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La GdF nella Guerra di Liberazione

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La GdF nella Guerra di Liberazione
“LA GUARDIA DI FINANZA NELLA GUERRA DI LIBERAZIONE”
(Lezione presso l’Università degli Studi di Firenze, 21 aprile 2009)
Cap. Gerardo SEVERINO
L'8 SETTEMBRE E LA GUARDIA DI FINANZA.
Per meglio comprendere gli avvenimenti connessi con la situazione venutasi a creare
dopo l’8 settembre 1943, è opportuno soffermarsi sulla fisionomia che la Guardia di
Finanza rivestiva in quel particolare contesto storico, e ciò sia riguardo alle esigenze
connesse con il servizio d'istituto, che a quelle inerenti i compiti bellici.
Da una circolare datata 28 agosto 1943 avente per oggetto “Norme particolari per la
R.Guardia di Finanza durante l’attuale periodo bellico”, emerge che la forza effettiva del
Corpo ammontava a 51.133 uomini, ivi compresi i militari richiamati dal congedo. Metà
di tale forza (circa 24.880 unità) era impiegata in compiti d'istituto, ai quali vanno
aggiunti, oltre alla vigilanza sulla salvaguardia dell’Erario, anche una specifica
competenza in materia di polizia economica, strettamente connessa con il periodo di
guerra e, non per ultimo, il concorso al mantenimento dell'ordine e della sicurezza
pubblica, la cui assicurazione assunse caratteri di elevata gravosità, visto il clima di
tensione generale che si venne a creare in seguito alla caduta del fascismo.
Il resto della forza (circa 26.253 uomini) era impiegato in compiti di natura militare,
ovvero sia nella difesa costiera, nella difesa delle fabbriche e nella protezione degli
impianti, a disposizione della C.I.A.F. (Commissione Italiana Armistizio Francia), ma
soprattutto nei battaglioni mobilitati dislocati nei territori occupati durante la guerra
(Jugoslavia, Dalmazia, Montenegro, Albania, Grecia e Dodecanneso).
1
Riguardo agli avvenimenti connessi con il fatidico 8 settembre, uno specifico riferimento
alla delicatissima situazione che di lì a poco si sarebbe delineata per il Corpo potrebbe
essere desunto da una circostanza non certamente secondaria, legata alle prime fasi del
noto piano "Alarico", in relazione alla quale il 26 luglio 1943, unità corazzate tedesche si
presentarono al valico del Brennero, in una inequivocabile formazione da combattimento.
D’altra parte, mentre erano in corso le trattative segrete per uscire dal conflitto, lo stesso
Comando Supremo aveva studiato delle contromisure per contrastare le prevedibili
reazioni tedesche. Si trattava comunque di contromisure che potevano essere poste in
essere solo mediante il rientro di unità dai territori occupati, ma anche mediante la
riduzione dell'impegno dell'Esercito dai compiti di ordine pubblico.
In tale direzione fu coinvolta anche la Regia Guardia di Finanza, alla quale, il 26 agosto,
fu richiesta la costituzione di battaglioni mobili, i cui organici ed armamento sarebbero
stati simili a quelli dei Carabinieri Reali. Il giorno seguente, il Ministro delle Finanze
Bartolini, dopo un colloquio avuto con il Capo del Governo, Maresciallo Pietro Badoglio,
predispose l’intervento diretto dello Stato Maggiore del Regio Esercito, onde consentire il
rientro di gran parte dei nostri battaglioni mobilitati, dislocati al di là delle frontiere
nazionali. In realtà, tali disposizioni, in verità emanate pochi giorni prima della firma
dell'armistizio a Cassibile, non ebbero obbiettivamente modo di poter essere attuate.
D’altra parte, la formazione di “Reparti Mobili”, che avrebbero dovuto comprendere
ciascuno anche una “Compagnia Autoblindo e Carri Leggeri”, rappresentava, per il
Corpo, una novità davvero assoluta, considerando il fatto che lo stesso non aveva mai
disposto di alcun mezzo corazzato e, di conseguenza, non poteva contare,
nell’immediato, su personale specializzato. Il rientro in Patria dei battaglioni di Finanza
mobilitati, peraltro frazionati in piccoli reparti (per lo più Distaccamenti), dislocati in
località molto isolate, era certamente un'operazione molto complessa, la quale richiedeva
i classici “tempi tecnici”. Il Ministero della Guerra, in data 2 settembre, scrisse allo Stato
Maggiore del Regio Esercito - Ufficio Operazioni - , comunicando che: “… era
necessario disporre il rientro di alcuni battaglioni mobilitati della Regia Guardia di
Finanza, che, in ordine di precedenza potrebbero essere i seguenti (.). Si prega codesto
Stato Maggiore di voler comunicare la data entro la quale si può ritenere possibile il
2
rientro dei battaglioni predetti, tenuto presente che la costituzione delle nuove unità ha
carattere di assoluta urgenza".
Come è facile intuire, tutto ciò avveniva il giorno prima della firma, a Cassibile,
dell'armistizio, avvenuta, infatti, il 3 settembre 1943. A tal riguardo, appare inevitabile soprattutto per rispetto alla memoria delle vittime - fare una considerazione di merito:
considerazioni sulle quali, fra l’altro, si dibatte da molto tempo. Se tali disposizioni
fossero state impartite nel loro giusto tempo, il Corpo avrebbe potuto evitare
l'internamento, da parte dei tedeschi, di circa un terzo delle proprie forze dislocate oltre
frontiera, risparmiando così la vita ai tanti militari che, invece, la persero nei lager nazisti.
Per quanto le trattative con quelli che, di lì a poco, sarebbero divenuti i “nuovi alleati” si
svolgevano in gran segreto, la situazione politico-militare era ormai tale, al punto da
indurre il Comando Generale del Corpo a diramare la citata circolare del 28 agosto 1943
(“Norme particolari per la R. Guardia di Finanza durante l’attuale periodo bellico”), con
la quale furono impartiti ordini precisi riguardo al comportamento che i Comandi ed i
Reparti della Guardia di Finanza avrebbero dovuto tenere, qualora gli eventi bellici
avessero determinato un "l'immediato contatto col nemico", e ciò sia nell’ambito del
territorio nazionale, che fuori dai confini del Paese.
In buona sostanza, la circolare, stabilì che:
“le aliquote poste,a disposizione dell'Esercito, avrebbero mantenuto, in ogni circostanza,
le dipendenze operative previste, eseguendo di conseguenza gli ordini”;
“i reparti impiegati nel servizio d'istituto nel territorio nazionale non dovevano, in ogni
caso, lasciare le loro sedi, salvo ordini superiori, continuando così ad assolvere i loro
compiti, compresi quelli di concorso al mantenimento dell'ordine e della sicurezza
pubblica” 1 .
1
Tale disposizione si trovava in perfetta armonia con le norme internazionali, peraltro recepite all'art. 56 d el l a
legge di guerra italiana (R.D. 8 l u g l i o 1938, esplicitamente citato nella circolare).
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La circolare ebbe certamente la sua importanza, soprattutto se consideriamo il fatto che la
medesima consentì di orientare l'azione dei Comandanti di Reparto nei momenti più
delicati, come lo furono quelli successivi all'annuncio radiofonico dell’avvenuta firma
dell'armistizio, assicurando - per quanto fu loro possibile - la sopravvivenza e l'integrità
del Corpo stesso, nel preciso momento in cui altre istituzioni statuali si dissolsero.
Veniamo ora agli avvenimenti che seguirono il fatidico 8 settembre 1943. Tenendo a
mente l’economia del presente intervento, citeremo solo i principali fatti che riguardarono
i reparti del Corpo, tralasciando, quindi, la narrazione dei numerosi episodi che
comunque videro i singoli militari del Corpo affrontare con le armi il tedesco invasore,
pagando, per questo comportamento, con il bene più prezioso: la vita.
Tutto ebbe inizio nell'Italia Centrale, ed esattamente a Piombino, ove, verso le ore 22 del
9 settembre 1943, gli equipaggi di due unità della “Kriegsmarine”, ormeggiate in quel
porto, attaccarono di sorpresa le postazioni italiane. Fra queste vi erano inquadrati anche
reparti della locale Compagnia della Guardia di Finanza. Ne seguì uno scontro a fuoco,
durato circa cinque ore, al termine del quale i tedeschi furono costretti a reimbarcarsi ed a
prendere il largo, lasciando però a terra oltre un centinaio di morti e numerosi feriti.
Anche l’Italia meridionale, area dalla quale le truppe tedesche stavano ritirandosi, in
conseguenza degli sbarchi alleati di Salerno e Taranto, pagò a duro prezzo il
“rovesciamento delle alleanze”. Fu proprio qui che i nazisti, durante la marcia che li
avrebbe condotti verso Nord, diedero inizio ad una lunga sequela di atti di sabotaggio, a
quel punto finalizzati ad ottenere il maggior ritardo dell'avanzata nemica.
A Bari, ad esempio, la mattina dello stesso 9 settembre, un reparto germanico entrò a
sorpresa nel porto, occupandovi alcuni edifici, che avrebbero voluto utilizzare, come base
di partenza, per l'azione di gruppi di guastatori che avevano, quale obiettivo principale,
quello di far saltare le banchine e le navi ivi ormeggiate. Le “Fiamme Gialle” che in quel
momento si trovavano colà di servizio, senza alcuna esitazione, aprirono il fuoco,
chiedendo nel contempo l’immediato rinforzo. Da una caserma, prossima alle strutture
portuali, fu inviato un nucleo di finanzieri, ai quali si aggiunsero ben presto i soldati del
9° Reggimento Genio ed alcuni marinai. Ne nacquero duri combattimenti, i quali,
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protrattisi fino a tarda serata, ebbero, quale risultato finale, la salvezza del porto e la resa
da parte degli stessi occupanti.
Altro episodio degno di nota fu quello verificatosi a Matera il 21 settembre, laddove una
colonna di tedeschi si diede al saccheggio dei negozi. L’intervento fulmineo dei
finanzieri del locale Comando Compagnia, innescò i primi scontri a fuoco, che ben presto
interessarono gran parte della città. Inizialmente respinti, i tedeschi ritornarono in forze,
anche con l’ausilio di armi pesanti, circondando immediatamente la caserma della
Guardia di Finanza. All’imbrunire, non riuscendo a vincere la resistenza dei nostri
militari, gli stessi uomini preferirono abbandonare la città, dopo aver recuperato caduti e
feriti.
Nelle regioni dell'Italia centro-settentrionale, i Comandi del Corpo rimasero ai loro posti,
attenendosi scrupolosamente alle direttive impartite con la citata circolare del 28 agosto.
In gran parte di tale area geografica, dopo l’inutile attesa di precisi ordini da parte delle
Autorità Centrali e dagli stessi Comandi Militari Territoriali, le autorità di polizia si
accordarono fra loro al fine di adottare “misure comuni”, comunque idonee al
mantenimento dell'ordine e della sicurezza pubblica.
Da questo punto di vista, la Regia Guardia di Finanza poté contare sul fatto che I
tedeschi, che inizialmente si erano presentati nelle caserme del Corpo per impadronirsi
delle armi, riconobbero le “qualifiche di polizia” rivestite dagli appartenenti
all’Istituzione, elemento questo che favorì il mantenimento della compagine territoriale
che, di lì a poco, molti vantaggi avrebbe procurato alla Resistenza. I militari del Corpo
ebbero così modo di continuare il proprio servizio d’istituto, assicurando, in quel
delicatissimo momento storico, sia la vigilanza degli edifici pubblici, che la salvaguardia
delle fabbriche e degli impianti loro assegnati, elemento questo importantissimo, specie
per gli innumerevoli vantaggi che apportò nella cosiddetta “fase della ricostruzione”.
Nella vasta area che comprende il confine italo-svizzero, i finanzieri rimasti in servizio si
adoperarono, con grande umanità, per agevolare l'espatrio dei militari italiani, dei
prigionieri di guerra alleati evasi dai campi di concentramento, ma soprattutto degli ebrei,
già scampati miracolosamente dall’Europa dell’Est e dalla stessa Penisola. In tale ambito,
non si può fare a meno di ricordare l’opera meritoria svolta il 12 settembre ’43 dall’allora
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Capitano Leonardo Marinelli, Comandante della Compagnia di Madonna di Tirano, che
personalmente guidò i suoi dipendenti nella disperata corsa contro il tempo pur di salvare
il maggior numero possibile di sventurati.
Numerosi furono, invece, gli scontri che si registrarono lungo il cosiddetto “confine
orientale”, laddove i reparti del Corpo, che avevano immediatamente reagito alle
intimazioni di disarmo rivoltegli dalle unità germaniche, entrate in Italia dopo il proclama
di Badoglio, furono sopraffatte, nonostante gli eroici tentativi di resistenza.
Decisamente drammatica fu, poi, la sorte toccata ai battaglioni di Finanza dislocati oltre
confine, i quali, alla stregua di quanto avvenne per le unità del Regio Esercito, fra le quali
erano inquadrati, furono colti di sorpresa dagli avvenimenti, tanto che gran parte del loro
personale fu catturato ed avviato nei campi di concentramento.
Fra i battaglioni dislocati in Francia (due), quello di stanza a Nizza, data la vicinanza al
confine italiano, riuscì ad attraversare la frontiera il giorno 9 settembre, circa un'ora
prima che i tedeschi interrompessero il traffico a Mentone. Del battaglione di stanza ad
Annemasse (Alta Savoia), un solo plotone riuscì a scampare, ritornando in Italia, mentre
il resto della forza o riuscì a passare in Svizzera (si trattò di poche unità), ove fu
internato, oppure, nella peggiore delle ipotesi, fu catturato ed internato dai tedeschi.
Una buona parte dei battaglioni che, alla data dell’8 settembre 1943, si trovavano
dislocati nella provincia di Lubiana, dopo alterne vicissitudini, riuscì a rientrare in Patria.
Si trattò comunque di un rientro non certamente facile, se consideriamo che molti dei
reparti dipendenti, che provenivano da varie località e che si sarebbero dovuti
ricongiungere a Trieste, durante la già faticosa marcia di avvicinamento dovettero
sostenere non pochi scontri
con i partigiani sloveni, i quali, approfittando della
situazione venutasi a creare, miravano ad impadronirsi delle loro armi.
In altre aree dei Balcani (comprendendovi anche le isole), le sorti dei nostri reparti furono
le stesse di quelle delle Grandi Unità del Regio Esercito,
dalle quali ovviamente
dipendevano. Nei casi in cui fu impartito l'ordine di resistere ai tedeschi, le “Fiamme
Gialle” combatterono, con pari valore e dignità, al fianco dei soldati, subendo, per questo,
gravissime perdite. In altre circostanze, laddove lo sbandamento dei reparti militari fu
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completo, i finanzieri furono costretti a cedere le armi e, di conseguenza, furono catturati
dai tedeschi.
Altri militari del Corpo riuscirono ad evitare la cattura. Molti di essi si unirono
immediatamente ai movimenti di resistenza locali, mentre altrettanti entrarono a far parte
delle formazioni del nostro Esercito, a seguito delle quali condussero una lotta senza
quartiere contro un nemico agguerrito, ben armato, ma soprattutto desideroso di
vendicarsi nei riguardi del suo ex alleato.
Per fortuna, molto diversa fu la sorte toccata al “Naviglio della Guardia di Finanza” ed al
suo personale, il quale, secondo i piani di mobilitazione, era passato, il fatidico 10
giugno 1940, alle dipendenze della Regia Marina, e ciò con equipaggi integralmente
composti da finanzieri del contingente di mare.
Con la proclamazione dell’armistizio, le superstiti unità del Naviglio (la flotta dei
finanzieri aveva, in realtà, subito gravissime perdite durante la guerra), dislocate sia in
Italia che oltre confine, in parte si auto affondarono, poiché in procinto di essere catturate
dai tedeschi (cosa che avvenne nei porti di Imperia, Livorno, Trieste, Fiume e Napoli),
altre, invece, affondarono nel corso dei bombardamenti della Luftwaffe. Altre unità, tra le
quali quelle dislocate in Dalmazia, Albania, Grecia e Rodi, riuscirono appena in tempo a
salpare, spesso unendosi ad altri convogli, raggiungendo così i porti dell'Italia liberata. In
tali circostanze - è doveroso ricordarlo - molti furono i militari sbandati (sia del Corpo
che di altre Forze Armate) che vi presero imbarco, avendo così salva la vita.
In tale ambito non si può fare a meno di ricordare la vicenda della Pirovedetta
"Postiglioni", la quale, salpando da Rodi l’11 settembre, approdò in Medioriente,
venendo così impiegata, agli ordini della Marina Reale inglese, in delicatissime missioni
di guerra.
Prima di passare all’analisi del contributo offerto dalla Guardia di Finanza durante la
Guerra di Liberazione, mi sia consentito fare un passo indietro, per poter ricordare due
eroici battaglioni del Corpo, che assieme ad altri reparti delle Forze Armate furono colti
di sorpresa dalla firma dell'armistizio mentre si trovavano nei Balcani. Mi riferisco al I
battaglione, che seguì la tragica sorte della Divisione "Acqui" a Cefalonia ed a Corfù, ed
al VI battaglione, il quale, rinforzato da elementi del XV, operò, nell’ambito della
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gloriosa Divisione "Venezia", contro i tedeschi in Montenegro. I due reparti meritarono
rispettivamente la Medaglia d'Oro e la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, appuntate
sulla Bandiera di Guerra della Guardia di Finanza, com’è stato recentemente rievocato, in
occasione della ricorrenza del sessantesimo anniversario dell’8 settembre.
2. LA GUARDIA DI FINANZA NELL’ITALIA CENTRO-SETTENTRIONALE
I lineamenti del regime d'occupazione del territorio italiano erano stati definiti da un
"Ordine del Fuhrer” emanato il 10 settembre 1943, con il quale venivano previste tre
diverse situazioni territoriali:
•
due "zone operative speciali", il "Litorale Adriatico" (province di Lubiana, Fiume,
Trieste, Gorizia, Pola ed Udine) ed il "Voralpenland" (province di Bolzano, Trento e
Belluno) che, in vista di una futura annessione al Reich furono poste sotto il controllo
dei Gauleiter della Carinzia e del Tirolo; in esse continuarono ad operare funzionari
amministrativi italiani, affiancati però da "consiglieri" tedeschi;
•
il rimanente territorio del regno, definito inizialmente come "territorio occupato" e
poi, dalla fine di settembre, riconosciuto come soggetto alla sovranità della repubblica
sociale italiana.
Nell'ultima delle situazioni ora citate, comprendente la maggior parte dell'Italia a nord
della linea di contatto con le forze alleate - che soltanto a metà ottobre si stabilizzò sulla
linea "Gustav", tra Formia ed Ortona - si intrecciava l'attività di tre diversi ordini di
autorità - l'amministrazione militare, la rappresentanza diplomatica presso la R.S.I., il
comando delle SS e della polizia - che per tutta la durata dell'occupazione interferirono
reciprocamente, tra continui attriti, malgrado i tentativi di indirizzo unitario svolti da
Rudolf Rahn, ambasciatore presso il governo di Salò e quindi rappresentante di Berlino
in Italia.
In realtà, ciascuno di tali soggetti rappresentava la proiezione, nel Paese occupato, di
altrettanti centri di potere del sistema nazista, tutt'altro che omogeneo, e tenuto insieme
soprattutto dalla personalità carismatica del Fuhrer. Ed anche i gruppi di gerarchi
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fascisti che, nella seconda metà di settembre, costituirono la repubblica sociale non
tardarono a cercare ciascuno il proprio referente nella struttura della potenza occupante.
L'estrema complessità della situazione ebbe modo di manifestarsi sin dai primi passi del
governo fascista repubblicano, quando si dovette affrontare il problema dell'assetto da
dare alle forze armate, premessa ovviamente necessaria per la ripresa della lotta a fianco
dei tedeschi, che costituiva la ragion d'essere del nuovo regime.
Il contrasto era tra la concezione dell'esercito come milizia politica, a base
rigorosamente volontaria, sostenuta dal luogotenente generale della milizia Renato
Ricci, e quella patrocinata dal ministro della difesa nazionale, il maresciallo Graziani,
che individuava nelle forze armate il luogo di realizzazione dell'unità nazionale contro
l'invasore straniero, con i caratteri tradizionali dell'assoluta apoliticità e della
coscrizione obbligatoria.
La seconda tesi ebbe il sopravvento, e l"Esercito Nazionale Repubblicano", costituito
con decreto del duce 27 ottobre 1943, non presentò in realtà novità radicali rispetto
all'esercito regio, che con lo stesso provvedimento fu disciolto.
L'articolo 5 del decreto si occupava delle forze di polizia ad ordinamento militare,
stabilendo che: "restano in servizio per il mantenimento dell'ordine i Carabinieri e la
Guardia di finanza". Pochi giorni dopo un'altro provvedimento attribuiva agli
appartenenti ai due organismi "per il corso della guerra", lo stesso trattamento economico
previsto per i membri delle forze armate.In sostanza, il governo della R.S.I. sembrava
ipotizzare la sopravvivenza delle forze armate di polizia nella forma precedente
l'armistizio, sopprimendo ovviamente gli attributi riferiti all'istituto monarchico e
stabilendo con gli appartenenti all'esercito, alla marina e all'aeronautica un'equiparazione
esplicitamente correlata all'emergenza bellica, mentre veniva chiarita la destinazione
esclusiva delle stesse forze all'assolvimento dei compiti istituzionali di carattere interno.
Per la Guardia di finanza, del resto, il concetto era già stato espresso senza reticenze fin
dal 25 settembre dal nuovo ministro delle finanze, Domenico Pellegrini Giampietro, il
quale anche "considerato che nelle presenti circostanze l'opera della Guardia di finanza
ha carattere puramente d'istituto", annunciava di aver sostituito il comandante generale
9
Aymonino, dell'esercito, con il comandante in 2^, generale di divisione Francesco Poli,
ufficiale del Corpo.
Il tema dell'organizzazione delle forze di polizia - direttamente connesso a quello del
mantenimento dell'ordine pubblico, di rilevanza determinante a causa dello sviluppo del
movimento partigiano - non tardò tuttavia ad attrarre l'attenzione della corrente che
faceva capo al luogotenente generale Ricci, momentaneamente sconfitta sul terreno
dell'ordinamento dell'esercito.
Prese quindi consistenza un disegno di unificazione delle stesse forze, sfociato, l'8
dicembre 1943, nella costituzione della Guardia Nazionale Repubblicana, nella quale
confluirono quanto restava della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, l'Arma
dei Carabinieri (previa rigorosa selezione che avrebbe dovuto garantire l'affidabilità
politica dei singoli militari) e la Polizia dell'Africa Italiana (P.A.I.).
Ricci, nominato comandante generale con il rango di ministro di Stato, diventava di fatto
il responsabile unico della sicurezza interna.
La G.N.R. ebbe vita travagliata. La Polizia dell'Africa Italiana - presente con circa
duemila uomini soltanto a Roma, dove avevano sede i suoi istituti di istruzione - riuscì ad
evitare l'incorporamento, anche grazie all'opposizione del comando tedesco della capitale.
Il potente ministro degli interni, Buffarini Guidi, si guardò bene dal rinunciare
all'apparato investigativo che tradizionalmente faceva capo al suo dicastero, e che anzi fu
potenziato, ed ebbe reparti in uniforme e bene armati.
Nell'agosto 1944, infine, lo stesso vertice della Guardia fu decapitato, Ricci fu allontanato
dal potere, e la carica di comandante generale fu assunta da Mussolini medesimo, mentre
la G.N.R. veniva privata della qualifica di polizia giudiziaria ed integrata nell'esercito
repubblicano.
In un simile contesto, il ministro Pellegrini riuscì a sostenere la tesi della sopravvivenza
nella Guardia di finanza come organismo autonomo, evitandone l'integrazione della
G.N.R. e l'impiego in compiti diversi da quelli tradizionali di polizia tributaria ed
economica.
Privi praticamente di consistenza i primi, per il collasso generale dell'apparato tributario,
il Corpo trovò spazio nell'area dei controlli imposti dall'economia di guerra, riuscendo a
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sopravvivere senza farsi coinvolgere, salvo un limitatissimo numero di casi sporadici,
nella repressione della guerriglia partigiana.
I tedeschi, nella persona del generale Leyers, rappresentante in Italia del ministro degli
armamenti Speer, una delle figure di primo piano del sistema nazista, non tollerarono
interferenze nel settore dell'industria bellica, che preferirono gestire direttamente, in
accordo con gli imprenditori italiani.
Fu così smantellata la struttura che aveva assicurato il controllo del settore prima
dell'armistizio, a cominciare dal ministero della produzione bellica, soppresso da un
decreto del duce del 2 febbraio 1944. E naturalmente seguì la stessa sorte il comando
della Guardia di finanza istituito nell'ambito del ministero, da cui dipendevano i dodici
nuclei " Fabriguerra" operanti nel Paese.
Grande importanza assunse invece l'altra branca dell'apparato di controllo dell'economia
di guerra, quella concernente la vigilanza sui prezzi e sulla produzione e distribuzione dei
beni destinati ai consumi della popolazione civile.
Soprattutto per le pressioni esercitate da parte germanica, si ebbe in primo tempo
l'istituzione di un'autorità responsabile del settore, un "Commissario nazionale dei
prezzi", sovraordinato, tra l'altro, ad uffici provinciali, cui avrebbero dovuto far capo le
squadre di vigilanza annonaria già esistenti presso i comandi della Guardia di finanza e le
questure.
Il secondo passo fu la realizzazione dell'apparato di vigilanza, mediante l'istituzione, con
il D.L. 11 aprile 1944, nr. 114. della "Polizia economica", composta da contingenti della
Guardia di finanza e della polizia repubblicana, con il compito di accertare, reprimere e
denunciare i reati "attinenti alle discipline economiche della produzione, del reperimento,
degli ammassi, della lavorazione e della distribuzione dei prodotti, del tesseramento e del
razionamento, dei consumi e dei prezzi".
Il nuovo organismo avrebbe dovuto avvalersi di 4.500 finanzieri e di 500 agenti di
polizia, ripartiti in nuclei provinciali, con un comando centrale alle dirette dipendenze del
ministero degli interni, con sede a Crema, cui fu preposto il generale della Guardia di
finanza Angelo Pollina.
11
In effetti il contributo del Corpo non superò mai le 1380 unità, concesse a malincuore dal
comando generale, nel frattempo trasferito a Brescia, che avrebbe preferito l'attribuzione
diretta delle funzioni di polizia economica alla stessa Guardia, come era stato fino ad
allora.
E del resto questa fu la soluzione cui si tornò negli ultimi mesi del conflitto.
Per la Guardia di finanza, l'accentuazione dei compiti di polizia economica rappresentò
un insperato espediente per trasferire su un piano politicamente "neutrale" la
collaborazione che le circostanze rendevano inevitabile nei confronti della potenza
occupante e del governo di Salò, e che, in tali termini, diventava compatibile con le
norme della legge di guerra e con le disposizioni impartite dal governo legittimo prima
dell'armistizio. Quel che importav a , è evidente, era la sopravvivenza, evitando la sorte
toccata ai Carabinieri - peraltro continuamente minacciata - e senza cadere
nell'alternativa, il coinvolgimento nella repressione della guerriglia.
Una "spia" importante di questa strategia è del resto individuabile nel testo del
provvedimento con il quale la denominazione del Corpo fu variata in "Guardia
repubblicana di finanza" (D.L. 29 giugno 1944, nr. 699).
Nell'accennare al mantenimento di rapporti diretti tra il comandante generale del Corpo
ed una serie di autorità, tra cui il ministro degli interni, il riferimento ai "servizi di ordine
pubblico" è integrato dalla precisazione "di natura economica", di cui non è difficile
cogliere il significato limitativo.
3. NEL “REGNO DEL SUD".
Nell'Italia meridionale la proclamazione dell'armistizio determinò una situazione di
collasso delle strutture militari e politico-amministrative non diversa da quella verificatasi
nel centro-nord.
Il governo militare del maresciallo Badoglio esercitava la propria autorità formalmente
sulle province di Bari, Brindisi, Lecce, Taranto, peraltro sotto la stretta sorveglianza di
una Commissione Alleata di Controllo, comprendente consulenti militari inglesi o
americani per ciascun settore dell'amministrazione.
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E la situazione non cambiò sostanzialmente dopo il 10 febbraio 1944, data in cui al
governo italiano fu restituita l'amministrazione di tutte le provincie meridionali ed
insulari, esclusa Napoli.
La crisi alimentare, determinata dal mancato funzionamento del sistema degli ammassi e
dalla paralisi dei trasporti, provocò la formazione di un mercato clandestino, alimentato
in gran parte dai traffici che si sviluppavano intorno ai depositi dell'intendenza militare
anglo-americana.Il fenomeno, com'è logico, fece esplodere un'inflazione senza
precedenti, anche a causa dell'immissione in circolazione di grosse quantità di cartamoneta da.parte delle autorità d'occupazione.
Nel sud quindi, esattamente come nelle province centro-settentrionali, la Guardia di
finanza fu impegnata quasi esclusivamente nell'assolvimento di compiti di polizia
economica, in stretta collaborazione con la "Military Police" alleata.
Ma non mancarono purtroppo, anche le occasioni di impiego per la repressione di
disordini e nella lotta contro il banditismo ed il contrabbando, soprattutto in Sicilia,
dove l'affermarsi del movimento separatista pose seri problemi di ordine pubblico.
Nell'ottobre 1943, appena il governo di Brindisi fu in grado di porre mano alla
ricostruzione delle strutture essenziali dell'amministrazione, fu costituito a Bari un
"Comando Superiore R. Guardia di finanza per l'Italia liberata", affidato al comandante
della legione, il colonnello Giovanni Acampora, l'ufficiale del Corpo più elevato in
grado presente al sud. In marzo il comando, assunto successivamente dal generale
dell'esercito Oreste Moricca, si trasferì a Salerno, al seguito del governo.
Tra i tanti problemi, presentava una certa urgenza l'inquadramento di alcune centinaia di
finanzieri che, dai reparti dislocati in Balcania, erano riusciti a raggiungere più o meno
fortunosamente la costa pugliese nei giorni successivi all'armistizio. Per tale scopo fu
costituito un battaglione speciale, in dicembre trasferito nella zona di Napoli ed adibito
a compiti di polizia militare, consistenti essenzialmente nella vigilanza a depositi e nella
scorta alle autocolonne alleate dirette al fronte.
Alla fine di maggio, approssimandosi la liberazione di Roma, il comando alleato
dispose la costituzione di un contingente di carabinieri e di finanzieri, destinati ad
organizzare i servizi di polizia nella Capitale. Il battaglione, assunta la denominazione
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di "R", fu così trasferito sulla testa di ponte di Anzio, ed entrò a Roma con le prime
avanguardie americane, il 5 giugno 1944.
Tuttavia, come vedremo, le autorità alleate ritennero di mantenere in servizio nella città
i finanzieri che vi avevano operato durante l'occupazione nazista, e che avevano
attivamente collaborato con la resistenza.
Il battaglione "R" fu quindi sciolto il 31 agosto. Alla marcia verso il nord, con la 5^
armata americana, partecipò però una "compagnia speciale AMG" della R. Guardia di
finanza, sempre con compiti di polizia militare.
4. LA RESISTENZA A ROMA.
La proclamazione dell'armistizio, seguita nel pomeriggio del 10 settembre dalla
capitolazione delle forze italiane che avevano tentato di difendere la città, determinò a
Roma una situazione estremamente complessa.
Il Comandante militare tedesco del sud-ovest, maresciallo Kesselring, peraltro in pieno
accordo con l'ambasciatore Rahn, era preoccupato soprattutto di evitare che la capitale
diventasse un pericoloso centro di attività di disturbo del fascio di comunicazioni che
collegava le retrovie della 10^ armata, schierata fronte a sud contro gli anglo-americani,
con le basi nell'Italia settentrionale e nel Reich. Ed al tempo stesso, occorreva esonerare
i comandi operativi della Wehrmacht dalla responsabilità del mantenimento dell'ordine
e del funzionamento dei servizi pubblici essenziali - in primo luogo i rifornimenti
alimentari - in un centro urbano che contava circa due milioni di abitanti.
I responsabili germanici cercarono quindi una soluzione che sostanzialmente
"neutralizzasse" Roma, sottraendola di fatto alla sovranità del governo collaborazionista
di Salò, ed evitando contemporaneamente di impiegare forze nell'occupazione diretta
della città.
Fu così deciso di confermare la dichiarazione di Roma quale "Città aperta" ai sensi della
convenzione dell'Afa, fatta il 14 agosto dal governo Badoglio, di vietare al governo
fascista repubblicano l'insediamento di propri organi nella Capitale, e di limitare lo
stanziamento di unità tedesche entro la cerchia urbana a piccoli distaccamenti a presidio
14
dell'ambasciata, della centrale telefonica e della sede dell'EIAR. La responsabilità
dell'ordine pubblico sarebbe stata affidata alle forze di polizia italiane, sotto il controllo
di un comandante militare tedesco, direttamente dipendente da Kesselring.
In pratica, dopo la disgregazione dell'apparato politico, militare ed amministrativo dello
Stato, la città doveva considerarsi affidata alle forze di polizia, le quali avrebbero dovuto
farsi carico sia della tutela fisica che del soddisfacimento delle esigenze vitali della
popolazione.
Fu creato un comando unico, retto in un primo tempo dal generale Maraffa, poi, dopo
l'arresto di questi, dal generale Umberto Presti, entrambi della P.A.I..
Il 15 settembre fu costituito un "Comando della Guardia di finanza per il servizio di
polizia nella Città aperta di Roma", dipendente dal comando unico, a capo del quale fu
designato il generale Filippo Crimi, comandante della zona di Napoli e casualmente
presente nella Capitale. Nello stesso giorno furono diramate le "Istruzioni generali di
servizio per la Guardia di finanza", che confermavano sostanzialmente le direttive già
impartite il 28 agosto: restare ai propri posti, continuare ad assolvere i compiti d'istituto,
nell'interesse della popolazione civile.
Il comando di Crimi poteva contare sui reparti della 9^ legione territoriale e sulla legione
allievi, per un totale di circa duemila uomini. A metà ottobre fu disposto un arruolamento
di "finanzieri ausiliari": un espediente valido per fornire copertura ad ufficiali e
sottufficiali delle forze armate regie, a renitenti alla leva ed addirittura ad attivisti di
partiti politici, ai quali fu così offerta la possibilità di sottrarsi al servizio del lavoro
tedesco o all'incorporazione nelle formazioni repubblicane.
Anche a Roma, l'impiego pressoché esclusivo fu nel settore della polizia economica. Un
"ufficio servizi protezione alimentazione" ebbe alle dipendenze un "reparto scorte"
incaricato di proteggere le autocolonne mediante le quali si cercava di far giungere in
città i rifornimenti indispensabili, ed un "nucleo annonario", cui erano affidate le indagini
in materia di violazioni alle norme sul razionamento e sulla disciplina dei prezzi.
Una catena di posti di blocco sulle vie consolari, presso i mercati generali, lo scalo
ferroviario di S. Lorenzo ed alcuni impianti industriali, provvedeva ai servizi di controllo
per la repressione del mercato nero.
15
Il tentativo di utilizzare i reparti della Guardia di finanza per l'esecuzione di compiti di
altro genere fu abbandonato dopo un unico episodio, una retata nella zona tra via
Nazionale e via XX Settembre, in occasione della quale i finanzieri e gli ufficiali che li
comandavano si dimostrarono tanfo chiaramente non disposti a collaborare da sollevare
le rimostranze del comando tedesco.
I rapporti tra occupanti e forze di polizia in Roma erano del resto usciti dall'equivoco
dopo la deportazione in massa dei carabinieri, eseguita di sorpresa il mattino del 7
ottobre, ed il passaggio in clandestinità di coloro che erano riusciti a sfuggire alla cattura.
Da allora i finanzieri vissero nella convinzione di dover subire, prima o poi, la stessa
sorte, e pur nella preoccupazione per la sopravvivenza quotidiana, si orientarono
praticamente senza eccezioni a favore della Resistenza.
Il 21 ottobre, con una riunione in casa del generale Crimi venne costituita
l'organizzazione clandestina della Guardia di finanza a Roma. Erano presenti il tenente
colonnello Lionti, già comandante della scuola sottufficiali, il maggiore Tani, che dopo
aver ricondotto in Patria dalla Slovenia il IX battaglione mobilitato aveva assunto il
comando del II battaglione allievi finanzieri, il maggiore Cimmino, comandante del
nucleo annonario, ed i capitani Argenziano e Montalto. Intorno a loro si raccolsero in
breve tempo quasi tutti gli ufficiali e gran parte dei sottufficiali e dei finanzieri presenti a
Roma.
A metà dicembre l'organizzazione fu formalmente integrata nel fronte clandestino
militare del colonnello Montezemolo.
Essa comprendeva due centri raccolta notizie, un centro logistico ed un centro di
controspionaggio.
Furono anche assicurati i collegamenti con l'organizzazione clandestina dei Carabinieri
facente capo al generale Caruso, e quelli con il Comitato di Liberazione, nella persona
del prof. Bauer.
Altri militari del Corpo si inserirono nelle organizzazioni clandestine a carattere politico.
Il tenente Pietro Spaccamonti, dopo aver tentato di passare il fronte presso Cassino, entrò
nell'organizzazione militare del partito socialista diretta da Giacomo Andreoni, per conto
della quale costituì nuclei partigiani nella zona di Acilia ed alla Magliana, ed una rete
16
informativa sul litorale laziale,mediante la quale entrò in contatto con l'OSS statunitense.
L'ufficiale eseguì anche missioni presso le formazioni partigiane operanti in Abruzzo e,
nell'imminenza della liberazione, ebbe il comando di una delle zone in cui era stata
suddivisa la città, nella quale agivano i nuclei di patrioti costituiti presso il ministero dei
lavori pubblici, l'azienda tranviaria ed i quartieri Italia e Macao.
La relativa libertà di movimento di cui fruivano i finanzieri consentì loro di svolgere un
lavoro informativo di notevole consistenza.
Furono eseguite ricognizioni in prossimità degli aeroporti e delle installazioni di difesa
contraerea e costiera e, dopo lo sbarco anglo-americano ad Anzio, nelle immediate
retrovie della testa di ponte. I posti di blocco sulle vie consolari consentirono un controllo
continuo del traffico tedesco, mentre fu possibile far giungere rifornimenti alle
formazioni partigiane dell'alto Lazio, dell'Umbria e dell'Abruzzo utilizzando le
autocolonne dell'azienda servizi annonari della Capitale; gli stessi automezzi servirono,
anche per trasferire dirigenti delle organizzazioni, prigionieri di guerra evasi, membri di
missioni di collegamento. Alcune di tali missioni, implicanti contatti con le formazioni
partigiane del nord, furono affidate direttamente ad ufficiali della Guardia di finanza,
sfruttando appunto la loro possibilità di spostamento con adeguata "copertura".
Un grosso rischio fu corso quando i tedeschi si resero conto che il deposito di armi e
munizioni ritirate ai reparti italiani dopo la capitolazione, costituito nel forte Prenestino
ed affidato alla custodia della Guardia di finanza, era in realtà divenuto un centro di
rifornimento per i partigiani.
Il 3 aprile 1944 le SS circondarono il forte e perquisirono il corpo di guardia; il finanziere
Marcello Guarcino, trovato in possesso di munizioni, fu portato in via Tasso e sottoposto
a torture, ma non rivelò elementi compromettenti per l'organizzazione.
Non furono comunque scrupoli formali a far sì che i tedeschi non traducessero in atto la
minaccia di deportare in massa i finanzieri romani. In realtà il generale Màltzer,
comandante della piazza, temeva di veder ridotta la consistenza delle forze di polizia al di
sotto del livello che consentiva di evitare l'impiego in città di truppe germaniche. Tra il
febbraio ed il marzo del 1944 il serio ostacolo costituito dall'ordine di far prestare anche
ai finanzieri il giuramento di fedeltà alla repubblica sociale fu aggirato dal generale
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Crimi, il quale ottenne al riguardo una formale autorizzazione sia dal dirigente della
resistenza militare che dal rappresentante a Roma del governo di Brindisi, generali
Bencivenga ed Armellini, in vista della necessità di mantenere integra l'organizzazione
del Corpo nella Capitale.
Fu invece opposto un deciso rifiuto alla sostituzione delle "stellette" militari con il nuovo
simbolo delle forze armate repubblicane, il gladio inscritto in una corona d'alloro.
Si verificò così una serie di incidenti tra militari della Guardia di finanza ed appartenenti
alle formazioni della R.S.I., dopo uno dei quali, il 4 maggio, fu addirittura eseguito un
rastrellamento nella zona tra piazza di Spagna e piazza del Popolo, al termine del quale
furono fermati dieci paracadutisti della "Nembo" con un ufficiale, denunziato al tribunale
militare.
L'argomento costituì anche oggetto, il 22 maggio, di uno scontro verbale tra il generale
Crimi ed il maresciallo Graziani, ricordato da quest'ultimo nelle sue memorie. Alla fine di
gennaio, quando lo sbarco alleato aveva fatto ritenere imminente la liberazione della città,
si studiarono le misure che avrebbero dovuto consentire ai finanzieri di opporsi ad un
eventuale tentativo di disarmo o anche di deportazione, che i tedeschi avrebbero potuto
porre in atto al momento della ritirata.
Fu così prèvisto il concentramento del personale in alcune caserme più adatte alla difesa,
nelle quali furono accantonate scorte di viveri e di munizioni.
Il comando militare clandestino chiese anche di predisporre l'occupazione dei
commissariati di pubblica sicurezza, e l'assunzione della responsabilità del mantenimento
dell'ordine pubblico al momento del trapasso dei poteri. Un’organizzazione
commissariati" entrò in funzione nel pomeriggio del 4 giugno. In quelle stesse ore, il
generale Crimi ricevette anche l'ordine di provvedere alla protezione della sede del
Comitato di Liberazione Nazionale, in piazza di Spagna, del ministero della guerra è del
Campidoglio, dove aveva sede il governatorato di Roma. Pattuglie al comando di
ufficiali furono inviate incontro alle avanguardie americane, e fu organizzata la difesa
dei ponti sul Tevere.
Nelle ore che precedettero l'ingresso degli alleati nella Capitale, furono respinti due
attacchi alla caserma di viale XXI Aprile, condotti da nuclei di paracadutisti che
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intendevano requisire gli automezzi; nel combattimento cadde il finanziere Antonio
Sciuto. Altri scontri si verificarono al ministero della guerra ed a ponte Sublicio, dove fu
messo in fuga un nucleo di guastatori.
Il comandante del plotone posto a difesa del Campidoglio, sottotenente Giorgio
Barbarisi, ottenne dal colonnello Pollock, designato governatore della città, di far alzare
il tricolore insieme alle bandiere alleate; poche ore dopo, il giovane ufficiale doveva
cadere per mano di un esponente della resistenza, vittima di un tragico equivoco.
5. L’ESTATE DEL 1944.
Alla liberazione di Roma seguì lo spostamento verso nord della linea di contatto tra le
forze tedesche e quelle alleate, tanto rapido da determinare in molti la speranza che
l'estate 1944 fosse destinata a vedere l'epilogo del conflitto. Nell'inverno e nella
primavera precedenti le bande partigiane nell'Italia centrale avevano assunto
consistenza, pur senza raggiungere i livelli di organizzazione conseguiti, nei mesi
successivi, dalle analoghe formazioni operanti nel nord.
Numerosi finanzieri avevano partecipato direttamente sia alle azioni di guerriglia che al
lavoro organizzativo, informativo, di collegamento e di supporto logistico.
Si erano distinti, ad esempio, il brigadiere Salvatore Micari ed i finanzieri Rasteli,
Ezzis, Reginella, Evangelisti, Pulone, operanti nella zona del parco nazionale d'Abruzzo
e nel teramano, il finanziere Damaso Di Loreto, fucilato in provincia dell'Aquila, gli
allievi ufficiali Enzo Climinti e Francesco Patrizi, partigiani nella zona di Spoleto, il
maresciallo maggiore Settimio Formica, membro del C.L.N. di Fabriano, il finanziere
Minicucci e l'allievo finanziere Cicalè, fucilati in aprile dopo esser stati catturati con le
armi in pugno.
Nelle retrovie del fronte abruzzese il tenente Livio Rivosecchi aveva svolto un importante
lavoro di organizzazione di formazioni dirette a raccogliere ed a riportare alla lotta
militari sbandati; riuscì anche a realizzare una rete clandestina per il recupero ed il
trasferimento oltre le linee di prigionieri alleati evasi e, attraversando il fronte numerose
volte, svolse un'intensa attività di informazione e di collegamento, comprendente anche
19
alcune missioni in Lombardia ed in Piemonte per conto dell'organizzazione militare del
C.L.N..
Un'autentica figura di eroe era stata quella del sottotenente Gian Maria Paolini. Già
dell'XI battaglione dislocato in Dalmazia, in settembre era riuscito a raggiungere la costa
marchigiana con una diecina dei suoi finanzieri e nella zona di S. Benedetto del Tronto,
appoggiandosi alla brigata Guardia di finanza e coadiuvato dall'aiutante di battaglia
Pietro Iovine e dal finanziere Antonio Magro, aveva raccolto intorno a sé numerosi
militari provenienti in gran parte dalla Dalmazia, che aveva provveduto a riarmare anche
recuperando le mitragliere installate sui pescherecci già adibiti al dragaggio e rimasti
incustoditi nel porto.
Già in settembre la piccola formazione fece il suo esordio, attaccando un treno tedesco
alla stazione ferroviaria di S. Benedetto, dopo che si erano verificati incidenti tra militari
germanici e popolazione civile. Costretto a darsi alla montagna, Paolini svolse per tutto
l'inverno un'intensa attività di guerriglia nell'entroterra ascolano, disarmando presidi della
G.N.R., impadronendosi di depositi di grano il cui contenuto veniva poi distribuito alla
popolazione civile, attaccando autocolonne tedesche in movimento.
A metà marzo, decise azioni di rastrellamento provocarono la disgregazione della "banda
Paolini" e la cattura di molti dei suoi componenti, tra i quali l'aiutante Iovine. L'ufficiale,
assieme al sottotenente degli alpini Berton e ad un terzo partigiano, si diresse in auto
verso il nord, probabilmente per prendere contatto con le formazioni partigiane
piemontesi (era torinese), ma presso Arezzo venne arrestato dalla G.N.R. e rinchiuso nel
carcere di Montevarchi, dove per circa un mese riuscì a tener celata la propria identità,
facendosi passare per un ufficiale sbandato. Per motivi che non furono mai chiariti, i tre
arrestati furono trasferiti improvvisamente a S. Giovanni Valdarno, dove il 24 aprile 1944
furono fucilati senza processo, malgrado gli interventi in favore dell'ufficiale da parte del
comando generale di Brescia e del comandante della legione di Trieste, che lo aveva in
forza. Immediatamente prima dell'esecuzione, il tenente Paolini chiese di parlare con il
comandante della brigata Guardia di finanza di S. Giovanni Valdarno, e lo informò
circa l'attività partigiana svolta.
20
A Firenze, avendo il generale Conti, comandante della zona all'8 settembre, rifiutato di
prestare giuramento alla R.S.I., il comando della Guardia di finanza rimase affidato al
comandante della legione, colonnello Amoretti, il quale in primavera prese contatto con
esponenti del comitato toscano di liberazione nazionale, tramite il capitano Cardillo,
comandante del nucleo Fabriguerra e poi del nucleo di polizia economica, e dei tenenti
Remedi e Sacchetti, del comando legione.
Sempre nel capoluogo toscano, fin dal febbraio si era inserito nel movimento di
resistenza il tenente Angiolo Gracci, già comandante del plotone di Berat, assunto in
forza dal comando di legione dopo essere stato colto dall' 8 settembre mentre si trovava
in licenza in famiglia. Il 6 giugno Gracci passò ai partigiani e, nel giro di appena un
mese, divenne prima capo di stato maggiore e poi comandante della 22^ brigata
garibaldina "Senigaglia". La formazione, forte di circa duecento uomini ed inquadrata
nella divisione partigiana "Arno" del comandante "Potente" (tenente Aligi Barducci già
del 10° reggimento arditi), fu guidata dal tenente Gracci dalle alture del Pratomagno
fino a sud dell'Arno e poi nei giorni della battaglia per la liberazione di Firenze; fu il
primo reparto a forzare il fiume l'11 agosto ed a stabilire una testa di ponte che consentì
poi l'occupazione del centro cittadino da parte delle altre formazioni partigiane e delle
avanguardie canadesi.
L'avanzata alleata provocò il crollo delle strutture della R.S.I. nell'Italia centrale ed il
ripiegamento oltre la linea del Po delle autorità politiche e delle formazioni militari e
paramilitari. Ovunque i comandi della Guardia di finanza rifiutarono di eseguire l'ordine
di ritirata e rimasero in posto, facendo il possibile per assicurare il mantenimento
dell'ordine pubblico e la tutela della popolazione in attesa delle truppe alleate. A Chieti, il
comandante di compagnia, in accordo con il C.L.N. locale, assicurò il pattugliamento del
centro cittadino ed inviò emissari incontro alle avanguardie del Corpo Italiano di
Liberazione.
Ad Ancona il capitano Barrecchia attraversò più volte il fronte per fornire notizie alle
truppe polacche avanzanti. A Perugia il capitano Patrassi attaccò con un nucleo di
finanzieri un drappello di guastatori tedeschi sorpresi mentre stavano minando un
cavalcavia ferroviario. Ad Arezzo il capitano Rosito passò ai partigiani con l'intero
21
reparto, fornendo armi, munizioni e materiali di equipaggiamento. Alla fine di luglio
Firenze, evacuata dalle autorità repubblicane, rimase praticamente abbandonata a se
stessa, nella drammatica condizione di immediata retrovia del fronte che si andava
attestando lungo il corso dell'Arno. Il gen. Conti riprese di propria iniziativa il comando
il 31 luglio e, d'intesa con il comando militare del C.T.L.N., fece assumere dai
finanzieri il compito di proteggere i magazzini dell'annona, dai quali dipendeva
l'alimentazione della città.
I militari della Guardia si trovarono quindi in prima linea allorchè, tra l'11 ed il 13
agosto, la lotta divampò casa per casa, ed i partigiani insieme ad esigue avanguardie
alleate si trovarono a dover fronteggiare la ripresa offensiva tedesca, mirante a
consentire lo sganciamento dei reparti rimasti nel centro cittadino. Furono difesi dai
finanzieri il molino Biondi, uno dei capisaldi delle linea difensiva che correva lungo il
torrente Mugnone, dove fu ferito il finanziere Aldo Cavallini; l'oleificio Carapelli; il
deposito costituito nell'edificio del "parterre" di piazza Costanzo Ciano. In quest'ultima
posizione, conquistata dai paracadutisti germanici il mattino dell'11 dopo una lotta
violentissima, cadde l'appuntato Agostino Palmieri e fu ferito gravemente il
sottobrigadiere Vittorio Chierroni, campione del gruppo sciatori di Predazzo.
Usciti definitivamente i tedeschi da Firenze, la lotta proseguì nella Toscana
settentrionale fino alla stabilizzazione del fronte sulla linea gotica.
I finanzieri della compagnia di Lucca ebbero ancora modo di distinguersi nella difesa
delle porte di S. Anna Vecchia e di S. Anna Nuova, assunta da un reparto di formazione
costituito d'intesa con il C.L.N., il quale il mattino del 5 settembre fu anche sottoposto
al tiro di artiglieria; cadde l'appuntato Lamberti e fu ferito l'allievo finanziere Giuntoli.
Il giorno prima i finanzieri avevano dovuto fronteggiare un tentativo di saccheggio della
manifattura tabacchi e respingere una pattuglia tedesca incaricata di sabotare gli
impianti.
All'estremità occidentale di quella che .stava per diventare la "linea gotica" i
componenti della compagnia di Apuania furono obbligati a ripiegare su la Spezia
essendo stato ordinato lo sgombero totale della zona in vista dell'imminente
irrigidimento della difesa.
22
A custodire la caserma fu lasciato il maresciallo maggiore Vincenzo Giudice,
comandante della brigata di Carrara; fu trucidato nel tentativo di sottrarre alla morte.un
gruppo di ostaggi, tra i quali erano i suoi familiari, nel corso di un'azione di rappresaglia
condotta con particolare efferatezza il 16 settembre nella frazione di Bergiola Foscalina,
dalle SS del maggiore Reder.
Nello stesso giorno, sempre per rappresaglia, fu fucilato con altri ostaggi presso
Pietrasanta l'appuntato Francesco Fancello.
Tra i militari della compagnia di Apuania alcuni si unirono ai partigiani, come il
sottobrigadiere Antonio Pirisinu ed il finanziere Tito Arizio, altri passarono il fronte per
raggiungere l'Italia libera, come il maresciallo maggiore Francesco Rizzu, il brigadiere
Mazzeddu ed i finanzieri Bavieri, Minuto, Micheli e Colescek. Svolsero invece attività
cospirativa il maresciallo maggiore Barani nella zona di Pontremoli ed il brigadiere
Aladino Micheli in quella di Fivizzano. In quest'ultima località era stato fucilato il 7
settembre, con altri partigiani, il finanziere Rosario Arnone. Lo sfavorevole andamento
delle operazioni contro gli anglo-americani ed il dilagare del movimento di resistenza
stavano portando intanto a maturazione la profonda crisi dell'organizzazione delle forze
di polizia della R.S.I.. Il 30 giugno, per far fronte alle necessità della lotta antipartigiana,
era stata disposta la "militarizzazione" del partito fascista repubblicano e la costituzione
delle formazioni paramilitari delle "brigate nere". Il 14 agosto un "decreto del duce"
sanciva la fine dell'autonomia della Guardia Nazionale Repubblicana, che veniva
ricondotta nell'ambito dell'esercito mentre, defenestrato Renato Ricci, ne assumeva
direttamente il comando lo stesso Mussolini. La stessa G.N.R. veniva infine "epurata" di
quanto restava della componente proveniente dai Carabinieri. I tedeschi richiesero infatti
il trasferimento in Germania, per essere adibiti a compiti di difesa contraerea, di 10.000
uomini già appartenenti all'Arma; i rimanenti sarebbero stati ugualmente internati ed
avviati al servizio del lavoro. La deportazione in massa dei carabinieri - e la conseguente
altrettanto massiccia ondata di diserzioni, in gran parte con destinazione verso le
formazioni partigiane - ebbe sicuramente effetti immediati sul morale della Guardia
Repubblicana di Finanza, che in quegli stessi giorni veniva allontanata dal confine
svizzero e ripetutamente minacciata di scioglimento.
23
Si moltiplicarono quindi le defezioni ed i passaggi ai partigiani di interi reparti, così come
gli "attacchi" alle caserme isolate conclusisi con il disarmo dei finanzieri senza che
venisse sparato un colpo. In quasi tutte le località del Piemonte, della Lombardia e del
Veneto i comandanti della G.R.F. prendevano contatto con esponenti dei comitati di
liberazione nazionale, qualora ciò non fosse già avvenuto prima, per offrire
collaborazione e definire i compiti del Corpo nell'ipotesi di un insurrezione ritenuta ormai
prossima.
A Milano il comandante della legione, col. Malgeri, già in rapporti con il movimento
clandestino per il tramite di propri collaboratori, ricevette il 13 giugno da Nello Trotti,
rappresentante del C.L.N. lombardo, la proposta di organizzare la defezione in massa
dell'intera 3^ legione della guardia, circa cinquemila uomini dislocati nell'interno della
Lombardia ed in prossimità del confine svizzero ad est del Lago Maggiore.
La proposta era allettante, per il solo fatto di esser stata formulata.
Significava in pratica il riconoscimento ufficiale del Corpo da parte del movimento di
resistenza ed implicava il superamento di una posizione di ambiguità nei confronti
dell'occupante e del governo della R.S.I., che si andava facendo ogni giorno più
pericolosa.
Ma Malgeri non poteva nascondersi l'estrema difficoltà del tradurre in termini concreti
un progetto che avrebbe coinvolto migliaia di persone, molte delle quali relativamente
anziane e con carichi di famiglia, certo non tutte adatte, fisicamente e psicologicamente,
ad affrontare i disagi della guerriglia in montagna.
Il colonnello pose quindi due condizioni: che la richiesta di defezione gli venisse rivolta
formalmente dal comando generale del Corpo volontari della libertà, e che i finanzieri
fossero raccolti in un'unica formazione chiaramente identificabile come espressione del
Corpo. In realtà il comandante della legione di Milano - e lo ammette francamente nel
libro pubblicato dopo la liberazione - temeva che l'iniziativa si risolvesse in un disastro:
"gran lavoro per i plotoni di esecuzione ed internamento di gran parte dei nostri militari,
sorpresi dagli avvenimenti".
24
In definitiva, una perdita per il movimento di resistenza - privato di un importante
strumento
di
lotta
-
difficilmente
compensabile
con
l'effimero
vantaggio
propagandistico offerto dall'avvenimento.
Il progetto comunque andò avanti e prese consistenza. Si parlò di un trasferimento
collettivo dei finanzieri - o almeno di quanti si supponeva di riuscire a portare in
montagna - nella zona dell'Ossola, dove sarebbe stata costituita una formazione
autonoma, collegata a quella del comandante Superti.
Poi le trattative registrarono una pausa, determinata dal temporaneo allontanamento del
rappresentante del C.L.N., durante la quale comparve sulla scena milanese un
nuovopersonaggio, il tenente Augusto de Laurentiis. L'ufficiale, che durante
l'occupazione di Roma era entrato in contatto con l'organizzazione clandestina del partito
d'azione, dopo la liberazione della Capitale si era posto a disposizione della "Special
Force" dalla quale era stato paracadutato in Val Camonica con il generale Raffaele
Cadorna, destinato ad assumere il comando generale del Corpo volontari della libertà.
Il ten. de Laurentiis aveva ricevuto dal collega Rivosecchi, pure arruolato dalla "Special
Force", l'indicazione del capitano Fumarola come "contatto" affidabile nell'ambiente
della Guardia di finanza milanese, e quest'ultimo - diretto collaboratore del colonnello
Malgeri ed al corrente delle attività cospirative del suo superiore - non esitò a presentargli
l'emissario venuto dal sud.
A nome del comando generale del C.V.L., de Laurentiis riprese il disegno del
trasferimento in massa in montagna della legione di Milano, per il quale il cap. Fumarola
ebbe l'incarico di predisporre un progetto esecutivo, poi approvato dallo stesso comando
generale. Ma quando ormai sembrava che, malgrado le perplessità del colonnello
Malgeri, fosse venuto il momento di passare all'azione, la controffensiva nazifascista nei
confronti delle formazioni partigiane dell' Ossola fece tramontare, in ottobre, le premesse
dell'intera operazione.
Furono successivamente ripresi i contatti con gli emissari del C.L.N., fu considerata una
nuova ipotesi di trasferimento in montagna, questa volta in Valsassina, e tramite il Trotti,
furono ricercate intese con le formazioni garibaldine del comandante Moscatelli, operanti
in Val Sesia. Per il marcato orientamento politico di queste ultime, tale iniziativa provocò
25
divisioni all'interno del nucleo cospirativo esistente nel comando delle 3^ legione, alle
quali pose termine lo stesso gen. Cadorna, facendo pervenire l'ordine di accantonare il
progetto di defezione in massa, per tener pronta l'organizzazione della Guardia di
finanza a concorrere all'insurrezione, che lo sviluppo della situazione militare faceva
ritenere ormai prossima.
La fine dell'estate 1944 vide anche l'esperienza del "zone libere", nelle Langhe,
nell'Ossola ed in Carnia. La previsione di un imminente collasso delle forze germaniche
indusse infatti alcuni comandi partigiani a passare all'occupazione permanente di aree
territoriali, dove furono condotte esperienze di autogoverno e di vita politica
democratica,
rapidamente
troncate
dalla
repressione
dell'occupante
dopo
la
stabilizzazione del fronte sulla linea gotica. Nell' Ossola la Guardia di finanza era
presente con due compagnie, a Domodossola e a S. Maria Maggiore, comandate
rispettivamente dai capitani Vittorio Vienna e Leone Arcangioli, quest'ultimo fin dal
novembre membro attivo del C.L.N. locale.
Si trattava di reparti costituiti prevalentemente da personale anziano, quasi tutto
richiamato, poiché i giovani erano passati in Svizzera o erano entrati nelle formazioni
partigiane, dopo la crisi seguita in giugno al ritiro dei finanzieri dal confine ed al tentativo
di aggregarli ai distaccamenti della G.N.R.
In agosto erano stati arrestati tutti i componenti dei reparti della Val Formazza, ed i
comandanti della tenenza e della brigata di Baceno erano in attesa di processo a Novara,
con l'accusa di aver fornito aiuto ai partigiani.
Il comprensibile stato di demoralizzazione e le preoccupazioni familiari non impedirono
però il passaggio integrale delle due compagnie a disposizione della "Giunta provvisoria
di governo", costituita a Domodossola il 9 settembre, dopo l'ingresso delle formazioni
partigiane nella città, sgombrata poco prima dal presidio repubblicano e dai pochi
militari tedeschi presenti, sotto la minaccia di veder recisa la strada di fondovalle Toce,
unico collegamento con il resto del territorio occupato.
Nella notte sul 10 i finanzieri pagarono il primo tributo di sangue: una pattuglia posta a
guardia della sede del comando partigiano a S. Maria Maggiore fu attaccata di sorpresa,
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e rimase ucciso l'appuntato Paolo Arenare mentre il sottobrigadiere Teodoro Buttazzo
fu gravemente ferito.
Il 14 settembre la Giunta proclamò l'istituzione della guardia nazionale, affidandone il
comando al colonnello dell'esercito Attilio Moneta. Nelle intenzioni, avrebbe dovuto
essere l'unica forza di polizia nel territorio della minuscola repubblica ossolana (in
pratica, ogni formazione partigiana continuò ad avere invece un proprio servizio di
sicurezza) e comprendeva un reparto di "guardia doganale", denominazione poi mutata in
quella di "guardia finanziaria" per le insistenze del cap. Arcangioli, che ne fu nominato
comandante, alle dirette dipendenze del col. Moneta. Il reparto, nel quale furono
inquadrati tutti i finanzieri in servizio nell'Ossola, assolse il delicatissimo compito di
sovrintendere alla raccolta ed alla distribuzione delle risorse alimentari alla popolazione
civile, e ripristinò il servizio di vigilanza al confine svizzero, per fare osservare le
disposizioni valutarie emanate dal commissario alle finanze della giunta di governo, il
futuro ministro Malvestiti.
Ai primi di ottobre rientrò clandestinamente in valle anche il capitano Vienna, sorpreso
dagli avvenimenti a Novara, dove si trovava per l'inchiesta a carico dei componenti della
tenenza di Baceno.
La reazione nazifascista scattò esattamente un mese dopo l'ingresso dei partigiani in
Domodossola. Il 9 ottobre reparti repubblicani occuparono di sorpresa Cannobio e
cominciarono a risalire la valle verso le Bocche di Finero, prendendo alle spalle il grosso
dello schieramento partigiano in fondo Val Toce.
Il mattino del 12 il comandante della più consistente formazione partigiana, Alfredo Di
Dio, partì da Malesco con il colonnello Moneta ed un gruppo di ufficiali, tra i quali il
capitano Arcangioli, per portarsi alle Bocche allo scopo di riorganizzare la resistenza.
Le due autovetture sulle quali aveva preso posto il piccolo nucleo all'uscita della galleria
di Finero furono prese sotto il tiro dei repubblicani. Di Dio e Moneta furono subito uccisi,
gli altri risposero al fuoco e poi riuscirono a salvarsi gettandosi nella boscaglia.
Il capitano Arcangioli raggiunse i resti della sua compagnia a Bagni di Craveggia, dove
andavano concentrandosi i partigiani in ripiegamento dalla Val Cannobina.
27
Intanto anche le formazioni schierate in Val Toce cominciarono a cedere. Il 14 la Giunta
lasciò Domodossola trasferendosi in Val Formazza, seguita dal capitano Vienna e dai
suoi uomini, con i quali passò in Svizzera il 19 per il Passo di S. Giacomo, nell'ultimo
gruppo di cui faceva parte il presidente della Giunta Tibaldi. La sera precedente avevano
fatto altrettanto anche i finanzieri di Bagni di Craveggia con il cap. Arcangioli e gli ultimi
resti della divisione partigiana "Piave", inseguiti anche oltre confine dal fuoco dei
paracadutisti repubblicani
6. L’INSURREZIONE GENERALE.
Nell'Italia settentrionale, la vicenda della repubblica sociale si avviava intanto all'epilogo
ed in quasi tutte le sedi più importanti i comandi della Guardia di finanza prendevano
contatto con i comitati di liberazione nazionale o con gli stessi comandi delle formazioni
partigiane.
A Genova il comando di legione era tenuto sotto controllo, anche mediante
intercettazioni telefoniche, sia dal comando tedesco che dalle autorità repubblicane, fin
da quando il comandante, col. Fantapiè, ed il capitano Petrella, addetto al comando di
zona, erano stati arrestati a Viareggio dalle SS mentre tentavano di raggiungere Roma, il
giorno successivo a quello dello sbarco alleato ad Anzio. Condotti alla "Casa dello
studente", sede del comando SS ligure, i due ufficiali si erano salvati, ma da allora i
rapporti tra autorità occupante ed il Corpo furono improntati a totale diffidenza. Fu
preteso l'allontanamento dei finanzieri dalla cinta portuale e la loro sostituzione con
elementi della milizia portuaria, ed il 26 giugno unità navali tedesche giunsero ad aprire
il fuoco, provocando un incendio di una certa gravità, contro la caserma "S. Giorgio",
dalla quale sembra si fosse sparato.
Il contatto con la resistenza fu stabilito mediante alcuni esponenti del partito d'azione,
avvicinati dal comandante del nucleo di polizia tributaria con il tacito consenso dei
propri superiori.
Un'azione analoga fu svolta a Torino dal tenente colonnello Beraldi e dal cap. Saggio,
comandanti rispettivamente del nucleo di polizia tributaria e di quello di polizia
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economica, i quali furono presentati dal professor Valletta al dottor Peccei,
rappresentante azionista nel C.L.N., ricevendone incarichi di carattere informativo e la
previsione dell'inserimento della Guardia di finanza nel piano di insurrezione.
Il tenente Orgera, comandante della compagnia di Susa, era da tempo in contatto con
formazioni partigiane, e così pure il cap. Dell'Aquila ad Asti, dove il ten. Pocorobba,
dopo aver collaborato clandestinamente per parecchi mesi, fu costretto a passare ai
partigiani con il proprio scrivano finanziere Portelli, per evitare l'arresto ormai
imminente. Anche nel cuneese la cooperazione tra finanzieri e resistenza fu molto attiva,
per opera sia del comandante di gruppo, tenente colonnello Fiammazzo, che del
maresciallo maggiore Borrelli, organizzatore di un'efficace rete informativa. Nell'estate
erano state disarmate dai "ribelli", sempre senza opporre resistenza, tutte le brigate della
compagnia di Saluzzo, il cui comandante, tenente Zingarini, in agosto era stato
formalmente arruolato dalla 15^ brigata d'assalto "Garibaldi". In dicembre l'abitazione
dell'ufficiale fu perquisita dall'ufficio politico della G.N.R., ed il comando generale
ritenne opportuno toglierlo dalla circolazione affidandogli il comando del distaccamento
incaricato della custodia del castello reale di Racconigi. Qui il tenente Zingarini fu
avvicinato dal collega Rivosecchi, paracadutato dal sud con una missione britannica,
che da allora ebbe base nello stesso castello, presidiato anche da un ignaro reparto della
brigata nera.
Accordi furono anche stabiliti a Novara dove era stato costituito uno speciale reparto
per la vigilanza all'officina carte valori dell'istituto poligrafico dello stato - sistemata
nello stabilimento De Agostini - che i finanzieri si impegnarono a difendere contro
eventuali sottrazioni o distruzioni dell'ultima ora.
Il centro della cospirazione era però nella legione di Milano, sia per la prossimità ai
vertici del movimento di resistenza - comitato di liberazione nazionale per l'alta Italia e
comando generale del Corpo volontari della libertà - sia per il prestigio personale del
colonnello Malgeri, che non esitò ad impegnarsi direttamente nell'attività clandestina.
Come si è visto, il comando di legione era al centro di una rete di rapporti, grazie ai
quali la resistenza era in grado di utilizzare la struttura organizzativa del Corpo, la
relativa libertà di movimento dei suoi componenti, la disponibilità di mezzi di trasporto
29
e di nascondigli "sicuri", la possibilità di mantenere i collegamenti con la Svizzera
grazie alla conservazione di una sia pur ridotta presenza al confine, ed infine la
legittimazione a produrre documenti di identità e di autorizzazione formalmente
regolari, idonei ad assicurare una copertura efficace.
I rapporti tra la resistenza e la Guardia di finanza milanese erano stati intensificati
dall'arrivo nell'Italia settentrionale del ten. Augusto de Laurentiis, lanciato l'11 agosto
1944 in Val Camonica con il generale Cadorna.
Il giovane ufficiale, divenuto uno dei dirigenti dell'organizzazione clandestina "Franchi",
inserì in essa numerosi elementi del comando legione e del nucleo di polizia tributaria, tra
i quali il brigadiere Eustachio Dell'Acqua, responsabile della "sezione falsi" cui era
affidata la produzione di documenti di copertura. Edgardo Sogno, Riccardo Lombardi ed
altri dirigenti della resistenza circolarono nell'Italia settentrionale con tessere di
riconoscimento che li qualificavano come ufficiali o sottufficiali della Guardia di finanza.
L'organizzazione "Franchi" arruolò anche il comandante della compagnia di Ponte
Chiasso, ten. Antonio Finizio, che si dimostrò prezioso per la realizzazione dei
collegamenti e dei trasferimenti clandestini attraverso la frontiera. Accantonati i progetti
di trasferimento in massa in montagna, si passò alla stesura di piani per l'impiego dei
reparti della Guardia al momento dell'insurrezione, secondo gli ordini impartiti sia dal
comando generale del C.V.L. che dal comando piazza milanese.
Fu anche organizzata la riassunzione del controllo del confine svizzero per conto del
C.L.N., anche utilizzando una parte dei finanzieri internati nella vicina Confederazione (il
capitano Vienna, espatriato dall'Ossola a metà ottobre, ebbe l'incarico di costituire un
reparto a questo scopo dall'addetto militare presso la R. legazione di Berna, generale
Bianchi). Un progetto per la rioccupazione della frontiera fu pure presentato al col.
Malgeri dal colonnello Ugo Finizio, capo ufficio servizio del comando generale di
Brescia, il quale si era messo a disposizione del movimento clandestino.
Il 27 febbraio 1945 il generale Cadorna sanzionò formalmente l'inquadramento della
Guardia di finanza nel C.V.L.. Nello stesso mese, però, la resistenza militare subì una
serie di colpi piuttosto gravi, quali l'arresto dei tenenti colonnelli Palombi e Bellini e di
altri diretti collaboratori di Cadorna nonché dello stesso capo della "Franchi", Edgardo
30
Sogno, catturato mentre in uniforme da ufficiale tedesco tentava di far evadere dal
comando delle SS di Milano, nell'albergo "Regina", il presidente della C.L.N.A.I.
Ferruccio Parri.
Anche il tenente de Laurentiis fu arrestato negli stessi giorni e rinchiuso a S. Vittore.
A Brescia, intanto, anche il comando generale della "Guardia repubblicana di finanza"
si preparava all'epilogo. Ai comandi di legione fu confermato l'ordine di rimanere in
posto per assolvere compiti di polizia, in caso di imminente occupazione "nemica"
delle sedi di dislocazione dei singoli reparti. In febbraio fu precisato che gli stessi
reparti dovevano essere esclusi dai piani di difesa e di ripiegamento che i comandi
dell'esercito repubblicano stavano predisponendo per l'imminente emergenza. Il 9°
comando militare provinciale di Genova ad esempio, fu costretto a diramare l'ordine
nr. 407/417, con il quale dal piano di difesa elaborato nel precedente giugno, veniva
sottratta la forza di 3 ufficiali, 40 sottufficiali e 160 militari di truppa, che costituiva il
concorso della G.R.F.
L'ostilità degli uomini della G.R.F. nei confronti dei nazifascisti si andava ormai
facendo palese. L'8 marzo, ad esempio, un gruppo di "marò" della X MAS si presentò
al magazzino automobilistico legionale di Magenta per requisire i materiali che vi
erano custoditi esibendo un ordine del capo della provincia. Il sottufficiale
responsabile dispose gli uomini a difesa e chiese istruzioni al comando di legione,
ricevendo l'ordine di opporsi con qualsiasi mezzo. I repubblicani si ritirarono
limitandosi a proferire minacce.
La necessità di organizzarsi per far fronte alla crisi finale apparve evidente anche al
vertice della R.S.I.. Per iniziativa del segretario del partito fascista, Pavolini, fu così
prevista la costituzione di un "ridotto" in Valtellina, dove i dirigenti politici e militari e
quanto restava delle forze armate avrebbero dovuto concentrarsi per resistere ad oltranza
in attesa dell'arrivo degli alleati, conservando aperta, nello stesso tempo, la via di scampo
del passaggio in Svizzera e, attraverso lo Stelvio e l'Alto Adige, quella del ripiegamento
nel territorio che si supponeva sarebbe rimasto sotto controllo tedesco.
Premessa per la realizzazione del "ridotto" era, ovviamente, l'annientamento o almeno
l'allontanamento delle formazioni partigiane operanti in Valtellina, compito questo
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affidato al generale della G.N.R. Onorio Onori, ai cui ordini avrebbero dovuto porsi
tutti i reparti militari presenti nella valle, e quelli che vi stavano affluendo da tutta
l'Italia settentrionale.
Il 7 aprile l'ordine, impartito personalmente dal maresciallo Graziani, raggiunse anche il
comando generale della G.R.F., che decise di opporre un rifiuto ed impartì istruzioni al
colonnello Malgeri affinché ne desse notizia al generale repubblicano. Il colonnello si
recò a Tirano, accompagnato dal tenente Macaluso, affiliato alla resistenza e già
comandante della compagnia allievi finanzieri dislocata a Villa di Tirano ed allontanata
in novembre per iniziativa dello stesso segretario fascista Pavolini, che l'aveva accusata
formalmente di fornire appoggio ai partigiani. Macaluso aveva il compito di rimanere
all'esterno dell'albergo dove Onori aveva stabilito il suo comando, per dare l'allarme e
provocare il passaggio ai partigiani dei finanzieri di tutta la Valtellina, se il suo
superiore non avesse fatto ritorno.
Ma non accadde nulla. Il generale repubblicano, che apparve al colonnello Malgeri
piuttosto sfiduciato, si limitò a prendere atto del rifiuto e chiese di poter avere almeno in
prestito un po' di munizioni, delle quali i suoi difettavano. Malgeri affermò di non
averne ed il colloquio fini. Nella notte due autocarri provvidero a trasferire
prudenzialmente a Milano le oltre centomila cartucce e le numerose bombe a mano
depositate nella caserma di Sondrio.
Quasi ovunque, i C.L.N. emanavano istruzioni che riconoscevano l'appartenenza al
movimento di liberazione della Guardia di finanza e ne prevedevano l'impiego all'atto
dell'insurrezione.
A metà aprile la linea gotica fu rotta ed il collasso dell'apparato militare tedesco in Italia
apparve
evidente.
generale
Wolff,
plenipotenziario
della
Wehrmacht
e
contemporaneamente capo delle SS e delle forze di polizia, stava del resto già trattando la
resa con il comando del XV gruppo di armate alleato.
Il 23 aprile le avanguardie alleate costituirono le prime teste di ponte oltre il Po e nello
stesso giorno iniziò lo sgombero di Genova da parte del presidio tedesco.
A sera, il gen. De Filippis ed il tenente colonnello Tacchini, comandante interinale della
legione, si misero a disposizione del C.L.N., e per tutto il 24 i finanzieri parteciparono ai
32
combattimenti di strada per l'eliminazione dei residui nuclei fascisti, nonché al blocco dei
marinai tedeschi asserragliati nel porto. Nella stessa giornata del 24 aprile l'insurrezione
si estese oltre l'Appennino ligure alla provincia di Alessandria, dove la sera precedente il
comando tedesco aveva ordinato il concentramento di tutte le forze nella cittadella. I
finanzieri, agli ordini del capitano Raffaele Valentino e del tenente Carlo Valle non
ubbidirono e si misero a disposizione del C.L.N.
La resa della guarnigione tedesca di Genova fu firmata alle ore 19,30 del 25 aprile dai
rappresentanti del generale Meinhold. A quell'ora l'intera organizzazione della Guardia
di finanza operava già alle dipendenze del prefetto partigiano della città, Martino.
Le unità tedesche e repubblicane dell'armata "Liguria", tra le quali quasi intatta la
divisione "San Marco", si andavano intanto raccogliendo nella zona di Acqui, mentre a
Cuneo si concentrava la divisione "Littorio" proveniente dal confine francese.
Il centro di gravità dell'insurrezione si spostava a Milano, dove in previsione della crisi
si era riunito da qualche giorno il vertice della R.S.I. con lo stesso Mussolini.
Dopo il riconoscimento formale da parte del gen. Cadorna, i contatti tra il gruppo
cospirativo all'interno del comando di legione e gli esponenti militari della resistenza si
erano intensificati, in particolare ad opera del capo di stato maggiore del comando
piazza clandestino, magg. Liberti, che aveva stabilito una delle proprie sedi nella
caserma della compagnia allievi finanzieri del ten. Macaluso, in piazzale Sicilia. Era
stato compilato - ed approvato dal comando generale del C.V.L. - un piano
insurrezionale, il quale prevedeva la costituzione di un piccolo reggimento di
formazione, su quattro battaglioni, con il concorso di tutti i reparti presenti a Milano,
per una forza complessiva stimata di circa cinquecento uomini, ovviamente tutti
volontari.
Il progetto era stato messo a punto in una riunione tenuta nel pomeriggio dell'8 aprile
nell'abitazione del colonnello Finizio, del comando generale.
Il 21 aprile, mentre la situazione andava ormai precipitando, Malgeri riunì il personale
nel cortile della caserma "Cinque giornate" di via Melchiorre Gioia, e lo orientò, ormai
esplicitamente, sul comportamento da tenere. Il giorno dopo il colonnello fece altrettanto
con i reparti esterni, diramando ai comandi di circolo di Como, Varese, Sondrio, Pavia e
33
Brescia il fonogramma n. 16852: "Invito tutti i comandi e reparti dipendenti a rimanere
compatti sul posto nell'interesse del Paese, dico del Paese, del Corpo e di noi stessi,
qualunque piega prendano gli avvenimenti militari".
Nella sede del comando di legione intanto si avvicendavano i dirigenti della resistenza,
ora anche politici, come i comunisti Falletti, delle brigate garibaldine e Galassi, capo - dei
G.A.P., e gli azionisti Riccardo Lombardi, designato prefetto di Milano, e Leo Valiani,
che avrebbe dovuto presiedere il futuro governo provvisorio dell'Alta Italia. Sia la
prefettura che il governo provvisorio avrebbero dovuto utilizzare la caserma della
Guardia di finanza come sede protetta, al momento dell'insurrezione.
In attesa che si chiarissero gli intendimenti delle forze tedesche e repubblicane presenti
numerose in città, i finanzieri avrebbero dovuto raccogliersi nelle caserme di via
Melchiorre Gioia (comando di legione) Via Valtellina (2^ compagnia), piazzale Sicilia
(compagnia allievi finanzieri) - una quarta in piazza Fiume, sede del nucleo di polizia
economica, avrebbe dovuto essere sgombrata perché con-siderata non difendibile - ed
organizzarsi per la difesa ad oltranza, il che fu fatto fin dal giorno 23. In un secondo
tempo, il reggimento di formazione avrebbe agito come massa dl manovra verso gli
obiettivi che sarebbero stati indicati dal comando piazza. In ogni caso, dopo
l'acquisizione del controllo della città, la Guardia di finanza sarebbe passata agli ordini
del prefetto nominato dal C.L.N. per assicurare il mantenimento dell'ordine pubblico.
In città cominciavano intanto a verificarsi le prime azioni partigiane. Il 23 un gruppo di
finanzieri con i brigadieri Rocco e Bazzano e due automezzi, agli ordini del magg.
Liberti, effettuò un colpo di mano contro un autoparco tedesco nella zona della fiera
campionaria, impadronendosi di tre autoblindo. Il 25 lo stesso brigadiere Rocco guidò
un'azione contro la caserma della polizia ausiliaria in via Palmieri, catturando numerose
armi automatiche. Nel pomeriggio una pattuglia al comando del tenente Ognibene riuscì
ad impadronirsi con uno stratagemma di un fondo di quaranta milioni che stava per
essere prelevato dalla Banca d'Italia dalle autorità fasciste.
In quelle stesse ore si svolgeva nel palazzo dell'Arcivescovado il celebre colloquio tra i
vertici della R.S.I. ed i rappresentanti del C.L.N.A.I., al termine del quale, sfumata
l'ipotesi di un passaggio dei poteri "indolore", Mussolini decise di abbandonare Milano.
34
Per i finanzieri asserragliati nelle caserme cominciò l'attesa degli ordini del comando
piazza. Verso le 22, a richiesta telefonica del magg. Liberti, un reparto fu inviato ad
occupare la sede del "Popolo d'Italia" per consentire, il giorno successivo, l'uscita di un
quotidiano del movimento di liberazione; il compito fu portato a termine senza incidenti
di rilievo, salvo una leggera ferita per il brigadiere Pieragostini.
Dopo un'ora e mezza, nuova telefonata del maggiore Liberti, e questa volta era il
preavviso per l'azione principale. L'ordine fu recapitato poco dopo dal tenente de
Laurentiis, evaso da S. Vittore quella stessa mattina.
Il reggimento si mise in marcia. Il palazzo del governo in corso Monforte fu raggiunto
dopo scontri a fuoco di lieve entità con pattuglie fasciste ed occupato senza difficoltà; i
pochi agenti di P.S. rimasti dopo l'allontanamento delle autorità repubblicane si
lasciarono disarmare senza opporre resistenza. Alle 6 del mattino del 26 aprile la
prefettura era ormai posta in stato di difesa ed alle otto il colonnello Malgeri che aveva
diretto personalmente l'azione, fu in grado di ricevere Riccardo Lombardi, il quale non
ebbe quindi bisogno dell'ospitalità dei finanzieri.
A quell'ora erano già stati anche inviati distaccamenti ad occupare il palazzo della
provincia, il municipio e il comando militare repubblicano. Il comandante della
compagnia del comando generale, sottotenente Diretto, postosi a disposizione del
colonnello Malgeri dalla sera prima, fu inviato a presidiare la sede dell'E.I.A.R. in corso
Sempione.
L'insurrezione si estese intanto a tutta la Lombardia, ed ovunque i finanzieri
parteciparono attivamente agli scontri finali, all'occupazione degli uffici pubblici, al
disarmo delle forze tedesche e fasciste.
L'episodio più grave accadde a Pavia, dove in uno scontro con un gruppo di ufficiali
della G.N.R. furono uccisi il tenente Francesco Lillo, l'appuntato Tommaso Coletta ed il
finanziere Roberto Spirito.
Il tenente Finizio ottenne la resa del presidio tedesco di Ponte Chiasso e fece innalzare
il tricolore sul valico; nel pomeriggio scortò a Milano Ferruccio Parri, rientrato dalla
Svizzera.
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Combattimenti di una certa intensità si svolsero in Valtellina, dove, a Madonna di
Tirano, si arrese il comando generale della G.N.R. di frontiera.
I finanzieri concorsero anche ad attivare i controlli destinati ad impedire l'espatrio dei
dirigenti della R.S.I. in fuga verso la Svizzera. Una pattuglia della tenenza di Porlezza,
sempre nel pomeriggio del 26 aprile, arrestò i ministri Buffarini Guidi e Tarchi. Nella
cattura della colonna di cui facevano parte lo stesso Mussolini ed il principale gruppo di
gerarchi, poi fucilati a Dongo, giocarono un ruolo importante un gruppo di sottufficiali
della guardia di finanza, appartenenti ad una rete clandestina organizzata dal tenente
colonnello Luigi Villani, già comandante del gruppo di Menaggio, rimasto nella zona
dopo lo scioglimento del reparto imposto dalle autorità fasciste in ottobre, e divenuto
presidente del C.L.N. locale.
Il 29 aprile il comando generale del Corpo volontari della libertà dispose che tutti i
comandi della Guardia di finanza dell'Italia settentrionale passassero agli ordini del
colonnello Malgeri nominato "comandante generale provvisorio per l'Alta Italia".
Anche a Torino, dove in previsione dell'insurrezione era stata costituita una compagnia
di pronto intervento agli ordini del tenente Zocchi, i finanzieri parteciparono
attivamente ai combattimenti con due distaccamenti dislocati ai "docks piemontesi" ed
alla manifattura tabacchi. Il nucleo di polizia economica, dopo aver difeso la propria
caserma in corso Valdocco attaccata dai repubblicani anche con l'appoggio di due carri
armati, occuparono per ordine del comando partigiano la sede della "Gazzetta del
Popolo".
Ai primi di maggio in tutta l'Italia settentrionale la Guardia di finanza aveva ripreso le
proprie normali attribuzioni, agli ordini delle autorità nominate dai C.L.N. e
successivamente riconosciute dall'amministrazione militare alleata.
Il 4 maggio il comportamento dei finanzieri nella clandestinità, nella lotta partigiana e
nell'insurrezione aveva ottenuto riconoscimento formale dal gen. Cadorna, comandante
generale del C.V.L..
Pochi giorni dopo fece altrettanto, dalla Capitale, il generale Oxilia. Furono
rapidamente ripristinati i normali rapporti con Roma, ed alla fine di giugno anche il
comando generale provvisorio fu sciolto.
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Le ostilità ebbero un tragico seguito per i finanzieri in servizio nella venezia Giulia.
Nel territorio del "Litorale Adriatico", sottratto di fatto alla sovranità della repubblica
sociale, la massiccia presenza delle formazioni partigiane jugoslave e le profonde
divisioni esistenti nel movimento di resistenza italiano avevano determinato una
situazione confusa, nella quale gli schieramenti erano meno definiti e più vive le
preoccupazioni per quanto sarebbe accaduto dopo il collasso germanico.
Anche a Trieste e nei principali centri dell'Istria i comandanti della Guardia di finanza
avevano stretto con i comitati di liberazione accordi simili a quelli stipulati nelle altre
regioni.
Nel capoluogo giuliano il colonnello Persirio Marini, da parecchi mesi in contatto con la
Resistenza, aveva concordato la costituzione di un battaglione, destinato ad occupare due
dei cinque settori nei quali la città era stata ripartita secondo il piano insurrezionale; in un
secondo tempo, la Guardia di finanza avrebbe assunto la responsabilità del mantenimento
dell'ordine pubblico, in attesa della ricostituzione dell'organizzazione dei Carabinieri.
Il 27 aprile, d'intesa con il comando piazza clandestino, l'unità fu costituita, e fu diramato
a tutti i reparti esterni l'ordine di concentrarsi nel capoluogo.
Il mattino successivo furono occupati gli obiettivi previsti dal piano, sostenendo anche
conflitti a fuoco con le truppe tedesche, che tuttavia si risolsero ad asserragliarsi nel
castello di S. Giusto, per arrendersi agli alleati. La guarnigione del porto si consegnò
invece ai finanzieri che il 30 aprile presidiavano tutti i punti sensibili della città, ormai in
mano agli insorti.
Com'è noto, nel tentativo di creare un fatto compiuto che ponesse un'ipoteca sul futuro
della città, le truppe dell'Esercito di Liberazione jugoslavo raggiunsero Trieste prima
delle avanguardie della 2^ divisione neozelandese provenienti da occidente. 1 partigiani
italiani furono disarmati e numerosi esponenti della Resistenza scomparvero dopo
l'arresto da parte della polizia segreta.
Il mattino del 2 maggio le caserme della Guardia di finanza furono circondate; undici
ufficiali e 250 sottufficiali e finanzieri furono catturati ed avviati alla deportazione.
Vicende analoghe vissero i finanzieri che, per tutta la durata dell'occupazione tedesca,
erano rimasti al loro posto a Pola, a Fiume ed in alcuni centri minori dell'Istria e del
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goriziano.
Nel maggio 1945 scomparvero dalla legione di Trieste circa 500 militari della Guardia
di finanza, uccisi e gettati nelle "foibe", come con ogni probabilità accadde per i tre
ufficiali ed i 93 finanzieri catturati nella caserma Campo Marzio di Trieste, oppure
morti di stenti nei campi di concentramento sloveni o croati.
Furono gli ultimi caduti di una lotta durata venti mesi, nel corso della quale la Guardia
di finanza riuscì a mantenere intatta la propria organizzazione nel territorio occupato,
riducendo al minimo la compromissione con il regime della Repubblica Sociale e
contribuendo invece in misura significativa alla Resistenza, fino a presentarsi al
momento dell'insurrezione come l'unico organismo militare "regolare" a disposizione
del comitato di liberazione nazionale, nella delicatissima fase della transizione verso il
ristabilimento del potere legittimo.
Per quel che valgono le cifre, il prezzo pagato fu di 1.100 caduti e di seimila internati nei
campi di concentramento tedeschi. Per fatti attinenti alla Resistenza ed alla guerra di
Liberazione, furono concesse alla Bandiera della Guardia di finanza due medaglie d'oro,
una d'argento ed una di bronzo al Valor Militare; altre due medaglie d'oro, 12 d'argento e
38 di bronzo, sempre al Valor Militare, premiarono il comportamento dei singoli militari.
Numerose sono state, infine, le Medaglie al Valore della Guardia di Finanza ed al Merito
Civile, fra le quali meritano particolare menzione quelle concesse ai militari del Corpo
sacrificatisi per aver tratto in salvo i profughi ebrei ed i perseguitati dal nazi-fascismo.
7. GLI AIUTI AI PROFUGHI EBREI ED AI PERSEGUITATI.
E’ mio compito, in questa sede, parlarvi delle tipologie degli aiuti umanitari assicurati dai
finanzieri in quel triste contesto storico, in un momento in cui la Guardia di Finanza, pur
rimanendo integra, essendo un Corpo di Polizia, come prevedevano le leggi di guerra,
dovette decidere se aderire “anima e corpo” alla Repubblica Sociale Italiana, oppure si
schierarsi – come in realtà fece – in favore della Resistenza.
In estrema sintesi, gli aiuti ai profughi ebrei ed ai perseguitati furono assicurati
dagli appartenenti alla Guardia di Finanza mediante:
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a. Il favoreggiamento, ovvero la materiale esecuzione, degli espatri clandestini, sia via
terra che via mare (ricostruiti molti episodi verificatesi lungo la frontiera con la
Svizzera e gli espatri via mare avvenuti a Genova - Voltri);
b. l'ospitalità nelle caserme, ovvero nelle abitazioni private (verificatesi principalmente a
Roma);
c. la fornitura di documenti d'identità opportunamente falsificati;
d. l'arruolamento dei ricercati in qualità di Finanzieri Ausiliari (episodi accaduti a Roma,
Genova, Milano e Madonna Tirano (SO), ove furono appositamente organizzati dei
corsi);
e. la sottrazione dalla deportazione di individui già catturati e pronti a partire per ignota
destinazione (fenomeno verificatosi in larga misura a Roma, ma anche in alcune
località di frontiera);
f. l'avvertimento della popolazione nei casi di operazioni di rastrellamento già
pianificate dalle autorità di polizia e/o tedesche d'occupazione (ruolo ricoperto
principalmente dagli appartenenti al Comando R. Guardia di Finanza per la città
Aperta di Roma);
g. il mancato sequestro o confisca dei beni ebraici (casi verificatesi soprattutto a Roma);
h. il servizio di corriere in favore delle famiglie già espatriate (non pochi casi si
verificarono lungo il confine con la Svizzera).
In tutto questo, molto determinante fu l’apporto umano assicurato dai nostri militari.
Il fenomeno riguardò:
a. i singoli appartenenti al Corpo, i quali, spesso coadiuvati dalle proprie famiglie, si
adoperarono nel portare aiuto ai perseguitati sfruttando i propri compiti istituzionali;
b. i reparti territoriali, specialmente quelli dislocati in zone di confine.
La ricerca ha consentito di ricostruire le vicende legate a circa:
100 ufficiali;
30 sottufficiali;
30 appuntati e finanzieri.
90 comandi di Circolo, Nucleo Polizia Tributaria, Compagnia, Tenenza, Brigata e
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Distaccamento.
Aree geografiche interessate
In via principale il Centro Nord d'Italia, corrispondente al territorio della Repubblica
Sociale Italiana, ma anche i territori d'occupazione, come ad esempio la Francia
meridionale ed i Balcani.
Perdite fra i militari del Corpo
Sono state ricostruite le posizioni di n. 12 militari del Corpo, distintisi per l'attività svolta
in favore degli ebrei e dei perseguitati, caduti in tale contesto storico in quanto fucilati sul
posto, ovvero morti nei campi di sterminio o per causa di tale internamento.
I caduti furono:
App. AMATO Domenico.
In servizio presso la Brigata di Casamoro, tratto in arresto il 17 febbraio 1944 a Porto
Ceresio, accusato di aver collaborato "con alcuni cittadini a far passare il lago a molti
ricercati". Deportato in Austria, morì il 27 febbraio 1945 nel campo di lavoro di Gusen
(prossimo a quello di concentramento di Mauthausen, a 39 anni d'età, lasciando
sconsolati la moglie e tre figli. Alla sua memoria è stata concessa la Medaglia d’Oro al
Merito Civile.
Brig. ANTEZZA Michele.
Comandante del posto di controllo della R. G.di Finanza di Novel, presso St. Gingolph in
Alta Savoia, dipendente dalla Compagnia di Thonon, si prodigò in difesa degli ebrei e di
chiunque intendeva sottrarsi alle inique leggi italiane e francesi. Fu ucciso nella notte fra
40
il 1° ed il 2 agosto 1943, in seguito all'assalto della caserma da parte di alcuni renitenti di
leva, comunisti e franchi tiratori, mossi dall'odio contro gli occupanti italiani.
App. ARENARE Paolo.
In servizio presso la Compagnia di Santa Maria Maggiore (NO). Già distintosi durante il
primo periodo degli aiuti che il Corpo aveva offerto, in quella zona, sia in favore degli
ebrei che dei perseguitati, il 10 settembre 1944, l'appuntato Arenare, che unitamente al
Cap. Arcangioli, aveva preso possesso dell'albergo "Oscella", sede del Comando tedesco
di S. Maria Maggiore, rimase ucciso nel corso di una rappresaglia condotta sul posto da
una squadra delle Brigate Nere.
Brig. richiamato BURATTI Mariano.
In servizio presso la Compagnia di Viterbo. Il sottufficiale, datosi alla macchia dopo l'8
settembre 1943, diede vita ad una banda partigiana destinata ad operare nel viterbese. Fra
i membri della cosiddetta "Banda Buratti" furono, quindi, accolti non pochi militari
sbandati, ex prigionieri di guerra e internati, alcuni dei quali appartenenti alle forze
armate anglo-americane. Arrestato - dietro delazione - dalla Gestapo, il brigadiere Buratti
fu fucilato a Forte Bravetta il 31 gennaio 1944. Alla sua memoria fu concessa la
Medaglia d'Oro al Valor Militare.
Fin. CENTURIONI Tullio.
Appartenente alla Brigata di Porto Ceresio, fu arrestato il 21 marzo 1944 per le sue
responsabilità in merito agli espatri clandestini e successivamente deportato a
Mauthausen, ove morì nell’aprile-maggio 1945. Alla sua memoria è stata concessa la
Medaglia d’Oro al merito Civile.
Fin. CORRIAS Salvatore.
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In servizio presso la Brigata di Bugone ed aderente alla Brigata partigiana "Giustizia e
Libertà-Artom". Distintosi, assieme agli altri colleghi, in numerose azioni eroiche, il fin.
Corrias fu arrestato mentre ritornava dalla Svizzera ove aveva accompagnato un ex
prigioniero inglese. Fu fucilato da elementi delle Brigate Nere il 28 gennaio 1945, nel
recinto della stessa caserma di Bugone. Alla sua memoria è stata concessa la Medaglia
d’Oro al Merito Civile e quella di “Giusto tra le Nazioni”.
Mar.llo Magg. CORTILE Luigi.
Comandante della Brigata di Clivio, fu catturato dai tedeschi l'11 agosto 1944, per le
responsabilità avute nel espatrio clandestino degli ebrei. Deportato in Austria vi morì il 9
gennaio 1945. Alla sua memoria è stata concessa la Medaglia d’Oro al Merito Civile.
Fin. DIAMANTI Virginio.
In servizio presso la Brigata Volante di Como. Dopo essersi adoperato in favore dei
profughi, perse la vita il 18 giugno 1945 presso l'Ospedale Civile di Camerata (BG), a
causa della T.B.C. polmonare che aveva contratto durante la prigionia in Germania.
Fin. OCCHI Pietro.
In servizio alla Legione di Milano. In seguito agli avvenimenti dell'8 settembre, si era
dato alla macchia, entrando subito a far parte di un'organizzazione partigiana operante in
Lombardia. Catturato dai nazi-fascisti, l'8 aprile 1945 fu deportato a Mauthausen, ove
cessò di vivere di lì a poco, ad appena ventuno anni d'età. Per il suo eroico
comportamento, l'Occhi fu decorato della Croce di Guerra al Valor Militare, con la
seguente motivazione: "Giovane e attento partigiano, all'atto dell'armistizio aderiva al
movimento della Resistenza prodigando tutte le sue energie per il trionfo della libertà
della Patria. Catturato a seguito di un capillare rastrellamento nemico, sopportava
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stoicamente atroci torture senza nulla svelare che potesse tradire la causa partigiana.
Deportato nel campo di sterminio di Mauthausen l'8 aprile 1945, concludeva nella camera
a
gas
il
suo
cosciente
sacrificio.
Mauthausen
(Austria),
giugno
1945".
Ten. PAOLINI Gianmaria.
Già comandante della Tenenza e del Presidio di Stretto (Dalmazia), il Paolini aveva
raggiunto l'Italia all'indomani dell'8 settembre '43. Raccogliendo sul posto i tanti militari
sbandati, civili perseguitati dai nazifascisti (con molta probabilità anche ebrei), ma
soprattutto ex prigionieri fuggiti dai campi di internamento, l'Ufficiale sostenne per un
ciclo operativo numerosi scontri con i nazi-fascisti, distinguendosi per coraggio,
ardimento e sprezzo del pericolo. Catturato dai tedeschi il 24 marzo 1944, nel mentre si
recava in missione nel Nord, il tenente Paolini fu fucilato all'alba del 24 aprile 1944 in
San Giovanni Valdarno. Alla sua memoria fu concessa la Medaglia d'Argento al Valor
Militare.
Fin. SACCHELLI Claudio.
In servizio a Milano dal 1940. Compromessosi con gli espatri clandestini fu arrestato
dalle SS ed internato nel campo di concentramento di Mauthausen, ove morì di stenti il
26 aprile 1945, a trentadue anni d'età, lo stesso giorno in cui Milano veniva liberata dai
suoi colleghi.
Fin. TOLIS Giovanni Gavino.
Appartenente alla Compagnia di Chiasso. Postino delle organizzazioni partigiane, per le
quali effettuava il servizio di staffetta trasportando clandestinamente lettere e messaggi
riservati da o per la Svizzera, svolse un insostituibile opera in favore di ebrei ed
antifascisti che tentavano la fuga dai rastrellamenti tedeschi. Denunziato al
controspionaggio tedesco, fu catturato nella stessa Ponte Chiasso nel mentre trasportava
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valuta destinata alle organizzazioni clandestine. Deportato in Austria il 14 aprile 1944, il
venticinquenne finanziere morì il 28 dicembre dello stesso anno nel campo di
concentramento di Mauthausen - Gusen e la sua salma bruciata nel forno crematorio.
Episodi più significativi
Nel settore degli aiuti agli ebrei si distinsero, in maniera decisiva, i sotto notati militari:
a. Capitano Leonardo Marinelli, già Comandante della Compagnia di Madonna di
Tirano, il quale, il 12 settembre 1943, favorì l'espatrio di circa 300 ebrei di origine
slava, dopo averli liberati dal campo di internamento dell'Aprica;
b. Finanziere Scelto Giulio Massarelli, appartenente alla Brigata di Busto Arsizio, il
quale operò attivamente nella zona di Biancone, il Tenente Giorgio Cevoli, in servizio
a Gironico, il Tenente Giuseppe Pollo, il Maggiore Tani e la moglie Mafalda, operanti
in Roma, i quali, per aver favorito l'espatrio di numerosi ebrei, ovvero per averli
ospitati nelle proprie abitazioni, hanno meritato, unitamente al citato Finanziere
Salvatore Corrias, la Medaglia di “Giusto tra le Nazioni”;ù
c. Finanziere Rino Dalla Pria, appartenente alla Brigata di Somneggio, il quale si
adoperò lungo la rete di confine, lasciando passare in Svizzera sia i profughi ebrei che
i militari alleati fuggiti dai campi d'internamento;
d. Alcuni esponenti della banda partigiana "Fiamme Gialle", capeggiata dal Generale
Filippo Crimi ed operante in Roma e nel Lazio, i quali ospitarono nelle caserme o
nelle loro abitazioni private diversi ebrei scampati alla retata del 16 ottobre 1943. Fra
questi si distinse principalmente il Brigadiere Salvatore Serra, che in più occasioni
favorì la fuga di migliaia fra militari, civili, ebrei e perseguitati politici già caricati sui
treni in partenza verso la Germania.
L'internamento dei militari del Corpo
La deportazione nei campi d'internamento tedeschi interessò 5.192 militari del Corpo,
catturati sia nei territori d'occupazione, sia in quello nazionale.
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Le perdite subite dalla Guardia di Finanza in tale ambito ed accertate ufficialmente
ammontano a 236 unità.
Come ritengo di aver dimostrato, l’azione umanitaria che le Fiamme Gialle seppero
portare avanti, seppure fra mille difficoltà, rischi personali ed estremi sacrifici, salvò
migliaia di vite umane da sicura morte. Non sempre, però, la riconoscenza nei riguardi
dei salvatori è stata unanime e, soprattutto, puntuale. Se è vero, come è vero, che chi
“salva un solo uomo salva il mondo intero”, come ricorda il Talmud, chi dovette la vita a
questi splendidi soldati di frontiera ha il dovere di ricordarli per sempre, ma soprattutto di
condividere i sentimenti di gratitudine con i giovani e con le generazioni future, le quali
spesso stentano a credere che la Shoah sia mai esistita, ovvero non ne conoscono
l’effettiva entità.
Grazie,
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