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Scendendo! - Napoli Underground

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Scendendo! - Napoli Underground
SCENDENDO!
Gianluca Padovan
1
...a noi, così, semplicemente
2
Testo: Gianluca Padovan.
Foto: Gianluca Padovan.
3
«Il forestale sospirò e si guardò la mano callosa, logorata dal contatto con
l’impugnatura dell’ascia e l’elsa della spada. Conan allungò il braccio per prendere
l’anfora del vino. Il forestale lo fissò, confrontandolo con gli uomini intorno a loro,
con gli uomini che erano morti lungo il fiume perduto, con i selvaggi oltre quel
fiume. Conan non parve accorgersi del suo sguardo. – La barbarie è la condizione
naturale dell’umanità – disse il forestale, fissando tristemente il cimmero. – La
civiltà è innaturale, invece. È un capriccio delle circostanze. E alla fine,
inevitabilmente, la barbarie deve trionfare.»
Robert Ervin Howard, Conan il guerriero
Nota. Per quanto riguarda l’inquadramento cronologico, nel testo verrà omessa
l’indicazione «C.», abbreviazione della parola «Cristo». Ovvero si segnerà, ad
esempio, «IV sec. a.» e non «IV sec. a.C.»; non «II sec. d.C.», bensì «II sec. d.». Si
indicherà cioè semplicemente il prima o il dopo il cosiddetto «anno zero».
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Premessa
Sono una foglia nel vento
Noi non sappiamo. Sapere è potere, sapere è sofferenza: dipende da che parte stai.
Noi non sappiamo nemmeno di non sapere, non ce ne rendiamo conto e quindi non
possiamo beneficiare dello stato di grazia di quel filosofo che disse, forse solo per sé
stesso: «io so di non sapere, quindi so».
Quando mi mettono a disposizione i giornali gratuiti fremo di paura: dove mi stanno
fregando, per darmi a costo zero tanta informazione? Quando mi fanno firmare
moduli su moduli per la tutela della cosiddetta «privacy» ho un moto di sconforto e
una certezza: la privacy non esiste più. La massificazione di «Internet», sistema
militare dato ai civili per giocarci e risparmiare ai militari un sacco di lavoro, mi fa
capire che galoppiamo un cetaceo alato. Non stupiamoci se ci staccherà la testa.
Oggi c’è pure libro-faccia: «Facebook». Scrivete diligentemente tutti i vostri più
intimi pruriti e completerete il quadro delle informazioni su chi siete, come e cosa
pensate. Senza «Internet» e «Facebook» l’informazione per tenerci sott’occhio gli
sarebbe costata un vero e proprio capitale in tempo e in denaro.
Ma non è questo il punto. Noi non conosciamo la storia, quella con la esse maiuscola.
Chi conosce la storia anche di un solo popolo sa cosa questo farà, sa come penserà.
Sa come e perché potrebbe reagire e quindi, siccome prevenire è meglio che
intervenire, lo sederà, lo tramortirà, lo svierà in qualche modo.
Ma, innanzitutto, come ammoniscono taluni film «archeologicoavventurosi»
interpretati da Harrison Ford, la conoscenza fa male alla salute. E chi la vuole sapere
è sempre e indiscutibilmente il «cattivo di turno». La cosa da nascondere va messa in
una cassa di legno assieme a un altro migliaio di casse di legno piene di nulla, ma
dello stesso peso: chi potrà trovarla? Chi conosce la storia, rispetto a voi, è sempre un
miglio più avanti e vi aspetta al varco. Noi andiamo a scuola per imparare quello che
hanno stabilito da programma ministeriale, affinché possiamo tornare manovalanza
utile, ma non senziente, non conoscente e quindi non agente. Soltanto bovinamente
producente.
Noi dobbiamo essere solo foglie al vento, senza peso.
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1. Dentro il sogno
Nel Segno del Falco
Io sono uno speleologo e vedo mondi che non possono essere visti in altro modo che
scendendo. Scendere è la parola d’ordine. Scendendo è il mio credo. La mia
fantascienza è immaginare quello che ci può stare sotto, ma nell’istante in cui scendo
l’attore sono io. Fantascienza diviene scienza nel senso ch’esiste. Io la percorro.
«Sono sceso!» è la mia affermazione nell’essere vivo. Ci s’infila, comunque, in
qualcosa. Può essere un ginepraio, un budello nella roccia che ti fa imprecare,
un’attrazione che ti fa perdere la ragione o solo del gran tempo. Ma è pur sempre vita.
Per me la fantascienza è la reminescenza di qualcosa di passato che cerchiamo di fare
rivivere nell’ipotetico futuro sulla carta stampata e nei film. Esprimere la fantascienza
è il preciso intento d’imbonire la folla, il goffo tentativo di farle credere che è
oppressa e si può e si deve ribellare. Fantascienza è inculcare un sentimento d’amore
nei confronti di un alieno, ma pure l’avvisare che l’alieno non va bene e bisogna
abbatterlo, oppure che siamo sempre in colpa e dobbiamo subire le conseguenze degli
atti alieni.
Tanti messaggi con un solo scopo: creare confusione. Plasmare l’essere incerto,
l’essere confuso, l’essere umano perfetto in quanto docile e imbelle. Ma qualche
messaggio va, volutamente o meno, a fare vibrare qualcosa di ancestrale, una piccola
e sottile corda che in qualcuno di noi ancora si conserva. Quella musica è potenza
divina!
Le prime immagini del film Conan il Barbaro, uscito nel lontanissimo 1981,
mostrano cime innevate e il padre di Conan in compagnia del figlio. E così gli dice:
«Fuoco e vento provengono dal cielo, dagli Dei del cielo, ma è Crom il tuo dio, Crom
che vive nella Terra. Un tempo i Giganti vivevano nella Terra, Conan, e nell’oscurità
del caos mistificarono Crom e gli sottrassero il segreto dell’acciaio. Crom si adirò e la
Terra tremò e fuoco e vento abbatterono quei Giganti e scagliarono i loro corpi
nell’acqua. Ma nel loro furore gli Dei si dimenticarono il segreto dell’acciaio e lo
lasciarono sul campo di battaglia. E noi che lo trovammo non siamo che uomini, né
dei, né giganti. Solo uomini. E il segreto dell’acciaio ha sempre portato con sé un
mistero. Devi impararne il valore, Conan, devi impararne la disciplina, perché di
nessuno, di nessuno al mondo ti puoi fidare, né uomini, né donne, né bestie. Di
questo solo ti puoi fidare...».
E il padre di Conan indica l’acciaio che costituisce la spada. Spada che tiene tra le
mani e che lui stesso ha forgiato. Poi la pone tra le mani del figlio.
Lo speleologo non brandisce la spada. Lo speleologo impugna il martello, pianta i
chiodi a espansione nella roccia a cui assicura i moschettoni e la corda per scendere
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sotto. Chiodo dopo chiodo, corda dopo corda, procede nelle immensità degli spazi
profondi.
Lo speleologo veleggia dentro di lei, dentro la Terra. E forse cerca, come un falco, la
sua preda.
Falchi di palude
Rimasi incantato dal volo dei falchi, tanto che un giorno una testa di falco divenne il
marchio dell’associazione speleologica che fondai. E tutto cominciò al Forte di
Fuentes, la cosiddetta porta nord dello Stato di Milano. Vi andai più e più volte per
assaporare il fascino dei suoi ruderi fagocitati dalla lussureggiante vegetazione,
sicuramente per esplorare e capire i suoi sotterranei, certamente per vedere i falchi di
palude. Non avevo mai visto prima così tanti rapaci e così vicini. L’inconfondibile
grido aveva il sapore di qualcosa di arcano, di andato disperso nelle nebbie del
tempo, nelle guerre degli uomini. Il loro librarsi in volo, il modo in cui ruotavano il
capo nobile e fiero, l’eleganza del loro tuffo sulla preda mi parlavano al cuore. Tutto
mi chiamava a gran voce dal passato. Ma ancora non colsi. Mi persi tra i libri che
descrivevano le vicende del forte costruito ai primi del XVII secolo, inizialmente in
«terrapieni e fassinade», poi pian piano, con calma, tra i miasmi delle acque
stagnanti, venne edificato in muratura. Fu eretto sulla cima di un colle contornato
dalle paludi, il famoso Pian di Spagna, dove la gente moriva di febbri e dissenteria,
ma imperturbabile il governatore spagnolo dello Stato di Milano vi manteneva la
guarnigione a controllo degli sbocchi della Valtellina, occupata dai Grigioni con le
fluttuanti amicizie francesi e veneziane.
Sentivo il sapore dell’acciaio, sentivo i lamenti dei morti di peste ammucchiati e
murati nei sotterranei, la fretta dei commilitoni nell’evacuare la fortezza. Sentivo il
sapore dell’acciaio e basta. Volevo impugnarlo, quell’acciaio. Volevo trovare il filo di
quella leggenda che ancora si sussurrava nei cascinali fuori Colico, borgo fortificato
da cui partivano le bestie da soma cariche di barili d’acqua per la guarnigione del
Fuentes. Eppure c’erano cisterne sotterranee, sotto la sua piazza d’armi, ma
continuavano a portargliela nei barili. Forse l’acqua si corrompeva troppo in fretta,
forse gli Dei non volevano che quel colle continuasse ad essere indebitamente
occupato. Ma le leggende parlavano chiaro: decine e decine di soldati morti erano
stati buttati in qualche sotterraneo ricavato al di sotto della piazza d’armi con il
proprio armamentario e murati: non c’era tempo di seppellire chi crollava affetto dal
morbo, magari mentre ancora montava di guardia.
Sicuramente gli Dei non hanno voluto che impugnassi quell’acciaio straniero,
negandomi la scoperta di una bella spada. Bella solo nei sogni, perché secoli d’umido
e di stillicidio non potevano che averla resa un grumo informe di ruggine. Tutto si
riconduce a un cerchio, o meglio a una spirale di fumo col minatore che cava, il
fabbro che forgia, il cavaliere che impugna, la terra che accoglie, la ruggine che
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ingromma, il «raccoglione» che cerca, la spazzola che netta, la bacheca che espone, il
tempo che inesorabilmente (a nostro dispetto e fortuna) dissolve.
Ma quando intraprendi qualcosa è come dare inizio ad un cerchio e devi sempre
portare a termine l’opera. Sempre. E così ho capito che il tempo inesorabilmente
scorre e quasi tutto muta.
Sentendo o sognando
È l’alba, il momento del sogno. È lì, è reale, mi protendo in avanti per coglierne
l’essenza e questa svanisce. La mano si allunga sulla radiosveglia che ulula come il
lupo grigio nella steppa.
La mano ciondola a mezz’aria, incapace di giungere a destinazione e bloccare il
frastuono. Il momento si cristallizza nell’impulso di mettere da parte il proprio
progetto, il proprio sogno, e continuare a dormire. Ma ho un progetto, un sogno e
soprattutto l’appuntamento con lei.
Con lei che mi attende. Lei!
La vidi nell’ombra della sera. Non credevo che potesse penetrarmi dentro, ma così
dentro da perdermi, da farmi improvvisamente capire cosa volesse dire perdersi in un
sospiro, in un pensiero, nella semplice foto. Era piccolissima, in verità: una foto da
provino in bianco e nero. Ma quella foto mi abbacinò.
Mi ci persi perché scatenò in me qualcosa d’ancestrale. Era lei, veniva dal tempo,
quel maledetto bastardo che mi rincorre, mi galoppa dentro e non mi molla. Il tempo.
Un tempo la trassi a me, in quella casa dal tetto di torba piantata nella brughiera e in
mezzo al sapore dell’erica, sotto quella coltre di lana intessuta a mano e mi pareva
d’avere tra le mani qualcosa di prezioso, molto più che umano e prezioso. Non so
descriverlo, quel momento, ma le accarezzai la pelle, scostai dolcemente quella
cascata bionda, biondissima e capii quando sentivo gli anziani raccontare, solo allora
capii cosa volesse dire «accarezzare la seta». Quella foto mi fece realmente capire chi
lei fosse. E composi una poesia.
Occhidipinti
Consumerò quegli occhi
nel mio guardarli a lungo
attraverso le lacrime che vagano
tra un secolo e l’altro
cercandoti nei roghi del tempo
su quella foto che solo ricorda,
o quel dipinto che muto sussurra
di averti tenuto a me
in quei momenti rubati al pagliaio
nel bosco che tutto ti dice,
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nell’erba che piano ti segna,
nell’altra era
nell’altra epoca
in un altro tempo che mi rincorre
e non mi lascia nel sogno
carpirti ancora un momento.
Il sogno è una faccia della medaglia, l’altra è la veglia. La veglia è il momento
dell’inferno su questa Madre Terra.
Mi sono spesso domandato come taluni siano riusciti a gabbare una moltitudine
d’individui vendendogli la storiella che in vita dovevano soffrire per guadagnarsi un
supposto paradiso. Cerco di affrontare quello che mi vado a cercare perché non mi
piace ascoltare gli imbonitori di folle, i «persuasori occulti» i quali ti dicono di
startene a casa buono buono a guardare la partita di calcio sulla tal rete tivù perché
«sei protagonista». Protagonista deriva dalle parole greche «primo» e «lottatore».
Questi ci vogliono lottatori del telecomando, orfani del nostro cervello. Oggi, se
prendiamo il vocabolario, vediamo che il protagonista è l’attore che interpreta il ruolo
principale. Anche qui siamo messi malino, costretti a recitare una parte non nostra per
un produttore che non ci siamo scelti.
Noi siamo noi e non protagonisti. Noi recitiamo per noi stessi. Ma, sempre,
fortissimamente e in ogni caso dobbiamo essere noi: solo così il tempo e le energie
sottili ci comunicheranno qualcosa, solo così potremo dire di avere effettivamente
vissuto.
Io mi sveglio e la penso, non la fregatura che ci sta dietro al quotidiano, ma Lei e il
suo volto radioso che m’insegue nel tempo.
Poi un giorno accadde. La incontrai, o forse è meglio dire che nuovamente, ancora
una volta la incontrai sotto spoglie umane, in questa vicissitudine chiamata «vita»,
che noi conduciamo sul globo terracqueo. Uno davanti all’altra, sotto umane spoglie.
La riguardai negli occhi e la Madre Terra mi parve improvvisamente meravigliosa.
Reminescenze
Quando si vaneggia sulle vere o supposte o semplicemente favoleggiate vite
precedenti ci si figura grandi cavalieri, eroi, ricchi mercanti. Un tipo curioso mi disse
che lui si vedeva con una gran palandrana di velluto marrone e un berretto elegante
ornato di pelliccia bianca. L’antesignano del pappone! Me lo dissi senza dargli a
vedere la mia ilarità.
Tutti ci si figura belli, nobili e ricchi. Io non mi figuro. Sento solo che ho penato, ho
fatto fatica a tirare avanti. Sento che ho sempre o quasi combattuto. E questo mi
rende la permanenza odierna ancora più seccante perché quel che so fare meglio
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stavolta non me lo fanno fare. Ma non è corretto: quello lo so già fare e credo sia
meglio imparare a fare altro.
Lei la ricordo nel crepuscolo. Eravamo accampati alla sommità di una collina
macchiata da bassi cespugli duri e irriverenti con le vesti che vi s’impigliavano nel
vento freddo. Si stabilirono gli ordini per i turni di guardia e la ricognizione, laggiù al
guado. Lei aveva i capelli biondo oro sciolti che uscivano da sotto la spessa cappa di
lana e si esercitava pigramente con l’arco contro un vecchio ceppo d’albero.
Chi era lei? Chi eravamo noi? Queste domande non avranno qui risposta, sono solo
mie. Posso però dire che nell’ansia dello scontro ci si sente quasi euforici, quando si è
certi della vittoria. Nell’ansia della morte ci si sente più che mai vivi e l’abbattere
l’avversario ci dà una carica prepotente, che desideriamo ripetere, replicare,
rinnovare.
Dopo la battaglia, assisi alla lunga tavola, semmai poi vi potrà ancora essere, ti guardi
attorno, lentamente, mentre mastichi il cibo che non ha più sapore e conti, conti
quanti ne sono rimasti dei tuoi, quanti ne ha portati via la morte, quanti ne ha resi
inabili la sconfitta, come non saranno mai più belli e giovani i tuoi giorni.
Sempre quella maledetta medaglia dalle due facce. Sempre un bianco e un nero entro
cui si rinserrano sogni e speranze, scelte ed azioni.
Penso che una vita vada vinta. Nel corso della nostra vita dobbiamo conseguire una
vittoria che sia «la vittoria!». La prima regola è non mettersi mai in condizione
d’essere sconfitti, in quanto una o forse la prima cosa da fare è l’applicare la tattica.
Che sia leale, che sia a testa alta, ma puntualmente pensata, meditata, questa tattica.
La vita stessa, come recitavano taluni samurai, è una questione di tattica.
Così ha tramandato Miyamoto Musashi, probabilmente il più noto samurai dell’antico
Giappone, nel XVII secolo: «Coloro che percorrono la via dell’Hejō, sia in Cina che
in Giappone, sono chiamati “maestri di tattica militare”. I guerrieri devono conoscere
perfettamente questa via».1
Hejō significa «strategia» e l’Hejō è «l’arte del samurai».2 Ma ci sono dei momenti,
dei frangenti, delle situazioni che vanno affrontati e basta, anche se si è certi della
sconfitta. Ci si deve battere, anche a costo della morte. Non vi è alternativa, lo si deve
fare, con impeto e a testa alta.
Sempre Musashi però esorta:
«Chi voglia intraprendere la via dell’ Hejō tenga a mente i seguenti precetti:
Primo: Non coltivare cattivi pensieri.
Secondo: Esercitati con dedizione.
Terzo: Studia tutte le arti.
Quarto: Conosci anche gli altri mestieri.
Quinto: Distingui l’utile dall’inutile.
Sesto: Riconosci il vero dal falso.
Settimo: Percepisci anche quello che non vedi con gli occhi.
Ottavo: Non essere trascurato nemmeno nelle minuzie.
Nono: Non abbandonarti in attività futili».3
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Lei la perdemmo pochi mesi dopo, nel corso di uno scontro non voluto, serrati
dappresso dalla cavalleria avversaria. Lei si battè, come sempre, bene e con coraggio.
Ma guardandola oggi vedo la sua melanconia d’allora. Una melanconia che derivava
forse da un’indole congenita, forse dalla sensazione di camminare fianco a fianco alla
morte da tanto e troppo tempo, per lei così bella e delicata, piena di sentimento, ma
ferma nei suoi intenti di voler vivere da persona e fondamentalmente libera.
Oggi soffriamo meno d’allora nel sentirci sfruttati e novelli schiavi. Forse perché la
tempra del sangue s’è svilita, forse perché la coscienza di noi stessi è un po’
annacquata, probabilmente perché non ci siamo ancora tolti di dosso le tante morti, i
tanti lutti, che preferiamo piegare un poco il capo, ma ritrovarci ancora tutti alla
tavola della nostra vita.
Ma per mangiare cosa?
Lei
Questa città smisurata si confonde con tutta la serie di paesi che le fanno da pancera, i
quali a loro volta si estendono a dismisura divorando boschi e campagne, rogge e
fontanili. Tutto ciò mi genera una strana forma di claustrofobia. Le vie di fuga sono i
monti con le loro grotte, le vie d’evasione sono i sotterranei che ciechi si dipanano
sotto ogni città.
Mi sento prigioniero di un contenitore fatto di mattoni, cemento e plastica.
Cementificazione. Abbattimento delle tradizioni. Suppongo si abbia necessità,
talvolta, di qualcosa di vecchio, se non di antico, a cui fare riferimento. I sotterranei
mi attirano più delle grotte, seppure in queste vi sia l’alito del drago che sempre mi
chiama.
Non devo nemmeno sforzarmi a ricordare, intanto che scrivo. Lei ce l’ho ancora
davanti agli occhi, con il cappottone spigato bianco e nero che non rende giustizia ai
suoi fianchi e un’acconciatura di capelli assai bizzarra, che la fa apparire strana,
disarmonica. Ecco quello che intimamente mi infastidisce: la disarmonia. Quando
guardo vecchie foto d’epoca vedo le donne con questi capelli ordinati, talvolta sciolti,
altre in acconciature per noi oggi inusuali, ma tutte richiamano e al contempo
emanano armonia.
Lei l’ho conosciuta in autunno inoltrato. In un’altra città. Preso da me stesso, badai
solo alle apparenze, all’importanza che mi davo nel compiere un lavoro un po’ fuori
dall’usuale e l’attimo si dissolse. Capitò nei sotterranei del castello arroccato in
collina accompagnata dalla fidanzata di mio fratello, socio dell’Associazione
Speleologica Falco. Mattoni solfatati e chiazzati di salnitro, odore di muffa, tipica
polvere degli ambienti lasciati a sé stessi. Festoni di ragnatele carichi anch’essi di
polvere. Persino i ragni dovevano accettare l’ineluttabilità del sito e l’invadenza dei
nostri piedi che calpestavano ovunque, frenetici, nell’ansia di trovare il passaggio
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segreto. Due vani contenevano scaffali di bottiglie, il resto poco ciarpame tartassato
dal tempo. Ma sotto i resti di un bancale ecco apparire la bocca tonda di un pozzo,
privo di vera, a filo di pavimento. La faccia sconosciuta comparve proprio in quella
bocca tonda di pozzo in cui mi stavo calando piano pianino e prendendo le misure,
ma ero ancora a pochi metri al di sotto.
Mi saluta, mi chiede cosa stia facendo, ma taglio corto. Mi ha deconcentrato. Sblocco
il discensore e decido di partire dal fondo, a misurare il tutto, per chiudere i canali di
quella musica strana che mi ha agganciato. Pozzo artificiale. Diametro
novantaquattro centimetri. Profondità trentasette metri e sessantadue. Rivestito in
mattoni fin quasi al fondo. Fondo in ghiaia, classico pozzo che pescava in falda.
Soffio via la polvere dal taccuino, annoto diligentemente, proseguo.
Mi piacciono i pozzi, hanno il sapore della vita quotidiana che si protrae nei secoli. Li
considero dei monumenti, che pochi studiano perché si fa fatica e magari si rischia
pure un poco. Ma sanno d’acqua fredda, gestualità che sono un rito, attenzione che
richiama armonia. Erano ciò che consentiva quotidianamente la vita nella cascina, nel
quartiere, talvolta nell’intero abitato e soprattutto in caso d’assedio.
Un paio d’ore dopo riemergo e mio fratello m’informa d’averne trovato un altro sotto
un piccolo tombino in pietra. Lungo il perimetro dell’ultima stanza il muro
scodinzola in una lieve rientranza, una curvetta priva di giustificazioni ne ha attirato
lo sguardo attento. Pochi colpi dati con il tacco della calzatura bastano a intuire e dare
mano a una decrepita scopa di saggina, scovata annoiata in un angolo. Sotto la
polvere, rinserrata nel pavimento, sta una botola circolare in granito, con anello al
centro. Sotto, il pozzo respira a stento. Anche lui secco, dato l’abbassamento della
falda freatica avvenuto nell’arco di questi ultimi decenni. Bel lavoro, peccato non sia
ancora saltato fuori il cunicolo di cui si favoleggia, quello che permetteva d’andare
dal castello al convento e viceversa.
Ripenso a quando sono uscito da quel pozzo. Avrei voluto non farlo, sapevo che
oramai le cose non sarebbero state più come prima. E ho capito come s’invecchia
rapidamente quando ci si cristallizza sulle proprie posizioni, quando si desidera
essere lasciati in pace dai propri sogni. Lei.
Qualche mese dopo capitò in sede, assieme ad altri speleo e tutti ci sedemmo come
d’abitudine lungo il tavolone di legno nero, povera imitazione di antichi tavoli
medievali. Da un freddo autunno il tempo sembrava essersi riallacciato ai tepori
primaverili di un sabato pomeriggio, saltando a piè pari il gelo invernale. I capelli di
lei erano lisci, naturalmente lisci e biondi, che ricadevano sulla camicetta di pizzo
bianca, di un’altra epoca, di un’altra persona: sua nonna, come poi mi disse. I nostri
sguardi si colsero l’un l’altro, si guardarono e poi si videro. Il richiamo venne dal
tempo e io lo ascoltai, turbato ed estasiato come un fanciullo.
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Nella Sfinge della Valganna
Se l’imperativo speleologico è «scendere!», la formula migliore per affrontarlo è
«adesso!». Le domando cosa faccia in serata e due ore dopo partiamo. Imbocchiamo
l’autostrada per andare a passare la notte in un posto che mi ha sempre affascinato.
Anni prima, riordinando l’Archivio Storico del gruppo speleo di cui allora facevo
parte (prima di fondarne uno io, ovvero il Gruppo Speleo Falco), trovai parecchio
materiale sulla cavità artificiale chiamata «La Sfinge della Valganna», meglio nota tra
gli speleologi come «Antro delle Gallerie», situata a nord di Varese.
Scoperto verso la fine dell’Ottocento dall’Abate Inganni di Milano, l’Antro è un
intricato sistema di cunicoli e gallerie scavati nell’arenaria quarzosa. Non si sa né
quando, né da chi sia stato realizzato. Neppure quale fosse la sua destinazione. E
come per le cose di cui nulla si sa, anche su di esso sono fiorite storie e leggende,
ipotesi e convinzioni. La più vecchia foto scattatavi risale al 1897: due intrepidi, il
terzo è il fotografo che in aggiunta è pure temerario, indossano completo scuro,
camicia bianca e in testa hanno la paglietta. Uno porta ad armacollo il classico
rotolone di spessa corda, verosimilmente di canapa.
Parcheggiamo al limitare del bosco. È buio fitto, ma la strada la conosco bene. Dopo
poco l’aria fredda che soffia fuori dalla galleria ci dà il benvenuto. Lei è titubante,
quasi timorosa. Accendiamo le luci fissate sui nostri caschi. La luce porta conforto. E
siamo già dentro. Cunicoli e gallerie hanno la forma di botte allungata e le loro
altezze oscillano tra i cinquanta centimetri e i due metri. Dalle fessure della roccia
trasuda copiosa l’argilla, fine, tenace, quasi collosa. Lei è affascinata.
Le indico le scalpellature sulla roccia lasciate dagli attrezzi di scavo: «Osserva come
siano tutte parallele e diritte quelle che corrono sul soffitto piatto. E decisamente
arcuate verso il basso, ma sempre parallele, quelle che disegnano le pareti». Sono
lavori troppo ben fatti per essere quelli di una semplice cava o di una miniera, inoltre
manca l’oggetto della coltivazione, ovvero il minerale. Già, che hanno estratto?
Qualche rara patina d’idrossidi di ferro? E poi non vi sono chiari cantieri di
coltivazione, ovvero il sistema è un labirinto privo di grandi ambienti, se si
eccettuano tre salette. Nelle intersezioni tra più rami i lavori di scavo si prendono la
briga di rifinire gli angoli. Molti accessi recano incavi e scanalature, quasi che in
antico alloggiassero delle porte, da chiudersi con paletti. Dall’interno, non
dall’esterno.
Lei mi pone svariate domande, a cui cerco di rispondere con più chiarezza possibile.
Tecnicamente questo ipogeo è assimilabile a una miniera medievale, come ve ne sono
tante nell’arco Alpino. Ricorda, non solo a me, talune miniere del Delfinato e in
particolare quella di Brandes-en-Oisans in Alta Savoia, nell’Isère (Francia). Gli
archeologi francesi vi hanno condotto lunghe e interessanti indagini, riportando alla
luce il villaggio di Brandes, situato a ben 1800 metri di quota, e sviluppatosi dal XIII
al XV secolo. Nei pressi s’inabissano nel monte le gallerie del complesso minerario
da cui si estraeva piombo argentifero.
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«Che cos’è, allora, se mi dici che l’opera è troppo curata per essere stata destinata a
cava o miniera, come quasi tutti sostengono?» mi domanda sempre più curiosa e
incuriosita. Taccio. Suppongo che in un periodo successivo al suo abbandono l’Antro
delle Gallerie sia stato sfruttato come cava di arenaria. Sono stati così sbancati alcuni
tratti di galleria eliminando vari setti divisori, solette tra differenti livelli del
complesso, allargando qualche intersezione e, quel ch’è peggio, occludendo numerosi
cunicoli e gallerie laterali. Difatti non è completamente esplorato e i livelli inferiori
sono pure sommersi dall’acqua. Ma il motivo primo che condusse, chissà quanti
secoli fa, uomini e fors’anche donne, a concepire e realizzare ciò, resta senza risposta.
La pietra è muta o forse non siamo in grado di ascoltarla.
Anabasi
A me la Sfinge della Valganna fa venire in mente lidi lontani nel tempo e nello
spazio; mi rammenta così, semplicemente, un passo dell’Anabasi di Senofonte.
Siamo alla fine del V secolo a. e Ciro il Giovane vuole usurpare il trono di Persia a
suo fratello maggiore Artaserse II. Raduna quindi un grande esercito assoldando
anche diecimila opliti greci, molti dei quali spartani, celando però abilmente il vero
scopo della missione militare. Marcia poi nel cuore della Persia fino a un centinaio di
chilometri da Babilonia, dove sulla piana di Cunassa, situata tra il Tigri e l’Eufrate, si
decidono le sorti degli eserciti e la fama imperitura dell’epica impresa compiuta dai
Greci.
Gli eserciti si spiegano per la battaglia e la superiorità numerica a favore del re di
Persia è schiacciante, tanto che dà inizio a un’ampia manovra per l’accerchiamento
dell’esercito comandato dal fratello Ciro. Nell’intento di prevenire la pericolosa
mossa, Ciro stesso, con la sua guardia personale, si lancia alla carica per sfondare il
centro avversario e uccidere di suo pugno il fratello. Nemmeno i Greci attendono
l’impatto e intonato il peana sferrano l’attacco sbaragliando completamente un’ala
dell’esercito di Artaserse.
Le sorti parrebbero decise, ma nello scontro Ciro è morto e i suoi ufficiali persiani
hanno fatto atto di sottomissione passando armi ed armati nelle fila avversarie, sotto
il comando del legittimo re. Un’ambasciata intima ai Greci la resa, ma il rifiuto è
categorico: «Risponde per primo il più anziano, Cleanore di Arcadia, dicendo:
“Piuttosto che consegnare le armi preferiamo morire”. Parla poi Prosseno di Tebe:
“Vorrei sapere, Falino, se il Re vuole le nostre armi perché ha vinto o se vuole che gli
facciamo un regalo: se pensa di aver vinto, che bisogno ha di chiedere; che venga a
prendersele!”».4
Falino, consigliere greco al soldo persiano, dichiara che il Re ha vinto perché ha
ucciso Ciro, i Greci sono nel suo territorio quindi gli appartengono e volendo può
schiacciarli con il suo enorme esercito.
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Replica Teopompo di Atene: «Lo vedi anche tu, Falino, non ci restano che le nostre
armi e il nostro valore. Se teniamo le armi abbiamo la possibilità anche di mostrare il
nostro valore, ma se le consegniamo, perderemo anche la vita. Non aspettarti,
dunque, che vi consegniamo le uniche risorse che ci restano; piuttosto combatteremo
per privare voi delle vostre».5
Infine si tratta la tregua e i comandanti greci, assieme agli ufficiali subalterni,
vengono invitati a un banchetto fatto appositamente imbandire da Tissaferne,
comandante persiano e loro ex alleato, verosimilmente per ordine del Re. La cena si
rivela essere un po’ pesante e indigesta: tutti gli ufficiali greci sono tutti presi e uccisi
a tradimento.
Gli opliti non si perdono d’animo, eleggono nuovi comandanti, marciano per più di
duemila chilometri costeggiando un lungo tratto del fiume Eufrate e superando alcune
catene montuose per fare ritorno in patria, sconfiggendo l’esercito persiano ogni qual
volta si presenti a sbarrare loro la strada. Non percorrono l’itinerario dell’andata, ma
una nuova via, dove incontrano genti e usanze a loro sconosciute, che Senofonte, uno
dei comandanti, narra nell’epopea dei Diecimila.
Ecco il passo che mi ha sempre affascinato, richiamando le città sotterranee che
potevano trovarsi anche in Italia: «Le case sono scavate sottoterra e hanno una
imboccatura come quella di un pozzo ma sotto sono abbastanza ampie e hanno pure
dei passaggi scavati per ricoverare gli animali mentre gli uomini scendono con le
scale. In queste abitazioni ci sono pecore, capre, buoi, galline coi loro piccoli e tutte
queste bestie vengono governate con il fieno che è stivato all’interno. C’è anche del
grano, dell’orzo, legumi e vino d’orzo conservato dentro a dei vasi su cui galleggiano
i chicchi. Ci sono poi immerse delle canne più o meno lunghe e senza nodi e quando
uno ha sete le mette in bocca e succhia. A berla schietta è una bevanda piuttosto forte
ma piacevole una volta che ci si è presa l’abitudine».6
I soldati greci prendono commiato da queste genti in amicizia e Senofonte, mediante
un interprete, chiede al loro capo villaggio che terra sia quella: «“L’Armenia”
risponde».7 E «anabasi» vuol dire salita, ma anche intesa nel senso di vittoria!
Il calore dell’acqua gelida
Dedalo era un artigiano ateniese il cui nome significa «ingegnoso» e passò alla storia
per avere costruito su incarico del re di Creta Minosse un labirinto sotterraneo dotato
di un solo accesso. Dentro venne confinato il Minotauro. Non è che Dedalo si limitò a
sfruttare una preesistente miniera? L’Antro delle Gallerie è un vero e proprio dedalo,
attualmente con un unico accesso. Dedalo fornì il filo ad Arianna, la quale, a sua
volta, lo diede a Teseo per cercare il Minotauro nell’intrico sotterraneo, ucciderlo e
guadagnare l’uscita grazie al filo che aveva svolto. Conosco così bene l’Antro che
non ho bisogno del mitico filo per ritrovare infallibilmente la via d’uscita.
15
Lasciamo sulla sinistra i Rami degli Gnomi, percorriamo la Parabolica, ci fermiamo
al Pozzo Quadro. Noi speleo abbiamo il vezzo di battezzare ogni pozzo e ramo con
un nome. Così ce lo ricordiamo. Così, quando chiacchieriamo o ne discutiamo,
sappiamo sempre dove siamo.
Ci protendiamo di testa in un cunicolo bassissimo e fangoso a causa del materiale di
riporto che lo ha quasi completamente interrato, passiamo a lato di una frana e siamo
nel Labirinto. In questo unico ambiente d’una certa grandezza ad oggi noto
confluiscono ben nove gallerie, le quali girano, voltano e s’intersecano per tornare
sempre al punto di partenza. Il mio scherzo preferito è condurci qui gli speleo,
spegnere la mia luce e dileguarmi al buio. Tanto la strada la conosco al tatto. Quando
va bene ci mettono circa mezz’ora e vagonate d’imprecazioni per uscirne. Altrimenti
sono costretto a tornare sui miei passi e ripescarli.
Qui dentro c’è un silenzio fresco, carico di storia. Gli echi di chi scavò non giungono
alle mie orecchie, non penetrano il mio sesto senso. La prendo per mano, la guido su
è giù per il Labirinto e per noi il tempo si è dissolto. Visitiamo un’infinità di rami,
scendiamo di livello incontrando quelli allagati. Sotto tacciono indisturbate le gallerie
sommerse. L’acqua ora azzurra ora verde ci gioca uno scherzo. L’acqua dolce mi
ammalia.
«Mi piacerebbe farci il bagno» sussurra.
E perché no? Via la tuta, il sottotuta in pile, gli stivali, via tutto il resto. L’acqua ci
avvolge, il gelo ci fa tutt’uno. Ringrazio mentalmente le acque, offro il calore del mio
corpo, m’immergo completamente sentendo che l’acqua mi accarezza la sommità
della testa. Poi il freddo ha il sopravvento e sbuffando e soffiando come un tricheco
con un balzo sono fuori dalla vasca di roccia.
Le tendo la mano, l’aiuto a uscire dall’acqua e il suo slancio quasi mi sbilancia. È tra
le mie braccia. Il brivido di freddo è quello del tempo siderale che ci ha tenuti distanti
l’uno dall’altra. Il brivido si tramuta in calore al contatto dei nostri corpi e ci
baciamo. La guardo dritta in quegli occhi verdi e profondi. «Tu ricordi» le dico con
voce secca.
«Tu vaneggi» mi risponde. E mi trae a sé, selvaggiamente, mi bacia con passione, mi
cerca. Lo so che mi hai cercato. Ci buttiamo sulle tute speleo stese a terra, il fango ci
chiazza, i nostri baci ci coprono. Ci rituffiamo in acqua, per toglierci il fango di dosso
e riprovare il brivido del gelo sui nostri corpi accaldati. Non abbiamo alcun
asciugamano appresso e ci sfreghiamo vicendevolmente i corpi con le maglie di
ricambio. Asciugarle i capelli è un’emozione intensa. Ci rivestiamo e cerchiamo un
posticino dove consumare una merenda che, data l’ora, si potrebbe chiamare
colazione. Dalla sacca speleo in PVC estraggo da mangiare e da bere. Il caldo the alla
menta contenuto nel thermos ci rinfranca.
Quando la metropoli saluta noi, esploratori del buio, nel cacofonico chiasso mattutino
le dico semplicemente: «Andiamo da me». Lei annuisce senza profferire parola. Sfila
il portafogli dalla giaccavento, lo apre, ne trae una piccola foto in bianco e nero, me
la porge. Ha qualche anno di meno, i suoi capelli sono lunghi, le arrivano quasi alla
vita.
16
«È per te, tienila, l’ho fatta anni addietro. Certamente ti ricorderà di un tempo
passato, ma quello che dobbiamo vivere è il presente. Non scordarlo!» e mi bacia.
L’acqua come forma di potere
Acqua, sempre acqua... Visto e considerato che la speleologa e lo speleologo si
interessano di acqua, direi che due parole sull’argomento legato a questo elemento
che scava le grotte e poi le panneggia di concrezioni si possono spendere. La
faccenda della privatizzazione dell’acqua è purtroppo inquinata da agenti partitici e
quindi politici o, se più vi piace, da fattori politici e conseguentemente partitici.
Stiamo comunque dirigendoci verso la perdita di sovranità da parte dello Stato, con il
conseguente aumento di potere da parte di incontrollate e incontrollabili entità. Come,
ad esempio, banche e multinazionali.
Per riflettere da un punto di vista prettamente storico e magari pure speleologico,
riporto non solo un dato storico, ma pure qualche mia osservazione. Il medioevo
italiano ha visto la costruzione di formidabili strutture difensive, le quali hanno
sfidato i secoli per giungere fino a noi sostanzialmente immutate. La loro
acquisizione da parte delle nuove odierne realtà comunali e il loro recupero hanno
talvolta gettato raggi di luce sul passato, facendoci cogliere spaccati di vita
quotidiana.
Il borgo marchigiano di Gradara è tutt’oggi protetto dalla cinta muraria del XIV
secolo, dominato dal castello costruito dai Malatesta di Verrucchio su precedenti
fortificazioni e restaurato dagli Sforza alla fine del XV secolo. Un recente studio sulle
mura accenna al rapporto tra il borgo, proprietà dei borghigiani dal 1363, e i signori
feudali proprietari del castello, denominato anche rocca: «Mentre, infatti, questa,
racchiusa nel più breve circuito delle mura del girone, è di proprietà dello Stato
centrale ed è completamente avulsa dalla vita dei cittadini mai chiamati a partecipare
alle feste di corte nè alla presa di possesso dei vari enfiteuti, le mura della terra (il
centro storico vero e proprio) sono invece di proprietà della comunità e da questa
orgogliosamente custodite e mantenute. E ciò dal 1363 a tutt’oggi ininterrottamente»
(Bischi D., Il castello e le sue mura, in Bischi D., Cucchiarini E., Le mura di
Gradara, Editrice Fortuna, Fano 1996, p. 16).
Ed ecco il punto che direttamente riguarda la fruizione dell’acqua potabile da parte
del popolo: «Tacita riconoscenza ci fu, per le famiglie della terra e del borgo, solo per
l’uso della cisterna all’interno della rocca. Nel 1853 il Governo Pontificio decideva
infatti, per le condizioni disastrose della rocca, lo smantellamento di tutto il
complesso al fine di ricavarne materiali di risulta (ornati, coppi, laterizi, ecc.). Il
periziato introito fu di scudi 7359. Per l’utilità della cisterna, che, sarebbe venuta a
mancare con lo smantellamento dei tetti, il comune di Gradara, fino ad allora
disinteressato all’acquisizione della rocca, ne chiese ed ottenne l’enfiteusi prima e la
proprietà dopo al solo scopo di salvaguardare l’approvvigionamento idrico del
17
castello. Impossibilitato però a garantire la gravosa manutenzione della rocca, il
comune la cedette, nel 1877, riservandosi però la fruizione della cisterna che, di
proprietà del Conte Alessandro Bonacossi alle stesse condizioni fu ceduta nel 1919
all’ingegnere Umberto Zanvettori di Belluno» (Ivi).
Innanzitutto mi viene da pensare che l’equilibrio mantenutosi nel tempo tra feudatari
e popolo poggiasse anche e soprattutto sul fattore acqua potabile. Se i borghigiani
dovevano recarsi al pozzo del castello per l’approvvigionamento, immaginiamoci
cosa sarebbe potuto accadere se gli stessi avessero contestato o si fossero in qualche
modo posti in contrasto con l’autorità centrale: questa gli avrebbe, per così dire,
chiuso i rubinetti e li avrebbe assetati. Quindi al popolo conveniva stare buono e, a
ben guardare in questo XXI secolo, in alcuni paesi esteri le cose non sono mutate.
In ogni caso adesso si grida alla siccità, ma pare che piova e che nevichi quanto prima
e talvolta pure un po’ di più. Si dice che il prossimo oro sarà quello blu, ovvero
l’acqua, e ci si avventa per “conquistare” più fonti possibili. In realtà il fattore acqua
a noi non riguarda direttamente: è alla base delle guerre mediorientali. Ma qualcuno
desidera applicare tale «modello vincente» pure qui da noi, per soggiogare il popolo.
Non ci credete? Digitate sui motori di ricerca alcune parole chiave, utilizzando il
vostro buon senso, un minimo di conoscenza storica sul Ventesimo secolo e un
pizzico di fantasia. Se siccità e penuria d’acqua devono essere, e che siano! Forse
sarà la volta buona che il declassato speleologo verrà tenuto in considerazione per la
ricerca, lo studio e il recupero delle antiche opere idrauliche sotterranee, le quali
giacciono abbandonate e vilipese sotto i nostri piedi. Forse sarà la volta buona che lo
Speleologo (notare la Esse Maiuscola!) uscirà dal circolo settàrio in cui si è chiuso.
Per quanto riguarda la penuria del liquido mi viene in mente che, ad esempio, le suore
Passioniste di Tarquinia (Viterbo) raccolgono ancora l’acqua meteorica nelle grandi
cisterne quatto-cinquecentesche del convento per innaffiare gli orti e lavare i chiostri.
Se lo fanno loro, possibile che altrove non si possa fare altrettanto? Solo nel corso
degli ultimi duemila anni si sono costruite così tante cisterne che, già cominciando a
recuperarne una parte, si scosterebbe la spada di Damocle della penuria d’acqua,
senza dover spendere ulteriori energie per costruirne di nuove.
Riporto utilmente un passo di Vandana Shiva sulla conserva sotterranea dell’acqua: «I
complessi di cisterne in India meridionale, tra i più duraturi sistemi indigeni, sono in
uso da secoli. Sono costituiti da centinaia di serbatoi collegati tra loro in modo da
formare una catena continua in grado di evitare ogni perdita di acqua. I colonizzatori
rimasero colpiti da quei sistemi così elaborati. Commentò una volta il maggiore
Sankey, uno dei primi ingegneri britannici giunti nello stato del Mysore: “Il principio
dell’immagazzinamento è stato eseguito in misura tale che occorrerebbe non poco
ingegno per trovare posto per una nuova cisterna in questa grande area”» (Vandana
Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli, Milano 2003, p. 126).
Un passo del libro, sempre a proposito dell’idraulica antica, mi ha colpito e mi ha
dato modo di riflettere ulteriormente. Ve lo riporto: «I britannici, il cui sistema
agricolo non dipendeva dall’irrigazione, non sapevano nulla di gestione dell’acqua
quando arrivarono in India. Arthur Cotton, fondatore dei moderni programmi
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d’irrigazione, scriveva: “C’è una moltitudine di vecchie opere indigene in varie parti
dell’India. Sono opere nobili, che rivelano sicurezza e senso di progettazione. Sono in
funzione da centinaia di anni. Quando sono arrivato in India sono rimasto colpito dal
disprezzo con cui inizialmente gli indigeni parlavano di noi per come trascuravamo le
migliorie materiali; dicevano che eravamo come dei selvaggi civilizzati, bravissimi a
combattere ma talmente inferiori ai loro grandi uomini da non sapere nemmeno
mantenere in buone condizioni le opere che loro avevano costruito, e tanto mano
imitarli estendendo il sistema» (Ibidem, p. 128).
Noi siamo tutti novelli “britannici”, nei confronti delle antiche opere di casa nostra.
Facciamoci due conti, spegniamo la televisione e ragioniamo con la nostra testa.
Magari leggendoci il libro di Vandana Shiva.
2. Dentro il mito
Nell’alba del mondo
Non sono ancora riuscito ad alzarmi dal letto. L’indolenza mi sospinge a un subdolo
senso di scoramento non giustificato, in cui mi sento pervaso dal crescente desiderio
d’eclissarmi tra il cuscino e le lenzuola, laddove si sogna. E nuoto. Nuoto contro la
corrente dolce e infida guadagnando a plumbee bracciate una riva che mi accoglie
con aspro sapore di saliva invecchiata, oramai da cambiare. Ma Lei mi attende, devo
raggiungerla. Non posso assolutamente rimandare questa occasione.
Gli occhi di Lei mi guardano attraverso le brume del sogno che si dissolve, inducendo
la mia carcassa a sollevarsi dal sudario. Raddrizzo me stesso, trovando nel pavimento
un punto fermo. Di partenza. Le piante dei piedi accolgono benevolmente il contatto
fresco e solido. Vi fanno presa. Tutto passa, anche la notte. Spengo il baccano
prodotto dall’orologio d’inizio millennio e tuffo la testa nell’acqua tiepida.
Lo spazzolino da denti cancellerà ogni traccia di sonno mal digerito, rendendo reali i
suoi occhi, le sue labbra, lo zaino accasciato contro la porta d’ingresso e le corde già
pronte nelle sacche. Corde che ci serviranno per scendere. Io e lei scenderemo nel
ventre della Terra. In grotta! Io e Lei andremo a percorrere una delle tante vie
sotterranee dell’acqua, da me già percorsa in passato.
Anni addietro volevo sapere dove conduceva, quella via d’acqua. Volevo esplorarla
tutta, la grotta. Volevo dare credito a un pensiero, a un’immaginazione: il segreto
desiderio di trovare una traccia del passato dell’Umanità che ribaltasse la sua «storia
ufficiale». Ma questo venerdì mattina mi risuona strano, forse l’aria vacanziera mi ha
reso oltremodo pigro.
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Mi danzano nella mente pensieri d’altri tempi, quando leggevo i libri di Peter
Kolosimo, Charroux, von Haghen oppure Il mattino dei maghi di Pauwels e Bergier,
sulla «vera» storia dell’umanità e della sua reale o presunta evoluzione.
Cos’è accaduto tanto tempo fa? Cos’è accaduto agli albori del Mondo? Un giorno gli
Dei del Cielo si sono adirati e hanno mandato un corpo solido a schiantarsi sulla
Madre Terra. Forse una delle lune che correvano attorno alla Terra? Dove si sarà
rifugiata la gente scampata al disastro? In montagna e nelle grotte sotto le montagne.
Questo è un punto fermo da dove cominciare.
Sotto terra si cela qualcosa. Se ne parla sempre più spesso. Forse che taluni segreti
possono oggi trovare divulgazione presso questa massa addormentata a dovere dai
media? Senza suscitare troppo scalpore? Senza suscitare una furiosa reazione?
Atlantide è un mito.
Platone, filosofo greco vissuto duemilacinquecento anni fa, ci parla di Atlantide.
Anzi, nel dialogo tra Socrate, Timeo, Crizia ed Emocrate fa scaturire la storia di
Solone che si reca in Egitto. Solone, poeta e legislatore ateniese vissuto nel VII-VI
secolo avanti l’anno zero, incontra un saggio egiziano, il quale gli dice che novemila
anni prima vi fu la guerra tra Atene e Atlantide, dove Atene difese strenuamente la
propria libertà, vincendo.
Fu un’eroica impresa, ma poi venne il cataclisma e la memoria dei Greci si disperse,
sopravvivendo invece in altra gente sui monti interni dell’Egitto, meno colpiti dal
disastro: «In tempi successivi, però, essendosi verificati terribili terremoti e diluvi,
nel corso di un giorno e di una brutta notte, tutto il complesso dei vostri guerrieri di
colpo sprofondò sotto terra, e l’Isola di Atlantide, allo stesso modo sommersa dal
mare, scomparve. Per questo anche ora quel mare è diventato impercorribile ed
inesplorabile, essendo di notevole impedimento il fango profondo che produsse
l’Isola, sprofondando».8
Atlantide era grande quanto un continente e la sua capitale, descritta da Platone nel
Crizia, era cinta da mura: «S’era detto che tutta la terra era divisa in lotti, a volte più
estesi, a volte meno e che in ciascuno di questi, le divinità avevano disposto un culto
e un rituale in proprio onore. Non faceva eccezione neppure Poseidone il quale,
ottenuta in sorte l’isola di Atlantide, fissò la dimora per i figli che aveva avuto da una
donna mortale in un certo luogo dell’isola che aveva all’incirca questa
conformazione. Dal mare al centro dell’isola era tutta una pianura, certo, fra tutte le
pianure, la migliore, e, a quanto si dice, anche notevolmente fertile. Non distante
dalla pianura, a circa cinquanta stadi dal suo centro, si ergeva un monte, non molto
elevato in ogni sua parte. Qui aveva dimora uno degli uomini che originariamente
eran nati dalla terra; il suo nome era Euenore ed abitava con la moglie Leucippe.
Ebbero una sola figlia, Clito, la quale, non appena fu in età da marito, rimase orfana
di padre e di madre. Poseidone, preso da passione, giacque con lei. Così scavò
tutt’intorno quell’altura in cui la fanciulla abitava, formando come dei cerchi
concentrici, alternativamente di mare e di terra ora più larghi ora meno larghi: due di
terra e tre di mare quasi fossero circonferenze con centro nell’isola, e da essa
perfettamente equidistanti. In tal modo, quel luogo risultava inaccessibile agli uomini,
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tenuto conto del fatto che allora non c’erano ancora né le navi né l’arte della
navigazione».9
La descrizione degli edifici della città è precisa, puntuale. Vi sono canali navigabili,
palazzi, templi, terme, giardini, mura, l’arsenale navale e il porto dove approdano in
continuazione navi provenienti da lidi lontani, una volta che l’essere umano impara a
costruire natanti e a commerciare. Vi sono due fonti d’acqua, una calda e una fredda,
ma l’acqua corrente potabile la traggono direttamente da una sorgente che scaturisce
nel vicino bosco. Il tempio dedicato a Poseidone è ricco e imponente, rivestito d’oro e
d’argento all’esterno, di avorio, oro e oricalco all’interno. L’oricalco era il mitico
metallo degli Atlantidei, considerato il più prezioso dopo l’oro. Vi era la grande statua
che lo raffigurava come un auriga che si ergeva sul cocchio tirato da sei cavalli alati.
A Tarquinia, a poco meno di cento chilometri a nord di Roma, ne hanno ritrovati due,
in terracotta, rovinati a terra assieme al frontone del più grande tempio etrusco ad
oggi noto. Pare che qualche archeologo cerchi il cocchio con l’auriga, o la divinità
che lo guida, forse nel posto sbagliato, si dice nell’accumulo dello sterro degli scavi
ottocenteschi o altrove, seguendo le indicazioni di qualche improbabile «tombarolo»
pentito.
Il cataclisma
Se novemila anni prima di Solone, che dista da noi circa duemilaseicento anni, è
successo un cataclisma, dobbiamo andare indietro di almeno undicimilaseicento anni!
E ci troveremmo all’incirca nel novemilaseicento prima dell’anno zero. Una meteora,
oppure probabilmente la terz’ultima o la penultima luna della Terra si schiantò sulla
superficie terrestre. L’impatto provocò una gigantesca ondata di acqua, fango, rocce.
Poi una nube ardente seguita da ceneri e fumo avvolse il pianeta distruggendo quasi
tutto. L’atmosfera divenne cupa e cominciò a piovere tutto quel vapore che si era
addensato in cielo e causato dall’evaporazione delle acque. Ma qualcuno s’era
salvato. La gente sapeva dell’arrivo del bolide e aveva provveduto come meglio
poteva. La terra si disassò, i poli si spostarono e il ghiaccio si sciolse da una parte e si
riformò da un’altra. La leggera inclinazione dell’asse terrestre diede (e dà) luogo a
una variazione d’intensità delle radiazioni solari sulle superfici terrestri e la vita pian
piano riprese a rifiorire scandita dalle stagioni.
Secondo la scienza ufficiale tale cataclisma non è avvenuto e siamo tranquillamente
ai margini di quell’epoca preistorica che va all’incirca dal 35.000 al 10.000 prima
dell’anno zero, denominata dagli studiosi «Magdaleniano» o «Maddaleniano». In tale
epoca prepotentemente si affermerebbe il cosiddetto uomo moderno, l’homo sapiens
sapiens. Chi ha ragione?
Nel Riparo di La Madeleine, in Dordogna (Francia), da cui l’epoca prende il nome, si
sono rinvenuti rilievi e incisioni rappresentanti soprattutto animali. Un paio di
bassorilievi raffigurerebbero corpi femminili. Basteranno quattro resti ossei, una
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manciata di selci e due scarabocchi sulla pietra a divenire «parola scientifica
incontrovertibile?».
Qualcuno però ipotizza che circa sei-settemila anni da oggi si sia verificato un
ulteriore cataclisma. O una guerra atomica, che ai fini del risultato finale è la stessa
cosa se non peggio. Se guardiamo la superficie della Terra da un satellite ci
accorgiamo che è butterata, è cosparsa dai resti di crateri lasciati da corpi solidi che
l’hanno colpita nel corso del tempo. Ogni anno la terra è bombardata da meteoriti. I
più si dissolvono infuocandosi attraverso la nostra atmosfera. Altri si piantano a terra,
provocando buchi più o meno grossi, ma la maggior parte finisce nel mare.
Ogni filosofo, antico e moderno, ha sulle labbra Platone. Ma quando si tratta di
ricordare i passi del Timeo e del Crizia che parlano di Atlantide allora le labbra
rimangono mute o quasi. Si liquida il tutto con un’alzata di spalle. Semplici storielle,
farneticazioni illecite d’un filosofo con la effe maiuscola, anche lui, però, con le sue
pecche: quelle di descrivere un qualcosa che non si vuole e non si deve tirare fuori a
tutto beneficio di Adamo ed Eva che generano solo due maschi, ma da cui
discenderebbe il genere umano.
Mi sono sempre chiesto che cosa spingesse noi speleologi a tramutarci in galeotti del
sottosuolo. Ovvero in coloro i quali nel tempo libero, da poter agevolmente e
utilmente impiegare a correre dietro alle gonnelle, preferivano dedicarsi
all’esplorazione delle caverne e degli abissi che sprofondavano sotto le montagne.
Richiamo ancestrale? Desiderio inconscio di autopunizione vagando ore e ore in
gallerie o budelli pieni di buio? Consapevolezza di essere gli unici veri esploratori
rimasti nel Terzo Millennio? Reminescenze di accadimenti i quali echeggiano dal
tempo? Dallo spazio siderale? Dalle profondità della nostra Madre Terra? L’alba di
quel giorno in cui Atlantide fu cancellata vide la popolazione terrestre quasi
annientata. Quasi. Ma chi rimase lasciò un segno. E lo lasciò sotto terra!
Parlando dell’antichissima terra greca, prima del cataclisma, così dice Platone nel
Crizia, in un passo del tutto particolare riferito alle acque, nel capitolo La
configurazione geo-fisica dell’antica Attica: «C’era poi un gran numero di alberi
coltivati d’alto fusto, e la terra offriva pascoli a non finire per il bestiame. Allo stesso
modo anche l’acqua piovana che Zeus mandava ogni anno non andava sprecata, come
invece succede oggi che si perde scorrendo sulla nuda terra verso il mare. In quei
tempi, in effetti, il suolo ne aveva in sé molta e molta altra ne tratteneva,
distribuendola negli strati di terra argillosa; così l’acqua che defluiva dai monti
scorrendo verso le valli permetteva che in ogni luogo ci fosse un flusso abbondante
sotto forma di sorgenti e di fiumi. E la verità di queste mie affermazioni sulla nostra
terra è dimostrata dai sacri templi che ancor oggi son rimasti in prossimità delle
antiche fonti».10
Platone descrive come l’acqua meteorica, ovvero la pioggia, sia conservata dalla
natura nelle pieghe del suolo, tra gli strati d’argilla. Viene da esclamare che Platone,
oltre che filosofo, fosse anche un geologo! E perché, allora, non dargli retta? Perché
non cercare anche in altri luoghi, presso le sorgenti, i resti dei templi di un
antichissimo passato?
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Veleggiare in grotta
Qualcuno ha definito la Speleologia «alpinismo all’ingiù». Ovviamente non
concordo. A torto oppure a ragione per me l’alpinismo principia con il guardare una
montagna e cercare di capire da che parte arrampicarcisi per giungere alla vetta. Poi ti
cimenti nell’arrampicata e la visione della vetta, ovvero dell’obiettivo, la cogli, la
perdi, la senti mano a mano che sali, a seconda dell’angolazione, a seconda della
prospettiva.
Puoi raggiungerla o meno, quella vetta.
Noi vediamo solo un buco. E c’è poco da ridere perché è più vero, sotto molti aspetti,
di quanto si possa percepire di primo acchito.
Guardiamo il buco nero nella roccia, grande o piccolo esso sia, e immaginiamo che
da qualche parte conduca, ben sapendo che conduce, generalmente, a tanto vuoto e a
tanto buio. Il fondo non esiste se non nel momento in cui non trovi prosecuzioni per
andare oltre. Allora «QUELLO!» è il fondo. Ma tanto sai che tornerai sui tuoi passi
innumerevoli volte, per cercarla, per trovarla, quella prosecuzione.
Oppure la grotta prosegue e tu no. Non ce la fai. Oppure, semplicemente, quella
grotta ti ha stancato e naturalmente ne cerchi un’altra.
La speleologia è umorale, come la femmina. E come la femmina è intimamente legata
alla Madre Terra.
Quello che fa di una grotta «LA GROTTA!» è il sudore che ci butti dentro per esplorarla.
Rimarrà viva nel ricordo di chi ce l’ha dentro. Rimarrà reale solo in virtù del rilievo
in pianta e in sezione fatto da quegli speleologi che l’hanno percorsa prendendone le
misure necessarie, per disegnarla nello specifico intento di dare un contorno a quel
buio.
Dal punto di vista scientifico un rilievo fa capire tante cose e pure se due grotte, che
corrono vicine, possano essere congiunte con la tua esplorazione e divenire una sola.
Ma la grotta conduce sempre e comunque nella misura in cui desideriamo vivere la
nostra avventura.
Salvo sorprese.
Essa ci dà la sensazione di respirarvi aria pura, filtrata dall’esterno attraverso budelli,
pozzi, cascate d’acqua e fessure impraticabili, ma soffianti. Il respiro della grotta ha
un ché di sano.
Un giorno ho visto un film di fantascienza: Serenity, del regista Joss Whedon.
L’astronave di un pugno di squinternati falsamente qualunquisti e marcatamente
idealisti sfreccia tra caccia stellari imperialisti e navi spaziali dipinte di rosso montate
da mutati sanguinari, così ridotti da un simpatico prodotto chimico immesso
nell’atmosfera del pianeta Miranda dall’impero: il Pax.
Il 90% della popolazione si lascia morire perché privato di voglie e di stimoli. Il 10%
restante, i cosiddetti Reavers, hanno l’altrettanto imprevedibile reazione di divenire
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furiosi scatenati. Non rispettano alcuna regola, desiderano sbranare le persone vive e
sono combattenti ferocissimi. Nella popolazione delle colonie il Pax doveva inibire
qualsivoglia desiderio di contestare la linea politica e amministrativa dell’Impero,
creando in realtà due effetti diametralmente opposti, ma ugualmente disastrosi per la
gente.
Bella storiella.
A me fa venire in mente che da anni vi sono aerei militari che lasciano nel cielo le
«strisciate bianche», le cosiddette «scie chimiche». Credo ne possiate trovare
menzione girellando su Internet. Gli aerei irrorano la gente con sostanze inibitorie,
che servono a sedare, a tenere tranquilli e passivi.
In concomitanza con le stagioni elettorali si può ammirare una vasta ragnatela di scie
chimiche disegnate nel cielo. Ne ho viste in Italia, Francia, Germania... Possibile che
nessuno riesca a farsi sentire?
Ma torniamo al filmetto di fantascienza.
In mezzo a tutto questo il pilota dell’astronave degli squinternati carambola tra
schianti, botti, raggi mortali e quant’altro schivando quasi tutto e, principiando la
picchiata che lo deve portare fuori dal casino mortale, mormora a sé stesso: «Sono
una foglia al vento, guarda come so veleggiare».
3. Dentro l’avventura
Via dal cemento
Al termine della settimana lavorativa troppo spesso ci si ritrova come impastoiati
nella consuetudine. Occorre volare altrove, quasi fuggire, oppure semplicemente
andare a ritrovare sé stessi. Aria. Sorriso. Le cose che ci appassionano.
Bella, bellissima, la giornata. Anche Lei.
Oserei dire sia la giornata ideale per andare in grotta. Il motore del furgone ronfa e
passo a prenderla a casa. Mi fa accomodare in tinello, finisce di affardellare lo zaino e
tronca il filo dei miei pensieri con un bel bacio, inondandomi il cavo orale del suo
sapore arcano. Carichiamo il tutto nel furgone. Uno spesso profumo di eucalipti ci
segue, entra con noi, ristagna un poco nell’abitacolo quasi a dare una pennellata di
festosità alla giornata che principia. Le siepi della via sono in fiore e ci salutano. Il
principio è importante.
«Dicono» esclama, così interrompendo con grazia il filo dei miei pensieri «che chi
“fa speleologia” da più di un decennio o sia mortalmente noioso, e ricoperto da uno
strato di muffa che via via s’inspessisce come il suo alito, oppure sia matto» e ride di
gusto.
«Hai ragione ...» rispondo distrattamente. Chi fa speleologia, in realtà, sogna. Sogna e
custodisce in sé un sogno.
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Si esula dal quotidiano. Anzi, questo, ovvero il quotidiano, è quasi superfluo.
Questione da sbrigare come ineluttabile formalità, perché c’è il sogno che t’attende.
Ci pensi giorno dopo giorno, ripercorrendo con la mente la grotta che stai esplorando,
individuandone gli ostacoli, sapendo già come modificare quell’attacco in parete,
affacciandoti all’orlo del pozzo sul quale ti sei arrestato domenica. Erano terminate le
corde. Hai piantato un paio di chiodi e nuovamente lanciato un sasso nel baratro.
Due, tre, quattro secondi e un lontano soffuso tonfo. Il pozzo è abbastanza profondo.
Qualche giorno ancora e da lì riprenderai ad esplorare, a scendere. Scendere è la
parola d’ordine.
Sei forse fuori dalla realtà, ma la tua è un’altra. Nessuno ti vede e ti sente: sei fuori
moda. Infangato e bagnato sei fuori luogo. In fondo quasi ne gioisci. Talvolta
t’indispettisci nel sentirti considerare strano. Anomalo. Eppure cio’ che fai è chiaro:
segui te stesso. Segui la tua voglia di esplorare, scoprire, essere, capire, conoscere.
Segui la via dell’acqua, di quell’acqua la quale nel corso del tempo ha scavato la
grotta.
Mi torna alla mente qualche rigo, letto nel secolo scorso e scritto qualche decennio
prima da uno strano personaggio. Ma cosa vuole dire la parola «strano»? Qual’è il
significato che le diamo? Ecco cosa scrisse: «Tutti gli uomini sognano, ma non allo
stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente
scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno
sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti,
per attuarlo».11
«Cos’è per te la grotta?» domanda lei a bruciapelo.
Ma che domanda fai, tesoro mio? Sei la straordinaria realtà che persino in questo XXI
secolo sei venuta a cercarmi. Si, tu, dal profondo del Tempo. Inconsciamente ora,
inconsapevolmente adesso. Ma quando sei partita lo sapevi che mi avresti trovato.
Ora è così, così buffo che non so che dire. Io lo sento e tu non dai cenno nemmeno di
sospettarlo, che ci siamo già incontrati e amati chissà quante volte, in chissà quanti
tempi. Non ne dai cenno ma lo sai perfettamente e, in ogni caso, hai ragione tu:
dobbiamo vivere questo attimo terrestre come fosse il tutto e null’altro. Null’altro?
«Merlino il mago, o druido, definisce la grotta “il Ventre del Drago, dove ogni cosa
incontra il suo opposto”» le rispondo dolcemente.
Esplorare una grotta è infilarsi nel buio cercando di capirla. Ne osservi la
conformazione, gli strati modellati dall’acqua, sfondati dai crolli. Ti domandi perché
una galleria che si è formata in regime freatico, ovvero dalle acque meteoriche
penetrate nel sottosuolo, è così come la vedi e non in modo diverso. Esegui calcoli e
studi, annoti le differenti stratificazioni, la loro pendenza, il tipo di roccia che si
mantiene costante o improvvisamente cambia, assumendo bruscamente forme
differenti da quelle appena percorse. Con gli appositi strumenti ne stendi il rilievo in
pianta e in sezione. La scala che utilizzi è generalmente 1:100, se il suo sviluppo è
modesto. Disegni la tua grotta. Già, perché ogni speleo che scopre una grotta, come
coloro che vi operano in seguito, la sentono propria. Diventa parte del proprio essere.
Essere speleo. Essere e basta. Nel buio. Fuori da mode e movenze. Il rilievo permette
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di visualizzare il nulla nel quale t’infili. Ti fa comprendere dove questa punti, in
relazione alla superficie. Capisci se vi possono essere altri accessi, dove sono
ipotizzabili le prosecuzioni, se vi possono essere collegamenti con grotte vicine e
cercare poi la loro giunzione, dando vita a «complessi». Osservi l’andamento delle
acque, ipotizzi a quali sorgenti possano giungere, le colori con traccianti per averne
conferma o smentita. Studi le sue forme minerali. E le sue forme di vita, strani e quasi
misteriosi insetti, anfibi, pesci.
Esplori. In questi recessi è la prima volta che un essere umano pone il proprio piede.
In quanti luoghi della Crosta Terrestre si può avere la medesima certezza? Ovvero di
essere i primi?
«Se mi seguirai» riprendo «ti condurrò in un intreccio di cose che puntano sempre e
solo lì, nella fantasia di ognuno, relegata chissà dove, forse nell’immaginario
collettivo, spianato e cementificato senza tregua. Ma negli speleologi rimane viva. La
fantasia.»
L’arcano
Si, lo so e posso confessarlo solo in questo libro: le cavità naturali, ovvero le grotte,
alla lunga sono tutte uguali. Il sapore fresco, stantio, epico oppure drammatico glielo
danno i contesti delle varie esplorazioni, l’atmosfera che si crea in Gruppo quando si
racconta, quello che vi credete di essere quando riavvolgete la pellicola dei vostri
trascorsi. Eppure, anche questa è vita. Eppure, talvolta, anche questo fa storia.
E io mi sono stancato a furia di calarmici dentro solo per vedere un’altra grotta.
L’unica di cui mi sia infatuato era là nei sogni di noi tutti e portava là, al di là persino
della portata dei nostri sogni. Era «Il Collettore».
Ad ogni buon conto preferisco le cavità artificiali, ovvero le opere sotterranee scavate
dall’uomo nel corso del tempo. Ma questa più che speleologia è archeologia.
L’archeologia è interessante, ma pallosa, e l’archeologo troppo spesso mi annoia.
Preferisco l’archeologa. Possibilmente quella «figa».
In ambito archeologico le donne superano gli uomini nel numero. Forse sarebbe
meglio chiarire che le facoltà universitarie con indirizzo archeologico sono più
frequentate dal gentil sesso, il quale ad oggi fatica ancora a ricavarsi un posto di
merito in una società maschilista. Purtroppo, in Speleologia, di femmine ne transitano
poche e non si curano, generalmente, del tempo passato.
Questo scrive Robert Ervin Howard, definito il «padre dell’heroic fantasy moderna»,
nella prima metà di quel lontano XX secolo. Evoca un tempo passato, in cui Conan il
Cimmero conquistò un regno con le sue sole forze: «Soltanto nella già nominata
provincia del Gunder, dove la gente non tiene schiavi, il puro ceppo hyboriano
sopravvive intatto. Anche i barbari più a nord hanno mantenuto puro il proprio
sangue: i cimmeri sono alti e possenti, coi capelli scuri e gli occhi azzurri o grigi. Il
popolo del Nordheim è di corporatura simile, ma con la pelle bianca, gli occhi
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azzurri, e i capelli rossi o dorati. I pitti sono sempre dell’identico tipo, mai mutato
attraverso le epoche. (…) I bossoniani sono tenaci combattenti difensivi, e secoli di
guerre contro i barbari del settentrione e dell’occidente hanno fatto si che abbiano
sviluppato tattiche di difesa quasi del tutto impenetrabili da un attacco diretto. Questo
era il mondo, al tempo di Conan».12 A me pare più reale delle panzane che mi
raccontano e che scrivono in ambito archeologico i nostri cari professori.
Qualche decennio più tardi esce il film Conan il Barbaro, diretto dal regista John
Milius e il cui attore principale è Arnold Schwarzenegger. Le parole del cronista di
Conan spezzano la monotonia delle classificazioni archeologiche, la sequenza delle
civiltà che dalla Mesopotamia improbabilmente s’irradiano nell’universomondo, fino
al sorgere delle piramidi: «Fra il tempo in cui l’oceano inghiottì l’Atlantide e il
sorgere dei Figli di Aryas, vi fu un’era al di là di ogni immaginazione, l’era in cui
visse Conan, destinato a portare la corona ingioiellata di Aquilonia sulla sua fronte
inquieta».
Penso al dopo.
Mi attendono una passeggiata in montagna e la grotta che ho promesso di farle
visitare. Una grotta fredda, che alterna tratti angusti a spazi giganteschi, colmi di buio
e di correnti d’aria che risorgono dal profondo, quasi a voler soffiar via gl’intrusi
speleologi che la desiderano esplorare fino al fondo, per vedere dove conduce, dove
termina, se termina. Una grotta che anni fa accolse il nostro incedere, i nostri sogni,
ma non li esaudì tutti. Ne mancava uno. Continua a mancarne uno...
Un vago alone permane.
A volte si sogna, si sogna e basta.
Altre volte si ha in mente un sogno, che per comodità potremmo definire «progetto»,
se lo si potesse compiere, metaforicamente parlando, con le proprie mani. Il sogno si
configurerebbe allora in qualche cosa legato alla propria attività, non solo lavorativa;
oppure a un proprio specifico interesse, trascurato per mancanza di tempo.
Un sogno potrebbe essere quello di far carriera, di vincere un premio miliardario,
oppure di conquistare una persona che ci sta facendo perdere la testa. O solo del gran
tempo. Il sogno è trovare qualcosa che supponiamo vi sia, ma la quale cosa
costantemente e puntualmente si nega ai nostri sforzi, alle nostre ricerche.
Anni fa il nostro sogno era di trovare, al di sotto di tutte le grotte di un certo
massiccio calcareo, la grande grotta, ovvero la grande galleria che raccoglieva le
acque di tutte le soprastanti grotte per condurle al fondovalle, alla «Sorgente
Primigenia». Certo, un tempo il fondovalle c’era sicuramente, ma oggi lo spazio è
occupato da un bel lago, bello e profondo. Oggi le acque della «Sorgente Primigenia»
fuoriescono al di sotto del livello dell’acqua.
In ogni caso la grande galleria sotterranea c’era e c’è sicuramente, anche se non
l’abbiamo mai vista, anche se fisicamente non l’abbiamo mai percorsa. Noi la
chiamiamo semplicemente «Il Collettore». Con ogni probabilità, se invece d’imperare
il patriarcato vi fosse, più giustamente, il matriarcato, tale galleria l’avremmo
chiamata «La Collettrice».
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4. Esplorando
Elucubrazioni profonde
Guido. Verso la grotta. Uno speleologo disse: «Verso quello che certa gente considera
l’inutile». La scoperta, l’emozione, l’esplorazione, l’essere vivo non ti ripagano in
dollari oppure in oro, ma in qualcosa d’incommensurabilmente più grande.
Esplorare.
Ma cosa dovevano essere i territori del Nord America prima del grande genocidio,
prima dell’invasione degli animali armati? Monti, foreste, ghiacci. Cosa doveva
essere partire per il Klondike, lassù, in cima al fiume Yukon? Non per l’oro, ma
all’inseguimento di un sogno. Questo si concretizza giorno per giorno, nel quotidiano
d’una terra selvaggia dove vivere, cercare, dividere i propri momenti solo con te
stesso, in rare occasioni con qualche trapper, o cercatore come te, qualche indiano che
impassibile t’osserva e ti capisce. Riempite le borse di pelle con la polvere gialla
potresti buttarla per ricominciare tutto daccapo, per riprendere a vivere in mezzo alla
natura, con il solo scopo di vivere.
Il sole ci bacia a più non posso, creando principi di sudorazione. Oramai l’estate è
alle porte, la primavera ha reso roventi i sentimenti, i prati fioriti fanno da mitiche
sirene intanto che la strada si svolge fino ai piedi del monte su cui bisognerà
arrampicarsi per trovare lei. Lei, la Grotta. Nuda e cruda. Così come madre natura
l’ha fatta.
Mi dice che ha una voglia matta di scendere in grotta con me e che, magari, potrei
pure lasciarla armare. La parola «armare» ricorda il dito pollice che accarezza il cane
della pistola a tamburo e poi lo solleva. Ma noi speleologi siamo pacifici e per
«armare una grotta» intendiamo piantare appositi chiodi a espansione nella roccia,
fissare ad ognuno la piastrina, agganciarci i moschettoni e a questi la corda che ci
permette di scendere.
Nel frattempo le scodello la storiella di Platone sulla grotta, tanto per tenerla
impegnata: «Immagina di vedere degli uomini rinchiusi in una abitazione sotterranea
a forma di caverna che abbia l’ingresso aperto verso la luce, estendendosi in tutta la
sua ampiezza per tutta quanta la caverna; inoltre, che si trovino qui fin da fanciulli
con le gambe e con il collo in catene in maniera da dover stare fermi e guardare
solamente davanti a sé, incapaci di volgere intorno la testa a causa di catene e che,
dietro di loro e più lontano arda una luce di fuoco. Infine, immagina che fra il fuoco e
i prigionieri ci sia, in alto, una strada lungo la quale sia costruito un muricciolo, come
quella cortina che i giocatori pongono fra sé e gli spettatori, sopra la quale fanno
vedere i loro spettacoli di burattini».13 Così disse Platone.
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«Essenzialmente» le spiego con tono pacato «i prigionieri incatenati siamo noi esseri
umani che guardiamo una sorta di “ombre cinesi”, credendo siano la nostra realtà
quotidiana».
Mi guarda perplessa.
«Mi spiego meglio» soggiungo. «La nostra realtà è solo un debole eco della vera
realtà, la realtà dalla quale proveniamo e a cui, terminato il nostro “corso di
apprendimento” su questa Madre Terra, torniamo.»
Sull’orlo
Siamo giunti e possiamo dire di essere in montagna. Il piccolo piazzale sterrato è la
base di lancio delle escursioni, delle arrampicate su roccia e delle spedizioni sotto
terra. L’aria è morbida, il cielo simpatico e lei bella da morire.
Tiro giù zaini e sacche. Ci cambiamo d’abito: via le vesti da città, sotto con pantaloni
larghi e magliette, poi via dentro il bosco. Si lega in fronte un foulard grigio, con
disegnini bianchi e neri. Non so cosa rappresentino: è già arrotolato per tenere
indietro i capelli biondi, biondissimi fino alle spalle.
Le passo la sacca grigia in PVC, tenendola con due dita, tanto per sottolineare
l’irrisorietà del suo contenuto. Pesa. Contiene quasi ottanta metri di corda e una pila
di moschettoni con piastrine. È cilindrica, è chiamata anche tubolare, ha una maniglia
in fettuccia larga, spessa, robusta e due cinghie o bretelle o spallacci, ma in fin dei
conti due strisce del medesimo materiale della maniglia che ti permettono anche di
portarlo come fosse uno zaino. Segandoti le spalle. Poi ha un bell’anello di metallo
per passarci dentro il moschettone, un’altra maniglia sul fondo e penso non manchi
altro se non il cordino che ne chiude la bocca. È il nostro bambino, l’inseparabile
compagno della grotta che cresce mentre lui si svuota. Strano come concetto?
Proverò a spiegarlo: intanto che si procede, ad ogni pozzo una corda viene estratta
dalla sacca. Vien da sé che, dopo qualche pozzo (a volte ne basta anche solo uno), la
sacca risulti vuota. Chiaro, no? Per l’esattezza di sacche ce ne tiriamo dietro diverse,
e più è fonda la grotta, più sacche ci sono. Più lunghe e complesse sono le operazioni,
più materiale ci portiamo appresso. Siamo o non siamo i galeotti del sottosuolo?
Superiamo una debole cresta di roccia e al di là ci appare il paradiso, con sotto
l’inferno.
Le porte dell’Inferno sono nell’area carsica.
L’azione chimica e meccanica delle acque ha lasciato in superficie rocce brulle ed
erose, campi carreggiati e conche ad imbuto chiamate doline, sotto le quali,
generalmente, ci sono le grotte. Questa è l’area carsica. Se non si riesce ad
immaginare una grotta, basta osservare le rocce. Le loro superfici sono movimentate
da solchi, crepe orizzontali, trasversali o verticali. Sono sezioni, in miniatura, di
grotte. Queste spaccature possono allargarsi in nicchie, lisce o più spesso frastagliate,
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arricchite da minuti cristalli che sostituiscono stalattiti e stalagmiti. Da qui si
dipartono altre crepe, grandi, piccole, sinuose.
Le acque meteoriche e quelle di fusione della neve e del ghiaccio corrono attraverso
il calcare, lo penetrano in profondità, vi creano torrenti, fiumi, cascate, laghi
sotterranei, per poi tornare fuori più a valle. Le si chiama sorgenti.
La gente beve da queste, ma nei pozzi carsici, quelli che più di tutti inghiottono
acqua, la gente ci scarica dentro dal sacchetto pieno di spazzatura che non vuole
riportarsi a casa, alle peggio sozzerie che accumula in questa vita dissennata. Il
peggio avviene qualora utilizzano grandi cavità carsiche come discariche, non
considerando che l’acqua dalla superficie raggiunge immediatamente le falde
acquifere. E l’inquinamento è subitaneo, con evidente grave rischio per la salute
pubblica.
Aree carsiche. Protezione delle aree carsiche. Speleologi che cercano e studiano.
Pensieri e teorie. Sudore e fatica.
Presenze vaganti
Osservo questi sentieri che solcano i fianchi dei monti, fatti chissà quanti secoli
addietro, mantenuti in funzione con pazienza e costanza. Portavano i carichi su e giù
con le slitte di legno, o nelle gerle sorrette da spalle robuste, avvezze alle fatiche, fino
a pochi decenni orsono. Si prendevano cura dei boschi, ne tenevano sgombro il
sottobosco. Quando un ciottolo saltava via, lo rimettevano a chiudere il buco che
altrimenti, col gelo e la pioggia, si allargava, rovinando la via di comunicazione tra le
tante piccole comunità o semplici baite che costellavano i fianchi dei rilievi. Con
paziente lavoro. Dentro la natura. Si traeva se stessi e il proprio fabbisogno dalla
terra. Noi campiamo d’altro e scendiamo dentro la terra a guardarla, spingere in
avanti i nostri sogni, spingere indietro la lingua che comincia a ciondolare nel rantolo
causato dall’erta salita.
«Certo che stavolta in grotta mi ci stai portando davvero» esclama d’un tratto.
«Come sarebbe a dire?» faccio io.
«La volta scorsa mi hai adescato in una sorta di labirinto che sembrava una miniera,
ma stavolta parrebbe che la cavità sia proprio naturale» mi guarda di sottecchi e
sorridendomi maliziosa soggiunge: «E sono già adescata!».
«Adescata sto’ par di palle!» esclamo. «E poi voglio proprio vedere se ci arrivi, alla
grotta» borbotto preparandomi già a rincarare con una battutaccia.
«So già che vuoi dire, risparmiati il sarcasmo» e mi guarda di traverso «non so com’è
ma qualche settimana fa in montagna avevo un po’ più fiato» e si ferma attendendo la
mia reazione.
«Sicuramente! Quando s’è trattato di darsela a gambe trottavi come un cammello» e
giù a ridere. Lei un po’ meno.
Ma, in effetti, anche io avevo riso poco, nel simpatico frangente escursionistico.
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Avevamo deciso di fare una vacanzetta in montagna, un po’ di sano trekking con la
tendina d’alta quota appresso. Ci eravamo accampati a lato del Castelletto, sul fianco
erboso del Col del Bos, sopra Cortina d’Ampezzo. Il Castelletto è un’appendice della
mitica Tofana di Rozes. Da Tzo Fanes, Monti della Luce, faneo, monti primigeni.
Fanum, tempio. Mi viene in mente il misterioso e mai trovato Fanum di Voltumna
etrusco, in centro Italia, luogo dove di riunivano periodicamente i rappresentati delle
dodici città etrusche, la favoleggiata Dodecapoli e di cui Tarquinia faceva parte.
La notte prima era stato un delirio. Eravamo arrivati alla testa della Val Travenanzes,
che corre sotto le tre Tofane da una parte, le cime di Fanis, Cavallo e Castello
dall’altra. Pioveva talmente tanto e tirava talmente tanto vento che decisi
d’accamparmi dentro un grande masso rovinato dal fianco della Tofana chissà da
quanti millenni. Nel corso della Grande Guerra i soldati Austriaci lo avevano scavato
internamente ricavandovi una sorta di rifugio antibomba. Poi il settore fu conquistato
dai soldati italiani e questi lo trasformarono in un bunker, aprendo una feritoia che
guardava verso il cosiddetto «Sasso Misterioso», ancora saldamente in mano agli
avversari. L’area conservava i resti di almeno un paio di chilometri di trinceramenti,
con brandelli di parapetti che spuntavano dal ghiaione assieme a matasse
aggrovigliate e rugginosissime di filo di ferro spinato. Il terreno era disseminato di
schegge d’ogni forma e dimensione, pezzi di cuoio, brandelli di scarpe, gavette,
scatolette, pallottole, odore di sangue, odore di morte, odore di disperazione.
Il 24 maggio 1915 l’Italia era entrata in guerra contro l’Austria, alleata della
Germania. Ma l’Italia dichiara guerra alla Germania solo nel 1916, risolvendo a
livello diplomatico lo scontro tra bersaglieri e truppe tedesche, avvenuto i primi di
giugno del 1915 in Dolomiti: «Nella notte tra il 7 e l’8 giugno gli italiani si
trincerarono sul passo di Posporcora. Durante il giorno sopraggiunsero allo
sbarramento di Fanes due compagnie germaniche e due pezzi di artiglieria da
montagna. Una pattuglia composta da tedeschi e austriaci venne subito mandata in
esplorazione verso Sella Fiorenza. Il capo-pattuglia Neumann non prese le necessarie
precauzioni e si trovò circondato dagli italiani. Neumann fu colpito a morte e gli altri
vennero fatti prigionieri. Gli italiani s’accorsero con stupore d’aver catturato dei
soldati di una nazione con la quale non erano ancora in guerra».14
Le truppe si fronteggiarono in una guerra di trincea e di mina e contromina furibonde
ed estenuanti, per poco più di due anni, lasciando il terreno ancor’oggi solcato e i
monti scavati internamente. Il 24 ottobre 1917 l’offensiva combinata delle truppe
austriache e tedesche sfondò il fronte dell’Isonzo a Caporetto. Il 3 novembre i soldati
italiani si ritirarono dal settore dolomitico e le Tofane, con le circostanti cime e la Val
Travenanzes, s’immersero nel silenzio.
Quel silenzio pesante, che sa di morte, si respira ancora.
Chiusi la feritoia con alcune pietre. Chiusi il vano d’accesso con una lamiera
metallica, che sprangai dall’interno con una barra di ferro rugginoso posta di traverso
al vano, a mo’ di paletto, agganciandola alla lamiera con filo di ferro spinato. Montai
poi la tenda all’interno, visto che l’acqua piovana gocciolava copiosamente dalla
volta calcarea.
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Nel cuore della notte qualcuno venne a picchiare alla lamiera e mi vengono ancora
adesso i brividi a pensarci. Fuori infuriava la bufera e non c’era, letteralmente
parlando, anima viva.
Lei avrebbe voluto tornare a casa subito, ma il posto, alla luce solare che squarciava
le nubi rimaste al primo mattino, era bellissimo. Ci si sentiva piccini ai piedi di quelle
montagne che parevano giganteschi menhir uno accostato all’altro. Ma lasciammo il
bunker e ci trasferimmo fuori dal fitto circuito di trincee.
Piantammo la tenda in una balza del panettone chiamato Col del Bos. Scavai
diligentemente la canaletta attorno al catino della tenda e la controventai con parecchi
metri di cordino, tenuto teso e ben fermo a terra da picchetti rinforzati da massi. Se
fosse nuovamente infuriato il temporale saremmo rimasti comunque all’asciutto e la
tenda non sarebbe stata strappata via dal vento.
Facemmo tempo a contemplare due splendidi tramonti, di quelli che prima
incendiano le cime e poi colorano di rosa dolcissimo le pareti di dolomia, il calcare
chiaro e compatto a cui il geologo francese Déodat de Gratet de Dolomieu diede il
suo nome: Dolomiti. I Monti della Luna. Poi sbiancarono, diventando proprio quello
che le leggende cantano: i Monti Pallidi. Pallidi al chiarore lunare.
Dirlo a posteriori pare sciocco, ma quella sera mi sentivo inquieto. Ma non è corretto.
Mi sentivo osservato, come adesso mentre scrivo ricordando l’episodio.
Cenammo dolcemente, ci baciammo, facemmo l’amore, ma ero comunque all’erta. Il
coltello da parà era a portata di mano. La notte era tiepida e ci addormentammo uno
nelle braccia dell’altro, dentro i nostri sacchi a pelo. Poi mi svegliò. Era un fruscìo di
passi sull’erba e la destra estrasse da sotto gli abiti che facevano da cuscino il
coltello. Con la sinistra la strinsi leggermente a me, inconsciamente, quasi a
proteggerla.
Anche adesso, mentre scrivo, mi sono voltato alle spalle, a guardare per un attimo la
stanza vuota.
Ma lei era già sveglia e respirava pianissimo.
«Sono solo animali, hanno sentito l’odore del cibo» la precedetti io. «Dev’essere
almeno un camoscio, forse due.»
«Non sono camosci» disse lei sottovoce. I suoi occhi erano verde scuro e luminosi.
Poi tutto tacque. Ma una manciata di minuti più tardi il fruscìo, il calpestìo proseguì.
«Mi scappa la pipì» esclamai.
Fuori dalla tenda l’aria era immota, la luna piena splendeva serena, tutto era
immobile. Tranne me.
Tutte quelle stelle in cielo davano una sensazione di pace e di vertigine al contempo.
Ma le Cime di Fanis avevano i cocuzzoli dentro batuffoli di bambagia che andavano
allargandosi. Le nuvole bianche si dilatavano pian piano, calavano e avrebbero
portato altra pioggia. Orinai, feci un giro largo attorno alla tenda, ma nulla.
Stavolta mi svegliò lei. La sua mano serrava il mio avambraccio. Il fruscìo di passi
era vicinissimo e si sentiva come una sorta di respiro che graffiava l’aria. Io ero
rigido, trattenni il fiato...
32
Accanto alla mia testa il cordino della controventatura fece TUM-TUM, come se
qualcuno o qualcosa lo avesse pizzicato come si pizzica la corda tesa di un
contrabbasso. E poi ancora TUM-TUM...
Scattai a sedere e con la mano destra diedi una gran manata al telo della tenda
urlando: «Allora! La finiamo o nooo!?!».
Il silenzio piombò fino al mattino, quando grosse gocce di pioggia cominciarono a
picchiettare. Affardellammo gli zaini e smontammo velocemente la teda. Scendemmo
a rotta di collo fino ad incontrare il sentiero e poi via ancora più veloci sulla vecchia
carrareccia militare perché stava calando la nebbia.
E io odio la nebbia. Non sai mai chi cazzo ci trovi dentro, così, all’improvviso!
Formazioni rocciose
Oramai camminiamo da più di un’ora verso il rifugio, che sta ben sopra l’accesso
della grotta che ci condurrà nel profondo del monte.
La prendo per mano, imbocchiamo un sentiero che s’inerpica senza tanti complimenti
fino al costone. In cima vi è una sella, da cui si leggono nitidamente entrambi i
versanti. Dal costone s’innalzano verso nord le creste montuose, lasciando alla loro
sinistra, ovvero verso ovest, un ampio catinone chiamato Anfiteatro di Moncone. Dal
greco amphi-théatron, in latino è amphitheatrum: costruzione che ha i posti
tutt’intorno per guardare al centro. L’anfiteatro è la costruzione formata dalla
congiunzione di due cavee. Nel teatro greco la cavea si chiama koilon. Nei teatri e
negli anfiteatri antichi la cavea, costituita da gradini e addossata al naturale pendio di
una collina, oppure sorretta da sostruzioni nei teatri romani, era lo spazio riservato
agli spettatori.
Noi chi siamo? Attori o spettatori? Bella domanda.
Verso sud, il costone prosegue formando una U. In effetti, la sella su cui ora ci
troviamo, rimane proprio in corrispondenza della curva ad U. All’interno le pareti
scoscendono, convergendo verso il centro del grande anfiteatro calcareo, dove
occhieggiano dal calcare numerosi fossili di conchiglie.
Nelle ere geologiche passate qui un tempo vi era un insieme di atolli. Atollo significa
isola-laguna ed è costituito da scogliere d’origine madreporica a forma di anello
irregolare. Crescevano grazie a quelle specie di coralli, ovvero madrepore, che si
univano in fitte colonie, i cui scheletri calcarei contribuivano alla formazione delle
barriere e delle isole. In geologia, difatti, i cosiddetti calcari madreporici sono
costituiti dall’accumulo degli scheletri di colonie di coralli e di altri organismi quali,
ad esempio, alghe, spugne, molluschi, eccetera eccetera. Poi si depositavano sabbia,
terra e polvere. E più le rocce si accrescevano, più pesavano tendendo a sprofondare.
Crescevano di un poco e quasi contemporaneamente dello stesso poco affondavano.
Poi, un bel giorno, la Crosta Terrestre decide d’inarcarsi un poco e, spingi spingi, dal
basso verso l’alto, fa emergere questo grande pacco di calcare che s’è formato a strati
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orizzontali. La spinta gli provoca sì un bell’innalzamento di svariate centinaia di
metri al di sopra delle acque, ma pure un bel po’ di crepe e vistose fratture. Tutto
questo nel corso di centinaia di migliaia di anni.
Sole, pioggia, neve e ghiaccio, cominciano a intaccare ed erodere il calcare. Questa
roccia, solubile e porosa, assorbe l’acqua come una spugna: in superficie non ne
trovi, ma sotto ne è ricca. E l’acqua scava, s’infila nelle fratture, le allarga, le
modella, sotto pian piano scioglie, crea gallerie, pozzi, saloni. Ma tutto questo calcare
grigiastro poggiava su di un ampio strato di roccia nera come la pece, affatto porosa,
per nulla erodibile dall’azione delle acque. Pertanto, queste penetravano e scavavano
tutto il calcare fino ad incontrare lo strato impermeabile.
Poi la Crosta Terrestre s’era sì sollevata, ma un poco di sbieco; quindi lo strato
nerastro era inclinato e con esso pure il calcare che gli stava sopra. L’acqua,
obbedendo alla legge di gravità, s’era spinta tutta verso il basso, probabilmente
seguendo una frattura interna e prossima allo strato impermeabile. Così ha creato un
canale sotterraneo che raccoglie l’acqua di una parte, grande o piccola non si sa, delle
grotte che si sono formate su questo monte di calcare. E questo canale sotterraneo è
«Il Collettore». La Freccia Azzurra inseguita da generazioni di speleologi. Ma senza
successo.
«Non è mai stata trovata? O meglio, nessuno ha mai visto il Collettore?» mi domanda
la bionda.
«No» laconicamente io.
«Come fate a dire che esista?» incalza lei, provocatoria. Se si togliesse la maglia
sarebbe anche provocante.
«Sono stati fatti vari studi. Perfino Leonardo da Vinci ha percorso questi luoghi e ne
ha visitato qualche grotta.» Mi guardo attorno, il rifugio è laggiù, nella luce che
sbianca il calcare, come un nero insetto in agguato.
Riprendo: «Si può dire che Leonardo sia stato uno speleologo ante litteram, tant’è
che scrisse anche delle acque sotterranee. Inoltre ci ha parlato della sensazione
provata davanti all’ingresso di una caverna: “... subito salse in me due cose, paura e
desiderio: paura per la minacciante e scura spelonca, desiderio per vedere se là
dentro fusse alcuna miracolosa cosa”».
La mia memoria è una grotta. Ne sondo i recessi, stabilisco parallelismi,
congiunzioni. Estrapolo. La studio, l’analizzo, ne prendo le misure e ne sorrido. La
grotta rimanda a me solo quel che vuole lei. Solo quel che ci vedo io. Quanto
percepisco. E tronco il filo del pensiero che diviene ragnatela, vuole agguantarmi e
sospingermi, avvolgermi in un pernicioso saliscendi che mi frammenterà, mi
suddividerà in tanti me medesimo che nel procedere aumenteranno di numero. Faccio
silenzio anche in me stesso.
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Reminescenze maldigerite
Un tempo, ad accogliere noi, esploratori del buio finesettimanale, c’era sempre lui, il
Cagnola. Ci vedeva arrivare dal sentiero tracciato di traverso alla pancia della
montagna, come puntini neri sul filo di lana che correva in costa. Seduto sulla
veranda di legno, pipa in bocca e gigantesco binocolo da marina in mano.
Immancabile la camiciona a scacchi.
Ci accoglieva con la caraffa piena di gazzosa mescolata a vino rosso, quello pastoso e
forte della Valtellina. Ma, si sa , gli anni passano per tutti e il gestore che oggi trovo è
per me una faccia nuova, come io lo sono per lui. Mi eclisso nell’anonimato, chiedo
una cameretta per due evitando la classica camerata con i letti a castello uno attaccato
all’altro, dove un tempo si faceva casino, si ruttava, si scoreggiava e si cantavano le
canzonacce, quando si era giovani e pimpanti.
Ma, stavolta, anche la camerata è silente, pervasa da sacrale e montana immobilità.
Gli speleo non ci sono, si sono estinti, sono invecchiati, sono sposati e a fare casino
sono i figli che hanno sfornato.
Passiamo il pomeriggio a bighellonare, godendoci l’aria fresca e silenziosa, priva
delle orde turistiche le quali arriveranno solo la mattina dell’indomani, quando noi
saremo già in grotta. Questa si apre a sud del rifugio. Ci vorrà meno di un’ora per
raggiungerne l’imboccatura.
Ceniamo presto, ci piazziamo nella cuccia e cerchiamo di addormentarci subito. Ma
io non ci riesco. Penso alla grotta dove la condurrò domani. Penso a quanti sogni ha
contenuto quel buco del culo pieno solo di acqua e di buio. Ricordo quanti sogni ci ha
fatto fare e quanti altri ce ne ha fatti sprecare.
Avevamo la certezza incrollabile che la grotta conducesse nella galleria
spropositatamente enorme che chiamavamo « Il Collettore», entro cui scorreva
impetuosamente un fiume d’acqua. Ma già allora io pensavo che non fosse stato
sempre così. Vi è stato un tempo in cui di acqua ce n’era meno e l’uomo vi aveva
trovato l’habitat ideale per costruirvi qualcosa prima, per rifugiarvisi ad evitare il
cataclisma poi. Sicuramente l’accesso principale era più in basso, molto più in basso.
Ma tutto era stato celato dal tempo, dall’acqua del vicino lago che s’era innalzata,
dalle frane e dagli smottamenti che a valle avevano celato tutto.
Noi partivamo dal principio delle cose, dall’alto per discendere in basso. Un po’ come
la calata di Dante all’Inferno, solo che là sotto avremmo incontrato solo noi stessi e le
nostre debolezze: dovevamo lottare per vincere. Quale il premio? Noi stessi.
Ma io andavo oltre.
Lo sapevo che non doveva trattarsi solo dell’hangar sotterraneo con ancora dentro
l’astronave. Lo sapevo che sotto, se c’era l’hangar, doveva esserci anche la cameretta
per fare dormire il pilota, la camerata degli sguatteri che pulivano la cameretta del
pilota e la sua astronave, dei cuochi che davano da mangiare agli sguatteri e al pilota,
degli armieri, dei controllori di volo, dei fabbricanti d’astronavi e tutto era sia sopra
sia sotto terra. Sopra e sotto la Madre Terra. Solo che, sopra, il tempo aveva passato
la scopa e sconvolto tutto rendendolo irriconoscibile.
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Solo che sopra non c’era rimasto veramente un bel nulla: solo lo spazio siderale.
Sotto tutto si era conservato, cristallizzato, congelato, inglobato nelle concrezioni di
calcare che si erano formate nel corso dei millenni.
La gente pensa che siano leggende, ma le vere leggende gliele stanno propinando da
secoli su secoli. E non vuole rendersene conto.
Da oltre oceano ci era giunta voce che sotto la Cordigliera delle Ande vi fossero
decine e decine di chilometri di gallerie artificiali inesplorate. Uscì anche un libro che
parlava della Cueva de los Tayos, ovvero di una grotta naturale dove si diceva vi
fossero i resti di una civiltà avanzatissima e prediluviana (ammesso e non concesso
che vi sia stato un «diluvio universale» come lo descrive la Bibbia), situata in
Ecuador. Mi pare ne parlasse anche tale Juan Moricz, probabilmente speleologo o,
comunque, pratico di tal disciplina. Egli sosteneva di avere scoperto l’accesso a una
vera e propria città sotterranea. Si trovava a est di Guayaquil, città costiera
dell’Ecuador, in un imprecisato punto ai piedi della Cordigliera delle Ande.
Raccontava di corridoi e gallerie tagliati perfettamente nella roccia, sale e saloni dai
soffitti lisci e piatti sempre ricavati nella matrice rocciosa, ma vetrificati a tal punto
da non consentire infiltrazioni d’acqua. Gli arredi erano al loro posto: tavoli e
seggiole di dimensioni non umane, scaffalature colme di lastre di metallo incise,
inspiegabili suppellettili ed altro ancora.
Personalmente sono dibattuto su due fronti principali. L’uomo è una bestia che non
impara mai. Quindi ha già raggiunto particolari livelli tecnologici, senza
necessariamente passare per l’invenzione del motore a scoppio, distruggendosi in una
guerra mondiale apocalittica. E fin qui, le letture di taluni passi dei Veda dell’India
avvallerebbero tale ipotesi, non certo mia, ma solamente presa in considerazione
anche da me.
La Terra ha poi subito vari scossoni: esplosione di vulcani, impatto di lune o di
meteoriti sulla superficie terrestre. E, mi ripeto, lo scossone ha poi generato la
pioggia torrenziale che ha dato, o che può aver dato, origine al diluvio. Ma la
disastrosa onda d’acqua che tutto ha sommerso è stata provocata dall’impatto di un
grande corpo solido: l’acqua dei mari, dei fiumi e dei laghi s’è impennata e rovesciata
fuori dai bordi.
Provate a prendere un catino, mettetegli dentro alcuni sassoni, copriteli di terra
(pressandola ben bene), piazzateci un paio di barchettine di carta e poi versate dentro
l’acqua fino a coprire la metà inferiore dei sassoni. A questo punto assestate un deciso
e secco colpo con il palmo della mano sul bordo del catino e osservate cosa fa l’acqua
e dove vanno i sassoni e le barchette. Così è capitato alla superficie terrestre.
Praticamente la vostra mano replica il colpo d’ariete dato alla Terra da un corpo
solido estraneo.
Credo che entrambe le cose siano accadute e non necessariamente una in
conseguenza dell’altra: la guerra totale e il cataclisma naturale. Fatto sta che l’essere
umano, che comunque non era un troglodita deficiente, nello sviluppo delle varie
civiltà che si sono succedute sulla Terra ha costruito opere nel sottosuolo, le ha pure
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abitate e vi si è rifugiato nei momenti di pericolo. Praticamente quello che facciamo
noi oggi.
Tra le varie letture sull’argomento insolito una mi colpì: parlava dei tedeschi riparati
in Sudamerica dopo la Seconda guerra mondiale, di Adolf Hitler che si era rifugiato o
in un villaggio in mezzo alla giungla o in una città sotterranea. Ma il punto cruciale
era la notizia che il famoso pilota di Stukas, Hans Rudel, si era recato in Sudamerica
negli anni Cinquanta e in particolare in Ecuador.
Hans Rudel il «Pilota di Ferro»
Rudel era sicuramente nato per volare. La guerra lo accontentò fin’oltre misura e si
arrese nel maggio del 1945 con ben «2530 voli di guerra», ovvero missioni di volo
effettuate sul fronte russo, e circa 500 carri armati sovietici distrutti. E una gamba in
meno, portata via da un colpo avversario. Fu promosso Colonnello e insignito della
più alta decorazione militare tedesca: «Fronde di Quercia in Oro con Brillanti e Spade
sulla Croce di Cavaliere della Croce di Ferro». Scrisse poi anche la sua autobiografia,
edita in Italia da Longanesi: Il pilota di ferro.
Aveva cominciato con il pilotare i biposto Junkers 87, meglio noti come Stukas, ma
poi le prime missioni di volo le aveva condotte sui ricognitori. Con tenacia e
insistenza era riuscito infine a farsi assegnare nuovamente al primo amore. «Stuka»
era il diminutivo di «Sturzkampfflugzeug», ovvero «bombardiere a tuffo». Dopo i
primi anni di guerra divenne obsoleto, ma i tedeschi continuarono a costruirlo in più
di dieci versioni.
Intanto, nel corso della battaglia per conquistare Leningrado, Rudel partecipò ad
alcune missioni per attaccare le navi da guerra russe, tra cui la corazzata Marat, alla
fonda nel porto di Kronstadt. Gli Stukas vennero armati con una bomba da mille
chili, che ne limitavano la maneggevolezza. Rudel, evitando i caccia russi e le
raffiche della contraerea, con una magistrale picchiata mise a segno la bomba che
deflagrò facendo inabissare la corazzata. Un paio d’anni più tardi volò anche sui
caccia Focke-Wulf.
Sul finire della guerra alcune squadriglie di Stukas furono armate con una coppia di
cannoncini anticarro da 37 millimetri. Fu così che i Russi li denominarono «Stukas
con due pali». Con questi sotto Rudel compì le carambole più spettacolari.
Ma un racconto, al di là delle storie sotterranee e interplanetarie, mi colpi. Dal punto
di vista storico riportava una notizia quanto meno interessante riguardo l’intenzione
della Russia di attaccare la Germania. Ora, è noto, che i tedeschi prepararono la
cosiddetta «Operazione Barbarossa» e attaccarono i russi il 22 giugno 1941. Ma
sentiamo cosa ci dice il pilota.
«Fin dai primi voli notiamo innumerevoli opere di fortificazione lungo la frontiera;
spesso queste posizioni sono profonde centinaia di chilometri nell’interno della
Russia; talvolta i lavori sono ancora in corso. Sorvoliamo aeroporti quasi approntati;
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su alcuni di essi i russi stanno terminando le piste di cemento; su altri si vedono
velivoli in attesa... non sappiamo bene di che cosa. Così, presso la strada di Witebsk,
un vasto campo appare gremito di bombardieri Martin [aerei di fabbricazione
americana. N.d.A.]; ma tutti questi apparecchi sono fermi: i russi mancano di benzina
o di personale. Vedendo sfilare sotto di noi a perdita d’occhio trinceramenti, strade
militari ed aeroporti, non possiamo impedirci di pensare che è stata una gran fortuna
l’aver preso l’iniziativa delle operazioni. È evidente come i russi abbiano organizzato
le zone di frontiera quali basi per una offensiva contro l’Europa, cioè contro la
Germania, che è ormai rimasta l’unica nazione forte da combattere in Europa
Occidentale.»15
Adolf Hitler gli proibì di volare, desiderando che ricoprisse incarichi di fiducia
all’interno del suo Stato Maggiore, ma Rudel vi si oppose sempre fermamente
dichiarando che aveva il dovere di guidare i suoi piloti dando in prima persona
l’esempio.
Le sue note caratteristiche lo hanno reso sempre una persona credibile, che affrontava
con coraggio e determinazione ogni incarico e ogni responsabilità. In poche parole
non era un fanatico e tanto meno un politico. Il fatto che si fosse recato in Ecuador
per una non ben precisata vacanza, mi faceva sospettare fortemente qualcosa. Di
certo non pensavo che si fosse recato a prendere un the da Hitler, o dal suo sosia, in
un bunker camuffato da capanna sulle rive del fiume Guayas.
Forse si recava a constatare di persona le tante e insistenti voci che parlavano di
tunnel, di grandi cavità artificiali e di velivoli stranissimi e non ben identificati,
parcheggiati sotto terra. E certamente non fabbricati nel corso degli ultimi decenni.
Probabilmente era andato a visitare padre Crespi e soprattutto la sua collezione di
reperti archeologici «assolutamente improbabili». Lastre di metallo con indecifrabili
incisioni, tavolette con caratteri sconosciuti, oggetti che parevano di derivazione
assira e babilonese. Tutto questo padre Crespi lo conservava con cura e lo faceva
vedere a chiunque ne fosse interessato.
Ipotizzai, più blandamente, che Rudel poteva essersi recato in qualche museo per
osservare gli strani modellini in oro che parevano degli aeroplani, ritrovati in
sepolture precolombiane. L’archeologia ufficiale li ha catalogati come «monili» e
talvolta «giocattoli».
L’evidenza della nostra stupidità condurrebbe a negare persino che il ghiaccio si
scioglie se sottoposto a una fonte di calore, se tale fenomeno rischiasse di sollevare il
velo che ci ottenebra. Lo si negherebbe recisamente se lo scioglimento del ghiaccio
comportasse anche il dissolversi delle inibizioni che ci hanno creato attorno per
mantenerci inerti e produttivi, per poterci alimentare con una storia artefatta, che nega
le nostre vere radici. Che tutto questo faccia parte del gioco chiamato vita, nel quale
noi dobbiamo innanzitutto capire e poi cavarcela egregiamente conseguendo una
vittoria?
Ci andai anche io, in Ecuador, ma i motivi che mi trascinarono là furono diversi.
Assolutamente, banalmente e stupidamente diversi. Mi scrisse una mia ex fiamma. In
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pratica la fidanzata che avrei dovuto sposare, ma poco prima delle nozze scelsi una
diversa strada. E lei pure.
5. In vacanza col Mago
Una voce dal passato
Oramai la gioventù s’era portata via un sacco di cosette. Pure lei, emigrata col marito
in Sudamerica. Ma il mare è un’onda continua e la marea spiaggia sempre ricordi,
rottami, odore di passato o solo conchiglie da raccattare.
Sogno, ricordo, ricordo e non sogno. Vado indietro di una manciata di anni, a quando
quella donna tornò, metaforicamente parlando, dal passato.
L’avventura cominciò così, semplicemente. Attacco il computer, entro in internet per
controllare la posta elettronica, ovvero le moderne lettere via e-mail che i «servizi
segreti» hanno messo a disposizione del popolo per controllarlo. Rimango interdetto.
Si, solo un attimo. Ma interdetto.
Ecco cosa leggo: «... nel leggere il tuo libro mi sono sentita come un fantasma che
riappare da... un’altra vita! No, non ti preoccupare, tutto a posto, sono solo una
signora di mezza età che non ha resistito alla tentazione di farti i complimenti per la
tua opera dove la “sostanza” ha l’inconfondibile sapore di una grande passione.
Scrivimi, mi farà piacere. Sono in Ecuador». E questo è il testo della mail. Io non mi
sento «un signore di mezza età». Senza dubbio di acqua sotto il classico ponte n’è
passata parecchia. Non rispondo subito, ci metto qualche giorno, ma lo faccio con
molto tatto e stando sulle generali.
La ricordo bene eccome! Ma il vissuto tra la fine del rapporto e l’adesso è talmente
denso da farmi apparire quei momenti passati come appartenenti al ricordo raccontato
da un altro.
Chissà che razza d’effetto le avrà fatto leggere il libro che l’amico Ippolito Edmondo
Ferrario ha scritto con me sulla Milano sotterranea e misteriosa. Boh, glielo
domanderò. Il libretto illustra tra fantasie e realtà il sottosuolo milanese da noi in
parte esplorato. Certamente le decine di canali voltati e ancora percorribili, nonché i
sotterranei del Castello di Porta Giovia, sono reali, anzi, tangibilissimi. La storia dei
Rettiliani sotto la Stazione Centrale un po’ meno, nel senso che abbiamo raccolto
delle voci, per non dire delle testimonianze. E poi ci sono quei documenti, più che
reali dal momento che li abbiamo avuti in mano, che testimoniano l’ordine di
tonnellate di mattoni da una cert’area del Polesine, dove i Rettiliani continuano a
comparire persino ai giorni nostri. Si tratta di personaggi all’apparenza innocui,
assolutamente simili a noi, ma alti un paio di metri, ricoperti di squame verdognole e
con gli occhi da serpente. Qualcuno potrebbe esclamare: «Ma sono i Visitors!».
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Beh, questo non so dirlo, perché i Visitors vengono dallo spazio profondo a bordo di
un’astronave e sono trasmessi dalla televisione. Questi, i Rettiliani, stanno in acqua o
sotto terra e non si sa bene da dove provengano, ma nel Polesine li avvistano di
continuo. Ne hanno persino riprodotto le impronte lasciate nel fango mediante calchi
in gesso. Ai primi del Duemila girava su Internet un bel filmatino che ne parlava e tra
gli intervistati c’era anche Alfredo Castelli, l’inventore del fumetto Martin Mystère.
Ma torniamo a lei! Agli albori del tempo, del mio Tempo, lei, la «mia ex», seguì
assieme a me il corso di speleologia presso un Gruppo Grotte affiliato al Club Alpino
Italiano. Poi le vite presero ognuna la sua strada, o la loro inclinazione che dir si
voglia.
Le mail si sono susseguite nel corso dei mesi, così, quasi per gioco. Assieme al
marito dirige un’azienda agricola e ha una figlia che studia a Parigi. Arte. Poi il
marito muore, credo d’infarto mentre andava a cavallo, lei conduce la fazenda, alla
figlia non le sfiora nemmeno l’idea di lasciare l’Europa e stanziarsi ai margini della
jungla.
Un giorno, anzi, una notte mi telefona e scusandosi per via del differente fuso orario
mi dice che si trova in una situazione che potrebbe prendere una brutta piega. Ha
difficoltà con la gestione della fazenda per via di un branco di bifolchi ladri per
giunta. E non sa a chi chiedere aiuto. Ovviamente accetto di raggiungerla e vedere un
po’ che si può fare.
Ma non è tutto qui. Lo sapevo che c’era la fregatura!
Lei mi rassicura, dicendo che mi pagherà il viaggio e pure il disturbo.
«Ma non dire scemenze!» esclamo.
Pare che il branco di birichini si diletti pure in magia nera. Rido a crepapelle. Ma lei
rimane seria. Serissima. M’infilo le mani nel pigiama, mi strizzo scaramanticamente i
coglioni ed esclamo: «Non ti preoccupare, cerco di portare con me un amico e
sistemiamo la faccenda». Devo avere visto troppi film western.
L’indomani chiamo il mio amico, il Mago: un soprannome, una garanzia,
un’assicurazione sulla vita. Credo di non dover aggiungere altro.
In Sudamerica
Sto ciondolando in casa mia attanagliato da un dilemma: quale porto? L’inaspettata
proposta della vacanza in Sudamerica m’alletta e la motivazione m’incuriosisce. Il
posto dove andrò mi preoccupa. Guardo il mio coltello serramanico in acciaio, che un
tempo portavo in grotta in quanto indistruttibile e inossidabile. Nell’altra mano
soppeso la baionetta della Gloc: lama triangolare, brunita, appuntita, rassicurante, ma
che mi seccherebbe assai se me la dovessero sequestrare in aeroporto. Sospiro e mi
risolvo per il solo serramanico.
«Tanto con me c’è il Mago» mi sussurro quasi per incoraggiarmi. E poi la mia amica
ha promesso di farmi trovare all’aeroporto una bella vetturona «quattro ruote
motrici», color pistacchio con tremilacinquecento di cilindrata. Direi che posso
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andare tranquillo. Anzi, sereno. Spero solo si sia sbagliata sul colore: preferirei un bel
verde oliva.
Alla peggio investo una manciata di dollari e mi compero una
«sparaspruzzispaziale». Si, in dollari. L’Ecuador non ha più moneta propria, quindi
vuol dire che è praticamente una delle nuove stelline della bandiera a stelle e strisce
dello zio Sam. Un bel posto dove riciclare i denari sporchi.
Il viaggio in aereo è sfibrantemente interminabile e ho le palle sudate, la lingua
incollata al palato e le orecchie piene del pianto di un bimbetto di colore che ha reso
il viaggio un inferno dantesco con il suo frignare. E poi c’è puzza.
Ma finalmente sbarchiamo.
La figona coscialunga che ricordavo tale è rimasta. Ha qualche chiletto di più, ma sta
in gran forma: li ha messi quasi tutti nelle tette e lo spettacolo in camicetta di seta
bianca non è per niente male. L’abbraccio, la bacio sulle gote, le pizzico un rotolino
di ciccia sul fianco e le presento il Mago. Si stringono la mano. Così a lungo ch’è
quasi imbarazzante. Lei guarda il Mago, lui di rimando sostiene lo sguardo, quasi
altèro e poi sorride. Lei abbassa lo sguardo e lo rialza, con le gote che si accendono
lievemente nella carnagione abbronzata.
«Cosa guardate, signore?» domanda lei al Mago.
«Guardo voi, signora!» il Mago di rimando.
Mi sembra la recitazione di una scena del film L’ultimo dei Moicani. Solo che qui
non c’è stato ancora l’attacco di sorpresa degli Uroni che massacrano la soldataglia
bianca, inglese. Ma non che i francesi fossero meglio, perché i soldati al soldo di
massoni e usurai vanno tutti a finire nella stessa categoria: servi di Mordor, di
tolkieniana memoria. Ma torniamo a noi, anzi, a lei.
Lei chiama il paio di sguatteri che forse fanno da guardiaspalle (disarmati), i quali
acchiappano i nostri bagagli e li infilano nel retro di un vecchio pikap, ci montano
sopra e spariscono.
«Noi andiamo con questa» con una mano lei indica un fuoristrada sovradimensionato
e con l’altra mi porge le chiavi.
Non è verde pistacchio, ma poco ci manca. In uno slancio di propositività potrei dire
che il colore somiglia al bambù giovane, di un verde tenue, fresco e assai poco
militaresco. Pazienza, basta che il motore rombi come un drago.
Lei è raggiante, parla fitto, vuole farci conoscere tutto ancor prima di andare a casa.
D’altra parte, se vogliamo vedere bene, è mattina inoltrata e di tempo ne abbiamo.
Peccato che abbiamo passato la notte in aereo.
La città non è malaccio. Vedo quartieri nuovi, nuovissimi, costruzioni dalle
architetture particolari seppure un po’ pacchiane, con inframmezzati edifici in puro
stile coloniale. Vedo un sacco di gente armata, questo non proprio in centro, ma
appena fuori quella manciata di isolati che lo compongono. Quasi davanti a ogni
negozio vi è una persona armata e se non sono fuori, sono dentro. Davanti la banca
principale c’è un vero spiegamento di forze: dieci uomini, tutti vestiti di scuro, con
elmetti e giubbotti antiproiettile, un paio di grandi scudi certamente non retaggio di
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un medioevo che qui pare solo agli inizi nonostante i motori a scoppio e, tenetevi
forte, una bella e monumentale mitragliatrice su treppiede. Roba da non credere.
In periferia la situazione è diversa: i posti presidiati da gente armata sono i ristoranti e
le rare banche. Tutto il resto è blindato. In negozio non entri, perché è chiuso da una
bella griglia di metallo inamovibile. Ti avvicini e chiedi che cosa vuoi direttamente al
gestore, che ti parla attraverso le sbarre e sempre attraverso queste riceve i soldi e ti
passa la merce. In altri negozi puoi entrare, se suoni il campanello e hai l’aria
rassicurante. Io sono bianco e pare che questo li tranquillizzi e si fanno in quattro per
servirmi. Imbarazzante. Ad ogni buon conto il tutto avviene così: entri, scegli la
merce e ti dirigi al gabbiotto con due pareti laterali in muratura, la terza è chiusa da
una pesante e spessa griglia e da dietro il bancone il proprietario riceve i tuoi soldi e
con un pulsante apre la porta per farti uscire. Alle spalle, forse a mo’ di monito, una
volta m’è capitato di vedere appeso un bel fucile automatico.
Il cielo è grigio e pesante, lo smog mi ha fatto quasi venire male di gola e si che io
vengo da Milano, ch’è tutto dire! Finalmente ripigliamo la macchina dal posteggio
sotterraneo e sorvegliatissimo per dirigerci a casa.
La sua villa di Guayaquil è languidamente affacciata sul ramo del fiume Guayas. La
sponda opposta è coperta di mangrovie su cui stazionano grandi uccelli bianchi e
alcuni fenicotteri rosa. O, almeno, a me ricordano i fenicotteri. Un paio di iguane si
tuffano mollemente nell’acqua. Il tanfo emanato da questo liquame nero e spesso
toglie il fiato.
Metà della città caga e piscia in questo ramo fluviale e vi scarica dentro qualsiasi altra
cosa. Per otto ore il fiume fluisce lentamente verso il vicino mare trascinando seco la
sua merda. Poi la marea rende immoto il fiume per circa altre otto ore e il materiale
putrescente staziona ammorbando l’aria. Infine il fiume risale, sempre per effetto
della maledetta marea, su per l’alveo assieme a tutto quello che non è stato ancora
smaltito e con l’aggiunta di qualcos’altro ancora.
E così tutti i giorni che il dio di questi posti manda in terra.
A me la notte viene da vomitare. Non vedo l’ora che ci si trasferisca ai margini della
jungla, nella fazenda.
Tunnel e radiestesia
Il motivo prepotente che mi ha condotto oltre oceano non è stato solo quello di
impersonare una versione da XXI secolo di Lancillotto del Lago o di un Parsifal
senza macchia e senza paura. Certo, non mi sono sentito di lasciarla nelle peste, ma
certamente l’idea che la sua fazenda fosse vicina a dove si dice vi sia una caverna con
tracce di una civiltà antichissima, ha sortito il suo effetto. A qualche decina di
chilometri si apre nientepopodimeno che la Cueva de los Tayos.
Intanto passiamo in rassegna il manipolo di peones che lavora per l’amica mia. Non
si sa mai, meglio capire subito con chi si ha a che fare. Uno è un ragazzo decisamente
buono e intelligente, d’una intelligenza vivace e acuta, tant’è che mi pare un vero
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peccato che debba fare il bracciante e lo raccomando alla mia amica. Prima di tornare
in Italia gli lascerò in ricordo il mio coltello serramanico da grotta.
Uno non mi piace e lo tengo d’occhio. Qualche giorno più tardi gli farò rovesciare a
terra il contenuto della sacca di pelle che si porta sempre appresso, anche quando
piscia. Ne salta fuori un’accozzaglia d’oggetti e oggettini, tra cui spicca una
bambolotta di legno rozzamente intagliata, con appiccicata sulla faccia il volto della
mia amica ritagliato da una fotografia. Vari chiodi rugginosi sono infissi nel corpo di
legno. Questo abbozza un sorriso ebete che gli tolgo repentinamente con uno
schiaffone da gettarlo a terra. Al pari di un serpente a sonagli scatta su come una
molla, sfoderando un piccolo coltello acuminato come uno stiletto, ma strada facendo
il suo polso incontra prima il mio calcio e poi un diretto in piena gola lo manda a
rantolare tra l’erba. Ripassandolo ben bene di ceffoni e facendomi aiutare da un
traduttore terrorizzato dai miei simpatici ed eleganti modi, scopro che nel villaggio
vicino c’è un anziano che si diletta a tempo pieno nella cosiddetta «magìa nera». Ha
un sacco di adepti e quello che cerca di fare è intimorire il prossimo, taglieggiarlo e,
se non ci riesce, farlo schiantare con un sortilegio. Lo chiamano «el bruço».
Con il termine bruço qui si indicano coloro i quali praticano proprio la magia nera ed
esiste anche la versione femminile. Generalmente non sono ben visti, come
confermeranno poi varie persone. Una ci tiene a dirmi cosa ne fanno dei maghi cattivi
che scoprono in flagrante: «li matemo!» ovvero li ammazzano. E con il pollice e
l’indice ben stesi mima un colpo di pistola. «Pam!»
Il Mago esamina il tutto e ci medita sopra. Lavorerà parecchio, sia per capire cosa giri
nell’aria, sia per costruire degli oggettini strani, che poi piazza in casa e attorno al
patio. Il Mago è anche radioestesista, ovvero colui che possiede la capacità di
avvertire determinate cose nel sottosuolo come, ad esempio, la presenza di vene
d’acqua o di sotterranei. L’ho conosciuto anni fa in Piemonte presso una fortezza
sabauda del XVII secolo. Una improvvida cava, il cui proprietario possedeva anche
un cementificio, la stava pian piano cancellando con ruspe ed esplosivo, tra
l’indifferenza dei cittadini, della soprintendenza, delle varie autorità competenti, ecc.
Il torto della fortezza era di trovarsi piantata sopra una bella bancata di arenaria e di
Marne Piacenziane, materiale ottimo per fare cemento.
Con il mio gruppo speleologico stavamo studiando la superstite rete di cunicoli al di
sotto del forte, quando lo vidi girellare con una forcella metallica in mano. Passo
dopo passo, lentamente, procedeva in linea retta. Quando la forcella, tesa davanti a
sé, vibrava e poi inspiegabilmente scattava verso l’alto battendogli contro il petto, si
arrestava. Toglieva allora dalla tasca posteriore dei pantaloni un picchetto da tenda e
lo piantava nel terreno.
Poi estraeva un grosso pendolino in legno, lo teneva per il capo del filo sopra il
picchetto e l’altra mano la stendeva davanti a sé. E rimaneva fermo, immobile a
guardare come e quanto il grave pendolasse.
A me parve strano, ma l’impressione maggiore la feci io a lui sbucando dal roveto
con casco in testa, tuta in cordura rossa e blù sporca di fango, scarponi infangatissimi,
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cinturone con moschettoni e una sacchetta in PVC dove tenevo la macchinetta
fotografica e la bindella.
«E lei... » esclamò lasciando la frase in sospeso.
«Non si preoccupi, sono uno speleologo» mi affrettai a tranquillizzarlo.
«Questo lo vedo bene anche da solo» esclamò un po’ stizzito «ma mi piacerebbe
sapere da dov’è saltato fuori» concluse affrettandosi a mettere via il pendolino.
«Beh, da un cunicolo che stiamo studiando» feci io evasivo. La prudenza non è mai
troppa. Che ne sapevo di chi avessi davanti? Qualche mese prima uno della cava ci
aveva visto saltare fuori da un cunicolo. Risultato? Con la ruspa era passato e
ripassato sopra l’imboccatura facendo franare tutto. E così addio rilievo e servizio
fotografico. E la soprintendenza poteva continuare a dormire.
Ma lui emanava qualcosa di decisamente rassicurante e molto altro ancora. Mi tolsi i
guanti, ci stingemmo la mano e ci presentammo. Così scoprii che cercava le gallerie e
i cunicoli sotterranei pure lui. E lo misi alla prova. Lo portai in un’area dove avevamo
individuato e rilevato tre cunicoli di contromina lunghi ognuno una cinquantina di
metri, parzialmente interrati ma percorribili: bastava strisciarci dentro «a passo del
leopardo». Ero certo che non li avesse né visti né tantomeno percorsi.
Semplicemente gli chiesi di individuarli e di tracciarli. Con bacchette e pendolino alla
mano picchettò in superficie il percorso sotterraneo delle opere seicentesche in poco
più di mezz’ora. Rimanemmo tutti esterrefatti, perché non aveva sgarrato di un metro.
Nacque così il nostro sodalizio, che ci portò ad organizzare delle lezioni di radiestesia
a beneficio dei soci del mio gruppo speleologico. Apprendemmo che l’essere
radioestesista e sensitivo non comporta solo cercare il punto buono dove scavare il
pozzo, oppure ritrovare l’ingresso della miniera abbandonata. Questo è un giochetto,
a confronto d’altro!
Sapere è meglio che ignorare e, come ripeto sempre, ma con una marcata nota
ironica: «la conoscenza è alla base del progresso».
E, vi assicuro, quando vi affacciate alla vostra finestra e guardate fuori, quello che
vedete non è certamente «progresso».
Grotte e maghi nostrani
Nel frattempo le giornate si susseguono liete o quasi, la fazenda prospera, le
numerose vacche figliano, latte ce n’è in abbondanza, il cacao matura a vista d’occhio
e di banane ce n’è un vero e proprio mare. Insomma, gli affari vanno a gonfie vele.
Evitiamo che il toro da monta venga rubato, che l’unico trattore sia dato alle fiamme,
ma non riusciamo a sventare il furto di una decina di lamiere ondulate che dovevano
servire a costruire una tettoia. Poco male.
Un giorno prendiamo il fuoristrada e finalmente partiamo a cercare informazioni più
dettagliate sulla Cueva de los Tayos, direttamente nella jungla. L’amica mi
raccomanda di fare attenzione a due cose: agli incidenti d’auto e ai limitatori di
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velocità lungo le strade secondarie. Capita che dei birbantelli inscenino un finto
incidente d’auto, magari la classica macchina rovesciata su di un fianco oppure che
sembra finita nel fosso. Di prassi una o due persone si fanno trovare a terra, magari
sporche di sangue di pollo. Voi inchiodate, scendete a prestare soccorso e siete fottuti.
Se vi va bene vi lasciano la vita e fors’anche le mutande. Diversamente, creano un
limitatore di velocità, ovvero il classico salsicciotto di terra che vi costringe a
rallentare, fin quasi a fermarvi, per superarlo senza compromettere le sospensioni
dell’auto. A questo punto saltano fuori dei simpaticoni armati e il danno è fatto.
Da parte mia ho notato che lungo le strade di grande percorrenza sui limitatori «quelli
veri» vi è sempre un omino con un minibaracchino portatile ricolmo di bibite o di
cianfrusaglie che vi chiede di acquistare.
Per l’occasione mi fermo in un supermarket a comperarmi un bel machete. Ne hanno
d’ogni tipo e io lo prendo di media lunghezza e lo faccio affilare come un rasoio
dall’arrotino locale, che gentilmente mi indicano. Lascio a casa l’artiglieria, ovvero la
vecchia pistola del fu marito di lei. L’ha trovata nella cassaforte, in villa, avvolta in
un panno assieme a un paio di scatole di cartucce, il giorno che ha cercato una serie
di documenti a seguito della sua scomparsa. Si tratta di una bella e ben tenuta Mauser
modello 1899 con caricatore da dieci colpi. Progettata dai fratelli Feederle fu prodotta
per poco più di quarant’anni e con ben poche modifiche, costituendo secondo gli
esperti del settore un’arma corta a dir poco notevole per le sue caratteristiche.
Il Mago, da parte sua, non si porta appresso il fucilone recuperato nella soffitta della
fazenda. È un datatissimo semiautomatico messicano modello Mondragon, dei primi
del Novecento, dotato di un cannocchiale in ottone per il tiro di precisione. Si vede
che il marito della mia amica aveva una passione per le armi vecchiotte, oppure non
era riuscito a reperire di meglio, o a basso costo, sul mercato locale.
Secondo me i nostri angeli custodi si sentiranno più sollevati nel sentirci partire senza
armi da fuoco, propositivi, sereni e dotati di una certa noncuranza nei confronti delle
possibili insidie. Questo è già un buon metodo per scongiurarle in partenza. Ad ogni
buon conto il machete me lo tengo stretto.
Procediamo verso l’interno, in direzione est. Viaggiamo per ore. Sul far della sera la
natura ci offre lo spettacolo del vulcano Tungurhaua che erutta e sbuffa pennacchi di
fumo nero. Per chi abita ai suoi piedi questa è una pericolosa dannazione e certo non
s’intrattiene ad ammirarlo.
Stiamo in giro quasi una settimana, ma non riusciamo a venire a capo di alcunché. La
nota positiva riguarda l’incontro con un indio della tribù dei Quequa, che si fa
chiamare Reginaldo. È un vero stregone, meglio definibile come sciamano. Secondo
lui per giungere a determinati stadi d’ascesi s’impiegano anni o decenni, a seconda
dell’individuo e della personale applicazione. Considera che gli occidentali e ancor
più gli americani abbiano troppa fretta e quello che a loro principalmente interessa è
il «metodo». Ma raggiungere l’ascesi non è come acquisire un metodo di studio
oppure imparare a guidare la macchina nel traffico.
Reginaldo e il Mago si capiscono al volo, nonostante uno parli uno spagnolo stento e
l’altro anche peggio. Ma è bastato che il Mago stendesse la mano parallelamente al
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terreno affinché l’altro capisse, lo acchiappasse sottobraccio e sparisse per più di
un’ora nella sua capanna-laboratorio.
«Adesso ho compreso perché il destino mi ha condotto qui» esclama il Mago quasi
trasognato.
Certo, i tuoi Dei t’hanno condotto qui per farti incontrare la mia amica, altro che lo
sciamano! Ma questo non glielo dico e continuo a sorridere e tacere.
«Mi ha parlato con la mente e io l’ho compreso perfettamente» prosegue. «E mi ha
detto delle cose che mi saranno utili per la vita e sulle quali avrò molto da meditare.»
Questi indios hanno la pelle chiara, sono di bell’aspetto, sani e fieri. Sono puliti e il
raffronto con i tuguri delle periferie delle grandi e piccole città è immediato. Inoltre la
loro razza si è mantenuta abbastanza pura, le tradizioni sono conseguentemente
ancora vive e il legame con la Madre Terra è forte.
Nel resto del pomeriggio guardiamo i due maghi-sciamani segnare percorsi e fissare
punti in un’area prossima al villaggio: stanno tracciando le linee che compongono le
reti di Hartmann e di Curry sul terreno, unitamente alle vene d’acqua e ai loro nocivi
punti d’intersezione. In pratica, tutte cose che si trovano su Internet, oppure sui
manuali di radiestesia e rabdomanzia che in Italia e in Europa pullulano in ogni
lingua. E che senza dubbio lo sciamano non ha mai letto, ma la cui conoscenza gli
deriva dall’aver saputo ascoltare e interpretare la natura.
Ad ogni buon conto così le descrive Aristide Viero: «La rete Hartmann, di origine
tellurica, prende nome dall’omonimo ricercatore tedesco che, dopo migliaia di prove
eseguite presso l’Università di Heidelberg, ha dato una spiegazione degli effetti
geopatogeni di questo reticolo, oltre a una dimostrazione sulla sua rilevazione e sugli
effetti biologico-scientifici sull’uomo e su tutta la vita animale e vegetale del
pianeta».16 Per quanto concerne la rete individuata e studiata dal dottor Curry: «È di
natura elettrica, determinata da onde cosmiche, che hanno un flusso che va dal cielo
verso la terra»; inoltre: «Questo circuito veicola energie vibratorie a più alta
frequenza rispetto alla rete Hartmann e risulta molto dannoso alla salute per il suo
effetto geopatogeno».17
La notte la passiamo in una delle capanne del villaggio, avendo così la possibilità di
conoscere un professore di scuola media superiore che pare un indio locale. E, in
effetti, lo è da parte di madre.
Ci racconta cose che i giornali non dicono, cose di cui la televisione non parla. Nel
bacino del Rio delle Amazzoni, soprattutto nella parte alta e quindi anche in territorio
ecuadoregno, è in corso una guerra continua per via del petrolio.
«Qui nell’Amazonas» ci spiega il Professore «i “petroleros” assoldano compagnie
mercenarie composte soprattutto da bianchi per ammazzare gli indios».
Sperando d’aver capito male gli faccio ripetere che cosa accade. Ma, purtroppo, la
faccenda è proprio questa. Le bande mercenarie penetrano nella jungla con il solo
compito di togliere di mezzo gli abitanti che la occupano nel modo più semplice,
meno dispendioso e senza strascichi diplomatici o di coscienza per l’utente seduto in
poltrona: ammazzandoli. I territori sono ricchi di petrolio, ma questo non si può
estrarre perché sopra ci stanno gli indios.
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«Molte tribù si sono ritirate nelle zone più fitte, dove la tecnologia rappresentata dalle
armi automatiche è di gran lunga meno efficace» prosegue il Professore. «Nell’intrico
della jungla i nativi hanno spesso la meglio, o comunque riescono a contrastare gli
attacchi e sovente anche a prevenirli tendendo a questi delinquenti delle imboscate.
Ovviamente nessuno ne parla, né giornali, né televisione.»
Il giorno seguente veniamo accompagnati presso un piccolissimo villaggio dove c’è
chi sa qualche cosa a riguardo della Cueva de los Tayos, ma non sa indicarcene con
precisione l’ubicazione. Questo è un problema, perché nell’intrico della vegetazione
potremmo passare accanto all’ingresso chissà quante volte senza vederlo. Veniamo
comunque a sapere che oltre a Juan Moricz c’è stato anche lo scrittore Erich von
Daniken, noto per i suoi libri di «archeologia alternativa».
In ogni caso le Cuevas, ovvero le grotte, sono più d’una. Padre Crespi, prete italiano,
ne esplorò alcune e riportò alla luce numerosi oggetti quanto mai strani. Alcuni
sottilissimi fogli d’oro sono incisi e rappresentano strane facce con profonde
occhiaie, strani segni zigzaganti, altre recano incise lineette e spezzate che per la loro
disposizione richiamano alla mente le lettere di un alfabeto sconosciuto. Poi vi sono
oggetti bizzarri, che non si sa proprio a che cosa potessero servire. Ma Padre Crespi è
morto anni addietro, portando con sé il segreto, e la sua collezione è sparita nella
notte. Qualcuno dice che l’hanno rubata, altri sostengono che sia finita sotto chiave
nella cantina di qualche alto prelato o che, addirittura, ora si trovi in Vaticano.
La vacanza ha fatto bene a tutti e rientriamo alla fazenda ricchi di storie, di leggende
e di fatti tragici su cui meditare. Fortunatamente in nostra assenza tutto è filato via
liscio e vi è pure un lieto evento: la nascita di due puledrini.
Considerazioni d’un bianco perplesso
Il Mago si trasferisce in camera della mia amica e io continuo a pensare alle grotte.
Un fine settimana decidono di andare a trascorrerlo a Guayaquil, ma non li seguo e
non per una questione di sentirmi il terzo incomodo o il reggimoccolo, ma solo per
evitare di tornare in quella città. I centri minori li preferisco e via via che si
allontanano da Guayaquil assumono per me un aspetto più normale. La gente in giro
per le strade è decisamente più gaia, i negozi tutto saracinesche, filo spinato e fucili
spariscono, fanno decisamente meno caso al fatto che sia bianco (o, almeno, a me
pare così) e tutto fluisce come un lento e sonnolento fiume di pianura.
Nei centri montani, i pochi che ho visitato, l’aria è gaia e frizzante, ma la povertà
evidentissima in cui versa la più parte della popolazione rimane. Si sente sempre
come l’uomo bianco abbia distrutto la cultura andina e abbia propinato quella
europea prima, quella americana poi, modificate alla bisogna: siete su questa terra per
soffrire, quindi fatelo in silenzio senza romperci i coglioni. Noi vi portiamo via tutto,
donne comprese, voi lasciatecelo fare senza costringerci ad ammazzarvi per le strade
e a bruciare le vostre catapecchie come, per altro, abbiamo già fatto e continuiamo a
fare.
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I preti si danno un gran daffare e in un particolare giorno di festa vedo un frate che
benedice i motori delle automobili. Nulla da dire sullo spirito di abnegazione dei
religiosi. Non posso certo esimermi dal ricordare come il cristianesimo sia stato qui
importato in punta di spada e diffuso a colpi d’archibugio e di cannone. Certamente i
religiosi e la soldataglia prezzolata, dopo aver fatto piazza pulita, si sono rimboccati
le maniche e hanno aiutato i poveri indigeni a tirare avanti. Il vero problema dei
nativi non è quella che noi chiamiamo arretratezza tecnologica e culturale. Il loro
dramma non è la mancanza di medicinali prodotti dalle multinazionali, ma il fatto di
posare le loro chiappe su di un territorio ricco di materie prime, che noi gli
freghiamo con ogni mezzo. Il problema dei nativi, come il problema degli africani,
degli arabi, eccetera, è di possedere qualcosa che ha fatto, fa e farà gola all’uomo
bianco.
Ma, siccome sono bianco pur’io mi fermo un attimino a riflettere. In realtà una
ristretta cerchia di individui detiene il potere dell’economia. Sono loro i responsabili
delle grandi rapine ai danni del pianeta. Oggi il motore della mano rapace è mosso
dalle multinazionali, dal capitalismo e dal mondialismo. Ma dietro tutto abbiamo le
banche in mano a pochissime e strettamente connesse lobbit.
Poi, senza dubbio, il religioso di turno dà una mano e fa ancora peggio: crea nuovi
adepti, crea una dipendenza mentale, crea nuovi servi. Crea nel bianco che sta a casa
un rinnovato senso di colpa, gli fa sborsare soldi per «aiutare il povero indio»,
quando il nativo è tutt’altro che povero essendo il legittimo proprietario di un
territorio ricchissimo di materie prime. Inoltre l’unica cosa di cui necessita è che il
bianco o chi per esso sparisca e lo lasci vivere in pace, seguendo la propria cultura, la
propria tradizione, il proprio legittimo intendimento.
In parole povere: al mio prossimo dò una scarica di randellate e poi lascio che il mio
compare elargisca gratuitamente bende e cerotti. E poi gli dico che pregare il suo dio
è da sottorazzati, mentre il mio è più figo, più potente e sostanzialmente l’unico.
Rendo l’idea?
Ovviamente, in tutto questo, facciamo loro credere che come viviamo noi sia il top
dei top: dai negozi di lusso ai grandi magazzini, fino ai negozietti più sordidi e
pulciosi, i vestiti che siano di firma o di dozzinale produzione sono indossati da
manichini alti, slanciati e immancabilmente bianchi con capelli e occhi chiari. Poi la
televisione fa il resto standardizzando un pensiero rimasto orfano della propria
cultura.
All’estremità del chilometrico e modernissimo lungofiume, denominato «Malecón
2000» (polo turistico, culturale e commerciale di Guayaquil), vi è l’edificio del
Museo Antropologico e di Arte Contemporanea del Banco Central del Ecuador. Passo
fotografandolo a tutto spiano e noto uno striscione pubblicitario alto almeno una
decina di metri del Banco Central che recita: «Cultura para Todos» (Cultura per
Tutti). A me suona quasi ironico.
Non si può nemmeno sottacere come l’importazione di schiavi dall’Africa abbia
creato a suo tempo una nuova razza che non ha serbato nulla o quasi di ciò che era il
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patrimonio di partenza. Ora alberga una razza apolide, grigia, ignara di tutto tranne di
quello che gli facciamo credere e desiderare noi.
In definitiva noi abbiamo dato e diamo loro dei pessimi esempi di comportamento e li
affamiamo. Loro vogliono le nostre stesse ricchezze, ma passando dalle forche
caudine: impugnano il fucile per averle e noi così possiamo, tutelati dalla legge
(ovviamente la nostra), farli fuori. Non sanno che per rubare al prossimo con grande
profitto occorre studiare tanto ed entrare nell’alta società. Non saccheggiare i
negozietti che per proteggersi devono chiudersi dietro le griglie e assoldare dei
«pistoleros». Il mio sospetto è che ora che questi lo capiranno, il mondo sarà entrato
in un’altra era, oppure sarà cascata sulla Terra l’ultima luna. E i pochi che si
salveranno sotto terra daranno nuovo lavoro agli antropologi e agli archeologi di un
lontano futuro, ma senza avere prima recuperato la propria identità.
Guardiamo ora l’altra faccia della medaglia.
Tensione razziale capestro globale
Attorno agli anni Ottanta, a casa di conoscenti, ho avuto modo di ascoltare le parole
di uno strano signore sui settant’anni, appena tornato dagli U.S.A. Trattando il fattore
sovrappopolamento e traffico nelle grandi città disse che gli americani avevano
studiato una soluzione, che avrebbero cercato di mettere poi in pratica. Pensavano di
costruire degli enormi palazzi in grado di contenere ottantamila persone, con centri di
produzione, uffici, centri commerciali e ogni altro servizio necessario al quotidiano,
dal parrucchiere all’ambulatorio medico, dalla lavanderia al sarto. L’obiettivo era di
fare in modo che la gente non uscisse dal gigantesco prisma di calcestruzzo di
cemento armato, ma lì vivesse, andasse al lavoro, producesse, pagasse le tasse,
spendesse, procreasse. Certamente si rendevano conto che costituire una tale
comunità avrebbe comportato un problema fondamentale: questa poteva entrare in
disaccordo con l’amministrazione politica della città, forse dello stato stesso e
mettersi contro l’intera nazione. Magari cercando la solidarietà e l’unione d’intenti
con altri «alveari».
Come evitare alla radice l’eventuale insorgere di tale pericoloso inconveniente? Si
sarebbero scelte le persone da fare entrare nell’alveare a seconda della nazionalità e
dell’etnìa di provenienza! Si sarebbero creati i presupposti per la nascita di un certo
tipo di tensione la quale, com’è noto, non favorisce l’insurrezione.
Ci sarebbe voluta una certa percentuale di oriundi italiani, oriundi irlandesi, oriundi
d’altre nazioni europee e poi messicani, sudamericani, africani, asiatici e anche un
po’ di mussulmani assortiti. Questo avrebbe di per sé generato delle tensioni razziali,
ma la cosa non sarebbe stata bastante, seppure sia innegabile che abitare tra
sudamericani o cinesi o albanesi che vivono stipati in pochi metri quadri, i quali
sporcano, non puliscono e fanno pure gli arroganti, genera tensione.
Avere per adiacenti di casa una numerosa famiglia con la radio e il televisore
perennemente a tutto volume, che non rispetta il silenzio nei giorni comandati al
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riposo, nonché nelle ore notturne, può divenire un «grave problema», che genera
senza dubbio tensione. Avere per vicini quelli che tengono in casa coppie di cani
facendo a gara a chi ce li ha più grossi e feroci, lasciando che le bestie facciano
baccano, orinino e defechino dove gli pare, questo genera sempre problemi e disagi.
Quindi produce tensioni. E fermiamoci qui, senza ripercorrere le tappe di quanto
avviene con l’immissione della droga di stato in una comunità, di cosa capita se si
lasciano i delinquenti a piede libero e di cosa succede se non s’interviene contro
organizzazioni malavitose a ogni livello.
Tutto ciò ancora non sarebbe stato bastante ad azzerare qualsivoglia velleità da parte
degli abitanti dell’alveare: si sarebbero quindi create a bella posta delle bande, delle
cellule eversive, dei clan che si sarebbero fatti la guerra l’uno contro l’altro,
coinvolgendo quanta più gente possibile all’interno dell’alveare.
Una popolazione in tensione non ha tempo e non ha nemmeno la serenità mentale per
meditare profondamente sulla propria condizione e sullo stato di fatto in cui si trova.
Quindi non crea problemi. Produce e tace. E, in ogni caso, come qualcuno disse, se
una popolazione di poveri crea problemi basta pagarne una metà e metterla contro la
restante!
Possiamo persino scomodare Machiavelli, ricordando un passo della sua opera più
nota (Il Principe) e riferito all’Italia: «io non credo che le divisioni facessino mai
bene alcuno: anzi è necessario, quando il nimico si accosta, che le città divise si
perdino subito; perché sempre la parte più debole si aderirà alle forze esterne, e l’altra
non potrà reggere».18
Sono passati tanti anni da quell’incontro e il tipo strano non l’ho mai più rivisto. Per
fortuna. Ma le sue parole mi sono rimaste bene in mente. E fino a ieri le ho viste
materializzate negli stati europei. Oggi le ho viste nelle città dell’Ecuador.
Senza costruire costosissimi alveari si è fatto d’interi stati un gigantesco alveare, per
evitare che il popolo risollevi la testa e ristabilisca il giusto ordine, la necessaria
disciplina e una sana economia per svincolarsi dai capestri delle forniture estere, delle
multinazionali e delle banche.
Sorpresina!
Alla fine il potere del bruço si manifesta nel modo più plateale.
Sto tornando alla fazenda ed è l’imbrunire. Un fine giornata di quelli lunghi,
interminabili, dove il sole lo vedi scomparire dietro una nuvola nerastra e pensi «...
finalmente un po’ di tregua, oggi ha fatto veramente troppo caldo!».
Ma ti sbagli, quello continua a fluttuare sulla linea dell’orizzonte, ora velato dalla
solita pesante foschia, ora sfavillante e più caldo che mai. Mi viene quasi da dormire,
tanto che spengo l’aria condizionata e abbasso i finestrini, completamente, lasciando
che l’aria mi schiaffeggi.
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La strada malandata ha un dosso nuovo, rispetto stamane. E taglia la strada per tutta
la sua larghezza. La cosa mi colpisce come una secchiata d’acqua.
Istintivamente stacco il piede dall’acceleratore, abbozzo una frenata, ma le parole
della mia amica, sui dossi inaspettati, mi fanno subitaneamente ripigiare il piede a
tavoletta. Un secondo dopo sento che il 3500 di cilindrata ha un balzo in avanti.
Tutto si sussegue con una rapidità sconvolgente, che percepisco come una scena al
rallentatore, perché io detto il tempo dell’azione, come aveva insegnato il mio
Maestro di Ninjtsu. Ogni tanto, nelle pause degli allenamenti, ci leggeva qualcosa.
Soprattutto le massime taoiste. Questa era una delle sue preferite:
«Conoscere gli altri è saggezza
Conoscere sé stessi è illuminatezza
Dominare gli altri è forza
Dominare sé stessi è superiorità
Ricco è chi è sufficiente a sé stesso.» 19
L’avversario ti attacca con estrema rapidità. Può anche sorprenderti se è bravo, ma tu
devi dettare il tempo, vedere l’azione a rallentatore, costringere il tempo a rallentare
per poterlo osservare in ogni dettaglio e muoverti dentro con ferma tranquillità, senza
fretta, portando ogni movimento, ogni azione, all’obiettivo che ti vedrà prevalere
sull’avversario.
E così faccio, istintivamente, naturalmente, come se giocassi a scacchi, o quasi.
Come il piede è premuto l’auto balza in avanti dando un bel sobbalzo con
contraccolpo intanto che supera il dosso. Alla sinistra esce un ceffo con una maglietta
un tempo bianca, che pubblicizza un olio da motore. Ha in mano un fucile. Le canne
dietro di lui si agitano perché a ruota si lancia sul ciglio della strada un secondo
brutto figuro, armato di machete. Già, di machete, ma il primo solleva e mi punta in
faccia un fucile a pompa che mi pare uno spropositato pezzo d’artiglieria, tanto
sembra grosso. E non ho bisogno di guardare nello specchietto retrovisore per sapere
che dietro, dalla jungla, è uscita altra gente.
Inchiodo, stavolta con decisione, sterzo, innesto la retro, s’alza un gran polverone,
odo uno schiocco ma ho già la testa abbassata a filo del cruscotto. Il parabrezza è
sforacchiato. Un secondo colpo lo fa letteralmente esplodere all’interno assieme al
poggiatesta del sedile che mi sta accanto. Una fitta al braccio destro mi fa
bestemmiare come mai essere umano o inumano ha bestemmiato.
Ingrano comunque la marcia nonostante il dolore, balzo in avanti e qualcosa che pare
una lunga salsiccia con camicia sudicia e pantaloni lerci rotola a lato del cofano. Uno
in meno. Reingrano la retro scodando come un pazzo, ma attento a non finire nei
fossi laterali. Un altro paio di schiocchi, il mio sangue sprizza e mi sembra d’essere
sordo da un orecchio, ma un debole tonfo mi fa sorridere malignamente. Insceno una
bella gimcana tutta stridìo di gomme, freni e acceleratore in una manciata di metri
quadri, come un bufalo inferocito e mi arresto con le ruotone che slittano un poco.
Ma do gas ancora una volta. Istintivamente mi porto la mano all’orecchio e mi
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sembra che sia sbrindellato sul lobo. Peccato per la mia camicia azzurra, speriamo
che la tintoria non me la sciupi nel tentativo di smacchiarla.
Nel mentre anche il bastardo con la pistolotta a tamburo è sparito nella polvere. Dura
la carrozzeria, nevvero?
Arresto definitivamente il drago verde in mezzo alla strada e valuto la situazione un
po’ troppo spavaldamente. Una saetta metallica in forma di machete entra dal
finestrino, ma il tipetto baffuto è stato troppo precipitoso e la lama cozza e s’arresta a
due dita dal mio collo contro il metallo del poggiatesta.
Maldestro, il baffo pendulo! È l’ultima cosa che fa, perché la prima cosa che si
spezza è la sua mano, seguita con calma, anzi, direi molta calma, dal suo braccio, dai
suoi denti, dalla sua faccia e sicuramente da un discreto numero delle sue costole, dal
momento che sono anche sceso dal fuoristrada e ho pulito i miei anfibi sulla sua
loschissima figura.
Due stolti sono accartocciati a terra, vicino il montarozzo di terra e sassi che sbarra la
strada; quello che ha carambolato sul cofano è sparito, forse starà galleggiando nel
fosso. Uno rantola ai miei piedi e direi che ne mancano almeno un paio all’appello.
Raccolgo il fucile, un paio di pistole a tamburo che sembrano quelle di Cocco-Bill,
tanto son grosse e vetuste, altrettanti machete e butto il tutto con noncuranza nel
cassone. Monto rapidamente in vettura e via come il vento, di ritorno alla fazenda
della mia amica, tamponandomi l’orecchio e pisciando sangue dal braccio.
Ma prima faccio inversione e cerco un tratturo che mi porti sull’altra strada che,
seppure più lunga, mi condurrà ugualmente a destinazione. Penso che l’avere fatto
retromarcia sia stata la cosa più saggia: dopo il «limitatore di velocità», oltre la curva
ci sarà stato senz’altro un bel tronco d’albero di traverso sulla carreggiata e un altro
paio di peones ad attendermi. Beh, non avevano fatto le cose poi male quei
principianti, ma era meglio per loro se rimanevano con il bruço a sgozzare polli neri e
bruciare merda di vacca sulla brace.
Non avrei mai pensato che un orecchio potesse buttare così tanto sangue, e
soprattutto fare così male, ma un po’ di ricambio di sangue e non d’olio penso non sia
poi una tragedia.
Non ho più il parabrezza, il lunotto posteriore ha una teoria di fori belli tondi... ma
quanto hanno sparato quegli idioti?
Il mercato del pesce
La cosa più insopportabile, dopo il fatto di avere constatato i danni alla vettura, sono
le apprensioni della mia amica. Il Mago non si scompone più di tanto e sale in camera
a prendere il fucile inventato dal generale messicano Mondragon. Fa strano vedere un
sensitivo caricare con un sorriso l’arma. Non è certo uno che si lasci intimorire.
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La Policia Rural rimane decisamente impressionata quando piombo nel loro ufficetto
sudato, con un vistoso tampone sull’orecchio, il braccio destro fasciato e un sacco di
juta che sbatto con malagrazia sul loro tavolo, contenente le armi degli stolti.
Quelli vengono poi recuperati, tanto la Policia sapeva già dove andare a cercarli. Due
li trascinano ammanettati in ospedale, gli altri ci sono già con la dichiarazione che un
pazzo li aveva travolti con una enorme jeep. Patetici.
Quello che ho stempiato a schiaffoni, scassandogli per soprammercato le costole, si
rivela essere figlio del bruço. Il cecchino malefico, nientepopò di meno che un nipote
del bruço, è quello ridotto peggio: così impara a puntarmi contro il «pompa»! Gli
auguro sei mesi di trazione nel reparto ortopedico, una bella scabbia pruriginosa da
non potersi grattare e un soggiorno gratuito al bagno penale (sempre che ce l’abbiano
ancora in funzione). Gli altri sono ciarpame prezzolato e presentano un
bell’assortimento di fratture più o meno scomposte agli arti, segno che la carrozzeria
umana non è mai resistente quanto quella di un’auto.
I giorni seguenti passano lieti, la mia bella amica licenzia quattro stronzi che
cercavano di avvelenare le vacche e tutto torna lieto, come d’incanto. Devo dire che il
Mago è decisamente in gamba: lui si è accorto della manovrina per ammazzare le
bestie. Poi, in paese, hanno capito che non scherza. Al mercato del pesce un tipo che
l’ha proditoriamente provocato si è trovato con una commozione cerebrale e il naso
in frantumi nel battito d’ali d’una farfalla. Io ho assistito allo spettacolo
preoccupandomi solo d’infilare il mio serramanico da grotta (dalla parte della lama,
ovviamente) nella narice di uno stolto che voleva intervenire.
«Hai visto il film Chinathown?» chiedo cortesemente al losco figuro. Ma lui non sa
l’italiano e sicuramente non ha visto il film. Però ha capito subito che se non
rimaneva perfettamente immobile come una statua di Prassitele ci rimetteva
completamente la narice. Come invece ce la rimette Jack Nicolson nel film,
ovviamente.
Il «Cuore di Odino»
Direi che mi posso accomiatare e lasciare che i due piccioncini tubino sereni tra
campi coltivati, brandelli di jungla e città che puzzano di nuovo e di vecchio bruciati
assieme. E all’alba di una grigissima mattina sono in aeroporto.
Il volo logorroico, con i soliti quattro bambini che piangono, la nebbia su Linate che
ci dirotta a Malpensa, i soliti quattro peones che puzzano e schiamazzano, le hostess
che non fanno un tubo, mi rendono vieppiù pesante il rientro.
Pesante perché tale è la mia schiena. La sensazione è nota, un «déjà-vu» che, tanto
per fare rima, avrei preferito non vedere più. Un demone si sta attaccando ancora alle
mie spalle e non so che fare. Sento i miei pensieri invasi, scrutati, le mie forze pian
piano succhiate. Sarà il regalo del bruço? Sarà qualcosa di nostrano che si ripropone?
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Peccato che il Mago sia rimasto là. Ma, in fin dei conti, chi glielo faceva fare di
tornare in Italia a sfiancarsi con le solite quotidianità coatte? E le solite tasse
dissanguanti da pagare e senza avere alcunché in cambio? Spero che l’amore tra lui e
la mia amica duri a lungo.
Passo tre giorni steso a letto. A fatica mi trascino in bagno per i doveri corporali. Se
cerco di mangiare mi assale la nausea. Ma poi scoreggio sonoramente e mi
rammento. L’ho sempre detto che il suono dal profondo mette in moto le meningi e
pure le membra, perché l’illuminazione mi ha ridestato quel tanto che basta a
caricarmi in macchina e partire.
Vado a trovare il mio amico Druido. Si, un vero e proprio Druido Celtico, catapultato
qua dai tempi che furono. Mi stringe la mano festoso, mi squadra, mi fa qualche
domanda e capisce.
«Hai rotto i coglioni a qualcuno come al tuo solito» la sua è un’affermazione.
«Ma che diavolo dici, ti sembro forse il tipo che va in vacanza a cercare rogne?»
ribatto.
«In primo luogo il tuo concetto di “vacanza” è discutibile. In secondo, e qui viene il
bello, non sei capace di passare inosservato come, per altro, ti ho insegnato a fare» mi
scodella il Druido, con un bel sorriso.
Apparecchia le sue diavolerie, mi scruta e mi palpeggia il collo. «Quello a cui hai
pestato i calli non è poi niente male nell’arte della magia oscura. Questo genere di
demone non l’avevo mai visto. E sì che ne ho visti!» mi dice meditabondo. Poi si
apparta e disegna con l’inchiostro tre triangoli intrecciati su di una pergamena.
«Questo si chiama “Cuore di Odino”» e mi dà alcuni suggerimenti interessanti sul
suo uso e sulla sua funzione.
Mi fa mettere a torso nudo e con un pennellino intinto in una sostanza maleodorante
che sembra inchiostro me li disegna sulla parte alta della schiena.
«Puzza ma non è merda» mi rassicura. «Si tratta di una sostanza fatta con erbe e terre,
che colora e permane qualche giorno disegnata sulla pelle, anche se ti lavi» precisa il
Druido.
Mi mette in mano pure due chili di sale non trattato, proveniente da una miniera e
dice: «Riempi la vasca da bagno di acqua bella calda e scioglicelo dentro. Immergiti e
tieni immersa il più possibile anche la testa in quest’acqua e sale. Stacci dentro
quindici minuti e non di più. Poi sciacquati con acqua corrente e non usare né
shampoo né sapone. Aiuta a staccarti di dosso eventuali vampiri d’energia, netta e
riequilibra».
E conclude laconico: «Poi vattene a nanna e dormi».
Io taccio.
«Hai capito bene?» mi chiede accigliandosi un poco.
«Si, perfettamente» rispondo «ma mi ripeteresti che fare con il triplice triangolo?».
«Questo che ti ho dato lo esponi davanti al tuo letto, in modo che ti guardi mentre
dormi» mi rispiega con pazienza il Druido.
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E soggiunge: «Però, già che ci sei, potresti riprodurlo su altri fogli di carta, con un
pennarello nero, ricalcandolo anche sul retro. Poi te ne metti uno per stanza, a terra,
magari sotto la mobilia. E te li dimentichi perché tanto lavorano bene comunque».
Secondo lui servono a rigenerare l’ambiente, scacciare le presenze un po’ stronze e
comunque nocive e bloccare eventuali influssi negativi emanati naturalmente dal
terreno, come vene d’acqua, punti che danno patologie degenerative ecc. Non è il
rimedio perfetto, non scherma tutto tutto, ma fa il suo dovere.
Pochi giorni dopo ecco una lieta telefonata dal Mago, il quale esclama che il bruço
l’hanno ricoverato d’urgenza in ospedale.
«Ma dai!» faccio io.
«Pare che un ictus lo abbia reso scemo, anzi, pardon, più scemo ancora di quanto già
non fosse» spiega il Mago ridendosela di gusto.
6. Soffi di grotta
Fendendo il buio
Nell’alba radiosa il Rifugio Biglietti ci augura una bella avventura speleologica. E
così sarà. Io spalanco le persiane, lei gli occhioni verdi e lì mi ci perdo. Mi reinfilo
sotto le coperte e la struscio tutta, come non ce l’avessi mai avuta accanto. S’inarca
su di me, i suoi capelli biondi coprono come tende il mio volto, sono le vele al vento
delle passioni, sono stendardi che sventoleranno a lungo nel mio cuore.
Niente doccia, colazione sostanziosa, lavata di denti e zaini in spalla. Corde pure,
nelle loro brave sacche. Ci mettiamo in marcia, fuori dal sentiero, alla volta della
grotta e piegati sotto i carichi.
Ho la sensazione di correre sull’orlo di un abisso. Guardo distrattamente verso il
fondovalle, che mi appare come un gigantesco mucchio di piume d’oca, per non dire
un tappeto di nubi cumuliformi. In quest’area carsica sono state trovate ad oggi circa
trecento grotte. Molte sono state esplorate solo parzialmente perché divengono strette
e fangose, perché alcune presentano tappi di ghiaccio che non vogliono sciogliersi,
perché anche la tenacia degli speleologi, ad un certo punto, ha un suo limite.
Soprattutto se i risultati eclatanti vengono a mancare. Oppure se i gruppi speleologici
si disgregano, si frammentano, chiudono i battenti per sopraggiunti limiti d’età o di
panza dei componenti.
La magìa del sottosuolo è scendere. Ti agganci con il discensore alla corda statica e
penzoli nel vuoto. L’imbragatura tira, sopportando il tuo peso, le fibre emettono il
tipico gemito emesso dalla fibra che si torce e geme... La corda non è da meno,
invitando il moschettone ad unirsi agli impercettibili vagiti amplificati dalle cellule
del tuo corpo ch’esprimono subitaneamente una sudorazione lieve, ma palpabile. Un
vago sentore di pericolo accarezza il tuo istinto di conservazione: non tutti reggono la
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sensazione. Quando scendi, anzi, ancor meglio, quando risali da un pozzo profondo
cinquanta o cento metri, e la corda è un tiro unico nel vuoto, la senti e la vedi stirarsi,
sbadigliare nei suoi lamenti tanto che ti pare di stare appeso a un elastico da mutande.
Cagarsi addosso dalla paura di lasciarci la buccia può anche fare bene alla salute:
rammenta l’impermanenza delle cose terrene. Talvolta basta un attimo di distrazione
e si vola tra gli angioletti. La paura ti tiene sveglio e accorto, talvolta è quella che ti fa
portare a casa la pelle.
Ma taluni hanno troppa paura e questo è il tangibile segno degli Dei: fai altro! Non
bisogna vergognarsi di avere paura, non tutti siamo stati fatti per seguire la medesima
strada. Ad esempio, l’idea di arrampicarmi su di un pinnacolo di roccia, tanto per dire
che sono arrivato in cima, mi fa venire la tremarella alle ginocchia nonché la sciolta.
L’alpinismo non fa per me.
In grotta è diverso: datemi uno «spago» che io scendo fino all’inferno. Ti lasci la luce
alle spalle. Tante dissertazioni sulla grotta vista come il ventre materno nel quale,
inconsciamente, l’essere umano speleologo entra per ritrovare un perduto senso di
sicurezza e protezione, mi sembrano sonori venti di stomaco. Ti lasci la luce alle
spalle ed è detto tutto. O solo il principio. Dai il via a una grande avventura. Tu e la
Terra. Il Sottoterra. Sotto è il regno dell’acqua. Acqua, elemento vitale, da cui siamo
stati generati noi e tutto il resto delle cose viventi.
L’acqua tenacemente e incessantemente scava e plasma il sottoterra. Scioglie il
calcare creando ambienti d’ogni forma e dimensione, li fodera di meravigliose e
suggestive forme, depositando le sostanze minerali. La timida e dolce goccia d’acqua
che si stacca dalla roccia forma un lieve, lievissimo orlo di carbonato di calcio,
ponendo le basi per l’accrescimento di una stalattite, per poi precipitare al suolo, con
impercettibile tocco. Lascia sul pavimento il resto delle sostanze sue che pian piano,
accrescendosi anch’esse, formeranno una stalagmite. I nostri occhi incantati
osservano. A seconda della genesi e delle forme assunte dalle concrezioni le
chiamiamo con differenti nomi, le classifichiamo. Stalattiti, stalagmiti, cannule,
eccentriche, cortine stalattitiche ecc.
È il regno del buio. Noi lo infrangiamo di testa. Noi ci copriamo il capo con una
bandana, sembrando bucanieri. Sopra ci poggiamo un casco: protegge la testa e porta
la luce. Sul casco è montato un impianto d’illuminazione elettrico. Oggi è a led, un
tempo a semplici lampadine da poche volt.
Qualcuno porta ancora, sopra l’impianto d’illuminazione, un buffo aggeggio
composto da un beccuccio da cui esce il gas acetilene. Poi un parafiamma, o parabola
riflettente che è sempre talmente sporca da riflettere solo un filo di trascuratezza. E
un piezoelettrico per accendere il gas, che ovviamente esce dal beccuccio. A questo
arriva un tubo di gomma che parte da una bombola portata appesa all’imbragatura. Io
la tengo sotto l’ascella destra. La più usata è metallica, due parti cilindriche
s’avvitano tra loro componendola. Nella superiore è contenuta l’acqua (lei, ancora
una volta presente indispensabile) che goccia a goccia scende, regolata da un’astina a
vite, nella sottostante colma di carburo di calcio. La combinazione dei due elementi
genera il gas acetilene che corre su per il tubo. Noi lo incendiamo, la luce si protende
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ed esploriamo. Ci gettiamo in avanti anche noi. Ad inseguire la via dell’acqua.
Sempre più dentro, sempre più giù. Scaviamo il buio che dietro di noi si richiude
sempre, inesorabilmente. Tranquillamente.
Ricordi sospesi sul vuoto
Mi giungono dal passato voci, grida, imprecazioni, moschettoni che tintinnano tra
loro; un martello batte. La mia mente risponde. Eravamo proprio noi, allora, con
l’animalesca perseveranza della gioventù, a insistere nelle ricognizioni per trovare
Lei, la Grotta; Lui, il Collettore; noi stessi, Speleologi inchiodati su un’assurda
convinzione. Un sogno.
Il sogno era stato quello del Cartaginese.
Il Gruppo Speleologico a cui il Cartaginese ed io eravamo tesserati comprendeva
circa una cinquantina di persone. Quattro o cinque facevano attività, o meglio erano
coloro i quali, con cognizione di causa, studiavano il territorio prescelto, cercavano le
grotte e, se le trovavano, le esploravano e le rilevavano. Una quindicina li seguivano
nell’opera, altrettanti lo facevano quando coincidenze astrali, fidanzate, oppure mogli
e figli, calli compresi, lo permettevano. I restanti «speleologavano» quel paio di volte
l’anno. Più che altro davano fiato alla bocca e disturbavano.
Ma Bruto Cassio dettava legge, o meglio cercava di dettarla, in virtù dei propri
interessi. Lui era il boss del Gruppo, eletto coram populo dalla massa inerte di
pecoroni braghemolli all’annuale assemblea dell’associazione. Da quando vide la
speleologia come una miniera da far rendere e gli speleologi minatori da far lavorare,
si rimboccò le maniche, unse a dovere le molle della lingua e imperversò. In grazia
degli studi fatti e dell’assoluta mancanza di voglia d’infilarsi ancora in grotta e
sporcarsi, convinse per anni buona parte del Gruppo a condurre le proprie ricerche in
una certa area del massiccio montuoso situato alle porte di casa nostra, affinché gli
portassero i dati necessari ai suoi studi.
«Dovete proseguire nelle ricognizioni in quest’area carsica!» esclamò Bruto Cassio
proteso verso di noi da dietro la grande cattedra che chiudeva sul fondo la sala delle
riunioni.
Sosteneva che secondo i suoi studi, e considerando la conformazione geologica
dell’area, l’acqua assorbita da queste grotte poteva confluire nel Collettore. Le gote
gli si erano accese, spingendo via dal volto il colorito giallognolo, quasi da malaticcio
e così concluse: «Trovando il Collettore si entra praticamente in un complesso
sotterraneo che potrebbe rivelarsi il più vasto in Italia, nonché tra i più vasti
d’Europa... se non del Mondo». Delirio puro.
Di contro, le labbra del Cartaginese erano una sottile linea rosa pallido tra la barba
brizzolata e ben curata. Serravano la pipa tirolese, spenta e immobile. Statuario non
batteva ciglio, segno tangibile della propria disapprovazione. Stufo di cercare e
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ricavare dati dalle grotte, l’anno precedente aveva deliberatamente cambiato teatro
d’operazioni. Per lui, da lì, non si poteva fisicamente giungere al Collettore.
Bruto Cassio era furibondo per tale ammutinamento.
Noi abbiamo un opinabilissimo metro di misura: chi si prodiga in operazioni ed
esplorazioni, ovvero lavora al conseguimento materiale del risultato, vale. Chi pensa
di utilizzare l’altrui sudore per farsi bello, pubblicando a proprio nome il lavoro
d’altri nell’infingarda speranza di «fare carriera», non vale.
Il Cartaginese, secondo i suoi studi e le osservazioni sul campo, riteneva che fosse
meglio cercare la grotta, ovvero la porta d’accesso al Collettore, un po’ più a sudest.
E così lo seguimmo. Una prima grotta porta solo a qualche centinaio di metri sotto
terra, per poi finire in un salone fangoso, dove l’acqua si perde in fessure praticabili
solo dalle scolopendre.
Una seconda grotta si apre comoda, alla base di una parete, per insinuarsi nella
montagna con una galleria che scodinzola allegramente fino a divenire
(puttanamiseria!) anche lei una fessura da delirio. Ma stavolta la fessura manda fuori
un getto d’aria gelida e costante. Questo vuol dire che va avanti ed è collegata a un
sistema carsico presumibilmente esteso. Continuiamo a sperare.
Si susseguono i fine settimana nei lavori di disostruzione, ovvero di allargamento
della fessura, con mazza, scalpello e leverino. Già, non siamo ancora approdati ai
recenti orizzonti speleologici che vedono l’applicazione delle microcariche di
esplosivo per l’allargamento delle strettoie e di fessure come questa. In pratica, ci
stiamo scavando la grotta con olio di gomito.
«Ho fatto un sogno» mi dice il Cartaginese, tra una martellata e l’altra.
I sogni m’incuriosiscono. Ma sono rannicchiato nel fondo del budello con quest’aria
gelida che mi soffia in faccia, il passamontagna che mi dà fastidio, l’acetilene che non
ne vuol sapere di stare accesa mentre armeggio con un leverino, ovvero con il
classico «piede di porco». Sto scassinando la grotta. La sto letteralmente aprendo, o
meglio disperatamente cerco di scalzare uno strato di roccia per aprirmi un passaggio.
Mi pare d’intravvedere, al di là dell’ennesima fessura, un cunicolo percorribile.
«Ho sognato la grotta che ci condurrà nel cuore del Collettore.»
E mi lascia lì, col fiato sospeso. Ma almeno mi dà una mano e riusciamo ad allargare
il passaggio. Davanti a noi c’è una condotta diritta come la canna di un cannone di
grosso calibro, ma delle medesime dimensioni, lunga non meno di dieci metri.
«Chikkazzocipassa qui dentro?» impreco alquanto deluso.
«Che sfortuna» esala il Cartaginese. «Con tutta quest’aria è un vero peccato non poter
proseguire. Tanta aria, tanta grotta!»
Guadagniamo mestamente l’uscita. A turno, gli altri speleo vanno a gettare uno
sguardo nella condotta e poi escono sconsolati. Ci ritroviamo fuori, al sole che
tramonta.
«Come diavolo facciamo a passare?» chiede Odoacre.
«È un budello osceno, per di più fortemente inclinato verso il basso, percorso da una
tremenda corrente d’aria che a mala pena arriverà ai due gradi di temperatura. Per
scavare il ghiaino devi lavorare a testa in giù; di spalle non so quanto ci si possa
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passare, quindi occorrerà martellare mica poco le pareti...» rincara Breno. Abbiamo le
facce di gesso, lo ammetto, ma che possiamo fare?
«Raccontaci il sogno! Per piacere...» esclamo, rompendo il silenzio da obitorio.
Il Cartaginese si toglie di bocca la pipa tirolese dal coperchio annerito, con uno
scatto, quasi bruscamente destato da un lungo sonno. Senza preamboli comincia a
raccontare con voce forte, quasi un tantino esagerata, ma piena di trasporto. Dal che
capisco quanto il sogno l’abbia colpito e continui a girovagargli nel cervello.
«Il costone era un orrido ammasso di pietrame, ben al di sotto della parete scoscesa
della cresta. Assai al di sotto. Camminavo solingo tra questi massi instabili quando,
ad un tratto...» si zittisce, ci guarda tutti con un mezzo sorriso.
«Hei, non fate quelle facce, tirate su gli angoli della bocca, che con tutti i buchi che ci
sono qua attorno, anche se questo è troppo stretto non è certo un dramma!» esclama.
Tutto sommato riesce anche stavolta a farci sorridere.
«Dicevamo che camminavo in mezzo al ciclopico pietrame quando dell’aria gelida
mi agguanta la caviglia. Sussulto. Mi chino. Sposto alcune grosse pietre e che ti
vedo? Si, ti vedo la bocca della grotta, ci striscio dentro e di là s’allarga in una
comoda saletta.» E tace.
«E allora? Come prosegue?» lo incalza Cassivellauno.
«Prosegue che d’improvviso sono con altri speleo, ovviamente sempre nel sogno.
Armiamo il primo pozzo, largo, comodo, profondo forse una quarantina di metri; poi
incontriamo un meandro, un altro pozzo, poi una saletta e di nuovo strettoie. Si
susseguono altri tre o quattro pozzi fino a giungere a una grande sala da dove si
stacca una lunghissima discenderia abbastanza inclinata» fa una pausa, si riaccende la
pipa e tira un paio di boccate.
Riprende: «Sono solo, scendo, scendo, la galleria non ha termine, ma non mi
preoccupo e se mai titubo un attimo, ma non credo proprio, mi giunge sempre più
netto il vocione dell’acqua che scorre. Scroscia sempre più violentemente. E più
scendo, più diventa rombo. Accelero l’andatura, per quanto me lo consenta il fondo
ingombro di massi e ciottoli. Ora l’andamento è a gradoni, ma continuo a scendere
abbastanza agevolmente fino ad avere nelle orecchie il fragore di una gran massa
d’acqua che precipita».
Ci guarda di sottecchi e conclude: «Mi avvicino cautamente al bordo di quello che
credo sia un pozzo... Invece è come una grande finestra sull’immensa galleria della
quale a mala pena intravvedo il fondo. E il fondo è acqua spumeggiante che corre.
Sono arrivato al Collettore!» e ci regala un bel sorriso sardonico.
«E poi, branco di stronzi che non siete altro, adesso non ridete...» prosegue quasi
sottovoce nel mutismo generale.
Già, ci ha lasciati muti e basiti.
«Là sotto» dice piano e quasi con cautela «piantato in mezzo all’acqua, c’era un
gigantesco siluro che sembrava d’alluminio».
«Un vibratore gigante!» ulula selvaggiamente Cassivellauno dandosi una gran pacca
sulla coscia ed esplodendo in una grassa risata.
«No, deficiente!» replica serio il Cartaginese «Un’astronave!»
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E si fa cupo.
Davanti l’abisso
Il sole è alto, scalda abbastanza, non eccessivamente. Le rocce risplendono, sono latte
cristallizzato. Scendiamo per quasi duecento metri lungo il ghiaione, sbuffando come
bufali e facendo ben attenzione a non rovinare le caviglie. Il bello è quando si esce
dalla grotta: tutto questo va ripercorso in salita. E spezza le gambe già stanche.
«Siamo arrivati!» esclamo, lasciandola perplessa.
Poso a terra sacche e zaino, mi metto a gambe leggermente divaricate tra brecciolino
e massi calcarei e afferro saldamente una grossa roccia, la ruoto non senza sforzo, la
faccio scivolare pian piano di lato, fino a far comparire il nero. Il fiato gelido esce.
Ulula. Mi saluta. Il buio fa capolino. Lo saluto. Lei è stupefatta. Magnetizzata dalla
comparsa dell’imboccatura.
Se la grotta non l’hai esplorata fino in fondo, oppure se ti manca di rilevarla, oppure
vai a sapere il perché, ne tieni ignota al prossimo l’esistenza. Non funziona sempre
così, ma è buona regola farlo. Anche in ambito speleologico, duole dirlo, circolano
dei begli stronzi. Sono individui meschini che non amano faticare più di tanto. Loro
vogliono arrivare subito al dunque: fiondarsi in grotta e scendere, scendere,
scendere... Vogliono evitare la fatica di settimane o mesi in ricognizioni e studi per
capire dove la roccia calcarea è promettente e si aprano le grotte. E poi vogliono
andare a colpo sicuro: nella grotta che scende! Quindi aspettano te che gliela trovi e
magari gliela segnali pure.
Gioisco nel rivedere questo buio e comincio a vuotare lo zaino per creare disordine e
poi vestirmi, per mettere in ordine, addosso a me, tutta l’attrezzatura.
Generalmente uno speleologo-tipo è così abbigliato, prescindendo dall’intimo: calza
scarponi o stivali di gomma con suola scolpita, un bel paio di calzettoni
possibilmente rammendati, guanti di gomma corrugata, un sottotuta termico e una
tuta in materiale impermeabile o semimpermeabile antistrappo. I caschi, gira e rigira,
s’assomigliano tutti. E tutti hanno qualche scritta, o disegno che li contraddistingue. Il
mio è bianco, anzi, era bianco: l’età l’ha un po’ ingrigito. Su entrambi i lati porta le
iniziali dell’Associazione alla quale appartengo e che io ho fondato tanti anni fa.
Stretta alle cosce e chiusa in vita da un moschettone con ghiera, chiamato «maillon
rapide», sta l’imbragatura. A questa assicuriamo, sempre con un moschettone a
ghiera, il discensore e il moschettone di rinvio: servono a scendere sulla corda.
Abbiamo poi una maniglia con pedale e un bloccante ventrale (il Kroll) che servono a
risalire sulla corda, con movimento di bruco sullo stelo d’erba. All’imbragatura, poi,
possiamo appendere altri moschettoni, sacchi, sacchetti, e quanto ci occorre nella
progressione sotto terra. Dimenticavo le due longes, ovvero tratti di corda da una
parte agganciati al maillon rapide, che portano all’opposta estremità un moschettone.
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Le utilizziamo per agganciarci ad attacchi o alle corde, quando eseguiamo le
manovre. Ad esempio, sull’orlo del pozzo si arriva agganciati con la longe al
corrimano. Se il bordo del pozzo malauguratamente cedesse, si eviterebbe di seguirlo
dabbasso.
Finisco d’indossare l’attrezzatura.
Siamo pronti. Mi guarda. Sembra s’aspetti qualcosa.
«Ebbene, non me la leggi la poesia?» esordisce con un mezzo sorriso.
«Quale poesia?» un poco sorpreso.
«Ho sentito dire che spesso, prima d’entrare in grotta leggi agli speleo del tuo gruppo
una poesia. Scritta da te per l’occasione.»
«No, veramente non ci ho pensato. Non ho scritto nulla... » mi corruccio un poco,
nell’ammetterlo. Potevo anche farlo, ma non sono stato toccato dal soffio della Musa.
Forse avevo altro per la testa. Magari le sue tette!
«Però, se ti puo’ far piacere, devo avere ancora nello zaino l’ultima, di qualche
settimana fa» le dico in tono di scusa.
Apro il foglio spiegazzato, sbavato di fango, ma perfettamente leggibile.
«Acqua che scorre.
I guerrieri scendono al fiume
a lavare i loro volti incrostati.
Scendono a lavare le mani
appiccicose e pesanti,
le loro armi lorde di sangue;
le ferite nel cuore non si possono sanare
con acqua sorgiva,
solo il tempo qualcosa potrà.
L’amico morto è di già giunto nell’Ade,
il nemico da te ucciso gli terrà compagnia
nel lungo cammino.
Potresti considerarla una beffa,
ma è solo il corso delle umane cose,
che forse è lo stesso.
La madre chiederà del fratello tuo,
dove lo lasciasti,
cosa dirai a tuo padre,
come spiegherai a tua madre?
I guerrieri scendono al fiume a lavare sé stessi,
ma l’acqua sui loro corpi
non sarà la medesima del giorno passato.»
Non fiata. Faccio finta di nulla. Ripiego il foglio e lo caccio nella tasca laterale dello
zaino.
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Nel ventre del Drago
C’infiliamo nella strettissima apertura dopo che le ho accuratamente controllato
l’attrezzatura, nonostante le proteste. Ma qui non si scherza. Praticare la speleologia
non è nulla di trascendentale e non occorre essere superuomini o superdonne.
Generalmente siamo quasi tutti piccoletti, magretti, bianchicci, molti con barba,
generalmente incolta, occhi infossati e muccio al naso. Eppure le nostre braccine
rachitiche riescono ad arrampicarsi ovunque e le gambette storte a portarci sempre
dove la smania d’esplorare ci spinge. Ma occorre fare le cose per bene. E soprattutto
con testa.
Mio fratello, ovvero «Il Fratellone», esula dai canoni speleologici. È alto, biondo,
robusto, con spalle da lottatore, abbronzato e generalmente con sorriso da copertina
Life stampato in volto. Quando andiamo in grotta porta tutto lui, o quasi. Si carica
come due muli. Di forza ne ha da vendere. Inoltre è una sicurezza, in quanto sempre
molto attento e scrupoloso. Anche troppo, con me. A volte ho l’impressione di aver
appresso mia madre. Comunque non si scherza e, lo sappiamo bene, anche un piccolo
incidente può costar caro. Quindi è bene lasciar da parte l’orgoglio, o altro, e
controllare tutto prima di partire.
Sfiliamo delicatamente attraverso una serie di lame di roccia tagliente trascinandoci
le sacche contenenti corde e attrezzi vari. In una ci sono i viveri, il carburo di scorta,
una piccola macchina fotografica...
Le pieghe della roccia afferrano i lembi delle tute e i sacchi come tante manine.
Cerchiamo d’evitare le piccole pozze d’acqua. Laghetti in miniatura con spiagge di
sabbia fine, finissima, su cui si stagliano ciottoli levigati, grandi e piccoli, dai colori
chiari e scuri.
Merlino diceva che la nebbia è l’Alito del Drago, la grotta è il Ventre del Drago e la
Spada, Excalibur, è la Spina Dorsale del Drago. E poi: «Nella grotta ogni cosa può
incontrare il suo opposto».
Lei è silente, mi segue, c’infiliamo in un’altra strettoia. Ci mettiamo a ginocchioni.
Le corde di chiusura dei sacchi le agganciamo alle imbragature. Li trasciniamo
appresso come vagoncini di trenini. Sistemo i guanti tirandomeli più in su possibile e
comincio a procedere a carponi. E l’andamento della cavità è proprio questo:
strettoia, pozzo, strettoia, meandro, pozzo, meandro, strettoia... Solo verso il fondo
s’incontra, solingo, un salone.
Procediamo per una cinquantina di metri e poi siamo al primo pozzo. Cerco i fix ,
ovvero i chiodi a espansione a cui fissare piastrine e moschettoni.
«Ecco le piastrine» e mi passa queste placchette, alcune d’alluminio e altre d’acciaio,
provviste di due fori: infilo la testa del fix e chiudo con un bullone. Nell’altro vi
aggancio un moschettone con ghiera, estraggo un capo di corda dal sacco, faccio
un’asola chiusa da un nodo «savoia», detto generalmente «otto», la infilo nel
moschettone e gli serro la ghiera. Mi avvicino al pozzo e ripeto l’operazione con il
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secondo e il terzo fix: se salta un chiodo, ne hai almeno altri due che ti possono
tenere. Mai affidarsi ad un solo punto d’ancoraggio. È una regola d’oro.
Aggancio le sacche all’imbrago, faccio passare la corda nel discensore e nel
moschettone di rinvio e poi eccomi nel vuoto che mi accoglie, nel buio che mi viene
incontro per fuggire un millesimo di secondo dopo aver incontrato la fiamma del
carburo che getta ombre e luci sulle pareti del pozzo che sfilano, giochi e contrasti nei
pensieri e nelle sensazioni di chi s’avventura sotto. Scendo e pian piano sfilo la corda
dalla sacca. Mi molleggia dolcemente. È una corda «statica», ovvero che non
s’allunga tanto sotto trazione, come invece capita alla «dinamica» utilizzata in
alpinismo.
Le pareti del pozzo si mostrano. Le osservo, quasi con il desiderio di portare
nutrimento agli occhi, al ricordo. E ogni volta è diverso: scorgi particolari nuovi, che
prima non avevi notato, forse perché non era il momento, forse perché pervaso
dall’ansia di calarti, scoprire, inseguire l’acqua che scende, captare la provenienza
dell’aria, che dal fondo soffia. Noto una piccola cengia, mi fermo un istante per
vedere se si apre un buco, anche piccolo, ma poi mi ricordo che questo primo pozzo
l’abbiamo esplorato centimetro dopo centimetro. Riprendo la discesa e giungo sul
fondo. Mi sgancio della corda e grido: «Liberaaaa».
La corda si muove, segno che lei ha sentito e a sua volta scende.
Ciottoli, ghiaia e un paio di grossi massi costituiscono il fondo del pozzo, che ha un
diametro di circa quindici metri. È glabro. Non ha concrezioni. Il calcare è giovane,
grigiastro, a tratti minaccioso, fessurato, crepacciato, ti tiene sempre all’erta. Eppure
ti grida che devi lasciargli il tempo di crescere, dissolversi, allargarsi e poi forse
anche lui s’incanutirà coprendosi di stalattiti, stalagmiti e panneggiamenti di calcare.
Bianco.
«Come si chiama questo pozzo?» chiede.
«Non lo so» le rispondo «o meglio, non ci siamo mai preoccupati di dargli un nome».
«Eppure gli speleo danno il nome alla grotta e a tutte le parti che la compongono,
pozzi in testa. Perché non ha un nome?» incalza lei.
«Hai ragione, eppure non glielo abbiamo dato. Inizialmente volevamo chiamare ogni
pozzo con il nome di una legione romana, ma poi, leggendo alcuni libri e
ragionandoci sopra, abbiamo lasciato perdere» concludo io.
Una era la Prima Italica, un’altra si chiamava Victrix e mi pare fosse la Sesta, di
stanza a Eburacum, l’odierna York, a sud del Vallo di Adriano in Inghilterra. Poi c’era
la Legio X Gemina, la Legio XIV Gemina Martia Victrix.
Lei interrompe il filo dei miei pensieri e allora riprendo a voce alta: «Ricordo che
c’era la Legio XXX Ulpiae Victrix, a cui apparteneva Titus Aurelius Moravesus
Servano, veterano romano tra il 126 e il 132, come attesta una lapide rinvenuta in Val
di Non, in Trentino Alto Adige».
Lei borbotta ancora, ma non le lascio spazio: «E poi vi erano tre legioni di cui non
ricordo il nome, quelle di Publio Quintilio Varo sterminate dei Germani Cherusci
nella famosa battaglia combattuta nel bosco di Teutoburgo, in Germania, nell’anno 9
del nuovo millennio». Intanto siamo fuori dalla strettoia e armo il secondo pozzo.
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«Perché non avete chiamato i pozzi con il nome delle legioni?» prosegue lei,
implacabile.
«I romani sono passati alla storia grazie a guerre, eccidi di massa e deportazioni.
Hanno cancellato interi popoli e le loro culture. La loro carta vincente era
l’organizzazione militare. Due sole parole: addestramento e logistica. Dimenticavo: la
corruzione. Con l’oro pagavano i capi avversari affinché combattessero al loro fianco
o si tenessero neutrali». L’Impero ha dato il peggio di sé stesso nei primi secoli della
nuova era.
A scuola ti costringono a imparare un sacco d’idiozie. Poi, quando effettivamente vai
a studiare la storia, ovviamente con un minimo di senso critico e di desiderio di
sapere come in realtà si siano svolte ed evolute le cose, senza l’intento d’incensare
pedissequamente una certa schiera d’antenati, o una determinata corrente politica, ti
rendi conto che innanzitutto questi non sono antenati tuoi, e poi che i fatti sono ben
diversi nella loro sostanza. Capito? Ergo, chiamare i pozzi con il nome delle legioni
era anche un insulto nei confronti delle popolazioni che vivevano tra questi monti e
che dopo il 222 prima dell’anno zero sono state sterminate, deportate e ridotte in
schiavitù dalle legioni di Roma.
Avvito il bullone fissando la piastrina, aggancio la corda, ripeto l’operazione, scendo
nel pozzo, la lascio lì a meditare, grido «Libera!» e siamo di nuovo assieme, nel
fondo del Secondo Pozzo. Lei si avvicina e mi bacia dolcemente.
La ricerca
Il terzo pozzo, non più profondo d’una ventina di metri, sembra quasi un campanone
senza batacchio affondato nell’argilla.
Giungo sul fondo, sfilo un’altra corda dalla sacca e preparo un bel nodo che si chiama
«coniglio»: non è un fifone, ma un paio d’orecchie. O meglio due asole. Una per
chiodo e le fisso a non più di mezzo metro da terra. Tra la massa viscida e bagnata di
colore giallastro vi è una fessura stretta e lunga come un colpo di scure su di un
ciocco di legno. E questo è il quarto pozzo.
«Questo è il Tostapane» le spiego «ti tosta a dovere lungo la sua fessura e quando
arrivi giù hai cambiato colore. Sei tostato. Ma di fango» e rido. Chissà con che faccia
mi arriva da basso. Inforco il discensore, ingrano le marce e facendomi sogliola
limanda procedo nell’abisso.
Scendo pian piano, attento a non impigliarmi, strisciando la pancia e la schiena tra le
due pareti. C’è una grande pace, una grande calma. Tutto pare fermo. È l’illusoria
sensazione di chi scende al di fuori del tempo, in un ambiente che non è costretto a
subire il nostro cemento. In un momento che non è congestionato dalla nevrosi di
superficie. A metà blocco la corda nel discensore. Con misurata lentezza sgancio dal
mio imbrago il moschettone con attaccata la piastrina. La fisso nel vecchio fix che
rugginosamente scuro spicca sul bianco giallastro della roccia umida, rigata dal
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caffelatte di fango. Faccio un’elegante asola chiusa con il nodo savoia, l’infilo nel
moschettone e ne avvito la ghiera. Questo si chiama frazionamento. La corda è stata
rinviata in un punto dove, se il tiro fosse unico, senza frazionamenti, sfregherebbe
perché la parete si sporge con un’evidente pancia.
E se la corda sfrega, potrebbe anche recapitarti il biglietto di partenza da questa cara
Terra. E zing, zing, zing, sfrega che ti sfrega, si sega la guaina della corda e poi, ad
uno ad uno, i trefoli che internamente la compongono. Troncato anche l’ultimo
trefolo, se tu sei ancora appeso di sotto, semplicemente ripiombi giù.
Lei mi raggiunge, bella, bellissima, infangata, infangatissima e mi comunica la sua
emozione. Poi attacca la solfa: «Non mi hai ancora detto, nonostante te l’abbia
chiesto almeno sei volte intanto che scendevamo, come hai o come avete trovato
questa grotta».
È straordinaria, la molla della sua lingua. Non s’inceppa mai nemmeno nel fango.
«Piacerebbe anche a me, trovare una grotta» dice lei «mi sentirei veramente una
Speleologa!. Con la esse maiuscola, naturalmente. »
Io, invece, alla fine l’avevo trovata la grotta, ovvero la Cueva de los Tayos. E mi sono
sentito solo un pirla. Per non dare un pessimo esempio ai novelli speleologi e per non
farmi pigliare per il culo dagli altri, non dirò come e in che modo sono sceso nella
Cueva.
Ad ogni buon conto un bel pozzone si apre tra la vegetazione che lo copre
abbondantemente e scende con una sezione vagamente ellissoidale. Poi è un
susseguirsi pozzetti, saltini, gallerie, concrezioni qui e là, ma nulla che richiami alla
mente le opere scavate dall’uomo. O dagli extraterrestri. O dai Rettiliani che non si sa
se siano o meno extra. Il salone è simile a mille altri saloni carsici, con mucchi
d’argilla, massi di crollo, stalattiti, stalagmiti (che palle!).
In effetti, come appurerò in seguito, Juan Moricz aveva inizialmente parlato di
un’articolata cavità artificiale tagliata nel basalto, ovvero nella roccia d’origine
vulcanica, non nel calcare il quale è di origine sedimentaria. Poi qualcosa era andato
storto, forse aveva litigato con Däniken, forse qualcuno voleva soffiargli la scoperta e
così portò la prima spedizione semplicemente in grotta. Sarà vero? Sta di fatto che la
cavità artificiale, piena di oggetti e iscrizioni che non si sa da dove provengano, sta
ancora là, nella jungla.
E padre Crespi, dove avrà recuperato la collezione di stranezze metalliche?
Per nulla appagato dall’escursione speleologica guadagno l’uscita sbuffando come un
bufalo di palude. Riemergo e il sole sta calando. Arrivano le zanzare. Davanti a me si
apre il sentiero tracciato a colpi di machete.
Davanti a me c’è il presente e lo riagguanto prontamente.
Giri tortuosi
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Davanti a noi si apre una galleria. La bionda mi guarda e tende il dito indice facendo
la O con la sua bocca dolcissima. Il fondo è abbastanza in pendenza e al centro scorre
un rigagnolo d’acqua. Canta, saltella e noi dietro. Procediamo eretti e spediti. Poi,
pian piano, cominciamo a curvarci, rallentare sempre più il passo fino a strisciare
nella galleria che s’è fatta gnomesca. Allunghiamo un braccio dopo l’altro, con fatica
mentre le guance e il mento assaggiano il freddo marrone chiaro. Spingiamo con la
punta dei piedi e le ginocchia, traendoci innanzi anche a forza di braccia. Ogni tanto
uno strattone alla corda che ci assicura i sacchi all’imbrago li disincaglia
costringendoli a seguirci.
Il cunicolo è mediamente alto dai quarantacinque ai cinquanta centimetri, per una
larghezza di poco superiore. A tratti dentellato come la bocca di un pescecane.
Occorre preservare la calma e muoversi come bradipi. Ma il punto non è questo: è
che sembra non avere termine. Eppure anche da lì si esce. Dopo cinquanta metri.
La mia bella tace, il budello da delirio, quasi fosse l’intestino crasso della grotta, le ha
tolto il fiato. E ci credo! Tolse il fiato anche a noi, la prima volta, quando lo
allargammo a suon di martellate, Belloveso, Vercingetorige, Ariovisto e il sottoscritto.
In coda chiudeva lui, il Cartaginese. Per disostruirlo e passare oltre stracciammo le
tute, ma abrasi e sfilacciati comunque passammo.
«Forza, tripponi con l’imbrago» ci esortava dalle retrovie, all’imbocco della strettoia
più stretta «quanto ci mettete a passare che qui albeggia?» grida il Cartaginese.
«Perché non vieni tu a farci vedere come ci si tramuta in anguille, vecchio tricheco?»
Ringhia Belloveso, che a furia di martellare una lama di roccia s’è preso una scheggia
dritta nel naso, che gli sanguina copiosamente.
E lui, il Cartaginese, provocatoriamente imperterrito rincara tra i nostri mugugni:
«Volete che vi passi calzascarpe e vaselina? Così vi date una mano a vicenda per
strisciare fuori da questa autostrada?» e se la ride di gusto.
L’ultima lama di roccia salta e noi scivoliamo oltre. Poi è il suo turno a impeciarsi
nell’angusto gomito roccioso.
«Guarda che se muori incastrato» gli urliamo con le lacrime agli occhi dal gran ridere
«... per liberarci, al Soccorso Speleologico gli tocca venir giù con la motosega e il
cavatappi!»
Spunta infine la pipa spenta e poi il casco di traverso sulla faccia congestionata e
argillosa.
E siamo fuori anche io e lei, ripigliamo fiato e ci abbracciamo. La tengo stretta a me,
per scaldarla un poco. Siamo abbastanza zuppi. Le tolgo il casco, mi sfilo il guanto,
prendo il fondo della sua chioma fatta su a treccia e gliela strizzo. Estraggo il magico
fazzoletto (bianco!) dalla tasca interna della tuta, lo libero dalla bustina di plastica
che lo protegge e le soffio prima il naso e poi le detergo la faccia.
«Così va un po’ meglio?» le chiedo premuroso.
Lei fa l’occhietto e mi bacia.
Ora avanziamo lungo un meandro che scodinzola via per prendere la rincorsa e
buttarsi in un nuovo pozzo. Si ode un vago rumore scrosciante.
«Chi è che ha tirato l’acqua?» domando.
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«Come dici?» fa lei.
«Dico» scandendo bene le parole «chi è che ha azionato lo sciacquone del cesso?
Porca miseria, vuoi vedere che fuori s’è messo a piovere?». Ma sono comunque
tranquillo, tanto non rischiamo di fare la fine del topo.
Mi chiede se sia pericoloso, ma tanto, s’era pericoloso, adesso è tardi per pensarci.
«No, non ti preoccupare. Anche se fuori diluvia noi non corriamo alcun rischio. Solo
gli ultimi due pozzi vanno sotto cascata e allora si che c’è da ridere. Non è la prima
volta, purtroppo, che degli speleologi muoiano a causa di una piena in grotta. Ma noi
non ci arriviamo, a quei pozzi. La nostra gita fuori porta prevede di fermarci prima» e
così la rassicuro, ma non del tutto.
«Va bene, mi fido... Ma il budello? Quello come lo ripassiamo se s’allaga?» riprende
un poco preoccupata.
«Il budello non va in piena. La massa d’acqua si riversa nella grotta più in basso. Stai
tranquilla. Dormi tra due guanciali. Ma non qui, cos’hai capito. Quando torni a casa!»
Il meandro si getta nel pozzo, dal fondo del quale risale un bel chiacchierìo d’acqua
che picchia con forza. Parecchie fontanelle si gettano in questo ambiente profondo
quasi cinquanta metri. Non è molto largo, ma qui il tiro di corda è unico, non occorre
frazionare e magari ci si bagna meno.
«Vuoi scendere per prima? Te la senti?»
«Certo!» esclama con slancio «grazie».
Aggancia la longe, s’avvicina al bordo del pozzo, afferra la corda e la fa passare nel
discensore e nel moschettone di rinvio, fa la chiave di bloccaggio, stacca la longe e
poi via, nell’abisso.
Dopo poco la raggiungo. Lei è raggiante nonostante sia fradicia o quasi. Penso che
fuori il temporale abbia rovesciato sul calcare arido un bel po’ di acqua.
«Che freddo che ho» e mi batte i denti nell’orecchio per farmelo sentire.
«Tranquilla, tra pochissimo giungeremo al Grande Salone e lì ci fermiamo.»
Divagazioni grottesche
Il salone è assimilabile a un grande stomaco, oblungo, dall’aspetto vagamente
regolare, se non passi rasente alle pareti. Allora t’accorgi che è come tutto il resto:
segnato, eroso dall’acqua. Fiorito, panneggiato di concrezioni in rari angoli. Il suo
fondo sale e scende irregolare. Verso il centro si staglia una collinetta fatta di macigni
precipitati dalla volta, cumuli di pietre e ghiaino ricoperti da un velo d’argilla.
In un punto pendono un bel mazzo di stalattiti lunghe almeno dieci metri. Sotto, pian
piano, crescono le corrispettive stalagmiti. Tra una manciata di migliaia di anni,
stalattiti e stalagmiti, se nessuno le tocca e se alcun cataclisma interviene a
sconvolgere l’ambiente, si congiungeranno, si fonderanno assieme formando delle
colonne.
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La prendo per mano e la conduco ad ammirare una lunga successione di vaschette di
calcare, che come tanti piatti di terracotta antica s’allargano progressivamente uno
sotto l’altro a gradinata, in direzione del centro. In cima vi è una fessura foderata di
candida calcite venata di rosso mattone. Esce un velo d’acqua. Scivola tra vaschetta e
vaschetta con impercettibili cascatelle, dosate con così tanta grazia che potresti essere
ingannato dalla tua stessa percezione e considerare il tutto come superfici di cristallo,
immote. Sul loro fondo, in particolari condizioni, si possono formare le «perle di
grotta», le pisoliti. Per fattori chimici e fisici, attorno a un granello di sabbia, un
frustolo vegetale, un frammento d’osso di pipistrello, o altro, si formano involucri di
concrezione. Il leggero scorrimento dell’acqua li fa oscillare, giocare, ruotare,
impedendo che si saldino assumendo forme differenti da quella sferica.
L’ultima vaschetta, la più profonda, rimanda bagliori celesti, perfetta gemma
incastonata con maestrìa. Mi perdo nel suo specchio. Potrebbe comparire una fata e
leggervi epiche avventure future che non mi stupirei.
Mi chino accostando le labbra, increspandone la superficie. Bevo lunghe e lente
sorsate.
«Non ci sono pipistrelli?» fa lei.
«No. Una volta soltanto ne abbiamo scorto una coppia a testa in giù in una nicchietta,
ma sotto il primo pozzo. Erano piccini, strettamente avvolti nel loro patagio. Quando
li osservi da vicino t’accorgi che non hanno l’aspetto infernale che varie storielle
attribuiscono loro.» Sono bestiole delicate. Svolgono un ruolo importante nel nostro
ecosistema, divorando grandi quantità d’insetti.
«Attenta a dove metti i piedi» l’avverto. «Attraverso questa sorta di crepaccio si
giunge ad un pozzetto da dieci metri scarsi, per finire in un’altra sala, assai più
piccola, il cui fondo è quasi per intero occupato da due bei pozzi gemelli che
conducono all’ultima saletta. L’acqua filtra attraverso i cumuli di detriti che
costituiscono il suo fondo. Ovvero, il pozzo “toppa”» ovvero son si va da alcuna
parte.
Dover ammettere che la grotta finisce senza condurre al Collettore mi fa ancora male.
Non credevo. È un sottile dolore che parte dalle ginocchia e arriva fin su
all’ombelico, diramandosi subdolamente fino in prossimità del cuoricino.
Stendiamo a terra un telo termico e ci sediamo vicino alla concrezione da noi
chiamata «Medusa», che pende da una parete, per mangiare un boccone.
Ci siamo tolti tute e imbraghi; sono infangati e fradici e vogliamo mangiare un po’
comodi, seduti sopra i teli termici. Sopra i sottotuta indossiamo dei giubbottini senza
maniche di finto piumino, ma che tengono assai caldo.
Ed ecco il silenzio. Chiuso in questo vuoto enorme, riempito di buio, colmo di nulla.
Colmo di tutto quel che si vuole, basta immaginarselo. O semplicemente percepirlo.
Respiro piano l’aria fredda, mi sdraio. Abbandono il panino imbottito. Lo finirò dopo,
con la cioccolata fondente e il mascarpone. Respiro piano e basta, faccio tacere i
ricordi che vogliono galopparmi addosso. Faccio tacere anche un sacco d’altre cose.
Tengo gli occhi aperti, lasciando che tutto quanto mi circonda mi copra, mi accarezzi,
mi culli.
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Apprezzo le cavità anche per il loro silenzio. Gli speleo per la pacatezza, la
discrezione, la scelta dei momenti per parlare. Chi dà fiato alle corde vocali spezza
un’armonia: si fa coraggio per lenire la percezione del vuoto, il nulla, il buio,
l’enormità che gli sta attorno, addosso, che lo assale. Invece siamo solo immersi,
respiriamo quieta fragranza, ci sentiamo permeati e sollevati. Non sovrastati e
attanagliati.
Alla più parte di noi poco o nulla importa d’essere chiamati speleologi e considerati
per tali. Siamo quel che ci va di essere, somari pigri o esploratori indefessi. Bizzarri,
tiratardi, chiassosi nel «dopogrotta», generalmente in una bettola fumosa (prima del
divieto di fumare nei locali pubblici) o in pizzeria, con ancora la faccia e le mani
segnate dall’argilla nonostante la sciacquata nei servizi del locale e le narici
cavernose e nere, che spurgano un muco scuro, pecioso, frutto della combustione
dell’acetilene respirata e del fango. E ridiamo e ce la raccontiamo, scaricando
tensioni, fatiche e, perché no, paure.
La paura ce l’abbiamo tutti, è la nostra compagna: ci aiuta a portare a casa la pelle.
7. Scendendo nel tempio
Il pozzo della sorte
Le paure sono solo nostre. Le paure sono insondabili, come le sabbie mobili. Come la
vasca dove lasciano decantare i liquami della porcilaia. Se ti caghi sotto e rimani
paralizzato sei fottuto. Alla paura devi sempre reagire, non foss’altro perché devi
battere in ritirata.
Un giorno il fato, o per meglio dire la sorte, ci ha chiamati in terra etrusca, in una
cittadina dall’impianto medievale, costruita su di uno sperone di calcare organogeno
giallastro. Nel corso degli scavi archeologici presso l’antico abitato etrusco è venuta
alla luce la bocca di un pozzo e ci hanno contattati, dal momento che siamo
speleologi. O, per l’esattezza, hanno contattato me. L’estate volge al termine e sono
in mezzo al calcare, in piena campagna speleologica con quelli del mio Gruppo
Speleo Falco. Che si fa? Terminiamo la campagna, ovviamente. Ma la settimana
successiva partiamo in tre, alla volta degli scavi archeologici, in direzione della bocca
del pozzo che ci ha chiamati a gran voce.
Vengo a sapere che un tempo, quando ancora c’erano gli Etruschi, qui esisteva una
scuola dedicata all’interpretazione del volo dei falchi. Con la curiosa coincidenza
c’imbarchiamo nella novella avventura. Il Rifugio Biglietti rimarrà orfano della mia
presenza per alcuni anni, ma conosco Mercedes. Con l’omonima vettura ha in
comune la bella e solida carrozzeria.
Sotto le tavole di legno riposa un buco trovato chiuso con lastroni di pietra. Gli
archeologi dicono sia un «pozzo delle sorti». Gli auguri etruschi, ovvero coloro i
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quali interpretavano il volere degli Dei, gettavano nel pozzo le sortes, ovvero
tavolette di legno incise. Poi vi calavano un fanciullo il quale, al buio e a tentoni ne
raccoglieva qualcuna prima di venire issato in superficie. Gli auguri divinavano,
ovvero presagivano il futuro per ispirazione divina consultando le tavolette
recuperate.
In area laziale era già noto un «pozzo delle sorti» e si trovava nell’antica Praeneste
(odierna Palestrina), presso il santuario della Fortuna Primigenia. Nella struttura, resa
monumentale dai romani che conquistarono quelle terre, vi era la Terrazza degli
Emicicli con la tholos contenente il pozzo sacro da cui pare venissero estratte le
sortes.
A me, banalmente, viene in mente un passo della Vǫluspá, testo norreno d’autore
ignoto, probabilmente scritto attorno all’anno Mille. Così recita un passo, a proposito
delle tavolette incise.
«Di là, vengono vergini, sapienti in molte cose,
tre, da quella polla posta sotto l’albero.
Urðr chiamarono l’una, la seconda Verðandi
- incidevano tavolette -, la terza Skuld.
Fissarono la legge, loro la vita sceglievano
per i nati mortali, per gli uomini il destino.»20
Solleviamo le assi di legno attenti a che non vi siano attaccati sotto scorpioni o ragni
velenosi della famiglia delle Vedove Nere, qui assai numerosi. Il pozzo respira dal
profondo e noi prepariamo prima le corde e poi noi stessi. Mi calo per primo e le
archeologhe fanno ala.
Per noi è un buco, quindi ci apprestiamo a svuotarlo dall’interro, ma con le debite
autorizzazioni del caso.
«Com’è che siete tutte donne?» domando distrattamente.
«Se vuoi fare l’archeologa devi essere ricca di famiglia o avere il marito ricco» mi
risponde la più datata delle scienziate.
«Generalmente l’archeologia non paga, nel senso che assai di rado ti dà l’agio di
mantenerti come un qualsiasi altro lavoro» rincara un’altra.
Strano, mi sono detto, e pensare che in Italia potremmo campare solo di turismo e di
archeologia con tutte le civiltà che si sono avvicendate lasciando innumerevoli
testimonianze materiali.
Fissiamo tubi, giunti, carrucole, funi e quando il paranco e tutto il resto
dell’attrezzatura è pronto diamo inizio alle danze forzate per raggiungere il fondo
dell’opera e capire esattamente di che cosa si tratti.
Scendo ancora io per primo cominciando il turno di sterro. Il tempo passa scandito
dai robusti secchi che salgono in superficie con la terra e faticando come un mulo mi
scappa da orinare ferocemente. Risalgo lesto. Nel mentre la mia testa esce dal pozzo
rimango abbacinato. Due tette spaziali prive del reggiseno urlano da dentro la
maglietta troppo stretta.
70
Sta a quattro zampe, affacciata al pozzo. E mi sorride.
Meno male che sono allenato ad affrontare anche le situazioni più imprevedibili e
perigliose e così faccio la conoscenza di Mercedes e lei la mia.
È una ragazza d’origini spagnole, delle terre a nord, quelle un tempo occupate dai
Goti. Ha i capelli rossi, mossi e lunghi, gli occhi color Tiziano. La pelle è
bianchissima, più bianca del bianco latteo, quasi diafana.
La paura fu di temere per il mio midollo osseo: non voleva far altro che fare
all’amore e avrebbe fatto solo ed esclusivamente quello, se non fossi stato mosso dal
sacro fuoco dell’esplorazione. A volte penso di essere un po’ stupido, ma oramai ci
sono abituato.
Il pozzo si rivela essere una cisterna, di quelle impermeabilizzate internamente con
l’argilla ben spalmata sulle pareti di roccia porosa. Le archeologhe sono contrariate
vedendo così sfumare la possibilità di sventolare una bella pubblicazione su di un
secondo pozzo delle sortes. Ma, si sa, occorre documentare quello che si trova, non
quello che si cerca.
A campagna finita prendemmo accordi per proseguire le indagini di quella che in
seguito diverrà non più «Speleologia Urbana», quasi che fosse un’attività condotta
educatamente, ma «Speleologia in Cavità Artificiali» e, successivamente (ma questa è
un’altra storia) l’«Archeologia del Sottosuolo». Tornammo a casa in quattro, difatti
caricai in macchina la focosissima discendente dei Goti, nell’occasione
soprannominata «La Gota», strizzati tra tute e sottotuta infangati e puzzolenti, corde,
scarponi e formaggio pecorino.
Il laconico commento del Cartaginese fu: «La suerte ... è chi t’incula e non
t’avverte».
E facendo spallucce non volli indagare sulle sibilline parole.
Il tempio ipogeo
Oramai, con la fidanzata in terra etrusca, un po’ tutto il gruppo mi seguì (qualcuno
pure emulandomi) nelle operazioni speleologiche presso gli ipogei. Disertammo così
il calcare cavernoso per dedicarci alle esplorazioni delle cavità artificiali del Lazio,
sconfinando pure in Toscana e nelle Marche. Era la fiera dell’abbondanza: numerosi
insediamenti rupestri, carrettate di cisterne, pozzi, decine di chilometri di acquedotti
sotterranei. Abbondavano pure le tombe spesso riunite in estese necropoli. Ma i morti
non vanno disturbati e anche se sono un po’ datati è meglio lasciarli in pace: la vita
dello speleo è già di per sé pericolosa senza che si debba andare a cercare guai con il
lanternino.
Mi è stato detto che in vita ci sostiene l’energia pura che anima la carcassa-corpo
umano, ma nel corso della vita stessa il nostro io crea una sorta di doppio. Si tratta di
energia costituita da quanto ci ha mosso, emozionato e in buona sostanza fatto vivere
la nostra materialità. Gli etruschi chiamavano questo doppio «il demone». All’atto
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della morte il demone tendeva a imprigionare sulla terra la vera e pura energia che
aveva animato il corpo, nella sua vita. Per ovviare all’inconveniente e consentire
all’anima di tornarsene a casa, seppellivano accanto al cadavere gli oggetti che gli
erano stati cari in vita, cosicché il demone vi si attaccasse, lasciando quindi libera
l’anima. Mi sono sempre chiesto che cosa potesse capitare al tapinaccio che andava a
predare una tomba e vi trovava ancora il demone attaccato alle suppellettili.
Novembre è alle porte e ci prepariamo a una bella campagna di quattro giorni,
contando di scoprire nuovi sotterranei.
E nel sonno il sogno mi coglie.
Con il furgone carico d’attrezzature io e Metello, speleo del Gruppo, caliamo in terra
etrusca sull’Alito del Drago, sulla nebbia che si sprigiona da un sogno che io
identificherò come premonitore. Si trattava di un «sogno sveglio», quindi reale.
Così, semplicemente, ecco che cosa sognai.
Siamo in area etrusca. Siamo a Tarquinia. Ci dirigiamo verso quella strana fossa
ellittica lunga almeno dieci metri e larga un paio. Tra tutte le cavità artificiali trovate
risultava decisamente anomala. Chissà che diavolo era. Metello ed io torniamo a
riguardarla, semmai ci fosse sfuggito qualcosa. Eccome se ci era sfuggito. Lungo uno
dei lati minori stavolta era tagliata nella trachite (una tenera roccia vulcanica) una
ripida scalinata che scendeva, scendeva parecchio fino a una porta di pietra.
La spingo cautamente con la mano e lei docilmente ruota sui cardini, anch’essi di
pietra. Si apre su di una specie di ballatoio con pavimento in cemento e una breve
rampa di scalini ben fatti, sempre in cemento, immette in un lungo e largo corridoio.
Pare un sottoservizio, polveroso, con i neon alle pareti e fissati appena sotto la volta a
piattabanda. C’è una scrivania. Di quelle d’una volta, di metallo e con il pianale
ricoperto in finta pelle verde. Chiude quasi completamente la larghezza del corridoio
e noi le scivoliamo accanto. Una sgangheratissima seggiola con le rotelle ci guarda
immota.
Poco oltre la parete di destra è drappeggiata da un pesante tendone nero. Lo
scostiamo, pare quello dei cinema di una volta e subito avanti ce n’è un’altro.
Abbandoniamo quindi il corridoio che prosegue polveroso e male illuminato per
andare a toccare un portone a doppio battente che parrebbe d’oro. Ma potrebbe anche
essere di bronzo per nulla ossidato.
Spingiamo e senza fatica il portone si spalanca, lasciandoci ammirare una vasta sala a
pianta circolare, con al centro una strana costruzione che sale verso la volta, ma senza
toccarla. Davanti vi sono due scale contrapposte che scendono allo stesso
pianerottolo, da cui scende un’unica rampa che si perde al di sotto. Il vano delle scale
è protetto da una ringhiera, davanti a cui vi sono due bracieri.
L’ambiente pare fatto di oro e cristallo. Metello è affascinato, al pari mio. Ma mentre
io sono pure inquieto, o per dirla in parole povere ho uno strano tremore sfinterico,
segno che ci stiamo cacciando in un grosso grossissimo guaio, lui viene preso dalla
brama della scoperta, dal desiderio di sapere, dalla fobia di trovare. Imbocca la
scalinata per scendere a vedere cosa vi sia, magari un tesoro o qualcos’altro di
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favoloso e non ascolta le mie proteste. Gli afferro un braccio, gli dico ch’è meglio
filarcela e in fretta, ma lui si divincola e giù per le scale. Io mi guardo bene dal
seguirlo: non è casa nostra, non siamo stati invitati e qualcosa mi dice che sarebbe il
caso che battessi rapidissimamente in ritirata.
Ma non posso lasciarlo li. Devo aspettarlo non foss’altro perché quelli del mio
gruppo non li abbandonerei mai costi quel che deve costare. Allora, per ingannare il
tempo, mi guardo attorno e noto che il grande ambiente ha un’alta modanatura che
marca tutto il perimetro circolare. Sopra di essa, a intervalli regolari, si aprono
altissime finestre che rimandano bagliori dorati. Mi arrampico sulla modanatura, ma
mi accorgo che i riflessi sono dati dalle fiamme dei bracieri e dalle lampade ad olio
che pendono un po’ dovunque dal soffitto. Dall’esterno non giunge alcuna luce. E
poi, come potrebbe essere? Siamo sottoterra di parecchi metri! Le finestre sono
formate da un materiale che potrebbe essere oro e sfavilla, quasi animando i disegni
geometrici che le caratterizzano, con inserti di pietre anch’esse sfavillanti.
Ridiscendo, ma non giro attorno alla sorta di catafalco che sta nel centro.
Ad un tratto odo dei passi, lenti, un po’ goffi e mi affaccio alla balaustra. Metello sta
salendo lentamente le scale, con le spalle cascanti e il mento basso. Arrivato in cima
gli appoggio la mano sulla spalla e lo scuoto dolcemente, in modo che sollevi la testa
e possa guardarlo negli occhi. Il volto è terreo e gli occhi... non so cos’abbiano visto.
«Andiamo via... » mormora.
Ci dirigiamo al portone, lo superiamo richiudendocelo alle spalle. Scosto le tende e
passo nel corridoio, ma in quell’attimo mi accorgo che la scrivania è occupata. Faccio
finta di nulla, afferro il braccio di Metello all’altezza del gomito e con calma, ma con
fermezza, lo dirigo in avanti, passando con malcelata noncuranza accanto alla
scrivania.
La seggiola con le rotelle praticamente scompare sovrastata da una mole massiccia,
imponente, paludata in un pastrano marrone, dal tessuto spesso e polveroso che in
mille pieghe ricade a terra. I suoi gomiti sono appoggiati al piano della scrivania e la
testa è leggermente reclinata sul petto, coperta dall’ampio cappuccio.
Facciamo ancora un paio di passi e odo ciò che non volevo, ciò che temevo di dover
udire. Una voce.
«Lo sai che non puoi andare via» scandisce una voce fonda e chiara.
Non so com’è ma ho come l’impressione che si rivolga a me solo.
«Non potete più uscire» prosegue.
Mi sono già fermato, ma con qualche secondo di ritardo mi volto e lo guardo. Il suo
volto è grigio, come fosse di creta, percorso da innumerevoli rughe.
«Perché non possiamo uscire? Non abbiamo né fatto né visto alcunché» esclamo con
quanta più fermezza mi riesce di mettere nella voce.
«Il tuo amico ha visto e non uscirete» dice lo strano individuo drizzando la schiena,
ma senza alzarsi.
Vorrei replicare, ma so già che è inutile...
Poi mi sveglio, con addosso un freddo glaciale che mi fa tremare tutto.
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Non mi addentro nei particolari, ma stavolta Metello non deve assolutamente
partecipare alla campagna in terra etrusca. Se viene siamo fregati. Così se ne rimane a
contare i sorci nella metropoli, mentre noi partiamo alla volta del Centro Italia. Dove
La Gota, ovviamente, mi attende.
La pietra urlante
Lei afferma che ci siamo incontrati in un’altra vita. Già, lo so bene, ma non eravamo
amanti e, se lo siamo stati, il periodo fu breve. Usciamo dal superbo ristorante
casereccio in riva al mare zeppi fino all’ugola. Bisogna pure smaltire e subito ci
avviticchiamo nell’angusta cabina di guida del furgone, poi passiamo al cassone, ma
è un po’ duro e freddo. Mi risolvo di sbatterla sulla sabbia con un certo impeto e lei
ricambia come una forsennata.
Passiamo almeno un’ora sotto la doccia del bungalow a rinfrescarci, a lenire le
piccole abrasioni causate da ciottoli e sabbia e le pettino con cura gli splendidi capelli
rossi.
Bolsena è l’Occhio del Drago. Giungiamo in un paesino prospiciente il lago alle
quattro della mattina per acquistare un cartoccione di brioches fumanti ripiene di
crema, cioccolata e marmellata. Mica come le porcherie che sanno di cartone unto
che ti rifilano nei frettolosi bar milanesi assieme al caffè che sa di veleno. Poi, come
armigeri dopo lunga battaglia, dormiamo fino al pomeriggio nell’accogliente
bungalow arredato in modo un po’ spartano, ma in cui non manca nulla.
Bolsena è il più grande lago vulcanico d’Europa. Dalle acque profonde, alimentate da
sorgenti sotterranee, escono due isole: Martana e Bisentina. Di qui passarono i Goti e
nell’Isola Martana fu relegata e poi uccisa nell’anno 535 Amalasunta, regina degli
Ostrogoti, dal marito Teodato. Da questo fatto di sangue Giustiniano, imperatore
dell’impero romano d’Oriente, colse il pretesto per dare luogo alla cosiddetta Guerra
Greco-Gotica, dai più chiamata solo Gotica, come se fosse stata principiata da questi
ultimi.
Si dice che nell’isola Bisentina si nasconda una delle porte d’accesso al mondo
sotterraneo scavato in tempi che si perdono nella notte.
Si dice pure che Teodato vi abbia nascosto la cassa dell’erario imperiale, piena d’oro
e di gemme. Il perimetro dell’isola è marcato da sette chiese e la più grande ha sortito
in me un effetto strano e nemmeno mi ci sono avvicinato: sapeva di cose oscure e
guai, alimentava le leggende dei Rettiliani e di come essi dimorassero in prossimità
dei laghi e delle lagune. Mi colpì invece la monumentale cisterna sotterranea, che in
tempi abbastanza recenti fu collegata all’esterno mediante una galleria scavata nella
roccia.
Ma la cosa più impressionante è la quantità di ambienti sotterranei che sono stati
scavati nel tempo lungo il cratere vulcanico. Un ipogeo assomiglia ad un tratto di
galleria autostradale. L’accesso è crollato da tempo immemorabile e noi penetriamo
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all’interno strisciando sul cono detritico che sfiora la volta a botte scavata nella
trachite. Ai lati vi è qualche nicchia, piena di sedimento, poi il terriccio digrada verso
il fondo, come se coprisse uno scivolo o una scalinata tagliata nella roccia. La parete
di fondo sembra una bocca urlante: al centro vi è l’ingresso a una camera e sopra di
esso due nicchie triangolari sembrano famelici e demoniaci occhi. La camera è
strana, sa di cose antichissime e oscure.
Scatto qualche foto, respingo con decisione i suoi approcci e guadagno
frettolosamente l’uscita con lei dietro, che ride.
«Ogni qualvolta venivo qui ad ammirare lo stranissimo ipogeo non facevo che
rammentare un sogno» fece La Gota all’improvviso «Ma la cosa più straordinaria è
che quando siamo andati assieme sull’isola Bisentina, mentre tu ti sei allontanato
dalla chiesa, io ho avuto come una visione: ho capito perfettamente che l’accesso a
quella strana costruzione si trovava proprio qui vicino» e tace.
«Che visione?» chiedo io, soggiungendo «e poi mi ero allontanato solo perché
dovevo cambiare urgentemente l’acqua al papero» e noto con me stesso come la
minzione impellente abbia caratterizzato la nostra storia.
«Nel sogno» riprende lei «degli esseri strani, alti poco più di un metro e sessanta, esili
ed emananti una sorta di aura verde chiaro, mi prendono per mano e mi conducono
davanti una grande costruzione a pianta credo circolare, che mi pare un tempio».
«Ah ...» faccio io con la bocca divenuta secca.
«Aprono la porta a doppio battente in bronzo dorato, scostano pesanti tende in velluto
nero ed entriamo all’interno. Vi sono pareti decorate, ma la cosa che attrae il mio
sguardo sono i due grandi bracieri che stanno davanti la scalinata che scende nel
sottosuolo, illuminandone la prima parte ...»
Sento che i miei padiglioni auricolari si sono fatti incandescenti.
A Sesto San Giovanni, paese industriale confinante con Milano, un signore ha fatto
rimettere in funzione una sirena dell’antiaerea della Seconda guerra mondiale. E ogni
mezzogiorno la fa suonare. Ecco, praticamente essa sta suonando adesso a tutta forza
nel mio cervello e comprendo che in terra etrusca mi ci sono trattenuto anche a
sufficienza.
Tornerò così, tranquillamente, alle mie operazioni speleologiche nelle grotte naturali,
nel Nord Italia. Sulle cavità artificiali, e per l’esattezza sugli ipogei del Centro Italia,
ci metto una pietra sopra. Per evitare che loro la mettano sopra di me. Ma la partita
non è ancora chiusa: occorre prima sapere, occorre innanzitutto conoscere.
Deviazioni pilotate
Quello che non comprendiamo, pur avendo avuto la chiara percezione della sua
esistenza, lascia un segno, magari poco tangibile, ma dentro di noi scava come un
tarlo. Talvolta qualcosa si spezza, o si schiude, e allora noi comprendiamo. Con la
semplicità di premere il ditino sull’interruttore della luce ci illuminiamo. Ma la luce
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rimane in noi: per divulgarla occorre innanzitutto produrre prove scientifiche
inoppugnabili. Qualcuno non vuole, il popolo deve dormire.
Il popolo deve pensare a senso unico e non alternato. Qui non si tratta solo di scie
chimiche per ottundere le facoltà intellettive e reattive del popolo. Non si tratta
solamente di un similare del Pax, che nel film Serenity così viene descritto: «Paxilion
Idroclorito Ventitrè: inserito nei diffusori dell’aria avrebbe dovuto calmare la
popolazione, eliminare l’aggressività; ebbene funziona, qui le persone hanno smesso
di lottare e hanno smesso qualsiasi altra cosa ...».
Non si parla di cancellare le tracce di una realtà parallela, di un passato improbabile e
comunque scomodo per la scienza ufficiale, oppure semplicemente di un atterraggio
male eseguito da parte di un’astronave certamente non terrestre. O più semplicemente
di confondere la gente con teorie strampalate affinché smetta di porsi lecite domande
sulla presunta evoluzione della razza umana, evoluta da un peto nell’acqua o da due
fratelli ricchioni.
Qui parliamo d’indebolimento culturale, di svilimento del nostro patrimonio, in
aggiunta o in conseguenza all’ottundimento. Tutto ciò in aggiunta al costringerci a
vedere e percepire questa vita in una sola dimensione, in peggiori condizioni degli
incatenati descritti da Platone.
Nonostante le millantate e continue crisi economiche gridate a gran voce dai media,
ma solo per fungere da persuasori obnubilanti, si sforna un nuovo modello di
automobile alla settimana. Siamo scimpanzé che sanno guidare, ma non pensare.
Senza passare da una guerra termonucleare totale siamo un pianeta di scimmie che
indietreggiano nella scala evolutiva del pensiero e della percezione, in progressivo
indebolimento culturale.
L’indebolimento culturale avviene quando si dà il potere di «fare cultura» alla fascia
culturalmente più scarsa, meno dotata, meno portata, più tranquillamente corruttibile
e acquistabile. Se il denaro non ha colore, la cultura asservita al potere del denaro non
ha un proprio colore. Può apparire multicolore, monocolore, oppure come camaleonte
cambiare, virare, variegare a seconda del momento e delle proprie necessità. Ovvero
delle necessità di chi desidera l’indebolimento culturale.
L’indebolimento culturale porta a contrarre molteplici malattie, che in avanzato stato
minano irreversibilmente la cultura, intesa nel senso più ampio del termine. Questa
fascia di scarsi è composta di mutanti e dà luogo a forme di cultura apparenti per poi
sostituirsi a quella autentica, la quale è prodotto del libero pensiero. Ovvero, da
organismo ospite della cultura, diviene dominante rispetto la conclamata cultura
stessa, la quale a suo tempo è stata unanimamente e universalmente riconosciuta
come tale ed oggi è tranquillamente derisa. Chi perde ha sempre torto.
Apparentemente.
Nelle situazioni compromesse come la nostra ad ogni fermo tentativo di ricomporre
le cose, lasciando a tutti il giusto e meritato spazio, si avrà dall’opposta parte una
reazione sempre più violenta quanto più la parte aculturale si sentirà minacciata e con
sempre meno credito, con sempre meno adepti. Ma questo solo fino al «superamento
della soglia critica». E noi oggi l’abbiamo superata.
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Oggi ci ritroviamo in un possibile momento di transizione. Se la parte aculturale ha
prosperato, è altresì vero che ha fatto fatica a riprodursi, a creare un proprio seguito,
proprio per le sue peculiarità di organismo distruttore e disgregante, contrario alle
leggi della Natura. Ha in un certo senso mirato a fare piazza pulita dei cervelli in
corso di sviluppo ed ora si ritrova che i nuovi cervelli possono assorbire quasi
esclusivamente da una atmosfera degenerata ed asfittica, pertanto per loro stessi
offrente poche possibilità di crescita e di sviluppo, per non dire di elevazione. Questo
in linea teorica.
Di contro, la parte aculturale necessita di sempre meno individui che la garantisca,
godendo senza spartire i frutti del malsistema così costituito. È come troncare la
lingua a tutti: la malaparte aculturale potrà parlare a bassa voce, senza più sgolarsi per
farsi udire, senza profondere energie per imporre violentemente la propria attenzione,
per assordare e ottundere con la propria parola gridata, perché in un popolo di muti i
miagolii e i latrati disturbano ben poco. Per farsi udire, per dettare legge, basta
sussurrare. Così gli astanti faranno persino fatica a capire da che parte proviene la
voce. Poi, con ogni probabilità, qualcuno si stancherà. Tutto ciò potrà anche essere
vero, ma rimane la consapevolezza che l’essere umano ha delle potenzialità
intrinseche inesplorate nel loro ampio spettro, che lo riporteranno auspicabilmente a
galla.
8. Dentro il sogno del Collettore
Flash
Finito di mangiare le chiedo di mettersi in posa, che le vorrei scattare alcune foto.
«Dai, vieni qui, mettiti accanto alla Medusa». Posiziono un flash in modo che la
fotocellula di cui è provvisto lo faccia scattare simultaneamente al flash incorporato
nella macchina fotografica. Do’ così una pennellata di luce radente.
La Medusa scende dall’alto allargandosi ad ombrello a due metri da terra e lasciando
pendere sotto di sé una miriade di stalattiti ritorte, dai colori che vanno dal bianco
immacolato al giallo tenue variegato di ocra. Le chiedo di posare nuda.
«Che maiale. Ma poi le foto le tengo io sola» esclama.
Acconsento. Lei si mette in posa. Che briccona. E come si mette in posa! Nelle
successive la rosea carne si staglia contro la parete, sfiorata dai tentacoli della
Medusa, creando effetti provocanti. Provocando ondate di marea che si susseguono,
foriere d’una tromba d’aria di quelle che giungono improvvise, spazzando il litorale,
spruzzando di salino i pini marittimi, scuotendo fino alle radici ogni vegetale.
«Dai, che stò gelando! C’è pure un maledetto spiffero d’aria “diaccia marmata” - per
dirla alla livornese - che soffia da dietro la Medusa. Pare un tifone!»
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Con espressione di cartone copro i pochi metri che mi separano da lei. Mi sorride. Le
passo la mano sinistra sul collo, sollevandole dolcemente i capelli, la bacio con
slancio da farle perdere l’equilibrio. Il suo braccio destro mi cinge con delicata forza,
la sua mano sinistra ondeggia un poco nell’aria che trattiene il respiro... e nell’attimo
in cui si protende ad afferrarmi la nuca si ritrova tra le dita la mia macchina
fotografica.
«Fai attenzione» scostandola dal mio corpo «che ho solo questa». Lentamente mi
chino sotto la Medusa mentre quella musica strana a pieno volume m’inonda. Il soffio
m’investe. Chiudo gli occhi, allungo le mani, li riapro nel buco che ha un diametro di
due spanne. Al di là l’aria algida ruggisce. Lei dice qualcosa, ma le orecchie mie
odono il rumore del vento, ascoltano solo il fiato che sale dal profondo.
La Medusa è cresciuta nei millenni celando la condotta, chiudendola parzialmente
con le colate di calcare. Ma è lì e mi guarda sorniona, oppure impaurita perché colta
sul fatto, scoperta! Questa è la porta sulla diramazione che forse mi conduce dritta
dritta al Mitico Collettore!
Ho già reindossato la tuta, serrato il moschettone ventrale che chiude l’imbrago,
scarburo nel sacchetto, riempio la parte inferiore della bombola con nuovi sassi di
carburo e rabbocco d’acqua la parte superiore. Regolo il rubinettino. La calda e
luminosa fiamma si libra nell’aria indicandomi la via da seguire: avanti!
Lei non vuol venire, dice d’essere stanca. Oggi ha fatto abbastanza. Saggia.
«Torno subito, non ti preoccupare» e le faccio ciao con la mano.
Agguanto il martello, il tubolare con l’ultimo tratto di corda speleo rimasto e mi
precipito al nero soffiante.
La Madre Terra e la grotta mi perdoneranno, ma a martellate allargo il buco, così,
selvaggiamente. E poi mi ci tuffo dentro di testa, giù per il budello. Il cuore batte
come i pistoni del mio furgone.
Striscio striscio, scendo scendo, l’aria vuole spegnere la fiammella, il buco si stringe,
mi spingo avanti di traverso per passare. La tuta sfrega, s’impiglia, tiro, forse un
lembo di tessuto cede. Sbatto malamente col casco. La fiamma si spegne. Porto la
mano al piezoelettrico, ruoto il pomello ed è di nuovo luce. Mi calmo un attimo. Con
la frenesia non vado da nessuna parte e poi spreco troppe energie. Mi faccio morbido,
quasi liquido, respiro piano, con parsimonia. Tolgo il casco, lo spingo avanti con la
mano, mi torco pian piano, supero un gomito, sporgo in avanti anche l’altro braccio,
le dita s’afferrano alla roccia e mi tiro fuori dalla strettoia. Finisco in una serie di
tazze dai bordi taglienti e piene d’acqua; guazzo, schizzo le pareti, le ginocchia
protestano, ma il budello progressivamente si fa grande, alza la testa, diventa
meandro.
Ora cammino quasi eretto e avrò percorso almeno un centinaio di metri.
Tic tac tic tac, il tempo mi batte addosso.
Cominciano i saltini. Uno da un metro d’altezza lo passo via leggero, l’altro da un
paio di metri lo scendo in scioltezza. Altro saltino. Questo sarà profondo una decina
di metri. Frugo attorno con gli occhi intanto che estraggo dalla sacca lo spezzone di
corda. Ecco lì quello che ci vuole: un cappello da gnomo fatto di roccia. Lo spuntone
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rappresenta il classico «armo naturale». Niente chiodi: si sfrutta quel che la grotta
sembra aver lasciato a bella posta. C’infilo un anello fatto con una corda d’alpinismo
nuova fiammante, vi aggancio un moschettone a ghiera e a questo la corda speleo che
passo nel discensore e sono già in basso che mi sbroglio e proseguo.
Adesso ho gli scarponi completamente a bagno nel torrentello diaccio che mi precede
e mi segue. La mia mente si tuffa in un rombo lontano. Sembra acqua impetuosa che
sbatte sulle rocce. L’aria è carica di un umido quasi palpabile e innanzi a me il nero
profondo mi guarda. Tutti i miei sensi lo percepiscono. Rallento l’andatura, mi
muovo cauto. La galleria si allunga nella totale assenza di luce. Il torrentello si getta
davanti impavido. Il fragore investe il mio essere speleologo quando m’affaccio nel
pozzo. Accendo anche l’impianto elettrico, per scorgere più in là del semplice globo
di luce prodotto dalla fiammella.
Non è un pozzo, ma una finestra che guarda in un’altra galleria. Una gran massa
d’acqua precipita dall’alto, alla mia destra. Precipita e crea colonne di schiuma,
giganteschi guerrieri vikinghi bianchi come la neve investono il fondo della galleria e
correndo si perdono oltre. Le mie luci non li raggiungono, ma so che galoppano nella
galleria sempre più avanti, sempre scendendo. Scendendo! Il cuore mi batte forte.
Penso al Cartaginese, a come sarebbe felice di essere qui con me nella prosecuzione
agognata, una nuova speranza nella cerca del Collettore.
In me esplode quel qualcosa che ho già conosciuto. La spiacevole sensazione di aver
fatto un passo falso manda l’adrenalina alle stelle mentre il bordo di roccia cede e
precipita, mentre io scatto d’istinto come una molla e mi aggrappo alla roccia che si
sbriciola tra le mie dita. Ma il gomito sinistro urta forte e la mano s’attanaglia ad uno
spunzone. Il cuore batte furibondo mentre con la destra cerco un punto fermo, un
appiglio.
Nel sogno
Mi sto ancora dibattendo. So bene che se non mi isso sul bordo della finestra, nella
galleria, sono spacciato. Volerei sulle rocce sottostanti, oppure direttamente dentro
l’acqua. In ogni caso dubito che me la caverei. Infilo entrambe le punte degli scarponi
in una lunga fessura trasversale. Ancora uno sforzo e sono salvo. Stacco la mano
sinistra, l’allungo lentamente e poi con un guizzo m’afferro allo spuntone superiore.
Riesco a puntare il piede destro ancora un po’ più in alto. I muscoli delle braccia si
tendono. Sudo freddo, la mano destra scivola dall’appiglio viscido, ma con uno
strattone mi lancio in avanti e digrigno i denti. Striscio dentro la galleria, spossato,
fradicio d’acqua e di sudore. Rimango con la faccia a terra mentre il ruscello
lambisce le mie labbra...
Qualcosa per un attimo tenta come di soffocarmi, sputo, mi dibatto, mi isso in piedi,
qualcosa che mi trattiene mi fa cadere come un sacco della spazzatura. Rimbalzo.
Sono caduto sul morbido e apro gli occhi sul letto sconvolto. Le lenzuola sono
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avviticchiate al mio corpo. Sono madido di sudore. Sudore diaccio. Quella merda di
sveglia fa solo un gran casino invece di chiamarmi dolcemente alla sveglia con
Wagner.
Scuoto la testa per liberarmi dall’incubo. Dal sogno. Dall’ansia che m’attanaglia.
Scalzo vado in bagno e mi piazzo per un bel dieci minuti sotto la doccia. L’acqua
tiepida mi batte contro, mi culla, massaggia, lenisce, attutisce.
Decise lame di luce tagliano le persiane e m’asciugo lentamente nel turbine dei
pensieri, con la bocca amara che sa di sogno premonitore, di sogno rivelatore.
Sono le sette del mattino, sollevo la cornetta, cerco il numero sulla rubrica e lo
compongo.
«Ma sei matto?» balbetta stizzito «é l’alba di sabato!» Per un attimo temo che il
Cartaginese riattacchi.
Gli racconto il sogno d’un fiato. La medusa se la ricorda bene anche lui. Entrando
nella sala rimane proprio sulla parete di fronte, leggermente spostata sulla destra e
quasi defilata dietro una lama di roccia. Già, da dietro la medusa si apre la condotta
che porta a un fiume sotterraneo, forse il Collettore.
«Sarà anche solo un sogno, ma non si puo’ aspettare!» esclama gongolante il
Cartaginese soggiungendo «porta carburo anche per me, che l’ho esaurito e ci
vediamo sotto casa tua tra un’ora esatta».
Riaggancio esultante. Mi vesto e corro in cantina a prendere lo zaino, riempirlo con
l’attrezzatura, infilare le corde nei sacchi. Ma presto. Presto per tornare alla Grotta.
Presto per vedere se stavolta riusciamo a guadagnare il Collettore.
Vari spezzoni di corda sono appesi in bell’ordine alle pareti della mia cantina. Cerco
di controllarmi e faccio mente locale sulla successione e la profondità dei pozzi da
scendere. Partendo dall’ultimo, quello prima dello scivolo, scelgo le corde della
metratura necessaria per ognuno di essi, cosicché, ad ogni pozzo, abbiamo la corda
già pronta e filata nel sacco. Conto i moschettoni e abbondo. Infilo in essi le piastrine.
Per ultimo acchiappo trapano, batterie e punte con una bella manciata di fix.
Realtà di un sogno
Così scrive Jules Verne, nel famoso romanzo Viaggio al centro della Terra: «Perduto
in un labirinto le cui sinuosità s’incrociavano in tutti i sensi sarebbe stato assurdo
pensar di fuggire. Mi toccava morire della più spaventevole delle morti e, cosa strana,
mi venne l’idea bizzarra che se un giorno qualcuno avesse rinvenuto il mio corpo
fossilizzato, il suo ritrovamento a trenta leghe sottoterra avrebbe scatenato chissà
quali dibattiti scientifici!».21
Un lungo brivido di freddo mi scuote. Apro gli occhi sulla mascella contratta. Ho
sognato. Ho sognato di dormire e svegliarmi nel mio letto. Ho sognato che telefonavo
al Cartaginese.
80
Lentamente cerco si muovermi e poi un guizzo: dove mi trovo? Una ventata di paura
mi percorre, perché non vedo nulla, non ricordo. Annaspo, batto il casco e la testa
rintrona. Ed è subito chiaro. Il rumore del casco contro la roccia mi fa allungare la
mano al piezoelettrico ed è subito luce. A momenti volavo dritto giù di sotto per un
maledetto bordo che ha ceduto, per una maledetta stupidità: la mia, quella di volermi
sporgere ancor più per vederlo meglio. La mano del mio angelo custode deve avermi
messo sotto le dita una cengia.
Sono una foglia nel vento: guarda come so veleggiare.
Poi mi sono addormentato come un baccalà una volta che sono riuscito a tornare nella
galleria. L’unica cosa di cui non mi capacito è di avere l’elettrico spento. Lo accendo.
Funziona. Possibile che l’abbia spento per farmi la pennichella? Mi devo muovere,
sono letteralmente ghiacciato. Non so quanto ho dormito, ma non credo molto. Però
Lei è là che mi aspetta.
Speriamo che non si stia preoccupando. L’orologio è in pezzi. Adesso mi accorgo che
ho due unghie rotte e sanguinano. Sanguina anche il polso... sarà stato l’orologio. Gli
lego attorno il fazzoletto e mi reinfilo il guanto. Dò un ultimo sguardo alla sottostante
cascata d’acqua e m’affretto a tornare. Da come mi duole, devo avere acciaccato
anche il ginocchio. Speriamo non si gonfi troppo, altrimenti sì sono guai. Strisciare
ancora nel budello è una sofferenza. Mi fa un fottuto male anche il gomito sinistro.
Saluto la Medusa e cerco Lei con gli occhi. La illumino. È rannicchiata su tubolari
vuoti. Sta dormendo alla grande tra i due teli termici, il suo e il mio che le ho lasciato
prima d’avventurarmi.
La tocco dolcemente. Esce pian piano dal bozzolo. Si stiracchia, spalanca gli occhi e
mi chiede com’è andata.
Le racconto brevemente i fatti, mentre si tira a sedere, tenendo un telo sulle spalle
come una vecchietta.
Sono stanco. Sono fradicio. Desidero calore. Sfilo gli scarponi, strizzo i calzettoni
poggiando i piedi sulla mia sacca. Bisognoso di calore tolgo l’imbrago e la tuta. La
bacio.
Le nostre mani s’incrociano e passano oltre. Le cerniere dei sottotuta cedono,
scorrono e con loro le mani.
«Ma ti sei fatto male?» e mi controlla il gomito, pulisce il polso dal sangue
raggrumato, facendone scorrere altro. Passa le dita sull’abrasione che mi riga
trasversalmente il petto.
«Non è nulla, baciami, che anche stavolta non mi hanno voluto» le dico in tono
sommesso.
Ti amo, dolce amore. Sarebbe stato un vero peccato perderti ancora tra le pieghe del
tempo. Chissà quanto ci avremmo impiegato per ritrovarci ancora.
Respiro fresco, più fresco dell’usuale: è la sensazione che non mi spiego
razionalmente, ma è quasi una rinascita dopo averla scampata. Quasi un senso di
euforica leggerezza fisica e spirituale. Essere vivo. Aver scoperto di essere ancora.
Sentirmi a piene mani addosso questa vita. E ancora il sogno, la scoperta, Lei con cui
condividere il tutto.
81
Non vedo l’ora di dirlo agli altri, a quelli del vecchio gruppo di matti che
indefessamente cercò il Mitico Collettore. Devo dire loro che in questa fottuta grotta
c’è una prosecuzione che potrebbe anche condurre dritta dritta al fondo del nostro
sogno.
«Allora, l’hai vista?» chiede improvvisamente lei.
La guardo stupito e non capisco.
«Ma si, l’astronave!»
9. Tutto torna
Poco fa
Siamo animali braccati da una consuetudine che ci consuma. Nell’ansia di essere
dimentichiamo chi siamo. C’incontreremo di là, o forse ancora qui su questa Madre
Terra. Io spero di no, di non dover tornare ancora qui per un altro giro di ruota. Il solo
pensiero m’induce a cercare di capire il più possibile adesso e di non commettere
errori penalizzanti, che qui ancora mi riconducano.
Questa la scrissi per me.
«Erica
Suonavamo le cornamuse e i bodhran
lassù tra l’erba verde bagnata dai rovesci lenti,
accarezzata dalla nebbia inquieta.
Si suonava e il tempo era quello.
Non ci davano compensi o medaglie,
eravamo noi e basta con la nostra terra,
il cielo oltre lo sguardo
ed ogni giorno era il nostro e basta.
Ciò che più contava era essere
e noi eravamo.
L’alba ormai vecchia si ritira
al cospetto del chiassoso giorno,
si fa largo tra la gente e corre
incupendosi nell’amaranto del tramonto
che rammenta cose andate
vissute a poco o a caro prezzo,
ma pagate,
come le ore che oramai volgono alla notte
che si sdraia addosso ad ogni cosa.
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Anche questa passa, noi forse non ancora,
ma tra poco si sbiadisce e trema
nel fresco giovanile dell’erba
che sussurra tra i cespugli e vola.»
Lei è andata, come il mio tempo, come la mia gioventù e talvolta questo cerchio che
devo chiudere si tramuta in una spirale e poi ancora in labirinto. La melanconia l’ha
fatta procedere su altre vie, in altri percorsi, altrove; ci siamo lasciati, così,
semplicemente. E ne soffro. Fatico a stargli dietro, a questa vita, e a comprendere i
cosiddetti disegni del fato. Talvolta mi limito a seguire solo il mio istinto.
È sabato pomeriggio, suonano alla porta. Mi avvicino piano, scruto dallo spioncino e
poi mi risolvo ad aprire. Generalmente vengono qui a scampanellare allegramente
quelli che ti vogliono proporre nuove reti telefoniche, nuovi contratti, nuove case,
oppure vogliono periziare la tua a costo zero spacciandosi per agenti di fantomatiche
agenzie immobiliari. Poi un giorno te la trovi svaligiata e non sai chi ringraziare.
Il mese scorso due tipetti hanno suonato a tutti i campanelli del piano e non ricevendo
risposte hanno cominciato a smanettare con la maniglia della mia porta d’ingresso.
«Bastardo metti ancora la mano sulla maniglia che t’impiombo!» Gli ho ringhiato
attraverso la porta. Se la sono data a gambe giù per le scale a rotta di collo, manco
fossero inseguiti dalle Erinni (spiriti femminili di vendetta e di giustizia detti anche
Furie, nate dal sangue di Urano, castrato da Crono).
Stavolta è il filippino che abita al piano di sotto, proprietario anche dell’appartamento
accanto al mio, che mi chiede se sono in grado di aprire la sua porta. Ha affittato
l’appartamento a dei cileni che nell’andirivieni del trasloco, tra apri e chiudi la porta,
hanno spezzato la chiave nella serratura, rimanendo chiusi fuori. Mi risolvo a
suggerire loro di chiamare un fabbro.
Dopo un’oretta il campanello risuona. La porta non c’è verso di aprirla e capisco che
ha una blindatura casereccia e un po’ incasinata. Il fabbro ecuadoregno chiede di
passare da una delle mie finestre per entrare nella casa da una finestra lasciata aperta
e così smontare la porta dall’interno.
Lo squadro. Non avrà più di trentacinque anni, faccia da indios segnata, occhio vivo e
franco. Stretta di mano robusta, decisa, e soprattutto non si guarda i piedi o la tua
pancia quando si presenta. L’aspetto atletico mi fa propendere per un si, ma ad una
condizione. Vado in cantina a prendere un tratto di corda da roccia, una manciata di
moschettoni, un paio di bloccanti e soprattutto un’imbragatura che si adatti al suo
bacino, decisamente più largo e massiccio del mio. L’idea che esca della finestra di
casa mia e passi nell’altra facendo l’acrobata senza alcuna sicurezza non mi aggrada.
Intanto che lo attrezzo scambiamo quattro chiacchiere, gli dico che sono speleologo,
lui no ma gli piacerebbe e mi chiede se conosco l’America del Sud.
Quando ho finito di apparecchiarlo sussurra, per non farsi sentire dai cileni: «Conosci
la Cueva de los Tajos?».
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Ancora la Cueva
È quasi sera e il campanello suona per la terza volta. Ha finito di smontare e
rimontare la porta, riparando serratura e tutto il resto. Lo faccio accomodare e
cominciamo a parlare fitto, senza preamboli.
Il suo villaggio sta alla base di un monte, che da una parte sale con una pendenza
costante, coperto dalla foresta, tranquillamente praticabile. Dall’altra scende con due
pareti verticali di circa quattro o cinquecento metri d’altezza, a forma di angolo. Sotto
scorre il fiume ad ampi meandri. A circa duecento metri al di sotto della linea di
cresta della parete di sinistra si apre una cavità enorme, che hanno cercato di
raggiungere calandosi con corde fatte di fibre vegetali, ma senza successo. Il suo
capo-villaggio ha riferito che da una certa radura, nei pressi del fiume, si vede bene la
bocca della caverna che pare semicircolare. Quando il sole è a una certa altezza
dardeggia i suoi raggi all’interno, rimandando bagliori talvolta color oro, altre volte
azzurrognoli. La sua gente sostiene che sono l’oro e l’argento che rilucono,
ammucchiati là dentro dagli ultimi Incas.
Ma lui sostiene che sono degli aeromobili, perché più di una volta ha visto strani
oggetti a forma di disco e di palla schiacciata volare attorno al monte e sul fiume.
Considero sia meglio tornare alla luce con in mano il cambio o una biella di un disco
volante, che con un sacco pieno d’oro: nella prima eventualità ti chiudono solo in
manicomio, nella seconda ti tagliano la gola per derubarti.
Una volta erano in una lanca a pescare e c’era anche il loro capo. Hanno sentito l’aria
vibrare e sibilare e sono corsi verso il corso principale del fiume per vedere cosa
fosse. Un grande disco color argento era appoggiato su di una bassa duna sabbiosa
mediante alcune aste e da sotto usciva una passerella di luce. Qualcuno la stava
percorrendo e aveva in testa un casco che pareva una televisione che funzionava
male, disturbata: mandava bagliori tremolanti, zigzaganti e non lasciava scorgere il
volto. Il loro capo li fece indietreggiare silenziosamente e dileguare nella jungla. In
passato parecchie persone erano sparite, non avevano più fatto ritorno al suo villaggio
e a quelli vicini. Alcuni erano invece tornati strani, confusi, con cicatrici che
sembravano ustioni in varie parti del corpo. Soprattutto nell’interno delle cosce. Sono
perplesso, ma colpito dalla chiarezza e dalla dovizia di dettagli.
L’altra parete è un po’ meno a picco, ha diverse cenge dove cresce rigogliosa la
vegetazione, ma altrettanto inavvicinabile. Ha un’apertura all’incirca alla medesima
quota dell’altra, solo un po’ più piccola, irregolare e chiusa da giganteschi blocchi
poligonali di roccia.
«Questa è la vera Cueva de los Tayos» esclama alla fine del racconto.
Chiudo la porta, riapro l’agenda, leggo il suo nome una, due, dieci volte
visualizzando il fiume che scorre tra vapori densi, carichi dell’odore della giungla che
attraversa. Adesso non è il momento.
Adesso non è il momento perché mi torna alla mente la maledetta medaglia che ha
solo due facce, senza considerare il bordo tondo che gira; talvolta è zigrinato ed è
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assimilabile alla rotella di un ingranaggio. Il meccanismo della mente si mette in
moto e ricorda, pensa, analizza.
Ricordo di un supposto e millantato speleo, frequentato qualche anno prima per un
breve periodo. «Grammogol»: era questo il nomignolo, mutuato da Gran Mogol, capo
delle Giovani Marmotte di disneyana memoria, che gli avevo affibbiato a sua
insaputa. Bravo ragazzo, un po’ montato ma solo perché in carenza di essere qualcosa
di veramente sostanzioso, nonché sostanziale. Però anche lui aveva le sue qualità e
quando gli raccontai il fatto poi mi avvisò. Ci mise un po’, ma mi avvisò, dopo che
gli dissi di aver ricevuto la proposta di andare in Turchia.
Tutto torna come in un cerchio
Il produttore cinetelevisivo mi aveva contattato fissandomi un appuntamento.
Recentemente si era recato in Turchia per lavoro e poi aveva deciso di regalarsi una
vacanza di qualche settimana per conoscere meglio il paese e visitare le famose città
sotterranee, come Ani in Armenia, Sivasa, Kaymakli e Derinkuyu in Cappadocia.
Qualcuno sostiene che gli insediamenti sotterranei disabitati siano almeno
centocinquanta, altri pensano al doppio, in quanto presso la maggior parte dei villaggi
della Cappadocia vi sarebbe una corrispondenza abitativa quasi speculare nel
sottosuolo. E questo senza contare la molteplicità delle opere ipogee sconosciute
presenti nel vasto territorio mai pacificato.
La città sotterranea di Derinkuyu è stata disostruita ed esplorata fino all’ottavo
livello, ma gli studiosi ritengono che ve ne siano altri e le strutture si possano
spingere fino a 80 metri di profondità. Provvista di vari servizi, collega gli ambienti
tramite corridoi, scalinate e discenderie; gli accessi sono internamente protetti con il
sistema delle porte-macina, costituite da ruote di pietra alloggiate in appositi locali di
manovra che venivano fatte ruotare fino a bloccare completamente il vano d’accesso.
Tale sistema è diffuso in Cappadocia, con riscontri anche in altre regioni. Per quanto
riguarda la datazione degli insediamenti sotterranei dell’Anatolia vi sono tesi
contrastanti e c’è chi ritiene che il fenomeno possa avere avuto luogo già in età
preistorica, oppure nasca nel periodo Ittita e si protragga nel corso dei secoli.
«Un professore di lingue mi ha fatto da guida in un paio d’insediamenti sotterranei, a
pagamento, s’intende. Sostiene che ve n’è uno ancora in funzione, ma abitato da
gente non propriamente umana» me la butta lì così, senza preamboli, e se voleva fare
centro ci è riuscito.
Il Professore aveva intuito o capito che nella zona c’era qualcosa di strano, di
anomalo. Dopo qualche anno di ricognizioni e di raccolta d’informazioni aveva
trovato l’accesso a un complesso sotterraneo di cui aveva potuto esplorare solo una
piccola parte del primo livello. Poi lo avevano intercettato e se l’era vista brutta, ma
con sua somma fortuna uno dei carcerieri lo aveva fatto scappare. Questi, assieme ad
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altri della sua specie, desideravano che il mondo venisse a conoscenza della loro
esistenza. Perciò lo avevano lasciato libero.
«Perciò, quando il Professore ha saputo che sono un produttore cinetelevisivo mi ha
raccontato questa storia. Vuole che vada con lui nella città sotterranea, filmi il più
possibile e intervisti quello che lo ha aiutato a fuggire e coloro i quali vogliono
rivelare qualcosa all’umanità» e anche così il racconto non faceva una piega.
Gli dissi che si poteva fare, ma che avrei avuto bisogno di rifletterci sopra. Ne parlai
con gli speleo più fidati dell’Associazione, tra cui mio fratello, e quasi per caso pure
con Grammogol.
I romanzi possono essere solo tali. Giulio Verne scriveva romanzi, eppure quello che
descriveva si dimostrò concreto, seppure solo nel futuro. Oppure sapeva
perfettamente che le vicissitudini su questa terra ricorrono, come sottolinea il filosofo
Giambattista Vico, nella sua teoria dei corsi e dei ricorsi. Da uno stato per così dire
primitivo si sale a una disciplina razionale, volta al bene comune, per poi declinare
nella cosiddetta barbarie da cui ci si rieleva. La nostra non sarebbe in realtà una linea
evolutiva assimilabile all’iperbole, ma una sinusoide, con alti e bassi continui e
ricorrenti.
Conan, oramai re di Aquilonia, aveva un figlio, Conn. In una temeraria impresa
approdarono in una terra più che antica, in un palazzo più che strano: «La regina del
palazzo nella roccia, Lilit, sedeva appartata dai suoi ospiti su un basso palco di onice.
Malgrado Conan l’avesse interrogata a lungo, Lilit aveva sostenuto di non sapere
nulla di Thoth-Amon. Aveva mostrato d’ignorare anche il fatto che la facciata del suo
palazzo assumeva l’aspetto di un enorme teschio, quando lo si vedeva dall’alto. Gli
aveva spiegato che quella terra era costellata di geyser e fumarole, e vapori nocivi
potevano filtrare nell’aria da cavità sotterranee. Conan pensò che per il momento
avrebbe dovuto accontentarsi di quella spiegazione, anche se i suoi sospetti non erano
stati del tutto placati».22
Il figlio si era lasciato irretire da una delle danzatrici della regina, facendosi condurre
in una stanza appartata. Mentre lei si accoccolava languidamente nuda sul divano
rivestito di seta, lui si toglieva la lucente corazza, sulla cui piastra pettorale vide
riflessa l’immagine di lei, o meglio le sue vere sembianze: «Il corpo della ragazza era
sì umano, ma assai meno di quanto gli era apparso a uno sguardo diretto. Alla
sommità di quel corpo, dove avrebbe dovuto esserci un volto sorridente, vide una
maschera talmente orrenda da fargli raggricciare il midollo. Perché la testa della
ragazza era quella, squamosa e affusolata, di un serpente, con gli occhi senza
palpebre, le pupille oblique, le mascelle irte di zanne e una lingua guizzante e
biforcuta».23 Questi esseri non potevano celare le loro vere sembianze a una
superficie riflettente.
Conn uccise l’essere, salvandosi così dal venire sbranato: «Conosceva gli antichi miti
del popolo serpente. Il dio di Aquilonia era Mitra, il Portatore di Luce che, nelle
leggende dell’Occidente, aveva trucidato Set, l’Antico Serpente. Ma la realtà dietro
alle leggende era più remota e più truce. Non era stata la spada di un dio immortale a
schiacciare il Serpente dell’Antica Notte, ma le lame impugnate da uomini comuni,
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che avevano combattuto contro i sibilanti beniamini di Set in una guerra durata un
milione d’anni. (...) Il popolo-serpente, così sussurravano gli antichi miti, aveva
ricevuto da padre Set il potere di oscurare la mente degli uomini, cosicché, a occhi
umani, essi assumevano l’aspetto di uomini e donne comuni. Kull, il re-eroe
dell’antica Valusia, aveva trionfato a stento sul serpente risorto, quando aveva
scoperto che il popolo dei rettili viveva nel cuore delle stesse città umane, al fianco
degli uomini, senza che nessuno lo sospettasse».24
Fattori contingenti
I sogni possono essere premonitori. E io dormii male. Sognai che nella zona dove
doveva trovarsi la città sotterranea ancora abitata era già morta della gente, così,
accidentalmente. Di fatto, in seguito appurai che questo era realmente accaduto.
Sognai che la nostra spedizione finiva male e solo io, della mia Associazione, tornavo
a casa. Questo avrei preferito evitare di appurarlo.
Nel 1817 una compagnia di soldati inglesi, tra i rilievi prevalentemente basaltici
sopra la collina di Inhyadri, nel Deccan (India), fece la scoperta dei templi di Ajanta,
scavati nella roccia e adornati di cicli di pitture buddiste. Ma non è questo il punto,
bensì un particolare marginale: «Lungo i fianchi della gola, in origine consacrata a un
Naga o Re-Serpente, una comunità di monaci buddisti iniziò lo scavo di chaityas
(santuari) e di viharas (monasteri), nel II secolo a.C.».25
Questi Re-Serpente, in altri luoghi dell’India chiamati semplicemente uomini-rettile o
uomini-serpente, sono curiosamente presenti nelle antiche storie locali, soprattutto in
presenza di grotte o di cavità artificiali. In una zona del Ladakh, nell’India
nordoccidentale, una stretta e lunga valle è dominata da piccoli monasteri buddisti.
Uno di questi, non visitabile, è noto per essere stato costruito davanti a una grotta,
dove anticamente i monaci sono riusciti a rinchiudere un uomo-rettile, ultimo della
sua stirpe nella valle.
Un passo di Erodoto richiama ancora l’entità-rettile, esistente nella città di Atene: «Al
dire degli Ateniesi nel tempio abita un grande serpente che custodisce l’acropoli».26
Grammogol uscì dal tornello della metropolitana e contemporaneamente al saluto mi
porse un libro che parlava di misteriose chilometriche gallerie e di città sotterranee
scavate forse in epoche prediluviane.
Mi disse semplicemente «Leggitelo». Aveva la faccia grigia e sicuramente non
intendeva scherzare quando aggiunse di non andare in Turchia perché era una
trappola. Due ore dopo ho rischiato di essere travolto da un grosso furgone che è
passato sulle strisce pedonali con il rosso e almeno a cento all’ora! Ha letteralmente
sfiorato le punte dei miei piedi e il mio naso nella folle corsa. Poi in ufficio si sono
inspiegabilmente bloccati tutti i computer e nel primo pomeriggio si è guastato anche
l’impianto dell’aria condizionata. L’ultima l’ha data la fotocopiatrice, la quale con un
esile filo di fumo è passata a miglior vita.
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Ma non volevo demordere e mi lessi il libro, con il solo effetto di rafforzare ancora di
più la mia intenzione a recarmi laggiù, nelle città morte sotterranee. L’analisi dei
rischi e delle possibilità determinò poi la scelta. Per essere tranquilli avevamo
bisogno di armi, non solo di un banale coltellino multiuso da campeggiatore, caschi
speleo, tute, imbraghi, corde e GPS. Avevamo pensato anche a quattro mercenari,
pardon, contractors, che desiderassero fare una vacanzina in un posto ameno: detesto
essere preso alla sprovvista.
La conoscenza fa male, già lo sapevo. La conoscenza costa sacrificio, dolore, perdita
di qualcosa per acquisirla. Forse. E poi diventi il disadatto o il «cattivo di turno».
Troppi soldi, troppo rischio, senza contare che qualcosa non quadrava. Nel racconto,
s’intende. Inoltre, un conto era battersi per una causa, un altro era rischiare per una
storia e narrata da qualcuno che non s’era mai visto in faccia, ma solo sentito per
telefono. Già, al Professore gli avevo telefonato, tanto per sincerarmi di alcune cose,
tra cui la sua esistenza. E così, per me, lo è anche stavolta con la storia della Cueva.
Adesso non è il momento, devo chiudere un po’ di cose qui a casa. Adesso non è il
momento perché l’allenamento manca e mi ci vuole qualche mese per riagguantarlo.
Adesso non è il momento e forse mai lo sarà. Chiudo l’agenda, mi lavo le mani e mi
preparo a cenare.
La vita continua sempre, con noi, senza di noi, a dispetto di noi.
«Penna d’oca
Ho scritto la mia avventura
con un filo di fumo che si perde.
Ho scritto la mia storia
con le lacrime intinte nell’inchiostro.
Ho scritto del mio amore
con il tempo rubato al cielo.
Ho scritto il mio dolore
nella consapevolezza di vivere in eterno.
Ho scritto la mia rabbia
sul filo della spada
che gli Dei mi hanno posto in mano.»
Grotte e gracchi in Valle Argentina
Il tempo fa il suo corso, ma quanto appreso da giovani si scorda meno di quello che
s’apprende da non più giovani. «Non ho castello: fudô-shin (la mente
imperturbabile) è il mio castello.» (Nitobe I., Bishido, Ed. Sannô-kai, Padova 1976,
p. 29). E continuiamo, per quanto possibile, a scendere cercando e forse solo noi
stessi. Ci avevano detto che in cima alla Valle Argentina a nord d’Imperia, vi erano
grotte inesplorate. Pozzi carsici profondi decine di metri, molti dei quali ancora pieni
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di neve e ghiaccio. La stagione non è calda, ma rovente. Si scioglierà bene, quella
neve laggiù in fondo, e così partiamo armati di corde, moschettoni, trapano a batterie
per fissare alle pareti calcaree i chiodi a espansione, i quali costituiscono gli
ancoraggi a cui attaccarci per scendere. Sono passati poco meno di due anni, ma è
come fosse ieri.
Lungo un fianco roccioso costellato di doline riempite di massi scorgiamo una corona
di cespugli color verde scuro, bassi. Un paio di uccelli planano dal cielo e senza
frenare si tuffano come proiettili tra questi. Si schianteranno! Ma no, si sono fiondati
in una delle grotte di cui ci hanno parlato, che battezziamo prontamente «Grotta dei
Gracchi». Il pozzone non è largo, ma assai profondo e i gracchi hanno fatto i loro
numerosi nidi lungo cenge e fratture della campata che scende all’inferno. Comincia
a piovere, ci caliamo in tre, gli altri aspettano fuori e poi guadagneranno lestamente le
vetture quando comincerà a grandinare e saettare. Intanto vediamo noi cosa ci attende
là sotto e soprattutto se la grotta è articolata. I sogni di gloria svaniscono in
profondità, sopra un cono di ghiaccio e neve. Ma la sorpresa ci attende in macchina.
I gracchi, custodi della memoria
I gracchi sono custodi della memoria di ciò che avvenne tra questi monti e di cui non
si parla. Solo qualcuno sussurra. «Mio nonno aveva la tessera del Partito Fascista.
Una mattina sono venuti a prenderlo “i rossi” e non è più tornato a casa. Mia madre
tace, ma io so che è finito in qualche grotta». Domando in quale anno sia avvenuto il
fatto, se prima o dopo quel fatidico giorno dell’aprile 1945. La persona rimane in
silenzio e si guarda le mani, ha parlato anche troppo. La gente, in Valle Argentina e
nell’intero Ponente Ligure, ha ancora paura. Quelli che non ce l’hanno è perché sono
“venuti dopo” o perché sanno che devono mantenere il silenzio su ciò che hanno fatto
loro o i loro padri o i loro nonni.
Tutto comincia quasi per gioco, come tante cose di questa birichina vita e alle
macchine c’è uno del posto che srotola pacatamente torrenti di parole sugli speleologi
asciutti. Noi siamo fradici, ma se il sole non è tornato, almeno ha smesso di piovere e
grandinare. I nostri colleghi ci raccontano poi che cos’hanno saputo. Nella zona
operava un gruppo di partigiani, composto da cinquanta, forse cento persone. Quello
del posto ha detto che se tornavamo ancora con le corde e i caschi ci avrebbe portato
in due grotte dove sapeva per certo che ci avevano buttato dentro fascisti e non
fascisti. A detta sua durante e dopo la guerra molta gente aveva regolato i cosiddetti
«conti di famiglia». E poi c’erano i cosiddetti «briganti». Quindi molta gente era stata
ammazzata solo per poterla rapinare della vacca, della terra, della casa. E i congiunti
rimasti in vita o erano emigrati o ancora vivevano con la paura di essere presi di mira.
Perché briganti o non briganti erano rimasti impuniti.
Il tipo aveva poi raccontato che un giorno i fascisti erano andati da suo padre perché
aveva i polli e l’orto, ma suo padre aveva acchiappato il forcone e li aveva cacciati,
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rimettendoci solo un paio di galline. Qualche mese dopo, verso la fine della guerra,
erano andati da lui i partigiani e tra questi aveva riconosciuto anche qualcuno di quei
fascisti che volevano i suoi polli. Stavolta, con il fucile puntato al petto e la schiena
contro il muro di pietra della casa aveva dovuto assistere alla completa rapina dei
polli e anche delle vacche. In ogni caso desidera che lo contattiamo, perché è giunta
l’ora di dare sepoltura a tanti morti ammassati in fondo ai buchi.
Pasta al pesto e colpo in testa
Mesi dopo ho un abboccamento con il tipo, il quale afferma che un vecchio
partigiano con i rimorsi di coscienza potrebbe fargli vedere altre grotte dove hanno
buttato giù gente. Rispondo che per il momento mi bastano quelle due che lui
conosce. Ma le conosce? Lui mi guarda di sbieco e dice che sa in che area si aprano e
che farà ricognizioni per trovarne senza fallo l’ingresso.
I partigiani rastrellavano soprattutto in Valle Argentina e a Triora, da cui si dirigevano
verso Loreto per poi risalire il costone a est della Croce di Cetta, con i prigionieri.
Qui c’era, e c’è tuttora, un cascinale che fungeva da quartier generale. Pulivano le
armi, preparavano marmittoni di pasta col pesto, sgranocchiavano piccoli frutti aspri,
ogni tanto interrogavano qualcuno. Gli dicevano che poteva tornarsene a casa e che lo
avrebbero accompagnato per un pezzo. Generalmente un solo partigiano scendeva
con l’ignaro, oramai dal cuore leggero, senza mitra o fucile, in pratica senza arma
lunga. Ma aveva senz’altro la pistola. Dopo cinque-dieci minuti si udiva uno sparo e
poi più nulla; dopo una manciata di minuti il partigiano era nuovamente al cascinone.
Questo è quanto mi racconta, soggiungendo che una grotta è senz’altro appena sotto
l’ex quartier generale, prossima al sentiero. Si tratta di un pozzo carsico ed è chiuso
con una lastra di pietra mascherata.
Mi fido? Non mi fido? Dopo qualche mese ancora torniamo su, ma in pochi: solo tre
speleologi, un giornalista e un fotografo. Meglio non rischiare. Confidiamo in quella
che chiamiamo «operazione rapida e indolore».
Dormo male, qualcosa non mi quadra. A Triora, borgo medievale lasciato a sé stesso
con il suo drammatico processo per stregoneria, incontriamo il tipo. Ma non è solo. Si
è inaspettatamente portato appresso una guida e ce la presenta. Ha un modo pacato di
guardare, ma la prima occhiata, quando gli stringo la mano, non mi piace e non è
diretta, svia il suo sguardo altrove. Decisamente c’è qualcosa che mi sfugge e io
detesto non capire. Senza preamboli o giri di parole gli dico per quale motivo noi
siamo li e, senza lasciargli proferire parola gli chiedo che cosa ci faccia lui e
soprattutto chi sia.
Aveva pochi anni quando nel 1944 si era nascosto assieme a sua madre nel cavo di un
grande castagno, perché i soldati tedeschi stavano pattugliando la zona. La madre era
partigiana, un capo a detta sua. La gente dice sia figlio di un gerarca fascista, che poi
ha abbandonato la famiglia per trasferirsi in un’altra regione.
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La situazione è surreale, lui non parla di foibe, ma noi si. Gli domandiamo se conosca
l’ubicazione di quelle grotte dove pare che i partigiani ci abbiano buttato dentro
militari e civili. Lui risponde che conosce l’ubicazione di due grotte e che ci porterà.
Intanto appuro con il locale tipo chiacchierone che costui non è il partigiano anziano
pentito: quello alla fine ha fatto marcia indietro, lenendo la coscienza forse con un
buon bicchiere di vino. Ma non riesco a capire perché si sia tirato dietro questa
persona che ci farà da guida, dal momento che non era negli accordi che lui aprisse
bocca con altri e soprattutto con ex partigiani o gente a loro affiliata. Altro farfugliare,
altro parlare in modo sconclusionato senza senso, tant’è che alla fine, prima di
perdere la pazienza e dare in escandescenze come il mio solito, mi trattengo e
finalmente fermiamo le auto perché siamo arrivati.
La guida si toglie camicia e canottiera, rimanendo a petto nudo, come un guerriero
celta. E la stazza e i muscoli, nonostante l’età, ci sono tutti. Tira fuori la roncola da
sotto il sedile dell’auto e con gesto teatrale taglia l’aria e se l’appende in cintura,
dietro la schiena. Ho già lo zaino sulle spalle, con sopra la sacca speleo in PVC
contenente le corde, ma non posso e non voglio resistere al dirgli la mia. Tiro giù la
sacca, slaccio il cordino che chiude la bocca ed estraggo due roncole, contenute nella
mia classica sacchetta di jeans, affilate e pure provviste di cote.
«Se è per questo, le roncole ce le abbiamo anche noi...» dico così, con tono leggero,
rimettendole via «... ma stanno meglio nella sacca perché tenendole in cintura sono
d’intralcio e ci si può fare male».
La guida si avvia per il sentiero, il tipo del posto gli trotterella alle spalle e noi dietro.
Senza dubbio la cosa più sensata da fare sarebbe piantare in asso i due e tornarsene
lestamente e mestamente a casa. Ma non è da noi. E poi, siamo speleologi.
Grotte o “foibe”?
Il primo pozzo carsico si apre sotto una paretina di calcare grigio chiaro picchiettato
di licheni, al termine di un rado bosco abbandonato a sé stesso. L’accesso misura tre
metri per uno e mezzo, ma dopo una manciata di metri tante lastre di pietra formano
un fondo instabile, misto a terriccio, fogliame, legna marcia. In una spaccatura della
roccia recupero una scheggia di bomba. A occhio dovrebbe essere un frammento di
proiettile da cannone. Scaviamo un po’, issiamo fuori qualche pietra e poi molliamo il
colpo. Che dire? Se sotto c’è qualcuno è ben sepolto, inoltre ho un sospetto. Che a
suo tempo abbiano fatto brillare delle bombe per far franare la parte inferiore e
occultare il tutto a prova di curioso... e di speleologo?
Il secondo pozzo carsico sta a mezza costa di una parete che sovrasta un grande
cascinale oramai con i tetti sfondati. La guida mi comunica che lì aveva sede il
quartiere distaccato del gruppo partigiano che operava in Valle Argentina.
La grotta ha l’accesso stretto, ma scende scampanando per una quindicina di metri.
Sotto, in corrispondenza dell’accesso, ci sono i resti di una porta in legno coperta da
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detriti. Scaviamo rapidamente, ma anche qui molliamo il colpo senza alcun risultato.
Non ci piace stare troppo sotto, con quei due strani personaggi là fuori.
Scendiamo di quota, sempre seguendo il sentiero. Incontriamo un largo prato, cintato
da pietre un tempo erette e legni oramai marci. Poco più in là c’è il cascinone che un
tempo ospitò il comando partigiano, almeno stando ai racconti del tipo, confermati
dalla guida.
Uno sperone di roccia si protende con un salto vertiginoso sulla valle sottostante. In
punta c’è la statua di Gesù Cristo alta un metro circa che a braccia spalancate guarda
il cascinale e non già il fondovalle. Le foibe sono qui attorno, ne siamo certi. E la
guida ci esorta a non perdere tempo, che si fa tardi e bisogna scendere perché lì
attorno non c’è quello che andiamo cercando. Soggiunge che, appena sotto il
cascinale, di poco fuori dal sentiero, un giorno un maresciallo dei carabinieri vi aveva
trovato morte accidentale. Tornati alle macchine la guida ci chiede se vogliamo
vedere la grotta dove i partigiani hanno ammazzato una quindicina di tedeschi
prigionieri, buttandoli di sotto. Ma questa è un’altra storia.
Mani sui fianchi guardo la guida. Ci salutiamo, gli stringo la mano, stavolta mi
guarda diritto negli occhi e ognuno fa la propria strada. A casa apro il mio libro
preferito e leggo queste righe, dedicandole in particolare a chi ancora crede e, infine e
soprattutto, dedicandole a quanti non hanno ancora ricevuto una degna sepoltura,
nella Valle Argentina in particolare.
«Dopo un grande odio
Resta sempre un piccolo odio
Non si torna allo stato iniziale
Per questo l’Uomo Reale
Adempie la sua parte e non preme sugli altri
Chi ha la virtù pensa solo a ciò che lui deve fare
Chi non ha la virtù pensa (invece)
A ciò che gli altri debbono fare
La Via del Cielo non guarda alle persone
(è neutra, non ha preferenze)
Ma chi aderisce ad essa è sempre portato avanti»
(Lao-Tze, Tao-Tê-Ching (Il libro del Principio e della sua azione), a cura di Evola J.,
Roma 1972, 79).
Note finali
«Che dunque gli affari umani, e, in particolare, la natura corporea siano governati
non soltanto dagli dèi, ma anche dai loro corpi celesti, è in accordo con la ragione
ed è vero: perciò il ragionamento scopre che salute e malattia, fortune e sfortune
derivano di là in accordo col merito»
92
Sallustio, Sugli Dèi del mondo
La vita è fantasia, nel senso che per vivere bisogna metterci un po’ di fantasia.
Altrimenti è una grigia noia. Occorre essere leggeri come foglie, ma evitando di
lasciarsi completamente trasportare senza senso e senza scopo. Siamo nel vento, ma
occorre cercare d’indirizzare sentimenti, pensieri e azioni verso qualcosa di buono,
sincero e costruttivo. E possibilmente verso la conoscenza.
«Sono una foglia al vento» suggerirebbe l’attore in quel film di fantascienza.
Ma no, io sono altro: «Sono una foglia NEL vento!».
E quello che cerco di fare è veleggiare senza incidenti.
Volete approfondire le vostre follie? Volete perdervi nel vento delle ipotesi e nei miti
del mondo? Volete capire il senso del presente e magari pure la vostra storia?
Spegnete il televisore e troncherete il flusso dei messaggi subliminali. Spegnete pure
il computer, che al momento non dovete dare informazioni gratuite ad alcun servizio
segreto.
Ecco la prima azione, quindi: spegnere il vostro televisore, accendere il vostro
cervello e meditare. Poi andate a guardarlo e a vederlo, questo mondo, ma con tattica,
attenzione e soprattutto con voi stessi. E infine, scendete!
Note
1
Musashi M., Il libro dei cinque anelli, Edizioni Mediterranee, Roma 1984, p. 45
2
Ibidem, p. 43.
3
Ibidem, p. 61.
4
Senofonte, Anabasi, in Manfredi V. (a cura di), Rusconi, Milano 1984, p. 107, II
1,10.
5
Ivi, II 1,12.
6
Senofonte, op. cit., p. 195, IV 5,25-27.
7
Ibidem, p. 196, IV 5,34.
8
Platone, Timeo, in Reale G., Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2008, p.
1359, 24D.
93
9
Platone, Crizia, in Reale G., Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2008, pp.
1425-1426, 113C-113E.
10
Platone, Crizia, in Reale G., Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2008, p.
1424, 111C-111D.
11
Lawrence Th. E., I sette pilastri della saggezza, vol. primo, Arnoldo Mondadori
Editore, Verona 1971, p. 7.
12
Howard R.E., La leggenda di Conan il Cimmero, Editrice Nord, Milano 1989, p.
XX.
13
Platone, Repubblica, Reale G. (a cura di), Bompiani, Milano 2008, p. 1238, VII
514 A – 514 B.
14
Viazzi, Le aquile delle Tofane 1915-1917, Ugo Mursia Editore, Milano 1976, p. 23.
15
Rudel H.U., Il pilota di ferro, Longanesi & C., Milano 1965, p. 22.
16
Viero A., L’Energia Svelata e Rilevata. Rilievi rabdomantici, radiestesici,
geobiologici e medianici di Dolmen – Menhir – Piramidi – Basiliche e Santuari,
Società Editrice Vannini, Gussago (Brescia) 2002, p. 41.
17
Ibidem, p. 43
18
Machiavelli N., Il Principe, Firpo L. (a cura di), Einaudi Editore, Torino 1961, pp.
103-104, XX.
19
Lao-Tze, Il libro del principio e della sua azione (Tao-tê-ching), Evola J. (a cura
di), Edizioni Mediterranee, Roma 1976, 33.
20
Meli M. (a cura di), Vǫluspá, Carocci Editore, Roma 2008, p. 44, 20.
21
Verne J., Viaggio al centro della Terra, Rizzoli Editore, Milano 1960, p. 159.
22
Howard R.E., Il regno di Conan il Grande, Editrice Nord, Milano 1989, p. 651.
23
Ibidem, p. 654.
24
Ibidem, pp. 654-655.
25
Rowland B., Dipinti delle Grotte di Ajanta, Silvana Editoriale d’Arte, Milano 1963,
pp. 5-6.
94
26
Erodoto, Storie, a cura di Annibaletto L., vol. II, Mondadori, Verona 2007, p. 1403,
VIII, 41.
Indice
Premessa
1. Dentro il sogno
Nel Segno del Falco
Falchi di palude
Sentendo o sognando
Reminescenze
Lei
Nella Sfinge della Valganna
Anabasi
Il calore dell’acqua gelida
2. Dentro il mito
Nell’alba del mondo
Il cataclisma
Veleggiare in grotta
3. Dentro l’avventura
Via dal cemento
L’arcano
4. Esplorando
Elucubrazioni profonde
Sull’orlo
Presenze vaganti
Formazioni rocciose
Reminescenze maldigerite
95
Hans Rudel il «Pilota di Ferro»
5. In vacanza col Mago
Una voce dal passato
In Sudamerica
Tunnel e radiestesia
Grotte e maghi nostrani
Considerazioni d’un bianco perplesso
Tensione razziale capestro globale
Sorpresina!
Il mercato del pesce
Il «Cuore di Odino»
6. Soffi di grotta
Fendendo il buio
Ricordi sospesi sul vuoto
Davanti l’abisso
Nel ventre del Drago
La ricerca
Giri tortuosi
Divagazioni grottesche
7. Scendendo nel tempio
Il pozzo della sorte
Il tempio ipogeo
La pietra urlante
Deviazioni pilotate
8. Dentro il sogno del Collettore
Flash
Nel sogno
Realtà di un sogno
9. Tutto torna
Poco fa
Ancora la Cueva
Tutto torna come in un cerchio
Fattori contingenti
Grotte e gracchi in Valle Argentina
I gracchi, custodi della memoria.
96
Pasta al pesto e colpo in testa
Grotte o “foibe”?
Note finali
97
Fly UP