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Il malinteso” al Teatro El

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Il malinteso” al Teatro El
”Il malinteso” al Teatro Eliseo di Roma
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”Il malinteso” al Teatro Eliseo di Roma
Oltrecultura: Recensioni Prosa
Autore: Livia Bidoli
giovedì 06 marzo 2008 17:24
Dal 4 al 16 marzo s’aggira lo spettro della morte all’Eliseo nelle sue fattezze più ignote,
caduca e sottile, muta e perversamente presente al cospetto di una platea che grida la sua
glaciazione di fronte a tanta, istrionica efferatezza.
Nulla quasi in confronto al romanzo più celebre di Camus, Lo
straniero, epigone del teatro dell’assurdo in forma di
narrazione. La Figlia e la Madre, compongono qui un
delirio a due di greca sostanza, di tragica verosimiglianza,
di nero candore, quasi a dissimulare l’assassinio in salvezza.
I vertici di Camus al suo esordio nel 1944 in questo Le
malentendu, raggiungono vette inusitate di elevazione morale
nel buio dell’omicidio predeterminato come assoluzione e
riduzione della sofferenza sia della vita sia della morte come
stato del trapasso e dolore legato ad esso.
Nel pubblico infuriava un dirimersi di domande e di stupore che la perfetta, sincronica,
profondamente coinvolgente recitazione di Giuliana Lojodice e Galatea Ranzi nella
produzione del Teatro Biondo Stabile di Palermo, non poteva che far gemere d’orrore per tanta
efferata freddezza. La Figlia che si è strappata (metaforicamente) il cuore e veleggia verso un
afflato di sole che ipoteticamente le fornirebbero i clienti prima uccisi poi derubati del suo piccolo
alberguccio di provincia, fa rabbrividire le coscienze più audaci. Nietzsche sembra quasi uno
spirito benevolo qui, dove Zarathustra non è mai passato.
Qui, in questo non luogo della tragedia si uccide il Figlio (il solare e melanconico Luca
Lazzareschi) della Madre e comincia allora in lei a risvegliarsi la coscienza, allertata da intuitivi
dubbi, purtroppo estirpati dalla sacra determinazione della Figlia. Un amore di Madre che ha un
solo oggetto, e non certo la compagna di crimine, la Figlia,
mai amata, e doppiamente tradita. La Moglie di lui, il Figlio,
con tutto il suo amore, parola negata e frantumata in mille
bagliori di averno dalla Figlia, non potrà che accasciarsi al
suolo, tradita da quell’unico Dio il cui testimone più
efficace è l’assenza. In questo ditirambico divagare,
spennellato sul fondale del palcoscenico con un minimale
percorso che non ha uscita, si esce sconfitti, nel profondo
mancare ad un appuntamento vitale in cui pietà e disincanto
duellano ad armi impari. Un sentiero lastricato di pietre che
forniscono materia viva ai personaggi, dilapidati nel loro lungo
adugiare nel paese grigio e senza alba dove la regia, le scene ed i costumi di Pietro
Carriglio lasciano adagiare il cliente finale, l’ultimo di una serie infinita.
Le musiche di D’Amico si muovono appena perché le emozioni dolgono, quasi spente dalle luci
glaciali di Gigi Saccomandi, lievi e atone come un amore disperso nel nulla più ignoto.
Livia Bidoli
24/09/2009 14.03
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