazione dei processi organizzati6 Cfr. Il Giardino Islamico, in Passeggiando per i giardini del tempo, dall'omonimo sito internet, passim
7 Ibidem
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vi. Quello che fino ad allora era stato un semplice recinto diviene muro, gli spazi tendono ad assumere quel grado di clausura, che amplifica il carattere interno dello spazio esterno, fattore questo in stretta dipendenza con i rapporti dimensionali e che assume il suo
massimo vigore nei giardini dei chiostri medioevali, dove se da una parte il carattere di
interno è enfatizzato dal volume che questi sottendono, dall'altra condividono, con la casa,
i valori di intimità; sono luoghi dove contemplare l'immensità, il divino.
La parte dedicata alla meditazione non poteva però in alcun modo interferire con
quella dedicata alla coltura di piante da frutto, che magari più spesso erano invece
subordinate alle coltivazione di piante mediche. Questa separazione si moltiplica al
suo interno determinando spazi multipli, necessariamente differenziati per funzione.
I Giardini dell’Alhambra, Granata
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Vr
Vr
Ps
Questo schema grafico rappresenta la complessa organizzazione tipica del giardino medioevale, secondo l'analitica ricostruzione di Francesco Fariello.
Dall'ingresso (1) si accede alla aiuole con i fiori (2), e si prosegue verso il prato con fontana e padiglioni
(3). Vi si notano altre aiuole con erbe (6) che si integrano con l'antica figura del labirinto (4) e con il padiglione del bagno (5). Le altre aree del giardino sono destinati ai pomari (Pr), ai verzieri (V), al viridario (Vr)
e alla peschiera (Ps).
Lo schema è stato preso da FARIELLO F., Architettura dei giardini, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1967
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6.
Le contaminazioni tra architettura e giardino trovano la loro massima espressione in
epoca rinascimentale.
Se da una parte nuovi elementi contribuiscono a determinarne la corrispondenza
organizzativa, dall'altra, assistiamo ad una vera e propria fusione inscalfibile della
struttura architettonica della villa, intesa nel suo complesso edificio-giardino.
Firenze, in Italia, fa da sfondo alla nuova visione che trasfigura la concezione naturale del giardino, a vantaggio di una tutta incentrata sull'architettura, e per certi versi
antinaturalistica, dove è la ragione, con le sue geometrie forzate, a dettare le regole
della composizione.
E questo è il carattere fondamentale che vede edificio e giardino in strettissima relazione; l'uno e l'altro determinano insieme la formulazione dello spazio architettonico del complesso ove interno ed esterno iniziano a fondersi in una innovativa visione spaziale, dovuta al fatto che se prima il giardino era il filtro tra la casa e lo spazio pubblico, e quindi di stretta dipendenza da essa, ora assume una funzione di filtro tra il palazzo ed il podere, dove il paesaggio, sebbene antropizzato, favorisce evidentemente l'uso di quella porzione di terreno in realtà più prossimo alla villa.
Al fine di “ottenere questi risultati si abbattono i diaframmi murari che fino a pochi
decenni prima confinavano il giardino e si tende, con la valorizzazione di qualche
relazione intima di carattere visivo e funzionale, a fondere insieme gli spazi aperti,
di più stretta dipendenza dalla casa, con quelli circostanti del podere e anche del paesaggio, più lontano, naturale e antropizzato".8
Come la porta della capanna dell’uomo primitivo, secondo quanto descritto da Le
Corbusier , si apre sull’asse del recinto, e la porta del recinto sta di fronte alla porta
della capanna,9 in una sequenza di percorsi, il palazzo si fonde in planimetria con
il giardino.
Gli assi che partono dall'ingresso della villa, attraverso le loro simmetrie conformi
alla struttura assiale o stellare del giardino, sembrano proseguire in esso.
Lo stesso rapporto lo si ritrova anche nella relazione con la facciata del palazzo
generando contaminazioni su entrambi i piani sui quali opera l'architettura.
Se nell'organizzazione planimetrica la villa condizionava la struttura dello spazio
esterno, a Villa D'Este a Tivoli, il giardino influenza il prospetto del palazzo, tanto
da far sembrare impossibile, in entrambe i casi, l'esistenza di uno in mancanza dell'altro.
8 Cfr. Il Giardino Rinascimentale, in Passeggiando per i giardini del tempo, dall'omonimo sito internet,
passim
9 Cfr., LE CORBUSIER, Vers une architecture, Flammarion, Paris, 1926
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E’ evidente che alcune soluzioni sono strettamente legate alla conformazione dei
luoghi.
Se per assurdo immaginassimo di eliminare l'edificio, si sentirebbe che è ancora lì,
in quel posto preciso, in quanto nucleo intorno al quale si riferisce tutto l'insieme.
Nel caso di Villa d’Este la compressione della superficie occupata dal giardino e la
forte pendenza del terreno fanno sì che la lettura migliore della struttura giardinopalazzo rompa gli schemi canonici per privilegiare la visione dal basso.
L'impossibilità di vedere il giardino dall'alto inverte la visuale principale e fa di questo il punto di vista.
La morfologia del territorio vincola fortemente le scelte organizzative, trasforman-
Villa D’Este a Tivoli. La discesa al giardino è fortemente serrata e favorisce l’inversione della consueta
visuale prospettica. Piuttosto che guardare il giardino dall’alto, questo è interpretato come zoccolo, struttura del piano base del palazzo.
Il Giardino di Poliphilo
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do il giardino, con le sue terrazze disposte secondo diversi ordini architettonici,
nello stilobate, parte integrante del prospetto principale.
È in questo periodo che la natura si satura di quegli elementi tipici del palazzo e della
villa. Terrazze, scale e balaustre vengono estrapolate dalla loro ordinaria localizzazione ed espandono le loro modalità di organizzazione anche all'esterno. Il giardino
"diviene terrazza che si apre su ciò che sta attorno".10
Il piano base si articola a quote differenti, compatibilmente con la morfologia del
territorio, generando nuovi ritmi compositivi, e nuove relazioni nelle differenziazioni funzionali.
Il progetto del Bramante per la terrazza del Belvedere è il “primo parco creato
secondo un progetto architettonico.” L'impianto è strutturato in tre terrazze a quote
differenti che servivano a compensare i dislivelli di quota esistenti. Quello che interessa nella relazione che il giardino intesse con il complesso architettonico, è il fatto
che esista una quinta di fondo determinata da una facciata trattata a portico con al
centro un abside monumentale che sosteneva la loggia.
Elemento nuovo dell'impianto del giardino ne dimostra la dipendenza dal palazzo; fattore quasi spontaneo determinato dalla necessità di avere punti di vista privilegiati dai
quali poter ammirare la totalità del progetto, porterà a soluzioni correttive delle aberrazioni prospettiche in Le Notre e il rovesciamento del piano della visuale in Ligorio.
Il muro che era il volume aperto del chiostro medioevale assume più autonomia, ed
organizza stanze e percorsi, e questo soprattutto grazie alla continua dilatazione dei
confini del giardino.
È la natura che diventa muro non in termini di conformazione spaziale, ma in quanto
elemento che, al pari delle pareti di una casa, è fisso. Il fatto che sia fisso non è da confondere con la sua immobilità, ma bensì con il suo carattere di permanenza, di essere
sempre verde, immutevole, estraneo al corso delle stagioni. È tutt'altro che naturale.
In questi muri, come nelle abitazioni, vedremo aprirsi porte e finestre che inquadrano i paesaggi di sè stessi, verde che si apre sul verde, come testimoniano i versi che
ritroviamo nell'opera letteraria Hypnerotomachia Poliphili ("Battaglia d'amore in
sogno di Polifilo") pubblicata nel 1499 dal tipografo veneziano Aldo Manuzio.
Questa zona di boschetti terminava con una muraglia circolare fatta di limoni ed aranci, e bucata da finestre e porte ad arco.[…]La pietra viene qui ad unirsi ai motivi vegetali, che formano con essa un edificio vero e uno.11
10 SEDLMAYR H., Verlust der Mitte, tr. it., La perdita del Centro, Rusconi editore, Milano, 1974, p. 125
11 GRIMAL P., L'arte dei giardini, op. cit, pp. 57 e sgg.
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I piani orizzontali di Bramante, sono l'evoluzione dei "raumplan" che organizzavano le grandi scale che collegavano i diversi livelli del palazzo, ma anche quelli dei
giardini di Babilonia, che a dire di Orazio, per primi i Romani "presero come spunto per concepire sovrapposizione di terrazze, piantare alberi sui tetti delle ville, mentre una similare evocazione la ritroviamo sicuramente nei giardini pensili di Isola
Bella sulle rive del lago Maggiore".12
La terrazza diviene la scusa per articolare i ritmi della composizione attraverso l'uso di
balaustre che bloccano o favoriscono passaggi, li esaltano o li trasferiscono lateralmente.
La superficie del parterre diventa minerale.
E basterebbe analizzare quanto descritto da Leon Battista Alberti nel “De Re
Aedificatoria” a giustificare il livello di contaminazione che la villa ed il giardino
avevano assunto e che sarà definitivamente sancito nella storia, dal giardino di tipo
francese. Il palazzo, come già si cominciava a vedere a Villa Lante a Bagnaia, è in
secondo piano, ed è la visuale infinita che regola la struttura complessiva; la privilegiata visione dall'alto, distorce, come nel palazzo Lateranse a Roma o nelle enthasis delle colonne greche, la vasca terminale del giardino di Versailles, a vantaggio di
quella ricerca matematica di correzione dell’aberrazione prospettica.
I giardini del Re Sole a Versailles. Le vaste prospettive si fondono con l’immenistà del cielo, a rappresentazione dell’unione tra uomo e Dio.
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Se il giardino inizia ad assumere dimensioni tali da divenire il filtro tra palazzo e podere, è evidente che da ora in poi il grado di chiusura fisica dello spazio non potrà che essere via via minore, affrancandosi dai limiti fisici e smaterializzando i confini che ritorneranno ad essere, come quelli descritti in precedenza, invisibili reticoli di punti e linee.
Il massimo grado di smaterializzazione si ha con i giardini inglesi, anche se in questo caso sarebbe più corretto da subito parlare di parchi.
Laddove vi erano superfici pianeggianti, la morfologia del territorio, i colori, le luci
trasformarono il paesaggio inglese in un quadro autoreferenziale, che discende dalla
pittura del paesaggio, e che, come per i giardini orientali, non necessitava della presenza dell'uomo.
Il giardino formale lascia il posto ad uno spazio che rispecchia, nel suo grado di
apertura, i nuovi confini ideologici dell'epoca, abbattendo le rigide assialità con percorsi sinuosi, uscendo dai confini attraverso la tecnica inventata da William Kent del
"ha-ha". Questa era una particolare forma di recinzione, a testimonianza che un
limite era comunque presente, ma che per volontà percettiva, invece che elevarsi
verticalmente, veniva scavata come fosse una trincea per non permettere agli animali di uscire, ed al tempo stesso garantire la continuità visiva in lontananza.
L'edificio perde completamente di importanza in tale contesto ed è, al pari degli elementi che lo completano, un accessorio del paesaggio.
“[Tuttavia], fin tanto che la libera forma del giardino è legata a un nucleo architettonico, la rivoluzione non è ancora compiuta. Il parco di Stowe, celebre e antico
esempio dei nuovi orientamenti degli anni intorno al 1720, è un vecchio parco
costruito con schemi fissi e trasformato poi in libere forme di paesaggio. Ma il
castello resta il centro di tutto il complesso. E per di più il parco è costruito in funzione di esso. L'ampio sfondo erboso che lo attraversa è come un tappeto trasportato nella libertà e nella organicità del giardino architettonico. Se si togliesse l'edificio
si sentirebbe che è ancora lì, in quel luogo preciso, doveva esserci stato un nucleo al
quale si riferisce tutto l'insieme. Solo quando il "giardino all'inglese" considererà
l'architettura come un puro e semplice completamento, la trasformazione potrà dirsi
compiuta. Nel parco le architetture sono disposte in modo che, passeggiando, ci si
imbatta, per così dire, in esse. Esse sorgono direttamente dal paesaggio e si trovano
lì come per caso, spesso nascoste in un angolo, tanto che, se si dovesse rimuoverle,
non ci accorgerebbe quasi della loro mancanza".13
12 Ibidem, p. 11
13 SEDLMAYR H., La perdita del Centro, op. cit., p. 125
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Gli edifici all’interno dei parchi inglesi appaiono come episodi isolati, spuntano spesso all’interno di un
paesaggio al pari degli stessi alberi.
Nel giardino orientale la natura è sottintesa attraverso l’astrazione di elementi che suggeriscono in uno
spazio spesso minimo, montagne, fiumi, acqua.
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Lo spazio naturale che prima era il completamento di quello domestico, diviene, con
i giardini inglesi, autoreferenziale, capovolgendo il proprio rapporto con l'architettura costruita, che diversamente, diventa una mera integrazione all'interno delle
vaste aree verdi che il parco sottende.
8.
Shan e shui sono i termini complementari ed opposti attraverso i quali in cinese si
traduce la parola paesaggio.14
Una corrispondenza tra monti ed acqua, rappresentazione dell'universo, che ne definisce il
carattere che deve essere disvelato nella giusta modalità a partire dall'occupazione del sito.
Il giardiniere cinese cerca un po' come quello inglese, di estrapolare le peculiarità
insite nel luogo secondo l'arte del feng-shui.
Ciò che si pensa un'invenzione dell'arte dei giardini in Inghilterra è in realtà sempre
esistito nell'approccio orientale alla composizione dello spazio naturale.
Qui la componente intima che avevamo trovato nel chiostro medioevale, si libera
dal valore formale del muro, per fondersi definitivamente con la natura del sito,
affrancandosi dai confini fisici per amplificare le relazioni cosmiche.
Come nell’ambiente domestico, ciò che si cerca è la creazione di una particolare
atmosfera, di quella stimmung che è somma di sensazioni non esclusivamente visive.
Attraverso l'uso sapiente di elementi quali la roccia, l'acqua, o la sabbia che la simboleggia, il giardino orientale, rappresenta un paesaggio in miniatura che riproduce
l'immensità del cosmo; lo stesso valore di immensità che a breve ritroveremo negli
argomenti seguenti e che è una componente della revêrie di Gaston Bachelard.
Valori noti si contaminano di significati simbolici, ed astraendosi dalla loro fisicità
formale, divengono, al pari degli oggetti, dei medium attraverso i quali l'immaginazione ricostruisce la struttura dello spazio intimo.
“Nel giardino ciascuna pietra ha sempre una funzione ben precisa: può servire a
riprodurre realisticamente una tartaruga, un airone o una nave, secondo i miti cari
alla tradizione, può venire impiegata per costruire paesaggi in miniatura in cui si
rappresentano monti veri o immaginari, una cascata una spiaggia, un impetuoso
corso d'acqua. Raramente le pietre vengono usate in modo isolato, ma di solito compaiono in gruppi dove il singolo componente non può essere omesso o rimosso
senza distruggere l'armonia dell'intera creazione”.15
L'elemento vegetale non prevale sulla composizione tanto che neppure l'oggetto in
14 MOORE C. W., MITCHELL W. J., TURNBULL W. JR., the poetic of garden, op. cit., p. 2
15 Cfr. Il Giardino Giapponese, in Passeggiando per i giardini del tempo, dall'omonimo sito internet
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quanto tale ha più importanza. Cambia la convenzione della rappresentazione che
privilegia l'aspetto della memoria e dell'immaginazione.
L'acqua in un giardino zen non è presente nella forma nella quale siamo abituati a
conoscerla come la roccia non rappresenta un sasso bensì una montagna.
“Il giardino cinese è prima di tutto il luogo della contemplazione, dell'immobilità,
del silenzio. Si stende fino al mondo indeciso del mondo interiore e delle cose, e il
giardino più perfetto è forse il recinto modesto davanti alla capanna solitaria in cui
medita un poeta”.16
L'oggetto diviene una scusa per alimentare immagini nella memoria, un pretesto per
la determinazione di uno stato d'animo.
Il giardino si purifica della presenza umana; il sentiero non è fattore dinamico ma
contemplazione statica, la stessa che Bachelard individua nell'angolo. "Il giardino è
un microcosmo che privilegia i valori eterni della creazione, montagne ed acqua,
rispetto ai valori effimeri identificati nella caducità della vegetazione".
La visione si moltiplica verso un paesaggio che è "spazio limitato ed aperto" e che
arrivando alla contemporaneità strappa definitivamente i confini fisici nel momento
in cui diviene spazio pubblico, caricandosi nuovamente delle potenzialità organizzative e simboliche evidenziate all'inizio del libro.
Ripetizione, ritmo e colore, consentono una interpretazione inedita di oggetti ad uso
quotidiano, come nel caso delle istallazioni di Christo in cui una serie di ombrelli
tappezzano come fiori fioriti, i paesaggi montani giapponesi.
Sottratti alla loro funzione primaria disegnano geometrie complesse che creano dei
piani virtuali, come case prive di pareti, posizionati in modo da definire uno spazio
intimo coerentemente con quanto avviene nella tradizione giapponese.
Oggetti artificiali in territori naturali, la cui conformazione riporta alla memoria
l'immagine dell'albero, contrastano con il paesaggio e definiscono il carattere effimero del confine.
The Umbrellas, free standing dynamic modules, reflected the availability of the land
in each valley, creating an invitational inner space, as houses without walls, or temporary settlements and related to the ephemeral character of the work of art. In the
precious and limited space of Japan, The Umbrellas were positioned intimately, close
together and sometimes following the geometry of the rice fields. In the luxuriant
vegetation enriched by water year round, The Umbrellas were blue.17
16 GRIMAL P., L'art des jardins, op. cit, p. 92
17 Christo and Jeanne-Claude, The Umbrellas, The Umbrellas, Prefecture of Ibaraki,Tokyo, Japan, North Hitachiota
and South Satomi Valley, 1984-1991
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Protezione e l'identità sono quegli stessi archetipi formali dai quali derivano tanto la
città quanto il giardino, e che ricapitalizzati all'attualità, trasformano il confine fisico in limite percettivo, privo spesso di quei recinti che, come nella casa, lo hanno
tanto caratterizzato nella storia dell'architettura.
Il senso di protezione, la paura del vuoto trasformano le frontiere dello spazio naturale in un processo di miniaturizzazione virtuale che continua ad essere una forma
di misura e controllo.
All'esterno non cambia il modo di tracciare i confini del nostro stesso mondo; la sensazione di circoscrivere uno spazio interno fissa i limiti di una riflessione sulla differenza che questa determinazione pone rispetto agli interni domestici.
Lo stesso potere che ritroveremo negli oggetti, che dentro o fuori i confini murari
circoscrivono lo spazio dell'abitazione, nel giardino viene affidato a pietre, sabbia,
ghiaia, acqua, elementi che attivano la revêrie dell'immenso.
Una tale lettura dello spazio del giardino si affranca da una visione puramente naturalista per inondarsi delle stesse matrici compositive degli insediamenti umani, conformandosi come uno spazio chiuso e cintato: uno spazio interno.
Giardino, dalla radice jardis, gardis, jerri, jardin, garto, gaard, nasce con il significato di luogo recinto, ed anche da gard=hart, nel significato di cingere, circondare,
ci riporta al significato embrionale di luogo chiuso e ci aiuta a confermare le riflessioni sinora sostenute.
Come nello spazio dell'abitazione, soprattutto nel giardino orientale, si tende ad affinare quella ricerca di uno spazio intimo, a partire dal quale, attivare la revêrie suggerita dall'astrazione dei significati insiti nelle sue componenti, per divenire il luogo
in cui l'uomo rappresenta sé stesso e si rapporta con l'immensità dell'universo.
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il sistema degli oggetti
Se da una parte assistiamo ad un impoverimento di quelli che sono stati i valori di protezione del muro,
dall'altra partecipiamo allo spostamento dei confini delle nostre paure da una dimensione di tipo fisico ad
una di tipo psicologico. In ogni caso, di fronte alla perdita dei valori che la società contemporanea ci consegna nell'isolamento del singolo rispetto al gruppo, il senso di vuoto interiore che ne scaturisce, non sarebbe potuto essere comunque minimamente compensato dal valore protettivo del muro.
Attraverso gli oggetti, nell'intimità della nostra casa, ricostruiamo allora un mondo entro il mondo.
Gli oggetti oltre a rappresentarci, ci custodiscono, conformano lo spazio, sono compagni della nostra solitudine interiore, e traccia della nostra memoria.
Ci serve una casa in senso psicologico oltre che in senso fisico, per compensare la nostra vulnerabilità.
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La casa è uno spazio specifico che non prende in considerazione spostamenti oggettivi, dal momento che i mobili e gli oggetti hanno innanzitutto la funzione di personificare le relazioni umane, di popolare lo spazio
che dividono e di avere un'anima. La relazione reale in cui vivono è prigioniera della dimensione morale che devono significare. In questo spazio hanno un'autonomia limitata come limitata è l'autonomia che i membri della famiglia hanno entro la società. Esseri e oggetti sono legati, e gli
oggetti assumono in questa collusione una densità, un valore affettivo
che si accetta chiamare presenza. Ciò che rende dense di significato le
case in cui si è vissuti da bambini, che rende pregnante il loro ricordo, è
chiaramente questa struttura complessa di interiorità ove gli oggetti spiegano di fronte ai nostri occhi i contorni di una configurazione simbolica
chiamata casa.
BAUDRILLARD J., 2004
1.
Nonostante abbiamo avuto modo di constatare come il muro abbia perduto il suo
valore originario, di protezione dalle minacce del mondo esterno nonché da quelle
dei propri simili, oggi che non è più il mondo esterno l'oggetto delle nostre paure,
che non è da esso che dobbiamo proteggerci, il senso di paura che atavicamente ci
pervade non sembra essere del tutto svanito, ma che al contrario, si sia trasferito
verso altre direzioni.
Si può senza ombra di dubbio affermare che se prima era l'uomo ad avere paura del
mondo, ora è il mondo ad avere paura dell'uomo.
Da tempo questo valore di protezione è stato inoltre affiancato da un bonus, ulteriore tassello di sicurezza, individuato in una forma di benessere generalizzato che
potremmo definire economico-alimentare.
Tuttavia, tutto questo sentirsi protetti, non è che abbia contribuito a lenire quel senso
di paura latente che sembra accompagnare la nostra evoluzione adattandosi alle circostanze senza abbandonarci mai totalmente.
Di converso mi sembra di poter affermare che laddove i confini del proprio mondo
personale erano labili e frangibili, sconosciuti nel legame mitologico attraverso il
quale rappresentare una realtà altra, la virilità dell'individuo era maggiore, mentre
ora che i progressi tecnologici, la struttura dei materiali da costruzione e la comple-
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tezza apparente di uno zoccolo di conoscenza nerboruto hanno reso inespugnabili le
nostre abitazioni, l'uomo sembra essere divenuto più fragile.
Quel senso di paura del mondo, si trasferisce in un senso di paura di vivere; la paura
del resto non ci ha abbandonato mai del tutto, si è semplicemente trasferita da qualche altra parte.
“E non importa essere etnografi o antropologi per sapere che fin dalle origini dell'umanità la compagna più fedele dei nostri antenati fu senza alcun dubbio la paura.
E quando si parla di paura, a torto noi pensiamo alle grandi catastrofi naturali, alle
eruzioni vulcaniche, ai terremoti, […]. Dico a torto, perché credo non riflettiamo
abbastanza sul fatto che la paura si ingenerava, oltre da avvertimenti disastrosi nel
senso vero del termine, anche da circostanze più banali che dimostravano tuttavia la
debolezza, la pochezza, l'impotenza dell'uomo di fronte alla vastità del mondo e dell'universo e di fronte alla sua prepotenza.
È assai facile immaginare che, come sostengono gli antropologi, l'angoscia e la
paura nascessero […] per il fatto che una stella o una costellazione si ripresentassero nella medesima stagione e alla stessa ora in una identica posizione […]. In effetti questo provava l'esistenza di un grande orologio della natura che funzionava a
modo suo, indipendentemente dalla volontà degli uomini”.1
Il timore di quello che Levi Strauss definiva "il mondo silenzioso dei grandi determinismi naturali" se da una parte trova forzatamente nuove risposte in virtù della
comprensione di quei meccanismi ancestralmente miticizzati, dall'altra, la paura,
questo senso di disagio, si sposta verso nuove frontiere, come una puntina su un
vinile, ironizzando della nostra intelligibilità, schernendo, come un personaggio
visto dall'alto del burattinaio Ariosto, i nostri sforzi, che convergono ineluttabilmente in un senso di sgomento, che sì che si dovrebbe mitizzare, in quanto privo di esaustive spiegazioni.
La necessità di protezione a sua volta si trasforma in un meccanismo meramente psicologico e diventa allora un dispositivo attraverso il quale l'uomo si difende dalla
società che gli impone i propri schemi, che spesso non sono condivisi e che non gli
permettono di esprimere pienamente tutta la propria personalità.
“La sfera pubblica non costituisce più un ambito di identificazione soddisfacente e,
d'altra parte, la sfera privata non garantisce un ambito di realizzazione adeguato.
L'individuo è così costretto a ricercare nuovi ambiti di identificazione in una sorta
di "mercato dell'identità". Diventa un consumatore di identità, di cui alcune hanno
1 BELLASI P., Il Giardino del Pelio. Segni, oggetti e simboli della vita quotidiana, Costa & Nola, Genova, 1995, p.
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Le nostre molteplici personalità
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una vita più corta, altre una più lunga essendo soggette all'obsolescenza che è intrinseca a tutto ciò che ha a che fare con la moda”.2
Nella sfera pubblica, essendo potenzialmente aperto a tutti l'accesso al sistema della
struttura sociale, prima appannaggio esclusivo dei ceti aristocratici, si crea un clima
di competizione generalizzata alla quale ognuno di noi reca il proprio contributo,
favorendo un processo di isolamento che spesso troviamo già all'interno delle marginali gelosie che si generano nella cerchia ristretta della struttura familiare.
La diretta conseguenza di tale atteggiamento diviene un inevitabile isolamento al
quale l'uomo è condotto, sia per un senso di colpa atavico, sia per la mancanza di
quel sano "patto umano" di cooperazione, e questo grazie anche agli strumenti che
il mondo gli fornisce, che gli permettono di essere completamente indipendente.
Anzi, sembrerebbe che tutto lo sforzo sociale tenda a questo fine; quello di operare
una manipolazione puntuale dell’individuo, standardizzando le nostre personalità e
trasformandoci in attori già nei confronti di noi stessi. Del resto è sempre stato "il
vulgo", in quanto gruppo, l'oggetto temuto di rivoluzioni socio-culturali.
L'individuo è quindi lasciato solo, “in balia di sé stesso, senza principi guida, ad
inventarsi e costruirsi il suo universo. Questa libertà senza precedenti e senza condizioni della sfera privata lascia però spesso l'individuo in uno stato di ansietà, poiché egli non dispone della capacità e degli strumenti necessari per dare un senso ed
organizzare la propria esistenza.”3
Questo sentimento di ansietà è quello che nella nostra più profonda consapevolezza
ritroviamo nei rapporti interpersonali, nella coscienza della mancanza del singolo
nei confronti del gruppo, come pure nel non riuscire a comprendere il nostro scopo
in questo mondo; potrebbe essere definito il vero peccato originale, ovvero l’incomprensibile senso di colpa che indipendentemente dalla giustezza delle nostre azioni,
ci portiamo appresso.
La libertà che abbiamo conquistato in realtà è da un certo punto di vista il male
primo, che si dispiega nelle infinite possibilità di scelta che ci sono concesse da una
parte, ed al tempo stesso rappresenta una autonomia apparente, nella possibilità di
accesso ad un sistema segnico che ha a priori subìto una precedente selezione.
All'esterno, perdiamo necessariamente un po' di noi stessi, nel non poter affermare
in maniera esclusiva i nostri pensieri, le nostre opinioni.
Tutto questo determina un senso di inadeguatezza che è quello che Kierkgaard
esprime ne "Il concetto dell’Angoscia" e nella "Malattia Mortale".
2 LEONINI L., L'identità smarrita, il ruolo degli oggetti nella vita quotidiana, Editrice il Mulino, Bologna, 1988, p.
18
3 Cfr. KIERKEGAARD S., Il Concetto dell'Angoscia, in Grande Antologia Filosofica, vol. XVIII , Marzorati, Milano,
1971
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La libertà di poter regolare gli eventi e la consapevolezza che questi si modifichino
indipendentemente dalla nostra volontà porta ad un corto circuito mentale che pone
i suoi presupposti nell'angoscia.
Nell'orizzonte del tutto è fattibile per ogni occasione favorevole ne esistono infinite
negative. “Ciò che massimamente angoscia l'uomo è l'indefinitezza problematica del
possibile, l'inestricabile nesso con il futuro possibile che attraverso la sua libertà può
assumere infinite combinazioni e quindi da questo punto di vista la sua libertà non
offre direttrici, traguardi, ma un vuoto di valori, e quindi il nulla, e quindi paradossalmente l'oggetto dell'angoscia è rappresentato dal niente dal quale però l'uomo non
può liberarsi essendo questo parte e partecipe del suo essere più profondo”.4
Nella Malattia Mortale Kierkgaard porta avanti il concetto focalizzandolo all'interno dell'animo umano.
Se infatti ne "Il concetto dell'Angoscia" viene analizzata la sofferenza dell'uomo nei
confronti di quanto lo circonda e minaccia dall'esterno, nella "Malattia Mortale"
viene raffigurata la sofferenza che abita nell'interno dell'uomo. Questa nasce dall'impossibilità di convivere in modo sereno con sé medesimo. Se l'individuo vuole essere così com'è si imbatte subito nei propri limiti, se punta a volersi altro, scopre di
non poter abbandonare sé stesso: in ogni caso non "può giungere all'equilibrio ed
alla quiete". Ne deriva ciò che Kierkgaard chiama nuovamente la disperazione.
2.
Questa libertà di accesso alla realtà agisce sulla nostra personalità, ci illude lasciando
sempre aperta una possibilità di soddisfazione di necessità di cui non abbiamo bisogno, ed allora cerchiamo di essere ciò che non siamo.
Ci accorgiamo che non ci interessano veramente le cose che facciamo, ed al tempo
stesso non siamo capaci a dirigere il timone della vita verso la sua naturale direzione.
Questo sentimento e le possibili varianti della rotta, generano una discontinuità che
è oscillazione tra le nostre differenze. Restiamo in una condizione di corsa-sulposto, con la sensazione di andare, stando in realtà tremendamente fermi.
Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e mi accorgo che
quello che mi interessa è un'altra cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che
resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra quell'argomento determinato e tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e
4 Cfr. KIERKEGAARD S., Sygdommen til Døden, tr. it, La malattia mortale, Newton Compton, Roma, 2004
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lo spazio possono contenere. È un'ossessione divorante, distruggitrice, che basta a
bloccarmi.5
In questa condizione, privati della nostra stessa identità, il vuoto di valori che ci portiamo al seguito, è primamente un vuoto interiore, risultando evidente che non è certo
un muro a poter compensare un tale atteggiamento assunto nei confronti della nostra
stessa esistenza; è nell'intimità dello spazio domestico che l'uomo ritrova un universo a lui più consono, nel gruppo chiuso della struttura familiare, dove isolato dal
resto, dai problemi che lo affliggono, riesce a ritagliarsi un angolo-di-mondo in cui
sentirsi effettivamente parte e partecipe ai moti dell'universo.
La casa diventa allora il tempio ove rappresentare il suo mondo personale.
E questo universo è costellato da una moltitudine di elementi giustapposti che costituiscono il "sistema degli oggetti".
3.
Ne "Il sistema degli oggetti", Baudrillard sintetizza in maniera perfetta le tematiche
che saranno trattate in merito al valore che l'oggetto, al di là del suo valore intrinseco, assume nel contesto architettonico, sociale, e psicologico.
“La configurazione che assume l'arredamento fornisce un'immagine fedele delle
strutture familiari e sociali di un'epoca. […] I mobili, diversi per funzione, ma fortemente integrati, gravitano intorno al buffet o al letto centrale. Si rivela una tendenza all'accumulazione, a occupare lo spazio, a chiuderlo. Funzionalità univoca, inamovibilità, presenza imponente e etichetta gerarchica. Ogni mobile ha una precisa
destinazione che corrisponde alle diverse funzioni della cellula familiare, e rimanda
a una immagine della persona concepita come un sistema equilibrato di diverse
facoltà. I mobili si fronteggiano, si imbarazzano reciprocamente, si implicano in
un'unità d'ordine molto più morale che spaziale. Si dispongono attorno ad un asse
che assicura una regolarità cronologica dei comportamenti: la presenza continua e
simbolizzata della famiglia a sé stessa. In questo spazio privato, ogni mobile, ogni
pezzo interiorizza a sua volta la propria funzione e ne riveste la dignità simbolica tutta la casa diventa segno dell'integrazione dei rapporti personali nel gruppo semichiuso della famiglia.
[…] La casa è uno spazio specifico che non prende in considerazione spostamenti
oggettivi, dal momento che i mobili e gli oggetti hanno innanzitutto la funzione di
5 CALVINO I., Lezioni Americane, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1993 p. 77
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personificare le relazioni umane, di popolare lo spazio che dividono e di avere
un'anima. La relazione reale in cui vivono è prigioniera della dimensione morale che
devono significare. In questo spazio hanno un'autonomia limitata come limitata è
l'autonomia che i membri della famiglia hanno entro la società. Esseri e oggetti sono
legati, e gli oggetti assumono in questa collusione una densità, un valore affettivo
che si accetta chiamare presenza. Ciò che rende dense di significato le case in cui si
è vissuti da bambini, che rende pregnante il loro ricordo, è chiaramente questa struttura complessa di interiorità ove gli oggetti spiegano di fronte ai nostri occhi i contorni di una configurazione simbolica chiamata casa. La cesura tra interno ed esterno, la opposizione formale sotto il segno sociale della proprietà e sotto il segno psicologico della immanenza familiare, rende trascendenza chiusa questo spazio tradizionale. Questi dèi lari antropomorfi, che sono gli oggetti, incarnano nello spazio i
legami affettivi e la permanenza del gruppo, si fanno dolcemente immortali, fino a
che la moderna generazione non li releghi o li disperda, o qualche volta li resusciti
nella nostalgica attualità dei vecchi oggetti. Come gli dèi, spesso i mobili hanno
aperta la possibilità di una seconda esistenza, che avviene nel trapasso dall'uso naïf
al barocco culturale”.6
Gli oggetti costituiscono un universo di significati che saranno analizzati per il loro
valore protettivo, per la loro capacità di ricordarci chi siamo, per essere portatori
sani di personalità, per la loro peculiarità di elementi conformanti lo spazio, per la
funzione che svolgono ed il luogo che essi richiamano.
Confini del nostro universo psicologico, troveranno nella memoria, quel valore in
grado di incoraggiare la revêrie, in un viaggio che inizia a partire da una condizione iniziale che è quella tipica dell'uomo che ha trovato un adeguato rifugio per la
propria intimità.
Gli oggetti, sono dei medium attorno ai quali organizziamo la nostra esistenza.
Se uno spazio diviene una stanza per il valore che noi convogliamo in esso, allo stesso modo il valore che assegniamo agli oggetti li affranca da una mera affermazione
di funzionalità per ritrovare la loro essenza principale nel senso che noi siamo in
grado di attribuirgli.
“Nessun oggetto, nessuna cosa, ha esistenza o rilievo nella società umana se non per
il significato che gli uomini possono dargli”.7
Gli oggetti sono lo specchio delle nostre identità; "l'oggetto è uno specchio, letteralmente: le immagini che riflette si susseguono senza contraddizione. È uno specchio
6 BAUDRILLARD J., Les Sysème des Objets, tr. it., Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 2004, pp. 19- 21
7 SAHLINS M., Cultura e utilità, Anabasi, Milano, 1994, p.169
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perfetto, perché non riflette immagini reali, ma desiderate"8, immagini di quel profondo e immenso universo psicologico di cui parla Gaston Bachelard nella Poetica
dello Spazio.
La verità è che non riusciamo a gestire le relazioni tra esseri umani, siamo capricciosi e non ci sforziamo di mantenere accesa la fiamma dei legami familiari, ed allora i nostri migliori amici diventano dei gatti o dei cani, o meglio ancora un’automobile; niente di meglio di un oggetto come palliativo, essendo questo privo di pretese, pronto a reagire al nostro comando, e succube indifeso dei nostri stati d’animo.
La dualità tra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo, ci dispone a circondarci di
una pluralità di oggetti; "la nostra sensibilità per l'ambiente circostante può essere
ricondotta a un'inquietante caratteristica della psicologia umana, cioè al fatto che
dentro di noi albergano diverse personalità […] Purtroppo, la personalità non può
essere convocata a nostra discrezione. Il suo manifestarsi dipende […] dai luoghi in
cui ci capita di trovarci, dal colore dei mattoni, dall'altezza dei soffitti e dalla disposizione delle strade. […] Facciamo affidamento sull'ambiente circostante affinché
indirettamente rappresenti e ci rammenti gli stati d'animo e le idee a noi cari"9.
“Ciò che vogliamo è appartenere contemporaneamente a noi stessi e a qualcun altro.
Gli oggetti stessi testimoniano questa ambiguità non risolta”.10
Questa personalità rispecchia i diversi atteggiamenti con cui affrontiamo di volta in
volta le situazioni che la vita ci pone di fronte. È evidente che non possiamo avere
il medesimo comportamento nell'intimità con la persona amata, con un gruppo di
amici o se siamo soli con noi stessi.
Ma chi c’è dietro a tutto questo teatro di pensieri, emozioni, reazioni? Ogni volta che
cambiamo un comportamento od un modo di pensare questo significa che non siamo
più noi stessi?
Se ci fermiamo un attimino a riflettere, ci accorgiamo che paradossalmente questo
atteggiamento si trasforma in uno strumento di difesa la cui conseguenza è diventata una forma di falsità.
Non facciamo altro che mentire, sul lavoro, sull’amore, e soprattutto con noi stessi,
generando automaticamente una nostra seconda identità che ci logora dall’interno,
substrato psicologico del nostro essere un pò Caino.
La menzogna, nella società contemporanea, risponde ad una esigenza emotiva che
deriva in qualche modo da un istinto di sopravvivenza.
Rispondiamo alla vita adattando la nostra soggettività alla mutevolezza degli even8 BAUDRILLARD J.., Les Sysème des Objets, op. cit., p.. 116
9 DE BOTTON A., The Architecture of Happiness, tr. it., Architettura e felicità, Ugo Guanda Editore, Parma, 2006, p. 104
10 BAUDRILLARD J., Les Sysème des Objets, op. cit., p. 107
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ti, mantenendoci costantemente in una condizione di equilibrio instabile derivato dal
nostro essere almeno una coppia di opposti.
D’altronde non è poi del tutto anomalo questo atteggiamento, e questa nostra instabilità si rispecchia nella consistenza della realtà in cui siamo inseriti. “Sappiamo che
l'individuo ha memorizzato, da più di tremila anni, delle coppie di contrari, il bene
e il male, la luce e il buio, il caldo e freddo e via dicendo. E i soliti cinesi ci hanno
tramandato da tempi antichi il famoso simbolo Yang-Yin che è un'unità a forma di
disco, formata da due elementi uguali e contrari […]. Questi rappresentano l'equilibrio instabile che è nella vita, l'equilibrio che ogni individuo farebbe bene a preoccuparsi di conservare, correggendo gli squilibri man mano che si presentano nel
tempo.”11
4.
Se già all'interno del nostro piccolo mondo, nella nostra intimità, siamo portatori di
diverse personalità, all'esterno queste non possono che moltiplicarsi dovendosi plasmare sull'identità del gruppo; questo adeguamento alle circostanze diviene una
forma di coercizione perché, nei limiti dei nostri sforzi, "in presenza d'altri ci censuriamo prima che siano loro a farlo. […][fino] a reprimere le nostre vere passioni
per non sembrare strambi"12.
Allora lo spazio domestico diviene quello in cui è possibile rannicchiarsi su sé stessi, "è concepito come un'esperienza liberatoria, come l'unico modo di esprimere sé
stessi senza essere costretti e imprigionati da regole e rituali sociali. […] ciò che
viene ricercata, è un'evasione, un'area dove ci si possa astrarre dalla realtà quotidiana e costruire un'immagine di sé con nuovo materiale simbolico"13.
Ciò che ci spinge a circondarci di questo mondo miniaturizzato è allo stesso tempo
frutto anche della nostra perenne insoddisfazione; il fatto che troppo spesso ci stanchiamo degli oggetti che ci rappresentano deriva dal fatto che in quanto animali
creativi, abbiamo continuamente bisogno di circondarci di cose nuove.
Questi oggetti, che confermano la nostra non impermeabilità al mondo, sono anche
dei dispensatori di meraviglia, intesa come comprensione che arriva prima della
conoscenza.
Soddisfatto un bisogno contingente, come delle spugne, necessitiamo costantemente di assorbire nuove informazioni. Ciò che nell'istante precedente ci interessa è quel
senso di meraviglia dettato dalla mancanza di conoscenza e che si spegne nell'istan11 MUNARI B., Fantasia, Gius. Laterza & Figli, Bari, 2006, p. 38
12 DE BOTTON A., The Architecture of Happiness,op. cit., p. 260
13 LEONINI L., L'identità smarrita,op. cit., p 114-115
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te successivo della nostra comprensione.
Apprendere significa riportare il senso della meraviglia acquisito di fronte ad un
oggetto prima sconosciuto, nella sfera appunto della conoscenza, e ricominciare da
capo.
La fantasia ha bisogno di essere in questo senso continuamente rigenerata.
La fantasia è ciò che ci permette, a partire da un sistema di dati, come i vocaboli presenti in un dizionario, di scrivere una poesia. Il dizionario al suo interno non contiene infatti poesie, ma materiale simbolico da giustapporre in potenza.
Acquisito un modello e appropriatoci di questo, il desiderio di apprendere, di avere
materiale nuovo per nuove relazioni, ci spinge a verificare costantemente nuove
possibilità.
Per lavorare di fantasia abbiamo bisogno, essendo questa determinata da relazioni
tra cose conosciute, che l'uomo memorizzi più dati possibili.
Già Wilhem Worringer, pubblicò un saggio intitolato Astrazione e Empatia, in cui
tentava di spiegare questa nostra mutevolezza da una prospettiva psicologica.
“Cominciò a suggerire che durante il corso della storia umana ci sono sempre stati
due tipi fondamentali di arte: l'arte "astratta" e quella "figurativa", e in diversi periodi in diverse società si preferiva o l'una o l'altra. […] L'aspetto più convincente della
teoria di Worringer […] era la sua spiegazione del perché una società trasferisca la
sua fiducia da uno stile estetico all'altro. Secondo lui l'elemento determinante risiedeva in quei valori che mancavano alla società in questione, la quale nell'arte amava
tutto ciò che non possedeva in misura affascinante”.14
Sono i corsi e ricorsi storici; riconosciamo i valori che ci mancano e che trovano nel
consumo, la risposta contemporanea all'invasione di questa molteplicità di oggetti,
nell'universo simbolico che rappresentano.
5.
Valore culturale in primo luogo segnico, l’oggetto, se dentro la casa è specchio della
nostra più profonda intimità, all'esterno tende in maniera più evidente ad essere
merce per la comunicazione.
“La logica sottostante all'acquisto e al consumo è quella di una manipolazione di
segni e non quella della funzionalità del singolo oggetto, o della soddisfazione di un
particolare bisogno.[…] Lo scopo del consumatore è quindi quello di mantenere un
controllo sul sistema informativo.”15
14 DE BOTTON A., The Architecture of Happiness, op. cit., p. 153
15 LEONINI L., L'identità smarrita, op. cit., pp. 98 e ssg.
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Troppo spesso abbiamo bisogno di una merce di scambio che all’esterno tenda ad uniformarci ad un
determinato gruppo o strato sociale. La moda rappresenta una delle modalità attraverso la quale plasmare le nostre personalità accettando di vestire le stesse maschere e i costumi tipici di una data epoca.
Informazioni che non vengono scambiate in maniera diretta per mezzo della parola,
chimere del nostro "status" che ci trasforma in "uomini caramella" e che, per la spontanea tendenza alla capacità traduttiva, ci allontanano sempre di più gli uni dagli altri,
in una privazione del più piccolo barlume di verità, costretti come siamo ad indossare
abiti che non ci appartengono, che ci stanno stretti, nel vero senso della parola.
“Tutto ciò che non si è riuscito a investire nei rapporti umani, viene investito negli
oggetti. Per questo l'uomo regredisce in essi tanto volentieri, per raccogliersi”.16
Quando si chiude il sipario e si apre la lacerazione che ci separa dal pubblico, "quando siamo finalmente soli e guardiamo fuori dalla finestra del salone il giardino e
l'oscurità che scende, a poco a poco rientriamo in contatto con il nostro io più autentico, che tra le quinte attendeva la fine dell'esibizione".17
16 BAUDRILLARD J., Les Sysème des Objets, op. cit., p. 117
17 DE BOTTON A., The Architecture of Happiness,op. cit., p.117
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Autoritratto di Van Gogh e ritratto dell’amico Gauguin. Gli oggetti ci rappresentano e ci parlano, rispecchiano la nostra personalità.
Come diceva Riesman, il prodotto più richiesto oggi sul mercato, non è più una
materia prima, ma una personalità. Ci rivolgiamo agli oggetti in quanto questi ci
parlano, caratteristica che, come suggeriva Ruskin riferendosi agli edifici, è da considerare parimenti importante rispetto alla capacità di questi di fornirci un adeguato
rifugio.
Gli oggetti, da semplici elementi funzionali, perdono tutte quelle caratteristiche che
li contraddistinguono all’interno della società, per divenire, simbolicamente, degli
scudi che ci proteggono; sono i nuovi muri della contemporaneità.
Al di là del loro valore intrinseco, oltre a rappresentarci, ci custodiscono, conformano lo spazio, sono compagni della nostra solitudine interiore, e traccia della nostra
memoria.
“L'importanza degli oggetti non deriva dal loro valore intrinseco, ma dalla loro
capacità di incorporare significati, di essere segni e simboli dei rapporti, ed è in questo senso che essi sono estremamente importanti per l'individuo. Da ciò deriva la
grande dipendenza delle persone dalle cose e, conseguentemente, il grande potere
che le cose esercitano su di esse”.18
18 LEONINI L., L'identità smarrita, op. cit., p.7
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6.
Il muro, il recinto, strumenti attraverso i quali per lungo tempo l'uomo ha diviso il
territorio, dispositivi della monumentalizzazione del mondo, lasciano il testimone,
in un incremento di densità, ad altri elementi, che spingono la materia verso il suo
ultimo stadio, verso una densità che sembra tendere ad annullarsi, fino a divenire
punto.
“L'oggetto […], riveste sempre, nell'ambiente, un valore di embrione, di cellula
madre. Grazie ad esso l'essere disperso si identifica con la situazione originale e
ideale dell'embrione, involuisce verso la situazione microcosmica e centrale dell'essere prima della nascita. Gli oggetti feticizzati non sono accessori, né segni culturali tra altri: simboleggiano una trascendenza interiore, il fantasma di un centro di realtà su cui la coscienza mitologica, la coscienza individuale vive - fantasma della proiezione di un particolare che sia l'equivalente dell'io e intorno a cui il resto del
mondo si possa organizzare”.19
Ciò che tanto tempo fa l'uomo si aspettava dal muro ora lo cerca spasmodicamente
negli oggetti.
L'uomo ha da sempre posseduto una personale tendenza alla monumentalizzazione
del mondo che avviene ammobiliando i suoi spazi di vita con templi, piramidi, obelischi, et caetera.
Questo processo di monumentalizzazione continua e progressiva, dal più lontano al
più piccolo, è il modo attraverso il quale l'uomo costruisce le dighe di quello spazio
vuoto, che ancor prima di essere inteso come lo spazio di relazione descritto precedentemente, inteso come sostanza, densità, come distanza tra gli oggetti, è essenzialmente un vuoto interiore che cerchiamo di colmare con i beni che al di là della loro
mera funzione di parata tracciano i confini invisibili della nostra coscienza, delimitando ed arginando gli abissi del silenzio in cui siamo profondamente immersi, con
la conseguenza di identificarci in maniera più o meno esclusiva con il nostro portafogli; e non intendo dire con il denaro che ci portiamo in tasca o che abbiamo in
banca, ma che siamo identificati profondamente con il concetto di sicurezza; i soldi,
l’economia, non sono altro che un continuo tentativo di rassicurarci vicendevolmente, per poter controllare l’esistenza. Siamo molto più preoccupati delle cose che
abbiamo in tasca piuttosto che del mondo che sta fuori dalla tasca.
Questo processo comporta, nella nostra personale conquista del mondo, un frazionamento che produce il medesimo effetto di un Big Bang alla rovescia in un progres19 BAUDRILLARD J., Les Sysème des Objets, op. cit., pp. 102-103
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sivo incremento di densità che procede necessariamente dall'esterno verso l'interno,
e che confluisce negli oggetti che costituiscono l'arredamento di tutte le nostre case,
e che rappresentano, allo stesso modo, una individuale forma di monumentalizzazione. Lo spazio vuoto, l'horror vacui, si trasferisce dall'universo fenomenologico
ad un universo che è tutto interiore, un senso di vuoto che accompagna l'uomo da
sempre, nella sua certezza ancestrale di appartenenza al mondo ed allo stesso tempo,
nell'incapacità di comprenderne i meccanismi che lo regolano, astraendosi da questo, nella disarmante consapevolezza che, al di là della sua presenza, il mondo possa
continuare il proprio ciclo naturale.
“L'uomo è circondato da un mondo pieno di meraviglie e di forze la cui legge egli
intuisce senza riuscire a decifrarla mai del tutto. Un'armonia di cui gli giungono solo
accordi staccati e che mantiene il suo spirito insoddisfatto in uno stato di continua
tensione. Allora, egli evoca come per incanto quella irraggiungibile perfezione, si
costruisce un mondo in miniatura in cui manifesta la legge cosmica, un mondo che,
sia pure nella sua piccolezza, è in sé concluso ed in tal senso perfetto. In questo
gioco l'uomo soddisfa il suo istinto cosmico.”20
In questo processo di monumentalizzazione, compensa la sua disarmante consapevolezza cercando di fissare il tempo della sua permanenza nella ri-costruzione di un
mondo in cui manifestare una forma di creazione che potremmo paragonare a quella divina, che lo rende il demiurgo del proprio habitat, e tale ri-costruzione ha il suo
apice massimo, laddove il controllo sullo spazio o meglio sulle cose, assume, nel
rapporto gerarchico dimensionale dell'uomo nei confronti degli oggetti, un valore di
totalità.
“Nella creazione o fabbricazione di oggetti, l'uomo, imponendo una forma che è cultura, diventa transustanziatore di natura: la filiazione delle sostanze, di età in età, di
forma in forma, istituisce lo schema originale della creatività: creazione ab utero,
con tutto il simbolismo poetico e metaforico che l'accompagna”.21
7.
Il valore segnico dell'oggetto traduce questo nuovo senso di protezione nella necessità di appartenenza al gruppo. Come poteva avvenire nelle civiltà cosmogoniche,
l'oggetto come status, ci inserisce all'interno di un particolare sistema segnico, e ci
traspone ad un certo livello di accesso della scala sociale. Questo senso di appartenenza sembra essere, ora come allora, uno dei requisiti fondamentali per la soprav20 SEMPER G., Der Stil den technisschen und tektonischen Kunsten oder pratiktische Asthetik, ein Handbuch fur
Techniker, trad. It., Lo Stile, Bari, 1992, pp. 18-19, Cfr. anche in RYKVERT J., La casa di Adamo in Paradiso, Adelphi,
Milano, 1991, p. 38
21 BAUDRILLARD J., Les Sysème des Objets, op. cit., p 35
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vivenza dell'organizzazione della struttura pubblica.
Il solo fatto di avere una casa, un rifugio sicuro che ci protegge, non ci appaga dalla
necessità di appartenere a un gruppo, al di fuori di quella configurazione di base
costituita dalla struttura familiare.
Abbiamo bisogno di essere amati, di essere accettati, e gli strumenti attraverso i
quali stabiliamo i nostri reciproci rapporti sono i segni, la rappresentazione del gradino della scala sociale alla quale apparteniamo e che, per mezzo degli oggetti, ci
classifica uniformandoci alle isobare della struttura sociale.
Gli oggetti, non sono più proposti per un uso specifico e limitato, “si abbandonano,
si dispiegano, vi cercano, vi circondano, provano che esistono nell'illimitata ricchezza delle forme, nella loro effusione. Si è cercati, amati dall'oggetto. E, poiché ama,
ci si sente esistere: si è "personalizzati". È essenziale; l'acquisto in sé stesso diventa secondario”.22
La riduzione di scala, stampata nello loro antropomorfità, trasforma l'uomo, piccolo piccolo di fronte al vasto universo, in un gigante che esercita nei confronti dell'oggetto un ascendente che, nella loro caratteristica di immobile disponibilità,
risponde in tempo reale alle nostre voluttà, alle nostre eccentricità.
“L'oggetto è l'animale domestico per eccellenza. È l'unico "essere" le cui qualità esaltano la mia persona invece di frustrarla. Al plurale, gli oggetti, sono le sole realtà esistenti che riescano a coesistere veramente, perché le loro differenze non li pongono
gli uni contro gli altri, come accade tra gli uomini e gli esseri viventi, ma convergono docilmente verso l'io e si sommano senza alcuna difficoltà nella coscienza”.23
Parallelamente, all'interno delle nostre abitazioni, il controllo che noi abbiamo dello
spazio avviene dall'alto e, contrariamente a quanto accade nell'urbano, diviene preponderante nella dimensione dell'uomo rispetto a quella degli oggetti.
È spazio soggiogato alla nostre esigenze, all'interno del quale dominiamo il processo di costruzione della realtà.
Secondo quanto sostiene Levi Strauss, “siamo portati a miniaturizzare, a lillipuzzare la realtà per avere l'impressione di dominarla meglio, potendo cogliere un suo elemento con un solo colpo d'occhio o potendolo contenere nello spazio di una mano.
La miniaturizzazione comporta una specie di condensazione. Grazie alla logica del
modello ridotto, concezioni di vita divengono elementi di arredamento, souvenir
appunto, con i quali la domesticità ricorda e si racconta l'avventura remota del
mondo esterno per riassopirsi continuamente in quel suo eterno dormiveglia”.24
22 Ibidem, p. 217
23 Ibidem, p. 116
24 BELLASI P., Il Giardino del Pelio, op. cit., p. 95
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La differenza di scala permette anche un controllo visivo del "nuovo territorio",
favorendo un sentimento che è lo stesso che ci fa sentire a nostro agio sulle vette di
una montagna, o più in generale in una posizione privilegiata che consenta la comprensione dello spazio attraverso il capovolgimento del naturale piano orizzontale
della visione ordinaria, in una percezione di tipo verticale, dall'alto verso il basso.
Inoltre questo universo lillipuziano è soggetto ad una particolare caratteristica che è
quella della lettura del circostante per mezzo del contatto. Ciò che fortemente differenzia lo spazio urbano da quello domestico è la quasi totale tangibilità delle cose
che ci circondano. Se osserviamo un bambino giocare, ci rendiamo conto dell’importanza di questa affermazione. Il nostro primo contatto con gli oggetti, ancorchè
visivo, è soprattutto tattile. Impariamo a conoscerli toccandoli, e non soltando con
le mani, ma anche attraverso la bocca. Un bambino non gioca mai, piuttosto direi
che è in un continuo e costante apprendimento; toccare gli oggetti non è un gioco
Robert Thierren, Tate Modern. Il cambiamento di scala trasforma l’universo ordinario in un mondo lillipuziano
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ma un lavoro sulla realtà fenomenologica.
Se gli aspetti trattati fino a questo punto e che a breve torneremo a trattare, si dispiegano su dei valori di tipo psicologico e sociale, gli oggetti si distinguono anche per
peculiarità parimenti importanti, e principalmente per il ruolo che svolgono in termini di definizione spaziale, della loro capacità di dividere e differenziare gli
ambienti che abitiamo.
8.
Già in precedenza abbiamo avuto modo di osservare come il limite, il confine della
forma, non si esaurisca nella matericità del muro o più in generale nell'involucro
all'interno del quale soggiorniamo.
Abbiamo avuto modo di constatare come uno spazio possa essere contenuto in un
altro che ricorsivamente lo precede.
Ad una scala ancora inferiore, dentro "lo spazio nello spazio", è possibile offrire un
ulteriore contribuito, ancora una volta, definire un nuovo spazio una sorta di armadio nell'armadio.
Se limitare, recingere, circoscrivere, possono essere considerati come atti costitutivi
un interno rispetto ad un'antitetica regione esterna, l'arredamento rappresenta un
modo ulteriore di appropriarsi o riconoscere un "luogo" mediante una serie di sottoinsiemi, recinti nel recinto iniziale. Addomesticare - nel senso di rendere privato e familiare - l'interno in modo tale da individuare topoi precisi cui possono coincidere rituali di comportamento, può avvenire con il semplice ordinamento di oggetti e di arredi
disposti secondo una precisa volontà, ma anche con sistemazioni dalle più complesse
articolazioni, là dove la presa di possesso di un interno sia finalizzata alla costruzione
di "un involucro spaziale che protegga e conforti il proprio istinto di proprietà".25
Gli oggetti organizzano non solo il nostro spazio ma organizzano anche la sequenza delle nostre abitudini all'interno della casa, in quell'asse di temporalità che non
può che favorire la vicinanza di funzioni che abbiano caratteristiche simili.
Gli oggetti così considerati scandiscono i tempi della nostra vita suggerendoci la
sequenza dei nostri comportamenti.
È’ sufficiente enumerare alcune delle modalità di organizzazione dello spazio che la
storia dell'architettura ci consegna, costruzioni di cui Mies van Der Rohe o Le
Corbusier sono i principali artefici, per comprendere come, non solo gli oggetti sono
utilizzati come diaframmi allo scopo di circoscrivere un luogo ma, quasi per bloc25 BATTISTI E., I mobili e la loro storia, in "La casa. Quaderni di architettura critica", n. 1, 1955
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carli in una impossibilità di modificazione, gli spazi da questi definiti sono concepiti, al pari delle tradizionali pareti, come fissi e immutevoli.
Oggetti conformanti uno spazio specifico dove spesso non era consentito neppure
appendere un quadro, o meglio non c'era il posto per farlo.
sveglia
doccia
vestirsi
colazione
uscire
auto
ufficio
telefono
riunione
stress
bagno
pranzo
caffè
sigaretta
lavoro
auto
traffico
casa
cucinare
cena
film
dormire
Glass House, Philip Johnson. In uno spazio completamente diafano, un semplice tappeto è in grado di
segnalare a terra lo spazio riservato del soggiorno.
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Casa Farnsworth, Mies van der Rohe. Priva di pareti, la casa, non ha neppure
un punto dove appendere una foto, magari della figlia.
Furniture House I, Shigeru Ban. Fasi realizzative della costruzione della casa a
partire dagli oggetti-struttura che la compongono.
The construction system for the Furniture House features factory produced fullheight units that function as structural elements as well as space-defining elements.[...] Serving both as the furniture and as the building material, these units
enable a reduction of equipment and labor, as well.
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L'oggetto oltre a dividere lo spazio lo connota attraverso la sua stessa presenza. Ciò
che distingue una sala da pranzo da una camera da letto, non è infatti certo una particolare conformazione architettonica, quanto l'essenza che questa riceve dagli elementi che la rappresentano.
Le stanze come la cucina o il soggiorno, “ diventano luoghi come questi anche senza
dare un nome. Una delle cose più disastrose di oggi che annienta ogni istinto progettuale è quello di dare un nome ad una cosa prima che se lo sia meritato”.26
Allora una sala da pranzo si organizza intorno a un tavolo che prima ancora di essere tavolo, è la struttura che permette una circolarità di presenza di uomini intorno ad
un punto, come "la cosa" riporta, secondo il pensiero di Heidegger, il mondo nella
Quadratura. Il tavolo è lo strumento attraverso il quale determinare una relazione di
vicinanza, che non è una distanza intesa in termini geometrici, ma simpatia tra le
cose, relazione di analogia, similitudine.
“La vicinanza non consiste infatti nella ridotta misura della distanza. Nella nostra
vicinanza c'è quello che usiamo chiamare le cose”. 27
Gli oggetti divengono "cose" quando il loro valore diviene quello di avvicinare il
mondo. È la creazione di una relazione che li rende vivi e partecipi di quel momento. In questo modo riuniscono il mondo e l'uomo, ed in questo riunire definiscono
un luogo. Ciò che di per sé è privo di relazioni, per mezzo delle "cose" condivide
una corrispondenza. Un ponte mette in relazione le due rive di un fiume, facendo sì
che queste appaiano come rive.
“Il ponte si slancia "leggero e possente" al di sopra del fiume. Esso non solo collega due rive già esistenti. Il collegamento stabilito dal ponte - anzitutto - fa sì che le
due rive appaiano come rive. È il ponte che le oppone propriamente l'una all'altra.
L'una riva si distacca e si contrappone all'altra in virtù del ponte. Le rive, poi, non
costeggiano semplicemente il fiume come indifferenziati bordi di terraferma. Con le
rive, il ponte porta di volta in volta al fiume l'una o l'altra distesa del paesaggio retrostante. Esso porta il fiume e le rive e la terra circostante in una reciproca vicinanza.
Il ponte riunisce la terra come regione intorno al fiume. Così conduce il fiume attraverso i campi”.28
In questo senso il tavolo è il tramite attraverso il quale, nel mondo, portare in presenza le persone intorno a un punto. Questa è l'essenza di un tavolo. E in questo portare in presenza diventa quella che Heidegger chiama una "cosa".
Il tavolo in questo senso è una "cosa" e le "cose" sono dei luoghi che di volta in volta
26 Intervista di Beverly R. a Louis Kahn, in An architect speak his mind, in "House and Garden", n° 4, ottobre 1972
27 HEIDEGGER M., La cosa, op. cit., p. 109
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accordano degli spazi. Di conseguenza gli spazi ricevono la loro essenza non dallo
spazio ma dai luoghi, e quindi dalle cose.
Certo il ponte è una cosa di tipo particolare; esso infatti riunisce la Quadratura in questo senso, che le accorda un posto. Ma solo ciò che è esso stesso un luogo può accordare un posto. Il luogo non esiste già prima del ponte. Certo, anche prima che il ponte
ci sia, esistono lungo il fiume numerosi spazi che possono essere occupati da qualcosa. Uno di essi diventa a un certo punto un luogo, e ciò in virtù del ponte. Sicché il
ponte non viene a porsi in un luogo che c'è già, ma il luogo si origina solo a partire
dal ponte. Il ponte è una cosa, riunisce la Quadratura, ma la riunisce nel senso che
accorda alla Quadratura un posto. A partire da questo posto si determinano le località e le vie in virtù delle quali uno spazio si ordina e dispone.
Le cose che, in tal modo, sono dei luoghi, sono le cose che di volta in volta accordano degli spazi. Che cosa indichi questa parola Raum, spazio, ce lo dice un suo antico
significato. Raum, Rum, significa un posto reso libero per un insediamento di coloni
o per un accampamento. Un Raum è qualcosa di sgombrato, di liberato, e ciò entro
determinati limiti, quel che in greco si chiama peraz. Il limite non è il punto in
cui una cosa finisce, ma come sapevano i greci, ciò a partire da cui una cosa inizia la
sua essenza (Wesen). Per questo il concetto di drismoz, cioè limite. Ciò che così
è sgombrato viene di volta in volta accordato e così disposto, cioè raccolto da un
luogo, cioè da una cosa del tipo del ponte. Di conseguenza, gli spazi ricevono la loro
essenza non dallo spazio, ma dai luoghi. Le cose che, in quanto luoghi, accordano un
posto, le chiameremo ora - anticipando - edifici.29
La sala da pranzo, è tale non in virtù dello spazio che geometricamente rappresenta; la sala è tale non in virtù del tavolo in quanto tale, ma per il suo valore in essenza.
Un buon tavolo deve sicuramente avere le dimensioni adatte per riunire un determinato numero di persone, avere la giusta altezza in termini di ergonomia, per favorire la naturale posizione di essere seduti ed avere le braccia a formare un angolo di
novanta gradi con il piano di appoggio, deve essere solido, magari anche bello.
Ma prima di questo il tavolo è tale in quanto riunisce il branco, secondo un rituale
ancestrale degli uomini, in un fine comune; allora il tavolo diventa quella che
Heidegger chiama una "cosa".
In questi piccoli riti antichi su cui basiamo ancora la nostra esistenza, intorno al
28 HEIDEGGER M., Costruire Abitare Pensare, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 101
29 Ibidem, pp. 102-103
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fuoco prima o ad un tavolo poi, l'uomo ha imparato probabilmente a prendere decisioni in merito ai problemi degni di una partecipazione globale; questo rituale è
l'unico momento in cui la famiglia, in quanto gruppo iniziale, si riunisce, ed è in ciò
che risiede l'essenza del tavolo, in questo riunire che a sua volta è l'essenza della
nostra esistenza, ed è in questo modo che l'uomo "preserva la Quadratura".
In questi piccoli riti, costruiamo una vicinanza, che non significa essere equidistanti gli uni dagli altri in modo forzato tentando di essere uguali con tutti, con coloro
che amiamo, con coloro che odiamo. Se comprendiamo la vera natura ed il centro
profondo del nostro essere, allora ciascuno di noi sarà alla stessa distanza da questo
centro; collegato ed alla stessa distanza.
9.
La revêrie è l'innata capacità dell'uomo di sognare, è l'immaginazione, che ci permette di poter essere in qualsiasi luogo come in una "stanza" grazie allo stato d'animo che noi rivolgiamo in tale condizione ideale. Agisce per mezzo della memoria
ed è un pensare allentato. Il suo significato non è però quello di rivivere momenti
felici già vissuti in precedenza, è bensì, vivere il non vissuto, in quanto incapaci di
immaginarlo. La capacità dell'immaginazione è quella di incollare elementi noti, che
conosciamo, al fine di costruire un nuovo universo di possibili relazioni.
Prendiamo come esempio un cavallo alato.
La capacità della nostra mente di immaginare una simile creatura deriva dalla conoscenza del cavallo e delle ali. La diretta conseguenza di questa elaborazione mentale è che non immaginiamo il cavallo correre ma volare per mezzo delle ali, in
quanto strumenti attraverso i quali abbiamo imparato che gli uccelli possono volare. Ma visto che ci troviamo in immaginazione perchè non riusciamo a pensare ad
un cavallo alato che nuota?
Dovremmo necessariamente pensare ad un cavallo con le pinne?
A quanto pare c'è ancora un po' di razionalità dentro l'immaginazione.
L’importanza della fantasia è di riuscire a produrre delle relazioni tra ciò che di per
sé non ne ha, e maggiore sarà la nostra conoscenza del mondo e maggiori saranno
tali relazioni.
Il prodotto della fantasia, come quello della creatività e dell'invenzione, nasce da
relazioni che il pensiero fa con ciò che conosce. È evidente che non può fare relazioni con ciò che non conosce, […] “non si possono stabilire relazioni tra una lastra
30 MUNARI B., Fantasia, op. cit., pag. 29
31 Cfr. Enigmi di BELLASI P., in Il Giardino del Pelio, op. cit., pp. 26 e ssg.
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di vetro e un pfzws”.30
La memoria agisce come tramite tra il nostro mondo e la nostra interiorità, ed è per
questo aspetto che gli oggetti assumono un valore particolarmente importante.
Dentro la casa, nello spazio intimo, mobili antichi, cassetti, cassapanche, sono i fermacarte della nostra esistenza e attraverso la memoria gli oggetti ci ricordano quello che siamo.
Gli oggetti sono portatori di memoria, di misteri, ricami del tempo che segue e prosegue la strutturazione architettonica, lavorando da dentro la quotidianità organizzano gli spazi in funzione dei bisogni che cambiano coerentemente con le intermittenze della nostra perenne insoddisfazione.
“Dentro la casa si sono aperte delle porte chiusi dei muri, divise delle stanze
costruendo un labirinto di ambienti che rispecchiano, secondo una linea di evoluzione che potremmo definire darwiniana, l'adattamento della nostra stessa esistenza alle
necessità di mondo”.31
Una sala da pranzo non deve necessariamente possedere dei confini fisici per meritarsi questo nome.
Un tavolo è sufficiente a creare un luogo, riunisce uomini intorno ad un punto, è un axis-mundi
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A dispetto di una tesi meramente funzionalista, la casa è il rifugio dello spazio intimo; è lì che per esempio, mobili antichi, dimentichi della loro funzionalità, restituiscono i depositi temporali che sono la somma di frammenti di serenità.
Sono le reliquie di un passato che non è neppure il nostro, e marcano la nostra esigenza di attaccamento alla vita, prolungandola, attraverso la consapevolezza della
loro decrepitezza che magicamente somma la loro e la nostra età.
“Come la reliquia di cui secolarizza la funzione, l'oggetto antico riorganizza il
mondo a mo' di costellazione, in modo opposto all'organizzazione funzionale in
superficie, e tende a preservare, in contrasto con quest'ultima, l'irrealtà profonda,
essenziale senza dubbio, della coscienza. L'oggetto antico,[…] non è più un discorso agli altri, ma a sé stesso”.32
Come ci ricorda Baudrillard, questi segni del tempo, si contrastano con i valori culturali che non permettono permanenza, che non hanno neppure il tempo di invecchiare. I prototipi che producono la serie sono già vecchi, perché rispecchiano
modelli superati nel momento stesso in cui si presentano in un mercato pronto a produrre già qualcosa di nuovo.
Di converso un semplice tassello di una scacchiera può contenere al suo interno, se
semplicemente ci esercitassimo ad osservare, una storia; un nodo presente su una tessera di legno, può essere visto come una imperfezione a causa della nostra stupida
esigenza di ricerca di superfici omogenee, continue, direi piuttosto artificiali, oppure può raccontare una storia, quella di un ramo che non è riuscito a crescere, magari
a causa di inverno eccessivamente rigido. Attimi che catturano il tempo del nostro
vissuto, che dilatano la durata della conversazione tra Marco Polo e il Kublai Kan.
Il Gran Kan cercava d'immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a
sfuggirgli. Il fine di ogni partita è una vincita o una perdita, ma di che cosa? Qual era
la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta il nulla: un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all'essenza, Kublai era arrivato all'operazione estrema: la conquista
definitiva, di cui i multiformi tesori dell'impero non erano che involucri illusori, si
riduceva a un tassello di legno piallato.
Allora Marco Polo parlò: - la tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e
acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato
del tronco che crebbe in un periodo di siccità: vedi come si dispongono le fibre? Qui
32 DE BOTTON A., The Architecture of Happiness, op. cit., p. 103
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si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentò di spuntare in un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte l'obbligò a desistere.
Il Gran Kan non si era fin'allora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. - ecco un poro più grosso:
forse è stato il nido di una larva; non d'un tarlo, perché appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d'un bruco che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l'albero fu scelto per essere abbattuto … Questo margine fu inciso dall'ebanista con la sgorbia perché aderisse al quadrato più vicino, più sporgente …
La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d'ebano, delle zattere di
tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre …33
Il contatto che gli oggetti ci permettono, li riesuma da un sonno latente per riportarli,
quasi a comando, alla partecipazione con noi, donando a noi stessi un po' di ciò che è
loro, ed allo stesso tempo donando noi loro un po' della nostra personalità. Allora un
semplice gesto può divenire il mezzo attraverso il quale richiamare magicamente alla
vita gli oggetti, sopiti nella loro paziente attesa di una funzionalità temporale.
La cera penetrava dolcemente nella materia levigata dalla pressione delle mani e dall'utile calore della lana. Lentamente, il piano acquistava uno splendore sordo: sembrava salire dall'album centenario, dal cuore stesso dell'albero morto quello sfavillio attirato dallo sfregamento magnetico che si allargava a poco a poco, allo stato di luce sul
piano. Le vecchie dita cariche di virtù, le generose palme estraevano dal blocco
masiccio e dalle fibre inanimate le potenze latenti della vita. Era la creazione di un
oggetto, l'opera stessa della fede, davanti ai miei occhi meravigliati.34
Gli oggetti così accarezzati nascono davvero da una luce intima e si portano ad un
livello più elevato degli elementi indifferenti, quelli definiti dalla semplice realtà
geometrica della forma. La donna di casa, nel suo fluire, ridesta gli oggetti ed i
mobili addormentati nella immobile attesa dell’utilizzo.
Basta cambiare il verbo: spolverare oppure accarezzare. Nel secondo caso si genera
uno spazio di contatto, lo spazio interiore diviene vissuto, “cioè lo spazio della
memoria. Lo spazio vissuto è lo spazio del vivere corroso dal tempo, che cancella,
sottolinea e seleziona i dati spaziali recepiti. È lo spazio declinato all'imperfetto”.35
La nostra esperienza è il filtro della nostra esistenza e ci permette ad un certo grado
33 CALVINO I., Lezioni Americane, op. cit., p. 81 e 82
34 BOSCO H., Le Jardin d'Hyacinthe, Gallimard,Paris, 1945, p.192
35COPPOLA PIGNATELLI P., Lo spazio dei sensi, in Le Frontiere dell’Architettura, Gangemi Editore, Roma, 2006,
p.106
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di consapevolezza di compiere delle scelte in base a quanto precedentemente acquisito; attraverso questa siamo in grado di costruirci a misura il nostro spazio poetico,
quello in cui i muri rappresentano i paletti della nostra memoria che compensano, in
immaginazione, la nostra vulnerabilità psicologica.
Il nostro amore per la casa è a sua volta il riconoscimento di quanto la nostra identità non si autodetermini. Ci serve una casa in senso psicologico oltre che in senso
fisico, per compensare la nostra fragilità. Ci serve un rifugio per puntellare i nostri
stati mentali, perché spesso il mondo ci rema contro. Ci servono “stanze nostre” per
trovare una versione desiderabile di noi stessi e mantenere in vita i lati importanti,
ma evanescenti, della nostra personalità.
10.
Gli oggetti ci stimolano e ci aiutano a costruirci queste "stanze", dove l'essere che
ha trovato rifugio, possa rientrare in possesso di quel senso di fiducia cosmico che
è insito nel concetto stesso di costruire. Un nido è un fazzoletto di rami intrecciati
che a tutto fa pensare tranne che a un qualcosa di stabile e duraturo, come dovrebbe
essere una casa. Tuttavia, gli uccelli continuano a possedere un istinto cosmico che
li porta a fidarsi della natura, in un patto di non belligeranza tra il vento e la vita.
“Costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell'uomo su un
paesaggio che ne resterà modificato per sempre; contribuire inoltre a quella lenta
trasformazione che è la vita stessa delle città. Quanta cura per escogitare una collocazione esatta d'un ponte o di una fontana, per dare a una strada di montagna la
curva più economica che è al tempo stesso la più pura!
Elevare fortificazioni in fin dei conti equivale a costruire dighe”.36
Gli oggetti in questa visione sono le porte di accesso al database della memoria, ci
aiutano a ricordare; questo è "il motivo che ci spinge a costruire, sia per i vivi sia
per i morti, è il desiderio di ricordare. Allo stesso modo in cui innalziamo lapidi […]
costruiamo […] gli edifici perché ci aiutino a ricordare le nostre qualità più importanti. I quadri e le sedie che abbiamo in casa sono gli equivalenti - in scala più consona ai nostri tempi e armonizzati alle esigenze dei vivi - dei tumuli funerari dell'epoca paleolitica. Anche le suppellettili domestiche commemorano la nostra identità".37
Gli oggetti ci completano, sono delle protesi attraverso le quali manipolare la nostra
coscienza.
36 YOURCENAR M., Memorie di Adriano, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2002
37 DE BOTTON A., The Architecture of Happiness,op. cit., p. 122
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La casa allora trasforma la sua natura fisica per divenire un "corpus di immagini",
che attraverso la revêrie costituiscono un universo psicologico, che ci fornisce le
"ragioni e le illusioni di stabilità".
Distinguere tutte queste immagini, significa svelare l'anima della casa.
La scatola è solo una limitazione interna di uno spazio esterno più grande, e quando conosciamo lo spazio interno della scatola comprendiamo che esso ha la stessa natura dello spazio esterno. Nel momento
in cui ci rendiamo conto di questo, quelle pareti non hanno più senso e cadono e ci ritroviamo in uno spazio di comprensione di noi stessi privo di contenuti, una potenzialità assoluta. La meraviglia è che quando
riusciamo ad entrare in contatto con il contenuto le pareti non hanno più senso perchè la scatola è vuota.
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lo spazio intimo
La casa è un angolo di mondo, a partire dal quale, gli oggetti che la compongono, sono frammenti della
nostra interiorità che si è su di essi cucita nel corso del tempo.
La casa intesa non come spazio interno, ma come spazio intimo, cessa di essere oggetto di protezione da
ciò che è al di là dei suoi stessi confini, per divenire un condensatore di memoria.
Il valore che viene attribuito allo spazio interno è quello di incoraggiare la capacità di immaginazione, ove
il pensiero allentato ci riporta nella vicinanza con il mondo, in uno spazio intimo all'interno del quale ritrovarsi parte e partecipi del cosmo interno.
Abitare non significa risiedere in un posto ma avere cura.
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Ciò che noi chiamiamo casa è semplicemente qualsiasi luogo che ci faccia comprendere con maggior coerenza quelle importanti verità che il
mondo nel suo complesso ignora o che noi, indecisi e distratti, fatichiamo
a tenerci strette.
Per noi costruire è come scrivere: serve a preservare ciò che ci sta a cuore
De Botton A., 2006
1.
Cosa significa sapere abitare?
Se la necessità di controllo del circostante si traduce in una costruzione fisica o simbolica di uno spazio che assume il significato di un interno, non è certo il fatto di
trovarci in uno spazio aperto ad influire sulla nostra capacità di sentirci dentro.
Se la comprensione di uno spazio può avvenire anche attraverso un sistema di punti
o di linee che ne rivelano i limiti nella nostra ricostruzione mentale, se anche in presenza di confini fisici, questi non costituiscono, in maniera esclusiva, i limiti dello
spazio che abitiamo, se gli oggetti si sostituiscono al valore protettivo del muro e lo
travalicano affrancandosi dal loro stesso ruolo istituzionale per divenire i confini di
quell'interno emotivo che è profondità intima, qual è allora la differenza tra uno spazio interno (chiuso) ed uno spazio interno (aperto)? Cosa significa essere all’interno?
Personalmente credo che il senso, il significato, risieda in ciò che, a prescindere dai
limiti imposti dalla forma, ci permette di entrare in contatto con la nostra interiorità; per noi sentirsi dentro, in un interno, significa essere in uno spazio di tipo intimo; e quello intimo è prima di tutto un bisogno emotivo.
“Immaginiamoci un uomo in un periodo particolarmente tormentato, seduto nella
sala d'attesa di una casa in stile georgiano, prima di un appuntamento. Siccome le
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riviste che ha a disposizione non gli interessano, alza lo sguardo al soffitto e vede
che a un certo punto del diciottesimo secolo qualcuno si è preso la briga di disegnare una cornice complicata ma armoniosa, fatta di ghirlande di fiori che si intrecciano, e poi l'ha dipinta di bianco, azzurro carta da zucchero e giallo. Il soffitto è un
ricettacolo delle qualità che l'uomo vorrebbe possedere […] l'uomo è consapevole
che il soffitto contiene tutto ciò che a lui manca. È invischiato in problemi di lavoro da cui non riesce a districarsi, è sempre stanco, sul viso ha dipinta un'espressione
ostile […] il soffitto è la vera casa dell'uomo ma lui non riesce ad entrarvi”.1
Bruce Chatwin, in "The Songlines" parla della necessità di possedere una casa, non
tanto in termini di rifugio architettonico, quanto invece per compensare quel "bisogno emotivo, se non un vero e proprio bisogno biologico, [di possedere] una base,
caverna, covo, territorio tribale, possedimento o porto"2, una ostinata ricerca di un
sentimento di permanenza, che si riflette nella nostra incapacità di abbandonarci agli
eventi, di non riuscire a perderci, di non riuscire a comprendere la bellezza di quel
senso di novità, che invece, troppo spesso, ricerchiamo nelle mode o nell’ennesimo
nuovo inutile acquisto.
Se da una parte gli oggetti di cui ci circondiamo rispondono a questo bisogno emotivo di permanenza, in una visione più estesa essi amplificano, come enzimi, la
nostra capacità di sentirci a casa.
Gli oggetti contribuiscono alla definizione del nostro spazio intimo e, in immaginazione, perdono la loro funzione di confini di ciò che è domestico, di status logico e
psicologico, il loro intrinseco valore funzionale, per trasformarsi da confini a porte,
attraverso cui linkare la nostra esistenza.
Ma come può tutto ciò stimolare la nostra capacità di immaginare?
L'immaginazione necessita di una condizione particolare al contorno per poter operare, e la casa si adatta perfettamente ad essere quel riparo ove solo "l'essere che ha
trovato rifugio" può finalmente prendere coscienza di sé, ripiegandosi su sé stesso,
per entrare in contatto con il cosmo.
Quello che vorrei semplicemente mostrare, è che, “non appena la vita si stabilisce,
si protegge, si ricopre, si nasconde, l'immaginazione simpatizza con l'essere che
abita lo spazio. […] Anche l'ombra è un'abitazione.3
La casa è un condensatore di pensieri, di ricordi, di aspirazioni , "se essa mancasse
l'uomo si sentirebbe disperso" .
Se un soffitto può essere considerato come la "vera casa dell'uomo", se anche
1 DE BOTTON A., The Architecture of Happiness, tr. it. Architettura e felicità, Ugo Guanda Editore, Parma, 2006, p.
148
2 CHATWIN B., The Songlines, tr. it. Le Vie dei Canti, Adelphi, Milano, 1988, passim
3 BACHELARD G., La Poetique de l'Espace, tr. it. La poetica dello Spazio, Edizioni Dedalo, Bari, 1975, pp. 155-156
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un’ombra può essere una abitazione, qual è il senso che dobbiamo dare a questa istituzione? Che cosa si intende per casa?
La terminologia ci viene incontro aiutandoci a comprendere come già nel linguaggio esistano termini affini che tuttavia individuano distintamente i diversi significati insiti in questa istituzione.
Alcune lingue europee tra le quali il latino, l'inglese e il tedesco, mantengono infatti una duplicità semantica del termine; da una parte il concetto di casa è definito
come involucro, invaso spaziale costituito dalle "figure" delle pareti, dei pavimenti
e dei soffitti che conformano lo spazio architettonico, e dall'altra la casa come spazio specifico, inteso come sensazione soggettiva di sentirsi a casa, personale rifugio
di intimità, che non richiede necessariamente di una struttura circostante.
I termini ai quali faccio riferimento sono quelli di "Home" ed "House", oppure di
"Heim" o "Haus"; questi distinguono l'edificio in quanto costruzione rispetto alla
sensazione di protezione emotiva offerta dalla casa.
Anche in latino i termini per definire la casa sono sia "domus" che "aedes"; il significato di domus non indica propriamente l'edificio, chiamato "aedes" da cui deriva
il nostro corrispondente in italiano.
Come avveniva nelle tribù tribali, ove l'archetipo per definire la casa non aveva riferimenti con il processo edilizio del costruire, il termine "domus" aveva piuttosto a
che fare con un concetto che riporta al "dominus", ossia al padrone, al capofamiglia,
cosa del resto abbastanza comprensibile.4 E "d'altro canto, tendiamo ad attribuire il
nome di "casa" a quei luoghi il cui aspetto corrisponde al nostro e lo legittima. Non
è indispensabile che le nostre case ci offrano un riparo permanente o che contengano i nostri vestiti per meritare questo nome. Parlare di casa in relazione a un edificio significa semplicemente riconoscere che è in armonia con il canto interiore a noi
caro. Casa può essere anche un aeroporto o una biblioteca, un giardino o una tavola calda lungo l'autostrada".5
Abitare non è avere dimora in un determinato angolo del mondo, ma è avere cura,
non è costruire ma costruirsi. Abitare significa comprendere il sentimento offerto da
un determinato luogo, dal senso di calore che questo può concedere indipendentemente dalla sua struttura geometrica o formale.
Se ci pensiamo bene nel corso della nostra vita spesso il luogo fisico chiamato casa
non costituisce necessariamente lo stesso luogo in cui ci sentiamo a casa. Questo è
legato anche al tempo che dedichiamo al nostro stare in un posto. Il lavoro o la scuo4 Le definizioni riportate sono tratte da Tagliapietre A., Spazi del contemporaneo, rassegna di pensieri tra suoni,
immagini e parole, seconda edizione, Città di Alghero, 2005
5 DE BOTTON A., The Architecture of Happiness, op. cit., pp. 104-105
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la, nella maggior parte dei casi, ci impegnano per un tempo che va ben al di là di
quello che riusciamo a consumare nella nostra intimità domestica.
Sentirsi a casa non è quindi esclusivamente una prerogativa dell'abitazione.
Come espresso da Heiddeger in Costruire, Pensare, Abitare, “all'abitare, […], perveniamo solo attraverso il costruire. Quest'ultimo, il costruire, ha quello, cioè l'abitare, come suo fine. Tuttavia non tutte le costruzioni sono abitazioni. Un ponte e un
aeroporto, uno stadio e una centrale elettrica sono costruzioni, ma non abitazioni;
[…] eppure, anche questi tipi di costruzioni rientrano nella sfera del nostro abitare.
[…] il camionista è a casa propria sull'autostrada, e tuttavia questo non è il luogo
dove alloggia; l'operaia è a casa propria nella filanda, ma non ha lì la sua abitazione; […] queste costruzioni albergano l'uomo. Egli le abita e tuttavia non abita in
esse, se per abitare in un posto si intende solo l'avervi il proprio alloggio. […]l'abitare sarebbe quindi in ogni caso, il fine che sta alla base di ogni costruire. […] il
costruire è già in se stesso un abitare”.6
La casa delle origini non doveva essere necessariamente una costruzione. È possibile trasferire un senso di stabilità, anche se provvisorio, in una capanna o in un carro;
la riorganizzazione simbolica del suo habitat, e la consapevolezza di quel senso di
permanenza che questo poteva offrire, sebbene momentaneo, doveva costituire per
l'uomo nomade, un diorama, una "rassicurazione simbolica" che va ben al di là del
bisogno di un riparo dall'inclemenza del clima.
Casa è il nostro angolo di mondo, è un ritorno, e come è stato spesso ripetuto, il
nostro primo universo; essa è davvero un cosmo, nella prima accezione del termine.
2.
Da questo punto di vista, l’essenza della casa non risiede in una forma architettonica, ma in ciò che essa è in grado di rappresentare per l'uomo. Quando Louis I. Kahn,
parla della casa vi si riferisce in termini diversi a seconda che si tratti della sua
essenza o della costruzione minerale operata dall'uomo; il senso che l'architetto
intende come essenza de "La casa" è ciò che considera la "Forma" che è ideale,
incommensurabile, priva di dimensioni.
Un'opera architettonica deve nascere nel mondo delle idee, dall'incommensurabile a
cui appartiene la "Forma", per poi divenire atto contingente per mezzo del progetto
e della sua costruzione, per poi tornare nuovamente nell'incommensurabile, nel suo
divenire spazio specifico, ossia la propria casa.
6 HEIDEGGER M., Costruire Pensare Abitare, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, pp. 96 e ssg.
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il nostro primo universo
“Nella contrapposizione tra "un cucchiaio" e "il cucchiaio", il cucchiaio indica una
forma composta da due parti inseparabili. Un cucchiaio implica un determinato progetto eseguito in argento o in legno, grande o piccolo, poco o molto incavato. La
Forma è il "che cosa". Il progetto è il "come". La forma è impersonale. Il progetto
appartiene al progettista. Il progetto è un atto determinato dalle circostanze.
[…] Riflettiamo, dunque, sulle caratteristiche astratte di "la casa", "una casa", "la
propria casa". "La casa" è l'astratta definizione di spazi buoni per viverci. La casa è
la forma; nella mente dovrebbe risiedere senza un aspetto preciso, senza dimensioni. "Una casa" è una interpretazione condizionata di questi spazi. Questo è il progetto. A mio avviso, la grandezza dell'architetto dipende più dalla sua capacità di capire cos'è "la casa", che dal suo progetto di "una casa" che è un atto contingente. "La
propria casa" indica la casa e chi vi abita. Diversa per ciascuno degli abitanti”.7
7 KAHN L. I., Forma e progettazione,tratto The Voice of America, in NORBERG-SHULZ C., Idea e Immagine, Officina
edizioni, Roma, 1980, p. 70
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"La casa" è quindi un archetipo spazio-temporale, è l'essenza del valore dell'abitare,
è un principio universale, perché "ciò che sarà è sempre stato".
La casa non ha una particolare configurazione volumetrica, piuttosto, è sostanza che
appartiene ad un universo paragonabile a quello delle "idee" platoniche.
Così la "Forma" della casa fornisce risposte in merito a quel bisogno emotivo di cui
parla Bruce Chatwin; volendo fare un paragone si potrebbe dire che la scuola, come
la casa, non nasce da un particolare valore tipologico o formale, ma dal fatto che ad
un certo punto deve esserci stato un uomo seduto sotto un albero, "un uomo che non
sapeva di essere un maestro, e che si mise a discutere di quel che aveva compreso con
altri che non sapevano di essere studenti. Gli studenti si misero a riflettere su quanto
era passato tra di loro e sull'effetto benefico di quell’uomo. Desiderarono che anche
i loro figli lo ascoltassero, e così furono eretti degli spazi e così la prima scuola venne
in presenza".
Il valore di una casa è quello di poter divenire struttura dello spazio intimo, di uno
spazio in grado di incoraggiare la revêrie.
Seguendo la traccia offerta dalle intuizioni di Bachelard, è possibile fissare alcune
immagini che rispecchiano in maniera esemplificativa le qualità che deve possedere uno spazio di questo tipo.
Tali caratteristiche possono essere ricondotte in parte al concetto di casa natale,
quella che viene prima del pensiero, dove costruiamo le nostre prime immagini, il
luogo in cui iniziamo ad incamerare le prime informazioni del mondo esterno che in
quel momento costituisce tutto l’universo conoscibile.
Allo stesso modo possono essere considerati gli spazi invernali, dove un torpore generalizzato diffonde e smorza, luci, forme, toni e colori, in un senso di calma ovattata.
Altre due immagini sono invece prelevate dal mondo animale e sono rappresentate
dal nido, il “primo spazio”, patto di vita, ottimismo di un involucro fragile, e dal
guscio della chiocciola che con i suoi 0,007 Km/h, la casa se la porta appresso.
3.
La casa natale è una delle possibili rappresentazioni dello spazio intimo, e la sua
struttura fondamentale è caratterizzata dall'essere centrale e dall'essere verticale.
In questo spazio ritroviamo la duplicità dei piani dell'agire umano: quello orizzontale specifico per ciascun piano della casa, materico, illimitato, privo di direzione
predominante, e quello verticale che ricuce i diversi livelli per mezzo della scala e
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che, per sua natura, sposa una coscienza di profondità; è penetrazione ed elevazione, simbolicamente associate all'azione dello scavare o del guardare il cielo, alla
ricerca profonda di un valore sacrale e psicologico.
La verticale nella casa natale attraversa la totalità dello spazio, le diverse funzioni
che rispecchiano le polarità dell'animo umano, passando dalla cantina alla soffitta.
Le funzioni che percorre sono gli strati orizzontali coerenti con le connessioni temporali delle azioni che l’uomo svolge all’interno della casa ed appartengono al fulcro, alla parte centrale della struttura.
La cantina è spazio meditativo, quello che partecipa alla irrazionalità del profondo.
La scala della cantina, nel regno dei valori iniziali, scende sempre, se è vero come è
stato detto che tutto è nell'inizio.
La scala che porta alla soffitta, invece, sale sempre; la soffitta rappresenta il livello
razionale dell'animo umano tratteggiato dalla ripetizione e dalla trasparenza della
struttura portante dell'abitazione, è il luogo in cui la mente comprende la ragione per
la quale il tetto obliquamente tende verso la terra, il perchè di quella precisa inclinazione che è la risposta pragmatica della casa a quella ultima nevicata che aveva
probabilmente distrutto il tetto precedente. Non è l'uomo a costruire il tetto, è la
neve, è contaminazione di terra e cielo.
È stato proprio il cielo che gli ha fornito il materiale per costruire il suo tetto di legno
“che sporge a grondaia per un lungo tratto, inclinato in modo conveniente per reggere il peso della neve, e che scendendo molto in basso protegge le stanze contro le
tempeste delle lunghe notti invernali”.8
La casa natale è il luogo in cui il bambino nasce, ove ha modo di comprendere il
senso di profonda protezione che solo un genitore può infondere; è il luogo in cui i
suoi occhi iniziano a scrutare curiosi la costellazioni di oggetti che lo circondano, ed
attraverso quelle superfici trasparenti che più in là imparerà a chiamare finestre, il
mondo; è il luogo ove prova il calore dell’amore offerto senza condizioni, è un
abbraccio; un luogo in cui potere immaginare.
Anche lo spazio invernale è portatore di revêrie.
Nella descrizione che Baudelaire fa in "Les paradis artificiels" egli parla della felicità di Thomas de Quincy, quando invocava "annualmente dal cielo tanta neve, grandine e gelo quanta esso ne può contenere. Vuole un inverno canadese, un inverno
russo, così il suo nido risulterà più caldo, più dolce, più amato".9
8 HEIDEGGER M., Costruire Abitare Pensare, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 107
9 BAUDELAIRE C. P. , Les Paradis artificiels, Guanda, Milano, 1980 p. 280
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Nei disegni dei bambini ritroviamo spesso gli elementi archetipi che simboleggiano le caratteristiche fondamentali della casa.
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"Il benessere che provo davanti al fuoco, quando fuori infuria il cattivo tempo, è completamente animale. Il topo nel suo buco, il coniglio nella sua tana, la vacca nella stalla
devono essere felici come lo sono io."10
Tutto nell'inverno è attrattivo, la casa non lotta, e la totalità della neve al di fuori ricopre sordamente strade, viali, aiuole e arrotondata tutto in un silenzioso e immenso
bianco candore. La casa è in quel momento il centro del mondo, rispetto al bianco
indifferenziato. L'inverno è implosivo. Tutto ciò che è "esterno" è soltanto un pretesto per tornare a casa, dove un paesaggio domestico si cristallizza nelle trame del tappeto posto sotto il tavolo, rifugio ancestrale del bambino che cerca riparo.
Nella casa siamo circondati dalle forme più personali del nostro modo di pensare,
ed in questo senso gli spazi interni sono degli spazi che possiamo definire invernali, luoghi ove la nostra identità ha avuto modo di poggiarsi sugli oggetti, come la
cenere di un focolare che lentamente si lascia cadere.
10 La citazione di Henri Bachelin è estrapolata da BACHELARD G., La Poetique de l'Espace, op. Cit., p. 58
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Il nido è un centro di mondo per l'essere che esce dall'uovo, è la prima pelle.
È lo spazio dell'attesa spasmodica, dove il pulcino aspetta trepidamente il ritorno
della madre in volo alla ricerca di cibo.
È uno spazio minimo, compresso dal ritmo imposto dal petto della madre ai rami
che lo circondano, per dare loro forma.
È fatto del battito di cuore che preme e forgia la forma circolare e costruito con un
senso di fiducia cosmico, è il simbolo di una tregua con la natura che sembra provare un senso di rispetto per l’incoscienza di una costruzione così fragile; lo stesso sentimento di fiducia che deve avere riconosciuto il bambino, in quell’universo riprodotto nella incrinatura del letto, nello spazio concesso dai corpi dei propri genitori.
A sua volta il mollusco nel suo guscio segna la dicotomia tra anima e corpo, è la
metafora di una crescita contestuale come a simboleggiare che l'evoluzione dell'uno
non potrebbe avvenire a prescindere dall'evoluzione dell'altro.
Anima e corpo si evolvono contemporaneamente.
Il mollusco crea la propria casa giorno dopo giorno e ci ricorda il monito che "bisogna vivere per costruire la propria casa, e non costruire la propria casa per viverci".11
È spazio intimo, dove l'essere che riceve il sentimento del rifugio, si ripiega e concepisce sé stesso come essere-nel-mondo.
Il fare architettura non è dunque una prerogativa dell’agire umano, se inteso come
risposta ad una esigenza che tutti gli esseri viventi hanno in comune.
“L’architettura, non è ignota agli animali: il buco del verme, la galleria della formica, il
favo dell’ape […] la capanna del gorilla, la casa, il torrione del castello, il tempio, il
palazzo, tutte queste cose rispondono allo stesso bisogno, infinitamente diversificato.
Da ciò può essere indotta una legge comune, cioè la legge dell’adattamento.
L’individuo si fa un’abitazione per la stessa ragione per cui si è vestito”.12
Bisogna vivere per costruirsi
la propria casa e non
costruire la propria casa per
viverci
11 BACHELARD G., La Poetique de l'Espace, op. Cit., p. 130
12 LÈFEVRE A., Les Merveilles de l’architecture, Paris, 1880, in, RIKVERT J., La casa di Adamo in Paradiso, Adelphi,
Milano, 1991, p. 23
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Lo spazio intimo si rivela quindi come uno spazio ispirato, di immobilità, è uno spazio ove il silenzio si deposita lentamente sui nostri ricordi, e nel silenzio ritroviamo
il fine ultimo al quale secondo Louis Kahn deve tendere una costruzione.
l'odeur du silence est si vieille13
"La casa" viene presa nel mondo delle idee, quello dei valori in essenza, per divenire nella polvere dei processi produttivi "una casa", attraverso le regole della geometria e della ragione.
Ma il senso a cui deve tendere la costruzione è quello di tornare nel mondo dell'incommensurabile, e questo valore lo assume quando diviene spazio di immaginazione e di intimità. L'essenza di una casa risiede nella sua capacità di essere un dispensatore di intimità, in cui tremare di meraviglia.
Erano ore in cui con forza, lo giuro, ci sentivo tagliati fuori dalla piccola città, dalla
Francia e dal mondo. Mi piaceva immaginarci a vivere - conservo per me le mie sensazioni - in mezzo ai boschi in una capanna di carbonai ben riscaldata: avrei voluto sentire i lupi affilare i loro artigli sul granito non logorabile della nostra porta. La nostra casa
era per me una capanna. Mi ci vedevo al riparo dalla fame e dal freddo. Se tremavo, era
solo di benessere.14
La casa presa nel mondo delle idee ritorna nell'incommensurabile per mezzo del
silenzio, che è il valore di "Forma" nella volontà di presenza.
Il silenzio si manifesta nel senso di immobilità concesso dall'angolo, che è il primo
rifugio dell'essere, ci nasconde ma al tempo stesso apre il mondo di fronte ai nostri
occhi. Per molti aspetti l'angolo "vissuto" rifiuta la vita, la restringe, la nasconde.
L'angolo è allora una negazione dell'Universo. Nell'angolo, non si parla a se stessi,
e, se ci si ricorda delle ore nell'angolo, ci si ricorda di un silenzio, di un silenzio dei
pensieri.
L’angolo è il primo rifugio dell'essere: l'immobilità, “è una sorta di mezza scatola,
metà muro e metà porta.”15
13 ARNAUD N., L'état d'ébauch, Le messager boiteux de Paris, Paris, 1950
14 La citazione di Henri Bachelin è estrapolata da BACHELARD G., La Poetique de l'Espace, op. Cit., p. 58
15 BACHELARD G., La Poetique de l'Espace, op. Cit., p. 160
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Avere le spalle al muro è un istinto di protezione atavico che trova risposta tanto nella disposizione dei letti
all’interno di una casa quanto nella ricerca all’esterno del surrogato psicologico di un limite identifiacabile nello schienale di una panchina o nella superficie verticale di un edificio. Un clochard è sempre alla
ricerca di un angolo.
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Punto di accumulazione, vertice di un mondo, l’angolo, all'interno della casa esprime più di ogni altra immagine il senso di sicurezza espresso da una abitazione.
L'angolo è inattaccabile e da quella posizione tutto si dispiega verso di noi, in un sol
sguardo; il controllo della situazione è totale ed il pericolo può venire soltanto da di
fronte. L'angolo rifugge il movimento, ed è il luogo in cui in una condizione di
immobilità, l'essere si rannicchia, si avvolge su sé stesso.
Questa immobilità è un valore d'immensità attraverso la quale restituirci al mondo.
“L'idea del protagonista di rannicchiarsi lungi dal mondo, di tapparsi in qualche rifugio, […] di essere al riparo trova una formulazione concreta nell'arredamento di
tutta l'abitazione, ma nello spazio su descritto il desiderio di estraniamento dalla
realtà, in un sicuro ed immobile ricovero, si coniuga contemporaneamente alle aspirazioni del viaggio. È il caso in cui l'ambiente diviene qualcosa di più d'un mero
specchio dell'anima; è anzi un potenziamento dell'anima, o, se si vuol seguitare l'immagine dello specchio, un gioco di specchi, per cui s'aprono prospettive infinite;
profondità di riflessioni moltiplicate ed identiche”.16
Un tavolo può essere sufficiente per offrire ad un bambino un angolo di mondo, la
sensazione di un avere un cielo più basso sopra la testa. Nella casa panche, cassetti
ed armadi sono degli angoli chiusi, degli amplificatori dello spazio vissuto, dispensatori di memoria, diffondono sensazioni, immagini e profumi che la geometria da
sola non è in grado di spazializzare. Nell’angolo non si sta seduti ed evidentemente
neppure in piedi, ma rannicchiati, chiusi in sé stessi. L’angolo si presta ad una posizione immobile in cui ci riversiamo su noi stessi. Una posizione contemplativa a
partire dalla quale attivare la nostra immaginazione. Gli oggetti, all'interno della
casa, costituiscono un nostro personale universo interiore, rappresentano i muri
attraverso i quali costruire il nostro spazio intimo; il nostro angolo. Muri che crescono costantemente e ci accompagnano nel percorso della nostra vita e che, come la
nostra personalità, non costituiscono un mondo chiuso e inflessibile, ma una transitorietà di flusso, che si dispiega nel tempo seguendo in maniera parallela i nostri
mutamenti emotivi che ci rappresentano di fronte alle cose del mondo.
16 Cfr note 28 e 29 in FORINO I., L'interno nell' interno. Una fenomenologia dell'arredamento, Alinea, Firenze, 2001
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Saper abitare significa prima di tutto sapere abitare con se stessi, conoscersi e riconoscersi, guardarsi dentro per ritrovare la nostra nota giusta, la nostra armonia interiore.
In questo gli oggetti ci aiutano a ricordare, a riconoscere nelle cose di cui ci circondiamo quello che noi non riusciamo ad essere, sempre alla rincorsa, come dei bianconigli, di un qualcosa che non c’è. È sempre tardi, c’è sempre qualcosa di più
importante da fare. Siamo pronti ad essere sopraffatti dalle nostre diverse personalità, ci dimeniamo, ci affanniamo in una corsa senza meta, mentre restiamo in immobile attesa nel ricercare la nostra anima più profonda, ed alla fine sembra che non
facciamo altro che distrarci dalla nostra esistenza.
Riguardo le pagine di un diario che tenni in quei tristissimi mesi. Come angusta, meschina, irrespirabile s'era ridotta la vita! Le mie note, a rileggerle, mi sembrano quelle di
un'altra persona, di qualsiasi persona in quei giorni. Nell'illusione che fosse un nascondiglio efficace, avevo murato in un nicchia alcuni oggetti di valore e capi di vestiario; ma
dove avevo nascosto la mia anima? Perché a rileggere quel diario, mi sembra di essermi
adeguato alla folla anonima, che freme, paventa, guarda verso la terra come un animale
in cerca di cibo, e qualche volta si ricorda della sua umanità e guarda verso il cielo come
a una lontana speranza. 17
È tardi! È tardi! È tardi!
Le nostre vite sono una corsa irrefrenabile
verso la concretizzazione di obiettivi, il raggiungimento di risultati, il progressivo miglioramento dello status in cui ci troviamo.
17 PRAZ M., La casa della Vita, Adelphi, Milano, quarta edizione marzo 2003, p. 194
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In questa condizione, sia nel pubblico che nel privato, il compito dell'architetto è
allora quello di costruire una “casa” per l'uomo, capire quali sono i giusti tasti da
premere, stimolare stati d’animo, far sospirare, e non certo il momento in cui imporre formalismi linguistici che rappresentano un fattore contingente e coercitivo, dettati dalla propria visione di un mondo che si limita ad organizzare i confini geometrici dell'architettura.
"Ieri", esordì con timore, "ho festeggiato il mio compleanno. I miei cari mi hanno
letteralmente sommerso di regali. L'ho fatta chiamare, caro architetto, perché ci consigli su come possiamo sistemare al meglio gli oggetti".
Il viso dell'architetto si allungava a vista d'occhio.
Poi proruppe: "Come le è venuto in mente di farsi regalare qualcosa! Non le ho forse
disegnato tutto? Non ho preso forse in considerazione ogni particolare? Lei non ha
più bisogno di nulla. Lei è completo!".
"Ma", si permise di replicare il padrone di casa, "mi potrò ben comprare qualcosa!".
"No, non può farlo! Mai e poi mai! Ci mancherebbe altro. Cose che non ho disegnato io? Non ho fatto abbastanza permettendole di tenere lo Charpentier? La statua che
mi ha tolto la fama per questa mia opera! No, lei non può comprare nulla!".
"E se il mio nipotino mi regala un lavoretto fatto all'asilo?".
"Lei non può accettarlo!".
Il padrone di casa rimase annichilito, ma non si diede per vinto. Un'idea, sì, un'idea!
"E se volessi comprarmi un quadro alla Secessione?", chiese in tono di trionfo.
"provi un po' ad appenderlo da qualche parte. Non vede che non c'è più posto? Non
vede che per ogni quadro che le ho appeso, ho creato una cornice originale su ogni
parete, su ogni muro? Non può neppure spostarlo, un quadro. Provi ad appenderne
uno nuovo!".
A quel punto nell'uomo ricco avvenne una trasformazione. L'uomo felice si sentì
improvvisivamente infelice. Vide la vita passargli davanti. Nessuno avrebbe più
potuto dargli gioia. Sarebbe dovuto passare di fronte ai negozi della città senza provare desideri. Per lui non sarebbe stato prodotto più nulla. Nessuno dei suoi cari
avrebbe potuto regalargli una fotografia, per lui non ci sarebbero più stati pittori,
artisti, artigiani. Era escluso dalla vita futura, dalle aspirazioni e dai desideri. Sentì
che avrebbe dovuto imparare a portare in giro il proprio cadavere. Sì! Era finito! Era
completo! 18
18 LOOS A., Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1992.
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Lo spazio intimo non può che essere uno spazio vissuto, è la nostra vita che ci distingue dall'anonimità della folla indifferenziata, è quello in cui il tempo deposita, come
fossero polvere, i brandelli della nostra memoria sulle cose che ci rappresentano, è
il luogo in cui alimentiamo le nostre revêrie, e che ci permette, nell'immensità della
solitudine, di pensarci altrove; è il posto speciale che solo ciascuno di noi conosce
ed è in grado di interpretare, il proprio angolo, un ritorno alla essenza originaria
della nostra stessa natura; sentirsi vivi.
Una casa di questo tipo non è qualcosa da realizzare con materiali da costruzione,
quanto piuttosto con materiale umano. Una casa di questo tipo bisogna saperla
prima di tutto abitare. Ed abitare significa avere cura. Aver cura significa amare, e
l'amore non è un sentimento che arriva all'improvviso, che trova in noi sempre aperta la porta per il suo dispiegamento.
Amare non è questione di fortuna, e non è essere amati. Amare è predisposizione a perdere qualcosa che si coltiva giorno dopo giorno, è una responsabilità nei confronti dell'oggetto del nostro amore. È l'addomesticare che intende la volpe di Saint-Exupéry.
Una casa di questo tipo si costruisce giorno dopo giorno; bisogna vivere per
costruirsi la propria casa, non costruire una casa per viverci.
L'essenza del costruire è il "far abitare". Il tratto essenziale del costruire è l'edificare luoghi mediante il disporre i loro spazi. Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo
costruire. Pensiamo per un momento a una casa contadina della Foresta Nera, che due
secoli fa un abitare rustico ancora costruiva. Qui, ciò che ha edificato la casa è stata la
persistente capacità di far entrare nelle cose terra e cielo, i divini e i mortali nella loro
semplicità. Essa ha posto la casa sul versante riparato dal vento, volto a mezzogiorno, tra
i prati e nella vicinanza della sorgente. Essa gli ha dato il suo tetto di legno che sporge a
grondaia per un lungo tratto, inclinato in modo conveniente per reggere il peso della
neve, e che scendendo molto in basso protegge le stanze contro le tempeste delle lunghe
notti invernali. … ciò che ha costruito questa dimora è un mestiere che, nato esso stesso
dall'abitare, usa ancora dei suoi strumenti e delle sue impalcature come di cose.
Solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire.19
Per quanto ci si possa meravigliare è qui, come ci ricorda ancora una volta
Heidegger, che sta la vera crisi dell'abitazione, che, sempre più spesso, è dovuta alla
nostra incapacità di vivere, di abbandonarci al mondo.
19 HEIDEGGER M., Costruire Abitare Pensare, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 107
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“Per quanto dura e penosa, per quanto grave e pericolosa sia la scarsità di abitazioni, l'autentica crisi dell'abitare non consiste nella mancanza di abitazioni. La vera
crisi degli alloggi è più vecchia delle guerre mondiali e delle loro distruzioni, più
vecchia anche dell'aumento della popolazione terrestre e della condizione dell'operaio dell'industria. La vera crisi dell'abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre ancora in cerca dell'essenza dell'abitare, che essi devono innanzitutto imparare
ad abitare”.20
20 Ibidem, p. 108
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L'immensità intima
Il percorso intrapreso fino ad ora si esaurisce con questo argomento, che preferisco considerare come un ponte con qualcosa che sarà, piuttosto che una conclusione del lavoro.
E questo non per mancanza di fonti ma piuttosto per mancanza di fede direi; il testo
che segue possiede un minor grado di scientificità che privilegia il valore emotivo
che spesso anche in precedenza non sono riuscito ad arginare, con un approfondimento di quella che per Bachelard è la naturale inclinazione della revêrie.
Abbiamo visto come uno spazio di intimità favorisce un particolare stato d'animo che
ha fondamentale importanza in termini di ri-collegamento con il sistema universale;
che questo non è una prerogativa esclusiva dell'abitazione, tanto che è possibile
identificarlo anche in uno spazio aperto, come quello del giardino, e di come esistano degli elementi, gli oggetti, che sono in grado di amplificare quello stato d'animo
che ci consente di entrare in contatto con la nostra interiorità.
L'uomo, asse verticale inserito in un piano orizzontale, da una posizione statica,
attraverso l'azione del camminare, acquisisce la capacità di interpretare lo spazio e
di riportarlo alla relazione con sé stesso. Prima forma di costruzione architettonica
del mondo, i tracciati generati da questo movimento, come vene della terra, ordine
di feng e shui, iniziano a disegnare in maniera inconsapevole il territorio infinito e
privo di organizzazione, costituendo il proprio e personale contributo al processo
generativo naturale.
Il percorso che vede la costruzione fisica dello spazio architettonico per mezzo di
variazioni di questa linea di terra, nel suo divenire confine, recinto e muro, viene filtrato attraverso gli oggetti che ci lasciano addosso, come polline concesso dai fiori
alle ali delle api, quei valori di cui ci siamo nutriti e che, nella contemplazione della
nostra interiorità più intima, termina in una condizione di immobilità.
Percorso circolare, quello che era iniziato attraverso il camminare, termina o meglio
continua nella immobilità, che è azione, condizione a partire dalla quale aprirsi
all'immaginazione.
All’interno della casa o fuori di essa, esiste un luogo particolare che sposa una posizione statica e che costituisce al tempo stesso il massimo grado di protezione che si
possa offrire in una minima conformazione spaziale:
questo luogo è l’angolo.
L'uomo ripiegato su se stesso, nell'immobilità, contempla la grandezza, ed è in que-
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sta particolare condizione, in questo stato d'animo, che la revêrie colloca il sognatore fuori del circostante; davanti a un mondo che reca il segno di un infinito.
Questo stato di contemplazione comincia sempre fuggendo davanti "all'oggetto vicino ed improvvisamente si trova lontano, altrove; nello spazio dell'altrove".21
In tale predisposizione empatica, non viene riprodotto un mondo che attraverso gli
accessi agli strati di memoria rivive in qualcosa che è già stato, non si riporta in presenza il tempo di un ricordo, ma si apre un nuovo mondo che non esiste se non nella
capacità poetica di poterlo immaginare.
La conoscenza è l'esponente che permette di avere una infinita possibilità di relazioni, che non appartengono alla consueta similitudine comparativa, ma che derivano
da rapporti nuovi, privi di regole e riferimenti prestabiliti; si aprono strade inedite
ed allora prendiamo coscienza della grandezza del cosmo immenso che riporta l'uomo ad una attività naturale che si esplica nel nostro "essere immensificante".
“L'immensità è in noi, legata ad una sorta di espansione di essere che la vita frena e
la prudenza arresta, ma che riprende nella solitudine. Non appena ci immobilizziamo, ci troviamo altrove, sogniamo in un mondo immenso”.22
Nella poetica dello spazio Bachelard sintetizza il concetto di immensità per mezzo
di due nuove immagini che si sommano a quelle precedentemente individuate per lo
spazio intimo: quella della foresta e della notte.
All'inizio del percorso abbiamo fissato come postulato la primaria capacità della mente
di interpretare lo spazio, a partire dalla captazione di punti di riferimento attraverso i
quali l'uomo ricostruiva il paesaggio che lo circondava.
Ebbene questi punti di riferimento nella foresta perdono ogni loro collocazione;
nella foresta abbiamo la sensazione di essere come in una stanza piena di specchi,
che rimandano infinitamente le immagini di loro stessi, in cui gli oggetti si moltiplicano su loro stessi e, nella loro ripetizione, ci trasmettono contemporaneamente quel
senso di compressione ed espansione che sono due delle caratteristiche principali
dello spazio.
È la perdita del centro, e un disorientamento che nonostante implichi un senso di
angoscia, tutto sommato ci affascina.
È un gioco di rimandi, di specchi, di pensieri, e di pensieri dei nostri pensieri.
La visione è dinamica, costituita da tutti i punti di vista disponibili, la luce si irradia di
un sentimento sacro e ci sentiamo avvolti all’interno di un centro privo di direzioni.
Se la foresta rappresenta il moltiplicatore, l'esponente attraverso il quale accrescere
21 BACHELARD G., La Poetique de l'Espace, op. Cit., p. 205
22 BACHELARD G., La Poetique de l'Espace, op. cit., p. 206
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l'immagine di sé stessa, la notte invece riesce ad esprimere perfettamente il senso di
solitudine; la mancanza di luce annulla quei pochi punti di riferimento che sebbene
inutili, all’interno della foresta, erano ancora disponibili.
Se proviamo ad immaginarci in una notte priva di luna, sufficientemente nuvolosa
da nascondere tutte le stelle dell’universo, se immaginiamo di trovarci in mezzo
all’oceano, ad una distanza tale che non ci permetta di scorgere altre luci, l’unica
cosa che potremmo vedere è il rumore del nostro respiro, il battito del nostro cuore.
Si potrebbe provare ad immaginare una situazione simile quando in piena notte ci
svegliamo in una stanza buia e la sensazione che ci pervade, quando tutti gli altri
ancora dormono, è quella di sentirci soli.
Svegliarsi in piena notte ci rende consapevoli della nostra solitudine, di essere svegli rispetto al mondo ancora assopito.
Queste due immagini di immensità, in uno spazio intimo, quello in cui l'essere è
ripiegato su sé stesso, trasformano in immaginazione, il senso di isolamento dell'uomo nei confronti di sé stesso e dei suoi stessi simili, in una complicità di mondo che,
è vicinanza, analogia tra noi e il mondo.
Contemplavo il giardino di meraviglie dello spazio col sentimento di guardare nel più profondo, nel più segreto di me; e sorridevo, perché non mi era mai accaduto di sognarmi così
puro, così grande, così bello!. Tutte le costellazioni sono tue, sono in te, non hanno realtà
al di fuori del tuo amore! Ah! Quanto appare terribile il mondo a chi non si conosce!
Quando ti sentivi solo ed abbandonato davanti al mare, pensa quale doveva essere la solitudine delle acque, nella notte, e la solitudine della notte nell'universo senza fine"23
Se per un solo istante riuscissimo a scrollarci di dosso la nostra egoistica percezione di noi stessi come oggetti esclusivi del mondo, come centro dell'universo, ci
accorgeremmo che la nostra solitudine, quella che sentiamo in presenza del "mondo
silenzioso dei grandi determinismi naturali", è la stessa che prova l'acqua del mare
di fronte all'immensità della notte, e la stessa che prova la notte di fronte al solo pensiero dell'universo.
Allora comprenderemmo che la nostra solitudine, non è isolamento tra gli uomini,
ma comunione col mondo.
Lo spazio architettonico passa il testimone ad uno spazio ispirato, che è quello in cui
il poeta guarda attraverso gli occhi che sono chiusi, uno spazio che non appartiene
23 MILOSZ, L'amoureuse initiation, Le Serpent à Plumes, Paris, 2004, p. 64
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alla fenomenologia del mondo naturale.
In immaginazione una casa priva di finestre fornisce la giusta condizione che permette di dispiegare il mondo ad occhi chiusi.
Nella solitudine del silenzio non abbiamo bisogno di aperture per guardare fuori,
tanto dalla nostra casa, quanto da noi stessi.
Non c'erano finestre con vista sull'esterno forse per aiutare chi vi abitava a vedere ciò che
bisogna osservare davvero. […] era un'architettura progettata per allontanare la mente dai
fenomeni e ricondurla alle essenze.24
Amedeo Modigliani
La Femme aux macarons
Le cose da vedere non sono
fuori, ma dentro di noi
24 DE BOTTON A., The Architecture of Happiness, op. cit., p. 232
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In questa infinità di acqua rispetto al cielo e dell'infinità di cielo nell'universo, prende vita, quello che per Baudelaire è il destino poetico dell'uomo, quello di essere lo
specchio dell'immensità, o, con maggiore esattezza, l'immensità prende coscienza di
sé nell'uomo; per Baudelaire l'uomo è un essere vasto, e questo senso di infinito si
traduce allora in una immensità la cui dimensione è intima.
La solitudine dell'uomo rispetto al mondo è la stessa che prova il mondo rispetto
all'universo e questa condizione accomuna l'uomo e il mondo in un medesimo destino. In questa comunione di solitudine, l'uomo avvicina il mondo, porta le cose al
mondo, facendole divenire dei luoghi.
Uomo e mondo in questa condizione raggiungono una loro esclusiva vicinanza.
La distanza geometrica tra le cose del mondo non è qualcosa che debba essere misurato scientificamente; è nulla quella tra l'uomo e la notte nella comprensione di ciò
che l'uomo e la notte hanno in comune.
Nell'epoca in cui tutte le lunghezze rappresentano un mondo ormai piccolo, in cui è
possibile raggiungere al massimo con una notte di volo lontananze precedentemente consumate in tempi decisamente diversi, la vicinanza non è quella distanza che si
misura geometricamente, ma è ciò che unisce le cose, senso di appartenenza ad un
medesimo sistema, è similitudine.
Ma questa fretta di sopprimere ogni distanza non realizza una vicinanza; la vicinanza non
consiste infatti nella ridotta misura della distanza.
Nella nostra vicinanza c'è quello che usiamo chiamare le cose.[…]
[E la cosa è ciò che fa] permanere la Quadratura. La cosa coseggia e riunisce il mondo.
Ogni cosa fa permanere la Quadratura collocandola di volta in volta in un singolo durare della semplicità del mondo.[…]
Quando pensiamo la cosa come cosa, prendiamo cura dell'essenza della cosa facendola
entrare nella regione in cui essa si dispiega. Coseggiare è avvicinare il mondo.
L'avvicinare è l'essenza della vicinanza. Nella misura in cui noi prendiamo cura della
cosa come cosa, noi abitiamo nella vicinanza. L'avvicinare della vicinanza è l'autentica e
unica dimensione del gioco di specchi del mondo.25
Attraverso la nostra conoscenza del mondo noi portiamo il mondo nelle cose e le
cose nel mondo, in quanto esseri del mondo, ed è evidente che in questo senso tale
relazione avviene a prescindere dalla distanza.
Non abbiamo bisogno di vedere dell'acqua per ammettere che questa esiste.
25 HEIDEGGER M., La cosa, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 109 e ssg.
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Per mezzo della nostra esperienza dell'acqua, il solo camminare nel deserto, può
riempire il deserto di acqua. Accade anche nelle cose del mondo, uno specchio di
acqua riflette il cielo riportandolo sulla terra.
L'uomo è annesso allo spazio interno, in quanto denso delle cose che ci portiamo
dentro.”Queste montagne a brandelli, queste sabbie e fiumi morti, queste pietre e
questo duro sole, [tutto] è annesso allo spazio del dentro.[…] Ho scritto una volta,
che colui che aveva conosciuto il mare profondo non poteva più ridiventare un uomo
come gli altri. È in momenti come questi che ne ho la prova, camminando riempivo
d'acqua la bellezza del deserto. In immaginazione, inondavo lo spazio che mi circondava e al cui centro io camminavo”.26
È una delle componenti della somiglianza di Foucault, l'analogia. Il potere dell'analogia è immenso perchè le similitudini da essa trattate non sono quelle visibili, massicce, delle cose stesse; basta che consistano nelle somiglianze più sottili dei rapporti. E siamo noi, vivendo il mondo, i creatori di questi rapporti, di tali similitudini, ed
è evidente che queste relazioni sono praticamente infinite.
L’analogia, “alleggerita in tal modo, può esibire, a partire da un medesimo punto, un
numero indefinito di parentele.[…] ad opera sua tutte le figure del mondo possono
essere accostate. Esiste tuttavia, in questo spazio solcato da tutte le direzioni, un
punto privilegiato: è saturato di analogie […] Questo punto è l'uomo. […] Eretto in
mezzo ai vari lati del mondo, egli ha un rapporto con il firmamento, il suo volto sta
al suo corpo, come il volto del cielo sta all'etere; il polso batte nelle vene come gli
astri circolano secondo i percorsi loro assegnati […]. Il corpo dell'uomo è sempre la
metà possibile di un atlante universale”.27
Nella somiglianza le cose si uniscono tendendo a divenire la stessa cosa. La somiglianza unisce tutte le parti dell'universo in quanto non necessita di legami strutturali, il suo valore è quello dell'irradiazione.
L'uomo, in quanto soggetto, si irradia nel mondo, e questo irradiarsi è una predisposizione appresa per mezzo del valore dell'immensità, che si esplica nell'immobilità.
L'immaginazione allora non è più apparenza di una realtà che non rappresenta, ma
manifestazione originaria della realtà nella coscienza.
Lo spazio diventa un unicum immenso, lo ha detto Rilke: "attraverso tutti gli esseri
si dispiega lo spazio unico, spazio intimo al mondo".
Il mondo e l'uomo hanno in comune il senso dell'immensità. Questa la loro similitudine.
L'immensità del mondo e l'immensità intima si congiungono quindi nella solitudine,
26 DIOLÈ P., Le plus beau dèsert du monde, Albin Mitchel, 1955, p. 178
27 FOUCAULT M., Les Mots et les Choses, tr. it., Le Parole e le Cose, Rizzoli, Milano, 1978, p. 36
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e per mezzo della loro analogiadivengono consonanti.
“Quella solitudine che fa di ogni giorno una vita, verso quella comunione con l'universo, lo spazio in una parola, lo spazio invisibile che all'uomo è tuttavia consentito abitare e che lo circonda con innumerevoli presenze”.28
Lo spazio intimo e l'immensità del mondo si incoraggiano dall'istante iniziale, che è
un punto, a partire dal quale, ciò che sarà, non potrà che essere una loro crescita
incrementale. Nello spazio intimo, nell'immobile solitudine, l'istante dilata il tempo
e diviene eterno.
“Avete mai visto, [una lepre] al mattino, saltare fuori dai solchi freschi aperti dall'aratro, correre per qualche istante sulla brina argentata e poi arrestarsi nel silenzio,
sedersi sulle zampe posteriori, drizzare le orecchie e guardare l'orizzonte? Il suo
sguardo sembra pacificare l'Universo”.29
È nell'istante che l'uomo cessa di essere un pensiero di sé stesso, quando si libera da
tutte le sue preoccupazioni, e riesce a pensare-pensarsi altrove.
È nell'istante che il tempo si dilata, diventa un unico infinito fotogramma di un intervallo immenso, ed è in quel preciso istante che l'essere si accorge del mondo, forse
per la prima volta. L’occhio non spia più, non cerca più quel controllo in cui si è
sforzato di costringere la realtà, ma si ferma, contempla.
"L'occhio allora non spia più, non è più ingranaggio della macchina animale, non la
comanda più. Sì, certamente, un tale sguardo, nella bestia della paura, è l'istante
sacro della contemplazione".30
Allo stesso modo, quando il pensiero cessa di essere "pensiero calcolante", il pensiero che “insegue senza tregua un'occasione dopo l'altra, [e che] non si arresta mai alla
meditazione”,31 come la lepre dimentica la sua natura di preda, l’uomo si lascia sfuggire all’instancabile volontà di controllo, si ferma e vede il mondo che si apre avanti
ai suoi occhi.
È in ciò che risiede il valore di uno spazio intimo, nell’incoraggiare la comprensione
di questo istante, l'attimo in cui si dispiega la capacità di vedere la realtà del mondo.
Un istante in cui l'uomo, come la lepre, non spia più, il pensiero calcolante lascia il
posto al pensiero meditante, ed allora ciò che resta è un senso di completo e incondizionato abbandono alla vita.
Abitare è un imperativo: “conosci te stesso”.
È un invito a dimenticare; è un invito a guardare nell’abisso del vuoto della profondità che è racchiusa in questo anelito di consapevolezza, che ci spinge e muove incessan28 Citazione di una lettera di Rilke estrapolata da BACHELARD G., La poetique de l'espace, op. cit., p. 222
29 D'ANNUNZIO G., Il fuoco, Mondadori, Milano, 1967, p. 261
30 BACHELARD G., La poetique de l'espace, op. cit.,p. 230
31 Cfr. HEIDEGGER M., Gelassenheit, tr. it., L'abbandono, il Melangolo, Genova, 1989, in riferimento al concetto di
abbandono e sulla differenza tra il pensiero calcolante e il pensiero meditante.
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temente; è un invito ad abbandonare la ricerca di una risposta.
È un invito ad arrendersi nel suo significato di “ad rendere”.
Abitare è quindi un atteggiamento nei confronti della vita, e volendo sintetizzare
possiamo affermare che esistono sicuramente almeno due possibili modalità di interpretare la nostra esperienza nel mondo, ai cui corrispondono, due diversi tipi di individui: a perdere e a rendere, come i vuoti del latte.
Se vogliamo essere riempiti nuovamente dobbiamo essere a rendere, altrimenti saremo come quelle bottiglie che, una volta vuotate, vogliono rimanere così perchè si
sono identificate e diventano, appunto, dei vuoti a perdere.
Solamente la bottiglia che comprende di dovere cambiare continuamente, quindi di
doversi riempire e svuotare continuamente, può essere a rendere, ed è in questo ad
rendersi che si esplica il grande gioco di specchi del mondo.
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