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Liberalità atipiche e comunione legale tra i coniugi: un improbabile

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Liberalità atipiche e comunione legale tra i coniugi: un improbabile
Liberalità atipiche e comunione legale tra i coniugi: un improbabile ritorno alla
prevalenza della “volontà” sulla “dichiarazione”?
Il tecnicismo interpretativo come necessario (anche se non sufficiente) strumento
di applicazione della legge.
*
1. Introduzione del tema. 2. Donazione tipica e liberalità atipiche quali realtà
strutturalmente inconciliabili. 3. Le nuove “argomentazioni” a sostegno della tesi della
esclusione delle liberalità atipiche dalla comunione legale. 4. Lettura critica di due recenti
contributi specificamente dedicati al problema. 5. L’eccessiva rilevanza attribuita alla situazione
statisticamente più ricorrente di fronte ai giudici. 6. Gli elementi di episodicità del più recente
pronunziato della Corte di Cassazione. 7. Il ruolo delle previsioni codicistiche tese a garantire la
trasmissione della disciplina dei beni personali da ciò che esce dal patrimonio del coniuge a ciò
che vi entra. 8. La ratio della comunione legale quale tutela, derogabile, del coniuge
economicamente meno produttivo. 9. La limitata forza persuasiva dell’orientamento tradizionale
anche alla luce del pronunziato più recente. 10. La necessità di tutelare la certezza dei traffici
nei confronti dei terzi interessati quale obiettivo da perseguire almeno fin dove le norme lo
consentono.
1. Il tema di cui si propone la trattazione presenta, almeno nella valutazione dello scrivente, profili
di rilievo teorico-generale che possono ritenersi andare ben al di là dell’indubbio tecnicismo che,
pure, per altri aspetti lo caratterizza. Anzi, dalla lettura delle recenti pronunzie della Corte Suprema
e di certa dottrina in materia, si potrebbe, forse, osservare che il metodo ermeneutico più
frequentemente utilizzato si sia dimostrato alquanto disinteressato rispetto agli aspetti operativi
concretamente disciplinati. E che, piuttosto, abbia proposto un approccio e delle soluzioni basate su
valutazioni in qualche modo ricostruttive dell’intero sistema delle liberalità che, appare corretto
evidenziare sin da ora, non si condividono né nella scelta metodologica né, tanto meno, nei risultati
a cui dovrebbero condurre.
L’oggetto dell’intervento, come accennato dal titolo, riguarda, nella più estrema sintesi,
l’applicabilità o meno dell’art. 179, lett. b), cod.civ., alle “attribuzioni” liberali realizzate, a favore
di soggetti coniugati in regime di comunione legale dei beni, secondo modalità diverse da quelle
tipizzate nell’art. 769 cod.civ. ( ).
1
A costo di risultare per certi versi ripetitivi, riteniamo doveroso, anche in questa circostanza, far
precedere il discorso dall’avvertimento circa la necessità di evitare quanto più possibile l’utilizzo
dell’espressione composta “donazione indiretta” ( ).
2
In effetti, se già in precedenza ci siamo particolarmente impegnati nel segnalare questa
necessità, non possiamo non osservare come, nella recentissima dottrina e giurisprudenza che ci ha
indotto a tornare sul punto, il ricorso alla formula “donazioni indirette” risulta spesso di aiuto,
esplicativo e sostanziale, al preteso supporto logico-giuridico di conclusioni che, anche il semplice
utilizzo dell’espressione “liberalità atipiche”, contribuirebbe a rendere, almeno a nostro parere,
meno argomentabili secondo le linee ultimamente tracciate.
2. Per quanto non ci si voglia diffondere sulla rilevanza anche giuridica delle nozioni di
unità e molteplicità, manteniamo e ribadiamo la convinzione per cui, il discorrere di rapporti
intercorrenti tra “donazione diretta” e “donazione indiretta”, eserciti sull’interprete un’influenza non
positiva, che non aiuta la chiara percezione delle realtà giuridiche considerate.
Si finisce per tralasciare, più o meno avvertitamente, la centrale distinzione tra l’unità
strutturale della situazione cui si riferisce la prima espressione e la molteplicità, sempre strutturale,
di quelle evocate dalla seconda. E si giunge a ritenere, scientificamente utili e corrette, affermazioni
che riconoscono un’inaccettabile reductio ad unitatem, di una fenomenologia tra le più polimorfe
consapevolmente disciplinate dal nostro codice civile ( ).
3
L’apparente ovvietà che, le impostazioni qui criticate conferiscono alla tesi della generale
applicabilità del meccanismo esclusivo di cui all’art. 179, lett. b), cod. civ., alle liberalità atipiche,
non può, allora, che dimostrarsi illusoria, se solo si abbia la percezione di quale varietà di modalità
concrete possa essere utilizzata per realizzare l’arricchimento altrui (in potenza, e normalmente
anche in fatto, inconoscibili ai terzi), ben al di là dello schema donativo tipico (necessariamente
conoscibile ai terzi).
3. Forse, però, in qualche modo sensibili alla necessità di sostenere con argomentazioni di carattere
ancora più generale tale assunto conclusivo, i giudici della legittimità sono giunti ad affermazioni
che, in altra sede, non sembra siano dagli stessi condivise.
Si è, in particolare, sostenuto che, la ratio dell’istituto della comunione legale, risiederebbe
nella circostanza di rendere comuni i beni al cui acquisto entrambi i coniugi abbiano contribuito e
che, conseguentemente, la pretesa della contitolarità non potrebbe estendersi a situazioni, quali gli
acquisti liberali, rispetto ai quali il coniuge non beneficiario avrebbe avuto un mero atteggiamento
passivo.
In effetti, in questo caso, ci pare di poter ragionevolmente osservare che, una simile proposta
interpretativa rischia di cadere nel classico difetto di giungere a provare troppo rispetto all’obiettivo
perseguito. Che l’art. 177, lett. a), cod.civ., nonostante i pure molteplici problemi che ha posto ed
ancora pone, imponga la verifica di una qualche “contribuzione” (?) del coniuge non agente per la
caduta in comunione legale di quanto acquistato dall’altro, appare una lettura che, se sottratta alla
specifica contingenza del tema delle liberalità atipiche, difficilmente può ritenersi accettabile, come
più dettagliamente si illustrerà infra. E ciò, pur considerando quel diffuso orientamento
giurisprudenziale che, dirigendosi verso la limitazione dell’operatività della comunione legale, ha
contribuito al tentativo di svalutare l’importanza della dichiarazione di derivazione personale di cui
all’art. 179, lett. f), cod.civ., e della contemporanea presenza del coniuge non coinvolto dall’atto, di
cui al secondo comma della norma stessa, laddove non sussistano dubbi circa la natura personale
del bene fuoriuscente dal patrimonio del coniuge ( ).
4
4. Si introduce, a questo punto, l’analisi specifica di alcune considerazioni manifestate in due
recenti ed ampi contributi monografici che, a testimonianza del perdurante interesse del problema
nonostante l’apparente atteggiamento monolitico assunto nei suoi confronti dalla giurisprudenza,
risultano pubblicati in materia.
Con riguardo al lavoro di C. GRANELLI, Donazione e rapporto coniugale, ( ) si intende
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concentrare l’attenzione di queste note su due dei numerosi problemi interpretativi presi in esame.
Il primo riguarda il dibattito circa la natura o meno liberale degli acquisti compiuti da un
coniuge in regime di comunione legale qualora non si avvalga della facoltà prevista dal II co.
dell’art.179 cod.civ. e, conseguentemente, ne determini la caduta in comunione ex art. 177, lett. a).
Pare che la conclusione preferita sia quella per cui, solo un effettivo accertamento
dell’intento liberale giustifichi l’applicazione ulteriore delle norme ad esso riconducibili laddove,
invece, qualora la mancata dichiarazione sia dovuta a “ignoranza, errore o negligenza” non sarebbe
possibile pervenire alla medesima conclusione applicativa.
Premesso che, forse sbagliando, non si comprende il non contestato richiamo ( ) alla tesi che
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vorrebbe le norme sulla collazione operanti in caso di attribuzione semplicemente gratuita e non
necessariamente liberale (e quindi le relative disposizioni si applicherebbero in caso di mera
gratuità dell’attribuzione (!)), desta perplessità la considerazione per cui, in assenza di prove di una
più precisa connotazione causale, il comportamento attributivo sopra descritto dovrebbe (secondo
una ricostruzione che l’Autore fa propria) trovare, appunto, “giustificazione causale nella “sintesi
delle svariate ragioni esistenziali e giuridico-formali immanenti nell’ambito del rapporto
coniugale””.
In effetti, al di là del minore o maggiore fascino della formula, non mi pare che,
sostanzialmente, la stessa giustifichi il perché non si dovrebbero applicare le norme su gli atti
liberali ma piuttosto quelle sugli atti gratuiti o su quelli onerosi. Se si utilizza una “nuova”
qualificazione causale se ne dovrebbero individuare anche le “nuove” norme di riferimento, se poi
si deve prendere atto che per quelle c’è sempre il vecchio codice civile potrebbe, forse, venire un
po’ svalutata la concreta efficacia di tutto il discorso.
Ampio spazio è poi dedicato al problema della ricomprensione o meno delle liberalità atipiche in
quelle attribuzioni escluse dalla caduta in comunione legale ex art. 179, lett. b), cod.civ., anche se i
giudizi di sostanziale superficialità e secondarietà attribuiti alle tesi della mancata inclusione e della
conseguente applicabilità ad esse delle norme sul regime legale sembrano stridere con la loro
analitica elencazione.
Al riguardo, peraltro, risulta immediatamente chiara l’impostazione seguita laddove il discorso è
introdotto dalla citazione secondo cui “qualsiasi ratio della norma [dettata dall’art. 179, 1° comma,
lett. b), cod.civ., ndr] si intenda accogliere, essa conserva tutta la sua efficacia ‘giustificativa’
anche nell’ipotesi di donazione indiretta” ( ). In effetti, quella riprodotta potrebbe sembrare, più che
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un inizio, una conclusione di qualsiasi discussione sul tema (anche se, magari, un po’ tautologica
nel suo argomento).
Tuttavia appaiono quanto meno sindacabili le affermazioni secondo cui, in non pochi casi, sarebbe
possibile inserire nelle liberalità atipiche quella dichiarazione di esplicita destinazione alla
comunione legale che invece, secondo altri, la loro natura amorfa impedirebbe, con ciò
giustificando la non ricomprensione delle liberalità stesse in quanto disciplinato dall’art. 179, lett.
b), cod.civ.
In merito, infatti, volendosi esemplificare la prima ipotizzata ampia congerie di casi, l’A.
cita la ovvia possibilità che di ciò si faccia menzione nel contratto a favore di terzo per spirito di
liberalità, dando per scontato, evidentemente, ma non dicendo, che si stia parlando di quello
riguardante beni immobili perché, altrimenti, non si vedrebbe alcuna necessità di forme scritte
idonee a contenere la ricercata dichiarazione.
Sul punto, ci si limita ad osservare che l’esempio (unico) citato riguarda una fattispecie tanto
presente nei testi scientifici quanto assente nella realtà del traffico giuridico ( ). E che la detta
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assenza, oltre a segnalare la ovvia riservatezza che normalmente coinvolge simili operazioni, assai
poco aiuta nell’interpretazione della norma che si pretende di supportare.
Si cita, poi, un precedente giurisprudenziale (Cass. 25 ottobre 1996, n. 9307, pure ripreso infra) nel
quale, si sarebbe statuito che l’intervento di entrambi i coniugi in un acquisto immobiliare,
effettuato con provvista fornita dal genitore di uno solo di essi, si dimostrerebbe quale tacita volontà
di quest’ultimo di beneficiare entrambi.
Francamente ci sembra che la citazione non sia del tutto completa rispetto al reale contenuto della
pronunzia. La sentenza in questione, pure non dotata di perfetta linearità, prima di affermare quanto
riportato nel contributo qui esaminato quale supporto della tesi preferita, osserva anche che “il
secondo comma dell’art. 179 cod.civ., con una disposizione avente – come risulta anche dalla sua
formulazione letterale – efficacia imperativa, impone, tassativamente, qualora un coniuge intenda
procedere all’acquisto di un immobile (o mobile registrato) come bene “personale” a norma di una
delle lettere c), d) e f) del comma 1 dell’art. 179 cod.civ. e pertanto, per quanto sopra precisato,
anche nel caso di utilizzazione per l’acquisto di un simile bene, di mezzi economici di cui abbia
acquistato la disponibilità, in costanza di matrimonio, per l’altrui liberalità, ed all’acquisto
partecipi l’altro coniuge, l’inserimento nell’atto di acquisto di una dichiarazione bilaterale di
esclusione dell’acquisto della comunione, se si vuole evitare l’inserimento in essa sin dall’origine,
ossia prima del perfezionamento della fattispecie acquisitiva, del bene oggetto dell’acquisto
medesimo”.
Allora, però, sarebbe forse stato opportuno illustrare il perché si attribuiva così scarso rilievo alla
spiegazione appena riportata (che a nostro avviso appare centrale per i giudici) tanto da tralasciarla
per concentrarsi, piuttosto, su un veloce passaggio che, sempre per noi alquanto arbitrariamente,
ritiene che l’obbligo normativo di una dichiarazione positiva da parte di un beneficiante (ex art. 179,
lett. b), cod.civ.) possa considerarsi assolto da un comportamento tenuto da soggetti diversi in un
atto negoziale che non vede intervenire il beneficiante stesso (!).
Infine, un ultimo accenno alla sintetica soluzione proposta relativamente al problema della
sicurezza dei traffici che potrebbe essere compromessa dalla scoperta, successiva al perfezionarsi
delle fattispecie, di atti liberali non incrementanti la comunione legale ma il solo patrimonio del
coniuge “occultamente” beneficiato. Qui, osserva l’A., le argomentazioni “potrebbero tutt’al più
essere richiamate per porre in discussione, nei “rapporti tra i coniugi ed i terzi (creditori e aventi
causa)” la sua opponibilità [si intende dell’atto negoziale, ndr] a questi ultimi”.
Ci sembra, e lo ribadiremo infra, che un simile riconoscimento di problematicità, laddove, come
pare, venga accettato, non possa non comportare altrettanti dubbi sull’efficacia dell’atto tra i
coniugi stessi pena, altrimenti, il favorire ricostruzioni inutilmente “anfibie” che, ove possibile,
dovrebbero evitarsi.
Concludendo su questo contributo, non si può non esternare il dubbio seguente: se, nonostante che
la legge permetta ad un soggetto coniugato in regime di comunione legale dei beni di escludere con
la dichiarazione di cui all’art. 179, II co., cod.civ. la caduta in comunione degli acquisti (non
dichiaratamente donativi) realizzati, si debba, comunque, ulteriormente consentire allo stesso di
accampare, successivamente al compimento dell’attività negoziale, generiche prove circa la
paludata ma presente natura liberale dell’acquisto stesso, l’obiettivo perseguito da tale
interpretazione non risulti altro che essere quello di sopperire, con rimedi processuali, al mancato
rispetto (consapevole o meno) della normativa sostanziale.
L’altro lavoro preso in esame è di U. A. SALANITRO, Comunione legale tra i coniugi e
acquisti per donazione o successione ( ), e si divide in due parti, la prima affronta il problema, di
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ambito più generale, concernente la portata dell’art. 179, lett. b), cod.civ., la seconda si occupa di
una molteplicità di problemi connessi, in estrema sintesi, alle modalità di ingresso nella comunione
legale e di conseguente amministrazione dei beni provenienti da successioni e donazioni.
L’approccio al tema è condotto in maniera particolarmente sistematica soprattutto laddove si
passano in rassegna la quasi totalità delle argomentazioni tradizionalmente portate a sostegno della
tesi giurisprudenziale per evidenziarne, se non proprio l’intrinseca debolezza, la mancanza di quella
forza determinante che sarebbe necessaria a renderle inattaccabili.
In questo contesto, si nega “piena esaustività” alla tesi che vorrebbe l’esclusione delle liberalità
atipiche dalla comunione legale sulla base del rispetto della volontà, effettiva o presunta, del
disponente di non beneficiare il coniuge del destinatario dell’attribuzione. Si riconosce che la
necessaria applicazione generale del presunto principio in base al quale, la citata esclusione dalla
comunione legale si fonderebbe sulla mancata partecipazione economica del coniuge non
direttamente beneficiario, finirebbe per portare all’inaccettabile esclusione generalizzata di tutti
quei beni il cui acquisto non sia frutto di una collaborazione dei coniugi.
Si riconosce come “potrebbe [sic!, ndr] risultare incoerente attribuire ad ognuno dei coniugi la
possibilità di dimostrare successivamente che un acquisto immobiliare è stato oggetto di una
donazione indiretta, ogni qualvolta la liberalità non si evinca dall’atto”.
Si arriva, nella conclusione della prima parte del lavoro, a riconoscere che la Riforma del diritto di
famiglia ha mantenuto un’impostazione favorevole “alla predominanza, nell’individuazione
dell’oggetto della comunione legale, del modello più favorevole al regime della comunione tra i
coniugi”.
Ebbene tutte queste considerazioni non risultano sufficienti a convincere l’A. del saggio a
pronunciarsi a favore della tesi ad oggi minoritaria. La tesi maggioritaria viene invece appoggiata
sulla base di una ricostruzione storico-sistematica dell’art. 179 cod.civ. e, più in generale, dei
principi operanti in materia.
Inutile dire che, a nostro modo di vedere, a meno che la detta ricostruzione fosse riuscita (ma così
non risulta) a dimostrare che l’attuale formulazione dell’articoli 179, 769 e 809 cod.civ. (per citare i
più direttamente coinvolti) fossero il frutto di una serie di errori di trascrizione e battitura
concretamente travisanti le intenzioni altrove espresse dal legislatore, la ricostruzione stessa non
può riuscire a superare le opinioni opposte opportunamente citate dall’A. stesso.
Rinviando alla lettura del testo per maggiori approfondimenti, qui ci si limita a segnalare che una
delle ragioni di ordine storico ritenute, se non determinanti, certo utili per dirsi favorevoli alla tesi
maggioritaria, viene evidenziata nella affermata sussistenza dell’esclusione delle liberalità atipiche
dalla comunione legale dei coniugi già nella legislazione previgente alla riforma.
Al riguardo non si può non esprimere il nostro dissenso misto a concreta incomprensione.
Sul punto occorre richiamare, come pure si fa nel testo, l’art. 217 cod.civ. ante 1975 che recitava:
“Oggetto della comunione – Sono oggetto della comunione il godimento dei beni mobili e immobili,
presenti e futuri dei coniugi, e, inoltre, gli acquisti fatti durante la comunione dall’uno o dall’altro
coniuge a qualunque titolo, tranne quelli derivanti da donazione o successione ovvero fatti col
prezzo dell’alienazione della cosa già appartenente in proprio a uno dei coniugi, purché in
quest’ultimo caso ciò risulti espressamente dall’atto di acquisto”.
Una formulazione del genere ci aveva già indotto a ritenere, certo non tra i primi, come assai
problematica l’esclusione dalla comunione legale delle liberalità ex art. 809 cod.civ. prima della
Riforma del 1975, almeno sulla base della formulazione normativa appena citata. Alla luce di
quanto affermato nel testo ( )ci risulta poco comprensibile come si possa sostenere il contrario in
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virtù della considerazione per cui, in sede di progetto della norma, si prevedeva l’espressione “…ad
eccezione dei beni pervenuti per donazioni e successioni…”, poi diventato, come visto, “…tranne
quelli [“gli acquisti”, ndr] derivanti da donazioni e successioni…”.
Si suggerisce che il citato mutamento avrebbe “verosimilmente” permesso interpretazioni più
estensive rispetto a quelle autorizzate dalla prima formulazione ma, francamente e a costo di
ripeterci anche sul controverso uso dell’utilizzo dei lavori preparatori che non si condivide se non
proprio nell’imminenza dell’entrata in vigore di un testo e con grande cautela, se già all’epoca
(cioè, dal 1942 sino alla riforma del 1975) l’art. 809 cod.civ. distingueva certe liberalità dalle
donazioni, l’intervento, minimo ma indispensabile da un punto di vista letterale per giustificare (in
questo preciso ambito normativo) l’esclusione delle liberalità atipiche dalla comunione legale,
doveva sostanziarsi in una sostituzione del termine “donazione” con “liberalità” (o equivalente).
Ancora una volta, sostenere il contrario è indice del ritenere che il legislatore quando dice
“donazione”, certe volte intende la fattispecie di cui all’art. 769 cod.civ., altre volte richiama anche
le situazioni di cui all’art. 809 cod.civ. Da parte di chi scrive non si rintracciano, e certo non solo
nella formulazione letterale della norma, una ragione convincente del perché applicare questo
criterio interpretativo.
5. Tornando, a questo punto, ai concreti aspetti del problema, onde consentire l’emersione
immediata di quello che, a parere di chi scrive, costituisce il vizio originario che affligge
l’interpretazione che, ad oggi, sembra consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, si devono
muovere le mosse da un dato di fatto che, seppure contingente, ha una decisa influenza
sull’indirizzo interpretativo perseguito.
Tutte le pronunzie della Suprema Corte che hanno, sinora, affrontato il tema, si sono
confrontate con situazioni di patologia matrimoniale. In cui, cioè, il rapporto, instauratosi con la
celebrazione delle nozze, era già giunto o stava per giungere all’esaurimento giuridico, anche se
aveva, comunque, raggiunto la fine sul piano personale.
Di fronte, allora, al coniuge che pretende di far valere diritti di comproprietà, ex art. 177, lett. a),
cod.civ., rispetto ad acquisti che, l’altro coniuge sostiene finanziati attraverso esborsi provenienti
esclusivamente dalla propria famiglia, la Corte di Cassazione, nel ricondurre forzatamente
nell’alveo della lett. b) dell’art. 179, cod.civ., gli acquisti derivanti da liberalità atipica, valuta una
situazione sostanzialmente priva di qualsiasi rilevanza esterna rispetto alla coppia dei litiganti, e nei
confronti della quale si riserva di operare ricostruzioni ex-post del significato di comportamenti
liberamente tenuti dalle parti.
6. Si evita, volutamente, di ribadire la critica analitica delle argomentazioni positive a sostegno
della tesi professata dai Supremi giudici con riguardo all’inclusione delle liberalità atipiche nel
disposto dell’art. 179, lett. b), cod.civ.
Questo in quanto si è già in prima persona, nonché da parte di altri, evidenziato, senza che
risulti esserci stata un’adeguata risposta ( ), l’inidoneità delle ragioni portate a sostegno di una tesi
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che, nei fatti, lascia intendere che un soggetto coniugato in comunione legale che acquisti da solo un
bene, ad esempio immobile, debba - per garantirne all’altro coniuge la caduta in comunione legale
ed ammesso che ciò sia sufficiente - dichiarare di utilizzare denaro di entrambi o simili ( ).
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In effetti, in caso contrario, l’apertura giurisprudenziale qui in discussione consentirebbe
sempre di dimostrare (!), con semplici testimoni, che la provvista utilizzata per l’acquisto proveniva
dalla famiglia dell’agente e, quindi, che il bene acquisito era oggetto di una liberalità atipica
estranea alla comunione legale ( ).
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Ciò che ancora di più interessa in questa sede è evidenziare la inaccettabile episodicità delle
decisioni assunte. Più avanti si accennerà anche alla questione del possibile coinvolgimento di terzi
laddove, per esempio, un creditore personale di un coniuge abbia agito esecutivamente su un bene
che, dalle risultanze pubblicitarie disponibili, risulti in comunione legale, e quindi di sua proprietà
almeno per la metà, e che nel processo si senta opporre la provenienza del denaro da parte di
occulti, fino a quel momento, familiari dell’altro coniuge che, solo, abbia compiuto l’acquisto.
7. E’ forte l’impressione che, anche le ulteriori ricostruzioni tecnico-giuridiche che si sono proposte
per la soluzione nei casi esaminati, soffrano del deprecabile vizio di doversi accogliere con
l’evidente accortezza a non estenderle oltre il caso concretamente esaminato, pena, altrimenti, il
giungere a conseguenze palesemente incongrue.
Osserva, tra l’altro, la sentenza più recente in materia che “la ratio della disciplina della
comunione sia quella di rendere comuni i beni alla cui acquisizione entrambi i coniugi abbiano
contribuito, onde sarebbe iniquo [e, va precisato, contrario allo stesso principio informatore della
comunione legale] ricomprendervi le liberalità a favore di uno solo dei coniugi, trattandosi di
acquisti per i quali nessun apporto è stato sicuramente dato dall’altro coniuge”.
Sul punto, corre l’obbligo di domandarsi se abbia costituito oggetto di riflessione dei
Supremi giudici il fatto che, con tale affermazione, se intesa, come pure sembrerebbe possibile, in
senso assoluto, si finisce per scardinare l’intero impianto che fino ad oggi appare sia stato condiviso
in materia di comunione legale. Quello cioè per cui, se un bene oggetto di acquisto non rientra nelle
fattispecie di cui all’art. 179, cod.civ., esso ricade in comunione legale (de presenti o de residuo, qui
non interessa).
In effetti, nell’art. 179, cod.civ., è prevista la possibilità che quanto acquistato con beni personali
rimanga personale ma, ci sembra, si prevedono delle modalità idonee a documentare il particolare
regime di ciò che esce dal patrimonio di uno dei coniugi affinché, dallo stesso regime, possa essere
poi disciplinato il bene che entra nel patrimonio in questione. Del resto, se non fosse così, si
determinerebbe un’incertezza pressoché assoluta circa il regime dei beni acquistati singolarmente
dai coniugi.
Pare, invece, che la stessa Suprema Corte, con una pronunzia da alcuni giudicata troppo
severa, abbia invece correttamente segnalato la imprescindibile necessità delle formalità previste
dall’ultimo comma dell’art. 179, cod.civ., affinché quanto acquistato (se immobile o mobile
registrato) possa considerarsi personale e, ci sembra, che tale orientamento sia stato anche
recentemente ribadito ( ) ( ).
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Se, allora, si concorda su quanto appena illustrato ecco che l’assunto prima riportato trova un
ambito di, diremmo, “forzata” non applicazione per quei casi, tutt’altro che infrequenti, in cui il
coniuge economicamente più forte compie un acquisto immobiliare con l’intento, ragionevolmente
non dichiarato, di beneficiare parzialmente il coniuge che non partecipa all’atto.
In effetti, se si seguisse il principio sopra riportato, nemmeno la contemporanea
partecipazione dell’altro coniuge all’acquisto realizzato con denaro di uno solo dei coniugi
garantirebbe l’entrata in comunione legale del bene. Per realizzare tale risultato occorrerebbe,
piuttosto, che il coniuge che fornisce la provvista dichiari, ex art. 179, lett. b), cod.civ., che sta
effettuando un’attribuzione liberale alla comunione legale, almeno per la parte di cui è titolare
l’altro coniuge.
A noi pare che simile conclusione debba, da un lato, considerarsi un’interpretazione
abrogativa assolutamente non accettabile dell’art. 177, lett. a), cod.civ., per la parte in cui prevede la
caduta in comunione legale di quanto acquistato “separatamente” dai coniugi. Dall’altro lato, non
riconoscendo l’applicabilità generale del principio sancito dalla Cassazione nella fattispecie
richiamata, si finisce per dare spazio ad una lettura del sistema per la quale, la provenienza della
provvista necessaria per compiere un acquisto (dalla famiglia del coniuge acquirente oppure
direttamente dal patrimonio dello stesso), risulta determinante per conoscere il regime patrimoniale
al quale sarà assoggettato il bene acquistato. Nel primo caso, bene personale, nel secondo, bene
comune.
Rispetto a quanto sostenuto in altra circostanza ( ), circa il fatto che, la tesi della normale caduta in
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comunione legale di quanto oggetto di liberalità atipiche, finisce per rispondere a tutte le esigenze
del caso tranne che a quella, non correttamente proponibile, di permettere di dimostrare, a
posteriori, la personalità di un acquisto quando non si è rispettata la procedura tecnico-giuridica
prevista per ottenere un simile risultato, ci si sente di potere svolgere una precisazione.
Si è certo consapevoli che, la stessa eterogeneità delle categorie di beni che possono avere la
qualifica di personali, anche e soprattutto in ragione delle particolari circostanze che incidono, oltre
che sul loro acquisto, anche sul loro successivo utilizzo in concreto, può determinare problematici
accertamenti circa il regime al quale dovranno essere effettivamente assoggettati. Tuttavia, il fatto
che, in materia, sussistano obiettive difficoltà intepretative, non ci pare autorizzi la predisposizione
ad accogliere soluzioni tendenzialmente aperte all’illimitata ammissione probatoria delle “reali
intenzioni” dei soggetti coinvolti quando, invece, risultano presenti porzioni di normativa
suscettibili di offrire indicazioni univoche in un senso o in un altro.
8. Con riguardo, poi, alla connessa pretesa che la comunione legale dei beni dovrebbe riguardare
solo gli acquisti a cui entrambi i coniugi abbiano contribuito, non si può non manifestare
un’evidente perplessità circa l’utilizzo dell’espressione “contribuzione” ( ). Ci sembra che abbia
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costituito ratio ispiratrice della Riforma del diritto di famiglia, sul punto specifico, quella per cui, il
regime della comunione legale fu introdotto, anche e soprattutto, per far beneficiare il coniuge,
magari economicamente meno forte ma dall’assai spesso determinante contributo operativo al
menage familiare, di una posizione maggiormente tutelata che, in fin dei conti, una semplice
dichiarazione contraria, contestuale o successiva all’atto matrimoniale, poteva comunque far venire
meno ( ).
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Non si sosteneva, né si pretende di sostenere oggi, che il coniuge meno economicamente attivo
dovesse beneficiare, per la mera circostanza del venire in essere del vincolo matrimoniale, delle
fortune economiche dell’altro. Si intendeva, più ragionevolmente, riconoscere la ancora attuale
circostanza per cui, una serie di comportamenti non immediatamente produttivi di reddito ma pure
svolti dall’altro coniuge, rappresentavano un “contributo” tale alla vita coniugale, da giustificarne
una “remunerazione”, proprio attraverso una partecipazione concreta ai risultati economici positivi,
alla cui realizzazione, detti comportamenti, contribuivano almeno indirettamente.
Se, come pare, ancora oggi questo deve essere il criterio giustificativo di un regime
patrimoniale che, lo si ripete, è assai facilmente derogabile, il brano sopra riportato dovrà, anche in
questo caso, essere interpretato in ottica restrittiva.
Appare, infatti, evidente, alla luce della formulazione più volte richiamata che, l’utilizzo
delle espressioni “contribuzione” e “apporto”, debba essere inteso come configurante la necessità di
un sacrificio economico direttamente imputabile anche al patrimonio del coniuge non agente, onde
se ne possa giustificare il conseguente arricchimento derivante dalla caduta in comunione legale di
quanto acquistato.
Allora, però, a meno di non voler prendere atto di un mutamento generale dell’orientamento
dei Supremi giudici circa i principi fondanti della comunione legale tra i coniugi, in ragione del
quale essa opererebbe - per quanto riguarda la comunanza degli acquisti - solo laddove il sacrificio
economico, che ne ha costituito la contropartita, fosse equamente e matematicamente computabile
sui separati patrimoni dei coniugi stessi, anche di tale supporto argomentativo si dovrà riconoscere
l’esclusiva riferibilità al caso esaminato.
Solo nel caso di liberalità atipiche, quindi, si dovrà pretendere il sacrificio da parte di
entrambi i coniugi (!). In realtà, questa affermazione non ha senso perché, se c’è una liberalità, è
ovvio che il beneficiario non subirà sacrifici. Non resta, allora, che prendere atto che quella
proposta è un’argomentazione, oltre che non estendibile, giuridicamente debolissima ai limiti
dell’inconsistenza ( ).
19
9. Giunti a questo punto, in effetti, non si può certo nascondere che la serie di precisazioni sopra
illustrate costituisce un limite eccessivo all’applicabilità di quanto affermato, apparentemente in
generale, a situazioni che coinvolgano comunque aspetti attinenti alla comunione legale.
Inoltre, e soprattutto, tutti i distinguo che si deve prendere atto derivano dalle
argomentazioni utilizzate, ne determinano un evidente depotenziamento in termini assoluti,
cosicché appare possibile affermare che la tesi in questione continua a trovare, nei limiti e con i
dubbi anzidetti, esclusivo fondamento nel ritenere le liberalità atipiche incluse nelle fattispecie di
cui all’art. 179, lett. b), cod. civ.
Si è conseguentemente convinti che, l’intento di dimostrare giuridicamente la mancata caduta in
comunione legale di quanto oggetto di liberalità atipica verso un coniuge, per effetto del retroattivo
riconoscimento che tale natura avrebbe avuto l’atto acquisitivo, non possa proprio dirsi raggiunto.
Il rilievo, a nostro avviso, più apparentemente grave, che è stato mosso alla tesi della normale
caduta in comunione legale di quanto oggetto di liberalità atipiche effettuate nei confronti di un
coniuge, riguarda l’inaccettabilità di una delle conseguenze che in tal modo si determinerebbe.
In particolare, si impedirebbe di concepire una liberalità atipica che coinvolga, quale
beneficiario, solo uno di due coniugi in regime di comunione, per la necessaria prevalenza che si
dovrebbe riconoscere alla disciplina collegata all’atto, dichiaratamente non liberale, concretamente
posto in essere ( ).
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Ci sentiamo di potere ribadire sul punto che, in tale ottica, si finisce per pretendere che la legge
tuteli, non tanto il diritto di beneficiare atipicamente un singolo soggetto coniugato secondo il
regime legale, quanto, oltre a ciò, anche il diritto di poterlo fare con un comportamento che risulti
immediatamente realizzativo di un’attività onerosa o, comunque, non liberale senza che si seguano
le modalità di deroga a quanto disposto dall’art. 177, lett. a), cod. civ.
Se, infatti, nell’atto oneroso posto in essere – ed il richiamo all’intestazione di bene
immobile in nome altrui è imposto dall’emersione concreta di questa sola fattispecie – si fosse
dichiarato, alla presenza del coniuge non interessato, come “personale” il denaro utilizzato, o il
bene scambiato, così come richiede la legge, il risultato perseguito si sarebbe potuto pienamente
realizzare.
La, conseguente, mancata emersione della provenienza da attività liberale atipica del bene
dichiarato “personale” sembra un prezzo giuridico accettabile. Ciò, anche in considerazione del
fatto che, l’acquiescenza del coniuge non beneficiario, poi intervenuto all’atto, appare idonea a
restringere fortemente la proposizione, da parte dello stesso, di azioni nei confronti dei beni di
iniziale origine liberale.
Si è consapevoli che, in tal modo, si giunge comunque ad una soluzione giuridicamente non
ineccepibile, ma se ne riconosce un assai minore effetto intrusivo rispetto al sistema di riferimento.
10. Arriviamo, allora, in conclusione alla valutazione del perché una dichiarazione del tipo di quella
appena descritta trovi legittima cittadinanza all’interno dell’atto posto in essere ma debba ritenersi
non operante se acquisita in un momento successivo.
Oltre alle ragioni sopra illustrate, devono essere, quanto meno, tenute in considerazione alcune
circostanze attinenti agli aspetti pubblicitari che possono coinvolgere soggetti estranei alla coppia di
coniugi.
Tralasciando la pure connessa problematica, attinente alla trascrivibilità in capo al coniuge non
interveniente dell’acquisto compiuto dall’altro in regime di comunione legale ( ), merita certo uno
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spazio maggiore, rispetto ai limitati accenni riservatigli da qualche commentatore, il tema della
conoscibilità per dei terzi particolarmente interessati, quali i creditori di uno o di entrambi i coniugi,
del ricadere o meno di certi beni nella comunione legale.
Questa categoria di soggetti ha due strumenti per poter venire a conoscenza della disciplina
regolante i beni dei coniugi. Si tratta, come noto, dei registri delle Conservatorie immobiliari e della
documentazione concernente l’atto di matrimonio, onde verificare l’annotazione o meno della scelta
del regime della separazione dei beni.
Se detta annotazione risulta mancante, resta solo l’accertamento sulla trascrizione per verificare ovviamente nel caso di immobili o mobili registrati, essendo del tutto residuali altre ipotesi - la
caduta in comunione legale di quanto acquistato o l’espresso ricorrere delle ipotesi di cui all’art.
179, cod. civ. Pur non costituendo una novità l’osservazione che segue, non si riesce a non
concordare con quella interpretazione dei giudici napoletani che osservano come, la mutevole
struttura della liberalità atipica, non consenta quella emersione di atto chiaramente donativo quale
invece richiesto dalla norma appena citata ( ).
22
La considerazione in oggetto, seppure ribaltata in sede di giudizio di legittimità ( ), ci sembra quella
23
che meglio risponde all’esigenza di tutelare soggetti direttamente estranei alla vicenda acquisitiva
ma sui quali possono concretamente ricadere certi effetti della stessa. Questo, soprattutto laddove si
possa e si voglia evitare di prendere atto di un’ennesima carenza protettiva di quegli interessi che,
senza tema di essere smentiti, si può rilevare essere considerati tra i più rilevanti tutelati
dall’ordinamento. Si tratta, cioè, della conoscibilità dei traffici ai fini della stessa possibilità del loro
sviluppo ( ).
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Seguendo l’impostazione, ad oggi, maggioritaria si rischia, in un futuro magari prossimo, di
dover sostenere che, una certa attività esecutiva effettuata da una banca, a causa della mancata
restituzione di un finanziamento, su beni qualificabili come comuni alla luce delle risultanze
disponibili, dovrà considerarsi erroneamente ed inutilmente svolta su beni personali del coniuge non
finanziato a seguito dell’intervento di suoi familiari che ne dimostrino la “provenienza” liberale. Ci
permettiamo di dubitare che, in tale caso, la strada qui criticata sarà ripercorsa dai giudici della
legittimità.
*Il presente lavoro, pubblicato negli Studi alla memoria di V.E. CANTELMO, 2003, risulta arricchito nella presente
stesura di alcune pagine di commento a due recenti contributi dottrinari che si sono occupati del tema.
1In merito, senza alcun timore di apparire eccessivamente formalisti, consideriamo fonti di sincera perplessità
affermazioni, pure autorevolmente sostenute, secondo cui “.. il nucleo essenziale delle donazioni indirette risulta
dall’art. 769 Codice civile: arricchimento del donatario con correlativo impoverimento del donante, accompagnato
dallo spirito di liberalità. Ogni prova diretta a dimostrare la sussistenza di tali elementi (nel nostro caso: acquisto
di un bene da parte del coniuge donatario mediante danaro elargito dal familiare espressamente a tal fine per
spirito di liberalità) deve essere ritenuta rilevante, qualunque siano i procedimenti attraverso i quali la detta
finalizzazione dell’erogazione del denaro ha trovato attuazione” (così U. CARNEVALI, Esclusione delle liberalità
indirette dalla comunione legale tra coniugi, in I Contratti, 2001, p. 117). Ciò che non sembra per nulla avvertito
nel passo citato, e che sarà approfondito nel testo, è che la semplificazione sostanziale suggerita urta
irrimediabilmente con regole codicistiche in materia di forma, pubblicità e prove (solo per citare quelle
immediatamente percepibili) che, di fatto, pretende si pieghino al riconoscimento della “presunta” - nonché
regolarmente ricostruita ex post - intenzione del donante (rectius beneficiante, visto che si tratta di liberalità atipica e
non di donazione). Infatti, se appare pura tautologia sostenere che in ogni liberalità il beneficiante intende arricchire
solo il beneficiario designato, non sembra così liberamente dimostrabile ex post che la volontà di un soggetto, che
non ha in alcun modo espresso la propria intenzione liberale, avesse proprio quella natura e si dirigesse solo nei
confronti di un certo soggetto. La materia non è del resto lasciata ad una assoluta autonomia delle parti e, per fare un
esempio, parlare di “erogazione del danaro”, richiama un livello di descrizione così manifestamente atecnico da
non lasciare dubbi, almeno nella nostra ottica, circa l’impossibilità di derivarne conseguenze concrete sul piano
interpretativo. La sostenuta pretesa, poi, di risalire alla reale intenzione del beneficiante indiretto fa emergere una
anacronistica pretesa di risalire alla “volontà” del disponente, eventualmente anche contro ciò che risulterebbe dalla
sua “dichiarazione”.
Comunque, la tesi sostenuta dalla Cassazione è accolta dalla dottrina maggioritaria per cui si rinvia a: A.
BUSANI, Donazioni indirette e comunione legale tra i coniugi, in Vita not., 2001, 1235; T. AULETTA,
Il diritto di famiglia, Torino, 2000, p. 158; Id., Gli acquisti personali, in AA.VV., Il diritto di famiglia,
Trattato Bessone, Torino, 2000, p. 193-4; G. GABRIELLI, Regime patrimoniale tra coniugi, in Dig. disc.
priv., Sez. civ., Torino, 1997, XVI, p. 342; G. GABRIELLI - M.G. CUBEDDU, Il regime patrimoniale
dei coniugi, Milano, 1997, p. 36; M. SESTA, Lezioni di Diritto di Famiglia, Padova, 1997, p. 181; C.
RADICE, I beni personali, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, Torino, 1997,
II, Il regime patrimoniale della famiglia, p. 130 ss.; F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, in
Trattato Cicu-Messineo, 1984, Milano, I, p. 101; L. BARBIERA, La comunione legale, in Trattato
Rescigno, 1982, Torino, III, 2°, p. 46; P. SCHLESINGER, Commentario alla riforma del diritto di
famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, Padova, 1992, III, p. 150; C.M. BIANCA, Diritto civile, La
Famiglia. Le Successioni, II, Milano 2001, p. 105, nota 94. V., anche, S. CANGIANO, Comunione legale
e donazioni indirette, in Fam. e Dir., 1, 1996, p. 64. In senso contrario: G. DI TRANSO, La comunione
legale, 1992, Napoli, p. 34; G. ZUDDAS, L’acquisto dei beni pervenuti al coniuge per donazione o
successione, in La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989, p. 453; R. BASSETTI, Convenzioni
matrimoniali, Napoli, 1992, 110; nonché da ultima L. GATT, Beni personali dei coniugi e liberalità, in
Familia, 2001, p. 91 ss.
2Nella consapevolezza di non essere nuovi a questa sollecitazione, ci permettiamo di richiamare il nostro lavoro
monografico Le liberalità atipiche, Torino, 2000, p. 6 ss., anche con riguardo alle tesi riprese nel presente lavoro.
3L’esempio più vicino a quanto denunziato nel testo è ricavabile dalla assai recente sentenza della Corte di Cassazione
del 14 dicembre 2000, n. 15778, in Guida dir., 2001, 3, p. 44, laddove si ritiene di potere osservare che: “la
donazione indiretta (alla quale fa riferimento l’art. 809 cod.civ.), infatti, a differenza del negozio indiretto, che si
presenta come un unico negozio volto al conseguimento di un risultato ulteriore, che non è normale o tipico,
consiste in un complesso procedimento mediante il quale, per mezzo di atti diversi da quelli previsti dall’art. 769
c.c., ciascuno dei quali produce l’effetto diretto ad esso connaturato, per spirito di liberalità viene (in modo
indiretto) arricchito un soggetto (Cass. 1257/1994, 4986/1991): essa, cioè, si concreta nell’elargizione di una
liberalità attuata, anziché con il negozio tipico dell’art. 769 citato, mediante un negozio oneroso che produce in
concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento animo
donandi del destinatario della liberalità medesima”. Appare sin troppo facile, ma non per questo meno necessario,
rilevare come l’estensore di questo passo abbia dato una pretesa definizione generale della “donazione indiretta”
che, purtroppo, non va oltre la concreta fattispecie oggetto dell’esame nel caso concreto. Non si potrebbe spiegare
altrimenti, infatti, l’accantonamento di tutte quelle ipotesi in cui un singolo comportamento, magari pure non
oneroso, possa concretamente realizzare (anche per la Corte Suprema) una “donazione indiretta” o, melius, una
liberalità atipica. Si pensi al pagamento del debito altrui o alla remissione di un credito proprio. Per ulteriori appunti
critici alla concezione unitaria della “donazione indiretta” si rinvia a L. GATT, o.c., p. 107 ss.
4Il riferimento è a Cass. 8 febbraio 1993, n. 1556, in Giust. civ., 1993, I, 2425, che, in un caso di permuta conclusa da
parte di un coniuge con un terzo, aveva ritenuto non necessaria la specificazione della natura personale del bene
uscito dal suo patrimonio affinché quello acquisito mantenesse tale status, laddove fosse “obiettivamente certa” la
natura personale del bene di cui il coniuge agente aveva disposto. Su analoghe posizioni si pone Cass. 18 agosto
1994, n. 7437, in Fam. e dir., 1994, p. 593, con nota di M.G. CUBEDDU.
5In Giurisprudenza Italiana, 2002, IV, c. 1313 ss.
6Contenuto nelle note 50 e 57.
7Ripresa da A. D’ADDA, Gli acquisti per donazione indiretta ricadono in comunione legale?, in Fam.dir., 1997, 472.
8Non possiamo, al riguardo, non rinviare a quanto più dettagliatamente illustrato nel nostro Le liberalità atipiche, cit.,
p. 51 ss.
9In Familia, 2/2003, p. 369 ss.
10P. 399 e nt. 95.
11A meno di non considerare una replica giuridicamente valida, quanto affermato dalla sentenza più recente in materia,
e già più volte citata, secondo la quale (è sempre Cass. 12 dicembre 2000, n. 15778, cit.) si rileva: “…l’insussistenza
di precise ragioni, anche d’ordine sistematico, che eventualmente possano giustificare l’esclusione della donazione
indiretta (o, meglio, del bene oggetto di essa) dall’ambito della norma medesima (si tratta dell’art. 179, lett. b),
n.d.a.)”. Del resto, se si considera “evidente” ai nostri fini l’assimilabilità tra donazione e “liberalità atipiche”, è
quanto meno coerente non rintracciare ragioni per non ritenerle entrambe comprese nel disposto dell’art. 179, lett.
b).
12Ulteriormente idonea a svalutare la soluzione proposta è, a nostro avviso, la circostanza per cui la sua pretesa
applicabilità generale, trovi sempre e comunque fonte con riguardo a controversie concernenti acquisti immobiliari.
Al riguardo, non può non apparire particolarmente significativa la nota problematica attinente alla caduta in
comunione legale dei diritti di credito con tutti gli specifici aspetti connessi alle diverse tipologie in cui detti diritti si
possono estrinsecare (partecipazioni in società di persone o di capitali, titoli di stato, depositi bancari, ecc.). Nella
recente ed approfondita ricostruzione di un autore che ha, sempre da poco, commentato favorevolmente
l’orientamento giurisprudenziale in tema di liberalità atipiche e comunione legale (A. BUSANI, Donazioni indirette
e comunione legale tra i coniugi, o.l.c.) è interessante notare come non risulti per nulla accennata o vagliata la
possibilità che - almeno secondo la prospettiva favorevole alla caduta in comunione legale - l’estensione
dell’acquisto di tali diritti, compiuto da parte di un singolo coniuge, a favore della comunione potrebbe determinare
questioni intepretative attinenti al verificarsi di una liberalità atipica dello stesso a favore dell’altro o da parte di chi
abbia fornito il denaro necessario per tale acquisto. Il riferimento è A. BUSANI, Comunione legale dei beni,
partecipazioni al capitale di società e strumenti finanziari, in Riv.dir.priv., 2002, 2, p. 335, si vedano in particolare
p. 339-340 anche nota 9, p.352 ss.
13Si noti che, quella esposta, non può considerarsi l’accettabile conseguenza derivante dall’abuso di un’interpretazione
di per sé legittima. Questo perché è l’interpretazione suggerita di per sé che, nella sua pretesa di far emergere le reali
volontà degli agenti, stravolge il sistema probatorio basato sul codice civile, laddove si richiede chiaramente,
almeno secondo noi, che l’atto donativo, il cui oggetto è escluso dalla comunione legale sia pienamente e
tempestivamente identificabile come tale, per dare spazio, piuttosto, ad un mezzo probatorio più debole – la
testimonianza successiva - il riscontro della veridicità del quale è lasciato ad una, chiaramente più ampia,
discrezionalità valutativa del giudice. La circostanza per cui, al fianco della prova testimoniale, si possano addurre
prove documentali idonee ad evidenziare l’uscita dal patrimonio di un terzo della c.d. “provvista” necessaria per
compiere il negozio apparentemente oneroso, non può andare oltre l’attribuzione allo stesso di una qualificazione di
liberalità atipica che, solo l’apodittico inserimento nella previsione di cui all’art. 179, lett. b), cod.civ, permette di
mantenere al di fuori del regime della comunione legale.
14Con riguardo al precedente giurisprudenziale accennato, che di fatto ribalta quanto enunziato nelle
sentenze citate alla nota 4, si tratta di Cass. 25 ottobre 1996, n. 9307, in Guida Dir., 1997, 5, p. 71 criticato dalla nota di R. ZANABONI, ivi, 75 - che evidenzia come “il secondo comma dell’art. 179 cod.
civ., con una disposizione avente - come risulta anche dalla sua formulazione letterale – efficacia
imperativa, impone tassativamente, qualora un coniuge intenda procedere all’acquisto di un immobile (o
mobile registrato) come bene “personale a norma di una delle lettere c), d) ed f) del coma 1 dell’art. 179
cod.civ., e pertanto … anche nel caso di utilizzazione per l’acquisto di un simile bene, di mezzi economici
di cui abbia acquistato la disponibilità, in costanza di matrimonio, per altrui liberalità, ed all’acquisto
partecipi l’altro coniuge, l’inserimento nell’atto d’acquisto di una dichiarazione bilaterale di esclusione
dell’acquisto dalla comunione, se si vuole evitare l’inserimento in essa fin dall’origine, ossia prima del
perfezionamento della fattispecie acquisitiva, del bene oggetto dell’acquisto medesimo”. Si è citato
l’intero brano per segnalare come, forse, i giudici siano spinti troppo nel senso opposto a quello poi
diventato maggioritario. In effetti, parlare di “dichiarazione bilaterale di esclusione” sembra configurare
qualcosa di ben diverso rispetto alla previsione di cui al secondo comma dell’art. 179, cod.civ., che
appare un onere, più che eccessivo, semplicemente non richiesto. Sull’importanza della dichiarazione ex
art. 179, II co., si veda anche Cass, 19 febbraio 2000, n. 1917, in Foro it., 2000, I, c. 2247.
15Non ci sembra che la lettura qui suggerita risulti limitata dalla circostanza per cui la norma in questione riguarda
esclusivamente beni immobili o mobili registrati. Se, da un lato, sono proprio questi i casi che, per la loro evidente
maggiore rilevanza economica – almeno in quest’ambito particolare - come anche della relativamente più difficile
occultabilità, sono giunti e continueranno a giungere all’attenzione delle corti di giustizia, dall’altro, appare ovvio
che gli atti coinvolgenti altre categorie di beni mobili, mancando il requisito della forma necessaria, presentano il
problema probatorio, circa la personalità o meno di ciò che abbia costituito la controprestazione dell’acquisto, in
termini diversi e non comparabili. Ciononostante, si può rinviare a Cass. 27 maggio 1999, n. 5172, in Riv.giur.trib.,
1999, p. 929, che, occupandosi di un caso di acquisto di azioni di società (quindi beni mobili) da parte di un
coniuge, ribadisce un principio già consolidato (si veda Cass. 23 settembre 1997, n. 9355, in Foro. It., 1999, I, c.
1323, e 18 agosto 1994, n. 7437 cit.) e con riguardo al quale non risulta si siano certo posti problemi di attribuzione
liberale o meno dell’acquisto che in tal modo si realizza, per la metà di quanto in oggetto, a favore del coniuge non
partecipante all’atto. Osserva al riguardo la Suprema Corte: “che i titoli stessi possono quindi essere acquistati,
secondo il citato art. 177 cod. civ., il quale adotta la relativa nozione senza specificazioni delimitative,
abbracciando ogni mutamento idoneo ad incrementare il patrimonio con l'afflusso di un nuovo bene. Dal riportato
principio discende che la comunione dei coniugi si estende alle azioni od alle partecipazioni similari per il solo
fatto che siano state comprate in costanza di matrimonio, ancorché da uno solo dei coniugi stessi, quando non siano
riscontrabili le eccezioni alla regola generale del menzionato art. 177 cod. civ. poste dal successivo art. 179”.
16Si tratta del nostro Le liberalità atipiche, cit., p. 124.
17Il brano della pronunzia sembra fortemente debitore di quanto sostenuto da P. SCHLESINGER, o.l.c., dove si
osserva che “..in comunione è giusto che cadano solo i beni alla cui acquisizione abbiano contribuito, quand’anche
l’uno indirettamente, entrambi i coniugi. Nella liberalità a favore di uno solo di essi nessuna influenza è attribuibile
all’altro e perciò il relativo acquisto non può essere ricompreso nella comunione”. La critica alla detta lettura è
ampiamente contenuta nel testo. Qui, peraltro, appare possibile aggiungere, in considerazione del, per noi, sempre
equivoco richiamo alla generica “giustizia” dell’opzione professata che, la ricorrente “intestazione dell’immobile a
favore” del proprio figlio, potrebbe, ad esempio, avvenire esclusivamente in ragione del matrimonio da lui contratto,
così da agevolare la successiva vita familiare. Potrebbe sostenersi, in tal caso, che l’altro coniuge non abbia
“nemmeno indirettamente contribuito” al comportamento liberale ? O che sia “giusto”, dopo anni di vita vissuta in
tale immobile sopportandone, magari entrambi, i costi di ogni genere sullo stesso gravanti, sentenziarne la proprietà
esclusiva di uno solo dei due coniugi ? Alcune interessanti riflessioni in materia sembrano svolte da A. GIANOLA,
Atto gratuito, atto liberale ai limiti della donazione, Milano, 2002, p. 362 ss.
18A mero titolo esemplificativo si rinvia alle analoghe brevi considerazioni in materia, contenute al riguardo,
in un testo che non si può non considerare tra i più utilizzati dagli studenti di giurisprudenza, A.
TORRENTE - P. SCHLESINGER, Manuale di Diritto Privato, XIV ed., Milano, 1995, p. 815. Poiché la
ricostruzione delle origini e dei meccanismi della comunione legale non costituisce oggetto di
approfondimento del presente contributo, ci si limita a rinviare ad un’opera di sintesi che, comunque, ne
richiama la funzione quale illustrata nel testo, U. MAJELLO, Comunione dei beni tra coniugi – Profili
sostanziali, in Enc. Giur., vol. VII, Roma, 1988, p. 2. Di ancora maggiore speso specifico sono,
nell’ambito di un intervento assai critico nei confronti di un sostenuto ingiustificato ampliamento
interpretativo, compiuto dalla dottrina, circa l’oggetto della comunione legale, le osservazioni espresse da
E. RUSSO, Ancora sull’oggetto della comunione legale: favor comunionis o favor personae coniugis?, in
Dir. fam. e pers., 1998, II, p. 207, laddove si prende comunque atto che “è vero, peraltro, che tra gli
obiettivi perseguiti con la legge di riforma è ravvisabile una esigenza di protezione del coniuge più
debole. Anzi, la protezione della donna, e la valorizzazione del suo lavoro “interno” alla famiglia,
parificato al lavoro esterno produttivo di reddito dell’altro coniuge, è sicuramente il centro motore della
riforma, l’istanza di base perseguita dalla legge”. Lo stesso A., giustamente, in uno scritto precedente,
Nuove considerazioni sull’oggetto della comunione legale, in Dir. fam. e pers., 1997, II, p. 1107,
avvisava, però, di evitare di cadere nell’errore di attribuire rilevanza costituzionale agli obiettivi
perseguiti attraverso l’introduzione della comunione legale pena, altrimenti, l’incongruenza di doverli
ritenere derogabili dai privati così come pure è possibile in materia di regimi patrimoniali tra coniugi. Al
riguardo si segnalava come, p.1109, “la comunione legale è un istituto di protezione aggiuntiva rispetto
alla protezione assicurata a ciascun coniuge inderogabilmente dal regime primario della famiglia”.
Interessanti e ancora assai attuali sono, infine, le brevi osservazioni di A. DE CUPIS, in Istituzioni di
Diritto Privato, IV ed., Milano, 1987, p. 151, che, pur prendendo atto dell’ideale comunione anche
materiale che con la Riforma del 1975 si sia inteso riconoscere all’atto matrimoniale, osserva come “… il
legislatore, assumendo un ruolo illuministico ed educativo, ha contraddetto autoritativamente lo stesso
costume, privilegiando un regime patrimoniale che non aveva trovato pressoché alcun riscontro nella
pratica”.
19Certo, vi è anche chi ha sostenuto che “ogni persona di buon senso intuisce immediatamente che un acquisto
avvenuto con denaro donato a uno dei coniugi non possa entrare a far parte della comunione legale, alla stregua di
un bene donato direttamente” (si tratta di G. GIOIA, Donazione indiretta: liberalità o acquisto in comunione?, in
Fam. e dir., 1998, p. 329). Noi però, oltre a ritenerci dotati di un minimo di buon senso, siamo anche consapevoli
dell’esistenza di norme che, come l’art. 177, lett. a), cod.civ., non si preoccupano minimamente della provenienza
della provvista degli acquisti che cadranno in comunione legale laddove non ricorrano le condizioni,
immediatamente riscontrabili, di cui all’art. 179 cod.civ. Nonché, abbiamo la sensazione che non rientri tra i principi
perseguiti dall’ordinamento, almeno in questa materia, quello di consentire che, coloro che hanno posto in essere
comportamenti, privi di esplicitazione del ricorrere in essi di ragioni giustificative diverse rispetto a quelle che gli
stessi atti appalesano, possano convenientemente rivelarle più tardi. Soprattutto quando, così facendo, gli stessi
pretendano di godere di benefici, che gli sarebbero certo spettati, se solo si fossero conformati alla previsione di
legge che, attraverso l’indicazione della personalità dell’acquisto, ne richiedeva una più tempestiva emersione.
20La tesi è di C. DE LORENZO, Intestazione del bene in nome altrui: appunti in margine a una giurisprudenza
recente, nota a Cass., 8 febbraio 1994, n. 1257, in Foro It., I, 1995, c. 617, dove si critica la tesi di G. ZUDDAS,
o.l.c. Peraltro, lo stesso DE LORENZO, conclude, alquanto contraddittoriamente, il suo intervento indicando quale
rimedio decisivo quello rappresentato “…dalla expressio causae, ovvero dalla specificazione del titolo per il quale è
effettuata la stipulazione a favore di terzo, è adempiuto l’altrui obbligo di pagare il prezzo, ecc. Di guisa che il bene
acquistato dal coniuge resta assoggettato al regime della comunione se nell’atto si precisa che l’attribuzione è
effettuata, ad esempio, solvendi o mutuandi causa; lo stesso bene resta escluso dalla comunione, ai sensi della lett.
b) dell’art. 179 c.c., se, viene espressamente dichiarata una causa liberale”. Simile ricostruzione, da un lato,
sconfessa la tesi prima accolta in quanto, se tale dichiarazione occorre, si deve ragionevolmente ritenere che, in sua
assenza, dovrà prevalere quello che appare. Dall’altro, dimentica la poliedricità delle liberalità atipiche che, assai
spesso, possono non sostanziarsi in un atto idoneo a contenere l’auspicata dichiarazione.
21Rispetto al quale non si può, comunque, omettere di citare il recente intervento del Tribunale di Udine del 22 febbraio
2001 (ord.), in Fam. e dir., 2002, p. 61, che costituisce un raro caso di pronunzia favorevole alla trascrizione purché
dall’atto emergano le necessarie generalità del coniuge non interveniente.
22Il riferimento è alla nota Trib. Napoli, 19 luglio 1994, in Giur. mer., 1996, p.78.
23Da Cass. 8 maggio 1998, n. 4680, in Guida Dir., 1997, 5, p. 71, tale pronuncia si allinea a quanto sostenuto da Cass.
15 novembre 1997, n. 11327, in Riv. not., 1998, II, p. 182.
24Certo, si può anche prendere mestamente atto del fatto che: “l’acquisto in comunione legale si ricollega ad una
fattispecie complessa costituita da un fatto giuridico positivo quale lo stato di coniuge acquirente e da una serie di
fatti negativi che consistono nella inesistenza di tutte le cause che, pur nel vigore della comunione legale,
precludono la comunione degli acquisti. Di conseguenza la trascrizione in favore di entrambi i coniugi potrebbe
rivelarsi, oltre che errata, inopportuna, giacché l’acquisto può essere personale anche in mancanza di
constatazione al riguardo contenuta nel titolo, come risulta dal generale riconoscimento della possibilità di far
accertare tale carattere personale, e conseguentemente renderlo pubblico con separato procedimento, anche
successivamente alla formazione del titolo di acquisto”, così M.G. CUBEDDU, Comunione coniugale e
trascrizione dell’acquisto separato, in Fam. e dir., 2002, p. 68, peraltro noi non ci sentiamo di condividere
l’efficacia “generalissima” di tale impostazione.
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