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per ricordare Edoardo Sanguineti (Genova, 1930-2010)

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per ricordare Edoardo Sanguineti (Genova, 1930-2010)
Il CSB di Scienze della Formazione “M. Puppo” – Università di Genova (www.csbsdf.unige.it)
aderisce all’iniziativa “Poesie volanti”
…per ricordare Edoardo Sanguineti (Genova, 1930-2010)
Da: “Genova per me”, 2004, p. 19-22
Siamo nel marzo del ’79. Esco dalla Facoltà di Lettere, in via Balbi. E’ tarda mattinata, direi. Sarà
mezzogiorno, non so. Sono con mio figlio Federico. Di fronte a noi, c’è la Biblioteca Universitaria.
Sto per attraversare la strada, probabilmente per raggiungere il solito bar, e prendermi il solito caffè, che è il
mio normale aperitivo. Chi sale alla Biblioteca, invece, si trova davanti a una gradinata abbastanza lunga e
ripida e strana. E’ stranamente modulata. Andate a vedere, vi prego. In cima in cima, di fianco alla porta
d’ingresso, ci sta seduta una ragazza. E sta come in attesa. Appena la guardo, ecco che, di colpo, quella mi
rotola giù, là dall’alto, cadendo in avanti, ma come di sbieco, allungandosi e piegandosi, un gradino dopo
l’altro, molto lentamente. E’ tutta bianca, quella, e tutta pallida, bianca la faccia, le braccia, le gambe. Sembra
un manichino bianco. Anche la camicetta, anche la gonna, è tutta bianca. Ma così inerte cadendo, battendo
sopra quella gradinata, gradino per gradino, adagio adagio, si macchia di tante macchie, che sono macchie di
sangue, un po’ alla volta, un po’ dappertutto, e sono tante ecchimosi, e tante ferite. Si macchia di un rosso
rosato, subito. Poi il rosso diventa violento, ma con tante sfumature progressive, lì nella carne, nel vestito. Sta
cadendo come si cade al rallentatore, in un film. Io e mio figlio abbiamo attraversato la strada, intanto, piano
piano. E’ che stiamo andando al baro, come ho detto. Ma non andiamo più al bar, adesso. Perché adesso la
ragazza è immobile, lì ai nostri piedi. C’è molta gente, tutta lì, intorno a noi, intorno a lei, adesso. Sono tutti
fermi lì, più stupefatti che spaventati. Poi qualcuno chiede aiuto. Poi sta già arrivando un’ambulanza, si sente
già la sirena.
Certo è caduta per noi due, quella, per me e mio figlio, anche se nessuno lo sa, nessuno lo sospetta. E’ caduta lì
apposta, per noi, per me. E questo è un piccolo fatto vero. E’ uno di quelli che, l’ho scritto una volta, in una
poesia che è una specie di ricettario di arte poetica, servono per cucinare una poesia. E io me lo cucino subito,
infatti, il piccolo fatto. La ragazza, è chiaro, aveva da dirmi, a noi, a me, una cosa sua. Ce l’ha comunicata così,
cadendo. E noi, però, non abbiamo capito. E adesso è tardi, per capire. La scena è stata tutta una scena muta.
Eppure, è stata una scena eloquente, anche troppo. Quella comunicava soltanto con il suo corpo, con noi,
guastandolo, rovinandolo. Aveva un messaggio gestuale, nient’altro, indecifrabile per noi, ma pieno di senso,
certamente. E poi, quella ragazza non voleva nemmeno farsi capire, forse. E si è resa così irriconoscibile,
mentre si avvicinava a noi, come deformandosi, corrompendosi, truccandosi, mascherandosi. Ma adesso io me
la metto in versi, tutta questa microstoria. E la microstoria spiega, con un piccolo esempio concreto, più
mostruoso che tragico, più assurdo che penoso, che è importante registrare anche una qualunque microstoria, se
è una microstoria vera. Potrà, eventualmente, a qualcuno che la legge, non si sa mai, suggerire un significato,
anche se quello è perduto, per me. E’ con quello che legge, se legge, che la ragazza voleva dire una cosa sua, è
probabile. La poesia è quella che incomincia, ad ogni modo, dicendo: “io sono qui che mi interrogo ancora”.
Perché, è vero davvero, io mi interrogo ancora.
io sono qui che mi interrogo ancora sopra il significato che si può assegnare
alla ragazza bella lunga, bianca di bianca cera, che
ci è rotolata al rallentatore, giù
per la scalinata della Biblioteca Universitaria, un
mattino, in via Balbi, frantumandosi
molle, gradino dopo gradino, colorando di ecchimosi, paralizzandosi e paralizzandoci
nel sangue, ai nostri piedi esterrefatti, muta:
certo voleva
(e vuole) dire
qualcosa, a noi due, che non afferro più: (e che la
Croce verde ci ha cancellato, e basta):
Il CSB di Scienze della Formazione “M. Puppo” – Università di Genova (www.csbsdf.unige.it)
aderisce all’iniziativa “Poesie volanti”
…per ricordare Edoardo Sanguineti (Genova, 1930-2010)
Da: “Genova per me”, 2004, p. 33-36
Potrei dire di avere vissuto una parte abbastanza notevole della mia vita, un po’ anche quantitativamente, e un
po’, e soprattutto, qualitativamente, sulla Spianata dell’Acquasola. Che sta nel cuore di questa città, tra Piazza
Corvetto e Villa Serra, tanto per capirci. Oggi, è un mezzo parco e un mezzo parcheggio, e non si può dire con
certezza cosa potrà mai diventare, posto che sopravviva, nel prossimo futuro. Quando mia figlia Giulia, nata a
Salerno, era ancora una bambina, e ci eravamo, lasciando appunto Salerno, trasferiti a Genova, avevamo
affittato un appartamento in via Cabella. Allora, prendete posizione in Piazza Corvetto. Salite su per via
Assarotti, che punta in alto, diritta diritta, a Piazza Manin. Di qui, sempre salendo, prendete subito a sinistra, e
vi trovate, tagliando su per una breve scalinatella, esattamente davanti a quella che è stata, per un po’ di tempo,
la mia casa. Per Giulia, considerata l’età, occorreva scoprire un qualche spazio verde, ampio e tranquillo, dove
potesse muoversi con qualche libertà, correndo e giocando. I giardini lì dell’Acquasola erano il luogo meno
remoto e, nel complesso, meglio attrezzato, a fini di svago infantile. Per inciso, io ero, a quell’epoca,
contemporaneamente, consigliere comunale e deputato al parlamento. Ero tante cose insieme, per qualche anno,
perché insegnavo all’università, scrivevo in versi e in prosa, collaboravo ai giornali, tenevo comizi, partecipavo
a dibattiti. Sì, ero tante cose, anche troppe. E poi ero marito e padre, ben inteso. Poi, però, passa il tempo. E un
giorno, non sto a raccontare come, ma proprio al bar del Monoblocco del San Martino, incontro un tale che mi
saluta, che si accorge che non lo riconosco, e se ne meraviglia, e che mi descrive, per filo e per segno, tanti miei
pomeriggi trascorsi là, all’Acquasola. Insomma, era un poliziotto, e aveva avuto l’incarico, in quegli anni di
piombo, di in vigilare su di me, discretamente, forse un po’ per proteggermi, forse un po’, non si sa mai, per
controllarmi. Rimase di sasso, quando gli confesai che non mi ero mai avveduto della sua prudente e discreta
tutela. Alla fine, ecco che delle non poche ore trascorse con mia figlia in quella specie di innocente isolotto che
sorge nel tempestoso pelago urbano della mia città, ci ho avuto perfino un testimone fededegno. Detto questo,
passiamo ad altro. Io devo dire che ho molto amato, tra i generi poetici disponibili, la forma del testamento in
versi. Nell’82, anzi, ne ho scritto uno assai lungo, in molto libere ottave, ma in rigorosi endecasillabi, e non
intendo nascondere affatto che quel componimento piacque immensamente a Luciano Berio, tanto che ne cavò
il testo, più tardi, e precisamente nell’89 dopo un primo assaggio corale, per un suo Canticum, bellissimo, per
otto voci soliste e otto strumenti (quartetto di clarinetti e quartetto di sassofoni). Ma quanto al genere
testamentario, che può oscillare tra l’ironico e il patetico, il grottesco e il drammatico, il folclorico e
l’aristocratico, il parodico e il satirico, e può, che è meglio ancora, rimescolare tutto quanto insieme, io ne
avevo tentato un minimo esperimento in un breve testo dell’80, che era destinato a Giulia, precisamente. E lì,
pacifico, tra i molti lasciti che vi stanno elencati in meditato disordine, appare il giardino dell’Acquasola. Si
dirà che il farne svelta menzione è cosetta da niente, e che non conveniva spendere tante parole, per arrivare a
così minima faccenda. Ma devo pur rilevare che, potendo infilare, in sobria selezione, in quel mio sobrio
inventario, non importa quale realtà dell’universo mondo, anche la pura noinazione di quel luogo viene a
caricarsi di significato, per forza. Il mio “ti lascio le stufe elettriche”, ad ogni buon conto, dice così:
ti lascio le stufe elettriche, le calze, le costellazioni,
i bassotti, un Senza
famiglia televisivo a puntate (e a colori), il giardino
dell’Acquasola, i piselli,
i nodi ai fazzoletti, i coniglietti, gli ideogrammi, gli
epigrammi, la tosse,
gli occhiali, le scale mobili, la vita:
il vademecum, la
bussola, il viatico
è il nonlasciarsiandare: (te le mettevo in ordine per
bene (secondo l’alfabeto,
se non altro), le cose che qui ti abbandono, confuse,
se ci avevo il mio tempo, soltanto):
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