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Capitani coraggiosi - Lega Navale Italiana

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Capitani coraggiosi - Lega Navale Italiana
Capitani
coraggiosi
di Franco Maria Puddu
“C
Da sempre i “capitani”
solcano i mari
del mondo, ma oggi
alcuni di loro rischiano
di affondare l’immagine
dell’intera categoria
aptains courageous”(Capitani coraggiosi) è un famoso libro
di avventure per ragazzi
che lo scrittore inglese
Rudyard Kipling diede
alle stampe nel lontano
1897, un periodo nel
quale molti giovani di
oggi non vorrebbero essere vissuti. Bisogna capirli: non esistevano cellulari, CD, DVD, PC,
smartphone, iPhone, tablets e compagnia cantante.
Non si poteva fotografare con il “telefonino” un
incidente, un paesaggio o una ragazza per poi
asfissiarne schiere di twitter, blogger e altro ancora.
Di cinema non se ne parlava, la radio non esisteva, la televisione era al di là da venire e la corrente elettrica era stata impiegata solo dal 1882 per illuminare per la prima volta, e in parte, la città di
New York; ma nonostante analfabetismo e arretratezza tecnologica, la gente non disdegnava di ragionare con la propria testa.
Chi andava a scuola mandava a memoria la tavola
pitagorica (le tabelline per capirci), brani di autori
classici e poesie, e soprattutto si leggevano libri.
Chi sapeva leggere spesso si incaricava di farlo per
chi non ne era in grado, dando indirettamente modo alla cultura di diffondersi. Allora questo compito non era ancora stato demandato a trasmissioni
di notevole spessore intellettuale come gli attuali
reality show televisivi ma, si sa, erano tempi duri.
Gran parte dell’azione pedagogica era portata
avanti dagli scrittori e dai loro romanzi che traspo-
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nevano, in ambienti di
fantasia, eventi, nozioni
ed informazioni reali.
Sandokan, Janez e la Perla di Labuan, per fare un
esempio, sono esistiti solo nella mentalità un po’
esaltata di Emilio Salgari, ma il contesto e la
cornice nei quali si muovevano questi eroi di inchiostro, erano perfettamente reali; e persino i
ragazzi che non avrebbero mai avuto occasione di visitare neanche uno
zoo riuscivano ad immaginare la giungla, le belve,
l’avventura.
Per lo stesso motivo i lettori del citato libro di Kipling, dal quale a decenni di distanza verranno
tratti ben tre film, senza essere costretti a navigare
avrebbero conosciuto quei valori morali in grado
di trasformare un ragazzo ribelle, arrogante e bugiardo in un uomo di mare, leale e coraggioso, un
vero captain, termine che, nell’accezione britannica, è il “comandante” della mercantile.
In quell’epoca questi valori non avevano una funzione puramente esteriore, perché su di essi si imperniavano sentimenti capaci di governare vite e
vicende umane, anche in ambiti nei quali nessuno si sarebbe sognato di andare a cercare glorie e
onori, accontentandosi di fare il proprio dovere
fino a che il destino non avesse ordito una delle
sue trame per stravolgere quelle che avrebbero potuto essere delle esistenze, certamente di sacrificio, ma tutto sommato tranquille.
Cosa ci può essere di più tranquillo, ad esempio
(salvo le intemperanze del mare al quale
non comanda nessuno e che quindi sono
da mettere in passivo), di una carriera di
comandante della
Marina mercantile?
Antipatico
ma capace
Forse nel 1787 la pensava così anche l’allora trentatreenne William Bligh, lieutenant
della Royal Navy
transitato nei ruoli
della Merchant Navy,
come captain dell’HMAV (His Majesty’s Armed Vessel, Vascello
Armato di Sua Maestà) Bounty, che a sua
volta (come dice la siUna illustrazione della rivista americana Life degli Anni 60 raffigurante l’abbandono in mare di Wilgla) non era una nave
liam Bligh da parte degli ammutinati del Bounty; in apertura un manifesto del film “Capitani coragda guerra, ma un tre
giosi” del 1937, con Spencer Tracy e Lionel Barrymore, tratto dal libro di Rudyard Kipling
alberi militarizzato
dall’Ammiragliato per
compagni di sventura, che, ricambiato, disprezzatrasportare dalla Polinesia nei Caraibi (le Indie Ocva, ma per far ritrovare e impiccare gli ammutinacidentali) un migliaio di giovani alberi del pane
ti, cosa che in buona parte gli riuscì. Sarà stato
che avrebbero dovuto essere utilizzati per l’alimensenza dubbio una persona odiosa, ma fu anche un
tazione degli schiavi. Un comandante e una nave
eccellente navigatore e un uomo di parola.
fatti veramente l’uno per l’altra.
Però non fu solo nella Royal Navy e in ambienti inMa oltre a notevoli capacità professionali, Bligh
vivibili come il Mar Glaciale Artico, le “roaring waaveva anche un gran brutto carattere che porterà
ters” di Capo Horn, o quelle infestate da pirati cobuona parte dell’equipaggio ad ammutinarsi conme
Barbanera, l’Olonese o Christopher Moody, che
tro di lui; la questione venne risolta filando gli alvissero tanti capitani coraggiosi rimasti sconosciuti.
beri del pane a mare e Bligh, con 18 marinai a lui
Basti pensare ai comandanti italiani che fecero cafedeli (o forse antipatici agli ammutinati), su una
botaggio per secoli lungo le coste del Mediterralancia a remi, nel bel mezzo dell’Oceano, con 4
neo, poi presero le rotte dell’Atlantico per le Amesciabole, viveri e acqua per 10 uomini (ed erano
riche, o quelle dell’Oceano Indiano e, successiva19), per quattro giorni, un sestante rotto, una busmente, del Pacifico per l’Oriente. Una miriade di
sola, un quadrante per rilevare l’altezza degli astri,
piccole epopee da noi purtroppo misconosciute,
poche tavole di longitudine e latitudine e un croperché
di loro rimane poco. Mentre all’estero, innometro. Nient’altro.
fatti, autori come Verne, Melville, Stevenson,
Inaspettatamente, però, il nostro nevrotico eroe,
London o Conrad cantavano con un realismo
utilizzando memoria e intuito al posto delle carte,
spinto a volte sino alla crudezza la vita di mare
portò in salvo il suo strano equipaggio nel posseanche nei suoi aspetti più duri, i narratori italiani
dimento olandese di Coupang, dopo 47 giorni e
preferivano seguire il filone esotico, con avventu3.618 miglia di navigazione su una lancia non
re che coinvolgevano i lettori più delle sventure
pontata: record assoluto imbattuto a tutt’oggi. E
patite dai Malavoglia di Verga.
non lo fece per sopravvivere o per salvare i suoi
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La copertina della Domenica del Corriere del 30 giugno 1943
con un’illustrazione di Walter Molino sull’impari duello affrontato dal capitano Rosasco e il suo piccolo Mauro Croce contro il sommergibile britannico Olympus
venne militarizzato e destinato a quei piroscafi requisiti con i quali l’Italia tentò di mantenere il
flusso di rifornimenti destinato alle nostre truppe
rischierate in Nordafrica.
Il 27 agosto 1942 Zotti comanda l’Istria, una piccola cisterna da acqua da 5.413 tsl appartenente
alla Società Anonima di Navigazione Italia/Flotte
Riunite, costruita a Trieste nel 1921 ed ora inquadrata nella II Squadra Navale nel Gruppo Navi
Ausiliarie di Squadra di La Spezia, dopo essere stata requisita nel dicembre 1940 e trasformata in
portamunizioni.
Stipata di esplosivi l’Istria naviga da Suda a Tobruk quando a nord, nord-est di Ras el Tin viene
attaccata da bombardieri inglesi; non potendo far
altro, Zotti fa mettere in salvo l’equipaggio sulle
scialuppe, e dal ponte fa loro cenno di allontanarsi. Poco dopo una squassante esplosione disintegra la nave uccidendolo: alla sua memoria verrà
concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Si disse che, seguendo una antica tradizione non
aveva voluto abbandonare la nave per morire con
essa, ma forse non è vero. Il comandante Zotti era
un vecchio navigatore, esperto, pratico e sapeva
che sarebbe stato molto più utile alla Patria da vivo che da morto: forse aveva deciso di tornare
sottocoperta per vedere se era rimasto ancora
qualcuno a bordo. Sta di fatto che, mentre la sua
gente lo chiamava dalle scialuppe, scelse di rischiare la propria vita per salvarne altre.
In pace e in guerra
Intanto pescherecci, trabaccoli, mercantili, portarinfuse e navi passeggeri continuavano a solcare i
binari marini delle rotte commerciali; solo in poche occasioni cessarono di navigare per lasciare il
passo a navi dalla fisionomia ben differente: quelle da guerra. In questi casi tutti cambiavano abito:
le navi con una mano di vernice grigia e un paio
di vecchi cannoni imbullonati sul ponte e i comandanti aggiungendo le stellette sulla divisa come avvenne a Antonio Zotti e a Cesare Rosasco;
solo gli equipaggi dovevano continuare a navigare, mugugnando come sempre.
Di Antonio Zotti sappiamo che era nato a Lussimpiccolo, un’isoletta poco distante da Pola (oggi
Pula, in Croazia) nel 1880, un secolo dopo la leggendaria impresa di Bligh. Diplomatosi presso il
locale e rinomato Istituto Nautico, prendeva il
mare agli inizi del 1900 prima sui mercantili del
Lloyd Triestino, poi, dal 1907, con la Società di
Navigazione Cosulich, infine, dal 1937, su quelli
della Italia. Durante la Seconda Guerra Mondiale
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La vicenda di Rosasco
Diversa è invece la vicenda del capitano Cesare
Rosasco. Un po’ misteriosa perché in guerra è
buona norma non parlare troppo (il nemico
ascolta), e anche dopo la fine del conflitto è sempre meglio essere parchi di parole, specialmente
se si sono verificati episodi poco gratificanti come
alcuni di quelli dell’8 settembre.
Forse per questo ancora oggi la motivazione della
Medaglia d’Oro concessa a Cesare Rosasco parla
genericamente della sua eroica resistenza all’attacco di un sommergibile nemico, senza spiegare che
lui era stato una delle preziose pedine della catena
logistica che aveva consentito agli operatori subacquei della X MAS di violare la base britannica di
Gibilterra. Vediamo come.
Sin dall’inizio del conflitto la Marina aveva predisposto che l’Olterra, un mercantile incagliatosi
nella baia di Algesiras per non cadere in mano inglese, in territorio spagnolo ma ad un tiro di
schioppo da Gibilterra, divenisse una piccola base
La bellissima turbonave
Andrea Doria affondata
nella notte del 29 luglio
1956 a seguito di una
collisione causata dalla
nave passeggeri svedese
Stockolm.
Nel riquadro, il comandante dell’Andrea Doria,
Pietro Calamai, che pur
avendo compiuto il suo
dovere con grande professionalità e fino all’estremo limite, venne
ingiustamente calunniato dalla stampa e
dall’armatoria svedese
senza che venisse correttamente difeso
segreta dove gli incursori della X MAS approntavano i Siluri a Lenta Corsa, i “maiali”, all’interno
dello scafo, per poi uscirne nottetempo e attaccare le navi nemiche ormeggiate in rada.
Questa strana base era stata realizzata con cautela
e rifornita di uomini e mezzi tramite alcuni mercantili. Uno di questi era il Mauro Croce, un piroscafetto da 600 tonnellate armato di un asmatico
cannoncino da 55 mm, comandato da Cesare Rosasco, un ligure sulla cinquantina che spesso, venendo dall’Italia, era costretto a sostare nei porti
spagnoli per denunciare alle locali autorità la
scomparsa di qualche marinaio: la guerra è brutta,
la Spagna era un Paese compiacente e i marittimi
dell’equipaggio, tutti civili militarizzati, quando
potevano, disertavano.
Questi finti disertori, in realtà, erano incursori di
Marina che, entrati clandestinamente nella neutrale Spagna, proseguivano poi verso Algesiras,
dove il Mauro Croce avrebbe sbarcato, giorni dopo,
là o in porti vicini, carichi “di ferramenta e carpenteria” che alcuni emissari avrebbero provveduto ad inoltrare all’Olterra: erano i componenti per
realizzare maiali, mignatte e bauletti esplosivi.
Il 23 aprile del 1942, nelle acque di Valencia, il
sommergibile inglese Olympus attacca il Croce lanciandogli contro due siluri; Rosasco li schiva e il
battello emerge per attaccare in superficie. Il piroscafo si difende con il suo cannoncino, ma le artiglierie del battello lo soverchiano, colpendolo ripetutamente.
Il ponte di comando è un mattatoio, ma il comandante, gravemente ferito, si fa portare al ti-
mone a mano per governare la nave; a questo
punto viene colpito anche l’Olympus, dove le munizioni del cannone esplodono ferendo 20 marinai e permettendo così a Rosasco di portare la sua
malconcia nave, con il prezioso carico, nel porto
di Sagunto, dove sarà soccorsa.
Ingiustizia per il capitano
Tuttavia la guerra non è l’unico teatro che fa emergere capacità, competenza e abnegazione, come
dimostra il caso di Pietro Calamai, comandante
dell’Andrea Doria, il bellissimo transatlantico, fiore
all’occhiello della rinata cantieristica italiana del
secondo dopoguerra che, nella notte del 25 luglio
1956 viene speronato e affondato dalla nave passeggeri svedese Stockolm al largo dell’isola di Nantucket, mentre procedeva alla volta di New York.
Ci sarebbe da dire molto sulla condotta dell’equipaggio svedese; sta di fatto che questo, dopo l’incidente, facendo quadrato attacca quello italiano
accusandolo di negligenza e codardia, mentre durante l’inchiesta sul sinistro i legali svedesi arriveranno a dire che il Doria era mal costruito.
Il capro espiatorio di questa assurda vicenda sarà
il comandante Calamai, la cui professionalità aveva consentito di mantenere il controllo della situazione tra lo speronamento e l’affondamento,
limitando ad appena 52 il numero delle vittime.
Se colpa ci fu, sarebbe invece ravvisabile nel comportamento dell’allora Ministero della Marina
Mercantile che, assieme ai dirigenti dell’Italia Navigazione e ad altri organi di Stato e dell’industria
non seppe o non volle, non si sa se per quali re-
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La portacontainer Jolly Rubino, attaccata a colpi di lanciarazzi il 3 settembre 1987 dai pasdaran iraniani nei pressi dello Shatt el Arab;
nella foto piccola un barchino dei “guardiani della rivoluzione”
conditi motivi, difendere il comandante, lasciandolo preda di un forsennato linciaggio morale.
Piero Calamai, ufficiale della generazione oramai
estinta dei comandanti dei grande liner, come
Francesco Tarabotto che tante volte aveva condotto il Rex attraverso l’Atlantico, comprese di essere
rimasto solo, ma non scrisse memoriali, non si incatenò davanti al Parlamento né intraprese scioperi della fame; si limitò a rendere conto con
chiarezza e precisione del suo comportamento,
mentre la sua carriera, irreparabilmente compromessa, si chiudeva ingiustamente.
A tutto pensava, invece, durante una normale navigazione nelle acque del Golfo Persico il comandante Alfredo Manfredino nella notte del 3 settembre 1987; la situazione internazionale nell’area era tesa, ma la tensione tra Iran, Irak, Stati
Uniti e altri Paesi era quasi una prassi, quando, alle 01,15, un boato, seguito dalle suonerie dell’allarme generale, scuote la mole del portacontainer
Jolly Rubino, un bestione di 190 metri della Ignazio Messina & C che gestiva collegamenti bisettimanali tra l’Italia e il Golfo Persico.
Al traverso dell’isola iraniana di Al Farisijah il secondo ufficiale, Andreino Giovannelli scende verso prora per controllare alcune boe luminose,
quando sente prima il rombo di un motore, poi
delle urla e, guardando nel buio, scorge la sagoma
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di un barchino a luci spente con 4 uomini (si saprà che erano pasdaran, i guardiani della rivoluzione iraniana) che evoluisce sottobordo.
All’improvviso una vampata seguita da un boato:
sparano con un RPG, l’equivalente del bazooka del
Patto di Varsavia, e al primo colpo ne seguono altri
cinque, tutti verso la zona degli alloggi, la plancia
forse è troppo alta per essere presa bene di mira di
notte. Giovannelli fa scattare l’allarme e l’equipaggio lascia le cabine per correre al punto di raduno.
Non il comandante Manfredino che, nella confusione, scivola e si frattura il femore e, malgrado la
dolorosa ferita, si fa portare in plancia per dirigere
la nave, dettando contemporaneamente le sue decisioni al primo ufficiale che le trascrive nel giornale di bordo: aumenta la velocità, fa lanciare l’SOS (al quale non risponderà nessuno nonostante
a 10 miglia si trovino due navi da guerra USA), fa
qualche evoluzione mentre il minuscolo aggressore spara i suoi razzi tenendosi a poche decine di
metri dal lato dritto della nave.
L’attacco dura circa mezz’ora, poi il barchino si dilegua e, solo dopo aver accertato che la situazione
si è normalizzata e che nell’area circostante la
Jolly Rubino non navighi più nessuna imbarcazione sospetta, il primo ufficiale rileva il comandante Manfredino che viene finalmente ricoverato
nell’infermeria di bordo.
La motonave da crociera Costa Concordia,
affondata sugli scogli de Le Scole,
nei pressi dell’Isola del Giglio il 31 gennaio 2012
(foto Guidi)
Tristi considerazioni
Come abbiamo visto, prendendo ad esempio solo
poche vicende, in pace e in guerra, nel Mediterraneo o sugli Oceani i nostri capitani, senza vantarsi
e battere grancassa, ma anche senza fuggire o evitare responsabilità, hanno sempre assolto i propri
incarichi mantenendo alta la fama della marineria
dalla quale provengono, indistintamente, sia essa
ligure, campana, veneta o di altra regione.
Da qualche tempo si parla però di comandanti
che abbandonano la propria nave, che contravvengono alle più elementari norme del diritto
marittimo e della tradizione marinara, che consegnano dei militari italiani, loro fratelli e simbolo
del Paese, e poi anche le loro armi nelle mani di
rappresentanti militari di un Paese straniero.
È triste anche il solo sentir citare eventi di questo
tipo che, d’altronde, noi non abbiamo né l’intenzione né il diritto di giudicare, anche perché le vicende dalle quali sono scaturiti questi casi sono
ancora in corso di svolgimento e le verità, nel dettaglio, ancora tutte da accertare. È vero che il buono e il cattivo sono
sempre esistiti, e che
forse anche in altri periodi e in altri teatri si
saranno svolti fatti analoghi, può anche essere;
d’altronde sotto il sole,
si sa, non c’è mai niente
di nuovo. Però, anche
se siamo certi che una
esigua minoranza non
potrà mai cancellare
quanto è stato costruito
con il duro lavoro da
una maggioranza silenziosa alla quale non saremo mai abbastanza
grati, non possiamo
non provare un senso
di smarrimento di fronte a questi atteggiamenti, convinti che, in quei
frangenti, la reazione di
altri sarebbe stata molto
La petroliera Enrica Lexie fotografata nei pressi della costa indiana del Kerala il 16 febbraio 2012
mentre è sotto il controllo di una unità della Coast Guard indiana
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differente.
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