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BURUNDI: LE TRACCE DI TESTIMONI CORAGGIOSI

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BURUNDI: LE TRACCE DI TESTIMONI CORAGGIOSI
2015 AGOSTO/SETTEMBRE
BURUNDI: LE TRACCE DI TESTIMONI CORAGGIOSI
LA MEMORIA
I MARTIRI DEL BUYENGERO
Li ricordano ancora con riconoscenza
p. GABRIELE FERRARI, sx
R
icorre il ventesimo anniversario (30 settembre 1995
- 2015) dell’assassinio di p. Ottorino Maule, p. Aldo
Marchiol e della volontaria Catina Gubert, uccisi nella casa
parrocchiale di Buyengero, in diocesi di Bururi, una parrocchia fondata e costruita proprio da p. Maule pochi anni prima.
Il fatto aveva suscitato allora un’eco enorme nella coscienza
della popolazione del luogo e anche - e molto profondo - nella
coscienza nazionale italiana, che ha istintivamente visto in
essi dei martiri della carità e della giustizia.
Quel giorno alle 7 di sera, all’ora del vespro e della cena,
alcuni militari dell’esercito nazionale di stanza a Buyengero
entrarono nell’abitazione dei missionari e uccisero a freddo il
parroco, p. Ottorino Maule, che era il vero obiettivo di quella operazione, e con lui p. Aldo Marchiol e Catina Gubert,
massacrati per non lasciare testimoni dell’efferata esecuzione.
L’uccisione fu scoperta solo la mattina seguente, 1° ottobre
1995, da suor Angelica che, non vedendo venire il missionario
per la Messa domenicale delle sette, entrò in casa e si trovò
davanti tre cadaveri riversi sul pavimento del refettorio in un
bagno di sangue.
Il 30 settembre e ogni giorno
A vent’anni di distanza si potrebbe pensare che questo
evento abbia perduto la sua forza evocatrice, ma non è così.
Ogni anno a Gambellara, la parrocchia d’origine di p. Maule,
i suoi concittadini ne ricordano il sacrificio; spesso i visitatori
italiani che giungono in Burundi chiedono di salire a Buyengero a pregare sulla tomba dei tre martiri.
Ma ancora più significativo è il persistere del ricordo del
loro sacrificio nella coscienza della gente del Buyengero,
che ha ancora profonda riconoscenza per i tre missionari e
la trasmette alla generazione che non ha conosciuto quella
stagione, come il segno dell’amore per quei tre benefattori
eliminati per vendetta nei confronti del loro parroco, reo di
aver denunciato un’evidente ingiustizia commessa dai militari
contro la povera gente del luogo.
Il persistere della memoria è ancora più sorprendente se si
pensa che la cultura del popolo del Burundi non ha molta attenzione per i morti e per le tombe, che vengono volentieri
dimenticate, perché gli spiriti dei defunti sono ritenuti portatori di disgrazie e di fastidi. Ogni anno il 30 settembre la
comunità locale insieme al vescovo di Bururi ricorda quella
tragica giornata.
Gli abusi della guerra civile
Da due anni era cominciata la guerra civile, combattuta tra
connazionali: l’esercito nazionale e quelli che il governo chiamava gli assaillants, quelli cioè che avevano preso le armi per
vendicare l’assassinio del presidente eletto (21 ottobre 1993)
e il tradimento della democrazia.
Fino a quel tempo, la guerra civile non aveva fatto gravi
danni nel Buyengero; la popolazione civile viveva in discreta calma, grazie anche all’opera pacificatrice della missione
cattolica. Tuttavia, la notte del 11 novembre 1994, dei militari
di stanza a Buyengero uccisero due giovani che portavano
delle mucche al mercato: erano figli di un militare tutsi, che
lavorava alla prigione di Bururi; ma i militari per coprire il
loro crimine l’attribuirono agli assaillants.
Qualche giorno dopo, incontrando presso Gasaro un gruppo di giovani che si recavano alla missione per una riunione
di formazione convocata dal parroco, li uccisero affermando
che erano gli stessi assaillants che avevano rubato le mucche.
Padre Ottorino non credette alla versione e dopo aver indagato personalmente sulla vicenda, smascherò pubblicamente i
militari, dichiarandoli responsabili del furto delle mucche
e dell’assassinio dei giovani. Lo fece a occhi aperti, pur
sapendo che con questa denuncia si stava condannando
a morte.
“Ho deciso di restare!”
Gli amici e i confratelli e lo stesso vescovo di Bururi
cercarono invano di convincere p. Ottorino a lasciare per
qualche tempo la missione e prendere un periodo di vacanze in Italia. Ma egli, fino alla vigilia della sua morte,
rifiutò questa proposta affermando che il suo posto era in
parrocchia, che non avrebbe cambiato il suo programma
di lavoro né le visite alle comunità e che, se doveva morire per la verità e la giustizia, non si sarebbe tirato indietro
d’un passo: “Io ho deciso di restare!”.
Durante l’estate del 1995 avrebbe avuto un’occasione
d’oro per restare qualche tempo fuori della missione, al ri3 ottobre 1995: le bare di p. Ottorino, p. Aldo e Catina pronte per la sepoltura
paro della vendetta dei militari. Infatti, era stato eletto rapalla presenza di una folla commossa e partecipe
presentante dei saveriani del Burundi al
capitolo generale del 1995. In quell’occasione parlai personalmente con lui
della storia di cui era protagonista.
Pur ammirando il suo coraggio, gli
nipote EUGENIA
raccomandai di far attenzione e di non
È il 22 luglio 1995. In casa Maule è tutto un andirivieni: lo zio p. Ottorino ha una monpresumere delle sue forze, perché i mitagna di cose da portare in Burundi; nelle valigie, nei borsoni tutto non ci sta; si rischia
litari non si sarebbero fermati davanti
di rompere la cerniera; tira fuori, rimetti dentro. “Zio, non lasciare a casa il mio regalo
a nulla pur di fargli pagare la vergogna
per Catina!”. Anche mia madre Carmela è tutta indaffarata: “Vediamo se si riesce a infiche egli aveva loro inflitto denuncianlare la casula per il parroco di Rumeza!”. Nonna Gelmina è perplessa, come a ogni pardo i loro misfatti. Gli suggerii anche
tenza. Sbircio per vedere se è pronto. Sarò io la sua autista fino all’aeroporto di Venezia.
di chiedere di essere assegnato a una
Finalmente si parte! A bordo ci sono anche la nipotina Irene e mia madre.
comunità saveriana in Italia, dove era
All’aeroporto, p. Ottorino va al check in con una parte dei bagagli; il resto lo lascia a
richiesto insistentemente per la formanoi, in attesa di aggiungere degli extra non consentiti. Lo salutiamo con un sorriso, due
zione dei giovani missionari. La sua
baci, una stretta di mano vigorosa. Era parco di effusioni affettive…
risposta fu netta: la stessa che aveva
Nessuno avrebbe immaginato che era l’ultima volta che lo vedevamo; abbiamo incrociadato al vescovo e ai confratelli. La
to il suo sguardo prima di quella partenza definitiva, con le solite raccomandazioni: “Buon
viaggio, Varda star tento, Ocio a tuta la roba che te ghè”, e un rimando di nonna Gelmina:
vendetta non si fece attendere.
UNA TESTIMONIANZA PIENA D’ AFFETTO
“Varda de far pulito!” (che non c’entra con l’igiene, ma è un monito a comportarsi bene).
Primo ottobre, domenica mattina suona il telefono: è mia madre: “Ha
chiamato Ottavio da Desio, ieri hanno ucciso lo zio p. Ottorino, Catina e p.
Aldo!”. Mi tremano le gambe, mi siedo sul letto: non è vero, è vero; forse
c’era d’aspettarselo, ma i legami affettivi sono immortali. Vengo di corsa
a Gambellara. C’è grande confusione dai Grisi, parenti, amici, giornalisti: è un martire, sono dei martiri! Il telefono continua a suonare, mia
madre ha sul tavolo le ultime sue lettere...
E io lo rivedo con il sorriso, forte e saldo, in mezzo all’aeroporto di Venezia, forse consapevole che aveva una condanna a morte sul capo, ma convinto che fosse la strada giusta, in sintonia
con la sua fede, il suo profondo senso della giustizia e di essere al suo posto in mezzo al popolo burundese.
Luglio 1995: p. Ottorino celebra Messa nel giardino
di casa prima di partire per il Burundi
4
Un silenzio impenetrabile…
Il funerale dei nostri tre martiri era
stato un trionfo, pur nelle lacrime, alla presenza di una grande folla della
regione circostante e delle autorità nazionali. Ma quando si cominciò a indagare per incriminare gli assassini, l’indagine quasi subito si insabbiò. Alcuni
testimoni che coraggiosamente avevano puntato il dito contro i militari della guarnigione locale (c’era chi li aveva visti dirigersi alla missione all’ora
del massacro), dovettero lasciare il Burundi e rifugiarsi in Tanzania e sull’inchiesta scese un silenzio impenetrabile che perdura tutt’ora.
■
UN FILO LUNGO VENT’ANNI, ROSSO COME IL SANGUE
p. MARIO PULCINI, sx
di vent’anni di vita missionaria in Burundi, il
N ell’arco
piccolo Paese della regione dei Grandi Laghi, il sangue
ha tracciato un filo rosso, lasciando le tracce della fede cristiana dei testimoni coraggiosi.
30 settembre 1995 - Due missionari saveriani, p. Ottorino
e p. Aldo, e la volontaria Catina sono lassù in Buyengero,
una missione persa fra le montagne che sovrastano il lago
Tanganika. Muoiono, una pallottola a testa.
7 settembre 2014 - Olga, Lucia e Bernardetta, tre sorelle
saveriane vivono e pregano nella loro casa a Kamenge, proprio accanto alla chiesa: muoiono decapitate.
Cosa hanno in comune due realtà lontane nello spazio e
nel tempo, eppure alla fine tanto vicine? Innanzitutto l’epilogo, il dramma. Ma
a ben guardare, anche il messaggio di vita, di pace e
di giustizia per tutti
noi. E il martirio:
sei vite porta-
te via con violenza inaudita; sei esecuzioni. Ma nel mezzo, ci
stanno innumerevoli altre vite carpite con altrettanta ferocia. Lungo è l’elenco, così come la scia di sangue.
9 settembre 1996 - Viene assassinato mons. Johachim
Ruhuna, vescovo di Gitega.
30 aprile 1997 - Quaranta seminaristi sono assassinati a
Buta.
29 dicembre 2003 - Michael Courtney, nunzio apostolico
in Burundi, è ucciso in territorio di Minago.
Cosa hanno in comune queste vite? L’amore per Dio, incarnato in ogni fratello. Una fede forte, grande. L’abbandono quotidiano nelle braccia di Dio Padre, con quel
“sia fatta la tua volontà”. Sono testimoni di vita e di fede. Hanno
fatto proprio quel “Non
temete”, e non hanno temuto, mai,
nonostante
tutto. ■
Foto archivio MS / A. Lopez
IL SEME
MUORE, MA PORTA FRUTTO
Nuove generazioni di missionari
p. MARIO PULCINI, sx
A
ldo Marchiol, Ottorino Maule, Catina Gubert, nella loro
missione in Buyengero, in Burundi, sapevano di essere
nel cuore della bufera che si scatenò il 21 ottobre 1993, quando Melchior Nadadaye, il primo presidente hutu eletto democraticamente solo pochi mesi prima, viene ucciso.
Le esecuzioni della “guerra etnica”
“È guerra civile, etnica”, si dirà. Ma non solo. Aldo, Ottorino e Catina rimangono al loro posto, e sanno di rischiare grosso. Testimoni fedeli e coraggiosi compagni di viaggio della loro gente. Non temono, non cedono alle minacce, protestano
di fronte alle ingiustizie e non tacciono davanti alle violenze.
E questo decreta la loro condanna a morte. La sera del trenta settembre vengono fatti inginocchiare nel soggiorno della
missione e giustiziati.
Mons. Ruhuna è il primo vescovo della giovane chiesa del
Burundi a pagare per il suo coraggio nel denunciare ingiustizie e violenze. Nonostante le uccisioni subite nella sua famiglia,
egli non cede, cerca il dialogo, offre protezione a tutte le vittime.
Quaranta giovani seminaristi, hutu e tutsi, vengono sterminati nel seminario di Buta. “Dio è davvero buono e noi l’abbiamo incontrato!”, queste le parole cantate dai giovani seminaristi al termine del loro ritiro spirituale!
L’ultimo, mons. Michael Courtney, nunzio apostolico in Burundi, viene giustiziato in territorio di Minago a 50 chilometri da Bujumbura; tornava da un incontro. Erano in quattro su
una macchina che recava, ben visibili, le insegne del Vaticano;
solo il nunzio è ferito a morte. È un’esecuzione premeditata.
Mons. Courtney è il primo
nunzio ucciso nella storia della
chiesa: era un uomo di grande
fede, era un uomo di pace e per
essa si era speso fino alla fine.
Lo si deve anche a lui, al suo incessante impegno, se la guerra
finì. L’ultimo gruppo ribelle firmò gli accordi di pace nel 2005.
La gente
non perde la speranza
Altri dieci anni sono passati,
fra la voglia di crescere e ancora tanta diseguaglianza, fra libertà apparente e molte limitazioni. Il rimedio alla fine si è rivelato peggiore della malattia. Ma la gente spera sempre, forte anche della testimonianza di tanti religiosi e religiose, catechisti, responsabili di comunità che non hanno mai abbandonato il campo, che sono rimasti al fianco della popolazione
anche nei momenti più bui.
E di speranza raccontano le vite delle tre sorelle saveriane
che, pure avanti negli anni, non hanno mai smesso di essere
fra la gente e per la gente. Così come i primi saveriani giunti
in Burundi 50 anni fa, nel 1964, chiamati a fortificare la presenza cristiana frutto della recente evangelizzazione, ma anche a essere testimoni viventi del vangelo.
E tutti i saveriani che hanno speso la loro vita in questo piccolo paese cominciano a seminare.
“Ma se il seme non muore…”. E i semi muoiono, ma danno frutti. Solo così può essere letta la crescita spirituale di un
popolo che, fra massacri e guerre, dagli anni ‘70 ha conosciuto orrori, fughe, esilio, tortura, fame, malattia. I saveriani seminano e ora i frutti sono maturi. Il disegno silenzioso di Dio
si completa pian piano.
Evangelizzatori per una nuova semina
La casa di formazione di Bujumbura si affolla di giovani
che nella testimonianza dei missionari saveriani in particolare hanno riconosciuto il senso della vita religiosa. È la stagione delle vocazioni, quella del primo saveriano burundese ordinato lo scorso anno a 50 anni dall’arrivo dei primi figli di
Guido Conforti in Burundi. Altri ne verranno. È il tempo della gioia e il dolore per tante sofferenze, che pure non scompare, si attenua alla luce dei frutti che la nostra famiglia saveriana sta raccogliendo.
È la luce, che però pare spegnersi un’altra volta fra il 7 e l’8
settembre del 2014. Tre sorelle saveriane, donne miti e di pace, vengono orribilmente uccise. Solo Dio sa perché. Ancora
sangue. Altri martiri. Una lunga, troppo lunga scia di sangue.
Il dolore è immenso per tutti e
altri dolori riemergono, mai sopiti. È la nostra terra, terra d’Africa, rossa come il sangue, ad
accogliere tutti questi martiri. Che ora sono e saranno per
sempre a illuminare il nostro
cammino e quello dei giovani
africani che si stanno preparando alla missione.
■
Parrocchia di Gambellara (VI), 1995
2015 AGOSTO/SETTEMBRE
IL MESSAGGIO
CI PARLANO ANCORA
Riflettendo sui martiri del Buyengero
p. GABRIELE FERRARI, sx
A
vent’anni di distanza, cosa ci dice ancora questa vicenda dolorosa e gloriosa? Il suo valore profetico non si
è esaurito, anzi si è affermato e trova oggi una conferma nel
clima che accompagna il pontificato di papa Francesco, che
continua a dirci: “La vita si ottiene e matura nella misura in
cui essa è donata per dare la vita agli altri” (EG 10).
Noi missionari dobbiamo essere “presi” dalla forza del vangelo in un rapporto intimo con Gesù. Questo non si improvvisa e i nostri tre martiri ce lo ricordano con la loro vita.
Scrive papa Francesco: “La migliore motivazione per decidersi a comunicare il vangelo è contemplarlo con amore e
leggerlo con il cuore… Siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di
meglio da trasmettere agli altri” (EG 264). E questo fa sì che
il sacrificio della vita dia senso alla vita stessa.
1. Vivere la missione fino in fondo
Ecco il primo messaggio che ci offrono i martiri del Buyengero: vivere fino in fondo la missione evangelizzatrice, fino se necessario - al sacrificio di noi stessi. Questo è il messaggio
che noi dobbiamo offrire a tutta la chiesa, perché per il nostro
carisma missionario siamo incaricati di essere per la chiesa la
memoria e la profezia della missione.
Se la chiesa non ritrova la gioia e l’energia missionarie, si
ammalerà e diventerà sterile, vittima della mediocrità e della
mondanità spirituale. L’apertura missionaria, invece, risveglia
la chiesa perché l’azione missionaria continua a essere “la
fonte delle maggiori gioie per la chiesa” (EG 15).
La chiesa che i nostri martiri hanno voluto costruire in
Buyengero non si rinchiudeva nelle sue costruzioni, associazioni, opere e riti per godersi lo spettacolo della sua grandezza, ma collegava sempre l’altare alla vita, la fede alla carità,
e si occupava dei più poveri e degli esclusi. Non voleva e
non permetteva che si cadesse nella cultura dell’indifferenza
e dello scarto, che papa Francesco continua a stigmatizzare.
Da sinistra: p. Aldo Marchiol, Catina Gubert e p. Mario Pulcini,
che ha assistito a tutte le esecuzioni di questi 20 anni in Burundi
veri” e, più in generale, l’annuncio del vangelo della giustizia
è una dimensione costitutiva della missione della chiesa. La
scelta di congiungere evangelizzazione e promozione umana
fatta dai nostri martiri, oggi rischia di non essere più così evidente e ovvia come qualche tempo fa.
Con il pretesto di non voler cadere di nuovo negli errori
della generazione precedente (formatasi nel ’68, immersa nel
sociale fino quasi a dimenticare lo spirituale), la generazione
attuale corre il rischio opposto, ma ugualmente pericoloso, di
trascurare il rapporto della fede con la storia e con i temi “politici” della giustizia e della pace e di svolgere una missione
staccata dalla realtà. Nello specifico, si rischia di “sviluppare
una spiritualità di discepoli, ma non di missionari”, come afferma il teologo francese Thomas Gueydier.
I nostri martiri ci ricordano che non c’è evangelizzazione autentica e integrale se si ignorano le urgenze sociali, la
formazione sociale delle comunità cristiane e l’integrazione
sociale dei poveri. Ce lo ricorda anche papa Francesco: “Dal
cuore del vangelo riconosciamo l’intima connessione tra
evangelizzazione e promozione umana: desiderare, cercare e
avere a cuore il bene degli altri” (EG 178).
In conclusione, dai nostri tre martiri del Buyengero ci viene l’invito a vivere in pienezza la vocazione missionaria. Dio
ci chiede di vivere con fervore e gioia la stessa missione del
Figlio suo, pronti a dare la vita, se questo è parte dei misterio■
si programmi della sua volontà.
CATINA GUBERT: UN VULCANO
don RUGGERO FATTOR
Don Ruggero, trentino, fidei donum in Burundi e
molto legato ai saveriani e a Catina, soprannominato
dalla gente “Vyumvuhore - Colui che ascolta e tace”,
perché ascoltava molto e parlava poco.
1° febbraio 2015: nella celebrazione della Vita consacrata sono ricordate
anche le tre saveriane martiri Pulici, Raschietti, Boggian
2. La missione nella com-passione
Un secondo messaggio che ci viene dal sacrificio dei nostri
martiri, che è collegato al primo, è “la chiesa in uscita” che il
papa intende promuovere; una chiesa che vive in mezzo alla
gente, mescolata agli uomini e alle donne di questo tempo;
una chiesa solidale e compassionevole, che carica su di sé le
preoccupazioni e le speranze della gente.
Ottorino, Aldo e Catina avevano un’attenzione particolare
alle comunità ecclesiali di base, che consideravano una maniera provvidenziale per rendere la chiesa una realtà significativa e benefica per la crescita delle persone e per lo sviluppo
sociale, oltre che per rinnovare la pastorale.
Tutti ricordano ancora le loro continue visite alle comunità
sparse sulle colline e le innumerevoli riunioni organizzate per
formare i leader. Catina stessa s’interessava dei problemi delle
donne e dei bambini; cercava tutti i modi per essere presente
accanto a loro, per promuoverle e, quando necessario, difenderle.
Potremmo dire che i nostri tre martiri hanno anticipato una
parola di Francesco: “Uscire da se stessi per unirsi agli altri
fa bene. Chiudersi in sé stessi significa assaggiare l’amaro
veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni
scelta egoistica che facciamo” (EG 87).
Il sacrificio dei nostri tre è stato il sigillo e la conclusione
di una scelta di vita che essi hanno fatto e la conseguenza
della volontà di rimanere con il popolo di Buyengero e di non
abbandonare la comunità nel tempo della prova, della guerra
e dell’ingiustizia.
3. La missione nella giustizia
C’è anche un terzo messaggio che raccogliamo dal sacrificio dei martiri di Buyengero, e cioè che la “opzione per i po-
Quarant’anni fa, quand’ero in Primiero e cappellano
a Fiera, ho conosciuto e stimato Catina Gubert (manager aziendale in un negozio di alimentari), condividendo molte iniziative pastorali, soprattutto con i ragazzi,
i giovani e i malati. Catina era ed è sempre stata come
“un vulcano in continua eruzione”.
Ci siamo poi ritrovati insieme a Cuneo, per prepararci alla missione con L.V.I.A. e a Parigi, per imparare
il francese, e poi in Burundi, in compagnia di un’altra
donna generosa, Erminia Ciaghi, e altri 4 giovanotti
obiettori di coscienza, per un servizio di pace e di sviluppo. Eravamo nel 1974…
Mentre molti altri sono stati “espulsi” dal Burundi perché “persone non gradite” (destabilizzanti e sovversive), per le stesse ragioni la sera del 30 settembre
1995 p. Ottorino e p. Aldo vengono “giustiziati”, in
ginocchio e con un colpo alla nuca. Con loro, eliminata anche Catina, intenta in cucina ma intervenuta in
“quel” momento: un colpo dritto al cuore, per non essere una testimone scomoda della strage.
Sepolti nella stessa terra dove sono stati uccisi, sopra
le croci e le foto, un grande arcobaleno abbraccia le tre
tombe, con il richiamo evangelico per coloro che passano, in lingua kirundi: “AHIRIWE ABAREMESHA AMAHORO!” - “Beati coloro che portano la pace”, fino a fare della propria vita un dono di pace.
Fare affettuosa memoria dei nostri fratelli e sorelle martiri, serve a noi
oggi, perché “la vita
può essere capita solo
all’indietro, ma va vissuta sempre e solo in
avanti” (Kierkegaard),
e perché il male è presente nel mondo anche ai nostri giorni;
ma va sempre e solo
vinto con la forza (silenziosa e apparentemente soffocata) del
bene.
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