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immagini e violenza: un`attrazione fatale?
° N 25 IMMAGINI E VIOLENZA: UN’ATTRAZIONE FATALE? TENDENZE Cinéphile Look . Quando il regista diventa un brand DISCUSSIONI Da Apollo a Apple: i cinema chiudono. Che fare? FOCUS Il cinema in Egitto ANNIVERSARI A 50 anni da Django marzo 2016 5,50 € E D I TO R I A L E diGIANNI CANOVA SOTTO UNA BUONA STELLA iniziato bene il 2016 per il cinema italiano. Per il cinema, ma anche – ovviamente – per tutti coloro che lo amano. Gli incassi lunari di Quo vado?, ma soprattutto le code fuori dai cinema, il passaparola positivo, il riverberarsi di curiosità e interesse anche per altri titoli, sulla carta meno attrattivi, sono indizi e segnali più che sufficienti a legittimare, già di per sé, un cauto ma prezioso ottimismo. Accanto al nuovo film di Checco Zalone, il 2016 ha però portato con sé, finalmente, anche la nuova legge sul cinema, che aumenta le risorse del 60%, definisce l’automatismo dei finanziamenti e reinvestimenti nel settore, potenzia i tax credit e gli incentivi per chi investe nell’audiovisivo, sostiene e favorisce la creazione di nuove sale e aiuta il restauro delle sale storiche: un insieme di provvedimenti che, uniti al momento propizio del box office, lascia presagire – era ora! – un’ottima annata. Anche per noi di 8½ il nuovo anno si apre con qualche piccola È novità: entrando nel nostro quarto anno di vita, abbiamo pensato bene di fare un lieve restyling alla grafica e al rapporto fra la grafica e i testi. Non solo. Da questo mese, 8½ offre ai lettori un nuovo strumento editoriale: una piccola Collection in cui di volta in volta raccoglieremo, per aree tematiche omogenee, i contributi, le analisi e le provocazioni prodotte dalla testata. È un modo, crediamo, per non disperdere i contenuti pubblicati di numero in numero e per facilitare il lettore nel compito – non sempre facile – di seguire il filo conduttore che lega i nostri servizi e le analisi che di mese in mese pubblichiamo sulla rivista. A fine gennaio siamo stati invitati a Foggia per partecipare all’inaugurazione di una nuova sala cinematografica, aperta – così ci è stato detto – anche grazie alle nostre denunce contro l’analfabetismo filmico degli italiani. È una bella notizia. E ci induce a continuare con sempre maggior determinazione le battaglie e le sfide che abbiamo intrapreso. Sommario EDITORIALE SOTTO UNA BUONA STELLA di Gianni Canova RICORDI 04 PER ETTORE SCOLA di Felice Laudadio 01 SCENARI 06 ICONOGRAFIE DELLA SOFFERENZA di Gianni Canova LO SPETTACOLO DELLA VIOLENZA PERCHÉ CI PIACE AL SANGUE? IL PUNTO DI VISTA DEL SOCIOLOGO PEDAGOGIA DELLA MORTE di Alberto Abruzzese 10 IL PUNTO DI VISTA DEL FILOSOFO DALLA CARITAS AL PULP di Luca Maria Scarantino 08 12 14 IL PUNTO DI VISTA DELLA PSICOLOGA GLI STANDARD DELLA COMUNITÀ di Elisa Diquattro DAMMI IL ROSSO 30 CLAMOROSE RIVELAZIONI SUL SUCCESSO di Alberto Crespi TENDENZE 32 LA STRAGE DELL’AURORA E LA MASCHERA DI JOKER di Luca Mastrantonio SHOOTING LOOK di Gianni Canova 34 VOYEURISMO ELETTRONICO di Alessandro Gianni IL RITROVAMENTO DEL “DEMIURGUS EGOTICUS” di Maurizio Di Rienzo 36 BRAND DI SE STESSO di Andrea Guglielmino illustrazioni di Andy Ventura 38 HOLLYWOOD LAVA PIÙ BIANCO di Vanni Codeluppi 40 LIKE, SI GIRAAAAAA! di Margherita Bordino 42 LA VANITÀ? NON È DA INTELLETTUALI di Valentina Neri 44 IL PARADISO DELLE SIGNORE di Chiara Gelato 46 L’ARMADIO DEL CINEGIORNALISTA di Ilaria Ravarino 48 L’EGEMONIA DELLA BRUTTEZZA di Andrea Guglielmino disegni di Andy Ventura 16 18 20 22 24 DANZA MACABRA di Andrea Guglielmino LE CURVE DEL DOLORE di Valerio Orsolini JIHADISTI VIDEOMAKER di Bruno Ballardini LA BANALITÀ DEL MALE di Cristiana Paternò 26 28 IL TRAUMA DEL CRITICO a cura di Nicole Bianchi e Cristiana Paternò IL PUNTO DI VISTA DEL FILMOLOGO VIOLENZA DOC di Giona A. Nazzaro 8½ NUMERI, VISIONI E PROSPETTIVE DEL CINEMA ITALIANO Bimestrale d’informazione e cultura cinematografica Iniziativa editoriale realizzata da Istituto Luce-Cinecittà in collaborazione con ANICA e Direzione Generale Cinema Direttore Responsabile Giancarlo Di Gregorio Direttore Editoriale Gianni Canova In Redazione Carmen Diotaiuti Andrea Guglielmino Vice Direttore Responsabile Cristiana Paternò Coordinamento redazionale DG Cinema Iole Maria Giannattasio Capo Redattore Stefano Stefanutto Rosa Coordinamento editoriale Nicole Bianchi Hanno collaborato Alberto Abruzzese, Bruno Ballardini, Laura Bispuri, Alice Bonetti, Margherita Bordino, Vanni Codeluppi, Alberto Crespi, Girolamo De Michele, Elisa Diquattro, Maurizio Di Rienzo, Federica D’Urso, Chiara Gelato, Iole Maria Giannattasio, Mimmo Gianneri, Alessandro Gianni, Diaa Hosny, FATTI Dossier di DG Cinema e ANICA 50 I PRINCIPI ISPIRATORI DELL’INTERVENTO PUBBLICO NEL SETTORE CINEMATOGRAFICO E AUDIOVISIVO diFederica D’Urso, Iole Maria Giannattasio, Francesca Medolago Albani CINEMA ESPANSO 58 BARBIE, DIVA DAI MILLE VOLTI di Wendy Migliaccio 60 62 BED & CINEMA di Nicole Bianchi IL CINEMA CONTRO LA GUERRA di Cristiana Paternò DISCUSSIONI 64 SBAM! TANTO I FILM LI GUARDO SUL TABLET di Alice Bonetti 66 APOLLO, APPLE E GLI SCHERMI RAPITI di Stefano Stefanutto Rosa Felice Laudadio, Andrea Mariani, Luca Mastrantonio, Francesca Medolago Albani, Wendy Migliaccio, Giona A. Nazzaro, Valentina Neri, Valerio Orsolini, Ilaria Ravarino, Luca Maria Scarantino, Roberto Silvestri, Andy Ventura 70 STENO (STEFANO VANZINA) COME SI DEVE MORIRE AMMAZZATI DA “QUARTA PARETE”, 25 OTTOBRE 1945. di Andrea Mariani FOCUS EGITTO di Roberto Silvestri 73 EGYPTIAN WAY OF LIFE 78 UN CINEMA DIVERSO PER L’EGITTO DEGLI ANNI 2000 di Diaa Hosny INTERNET E NUOVI CONSUMI 80 SENZA PAROLE. IL CODICE VISUALE DEGLI EMOJI di Carmen Diotaiuti Progetto Creativo 19novanta communication partners Creative Director Consuelo Ughi Designer Claudia Antonazzo, Giulia Arimattei, Matteo Cianfarani, Valeria Ciardulli, Lorenzo Mauro Di Rese, Giulio Dallari, Maria José Prieto Fernández GEOGRAFIE PUNTI DI VISTA 82 LA BELLEZZA DELL’ITALIA di Nicole Bianchi 92 IDEOLOGIA ITALIANA di Girolamo De Michele 94 FARE UN FILM È LOTTARE PER IL MIO PAESE di Laura Bispuri BIOGRAFIE LAVORI IN CORSO 84 QUESTIONE DI SGUARDI di Cristiana Paternò 96 ANNIVERSARI 86 A 50 ANNI DA DJANGO 87 IL MITO E LA MATRICE di Mimmo Gianneri 90 IN THE DJUNGLE DEL CINEMA POPOLARE di M.G. Stampa ed allestimento Arti Grafiche La Moderna Via di Tor Cervara, 171 00155 Roma Distribuzione in libreria Joo Distribuzione Via F.Argelati, 35 - Milano Registrazione presso il Tribunale di Roma n° 339/2012 del 7/12/2012 Direzione, Redazione, Amministrazione Istituto Luce-Cinecittà Srl Via Tuscolana, 1055 - 00173 Roma Tel. 06722861 fax: 067221883 [email protected] www.8-mezzo.it Chiuso in tipografia il 29/02/16 RICORDI PER ETTORE SCOLA RICORDI 4-5 di FELICE LAUDADIO U n anno fa, il 10 gennaio, se ne andava Francesco Rosi, un pezzo importante del cinema e della sua storia, non solo italiana. Ettore Scola, altro pilastro di quella stessa storia, lo ha raggiunto il 19 gennaio di quest’anno. Li aspettava Federico Fellini per festeggiare il suo compleanno, il 20 gennaio, con i suoi due grandi amici. Con la loro scomparsa il nostro cinema – che grazie a Rosi, a Scola, a Fellini e a pochissimi altri si è imposto a livello internazionale – diventa ancora più povero. Sembra banale dirlo, ma è profondamente vero. Guardatevi intorno… I tanti spettatori, baresi e non, che in questi ultimi anni hanno avuto la possibilità di conoscere, di frequentare, di parlare con Scola nel suo ruolo di presidente del Bif&st-Bari International Film Festival hanno avuto modo di apprezzare la sua semplicità, la sua naturale eleganza, la sua totale disponibilità. E la sua intelligenza. Mancherà a loro come già manca, e tantissimo, a noi che non potremo più contare sul nostro capitano. Ma ritroveremo Scola negli eventi del tributo che, nostro malgrado, stiamo preparando per ricordarlo al Bif&st 2016. In parallelo con l’omaggio, già da tempo previsto, al suo attore-feticcio, Marcello Mastroianni, che Ettore aveva diretto più di chiunque altro, in nove film e in un film a episodi: 8½, tanto per evocare Fellini, al quale aveva dedicato l’ultima sua opera. Pochi sanno che l’Ettore Scola privato era uomo dalle amicizie salde e lunghe nel tempo, alla cui tenuta contribuiva con sobrie telefonate, sporadici incontri conviviali e discretissime incursioni nelle “vite degli altri”, soprattutto nei momenti del bisogno, quello degli altri. Mai del proprio. Ed era umile. Ero con lui quando il direttore di questa rivista lo chiamò, a metà gennaio, per offrirgli una laurea honoris causa. Ne fu sobriamente lusingato ma non disse sì. “Vedremo”, disse a Gianni Canova, chissà... Talora sornione, e solo in apparenza cinico, Ettore possedeva un’inclinazione naturale all’ironia e all’autoironia che lo rendeva immune dai sentimentalismi e dalle chiacchiere vuote o ipocrite. Chi a Bari ha partecipato alle sue tante lezioni di cinema sa di che parlo. Animato da una forte passione civile, e capace di profondi e autentici slanci di accesa indignazione politica e culturale, Scola si ritrovava permanentemente in prima linea nelle battaglie in difesa di valori essenziali quali la libertà di pensiero, la solidarietà, la democrazia, l’antifascismo, l’antirazzismo, il rispetto della Storia, il di- ritto al dissenso, l’egualitarismo, la partecipazione. E i giovani. Valori che, in linea con una coerenza mai venutagli meno, stanno a fondamento dei suoi film, ne sono anzi i principali ingredienti. La sua scomparsa ci rende tutti molto tristi. Ma c’era qualcosa che covava sotto la sua franca risata. Avevo notato che da qualche tempo, nella sua vena d’innata ironia e di sottile disincanto, si stava incuneando una sotterranea screziatura composta da un tanto di melanconia e da un tanto di disillusione. Scola, come altri intellettuali della sua generazione, ha sempre creduto, operato e lottato per “un mondo nuovo” da costruire con impegno, passione, sacrificio, militanza, entusiasmo, abnegazione, cultura. Ma le cose sono andate e stanno andando, secondo Scola, ben diversamente. Stanno vincendo, diceva, i particolarismi, gli egoismi, l’insensibilità, i fanatismi, il razzismo e una nuova, moderna ma non meno pericolosa, forma di fascismo insieme ad una incultura sempre più diffusa e ad una carenza della memoria storica di portata impressionante quanto devastante. Proprio quello che i suoi film, le sue storie, i suoi attori hanno sistematicamente denunciato – con uno sberleffo, un sorriso, una battuta o con un ironico e sobrio j’accuse – come pos- sibile e dunque temibile risultato e temperatura e condizione del tempo dell’indifferenza in cui viviamo. Un tempo che forse Ettore, col suo termometro culturale, sentiva sempre più estraneo. Così negli ultimi anni, a parte il film su Fellini, una superba regia lirica della Bohème e il suo attivissimo impegno annuale per il Bif&st, del quale nel 2010 aveva accettato d’essere il presidente, s’era rifugiato nei classici della letteratura e del pensiero greco e latino e in poche, intime, frequentazioni con amici fidati e di antica data. Ma senza mai perdere il contatto con la realtà e con la politica, nel senso più nobile di questa parola, e senza mai rinunciare ad occuparsi e preoccuparsi della sua stupenda famiglia della quale era, e si sentiva, il patriarca, legatissimo ai suoi cinque nipoti per i quali, sommessamente, stravedeva. Ma senza darlo a vedere. Un altro suo paradosso. Con lui perdiamo un amico, un compagno, un complice, e le nostre telefonate quotidiane, ma perdiamo anche il presidente artistico del Bif&st, straordinario valore aggiunto per il Festival di Bari. Dopo questa edizione 2016, al cui programma Ettore ha attivamente lavorato negli ultimi 10 mesi, ne sarà il presidente onorario. Ma l’onore sarà tutto nostro. SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? ICONOGRAFIE DELLA SOFFERENZA di GIANNI CANOVA n un testo di sette o otto anni fa, ma ancora attualissimo e per molti versi imprescindibile per capire cosa sta accadendo nel rapporto fra immagini e violenza, Susan Sontag notava come la fascinazione della violenza avesse ormai uguagliato se non addirittura superato la fascinazione dell’erotismo. C’è in giro più voglia di vedere gente che soffre – scriveva in buona sostanza la grande studiosa americana – che di vedere gente che gode. Il dolore degli altri ci eccita, ci attrae, ci incuriosisce. Come fosse il richiamo del sangue, o della foresta. Sarà capitato anche a voi di essere alla guida della vostra auto e di ritrovarvi all’improvviso in coda perché c’è stato un incidente. Ma non nel vostro senso di marcia, in quello opposto. In teoria non c’è nessun ostacolo nella carreggiata poco più avanti di voi. Eppure molti di quelli che vi precedono rallentano. Frenano. Si sporgono. Per guardare. “Circolare, circolare, non c’è nulla da vedere!”, si sgola un poliziotto ormai rassegnato alla vanità delle sue raccomandazioni. Gli automobilisti infatti frenano, e guardano. Ma cosa sperano di vedere dall’altra parte del guard-rail, tra lamiere contorte e lampeggianti di autoambulanze? Cosa desiderano verificare? Forse, vogliono semplicemente godere della propria immunità di fronte alla tragedia che ha colpito un altro, o gli altri. Lo diceva chiaramente Elias Canetti: la radice prima del potere è la sopravvivenza. Prima cosa: sopravvivere. Quando vediamo gli altri morire, intimamente godiamo di essere loro sopravvissuti. Vale anche per le immagini? Cerchiamo nella visione della violenza o della morte un esorcismo che allontani il timore che anche noi possiamo esserne vittime? “L’iconografia della sofferenza – scrive la Sontag – ha un lungo pedigree”: dal gruppo statuario che rappresenta il tormento di Laocoonte e dei suoi figli alle innumerevoli versioni pittoriche e scultoree della passione di Cristo via via fino all’inesauribile catalogo visivo delle persecuzioni e delle violenze inflitte ai martiri cristiani, tutta la storia dell’arte occidentale è segnata da un rapporto forte, recursivo e capil- I lare fra immagini e violenza. Che effetto si propongono di scatenare immagini simili? Probabilmente vogliono al contempo commuovere ed eccitare, istruire e dare un esempio. Si può dire lo stesso delle immagini mediatiche che documentano le violenze del nostro tempo? Che differenza c’è fra una decapitazione dipinta da Caravaggio e una filmata dai fanatici jihadisti del Califfato e diffusa in diretta sul web? Lo spettacolo della violenza anche più efferata allestito quotidianamente dal sistema mediatico è paragonabile allo spettacolo della violenza che si celebrava nell’antica Roma, quando le teste decollate venivano impalate ai lati della strada per ammonire i passanti ad essere buoni cittadini, o nelle piazze parigine della Rivoluzione, quando le tricoteuses accorrevano ad assistere allo spettacolo della ghigliottina mentre erano intente a sferruzzare? Che differenza c’è fra ora e allora, ammesso che ci sia? Questo numero di 8½ si apre su questi interrogativi. Lo fa senza la pretesa di dare risposte univoche e definitive, ma anche con l’ambizione di offrire qualche contributo non occasionale alla riflessione. Il modo efferato con cui i nuovi terrorismi stanno producendo e diffondendo immagini “dal vero” segnate dalla violenza più insostenibile ci dice che le nuove guerre passano ormai – sempre più – anche dalla produzione e dalla circuitazione di immagini. Le quali non sono più esorcizzabili con la compassione che suscitavano in noi le immagini dei martirologi. Queste immagini suscitano piuttosto orrore, sconcerto, stordimento. Sono realizzate da professionisti consapevoli delle tecniche con cui innescare il latente sadismo dello spettatore e calibrate in modo che sadismo e patetismo si equilibrino. Forse, perfino in modo che si neutralizzino reciprocamente. Ma con quale obiettivo, in vista di quale reazione? Con quali effetti sulla vita quotidiana? Se è vero che le immagini della morte non sono la morte, è anche vero però che queste immagini alla morte ci vanno molto vicine. E a volte la producono solo per poter esistere, esse stesse, in quanto immagini. SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? 6-7 Dalla passione di Cristo alle violenze inflitte ai martiri cristiani, tutta la storia dell’arte occidentale è segnata da un rapporto recursivo e capillare fra immagini e violenza. Che effetto si propongono di scatenare? Lo stesso delle immagini mediatiche che documentano le violenze del nostro tempo? Che differenza c’è fra una decapitazione dipinta da Caravaggio e una filmata dai fanatici jihadisti del Califfato e diffusa in diretta sul web? LO SPETTACOLO DELLA VIOLENZA PERCHÉ CI PIACE AL SANGUE? Il tema è approfondito dal punto di vista di quattro esperti - un sociologo, un filosofo, una psicologa e un filmologo - per focalizzare come nella società contemporanea sia percepito, subìto, affrontato e quale sia il riflesso sui nostri comportamenti in base all’offerta mediatica dell’orrore. I L P U N T O D I V I S TA D E L S O C I O L O G O PEDAGOGIA DELLA MORTE di ALBERTO ABRUZZESE l dibattito attuale sullo scontro tra Occidente e islamismo terrorista non sfugge alla tradizionale opposizione tra amico e nemico, su cui si è da sempre fondata ogni forma di potere. La guerra altro non è che una variante della pace. Il terrorismo altro non è che rifiutare ogni mediazione e negoziazione tra pace e guerra. È un punto di vista “classico” ma non ce n’è uno migliore, a meno di non trovare un punto di vista sul potere in quanto tale e cioè sulla volontà di potenza dell’essere umano – persona, soggetto, gruppo, collettività, società – al di là dei valori da lui elaborati per legittimare le sue azioni, la propria identità e sovranità. Amico e nemico, allora, si specchiano uno nell’altro. Le retoriche sull’altro – anche quelle avanzate dall’umanitari- I SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? smo più acceso o dal più cieco fondamentalismo – sono un alibi per lo stato di necessità dettato dal desiderio di sopravvivenza di un’identità contro l’altra. L’emotività di cui si nutre il desiderio è dunque più forte di ogni ragione messa in campo. In base a questo punto di vista – così assente nel rumore di posizioni assunte, raccolte e sollecitate, dai media a proposito di Parigi e quanti altri trascorsi episodi di morte – mi pare ragionevole sostenere la tesi che, per affrontare il senso da attribuire all’odierna sovraesposizione mediatica della violenza e della sofferenza umana, è necessario liberarsi degli stereotipi dell’umanesimo, dunque della lunghissima durata delle sue ideologie. Superata la falsa coscienza umana su cui tali ideologie, ivi comprese quelle religiose, si fondano e su cui si fondano la società e la politica, va riconosciuto che la percezione della violenza e la percezione della sofferenza non sono strettamente connesse tra loro o meglio lo sono ma per così dire ignorandosi a vicenda l’una con l’altra. Se ci si vuole liberare di ciò che la falsa coscienza ci detta bisogna accettare l’idea che la sofferenza è sentimento che prova chi subisce la violenza assai più di chi la impone. La certezza nei valori che giustificano la violenza ottunde la cognizione del dolore che essa produce non solo in campo nemico ma anche amico. Che la morte faccia spettacolo lo si sa da sempre: a partire dal mondo antico sino alla Rivoluzione francese; ma – dopo che i regimi nazionali occidentali si sono “lavati le mani” nel sangue delle loro immani stragi novecentesche – lo stile della propaganda democratica ha adottato varie forme censorie sulla sofferenza umana prodotta in pace e in guerra, affi- dando all’immaginario dell’industria culturale, allo spettacolo di fiction, ai consumi del tempo libero, il piacere istintivo per la morte dal vivo provato dal “popolo” e cioè da quella indomabile volontà di violenza repressa dalle regole civili della cittadinanza. Nel popolo di una nazione e/o di una etnia c’è un tale profondo risentimento per la propria sorte ricevuta, per la sua esistenza di suddito, da gioire di ogni rito sacrificale. Niente di peggio che mettersi a fare la morale sulle forme di diffusione e consumo delle scene di sangue, dolore e morte di cui il mondo abbonda sempre più, forse, ma che soprattutto e certamente sempre più rende visibili, accessibili ad ogni età e sesso, in ogni luogo e momento. E comunque chi davvero dispone ancora di una morale certa, proponibile qui e ora, prima di esprimersi farebbe bene a riflettere meglio di quanto si faccia di fronte alla complessità del giudizio da dare. Considero Roberto Maragliano uno tra i docenti di pedagogia più sensibili alla dimensione informativa e formativa dell’intrattenimento in rete, piattaforma espressiva che – per vocazione stessa dei linguaggi digitali, multimediali e interattivi – risulta assai più rivolta alla singola persona piuttosto che direttamente al soggetto socialmente irreggimentato e corazzato. Recentemente ha scritto questo su Facebook: “Leggo su ‘Repubblica’ del 19.11.15 quanto sostiene Daniel Pennac in relazione ai tragici fatti di Parigi: ‘Purtroppo viviamo in una so- cietà che adora filmare la propria morte in diretta per farne un oggetto di consumo. Questa spettacolarizzazione sfrutta, nega e desacralizza un dolore che invece dovrebbe essere sacro’. Vi risparmio il resto, dove, com’è prevedibile dalle premesse, si accusano i media di essere agenti di spettacolarizzazione dell’oscenità”. Al contrario Maragliano, pur ragionando sul rapporto tra visibilità e insieme rimozione della morte, ragiona in una direzione opposta. “Personalmente ho cercato di dare una risposta ad un simile impegnativo interrogativo con l’attraversare i pensieri di Ariès, Elias, Morin sul tema della rimozione del senso di morte e l’associarne l’analisi al tema della rappresentazione cinematografica, secondo un’angolazione che mi ha indotto a cogliere nel cinema un luogo di compensazione di un così drammatico ‘vuoto’. Per questo ho parlato di una pedagogia attiva della morte, attribuendone il merito, guarda un po’, proprio ai media che così imbarazzano Pennac, nel mio caso il cinema”. Credo che ci si possa spingere ancora più avanti, affrontando la crescente rimozione della morte narrata dai media. Narrazioni sono le informazioni così come le fiction televisive. Dunque è su queste manipolazioni narrative che dovremmo riflettere: le une e le altre rimuovono la morte o la 8-9 società per soddisfare lo spettatore. È questa soddisfazione che cercano le persone quando si affollano sui piccoli e grandi schermi di morte. È la rimozione che fa piacere. C’è dunque una scelta nel consumo della rimozione e del suo uso. Seguendo questa traccia, potremmo inserire la fortuna pubblica e privata delle immagini di terrorismo islamico e guerra occidentale nel quadro di altri fenomeni mediatici: penso al gioco d’azzardo, alla serialità e ai videogiochi di ultima generazione, alla pornografia in rete. Sono tutti fenomeni in vertiginosa crescita – qualitativa e quantitativa – che manifestano il prepotente desiderio personale di sottrarsi al tempo storico, alla società, al suo senso anzi ad ogni suo significato. Forme di consumo spintesi al massimo di dissipazione della civiltà e del soggetto moderno: piattaforme espressive che si sono evolute per ridurre a nulla il tempo sociale. Abbandonarlo al suo destino. I L P U N T O D I V I S TA D E L F I L O S O F O DALLA CARITAS AL PULP di LUCA MARIA SCARANTINO “…Ad illum animo inardescas, cuius imaginem videre desideras…”. Roma, anno 599. Mentre l’Oriente latino prepara il bando di tutte le immagini religiose, in Occidente Gregorio Magno enuncia in alcune lettere pastorali uno dei tratti fondamentali della nascente cultura europea: la forza emotiva delle immagini e la loro capacità di “accendere” l’animo di chi le contempla. Da subito, questa carica emozionale si snoda lungo un duplice binario: l’amore materno della vergine e la bestialità del Cristo in croce, la violenza primordiale dell’uomo crocifisso, gli occhi spiritati, la corona che trafigge la carne, le ferite che lacerano il corpo. Inardescere, accendersi di passione e fervore religioso, attraverso la visione del corpo straziato sulla croce. Entrano in tal modo nel codice figurativo dell’Occidente due dinamiche spirituali in conflitto, ma compresenti nel processo di costruzione della cultura euro- pea: l’amore universale e inclusivo, la caritas in cui l’ego si apre, si converte e si trascende nell’oggetto del proprio amore; e la reificazione dell’uomo, il disumano “tu no” che respinge ed esclude l’altro dalla comunità, lo isola, lo costringe al silenzio, lo priva di personalità, di parola, di vita. Lo violenta, direbbe Hannah Arendt. Nell’intreccio di questi due processi, la raffigurazione della violenza è stata a lungo utilizzata per intimorire e mantenere l’ordine, il controllo e la coesione sociale. È avendo in mente l’immagine archetipale del Cristo – l’uomo solo, morente nell’assoluta incomunicabilità della croce – che l’Occidente metterà in scena le forme più orrende di violenza santa e “purificatrice”, rispecchiandosi nel truce spettacolo degli autodafé, nelle torture di volta in volta più atroci che accompagnano i roghi, le bolliture, gli squartamenti; e che farà un uso pervasivo delle immagini come luogo di costruzione di un co- mune e irrefutabile sentire. Su di esse ha così preso forma una vera e propria comunità emozionale, in cui questa violenza giustiziera e catartica si mette fieramente in scena, con stili, finalità e tonalità assai diverse e variabili: dalle onnipresenti raffigurazioni dell’inferno medievale alla spettacolare serialità giustiziera nella Parigi rivoluzionaria, sino alle innumerevoli declinazioni della violenza individuale e collettiva di cui si nutre la moderna società dell’immagine – mentre viene sottratta allo sguardo pubblico la violenza più lurida e oscena, chiusa in campi recintati e inaccessibili ai bravi cittadini del Reich, confinata all’interno degli stadi cileni, negli scantinati dei castelli medievali come nei sotterranei dell’ESMA a Buenos Aires… La moderna comunicazione di massa riproduce questa condivisione emotiva in perfetta continuità con le raffigurazioni dei dannati visibili nelle cappelle del Medioevo latino. In tempo di SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? guerra (ma quale tempo non lo è, specie nella società della comunicazione globale?), scrive Aldous Huxley, “i giornali sono pieni di notizie eccitanti, come se la vita fosse diventata un interminabile feuilleton”. È la voluttà delle emozioni violente, che ci fa sentire partecipi di un più vasto processo sociale: “emozioni di solidarietà, di vanto collettivo, di odio, di ‘santa indignazione’… Per coloro che non corrono un reale pericolo di venire uccisi o mutilati, la guerra è un tripudio emotivo, una specie di orgia, di saturnale… una guerra di breve durata rappresenta, per la maggior parte dei non combattenti, un piacere allo stato puro”. 10 - 11 È questa violenza sfrenata, pervasiva e onnipresente, divenuta presenza naturale e banale dell’immaginario occidentale, che viene progressivamente denunciata nel corso della modernità: dalle fucilazioni di Goya alla più recente cultura cinematografica, che portandone all’estremo le conseguenze ne rivela l’insensatezza, nel truculento realismo di Peckinpah come nella violenza pulp, esagerata e surreale di Tarantino, passando per la brutalità deviata e allo stesso tempo strutturale di Apocalypse Now o Full Metal Jacket… Possiamo concludere che la messa in scena della violenza è ormai tesa a mostrarne il nonsense, anziché a farne uso come di un qualsiasi dispositivo comunicativo? Certamente no, e non solo per il successo che riscuotono quelle raffigurazioni caricaturali di conflitti adolescenziali che sono gli odierni reality show; né per la crescente circolazione di hate speeches nel discorso pubblico e nei social media, con il loro sinistro corredo di immagini umilianti (quanti adolescenti sono oggi confrontati a fenomeni del genere?); né per il generale compiacimento di fronte alle immagini di cadaveri, mutilazioni e varia disumanità sparate a tutta pagina da quotidiani e siti web a ogni cataclisma, omicidio, o tsunami; quanto per la crescente legittimazione pubblica di quello spirito discriminatorio che credevamo appartenesse al passato. È nelle immagini dei gendarmi europei che alzano i manganelli contro i bambini rifugiati ai confini dell’Unione che ricompare l’eterno conflitto europeo tra la sacralità della caritas (o, nella sua versione moderna, dei diritti umani) e la chiusura tribale nei confronti di chi non condivide lo stesso sangue e lo stesso suolo. Se le immagini che ci giungono dai confini orientali dell’Europa hanno fatto il giro del mondo non è per la congiuntura storico-sociale che documentano, ma perché recano in sé l’annuncio di una civiltà europea che, di nuovo, si rivolge contro se stessa. I L P U N T O D I V I S TA D E L L A P S I C O L O G A GLI STANDARD DELLA COMUNITÀ di ELISA DIQUATTRO* osa spinge le persone a cliccare su “quel” video o bramare di guardare “quel” servizio televisivo, soprattutto se viene anche annunciato come qualcosa che potrebbe urtare la sensibilità? Quale parte inconscia vibra in quel momento? Le immagini, come gli odori e i sapori, arrivano prima a contattare il nostro inconscio e quindi hanno un’azione immediata su di noi, vanno a pescare delle parti nascoste, a far vibrare le nostre parti in luce, come le nostre zone d’ombra. Alcune ricerche mostrano come l’esposizione a scene di violenza modifichi in senso negativo la percezione della realtà, favorisca un’interpretazione del reale in chiave pessimistica. La variabilità delle risposte alle immagini violente dipende dal grado e dal tipo di elaborazione mentale che le persone vi dedicano. Nel sistema cognitivo i contenuti mediali violenti innescano due tipi di meccanismo: in alcuni individui attivano risposte razionali, tese ad elaborare modelli di comportamento idonei a fronteggiare analoghe situazioni di pericolo; in altri stimolano fantasie e pensieri ossessivi, che creano un clima psicologico di paura o preoccupazione. C Parto dall’osservazione di un post su un social network. Qualcosa di concreto, che succede a tutti, tutti i giorni, per poi capire me- *psicologa-formatrice, esperta in terapie vibrazionali, si occupa di percorsi di consapevolezza psicologica. Fondatrice di FormaMente Soc.Coop www.formamente.rg.it SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? glio l’aspetto teorico. Mi colpisce il post di una testata giornalistica, una di quelle che un tempo davano una certa affidabilità. Oggi osservo che, alcune testate, nella versione online, propongono articoli e immagini forse improponibili nella versione cartacea. Leggo con curiosità questa didascalia che accompagna il link di un video: “Il medico entra nella stanza e aggredisce il paziente: calci e pugni, fino a che non stramazza a terra, morto. [VIDEO] (Attenzione, immagini che potrebbero urtare la vostra sensibilità)”. Il punto non è più la notizia, che poteva rimanere tale senza dover vedere l’atto di violenza fino al culmine. Ma, mi domando: è realmente una notizia che ha bisogno di essere esplicitata con un video? A cascata, sotto il post, leggo i commenti incalzanti di alcuni lettori che, come me, avevano cliccato a suo tempo un “mi piace” su quella pagina, per avere ben altre informazioni. Tra i commenti, qualcuno scrive che il video è preceduto da pubblicità. Tutto cambia. Rifletto. Prendo atto dell’inevitabile, e ormai sempre più diffuso, binomio di derivazione televisiva: violenza=audience, a cui ci hanno abituato sotto la falsa veste di cronaca giornalistica. Questo post mi dà la possibilità di vedere come il fenomeno-violenza sul web sia molto più “usa e getta”. Funziona così: cinque minuti di violenza, preceduta da uno spot pubblicitario, e il gioco è fatto. Mi addentro nella questione e volutamente osservo l’andamento della discussione: alcuni consigliano di segnalare il post con contenuto violento ai gestori del social network. Altri lettori considerano il video in questione solo cronaca e non così violento, giustificando il fatto che ormai siamo abituati a molto peggio. Altri ancora si addentrano nei particolari morbosi del video, descrivendone i dettagli. Procedo, come consigliato da alcuni, alla segnalazione del video ai gestori del social network in questione, certa di avere giustizia e ragione, e ricevo questa risposta via mail: “Abbiamo controllato la tua segnalazione del contenuto condiviso da (nome della pagina). Grazie per il tempo dedicato alla segnalazione di un contenuto che, secondo te, potrebbe non rispettare i nostri standard della comunità. Le segnalazioni come la tua sono fondamentali per rendere questo social network sicuro e accogliente. Abbiamo analizzato la condivisione che hai segnalato per la presenza di violenza esplicita e abbiamo stabilito che non viola i nostri standard della comunità”. La mia armatura da paladina del bene viene in un attimo polverizzata. Mi prendo i ringraziamenti per una collaborazione che risulta inutile, perché gli standard di “violenza” sono ben altri secondo la suddetta “comunità”. Rimango basita e con un senso di impotenza, che mi fa capire come il concetto di “violenza” vada nuovamente rivisto e riformulato per l’intera “comunità”. Iniziano a riaffiorarmi studi di psicologia sociale e mi rendo conto che c’è ancora tanto lavoro da fare. Così, la domanda si rinnova: perché questa attrazione fatale per le immagini con violenza? Ecco, in sintesi, come alcuni studi e teorie hanno cercato di spiegare gli effetti dei contenuti violenti dei media: La Teoria della Catarsi. Gli spettatori si identificano con i protagonisti delle scene violente per la necessità di scaricare, attraverso di essi, le proprie tendenze aggressive. La Teoria del Modellamento sociale di Bandura. Le persone imparano non solo per effetto di ciò che sperimentano direttamente, ma anche attraverso l’osservazione e l’imitazione di modelli, ossia di rappresentazioni semplificate della realtà che suscitano l’emulazione. La Teoria del Transfer di Eccitazione di Zillmann. L’esposizione a scene di violenza in tv produce uno stato di attivazione fisiologica identificabile come Eccitazione. Una volta spenta la tv lo stato di eccitazione innescato permane e si riversa nelle situazioni di vita reale: l’individuo reagisce con maggiore aggressività verso gli altri e/o verso se stesso. Queste ricerche ci fanno riflettere sulla forte influenza che hanno i media sul nostro vissuto perché veicolano modelli, forniscono informazioni e producono cultura, influenzano scale di valori e sche- 12 - 13 mi di vita. Ciò che si può apprendere dai modelli che ci vengono proposti dai media può rimanere sommerso per riemergere solo quando l’osservatore è arrabbiato o vuole averla vinta. L’utilizzo di immagini positive o negative lavora nel nostro inconscio. La buona notizia è che proprio come i modelli aggressivi possono accrescere l’aggressività, così i modelli non aggressivi possono farla diminuire. Sta a noi sviluppare uno spirito critico alla luce delle teorie esposte. I L P U N T O D I V I S TA D E L F I L M O L O G O VIOLENZA DOC di GIONA A. NAZZARO aradossalmente, bisognerebbe dichiarare che la realtà non esiste. Ossia che la realtà è stata discontinuata dall’immagine che la riproduce. L’immagine della realtà, infatti, non corrisponde mai alla realtà in quanto tale, essendo più che altro un suo segno, una sua eccezionalità. Un suo momento unico e irripetibile. Di conseguenza, si giunge quasi inevitabilmente alla conclusione che il documentario, in quanto genere cinematografico che riproduce la realtà, non esiste. Ciò che crea sempre problema, nelle riflessioni che si portano sul cosiddetto cinema del reale, è l’idea che il documentario, essendo privo di messinscena (luogo dove la finzione non esiste), sia, immediatamente, un’immagine diretta, non riprodotta della realtà e dunque della verità stessa che la alimenta. Un’immagine non prodotta da nessun lavoro. Un equivoco di matrice idealista P che tende a separare le cose del cinema in un regno della finzione e in un regno della verità, ossia del reale. Una sorta di mondo assoluto. Al di là dei conflitti. In realtà, come dimostra il caso dei Lumière, il cinema nasce documentario e produce la finzione come sottogenere della realtà. Laddove nel cinema di finzione esistono differenti tradizioni testuali di messinscena, nel cinema documentario si continua a ignorare che esiste, per quanto apparentemente meno rapidamente verificabile, una tradizione testuale altrettanto forte e strutturata. a uno sguardo attento non sfugge che oggi, più che mai, esiste una vera e propria tassonomia dei generi “documentari”). Questa molteplicità si offre oggi come snodo politico vitale, e cruciale al tempo stesso, nel momento in cui si tenta di raccontare, meglio: mettere in scena, i cortocircuiti del reale. I nodi in cui la contemplazione cede il passo all’osservazione e, eventualmenLa rapidità delle trasformazio- te, a un intervento politico dettato ni del dispositivo di riproduzione dalla presenza e dalle articolazioni ha solo fatto sì che l’approccio al di uno sguardo critico. mezzo tecnico fosse ancora più diretto e che gli sguardi sul mondo, Affrontato in tempi non sospetpur moltiplicandosi, diventasse- ti da Ross McElwee in Six O’Clock ro ancora più singolari (anche se News, il problema della violenza, SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? che The Look of Silence sia letteralmente il film con il quale Oppenheimer corre ai ripari per ri-raccontare la medesima storia dalla parte delle vittime. protagonista Kate si smarrisce nei meandri dell’immagine di Christine), Greene giunge al porre se stesso, e l’eventuale spettatore, di fronte alla domanda ineludibile: perché vuoi vedere questo film? Perché lo stai vedendo? e della sua rappresentazione, si fa più complesso nel momento in cui da un lato c’è un moltiplicarsi esponenziale delle possibilità di attingere a immagini non censurate, orizzontali, e dall’altro una sempre maggiore strutturazione verticale, ossia ideologica, delle fonti e delle notizie. E della loro immagine. Robert Greene, nome di punta della nuova onda del cinema “documentario” statunitense, in Kate Plays Christine (2016) mette in scena la ricostruzione del suicidio di una anchorwoman di una televisione locale di Sarasota, in Florida. Fra indagine giornalistica e traslazioni soderberghiane (la Ed è esattamente questa domanda che Joshua Oppenheimer non si è posto a sufficienza mentre realizzava The Act of Killing e che invece Gianfranco Rosi ha affrontato con straordinario acume filosofico e critico per El Sicario Room 164. Se l’idea di partenza di Oppenheimer, realizzare un documentario “impossibile” sull’immaginario di assassini di massa permettendo loro di mettersi in scena non è priva di implicazioni appassionanti (ma la cosa la si può e poteva osservare all’opera nel film mai concluso dai nazisti su Theresienstadt), dall’altro fallisce nel momento in cui letteralmente costringe coloro che hanno subìto la violenza a rivivere per la seconda volta, per il film, ciò di cui sono già stati vittime. Non è un caso 14 - 15 e i corpi che filma, permettendo che la sua macchina sia abitata e posseduta mentre il suo sguardo continua a osservare implacabilmente, lascia che la sua posizione di narratore privilegiato sia agita. Ciò che vediamo sullo schermo è la tensione di questa manipolazione dei corpi oggetto e protagonisti del film e ciò che lo sguardo del regista riesce a documentare di questo “conflitto” territoriale. Si tratta di una messa in pericolo del lavoro del cineasta, un passare letteralmente dall’altra parte come differenza filmica e non più come presunta verità assoluta. La presenza dell’atto del filmare non è più segno di una verità ma di una differenza; una differenza che non si ricompone (più) dialetticamente ma che si può esperire solo attraverso una violenza (quella del passaggio dall’altra parte) della quale lo sguardo rende conto, per quanto riguarda lo spettatore, come mancanza. Se Eyal Sivan non ha torto nel dichiarare che il documentario è la chiesa laica del cinema, e che l’unica cosa interessante è filmare il male dalla parte di coloro che lo commettono, allora Rosi offre di questa posizione, con El Sicario, una formulazione di sconvolUna mancanza che ci suggerisce, gente giustezza. in fondo, che la verità è il falso proLa mano dell’assassino traccia sul- blema per eccellenza del docula carta ciò che non si può vedere mentario. Il “documentario” è una e il fatto che il suo volto sia coper- posizione critica. Un’etica del fare to induce uno stato di disagio, so- che trova il suo posto, nel mondo e spensione dell’incredulità, che fra i materiali del reale, come possi riflette sullo statuto narrativo sibilità di uno sguardo chiamato a del film e per estensione del cine- rinnovarsi instancabilmente; coma stesso. Cosa stiamo vedendo? me posizione di una produzione Questa domanda sullo statuto del del lavoro; unica condizione posdocumentario, che ne investe la sibile per continuare a corteggiare verità data per scontata a priori, è lo “splendore del vero”. una posizione etica problematica e aperta, che permette al film di nutrirsi di un’ambiguità che ne sostanzia la fondamentale “verità”. Roberto Minervini con Louisiana – The Other Side procede nella direzione opposta. Abbattendo la barriera fra il suo dispositivo DANZA MACABRA La violenza come spettacolo al cinema: da Jacopetti allo Snuff movie di ANDREA GUGLIELMINO sale cinematografiche “ Lesinumerosissime pongono come serie di luoghi oscuri nei quali si celebrano le varie forme dell’attuale culto della morte. Dai film dell’orrore ai film gialli, ai film di fantasmi, ai film apocalittici, lo schermo cinematografico ci riserva innumerevoli scene di morte, migliaia di cadaveri, folle di fantasmi, atti a conferire brivido e sensazioni alle nostre giornate ritenute altrimenti insopportabilmente scialbe ” parlare così è l’antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani, nel libro Nel labirinto – Itinerari metropolitani’. Ben due capitoli sono dedicati parzialmente al rapporto tra l’antropologia della morte e il cinema (La città, la morte e il trucco e il significativo Nostalgia della morte, dove viene analizzato in particolare il film Ghost di Jerry Zucker): Satriani sottolinea la brama di informazione su eventi luttuosi e violenti, per transizione concettuale, da parte della società moderna, che da un lato allontana la morte come concetto universale, ma dall’altro, proprio a fini di esorcismo, la desidera visivamente, s’intende, come evento “scioccante”. Gli schermi diventano piccoli altari A dove si sacrifica quotidianamente il nostro desiderio di vita altrui, che diventa, inarrestabilmente, desiderio di morte altrui. Non solo nella cronaca: pensiamo all’abbondanza di serie televisive che trattano il tema da vicino. Il rapporto con la morte e la violenza si trasforma facilmente in pratica macabra di voyeurismo. La morte diventa spettacolo e, alle prese con gli obiettivi delle tecniche riproduttive, viene rigettata e perde le sue connotazioni sociali, le sue caratteristiche di evento che riguarda un intero gruppo, un’intera comunità e – in definitiva – l’umanità intera, dato che tutti dobbiamo affrontarla. Così le immagini di cadaveri, arricchite dal dettaglio della ferita e dello strazio, si astraggono dal contesto per diventare quadri surreali e in- decifrabili, dove la morte e la violenza diventano irrintracciabili. Come avviene negli horror di Lucio Fulci (da Zombi 2 a E tu vivrai nel terrore…L’aldilà, passando per Paura nella città dei morti viventi), quando la cinepresa stringe talmente tanto sul dettaglio sofferente, sulla ferita sanguinolenta, sull’arto mutilato, sull’occhio cavato, sulla piaga purulenta, da trasformare l’inquadratura in un dipinto colorato e “boschiano”, con l’effetto di trascendere il dolore e la sua estetica. Le immagini dei mass-media si impadroniscono della morte come di un accadimento imprevedibile, ne privilegiano gli aspetti truculenti e ne trascurano il valore di destino ineluttabile. La considerano così ideologicamente un’eccezione che riguarda alcuni sfortunati e non le attribuiscono alcuna funzione di esemplarità esistenziale, senza tentativo di capirla, magari accettarla, intrecciandola con la vita. Dal 2000 al 2011 ha incontrato particolarmente i gusti del pubblico la serie di film Final Destination (conta cinque capitoli, l’ultimo del 2011), che si basava moltissimo su questo concetto. Il canovaccio vedeva un gruppo di persone (solitamente studenti e teenager, idealmente lontani dal “momento fatale”) sfuggire a un destino letale in un tragico incidente, per casualità. Ma poi, piano piano, Signora Morte (mai mostrata personificata), se li riprendeva tutti, con una serie di violentissime concatenazioni di eventi che portavano al decesso – violento – di ciascuno di loro. Le dinamiche erano quelle dei car- SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? toni animati di Wile E. Coyote, dalla caduta di un peso dall’alto all’impatto con la metropolitana, solo che, chiaramente, i protagonisti perdevano sangue, interiora, e morivano. Però il pubblico rideva ugualmente, perché stava capitando ad altri. Ma la “finzione” non sempre è scontata. E lo schermo svolge la sua azione di “filtro” anche quando non è dichiarata. Se oggi ci si limita a “simulare” il documentario-verità con tecniche narrative molto specifiche, come la camera a mano che fa sembrare il film girato da qualcuno direttamente al centro dell’azione – The Blair Witch Project, Rec, Trollhunter –, negli Anni ’70 e ‘80 il cinema d’exploitation (quello, per farla breve, dove il contenuto “scioccante” appariva più importante della qualità visiva e narrativa) ha provato a vendere direttamente per veri alcuni prodotti basati appunto sulle presunte riprese “dal vivo” di scene violente e raccapriccianti. Quanto ci fosse di reale è ancora oggetto di discussione. Il più conosciuto esempio è certamente Mondo cane di Gualtiero Jacopetti, tanto che questo genere di pellicole prenderà poi il nome di “Mondo movies”, in riferimento all’archetipo: pseudo-documentari che trovano il loro fulcro su argomenti sensazionalizzati, come le usanze esotiche internazionali – e in particolare quelle sessuali più bizzarre – e scene di morte e violenza uniche ma realistiche. Dal 1978 con il film Le facce della morte il genere iniziò poi ad approdare sempre più gradualmente alla violenza e ai rituali di morte delle tribù sottosviluppate. Se ne vedono di ogni, dagli animali massacrati al sacrificio umano con orgia annessa di una setta, all’esecuzione di un condannato in una camera a gas. Grandissimo successo anche per questa serie che generò sequel fino al 1999, e trovò eredità ideale nella serie Guinea Pig (dal 1984), il cui secondo episodio, l’efferato Flower of Flesh and Blood, dove viene fatta a pezzi una ragazza, divenne famoso quando l’attore Charlie Sheen, avendolo visionato e credendo di trovarsi di fronte a un autentico snuff-movie (ovvero un filmato pornografico, ovviamente illegale, che prevede reali sequenze di omicidio e tortura), lo denunciò all’FBI mettendosi a capo di una crociata contro la serie. Episodio – o forse trovata di marketing – simile a quello che capitò al nostro Ruggero Deodato quando uscì Cannibal Holocaust (1980), imparentato con i “Mondo” ma rivoluzionario nell’approccio, e che di fatto inaugurò il genere degli “shockumentary” e del “found footage”. Il film è stato aspramente criticato per le scene di violenza sugli animali (vere. Particolarmente impressionante lo sventramento di una testuggine, poi regolarmente consumata in pasto, dichiarò il regista) e, inizialmente, anche per quelle sugli “umani” (fasulle ma estremamente realistiche; restò iconica l’immagine di una ragazza indigena impalata). Complice il fatto che il regista aveva imposto al cast – tra cui un giovanissimo e sconosciuto Luca Barbareschi – di stare lontano dalle scene per un po’: la vicenda finì addirittura in tribunale nella convinzione che qualcuno ci fosse rimasto secco sul serio, e il film fu ritirato e censurato. Il già citato snuff necessita una trattazione a parte. Il termine è 16 - 17 sempre stato oggetto di controversie: esistono casi di morte in diretta, illegittimamente associati al genere (suicidi e omicidi in presa diretta, su filmati di pubblico dominio), ma i materiali audiovisivi pubblici veramente definibili come tali sono, come si può immaginare, praticamente introvabili. Né valgono gli esempi di alcuni assassini (tra i quali Armin Meiwes, Charles Ng e Jeffrey Dahmer) che hanno dichiarato di aver filmato i propri omicidi non a scopo di lucro, ma per trarre ulteriore gratificazione futura dalle loro gesta. Ciò che fa uno snuff, insomma, sarebbe la finalità: le vittime verrebbero uccise solo e specificamente per eseguire la ripresa, a scopo pornografico – e spesso, purtroppo, implicante anche la pedofilia – e poi magari smerciarla sottobanco a costi proibitivi. Una delle più massicce indagini sul tema fu effettuata nel 1994 dai giornalisti David Kerekes e David Slater. A seguito delle ricerche venne pubblicato il libro Killing for culture: Death Film from Mondo to Snuff. LE CURVE DEL DOLORE di VALERIO ORSOLINI La violenza come spettacolo in tv: da Alfredino a Quarto Grado alla seconda metà degli Anni ‘70 la televisione è obbligata a riformarsi, la concorrenza delle tv private costringe il servizio pubblico ad abbandonare lo stile pedagogico per uno più aggressivo, alla ricerca dell’ascolto. Nasce così l’infotainment, genere nuovo che unisce l’intrattenimento ad elementi propri del giornalismo. Comprende svariate tipologie di trasmissioni e format, da Mixer di Giovanni Minoli del 1980 fino alle attuali Striscia la notizia o Le iene, ma c’è un filone particolare che lentamente, inesorabilmente, si guadagna sempre più spazio nei palinsesti: quello che racconta la violenza, e il dolore da essa generato, nei casi di cronaca nera. Sono le persone qualunque, come a Erba, Cogne, Garlasco, ma anche volti noti, come la contessa Vacca Augusta, a essere protagonisti. Efferati delitti compiuti nella riservatezza di insospettabili mura domestiche diventano pubblici. La violenza in televisione non è mai mancata. Durante gli anni di piombo i telegiornali mostravano senza filtri i corpi straziati da sparatorie ed attentati terroristici: il corpo insanguinato del professor Bachelet sulle scale della Sapienza di Roma, i cadaveri dilaniati delle stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna, in barba a fasce protette e tutela della privacy, ma tutto ciò era confinato nel mondo dell’informazione. Tutto cambia il 10 giugno del 1981, alle 19 circa un bambino di nome Alfredo Rampi, “Alfredino”, cade in un pozzo artesiano: parte la corsa contro il tempo. La mattina dopo la notizia è su tutti i mezzi di comunicazione, la Rai manda una telecamera sul posto, che per i giorni successivi racconterà ogni dettaglio dell’angoscioso tentativo di salvarlo. Sui teleschermi si susseguono i pianti disperati dei genitori, i sovrumani sforzi di chi tenta di calarsi nel pozzo largo pochi centimetri: le grida, prima, ed i flebili lamenti poi, di Alfredino arrivano in diretta grazie ad un microfono calato nel pozzo per facilitare le comunicazio- D SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? Listino Prezzi della Morte “A Chi l’ha visto non c’è cachet, rimborsano treni e hotel e come extra al massimo puoi usufruire di qualche pizzetta in un buffet. Idem negli altri programmi Rai, nessuno ci ha mai offerto soldi. A Mediaset le cose funzionano molto diversamente. Esiste un tariffario abbastanza preciso. Si parte da 500 euro per i parenti alla lontana o gli amici di un indagato o un assassinato pagati da programmi come Domenica Live, Quarto grado, Mattino e Pomeriggio 5, per arrivare ai 30mila pagati alla moglie di Bossetti a Matrix, con varie sfumature di cachet nel mezzo”. Da “Il Fatto Quotidiano” del 24/10/2015, di Selvaggia Lucarelli: estratto dell’intervista al legale di un famoso caso di cronaca nera, che chiede l’anonimato per non coinvolgere i suoi assistiti. ni, la folla si raccoglie sul posto. Dopo un’incredibile diretta di 18 ore il bambino muore e la sperata favola di un salvataggio si trasforma in tragedia, ma una tragedia seguita da oltre 30 milioni di telespettatori. Il seme è piantato ormai, la televisione capisce che il dolore attrae lo spettatore e lo cattura. Poi l’Italia è passata per gli Anni ‘80, la tv berlusconiana, il Moige, e tutto si è edulcorato, patinato. Adesso non è più possibile vedere le vere, crude, immagini di quegli anni sui nostri schermi ultrapiatti. Adesso non si mostrano più i corpi straziati o il sangue in tv. Le facce vengono blerate, le voci alterate. Oggi l’attenzione si concentra su dettagli morbosi, macabre curiosità, insinuazioni e falsi misteri. La violenza in tv ha acquisito i tratti della fiction, ne ha sposato la ripetibilità, l’affezione alle vittime, ai personaggi e alle location e, giorno dopo giorno, è portato avanti il racconto dell’evento, in attesa della prossima prova schiacciante, della prossima sentenza (o della “prossima puntata”). In uno studio commissionato dall’Ordine dei Giornali- sti nel 2015 si evince che la cronaca nera e giudiziaria, o come la chiamano alcuni “la tv del dolore e della violenza”, occupa quotidianamente tre ore dei palinsesti televisivi italiani… e funziona!!! Il programma Storie vere nel 2013 parla di gente qualunque, persone vere appunto, ma così non decolla: l’anno dopo cambia linea e comincia ad occuparsi di cronaca, lo share passa dal 14% al 19%. La durata raddoppia, da 30 minuti ad un’ora e, nel 2015, supera spesso il 20%. Il programma di cronaca per antonomasia, Chi l’ha visto?, è seguito da più di 2.300.000 spettatori, con uno share che spesso passa il 10%, il doppio di quasi tutti i talk di politica, mentre Quarto grado si attesta attorno al 7%, più o meno i risultati di Crozza nel Paese delle Meraviglie. Lo stesso studio di cui sopra denuncia (magari in maniera partigiana) una minima presenza di giornalisti, tra conduttori, ospiti e opinionisti, in quegli stessi programmi che trattano appunto di cronaca, che raggiungono, nel migliore dei casi, il 20%, che scende al 5,9% di Domenica Live. Questo non garantirebbe il rispetto di regole deontologiche di cui la categoria si fa garante, mentre si popola di opinionisti, criminologi, avvocati, e magari gli unici giornalisti sono gli inviati spediti per settimane in posti isolati a cercare di costruire quotidianamente servizi su novità inesistenti o per fare dirette alle 23 da sperdute località deserte, come la ormai famosa chiesa di Ca’Raffaello di Badia Tebalda, nella speranza che Guerrina Piscaglia si materializzi improvvisamente dal buio circostante, magari proprio nei due metri quadrati illuminati dalle luci della troupe di turno. Non è chiaro in assoluto perché il pubblico si interessi così tanto delle disgrazie altrui, probabilmente per sentire meno il peso delle proprie in un’epoca dominata da una crisi, economica e valoriale, che sembra non avere fine. O magari è una ricerca istintiva della verità, la speranza ad oltranza che la giustizia prevalga. Per quanto riguarda i programmi tv, però, sembra proprio che l’unica verità ricercata sia quella del dato Auditel, e… che importa se il picco di ascolti arriva proprio mentre viene comunicato ad una madre attonita il ritrovamento del corpo della figlia senza vita. 18 - 19 JIHADISTI VIDEOMAKER LA VIOLENZA COME SPETTACOLO NEL WEB di BRUNO BALLARDINI er la prima volta nella Storia, il 17 settembre 2014, una guerra veniva preannunciata da un trailer. Lo spot da 30”, diffuso su internet da al-Hayat, una delle due principali case di produzione dello Stato Islamico, mostrava scene di quello che sarebbe diventato presto il film più celebrato della nouvelle vague imminente: il “cinema” dello Stato Islamico. Più beffardo di una formale dichiarazione di guerra, ma anche perfettamente in linea con l’uso che l’ISIS avrebbe poi fatto dei media, il trailer si concludeva con la scritta in sovrimpressione: “Prossimamente su questi schermi”. P Due giorni dopo, puntuale come in un media plan, usciva il documentario Flames of War (“Fiamme di guerra”) della durata di 55’14”, girato ed editato in modo magistrale. In realtà, l’ISIS aveva già iniziato a invadere internet con una produzione sempre crescente. La vera dichiarazione di guerra all’Occidente era già stata mandata in onda: Clanging of the Swords (“Il clangore delle spade”) uscito il 17 maggio 2014 e prodotto da al-Furqan, l’altra major ufficiale dell’ISIS. Ma la nostra stampa non ci fece caso. Eppure, militarmente e mediaticamente, l’ISIS esisteva dal 2006 e intorno ad esso ruotava un’enor- me galassia di case di produzione video e multimediali. Ad al-Furqan, fondata il 31 ottobre 2006, si sono aggiunti via via nuovi gruppi media come l’al-Etisam Institute, Aamaq Institute, al-Battar, Dabiq Media, al-Khilafah, Ajnad, al-Ghurabaa, al-Israa, al-Saqeel, al-Wafaa, Nasaaim Audio Productions, e una manciata di altre piccole sigle nelle province controllate, come al-Barakah e alKhair. Chi ha coordinato e distribuito tutte le produzioni, fin dal febbraio del 2006, è stata la rete di al-Fajr. Si conosce molto poco di questa organizzazione, se non il fatto di aver smistato con grande efficienza i materiali e, prim’ancora, di aver validato la loro autenticità, controllo fondamentale per parare i tentativi di contro-propaganda da parte del nemico. Tutti i comandi regionali dello Stato Islamico in Iraq, o di al-Qaeda nella terra Islamica del Maghreb (AQIM), come lo stesso comando centrale di al-Qaeda, si sono appoggiati su al-Fajr per la distribuzione dei loro prodotti, esattamente come avviene nel nostro cinema. La sempre maggior frequenza delle trasmissioni ha mostrato subito tutta la potenza di fuoco dell’ISIS ma i nostri media generalisti l’hanno per così dire “scoperta” solo all’inizio dell’estate del 2014 con i video SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? degli sgozzamenti che, peraltro, costituiscono la parte meno significativa di tutta la produzione. Non si può ridurre tutto a “scene cruente e uso di effetti speciali”. È evidente la mano di grandi professionisti. Oltre a tecniche di ripresa che la stampa ha definito “hollywoodiane”, oltre all’uso degli stessi software con cui, nelle scene del serial televisivo Fringe, venivano inserite scritte in 3D come se fossero oggetti reali (vedi Join The Ranks, “Unitevi alle truppe”, prodotto da al-Hayat e uscito il 22 luglio 2014), le novità vere sono altre. Fra tutte: 1) la presenza costante di un operatore video dietro ad ogni mujaheddin, per portare letteralmente lo spettatore in mezzo alla battaglia; 2) l’abitudine registica di impie- gare anche tre macchine da presa; 3) l’abbattimento del confine fra sceneggiatura e realtà: Abu Muslim from Canada (“Il Musulmano Canadese”) uscito nel luglio del 2014 è ufficialmente il primo esperimento di snuff movie. La sceneggiatura racconta la storia del fighter “venuto da lontano” e ovviamente il piano di lavorazione stabilisce fin dall’inizio che debba morire. Il ragazzo “recita” così la sua stessa morte e ricompare nel finale con voce filtrata da reverbero, come se parlasse dall’aldilà. Sono numerosi gli esempi di questo genere particolarmente gradito al pubblico locale per cui vengono allestiti maxi schermi nelle piazze principali delle città. Il culmine, si raggiunge con gli abilissimi tagli d’inquadratura su impercettibili movimenti facciali “rubati” al pilota giordano Muath Safi Yousef al-Kasasbeh, su cui sarebbero state costruite poi artificialmente, in post produzione, le sue espressioni di pentimento, prima di mandarlo al rogo in Healing of the Believers’ Chest (“Guarire il petto dei credenti”) uscito il 3 febbraio 2015 con al-Furqan; infine 4) la creazione di un vero e pro- 20 - 21 prio palinsesto, speculare a quello delle nostre tv, con gli stessi format (telegiornali, documentari culturali, cinema educativo, spot pubblicitari). Con questo complesso dispositivo, migliaia e migliaia di account Twitter hanno attaccato “a sciame” i nostri media travolgendoli letteralmente. Oggi, il fronte mediatico del Califfato sta riorganizzandosi abbandonando la centralizzazione delle risorse a favore di case di produzione regionali. Per una completa filmografia della “prima stagione”, iniziata nel maggio del 2014 e terminata a fine gennaio del 2015, corredata da schede e analisi dei video, rimando al mio ultimo libro: ISIS® il marketing dell’Apocalisse, pubblicato da Baldini & Castoldi. LA BANALITÀ DEL MALE LA VIOLENZA COME SPETTACOLO NELLA REALTÀ di CRISTIANA PATERNÒ on è tanto il naufragio con spettatore di Lucrezio, il tanto citato suave mari magno, in cui è il sollievo dell’incolumità di fronte alla tempesta a darci un dolce piacere. Le disgrazie ci attraggono davvero. È innegabile anche se duro da ammettere. Non solo al cinema, dove la violenza, insieme al sesso (ma spesso anche di più) sembra essere la molla fondamentale che incolla lo spettatore allo schermo. Ma anche - anzi soprattutto - nella realtà. Ci fermiamo a osservare le vittime di un incidente stradale e non stacchiamo gli occhi dai Tg che rimandano all’infinito le nefandezze del quotidiano e gli orrori della Storia all’ora di cena come un tempo i nostri predecessori si affollavano attor- N no al boia o ai piedi della ghigliottina. Non sono forse stati proprio i giacobini a teatralizzare l’agone politico, e tagliare la testa agli sconfitti (ma in modo organizzato e razionale grazie all’invenzione “pulita” del Dottor Guillotin), preludendo atrocemente alle decapitazioni che la propaganda di Daesh fa rimbalzare oggi nella rete? Queste immagini ci catturano, ci ipnotizzano, ci restano impresse indelebilmente nella retina, amplificano la loro portata a dismisura diventando appunto strumento di propaganda. Ci indignano e ci atterriscono, ma anche, subdolamente, ci affascinano. Il confine tra il vero e il falso si fa sfumato e quasi sempre indistinguibile. Poco dopo le aggressioni avvenute la notte di Capodanno a Colonia in Germania, comincia a circolare un video, girato con un telefonino, in cui si vede una donna bionda circondata da decine di uomini che la molestano e la stringono impedendole di muoversi: la donna è disperata e lo spettatore immagina di assistere a qualcosa di molto vicino a uno stupro di gruppo, il video diventa virale. Viene preso sul serio e il telegiornale de La7 lo mostra come prova di quello che è accaduto a Colonia, come uno dei 516 casi di violenza della notte di San Silvestro, vari quotidiani online lo riprendono a loro volta. In effetti il filmato – che “sarebbe” stato registrato non a Colonia ma a Piazza Tahrir, in Egitto, nel 2012 (però il condizionale è d’obbligo) – ha suscitato un interesse piuttosto morboso, anche perché non aggiungeva molto alla conoscenza dei fatti. Anzi, come ora sappiamo, disinformava. SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? La finzione c’entra fino a un certo punto e fare appello alla funzione catartica della rappresentazione della sofferenza e della morte non basta, come non bastava spiegare tutto col senso di sollievo che prova chi non è direttamente coinvolto: del resto nella tragedia greca, a proposito di catarsi, gli atti di sangue e le uccisioni erano lasciati rigorosamente fuori scena. Le arti – non solo il cinema che è storia fin troppo recente – arrivano dopo e sfruttano, più o meno consapevolmente, questo istinto verso il “luttuoso” alla ricerca di un sentimento del sublime che ha una potenza esponenziale rispetto alla quieta e armoniosa visione del bello. Un sublime devastante che sconfina dalla patologia ai territori della politica, dove terrore e propaganda inestricabilmente si intrecciano. Pensavamo di averlo messo a tacere e addomesticato, questo sadismo dello sguardo, di poterlo agire solo grazie alla mediazione dell’arte, nella spettacolarizzazione del male immaginario e immaginato, ma ecco che ci sentiamo di nuovo trascinati, presi per i capelli e riportati nella barbarie da cui pensavamo di essere definitivamente usciti. Siamo tutti sadici, almeno potenzialmente. Come hanno dimostrato celebri esperimenti di psicologia sociale, come quello di Zimbardo nell’università-prigione di Stanford nel ‘71, esperimento sospeso perché i “carcerieri” erano andati fuori controllo. O come hanno mostrato le torture americane nel carcere di Abu Ghraib. Di questo nostro sadismo – di questa banalità del male - i filosofi sono sempre stati coscienti. Ben prima della nascita della psicoanalisi hanno osservato l’eccitazione condivisa da tutti gli esseri umani per lo spettacolo della tortura e della morte. Solo per lo spettacolo? “ È dolce, mentre la superficie del vasto mare è agitata dai venti, contemplare da terra la gran fatica di altri; non perché il soffrire di qualcuno sia un piacere lieto, ma perché è dolce capire da che sventure sei esente. È dolce anche contemplare grandi contese di guerra allestite per i campi senza la tua parte di rischio. “ Se l’omicidio ha esercitato il suo fascino perverso in tutte le epoche, la cultura di massa ha contribuito a estetizzare a dismisura la violenza del crimine o della guerra con le sue narrazioni amplificate dai media in un’inestricabile commistione di realtà e rappresentazione. Il libro di Maria Tatar, Lustmord: Sexual Murder in Weimar Germany (1995), analizza ad esempio una serie di omicidi avvenuti nella Germania pre-hitleriana dal punto di vista della loro rappresentazione artistica, investigando le ragioni che hanno portato a “trasformare un corpo femminile mutilato in un oggetto che suscita fascino”. E ancor prima, a metà dell’Ottocento, lo scrittore inglese Thomas de Quincey considerava l’omicidio come una delle belle arti. Il piacere che l’essere umano prova di fronte al dolore e al male sembra insomma profondamente legato alla natura umana: un’attrazione per il sangue e la sofferenza appena mitigata da secoli di civilizzazione ma subito pronta a riesplodere quando il richiamo della violenza bussa alla nostra porta. Come in Revenant - Redivivo di Alejandro González Iñárritu dove assistiamo in forma romanzesca e iperbolica alla nascita del “contratto sociale” lungo l’estremo limite della civiltà occidentale, dove ancora vige lo stato di natura o dove è comunque molto facile ripiombare in esso. 22 - 23 (Lucrezio, De Rerum Natura) LA STRAGE DELL’AURORA E LA MASCHERA DI JOKER di LUCA MASTRANTONIO no dei più folli e cruenti cortocircuiti tra realtà e finzione cinematografica è avvenuto nella notte tra il 19 e il 20 luglio del 2012, a Denver, Colorado. Nel cinema Aurora è in programma l’anteprima dell’attesissimo Il Cavaliere Oscuro - Il ritorno, del regista Cristopher Nolan, a chiudere la trilogia dell’uomo pipistrello. In prima fila c’è un ex studente di U neuroscienze, ventiquattrenne, che attraverso la porta di emergenza esce e rientra con delle armi e una maschera antigas, che assieme ai capelli tinti d’arancione gli dà un’aria stralunata. Ma non desta sospetti perché anche altri spettatori hanno dei travestimenti in tema. Si pensa ad una trovata pubblicitaria. Purtroppo, non è così. A meno di mezz’ora dall’inizio del film, l’uomo lancia dei lacrimoge- ni e inizia a sparare uccidendo sul colpo dieci persone e ferendone una sessantina, due dei quali moriranno in seguito. I media che coprono l’evento raccontano che l’assassino, secondo la versione della polizia, mentre viene arrestato dice: “Sono il Joker”, alludendo al villain, il celebre cattivo e schizofrenico antagonista di Batman. Da quel momento, rimbalzando da una testata all’altra, l’assassino diventa per tutti il “Joker dell’Au- SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? rora”. Anche per alcuni emuli della sua follia omicida, negli USA e in Europa (in Belgio). Si tratta in realtà di un falso. Un equivoco nato dalla dichiarazione del commissario di polizia di New York: l’assassino non ha mai pronunciato quella frase. Allo psichiatra racconta che la tinta dei capelli, più che un omaggio al Joker (che ce li ha verdi), è una manifestazione di rabbia e aggressività. Ha scelto quel film, di cui appunta il titolo nel diario, perché la première era molto affollata. Nella sua stanza fu trovata sì una maschera di Joker, ma la lasciò lì preferendo la maschera anti-gas, per motivi tattici. L’assassino si dice persino stupito che gli altri detenuti lo chiamino il “Joker”. Di lui dicono si comporti come vivesse dentro un film, non mostra rimorso per quello che ha fatto. Nel diario, prima della strage, aveva scritto: “Il terrorismo non è il messaggio. Il messaggio è che non c’è messaggio”. Anche lo scrittore Stephen King, commentando il rapporto tra opere di finzione e violenza, par- la dell’assassino dell’Aurora “travestito da Joker”. Lo fa in un’intervista in cui spiega perché non vuole più vedere pubblicato il suo romanzo degli esordi, Rage, che con la sua trama ha ispirato azioni omicide in alcune università americane. King punta il dito contro le armi automatiche, ma non vuole essere responsabile di letterari pretesti criminali: il romanzo non è la causa, ma un acceleratore. Questo è il punto di vista di King sui pericoli emulativi delle opere di finzione violenta. Un tema ricorrente. Basti pensare a film come Arancia meccanica o Natural Born Killers, di Oliver Stone che John Grisham, portò in tribunale dopo la morte di un suo amico per mano di due fanatici ossessionati dalla pellicola. Il problema dell’istigazione e dell’emulazione accompagna il cinema dagli albori, con molte ambiguità. Nascita di una nazione, del 1915, di David Wark Griffith scatenò violente proteste a sfondo razziale per l’apologia del Ku Klux Klan che molti vi trovarono. Le cronache dell’epoca diedero risalto a scontri ed episodi cruenti tra cui un omicidio a Lafayette, nell’Indiana. In realtà (come ricostruisce Seymour Stern in “D.W. Griffith’s 100th Anniversary The Birth of a Nation”, 2014, FriesenPress), nel processo a carico di un uomo bianco che, ubriaco, uccise con un revolver un adolescente di colore, non fu mai citato il film. Furono i giornali a creare il collegamento, che poi si cristallizzò in maniera suggestiva. È qualcosa che succede molto spesso. L’impasto di crimine reale e funzionale si cementa nell’immaginario collettivo. Perché scattano così facilmente questi cortocircuiti? È comprovato che ricondurre un fatto di cronaca a una narrazione prestigiosa, e in sé dotata di senso (almeno narrativo), ha un impatto emotivo molto forte sul piano della comunicazione; questo, in sede processuale, offre alla difesa la possibilità di attenuare la gravità della posizione dell’accusato, incapace di distinguere finzione e realtà. All’opinione pubblica, infi- Un volto della finzione cinematografica come escamotage per rendere digeribile l’orrore: focus sul caso della strage di Denver, in occasione dell’anteprima de Il Cavaliere Oscuro, per mano di uno studente ventiquattrenne. 24 - 25 ne, viene offerto un capro espiatorio: reale, come il regista che spettacolarizza la violenza, o immaginario, come un personaggio di finzione da sacrificare, un fantoccio da bruciare. Forse c’è qualcosa di più sottile e deformabile. Come la maschera del Joker, quella che non è stata indossata dall’assassino, né letteralmente né simbolicamente, al cinema Aurora, ma continua a venirgli idealmente applicata al volto. Così da sottrarci alla vista della nostra cattiva coscienza – benché innocenti, siamo turbati - quando possiamo fare i conti con possibili moventi, cioè motivi, cioè spiegazioni... O, peggio, quando dobbiamo fronteggiare un orrore senza senso, un terrore senza messaggio, un vuoto che ha svuotato altre vite per niente. Quella maschera di Joker permette di disumanizzare il mostro, di non guardare in faccia l’assassino che ci precipita in un abisso presentandosi come appartenente, biologicamente, allo stesso genere umano. VOYEURISMO ELETTRONICO esperimento che sto per descrivere ha come obiettivo quello di sondare la reazione delle persone che navigano in internet, quando si trovano di fronte a immagini e situazioni violente. L’ambiente prescelto per l’osservazione è Omegle.com, una delle chat internazionali più famose e usate della rete. Il meccanismo che la governa è classico: due utenti vengono selezionati casualmente e connessi attraverso una finestra di testo e due finestre video collegate alle rispettive webcam. L’idea consiste nella rappresentazione di una scena di violenza domestica imprevista durante una conversazione ordinaria, al fine di osservare azioni e reazioni degli utenti sotto l’influenza attrattiva dell’immagine in movimento e sotto l’influsso di due dei più comuni aspetti sociali concessi dalla navigazione online: l’anonimato e la distanza spaziale tra osservato e osservatore. Concretamente, l’esperimento si è svolto così: un’attrice iniziava una chat con un utente sconosciuto e, dopo pochi minuti di conversazione, irrompeva un attore furioso nel campo della webcam. Il “cattivo” doveva rimuovere la ra- L’ Ricerca empirica sulla reazione dell’utente di fronte a una scena di violenza domestica vista attraverso una webcam. di ALESSANDRO GIANNI gazza-attrice dalla postazione iniziale, scagliarla su un divano retrostante e fingere di picchiarla duramente, obbligando il partecipante connesso in chat ad una scelta fondamentale: guardare o non guardare? Conclusa la messa in scena di un minuto, l’attore usciva dall’inquadratura e l’attrice tornava nel primo piano, assicurando di non essere stata ferita ed inviando un messaggio conclusivo con l’obiettivo di tranquillizzare, spiegare i motivi dell’esperimento e inoltrare un link ad un questionario online. La scena è stata ripetuta 70 volte. I dati raccolti nel corso delle settanta prove sem- brano dimostrare l’esistenza di un effetto di disinibizione sociale online: se si considera il solo dato del voyeurismo, 58 partecipanti su 70 hanno scelto di guardare la scena violenta, ne sono diventati spettatori. Una cifra che sfiora la percentuale dell’83%. Valutando invece le emozioni e gli atteggiamenti comunicati durante la fruizione della scena, sono stati esclusi i 12 utenti che hanno interrotto la visione e il gruppo restante è stato diviso in 3 insiemi mutualmente esclusivi. Il primo comprende i partecipanti che non sono stati disinibiti dal mezzo e che, mostrando sincera preoccupazione, hanno dato prova di aver conservato empatia e sensibilità. Il secon- do include gli utenti che hanno osservato con indifferenza, rimanendo impassibili, spesso sbadigliando e guardando annoiati. Il terzo e ultimo è infine l’insieme composto dai fortemente disinibiti, coloro che hanno reagito ridendo, esaltandosi o dando segni di eccitazione erotico-sessuale. Il primo gruppo ha raggiunto un totale di 16 individui, il secondo 25 e il terzo 17, risultando le rispettive percentuali del 28, 43 e 29%. A mio parere, unendo secondo e terzo gruppo è possibile calcolare il numero dei soggetti “desensibilizzati” nella sua interezza: è un totale di 42 soggetti su 58, il 72% degli utenti sono voyeur della violenza. Le prove sperimentali, però, han- SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? no fornito elementi abbastanza interessanti da permettere anche un’analisi qualitativa. Abbiamo quindi ipotizzato un’ulteriore classificazione di cerchie più ristrette di spettatori, accomunate da un particolare contesto o comportamento. La cerchia generata dalla fruizione di gruppo è, di certo, una delle più interessanti. Nel corso delle sperimentazioni non sempre abbiamo avuto a che fare con un solo utente alla volta. In 6 occasioni differenti il partecipante ha coinvolto altri individui. Le caratteristiche interessanti legate a questa variante sono due: in primo luogo, 5 gruppi hanno reagito con sorpresa, ridendo e ironizzando; in secondo luogo, per la totalità delle volte, la reazione della compagnia è dipesa dalla reazione dell’utente principale. Se egli reagiva con apprensione, il gruppo si interessava osservando con ansia e preoccupazione, se egli reagiva sogghignando o facendo battute, il gruppo osservava divertito, commentando a propria volta. Queste reazioni sono significative perché capaci di evidenziare il carattere omologante del rapporto interpersonale interno a un gruppo e perché dimostrano lo scopo prettamente ludico e di- renti da quelle di cui si è dotati nel mondo reale. La più significativa di queste è, senza dubbio, l’anonimato. Grazie ad esso, l’internauta sente di poter sfogare le proprie pulsioni scopiche, tenendosi al sicuro dai giudizi e dalle responsabilità che implica l’etica sociale. Esiste una vasta gamma di browser e applicazioni che mascherano l’indirizzo IP di una connessione, come esiste la possibilità di presentarsi con nomi utente artificiosi o creare indirizzi email fasulli. L’opportunità di separare le azioni compiute online da quelle compiute nel mondo reale si manifesta nella sospensione temporanea delle restrizioni morali e autorizza l’individuo alla negazione degli obblighi legati alla propria condotta. Seguendo quindi un processo di dissociazione, la persona genera un referente online di sé con preferenze e caratteristiche distinte, separato e indipendente: non è un caso che alcuni dei più famosi browser abbiano già colto la tendenza e progettato una specifica finestra di navigazione in in- simpegnato del navigare in compagnia. Sono convinto che questi 5 gruppi, oltre ad essere stati desensibilizzati dall’ambiente virtuale, siano stati alterati anche dalla dislocazione delle proprie responsabilità su altri individui. Pur considerando il numero limitato di compilazioni complete, i questionari hanno dimostrato infine l’interesse dell’utente per la ricezione dell’immagine violenta e, soprattutto, la tendenza a preferire quella ottenuta da ambienti reali rispetto a quella palesemente artefatta. Alla luce di questi elementi, sembra lecito affermare che l’ambiente virtuale disinibisca l’utente attraverso variabili sociali diffe- cognito per permettere ai voyeur delle rete di agire nell’anonimato. Un’ultima osservazione: di fronte alla ragazza picchiata, 4 partecipanti all’esperimento hanno estratto il proprio telefono cellulare ed hanno iniziato a registrare la scena. In termini pratici, il motivo per cui 3 di questi abbiano iniziato a riprendere non è chiaro, mentre per il quarto lo scopo era quello di far avere alla ragazza prove concrete con cui denunciare l’aggressore. Trovo queste reazioni molto significative, perché dimostrano la mania del filmare, la mania di intrappolare immagini per poi poterle condividere. La diffusione così ampia e capillare dei cosiddetti smartphone ha dato DISINIBIZIONE SOCIALE inibiti desensibilizzati disinibiti VOYEURISMO non guardare guardare 26 - 27 il via ad un vero e proprio fenomeno di massa per il quale le persone, in presenza di un evento raro o memorabile, sostituiscono ai propri occhi l’obiettivo elettronico. Che sia un concerto, una competizione sportiva o un atto di terrorismo o di violenza, sempre più individui decidono di guardare l’evento attraverso lo schermo del proprio telefono cellulare. Considerando nel particolare la lite violenta, anche solo su YouTube.com è possibile trovare migliaia di video raffiguranti scontri e risse, ma la stragrande maggioranza di questi si compiono tra individui dello stesso sesso. Il maltrattamento di una donna da parte di un uomo prevede quantomeno l’intervento, è per questo motivo che credo sia possibile interpretare la scelta dei 3 altri utenti che hanno registrato la scena senza intervenire come un effetto di disinibizione legato, appunto, alla distanza e all’anonimato. Sono consapevole che questa ricerca abbia raccolto ed elaborato una quantità di dati troppo ridotta per permettere generalizzazioni su larga scala, ma ha quantomeno confermato l’esistenza di comportamenti in genere solo ipotizzati e ha suggerito alcuni dei possibili mezzi per osservarli e analizzarli. IL TRAUMA DEL CRITICO a cura di NICOLE BIANCHI e CRISTIANA PATERNÒ Pedro Armocida Fabio Ferzetti 1) Arancia meccanica (Stanley Kubrick, 1971): un po’ tutto il film per la violenza gratuita di Alex e compagni ma in particolare per la sequenza della “cura Ludovico”, non esiste niente di più violento della violenza di Stato. 1) Le scene più scioccanti che io ricordi in un film italiano sono quelle di tortura nel Salò (1976) di Pasolini. Tanto più che le vidi, per puro caso, in prima mondiale a Parigi, giovanissimo, a poche settimane dall’assassinio, con tutto il sovraccarico emotivo che si può immaginare. Mai riuscito a guardarle nemmeno dopo, comunque. 2) Per il 2015, quanto all’attualità, le immagini più scioccanti restano quelle degli spot che tutti i siti del mondo antepongono senza il mini2) “Charlie Hebdo”: sequenza mo scrupolo alle scene - choc dell’anno, presumibilmente cliccatissidell’uccisione di Ahmed, il poli- me. Molti ci avranno fatto l’abitudine, io non ci riesco. ziotto d’origine algerina, da parte di Chérif e Said. Il colpo di grazia del fanatismo. Fulvia Caprara Marzia Gandolfi 1) Il documentario The Look of Silence di Joshua Oppenheimer (2014). 1) Ida, sedotta, abbandonata, internata, è lei il corpo-immagine che ancora mi tormenta. Matta da slegare, Ida Dalser condivide con la Suor Angelica pucciniana il dramma “claustrale” e il desiderio di conoscere la sorte del figlio. Afferrata alle sbarre sogna una fuga impossibile e cade dolce dagli alberi, scardinando le categorie cliniche degli uomini e le loro approssimazioni. Perché la Ida di Bellocchio, in Vincere (2008), alla maniera delle sue donne, è inconciliabile con la nomenclatura medica ma conciliabile col sentimento vivo, reale, indomito, eversivo. 2) L’immagine shock in generale, ovvero non cinematografica, ma purtroppo di cronaca, è per me quella del bambino Aylan morto sulla spiaggia, quest’estate. Steve Della Casa 1) L’occhio tagliato di Buñuel (Un chien andalou, 1929), anche se in realtà non è orrore ma allargamento surrealista della visione. 2) Nel mondo, il bambino che galleggia annegato sulla spiaggia. 2) Le couverture “illustrate” dei “Cahiers du Cinéma”. Il numero di febbraio 2015 usciva in edicola con una cover di Blutch che “commentava” l’attentato alla redazione di “Charlie Hebdo” e suggeriva la fragilità della nostra posizione di fronte al caos, il faticoso equilibrio del mondo in faccia al terrore. A novembre quella di Luz, disegnatore francese di “Charlie Hebdo”, perdeva equilibrio e colore ma non la volontà di lottare, affidandosi all’eroina di Miller, in lacrime e “furiosa” sulle strade di Parigi e nel deserto del reale. Una donna ferita e amputata che non crede al paradiso ma crede fermamente nelle seconde chance. SCENARI Immagini e violenza: un’attrazione fatale? 28 - 29 10 giornalisti di settore indicano la propria immagine-choc nell’intera storia del cinema e, per l’anno 2015, hanno scelto, tra la visione cinematografica e quella offerta dall’attualità, la scena per loro più impressionante. Francesco Pitassio 1) La prima inquadratura della seconda sequenza di Kiss Me Deadly (R. Aldrich, 1955): le gambe nude di una ragazza, affiancate ai due lati da quelle vestite di due uomini, si agitano, mentre fuori campo si sentono i suoi strilli di dolore e agonia. Potrei poi menzionare, almeno, Greed (E. Von Stroheim, 1923), Roma città aperta (R. Rossellini, 1945), Il miracolo (R. Rossellini, 1948), Shock Corridor (S. Fuller, 1960), The Texas Chainsaw Massacre (T. Hooper, 1974). Emiliano Morreale 1) La mia immagine-trauma è il ghigno di Norman Bates nel finale di Psyco (1960). 2) Nell’anno appena trascorso, è il corpo di Aylan Kurdi, il bambino siriano, sulla spiaggia vicino a Bodrum. 2) Nel mondo, l’immagine più traumatica che mi sovviene, per il fuori campo cui rimanda, è quella dei giovani socialisti turchi, tweetata da Madershahi Barajyikan: un selfie ritrae una ragazza in primo piano (l’autrice del tweet) e numerosi coetanei di ambo i sessi alle sue spalle. La fotografia è stata scattata quasi un mese prima dell’attentato di Suruc, in cui hanno perso la vita 33 persone. Marina Sanna 1) Salò (1976) di Pasolini. Cristiana Paternò 1) Il fotogramma che non sono mai riuscita a levarmi dalla mente e dagli occhi e che ha continuato a perseguitarmi e spaventarmi per anni è il ghigno di Jack Nicholson in Shining di Stanley Kubrick (1980) quando, chiusa dentro al bagno, c’è la moglie Wendy (Shelley Duvall) e lui, dopo aver abbattuto la porta a colpi di ascia, annuncia: “Here’s Johnny!”. 2) L’immagine più scioccante del 2015, tra cinema e realtà, è quella del film di Roberto Minervini Louisiana e in particolare quella di un “buco” di droga praticato dal protagonista alla giovane donna visibilmente incinta. 2) Nell’attualità mondiale, senz’altro il piccolo Aylan morto sulla spiaggia di Bodrum, fotografato da Nilüfer Demi. Mario Sesti 1) Alain Delon costretto ad assistere allo stupro della Girardot in Rocco e i suoi fratelli (1960). 2) Nel cinema, i chitarristi heavy metal che guidano come battistrada di violenza sanguinaria l’orda barbarica di Mad Max (Mad Max: Fury Road, 2015). DAMMI IL ROSSO I fuori onda di Hollywood Party una nuova rubrica Da questo numero inizia a borazione con il programm di 8½ realizzata in colla 3 - Hollywood Party radiofonico di Rai Radio CLAMO ROSE RIVEL A Z IO N I SUL S UCCESSO di ALBERTO CRESPI lamorose rivelazioni a margine del successo di Quo vado?, l’ormai celeberrimo film di Checco Zalone. Dopo i mirabolanti incassi totalizzati nel gennaio del 2016, alcune isolate voci di protesta si erano levate contro la satira che Gennaro Nunziante e Luca Medici, autori del film, indirizzano sui lavoratori del pubblico impiego e sulla cultura del posto fisso. Il 6 gennaio il leader della UIL, Carmelo Barbagallo, aveva commentato la rappresentazione dei dipendenti pubblici fatta nel film con argomenti cristallini, ancora in attesa di adeguata traduzione: C “Siamo un sindacato moderno e riformista, se c’è un dipendente pubblico che non lavora deve essere licenziato così come accade nel privato. Fare la satira su questi atteggiamenti funziona perché è come la satira sui politici che fanno finta di fare politica”. Il 15 gennaio era toccato ai “concorsisti”, in particolare a coloro che hanno partecipato al famigerato “Concorsone” indetto tempo fa dal Comune di Roma. La loro portavoce Valeria della Valle aveva dichiarato che “ridere dell’inefficienza della burocrazia non basta” e aveva invitato Zalone a scendere in piazza e a lottare con loro. Queste voci di dissenso DAMMI IL ROSSO I fuori onda di Hollywood Party sono arrivate sui media, ma molte altre sono state censurate dalla casta dei giornalisti. “Hollywood Party”, grazie alle sue fonti e ai “fuori onda” della trasmissione, è in grado di dar voce al grido di dolore che si leva dai ranghi dell’associazionismo ferito e deriso. Altro che “politicamente corretto”: qui parla un Paese indignato, che non ha più voglia di ridere! 30 - 31 un pelo, essendo nato a Cremona. Niente da fare per il bolognese Gino Cervi: l’intera saga di Don Camillo, inno al consociativismo cattocomunista, sarà bandita. La nota associazione culturale della Capitale “Semo regazzi fatti cor pennello”, con sede in via dei Romanisti, ha invece stigmatizzato il film per la scelta di far parlare in romanesco il rozzo italiota che manIn prima fila contro Zalone c’è, da al diavolo Checco, in modo ascom’era facile immaginare, il pro- sai colorito, quando questi suona fondo Nord-Est. Molti militanti il clacson a un semaforo norvegese. della Lega hanno chiesto ai leader del Carroccio di far passare quan- L’opera zaloniana non viene letta to prima un decreto legge che in modo univoco. L’Ambasciata proibisca ufficialmente l’uso nei di Norvegia in Italia ha protestato film di tutti i dialetti che si parla- per il modo in cui la patria di Ibno a Sud della Linea Gotica. Un sen è rappresentata nel film: “Non membro particolarmente zelante andiamo in giro con le chiappe di del comitato direttivo del partito fuori, non facciamo le pippe agli ha proposto di cancellare digital- orsi bianchi, ci stanno sul cazzo mente da tutti i film italiani le im- i matrimoni gay e sappiamo bemagini dei comici nati a Sud del nissimo come si cuociono quePo. Rimarranno visibili solo i film gli schifosissimi spaghetti”, ha con Gino Bramieri, Tino Scot- diplomaticamente puntualizzati, Lino Toffolo, Renato Pozzetto to un portavoce dell’Ambasciae Piero Mazzarella. Anche quelli ta. Medici e Nunziante sono stati con Ugo Tognazzi: s’è salvato per invitati a trascorrere qualche me- se nel ridente scenario delle isole Svalbard, a due passi dal Polo Nord: la locale squadra di curling è pronta a usarli come bocce in quel simpatico sport invernale. un orso bianco non si masturba in quel modo”. Nessuno, nemmeno nei Paesi dell’Africa Centrale, ha invece avuto nulla da ridire sulla masturbazione dell’elefante. Dopo una rapida ricerca online, si è D’altro canto, il regista afroame- appurato che manca totalmente ricano Spike Lee ha dichiarato (a una credibile letteratura scientimargine delle polemiche per l’as- fica sull’argomento. senza di cineasti neri nelle nominations all’Oscar) che la rap- La polemica, ormai, si allarga a presentazione dei selvaggi che macchia d’olio e riguarda tutto il catturano Zalone a inizio film è cinema comico italiano. Anche “puerile, razzista e degna del Ku- L’abbiamo fatta grossa, il nuovo Klux-Klan”, e ha ventilato l’ipo- film con Carlo Verdone e Antonio tesi di lasciare l’Academy quando Albanese, è nel mirino. Gli eredi assegnerà a Medici e Nunzian- di Tom Ponzi, il più famoso inte un doppio Oscar alla carriera vestigatore italiano, sarebbero (a quest’ultima minaccia, Medi- in procinto di querelare Verdone ci e Nunziante hanno replicato: per “dileggio della professione e “Spike, stai sereno”). falso ideologico”. Il Sai, Sindacato Attori Italiani, voleva invece Non è mancato il disappunto da denunciare Albanese per vilipenparte della galassia animalista. dio, in quanto nel film interpreta La Lac, Lega Abolizione Caccia, un attore smemorato. ha trovato il film “ripugnante”. La “Gli attori italiani sono famosi nel Fidc, Federazione Italiana della mondo per non dimenticare mai Caccia, ha ribattuto definendo il una battuta”, hanno dichiarato. film “ripugnante”. Quando hanno scoperto di essere per la pri- Avevano anche preparato una ma volta d’accordo da tre secoli memoria di accusa dettagliata, a questa parte, si sono chiuse en- ma pare che il caso sia rientrato: si trambe in uno sdegnoso silenzio. sono dimenticati di depositarla. Un attivista del WWF ha sottoscritto la dichiarazione dell’Ambasciata norvegese: “Sono un hollywoodparty.rai.it esperto, e posso assicurarvi che TENDENZE Cinéphile Look SHOOTING LOOK Come si vestono i registi? C’è differenza fra gli abiti che indossano sul set e quelli che prediligono nella vita? Fin a che punto il loro look ha a che fare con le scelte artistiche e con lo stile di un autore? Anche i registi sono ormai diventati un brand? di GIANNI CANOVA n tempo, sul set, molti ci andavano in giacca e cravatta. Pasolini, ad esempio: in molte fotografie scattate sul set di Accattone (1961) o La ricotta (1963) appare elegantissimo pur nello squallore del paesaggio circostante. E in giacca e cravatta è ritratto pure in alcune istantanee scattate tra i sassi di Matera durante le riprese di Il Vangelo secondo Matteo (1964). Ma giacca e cravatta d’ordinanza sono l’abito “da lavoro” adottato spesso U anche da Pupi Avati, da Vittorio De Sica e da molti registi anche in tempi più recenti e più vicini a noi: Ettore Scola, ad esempio, è ritratto in giacca e cravatta (e con tanto di pipa in bocca in posa da intellettuale engagé) sul set di La famiglia (1987). Altri tempi. Tempi in cui andare sul set era come partecipare a una cerimonia, a un rituale, a una liturgia laica. Ci si vestiva a festa, per andarci. E si comunicava – già a partire dall’abito – il rispetto che si doveva al rito e al sacerdote – il TENDENZE Cinéphile Look regista – che lo officiava. Forse non si è ancora ragionato abbastanza sul look dei registi. Sull’abito con cui esercitano la loro professione. Perché non è soltanto questione di gusti, o di mode. A volte nella scelta dell’abito si coglie anche uno scarto generazionale. Sul set di Accattone, ad esempio, Pasolini – come si diceva – è in cravatta, ma il più giovane Bertolucci, al suo fianco, ha la giacca ma la cravatta no. Incompatibile con il look “Nouvelle Vague”? Non proprio. Truffaut la cravatta spesso ce l’aveva, forse per emulazione del suo maestro Hitchcock che della cravatta aveva fatto quasi una divisa. Non erano ancora, quelli, i tempi del self branding. Qualche regista anche italiano, certo, già usava il look per affermare con più forza la propria identità. Lo faceva d’istinto, per fiuto, senza avere alle spalle costosi consulenti o esperti image makers. Ma con grande efficacia: gli stivali di Blasetti, o la sciarpa di Fellini, per dire i più noti, sono dettagli identificativi a modo loro geniali. Un po’ come gli occhialini di Woody Allen: marchi di identità dal fortissimo potenziale iconico, capaci da soli di trasformare un qualunque “director” in una figura più complessa, velocemente riconoscibile, ma anche facilmente identificabile e memorizzabile. Un po’ come la capigliatura di Dario Argento, con quella frangetta spiritica che incornicia due occhi spiritati e ispirati, o come i maglioncini a V e le scarpe Clark di Nanni Moretti, così tenacemente fedele a se stesso – cioè immutabile e identico – nel corso degli anni e dei decenni proprio a partire dal look. Certo, non tutti i registi sono uguali. A differenza di altre categorie professionali i cui adepti si assomigliano un po’ tutti e si riconoscono a prima vista (gli architetti milanesi, i commercialisti romani, gli avvocati siciliani), tra i registi ci sono varie tribù che quasi sempre prescindono dalla provenienza geografica e si aggregano a partire da altri criteri: ed ecco allora i trasandati con cura (Gianni Amelio? Paolo Virzì?), i minimalisti meditativi (Gabriele Salvatores?), i dandy sornioni (Paolo Sorrentino?). Il look esteriore corrisponde anche a un’estetica filmica? Rinvia (o anticipa, prefigura e conferma…) uno stile? Difficile dir- lo. Ma quasi impossibile negarlo. Tra come ti presenti e quel che presenti di te, fra la tua immagine e le immagini che produci, non può non esserci un legame, una corrispondenza, un’eco, un’affinità. In questo numero di 8½ proviamo a ragionare un po’ su questo. Con leggerezza, è ovvio. Ma senza prendere la questione sottogamba. Perché nell’era in cui la regia diventa professione di massa, e si fa pratica collettiva, è quasi inevitabile che il regista tenda – attenzione: barbarico anglismo in arrivo – a brandizzare se stesso. A dotarsi di un look, di un packaging, di un marketing. A vendere la propria icona (e se stesso…) prima ancora che i film che produce. Nulla di particolarmente nuovo, per carità: in fondo, il culto dell’autorialità su cui negli ultimi decenni abbiamo un po’ tutti costruito altari e officiato sacrifici (umani?) altro non è – forse – che un modo “antico” di attuare quello che oggi viene disinvoltamente definito come self banding. Lo praticano tutti. Anche quelli che fingono di non farlo, quelli che trovano nella dissimulazione della propria brandizzazione il più forte marchio di riconoscimento e di identità. Un po’ come con i no-logo: non sono un brand, quindi sono il più potente e sfuggente fra tutti i brand possibili. 32 - 33 TENDENZE Cinéphile Look 34 - 35 ook who’s locked at to Brass (già si sente l’alone del Leone, mentre a sinistra peluria Frankesteiniano, lo avvolge come Cinecittà. Nel, fino- suo masticato sigaro cubano, ma più rada con pizzetto accennato fu per Alain Delon cui lo affidò il ra inesplorato, soffit- non è escluso si tratti del mezzo rimanda a Marco Ferreri. Sugli sensibile Valerio Zurlini. to del sacro tempio Toscano, eterno compagno del occhi cerulei, probabilmente ri- Attenzione, una visione: nel sof- Teatro 5 degli Studios nostrani è ghignante Pietro Germi o quel- produzioni di quelli magnetici di fitto del Teatro 5 di Cinecittà le appena avvenuta un’ incredibile lo più aromatico di Alberto Lat- Gillo Pontecorvo, sono posati astromaestranze trovano altro: scoperta. In un sarcofago di anti- tuada: ma no, di Lattuada ecco occhiali bianchi, pare il paio più un porta abiti fin de siècle XX che ca celluloide, ecco una composi- scorgersi solo i baffetti imperti- originale dei 55 collezionati da contiene vediamo cosa… giacca ta mummia aliena, già classificata nenti). Calma, le immagini clan- Lina Wertmüller; altri da sole, avorio, gilet porpora, pantaloni “demiurgus egoticus”, pratica- destine appena recapitateci in via dell’ epoca Ingridiana di Roberto bianchissimi, Borsalino, gemelli mente un Registandroide del XX telepatica non sono chiarissime Rossellini, sembrano malcon- e foulard giallo paglierino (rubato secolo, di struttura Frankenstei- – questa nuova tecnologia antie- ci, adagiati nel sarcofago ancora a Franco Zeffirelli?), ma siamo niana, tanto raccapricciante quan- mail va perfezionata - ma noi pro- pieno di sorprese. Un momen- certamente di fronte a un inforto emozionante. Fattezze ma- seguiamo nella disamina di tale to: chi ha trafugato le lenti scure, male abbigliamento di Giuliagnificamente mostruose no Montaldo, maestro che oggi, nel 2036, ridefiindossatore della estinniscono in un corpo sota casa Anac, il cui look lo l’iconografico identikit totale globale sconfisse di grande parte di quella in una epocale serata da eclettica vitalissima rivoOtello alla Concordia, luzionaria genia di regiquello à la rive gauche di sti italiani che imperverBernardo Bertolucci. sarono da fine Anni ‘30 a P.S.: Voci incontrollatutti i ’70, marcando con te giungono dal Centro un particolare - un colore, Sperimentale di Cineun accessorio - la loro firmatografia. Sotto la prima su kolossal propaganma pietra della sua codistici e residui Telefoni struzione posata nel bianchi, Neorealismo pu1935, due cybercinetomdi M AU RI ZI O DI RI EN ro e melodrammi, Neorebaroli avrebbero trovaZO alismo rosa e commedia to un enorme armadio suprema, cinema comico, di zinco dalla cui serradi costume e di genere. tura s’intravedono straGli esami digitali e laser ni vestiti di prima epoca Stivaletti, occhialini sul Reperto sono ancopunk. Gli esami di trace sciarpe che hanno fatto la storia della person ra in corso ma attendibili ce genetiche risalenti a alità di registi del no stro indiscrezioni già indicaquel tempo, rivelano l’icinema, resi icona (a nche) dalle loro scelt no come sublime il mix di dentità complottistica e in m at eria di abbigliamento: da elementi venuto alla luce. e preconizzatrice di un Blasetti a Fellini, pass ando Il polimorfo di umana gruppo di registi che in per Lina Wertmüller e Tinto Brass. derivazione pare sia stato privato smettevano marsvelato dai piedi al capo, sina, ghette e papillon così da potere certificarper sperimentare un lone la provenienza dai sinok poi lanciato decenni goli corpi degli Autori che furono. Registandroide del grande XX se- scudo intimo-mediatico di Pier dopo da Clash, ACDC, Sex Pistols: Dal basso: spiccano lavorati stiva- colo: a volte le mummie parlano… Paolo Pasolini? Bisogna ritrovar- fra loro accertate le insospettabili li di classico cuoio autarchico, in- ora viene il difficile, dallo sterno le! Proseguiamo verso la… cima: identità di Amleto Palermi, Audubitabilmente strausati dal mi- in su. Notiamo un foulard di clas- sulla capigliatura immarcescibi- gusto Genina, Giulio Antamotico Alessandro Blasetti, in cui se made in Luchino Visconti ac- le di Gianni Amelio è posata una ro, Giovanni Pastrone, Enrico riposano pantaloni d’ordinan- canto al collo semicoperto dalla coppola di derivazione guerra civi- Guazzoni, Giacomo Gentiloza beige alla zuava, del tipo spes- sciarpa rossa di Federico Felli- le ispanica, ulteriore segno del più mo, Mario Camerini, Gennaro so conteso fra il Blasetti stesso e ni, che però lasciò in eredità a Et- battagliero dei fratelli Taviani, so- Righelli. E infine cosa dire della Ludovico Alessandrini (calzoni tore Scola (l’importanza di chia- vrastata però a incastro dal copri- pioniera femminista Elvira Noche anni dopo furono corretti nel marsi Federico si riverberò sugli capo Mastroiannesco di Snaporaz, tari che si è scoperto indossasse a taglio da Liliana Cavani). Im- amici); dal taschino della giacca alter ego felliniano. A lato il basto- volte sui suoi set eleganti abiti mapeccabile la camicia bianchissi- cinocoreana istituita da Vittorio ne dell’ultimo Mario Monicel- schili, spacciandosi per Carlo Luma dello stiloso Vittorio De Sica, Taviani spunta incredibilmen- li che aspetta invano un’altra ma- dovico Bragaglia? su cui stona una bizzarra cravat- te la fedele pipa di Mario Solda- no così indomita. Il cappotto, utile È proprio vero: nel cinema italiano ta di lana, purtroppo non l’unico ti. La barba? Divisa in due, parte per le prime notti di quiete vissu- i sarcofaghi non finiscono mai. accessorio che rimanda a Tin- destra bianca morbida di Sergio te da questo memorabile corpus L I L R I T R O VA M E NT O DEL “DEMIUR GUS EGOTICUS” BRAND DI SE STESSO Testo di ANDREA GUGLIELMINO Illustrazioni di ANDY VENTURA attaccatura particolare ben si sposa con la basetta coltivata ma non particolarmente curata. La pettinatura scapigliata che fa tanto bohémien ma riallaccia anche alle radici partenopee, con richiamo al classico stile da “guitto”. Le sopracciglia espressive, dotate quasi di autonomia rispetto al resto della muscolatura facciale, di solito compressa in una cipigliosa espressione, hanno fatto di Paolo Sorrentino un esempio di look immediatamente riconoscibile nel nostro cinema, anche più di quello dei suoi stessi attori (con l’eccezione naturalmente di Toni Servillo). Abbinamenti preferiti: sigaro e frac per le occasioni di Gala. Non sarà una Grande Bellezza, ma lo stile non gli manca certo. L’ l volto della Paura. Con il viso scavato e l’espressione profonda ma inquietante, Argento sembra aver incarnato egli stesso il sentimento di ansia e terrore che ha voluto comunicare con i film della sua carriera. Ma in verità, osservando le sopracciglia inarcate e i capelli radi, timidamente tirati in avanti a simulare un infoltimento, emerge la sua natura di persona riservata, sensibile, empatica e attenta alle emozioni altrui. Forse per questo sa come colpirle, al momento giusto, con un ben assestato colpo d’ascia. Mise quasi rigorosamente nera, come le Tenebre, con alternanze di grigio (come il velluto delle quattro mosche) o profondamente rossa, per i giorni di festa. I cchiali con montatura bianca, portati fin dalla giovane età, che si sono arricchiti nel corso degli anni, in perfetta sintonia con la capigliatura argentata. Entrambi gli elementi esprimono autorità e un carattere forte, che ha permesso alla Wertmüller di diventare una delle più affermate – e amate – registe donne del nostro Paese. Completano il tutto abbellimenti importanti ma non invasivi come gli orecchini e, spesso e volentieri, uno scialle di un rosso travolgente come un insolito destino nell’azzurro mare di agosto. O TENDENZE Cinéphile Look Anche se restano per la maggior parte del tempo dietro la macchina da presa, i registi hanno la tendenza a “fare look”, e spesso questo li aiuta nella comunicazione della propria immagine anche al di là del prodotto filmico. Cosa li rende particolari, li caratterizza e ce li rende simpatici, antipatici, attraenti, autorevoli? Abbiamo cercato di individuarlo con la collaborazione dell’illustratore Andy Ventura, specializzato in “ritratti senza faccia”, che da qualche mese spopolano in rete. 36 - 37 a figura del regista è in questo caso inseparabile da quella dello sceneggiatore, suo fratello e compagno d’arte. Carlo ed Enrico sono diventati un simbolo, “film dei Vanzina” è diventato sinonimo di commedia leggera e scanzonata, spesso associata indebitamente al “cinepanettone”, un termine in realtà nato successivamente all’uscita del loro celebre Vacanze di Natale (quello originale del 1983). Simili ma non identici, i due fratelli potrebbero in verità entrare a far parte del cast di una delle loro pellicole. Enrico si concede sportivamente il vezzo del capello lungo (avendo la fortuna di possederne ancora tanti); Carlo più sobriamente opta per un caschetto. Insieme offrono un colpo d’occhio formidabile. Anzi, Eccezzziunale… veramente. L o si nota di più nella versione giovanile - capello lungo e scompigliato da fricchettone e baffetti marxisti (nel senso di Karl, ma anche di Groucho), che ne sottolineavano la parziale adesione al filone comico-oppure oggi, barba folta e seriosa e sguardo vispo ma severo? Comunque, resta un autarchico affrancato dalle mode, scegliendo sempre il classico per le occasioni mondane (le poche che frequenta, come il Festival di Cannes) e abiti da lavoro comodi come il maglione, spesso rosso come la proverbiale Palombella. L e anche acquisisse il potere dell’invisibilità come il protagonista del suo ultimo film, il regista di Mediterraneo resterebbe comunque riconoscibile, con gli occhiali tondi da buon professore e il berretto da lavoro che aggiunge un tocco di energia. Le sopracciglia brizzolate aggiungono saggezza, e la pelata sotto il cappello permette di sbirciare la mente pulsante di un autore intelligente e sempre con tanta voglia di osare e imparare. Uno che, insomma, non ha paura. S Per seguire Andy Ventura: www.facebook.com/Andy-Ventura-110288715661411/ H O L LY W O O D L AVA PIÙ BIANCO di VANNI CODELUPPI Quanto è cambiata la figura del regista italiano con l’adozione del modello dettato dallo star system americano. Così si motivano le ormai imprescindibili liturgie di promozione nelle chiese mediatiche, da Che tempo che fa a Porta a porta, passando per il web e la scrittura di romanzi. n regista italiano, quando esce un suo film, oggi non può evitare di partecipare a programmi televisivi di successo come Che tempo che fa, condotto da Fabio Fazio, o Porta a porta, condotto da Bruno Vespa. Anche un regista solitamente riservato come Nanni Moretti non può permettersi di ignorare questi fondamentali strumenti di promozione. I quali, infatti, costituiscono una parte importante della campagna di marketing attivata per l’uscita di qualsiasi film. Sino qualche decennio fa in Italia ciò non avveniva, perché si pensava che il film, con i suoi contenuti, fosse in grado di attirare da solo gli spettatori nelle sale. Oggi invece si ritiene che sia necessario sfruttare anche la capacità di richiamo di figure che sono già note agli spettatori, come gli attori e il regista. Si adotta cioè quel modello basato sullo star system che Hollywood ha messo a punto nel corso degli Anni ‘10 del Novecento. Prima del 1910, infatti, sui manifesti dei film non com- U parivano né i nomi degli attori, né tantomeno quelli dei registi. Di solito erano presenti solamente delle immagini a colori molto vivaci tratte da una scena chiave del film, generalmente firmate con il TENDENZE Cinéphile Look marchio della casa di produzione oppure con il nome del produttore. Sul manifesto ad esempio di un film del 1913 – The Battle of Elderbush Gulch – non comparivano né i nomi degli attori (Lilian Gish, Mae Marsh e Robert Harron), né quello del regista (David Wark Griffith), nonostante questi fossero già conosciuti da parte del pubblico. È stato Char- Un Antonioni o un Bertolucci potevano certamente essere conosciuti, ma non erano considerati decisivi come gli attori per spingere gli spettatori ad andare nelle sale. Negli ultimi anni, però, anche il regista è diventato importante per la promozione del suo film. È dunque vittima di quel processo che ho definito qualche anno fa “vetrinizzazione sociale”. Un processo le cui origini risalgono alla nascita della vetrina nell’Inghilterra dell’inizio del Set- lie Chaplin, l’anno successivo, il primo attore a essere utilizzato sui manifesti cinematografici per la sua notorietà. E così l’industria cinematografica hollywoodiana ha cominciato a promuovere i suoi film puntando massicciamente sulla capacità di attrazione dell’immagine e della notorietà degli attori-divi. Ha creato pertanto il modello dello star system e questo è stato rapidamente imitato in tutto il mondo, a cominciare dall’Italia. Ma in una prima fase ciò ha riguardato solamente gli attori. Il regista era considerato un artista e, in quanto tale, parte di un mondo differente. Era l’autore con la A maiuscola. tecento. Grazie a tale invenzione, i negozianti hanno potuto catturare l’attenzione dei passanti utilizzando lo spazio intermedio tra il negozio e la strada come se fosse il palcoscenico di un teatro. I prodotti esposti all’interno della vetrina sono stati così sempre più spettacolarizzati e valorizzati. In seguito, a causa della sempre maggiore importanza della produzione di merci nella società, il processo di vetrinizzazione si è diffuso all’intero sistema sociale. E, di conseguenza, tutti hanno la necessità di mettersi “in scena” all’interno delle diverse vetrine in cui sono costretti ad esporsi nella loro esistenza. Anche un regista, pertanto, oggi ha la necessità di curare con attenzione la sua immagine personale, esattamente come fa da tempo qualsiasi attore importante. Deve cioè costruirsi una determinata identità e assicurarsi che essa sia dotata di coerenza e di notorietà. Inoltre, deve saperla comunicare in maniera continuativa nel tempo. Per poter ottenere questo risultato, è obbligato a saper sfruttare efficacemente diversi canali di comunicazione: i giornali, le televisioni, le radio, il web. Pertanto, ha la necessità di essere presente il più possibile in questi canali. Poiché realizzare un film richiede molto tempo, può occupare lo spazio tra un film e l’altro con altre attività. Che certamente consentono di guadagnare denaro, ma sono soprattutto strumenti utili per mantenere attiva la propria presenza nel sistema mediatico. Così un regista come Paolo Sorrentino, oltre ai film, ha realizzato spot pubblicitari (Fiat Croma, Yamamay), cortometraggi per aziende (Intesa Sanpaolo, Bulgari), serie televisive (The young Pope), e ha scritto due romanzi (Hanno tutti ragione, Tony Pagoda e i suoi amici). E tutto ciò contribuisce ad alimentare la sua immagine. Non è un caso dunque se negli ultimi anni hanno scritto romanzi anche Paolo Virzì (Se non ci sono altre domande), Ferzan Ozpetek (Rosso Istanbul, Sei la mia vita) e Pupi Avati (Il ragazzo in soffitta). Sembra dunque che anche in Italia sia in corso un processo di profonda trasformazione del ruolo del regista. Il quale sta passando 38 - 39 dal modello del “regista-Autore” a quello del “regista-Brand”. E dunque si sta avverando anche da noi quello che sosteneva già negli Anni ’80 il pubblicitario francese Jacques Séguéla nel volume Hollywood lava più bianco e cioè che anche un regista come Woody Allen, esattamente come una marca, avesse un logo che permetteva di identificarlo e che nel suo caso erano i suoi inconfondibili occhiali. LIKE, SI GIRAAAAAA! di MARGHERITA BORDINO Mister Rossellini…”, scriveva Ingrid Bergman a metà degli Anni ‘40 del secolo scorso: se a quei tempi una lettera era la prassi per raggiungere i propri cari o, perché no, un regista di fama mondiale, oggi può bastare una mail o, meglio ancora, un commento a un post o un messaggio privato su canali quali Facebook, Twitter o Instagram. Negli ultimi decenni è cambiata la comunicazione personale e questa rivoluzione ha coinvolto il singolo, la società e le diverse culture di tutto il mondo, delle volte abbattendo barriere, delle altre creandone di nuove. Nel cinema i social network permettono una campagna informativa celerissima per tempo, spazio e contenuti, sostituendo il vecchio passaparola, non del tutto sparito. Ma, i registi italiani quale canale preferiscono? Quale valore gli attribuiscono? I più noti raccontano sui loro profili principalmente se stessi, come forma di scoperta e di condivisione. Del nuovo anno è una notizia “un sacco bella”: si è iscritto su Facebook Carlo Verdone, che ha annunciato, in un video amatoriale, di aver ceduto anche lui al diario ideato da Mark Zuckerberg e di essere pronto a condividere foto, ricordi e momenti inediti legati a vita e carriera. In solo pochi giorni il profilo ha superato 59mila Like, a oggi molti di più. I social network sono il principale luogo virtuale di aggregazione sociale e tanti registi italiani hanno scelto di non farne a meno. Pierfrancesco Diliberto-Pif, durante le riprese di In guerra per amore, ha lanciato l’hashtag #PifSulSet, con cui, insieme al cast, ha condiviso emozioni e sensazioni; i fratelli Tognazzi – Ricky, Maria Sole e Gianmarco – sempre su Twitter, ognuno a suo modo, raccontano le proprie storie, con immagini d’infanzia e del presente, frammenti della giornata, tra famiglia e lavoro. Tra i registi più seguiti c’è Leonardo Pieraccioni, confidenziale e diretto con i follower: scrive, risponde, replica e condivide l’amore smisurato per la figlia. Non è da meno Francesca Archibugi, che non perde attimo per fare e condividere arte, dal cinema alla letteratura. Anche se il più seguito in assoluto è il regista, trico- “ lore per adozione, Ferzan Ozpetek, che con grande naturalezza esprime opinioni politiche e sociali, parla della sua Istanbul e ne mostra scatti su Instagram. Ci sono delle vere e proprie storie-social, legate ad alcuni nostri registi: ITALY IN A DAY - Gabriele Salvatores, premio Oscar per Mediterraneo (1992), non ha alcun profilo social, eppure con la rete, e il supporto televisivo, ha realizzato il film Italy in a Day – Un giorno da italiani, primo esperimento italiano di cinema collettivo. “Sabato 26 ottobre (2013) prendi una telecamera, un cellulare e filma la tua vita. Sei libero. Racconta chi sei, cosa ami, di cosa hai paura…”. Questo messaggio, divenuto virale, ha permesso a Salvatores di fotografare il Bel Paese attraverso lo sguardo dei veri protagonisti, gli italiani. BASTA TWITTER - Paolo Virzì per un lungo periodo è stato presente su Twitter, dove si è divertivo, ha condiviso, raccontato, TENDENZE Cinéphile Look 40 - 41 Facebook, Twitter, Instagram di alcuni tra i più noti registi italiani. È appena nato il profilo di Carlo Verdone, già defunto quello di Paolo Virzì. Pieraccioni usa il suo spazio anche per parlare di sua figlia, Gabriele Salvatores cerca immagini in rete. Ma il più seguito è Ferzan Ozpetek. scherzato e portato i follower sul set de Il capitale umano. Poco dopo si è stufato e ha chiuso l’account. Il motivo? Ha scoperto di perdere troppo tempo: “È stata però una bella occasione per fare una delle cose più importanti che deve fare un cineasta, cioè ficcanasare”. GO INSTAGRAM GO - Christian De Sica è, invece, molto social. Presente su Facebook e Twitter, con profili ufficiali gestiti da lui e dallo staff, ma anche su Instagram, il social network fotografico per eccellenza con il fascino della “polaroid 2.0”: qui De Sica è seguito da oltre 100mila follower e non manca giorno in cui non condivida scatti o clip in compagnia di amici e colleghi, da casa, set o luoghi di vacanza. IL CASO PASOLINI - Gabriele Muccino ha postato qualche mese fa, sulla sua pagina Facebook, parole dure nei confronti di Pier Paolo Pasolini, a quarant’anni dalla sua scomparsa. “So che quello che sto per dire suonerà impopolare e forse chissà, sacrilego? Ma per quanto io ami Pasolini pensatore, giornalista e scrittore, ho sempre pensato che Pasolini regista fosse fuori posto, anzi, semplicemente un non regista”, inizia così il commento del regista italiano, ormai californiano. Parole che hanno suscitato polemiche e critiche, e si sono ritorte contro Muccino che, dopo mezza giornata, le ha sostituite con un nuovo post di giustificazione. I social network, queste meravigliose creature che accompagnano la giornata di personaggi noti, e non solo, delle volte sono luogo di incontro, confronto o promozione, delle altre sono nemici o, peggio ancora, possono avere lo stesso effetto di un cane che si morde la coda. Per i social non esistono, infatti, vere istruzioni per l’uso: sono indispensabili ma da “agitare” con cautela. Trucco&parrucco: come sono i registi davanti allo specchio. La parola a chi cura make up e hair styling in Italia, tra anteprime e red carpet. di VALENTINA NERI LA VANITÀ? NON È DA INTELLETTUALI er chi è concentrato sulla visione d’insieme di un film è davvero poca cosa il proprio aspetto. Dopo mesi passati a ideare, studiare e pianificare un’opera d’ingegno complessa come solo un film può essere i registi non vogliono certo darsi in pasto a photocall e red carpet. Ma la promozione è l’anima anche della Settima Arte, non solo del commercio generico, e i cineasti non possono sottrarsi al battage pubblicitario. Benché ne farebbero a meno, si vedono costretti a passare per le esperte mani di make up artist e hair stylist, cui spetta il delicato compito di prepararli per affrontare stampa, telecamere e pubblico. Ma qual è il loro rapporto con la propria immagine? Sono davvero così diffidenti nei confronti di phon e cipria? Eccezion fatta per Pedro Almodóvar, la truccatrice e parrucchiera freelance Francesca P TENDENZE Cinéphile Look Manzo conferma che di norma i cineasti si fanno solo opacizzare un po’ l’incarnato per evitare di risultare lucidi nelle interviste video. “Se devono incontrare la stampa chiedono la copertura delle occhiaie e poco più. Riesco a sbizzarrirmi di più con i capelli: Almodóvar ad esempio li vuole drittissimi in testa, ma al 90% non vogliono che mi concentri troppo su di loro, registi stranieri inclusi. Ad esempio l’inglese Simon Curtis, autore di Woman in Gold, preferisce che mi dedichi alla moglie, l’attrice Elizabeth McGowan. JJ Abrams, il regista del nuovo Star Wars – Il risveglio della forza, è un vero gentleman con le donne ma non si riesce a convincerlo: vuole solo un po’ di cipria, mentre l’autore di Life, Anton Corbijn, è interessato a quello che c’è dentro ai prodotti, da buon vegano non vuole parabeni e siliconi in quello che gli si mette in faccia”. Insomma non fanno capric- ci durante il make up ma bisogna essere bravi a capire le loro priorità, su tutte la velocità. “Danno l’impressione di avere altro su cui concentrarsi, senza dubbio il film - continua Manzo – ma prestano anche attenzione a non dare a vedere che si vogliono far belli, sembrano voler preservare un’aria da intellettuali, che cozzerebbe con una propensione alla vanità. L’ho notato anche con Antoine Fuqua (The Equalizer), che non incarna nemmeno l’aspetto da intellettuale eppure ci tiene a fare un trucco velocissimo, quasi avesse paura di essere giudicato altrimenti”. È come se i registi di tutto il mondo avessero stabilito un codice non scritto per cui al lancio del film l’autore può e deve lasciare che l’attenzione sia catalizzata solo sull’opera. Non fanno eccezione i più giovani, neanche nel caso siano attori. Silvio Muccino per la promozione di Un altro mondo si è fatto da parte lasciando che fossero il film e le sue coprotagoniste al centro della scena. “Isabella Ragonese e Maya Sansa tenevano in alta considerazione i gusti di Silvio, che non lesinava consigli sia su acconciature che sulle mise da indossare”. Più articolati i racconti di chi i registi li frequenta nella doppia veste di amici e clienti di lunga data, come Roberto D’Antonio, hair stylist delle star e vero punto di riferimento per molti cineasti, che a lui si rivolgono per trovare il taglio più adatto per un personaggio. C’è lui dietro ai primi film di Renato De Maria e Pappi Corsicato, lui volò a Londra per parlare con il parruccaio Peter Owen per le ciocche turchine della fata Nicoletta Braschi in Pinocchio. E sempre lui ha studiato il look di Riccardo Scamarcio per Pericle il nero, il nuovo film diretto da Stefano Mordini. Amante del cinema, viene ripagato con la stima di molti: Mario Martone, Mimmo Calopresti, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone sono solo alcuni degli artisti che fanno toccare i propri capelli solo a lui. “Questi registi hanno un legame con la loro immagine non molto diverso da quello degli attori, ma non si tratta di vanità, bensì di un marchio di fabbrica. Difficilmente cambiano immagine – spiega D’Antonio - solo Saverio Costanzo tende a tagliarsi i capelli più corti di tanto in tanto”. I cambiamenti diventano accettabili nel caso in cui registi e attori decidano di utilizzare il look per sottolineare un cambiamento del personaggio. Laura Morante ha usato l’escamotage in Assolo, dove anche i capelli sottolineano il passaggio da donna timorosa a consapevole e sicura. Rarissimi i colpi di testa: Francesca Comencini per il red carpet di A casa nostra al Festival di Roma volle rasarsi quasi a 0. “Era bella ma non era più lei. – ricorda D’Antonio – Non dovendo comparire di continuo in video i registi potrebbero essere più inclini a cambiare, ma preferiscono portare avanti un’ immagine: sanno che le scelte radicali richiedono cure e 42 - 43 attenzioni e loro sono sempre sui set”. Concretezza e un pizzico di ironia è l’identikit che fa dei registi Michele Magnani, Global senior artist MAC Cosmetics: “Se c’è un difetto o un’imperfezione che vogliono attenuare sono loro stessi a segnalarla e questo aiuta moltissimo il lavoro, oltre al fatto che non hanno l’esigenza di sentirsi belli: a differenza degli attori non vivono sulla riconoscibilità fisica, ma sullo stile del loro cinema”. Non sono gelosi della loro immagine ma non amano vedersi troppo diversi. Fortunatamente alcuni si sottopongono al make up in modo scherzoso. Ferzan Ozpetek si lascia andare a battute sui trucchi, facendo di quel momento necessario un modo utile a sdrammatizzare la tensione prima di un red carpet o di interviste importanti. arola d’ordine: praticità. L’imperativo delle registe sul set in materia di look si chiama comfort. Una tendenza dettata dalle necessità, certo. Ma con infinite variabili e sfumature. Perché, oltre a raccontare chi lo porta, l’abito indossato per dirigere la troupe significa anche altro. Ha a che fare con i ricordi e la sensibilità di ciascuna regista, ma è anche il modo silenzioso, diretto, immediato di comunicare con le maestranze e con gli attori, di dialogare con il film. P Come per Costanza Quatriglio, per cui è lo stesso film a dettare lo stile: “Quando ho girato il corto dell’Onu (Zero Hunger Challenge, ndr) con i bambini, volevo essere un riferimento immediato, quindi mi sono vestita in modo riconoscibile, fin dai provini: per quelle riprese ho scelto il colore vivo del mare. Nei documentari, invece, indosso da sempre la tuta dell’invisibilità, che significa l’arte del mimetizzarsi. Lì i colori non devono distrarre e neanche lo stile. È il caso di film come Triangle o 87 ore”. A far da collante tra i diversi titoli, il must della comodità e la passione per gli indumenti multitasche, tutti rigorosamente lavabili, perché “mi piace sporcarmi sul set”. Ogni film ha il suo oggetto emblematico, come “una giacca particolare che è diventata per tutti noi il simbolo di Con il fiato sospeso”. O una misteriosa linea di continuità: “Per Triangle mi sono concentrata sulle righe, ne ho indossate per tutte le riprese! Per terramatta;, invece, abbiamo girato molti notturni e lì portavo sempre un vecchissimo maglioncino verde mezzo fluorescente super pop!”. Tra i privilegi del set, per Francesca Comencini c’è l’opportunità di vestire liberamente, “perché quando giro non sento alcuna necessità estetica. Anche la donna che si dichiara più libera, ne risente. Ecco, io vivo il set come una parentesi in cui trascendo me stessa”. Il tocco, sul set come nella vita, è riconoscibile: “Sono diventata donna negli Anni ’70 e ho di CHIARA GELATO Il look delle registe sul set: comodità, leggerezza ma anche scaramanzia nei racconti di Costanza Quatriglio, Francesca Comencini, Giorgia Farina, Roberta Torre e Laura Bispuri. TENDENZE Cinéphile Look 44 - 45 un po’ di femminilità bisogna lasciarla fuori dal set. Non perché si è a contatto con un mondo di uomini – che, anzi, gradirebbero la regista ‘restaurata’ – ma per comodità: spesso fa freddo o si sta in ginocchio per parlare con gli attori. In compenso mi rifaccio sulle attrici! Anche perché i miei due film (Amiche da morire e Ho ucciso Napoleone, ndr) hanno protagoniste femminili con cui abbiamo giocato sul look. Già in fase di riprese ‘punto’ dei vestiti del set, che poi puntualmente requisisco! Così alla fine mi rimane un capo, che vale anche come reliquia del film”. Roberta Torre, invece, ha un suo personalissimo setting dress code: “Porto tessuti leggerissimi, morbidi, caldi. E indosso pantaloni che mi faccio cucire apposta dalla sarta. Sono pantaloni alla turca, senza cuciture. Li associo a maglioni comodi e larghi. Quando giro voglio stare libera da tutto, perché sul set mi muovo moltissimo. Poi ho una borsa che uso da secoli, con delle grandi tasche dove ogni cosa ha un suo posto, primo fra tutti il copione, che faccio rimpicciolire. Prima di uscire metto la crema idratante a litri, perché sul set si secca la pelle. I capelli, me li sistemano al parrucco. E poi, massaggi mattina e sera. Il mio, è un metodo collaudatissimo!”. Il segreto? “Ho studiato questo look per non sentire nulla addosso, per coltivare la leggerezza. Le scarpe, poi, sono un capitolo a parte. Sul set utilizzo solo le MBT, che hanno una suola ad onda. Quando stai in piedi, ti massaggiano schiena e gambe. Sono esteticamente raccapriccianti, ma non importa, perché non ti fanno sentire la fatica. Nel mio ultimo film, I baci mai dati, ho contagiato l’intera troupe! Tutti dondolavano, persino il direttore della fotografia”. Un unico stile, nella vita come sul set, per Laura Bispuri. “Quando giro, la sola cosa a cui rinuncio sono i tacchi. Poi, certo, tutto dipende dal film: ho girato Vergine giurata sulle montagne dell’Albania, in luoghi dove non c’era nemmeno il riscaldamento. Quando, inaspettatamente, è caduta la neve, non abbiamo avuto scelta: ci siamo dovuti bardare, strato su strato”. A volte poi, a stare a stretto contatto con i suoi personaggi, alla regista capita anche di sviluppare una certa capacità mimetica: “In fase di riprese tendo a prendere le sembianze del mio protagonista, a somigliargli nel look e nello stile. Impressionante, divento identica a loro! Me ne sono accorta rivedendo le foto dei set. Una volmantenuto questo look nel tem- ta ho girato un corto con un ragazzino rumeno: a rivedere quegli scatti po. A pensarci, oggi vesto allo stes- sembriamo due bambini!”. so modo di quando avevo 25 anni! Mi piace avere un’identità legata Ma il cinéphile look passa anche per le scelte scaramantiche e gli aca quel momento. E poi è uno stile cessori imprescindibili. A ciascuno il suo, però nessuno sembra farne che torna periodicamente di mo- a meno. Dalle sciarpe della Comencini, perché “mi piace tenere una da!”. Gonne e tacchi banditi, an- pezzetta intorno al collo, mi fa sentire protetta”, ai portafortuna di che perché “ho un modo di cam- Laura Bispuri, oggetti irrinunciabili, nella vita come sul set. “Ho semminare legato alle scarpe basse. E pre con me uno zaino arancione che mi ricorda i tempi della Columbia sono sempre di corsa! In compen- University – racconta Giorgia Farina - e poi la catenina di mia nonna so, porto i capelli lunghi. Penso di con la mano di Fatima. Ma c’è anche una felpa gialla dei Sex Pistols che essere una regista femminile, an- utilizzo solo il primo e l’ultimo giorno di set”. Per Costanza Quatriglio che se indosso pochissimo le gon- imprescindibile è “una maglietta turchese che ho usato per girare L’ine. Coltivo nel mio modo di fare sola. L’ho messa tante di quelle volte che ormai è slavatissima! Ma il vesul set delle modalità che sono so- ro oggetto scaramantico è un ciondolino di corallo che apparteneva lo mie, di donna”. a mia nonna. Una volta, mi ricordo, lo persi sul set, in una spiaggia di coralli e sassolini piccolissimi, a Favignana. Quando, l’indomani, torScarpe da ginnastica, pile e pan- nai in spiaggia a cercarlo, lo riconobbi, magicamente, sul bagnasciutaloni larghi, il look da riprese ga, mentre il mare se lo stava portando via. Per me quello è il ciondolo di Giorgia Farina: “Purtroppo della sfida all’impossibile”. L’A R M A D I O D E L C I N E G I O R N A L I S TA Nicolas Winding Refn va in conferenza in accappatoio, Quentin Tarantino ciabatta ai festival in infradito e Johnny Depp si porta la birretta da casa: a quali criteri di eleganza, quindi, dovrebbe rifarsi il cronista? Osservazione e analisi dei codici di abbigliamento dei critici cinematografici: sciatti, pauperisti, elegantoni, austeri, alternativi. Anche se il miglior accessorio da indossare è… il badge del colore giusto (per entrare prima e dappertutto). di ILARIA RAVARINO Devo andare a comprarmi qualcosa, non ho niente da mettere - mi disse una volta una collega nei frettolosi saluti del dopo proiezione -; intendo, non ho nessun vestito da giornalista”. Non era mica un vezzo il suo. Era una sacrosanta necessità: trovare una divisa a una categoria, quella del giornalista e critico cinematografico, che per definizione non ne ha. Un po’ è una condizione dettata da ragioni ambientali: nel buio della sala, siamo onesti, i giornalisti potrebbero essere tutti in pigiama. E la natura informale degli incontri impone un dress code tarato sul carattere dell’ospite: ma se Nicolas Winding Refn va in conferenza in accappatoio, Quentin Tarantino ciabatta ai festival in infradito e Johnny Depp si porta la birretta da casa, a quali criteri di eleganza dovrebbe rifarsi il cronista? E così, l’assenza di un codice estetico universale rende il mondo della moda da cinegiornalista particolarmente, diciamo, scoppiettante. Il primo, e più diretto, approccio al problema consiste nell’indossarlo. Il merchandising delle distribuzioni tiene conto della cronica mancanza di abbigliamento “da campo” e provvede copiosamente. Tra cappellini, magliette, spille e borse griffate col logo dei film ci si potrebbero rivestire da capo a piedi i redattori di imdb. Così combinato, il giornalista brand-victim rende manifesta, a chi ancora non avesse capito che lavoro faccia, la sua appartenenza alla schiatta dei cultori del cinema. C’è sempre la possibilità che venga scambiato per un fan o un attrezzista di scena, ma fa parte dei (moderati) rischi del mestie- “ TENDENZE Cinéphile Look re. La maglietta brandizzata è però un evergreen cui nessun giornalista sa rinunciare, specialmente in camera da letto: un film non sarà mai abbastanza brutto da non poterlo indossare almeno come pigiama. La giacca, e i tacchi, sono i porti sicuri cui approdare in cerca di quella credibilità che la t-shirt dei Muppets in certi ambienti non può dare. Ma attenzione: i tacchi, in particolare se alti, sono una scelta precisa che è anche spia dello status del giornalista. Chi li porta, in genere, è assunto e lavora in una redazione, se non è assunto ha un collegamento tv, se non lavora in tv è l’inviata di un femminile e in ogni caso o si muove in taxi o non si muove affatto. Pochissime freelance si avventurano oltre la scarpa da ginnastica, e quando osano il tacco è in occasioni davvero speciali, tipo il proprio matrimonio. Lo urban clothing del freelance da battaglia, particolarmente rarefatto in occasione delle trasferte, più che al desiderio di rappresentanza risponde a un bisogno: la sopravvivenza. Borsoni multitasca, anfibi, tessuti incompatibili col ferro da stiro, tutto accartocciabile in un pratico bagaglio a mano all’interno del quale vestiti e cavi formano un bolo indistinto. È la corrente dei maso-pauperisti: anche l’abbigliamento deve comunicare la sofferenza che patiscono sul lavoro, nel caso in cui qualche editore volesse mettersi la mano sulla coscienza. L’anticonformismo, in un ambiente un pizzico provinciale come il nostro, serve al massimo a far rientrare il giornalista nell’ambigua categoria del personaggio: “il tatuato”, “il motociclista”, “l’alternativo”, “il coatto”. Presentarsi ai David con una benda sull’occhio in stile Bowie, da noi, non se lo possono permettere nemmeno quelli di “Rolling Stone”. L’eleganza è una variabile declinata in modo molto diverso, non tanto in base al genere quanto all’età. Prendiamo le feste. Se presso gli over 40 l’austerità pare la cifra distintiva - gonne al ginocchio, giacca e camicia, rarissimi e indimenticabili azzardi pitonati -, around 30 l’interpretazione del “glamour” è più vivace. Il colpo d’occhio generale è d’effetto: più o meno come incontrare allo stesso party Oriana Fallaci e Miley Cyrus. Ma il gap generazionale si riflette anche, e soprattutto, nelle situazioni di rappresentanza. Più castigata, al limite del cimiteriale, la divisa del giornalista di lungo corso risponde sul palco a un criterio: scomparire al servizio dell’ospite. E farlo più in fretta possibile, che poi tocca lavorare per davvero. Per il giornalista acerbo il palco rappresenta invece spesso un’occasione irripetibile: ci sale così di rado che vale la pena tirare fuori il vestito da festa, la cravatta, la scollatura sbarazzina, nella segreta speranza che la performance garantisca, almeno, un decente acchiappo. E poi ci sono loro. I puristi. La mise del critico duro e puro è un passepartout per ogni stagione, fatto di pochi capi basic, unisex, buoni per ogni epoca. La sciarpetta. Gli occhiali (consentita, con moderazione, la personalizzazione della montatura). Il maglione a collo alto. Il pantalone con risvolto. Colori: grigio Antonioni, blu Kieslowski. O il seppiato, che va con tutto. Quando ho incontrato di nuovo la mia collega eravamo entrambe al Festival di Cannes. “Alla fine la divisa da giornalista l’hai trovata?”, le ho chiesto, invidiandole quella meravigliosa gonna verde a palloncino. “No”, mi ha riposto lei alzando le spalle, “ho rinunciato”. Ai festival, del resto, il problema non si pone. Qualsiasi cosa si indossi, abbiamo tutti una consapevolezza: niente veste il giornalista meglio di un badge del colore giusto. 46 - 47 TENDENZE Cinéphile Look 48 - 49 FATTI Dossier di DG Cinema e ANICA I PRINCIPI ISPIRATORI DELL’INTERVENTO PUBBLICO NEL SETTORE CINEMATOGRAFICO E AUDIOVISIVO diFederica D’Urso, Iole Maria Giannattasio, Francesca Medolago Albani Con la riforma della normativa sul cinema, la riflessione del Governo e dell’industria attinge a questi presupposti per elaborare un sistema di sostegno efficiente ed efficace ai fini di un sano sviluppo di un settore che si evolve rapidamente nell’ambito del contesto globale e il cui ruolo strategico assume un’importanza sempre più evidente. ono in corso i lavori che porteranno alla riforma della normativa sul cinema in Italia: all’inizio di quest’anno infatti il Governo ha presentato il testo di riforma in un collegato alla legge di stabilità. L’obiettivo del Governo è quello di aggiornare la regolamentazione alla luce delle evoluzioni del mercato cinematografico e delle novità relative al vivace contesto del settore audiovisivo in cui l’industria cinematografica si inserisce. S Questa è per noi l’occasione per riflettere su alcuni principi generali che ispirano e motivano l’intervento pubblico nel settore cinematografico e audiovisivo. La riflessione del Governo e dell’industria attinge a questi principi per elaborare un sistema di sostegno che sia efficiente ed efficace ai fini di un sano sviluppo di un settore che si evolve rapidamente nell’ambito del contesto globale e il cui ruolo strategico assume un’importanza sempre più evidente. Fra gli argomenti più interessanti oggetto di dibattito si approfondiranno di seguito il principio dell’eccezione culturale e il tema dell’ampliamento della competenza del MiBACT dal settore strettamente cinematografico al più ampio settore audiovisivo. FATTI Dossier di DG Cinema e ANICA SINTESI DEL QUADRO NORMATIVO ATTUALE do, per la prima volta, un sostegno automatico alle opere non cinematografiche. La previsione è contenuta all’articolo 8 del decreto-legge “Valore Cultura” dell’8 agosto 2013, n.91, convertito in legge 7 ottobre 2013, n.112. L’applicazione delle norma è iniziata nel marzo del 2015 con la pubblicazione del decreto ministeriale attuativo. L’attuale quadro normativo sul cinema fa essenzialmente riferimento a due testi normativi: * Il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28, cosiddetta “Legge Urbani”, che, con i relativi decreti attuativi, peraltro aggiornati nel corso del 2015, costituisce il testo di riferimento per la gestione di tutti fondi diretti a favore dei diversi segmenti della filiera e definisce criteri e parametri per il riconoscimento della nazionalità italiana dei film, ai fini dell’accesso a tutti i benefici di legge. I sostegni diretti sono alimentati dal FUS, Fondo Unico per lo Spettacolo, istituito dalla legge 30 aprile 1985, n. 163 * La legge 244/2007, art. 1, commi 325-343 e relativi decreti attuativi, che introduce il tax credit e ne definisce criteri e limiti di applicazione nelle diverse declinazioni. Come è noto, nel 2013, il credito d’imposta è stato esteso anche ai produttori indipendenti di opere audiovisive, introducen- TUTTO HA INIZIO CON IL PRINCIPIO DELL’ECCEZIONE CULTURALE 50 - 51 Nel quadro normativo sul settore audiovisivo, il ruolo delle emittenti televisive è regolamentato dall’articolo 44 del decreto legislativo 31 luglio 2005 “Testo unico dei servizi media audiovisivi e radiofonici” che determina il tempo di trasmissione che le emittenti nazionali devono destinare alla programmazione di opere europee realizzate da produttori indipendenti e l’investimento nella produzione, finanziamento, pre-acquisto o acquisto delle stesse. Il successivo decreto inter-ministeriale MiBAC-MiSE del 22 febbraio 2013 stabilisce le sotto-quote di riserva da destinare a programmazione e investimento in opere di espressione originale italiana. La revisione cinematografica, ossia il rilascio del cosiddetto “visto censura” per la proiezione in pubblico è normata dalla legge 21 aprile 1962, n. 161, e dal successivo Regolamento di Esecuzione, D.P.R. 11 novembre 1963, n. 2029 Il principio dell’eccezione culturale, va detto in partenza, non ha nulla a che fare con la diversità culturale. Molta confusione esiste su questo argomento, anche con un po’ di ingenuità coltivata da chi non gradisce molto la parola “eccezione”, perché intuitivamente suggerisce una zona franca senza dotarla del fascino del pluralismo, della varietà, della - appunto - diversità. In realtà proprio di zona franca si tratta. L’eccezione culturale attiene alla più elementare delle problematiche giuridiche: da una parte vi sono delle regole generali e dall’altra dei casi particolari per i quali si stabilisce che quelle regole non valgono. Le regole cui ci si riferisce in questo caso sono quelle del libero scambio commerciale, scritte in trattati internazionali multilaterali. Il trattato generale di libero scambio per le merci si chiama GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), gestito e rivisto periodicamente fin dal 1947 in seno all’ONU e, dal 1995, da un’organizzazione dedicata, il WTO (World Trade Organisation o OMC Organizzazione Mondiale del Commercio). Accanto a quello per le merci, per la prima volta nel 1994 vengono firmati il Trattato sui Servizi, GATS (General Agreement on Trade in Services) e il TRIPS (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights), sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (marchi e brevetti industriali, prevalentemente). LA BATTAGLIA DELLA FRANCIA ALL’URUGUAY ROUND DEL 1994 Fin dal 1957, con il Trattato di Roma, si stabilisce che l’Unione Europea ha competenza esclusiva sulla politica commerciale del Vecchio Continente, motivo per il quale di tanto in tanto sorgono questioni in sede di negoziato tra gli indirizzi comunitari e i desiderata particolari di singoli Paesi membri. Esattamente in questa posizione si incunea il tema dell’eccezione culturale: la Francia nel 1994, al termine dell’Uruguay Round, ottiene che si estragga l’audiovisivo - in quanto materia culturale e, quindi, competenza esclusiva degli Stati membri - dall’arena dei servizi su cui si sta discutendo il trattato di libero scambio. È la data di nascita di quel principio, su cui 19 anni dopo si scatena una nuova battaglia, stavolta in sede di negoziato bilaterale. Sempre al veto della Francia si deve infatti il carve-out (sottrazione, appunto) dei servizi audiovisivi dal mandato all’UE a trattare l’accordo USA-UE sul commercio e gli investimenti, il famigerato TTIP (Transatlantic Trade and Investments Partnership), i cui negoziati sono partiti nel giugno 2013. Al termine di una furiosa maratona politica a colpi di affermazioni, tentennamenti, concessioni, smentite di singoli Paesi, in un’Europa commerciale completamente a digiuno dei temi economici dell’audiovisivo, rimane fermo sulla sua posizione un solo Stato che sull’audiovisivo ha costruito una battaglia cul- turale (in tutti i sensi), ottenendo nuovamente ragione sulle ragioni della meccanica, dell’agricoltura, della chimica, dell’interesse degli USA di Obama ad avere mano libera anche nel redditizio settore dei servizi audiovisivi. Che nell’era digitale significano tutte le piattaforme di distribuzione online. FATTI Dossier di DG Cinema e ANICA AIUTI PUBBLICI COMPATIBILI CON IL TRATTATO DI ROMA SOLO SE PROMUOVONO LA CULTURA Grazie, sempre, alla Francia. Però - perché un però c’è - siamo sicuri che al mondo audiovisivo europeo, e all’industria in particolare, veramente convenga rimanere estraneo alle grandi questioni economiche e commerciali globali? L’ultimo anno ci dimostra in parte il contrario: dal lancio della Strategia della nuova Commissione Europea sul Mercato Unico Digitale, nel maggio 2015, i nodi stanno piano piano venendo al pettine, mettendo sempre più in evidenza come la zona franca così strenuamente protetta corra altri tipi di rischi, meno evidenti nell’immediato, ma perniciosi nel medio-lun- go termine. Il principale è quello di costringere un’area dal grande potenziale di crescita economica ed occupazionale per l’Europa, come è l’audiovisivo (senza più distinzioni tra cinema in sala e servizi di distribuzione tv e online), per lo più rappresentato dalle migliaia di piccole e medie imprese attive nella produzione e distribuzione indipendente, in una dimensione ristretta, sconosciuta nei suoi fondamentali economici e industriali ai burocrati europei, governata con logiche autocratiche estranee all’andamento dei mercati globali. Piaccia o non piaccia, l’audiovisivo vanta invece una duplice natura: attivi- L’INTERVENTO FINANZIARIO DELLO STATO NELL’AUDIOVISIVO È ISPIRATO ALLA FUNZIONE DI PROMOZIONE CULTURALE E quindi si è già detto il fondamentale perché dell’intervento dello Stato nell’audiovisivo. Non si può trascurare che sia scritto nella Costituzione Italiana, sin dai Principi Fondamentali, all’articolo 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. La legge cinema in vigore oggi in Italia richiama anche gli articoli 21 e 33, con le relative connessioni all’arte, alla libertà di espressione, all’istruzione in tutti i suoi gradi. Come appena ricordato, invece l’azione dell’UE in ambito culturale è complementare a quella degli Stati membri (principio di sussidiarietà), disciplinata dall’articolo 6 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE): “l’U- 52 - 53 tà culturale e attività economica e industriale, un’ibridazione portatrice di grande valore ma anche di una complessità che non sempre si può (o si vuole) capire quando si cercano soluzioni semplici. La Comunicazione Cinema di fine 2013, che la Commissione Europea ha approvato dopo un lungo periodo di consultazioni rivedendo la precedente del 2001, è il documento ufficiale recente più importante per comprendere il presupposto teorico dell’intervento pubblico a sostegno delle imprese. Per quanto vi si richiami, infatti, l’importanza dell’industria audiovisiva europea per la crescita economica dell’Europa e il suo ruolo predominante su scala globale, ribadisce che il regime degli aiuti pubblici all’audiovisivo può essere compatibile con il Trattato solo se promuove la cultura. Si basa, quindi, sul principio di eccezione rispetto alle regole generali sugli aiuti di Stato. nione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri”, declinato poi nell’art. 167. L’intervento anche finanziario dello Stato nell’audiovisivo è quindi ispirato alla funzione fondamentale di promozione culturale e pertanto rientra nelle competenze del MiBACT. Le linee guida che storicamente hanno aggiornato strumenti e formule di intervento, dagli aiuti diretti agli incentivi fiscali, hanno sempre riaffermato il principio di fondo, agganciando a parametri e dispositivi di “culturalità” (dal concetto di Interesse Culturale Nazionale al test di eleggibilità culturale per accedere ai benefici fiscali) ogni azione di sostegno. Questo è il nodo cruciale nel momento in cui si pensa a una riforma: se “culturale” è un’impresa di esercizio cinematografico perché programma prodotto culturale (quale è l’audiovisivo) e, contemporaneamente, è elemento necessario per mantenere viva la vita culturale di un centro citta- dino, ovvero per promuovere la cultura della socialità e l’avvicinamento alle opere cinematografiche da parte delle giovani generazioni, quanto si può estendere questo “pensiero laterale”? È possibile superare concettualmente il limite per cui è il singolo prodotto a essere culturale, avvicinandoci al punto essenziale per cui è l’impresa - che fa e rende di- sponibili prodotti audiovisivi, e quindi produce cultura in varie forme e formati - a fare un’”attività culturale” a 360 gradi? Questa estensione non sarebbe affatto nuova nel panorama delle policy europee: il caposaldo del sistema francese è proprio questo. Un sistema non è tale – o non regge se ogni componente non concorre in modo armonico al funzio- NEL LINGUAGGIO DEL MERCATO IL TERMINE ‘AUDIOVISIVO’ SI ESPANDE IN FUNZIONE DELL’EVOLUZIONE TECNOLOGICA Fra gli argomenti più interessanti oggetto del dibattito sulla riforma del sistema di intervento statale emerge quello dell’opportunità di estendere l’oggetto dal solo settore cinematografico al più ampio settore audiovisivo. Per audiovisivo, nel linguaggio del mercato, si intende tutta la produzione di immagini in movimento destinata non prioritariamente, o, meglio, non necessariamente alla sala cinematografica. Nel tempo il perimetro dell’”audiovisivo” si è definito ed espanso in funzione dell’evoluzione tecnologica, ovvero della nascita e, in taluni casi, della sparizione delle diverse piattaforme di diffusione, della trasformazione e moltiplicazione dei supporti e delle tecniche di veicolazione dei contenuti. Ne consegue che, in termini generali, il cinema non è che un sottoinsieme dell’audiovisivo. Va tuttavia rilevato che le tendenze generali dell’evoluzione tecnologica, ma anche delle prassi di mercato, sono mosse essenzialmente dal transito delle tecniche sia di realizzazione che di fruizione dal paradigma analogico a quello digitale: ciò che cambia, si evolve, si moltiplica sono quindi la tecnica di produzione e gli strumenti di diffusione del prodotto, più che il prodotto stesso. Da punto di vista del mercato quindi, la tendenza ormai consolidata vede una progressiva emancipazione del prodotto, o opera audiovisiva, dalla sua piattaforma di distribuzione, che sempre più diventa marginale rispetto al destino distributivo e commerciale del prodotto. Lo stesso film, in altri termini, raggiunge il pubblico attraverso la sala cinematografica, la televisione, il supporto per home video, la piattaforma web, senza più una gerarchia consolidata fra i diversi canali e senza una stretta identificazione con un canale specifico: il film non è necessariamente solo l’opera che esce al cinema, la fiction non più necessariamente solo l’opera che esce in televisione e così via. Ciò che diventa quindi centrale nella nuova configurazione del mercato è il prodotto in quanto tale, la sua qualità, e su questa nuova consapevolezza sia l’industria sia le istituzioni stanno orientando le proprie strategie di azione ed intervento. namento complessivo: essendo riconosciuto che la componente economica è fondamentale e che le imprese sono le unità che muovono il sistema e il mercato, e quindi la creazione e circolazione delle opere, può essere forse questo il momento di mettere a fuoco diversamente, di riformare, anche gli obiettivi dell’azione stessa dello Stato? FATTI Dossier di DG Cinema e ANICA 54 - 55 SUL FRONTE GIURIDICO LA DEFINIZIONE DI ‘OPERA AUDIOVISIVA’ NELL’AMBITO DELLA NORMATIVA ITALIANA Sul fronte giuridico e regolamentare, il primo tentativo di definire l’opera audiovisiva risale al Regolamento AGCom contenuto nella Delibera 30/2011/CSP, relativo alla limitazione temporale dei diritti secondari. Si tratta di un regolamento dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, a cui è affidato il compito di garantire il rispetto delle norme relative al settore delle comunicazioni, con particolare riferimento al comparto televisivo. È quindi con un regolamento di un’autorità indipendente, ovvero con uno strumento che nella gerarchia normativa occupa un posto decisamente subordina- to, che per la prima volta ci si cimenta nella definizione dei contorni dell’articolata nebulosa che costituisce l’opera audiovisiva: il tentativo pionieristico fu interessante, almeno nelle intenzioni, considerando che fino ad allora, il 2011!, nessuno aveva proposto una definizione di opera audiovisiva, né a livello statale né a livello comunitario. In quel caso comunque la definizione di questa tipologia di opera si rendeva funzionale all’individuazione dei diritti primari e secondari sull’opera stessa e non ambiva ad assumere un valore definitorio di per sé. Una più recente ed esaustiva defi- nizione di opera audiovisiva, in attesa del testo della legge di riforma di settore, va rintracciata nel Decreto MiBACT di attuazione della Legge n. 112/2013, che convertiva il Decreto Legge “Valore cultura”, n. 91/2013. Tale Decreto Ministeriale, pubblicato nel marzo 2015, contiene le disposizioni applicative per l’estensione del tax credit ai produttori indipendenti di opere audiovisive. Assieme alla Legge da cui discende, si tratta di un testo molto significativo nella storia normativa del settore la cui competenza è attribuita alla Direzione Generale Cinema del MiBACT, perché segna la data del primo in- tervento di questo Ministero in un ambito diverso da quello strettamente cinematografico, ovvero nel settore audiovisivo appunto. In assenza di una normativa e di un apparato definitorio dedicato al prodotto audiovisivo, e anche in assenza di una esplicita attribuzione di competenza in merito a questo prodotto, nel Decreto si è resa necessaria la definizione di un perimetro che circoscrivesse l’area oggetto di sostegno. Ne deriva quindi la prima definizione di “opera audiovisiva” nell’ambito della normativa italiana, che vale qui la pena di riportare integralmente (art. 2, comma 1, lettera a): “Per ‘opera audiovisiva’ si intende la registrazione di immagini in movimento, anche non accompagnate da suoni, realizzata su qualsiasi supporto, con contenuto narrativo, documentaristico o di animazione, tutelata dalla normativa vigente in materia di diritto d’autore, destinata al pubblico dal titolare dei diritti di utilizzazione”. L’opera audiovisiva è quindi individuata sulla falsariga della tradizionale definizione di “opera cinematografica”, da cui si distingue essenzialmente per la sua destinazione: mentre l’opera cinematografica è tale in quanto prioritariamente destinata alla fruizione nella sala cinematografica, l’opera audiovisiva è destinata al pubblico senza ulteriori specificazioni in merito alla tipologia di piattaforma su cui viene veicolata. Ne deriva che nell’insieme delle opere audiovisive rientrano non solo le opere cinematografiche stesse, ma anche le opere televisive, le opere per il web e qualsiasi altra opera costituita da immagini in movimento, caratterizzata da una struttura narrativa o documentaristica e in qualche modo destinata al pubblico. È evidente che, in prospettiva futura, all’interno di questa definizione sono candidate a ricadere tutte le opere che abbiano le caratteristiche citate, indipendentemente dalla piattaforma di distribuzione o diffusione attraverso cui raggiungeranno il pubblico, oltre che, come già esplicitamente recita il testo del decreto, indipendentemente dal supporto su cui saranno realizzate. L’ESTENSIONE ALLE OPERE AUDIOVISIVE DEL SOSTEGNO PUBBLICO GESTITO DAL MIBACT L’estensione del sostegno pubblico gestito dal MiBACT alle opere audiovisive è uno degli argomenti più scottanti nel dibattito sulla riforma del sistema. Va ricordato che tecnicamente fino ad ora la competenza sul prodotto audiovisivo non era esplicitamente attribuita a nessun Ministero e, del resto, finora non se ne era posta la necessità, in assenza di sostegni pubblici a favore di tale oggetto. Per precisione, è d’obbligo ricordare un unico precedente tentativo da parte del MiBACT di intervenire sul prodotto audiovisivo, attraverso un progetto di sostegno alle emittenti televisive locali per la realizzazione di contenuti autotpodotti, che si sostanziò nel 2002 con il Decreto Ministeriale n. 147/2002, ma che non ebbe mai effettiva applicazione. L’orientamento dell’Amministrazione, annunciato con il DL Valore Cultura e le sue applicazioni, è ormai chiaro e quindi l’estensione della competenza del MiBACT a tutto ciò che riguarda l’audiovisivo dal punto di vista del prodotto è ormai assodata. La prospettiva futura vede quindi l’aprirsi di opportunità di sostegno al prodotto audiovisivo in quanto tale, qualsiasi sia il suo veicolo di diffusione o distribuzione. Il cambio di prospettiva è altresì significativo perché rappresenta un importante passo verso la consapevolezza da parte delle istituzioni, che si allineano così alle tendenze del mercato, che sempre più il prodotto esiste indipendentemente dai veicoli e le tecniche di sfruttamento, dalle tecnologie e i supporti su cui viene realizzato e dalle prassi commerciali adottate per valorizzarlo sul mercato. L’INTERVENTO DIRETTO DELL’UNIONE EUROPEA A FAVORE DELLL’INDUSTRIA AUDIOVISIVA A differenza di quanto è avvenuto, almeno sinora, a livello statale, gli interventi a favore del settore attuati da parte del livello territoriale superiore, ovvero l’Europa, e di quello inferiore, ovvero le Regioni e gli enti locali, sin dalla loro origine si rivolgono indistintamente al cinema e all’audiovisivo. All’origine di questo orientamento ci sono le motivazioni e gli obiettivi che ispirano l’intervento di questi soggetti nel settore, che non coincidono totalmente con quelli che muovono il sostegno erogato dallo Stato. Diversamente da quanto avviene nel caso dello Stato, l’intervento diretto a favore del settore promosso dall’Unione Europea fin dalle sue origini, ovvero dal 1991 quando nacque il primo Programma MEDIA – attualmente sottoprogramma di Europa Creativa, è rivolto al settore audiovisivo nel suo complesso, di cui il cinema è un sottoinsieme, accanto alle fiction televisive, i documentari, le opere di animazione, le opere multimediali. I principi ispiratori di MEDIA nascono infatti dalla volontà, espressa dalla Commissione Europea a valle di un approfondito studio del mercato dei media realizzato negli anni ’80 e le cui evidenze principali sono state confermate dalle analisi periodiche realizzate successivamente, di promuovere lo sviluppo dell’intera industria europea dell’immagine in movimento, con l’obiettivo di renderla competitiva con quella americana. Quest’ultima, infatti, vantava alla fine del secolo scorso e, nonostante alcuni buoni risultati della politica europea in questa direzione, continua attualmente a mantenere una presenza molto significativa su tutti i mercati: dalla sala cinematografica con una quota di mercato pari a circa il 50% nella maggioranza dei paesi europei, ai palinsesti televisivi con note serie di straordinario successo, all’offerta web con piattaforme on demand legali in grado di contrastare e competere con le proposte dei media più tradizionali. L’obiettivo dell’Unione Europea è quindi lo sviluppo di un’industria audiovisiva forte e stabile, in grado di produrre contenuti di qualità e di penetrare il mercato interno in misura significativa, al fine di promuovere le identità culturali europee attraverso l’audiovisivo. Per perseguire questo fine tanto complesso, che riguarda essenzialmente la costruzione di una consapevolezza culturale europea attraverso l’arte e l’intrattenimento, la prima esigenza è quella di raggiungere la maggior parte della popolazione, in tutte le fasce sociodemografiche. È quindi evidente che l’intera industria dell’audiovisivo debba essere oggetto di sostegno, sia sul fronte cinematografico che su quello televisivo, sia poi sulle piattaforme digitali. FATTI Dossier di DG Cinema e ANICA LE REGIONI INVESTONO SECONDO ESIGENZE E CARATTERISTICHE DI CIASCUN TERRITORIO A differenza di quanto avviene per i fondi di sostegno nazionali e sovranazionali, mossi da una motivazione che ha a che fare con la valorizzazione dell’opera audiovisiva in quanto prodotto culturale e frutto di un impegno obbligatorio dell’amministrazione pubblica nel sostegno al settore, i fondi regionali nascono da una volontà politica locale che a fronte di un investimento si aspetta di ottenere un ritorno che, di qualsiasi natura sia, deve giustificare l’investimento stesso. A differenza dello Stato, le Regioni non sono tenute a investire nel settore audiovisivo: se lo fanno è perché ne traggono un vantaggio. Questo è il motivo per cui non tutte promuo- 56 - 57 vono fondi specifici di sostegno al settore: alcune di esse hanno investito in fondi regionali per un periodo per poi decidere di ridimensionare e sospendere l’intervento, altre invece, alla luce dei risultati positivi dell’investimento, hanno deciso nel tempo di aumentarne il volume e di ampliare l’area di azione del proprio supporto. Nello specifico, le motivazioni che, a partire dal 2003 con l’istituzione del primo Fondo regionale italiano, hanno spinto le amministrazioni regionali a investire in audiovisivo sono di diversa natura e nascono da esigenze e caratteristiche specifiche di ciascun territorio. In una prima fase la maggioranza di queste iniziative era ispirata a obiettivi di tipo culturale, che avevano a che fare con la promozione, il recupero e la valorizzazione delle identità locali attraverso le opere audiovisive. A questa ispirazione, paragonabile allo spirito con lo Stato centrale investe nel settore, si sono presto affiancate iniziative regionali fondate su obiettivi di natura più specificamente economica, sul modello dei fondi regionali tipici delle regioni del Centro e Nord Europa: si tratta di iniziative che come fine hanno lo sviluppo industriale del territorio, che si articola in una serie di incentivi rivolti allo sviluppo di imprese e professionalità specializzate residenti sul territorio, all’aumento del tasso occupazionale locale, all’afflusso di capitali presso le strutture di ricezione presenti sul territorio, oppure all’incentivo all’immagine e di conseguenza ai flussi turistici. In quest’ottica, è evidente che, dal punto di vista delle Regioni, la destinazione prioritaria dell’opera sostenuta, sia essa il cinema o qualsiasi altra piattaforma, diventa irrilevante, considerando che gli obiettivi dell’investimento, qualsiasi sia la loro specificità, possono essere ugualmente raggiunti attraverso il sostegno a ogni tipologia di opera, sia essa cinematografica o audiovisiva. CINEMA ESPANSO BARBIE, di WENDY MIGLIACCIO DIVA Innovativa, emancipata, trasgressiva eppure rassicurante. Capace di assimilare le mode e le trasformazioni della società senza tradirsi mai. In poche parole, un’icona. DAI MILLE Di stile, di bellezza, di femminilità: il suo vero nome è Barbara Millicent Robert, ma tutti la conoscono come Barbie. VOLTI Una storia lunga 56 anni raccontata nella mostra Barbie. The Icon al Museo delle Culture di Milano. CINEMA ESPANSO arbie nasce nel 1959 da un’intuizione di Ruth Handler, moglie di Elliot, cofondatore della casa di giocattoli Mattel: fino a quel momento le bambole rappresentavano per lo più neonati che le bambine si divertivano a coccolare e accudire. Il 9 marzo invece i negozi accolgono questa bella ragazza, dallo sguardo languido e il corpo da pin-up, coperta solo da un costume zebrato. Ed è chiaro fin da subito che Barbie non si accontenta di essere un comune passatempo per bambine, ma vuole raccontare una storia in continuo divenire: la sua e, allo stesso tempo, quella del mondo femminile in tutta la sua complessità. Barbie infatti è frivolezza e impegno, famiglia e indipendenza, bellezza e personalità. Da quando è nata ha seguito passo dopo passo i cambiamenti della moda, degli usi, dei costumi e del lavoro femminile. In oltre 50 anni di vita Barbie ha intrapreso oltre 150 carriere: è stata astronauta, soldato, giocatrice di basket, popstar e persino presidente degli Stati Uniti d’America. Non si è mai trattato semplicemente di giocare con i vestiti, con gli accessori o con le acconciature: le versioni di Barbie legate alle professioni lavorative hanno ispirato milioni di bambine, incoraggiandole a seguire i loro sogni e ad essere ambiziose, per puntare in alto e credere in loro stesse indipendentemente dalle costrizioni e dai pregiudizi. Il mondo della moda l’ha sempre considerata una modella d’eccezione: dal 1985 Barbie inizia a collaborare con stilisti prestigiosi che vogliono vestirla con creazioni preziose e personalizzate. Curiosando tra i 448 pezzi esposti al Mudec appare immediatamente evidente il legame fortissimo tra Barbie e la moda. Dagli Anni ‘50 ad oggi la bambola della Mattel ha indossato 1 miliardo di abiti per 980 milioni di metri di stoffa, seguendo le tendenze dei vari decenni, osando e sperimentando. Non solo moda: Barbie ha attra- B versato trasversalmente tutto il mondo dell’arte, compresa la settima. Da Marilyn Monroe a Audrey Hepburn, da Grace Kelly a Cher, la Mattel ha riprodotto in versione Barbie molte delle più celebri star del cinema. Non solo: la stessa Barbie è diventata protagonista di film per il cinema e per la tv. In 56 anni di vita ha rappresentato 50 nazionalità diverse e ha raccontato i cambiamenti del mondo filtrandoli attraverso i suoi occhioni dipinti, con coraggio e leggerezza. Ha lottato contro il razzismo e il sessismo, ha ammorbidito le proprie forme per non sembrare troppo perfetta e ha perso i capelli per incoraggiare le bambine malate di cancro. Barbie è circondata da una numerosa compagnia di amici e parenti, ma non ha mai voluto essere ingabbiata in definizioni o status. Può essere fidanzata, amica, moglie, sorella e madre ma allo stesso tempo riesce ad essere semplicemente se stessa, con una straordinaria modernità in grado di anticipare i tempi. Lo dimostra anche il rapporto difficilmente classificabile con Ken, più amico che amante, che di Barbie è sempre stato una semplice spalla e mai un co-protagonista. Ma come per ogni diva che si rispetti anche Barbie non è riuscita a sfuggire alla crisi di mezza età: nel 2014 le vendite della bambola sono crollate. La causa va rintracciata nelle nuove sembianze dell’intrattenimento per bambini, sempre più orientati verso la virtualità. Film d’animazione, videogiochi e social network hanno conquistato un posto da protagonisti nello svago dei più giovani, relegando Barbie ad un ruolo più marginale. In un mondo popolato da aspiranti starlette e fashion blogger Barbie non poteva certo stare a guardare. La bella eroina è infatti riuscita ad affermarsi anche sui social: ha un account Instagram ufficiale, @barbiestyle, con un milione di seguaci raggiunti lo scorso 12 ottobre. Perché nessuno può mettere Barbie in un angolo. 58 - 59 MA DAVVERO AL CINEMA È UNO SCEMPIO? di Gianni Canova Mereghetti, nel suo Dizionario dei film, le assegna quasi sempre una sola stellina (il minimo!), azzardando solo in rari casi la stellina e 1/2 (Barbie Fairytopia, 2004; Barbie Pollicina, 2009). Leggendo le schede dedicate ai singoli film, i giudizi sono sempre molto severi: si parla di insulsaggine, mediocrità, scempio. In alcuni casi, senza mezzi termini, si arriva a usare espressioni come “orribile film in orribile animazione digitale”. Tutto vero? Boh. Quel che è certo è che dal 2001 al 2015 Barbie è stata protagonista di una trentina di film, tutti usciti direttamente in DVD, che l’hanno portata a misurarsi con l’immaginario avventuroso più disparato: è stata moschettiera e ballerina, ha fatto Il lago dei cigni e Lo Schiaccianoci, ha interpretato Raperonzolo e la Sirenetta, con una duttilità e perfino un mimetismo davvero sorprendenti. Vero esempio di star contemporanea, disposta a riplasmare la propria identità su quella delle icone della storia dell’immaginario infantile, è diventata una diva per il pubblico femminile under 10. Non c’è quasi bambina tra i sei e i dieci anni che non abbia rivisitato i classici seguendo le sue orme e le sue storie. Scempio? Forse. Ma il fenomeno è più complesso di quanto non sembri a prima vista, e andrebbe studiato invece che esorcizzato con un’aggettivazione sprezzante. Anche perché pure questo è uno esempio - ci piaccia o no - di cinema espanso. Che magari fa orrore al critico militante, ma funziona alla perfezione per il suo target di riferimento. Il che dovrebbe quanto meno indurci a qualche ragionamento e a qualche cautela. BE D & CINEMA di NICOLE BIANCHI L’opportunità di guardare un film comodamente a letto ma al cinema. Luciano Stella ci racconta Hart, nuovo spazio multiartistico che deriva dalla ristrutturazione dello storico Ambasciatori di Napoli. Senza che i cinefili più integralisti possano storcere il naso, è garantita una fruizione di altissima qualità, nel rispetto del rito del buio più assoluto, ma sorseggiando un calice d’annata sul matrimoniale. CINEMA ESPANSO uando e come è nata l’idea di Hart? Vi siete ispirati a qualcosa di già esistente? Ho viaggiato molto e visto l’Electric Cinema di Londra (esiste da 100 anni), l’Astor Lounge Film di Berlino, così l’esercizio si è posto l’obiettivo di avere una struttura più ricca, diversificata, accanto alla riflessione sul futuro delle mono-sale, sempre più appesantite dall’aspetto economico e da considerare con un nuovo destino; l’idea di base è stata in seno per molto tempo. Questo è un discorso che, per me, vale anche per la riprogettazione delle multisale: oggi vanno ripensati gli spazi, non più solo cinematografici. Q Quanti letti/posti si contano esattamente, come si fruisce il film nella nuova sala, come sono disposti i matrimoniali? Possiamo contare 110 posti – poltrone e divani - di cui 5 letti da 3 posti ciascuno; i letti sono in prima fila. Ogni divano, poltrona o letto, è provvisto di un tavolino per la consumazione, perché dentro il cinema ci sono un ristorante e una cucina, quindi la formula è cibo&cinema, ma anche musica, perché c’è anche una grande pedana da club musicale, con la sala insonorizzata appositamente. Lo spettatore come ‘si siede’? Può mettersi sotto le coperte, appoggiarsi a un guanciale? C’è un equivoco sul termine ‘letto’: lo spettatore, ovunque sieda, ha un poggia piedi davanti a sé, che è anche una scatola in cui può mettere la borsa o quel che desidera, lì dentro si trova anche una copertina di pile. Lo spazio davanti a ciascuno è molto grande, perché l’Ambasciatori aveva 350 posti. Quando parliamo di letto non pensiamo a un letto con le lenzuola, ma a un enorme sofà, in tutto e per tutto nello stile delle poltrone, dove ci sono le stesse copertine delle altre sedute e si poggia poi la testa alla spalliera con dei cuscinoni. 60 - 61 dai 25 ai 70 anni; man mano stiamo mettendo a punto la macchina, nel suo piccolo complicata: le maschere in sala sono anche le persone che servono a tavola, durante la proiezione quelli del bar in sala lavorano, nel silenzio necessario ma non potendo non esCome avete ovviato al ‘perico- sere presenti. lo’ della distrazione per quello che può accadere intorno, co- Che tipo di programmazione me il bar, o come avete consi- contate di fare? derato il pericolo del sonno, in Abbiamo iniziato con Dio esiste virtù della comodità del letto? e vive a Bruxelles, poi a gennaio Se la persona è stanca, si addor- abbiamo aperto l’anno con Fasmenta dappertutto, quindi non sbender nel Macbeth; inoltre recutemiamo succeda per via del let- periamo film che il mercato qualto. Per quel che riguarda il cibo, che volta può aver un po’ strizzanaturalmente non si mangiano to, quindi paradossalmente anspaghetti con le vongole, ma cibo che il ‘cinefilo fondamentalista’ gourmet accompagnato da una può recuperare un titolo imporcantina di vini significativa, quin- tante. di non è una degustazione al tavolo, ma un ‘mangiare light’. Non avete mai pensato che potesse sembrare una scelta un La sala cinematografica è sino- po’ troppo azzardata, sopratnimo di buio: la sala di Hart co- tutto per un ‘cinefilo puro’? me ci fa i conti? Ma chi sono i ‘cinefili puri’? RiMolto bene! La sala ha anzitutto spondo da spettatore: piango una luce tradizionale con grandi per Nemo, mi piacciono Moretti lampadari – l’allestimento è tipo e Batman, quindi sono uno spetAnni ’30 - poi c’è un soffitto me- tatore trasversale e come tale raviglioso in cui abbiamo investi- amo anche la musica: da spettato, dove c’è una volta con una re- tore, dunque, poter avere un luogia di giochi di colore, che creano go dove la visione cinematografil’atmosfera rispetto a quello che ca è perfetta - volendo ho anche il sta per succedere, ma con l’ini- piacere di una degustazione o di zio della proiezione diventa tutto una recita pianoforte&poesia in buio: abbiamo una cabina digitale stile Beat Generation - mi seme un dolby magnifico, con l’inso- bra una proposta culturale in cui norizzazione che abbiamo fatto si anche la ‘purezza cinéphile’ può sente perfettamente, così come trovare un proprio appagamento; perfetta è la proiezione tutta. Hart è un posto di grande ricchezza tecnologica, di grande fascino Quanto, dal giorno dell’apertu- d’ambiente, con bistrot a pranzo ra - inizio dicembre - sta frut- e brunch la domenica. Hart lavotando questa nuova versione ra dalla mattina alla sera: questa è dello spazio? E che tipo di pub- la vera sfida imprenditoriale! Voblico frequenta la struttura? lesse Dio ne facessero altri di luoC’è un grandissimo interesse da ghi così in Italia! parte della gente, il pubblico è molto trasversale: un successo IL CINEMA CONTRO LA GUERRA di CRISTIANA PATERNÒ È nata come reazione ai fatti dell’11 settembre la Fondazione Cinema for Peace, attiva sui temi del pacifismo, dell’ambiente e dei diritti umani col sostegno di artisti, cineasti e politici. stato l’artista cinese Ai Weiwei a presiedere alla scorsa Berlinale la giuria della quindicesima edizione del Cinema for Peace Award: una giuria molto particolare ed estesa che comprende 150 personali- È tà del mondo del cinema e della cultura, tra cui membri dei Golden Globe e dell’Academy e tutti vincitori delle passate edizioni del premio. Ai Weiwei è uno dei più importanti artisti contemporanei ed è stato anche autore di documentari, censurati e proibiti in Cina. Nel 2011 poi è stato arrestato, incarcerato per 81 giorni e quindi tenuto agli arresti domiciliari per aver criticato il suo governo e portato l’attenzione internazionale su alcuni casi di violazione dei diritti umani con la sua opera. Ci sono state forti proteste internazionali e la Fondazione Cinema for Peace ha reso visita all’artista a Pechino e l’ha sostenuto con una serie di iniziative sia presso la Fondazione Beyeler a Basilia, nell’ambito di Art Basel, sia al Martin-Gropius-Bau di Berlino. Solo nel luglio 2015 le autorità cinesi gli hanno restituito il passa- porto permettendogli di partire per la Germania, dove ha iniziato l’attività di guest professor alla Universität der Künste di Berlino. Nata come reazione agli eventi dell’11 settembre, negli ultimi 15 anni Cinema for Peace ha raccolto oltre 10 milioni di euro raggiungendo circa 10 miliardi di contatti. Tra i suoi attivi sostenitori ci sono personaggi dello spettacolo come Angelina Jolie, Nicole Kidman, Julia Roberts, Charlize Theron, Leonardo DiCaprio, George Clooney, Sean Penn, Richard Gere, Ben Affleck e Brad Pitt, ma anche personalità come il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, il Premio Nobel Mikhail Gorbaciov, Bill e Hillary Clinton, Desmond Tutu e il Dalai Lama. La fondazione ha organizzato centinaia di eventi e realizzato campagne su temi caldi come la guerra, l’ambiente e l’emergenza rifugiati. Ha finanzia- to diversi film, ha collaborato alla costruzione di una sala cinematografica in Palestina, la lavorato alla diffusione della consapevolezza contro l’antisemitismo in Germania, ha creato una videoteca del genocidio e fondato ‘Help Haiti Home’ insieme a Sean Penn. Nel 2015 il documentario The Voices of Srebrenica, prodotto da Cinema for Peace col sostegno del Ministero degli Esteri tedesco, è stato mostrato a Potocari in occasione del ventesimo anniversario del massacro. Ban Ki-moon si è congratulato con Cinema for Peace con queste parole: “Ogni volta che vi impegnate con la comunità artistica a promuovere i diritti umani e la giustizia, aiutate le Nazioni Unite nella loro missione di pace”. Maggiori informazioni sul sito www.cinemaforpeace.com DISCUSSIONI SBAM! TANTO I FILM LI GUARDO SUL TABLET di ALICE BONETTI oltanto uno schermo. È questo ciò che rimarrà dell’Apollo, storico cinema milanese, che chiuderà i battenti per lasciare spazio a un gigantesco cubo di cristallo, un Apple Store. La Soprintendenza ha promesso di erigere uno degli schermi della sala all’ingresso del futuro negozio. Magra consolazione: la decisione dell’Immobiliare Cinematografica di vendere lo stabile all’azienda di Cupertino resta un boccone amaro da digerire. Tuttavia, benché sin dalle prime S ore dalla diffusione della notizia internet sia stato invaso da petizioni e proteste, la chiusura dell’Apollo sembra, in realtà, aver diviso l’opinione pubblica: si tratta di un sacrificio in onore della modernità o un mero “processo di standardizzazione” delle grandi città? Uno schiaffo alla cultura o un segno inevitabile dei tempi che cambiano? Quel che è certo è che la storia del cinema Apollo è soprattutto la storia di Milano e della sua gente e ci è quindi sembrato doveroso chiedere ai diretti interes- sati quale fosse la loro opinione. I meneghini doc, over 30 soprattutto, sono i più sconcertati dalla chiusura del cinema: la sala era per loro “un luogo magico, di aggregazione e di ritrovo” e in molti avanzano la necessità di trovare un nuovo spazio al cinema Apollo provando a “riutilizzare sale parrocchiali in disuso o sale storiche del cinema d’essai milanese come l’Orchidea, il De Amicis o lo Gnomo, in modo da realizzare un piccolo distretto del cinema di qualità”. DISCUSSIONI A Milano i cinema chiudono. Che fare? Molti cinefili rimpiangeranno l’Apollo per l’importanza che dava a una certa tipologia di cinema: “la perdita di una sala come questa significa la scomparsa di tanti film d’autore che nei multisala non programmano. Una città che non solo permette, ma incoraggia la chiusura di cinema e teatri è irresponsabile. I danni ci saranno e si conteranno dopo”. In un mercato cinematografico dominato sempre di più dai multisala e dai kolossal ipertecnologici è difficile scommettere sul cinema d’essai anche se esempi ben riusciti esistono e in questo senso viene ricordato il Beltrade di Milano: monosala rilanciata negli ultimi anni grazie all’operazione di restyling dell’associazione Barz and Hippo, che ha deciso di puntare la programmazione solo su documentari o film con tematiche ambientali e sociali. C’è poi chi riflette su come le città in cui viviamo si stiano ormai trasformando “in vere e proprie Disneyland, con strade, negozi, centri commerciali tutti uguali. Tra qualche anno non riusciremo più a distinguere New York da Londra e Parigi da Milano”. Esagerati? Non poi così tanto. La vita di strada, quella magnifica costellazione fatta di caffè, bar, librerie, cinema e teatri, che così tanto rappresentava l’Italia e l’Europa, ha lasciato il posto a un’apparente vitalità, che dura solo fino allo spegner- si dei LED di vetrine tutte uguali a se stesse. Cosa ha fatto sì che il modello piccolo borghese dei saldi di fine stagione e della tv serale (forse sarebbe meglio dire streaming serale?) trasformasse le nostre città in “non-luoghi” in cui vivere? Domande un po’ naif che lasciano il tempo che trovano, direte voi, e che si infrangono di fronte alle considerazione decisamente più pragmatiche di molti dei giovani intervistati che ci ricordano come tutto questo vero e proprio luogo di culto, santuario delle moderne tecnologie di comunicazione. E tra i fedeli c’è chi confessa: “fosse successo qualche anno fa mi sarebbe dispiaciuto che un cinema storico chiudesse…ma adesso che mi sono convertito a Apple, l’idea di avere uno Store sotto casa è un sogno che diventa realtà”. E proprio nel flusso di parole celebratrici di questa manifesta schizofrenia targata Apple, ecco emergere il commento più sincero e lapidario: “tanto i film li guardo sul tablet quindi ben venga l’Apple store”. SBAM! Eccola qui la cruda verità, quella a cui nessun cinefilo purista e nostalgico vuole davvero credere. Perché sì, ormai i film si vedono anche sui tablet, sugli iPad e su tutti quei micro schermi che invadono le nostre case. Ma più 64 - 65 cinematografica nelle sale? Forse è presto per dirlo ma di sicuro, come ha detto recentemente un malinconico Woody Allen, “sarà un’esperienza molto diversa da quando ti alzavi la mattina e non stavi più nella pelle perché sapevi che più tardi saresti andato al cinema. Le sale erano grandi e bellissime, la gente aspettava in coda sotto la pioggia e l’intera esperienza aveva qualcosa di magico. Ora è un’altra cosa”. E così il fatto che un Apple Store prenderà il posto di un cinema storico come l’Apollo alla lunga non sconvolgerà più nessuno. Cinicamente in molti dicono: “ricordate il Teatro Smeraldo e il nuovo Eataly? Tutti a gridare allo scandalo e poi... tutti da Eataly. Ora tutti a gridare alla morte della cultura, ma A Milano chiude lo storico cinema Apollo per fare spazio a un Apple Store. 8½ ha intervistato spettatori comuni e illustri per capire meglio. in fondo sia solo “l’esempio dei tempi che cambiano. 60 anni fa i teatri diventarono cinema e oggi i cinema diventano Gap, Banana Republic, Eataly, H&M, Zara e perché no Apple”. Già perché no? È solo un’altra pagina di storia d’altronde. Quel che è certo è che la chiusura del cinema Apollo renderà appagati e soddisfatti una categoria decisamente in auge negli ultimi anni: i Mac-addicted o Mac-fanatici, che dir si voglia. Per loro Apple non è solo un marchio ma una vera e propria religione (sarà un caso che il simbolo dell’azienda sia proprio una mela addentata?) e l’Apple Store, ovviamente, non è solo un semplice negozio ma un che l’esperienza cinematografica in sé, a essere cambiato è prima di tutto il pubblico. I suoi interessi e le sue esigenze sono mutate nel corso degli anni e così l’idea stessa di esperienza filmica si è trasformata nel tempo. Questi piccoli schermi, che diventano sempre più grandi nella qualità dell’immagine, porteranno alla scomparsa dell’esperienza fra qualche mese saranno tutti all’Apple store a comprare il nuovo iPhone7”. Tristemente vero. Darwin e la sua maledetta evoluzione. E strappa un sorriso amaro pensare che in fondo Apple è quasi l’anagramma di Apelle… che era il figlio di Apollo, no? APOLLO, APPL E E GLI SCHERMI RAPITI di STEFANO STEFANUTTO ROSA el centro di Milano c’erano una volta i cinema Excelsior, Mignon, Astra, Mediolanum, Ambasciatori, Pasquirolo, President, Corallo, Corso, Ariston, Manzoni e Cavour. Al loro posto ora centri commerciali perché più redditizi. Rimangono in piedi solo l’Arlecchino e l’Odeon, quest’ultimo nel 2017 ridimensionato per farne un’appendice del grande magazzino La Rinascente. Sparirà entro l’estate anche l’Apollo che da un decennio programma nelle sue 5 sale film di qualità e d’autore accanto a pre- N Le quattro testimonianze sono a cura di Stefano Stefanutto Rosa ziose rassegne. “Nel 2015 ha fatto oltre 306mila presenze con un incasso di 2 milioni di euro. L’Apollo è un’impresa sana, la chiusura di questo presidio culturale, riferimento importante per i milanesi, costituisce una grave perdita per la città” dice Lionello Cerri, socio al 50% nella gestione del cinema. L’altra metà fa riferimento alla società proprietaria dei locali che sono stati venduti all’Apple, per farne uno store. “Abbiamo accettato nostro malgrado la decisione perché costretti, quando fai una società in due al 50%. Nell’Apollo abbiamo investito soldi e energie. I soldi li abbiamo ripresi, ma noi viviamo di iniziative per il cinema e questo è uno stop che fa male”. In rete la protesta si è fatta subito sentire, in poco tempo oltre 15.000 le firme raccolte per dare una nuova sede all’Apollo. “Chi ama il cinema ritiene che sia un’espressione culturale necessaria alla crescita di ogni cittadino, e dunque da proteggere come il teatro, le sale da concerto, i musei”, aggiunge Cerri. Dalla giunta di Milano il generico impegno a trovare una sistemazione alternativa per l’Apollo, ma nessun intervento sulla ven- dita all’Apple perché la trattativa riguarda i privati. Ma una politica culturale non dovrebbe indirizzare le scelte di spazi di interesse collettivo e progettare un centro della città che non sia solo la vetrina di grandi marchi? E perché non un intervento pubblico sul cambio di destinazione d’uso di sale cinematografiche che funzionano? E ancora perché non una politica fiscale che incentivi e non penalizzi l’esercizio cinematografico? Ad alcuni milanesi importanti un architetto, un regista, un attore e un giornalista - abbiamo chiesto che cosa ne pensino. DISCUSSIONI A Milano i cinema chiudono. Che fare? a ragazzo era fantastico andare in corso Vittorio Emanuele, una sorta di Broadway, magari senza avere un’idea precisa di quale film vedere, ma bastava leggere il programma delle tante sale che s’affacciavano sul corso. Il centro era allora pieno di persone, di giovani. Oggi sono rimasti solo l’Apollo e l’Odeon che presto verrà ridimensionato. Ed è difficile trovare anche un teatro. Così la sera dopo le 10 il centro è quasi deserto. Mi fa ancora più specie che un cinema venga ceduto e trasformato in uno store di una multinazionale, ancora una volta americana, e non ci vengano a dire, come ha fatto qualche assessore comunale, che la Apple fa cultura. Sarebbe come sostenere che il tram che ci porta in libreria fa cultura. Mi aspettavo che l’attuale giunta ponesse più attenzione alla cultura. Se Milano vuole diventare, come si va ripetendo da tempo, ancor di più dopo l’Expo, il motore trainante dell’Italia, anche in rapporto con le capitali europee, non può dimenticare il cuo- D re di qualsiasi civiltà: la cultura. È vero, il consumo del cinema va ripensato, non sarà più la sala il momento centrale. Le nostre città dovrebbero munirsi, come già avviene nelle capitali europee, di cityplex facilmente accessibili: cinema con due, tre sale, con schermi non enormi, comode e tecnicamente molto avanzate. Perché uno zoccolo duro del pubblico cinematografico esiste, e ci sarà sempre la voglia di stare in una caverna buia e vedere proiettati i propri incubi e i propri sogni, e scambiarli per veri, come ci raccontava Platone. Al cinema Apollo sono andati tutti i miei film degli ultimi dieci anni, a cominciare dalle anteprime. Mi fa pensare a una di quelle sale che un tempo il pubblico sceglieva perché si fidava della programmazione, come se quel cinema svolgesse una funzione editoriale. Chiuderlo è da sciocchi, perché pochi paesi come il nostro hanno creato il loro mito con la cultura e in particolare con il cinema a partire dagli Anni ’60 in poi. Insomma quanto accade mi sembra folle o forse molto lucido. Antonio Albanese “Una sala è come una chiesa” Apollo è un cinema con più sale, piacevole e importante, che puoi facilmente raggiungere in metropolitana, che propone sempre buoni film, e ti dà la possibilità di fare una passeggiata, di mangiare qualcosa perché non è ghettizzato, non sta in periferia. Capisco i meccanismi economici, ma considero la sala cinematografica un L’ 66 - 67 Gabriele Salvatores “Chiuderlo è da sciocchi” po’ come una chiesa e quando una chiesa viene sconsacrata di solito viene adibita comunque a spazio culturale, di incontro. Per un’attività commerciale al posto dell’Apollo si poteva allora, forse con l’aiuto del Comune, trovare un’altra sistemazione. Come accaduto per il Teatro Smeraldo è sempre un dolore vedere un punto di riferimento sparire, perché si crea un vuoto. Il teatro, come il cinema, è uno spazio sacro. Allo Smeraldo ho visto Giorgio Gaber, la compagnia catalana La Fura dels Baus, Enzo Jannacci. Una perdita incredibile, come quando ha chiuso la galleria Mazzotta, che ospitava mostre bellissime, davanti al Piccolo Teatro. Più passa il tempo, più noi avremo bisogno di incontro fisico e di fermento corporale, la tecnologia ci porta lentamente a questa necessità. Ma se non abbiamo punti di riferimento o spazi la cosa si fa triste. Dovrebbero entrare in vigore leggi che non consentano con questa facilità il cambio d’uso di una sala cinematografica. E poi il cinema va visto solo in sala perché ci sono dei signori registi che realizzano immagini per il grande schermo sviluppando un’idea e un’atmosfera nel migliore dei modi. Se poi qualcuno vuole vedere un film nel palmo di una mano, perdendo la vista, capendo poco, non riconoscendo una profondità, uno sguardo… beh, è questione di gusti. Non perché la tecnologia mi porta a quello e io mi adatto, lo faccio solo quando le cose mi piacciono e mi fanno godere. Stefano Boeri “Il Comune doveva negoziare” a vicenda dell’Apollo andava gestita in modo diverso per una semplice ragione: l’Apollo non è in deficit, come è invece successo per la gran parte dei cinema che hanno chiuso, è gestito con intelligenza e ha un pubblico fidelizzato. Quando un soggetto come Apple arriva a Milano, anche se si tratta di un privato che ha tutta la libertà di permettersi una contrattazione con altri privati in autonomia, occorre che un’amministrazione comunale intervenga, almeno negoziando il fatto che la perdita di una struttura di alto profilo culturale e sociale come l’Apollo è una penalizzazione per la città. L Finché sono stato assessore alla Cultura di Milano avevo cercato di gestire la vicenda Apple in modo differente, offrendogli uno spazio straordinario come il secondo Arengario in cambio della possibilità di espandere nel secondo Arengario, una parte del Museo del Novecento. Un’amministrazione che si confronta con un soggetto come Apple non può pensare che si tratti di un qualsiasi centro commerciale, così come non può ritenere che l’Apollo sia l’equivalente di un negozio di scarpe. Sono questioni sulle quali un’amministrazione, anche se priva di un potere formale e giuridico, ha un potere importante sul piano politico e culturale dell’autorevolezza. La moria dei cinema ha tra le cause anche una certa pigrizia di idee da parte dell’esercizio e della distribuzione. Perché non proporre in sala maratone delle serie tv americane? Perché non creare un distretto dei cinema d’essai composto da 4/5 sale, tra loro vicine, e con una bigliettazione unica o integrata. Certo il cinema compete con altre modalità di fruizione, ma resta un’esperienza unica e irrinunciabile come dimostra il successo Zalone. Il problema non è allora il cinema in sé ma il fatto che mancano nuove idee, che la politica non se ne occupa e che gli operatori sono distratti. DISCUSSIONI A Milano i cinema chiudono. Che fare? ome fermare questa strage di cinema? Il Comune di Milano dovrebbe modificare le proprie regole sul cambio di destinazione d’uso delle sale. Dopo decenni di rigidità assoluta, sull’ondata di un innamoramento collettivo del liberismo e di una liberalità assoluta, entrambi per me sbagliati, la stragrande maggioranza dei cinema di corso Vittorio Emanuele si sono trasformati in centri commerciali. In altri comuni, come Bologna, non è così semplice cambiare la destinazione d’uso dei cinema. C 68 - 69 Paolo Mereghetti “Così il centro città si spopola” Così si ritiene che il cinema non sia solo un’attività commerciale più o meno redditizia, ma che abbia un valore di produzione culturale, di vivibilità della città. Inoltre il Comune dovrebbe intervenire con provvedimenti a sostegno della sala. A Bologna i cinema non pagano più alcune imposte, riscosse in altre città, come l’IMU, la tassa sull’insegna, sui rifiuti. Si dovrebbe allora attuare una legislazione coerente affinché le attività culturali non siano confinate nelle periferie, favorendo la loro sopravvivenza nei centri cittadini affollati di banche e grandi magazzini. L’assessore alla Cultura di Milano Filippo Del Corno sulla chiusura dell’Apollo si è trincerato dietro un’asserzione di liberismo assoluto: è il mercato che lo chiede. Questa politica dello struzzo ha portato alla desertificazione di una via centralissima che alle 9 di sera è buia e si spopola quando negozi e grandi magazzini chiudono. Credo che il mercato, in una civiltà complessa come quella occidentale, debba essere sottoposto a limiti e regole. Non dimentichiamoci poi la politica attuata dal governo nazionale di sinistra nel favorire l’apertu- ra dei multiplex che è avvenuta nella totale mancanza di regole. Allora si sosteneva che tante sale avrebbero corrisposto a tanti titoli diversi, a tante possibilità differenti. E ora ci ritroviamo con solo tre film che inondano le sale dei multiplex. Quando dicevamo quello che sarebbe accaduto, passavamo allora per pericolosi nemici della libertà, e invece avevamo ragione. La sala non attrae più il pubblico, sostiene qualcuno. Come la mettiamo con gli incassi dei film di Checco Zalone? La verità è che un certo tipo di cinema non è in crisi e un altro sì. Steno (Stefano Vanzina) Come si deve morire ammazzati da “Quarta parete”, 25 ottobre 1945. sei mesi dalla liberazione del Paese e poco meno di due dalla fine ufficiale del secondo conflitto mondiale, i fantasmi della guerra e del fascismo si materializzano ancora tra le pieghe della finzione cinematografica e altrimenti cominciano a cristallizzarsi in un immaginario memoriale condiviso, soggetto a processi di revisione, manipolazione e creazione, secondo criteri estetizzanti otre che d’opportunità. Stefano Vanzina, che fin dai tempi delle prime caricature su “La Tribuna Illustrata” si firmava Steno, è già collaboratore di Mario Mattioli – prevalentemente come sceneggiatore – quando tenta su “Quarta parete” un’originalissima riflessione sull’estetica della morte violenta nel cinema, con un sarcasmo e un gusto macabro che non poteva che venir dal “Marc’Aurelio”, dove pure era già comparso come vignettista. L’ipotesi, raffinatissima nei riferimenti e assai scrupolosa nel dar conto del costume dell’epoca – il “cadaverismo la cui documentazione in rotocalco dilaga settimanalmente dagli ebdomadari ‘gialli’ che fanno capo a Crimen, che si potrebbe anche definire ‘La Domenica del giustiziere’” – è retta da un’argomentazione assai seria sulla funzione della storia nella definizione di un’estetica della violenza e viceversa sul potenziale riflessivo e auto-riflessivo di una tale estetica: un potenziale che si riverbera nel gesto plastico del “morto ammazzato”. Dalla Grecia classica nella morte di Ettore, all’epoca romantica della morte guascona di Cirano. Che dire dunque dei giorni dell’immediato dopoguerra italiano, dove l’immagine “spettacolare” dei corpi appesi in piazzale Loreto produce un problema non (ancora) etico, ma estetico: è sufficientemente cinematografica la morte di Starace? Con un acume notevole Steno riflette sull’impatto scenico e per l’appunto “spettacolare” delle morti di quelle che l’autore chiama “le ultimissime belve della tragedia europea” e in gen- A erale sul potere estetizzante del cinema nella rappresentazione della violenza: un “Pietro Koch muore pensando evidentemente a certo cinismo Metro Goldwyn di alcuni personaggi interpretati da Cesar Romero”. Chiudendo sulla morte “con perfetto stile” di Anna Magnani in Roma città aperta, Steno si ferma a un passo dalla morale, ma la sua riflessione affonda in due sostanziali questioni. Entrambe rimandano a due rispettivi “rimossi” della cultura italiana. La prima riguarda una falsa tendenza a considerare il gusto del macabro e in generale del “terrorifico” come marginale nella cultura italiana moderna – per lo meno quella visiva e spettacolare (per esempio, solo recentemente si sono ripercorse criticamente le radici culturali pervasive e diffuse di un’estetica del cinema orrorifico italiano) –, la seconda riguarda il rimosso per eccellenza: la complessissima elaborazione della violenza del fascismo, e soprattutto della guerra civile con la maturazione della Resistenza. Il distacco innegabile con cui Steno affronta l’argomento è impressionante, ma anche intelligentemente dosato e strategicamente efficace. L’argomento è scottante. Il clima in quei mesi è ancora tesissimo e la diffusione di quel “cadaverismo” di cui parla è sintomatico di un’aria di morte che si respira nelle città e nelle province italiane, ancora alle prese con i “conti in sospeso”. L’elaborazione della morte e della violenza che si avvia in quei mesi e che passa, nel nostro Paese, anche attraverso una complessa estetizzazione – per esempio nei rotocalchi e attraverso la funzione mediatrice del cinema – non è però tanto catartica e clamorosa, come nell’antica Grecia, quanto piuttosto sotterranea, strisciante: scorre sommessamente e surrettiziamente per sedimentarsi, progressivamente, sul carattere degli italiani. Steno, futuro, massimo artigiano della commedia italiana, lo sa benissimo. di Andrea Mariani IN QUESTO NUMERO UN ARTICOLO ESTRATTO DALLA RIVISTA “QUARTA PARETE” n° 4, 25 ottobre 1945 articolo a firma di Steno (Stefano Vanzina) FOCUS EGI TTO di ROBERTO SILVESTRI DENOMINAZIONE: REPUBBLICA ARABA D’EGITTO, SUPERFICIE: 1.002.450 KM² DENSITÀ: 84 AB./ KM² POPOLAZIONE: 89.824.976 CAPITALE: IL CAIRO VALUTA: STERLINA EGIZIANA LINGUA UFFICIALE: ARABO FORMA DI GOVERNO: REPUBBLICA PRESIDENZIALE FOCUS Il Caso Egitto n Egitto il cinema arriva dalla Francia quasi subito. Nel 1896. E fa colpo. Se è tunisino il primo lungometraggio arabo della storia, e se non è egiziano, ma turco, il regista del primo film egiziano della storia, Alessandria e Il Cairo domineranno comunque per decenni l’immaginario dell’Occidente e dell’Oriente arabo, del Maghreb, del Mashreq e oltre. Anche perché l’indipendenza (formale) dell’Egitto arriva prima, già nel 1922. Si festeggiò con uno spetta- I 72 - 73 colo continuo e fiammeggiante, perfino orientalista: con le dive adorate della canzone, le scandalose danze del ventre di Taheya Carioca e Naima Akef (su coreografie del Berkeley del Nilo, Wali el Dine Sameh), le armonie orchestrali arabesque ritoccate da contaminazioni occidentali, i remake hollywoodiani, i drammi rurali appassionanti, i thriller di Kamal al-Cheikh (come Vita o morte del 1954), le storie d’amore intrise di nazionalismo e valori piccolo-borghesi che cercavano di eludere, con allusioni sottili, la ferrea censura sociale e morale impostata e imposta dal 1918 dagli inglesi e dall’Islam letteralista. Non si potevano attaccare né le autorità politiche né quelle religiose né i capi di stato stranieri. I conflitti anti-feudali erano banditi e così l’inneggiare al comunismo e alle moltitudini in lotta per la libertà. Due film storici contro la tirannia e la corruzione nel lontano passato ebbero problemi per le allusioni palesi al presente Con più di 3.000 lungometraggi prodotti in 80 anni, e una ricca tradizione letteraria, musicale e teatrale alle spalle, l’Egitto è tuttora una capitale del cinema mondiale ed è l’unica industria cinematografica araba, per quantità, qualità e strutture, che esporta film al di qua e al di là dei Paesi di cultura islamica. EGYPT IAN WAY OF LIFE dispotico (Lasheen di Fritz Kramp del 1938 fu poi sbloccato, mentre Laila, figlia del deserto di Bahiga Hafez del 1937 fu proibito). Si soprannominò Opium Cinema quel che si realizzò, di leggero, in Egitto tra il 1938 e il 1945. Film ambientati negli hotel di lusso, in vacanza, alla Borsa, alle corse di cavalli, al casinò. Melodrammi consolatori della virilità messa in discussione, nei quali comunque le donne finivano abbandonate, ammazzate, stuprate, suicide o in manicomio, e i confini tra le classi sociali erano invalicabili come muri. L’equivalente egiziano dei “telefoni bianchi”, ma la connotazione lisergica promette e mantiene una lussuria visiva più narcotizzante, surreale e “ambrata”. Poi, cacciato il re Faruk, garante di una indipendenza solo formale da Sua Maestà britannica, le invettive suadenti ma inattuate del “socialismo arabo” nasseriano continuarono a tutelare la moralità patriarcale. Ne sa qualcosa il più famoso e amato cineasta egiziano della storia, Yussef Chahine (1926-2008), che ha sempre fatto scalpore e spesso rischiato il carcere per il contenuto laico e libertario delle sue immagini, d’ogni genere e stile. Saranno i suoi allievi (anche esuli, come Maghed el Madhi) a scoprire quel che si nasconde nell’inconscio collettivo dell’Egitto ribelle, che non teme lo scontro di piazza. Fino alle pesanti e certosine interferenze più che censorie del wahabismo saudita tra XX e XXI secolo, diventato padrone dell’audiovisivo egiziano dopo il boom del petrolio del 1973 e per più di un ventennio, prima che il governo militare di Abd al Fattah al Sisi, deposto l’odiato Mubarak, annientasse i Fratelli musulmani (Qatar), congelasse i Salafiti (Arabia Saudita) e sganciasse il cinema dal controllo soffocante dei petrodollari coranici e dei sunniti drastici. Videocassette e tv cavo quasi distruggono il cinema de Il Cairo quando Ryad e gli Emirati diventano padroni del gioco. Le sale che erano 450 negli Anni ‘50, per 20 milioni di abitanti, diventano 150 negli Anni ‘80, per 80 milioni di abitanti… Cinema “della democrazia e della libertà”, dunque diversamente represso, è stato via via quello del patriarca Mohamed Bayumi, delle tante registe donne e degli orientalisti “stranieri” degli Anni ‘10 e ‘20; del proto re- alismo contadino di Kamal Selim, Niazi Mostafà, Ahmed Badrakhan e Mohamed Karim degli Anni ‘30. Quello surreale, danzante e “alla Cocaina” (dal titolo di un suo film) di Togo Mizrahi negli Anni ‘40 (caratterizzati anche dalle sperimentazioni linguistiche, fuori genere, addirittura nella fantascienza, Magici occhi, di Ahmad Jalal). Quello neorealista, metropolitano, impegnato e perfino zavattiniano di Salah Abu Seif, Yussef Chahine (con striature di fellinismo), Tewfiq Selah e Henry Barakat degli Anni ‘50. La ‘nouvelle vague’ misteriosa di Chadi Abdel Salam e Hussein Kamal Anni ‘60. Ali Badrakhan e Attiat el Abnoudi, censuratissima, ovvero la crisi nera degli Anni ‘70. Mohamed Khan e Atef al-Tayeb, cioè il neo-neorealismo critico degli Anni ‘80. Il realismo magico degli Anni ‘90 di Sharif Arafa (che trasforma il comico in un tribuno politico e l’attore Adil Amam in un Alberto Sordi meno accomodante con il Potere), di Yusri FOCUS Il Caso Egitto Nasrallah e di Asma al Bakry, gli allievi di Chahine. E lo street style teenager da XXI secolo di el Batout e Abdallah, che precedono la rivoluzione, comunque irreversibile, del 2011. Troppo commerciale, troppo popolare, troppo comico e “radiofonico” diranno i critici (soprattutto maghrebini) dell’imperialismo visuale egiziano, come di quello indiano. Irritati da una rappresentazione così piatta e stereotipata della personalità umana. Da un disinteresse sospetto per i valori visivi dell’immagine. Da una strabordante, inquietante presenza simbolica della donna, nel comportamento e intenzionalmente troppo attiva, diva e padrona della fiction… Eppure. Conosciamo poco di questo tesoro immaginario a due passi da noi e psicologicamente più complesso e liberatorio di quanto non sembri, come spiega Yusra, l’ultima super star: “Attraverso i film e le dichiarazioni lottiamo contro un potere molto forte. Non siamo solo molto coraggiose e schiette, e un tempo ve ne renderete conto, ma abbiamo successo”. Canti e danze fanno parte della vita, “non sono come i capelli nella minestra” conferma Salah Abu Seif. L’immagine è tendenzialmente idolatrica se osa rappresentare a tutto tondo l’essere umano che è copia di ciò che sta nel più alto dei cieli? Niente affatto. Va separata l’immagine blasfema di Dio da quella mentale, metaforica, imprecisata. L’ebraismo non fondamentalista, oltre che “Charlie Hebdo”, le separa nettamente, anche con il disegno, o con i nomi, el o pesel è una cosa, temunah un’altra. E il teologo modernista islamico, lo sceicco azharista Mohammad Abduh, nel 1891 appoggia il nascente cinema scrivendo su Al Waqai: “bisogna eguagliare il livello estetico dell’Occidente”. E nel 1928 su “Al Manar”, Rida sentenzia: “L’Islam non è mai stato contro l’immagine che esprime la bellezza dell’essere umano in movimento”. E nel 1966 Salah Stétié attribuisce all’Islam perfino una certa priorità cinetica: “Se è vero che l’arte musulmana, per alcuni aspet- ti essenziali, punta soprattutto a esprimere il cambiamento, mi sembra che non ci sia arte come il cinema che punti di più a chiarire la mobilità estrema degli esseri e delle cose”. L’astrattismo, ricordava Apollinaire, non è una sorta di elogio semiotico dell’arte islamica ossessionata dalle dinamiche metamorfosi floreali? Gli egiziani e gli arabi adorano dunque il cinema, la musica e la danza. Intanto perché il piacere del movimento e delle immagini in movimento sono intrinseci alla cultura araba. Altro che iconoclastia. Si dice “ombre cinesi”, eppure è pionieristica la passione desertica per le storie raccontate sotto le tende dai beduini con le dita, le marionette (qaraqoz) e la luce… Il canto e la danza sono poi al centro di un teatro popolare basato sulle suggestioni di cantastorie dalle antiche radici andaluse (hakawati) e sul balletto, corale e promiscuo, che adorna feste e celebrazioni, sacre e laiche, e qualunque appuntamento extra lavorativo. La riproduzione musicale su disco, nata nel 1904, la radio, esplosa nel 1934, e il cinema sonoro, qui perfezionato nel 1935, sono dunque stati oggetto di un diabolico desiderio consumistico. I soli sei film musicali della leggendaria cantante Om Kalthum, girati quasi controvoglia dalla star tra il 1936 e il 1947, non hanno distrutto né costruito il suo mito. “La voce della stella dell’Oriente fa vibrare l’anima anche se non si comprendono le parole delle sue canzoni”, come spiegava il compositore sovietico Kachaturian. E conquistava tutti, nei concerti dal vivo, come nelle riproduzioni. Ma la sua intelligenza le sconsigliava di esagerare con la recitazione, non altrettanto divina come le performance vocali che il cinema, anzi, tende necessariamente a semplificare. Eppure il divismo canoro classico leggermente contaminato da valzer e rumba (nelle performance di Mohamed Abdel Wahab e Chadia, Badr Lama e Laila Murad, delle libanesi Asmahan e Nur el Hoda e del libanese Farid El Atrache, di Abdel Halim Hafez e Shaba, anche lei libanese …) e modificato in star system sul modello hollywoodiano, ha traghettato il cinema egiziano, da lusso aristocratico-borghese a consumo massa. È stato infatti il carattere cosmopolita, modernista e femminista ante litteram del Paese durante la Belle Époque, ad attivare gli ingegni locali più inventivi di una società civile nazionalista, viva e intraprendente, e ad attirare, specialmente nella Alessandria di Ipazia e Archimede, Durrel e Kavafis, Ungaretti 74 - 75 e Marinetti, artisti e tecnici, operatori, inventori e ingegneri da Francia, Turchia, Cipro, Grecia, Germania, Ungheria, Armenia, Austria, Russia, Malta e soprattutto Italia... Già. Proprio italiane sono alcune figure chiave del cinema egiziano, come Alvise Orfanelli (1902-1961), che animò ad Alessandria nel 1917 la prima casa di produzione locale, quando il nostro cinema, dopo Cabiria, era il più spettacolare, audace e bello al mondo, e che fu poi il maestro di Yussef Chahine. Il napoletano d’Egitto Mario Volpi (1894-1968), autore con Istephan Rosti, del primo film sonoro, secondo Samir Farid, anche se imperfetto tecnicamente, Enshaudat el Fouadad, “Canzoni del cuore” (1931), e il visionario alessandrino Togo Mizrahi, figlio di ricchi romani, studi in Germania, Francia e Italia, fondatore della Egyptian Film Company, che sarà fino al 1948 e alla nascita dello stato di Israele, uno dei grandi maestri della commedia farsesca di derivazione teatrale (con gli attori Ali Al Kassar e Fawzi al-Ghazaerly) e del musical classico (con Leila Murad e Um Kalthoun) ma poi, rientrato nell’Italia postfascista dei suoi antenati, fu colpevolmente dimenticato, qui e lì (forse perché ebreo?). Senza la spinta autorevole di Roberto Rossellini, poi, il talento new wave dell’alessandrino Shadi Abdelsalam non avrebbe mai scodellato il gioiello più poetico sull’archeologia faraonica e anche l’unico film d’arte finanziato interamente dallo stato egiziano, cioè La mummia, il capolavoro nubiano del 1969. Non dimentichiamo comunque che l’Egitto, prima ancora di ottenere una indipendenza sostanziale, è stato il solo Paese colonizzato capace di creare una forte industria nazionale del cinema che ha potuto pianificare più di una dozzina di film l’anno tra il 1925, con la fondazione della società di produzione Misr (in arabo vuol dire Egitto), e il 1934, grazie agli studi Misr voluti da Tal’al Tharb a Giza, sulla strada per le piramidi Saqqara (saranno poi nazionalizzati da Nasser). E poi trenta, quaranta, sessanta film all’anno. Dietro c’è la banca Misr, cuore strategico del partito liberale indipendentista Wafd, che tutelava gli interessi della borghesia mercantile e degli industriali del sale, cotone, zucchero e altre imprese manifatturiere. Con la fine della monarchia e la rivoluzione guidata dal Movimento degli ufficiali liberi, dopo il 1952, l’Egitto ha dato voce e cuore con il suo cinema, politico per decreto, alla grande utopia popolare panarabista e panafricana, nazionalista e anticoloniale, e della redistribuzione equa delle ricchezze, grazie ai suoi tre leggendari cineasti, narratori fascinosi di melodrammi popolari, ma radicali e “realisti” dentro, Yussef Chahine, Tafiq Saleh e Salah Abu Seif. Tutti e tre dal 1956 al 1970 al fianco del Nasser anti imperialista e contro il Nasser sessuofobico e che non attuava la promessa riforma agraria (l’ezbe, il latifondo, non si tocca!) e impediva di trattare argomenti tabù: nominare i comunisti, non temere gli omosessuali e le idee sovversive, offendere l’Islam e la famiglia, accennare a Israele e agli ebrei, maltrattare i popoli afro-asiatici in lotta per l’indipendenza e per il non-allinamento (e questo mi sembra sensato). Ma decisero per esilio (nell’Iraq di Saddam) Tafiq Saleh (il più perseguitato dalla censura) e Abu Seif, o, Chahine, per l’alta arte del compromesso, dopo la caduta di Nasser annientato dalla sconfitta nella guerra dei Sei Giorni e tradito dalla burocrazia. I registi di La terra, Révoltés e Il processo, alle prese con il neoliberalismo capitolardo di Sadat e con il dispotismo crescente di Mubarak, resistettero comunque. È del 1972 Gli ingannati, di Tafiq Saleh, dal romanzo del palestinese Ġassān Kanafānī Riǧāl fī al-šams (Uomini sotto il sole). Prodotto in Siria narra, con asciutto bianco e nero, e stile realistico allucinato, l’odissea mortale di tre palestinesi sfruttati più dai fratelli sauditi che dai nemici di Israele. Chahine, da Djamila l’algerina (1958) a Il Passero (1973) a Alessandria… perché? (1978) rende omaggio alla forza e alla coscienza rivoluzionaria delle donne affiancandosi al lavoro di Abu Seif che nel 1959 in Io sono libe- FOCUS Il Caso Egitto ra aveva affrontato il problema della distruzione del patriarcato, obiettivo non solo femminile. Nel 1969, scosso dal Maggio parigino, il Gruppo del Nuovo Cinema (Mohamed Khan, Atef al Tayeb e Daul Abdel Sayed ne saranno gli esecutori rigorosi negli Anni ‘80) lancia un appello che non verrà dimenticato: scrutare la società da tutti i punti di vista. Il pan-realismo, come programma minimo, ai confini del fantasy, non tollera più tabù né top secret. È il manifesto del cinema di questi giorni. Non dimentichiamo che, con più di 3.000 lungometraggi prodotti in 80 anni, e una ricca tradizione letteraria, musicale e teatrale alle spalle, di cui sono simbolo lo scrittore premio Nobel Naguib Mahfouz, il compositore anti accademico Sayyid Darwish e il regista teatrale Tawfiq al Hakim, l’Egitto è tuttora una capitale del cinema mondiale (ha saputo anche anticipare la rivolta del 2011, con le opere profetiche dei giovani Ahmad Abdallah e Ibrahim El Batout) ed è l’unica industria cinematografica araba, per quantità, qualità e strutture, che esporta film al di qua e al di là dei Paesi di cultura islamica, a cui ha imposto per decenni la propria lingua, stile e moda, l’egyptian way of life. Quando, dagli Anni ‘30 agli Anni ‘70, perfino Hollywood aveva espulso dai posti di commando produttrici e registe “capaci di fare qualunque cosa proprio come gli uomini”, ecco che il cinema egiziano ha scodellato invece numerose cineaste di qualità commerciale e intellettuale come le pioniere del muto Aziza Amir, la libanese Assia Dagher, Bahija Hafidh (o Bahiga Hafez), Fatma Rushdi, Mary Queeny e Amina Mohamed, le antenate delle documentariste e delle registe di cinema e di fiction tv di oggi, ancora più “fuori schema”, come Attiat el Abnoudi (suo il proibitissimo corto Hesan, 1971), Nadia Hamza, Nadia Salem, Ines Daghidi e Asma Al Bakri. 76 - 77 UN CINEMA DIVERSO PER L’EGITTO DEGLI ANNI 2000 di DIAA HOSNY * Ahmad Abdalla ElSayed, che viene dal cinema indipendente degli Anni’ 90, sconvolse nel 2009 i critici e i festival internazionali con il suo magnifico esordio. Girato in digitale e stampato in 35mm, Heliopolis si ambienta nel quartiere est de Il Cairo, noto anche come Misr Al-Jadida (Nuovo Egitto). Collocato in una zona desertica, in direzione del canale di Suez, risorse, ai primi del Novecento, grazie al barone belga Empain che ne ha fatto un gioiello architettonico arabo-islamico. È stato per decenni simbolo della convivenza e tolleranza multietnica della capitale, un luogo cosmopolita che ha accol- A Filo diretto da Il Cairo. Il punto di vista critico. to comunità straniere, per lo più nordeuropee, appartenenti a confessioni cristiane differenti. Percorsi paralleli di personaggi del quartiere ma senza legami diretti, rivelano, tutto in un solo giorno, una realtà molto diversa, il declino di un pezzo storico della città che ha perso la sua gloria, tranne briciole di ricordi. Quel che fa unico ed eccellente il film di Ahmed Abdallah è il ritmo visivo che collega i personaggi, con dolcezza e fluidità, attraverso connessioni e sconnessioni di montaggio, senza perdere di vista l’evoluzione drammatica della situazione. Abdallah dà molto spazio al silenzio, proibito nel cinema egiziano, per radiografare la crisi psicologica e lo stato di alienazione dei personaggi. Ex montatore e studente di musica, Abdallah viene dalla sperimentazione amatoriale, non dall’Accademia, fa cinema per piacere, come dimostra il successivo Microfono (2010). Un film sulla musica giovanile rivoluzionaria, sull’arte di strada, sui graffitisti, insomma sulla potenza vira- FOCUS Il Caso Egitto le della cultura underground che il potere teme e cerca in ogni modo di arginare, negando ai giovani artisti ogni spazio pubblico e la possibilità di infiammare un pubblico. Il film è l’ingresso nella modernità del cinema egiziano, grazie all’accurato lavoro di montaggio tra suono e immagine, che rende il ritmo, pulsante e incalzante, vero protagonista dell’opera. Il film è stato criticato perché la testarda ribellione giovanile contro il vecchio mondo non è costruttiva. Eppure proprio quella rabbia, quelle musiche e quei graffiti heavy metal saranno i protagonisti della rivoluzione culturale che ha accompagnato l’insurrezione popolare del 25 gennaio 2011. E anche se la rivoluzione non ha modificato lo zoccolo duro del regime, nessuno può negare l’irreversibilità delle alternative artistiche e culturali che si sono imposte sin dai primi giorni dei moti sui muri di piazza Tahrir e sopra i palchi che i manifestanti hanno costruito per diffondere musiche e canti di lotta. La rivoluzione del 25 gennaio ha influenzato la cultura e le arti della nuova generazione, ispirato canzoni originali, fino alla Mahraghanat (musica festosa), lo stile che ha conquistato le periferie con il suo strepito e i ritmi veloci, a dispetto dei detrattori. L’arte dei graffiti, dai muri delle piazze, ha contamina- to il mondo virtuale dei social media, diffondendo in rete fumetti e vignette satiriche che colpiscono, come Pop Art, il comportamento dei politici, le idee repressive e gli arcaici metodi coercitivi. L’occhio attento di Ahmed Abdallah aveva colto in Microfono i sintomi di un’eruzione giovanile imminente. Nel 2013 Ahmed Abdallah ha raccontato la rivoluzione del 25 gennaio in Farsh wa ghata, “Stracci e brandelli”. Un giovane, strappato al carcere, è incaricato di consegnare una lettera alla famiglia di un collega cristiano, poi ucciso durante gli scontri. Il fuggitivo, finalmente libero, scopre che l’oppressione e l’ingiustizia sono all’esterno come all’interno della prigione, e che la rivoluzione viene imbrigliata piano piano da falsi conflitti settari aizzati per dividere la società. Sarà ucciso anche lui, in uno scontro fratricida, nel quartiere cristiano del collega. Il film è quasi senza dialoghi. Gli eventi non hanno bisogno di commenti, spiega Abdallah, sono eloquenti abbastanza per esprimere il disastro dell’Egitto oggi. Il nuovo millennio e la rivoluzione hanno liberato soggetti “tabù”, questioni vietate finora al cinema egiziano, come l’aids, l’ateismo, la Storia non ufficiale, l’omosessualità, le molestie sessuali in famiglia, la violenza sulle donne... etc. Argomenti estranei al cinema commerciale (commedie, drammi d’azione, musical) ma che il riflusso rivoluzionario e il deterioramento della situazione economica hanno per il momento completamente bloccato. Salva però dalla monotonia e dalla superficialità del cinema di consumo un altro talento che ha affiancato Abdallah, Ibrahim El Batout, il primo a girare in digitale e a dare struttura drammatica inusuale a Ain Shams (2008). Anche qui un incrocio di personaggi, isolati nel crogiolo dei loro problemi e interessi, svela una rete di corruzione, radicata in un Paese dove *membro dell’associazione critici egiziani La traduzione è di Muhammad Abdel-Kader. l’acqua è contaminata, i prodotti alimentari vengono trattati con materiali cancerogeni, le elezioni sono falsificate e manipolate dalla corruzione, i servizi sanitari sono pessimi ma lo spirito della rivoluzione s’agita già nei cuori dei giovani ribelli che protestano attraverso sit-in e manifestazioni. Il mosaico è intricato e complicato perché la sceneggiatura parte dalla guerra in Iraq, all’inizio degli Anni ‘90, vissuta da personaggi che si trovano tra Iraq ed Egitto. Tutti gli effetti negativi della presenza militare straniera in Iraq sconvolgono anche l’Egitto, con la grande differenza che qui non c’è intervento esterno, ma è la corruzione e l’oppressione politica interna a distruggere il Paese e a colpire i più deboli e poveri. A frammentare ancora di più la struttura del film, El Batout usa tecniche inconsuete, come l’improvvisazione attoriale, esaltata dall’uso dei piani sequenza, o il ricorso a materiali di repertorio (riprese dal fronte iracheno o del movimento di protesta Kifaya, Basta, contro il regime di Hosni Mubarak) armoniosamente integrati al contesto drammatico. Sul “25 gennaio 2011” El Batout ha girato El-Shetta Elly Fat, L’inverno del malcontento), raccontandoci la rivoluzione attraverso tre personaggi emblematici: un informatico, giovane attivista dei diritti umani; la sua fidanzata, giornalista televisiva spudoratamente filo governativa; l’ufficiale di polizia che interroga e tortura i rivoltosi un po’ come in Brazil di Terry Gillian l’impiegato del Ministero degli Interni che straziava candidamente i sospetti mentre nella stanza accanto i suoi bambini giocavano tranquillamente. El Batout confonde la continuità spazio-temporale attraverso un montaggio fluido che nell’unità dell’evento mescola passato e presente, la piazza con il carcere e gli studi televisivi, senza mai spiazzare lo spettatore. Il secondo protagonista del film è lo schermo, televisivo, del computer o del portatile. Siamo di fronte a una rivoluzione in diretta, nascondere la verità dei fatti è ormai 78 - 79 vano e assurdo. La tecnologia ha dato una boccata d’ossigeno a chi si sente prigioniero di un regime che non può più ostacolare la comunicazione tra cittadini e verità. Il film di El Batout è come il manoscritto drammatico degli avvenimenti più importanti accaduti in Egitto tra la rivoluzione del 1919 a quella del 2011 (gli egiziani si ribellano solo a inizio secolo?). A prescindere dall’esito negativo di entrambe le sommosse, registrare e documentare eventi storici con il cinema può aiutare a ricostruire la memoria e la coscienza di un popolo e anticipare le ondate di cambiamento, senza dover aspettare il prossimo secolo. Nel suo nuovo film d’azione, a retrogusto metaforico, Al-Ott (“Il gatto”, 2015), El Batout amalgama invece cronaca e magia. I trafficanti in organi umani di bambini rapiti non potrebbero essere fermati senza l’intervento soprannaturale di una creatura che controlla gli eventi e spinge due eroi proletari ad affrontare il “gatto”, il boss della gang. Quel personaggio di straordinaria potenza è il simbolo dell’antica e sadica divinità egizia del Male, che controlla gli animi degli egiziani e, come fossero burattini, li spinge alla violenza fratricida, divertendosi a eccitarli con il miraggio del denaro, del potere e della fama. INTERNET E NUOVI CONSUMI S E N Z A PA R O L E . IL CODICE VISUALE DEGLI EMOJI di CARMEN DIOTAIUTI una faccina che ride fino alle lacrime la parola dell’anno secondo l’Oxford Dictionaries che, nel designare il termine che meglio raffigura le tendenze dell’anno trascorso, per la prima volta ha fatto cadere la scelta su un pittogramma. L’icona individuata sta a rappresentare l’intera categoria degli emoji dei quali, da una ricerca fatta dalla SwiftKey, risulta essere il simbolo più utilizzato nel corso del 2015. Un termine preso in prestito dal giapponese che unisce le parole “immagine” e “carattere” e rappresenta quella categoria di simboli pittografici il cui utilizzo sembrava inizialmente confinato a una pigra deriva giovanilistica del linguaggio. Una serie di segni grafici codificati dall’Unicode Consortium, la cui rappresentazione si ispira alle forme tipiche È di manga e anime. Volti, oggetti, cibi, luoghi o animali che vengono aggiunti ai messaggi per enfatizzarne il senso, oppure utilizzati in sequenza per esprimere concetti e rappresentare visivamente emozioni, sentimenti e attività. Complice l’avvenuta integrazione nelle tastiere dei dispositivi smartphone, la frequenza d’uso è triplicata rispetto allo scorso anno. Un’esplosione che ha sfatato ogni pregiudizio sui limiti d’uso e aperto la strada a diversificati, quanto inaspettati, impieghi, che ne avvalorano a pieno titolo il carattere di variabile espressiva del linguaggio. Si chiamano emoji e sono quei simboli pittografici entrati a pieno titolo nelle comunicazioni online mediate dagli smartphone. Inizialmente confinati a una pigra deriva giovanilistica del linguaggio, l’esplosione d’uso dell’ultimo anno li ha sdoganati dal pregiudizio e aperto la strada a diversificati, quanto inaspettati, utilizzi. Dalle campagne promozionali (Star Wars) alla traduzione di romanzi (Moby Dick) o di serie tv (Game of Thrones). Segni grafici che ritrovano la loro radice di condensazione espressiva del linguaggio. È nato un nuovo codice? INTERNET E NUOVI CONSUMI Da Hillary Clinton, che ha chiesto feedback al suo elettorato in forma di emoji, a Emoji Dick, 735 pagine illustrate in cui ogni singola espressione dell’epico romanzo di Herman Melville, Moby Dick, è tradotta nel suo corrispettivo pittografico. Ma non è l’unica singolare traduzione in circolazione. Su YouTube esiste una versione video che riassume in simboli gli eventi della terza stagione di Game of Thrones, interamente realizzata con un telefonino e dall’allusivo titolo Game of Phones.Il filmato è opera dell’artista americana Cara Rose DeFabio, autrice anche di Melroji Place, versione della popolare soap Anni ’90 Melrose Place sottotitolata nel più moderno dei linguaggi smartphone e presentata all’Emoji Art & Design Show, la mostra dedicata ad installazioni artistiche in pittogrammi. Gli emoji sono stati, inoltre, ampiamente utilizzati nelle ultime campagne promozionali, a partire da Star Wars - Il risveglio della forza che, in accordo con Twitter, ha lanciato un set di icone dedicate ai protagonisti del film. Così, durante il periodo di lancio della pellicola, nel digitare gli hashtag loro associati apparivano automaticamente all’interno dei messaggi i personaggi della celebre saga stellare. Allo stesso modo sono diventati popolari in rete una serie di rebus il cui obiettivo è riconoscere un film a partire da una sequenza di emoji che ne raffigura titolo o trama. Proprio il rebus, che rappresenta un concetto invece che scriverlo, può essere considerato uno degli antenati del linguaggio emoji, la 80 - 81 del linguaggio in cui il significato viene ricondotto all’uso e in cui la traduzione intersemiotica del concetto corrisponde a un codice fortemente influenzato da spazio e tempo, come vuole la teoria dei giochi linguistici di Ludwig Wittgenstein. Una tensione costante verso lo spazio della metafora, in cui l’emoji, come oggetto rappresentato, ritrova la sua radice di condensazione espressiva del linguaggio. cui popolarità, secondo il linguista David Crystal, sta nello sforzo cognitivo richiesto e nell’implicita sfida che li rende piacevoli sia per il lettore che per l’autore. Neanche Hollywood poteva farsi scappare l’occasione di sfruttare una delle mode del momento, e ha annunciato per il luglio 2017 l’uscita in sala di The Emoji Movie, film d’animazione prodotto dalla Sony Pictures Animation e diretto da Anthony Leondis, già regista di Lilo & Stitch 2 e del corto Kung Fu Panda: i segreti dei maestri. Adottati per velocizzare le nostre interazioni e rispondere al bisogno di mettere in scena emozioni anche complesse come sarcasmo, ironia o frustrazione, gli emoji facilitano quel processo di comprensione ed empatia che nelle conversazioni face-to-face viene innescato da intonazione, espressione o linguaggio del VEDI ANCHE: Game of Phones youtu.be/l0SYKT4FgGU corpo. Fin qui potrebbero essere considerati una sorta di surrogato paralinguistico, un po’ come le emoticon di cui sono diretti discendenti. Ma gli emoji sono molto di più. Il loro senso non è sempre univoco e se può essere facilmente intuitivo, ad esempio, cogliere una richiesta di complicità in una faccina che strizza l’occhio, è sicuramente meno immediato il senso di una testa Moai o di una siringa grondante sangue. Il potere di questo tipo di immagini sta proprio nell’ambiguità e nella capacità di cambiare senso in base al contesto, alla lingua e alla cultura in cui vengono inserite. Una concezione sistemica GEOGRAFIE a Storia del nostro Paese inizia a Tripoli, in Africa. Principio del nostro racconto e purtroppo anche suo presente: dalle colonie ai barconi, tutto sembra essersi manifestato in quella terra, alla nostra Italia tanto prossima e sorella. L Il viaggio di Italo Moscati parte dal Sud, in un armonico alternarsi tra immagini dinamiche e fotografiche, tra quelle storiche dell’Archivio Luce e diverse altre girate di recente in alta definizione, tra bianco & nero e colore, da Matera alla Capitale, per condurre ai giorni presenti: la “risalita” narrativa dello stivale attraverso 20 Regioni, in virtù di un sapiente assemblaggio della visione, ascende dalla Sicilia verso il Settentrione per la tecnica di ripresa e montaggio capace di dare la sensazione dello scorrere di un percorso, come fosse un grande carrello del cinema che cammina fluido attraverso il Paese, con l’accortezza – questo succede soprattutto con l’uso delle fotografie – di soffermarsi per istanti su dettagli che “impongono” un’impercettibile ma imprescindibile sosta, fondamentale a non lasciarsi inebriare dall’efficace dinamismo del viaggio, così da far appoggiare l’occhio sui visi del popolo, tra schiaffi d’acqua di mare e una storia dell’arte di ineguagliabile bellezza. Il tutto incorniciato dal profilo, sempre presente e protagonista, dello spettacolo della natura. Rituali popolari in balli e costumi, non solo espressione di tradizione ma anche patrimonio delle arti della danza e della moda; architettura d’ogni epoca inserita nella sinuosità delle “linee” antiche e perenni del paesaggio, come fos- LA BELLEZZA di NICOLE BIANCHI Istituto Luce-Cinecittà ha prodotto il nuovo documentario curato da Italo Moscati – 1.200 km di bellezza - un Grand Tour contemporaneo che, risalendo dalla Sicilia alle Alpi, attraverso 20 Regioni, ci fa viaggiare tra popoli e paesaggi, nel nome delle arti e della natura, dalle tonnare sicule all’architettura “fantasy” di Civita di Bagnoregio. GEOGRAFIE 82 - 83 se un unicum di bellezza che reciprocamente s’innesta su una perenne colonna sonora trasversale ai generi – dal folk alla classica - nondimeno espressione di un nostro patrimonio storico e culturale riconosciuto nel mondo. L’esplosione del concetto di bellezza, come evocata dal titolo - ispirato a una nozione cara a Moscati, presa dallo psicologo James Hillman, secondo il quale se la gente sentisse nella vita l’importanza della bellezza probabilmente scenderebbe per le strade per reclamarla - è circolare e to- DELL’ ITALIA tale poiché, dal racconto di ogni sequenza, come dall’individuale dettaglio visivo o sonoro, viene restituita costantemente un’immagine non solo audiovisiva ma soprattutto storica, epidermica, terrena, che riconduce al concetto del “bello” quale espressione della complessità della Storia di una nazione intrinsecamente, ora come allora, profondamente frastagliata e diversa ma, proprio per questo - nella capacità o nel perenne tentativo – mai monotona, mai prevedibile, sempre foriera di stupore e nuovo incanto. In 75 minuti di durata si viaggia per 1.200 km, ma anche attraverso due secoli prossimi che – in fieri – danno forma e senso alla nostra Italia, non raccontabile senza il materiale d’archivio che il Luce conserva e, come bene qui dimostra, non lascia affondare nello spessore della polvere accumulata col tempo che trascorre, rendendosi invece perennemente contemporaneo, con il grande pregio dell’essere portatore di una grande memoria. LAVORI IN CORSO QUESTIONE di CRISTIANA PATERNÒ DI SGUARDI Il nodo del femminismo, vecchio e nuovo, nella stratificata identità del Festival milanese Sguardi Altrove, che vive la sua 23ma edizione dal 17 al 25 marzo. Ne parliamo con il direttore artistico Patrizia Rappazzo. pur sempre questione di sguardi, il cinema. E lo sa Patrizia Rappazzo, direttore artistico del Festival Sguardi Altrove, che dal 17 al 25 marzo vive a Milano la sua 23ma edizione. Giornalista e critico cinematografico con una laurea in filosofia, ha incrociato Gabriella Guzzi, fondatrice della manifestazione scomparsa nel 2004, mentre faceva un’inchiesta sul cinema meneghino: “Il Festival era nato all’inizio degli Anni ’90 e si chiamava Donne Altrove. Con Gabriella ci siamo incontrate sul piacere di raccontare il vissuto delle donne e così ho iniziato a collaborare al progetto e siamo diventate amiche. Più tardi, il cambiamento del nome, da Donne Altrove a Sguardi Altrove, ha sottolineato lo sganciamento dall’ambito del femminismo per poter parlare di cinema d’autore, e non solo di temi femminili, ma sempre con l’intento di riflettere sulla condizione della donna a livello internazionale e con una speciale attenzione alla regia e alla creatività femminile. L’ambizione è di essere uno spazio per rileggere la contemporaneità attraverso il cinema e l’arte cercando sinergie con l’attualità”. È LAVORI IN CORSO 84 - 85 no prodotti da donne e solo l’11,2% sono scritti da donne. Da quale tipo di riflessione nasce questa esigenza di ridimensionare la vocazione femminista del Festival? C’è stato, a un certo punto - è innegabile -, un fastidio verso il femminismo, anche se di fatto la mia vita è nel segno del femminismo, ma non ho avuto la necessità di doverlo urlare. Mi sono detta: facciamo vedere le cose che le donne sanno fare, le cose di qualità che producono, quindi capovolgiamo il messaggio. La nostra vocazione a occuparci dello sguardo femminile rimane nelle tre sezioni competitive, poi ci sono le sezioni a regia mista. Inoltre, da quest’anno, la sezione di cinema italiano da panoramica diventa competitiva, con un premio del pubblico, e prende il nome di Frame Italia. Poi, insieme al Festival de Films de Femme di Créteil, abbiamo una retrospettiva dedicata a Chantal Akerman, la cineasta belga scomparsa a ottobre del 2015. Stiamo vivendo un momento in cui la libertà delle donne è sotto attacco più che mai, anche all’interno di uno scontro di civiltà in atto, e sembra urgente tornare alla consapevolezza dei propri diritti. Oggi infatti c’è un recupero del femminismo. Non siamo più negli Anni ’70 ma in un altro tempo in cui spesso le giovani non hanno piena coscienza di cosa sia la violenza sulle donne, violenza Questo a livello quantitativo, ma parlando della qualità, qual è la situazione attuale nel cinema italiano? Per il cinema di finzione non è ottimale, le storie che ci arrivano sono a volte banali, le opere prime risentono di una grandissima ingenuità, devo dire che le donne non si lanciano. La Scuola di Cinema di Milano ci conferma che le ragazze preferiscono fare produzione o montaggio, come se non avessero fiducia in se stesse. Diverso il caso del documentario, forse perché costa meno ed è proche passa attraverso il linguaggio, duttivamente più agile, il panorale relazioni e anche la comunica- ma qui appare più ricco. zione pubblicitaria, oltre che attraverso gesti estremi. Il tema di questa 23ma edizione è: “Il tempo, tra memoria e E quindi lavorate sul pubblico progetto”. Come si declina? delle ragazze. Parliamo dell’estetica del tempo L’età media del nostro pubblico è e della percezione nelle culture diminuita grazie alle attività for- come tempo individuale, sociale mative pensate per gli studen- e trascendente. In questo affronti, come le matinée o gli incontri tiamo la capacità delle donne di con i cineasti. I ragazzi e le ragaz- raccontare il passato e il futuro ze vengono coinvolti anche nelle con una speranza e un’attenziogiurie e nelle preselezioni. Ma, il ne che si amplia con la maternilavoro sul pubblico è tagliato an- tà: le donne hanno una maggiore che sull’identità di genere: le ra- capacità di spingersi oltre il temgazze, a volte pensano di essere po presente rispetto agli uomini, libere, non sono neppure consa- hanno una qualità significativa e pevoli dei diritti perduti. speciale di racconto, ad esempio nel racconto della guerra: non c’è Qual è la fotografia, secondo la solo Kathryn Bigelow ad essersi vostra esperienza, della presen- occupata di questo tema così forza attuale di donne nella regia? te e purtroppo attuale. Il numero delle registe è aumentato, anche se i dati disconferma- Ancora in termini di attualino un cambiamento positivo, co- tà, il vostro Focus è dedicato me si evince anche dalla ricerca alla Turchia, Paese veramendell’EWA Network realizzata in- te al bivio tra Europa e mondo sieme al MiBACT che dopo la pre- islamico e dilaniato da vicensentazione alla Mostra di Venezia de politiche drammatiche in e alla Berlinale animerà una tavola questi ultimi mesi. rotonda anche da noi. La Turchia, quando abbiamo In Italia la metà dei diplomati nel- deciso di occuparcene, non era le scuole di cinema sono donne, ancora nell’occhio del ciclone. ma solo il 10% di loro diventano L’abbiamo scelta perché è molregiste; in Europa va meglio ma di to cresciuto il numero delle cipoco, solo il 16% dei registi sono neaste, con tanti nomi nuovi. donne. Inoltre il 50% delle registe Presentiamo opere di giovani abbandona la carriera. Il ruolo del- registe, nate a metà degli Anle donne nei film campioni di in- ni ’70, che danno conto delcasso è residuale: solo l’1,9% sono le contraddizioni in atto nella diretti da donne, solo il 18,9% so- Istanbul contemporanea. ANNIVERSARI a 50 anni da DJANGO Quando 50 anni fa uscì nelle sale, fu visto come uno dei film più violenti mai prodotti fino a quel momento, ma la crudeltà e il cinismo contribuirono a renderlo una colonna portante e un mito del western all’italiana. Django fu l’affermazione di Sergio Corbucci come regista di successo e donò al venticinquenne Franco Nero – che pure era già stato diretto da maestri come Lizzani e Pietrangeli – un’immortalità nell’immaginario cinematografico mondiale, tanto che Quentin Tarantino, nel suo remake del film del 2013, ha corteggiato e convinto Nero ad accettare un ruolo. ANNIVERSARI A 50 anni da... Django Il mito e la matrice gni avventurosa storia di film divenuti cult prevede, da copione, un groviglio di dichiarazioni, miti, ricostruzioni più o meno veritiere, spesso contraddittorie. Anche Django non è esente, per quanto il suo status consolidato ormai da tempo abbia fatto sì che le vicende della sua produzione e poi trasmigrazione in altre esperienze nel corso degli ultimi cinquant’anni siano state perlopiù rendicontate in modo ordinato. E, però, nell’affresco complessivo che si è venuto a formare, è intrigante far luce proprio sulle incongruenze, sui risultati inattesi, sul senso di operazione un po’ folle e inspiegabilmente riuscita che spesso ammanta il film. Nel caso di Django, prima dell’inserimento nel canone del western italiano seminale, abbiamo in tal senso i racconti in prima persona dei suoi autori, Sergio Corbucci in testa, al tempo non troppo convinti della sensatezza dell’operazione, di certo non dell’immediato successo. L’idea nasce da una suggestione visiva fumettistica del regista: un uomo misterioso che trascina una bara. Attorno a questa trovata, Franco Rossetti, con la collaborazione di Piero Vivarelli e poi la revisione, strada facendo, di Bruno Corbucci e di Fernando Di Leo, strutturano una trama, di O di MIMMO GIANNERI cui il regista immaginava già il finale con il pistolero menomato e vincente. All’aiuto regia c’è Ruggero Deodato, poi a sua volta regista del culto Cannibal Holocaust (1980). Lo scenografo e costumista è Giancarlo Simi: sue sono le ambientazioni desolate dei film di Leone e gli abiti, sporchi e anti-hollywoodiani, della maggioranza dei pistolero dei western italiani. Enzo Barboni, alla fotografia, sarà invece il regista – sotto lo pseudonimo di E.B. Clucher - di Lo chiamavano Trinità (1971) e di tanti film post-western della coppia Bud Spencer e Terence Hill. Tutti nomi attorno a cui si costituisce insomma una fetta del cinema di genere italiano della modernità. Girato in venti giorni, a detta di Barboni, la sceneggiatura viene rimaneggiata fino al giorno prima dell’inizio delle riprese e, a quanto pare, un Sergio Corbucci svogliato viene portato a forza sull’aereo diretto in Spagna, dove si girano gli esterni. Django parla innanzitutto di circostanze creative e produttive irripetibili, dove si intrecciano personalità eterogenee, idee, l’abitudine a schivare i colpi con scaltrezza e a muoversi sulla base di intuizioni (caratteristiche, queste ultime, del personaggio-tipo del western all’italiana, tra l’altro). Per dirla con note ca- 86 - 87 tegorie di David Bordwell, non è tanto l’eccellenza intrinseca del film a renderlo meritevole di esegesi, quanto la sua esemplarità – cioè la capacità di manifestare le tendenze in corso – e la sua influenza, ovvero l’impatto sul cinema coevo e seguente, nonché l’essere stato a sua volta influenzato dal clima del periodo. Django è prima di tutto un’operazione derivativa. Nel dizionario del cinema di Mereghetti, non a caso, è censito con una stella e mezza: a parte l’inedito uso della violenza, per il resto Corbucci fa il verso a Leone, che con Per un pugno di dollari aveva dato il via, due anni prima, all’ondata di western all’italiana. E, in effetti, il pistolero interpretato dal ventitreenne Franco Nero – da lì in poi, per il regista, “il mio John Wayne” – ha gli occhi di ghiaccio di Clint Eastwood e l’immancabile cappello a tesa larga che ne svela il volto progressivamente. È un personaggio enigmatico e dal passato oscuro. Inganna per coltivare i suoi interessi, è un doppiogiochista ed è in cerca di vendetta… Insomma, Django, sulla scorta di quanto stava accadendo negli altri western italiani, ha una precisa matrice leoniana. Lo fa però con delle idee e uno stile. Django palesa l’esigenza di una distorsione del segno in favore dell’eccesso (anche di violenza). Ne sono indicatrici le scelte di messinscena; scelte che ci dicono di un immaginario disposto naturalmente a farsi pop, ovvero a essere prima identificato come perfettamente riconoscibile, e poi destinato a diramarsi attraverso reinterpretazioni successive. Django ha quindi una sua eccellenza intrinseca che si manifesta fin da subito nella sua esemplarità. A differenza dei personaggi del western classico, Django è un eroe agganciato al presente. Ha un passato tragico, la morte della moglie amata, ma la Storia non lo tange, agisce per vendetta e per il suo tornaconto. Non c’è un corpo collettivo a cui appartiene e di cui si fa vece, magari nostalgicamente, come accadeva ai grandi personaggi del western americano. In Django non c’è una contrapposizione di stampo tradizionale tra yankee e messicani, tra yankee e sudisti e la rivoluzione messicana sembra una faccenda per banditi senza scrupoli. Django è anche un personaggio ambiguo e fallibile. Spietato, quando ridendo falcidia gli uomini di Jackson grazie alla mitragliatrice nascosta nella bara che trascina con sé; malfattore e arguto doppiogiochista, quando ruba insieme ai messicani l’oro e poi fugge cercando di accaparrarselo; a suo modo romantico, quando nel finale dichiara il sogno di una vita d’amore a Maria. Inoltre, i suoi progetti non vanno tutti a buon fine: non solo perde l’oro rubato, inghiottito dalla sabbie mobili, ma viene anche torturato dai messicani imbufaliti, i quali gli spappolano le mani sotto gli zoccoli dei loro cavalli, costringendolo a ANNIVERSARI A 50 anni da... Django un duello finale con Jackson inconsueto quanto geniale. Corbucci amministra tutte queste idee con la sua cifra: la violenza orgogliosamente esibita - le uccisioni di massa - e gratuita: la celebre scena, omaggiata da Tarantino in Le iene, dove i messicani tagliano l’orecchio a Jonathan, lo costringono a mangiarlo e, solo dopo, lo uccidono. Ma, visivamente, è tutto l’impianto del film a cercare l’impatto e la novità, enfatizzando gli stilemi leoniani di partenza. La città dove si svolge l’azione, priva di vegetazione e a quanto pare di abitanti, eccetto le prostitute e il proprietario del saloon, ha i toni, i colori e le assenze di un’ambientazione post-apocalittica, ridisegnata a china. Django è contraddistinto da un uso insistito di dettagli e di primi piani, zoom e movimenti di macchina a mano, sporchi. Lo zoom, in particolare, è ampiamente usato, sia per presentare il personaggio in modalità da eroe moderno che irrompe sullo schermo, come un magnetico James Bond nostrano, sia per dare ampio spazio ai volti iperrealistici di tanti altri personaggi che si fanno essi stessi paesaggio, fondendosi idealmente agli orizzonti scarnificati e senza vie di fuga dove si svolgono le vicende. Se il western classico era l’incontro tra una “mitologia e una forma di espressione” (Bazin), quello italiano non è altro che la riela- borazione di quella mitologia da parte di scaltri uomini di cinema, e d’affari. Per questo per molti rappresenta una prima forma di postmodernità. Ma, ancor prima, e facendo la tara a un approccio perlopiù inconsapevole, il cinema di Django è molto vicino ai modi della modernità delle nuove onde emerse da qualche anno. Django è un eroe che imita i miti del passato (John Wayne e Henry Fonda, modelli per il Corbuc- ci amante del genere, fino al Clint Eastwood di Leone) in modo non così distante dal Belmondo del Godard di Fino all’ultimo respiro. E le vicende produttive raccontano di un film dal soggetto scarno e costruito via via, giorno per giorno, sulla base delle contingenze, come accadeva in tanti set della Nouvelle Vague. Così, i cappucci rossi sullo stile del Ku Klux Klan con cui vengono agghindati i pistolero del genera- le Jackson sono un espediente, a detta di Deodato, per coprire i volti “sdentati” di alcune comparse scritturate in loco a poco prezzo. Le giornatacce di cielo plumbeo dove avvengono le riprese permettono a Barboni di realizzare una fotografia sot- toesposta. Il fango (Corbucci avrebbe preferito la neve…) viene trovato nelle location abbandonate e, piuttosto di pulirlo, si usa un bulldozer per renderlo ancora più sudicio… Insomma, Django consegna il clima di una stagione in cui certo cinema di 88 - 89 genere all’apparenza raffazzonato aveva delle artigianalità (in taluni casi, delle autorialità) abili a rielaborare le innovazione stilistiche e contenutistiche del tempo in una chiave prettamente commerciale. Non a caso, un modello per Tarantino. In the Djungle del cinema popolare di M.G. i frequente è citato, tra gli esempi paradossali della popolarità multiforme di Django, il musicarello diretto da Ferdinando Baldi Little Rita nel West (1967), con protagonista Rita Pavone, e che vanta lo stesso sceneggiatore, direttore della fotografia e produttore (Manolo Bolognini) della pellicola di Corbucci. Nel film, una sequela di pistolero imitativi (un Ringo e un Django, con tanto di bara) vengono affrontati dall’improbabile giustiziera. Ancora più curioso, è un altro musicarello dello stesso anno: Riderà (1967), con Little Tony e la regia del fratello di Sergio, Bruno. In una scena, il protagonista sta facendo la comparsa in un western italiano e per sbaglio dà un vigoroso cazzotto in faccia proprio a un simil-Django che cade a terra stecchito, causando l’interruzione delle riprese e l’indignazione del regista Sergio (lo stesso Corbucci), il quale decide di passare alla scena successiva del taglio del naso… alla fine Little Tony verrà assoldato per intrepretare John Wayne nel “remake musicale di Ombre rosse”. Piccole curiosità di una stagione dove le produzioni cambiavano i generi senza troppi patemi e parlavano a un pubblico ingordo e avvezzo alle strizzate d’occhio. Il successo di Django, inizialmente frenato da un inevitabile divieto ai minori di 18 anni, passa per un D crescendo quasi immediato grazie al passaparola di giovani entusiasti delle scene più cruente (inizialmente tagliate in alcune versioni e presenti in altre) ed elementi paratestuali particolarmente significativi, a partire dalla riuscita locandina del pistolero nerovestito con la sciarpa appoggiata intorno al collo in modo casuale e raffinato. I remake, seguiti e prequel di Django sono innumerevoli. Un primo, eterodosso, è Preparati la bara! (1968) diretto dal Ferdinando Baldi di Little Rita nel West, con Terence Hill nella parte del pistolero. Ma il vero seguito, con Fran- co Nero a vestire di nuovo i panni dell’eroe, è Django 2 di Nello Rossati, del 1987, quando il genere è ormai quasi dimenticato. In mezzo – e dopo – fioccano le citazioni e gli omaggi. Innanzitutto, abbiamo western che approfittano del brand Django per ingolosire il pubblico distratto di provincia, cambiando strada facendo i nomi dei protagonisti in quello del noto eroe e mimando alcuni modi del film di Corbucci; oppure usando “Django” nei titoli di pellicole che poi raccontano storie non necessariamente legate al soggetto di partenza. Marco Giusti in più occasioni ha ricostrui- ANNIVERSARI A 50 anni da... Django to le strade e gli emissari di queste filiazioni. Si tratta di strategie comuni ai vari Ringo, Sartana o Sabata, ma che qui trovano un territorio d’elezione. Alberto Pezzotta, nel suo volume sul western italiano, suggerisce che il film riesce a imporsi nell’immaginario del pubblico, tra le altre cose, per la sua fervida contraddittorietà. Django è un personaggio i cui “tratti trasgressivi sono bilanciati da elementi normativi” e il film giustappone “stili e rimandi intertestuali incoerenti”. Inoltre il testo di Django è più pop rispetto a quello di – per fare un esempio nobile – Per un pugno di dollari. Si pensi al grandioso incipit del film, non a caso citato filologicamente all’inizio di Django Unchained. Di spalle, un uomo di cui non scorgiamo il volto, si muove faticosamente in un paesaggio dominato dai colori stinti del fango e dal cielo plumbeo. La camera è fissa, ma la figura si allontana, con uno dei classici movimenti ad allargare sui corpi del western italiano. I versi della canzone di Luis Bacalov ci presentano il personaggio ancor prima di scoprirne le fattezze (“Django, have you always been alone / Django, have you never loved again”). In seguito, vediamo il dettaglio degli stivali immersi nella melma e intuiamo la presenza dei pantaloni di un’uniforme nordista. Solo a quel punto, con un font fumettistico dal colore rosso acceso, appaiono le scritte. Sul titolo del film si impone in primo piano la silhouette della bara, trascinata nel fango dal misterioso personaggio; vestito completamente di nero, si allontana, placido, e scompare dietro una collina. La macchina da presa zooma all’indietro a scoprire il paesaggio desolato. Il volto di Franco Nero lo vedremo per la prima volta soltanto nella scena successiva della sparatoria. Ma a quel punto, il film ci ha già consegnato una precisa iconografia, da rimaneggiare e tramandare. Al pari dei film di Leone, in molto immaginario cinefilo, soprattutto straniero, Django condensa tutto il western all’italiana. Il film si è sedimentato nei discorsi, e non solo per le sue qualità estetiche. In una recente lista dei dieci western preferiti da Tarantino, per esempio, appare Navajo Joe (per la regia dello stesso Corbucci, che lo preferiva al successivo Django), ma non il film a cui poi ha dedicato il suo penultimo lavoro. Takashi Miike, in occasione dell’uscita di Sukiyaki Western Django (2006) ammette che l’omaggio nel suo film si limita “al titolo e alla scena finale”, ma “era doveroso nei confronti del suo creatore” e della sua passione per il film. Più del linguaggio, copyright primario di Leone, Django ha un packaging complessivo di grande impatto e un eroe dal cinismo distruttivo che da molti viene interpretato come una forma di protesta, innovativa e perentoria. Così si può leggere la grandissima eco avuta dal film in Paesi molto distanti dall’Europa e dagli Stati Uniti, dalla Turchia al Brasile fino in Giamaica, dove ci fu un vero e proprio culto, testimoniato innanzitutto dal film The Harder They Come (1972, Perry Henzell), nel quale un aspirante cantante, con il mito del personaggio di Franco Nero, si tramuta gradualmente in un gangster. E così si può anche leggere, ed è stato letto, l’omaggio di Tarantino. Django è l’emblema di una lotta senza quartiere contro l’establishment. La rivalsa degli sconfitti nei confronti dei loro oppressori è un gesto sovversivo e creativo, che avviene tramite lo sfoggio di una violenza liberatoria. Parafrasando Godard, non è sangue, sono macchie di colore. 90 - 91 PUNTI DI VISTA IDEOLOGIA I TA L I A N A di GIROLAMO DE MICHELE n un film come Suburra il tema della violenza è posto all’intersezione fra due direttrici: il rapporto fra la violenza “reale” e la sua rappresentazione filmica, e il rapporto fra la rappresentazione di questo film, e quella del genere “poliziottesco” degli Anni ’70 cui ammicca. Nei poliziotteschi, la violenza subiva una torsione iperrealistica rispetto alla violenza percepita, e virava in una diretta o indiretta ironia (all’interno della quale potevano anche essere depositati frammenti di un discorso di critica della violenza). In ogni caso, la scena filmica era la metropoli, con le sue dinamiche e contraddizioni nelle quali erano impigliati, pur in uno schemati- I smo manicheo, poliziotti e banditi. In Suburra, invece, il genere è recuperato solo come tecnica registica, in una narrazione del tutto diversa: un ambiente chiuso – il mondo della malavita romana – nel quale ciò che malavita non è si intravede appena; un’omologazione fra le diverse facce della stessa medaglia malavitosa che ingloba anche i “politici”, rappresentati non come anelli di congiunzione o camere di compensazione, ma come interni tout court a questo mondo. Una rappresentazione monocromatica della violenza, sottolineata dalla monotonia delle luci livide e dalla continua pioggia. La prima dissonanza di Suburra nasce qui: la scena della violenza non offre appigli narrativi verso un’altra sce- na, non ha porte che si aprono su altri mondi, finestre dalle quali proviene un’altra luce: eppure, il film ha una quasi didascalica pretesa di alludere al “reale” della cronaca giudiziaria – ingenuamente assunto come “dato reale” e non come rappresentazione da criticare. Se non che, anche questo mondo chiuso non può non presentarsi come una metafora di quel reale “altro” che si vorrebbe escludere dalla narrazione: il che accade, va detto, anche per i limiti oggettivi di una regia che è al di sopra della media nazionale, ma non arriva ai maestri di genere americani o francesi: Sollima non è Olivier Marchal o William Friedkin (cui ammicca con la scena della fuga in auto) – e soprattutto, non lo sono i suoi sceneg- PUNTI DI VISTA giatori che, presi dall’urgenza di una docu-fiction poliziottesca, non sono esenti da vistose zeppe e incongruenze nella stesura del plot. Non arriva, insomma, a far scaturire dalla tecnica narrativa un discorso critico sulla violenza rappresentata: e non vi arriva perché manca di un discorso critico su quel reale che rappresenta. La violenza (e qui si sente la mano del duo Rulli-Petraglia, col loro psicoanalismo ormai diventato un genere attraverso il quale la storia patria viene rimasticata, digerita e restituita senza residui) è rappresentata come un Male che si genera da sé - senza contraddizioni, senza rapporti di causa-effetto, nel quale la sfera dell’economico si limita alla mazzetta, e il sociale è al più l’interno di un market - per finire coll’auto-distruggersi per implosione o erosione dall’interno delle proprie relazioni. Inevitabile chiedersi dove sia finito il tentativo di fare della narrazione – con il romanzo e la serie Romanzo criminale – un attraversamento di un mondo altrimenti violento, fornendo allo spettatore spunti di sospetto e inquietudine; o di piegare la cronaca sull’irruzione del tragico nella storia, un tragico del quale, peraltro, si intuiva, accanto a una dimensione metastorica, anche una genesi derivata dalla critica dello stato di cose presente. Qui, invece, la dimensione della serialità allusa contribuisce, assieme a certe scelte del cast verso attori mainstream (manca da tempo nel cinema italiano un discor- so consapevole sul ruolo del volto dell’attore: ma non è proprio a Ostia, del resto, che è stato ammazzato Pasolini?), che finisce per creare fra la rappresentazione e lo spettatore un clima di familiarità, un adagiarsi nel già visto, nel conosciuto, nel piacionesco, che è altra cosa dal glauco Henry Fonda che ammazza un bambino. Di questa violenza, risfogliando qualche bignamino di Freud e ritagliando qualche battuta dalle cronache giornalistiche, alla fine si fornisce, accanto all’implicita ammissione che è una sorta di trascendentale metastorico, e come tale ineliminabile, l’ovvia spiegazione che c’entra il rapporto col padre (al limite con la madre, giusto per sottolineare l’italianità mammona del Samurai, 92 - 93 che fra Cesaroni e Suburra resta sempre uno di noi): che sia il padre reale al quale si vuole assomigliare senza potergli assomigliare, o quello metaforico da uccidere, poco cambia. Ma l’assenza di una critica della violenza, assunta come seconda natura – come da classica ideologia italiana – finisce per ricadere nella sua estetizzazione un po’ glam (gli M83 che gorgheggiando sottendono gli ammazzamenti credendosi i Cocteau Twins): estetizzazione che si porta dietro la responsabilità di una banalizzazione morale che accarezza lo stato di cose presente senza neanche provare a fargli il contropelo, e in definitiva lo lascia così come è. Viene buono per i prossimi sequel, filmici e narrativi. FARE UN FILM È LOTTARE PER IL MIO PAESE di LAURA BISPURI l nostro Paese costringe alla lotta. Questa è la sensazione che mi porto dentro dopo l’avventura di Vergine giurata. Un’avventura durata per l’esattezza due anni e mezzo di preparazione, quattro settimane e due giorni di riprese, cinque mesi di montaggio, poi il mix, la finalizzazione, i sottotitoli e infine un altro anno di presentazione in giro per il mondo: Stati Uniti, Cina, India, Africa, Europa. Per un totale di circa quattro anni e mezzo. Cos’è che spinge un regista a rimanere così attaccato alla sua opera? Cos’è che gli fa credere che senza la creazione di quel film non riuscirebbe a vivere, a respirare? Cosa alimenta questo rapporto così viscerale che lo accompagna per anni? Ripensandoci oggi mi rendo conto che mentre aspettavo, quello che mi aiutava era capire che stavo lottando non solo per il mio film ma per il mio Paese. La storia di Vergine giurata è stata fin dall’inizio quella di un progetto sostenuto più che altro dall’Europa. In fase di sviluppo ho passato un momento difficilissimo in cui in Italia stavo perdendo la possibilità di fare il film, ma proprio allora fui selezionata all’Atelier del Festival di Cannes tra i 14 progetti considerati in tutto il mondo i più meritevoli. Questo film, se si fosse basato solo sui finanziamenti italiani, non sarebbe mai esistito. Questo film si è potuto realizzare solo perché è stato fortemente voluto da vari I PUNTI DI VISTA Paesi europei che sono entrati in co-produzione (Germania e Svizzera) e distribuzione prima delle riprese (Francia) e perché sostenuto da importanti fondi europei come Media e Eurimages. La mia lotta dunque non riguardava più solo qualcosa di personale e intimo, ma diventava ogni giorno di più un modo per sentirmi partecipe di un sistema più ampio. Più in Italia trovavo di fronte un muro, più volevo abbatterlo e provare a tutti i costi a rendere possibile ciò che qui sembrava impossibile. Il film alla fine ha avuto una storia che oggi mi rende felice perché il muro è stato abbattuto, il film si è fatto, è stato selezionato in concorso a Berlino e da lì in poi ha avuto un grandissimo percorso in tutto il mondo. Ma, accanto alle mie difficoltà, non posso dimenticare altri autori che ricevono dall’estero grandissime attenzioni e che qui vengono invece trattati a volte ingiustamente. Mi viene in mente che Mediterranea di Jonas Carpignano (Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2015) in Italia non è uscito e non uscirà. Mi viene in mente che Le meraviglie di Alice Rohrwacher, che ha vinto il secondo premio più importante al mondo (Grand Prix al Festival di Cannes 2014), ha avuto al David di Donatello una nomination per la produzione ma non per la regia. Mi vengono in mente gli incassi poco entusiasmanti di tanti film che all’estero hanno avuto percorsi molto importanti: Bella e perduta di Pietro Marcello (Festival di Locarno 2015 in concorso), Salvo di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia (Grand Prix e Prix Révélation alla Semaine de la Critique 2013), Louisiana di Roberto Minervini (Un Certain Regard al Festival di Cannes 2015). Mi viene in mente che un Paese come la Francia, di solito, se ha un talento in casa propria lo porta sul vassoio d’argento, l’aiuta, l’Italia invece tende ad avere un atteggiamento autolesionista. Sono sicura che ogni autore che ho citato ha fatto la sua grande battaglia e nel farla ha aiu- politici, i documentari, i film d’animazione, che ci sia tutto e più di tutto. E che la gente possa davvero scegliere perché tutto è offerto nello stesso modo. Sogno un Paese che impari a non ghettizzare il termine “d’autore” come sfigato, ma che apprezzi l’idea dell’art-house, cioè di un cinema “autoriale” e “commerciale”, una tato il nostro Paese a venire fuori. E sono certa che siamo tutti pronti a continuarla questa battaglia, a favore di un’Italia che lavori di più per la parità dei diritti. Che ci siano pari opportunità di produzione e distribuzione, con più varietà possibile: i cine-panettoni, i Checco Zalone, le commedie sofisticate, i film d’azione, di fantascienza, i polizieschi, i film cosa non deve necessariamente escludere l’altra, un cinema con lo sguardo preciso di un autore, la sua libertà, la responsabilità delle idee che propone, la sua vita tutta lì dentro, ma che vuole arrivare a tutta la gente, un cinema che vuole essere proiettato nelle televisioni di tutte le case, nelle scuole, nelle sale, nelle piazze, un cinema che cerca il 94 - 95 pubblico. Voglio combattere per tutto questo e credo che il vero senso del mestiere che amo abbia a che fare con questo patetico-utopico desiderio di voler cambiare le cose. In questo lungo viaggio in cui ho portato Vergine giurata in giro per il mondo, sono stata tre volte negli Stati Uniti dove il film è stato molto amato, ha avuto subito un distributore, ha vinto al Tribeca, al Festival di San Francisco, le più importanti testate ne hanno scritto un gran bene, il Festival di Los Angeles l’ha inserito tra gli 11 progetti più importanti dell’anno e proprio all’inizio dell’anno ho ricevuto un invito per parlarne all’Università Tish di New York. Di certo non si tratta di un film d’azione! Eppure il calore attorno è stato tanto e continua a esserci. Nei miei viaggi ho incontrato lo sguardo e le parole di uomini e donne di tutte le nazionalità, di tutte le età e di tante classi sociali diverse. Tantissime persone sono venute a vedere il film e poi ne abbiamo parlato. Se esistono così tanti cittadini nel mondo che vogliono vedere certi film italiani, perché dobbiamo pensare che qui in Italia non ci siano altrettanti numerosi cittadini? Continueremo a lottare per questo oggi, con entusiasmo e convinzione, con le nostre idee, i sentimenti, con responsabilità e passione e mettendo in gioco noi stessi in modo totale. I risultati già ci sono e ci saranno ancora di più. Andremo avanti, guardando in alto, lontano, per un Paese che spero prima o poi possa accorgersi di più di noi, dandoci qualche soddisfazione in più e restituendoci lo stesso coraggio con cui noi continuiamo a lottare. BIOGRAFIE ALBERTO ABRUZZESE BRUNO BALLARDINI LAURA BISPURI VANNI CODELUPPI ROBERTO SILVESTRI Professore Emerito di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’Università IULM di Milano, dove è stato Preside della Facoltà di Turismo, Culture e Territorio e pro-Rettore per le Relazioni Internazionali e l’Innovazione Tecnologica. I suoi campi di ricerca: comunicazione di massa, cinema, televisione e nuovi media, con un interesse particolare verso i cambiamenti sociali collegati all’uso diffuso dei media. È stato per anni professore di Sociologia della Comunicazione presso l’Università “Sapienza” di Roma e presso l’Università “Federico II” di Napoli. Di recente ha pubblicato il testo Punto zero. Il crepuscolo dei barbari (Luca Sossella Editore, 2015). Esperto di comunicazione strategica e saggista. Filosofo di formazione, dopo una lunga carriera nelle multinazionali della pubblicità si è dichiarato un “pubblicitario pentito” ed è tornato all’università come docente. Tra i suoi libri di maggior successo, La morte della pubblicità (Castelvecchi 1994; ediz. aggiornata, Lupetti 2013), Gesù lava più bianco (Minimum Fax 2000, tradotto in 11 Paesi), e ISIS® Il marketing dell’Apocalisse (Baldini & Castoldi 2015). Con Passing Time vince il David di Donatello e il corto viene selezionato tra gli otto più belli del mondo per l’Académie des César di Parigi. Con il successivo, Biondina, ottiene il Nastro d’Argento come “Talento emergente dell’anno”. Il suo primo film Vergine Giurata viene presentato alla 65° Berlinale, in competizione. Sono tanti i premi nei festival di tutto il mondo tra cui il Nora Ephron al Tribeca Film Festival di New York, il Firebird Award all’Hong Kong International Film Festival, il Golden Gate New Directors al San Francisco International Film Festival, il FIPRESCI al PK Off Camera di Cracovia, il Globo d’Oro come Miglior Opera Prima. Sociologo, le sue ricerche riguardano i fenomeni comunicativi presenti nel mondo dei consumi, dei media e della cultura di massa. Ha insegnato nelle università di Modena e Reggio Emilia, Palermo e Urbino e, attualmente, è professore ordinario in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università IULM di Milano. Giornalista professionista, critico cinematografico de “il Manifesto” e, attualmente, di “Pagina99”; è un conduttore storico del programma di Radiorai3 “Hollywood Party”. Ha pubblicato Da Hollywood a Cartoonia (Manifestolibri, 1993), Macchine da presa (Minumum Fax, 1996), Il Ciotta Silvestri Cinema (Einaudi, 2012), Il film del secolo (con R. Rossanda e M. Ciotta, Bompiani, 2013) e I cento colpi di Hollywood Party (Eri, 2014). Il suo articolo è a pag. 8 Il suo articolo è a pag. 20 Il suo articolo è a pag. 94 Il suo articolo è a pag. 38 Il suo articolo è a pag. 72 SUL PROSSIMO NUMERO IN USCITA A MAGGIO 2016 SCENARI Italian Porn Italian Short INNOVAZIONI Cosa cambierà con la nuova legge sul cinema FOCUS Il cinema a Taiwan ANNIVERSARI A 50 anni da L'armata Brancaleone "Sei come una fuga di gas. Non ti vede nessuno, non ti sente nessuno, ma ci ammazzi tutti..." (da Joy, 2016, di David O. Russell) Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale -70% - Aut. GIPA/C/RM/04/2013