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I soggetti della giustizia internazionale: individui, popoli, stati. Una

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I soggetti della giustizia internazionale: individui, popoli, stati. Una
I soggetti della giustizia internazionale: individui, popoli, stati.
Una riflessione filosofico-giuridica
*
Elena Pariotti
1.
Il quadro del problema
Il plesso teorico e pratico rappresentato da fenomeni originariamente autonomi
ma
ormai
interconnessi,
quali
l'erosione
della
sovranità
statale,
la
globalizzazione con i suoi effetti politici e giuridici, la diffusione di problemi
essenzialmente transfrontalieri, ha indotto negli ultimi anni la riflessione, entro
numerosi ambiti disciplinari — dalla filosofia morale e politica, a quella giuridica,
fino alle teorie delle relazioni internazionali e alla teoria del diritto internazionale
—, a tematizzare il concetto di giustizia internazionale. In questo quadro, la
genesi della riflessione intorno a tale concetto può essere letta come un portato
della necessità di rivedere i presupposti stato-centrici dominanti nelle succitate
discipline.
La
riflessione
intorno
ad
alcuni
problemi
teorico-giuridici
propri
dell'individuazione dei soggetti della giustizia internazionale richiede il
preliminare chiarimento di tre aspetti: (i) la definizione del concetto di giustizia
internazionale; (ii) la definizione di «soggetto» della giustizia internazionale.
L'ambito della giustizia internazionale non è facilmente definibile: per un verso,
esso include i principi concernenti la giustizia penale internazionale, i diritti
umani, la democratizzazione delle istituzioni internazionali, la ricerca principi di
distribuzione delle risorse validi a livello globale; per altro verso, il novero delle
questioni passibili di venire
ricomprese sotto
l'etichetta
di «giustizia
internazionale» è in continua evoluzione, nella misura in cui, per effetto di un
mutamento dello sguardo teorico o per l'intensificarsi dell'interdipendenza,
questioni tradizionalmente percepite come connesse alla giustizia interna alla
comunità politica vanno assumendo una portata transnazionale o globale.
Dalla riflessione sulla giustizia internazionale il presupposto stato-centrico esce
ora riaffermato ora invece negato, a seconda delle prospettive. Nel primo caso,
*
Professore di Filosofia del diritto presso l'Università di Padova (Italia), Facoltà di Scienze Politiche.
viene accolta la tesi della priorità dell'ambito interno per la definizione degli
standard di giustizia. La tesi poggia su due presupposti: (1) il livello interno ed il
livello internazionale generano, rispetto alla giustizia, doveri di tipo e di intensità
differente; sicché, in caso di conflitto tra doveri concernenti la giustizia verso la
società domestica e doveri verso l'umanità, sono i primi a dover prevalere1. Va
subito precisato che il contesto interno in tali prospettive ritenuto idoneo a
generare speciali obblighi e diritti morali non è ravvisato nello Stato, bensì nella
nazione, nel legame di nazionalità; (2) l'ambito internazionale non costituisce un
genuino contesto di giustizia2, ma piuttosto un contesto residuale rispetto alla
giustizia interna oppure un contesto costruito a partire dalle scelte assunte con
precipuo riferimento al piano interno. Nel secondo caso, invece, dichiarata
l'irrilevanza morale dei legami di appartenenza alla comunità politica e di
nazionalità, si afferma la natura intrinsecamente cosmopolitica della giustizia3.
1
Y. Tamir, Liberal Nationalism, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1993; D. Miller, On
Nationality, Oxford University Press, Oxford 1995; Id., The Ethical Significance of Nationality, in «Ethics»,
98 (1988), n. 4, pp. 647-662; R.E. Goodin, What is So Special about Our Fellow Contrymen?, in «Ethics»,
98 (1988), n. 4, pp. 663-686.
2
A. MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, University of Notre Dame Oress, Indiana 1981; Id.,
Whose Justice? Which Rationality?, Notre Dame University Press, Notre Dame (Ind.), Duckworth, London
1988; Id., Is Patriotism a Virtue?, Lindley Lecture, University of Kansas 1984; Id., Multiculturalism and
"The Politics of Recognition", Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1992; Miller, The Ethical
Significance of Nationality, cit., p. 661, con riferimento all'analisi della giustizia distributiva rispetto al
criterio del bisogno: «We do not yet have a global community in the sense that is relevant to justice as
distribution according to need. There is no consensus that the needs of other human beings considered
merely as such make demands of justice on me, nor is there sufficient agreemet about what is to count as
a need. It is therefore unrealistic to suppose that the choice lies between distributive justice worldwide and
distributive justice within national societes; the realistic choice is between distributive justice of the latter
sort and distributive justice within smaller units — families, religious, commmunities, and so forth».
3
H. Shue, The Burdens of Justice, in «The Journal of Philosophy», 80 (1983), n. 10, Parte I, pp. 600-608,
in particolare pp. 603-605; C. Beitz, Political Theory and International Relations, Princeton University
Press, Princeton 1979; Id., Cosmopolital Ideals and National Sentiment, in «The Journal of Philosophy»,
80 (1983), n. 10, Parte I, pp. 91-600; Id., Justice and International Relations, in «Philosophy and Public
Affairs», 4 (1975), n. 4, pp. 360-389.
2
Alla luce di questa considerazione, in effetti, l'appartenenza alla medesima
comunità politica non esibisce una immediata priorità morale sulla relazioni che
uniscono gli individui, le società e persino gli stati in senso globale4.
Questo il quadro generale delle fondamentali modalità di accostamento al tema
della giustizia internazionale. La definizione dei soggetti della giustizia è
operazione che finisce, tuttavia, col porsi in senso trasversale agli approcci
appena indicati.
Infine, per "soggetti" intendo qui sia gli attori della giustizia internazionale che i
destinatari dell'applicazione dei principi di giustizia, i titolari dei diritti ed i
destinatari dei doveri.
Il mio intento è di analizzare, da una prospettiva filosofico-giuridica, alcuni
problemi che si annidano nell'idea, ampiamente condivisa dalla dottrina
internazionalistica,
secondo
cui
il
diritto
internazionale
è
andato
progressivamente mostrando, dal 1945 in avanti, la propensione a riconoscere
la soggettività giuridica non solo degli Stati, ma anche degli individui e dei
popoli.
2. I popoli come soggetti della giustizia internazionale
Nella propria teoria della giustizia internazionale, John Rawls, individua nei
popoli i soggetti della giustizia internazionale. Intendo qui esaminare questa
tesi, per dimostrare che (a) essa non rappresenta una risposta coerente alle
esigenze che dichiaratamente la motivano; (b) le ragioni per le quali si
potrebbe, in maniera assai più convincente, assegnare ai popoli la qualifica di
soggetti della giustizia internazionale sono di natura e di ordine radicalmente
differenti da quelle indicate da Rawls; (c) queste ulteriori, e più efficaci, ragioni
che concorrono all'attribuzione ai popoli della qualifica di soggetti della giustizia
internazionale pongono, tuttavia, a loro volta, ulteriori problemi, legati alla
tensione fra tutela dell'autonomia individuale e perseguimento di finalità
collettive.
4
A questa medesima conclusione giunge anche Satz, Equality of What Among Whom?, cit., p. 81.
3
Il termine «soggetti» ricorre nella teoria rawlsiana, sia nel senso di «attori della
giustizia internazionale», che in quello di «titolari dei diritti e destinatari degli
obblighi derivanti dall'adesione alla legge dei popoli».
Comincerò ripercorrendo la prospettiva rawlsiana lungo due direttrici,
rispettivamente concernenti (i) le ragioni per cui, considerata l'alternativa fra
popoli e stati, Rawls sceglie di attribuire ai popoli il ruolo di soggetti della
giustizia internazionale; (ii) la configurazione del modello.
Le ragioni. Ai popoli possono essere attribuite caratteristiche indispensabili a
rendere plausibile la teoria ideale della giustizia internazionale rawlsiana. Tali
caratteristiche sono la ragionevolezza, ovvero la disponibilità alla cooperazione,
e la razionalità, ovvero la capacità di selezionare i mezzi maggiormente idonei
a realizzare l'auto-interesse5. Inoltre, i membri del popolo sarebbero legati da
un comune sentire. In sintesi, Rawls ritiene queste caratteristiche condizioni
necessarie e sufficienti per riconoscere ai popoli una natura morale.
Queste stesse caratteristiche non potrebbero — sostiene Rawls — essere
attribuite in via generale agli stati.6
Procediamo nell'analisi degli argomenti che espressamente determinano la
scelta rawlsiana, la quale dovrebbe consentire — negli intenti del filosofo
americano — una presa di distanza dalla concezione tradizionale dello Stato,
concezione individuabile nell'idea dello Stato propugnata dal paradigma realista
nelle relazioni internazionali e dagli approcci giuspositivistici al diritto
internazionale, per quanto riguarda la teoria del diritto7.
Il punto merita particolare attenzione, tanto da una prospettiva interna alle
posizioni rawlsiane, quanto da una prospettiva esterna. In prospettiva interna,
risulta che, paradossalmente, proprio la scelta di assegnare ai popoli, anziché
5
6
Rawls, The Law of Peoples, cit., pp. 23-25.
Rawls, The Law of Peoples, cit., p. 23: «This account of the Law of Poples conceives of liberal
democratic peoples (and decent peoples) as the actors in the Society of Peoples».
4
agli stati, il ruolo di soggetti della giustizia internazionale tradisca una implicita
quanto acritica adesione al realismo politico. È perché gli stati sono per
definizione mossi dall'interesse nazionale ed agiscono sulla base esclusiva
della razionalità strumentale che ad essi non può attribuirsi una natura morale.
La mossa rawlsiana può, quindi, al massimo puntare ad eludere la discussione
del realismo politico, non certo a prendere da esso le distanze, essendo dettata
dai suoi stessi assunti8.
I problemi aumentano non appena si consideri un ulteriore risvolto della
caratterizzazione rawlsiana del popolo, caratterizzazione che finisce per far
collassare il concetto di popolo entro quello di Stato. Ciò risulta evidente nei
seguenti passaggi:
(a)
eleggendo i popoli a soggetti della giustizia internazionale Rawls mira a
riformulare la sovranità alla luce di un diritto dei popoli ragionevole9;
(b) la legge dei popoli, ossia l'insieme dei principi sui quali i popoli liberali e
decenti possono trovare una convergenza, mira a costituirsi come guida per la
politica estera degli stati10.
Ora, non si può non notare come, dopo avere accuratamente distinto, popoli e
stati, Rawls finisca per attribuire anche ai primi le competenze proprie dei
7
«Another reason I use the term "people" is to distinguish my thinking from about political states as
traditionally conceived, with their powers of sovereignty included in the (positive) international law for the
theree centuries after the Thirty Years'War» (Rawls, The Law of Peoples, cit., p. 25).
8
Per questa annotazione critica cfr. anche O. O'Neill, Agents of Justice, in Th.W. Pogge (ed.), Global
Justice, Blackwell, Oxford 2001, pp. 188-203, segnatamente p. 195; A. Buchanan, Rawls's Law of
Peoples: Rules for a Vanished Westphalian World, in «Ethics», 110 (2000), pp 697-721, alle pp. 701, 703711, 721; A. Kuper, Rawlsian Global Justice. Beyond The Law of Peoples to Cosmopolitan Law of
Persons, in «Political Theory», 28 (2000), n. 5, pp. 640-674, segnatamente p. 645.
9
«We must reformulate the powers of sovereignty in light of a reasonable Law of Peoples and deny to
states the traditional rights to war and to unrestricted internal autonomy» (Rawls, The Law of Peoples, cit.,
pp. 26-7).
10
Rawls, The Law of Peoples, cit., p. 92.
5
secondi11. La difficoltà fondamentale di questa prospettiva è evidente: la politica
estera è qualcosa che può essere decisa solo dagli stati; parimenti, la sovranità
è qualcosa che può appartenere al popolo, ma che può essere da quest'ultimo
esercitata solo attraverso lo Stato. Ed allora — ecco il punto — perché
individuare nei popoli i soggetti deputati a scegliere l'interpretazione dei principi
della legge dei popoli, se il fine di questi ultimi è di fungere da guida per i
rapporti interstatali?
Questo nodo di questioni risulta amplificato dalla mancata tematizzazione delle
modalità con cui la natura morale dei popoli possa comunicarsi agli stati. È
difficile, in altri termini, comprendere in che modo il carattere morale dei popoli
possa incidere sulle scelte governative e trovare in esse un canale di
espressione, posto che gli stati sono connotati nel senso fissato dalle tesi
realiste. Possiamo — è vero — ricavare la necessità di ammettere dei livelli e
dei momenti di interazione fra popoli e governi ragionando sulla base di quanto
da Rawls affermato a proposito degli Stati fuorilegge, unico caso, all'interno
della tassonomia delle società domestiche, in cui ricorre il termine «stato»
anziché il termine «popolo». La ragione di questa scelta è, probabilmente, che
in questo caso i popoli non hanno alcuna possibilità di vedere riflessa la loro
natura morale nelle scelte politiche. Sicché l'unico profilo rilevabile è quello
delle scelte governative. Si può pensare che, in tutti gli altri casi, le
caratteristiche dei popoli emergano, in qualche misura, anche dalla
configurazione delle loro istituzioni e dalle scelte politiche.
In sintesi, Rawls esclude che una teoria normativa della giustizia internazionale
possa eleggere gli stati a soggetti della giustizia internazionale in conseguenza
della natura che questi avrebbero secondo il paradigma realista. Tuttavia, a
rigore, la stessa classificazione dei popoli da cui muove la teoria ideale della
giustizia, nonché la funzione a quest'ultima assegnata, risultano affermare,
11
Così anche Buchanan, Rawls's Law of Peoples: Rules for a Vanished Westphalian World, cit.,
segnatamente pp. 698, 699: i popoli sono, nella caratterizzazione rawlsiana, gruppi organizzati, dotati di
caratteri analoghi a quelli sintetizzati dalla sovranità statale.
6
anziché negare o attenuare, i legami tra popolo e Stato. Ci troviamo così di
fronte ad un'alternativa: o la teoria normativa della giustizia delineata a partire
da questo presupposto risulta incapace di incidere sulle relazioni fra gli stati e
sulla politica estera, oppure è necessario individuare dei punti di contatto tra
popoli e stati. In quest'ultimo caso, si dovrà convenire che, ai fini della
realizzazione degli interessi ad essi specifici ed al perseguimento della giustizia
in ottica internazionale, i popoli non possono vantare un ruolo autonomo,
distinto da quello degli stati. Non a caso, quanto più si procede nel confronto
con le tesi della teoria non ideale, tanto più i popoli assumono le caratteristiche
degli stati12. I popoli hanno interessi fondamentali, cercano di proteggere il loro
territorio, di assicurare la sicurezza dei loro cittadini, di conservare istituzioni
politiche improntate all'ideale della libertà, nonché le libertà della loro società
civile13. Si può sostenere che gli interessi dei popoli liberali — non dei popoli in
quanto tali — coincidano senz'altro con quelli degli stati liberali.
Come è allora possibile continuare a sostenere che i popoli derivino diritti,
doveri e sovranità dalla legge dei popoli stessa14? Il programma rawlsiano
tradisce un'incoerenza interna, principalmente imputabile al perseguimento di
un programma utopico, sulla base di premesse invece realistiche.
Una rilevante differenza tra popoli e stati permane, nella prospettiva rawlsiana,
nella misura in cui solo i primi possono aprirsi alla cooperazione con gli altri
popoli e possono ampliare la gamma delle finalità del loro agire, comprendendo
quello che il filosofo americano definisce la sfera del «reasonable just», ovvero
il giusto che non risponde alla logica del mutuo interesse. La pregnanza di
questo elemento distintivo risulta, ad ogni buon conto, limitata, oltre che —
come si è detto — dal fatto di valere non per i popoli tout court, ma solo per i
12
Per questa osservazione cfr. anche O' Neill, Agents of Justice, cit., p. 194. Malgrado le sue intenzioni,
in numerosi punti della caratterizzazione dei popoli, Rawls finisce col tratteggiare entità che corrispondono
perfettamente alla classica definizione weberiana dello stato.
13
Rawls, The Law of Peoples, cit., pp. 29, 34
14
Ivi, p. 27.
7
popoli liberali e decenti, anche dal fatto che il perseguimento del giusto ispirato
alla logica della cooperazione è comunque subordinato alla garanzia della
sicurezza e della giustizia interne. Queste ultime finalità si pongono, infatti,
anche nel discorso rawlsiano, come prioritarie nelle scelte di politica interna ed
estera rispetto al perseguimento del «giusto ragionevole» «per tutti i popoli»15.
Un ultimo problema: la precisa individuazione degli interessi che i popoli hanno
verso se stessi e la loro stessa disponibilità alla cooperazione non sono, a ben
guardare, caratteri universalmente spettanti ai popoli in quanto tali, bensì
soltanto ai popoli liberali16. Analogamente, si potrebbe distinguere, anche
all'interno degli stati, fra stati che assumono questi interessi come obiettivi,
quantomeno della loro politica interna, e stati che invece non accolgono tali
interessi come orientamento per il proprio agire.
Quest'ultima osservazione rileva una ulteriore e decisamente importante
difficoltà nella prospettiva rawlsiana. La teoria rawlsiana della giustizia
internazionale si configura come una teoria a due stadi: il raggiungimento di
uno standard minimo di giustizia sul piano interno è un passaggio preliminare e
condizionante il livello di giustizia raggiungibile sul piano internazionale17.
Ebbene, cercherò di mostrare che la distinzione tra popoli e stati difesa da
Rawls regge, fatti salvi i problemi sopra sottolineati, soltanto a condizione di
abbandonare l'articolazione in due stadi della teoria.
È la stessa mancanza di coestensività fra popoli e stati a convogliare qualsiasi
posizione voglia riservare ai popoli un ruolo centrale — nel nostro caso per la
definizione e la realizzazione della giustizia internazionale — verso l'adozione
15
Ivi, p. 29.
16
Ivi, p. 23: «This account of the Law of Poples conceives of liberal democratic peoples (and decent
peoples) as the actors in the Society of Peoples».
17
Rawls, The Law of Peoples, cit., passim, ad esempio p. 26: «In developing the Law of Peoples the first
step is to work out the principles of justice for domestic society»; pp. 30-34, dove si introduce il concetto di
posizione orginaria, distinguendo fra posizione originaria al primo livello, finalizzata alla scelta dei principi
di giustizia validi all'interno delle singole società domestiche, e posizione originaria al secondo livello,
finalizzata alla individuazione dell'interpretazione da assegnare ai principi della legge dei popoli.
8
di una prospettiva «globale», in luogo di una prospettiva meramente
«internazionale».
La differenza tra giustizia globale e giustizia internazionale che intendo qui
valorizzare è quella delineata da Amartya Sen. Giustizia internazionale e
giustizia globale sono da Sen intese come due differenti livelli di giustizia, due
livelli che possono entrare in competizione. Il livello della giustizia
internazionale riguarda principi di giustizia validi oltre i confini della comunità
politica ma definiti a partire da essa; il livello della giustizia globale concerne,
invece, immediatamente un ambito che non è individuato a partire dal
riferimento alla comunità politica, bensì a partire dalle interrelazioni globali18.
Queste ultime si configurano come relazioni tra gli individui (e non come
relazioni inter-statali) o tra affiliazioni transnazionali. Nelle interrelazioni globali
gli individui sono guidati dalle loro molteplici forme di identità e di appartenenza,
che tendono sempre più a strutturarsi in senso transnazionale19.
Ritengo che, a meno di non volerla completamente privare di ogni specificità
nei confronti della concezione opposta, la tesi dei popoli come soggetti della
giustizia internazionale risulterebbe coerentemente collocata all'interno di una
prospettiva di giustizia globale, nel senso prospettato da Sen.
Il concetto rawlsiano di popolo sembra incorrere in un'ulteriore difficoltà, nella
misura in cui implica l'idea che la popolazione di uno Stato sia un popolo
«unificato da una singola cultura politica»20. In tal modo si rimuovono a priori,
dal diritto internazionale e dalle relazioni internazionali, i problemi derivanti dai
18
A. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002, pp. 49 ss. «L'eccesso di semplificazione che
dovrebbe essere, in particolare, evitato è l'identificazione della giustizia globale con la giustizia
internazionale. La portata e la rilevanza della prima possono di gran lunga superare quelle della
seconda»; ivi, p. 63, dove si traccia la distinzione fra «una prospettiva globale in senso ampio e una, più
limitata, internazionale»; ivi, p. 66: «la giustizia internazionale non esaurisce le istanze della giustizia
globale. Le nostre interrelazioni globali sono di gran lunga più estese delle relazioni internazionali».
19
Sen, Globalizzazione e libertà, cit., pp. 47-48.
9
conflitti interni allo Stato, ancora una volta in piena consonanza con la «logica»
del paradigma realista. Alla luce dei rilievi alla teoria di Rawls qui elaborati, è
possibile concordare con quanti ritengono che la concezione realista (o
westfaliana) dello Stato  che permane paradossalmente sia dietro il rifiuto di
assegnare espressamente agli stati il ruolo di soggetti della giustizia
internazionale, sia dietro alla caratterizzazione della nozione di popolo  non
solo sia chiaramente rintracciabile nella teoria rawlsiana, ma possa spiegare
due lacune nel contenuto della legge dei popoli: l'assenza di principi di giustizia
distributiva globale21 e di principi miranti al controllo dei conflitti intra-statali22.
La scelta di escludere questi due aspetti dallo spettro delle questioni investite
dalla legge dei popoli rivela l'adesione alla concezione westfaliana del diritto
internazionale, che viene così accostato quale insieme di regole rivolte agli stati
intesi come politicamente omogenei, auto-sufficienti sotto il profilo economico e
come unità elementari di riferimento per la determinazione della giustizia
distributiva23. Per dare voce ai popoli, al contrario, sarebbe necessario adottare
una concezione dello Stato che consenta al diritto internazionale di penetrare al
suo interno, di superarne l'opacità.
Analogamente, il meccanismo di giustificazione della legge dei popoli non
appare facilmente conciliabile né con l'autonomia individuale né con il
pluralismo. Se, sul piano infra-statuale, la scelta dei principi di giustizia in
posizione originaria consente di contemperare imparzialità ed equità, da un
lato, con il rispetto dell'autonomia (ed anche eventualmente con la natura autointeressata) degli individui, vale a dire con il mutuo vantaggio, dall'altro, la
20
Buchanan, Rawls's Law of Peoples: Rules for a Vanished Westphalian World, cit., pp. 716-718.
Contrariamente a quanto sostiene Rawls, Buchanan concepisce i popoli, concretamente, come insieme di
gruppi, spesso separati da concezioni della giustizia e del bene alquanto differenti
21
Così Buchanan, Rawls's Law of Peoples: Rules for a Vanished Westphalian World, cit., pp. 703-715;
Pogge, An Egualitarian Law of Peoples, cit., in particolare pp. 195-214; Beitz, Political Theory and
International Relations, cit., pp. 123-153.
22
Buchanan, Rawls's Law of Peoples: Rules for a Vanished Westphalian World, cit., pp. 716-720.
23
Buchanan, Rawls's Law of Peoples: Rules for a Vanished Westphalian World, cit., pp. 703-706
10
posizione originaria di secondo livello appare invece sbilanciata a favore di
un'ottica collettivistica24. In altri termini, la soluzione rawlsiana (i) potrebbe
giustificare principi di giustizia «calibrati» su istanze collettive, ma non
necessariamente anche su istanze individuali; (ii) comporta l'adesione implicita
all'idea di giustizia come imparzialità e l'abbandono della prospettiva del mutuo
vantaggio25. Questa scelta denota, nel passaggio dal piano della giustizia
interna a quello della giustizia internazionale, un radicale mutamento di
prospettiva:
mentre
il
livello
internazionale
si
muove
sulla
scorta
dell'individuazione di un ideale di giustizia inteso come un fine in quanto tale, il
livello interno assume un ideale di giustizia condizionato al rispetto
dell'autonomia individuale26.
24
Sul punto le critiche contenute in A. Buchanan, Rawls's Law of Peoples: Rules for a Vanished
Westphalian World, cit., in particolare pp 698; Th. W. Pogge, An Egualitarian Law of Peoples, in
«Philosophy and Public Affairs», 23 (1994), n. 3, pp. 195-224, in particolare pp. 195-214, segnatamente
pp. 210-211; Kuper, Rawlsian Global Justice, cit., pp. 646-648; McCarthy, Justice, the State and
International Relations, cit., p. 90, dove si sottolinea chiaramente che la difesa della priorità dello stato
quando si tratti di questioni di giustizia deriva da, oppure sfocia in, una concezione organicistica dello
stato. Si è, peraltro, mostrato nel testo, che sussistono buoni argomenti per rinvenire nelle tesi rawlsiane
una inconfessata adesione alla concezione realista dello stato. McCarthy (ivi, p. 131) reputa, inoltre,
possibile il riconoscimento del ruolo dello stato come principale garante della giustizia e dei diritti, senza
per ciò stesso assegnare al concetto di stato una valenza morale o senza condizionare all'esistenza dello
stato il significato dei principi di giustizia; in estrema sintesi, è possibile riconoscere il ruolo svolto dallo
stato nella promozione della giustizia, continuando a considerare gli esseri umani come i soggetti ultimi
della giustizia all'interno dell'arena internazionale.
25
Vale la pena di ricordare la conclusione raggiunta da Brian Barry a proposito dell'approccio rawlsiano
alla giustizia internazionale: secondo Barry «I principi di giustizia internazionale proposti da Rawls sono un
precario compromesso fra la giustizia come vantaggio reciproco, la quale esige che essi siano altrettanto
vantaggiosi per tutte le parti nelle condizioni reali delle relazioni internazionali, e la giustizia come accordo
imparziale, che tende soltanto al vantaggio delle parti in una posizione originaria costruita in modo da
negar loro ogni conoscenza delle proprie prospettive reali di vantaggio e svantaggio sotto principi
alternativi» (B. Barry, Theories of Justice, The Regents of the University of California, 1989; trad. it. Teorie
della giustizia, Il Saggiatore, Milano 1996, p. 213).
26
Così Pogge, An Egualitarian Law of Peoples, cit., p. 210. Tralascio qui di discutere le critiche che su
questo punto sono state rivolte anche rispetto alla teoria rawlsiana della giustizia come equità sul piano
11
Reputo questo «scivolamento» da una concezione individualistica ad una
concezione olistica riconducibile alle difficoltà insite nella scelta di eleggere i
popoli a soggetti della giustizia internazionale27, scelta che risulterebbe,
appunto, più coerente entro una prospettiva orientata alla giustizia globale nel
senso di Sen.
Ciò non è privo di rilievo anche per intendere i precisi termini dell'adesione
rawlsiana al paradigma realista, il cui presupposto è, come noto, l'analogia tra
ordine internazionale e stato di natura. Charles Beitz ha osservato come questa
analogia sia stata utilizzata in due versioni fondamentali: quella hobbesiana e
quella riconducibile a Pufendorf. In base alla prima concezione, i principi delle
relazioni internazionali sono giustificabili esclusivamente in termini di interesse
nazionale e non contengono riferimenti di ordine morale. La conseguenza
dovrebbe essere lo scetticismo morale nel campo della giustizia internazionale,
riassumibile nella tesi secondo cui in ambito internazionale le valutazioni morali
non sarebbero ragioni per agire28.
Un riconoscimento esplicito dell'esistenza di una moralità nell'agire degli stati è
presente nella concezione di Pufendorf: in questa prospettiva l'ambito
internazionale è composto da stati auto-sufficienti che interagiscono solo in
modo marginale. Gli stati, non gli individui sono i soggetti della moralità
internazionale. La moralità dei rapporti internazionali si regge qui, da un lato,
interno. Come è ben noto, infatti, essa è stata accusata di non rispettare, malgrado gli intenti, l'autonomia
individuale.
27
Non reputo sufficientemente pregnante la spiegazione della posizione rawlsiana offerta da Pogge.
Pogge sostiene che la perdita di centralità dell'autonomia individuale sarebbe riconducibile ad una sua
carenza di universalità, al timore, in altri termini, che esso possa essere contestato dalle società
gerarchiche.
28
C. Beitz, Political Theory and International Relations, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1979,
pp. 64-65. Beitz ha tuttavia mostrato come, proprio coerentemente con le premesse dell'etica hobbesiana,
si dovrebbe sostenere che l'interesse nazionale è moralmente legittimato come principio delle relazioni
internazionali solo se deriva dall'interesse individuale. Anche sulla base della prospettiva hobbesiana,
quindi, l'analogia fra stato di natura e relazioni interstatali non è un elemento che possa supportare lo
scetticismo verso queste ultime.
12
sull'autonomia degli stati e, dall'altro, sull'assenza di qualsivoglia principio di
giustizia distributiva internazionale, sulla scorta dell'idea che ogni stato abbia
diritto alle risorse ed alla ricchezza presenti nel proprio territorio e che non vi
siano regole morali concernenti la condotta che gli stati dovrebbero tenere nei
loro rapporti economici.
Tralasciata la distinzione fra stato e popolo, la teoria rawlsiana sembra
avvicinarsi alla seconda prospettiva. A questa lettura si può giungere
considerando le differenze che segnano la posizione originaria al secondo
livello, rispetto a quella di primo livello. Nella scelta dei principi che dovranno
regolare i rapporti internazionali, le parti sono rappresentanti di popoli (non più,
come nella posizione di primo livello, di individui) e ciò rende la scelta vincolata
sotto due profili: i popoli debbono mirare al bene comune e non possiedono
alcuna dottrina del bene comprensiva29, laddove, nella posizione originaria
finalizzata alla scelta dei principi di giustizia validi entro la società domestica,
questi ultimi debbono risultare accettabili anche nel senso del mutuo vantaggio
ed intrattengono un rapporto, sia pure di tensione dialettica, con le dottrine
comprensive dei singoli individui. Sicché, mentre gli interessi fondamentali dei
cittadini derivano dalle loro concezioni del bene (e  come ci spiega Rawls con
la sua teoria del liberalismo politico  la loro compatibilità con i requisiti
dell'equità è stabilita dal superamento della tensione fra bene e giusto), gli
interessi fondamentali di un popolo in quanto tale sono specificati unicamente
dalla sua concezione politica della giustizia e dai principi della legge dei
popoli30.
Il punto di contatto tra il livello individuale e il livello collettivo non è, però, nella
teoria rawlsiana assente e risulta recuperabile valorizzando la struttura a due
stadi della teoria medesima. Dapprima ogni società domestica sceglie i principi
di giustizia validi al proprio interno. In questa fase l'autonomia e gli interessi
individuali compatibili con i requisiti del giusto politico sono pienamente
29
Ralws, The Law of Peoples, cit., p. 40
13
garantiti. In un secondo momento, sono i popoli ad estendere tali principi di
giustizia all'ambito internazionale, nella misura e secondo le modalità previste
dalla legge dei popoli31. Si può quindi certo riconoscere che la connessione tra i
due stadi impedisca lo scollamento tra concezione individuale della giustizia e
concezione riconosciuta a livello collettivo da una società domestica. Il
presupposto di tale prospettiva è che l'ambito internazionale non costituisca un
contesto di giustizia in senso originario, ma solo in quanto riconosciuto come
tale dalle società domestiche32. È, tuttavia, stato in precedenza mostrato come
questa struttura mal si concili con l'elezione dei popoli a soggetti della giustizia
internazionale.
Si sono così rinvenute alcune difficoltà interne alla soluzione rawlsiana e si è
chiarito che tali difficoltà sono strutturalmente legate alla inidoneità del concetto
di popolo a fungere da soggetti della giustizia internazionale. Si è visto, infatti,
come, per un verso, non sia possibile assegnare ai popoli un ruolo chiave
nell'affermazione di principi di giustizia internazionale senza assegnare ad essi
anche le caratteristiche che sarebbero, a rigore, proprie degli stati e, per altro
verso, come vedere nel popolo il soggetto della giustizia internazionale
concorra allo sviluppo in senso organicista dei principi di giustizia stessi.
Cercherò ora di mostrare come neppure il diritto internazionale abbia sinora
mostrato attitudine a prendere in considerazione le istanze di giustizia se riferite
ai popoli. Un esempio di ciò sembra venire dalla sorte subita dall'applicazione
del principio di autodeterminazione dei popoli.
Gli artt. 1 e 55 della Carta delle Nazioni Unite sanciscono il diritto all'autodeterminazione dei popoli, poi ripreso dall'art. 1 del "Patto sui diritti economici,
30
Ralws, The Law of Peoples, cit., pp. 34-35.
31
Ralws, The Law of Peoples, cit., pp. 30, 32 dove chiaramente Rawls parla di «estensione dell'idea
liberale del contratto sociale alla legge dei popoli».
32
Per alcune importanti critiche a questo aspetto della teoria rawlsiana: Buchanan, Rawls's Law of
Peoples: Rules for a Vanished Westphalian World, cit., p. 698; C. Beitz, International Liberalism and
Distributive Justice: A Survey of Recent Thought, in «World Politics», 51 (1999), n. 2, pp. 269-296, in
particolare pp. 270-271.
14
sociali e culturali". Tuttavia quanto stabilito dalla Carta del '45 rimase vago nel
contenuto e per ciò stesso anche di scarsa efficacia. La portata rivoluzionaria
del principio di autodeterminazione risulta, nella formulazione che di esso viene
dato nella Carta, attenuata. Ciò per tre fondamentali ragioni: in primo luogo, sin
dalla Carta del '45 non viene enunciato come un obbligo da ottemperare
nell'immediato, ma piuttosto come un programma d'azione; in secondo luogo,
l'autodeterminazione non viene concepita come un fine in sé, quanto piuttosto
come strumentale alla garanzia della pace e della sicurezza internazionali;
infine, il contenuto da assegnare al concetto di auto-determinazione non è
quello di indipendenza politica, bensì quello, più debole, di «autogoverno», di
garanzia di una qualche forma di partecipazione all'attività politica. La
ricostruzione del dibattito precedente all'adozione della Carta ha portato, infatti,
ad escludere che per "auto-determinazione" dei popoli si potesse intendere: (a)
il diritto di secessione; (b) il diritto di un popolo coloniale ad avere
l'indipendenza politica33. In tal modo l'idea di autodeterminazione veniva
assunta in senso essenzialmente negativo e finiva per coincidere con il divieto
di ingerenza negli affari interni degli altri Stati. A partire dagli anni '50 poi in
concomitanza
con
il
processo
di
decolonizzazione,
il
concetto
di
autodeterminazione viene assunto anche nella sua accezione positiva, come
obbligo in capo ad un «governo che occupa un territorio non suo di lasciare che
il popolo possa determinare il proprio destino»34. Ancora oggi, comunque, il
principio ha un campo di applicazione ristretto e si esplica soprattutto nella
33
Sul tema, A. Cassese, Self-Determination of Peoples. A Legal Reappraisal, Cambridge University
Press, Cambridge University Press, Cambridge 1995, p. 42; J. Crawford-S. Marks, The Global Democracy
Deficit: An Essay in International Law and Its Limits, in D. Archibugi-D. Held-M. Köhler (eds.), Reimagining Political Community. Studies in Cosmopolitan Democracy, Polity Press, Cambridge 1998, pp.
72-90, per il punto p. 76; U. Leanza, Il diritto internazionale. Da diritto per gli Stati a diritto per gli individui,
Giappichelli, Torino 2002, pp. 85-86.
34
Leanza, Il diritto internazionale. Da diritto per gli Stati a diritto per gli individui, cit., p. 87. Il principio
emerge anche nella protezione delle minoranze nazionali e dei popoli indigeni.
15
forma della c.d. autodeterminazione esterna (ovvero nei confronti di popoli
sottoposti ad un governo straniero)35.
In sintesi, declinato nel senso dell'autonomia da un governo straniero o
razzista, il principio di autodeterminazione sembra avere senz'altro svolto un
importante
ruolo
nel
riconfigurare
le
regole
che,
nell'odierno
diritto
internazionale, governano la responsabilità statale, come anche nel prevedere
la personalità giuridica per movimenti che agiscano in rappresentanza dei
popoli
e
per
il
raggiungimento
dell'autonomia36.
Al
contrario,
l'autodeterminazione interna sembra non avere spazio nell'attuale diritto
internazionale: ciò perché esso muove dalla presunzione di conformità della
volontà popolare alla volontà del governo (in altri termini: l'esistenza, all'interno
di uno Stato, di un regime che possa dirsi rappresentativo del popolo soddisfa il
principio di autodeterminazione)37. Ci si può spingere ad affermare che questo
requisito costituisca per il diritto internazionale un presupposto, dato per
rispettato fino a prova contraria, la quale può prodursi solo in caso di
imposizione di un governo straniero. In tal senso, si può accogliere l’idea che il
diritto internazionale si sia sinora sviluppato in conformità con quello che è stato
denominato «methodological nationalism», ovvero la tesi secondo cui i governi
rappresentano
la
volontà
della
nazione
e
le
divisioni
interne
sono
esclusivamente riguardate come questioni di politica interna, come tali irrilevanti
per l’analisi delle relazioni internazionali e dei rapporti giuridici interstatali38.
Anche
senza
voler
giungere
a
proporre
un
«methodological
35
Ivi, p. 90.
36
A. Cassese, Self-Determination of Peoples. A Legal Reappraisal, cit., pp. 166-168, 177-197.
37
Ivi, p. 92.
38
Cfr. M. Shaw, Theory of the Global State: Global Reality As an Unfinished Revolution, Cambridge
University Press, Cambridge 2000, p. 68.
16
cosmopolitanism»39, è evidente che si tratta di un presupposto problematico,
che lo si accetti o che lo si voglia scardinare.
Possiamo quindi affermare che, anche laddove i popoli sono chiaramente
destinatari materiali di norme di diritto internazionale, e laddove le
rivendicazioni dei popoli assumono un rilievo internazionale, l'ambito di
applicazione del principio di autodeterminazione risulta essere ancora molto
ristretto.
Se, per un verso, le concezioni progressiste del diritto internazionale hanno
annoverato tra i soggetti di quest'ultimo, oltre agli stati, anche individui, gruppi e
popoli, va detto che, sotto un profilo teorico, tra i concetti di gruppo e popolo
corre una differenza in grado di spiegare perché i popoli si configurino
effettivamente come soggetti del diritto internazionale solo in casi limitati, solo
in casi rinvianti alla violazione di specifici diritti umani, per lo più connessi alla
violazione di norme dello jus cogens (che, sulla base di una consolidata linea
interpretativa della "Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati", includono il
diritto all'autodeterminazione esterna40) e non alla tutela di principi di giustizia in
senso più ampio. Non è questo, tuttavia, un limite del diritto internazionale,
bensì ― io credo ― una conseguenza legata alla natura del concetto di popolo,
il quale presenta una natura essenzialmente collettiva e non semplicemente
associativa. In quanto rinviante ad una entità organica, non decostruibile nelle
sue componenti, il concetto di popolo non risulta un centro di imputazione
idoneo per formulare istanze relative alla giustizia.
Il diritto internazionale parrebbe, pertanto, poter strutturalmente includere fra i
propri soggetti gli stati, gli individui, e solo in senso più circoscritto i popoli.
Questo perché la nozione di popolo (a) è una nozione "opaca", che impedisce
di scorgere al suo interno la strutturazione tra bisogni, obiettivi, diritti individuali
e finalità collettive; (b) intrattiene con il concetto di Stato un rapporto
39
cfr. U. Beck, The Postnational Society and its Enemies, Lecture held at London School of
Economics, 24-02-2000.
40
Cassese, Self-Determination of Peoples. A Legal Reappraisal, cit., pp. 173-4.
17
disomogeneo: da elemento necessario all'individuazione dello Stato può
assumere la forma concreta di entità capace di sfidare la legittimità di
quest'ultimo. Sicché, se è vero che, in un'ottica di superamento della
prospettiva stato-centrica, l'idea di popolo parrebbe in grado di esprimere
identità, culture, bisogni che necessariamente sfuggono alla struttura dello
Stato ed alla configurazione dei rapporti inter-statali, per altro verso essa non si
presta facilmente a questo fine, nella misura in cui il diritto internazionale non
mostra ― se non in casi circoscritti (riconducibili, come si è visto, alla lotta per
l'autodeterminazione esterna e, possiamo aggiungere, alla difesa dell'identità
culturale dei popoli indigeni) ― di possedere strumenti per tutelare quelle
identità e quei bisogni che possono attribuirsi ai popoli, distintamente dagli stati
e dagli individui, in un'ottica capace di comprendere tutte le questioni della
giustizia internazionale. Dal punto di vista della dottrina costituzionalistica, la
nozione di popolo si presenta ambivalente, talché, da un lato, sta a significare
una pluralità di soggetti, scomponibile in singole individualità e in gruppi,
mentre, dall'altro lato, indica una unità inscindibile41. Dal punto di vista del diritto
internazionale la scomponibilità, quand'anche coglibile, diviene estremamente
problematica da gestire.
Ci si può ora chiedere se si possano pensare gli individui come soggetti della
giustizia internazionale. La prospettiva da cui questa domanda è formulata non
è quella morale, bensì quella filosofico-giuridica42.
41
Più precisamente, il popolo si presenta, nella scienza giuridica, ora come «comunità ordinata di
governanti e governati», ovvero come soggetto idealmente unitario, preesistente allo Stato, ora come «il
complesso dei governati che si contrappongono ai governanti», ovvero come insieme di individui, gruppi,
associazioni, ecc. (per le definizioni cfr. D. Nocilla, Voce «Popolo (dir. costituzionale), in «Enciclopedia del
diritto», vol. XXXIV, Giuffrè, Milano 1984, p. 360). Questa duplice valenza del concetto di popolo risulta
riscontrabile anche da un'angolazione filosofica (cfr., per un quadro in proposito, A. Facchi, Popolo, in A.
Barbera (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Laterza, Roma-Bari 20004, pp. 93-116).
42
McCarthy, Justice, the State and International Relations, cit., p. 73.
18
3. Gli individui come soggetti della giustizia internazionale
Fra le teorie della giustizia, il cosmopolitismo è senz'altro quella che si
caratterizza per la centralità in essa riconosciuta all'individuo. Mi confronterò
ora con questo paradigma, nell'intento di stabilirne (a) la fondatezza e l'idoneità
a realizzare le istanze della giustizia internazionale; (b) la compatibilità o meno
con la posizione dell'individuo nell'odierno diritto internazionale, limitatamente
alle materie di maggiore attinenza con l'ambito della giustizia e secondo la
definizione di essa fornita nel primo paragrafo.
La versione del cosmopolitismo in grado di interessare maggiormente per la
chiarificazione dello statuto della giustizia internazionale è quella che stabilisce
requisiti per le istituzioni e per le pratiche politiche e giuridiche43. Sotto questo
profilo sono interessata ad indagare i punti di contatto fra giustizia
internazionale e diritto internazionale. L'ambito privilegiato è certamente quello
della protezione internazionale dei diritti umani.
Il cosmopolitismo istituzionale si costruisce a partire da tre presupposti:
l’individualismo
(ontologico
ed
etico),
l’universalismo
(derivante
dall'accoglimento del principio della pari dignità di tutti gli esseri umani),
l'eguaglianza (tutti gli individui devono essere trattati ugualmente a prescindere
dalla separazione delle frontiere). Il cosmopolitismo rinvia a parametri di
valutazione delle azioni che considerano gli effetti sugli individui e rifiuta di
assumere che azioni o situazioni della medesima natura abbiano differente
significato morale a seconda del loro collegamento con l'orizzonte statuale44.
43
Cfr. C.R. Beitz, International Liberalism and Distributive Justice: A Survey of Recent Thought, in «World
Politics», 51 (1999), n. 2, pp. 269-296, in particolare p. 288, dove si distingue, all'interno del paradigma
cosmopolitico, fra teorie che stabiliscono condizioni per le istituzioni e teorie che stabiliscono condizioni
per gli individui, nonché fra teorie che giustificano tali condizioni sulla base di aspetti eticamente rilevanti
delle relazioni fra individui e teorie che giustificano tali condizioni in altro modo.
44
Per questa caratterizzazione del cosmopolitismo, B. Barry, Statism and Nationalism: A Cosmopolitan
Critique, in J. Shapiro-L. Brilmayer (eds.), Global Justice, New York University Press, New York-London
1999, pp. 12-66, in particolare pp. 35-37. Le principali tesi del cosmopolitismo si possono ritrovare, tra gli
altri, nei seguenti lavori: Si vedano principalmente D. Archibugi-D. Held-M. Köhler (eds.), Re-imagining
Political Community: Studies in Cosmopolitan Democracy, Cambridge, Polity Press 1998; D. Held,
19
In questa prospettiva, i problemi di giustizia devono essere affrontati secondo
una prospettiva intrinsecamente globale (in tal senso si parla di global justice).
L’obiettivo è una società internazionale altamente complessa, in cui istituzioni
statali e sociali convivano con istituzioni cosmopolitiche, in assenza di un centro
di governo unitario.
La proposta dei teorici della democrazia cosmopolitica, che nasce come
proposta filosofico-politica interna al cosmopolitismo, mostra subito i profondi
punti di contatto con il modo di intendere il diritto internazionale. Essa muove
dalla contestazione del modello di Westfalia, ritenuto inidoneo a cogliere le
esigenze di democratizzazione del mondo contemporaneo. In luogo del
modello westfaliano si propone una articolazione delle istituzioni ispirata al
criterio dell'interdipendenza tra arena politica nazionale ed arena politica
internazionale,
ed
al
superamento
della
logica
interno/esterno45.
Più
precisamente, la connessione tra i livelli locale, statale e globale dovrebbe
avvenire secondo quanto previsto dalle quattro dimensioni istituzionali del
cosmopolitismo: giuridica, politica, economica e culturale46.
In base alla dimensione giuridica, il cosmopolitismo persegue l'ideale di un
ordine giuridico globale in cui le persone godano di una condizione di
eguaglianza per ciò che attiene alle istituzioni fondamentali del sistema
giuridico, in primis l'eguaglianza di trattamento giuridico e la tutela dei diritti
della persona. La realizzazione di questo aspetto del progetto cosmopolitico
passa per la produzione di una nuova carta dei diritti e per la messa a punto di
un sistema giuridico globale in materia penale, civile e commerciale;
Democracy and the Global Order: From the Modern State to Cosmopolitan Governance, Polity Press,
Cambridge 1995; D. Held, Cosmopolitanism, Polity Press, Cambridge 2002; J. Vincent, What is
Cosmopolitanism?, in «The Journal of Political Philosophy», 8 (2000), pp. 227-243; D. Held, The
Changing Contours of Political Community. Rethinking Democracy in the Context of Globalization, in B.
Holden (ed.), Global Democracy. Key Debates, Routledge, London 2000, pp. 17-31.
45
Held, Democracy and the Global Order, cit., p. 22.
46
Cfr. D. Held, Law of States, Law of Peoples: Threee Models of Sovereignty, in «Legal Theory», 8, 2002,
pp. 1-44, in particolare pp. 23-39.
20
l'introduzione del principio di giurisdizione obbligatoria della Corte di giustizia
internazionale e della Corte penale internazionale, nonché la creazione di una
corte per la tutela dei diritti umani.
La realizzazione dell'aspetto prettamente politico del progetto cosmopolitico
richiede, poi, un processo di diffusione del potere con la creazione di una
governance poliedrica; una rete di centri per la discussione democratica che
vada dal locale al globale; la creazione di una forza militare internazionale.
Sul versante economico, il progetto cosmopolitico richiede la revisione dei
meccanismi di scambio; un sistema di tassazione globale; il trasferimento di
risorse a favore degli svantaggiati.
Il successo di tale progetto poggia, infine, anche sulla componente culturale,
consistente nell'alimentare negli individui, i quali sono cittadini sia rispetto ad
una comunità politica che rispetto alle istituzioni globali (multiple citizenship), la
capacità di mediare fra le diverse tradizioni nazionali, tra le diverse comunità di
destino e i diversi stili di vita. La dimensione culturale del cosmopolitismo
sottolinea, così, il carattere fluido dell'identità individuale e la possibilità di
creare forme di lealtà politica poggianti sulla rielaborazione critica delle identità
locali47.
Così circoscritto, l'approccio cosmopolitico alla giustizia internazionale è stato
accusato di utopismo, nella misura in cui comporta riforme istituzionali troppo
radicali o promuove la nascita di istituzioni internazionali dotate di poteri
coercitivi che gli stati non sono disposti a concedere. Ancora, un'ulteriore
accusa ha riguardato la mancata considerazione dell'effettivo peso che i
concreti legami di appartenenza avrebbero per gli individui48.
47
D. Held, Law of States, Law of Peoples: Threee Models of Sovereignty, cit., p. 33; D. Held, Democracy
and Globalization, in D. Archibugi-D. Held-M. Köhler, Re-imagining Political Community. Studies in
Cosmopolitan Democracy, Polity Press 1998, pp. 11-27, p. 24; D. Held, The Changing Contours of
Political Community, cit., p. 29.
48
Beitz, International Liberalism and Distributive Justice, cit., pp. 290-291.
21
Il ruolo centrale che tale prospettiva assegna agli individui in quanto soggetti
della giustizia internazionale emerge pienamente con la proposta di modifica
alle istituzioni internazionali, e principalmente all'ONU. È dei fautori del
cosmopolitismo la proposta di istituire una seconda Assemblea, i cui membri
rappresentino i cittadini di tutti gli Stati, anziché i governi49. Verrebbe in tal
modo riconosciuto sul piano istituzionale agli individui il ruolo di soggetti
principali della «governance democratica» in quanto titolari di diritti umani50.
L'obiettivo è quello di rendere formulabili, di fronte alla comunità internazionale,
i conflitti interni agli stati, nel tentativo di superare le difficoltà teoriche e pratiche
derivanti dall'analogia tra Stato e individuo, tra ordine internazionale e stato di
natura, che è alla base dei paradigmi stato-centrici. L'idea che gli stati siano
assimilabili ad agenti che coesistono, in un contesto di anarchia (l'assimilazione
del contesto internazionale allo stato di natura), è, infatti, all'origine dello
scetticismo circa la possibilità di individuare principi di giustizia che valgano
nella sfera internazionale51, ma è un presupposto ampiamente controvertibile.
Nondimeno, la creazione di una seconda Assemblea delle Nazioni Unite si
giustifica esclusivamente sulla base del presupposto che gli stati rappresentati
si reggano tutti su un sistema politico democratico al loro interno. La realtà della
comunità internazionale è, però, diversa e l'implementazione della proposta
determinerebbe il paradosso per cui rafforzare le procedure di decisione
democratica a livello internazionale significherebbe non solo fallire nel tentativo
49
D. Bienen-V.Rittberger-W. Wagner, Democracy in the United Nations System: Cosmopolitan and
Communitarian Principles, in Archibugi-Held-Köhler, Re-imagining Political Community, cit., pp. 287-307,
in particolare p. 299; D. Archibugi, Dalle Nazioni Unite alla Democrazia cosmopolita, in D. Archibugi-R.
Falk-D. Held-M. Kaldor (a cura di), Cosmopolis. È possibile una democrazia sovranazionale?,
Manifestolibri, Roma 1993, pp. 91-121, in particolare pp. 98-102, 105-106; J. Galtung, Alternative Models
for Global Democracy, in B. Holden (ed.), Global Democracy. Key Debates, London-New York 2002, pp.
143-161, segnatamente p. 156.
50
Bienen-Rittberger-Wagner,
Democracy
in
the
United
Nations
System:
Cosmopolitan
and
Communitarian Principles, cit., p. 299.
51
Bienen-Rittberger- Wagner, Democracy in the United Nations System: Cosmopolitan and
Communitarian Principles, cit., in particolare pp. 299-300.
22
di portare la democrazia nella comunità internazionale, ma persino inficiare la
democrazia interna degli Stati che godano di istituzionali democratiche
consolidate52.
Il fallimento cui si espone la proposta cosmopolitica sembra, così, confermare
la tesi di quanti affermano l'impossibilità di una democrazia a livello
internazionale o, quantomeno, la dipendenza di quest'ultima dalla democrazia
interna degli stati. Parrebbe trovare ancora una volta conferma l'idea della
«cecità» del diritto internazionale alla democrazia ed all'assetto interno degli
Stati53.
Sicché, si può constatare che, per un verso, la democrazia vada emergendo
come condizione normativa e come criterio di legittimazione degli Stati di fronte
alla comunità internazionale (e senz'altro nel processo di formazione di entità
sovranazionali, come nel caso dell'Unione europea); ma per altro verso, le
istituzioni internazionali e il diritto internazionale non dispongono della
possibilità di dare forma a questa istanza.
4. Gli Stati e gli individui come soggetti della giustizia internazionale:
verso una riformulazione accettabile delle posizioni stato-centriche
Considerate le difficoltà incontrate, per ragioni diverse, nel caso dell'approccio
contrattualistico e nel caso della proposta cosmopolitica, la definizione dei
soggetti della giustizia internazionale deve necessariamente passare per la
messa a punto del modello del diritto internazionale e delle relazioni
internazionali accolto. Intendo, in tal senso, dimostrare che:
52
Bienen-Rittberger- Wagner, Democracy in the United Nations System: Cosmopolitan and
Communitarian Principles, cit., in particolare p. 304.
53
Sul punto J. Crawford-S. Marks, The Global Democracy Deficit: An Essay in International Law and its
Limits, in Archibugi-Held-Köhler, Re-imagining Political Community, cit., pp. 72-90, specialmente pp. 7273.
23
(a)
Il diritto internazionale va elaborando crescenti riferimenti a parametri di
giustizia, come dimostra la crescente importanza assunta in esso dai diritti
umani;
(b)
proprio in virtù dell'importanza riconosciuta ai diritti umani, è corretto
riconoscere la centralità che l'individuo va assumendo, sia rispetto alla
definizione dei parametri della giustizia internazionale, sia rispetto alla sua
promozione. E tuttavia vi deve anche essere la consapevolezza che, fatta
eccezione per la possibilità di ricorso diretto per violazione di diritti umani avanti
corti sovranazionali, gli individui sono soggetti passivi della giustizia
internazionale, in quanto beneficiari diretti di norme internazionali. Ciò significa
che, per l'affermazione dei diritti e dei principi di giustizia, l'intervento dello Stato
è indefettibile;
(c)
le relazioni internazionali non possono essere esaurientemente spiegate
sulla base del modello realistico.
Procederò al chiarimento delle tesi ora enunciate.
L'idea che gli stati siano i soggetti della giustizia internazionale non rinvia, nella
prospettiva che intendo proporre, a quella linea di pensiero che individua
nell'orizzonte della comunità politica l'ambito di legittimazione del giusto e nello
stato-apparato l'insieme esclusivo dei mezzi per garantire la giustizia54.
Seguendo questa linea, si finirebbe con l'intendere la giustizia internazionale
come mero sotto-prodotto dell'incontro tra ordini politico-giuridici nazionali già
conformati (al loro interno) ad ideali di giustizia (rappresentati dai principi
connessi allo stato di diritto, dalla tutela dei diritti fondamentali, dalla presenza
di istituzioni democratiche). Rispetto al sistema normativo internazionale, tale
prospettiva assume il concetto di giustizia in una accezione estremamente
"debole". Si afferma, in tal senso, che, rispetto all'ordine internazionale, il
54
Un chiaro esempio di questa posizione si trova in D. Zolo, Cosmopolis: la prospettiva del governo
mondiale, Feltrinelli, Milano 1995; Id., I Signori della pace: una critica del globalismo giuridico, Carocci,
Roma 1998; M. Walzer, Spheres of Justice: A Defense of Pluralism and Equality, Basic Books, New York
1983, trad. it. Feltrinelli, Milano 1987, pp. 41-45.
24
parametro fondamentale sia la legittimità, e non la giustizia55. A rigore, in base
a questa prospettiva, sarebbe difficile dire qualcosa di significativo o di vero a
proposito della giustizia del sistema normativo internazionale56.
Consideriamo per quali ragioni, in base ad essa, il concetto di giustizia non si
applicherebbe ai rapporti fra gli stati, e sarebbe sostituito invece dal parametro
della legittimità. In tale prospettiva l'ordinamento internazionale risulta legittimo
se tale da rispettare tre requisiti: la chiarezza testuale, la coerenza e l'adesione
che alle norme viene data nella consapevolezza che si tratta di norme che
vincolano gli Stati nei confronti della comunità internazionale57. Sulla scorta di
questi parametri, l'ordine giuridico internazionale potrebbe limitare l'ambito di
esercizio della volontà degli stati, ma non ammetterebbe un giudizio relativo
alla sua giustizia.
La prospettiva appena richiamata muove, evidentemente, dall'adesione ad una
concezione giuspositivista del diritto internazionale, la quale non è, tuttavia, alla
luce di alcune fondamentali trasformazioni rinvenibili all'interno di quest'ultimo,
l'unica ammissibile58.
L'elaborazione di una proposta alternativa a quelle finora presentate richiede
che si stabilisca preliminarmente se ed in quale misura la giustizia sia rilevante
per il diritto internazionale.
Il modo più corretto di fornire una modellizzazione del diritto internazionale
odierno procede, a mio parere, secondo un paradigma che integra il modello di
55
Th.M. Franck, Is Justice Relevant to the International Legal System?, in G. Simpson (ed.), The Nature
of International Law, Ashgate, Dartmouth, etc., 2001, pp. 519-537, in particolare pp. 519-520; per il
concetto di legittimità, cfr. Th.M. Franck, Legitimacy in the International System, in G. Simpson (ed.), The
Nature of International Law, Ashgate, Dartmouth 2001, pp. 217-271.
56
Franck, Is Justice Relevant to the International Legal System?, cit., p. 520.
57
Franck, Legitimacy in the International System, cit.
58
Per questa classificazione, condivisa in letteratura, cfr. D. Amstrong, Law, Justice and the Idea of a
World Society, in G. Simpson (ed.), The Nature of International Law, Aldershot, Dartmouth 2001, pp. 547553, in particolare p. 547.
25
Westfalia ed il modello della Carta delle Nazioni Unite59. Si vuole, in tal modo,
sottolineare l'evoluzione subita dal diritto internazionale, a seguito della quale
esso sarebbe divenuto (i) meno formalista e più aperto alle esigenze etiche ed
alle finalità del diritto e della giustizia; (ii) meno neutro e più sensibile ai valori
comuni legittimati collettivamente dalla comunità internazionale; (iii) meno
volontarista per la crescente disponibilità a riconoscere norme imperative,
valide indipendentemente dalla volontà dei singoli Stati60.
Come noto, infatti, secondo il “modello della Carta delle Nazioni Unite”, (a)
soggetti nel diritto internazionale non sono più soltanto gli stati, ma anche i
singoli individui, indipendentemente dalla loro condizione di cittadini di uno
stato, i gruppi e i popoli, le organizzazioni non governative; (b) la sovranità
statale risulta subordinata al mantenimento della pace e della sicurezza e alla
tutela dei diritti umani, obiettivo, questo, rispetto al quale l’UDHR fornisce un
impulso imprescindibile; (c) il principio di reciprocità, principio cardine
nell’assetto del diritto internazionale inteso come inter-nationes del modello
westfaliano, risulta indebolito quando siano in gioco i diritti umani.
59
Secondo il “modello della Carta delle Nazioni Unite”, (i) soggetti nel diritto internazionale non sono più
soltanto gli stati, ma anche i singoli individui, indipendentemente dalla loro condizione di cittadini di uno
stato, i gruppi e i popoli, le organizzazioni non governative; (ii) la sovranità statale risulta subordinata al
mantenimento della pace e della sicurezza e alla tutela dei diritti umani, obiettivo, questo, rispetto al quale
l’UDHR fornisce un impulso imprescindibile; (iii) il principio di reciprocità, principio cardine nell’assetto del
diritto internazionale inteso come inter-nationes del modello westfaliano, risulta indebolito quando siano in
gioco i diritti umani..
60
J.A. Carrillo Salcedo, La Declaración Universal de Derechos Humanos, cincuenta anos después,
Minima Trotta, Madrid 1999, p. 141. Cfr. anche F.V. Kratochwil, Rules, Norms, and Decision. On the
Condition of Practical and Legal Reasoning in International Relations and Domestic Affairs, Cambridge
University Press, Cambridge (MA) 1989, pp. 250-251, dove si afferma che, se lo sviluppo del diritto interno
ha seguito uno spostamento dalla convenzione al contratto, la realtà del diritto internazionale è più
complessa. La concezione dei trattati multilateriali come indicatori di consuetudini emergenti non solo
rovescia questa sequenza, subordinando il contratto alla consuetudine, ma mostra anche che l'ordine
giuridico internazionale presenta importanti caratteristiche sui generis. Un ruolo centrale è certo giocato
dalla crescente l'importanza assunta dai diritti umani nello sviluppo della pratica del diritto internazionale
(ivi, p. 252).
26
Tuttavia, non possiamo dire che si sia giunti alla piena attuazione di tutti i punti
del modello ora richiamato, in particolare ciò vale per il punto sub (a), che
investe direttamente l'indagine svolta in queste pagine. Come si è detto, infatti,
allo stadio attuale del processo di evoluzione del diritto internazionale, gli
individui, i gruppi ed anche i popoli sono soggetti in senso passivo, in quanto
destinatari diretti di norme internazionali. A fronte della contrapposizione fra
due orientamenti dottrinali, per i quali la soggettività internazionale dell'individuo
dipende, rispettivamente, dalla sua capacità di agire in giudizio presso organi
giurisdizionali internazionali61 o dall'essere l'individuo titolare di diritti ed obblighi
stabiliti dall'ordinamento internazionale, questa pare la risposta alternativa più
convincente62.
Anche
nell'ambito
della
tutela
dei
diritti
umani,
che
massimamente esprime il valore dall'individuo assunto nell'ordinamento
internazionale, il carattere passivo di tale soggettività è messo in luce dalla
natura essenzialmente pattizia e consensuale delle modalità di produzione e di
accertamento del diritto. A fronte di questa situazione, che considero in gran
parte strutturale alla peculiarità dell'ordinamento giuridico internazionale,
neppure le proposte di matrice cosmopolitica sopra ricordate sembrerebbero
efficaci.
Tutto ciò indica che non è possibile disgiungere l'attenzione per la giustizia
internazionale da quella per la struttura interna e per l'agire degli Stati, i quali
sono soggetti della giustizia internazionale in senso sia attivo che passivo. Il
tema investe, a questo punto, la teoria delle relazioni internazionali.
Una
teoria
trasformazioni
normativa
della
intervenute
nel
giustizia
diritto
internazionale
internazionale
che,
forte
delle
contemporaneo,
si
proponga di incidere sulla valenza tradizionalmente assegnata alla sovranità
61
Leanza, Il diritto internazionale. Da diritto per gli Stati a diritto per gli individui, cit., p. 108: in tale
prospettiva, perché si possa parlare di soggettività internazionale è necessario che (a) un determinato
comportamento umano sia disciplinato dal diritto internazionale; (b) la violazione della regola di condotta
possa determinare la responsabilità dell'individuo davanti ad un giudice internazionale; (c) sia riconosciuto
all'individuo un diritto di azione davanti a tale giudice.
62
Leanza, op. cit., pp. 108-109.
27
statale, non dovrebbe prescindere dalla ricerca della possibilità di confutare la
concezione realistica dello Stato e, anzi, da lì dovrebbe prendere le mosse.
Contrariamente a quanto si è portati a pensare, quest'ultima non trae la propria
validità e la propria superiorità da una maggiore plausibilità empirica: di fatto gli
stati non hanno mai goduto di una sovranità (interna ed esterna) illimitata e non
sono mai stati motivati, in politica estera, solo dall'auto-interesse63. Inoltre, oggi,
gli effetti politici e giuridici dei processi di globalizzazione non possono che
supportare questa affermazione: l'interdipendenza diviene sempre più, ad un
tempo, vincolo al perseguimento dell'interesse nazionale ed elemento in grado
di accrescere la complessità di quest'ultimo, fino a vanificarne qualsiasi
funzione tanto esplicativa quanto normativa nei confronti delle relazioni
internazionali. L'idea degli stati come «monadi» mosse esclusivamente
dall'auto-interesse non è, quindi, più plausibile, ma semmai lo è meno, di altri
modi di concepire i rapporti inter-statali64. A fortiori, l'interdipendenza
complessa65 può e deve essere letta come condizione in grado di creare un
genuino contesto di giustizia.
Si ottiene così un quadro concettuale che impone di vedere gli Stati come il
tramite fra le istanze di giustizia degli individui e dei gruppi, da un lato, e il
63
Così anche O'Neill, Agents of Justice, cit., p. 195. Peraltro  osserva O'Neill  gli stati agiscono in
modo assai più versatile di quanto non possa essere colto attraverso la prospettiva realista, mirando ad
obiettivi diversi dall'interesse nazionale. Cfr. anche Buchanan, Rawls's Law of Peoples: Rules for a
Vanished Westphalian World, cit., pp. 699-700; P. Schroeder, Historical Reality vs. Neo-Realist Theory, in
«International Security», 19 (1994), n. 1, pp. 108-148.
64
Beitz, International Relations and Political Theory, cit., pp. 66-123, 185-191; Buchanan, Rawls's Law of
Peoples: Rules for a Vanished Westphalian World, cit., p. 699; L. McCarthy, Justice, the State and
International Relations, Macmillan, Press LT, London-St. Martin Press, New York 1998, passim.
65
L'interdipendenza complessa, secondo la classica definizione fornita da Keohane e Nye, è la situazione
in cui ogni Stato cerca di realizzare le proprie preferenze sotto il vincolo imposto dalle preferenze di altri
Stati (cfr. R.O. Keohane-J.S. Nye, Power and Interdependence: World Politics in Transition, Brown & Co.,
Boston 1977). L'interdipendenza diventa complessa quando il numero delle interazioni che creano
interdipendenza è talmente elevato da sfuggire al controllo delle unità statuali. Possiamo aggiungere che
la globalizzazione agisce amplificando ed alimentando tale complessità.
28
contesto internazionale, dall'altro. Sul piano delle relazioni internazionali, può
risultare proficuo l'incontro fra approccio costruttivista ed approccio neo-liberal.
In particolare, quest'ultimo risulta efficace nella misura in cui evidenzia come le
scelte dei governi nell'arena internazionale riflettano pressioni individuali e
sociali, maturate all'interno degli stati. Tale approccio bottom-up è in grado di
scardinare la nozione tanto astratta quanto inutile di interesse nazionale, inteso
o come automatica armonia tra diversi interessi presenti nella società civile
interna agli stati o come mera espressione della ragion di stato66.
In base all'approccio costruttivista67, poi, elemento cardine delle relazioni
internazionali sono i processi sociali, ovvero le idee e non solo il potere in
senso materiale; (2) gli attori (gli Stati) sono mossi da finalità ed idee che hanno
origine nelle interazioni proprie dei processi sociali; (3) gli Stati si inseriscono in
queste strutture sociali, i loro interessi e le loro identità non sono precostituite,
né
sono
determinate
in
modo
completamente
esogeno
al
sistema
internazionale. Se è vero che anche in ottica costruttivista l'attore di riferimento
resta lo Stato, l'elemento di principale interesse è, tuttavia, il ruolo assegnato ai
processi sociali ed alle componenti del sistema. Il costruttivismo si inserisce,
pertanto, nel dibattito tra neo-realisti e neo-idealismo affermando che l'azione
dello Stato risulta significativamente condizionata non tanto dalle strutture
(identità, interessi) quanto piuttosto dai processi di interazione. Identità ed
interessi non sono dati, ma risultano in continua trasformazione, talché non
possono essere eletti a criteri euristici e/o normativi fondamentali per l'analisi
delle relazioni internazionali. Tale accentuazione offre la possibilità di indagare
le caratteristiche dell'ordine interno e quelle dell'ordine internazionale
congiuntamente, senza dover assumere l'uno a l'altro come le condizioni a
66
A solo titolo di esempio, per questo tipo di approccio, A. Moravcsik, Taking Preferences Seriously: A
Liberal Theory of International Politics, in «International Organization», 51 (1997), n. 4, pp. 513-553.
67
Cfr., ad esempio, Kratochwil, Rules, Norms, and Decisions, cit.; A. Wendt, Anarchy is What States
Makes of It: The Social Construction of Power Politics, in «International Organisation», 46 (1992), n. 2, pp.
391-425.
29
partire dalle quali sviluppare un'indagine. Tale approccio, sottolineando come
anche la politica internazionale possa produrre precisi orientamenti in grado di
influenzare, a loro volta, tanto la società civile interna agli stati quanto le
decisioni
degli
stessi
dell'interdipendenza
governi,
odierna.
È
consente
proprio
di
entro
spiegare
lo
la
spazio
specificità
di
reciproco
condizionamento tra piano sociale, statuale ed internazionale che può
emergere e sta emergendo un contesto di giustizia intrinsecamente
internazionale, in cui anche i soggetti che non possono agire direttamente a
livello istituzionale, possono comunque influenzare le scelte.
Alla luce dell'analisi svolta, credo di poter concludere che, in un'ottica mirante a
contemperare riflessione filosofico-politica e filosofico-giuridica, da un lato, e
"risorse"
del
diritto
internazionale,
dall'altro,
soggetti
della
giustizia
internazionale siano gli Stati, gli individui, i gruppi e i popoli, ma in modo
differente. Gli Stati sono soggetti in senso attivo e passivo; individui, gruppi e
popoli lo sono in senso passivo. Ancora, all'interno di questa seconda tipologia
di soggetti, i popoli pongono problemi specifici, che non solo spiegano le ragioni
di una loro scarsa tutela nel diritto internazionale, ma che anche fanno del
popolo un veicolo inidoneo a formulare pretese di giustizia, se non in casi
estremamente rari, comunque considerati anche entro la sfera della protezione
dei diritti umani e degli individui. Quanto agli individui, si è visto come la loro
soggettività internazionale si possa esprimere attivamente solo attraverso gli
Stati. Ciò induce a considerare il tema della giustizia internazionale secondo
una prospettiva moderatamente stato-centrica.
Per
questa
stessa
ragione,
possiamo
anche
aggiungere
un'ulteriore
conclusione rispetto al contenuto della giustizia internazionale: considerata
rispetto agli strumenti del diritto internazionale, essa non può incorporare i
principi connessi alla democrazia, se non in modo tendenziale e quasi
simbolico. È invece giustificata l'identificazione del suo contenuto con il terreno
dei diritti.
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