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immagini e violenza: un`attrazione fatale?

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immagini e violenza: un`attrazione fatale?
°
N 25
IMMAGINI
E VIOLENZA:
UN’ATTRAZIONE
FATALE?
TENDENZE
Cinéphile Look . Quando il regista diventa un brand
DISCUSSIONI
Da Apollo a Apple: i cinema chiudono. Che fare?
FOCUS
Il cinema in Egitto
ANNIVERSARI
A 50 anni da Django
marzo
2016
5,50 €
E D I TO R I A L E
diGIANNI CANOVA
SOTTO
UNA BUONA
STELLA
iniziato bene il 2016
per il cinema italiano.
Per il cinema, ma
anche – ovviamente – per tutti coloro che lo amano.
Gli incassi lunari di Quo vado?, ma
soprattutto le code fuori dai cinema, il passaparola positivo, il riverberarsi di curiosità e interesse anche per altri titoli, sulla carta
meno attrattivi, sono indizi e segnali più che sufficienti a legittimare, già di per sé, un cauto ma
prezioso ottimismo.
Accanto al nuovo film di Checco Zalone, il 2016 ha però portato
con sé, finalmente, anche la nuova
legge sul cinema, che aumenta le
risorse del 60%, definisce l’automatismo dei finanziamenti e reinvestimenti nel settore, potenzia i
tax credit e gli incentivi per chi investe nell’audiovisivo, sostiene e
favorisce la creazione di nuove sale e aiuta il restauro delle sale storiche: un insieme di provvedimenti
che, uniti al momento propizio del
box office, lascia presagire – era
ora! – un’ottima annata.
Anche per noi di 8½ il nuovo anno si apre con qualche piccola
È
novità: entrando nel nostro quarto
anno di vita, abbiamo pensato bene di fare un lieve restyling alla grafica e al rapporto fra la grafica e i testi. Non solo. Da questo mese, 8½
offre ai lettori un nuovo strumento editoriale: una piccola Collection
in cui di volta in volta raccoglieremo, per aree tematiche omogenee, i contributi, le analisi e le provocazioni prodotte dalla testata. È
un modo, crediamo, per non disperdere i contenuti pubblicati di
numero in numero e per facilitare
il lettore nel compito – non sempre facile – di seguire il filo conduttore che lega i nostri servizi
e le analisi che di mese in mese
pubblichiamo sulla rivista.
A fine gennaio siamo stati invitati
a Foggia per partecipare all’inaugurazione di una nuova sala cinematografica, aperta – così ci è stato detto – anche grazie alle nostre
denunce contro l’analfabetismo
filmico degli italiani.
È una bella notizia. E ci induce a
continuare con sempre maggior
determinazione le battaglie e le
sfide che abbiamo intrapreso.
Sommario
EDITORIALE
SOTTO UNA
BUONA STELLA
di Gianni Canova
RICORDI
04
PER ETTORE SCOLA
di Felice Laudadio
01
SCENARI
06
ICONOGRAFIE
DELLA SOFFERENZA
di Gianni Canova
LO SPETTACOLO
DELLA VIOLENZA
PERCHÉ CI PIACE
AL SANGUE?
IL PUNTO DI VISTA
DEL SOCIOLOGO
PEDAGOGIA
DELLA MORTE
di Alberto Abruzzese
10 IL PUNTO DI VISTA
DEL FILOSOFO
DALLA CARITAS
AL PULP
di Luca Maria Scarantino
08 12 14 IL PUNTO DI VISTA
DELLA PSICOLOGA
GLI STANDARD
DELLA COMUNITÀ
di Elisa Diquattro
DAMMI IL ROSSO
30 CLAMOROSE
RIVELAZIONI
SUL SUCCESSO
di Alberto Crespi
TENDENZE
32
LA STRAGE DELL’AURORA
E LA MASCHERA
DI JOKER
di Luca Mastrantonio
SHOOTING LOOK
di Gianni Canova
34
VOYEURISMO
ELETTRONICO
di Alessandro Gianni
IL RITROVAMENTO
DEL “DEMIURGUS
EGOTICUS”
di Maurizio Di Rienzo
36
BRAND DI SE STESSO
di Andrea Guglielmino
illustrazioni di Andy Ventura
38
HOLLYWOOD LAVA
PIÙ BIANCO
di Vanni Codeluppi
40
LIKE, SI GIRAAAAAA!
di Margherita Bordino
42
LA VANITÀ?
NON È DA INTELLETTUALI
di Valentina Neri
44
IL PARADISO
DELLE SIGNORE
di Chiara Gelato
46
L’ARMADIO
DEL CINEGIORNALISTA di Ilaria Ravarino
48
L’EGEMONIA
DELLA BRUTTEZZA
di Andrea Guglielmino
disegni di Andy Ventura
16
18
20
22
24
DANZA MACABRA
di Andrea Guglielmino
LE CURVE DEL DOLORE
di Valerio Orsolini
JIHADISTI VIDEOMAKER
di Bruno Ballardini
LA BANALITÀ DEL MALE
di Cristiana Paternò
26
28
IL TRAUMA
DEL CRITICO
a cura di Nicole Bianchi
e Cristiana Paternò
IL PUNTO DI VISTA
DEL FILMOLOGO
VIOLENZA DOC
di Giona A. Nazzaro
8½
NUMERI, VISIONI
E PROSPETTIVE
DEL CINEMA ITALIANO
Bimestrale d’informazione e cultura cinematografica
Iniziativa editoriale realizzata
da Istituto Luce-Cinecittà
in collaborazione con ANICA
e Direzione Generale Cinema
Direttore Responsabile
Giancarlo Di Gregorio
Direttore Editoriale
Gianni Canova
In Redazione
Carmen Diotaiuti
Andrea Guglielmino
Vice Direttore Responsabile
Cristiana Paternò
Coordinamento redazionale
DG Cinema
Iole Maria Giannattasio
Capo Redattore
Stefano Stefanutto Rosa
Coordinamento editoriale
Nicole Bianchi
Hanno collaborato
Alberto Abruzzese,
Bruno Ballardini, Laura Bispuri,
Alice Bonetti, Margherita Bordino,
Vanni Codeluppi, Alberto Crespi,
Girolamo De Michele,
Elisa Diquattro, Maurizio
Di Rienzo, Federica D’Urso,
Chiara Gelato, Iole Maria
Giannattasio, Mimmo Gianneri,
Alessandro Gianni, Diaa Hosny,
FATTI
Dossier di DG Cinema
e ANICA
50
I PRINCIPI ISPIRATORI
DELL’INTERVENTO PUBBLICO NEL SETTORE CINEMATOGRAFICO
E AUDIOVISIVO
diFederica D’Urso,
Iole Maria Giannattasio, Francesca Medolago Albani
CINEMA ESPANSO
58
BARBIE,
DIVA DAI MILLE VOLTI
di Wendy Migliaccio
60
62
BED & CINEMA
di Nicole Bianchi
IL CINEMA CONTRO
LA GUERRA
di Cristiana Paternò
DISCUSSIONI
64
SBAM! TANTO I FILM
LI GUARDO SUL TABLET
di Alice Bonetti
66
APOLLO, APPLE
E GLI SCHERMI RAPITI
di Stefano Stefanutto Rosa
Felice Laudadio, Andrea Mariani,
Luca Mastrantonio, Francesca
Medolago Albani, Wendy
Migliaccio, Giona A. Nazzaro,
Valentina Neri, Valerio Orsolini,
Ilaria Ravarino, Luca Maria
Scarantino, Roberto Silvestri,
Andy Ventura
70 STENO (STEFANO VANZINA)
COME SI DEVE MORIRE AMMAZZATI
DA “QUARTA PARETE”,
25 OTTOBRE 1945.
di Andrea Mariani
FOCUS EGITTO
di Roberto Silvestri
73
EGYPTIAN WAY OF LIFE
78
UN CINEMA DIVERSO
PER L’EGITTO DEGLI
ANNI 2000
di Diaa Hosny
INTERNET
E NUOVI CONSUMI
80 SENZA PAROLE.
IL CODICE VISUALE
DEGLI EMOJI
di Carmen Diotaiuti
Progetto Creativo
19novanta communication partners
Creative Director
Consuelo Ughi
Designer
Claudia Antonazzo, Giulia Arimattei,
Matteo Cianfarani, Valeria
Ciardulli, Lorenzo Mauro Di Rese,
Giulio Dallari, Maria José
Prieto Fernández
GEOGRAFIE
PUNTI DI VISTA
82 LA BELLEZZA
DELL’ITALIA
di Nicole Bianchi
92 IDEOLOGIA ITALIANA
di Girolamo De Michele
94 FARE UN FILM È LOTTARE
PER IL MIO PAESE
di Laura Bispuri
BIOGRAFIE
LAVORI IN CORSO
84 QUESTIONE DI SGUARDI
di Cristiana Paternò
96 ANNIVERSARI
86 A 50 ANNI DA
DJANGO
87 IL MITO E LA MATRICE
di Mimmo Gianneri
90 IN THE DJUNGLE
DEL CINEMA POPOLARE
di M.G.
Stampa ed allestimento
Arti Grafiche La Moderna
Via di Tor Cervara, 171
00155 Roma
Distribuzione in libreria
Joo Distribuzione
Via F.Argelati, 35 - Milano
Registrazione presso il Tribunale
di Roma n° 339/2012 del 7/12/2012
Direzione, Redazione,
Amministrazione
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Tel. 06722861 fax: 067221883
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www.8-mezzo.it
Chiuso in tipografia il 29/02/16
RICORDI
PER
ETTORE
SCOLA
RICORDI
4-5
di FELICE LAUDADIO
U
n anno fa, il 10 gennaio, se ne andava Francesco Rosi,
un pezzo importante del cinema e della sua storia,
non solo italiana. Ettore Scola,
altro pilastro di quella stessa storia, lo ha raggiunto il 19 gennaio
di quest’anno. Li aspettava Federico Fellini per festeggiare il suo
compleanno, il 20 gennaio, con i
suoi due grandi amici. Con la loro
scomparsa il nostro cinema – che
grazie a Rosi, a Scola, a Fellini e a
pochissimi altri si è imposto a livello internazionale – diventa ancora più povero. Sembra banale
dirlo, ma è profondamente vero.
Guardatevi intorno…
I tanti spettatori, baresi e non, che
in questi ultimi anni hanno avuto
la possibilità di conoscere, di frequentare, di parlare con Scola nel
suo ruolo di presidente del Bif&st-Bari International Film Festival hanno avuto modo di apprezzare la sua semplicità, la sua
naturale eleganza, la sua totale disponibilità. E la sua intelligenza.
Mancherà a loro come già manca, e tantissimo, a noi che non
potremo più contare sul nostro
capitano. Ma ritroveremo Scola
negli eventi del tributo che, nostro malgrado, stiamo preparando per ricordarlo al Bif&st 2016.
In parallelo con l’omaggio, già da
tempo previsto, al suo attore-feticcio, Marcello Mastroianni, che
Ettore aveva diretto più di chiunque altro, in nove film e in un film
a episodi: 8½, tanto per evocare
Fellini, al quale aveva dedicato
l’ultima sua opera.
Pochi sanno che l’Ettore Scola
privato era uomo dalle amicizie
salde e lunghe nel tempo, alla cui
tenuta contribuiva con sobrie telefonate, sporadici incontri conviviali e discretissime incursioni
nelle “vite degli altri”, soprattutto
nei momenti del bisogno, quello
degli altri. Mai del proprio. Ed era
umile. Ero con lui quando il direttore di questa rivista lo chiamò,
a metà gennaio, per offrirgli una
laurea honoris causa. Ne fu sobriamente lusingato ma non disse sì. “Vedremo”, disse a Gianni
Canova, chissà... Talora sornione,
e solo in apparenza cinico, Ettore possedeva un’inclinazione naturale all’ironia e all’autoironia
che lo rendeva immune dai sentimentalismi e dalle chiacchiere vuote o ipocrite. Chi a Bari ha
partecipato alle sue tante lezioni di cinema sa di che parlo. Animato da una forte passione civile,
e capace di profondi e autentici
slanci di accesa indignazione politica e culturale, Scola si ritrovava permanentemente in prima
linea nelle battaglie in difesa di
valori essenziali quali la libertà di
pensiero, la solidarietà, la democrazia, l’antifascismo, l’antirazzismo, il rispetto della Storia, il di-
ritto al dissenso, l’egualitarismo,
la partecipazione. E i giovani. Valori che, in linea con una coerenza mai venutagli meno, stanno a
fondamento dei suoi film, ne sono anzi i principali ingredienti.
La sua scomparsa ci rende tutti molto tristi. Ma c’era qualcosa che covava sotto la sua franca
risata. Avevo notato che da qualche tempo, nella sua vena d’innata ironia e di sottile disincanto, si
stava incuneando una sotterranea screziatura composta da un
tanto di melanconia e da un tanto
di disillusione. Scola, come altri
intellettuali della sua generazione, ha sempre creduto, operato
e lottato per “un mondo nuovo”
da costruire con impegno, passione, sacrificio, militanza, entusiasmo, abnegazione, cultura.
Ma le cose sono andate e stanno
andando, secondo Scola, ben diversamente. Stanno vincendo,
diceva, i particolarismi, gli egoismi, l’insensibilità, i fanatismi, il
razzismo e una nuova, moderna
ma non meno pericolosa, forma
di fascismo insieme ad una incultura sempre più diffusa e ad una
carenza della memoria storica di
portata impressionante quanto
devastante. Proprio quello che i
suoi film, le sue storie, i suoi attori hanno sistematicamente denunciato – con uno sberleffo, un
sorriso, una battuta o con un ironico e sobrio j’accuse – come pos-
sibile e dunque temibile risultato
e temperatura e condizione del
tempo dell’indifferenza in cui viviamo. Un tempo che forse Ettore, col suo termometro culturale,
sentiva sempre più estraneo.
Così negli ultimi anni, a parte il
film su Fellini, una superba regia lirica della Bohème e il suo attivissimo impegno annuale per
il Bif&st, del quale nel 2010 aveva accettato d’essere il presidente, s’era rifugiato nei classici della letteratura e del pensiero greco
e latino e in poche, intime, frequentazioni con amici fidati e di
antica data. Ma senza mai perdere il contatto con la realtà e con
la politica, nel senso più nobile di
questa parola, e senza mai rinunciare ad occuparsi e preoccuparsi
della sua stupenda famiglia della
quale era, e si sentiva, il patriarca,
legatissimo ai suoi cinque nipoti
per i quali, sommessamente, stravedeva. Ma senza darlo a vedere.
Un altro suo paradosso.
Con lui perdiamo un amico, un
compagno, un complice, e le nostre telefonate quotidiane, ma
perdiamo anche il presidente artistico del Bif&st, straordinario
valore aggiunto per il Festival di
Bari. Dopo questa edizione 2016,
al cui programma Ettore ha attivamente lavorato negli ultimi 10
mesi, ne sarà il presidente onorario. Ma l’onore sarà tutto nostro.
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
ICONOGRAFIE
DELLA
SOFFERENZA
di GIANNI CANOVA
n un testo di sette o otto anni fa, ma ancora attualissimo e per molti versi imprescindibile per capire cosa sta
accadendo nel rapporto fra immagini e violenza, Susan
Sontag notava come la fascinazione della violenza avesse ormai uguagliato se non addirittura superato la fascinazione dell’erotismo. C’è in giro più voglia di vedere gente che soffre – scriveva in
buona sostanza la grande studiosa americana – che di vedere gente
che gode. Il dolore degli altri ci eccita, ci attrae, ci incuriosisce. Come
fosse il richiamo del sangue, o della foresta. Sarà capitato anche a voi
di essere alla guida della vostra auto e di ritrovarvi all’improvviso in
coda perché c’è stato un incidente. Ma non nel vostro senso di marcia, in quello opposto. In teoria non c’è nessun ostacolo nella carreggiata poco più avanti di voi. Eppure molti di quelli che vi precedono
rallentano. Frenano. Si sporgono. Per guardare. “Circolare, circolare,
non c’è nulla da vedere!”, si sgola un poliziotto ormai rassegnato alla
vanità delle sue raccomandazioni. Gli automobilisti infatti frenano,
e guardano. Ma cosa sperano di vedere dall’altra parte del guard-rail,
tra lamiere contorte e lampeggianti di autoambulanze? Cosa desiderano verificare? Forse, vogliono semplicemente godere della propria
immunità di fronte alla tragedia che ha colpito un altro, o gli altri.
Lo diceva chiaramente Elias Canetti: la radice prima del potere è la
sopravvivenza. Prima cosa: sopravvivere. Quando vediamo gli altri
morire, intimamente godiamo di essere loro sopravvissuti. Vale anche per le immagini? Cerchiamo nella visione della violenza o della
morte un esorcismo che allontani il timore che anche noi possiamo
esserne vittime?
“L’iconografia della sofferenza – scrive la Sontag – ha un lungo pedigree”: dal gruppo statuario che rappresenta il tormento di Laocoonte e dei suoi figli alle innumerevoli versioni pittoriche e scultoree della passione di Cristo via via fino all’inesauribile catalogo visivo delle
persecuzioni e delle violenze inflitte ai martiri cristiani, tutta la storia
dell’arte occidentale è segnata da un rapporto forte, recursivo e capil-
I
lare fra immagini e violenza. Che effetto si propongono di scatenare
immagini simili? Probabilmente vogliono al contempo commuovere
ed eccitare, istruire e dare un esempio. Si può dire lo stesso delle immagini mediatiche che documentano le violenze del nostro tempo?
Che differenza c’è fra una decapitazione dipinta da Caravaggio e una
filmata dai fanatici jihadisti del Califfato e diffusa in diretta sul web?
Lo spettacolo della violenza anche più efferata allestito quotidianamente dal sistema mediatico è paragonabile allo spettacolo della violenza che si celebrava nell’antica Roma, quando le teste decollate venivano impalate ai lati della strada per ammonire i passanti ad essere
buoni cittadini, o nelle piazze parigine della Rivoluzione, quando le
tricoteuses accorrevano ad assistere allo spettacolo della ghigliottina
mentre erano intente a sferruzzare? Che differenza c’è fra ora e allora,
ammesso che ci sia?
Questo numero di 8½ si apre su questi interrogativi. Lo fa senza la pretesa di dare risposte univoche e definitive, ma anche con l’ambizione
di offrire qualche contributo non occasionale alla riflessione. Il modo efferato con cui i nuovi terrorismi stanno producendo e diffondendo immagini “dal vero” segnate dalla violenza più insostenibile ci dice
che le nuove guerre passano ormai – sempre più – anche dalla produzione e dalla circuitazione di immagini. Le quali non sono più esorcizzabili con la compassione che suscitavano in noi le immagini dei
martirologi. Queste immagini suscitano piuttosto orrore, sconcerto,
stordimento. Sono realizzate da professionisti consapevoli delle tecniche con cui innescare il latente sadismo dello spettatore e calibrate
in modo che sadismo e patetismo si equilibrino. Forse, perfino in modo che si neutralizzino reciprocamente. Ma con quale obiettivo, in vista di quale reazione? Con quali effetti sulla vita quotidiana? Se è vero
che le immagini della morte non sono la morte, è anche vero però che
queste immagini alla morte ci vanno molto vicine. E a volte la producono solo per poter esistere, esse stesse, in quanto immagini.
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
6-7
Dalla passione di Cristo alle violenze inflitte
ai martiri cristiani, tutta la storia dell’arte
occidentale è segnata da un rapporto
recursivo e capillare fra immagini e violenza.
Che effetto si propongono di scatenare?
Lo stesso delle immagini mediatiche
che documentano le violenze del nostro
tempo? Che differenza c’è fra una
decapitazione dipinta da Caravaggio
e una filmata dai fanatici jihadisti
del Califfato e diffusa in diretta sul web?
LO SPETTACOLO DELLA VIOLENZA
PERCHÉ CI PIACE AL SANGUE?
Il tema è approfondito dal punto di vista di quattro
esperti - un sociologo, un filosofo, una psicologa
e un filmologo - per focalizzare come nella società contemporanea sia
percepito, subìto, affrontato e quale sia il riflesso sui nostri comportamenti
in base all’offerta mediatica dell’orrore.
I L P U N T O D I V I S TA D E L S O C I O L O G O
PEDAGOGIA
DELLA
MORTE
di ALBERTO ABRUZZESE
l dibattito attuale sullo scontro tra
Occidente e islamismo terrorista non
sfugge alla tradizionale opposizione tra amico e nemico, su cui
si è da sempre fondata ogni forma di potere. La guerra altro non
è che una variante della pace. Il
terrorismo altro non è che rifiutare ogni mediazione e negoziazione tra pace e guerra. È un punto di
vista “classico” ma non ce n’è uno
migliore, a meno di non trovare un punto di vista sul potere in
quanto tale e cioè sulla volontà di
potenza dell’essere umano – persona, soggetto, gruppo, collettività, società – al di là dei valori
da lui elaborati per legittimare le
sue azioni, la propria identità e
sovranità. Amico e nemico, allora, si specchiano uno nell’altro.
Le retoriche sull’altro – anche
quelle avanzate dall’umanitari-
I
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
smo più acceso o dal più cieco
fondamentalismo – sono un alibi per lo stato di necessità dettato dal desiderio di sopravvivenza
di un’identità contro l’altra. L’emotività di cui si nutre il desiderio è dunque più forte di ogni ragione messa in campo.
In base a questo punto di vista –
così assente nel rumore di posizioni assunte, raccolte e sollecitate, dai media a proposito di Parigi
e quanti altri trascorsi episodi di
morte – mi pare ragionevole sostenere la tesi che, per affrontare il senso da attribuire all’odierna sovraesposizione mediatica
della violenza e della sofferenza umana, è necessario liberarsi
degli stereotipi dell’umanesimo,
dunque della lunghissima durata delle sue ideologie. Superata
la falsa coscienza umana su cui
tali ideologie, ivi comprese quelle religiose, si fondano e su cui si
fondano la società e la politica,
va riconosciuto che la percezione della violenza e la percezione
della sofferenza non sono strettamente connesse tra loro o meglio
lo sono ma per così dire ignorandosi a vicenda l’una con l’altra. Se
ci si vuole liberare di ciò che la falsa coscienza ci detta bisogna accettare l’idea che la sofferenza è
sentimento che prova chi subisce
la violenza assai più di chi la impone. La certezza nei valori che
giustificano la violenza ottunde
la cognizione del dolore che essa
produce non solo in campo nemico ma anche amico.
Che la morte faccia spettacolo lo
si sa da sempre: a partire dal mondo antico sino alla Rivoluzione
francese; ma – dopo che i regimi
nazionali occidentali si sono “lavati le mani” nel sangue delle loro immani stragi novecentesche
– lo stile della propaganda democratica ha adottato varie forme
censorie sulla sofferenza umana
prodotta in pace e in guerra, affi-
dando all’immaginario dell’industria culturale, allo spettacolo
di fiction, ai consumi del tempo
libero, il piacere istintivo per la
morte dal vivo provato dal “popolo” e cioè da quella indomabile volontà di violenza repressa
dalle regole civili della cittadinanza. Nel popolo di una nazione e/o di una etnia c’è un tale
profondo risentimento per la
propria sorte ricevuta, per la sua
esistenza di suddito, da gioire di
ogni rito sacrificale.
Niente di peggio che mettersi a
fare la morale sulle forme di diffusione e consumo delle scene
di sangue, dolore e morte di cui
il mondo abbonda sempre più,
forse, ma che soprattutto e certamente sempre più rende visibili,
accessibili ad ogni età e sesso, in
ogni luogo e momento. E comunque chi davvero dispone ancora
di una morale certa, proponibile qui e ora, prima di esprimersi
farebbe bene a riflettere meglio
di quanto si faccia di fronte alla
complessità del giudizio da dare.
Considero Roberto Maragliano
uno tra i docenti di pedagogia
più sensibili alla dimensione informativa e formativa dell’intrattenimento in rete, piattaforma
espressiva che – per vocazione
stessa dei linguaggi digitali, multimediali e interattivi – risulta assai più rivolta alla singola persona piuttosto che direttamente al
soggetto socialmente irreggimentato e corazzato. Recentemente ha scritto questo su Facebook:
“Leggo su ‘Repubblica’ del 19.11.15
quanto sostiene Daniel Pennac
in relazione ai tragici fatti di Parigi: ‘Purtroppo viviamo in una so-
cietà che adora filmare la propria
morte in diretta per farne un oggetto di consumo. Questa spettacolarizzazione sfrutta, nega e desacralizza un dolore che invece
dovrebbe essere sacro’. Vi risparmio il resto, dove, com’è prevedibile dalle premesse, si accusano i
media di essere agenti di spettacolarizzazione dell’oscenità”. Al
contrario Maragliano, pur ragionando sul rapporto tra visibilità
e insieme rimozione della morte,
ragiona in una direzione opposta. “Personalmente ho cercato
di dare una risposta ad un simile impegnativo interrogativo con
l’attraversare i pensieri di Ariès,
Elias, Morin sul tema della rimozione del senso di morte e l’associarne l’analisi al tema della rappresentazione cinematografica,
secondo un’angolazione che mi
ha indotto a cogliere nel cinema
un luogo di compensazione di un
così drammatico ‘vuoto’. Per questo ho parlato di una pedagogia
attiva della morte, attribuendone
il merito, guarda un po’, proprio ai
media che così imbarazzano Pennac, nel mio caso il cinema”.
Credo che ci si possa spingere
ancora più avanti, affrontando la
crescente rimozione della morte narrata dai media. Narrazioni
sono le informazioni così come
le fiction televisive. Dunque è su
queste manipolazioni narrative
che dovremmo riflettere: le une
e le altre rimuovono la morte o la
8-9
società per soddisfare lo spettatore. È questa soddisfazione che
cercano le persone quando si affollano sui piccoli e grandi schermi di morte. È la rimozione che fa
piacere. C’è dunque una scelta nel
consumo della rimozione e del
suo uso. Seguendo questa traccia, potremmo inserire la fortuna
pubblica e privata delle immagini di terrorismo islamico e guerra occidentale nel quadro di altri fenomeni mediatici: penso al
gioco d’azzardo, alla serialità e ai
videogiochi di ultima generazione, alla pornografia in rete. Sono tutti fenomeni in vertiginosa
crescita – qualitativa e quantitativa – che manifestano il prepotente desiderio personale di sottrarsi al tempo storico, alla società, al
suo senso anzi ad ogni suo significato. Forme di consumo spintesi al massimo di dissipazione della civiltà e del soggetto moderno:
piattaforme espressive che si sono evolute per ridurre a nulla il
tempo sociale. Abbandonarlo al
suo destino.
I L P U N T O D I V I S TA D E L F I L O S O F O
DALLA
CARITAS
AL PULP
di LUCA MARIA SCARANTINO
“…Ad illum animo inardescas, cuius imaginem videre desideras…”.
Roma, anno 599. Mentre l’Oriente latino prepara il bando di tutte le immagini religiose, in Occidente Gregorio Magno enuncia
in alcune lettere pastorali uno
dei tratti fondamentali della nascente cultura europea: la forza
emotiva delle immagini e la loro
capacità di “accendere” l’animo
di chi le contempla.
Da subito, questa carica emozionale si snoda lungo un duplice
binario: l’amore materno della
vergine e la bestialità del Cristo
in croce, la violenza primordiale dell’uomo crocifisso, gli occhi spiritati, la corona che trafigge la carne, le ferite che lacerano
il corpo. Inardescere, accendersi
di passione e fervore religioso,
attraverso la visione del corpo
straziato sulla croce.
Entrano in tal modo nel codice
figurativo dell’Occidente due dinamiche spirituali in conflitto,
ma compresenti nel processo di
costruzione della cultura euro-
pea: l’amore universale e inclusivo, la caritas in cui l’ego si apre,
si converte e si trascende nell’oggetto del proprio amore; e la reificazione dell’uomo, il disumano
“tu no” che respinge ed esclude
l’altro dalla comunità, lo isola, lo
costringe al silenzio, lo priva di
personalità, di parola, di vita. Lo
violenta, direbbe Hannah Arendt.
Nell’intreccio di questi due processi, la raffigurazione della violenza è stata a lungo utilizzata
per intimorire e mantenere l’ordine, il controllo e la coesione
sociale. È avendo in mente l’immagine archetipale del Cristo
– l’uomo solo, morente nell’assoluta incomunicabilità della
croce – che l’Occidente metterà
in scena le forme più orrende di
violenza santa e “purificatrice”,
rispecchiandosi nel truce spettacolo degli autodafé, nelle torture di volta in volta più atroci che
accompagnano i roghi, le bolliture, gli squartamenti; e che farà un
uso pervasivo delle immagini come luogo di costruzione di un co-
mune e irrefutabile sentire. Su di
esse ha così preso forma una vera
e propria comunità emozionale,
in cui questa violenza giustiziera
e catartica si mette fieramente in
scena, con stili, finalità e tonalità
assai diverse e variabili: dalle onnipresenti raffigurazioni dell’inferno medievale alla spettacolare serialità giustiziera nella Parigi
rivoluzionaria, sino alle innumerevoli declinazioni della violenza individuale e collettiva di cui si
nutre la moderna società dell’immagine – mentre viene sottratta allo sguardo pubblico la violenza più lurida e oscena, chiusa
in campi recintati e inaccessibili
ai bravi cittadini del Reich, confinata all’interno degli stadi cileni, negli scantinati dei castelli medievali come nei sotterranei
dell’ESMA a Buenos Aires…
La moderna comunicazione di
massa riproduce questa condivisione emotiva in perfetta continuità con le raffigurazioni dei
dannati visibili nelle cappelle
del Medioevo latino. In tempo di
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
guerra (ma quale tempo non lo
è, specie nella società della comunicazione globale?), scrive
Aldous Huxley, “i giornali sono
pieni di notizie eccitanti, come
se la vita fosse diventata un interminabile feuilleton”. È la voluttà delle emozioni violente, che ci
fa sentire partecipi di un più vasto processo sociale: “emozioni
di solidarietà, di vanto collettivo, di odio, di ‘santa indignazione’… Per coloro che non corrono
un reale pericolo di venire uccisi
o mutilati, la guerra è un tripudio
emotivo, una specie di orgia, di
saturnale… una guerra di breve
durata rappresenta, per la maggior parte dei non combattenti,
un piacere allo stato puro”.
10 - 11
È questa violenza sfrenata, pervasiva e onnipresente, divenuta presenza naturale e banale
dell’immaginario occidentale,
che viene progressivamente denunciata nel corso della modernità: dalle fucilazioni di Goya
alla più recente cultura cinematografica, che portandone all’estremo le conseguenze ne rivela
l’insensatezza, nel truculento realismo di Peckinpah come nella violenza pulp, esagerata e surreale di Tarantino, passando per
la brutalità deviata e allo stesso
tempo strutturale di Apocalypse
Now o Full Metal Jacket… Possiamo concludere che la messa in
scena della violenza è ormai tesa
a mostrarne il nonsense, anziché
a farne uso come di un qualsiasi
dispositivo comunicativo? Certamente no, e non solo per il successo che riscuotono quelle raffigurazioni caricaturali di conflitti
adolescenziali che sono gli odierni reality show; né per la crescente circolazione di hate speeches
nel discorso pubblico e nei social
media, con il loro sinistro corredo di immagini umilianti (quanti
adolescenti sono oggi confrontati
a fenomeni del genere?); né per il
generale compiacimento di fronte alle immagini di cadaveri, mutilazioni e varia disumanità sparate a tutta pagina da quotidiani e
siti web a ogni cataclisma, omicidio, o tsunami; quanto per la crescente legittimazione pubblica di
quello spirito discriminatorio che
credevamo appartenesse al passato. È nelle immagini dei gendarmi europei che alzano i manganelli contro i bambini rifugiati ai
confini dell’Unione che ricompare l’eterno conflitto europeo tra
la sacralità della caritas (o, nella
sua versione moderna, dei diritti umani) e la chiusura tribale nei
confronti di chi non condivide lo
stesso sangue e lo stesso suolo. Se
le immagini che ci giungono dai
confini orientali dell’Europa hanno fatto il giro del mondo non è
per la congiuntura storico-sociale che documentano, ma perché
recano in sé l’annuncio di una civiltà europea che, di nuovo, si rivolge contro se stessa. I L P U N T O D I V I S TA D E L L A P S I C O L O G A
GLI
STANDARD
DELLA
COMUNITÀ
di ELISA DIQUATTRO*
osa spinge le persone a cliccare su
“quel” video o bramare di guardare
“quel” servizio televisivo, soprattutto se viene anche annunciato
come qualcosa che potrebbe urtare la sensibilità? Quale parte inconscia vibra in quel momento?
Le immagini, come gli odori e i sapori, arrivano prima a contattare il
nostro inconscio e quindi hanno
un’azione immediata su di noi, vanno a pescare delle parti nascoste, a
far vibrare le nostre parti in luce, come le nostre zone d’ombra.
Alcune ricerche mostrano come
l’esposizione a scene di violenza modifichi in senso negativo la
percezione della realtà, favorisca
un’interpretazione del reale in
chiave pessimistica. La variabilità
delle risposte alle immagini violente dipende dal grado e dal tipo di elaborazione mentale che le
persone vi dedicano. Nel sistema
cognitivo i contenuti mediali violenti innescano due tipi di meccanismo: in alcuni individui attivano
risposte razionali, tese ad elaborare modelli di comportamento
idonei a fronteggiare analoghe situazioni di pericolo; in altri stimolano fantasie e pensieri ossessivi,
che creano un clima psicologico di
paura o preoccupazione.
C
Parto dall’osservazione di un post
su un social network. Qualcosa
di concreto, che succede a tutti,
tutti i giorni, per poi capire me-
*psicologa-formatrice, esperta in terapie vibrazionali,
si occupa di percorsi di consapevolezza psicologica.
Fondatrice di FormaMente Soc.Coop
www.formamente.rg.it
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
glio l’aspetto teorico. Mi colpisce
il post di una testata giornalistica,
una di quelle che un tempo davano una certa affidabilità. Oggi
osservo che, alcune testate, nella
versione online, propongono articoli e immagini forse improponibili nella versione cartacea.
Leggo con curiosità questa didascalia che accompagna il link
di un video:
“Il medico entra nella stanza e aggredisce il paziente: calci e pugni,
fino a che non stramazza a terra,
morto. [VIDEO] (Attenzione, immagini che potrebbero urtare la
vostra sensibilità)”.
Il punto non è più la notizia, che
poteva rimanere tale senza dover
vedere l’atto di violenza fino al
culmine. Ma, mi domando: è realmente una notizia che ha bisogno
di essere esplicitata con un video?
A cascata, sotto il post, leggo i
commenti incalzanti di alcuni lettori che, come me, avevano
cliccato a suo tempo un “mi piace” su quella pagina, per avere
ben altre informazioni.
Tra i commenti, qualcuno scrive
che il video è preceduto da pubblicità. Tutto cambia. Rifletto.
Prendo atto dell’inevitabile, e ormai sempre più diffuso, binomio
di derivazione televisiva: violenza=audience, a cui ci hanno abituato sotto la falsa veste di cronaca giornalistica. Questo post mi
dà la possibilità di vedere come
il fenomeno-violenza sul web sia
molto più “usa e getta”. Funziona
così: cinque minuti di violenza,
preceduta da uno spot pubblicitario, e il gioco è fatto.
Mi addentro nella questione e volutamente osservo l’andamento della discussione: alcuni consigliano di segnalare il post con
contenuto violento ai gestori del
social network. Altri lettori considerano il video in questione solo
cronaca e non così violento, giustificando il fatto che ormai siamo abituati a molto peggio. Altri
ancora si addentrano nei particolari morbosi del video, descrivendone i dettagli. Procedo, come
consigliato da alcuni, alla segnalazione del video ai gestori del social network in questione, certa di
avere giustizia e ragione, e ricevo questa risposta via mail: “Abbiamo controllato la tua segnalazione del contenuto condiviso da
(nome della pagina). Grazie per il
tempo dedicato alla segnalazione
di un contenuto che, secondo te,
potrebbe non rispettare i nostri
standard della comunità. Le segnalazioni come la tua sono fondamentali per rendere questo social network sicuro e accogliente.
Abbiamo analizzato la condivisione che hai segnalato per la presenza di violenza esplicita e abbiamo stabilito che non viola i
nostri standard della comunità”.
La mia armatura da paladina del
bene viene in un attimo polverizzata. Mi prendo i ringraziamenti
per una collaborazione che risulta inutile, perché gli standard di
“violenza” sono ben altri secondo la suddetta “comunità”. Rimango basita e con un senso di
impotenza, che mi fa capire come il concetto di “violenza” vada
nuovamente rivisto e riformulato
per l’intera “comunità”.
Iniziano a riaffiorarmi studi di psicologia sociale e mi rendo conto
che c’è ancora tanto lavoro da fare.
Così, la domanda si rinnova: perché questa attrazione fatale per le
immagini con violenza?
Ecco, in sintesi, come alcuni studi e teorie hanno cercato di spiegare gli effetti dei contenuti violenti dei media:
La Teoria della Catarsi.
Gli spettatori si identificano con
i protagonisti delle scene violente per la necessità di scaricare,
attraverso di essi, le proprie tendenze aggressive.
La Teoria del Modellamento sociale di Bandura.
Le persone imparano non solo per
effetto di ciò che sperimentano
direttamente, ma anche attraverso l’osservazione e l’imitazione di
modelli, ossia di rappresentazioni
semplificate della realtà che suscitano l’emulazione.
La Teoria del Transfer di
Eccitazione di Zillmann.
L’esposizione a scene di violenza
in tv produce uno stato di attivazione fisiologica identificabile come Eccitazione. Una volta spenta
la tv lo stato di eccitazione innescato permane e si riversa nelle situazioni di vita reale: l’individuo
reagisce con maggiore aggressività verso gli altri e/o verso se stesso.
Queste ricerche ci fanno riflettere sulla forte influenza che hanno
i media sul nostro vissuto perché
veicolano modelli, forniscono informazioni e producono cultura,
influenzano scale di valori e sche-
12 - 13
mi di vita. Ciò che si può apprendere dai modelli che ci vengono
proposti dai media può rimanere sommerso per riemergere solo
quando l’osservatore è arrabbiato
o vuole averla vinta. L’utilizzo di
immagini positive o negative lavora nel nostro inconscio.
La buona notizia è che proprio
come i modelli aggressivi possono accrescere l’aggressività, così
i modelli non aggressivi possono
farla diminuire. Sta a noi sviluppare uno spirito critico alla luce
delle teorie esposte.
I L P U N T O D I V I S TA D E L F I L M O L O G O
VIOLENZA
DOC
di GIONA A. NAZZARO
aradossalmente, bisognerebbe dichiarare che la realtà non
esiste. Ossia che la
realtà è stata discontinuata dall’immagine che la riproduce. L’immagine della realtà, infatti, non corrisponde mai alla realtà in quanto
tale, essendo più che altro un suo
segno, una sua eccezionalità. Un
suo momento unico e irripetibile.
Di conseguenza, si giunge quasi inevitabilmente alla conclusione che il documentario, in
quanto genere cinematografico
che riproduce la realtà, non esiste. Ciò che crea sempre problema, nelle riflessioni che si portano sul cosiddetto cinema del
reale, è l’idea che il documentario, essendo privo di messinscena (luogo dove la finzione non
esiste), sia, immediatamente,
un’immagine diretta, non riprodotta della realtà e dunque della verità stessa che la alimenta.
Un’immagine non prodotta da
nessun lavoro.
Un equivoco di matrice idealista
P
che tende a separare le cose del cinema in un regno della finzione e
in un regno della verità, ossia del
reale. Una sorta di mondo assoluto. Al di là dei conflitti.
In realtà, come dimostra il caso
dei Lumière, il cinema nasce documentario e produce la finzione come sottogenere della realtà.
Laddove nel cinema di finzione
esistono differenti tradizioni testuali di messinscena, nel cinema
documentario si continua a ignorare che esiste, per quanto apparentemente meno rapidamente
verificabile, una tradizione testuale altrettanto forte e strutturata.
a uno sguardo attento non sfugge
che oggi, più che mai, esiste una
vera e propria tassonomia dei generi “documentari”).
Questa molteplicità si offre oggi come snodo politico vitale, e
cruciale al tempo stesso, nel momento in cui si tenta di raccontare, meglio: mettere in scena, i cortocircuiti del reale. I nodi in cui
la contemplazione cede il passo
all’osservazione e, eventualmenLa rapidità delle trasformazio- te, a un intervento politico dettato
ni del dispositivo di riproduzione dalla presenza e dalle articolazioni
ha solo fatto sì che l’approccio al di uno sguardo critico.
mezzo tecnico fosse ancora più diretto e che gli sguardi sul mondo, Affrontato in tempi non sospetpur moltiplicandosi, diventasse- ti da Ross McElwee in Six O’Clock
ro ancora più singolari (anche se News, il problema della violenza,
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
che The Look of Silence sia letteralmente il film con il quale Oppenheimer corre ai ripari per
ri-raccontare la medesima storia
dalla parte delle vittime.
protagonista Kate si smarrisce nei
meandri dell’immagine di Christine), Greene giunge al porre se
stesso, e l’eventuale spettatore, di
fronte alla domanda ineludibile:
perché vuoi vedere questo film?
Perché lo stai vedendo?
e della sua rappresentazione, si
fa più complesso nel momento
in cui da un lato c’è un moltiplicarsi esponenziale delle possibilità di attingere a immagini non
censurate, orizzontali, e dall’altro una sempre maggiore strutturazione verticale, ossia ideologica, delle fonti e delle notizie. E
della loro immagine.
Robert Greene, nome di punta
della nuova onda del cinema “documentario” statunitense, in Kate Plays Christine (2016) mette in
scena la ricostruzione del suicidio di una anchorwoman di una
televisione locale di Sarasota, in
Florida. Fra indagine giornalistica e traslazioni soderberghiane (la
Ed è esattamente questa domanda
che Joshua Oppenheimer non si è
posto a sufficienza mentre realizzava The Act of Killing e che invece
Gianfranco Rosi ha affrontato con
straordinario acume filosofico e
critico per El Sicario Room 164.
Se l’idea di partenza di Oppenheimer, realizzare un documentario
“impossibile” sull’immaginario
di assassini di massa permettendo loro di mettersi in scena non
è priva di implicazioni appassionanti (ma la cosa la si può e poteva osservare all’opera nel film
mai concluso dai nazisti su Theresienstadt), dall’altro fallisce nel
momento in cui letteralmente costringe coloro che hanno subìto
la violenza a rivivere per la seconda volta, per il film, ciò di cui sono già stati vittime. Non è un caso
14 - 15
e i corpi che filma, permettendo
che la sua macchina sia abitata e
posseduta mentre il suo sguardo
continua a osservare implacabilmente, lascia che la sua posizione
di narratore privilegiato sia agita.
Ciò che vediamo sullo schermo
è la tensione di questa manipolazione dei corpi oggetto e protagonisti del film e ciò che lo sguardo
del regista riesce a documentare
di questo “conflitto” territoriale.
Si tratta di una messa in pericolo del lavoro del cineasta, un passare letteralmente dall’altra parte
come differenza filmica e non più
come presunta verità assoluta. La
presenza dell’atto del filmare non
è più segno di una verità ma di una
differenza; una differenza che non
si ricompone (più) dialetticamente ma che si può esperire solo attraverso una violenza (quella del
passaggio dall’altra parte) della
quale lo sguardo rende conto, per
quanto riguarda lo spettatore, come mancanza.
Se Eyal Sivan non ha torto nel dichiarare che il documentario è la
chiesa laica del cinema, e che l’unica cosa interessante è filmare il
male dalla parte di coloro che lo
commettono, allora Rosi offre di
questa posizione, con El Sicario,
una formulazione di sconvolUna mancanza che ci suggerisce,
gente giustezza.
in fondo, che la verità è il falso proLa mano dell’assassino traccia sul- blema per eccellenza del docula carta ciò che non si può vedere mentario. Il “documentario” è una
e il fatto che il suo volto sia coper- posizione critica. Un’etica del fare
to induce uno stato di disagio, so- che trova il suo posto, nel mondo e
spensione dell’incredulità, che fra i materiali del reale, come possi riflette sullo statuto narrativo sibilità di uno sguardo chiamato a
del film e per estensione del cine- rinnovarsi instancabilmente; coma stesso. Cosa stiamo vedendo? me posizione di una produzione
Questa domanda sullo statuto del del lavoro; unica condizione posdocumentario, che ne investe la sibile per continuare a corteggiare
verità data per scontata a priori, è lo “splendore del vero”.
una posizione etica problematica e aperta, che permette al film di
nutrirsi di un’ambiguità che ne sostanzia la fondamentale “verità”.
Roberto Minervini con Louisiana – The Other Side procede nella direzione opposta. Abbattendo la barriera fra il suo dispositivo
DANZA
MACABRA
La violenza come spettacolo al cinema:
da Jacopetti allo Snuff movie
di ANDREA GUGLIELMINO
sale cinematografiche
“ Lesinumerosissime
pongono come serie di luoghi oscuri
nei quali si celebrano le varie forme dell’attuale
culto della morte. Dai film dell’orrore ai film gialli,
ai film di fantasmi, ai film apocalittici, lo schermo
cinematografico ci riserva innumerevoli scene di morte,
migliaia di cadaveri, folle di fantasmi, atti a conferire
brivido e sensazioni alle nostre giornate ritenute
altrimenti insopportabilmente scialbe
”
parlare così è l’antropologo
Luigi
Maria Lombardi
Satriani, nel libro
Nel labirinto – Itinerari metropolitani’. Ben due capitoli sono
dedicati parzialmente al rapporto tra l’antropologia della morte
e il cinema (La città, la morte e
il trucco e il significativo Nostalgia della morte, dove viene analizzato in particolare il film Ghost
di Jerry Zucker): Satriani sottolinea la brama di informazione
su eventi luttuosi e violenti, per
transizione concettuale, da parte della società moderna, che da
un lato allontana la morte come
concetto universale, ma dall’altro, proprio a fini di esorcismo, la
desidera visivamente, s’intende,
come evento “scioccante”. Gli
schermi diventano piccoli altari
A
dove si sacrifica quotidianamente il nostro desiderio di vita altrui,
che diventa, inarrestabilmente,
desiderio di morte altrui. Non solo nella cronaca: pensiamo all’abbondanza di serie televisive che
trattano il tema da vicino. Il rapporto con la morte e la violenza
si trasforma facilmente in pratica macabra di voyeurismo. La
morte diventa spettacolo e, alle
prese con gli obiettivi delle tecniche riproduttive, viene rigettata e
perde le sue connotazioni sociali, le sue caratteristiche di evento che riguarda un intero gruppo,
un’intera comunità e – in definitiva – l’umanità intera, dato che
tutti dobbiamo affrontarla. Così
le immagini di cadaveri, arricchite dal dettaglio della ferita e dello
strazio, si astraggono dal contesto
per diventare quadri surreali e in-
decifrabili, dove la morte e la violenza diventano irrintracciabili.
Come avviene negli horror di Lucio Fulci (da Zombi 2 a E tu vivrai
nel terrore…L’aldilà, passando per
Paura nella città dei morti viventi), quando la cinepresa stringe
talmente tanto sul dettaglio sofferente, sulla ferita sanguinolenta, sull’arto mutilato, sull’occhio
cavato, sulla piaga purulenta, da
trasformare l’inquadratura in un
dipinto colorato e “boschiano”,
con l’effetto di trascendere il dolore e la sua estetica. Le immagini
dei mass-media si impadroniscono della morte come di un accadimento imprevedibile, ne privilegiano gli aspetti truculenti e
ne trascurano il valore di destino
ineluttabile. La considerano così
ideologicamente un’eccezione
che riguarda alcuni sfortunati e
non le attribuiscono alcuna funzione di esemplarità esistenziale,
senza tentativo di capirla, magari
accettarla, intrecciandola con la
vita. Dal 2000 al 2011 ha incontrato particolarmente i gusti del
pubblico la serie di film Final Destination (conta cinque capitoli,
l’ultimo del 2011), che si basava
moltissimo su questo concetto.
Il canovaccio vedeva un gruppo
di persone (solitamente studenti e teenager, idealmente lontani
dal “momento fatale”) sfuggire
a un destino letale in un tragico
incidente, per casualità. Ma poi,
piano piano, Signora Morte (mai
mostrata personificata), se li riprendeva tutti, con una serie di
violentissime concatenazioni di
eventi che portavano al decesso –
violento – di ciascuno di loro. Le
dinamiche erano quelle dei car-
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
toni animati di Wile E. Coyote,
dalla caduta di un peso dall’alto
all’impatto con la metropolitana,
solo che, chiaramente, i protagonisti perdevano sangue, interiora,
e morivano. Però il pubblico rideva ugualmente, perché stava capitando ad altri. Ma la “finzione”
non sempre è scontata. E lo schermo svolge la sua azione di “filtro”
anche quando non è dichiarata.
Se oggi ci si limita a “simulare” il
documentario-verità con tecniche narrative molto specifiche,
come la camera a mano che fa
sembrare il film girato da qualcuno direttamente al centro dell’azione – The Blair Witch Project,
Rec, Trollhunter –, negli Anni ’70
e ‘80 il cinema d’exploitation
(quello, per farla breve, dove il
contenuto “scioccante” appariva più importante della qualità
visiva e narrativa) ha provato a
vendere direttamente per veri alcuni prodotti basati appunto sulle presunte riprese “dal vivo” di
scene violente e raccapriccianti.
Quanto ci fosse di reale è ancora
oggetto di discussione. Il più conosciuto esempio è certamente
Mondo cane di Gualtiero Jacopetti, tanto che questo genere di
pellicole prenderà poi il nome di
“Mondo movies”, in riferimento
all’archetipo: pseudo-documentari che trovano il loro fulcro su
argomenti sensazionalizzati, come le usanze esotiche internazionali – e in particolare quelle
sessuali più bizzarre – e scene di
morte e violenza uniche ma realistiche. Dal 1978 con il film Le facce
della morte il genere iniziò poi ad
approdare sempre più gradualmente alla violenza e ai rituali di
morte delle tribù sottosviluppate. Se ne vedono di ogni, dagli animali massacrati al sacrificio umano con orgia annessa di una setta,
all’esecuzione di un condannato
in una camera a gas. Grandissimo successo anche per questa serie che generò sequel fino al 1999,
e trovò eredità ideale nella serie
Guinea Pig (dal 1984), il cui secondo episodio, l’efferato Flower
of Flesh and Blood, dove viene fatta a pezzi una ragazza, divenne
famoso quando l’attore Charlie
Sheen, avendolo visionato e credendo di trovarsi di fronte a un
autentico snuff-movie (ovvero
un filmato pornografico, ovviamente illegale, che prevede reali
sequenze di omicidio e tortura),
lo denunciò all’FBI mettendosi a capo di una crociata contro
la serie. Episodio – o forse trovata di marketing – simile a quello che capitò al nostro Ruggero
Deodato quando uscì Cannibal
Holocaust (1980), imparentato
con i “Mondo” ma rivoluzionario nell’approccio, e che di fatto
inaugurò il genere degli “shockumentary” e del “found footage”. Il
film è stato aspramente criticato
per le scene di violenza sugli animali (vere. Particolarmente impressionante lo sventramento di
una testuggine, poi regolarmente consumata in pasto, dichiarò il
regista) e, inizialmente, anche per
quelle sugli “umani” (fasulle ma
estremamente realistiche; restò
iconica l’immagine di una ragazza indigena impalata). Complice
il fatto che il regista aveva imposto al cast – tra cui un giovanissimo e sconosciuto Luca Barbareschi – di stare lontano dalle scene
per un po’: la vicenda finì addirittura in tribunale nella convinzione che qualcuno ci fosse rimasto
secco sul serio, e il film fu ritirato
e censurato.
Il già citato snuff necessita una
trattazione a parte. Il termine è
16 - 17
sempre stato oggetto di controversie: esistono casi di morte in
diretta, illegittimamente associati al genere (suicidi e omicidi in
presa diretta, su filmati di pubblico dominio), ma i materiali audiovisivi pubblici veramente definibili come tali sono, come si
può immaginare, praticamente
introvabili. Né valgono gli esempi
di alcuni assassini (tra i quali Armin Meiwes, Charles Ng e Jeffrey
Dahmer) che hanno dichiarato di
aver filmato i propri omicidi non
a scopo di lucro, ma per trarre ulteriore gratificazione futura dalle
loro gesta. Ciò che fa uno snuff,
insomma, sarebbe la finalità: le
vittime verrebbero uccise solo
e specificamente per eseguire la
ripresa, a scopo pornografico –
e spesso, purtroppo, implicante
anche la pedofilia – e poi magari smerciarla sottobanco a costi
proibitivi. Una delle più massicce indagini sul tema fu effettuata
nel 1994 dai giornalisti David Kerekes e David Slater. A seguito
delle ricerche venne pubblicato il
libro Killing for culture: Death Film
from Mondo to Snuff.
LE CURVE
DEL DOLORE
di VALERIO ORSOLINI
La violenza come spettacolo in tv:
da Alfredino a Quarto Grado
alla seconda metà degli Anni ‘70 la televisione è obbligata a riformarsi, la concorrenza delle tv private costringe il
servizio pubblico ad abbandonare lo stile pedagogico per
uno più aggressivo, alla ricerca dell’ascolto. Nasce così
l’infotainment, genere nuovo che unisce l’intrattenimento ad elementi
propri del giornalismo. Comprende svariate tipologie di trasmissioni e
format, da Mixer di Giovanni Minoli del 1980 fino alle attuali Striscia la
notizia o Le iene, ma c’è un filone particolare che lentamente, inesorabilmente, si guadagna sempre più spazio nei palinsesti: quello che racconta la violenza, e il dolore da essa generato, nei casi di cronaca nera.
Sono le persone qualunque, come a Erba, Cogne, Garlasco, ma anche
volti noti, come la contessa Vacca Augusta, a essere protagonisti. Efferati delitti compiuti nella riservatezza di insospettabili mura domestiche diventano pubblici.
La violenza in televisione non è mai mancata. Durante gli anni di piombo i telegiornali mostravano senza filtri i corpi straziati da sparatorie ed
attentati terroristici: il corpo insanguinato del professor Bachelet sulle
scale della Sapienza di Roma, i cadaveri dilaniati delle stragi di Piazza
Fontana e della stazione di Bologna, in barba a fasce protette e tutela
della privacy, ma tutto ciò era confinato nel mondo dell’informazione.
Tutto cambia il 10 giugno del 1981, alle 19 circa un bambino di nome
Alfredo Rampi, “Alfredino”, cade in un pozzo artesiano: parte la corsa contro il tempo. La mattina dopo la notizia è su tutti i mezzi di comunicazione, la Rai manda una telecamera sul posto, che per i giorni
successivi racconterà ogni dettaglio dell’angoscioso tentativo di salvarlo. Sui teleschermi si susseguono i pianti disperati dei genitori, i sovrumani sforzi di chi tenta di calarsi nel pozzo largo pochi centimetri:
le grida, prima, ed i flebili lamenti poi, di Alfredino arrivano in diretta
grazie ad un microfono calato nel pozzo per facilitare le comunicazio-
D
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
Listino Prezzi della Morte
“A Chi l’ha visto non c’è cachet, rimborsano treni e hotel e come extra
al massimo puoi usufruire di qualche pizzetta in un buffet. Idem negli altri programmi Rai, nessuno ci ha mai offerto soldi. A Mediaset le
cose funzionano molto diversamente.
Esiste un tariffario abbastanza preciso. Si parte da 500 euro per i
parenti alla lontana o gli amici di un indagato o un assassinato pagati da programmi come Domenica Live, Quarto grado, Mattino e
Pomeriggio 5, per arrivare ai 30mila pagati alla moglie di Bossetti a
Matrix, con varie sfumature di cachet nel mezzo”.
Da “Il Fatto Quotidiano” del 24/10/2015, di Selvaggia Lucarelli: estratto
dell’intervista al legale di un famoso caso di cronaca nera, che chiede l’anonimato per non coinvolgere i suoi assistiti.
ni, la folla si raccoglie sul posto.
Dopo un’incredibile diretta di 18
ore il bambino muore e la sperata favola di un salvataggio si trasforma in tragedia, ma una tragedia seguita da oltre 30 milioni di
telespettatori.
Il seme è piantato ormai, la televisione capisce che il dolore attrae
lo spettatore e lo cattura. Poi l’Italia è passata per gli Anni ‘80, la
tv berlusconiana, il Moige, e tutto
si è edulcorato, patinato. Adesso
non è più possibile vedere le vere, crude, immagini di quegli anni sui nostri schermi ultrapiatti. Adesso non si mostrano più
i corpi straziati o il sangue in tv.
Le facce vengono blerate, le voci alterate. Oggi l’attenzione si
concentra su dettagli morbosi,
macabre curiosità, insinuazioni
e falsi misteri. La violenza in tv
ha acquisito i tratti della fiction,
ne ha sposato la ripetibilità, l’affezione alle vittime, ai personaggi e alle location e, giorno dopo
giorno, è portato avanti il racconto dell’evento, in attesa della prossima prova schiacciante,
della prossima sentenza (o della
“prossima puntata”).
In uno studio commissionato dall’Ordine dei Giornali-
sti nel 2015 si evince che la cronaca nera e giudiziaria, o come la
chiamano alcuni “la tv del dolore e della violenza”, occupa quotidianamente tre ore dei palinsesti televisivi italiani… e funziona!!!
Il programma Storie vere nel 2013 parla di gente qualunque, persone
vere appunto, ma così non decolla: l’anno dopo cambia linea e comincia ad occuparsi di cronaca, lo share passa dal 14% al 19%. La durata
raddoppia, da 30 minuti ad un’ora e, nel 2015, supera spesso il 20%.
Il programma di cronaca per antonomasia, Chi l’ha visto?, è seguito da
più di 2.300.000 spettatori, con uno share che spesso passa il 10%, il
doppio di quasi tutti i talk di politica, mentre Quarto grado si attesta
attorno al 7%, più o meno i risultati di Crozza nel Paese delle Meraviglie.
Lo stesso studio di cui sopra denuncia (magari in maniera partigiana) una minima presenza di giornalisti, tra conduttori, ospiti e opinionisti, in quegli stessi programmi che trattano appunto di cronaca, che raggiungono, nel migliore dei casi, il 20%, che scende al 5,9%
di Domenica Live. Questo non garantirebbe il rispetto di regole deontologiche di cui la categoria si fa garante, mentre si popola di opinionisti, criminologi, avvocati, e magari gli unici giornalisti sono
gli inviati spediti per settimane in posti isolati a cercare di costruire quotidianamente servizi su novità inesistenti o per fare dirette alle 23 da sperdute località deserte, come la ormai famosa chiesa di
Ca’Raffaello di Badia Tebalda, nella speranza che Guerrina Piscaglia
si materializzi improvvisamente dal buio circostante, magari proprio nei due metri quadrati illuminati dalle luci della troupe di turno.
Non è chiaro in assoluto perché il pubblico si interessi così tanto delle
disgrazie altrui, probabilmente per sentire meno il peso delle proprie
in un’epoca dominata da una crisi, economica e valoriale, che sembra
non avere fine. O magari è una ricerca istintiva della verità, la speranza
ad oltranza che la giustizia prevalga. Per quanto riguarda i programmi
tv, però, sembra proprio che l’unica verità ricercata sia quella del dato
Auditel, e… che importa se il picco di ascolti arriva proprio mentre viene comunicato ad una madre attonita il ritrovamento del corpo della
figlia senza vita.
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JIHADISTI VIDEOMAKER
LA VIOLENZA COME SPETTACOLO NEL WEB
di BRUNO BALLARDINI
er la prima volta nella Storia, il 17 settembre 2014, una guerra
veniva preannunciata da un trailer. Lo spot da 30”, diffuso su internet da al-Hayat, una
delle due principali case di produzione dello Stato Islamico, mostrava scene di quello che sarebbe
diventato presto il film più celebrato della nouvelle vague imminente: il “cinema” dello Stato Islamico. Più beffardo di una formale
dichiarazione di guerra, ma anche
perfettamente in linea con l’uso
che l’ISIS avrebbe poi fatto dei media, il trailer si concludeva con la
scritta in sovrimpressione: “Prossimamente su questi schermi”.
P
Due giorni dopo, puntuale come
in un media plan, usciva il documentario Flames of War (“Fiamme di guerra”) della durata di
55’14”, girato ed editato in modo
magistrale. In realtà, l’ISIS aveva già iniziato a invadere internet con una produzione sempre
crescente. La vera dichiarazione di guerra all’Occidente era già
stata mandata in onda: Clanging
of the Swords (“Il clangore delle
spade”) uscito il 17 maggio 2014
e prodotto da al-Furqan, l’altra
major ufficiale dell’ISIS. Ma la nostra stampa non ci fece caso. Eppure, militarmente e mediaticamente, l’ISIS esisteva dal 2006 e
intorno ad esso ruotava un’enor-
me galassia di case di produzione
video e multimediali. Ad al-Furqan, fondata il 31 ottobre 2006, si
sono aggiunti via via nuovi gruppi media come l’al-Etisam Institute, Aamaq Institute, al-Battar,
Dabiq Media, al-Khilafah, Ajnad,
al-Ghurabaa, al-Israa, al-Saqeel, al-Wafaa, Nasaaim Audio Productions, e una manciata di altre
piccole sigle nelle province controllate, come al-Barakah e alKhair. Chi ha coordinato e distribuito tutte le produzioni, fin dal
febbraio del 2006, è stata la rete
di al-Fajr. Si conosce molto poco di questa organizzazione, se
non il fatto di aver smistato con
grande efficienza i materiali e,
prim’ancora, di aver validato la
loro autenticità, controllo fondamentale per parare i tentativi di
contro-propaganda da parte del
nemico. Tutti i comandi regionali dello Stato Islamico in Iraq, o di
al-Qaeda nella terra Islamica del
Maghreb (AQIM), come lo stesso comando centrale di al-Qaeda, si sono appoggiati su al-Fajr
per la distribuzione dei loro prodotti, esattamente come avviene nel nostro cinema. La sempre
maggior frequenza delle trasmissioni ha mostrato subito tutta la
potenza di fuoco dell’ISIS ma i nostri media generalisti l’hanno per
così dire “scoperta” solo all’inizio dell’estate del 2014 con i video
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
degli sgozzamenti che, peraltro,
costituiscono la parte meno significativa di tutta la produzione.
Non si può ridurre tutto a “scene
cruente e uso di effetti speciali”.
È evidente la mano di grandi professionisti. Oltre a tecniche di ripresa che la stampa ha definito
“hollywoodiane”, oltre all’uso
degli stessi software con cui, nelle
scene del serial televisivo Fringe,
venivano inserite scritte in 3D come se fossero oggetti reali (vedi
Join The Ranks, “Unitevi alle truppe”, prodotto da al-Hayat e uscito il 22 luglio 2014), le novità vere
sono altre. Fra tutte:
1) la presenza costante di un operatore video dietro ad ogni mujaheddin, per portare letteralmente lo
spettatore in mezzo alla battaglia;
2) l’abitudine registica di impie-
gare anche tre macchine da presa;
3) l’abbattimento del confine fra
sceneggiatura e realtà: Abu Muslim from Canada (“Il Musulmano Canadese”) uscito nel luglio
del 2014 è ufficialmente il primo
esperimento di snuff movie. La
sceneggiatura racconta la storia
del fighter “venuto da lontano” e
ovviamente il piano di lavorazione stabilisce fin dall’inizio che debba morire. Il ragazzo “recita”
così la sua stessa morte
e ricompare nel finale
con voce filtrata da reverbero, come se parlasse dall’aldilà. Sono
numerosi gli esempi
di questo genere particolarmente gradito
al pubblico locale per
cui vengono allestiti maxi schermi nelle piazze
principali delle
città. Il culmine,
si raggiunge con
gli abilissimi tagli d’inquadratura su impercettibili movimenti
facciali “rubati”
al pilota giordano Muath Safi Yousef al-Kasasbeh, su cui sarebbero state costruite poi artificialmente, in post
produzione, le sue espressioni di
pentimento, prima di mandarlo
al rogo in Healing of the Believers’
Chest (“Guarire il petto dei credenti”) uscito il 3 febbraio 2015
con al-Furqan; infine
4) la creazione di un vero e pro-
20 - 21
prio palinsesto, speculare a quello
delle nostre tv, con gli stessi format (telegiornali, documentari
culturali, cinema educativo, spot
pubblicitari). Con questo complesso dispositivo, migliaia e migliaia di account Twitter hanno
attaccato “a sciame” i nostri media travolgendoli letteralmente.
Oggi, il fronte mediatico del Califfato sta riorganizzandosi abbandonando la centralizzazione
delle risorse a favore di case di
produzione regionali.
Per una completa filmografia
della “prima stagione”, iniziata
nel maggio del 2014 e terminata a
fine gennaio del 2015, corredata
da schede e analisi dei video, rimando al mio ultimo libro:
ISIS® il marketing dell’Apocalisse,
pubblicato da Baldini & Castoldi.
LA BANALITÀ DEL MALE
LA VIOLENZA COME SPETTACOLO NELLA REALTÀ
di CRISTIANA PATERNÒ
on è tanto il naufragio con spettatore
di Lucrezio, il tanto citato suave mari
magno, in cui è il sollievo dell’incolumità di fronte alla tempesta a
darci un dolce piacere. Le disgrazie ci attraggono davvero. È innegabile anche se duro da ammettere. Non solo al cinema, dove
la violenza, insieme al sesso (ma
spesso anche di più) sembra essere la molla fondamentale che
incolla lo spettatore allo schermo. Ma anche - anzi soprattutto
- nella realtà. Ci fermiamo a osservare le vittime di un incidente
stradale e non stacchiamo gli occhi dai Tg che rimandano all’infinito le nefandezze del quotidiano e gli orrori della Storia all’ora
di cena come un tempo i nostri
predecessori si affollavano attor-
N
no al boia o ai piedi della ghigliottina. Non sono forse stati proprio i
giacobini a teatralizzare l’agone politico, e tagliare la testa agli sconfitti
(ma in modo organizzato e razionale grazie all’invenzione “pulita” del
Dottor Guillotin), preludendo atrocemente alle decapitazioni che la
propaganda di Daesh fa rimbalzare oggi nella rete? Queste immagini ci
catturano, ci ipnotizzano, ci restano impresse indelebilmente nella retina, amplificano la loro portata a dismisura diventando appunto strumento di propaganda. Ci indignano e ci atterriscono, ma anche, subdolamente, ci affascinano. Il confine tra il vero e il falso si fa sfumato e
quasi sempre indistinguibile.
Poco dopo le aggressioni avvenute la notte di Capodanno a Colonia
in Germania, comincia a circolare un video, girato con un telefonino,
in cui si vede una donna bionda circondata da decine di uomini che la
molestano e la stringono impedendole di muoversi: la donna è disperata e lo spettatore immagina di assistere a qualcosa di molto vicino
a uno stupro di gruppo, il video diventa virale. Viene preso sul serio e
il telegiornale de La7 lo mostra come prova di quello che è accaduto
a Colonia, come uno dei 516 casi di violenza della notte di San Silvestro, vari quotidiani online lo riprendono a loro volta. In effetti il filmato – che “sarebbe” stato registrato non a Colonia ma a Piazza Tahrir,
in Egitto, nel 2012 (però il condizionale è d’obbligo) – ha suscitato un
interesse piuttosto morboso, anche perché non aggiungeva molto alla
conoscenza dei fatti. Anzi, come ora sappiamo, disinformava.
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
La finzione c’entra fino a un certo punto e fare appello alla funzione catartica della rappresentazione della sofferenza e della
morte non basta, come non bastava spiegare tutto col senso di
sollievo che prova chi non è direttamente coinvolto: del resto nella
tragedia greca, a proposito di catarsi, gli atti di sangue e le uccisioni erano lasciati rigorosamente fuori scena. Le arti – non solo
il cinema che è storia fin troppo
recente – arrivano dopo e sfruttano, più o meno consapevolmente, questo istinto verso il “luttuoso” alla ricerca di un sentimento
del sublime che ha una potenza
esponenziale rispetto alla quieta
e armoniosa visione del bello. Un
sublime devastante che sconfina
dalla patologia ai territori della
politica, dove terrore e propaganda inestricabilmente si intrecciano. Pensavamo di averlo messo a
tacere e addomesticato, questo
sadismo dello sguardo, di poterlo agire solo grazie alla mediazione dell’arte, nella spettacolarizzazione del male immaginario e
immaginato, ma ecco che ci sentiamo di nuovo trascinati, presi
per i capelli e riportati nella barbarie da cui pensavamo di essere
definitivamente usciti.
Siamo tutti sadici, almeno potenzialmente. Come hanno dimostrato celebri esperimenti di
psicologia sociale, come quello di Zimbardo nell’università-prigione di Stanford nel ‘71,
esperimento sospeso perché i
“carcerieri” erano andati fuori
controllo. O come hanno mostrato le torture americane nel carcere di Abu Ghraib. Di questo nostro sadismo – di questa banalità
del male - i filosofi sono sempre
stati coscienti. Ben prima della
nascita della psicoanalisi hanno
osservato l’eccitazione condivisa da tutti gli esseri umani per lo
spettacolo della tortura e della
morte. Solo per lo spettacolo?
“
È dolce, mentre la superficie
del vasto mare è agitata
dai venti, contemplare da
terra la gran fatica di altri;
non perché il soffrire di
qualcuno sia un piacere lieto,
ma perché è dolce capire
da che sventure sei esente.
È dolce anche contemplare
grandi contese di guerra
allestite per i campi senza
la tua parte di rischio.
“
Se l’omicidio ha esercitato il suo
fascino perverso in tutte le epoche, la cultura di massa ha contribuito a estetizzare a dismisura la
violenza del crimine o della guerra con le sue narrazioni amplificate dai media in un’inestricabile
commistione di realtà e rappresentazione. Il libro di Maria Tatar, Lustmord: Sexual Murder in
Weimar Germany (1995), analizza
ad esempio una serie di omicidi
avvenuti nella Germania pre-hitleriana dal punto di vista della loro rappresentazione artistica, investigando le ragioni che hanno
portato a “trasformare un corpo
femminile mutilato in un oggetto che suscita fascino”. E ancor
prima, a metà dell’Ottocento,
lo scrittore inglese Thomas de
Quincey considerava l’omicidio
come una delle belle arti. Il piacere che l’essere umano prova di fronte al dolore e al male
sembra insomma profondamente legato alla natura umana: un’attrazione per il sangue e la sofferenza appena mitigata da secoli
di civilizzazione ma subito pronta
a riesplodere quando il richiamo
della violenza bussa alla nostra
porta. Come in Revenant - Redivivo di Alejandro González Iñárritu
dove assistiamo in forma romanzesca e iperbolica alla nascita del
“contratto sociale” lungo l’estremo limite della civiltà occidentale, dove ancora vige lo stato di
natura o dove è comunque molto
facile ripiombare in esso.
22 - 23
(Lucrezio, De Rerum Natura)
LA STRAGE
DELL’AURORA
E LA MASCHERA
DI JOKER
di LUCA MASTRANTONIO
no dei più folli e
cruenti cortocircuiti tra realtà e finzione cinematografica è avvenuto nella notte tra il
19 e il 20 luglio del 2012, a Denver, Colorado. Nel cinema Aurora è in programma l’anteprima dell’attesissimo Il Cavaliere
Oscuro - Il ritorno, del regista Cristopher Nolan, a chiudere la trilogia dell’uomo pipistrello. In
prima fila c’è un ex studente di
U
neuroscienze, ventiquattrenne,
che attraverso la porta di emergenza esce e rientra con delle armi e una maschera antigas, che
assieme ai capelli tinti d’arancione gli dà un’aria stralunata. Ma
non desta sospetti perché anche
altri spettatori hanno dei travestimenti in tema. Si pensa ad una
trovata pubblicitaria. Purtroppo,
non è così.
A meno di mezz’ora dall’inizio del
film, l’uomo lancia dei lacrimoge-
ni e inizia a sparare uccidendo sul
colpo dieci persone e ferendone
una sessantina, due dei quali moriranno in seguito. I media che coprono l’evento raccontano che
l’assassino, secondo la versione
della polizia, mentre viene arrestato dice: “Sono il Joker”, alludendo
al villain, il celebre cattivo e schizofrenico antagonista di Batman.
Da quel momento, rimbalzando
da una testata all’altra, l’assassino
diventa per tutti il “Joker dell’Au-
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
rora”. Anche per alcuni emuli della sua follia omicida, negli USA e in
Europa (in Belgio).
Si tratta in realtà di un falso. Un
equivoco nato dalla dichiarazione del commissario di polizia
di New York: l’assassino non ha
mai pronunciato quella frase. Allo psichiatra racconta che la tinta dei capelli, più che un omaggio al Joker (che ce li ha verdi), è
una manifestazione di rabbia e
aggressività. Ha scelto quel film,
di cui appunta il titolo nel diario,
perché la première era molto affollata. Nella sua stanza fu trovata
sì una maschera di Joker, ma la lasciò lì preferendo la maschera anti-gas, per motivi tattici. L’assassino si dice persino stupito che
gli altri detenuti lo chiamino il
“Joker”. Di lui dicono si comporti
come vivesse dentro un film, non
mostra rimorso per quello che ha
fatto. Nel diario, prima della strage, aveva scritto: “Il terrorismo
non è il messaggio. Il messaggio è
che non c’è messaggio”.
Anche lo scrittore Stephen King,
commentando il rapporto tra
opere di finzione e violenza, par-
la dell’assassino dell’Aurora “travestito da Joker”. Lo fa in un’intervista in cui spiega perché non
vuole più vedere pubblicato il
suo romanzo degli esordi, Rage,
che con la sua trama ha ispirato
azioni omicide in alcune università americane. King punta il dito
contro le armi automatiche, ma
non vuole essere responsabile di
letterari pretesti criminali: il romanzo non è la causa, ma un acceleratore. Questo è il punto di
vista di King sui pericoli emulativi delle opere di finzione violenta.
Un tema ricorrente. Basti pensare a film come Arancia meccanica
o Natural Born Killers, di Oliver
Stone che John Grisham, portò in
tribunale dopo la morte di un suo
amico per mano di due fanatici
ossessionati dalla pellicola.
Il problema dell’istigazione e
dell’emulazione accompagna il
cinema dagli albori, con molte
ambiguità. Nascita di una nazione, del 1915, di David Wark Griffith
scatenò violente proteste a sfondo razziale per l’apologia del Ku
Klux Klan che molti vi trovarono.
Le cronache dell’epoca diedero
risalto a scontri ed episodi cruenti tra cui un omicidio a Lafayette,
nell’Indiana. In realtà (come ricostruisce Seymour Stern in “D.W.
Griffith’s 100th Anniversary The
Birth of a Nation”, 2014, FriesenPress), nel processo a carico di un
uomo bianco che, ubriaco, uccise
con un revolver un adolescente di
colore, non fu mai citato il film.
Furono i giornali a creare il collegamento, che poi si cristallizzò
in maniera suggestiva. È qualcosa
che succede molto spesso. L’impasto di crimine reale e funzionale si cementa nell’immaginario
collettivo.
Perché scattano così facilmente
questi cortocircuiti? È comprovato che ricondurre un fatto di
cronaca a una narrazione prestigiosa, e in sé dotata di senso (almeno narrativo), ha un impatto emotivo molto forte sul piano
della comunicazione; questo, in
sede processuale, offre alla difesa
la possibilità di attenuare la gravità della posizione dell’accusato,
incapace di distinguere finzione e
realtà. All’opinione pubblica, infi-
Un volto della finzione cinematografica come escamotage per
rendere digeribile l’orrore: focus sul caso della strage di Denver,
in occasione dell’anteprima de Il Cavaliere Oscuro,
per mano di uno studente ventiquattrenne.
24 - 25
ne, viene offerto un capro espiatorio: reale, come il regista che
spettacolarizza la violenza, o immaginario, come un personaggio
di finzione da sacrificare, un fantoccio da bruciare.
Forse c’è qualcosa di più sottile e
deformabile. Come la maschera
del Joker, quella che non è stata
indossata dall’assassino, né letteralmente né simbolicamente, al
cinema Aurora, ma continua a venirgli idealmente applicata al volto. Così da sottrarci alla vista della
nostra cattiva coscienza – benché
innocenti, siamo turbati - quando possiamo fare i conti con possibili moventi, cioè motivi, cioè
spiegazioni... O, peggio, quando
dobbiamo fronteggiare un orrore senza senso, un terrore senza
messaggio, un vuoto che ha svuotato altre vite per niente. Quella maschera di Joker permette di
disumanizzare il mostro, di non
guardare in faccia l’assassino che
ci precipita in un abisso presentandosi come appartenente, biologicamente, allo stesso genere
umano.
VOYEURISMO
ELETTRONICO
esperimento che sto
per descrivere ha come obiettivo quello
di sondare la reazione delle persone che navigano in
internet, quando si trovano di fronte a immagini e situazioni violente.
L’ambiente prescelto per l’osservazione è Omegle.com, una delle chat internazionali più famose e
usate della rete. Il meccanismo che
la governa è classico: due utenti
vengono selezionati casualmente e connessi attraverso una finestra di testo e due finestre video
collegate alle rispettive webcam.
L’idea consiste nella rappresentazione di una scena di violenza domestica imprevista durante una
conversazione ordinaria, al fine
di osservare azioni e reazioni degli utenti sotto l’influenza attrattiva dell’immagine in movimento e sotto l’influsso di due dei più
comuni aspetti sociali concessi
dalla navigazione online: l’anonimato e la distanza spaziale tra osservato e osservatore.
Concretamente, l’esperimento si
è svolto così: un’attrice iniziava
una chat con un utente sconosciuto e, dopo pochi minuti di conversazione, irrompeva un attore furioso nel campo della webcam. Il
“cattivo” doveva rimuovere la ra-
L’
Ricerca empirica sulla reazione dell’utente
di fronte a una scena di violenza domestica
vista attraverso una webcam.
di ALESSANDRO GIANNI
gazza-attrice dalla postazione
iniziale, scagliarla su un divano retrostante e fingere di picchiarla duramente, obbligando il partecipante connesso in
chat ad una scelta fondamentale: guardare o non guardare?
Conclusa la messa in scena
di un minuto, l’attore usciva
dall’inquadratura e l’attrice tornava nel primo piano, assicurando di non essere stata ferita
ed inviando un messaggio conclusivo con l’obiettivo di tranquillizzare, spiegare i motivi
dell’esperimento e inoltrare un
link ad un questionario online.
La scena è stata ripetuta 70
volte. I dati raccolti nel corso delle settanta prove sem-
brano dimostrare l’esistenza di
un effetto di disinibizione sociale online: se si considera il solo
dato del voyeurismo, 58 partecipanti su 70 hanno scelto di guardare la scena violenta, ne sono diventati spettatori. Una cifra che
sfiora la percentuale dell’83%.
Valutando invece le emozioni e gli atteggiamenti comunicati durante la fruizione della scena, sono stati esclusi i 12 utenti
che hanno interrotto la visione e
il gruppo restante è stato diviso
in 3 insiemi mutualmente esclusivi. Il primo comprende i partecipanti che non sono stati disinibiti dal mezzo e che, mostrando
sincera preoccupazione, hanno dato prova di aver conservato empatia e sensibilità. Il secon-
do include gli utenti che hanno
osservato con indifferenza, rimanendo impassibili, spesso sbadigliando e guardando annoiati. Il
terzo e ultimo è infine l’insieme
composto dai fortemente disinibiti, coloro che hanno reagito ridendo, esaltandosi o dando segni
di eccitazione erotico-sessuale.
Il primo gruppo ha raggiunto un
totale di 16 individui, il secondo
25 e il terzo 17, risultando le rispettive percentuali del 28, 43 e 29%.
A mio parere, unendo secondo e terzo gruppo è possibile calcolare il numero dei soggetti “desensibilizzati” nella
sua interezza: è un totale di 42
soggetti su 58, il 72% degli utenti sono voyeur della violenza.
Le prove sperimentali, però, han-
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
no fornito elementi abbastanza
interessanti da permettere anche
un’analisi qualitativa. Abbiamo
quindi ipotizzato un’ulteriore
classificazione di cerchie più ristrette di spettatori, accomunate
da un particolare contesto o comportamento. La cerchia generata dalla fruizione di gruppo è, di
certo, una delle più interessanti.
Nel corso delle sperimentazioni
non sempre abbiamo avuto a che
fare con un solo utente alla volta.
In 6 occasioni differenti il partecipante ha coinvolto altri individui.
Le caratteristiche interessanti legate a questa variante sono due: in primo luogo, 5 gruppi
hanno reagito con sorpresa, ridendo e ironizzando; in secondo luogo, per la totalità delle volte, la reazione della compagnia è
dipesa dalla reazione dell’utente principale. Se egli reagiva con
apprensione, il gruppo si interessava osservando con ansia e
preoccupazione, se egli reagiva
sogghignando o facendo battute, il gruppo osservava divertito,
commentando a propria volta.
Queste reazioni sono significative perché capaci di evidenziare
il carattere omologante del rapporto interpersonale interno a
un gruppo e perché dimostrano
lo scopo prettamente ludico e di-
renti da quelle di cui si è dotati nel
mondo reale. La più significativa
di queste è, senza dubbio, l’anonimato. Grazie ad esso, l’internauta
sente di poter sfogare le proprie
pulsioni scopiche, tenendosi al
sicuro dai giudizi e dalle responsabilità che implica l’etica sociale.
Esiste una vasta gamma di
browser e applicazioni che
mascherano l’indirizzo IP di
una connessione, come esiste la possibilità di presentarsi con nomi utente artificiosi o creare indirizzi email fasulli.
L’opportunità
di
separare le azioni compiute online
da quelle compiute nel mondo reale si manifesta nella sospensione temporanea delle
restrizioni morali e autorizza l’individuo alla negazione degli obblighi legati alla propria condotta.
Seguendo quindi un processo di
dissociazione, la persona genera
un referente online di sé con preferenze e caratteristiche distinte, separato e indipendente: non
è un caso che alcuni dei più famosi browser abbiano già colto la
tendenza e progettato una specifica finestra di navigazione in in-
simpegnato del navigare in compagnia. Sono convinto che questi
5 gruppi, oltre ad essere stati desensibilizzati dall’ambiente virtuale, siano stati alterati anche
dalla dislocazione delle proprie
responsabilità su altri individui.
Pur considerando il numero limitato di compilazioni complete, i questionari hanno dimostrato infine l’interesse dell’utente
per la ricezione dell’immagine violenta e, soprattutto, la tendenza a preferire quella ottenuta da ambienti reali rispetto
a quella palesemente artefatta.
Alla luce di questi elementi, sembra lecito affermare che l’ambiente virtuale disinibisca l’utente
attraverso variabili sociali diffe-
cognito per permettere ai voyeur
delle rete di agire nell’anonimato.
Un’ultima osservazione: di fronte alla ragazza picchiata, 4 partecipanti all’esperimento hanno estratto il proprio telefono
cellulare ed hanno iniziato a registrare la scena. In termini pratici, il motivo per cui 3 di questi abbiano iniziato a riprendere non è
chiaro, mentre per il quarto lo scopo era quello di far avere alla ragazza prove concrete con cui denunciare l’aggressore. Trovo queste
reazioni molto significative, perché dimostrano la mania del filmare, la mania di intrappolare immagini per poi poterle condividere.
La diffusione così ampia e capillare
dei cosiddetti smartphone ha dato
DISINIBIZIONE
SOCIALE
inibiti
desensibilizzati
disinibiti
VOYEURISMO
non guardare
guardare
26 - 27
il via ad un vero e proprio fenomeno di massa per il quale le persone,
in presenza di un evento raro o memorabile, sostituiscono ai propri
occhi l’obiettivo elettronico.
Che sia un concerto, una competizione sportiva o un atto di terrorismo o di violenza, sempre
più individui decidono di guardare l’evento attraverso lo schermo del proprio telefono cellulare.
Considerando nel particolare la
lite violenta, anche solo su YouTube.com è possibile trovare migliaia di video raffiguranti scontri
e risse, ma la stragrande maggioranza di questi si compiono tra
individui dello stesso sesso. Il
maltrattamento di una donna da
parte di un uomo prevede quantomeno l’intervento, è per questo
motivo che credo sia possibile interpretare la scelta dei 3 altri utenti che hanno registrato la scena
senza intervenire come un effetto di disinibizione legato, appunto, alla distanza e all’anonimato.
Sono consapevole che questa ricerca abbia raccolto ed elaborato una quantità di dati troppo
ridotta per permettere generalizzazioni su larga scala, ma ha
quantomeno confermato l’esistenza di comportamenti in genere solo ipotizzati e ha suggerito alcuni dei possibili mezzi per
osservarli e analizzarli.
IL TRAUMA
DEL CRITICO
a cura di NICOLE BIANCHI e CRISTIANA PATERNÒ
Pedro Armocida
Fabio Ferzetti
1) Arancia meccanica (Stanley Kubrick, 1971): un po’ tutto il film per
la violenza gratuita di Alex e compagni ma in particolare per la sequenza della “cura Ludovico”,
non esiste niente di più violento
della violenza di Stato.
1) Le scene più scioccanti che io ricordi in un film italiano sono quelle di tortura nel Salò (1976) di Pasolini. Tanto più che le vidi, per puro caso, in prima mondiale a Parigi, giovanissimo, a poche
settimane dall’assassinio, con tutto il sovraccarico emotivo che si
può immaginare. Mai riuscito a guardarle nemmeno dopo, comunque.
2) Per il 2015, quanto all’attualità, le immagini più scioccanti restano
quelle degli spot che tutti i siti del mondo antepongono senza il mini2) “Charlie Hebdo”: sequenza mo scrupolo alle scene - choc dell’anno, presumibilmente cliccatissidell’uccisione di Ahmed, il poli- me. Molti ci avranno fatto l’abitudine, io non ci riesco.
ziotto d’origine algerina, da parte
di Chérif e Said. Il colpo di grazia
del fanatismo.
Fulvia Caprara
Marzia Gandolfi
1) Il documentario The Look of
Silence di Joshua Oppenheimer
(2014).
1) Ida, sedotta, abbandonata, internata, è lei il corpo-immagine che ancora mi tormenta. Matta da slegare, Ida Dalser condivide con la Suor
Angelica pucciniana il dramma “claustrale” e il desiderio di conoscere
la sorte del figlio. Afferrata alle sbarre sogna una fuga impossibile e cade dolce dagli alberi, scardinando le categorie cliniche degli uomini e le
loro approssimazioni. Perché la Ida di Bellocchio, in Vincere (2008), alla
maniera delle sue donne, è inconciliabile con la nomenclatura medica
ma conciliabile col sentimento vivo, reale, indomito, eversivo.
2) L’immagine shock in generale,
ovvero non cinematografica, ma
purtroppo di cronaca, è per me
quella del bambino Aylan morto
sulla spiaggia, quest’estate.
Steve Della Casa
1) L’occhio tagliato di Buñuel (Un
chien andalou, 1929), anche se in
realtà non è orrore ma allargamento surrealista della visione.
2) Nel mondo, il bambino che galleggia annegato sulla spiaggia.
2) Le couverture “illustrate” dei “Cahiers du Cinéma”. Il numero di febbraio 2015 usciva in edicola con una cover di Blutch che “commentava”
l’attentato alla redazione di “Charlie Hebdo” e suggeriva la fragilità della
nostra posizione di fronte al caos, il faticoso equilibrio del mondo in faccia al terrore. A novembre quella di Luz, disegnatore francese di “Charlie Hebdo”, perdeva equilibrio e colore ma non la volontà di lottare, affidandosi all’eroina di Miller, in lacrime e “furiosa” sulle strade di Parigi e
nel deserto del reale. Una donna ferita e amputata che non crede al paradiso ma crede fermamente nelle seconde chance.
SCENARI
Immagini e violenza: un’attrazione fatale?
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10 giornalisti di settore indicano la propria immagine-choc nell’intera storia del cinema
e, per l’anno 2015, hanno scelto, tra la visione cinematografica e quella offerta dall’attualità,
la scena per loro più impressionante.
Francesco Pitassio
1) La prima inquadratura della seconda sequenza di Kiss Me Deadly (R.
Aldrich, 1955): le gambe nude di una ragazza, affiancate ai due lati da
quelle vestite di due uomini, si agitano, mentre fuori campo si sentono
i suoi strilli di dolore e agonia. Potrei poi menzionare, almeno, Greed (E.
Von Stroheim, 1923), Roma città aperta (R. Rossellini, 1945), Il miracolo
(R. Rossellini, 1948), Shock Corridor (S. Fuller, 1960), The Texas Chainsaw
Massacre (T. Hooper, 1974).
Emiliano Morreale
1) La mia immagine-trauma è il
ghigno di Norman Bates nel finale
di Psyco (1960).
2) Nell’anno appena trascorso, è
il corpo di Aylan Kurdi, il bambino siriano, sulla spiaggia vicino a
Bodrum.
2) Nel mondo, l’immagine più traumatica che mi sovviene, per il fuori campo cui rimanda, è quella dei giovani socialisti turchi, tweetata da
Madershahi Barajyikan: un selfie ritrae una ragazza in primo piano (l’autrice del tweet) e numerosi coetanei di ambo i sessi alle sue spalle. La fotografia è stata scattata quasi un mese prima dell’attentato di Suruc, in
cui hanno perso la vita 33 persone.
Marina Sanna
1) Salò (1976) di Pasolini.
Cristiana Paternò
1) Il fotogramma che non sono
mai riuscita a levarmi dalla mente e dagli occhi e che ha continuato a perseguitarmi e spaventarmi
per anni è il ghigno di Jack Nicholson in Shining di Stanley Kubrick
(1980) quando, chiusa dentro al
bagno, c’è la moglie Wendy (Shelley Duvall) e lui, dopo aver abbattuto la porta a colpi di ascia, annuncia: “Here’s Johnny!”.
2) L’immagine più scioccante del
2015, tra cinema e realtà, è quella
del film di Roberto Minervini Louisiana e in particolare quella di un
“buco” di droga praticato dal protagonista alla giovane donna visibilmente incinta.
2) Nell’attualità mondiale, senz’altro il piccolo Aylan morto sulla
spiaggia di Bodrum, fotografato da
Nilüfer Demi.
Mario Sesti
1) Alain Delon costretto ad assistere allo stupro della Girardot in Rocco e i suoi fratelli (1960).
2) Nel cinema, i chitarristi heavy
metal che guidano come battistrada di violenza sanguinaria l’orda
barbarica di Mad Max (Mad Max:
Fury Road, 2015).
DAMMI IL ROSSO
I fuori onda di Hollywood Party
una nuova rubrica
Da questo numero inizia
a
borazione con il programm
di 8½ realizzata in colla
3 - Hollywood Party
radiofonico di Rai Radio
CLAMO ROSE
RIVEL A Z IO N I
SUL S UCCESSO
di ALBERTO CRESPI
lamorose rivelazioni a margine del successo di Quo vado?,
l’ormai celeberrimo
film di Checco Zalone.
Dopo i mirabolanti incassi totalizzati nel gennaio del 2016, alcune isolate voci di protesta si erano
levate contro la satira che Gennaro Nunziante e Luca Medici, autori del film, indirizzano sui lavoratori del pubblico impiego e
sulla cultura del posto fisso. Il 6
gennaio il leader della UIL, Carmelo Barbagallo, aveva commentato la rappresentazione dei dipendenti pubblici fatta nel film
con argomenti cristallini, ancora
in attesa di adeguata traduzione:
C
“Siamo un sindacato moderno e
riformista, se c’è un dipendente
pubblico che non lavora deve essere licenziato così come accade
nel privato. Fare la satira su questi atteggiamenti funziona perché è come la satira sui politici
che fanno finta di fare politica”.
Il 15 gennaio era toccato ai “concorsisti”, in particolare a coloro
che hanno partecipato al famigerato “Concorsone” indetto tempo fa dal Comune di Roma. La
loro portavoce Valeria della Valle aveva dichiarato che “ridere
dell’inefficienza della burocrazia
non basta” e aveva invitato Zalone a scendere in piazza e a lottare
con loro. Queste voci di dissenso
DAMMI IL ROSSO
I fuori onda di Hollywood Party
sono arrivate sui media, ma molte altre sono state censurate dalla casta dei giornalisti. “Hollywood Party”, grazie alle sue fonti e ai
“fuori onda” della trasmissione, è
in grado di dar voce al grido di dolore che si leva dai ranghi dell’associazionismo ferito e deriso.
Altro che “politicamente corretto”: qui parla un Paese indignato,
che non ha più voglia di ridere!
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un pelo, essendo nato a Cremona. Niente da fare per il bolognese Gino Cervi: l’intera saga di Don
Camillo, inno al consociativismo
cattocomunista, sarà bandita.
La nota associazione culturale della Capitale “Semo regazzi fatti cor
pennello”, con sede in via dei Romanisti, ha invece stigmatizzato il
film per la scelta di far parlare in romanesco il rozzo italiota che manIn prima fila contro Zalone c’è, da al diavolo Checco, in modo ascom’era facile immaginare, il pro- sai colorito, quando questi suona
fondo Nord-Est. Molti militanti il clacson a un semaforo norvegese.
della Lega hanno chiesto ai leader
del Carroccio di far passare quan- L’opera zaloniana non viene letta
to prima un decreto legge che in modo univoco. L’Ambasciata
proibisca ufficialmente l’uso nei di Norvegia in Italia ha protestato
film di tutti i dialetti che si parla- per il modo in cui la patria di Ibno a Sud della Linea Gotica. Un sen è rappresentata nel film: “Non
membro particolarmente zelante andiamo in giro con le chiappe di
del comitato direttivo del partito fuori, non facciamo le pippe agli
ha proposto di cancellare digital- orsi bianchi, ci stanno sul cazzo
mente da tutti i film italiani le im- i matrimoni gay e sappiamo bemagini dei comici nati a Sud del nissimo come si cuociono quePo. Rimarranno visibili solo i film gli schifosissimi spaghetti”, ha
con Gino Bramieri, Tino Scot- diplomaticamente puntualizzati, Lino Toffolo, Renato Pozzetto to un portavoce dell’Ambasciae Piero Mazzarella. Anche quelli ta. Medici e Nunziante sono stati
con Ugo Tognazzi: s’è salvato per invitati a trascorrere qualche me-
se nel ridente scenario delle isole Svalbard, a due passi dal Polo
Nord: la locale squadra di curling
è pronta a usarli come bocce in
quel simpatico sport invernale.
un orso bianco non si masturba in
quel modo”. Nessuno, nemmeno
nei Paesi dell’Africa Centrale, ha
invece avuto nulla da ridire sulla
masturbazione dell’elefante. Dopo una rapida ricerca online, si è
D’altro canto, il regista afroame- appurato che manca totalmente
ricano Spike Lee ha dichiarato (a una credibile letteratura scientimargine delle polemiche per l’as- fica sull’argomento.
senza di cineasti neri nelle nominations all’Oscar) che la rap- La polemica, ormai, si allarga a
presentazione dei selvaggi che macchia d’olio e riguarda tutto il
catturano Zalone a inizio film è cinema comico italiano. Anche
“puerile, razzista e degna del Ku- L’abbiamo fatta grossa, il nuovo
Klux-Klan”, e ha ventilato l’ipo- film con Carlo Verdone e Antonio
tesi di lasciare l’Academy quando Albanese, è nel mirino. Gli eredi
assegnerà a Medici e Nunzian- di Tom Ponzi, il più famoso inte un doppio Oscar alla carriera vestigatore italiano, sarebbero
(a quest’ultima minaccia, Medi- in procinto di querelare Verdone
ci e Nunziante hanno replicato: per “dileggio della professione e
“Spike, stai sereno”).
falso ideologico”. Il Sai, Sindacato Attori Italiani, voleva invece
Non è mancato il disappunto da denunciare Albanese per vilipenparte della galassia animalista. dio, in quanto nel film interpreta
La Lac, Lega Abolizione Caccia, un attore smemorato.
ha trovato il film “ripugnante”. La “Gli attori italiani sono famosi nel
Fidc, Federazione Italiana della mondo per non dimenticare mai
Caccia, ha ribattuto definendo il una battuta”, hanno dichiarato.
film “ripugnante”. Quando hanno scoperto di essere per la pri- Avevano anche preparato una
ma volta d’accordo da tre secoli memoria di accusa dettagliata,
a questa parte, si sono chiuse en- ma pare che il caso sia rientrato: si
trambe in uno sdegnoso silenzio. sono dimenticati di depositarla.
Un attivista del WWF ha sottoscritto la dichiarazione dell’Ambasciata norvegese: “Sono un
hollywoodparty.rai.it
esperto, e posso assicurarvi che
TENDENZE
Cinéphile Look
SHOOTING
LOOK
Come si vestono i registi?
C’è differenza fra gli abiti
che indossano sul set
e quelli che prediligono
nella vita? Fin a che punto
il loro look ha a che fare
con le scelte artistiche
e con lo stile di un autore?
Anche i registi sono ormai
diventati un brand?
di GIANNI CANOVA
n tempo, sul set,
molti ci andavano
in giacca e cravatta.
Pasolini, ad esempio: in molte fotografie scattate
sul set di Accattone (1961) o La ricotta (1963) appare elegantissimo
pur nello squallore del paesaggio
circostante. E in giacca e cravatta è ritratto pure in alcune istantanee scattate tra i sassi di Matera durante le riprese di Il Vangelo
secondo Matteo (1964). Ma giacca
e cravatta d’ordinanza sono l’abito “da lavoro” adottato spesso
U
anche da Pupi Avati, da Vittorio
De Sica e da molti registi anche
in tempi più recenti e più vicini a
noi: Ettore Scola, ad esempio, è
ritratto in giacca e cravatta (e con
tanto di pipa in bocca in posa da
intellettuale engagé) sul set di La
famiglia (1987). Altri tempi. Tempi in cui andare sul set era come partecipare a
una cerimonia, a un rituale, a una
liturgia laica. Ci si vestiva a festa,
per andarci. E si comunicava – già
a partire dall’abito – il rispetto che
si doveva al rito e al sacerdote – il
TENDENZE
Cinéphile Look
regista – che lo officiava. Forse non
si è ancora ragionato abbastanza sul
look dei registi. Sull’abito con cui esercitano la loro professione. Perché non
è soltanto questione di gusti, o di mode. A
volte nella scelta dell’abito si coglie anche
uno scarto generazionale. Sul set di Accattone, ad esempio, Pasolini – come si diceva – è
in cravatta, ma il più giovane Bertolucci, al suo fianco, ha la giacca ma
la cravatta no. Incompatibile con il look “Nouvelle Vague”? Non proprio. Truffaut
la cravatta spesso ce l’aveva, forse per emulazione
del suo maestro Hitchcock
che della cravatta aveva
fatto quasi una divisa.
Non erano ancora, quelli,
i tempi del self branding.
Qualche regista anche
italiano, certo, già usava
il look per affermare con
più forza la propria identità. Lo faceva d’istinto,
per fiuto, senza avere alle
spalle costosi consulenti
o esperti image makers. Ma
con grande efficacia: gli stivali di Blasetti, o la sciarpa di
Fellini, per dire i più noti, sono dettagli identificativi a modo loro geniali. Un po’ come gli
occhialini di Woody Allen: marchi di
identità dal fortissimo potenziale iconico, capaci da soli di trasformare un
qualunque “director” in una figura più
complessa, velocemente riconoscibile, ma anche facilmente identificabile e
memorizzabile. Un po’ come la capigliatura di Dario Argento, con quella frangetta spiritica che incornicia due occhi spiritati e ispirati, o come i maglioncini a V e le
scarpe Clark di Nanni Moretti, così tenacemente fedele a se stesso – cioè immutabile e identico – nel corso degli anni e dei decenni proprio a partire dal look. Certo, non tutti i registi sono uguali. A differenza di altre categorie professionali i cui
adepti si assomigliano un po’ tutti e si riconoscono a prima vista (gli architetti milanesi, i commercialisti romani, gli avvocati siciliani), tra i registi ci sono varie tribù che quasi
sempre prescindono dalla provenienza geografica e si aggregano a partire da altri criteri: ed ecco allora i trasandati con cura (Gianni
Amelio? Paolo Virzì?), i minimalisti meditativi
(Gabriele Salvatores?), i dandy sornioni (Paolo Sorrentino?). Il look esteriore corrisponde
anche a un’estetica filmica? Rinvia (o anticipa,
prefigura e conferma…) uno stile? Difficile dir-
lo. Ma quasi impossibile negarlo. Tra come ti presenti e quel che presenti di te, fra
la tua immagine e le immagini che produci, non può non esserci un legame, una corrispondenza, un’eco, un’affinità. In questo
numero di 8½ proviamo a ragionare un po’ su
questo. Con leggerezza, è ovvio. Ma senza
prendere la questione sottogamba. Perché nell’era
in cui la regia diventa
professione di massa,
e si fa pratica collettiva, è quasi inevitabile che il regista
tenda – attenzione: barbarico anglismo in arrivo –
a brandizzare se
stesso. A dotarsi di un look, di
un packaging, di
un marketing. A
vendere la propria icona (e se
stesso…) prima ancora che
i film che produce. Nulla di
particolarmente
nuovo, per carità:
in fondo, il culto dell’autorialità su cui negli ultimi
decenni abbiamo un
po’ tutti costruito altari e officiato sacrifici (umani?) altro non
è – forse – che un modo “antico” di attuare
quello che oggi viene
disinvoltamente definito come self banding.
Lo praticano tutti. Anche quelli che fingono di non farlo, quelli che trovano nella
dissimulazione della
propria brandizzazione il più forte marchio
di riconoscimento e di
identità. Un po’ come
con i no-logo: non sono
un brand, quindi sono il
più potente e sfuggente fra
tutti i brand possibili.
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TENDENZE
Cinéphile Look
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ook who’s locked at to Brass (già si sente l’alone del Leone, mentre a sinistra peluria Frankesteiniano, lo avvolge come
Cinecittà. Nel, fino- suo masticato sigaro cubano, ma più rada con pizzetto accennato fu per Alain Delon cui lo affidò il
ra inesplorato, soffit- non è escluso si tratti del mezzo rimanda a Marco Ferreri. Sugli sensibile Valerio Zurlini.
to del sacro tempio Toscano, eterno compagno del occhi cerulei, probabilmente ri- Attenzione, una visione: nel sof- Teatro 5 degli Studios nostrani è ghignante Pietro Germi o quel- produzioni di quelli magnetici di fitto del Teatro 5 di Cinecittà le
appena avvenuta un’ incredibile lo più aromatico di Alberto Lat- Gillo Pontecorvo, sono posati astromaestranze trovano altro:
scoperta. In un sarcofago di anti- tuada: ma no, di Lattuada ecco occhiali bianchi, pare il paio più un porta abiti fin de siècle XX che
ca celluloide, ecco una composi- scorgersi solo i baffetti imperti- originale dei 55 collezionati da contiene vediamo cosa… giacca
ta mummia aliena, già classificata nenti). Calma, le immagini clan- Lina Wertmüller; altri da sole, avorio, gilet porpora, pantaloni
“demiurgus egoticus”, pratica- destine appena recapitateci in via dell’ epoca Ingridiana di Roberto bianchissimi, Borsalino, gemelli
mente un Registandroide del XX telepatica non sono chiarissime Rossellini, sembrano malcon- e foulard giallo paglierino (rubato
secolo, di struttura Frankenstei- – questa nuova tecnologia antie- ci, adagiati nel sarcofago ancora a Franco Zeffirelli?), ma siamo
niana, tanto raccapricciante quan- mail va perfezionata - ma noi pro- pieno di sorprese. Un momen- certamente di fronte a un inforto emozionante. Fattezze ma- seguiamo nella disamina di tale to: chi ha trafugato le lenti scure, male abbigliamento di Giuliagnificamente mostruose
no Montaldo, maestro
che oggi, nel 2036, ridefiindossatore della estinniscono in un corpo sota casa Anac, il cui look
lo l’iconografico identikit
totale globale sconfisse
di grande parte di quella
in una epocale serata da
eclettica vitalissima rivoOtello alla Concordia,
luzionaria genia di regiquello à la rive gauche di
sti italiani che imperverBernardo Bertolucci.
sarono da fine Anni ‘30 a
P.S.: Voci incontrollatutti i ’70, marcando con
te giungono dal Centro
un particolare - un colore,
Sperimentale di Cineun accessorio - la loro firmatografia. Sotto la prima su kolossal propaganma pietra della sua codistici e residui Telefoni
struzione posata nel
bianchi, Neorealismo pu1935, due cybercinetomdi M AU RI ZI O DI RI EN
ro e melodrammi, Neorebaroli avrebbero trovaZO
alismo rosa e commedia
to un enorme armadio
suprema, cinema comico,
di zinco dalla cui serradi costume e di genere.
tura s’intravedono straGli esami digitali e laser
ni vestiti di prima epoca
Stivaletti, occhialini
sul Reperto sono ancopunk. Gli esami di trace sciarpe che hanno
fatto
la storia della person
ra in corso ma attendibili
ce genetiche risalenti a
alità di registi del no
stro
indiscrezioni già indicaquel tempo, rivelano l’icinema, resi icona (a
nche) dalle loro scelt
no come sublime il mix di
dentità complottistica
e
in
m
at
eria
di abbigliamento: da
elementi venuto alla luce.
e preconizzatrice di un
Blasetti a Fellini, pass
ando
Il polimorfo di umana
gruppo di registi che in
per Lina Wertmüller
e Tinto Brass.
derivazione pare sia stato
privato smettevano marsvelato dai piedi al capo,
sina, ghette e papillon
così da potere certificarper sperimentare un lone la provenienza dai sinok poi lanciato decenni
goli corpi degli Autori che furono. Registandroide del grande XX se- scudo intimo-mediatico di Pier dopo da Clash, ACDC, Sex Pistols:
Dal basso: spiccano lavorati stiva- colo: a volte le mummie parlano… Paolo Pasolini? Bisogna ritrovar- fra loro accertate le insospettabili
li di classico cuoio autarchico, in- ora viene il difficile, dallo sterno le! Proseguiamo verso la… cima: identità di Amleto Palermi, Audubitabilmente strausati dal mi- in su. Notiamo un foulard di clas- sulla capigliatura immarcescibi- gusto Genina, Giulio Antamotico Alessandro Blasetti, in cui se made in Luchino Visconti ac- le di Gianni Amelio è posata una ro, Giovanni Pastrone, Enrico
riposano pantaloni d’ordinan- canto al collo semicoperto dalla coppola di derivazione guerra civi- Guazzoni, Giacomo Gentiloza beige alla zuava, del tipo spes- sciarpa rossa di Federico Felli- le ispanica, ulteriore segno del più mo, Mario Camerini, Gennaro
so conteso fra il Blasetti stesso e ni, che però lasciò in eredità a Et- battagliero dei fratelli Taviani, so- Righelli. E infine cosa dire della
Ludovico Alessandrini (calzoni tore Scola (l’importanza di chia- vrastata però a incastro dal copri- pioniera femminista Elvira Noche anni dopo furono corretti nel marsi Federico si riverberò sugli capo Mastroiannesco di Snaporaz, tari che si è scoperto indossasse a
taglio da Liliana Cavani). Im- amici); dal taschino della giacca alter ego felliniano. A lato il basto- volte sui suoi set eleganti abiti mapeccabile la camicia bianchissi- cinocoreana istituita da Vittorio ne dell’ultimo Mario Monicel- schili, spacciandosi per Carlo Luma dello stiloso Vittorio De Sica, Taviani spunta incredibilmen- li che aspetta invano un’altra ma- dovico Bragaglia?
su cui stona una bizzarra cravat- te la fedele pipa di Mario Solda- no così indomita. Il cappotto, utile È proprio vero: nel cinema italiano
ta di lana, purtroppo non l’unico ti. La barba? Divisa in due, parte per le prime notti di quiete vissu- i sarcofaghi non finiscono mai.
accessorio che rimanda a Tin- destra bianca morbida di Sergio te da questo memorabile corpus
L
I L R I T R O VA M E
NT
O
DEL “DEMIUR
GUS
EGOTICUS”
BRAND DI SE STESSO
Testo di ANDREA GUGLIELMINO
Illustrazioni di ANDY VENTURA
attaccatura particolare ben si sposa
con la basetta coltivata ma non particolarmente curata. La pettinatura
scapigliata che fa tanto bohémien
ma riallaccia anche alle radici partenopee, con richiamo al classico
stile da “guitto”. Le sopracciglia
espressive, dotate quasi di autonomia rispetto al resto della muscolatura facciale, di solito compressa in una cipigliosa espressione,
hanno fatto di Paolo Sorrentino
un esempio di look immediatamente riconoscibile nel nostro cinema, anche più di quello dei suoi
stessi attori (con l’eccezione naturalmente di Toni Servillo). Abbinamenti preferiti: sigaro e frac per
le occasioni di Gala. Non sarà una
Grande Bellezza, ma lo stile non gli
manca certo.
L’
l volto della Paura. Con il viso scavato e
l’espressione profonda ma inquietante, Argento sembra aver incarnato egli
stesso il sentimento di ansia e terrore
che ha voluto comunicare con i film della sua carriera. Ma in verità, osservando le sopracciglia inarcate e i capelli radi, timidamente tirati in avanti a
simulare un infoltimento, emerge la sua natura di
persona riservata, sensibile, empatica e attenta alle
emozioni altrui. Forse per questo sa come colpirle,
al momento giusto, con un ben assestato colpo d’ascia. Mise quasi rigorosamente nera, come le Tenebre, con alternanze di grigio (come il velluto delle
quattro mosche) o profondamente rossa, per i giorni di festa.
I
cchiali con montatura bianca, portati fin
dalla giovane età, che
si sono arricchiti nel
corso degli anni, in perfetta sintonia con la capigliatura argentata.
Entrambi gli elementi esprimono
autorità e un carattere forte, che ha
permesso alla Wertmüller di diventare una delle più affermate – e amate – registe donne del nostro Paese.
Completano il tutto abbellimenti
importanti ma non invasivi come gli
orecchini e, spesso e volentieri, uno
scialle di un rosso travolgente come
un insolito destino nell’azzurro mare di agosto.
O
TENDENZE
Cinéphile Look
Anche se restano per la maggior parte del tempo dietro la macchina da presa, i registi hanno la tendenza a “fare look”, e spesso
questo li aiuta nella comunicazione
della propria immagine anche al di
là del prodotto filmico. Cosa li rende
particolari, li caratterizza e ce li
rende simpatici, antipatici, attraenti,
autorevoli? Abbiamo cercato di
individuarlo con la collaborazione
dell’illustratore Andy Ventura,
specializzato in “ritratti senza faccia”,
che da qualche mese spopolano in rete.
36 - 37
a figura del regista è in questo caso inseparabile da quella
dello sceneggiatore, suo fratello e compagno d’arte. Carlo ed Enrico sono diventati un simbolo, “film dei Vanzina” è diventato sinonimo di commedia leggera e scanzonata, spesso associata indebitamente al “cinepanettone”, un termine
in realtà nato successivamente all’uscita del loro celebre Vacanze di
Natale (quello originale del 1983). Simili ma non identici, i due fratelli potrebbero in verità entrare a far parte del cast di una delle loro
pellicole. Enrico si concede sportivamente il vezzo del capello lungo
(avendo la fortuna di possederne ancora tanti); Carlo più sobriamente opta per un caschetto. Insieme offrono un colpo d’occhio formidabile. Anzi, Eccezzziunale… veramente.
L
o si nota di più nella versione giovanile - capello lungo e scompigliato
da fricchettone e baffetti marxisti (nel senso di Karl, ma anche
di Groucho), che ne sottolineavano la parziale adesione al filone comico-oppure oggi, barba
folta e seriosa e sguardo vispo ma
severo? Comunque, resta un autarchico affrancato dalle mode,
scegliendo sempre il classico per
le occasioni mondane (le poche
che frequenta, come il Festival di
Cannes) e abiti da lavoro comodi come il maglione, spesso rosso
come la proverbiale Palombella.
L
e anche acquisisse il potere dell’invisibilità come il protagonista del suo ultimo film, il regista di Mediterraneo
resterebbe comunque riconoscibile, con gli occhiali tondi da buon professore e il berretto da lavoro che aggiunge
un tocco di energia. Le sopracciglia brizzolate aggiungono saggezza, e
la pelata sotto il cappello permette di sbirciare la mente pulsante di un
autore intelligente e sempre con tanta voglia di osare e imparare. Uno
che, insomma, non ha paura.
S
Per seguire Andy Ventura: www.facebook.com/Andy-Ventura-110288715661411/
H O L LY W O O D
L AVA
PIÙ
BIANCO
di VANNI CODELUPPI
Quanto è cambiata la figura
del regista italiano con l’adozione del modello
dettato dallo star system americano.
Così si motivano le ormai imprescindibili
liturgie di promozione nelle chiese mediatiche,
da Che tempo che fa a Porta a porta,
passando per il web e la scrittura di romanzi.
n regista italiano,
quando esce un suo
film, oggi non può
evitare di partecipare a programmi televisivi di
successo come Che tempo che fa,
condotto da Fabio Fazio, o Porta a porta, condotto da Bruno Vespa. Anche un regista solitamente riservato come Nanni Moretti
non può permettersi di ignorare
questi fondamentali strumenti
di promozione. I quali, infatti, costituiscono una parte importante
della campagna di marketing attivata per l’uscita di qualsiasi film.
Sino qualche decennio fa in Italia
ciò non avveniva, perché si pensava che il film, con i suoi contenuti, fosse in grado di attirare da
solo gli spettatori nelle sale. Oggi invece si ritiene che sia necessario sfruttare anche la capacità
di richiamo di figure che sono già
note agli spettatori, come gli attori e il regista. Si adotta cioè quel
modello basato sullo star system
che Hollywood ha messo a punto nel corso degli Anni ‘10 del Novecento. Prima del 1910, infatti,
sui manifesti dei film non com-
U
parivano né i nomi degli attori, né
tantomeno quelli dei registi. Di
solito erano presenti solamente
delle immagini a colori molto vivaci tratte da una scena chiave del
film, generalmente firmate con il
TENDENZE
Cinéphile Look
marchio della casa di produzione
oppure con il nome del produttore. Sul manifesto ad esempio di
un film del 1913 – The Battle of Elderbush Gulch – non comparivano né i nomi degli attori (Lilian
Gish, Mae Marsh e Robert Harron), né quello del regista (David Wark Griffith), nonostante
questi fossero già conosciuti da
parte del pubblico. È stato Char- Un Antonioni o un Bertolucci potevano certamente essere conosciuti, ma non erano considerati
decisivi come gli attori per spingere gli spettatori ad andare nelle sale. Negli ultimi anni, però,
anche il regista è diventato importante per la promozione del
suo film. È dunque vittima di quel
processo che ho definito qualche
anno fa “vetrinizzazione sociale”. Un processo le cui origini risalgono alla nascita della vetrina
nell’Inghilterra dell’inizio del Set-
lie Chaplin, l’anno successivo,
il primo attore a essere utilizzato sui manifesti cinematografici
per la sua notorietà.
E così l’industria cinematografica
hollywoodiana ha cominciato a
promuovere i suoi film puntando
massicciamente sulla capacità di
attrazione dell’immagine e della
notorietà degli attori-divi. Ha creato pertanto il modello dello star
system e questo è stato rapidamente imitato in tutto il mondo,
a cominciare dall’Italia. Ma in una
prima fase ciò ha riguardato solamente gli attori. Il regista era considerato un artista e, in quanto tale, parte di un mondo differente.
Era l’autore con la A maiuscola.
tecento. Grazie a tale invenzione,
i negozianti hanno potuto catturare l’attenzione dei passanti utilizzando lo spazio intermedio tra
il negozio e la strada come se fosse il palcoscenico di un teatro. I
prodotti esposti all’interno della vetrina sono stati così sempre
più spettacolarizzati e valorizzati.
In seguito, a causa della sempre
maggiore importanza della produzione di merci nella società,
il processo di vetrinizzazione si è
diffuso all’intero sistema sociale.
E, di conseguenza, tutti hanno la
necessità di mettersi “in scena”
all’interno delle diverse vetrine in
cui sono costretti ad esporsi nella
loro esistenza.
Anche un regista, pertanto, oggi
ha la necessità di curare con attenzione la sua immagine personale, esattamente come fa da
tempo qualsiasi attore importante. Deve cioè costruirsi una determinata identità e assicurarsi
che essa sia dotata di coerenza e
di notorietà. Inoltre, deve saperla
comunicare in maniera continuativa nel tempo. Per poter ottenere questo risultato, è obbligato a
saper sfruttare efficacemente diversi canali di comunicazione: i
giornali, le televisioni, le radio, il
web. Pertanto, ha la necessità di
essere presente il più possibile
in questi canali. Poiché realizzare un film richiede molto tempo,
può occupare lo spazio tra un film
e l’altro con altre attività. Che certamente consentono di guadagnare denaro, ma sono soprattutto strumenti utili per mantenere
attiva la propria presenza nel sistema mediatico. Così un regista
come Paolo Sorrentino, oltre ai
film, ha realizzato spot pubblicitari (Fiat Croma, Yamamay), cortometraggi per aziende (Intesa
Sanpaolo, Bulgari), serie televisive (The young Pope), e ha scritto
due romanzi (Hanno tutti ragione, Tony Pagoda e i suoi amici). E
tutto ciò contribuisce ad alimentare la sua immagine. Non è un
caso dunque se negli ultimi anni hanno scritto romanzi anche
Paolo Virzì (Se non ci sono altre
domande), Ferzan Ozpetek (Rosso Istanbul, Sei la mia vita) e Pupi
Avati (Il ragazzo in soffitta).
Sembra dunque che anche in Italia sia in corso un processo di profonda trasformazione del ruolo
del regista. Il quale sta passando
38 - 39
dal modello del “regista-Autore” a quello del “regista-Brand”.
E dunque si sta avverando anche da noi quello che sosteneva
già negli Anni ’80 il pubblicitario
francese Jacques Séguéla nel volume Hollywood lava più bianco e
cioè che anche un regista come
Woody Allen, esattamente come
una marca, avesse un logo che
permetteva di identificarlo e che
nel suo caso erano i suoi inconfondibili occhiali.
LIKE,
SI GIRAAAAAA!
di MARGHERITA BORDINO
Mister Rossellini…”, scriveva Ingrid Bergman a metà degli Anni ‘40 del secolo scorso: se a quei tempi una lettera era la prassi per raggiungere i propri cari o, perché no,
un regista di fama mondiale, oggi può bastare una mail o,
meglio ancora, un commento a un post o un messaggio privato su canali quali Facebook, Twitter o Instagram. Negli ultimi decenni è cambiata la comunicazione personale e questa rivoluzione ha coinvolto
il singolo, la società e le diverse culture di tutto il mondo, delle volte
abbattendo barriere, delle altre creandone di nuove. Nel cinema i social network permettono una campagna informativa celerissima per
tempo, spazio e contenuti, sostituendo il vecchio passaparola, non del
tutto sparito. Ma, i registi italiani quale canale preferiscono? Quale valore gli attribuiscono?
I più noti raccontano sui loro profili principalmente se stessi, come
forma di scoperta e di condivisione. Del nuovo anno è una notizia “un
sacco bella”: si è iscritto su Facebook Carlo Verdone, che ha annunciato, in un video amatoriale, di aver ceduto anche lui al diario ideato da Mark Zuckerberg e di essere pronto a condividere foto, ricordi e
momenti inediti legati a vita e carriera. In solo pochi giorni il profilo ha
superato 59mila Like, a oggi molti di più.
I social network sono il principale luogo virtuale di aggregazione sociale e tanti registi italiani hanno scelto di non farne a meno. Pierfrancesco Diliberto-Pif, durante le riprese di In guerra per amore,
ha lanciato l’hashtag #PifSulSet, con cui, insieme al cast, ha condiviso
emozioni e sensazioni; i fratelli Tognazzi – Ricky, Maria Sole e Gianmarco – sempre su Twitter, ognuno a suo modo, raccontano le proprie
storie, con immagini d’infanzia e del presente, frammenti della giornata, tra famiglia e lavoro. Tra i registi più seguiti c’è Leonardo Pieraccioni, confidenziale e diretto con i follower: scrive, risponde, replica
e condivide l’amore smisurato per la figlia. Non è da meno Francesca
Archibugi, che non perde attimo per fare e condividere arte, dal cinema alla letteratura. Anche se il più seguito in assoluto è il regista, trico-
“
lore per adozione, Ferzan Ozpetek, che con grande naturalezza
esprime opinioni politiche e sociali, parla della sua Istanbul e ne
mostra scatti su Instagram.
Ci sono delle vere e proprie storie-social, legate ad alcuni nostri
registi:
ITALY IN A DAY - Gabriele Salvatores, premio Oscar per Mediterraneo (1992), non ha alcun profilo social, eppure con la rete, e il
supporto televisivo, ha realizzato il film Italy in a Day – Un giorno da italiani, primo esperimento
italiano di cinema collettivo. “Sabato 26 ottobre (2013) prendi una
telecamera, un cellulare e filma la
tua vita. Sei libero. Racconta chi
sei, cosa ami, di cosa hai paura…”.
Questo messaggio, divenuto virale, ha permesso a Salvatores di fotografare il Bel Paese attraverso lo
sguardo dei veri protagonisti, gli
italiani.
BASTA TWITTER - Paolo Virzì per un lungo periodo è stato
presente su Twitter, dove si è divertivo, ha condiviso, raccontato,
TENDENZE
Cinéphile Look
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Facebook, Twitter, Instagram di alcuni tra i più noti registi italiani.
È appena nato il profilo di Carlo Verdone, già defunto quello
di Paolo Virzì. Pieraccioni usa il suo spazio anche per parlare
di sua figlia, Gabriele Salvatores cerca immagini in rete.
Ma il più seguito è Ferzan Ozpetek.
scherzato e portato i follower sul set de Il capitale umano. Poco dopo si
è stufato e ha chiuso l’account. Il motivo? Ha scoperto di perdere troppo tempo: “È stata però una bella occasione per fare una delle cose più
importanti che deve fare un cineasta, cioè ficcanasare”.
GO INSTAGRAM GO - Christian De Sica è, invece, molto social.
Presente su Facebook e Twitter, con profili ufficiali gestiti da lui e dallo staff, ma anche su Instagram, il social network fotografico per eccellenza con il fascino della “polaroid 2.0”: qui De Sica è seguito da oltre 100mila follower e non manca giorno in cui non condivida scatti o
clip in compagnia di amici e colleghi, da casa, set o luoghi di vacanza.
IL CASO PASOLINI - Gabriele Muccino ha postato qualche mese
fa, sulla sua pagina Facebook, parole dure nei confronti di Pier Paolo
Pasolini, a quarant’anni dalla sua scomparsa. “So che quello che sto
per dire suonerà impopolare e forse chissà, sacrilego? Ma per quanto
io ami Pasolini pensatore, giornalista e scrittore, ho sempre pensato
che Pasolini regista fosse fuori posto, anzi, semplicemente un non regista”, inizia così il commento del regista italiano, ormai californiano.
Parole che hanno suscitato polemiche e critiche, e si sono ritorte contro Muccino che, dopo mezza giornata, le ha sostituite con un nuovo
post di giustificazione.
I social network, queste meravigliose creature che accompagnano la
giornata di personaggi noti, e non solo, delle volte sono luogo di incontro, confronto o promozione, delle altre sono nemici o, peggio ancora, possono avere lo stesso effetto di un cane che si morde la coda.
Per i social non esistono, infatti, vere istruzioni per l’uso: sono indispensabili ma da “agitare” con cautela.
Trucco&parrucco:
come sono
i registi davanti
allo specchio.
La parola a chi cura
make up e hair
styling in Italia,
tra anteprime
e red carpet.
di VALENTINA NERI
LA VANITÀ?
NON È DA
INTELLETTUALI
er chi è concentrato sulla visione d’insieme di un film è
davvero poca cosa il
proprio aspetto. Dopo mesi passati a ideare, studiare e pianificare un’opera d’ingegno complessa come solo un film può essere
i registi non vogliono certo darsi
in pasto a photocall e red carpet.
Ma la promozione è l’anima anche della Settima Arte, non solo
del commercio generico, e i cineasti non possono sottrarsi al
battage pubblicitario. Benché ne
farebbero a meno, si vedono costretti a passare per le esperte mani di make up artist e hair stylist,
cui spetta il delicato compito di
prepararli per affrontare stampa,
telecamere e pubblico. Ma qual è
il loro rapporto con la propria immagine? Sono davvero così diffidenti nei confronti di phon e cipria? Eccezion fatta per Pedro
Almodóvar, la truccatrice e parrucchiera freelance Francesca
P
TENDENZE
Cinéphile Look
Manzo conferma che di norma i
cineasti si fanno solo opacizzare un po’ l’incarnato per evitare
di risultare lucidi nelle interviste
video. “Se devono incontrare la
stampa chiedono la copertura
delle occhiaie e poco più. Riesco
a sbizzarrirmi di più con i capelli: Almodóvar ad esempio li vuole
drittissimi in testa, ma al 90% non
vogliono che mi concentri troppo
su di loro, registi stranieri inclusi. Ad esempio l’inglese Simon
Curtis, autore di Woman in Gold,
preferisce che mi dedichi alla moglie, l’attrice Elizabeth McGowan.
JJ Abrams, il regista del nuovo
Star Wars – Il risveglio della forza,
è un vero gentleman con le donne ma non si riesce a convincerlo:
vuole solo un po’ di cipria, mentre l’autore di Life, Anton Corbijn, è interessato a quello che c’è
dentro ai prodotti, da buon vegano non vuole parabeni e siliconi
in quello che gli si mette in faccia”. Insomma non fanno capric-
ci durante il make up ma bisogna
essere bravi a capire le loro priorità, su tutte la velocità. “Danno l’impressione di avere altro
su cui concentrarsi, senza dubbio il film - continua Manzo – ma
prestano anche attenzione a non
dare a vedere che si vogliono far
belli, sembrano voler preservare
un’aria da intellettuali, che cozzerebbe con una propensione alla vanità. L’ho notato anche con
Antoine Fuqua (The Equalizer),
che non incarna nemmeno l’aspetto da intellettuale eppure ci
tiene a fare un trucco velocissimo, quasi avesse paura di essere
giudicato altrimenti”. È come se
i registi di tutto il mondo avessero stabilito un codice non scritto
per cui al lancio del film l’autore
può e deve lasciare che l’attenzione sia catalizzata solo sull’opera.
Non fanno eccezione i più giovani, neanche nel caso siano attori.
Silvio Muccino per la promozione di Un altro mondo si è fatto da
parte lasciando che fossero il film
e le sue coprotagoniste al centro
della scena. “Isabella Ragonese e
Maya Sansa tenevano in alta considerazione i gusti di Silvio, che
non lesinava consigli sia su acconciature che sulle mise da indossare”.
Più articolati i racconti di chi i registi li frequenta nella doppia veste di amici e clienti di lunga data, come Roberto D’Antonio, hair
stylist delle star e vero punto di riferimento per molti cineasti, che a
lui si rivolgono per trovare il taglio
più adatto per un personaggio. C’è
lui dietro ai primi film di Renato De Maria e Pappi Corsicato,
lui volò a Londra per parlare con
il parruccaio Peter Owen per le
ciocche turchine della fata Nicoletta Braschi in Pinocchio. E sempre lui ha studiato il look di Riccardo Scamarcio per Pericle il nero,
il nuovo film diretto da Stefano
Mordini. Amante del cinema, viene ripagato con la stima di molti:
Mario Martone, Mimmo Calopresti, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone sono solo alcuni degli artisti
che fanno toccare i propri capelli
solo a lui. “Questi registi hanno un
legame con la loro immagine non
molto diverso da quello degli attori, ma non si tratta di vanità, bensì di un marchio di fabbrica. Difficilmente cambiano immagine
– spiega D’Antonio - solo Saverio
Costanzo tende a tagliarsi i capelli più corti di tanto in tanto”. I cambiamenti diventano accettabili nel
caso in cui registi e attori decidano
di utilizzare il look per sottolineare un cambiamento del personaggio. Laura Morante ha usato l’escamotage in Assolo, dove anche
i capelli sottolineano il passaggio
da donna timorosa a consapevole
e sicura. Rarissimi i colpi di testa:
Francesca Comencini per il red
carpet di A casa nostra al Festival di
Roma volle rasarsi quasi a 0. “Era
bella ma non era più lei. – ricorda
D’Antonio – Non dovendo comparire di continuo in video i registi potrebbero essere più inclini a
cambiare, ma preferiscono portare avanti un’ immagine: sanno che
le scelte radicali richiedono cure e
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attenzioni e loro sono sempre sui
set”. Concretezza e un pizzico di
ironia è l’identikit che fa dei registi
Michele Magnani, Global senior
artist MAC Cosmetics: “Se c’è un
difetto o un’imperfezione che vogliono attenuare sono loro stessi a
segnalarla e questo aiuta moltissimo il lavoro, oltre al fatto che non
hanno l’esigenza di sentirsi belli: a
differenza degli attori non vivono
sulla riconoscibilità fisica, ma sullo stile del loro cinema”. Non sono
gelosi della loro immagine ma non
amano vedersi troppo diversi. Fortunatamente alcuni si sottopongono al make up in modo scherzoso. Ferzan Ozpetek si lascia
andare a battute sui trucchi, facendo di quel momento necessario
un modo utile a sdrammatizzare la
tensione prima di un red carpet o
di interviste importanti.
arola d’ordine: praticità. L’imperativo
delle registe sul set
in materia di look
si chiama comfort. Una tendenza
dettata dalle necessità, certo. Ma
con infinite variabili e sfumature. Perché, oltre a raccontare chi
lo porta, l’abito indossato per dirigere la troupe significa anche altro. Ha a che fare con i ricordi e la
sensibilità di ciascuna regista, ma
è anche il modo silenzioso, diretto, immediato di comunicare con
le maestranze e con gli attori, di
dialogare con il film.
P
Come per Costanza Quatriglio,
per cui è lo stesso film a dettare
lo stile: “Quando ho girato il corto dell’Onu (Zero Hunger Challenge, ndr) con i bambini, volevo essere un riferimento immediato,
quindi mi sono vestita in modo
riconoscibile, fin dai provini: per
quelle riprese ho scelto il colore
vivo del mare. Nei documentari,
invece, indosso da sempre la tuta
dell’invisibilità, che significa l’arte del mimetizzarsi. Lì i colori non
devono distrarre e neanche lo stile. È il caso di film come Triangle o 87 ore”. A far da collante tra
i diversi titoli, il must della comodità e la passione per gli indumenti multitasche, tutti rigorosamente lavabili, perché “mi
piace sporcarmi sul set”. Ogni
film ha il suo oggetto emblematico, come “una giacca particolare che è diventata per tutti noi il
simbolo di Con il fiato sospeso”. O
una misteriosa linea di continuità: “Per Triangle mi sono concentrata sulle righe, ne ho indossate
per tutte le riprese! Per terramatta;, invece, abbiamo girato molti
notturni e lì portavo sempre un
vecchissimo maglioncino verde
mezzo fluorescente super pop!”.
Tra i privilegi del set, per Francesca Comencini c’è l’opportunità di vestire liberamente, “perché
quando giro non sento alcuna necessità estetica. Anche la donna
che si dichiara più libera, ne risente. Ecco, io vivo il set come
una parentesi in cui trascendo me
stessa”. Il tocco, sul set come nella vita, è riconoscibile: “Sono diventata donna negli Anni ’70 e ho
di CHIARA GELATO
Il look delle registe sul set: comodità,
leggerezza ma anche scaramanzia nei racconti
di Costanza Quatriglio, Francesca Comencini,
Giorgia Farina, Roberta Torre
e Laura Bispuri.
TENDENZE
Cinéphile Look
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un po’ di femminilità bisogna lasciarla fuori dal set. Non perché si è a
contatto con un mondo di uomini – che, anzi, gradirebbero la regista
‘restaurata’ – ma per comodità: spesso fa freddo o si sta in ginocchio
per parlare con gli attori. In compenso mi rifaccio sulle attrici! Anche
perché i miei due film (Amiche da morire e Ho ucciso Napoleone, ndr)
hanno protagoniste femminili con cui abbiamo giocato sul look. Già
in fase di riprese ‘punto’ dei vestiti del set, che poi puntualmente requisisco! Così alla fine mi rimane un capo, che vale anche come reliquia del film”.
Roberta Torre, invece, ha un suo personalissimo setting dress code: “Porto tessuti leggerissimi, morbidi, caldi. E indosso pantaloni che mi faccio
cucire apposta dalla sarta. Sono pantaloni alla turca, senza cuciture. Li
associo a maglioni comodi e larghi. Quando giro voglio stare libera da
tutto, perché sul set mi muovo moltissimo. Poi ho una borsa che uso da
secoli, con delle grandi tasche dove ogni cosa ha un suo posto, primo fra
tutti il copione, che faccio rimpicciolire. Prima di uscire metto la crema
idratante a litri, perché sul set si secca la pelle. I capelli, me li sistemano
al parrucco. E poi, massaggi mattina e sera. Il mio, è un metodo collaudatissimo!”. Il segreto? “Ho studiato questo look per non sentire nulla
addosso, per coltivare la leggerezza. Le scarpe, poi, sono un capitolo a
parte. Sul set utilizzo solo le MBT, che hanno una suola ad onda. Quando
stai in piedi, ti massaggiano schiena e gambe. Sono esteticamente raccapriccianti, ma non importa, perché non ti fanno sentire la fatica. Nel mio
ultimo film, I baci mai dati, ho contagiato l’intera troupe! Tutti dondolavano, persino il direttore della fotografia”.
Un unico stile, nella vita come sul set, per Laura Bispuri. “Quando giro, la sola cosa a cui rinuncio sono i tacchi. Poi, certo, tutto dipende dal
film: ho girato Vergine giurata sulle montagne dell’Albania, in luoghi
dove non c’era nemmeno il riscaldamento. Quando, inaspettatamente, è caduta la neve, non abbiamo avuto scelta: ci siamo dovuti bardare,
strato su strato”. A volte poi, a stare a stretto contatto con i suoi personaggi, alla regista capita anche di sviluppare una certa capacità mimetica: “In fase di riprese tendo a prendere le sembianze del mio protagonista, a somigliargli nel look e nello stile. Impressionante, divento
identica a loro! Me ne sono accorta rivedendo le foto dei set. Una volmantenuto questo look nel tem- ta ho girato un corto con un ragazzino rumeno: a rivedere quegli scatti
po. A pensarci, oggi vesto allo stes- sembriamo due bambini!”.
so modo di quando avevo 25 anni!
Mi piace avere un’identità legata Ma il cinéphile look passa anche per le scelte scaramantiche e gli aca quel momento. E poi è uno stile cessori imprescindibili. A ciascuno il suo, però nessuno sembra farne
che torna periodicamente di mo- a meno. Dalle sciarpe della Comencini, perché “mi piace tenere una
da!”. Gonne e tacchi banditi, an- pezzetta intorno al collo, mi fa sentire protetta”, ai portafortuna di
che perché “ho un modo di cam- Laura Bispuri, oggetti irrinunciabili, nella vita come sul set. “Ho semminare legato alle scarpe basse. E pre con me uno zaino arancione che mi ricorda i tempi della Columbia
sono sempre di corsa! In compen- University – racconta Giorgia Farina - e poi la catenina di mia nonna
so, porto i capelli lunghi. Penso di con la mano di Fatima. Ma c’è anche una felpa gialla dei Sex Pistols che
essere una regista femminile, an- utilizzo solo il primo e l’ultimo giorno di set”. Per Costanza Quatriglio
che se indosso pochissimo le gon- imprescindibile è “una maglietta turchese che ho usato per girare L’ine. Coltivo nel mio modo di fare sola. L’ho messa tante di quelle volte che ormai è slavatissima! Ma il vesul set delle modalità che sono so- ro oggetto scaramantico è un ciondolino di corallo che apparteneva
lo mie, di donna”.
a mia nonna. Una volta, mi ricordo, lo persi sul set, in una spiaggia di
coralli e sassolini piccolissimi, a Favignana. Quando, l’indomani, torScarpe da ginnastica, pile e pan- nai in spiaggia a cercarlo, lo riconobbi, magicamente, sul bagnasciutaloni larghi, il look da riprese ga, mentre il mare se lo stava portando via. Per me quello è il ciondolo
di Giorgia Farina: “Purtroppo della sfida all’impossibile”.
L’A R M A D I O
D E L C I N E G I O R N A L I S TA
Nicolas Winding Refn va in conferenza in accappatoio,
Quentin Tarantino ciabatta ai festival in infradito
e Johnny Depp si porta la birretta da casa:
a quali criteri di eleganza, quindi, dovrebbe rifarsi il cronista?
Osservazione e analisi dei codici di abbigliamento dei critici
cinematografici: sciatti, pauperisti, elegantoni, austeri, alternativi.
Anche se il miglior accessorio da indossare è…
il badge del colore giusto (per entrare prima e dappertutto).
di ILARIA RAVARINO
Devo andare a comprarmi qualcosa, non ho niente da
mettere - mi disse una volta una collega nei frettolosi saluti del dopo proiezione -; intendo, non ho nessun vestito da giornalista”. Non era mica un vezzo il suo. Era una
sacrosanta necessità: trovare una divisa a una categoria, quella del
giornalista e critico cinematografico, che per definizione non ne ha.
Un po’ è una condizione dettata da ragioni ambientali: nel buio della
sala, siamo onesti, i giornalisti potrebbero essere tutti in pigiama. E la
natura informale degli incontri impone un dress code tarato sul carattere dell’ospite: ma se Nicolas Winding Refn va in conferenza in accappatoio, Quentin Tarantino ciabatta ai festival in infradito e Johnny
Depp si porta la birretta da casa, a quali criteri di eleganza dovrebbe rifarsi il cronista? E così, l’assenza di un codice estetico universale rende il mondo della moda da cinegiornalista particolarmente, diciamo,
scoppiettante.
Il primo, e più diretto, approccio al problema consiste nell’indossarlo. Il merchandising delle distribuzioni tiene conto della cronica mancanza di abbigliamento “da campo” e provvede copiosamente. Tra
cappellini, magliette, spille e borse griffate col logo dei film ci si potrebbero rivestire da capo a piedi i redattori di imdb. Così combinato,
il giornalista brand-victim rende manifesta, a chi ancora non avesse
capito che lavoro faccia, la sua appartenenza alla schiatta dei cultori
del cinema. C’è sempre la possibilità che venga scambiato per un fan
o un attrezzista di scena, ma fa parte dei (moderati) rischi del mestie-
“
TENDENZE
Cinéphile Look
re. La maglietta brandizzata è però
un evergreen cui nessun giornalista
sa rinunciare, specialmente in camera da letto: un film non sarà mai
abbastanza brutto da non poterlo
indossare almeno come pigiama.
La giacca, e i tacchi, sono i porti sicuri cui approdare in cerca di
quella credibilità che la t-shirt dei
Muppets in certi ambienti non può
dare. Ma attenzione: i tacchi, in
particolare se alti, sono una scelta
precisa che è anche spia dello status del giornalista. Chi li porta, in
genere, è assunto e lavora in una
redazione, se non è assunto ha
un collegamento tv, se non lavora in tv è l’inviata di un femminile e in ogni caso o si muove in taxi
o non si muove affatto. Pochissime freelance si avventurano oltre
la scarpa da ginnastica, e quando
osano il tacco è in occasioni davvero speciali, tipo il proprio matrimonio. Lo urban clothing del
freelance da battaglia, particolarmente rarefatto in occasione
delle trasferte, più che al desiderio di rappresentanza risponde
a un bisogno: la sopravvivenza.
Borsoni multitasca, anfibi, tessuti incompatibili col ferro da stiro,
tutto accartocciabile in un pratico bagaglio a mano all’interno
del quale vestiti e cavi formano
un bolo indistinto. È la corrente
dei maso-pauperisti: anche l’abbigliamento deve comunicare la
sofferenza che patiscono sul lavoro, nel caso in cui qualche editore
volesse mettersi la mano sulla coscienza. L’anticonformismo, in un
ambiente un pizzico provinciale
come il nostro, serve al massimo a
far rientrare il giornalista nell’ambigua categoria del personaggio:
“il tatuato”, “il motociclista”, “l’alternativo”, “il coatto”. Presentarsi ai David con una benda sull’occhio in stile Bowie, da noi, non se
lo possono permettere nemmeno
quelli di “Rolling Stone”.
L’eleganza è una variabile declinata in modo molto diverso, non tanto in base al genere quanto all’età.
Prendiamo le feste. Se presso gli
over 40 l’austerità pare la cifra distintiva - gonne al ginocchio, giacca e camicia, rarissimi e indimenticabili azzardi pitonati -, around
30 l’interpretazione del “glamour”
è più vivace. Il colpo d’occhio generale è d’effetto: più o meno come incontrare allo stesso party
Oriana Fallaci e Miley Cyrus. Ma
il gap generazionale si riflette anche, e soprattutto, nelle situazioni
di rappresentanza. Più castigata, al
limite del cimiteriale, la divisa del
giornalista di lungo corso risponde sul palco a un criterio: scomparire al servizio dell’ospite. E farlo
più in fretta possibile, che poi tocca lavorare per davvero. Per il giornalista acerbo il palco rappresenta
invece spesso un’occasione irripetibile: ci sale così di rado che vale la
pena tirare fuori il vestito da festa,
la cravatta, la scollatura sbarazzina, nella segreta speranza che la
performance garantisca, almeno,
un decente acchiappo.
E poi ci sono loro. I puristi. La
mise del critico duro e puro è un
passepartout per ogni stagione,
fatto di pochi capi basic, unisex,
buoni per ogni epoca. La sciarpetta. Gli occhiali (consentita,
con moderazione, la personalizzazione della montatura). Il maglione a collo alto. Il pantalone
con risvolto. Colori: grigio Antonioni, blu Kieslowski. O il seppiato, che va con tutto.
Quando ho incontrato di nuovo la
mia collega eravamo entrambe al
Festival di Cannes. “Alla fine la divisa da giornalista l’hai trovata?”,
le ho chiesto, invidiandole quella meravigliosa gonna verde a palloncino. “No”, mi ha riposto lei alzando le spalle, “ho rinunciato”. Ai
festival, del resto, il problema non
si pone. Qualsiasi cosa si indossi,
abbiamo tutti una consapevolezza: niente veste il giornalista meglio di un badge del colore giusto.
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TENDENZE
Cinéphile Look
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FATTI
Dossier di DG Cinema e ANICA
I PRINCIPI ISPIRATORI
DELL’INTERVENTO PUBBLICO
NEL SETTORE CINEMATOGRAFICO
E AUDIOVISIVO
diFederica D’Urso, Iole Maria Giannattasio, Francesca Medolago Albani
Con la riforma della normativa sul cinema,
la riflessione del Governo e dell’industria
attinge a questi presupposti per elaborare
un sistema di sostegno efficiente ed efficace
ai fini di un sano sviluppo di un settore
che si evolve rapidamente nell’ambito
del contesto globale e il cui ruolo strategico
assume un’importanza sempre più evidente.
ono in corso i lavori che porteranno alla riforma della
normativa sul cinema in Italia: all’inizio di quest’anno
infatti il Governo ha presentato il testo di riforma in un
collegato alla legge di stabilità. L’obiettivo del Governo è
quello di aggiornare la regolamentazione alla luce delle evoluzioni del
mercato cinematografico e delle novità relative al vivace contesto del
settore audiovisivo in cui l’industria cinematografica si inserisce.
S
Questa è per noi l’occasione per riflettere su alcuni principi generali
che ispirano e motivano l’intervento pubblico nel settore cinematografico e audiovisivo. La riflessione del Governo e dell’industria attinge a questi principi per elaborare un sistema di sostegno che sia
efficiente ed efficace ai fini di un sano sviluppo di un settore che si
evolve rapidamente nell’ambito del contesto globale e il cui ruolo
strategico assume un’importanza sempre più evidente.
Fra gli argomenti più interessanti oggetto di dibattito si approfondiranno di seguito il principio dell’eccezione culturale e il tema
dell’ampliamento della competenza del MiBACT dal settore strettamente cinematografico al più ampio settore audiovisivo.
FATTI
Dossier di DG Cinema e ANICA
SINTESI
DEL QUADRO
NORMATIVO
ATTUALE
do, per la prima volta, un sostegno automatico alle opere non
cinematografiche. La previsione è contenuta all’articolo 8 del
decreto-legge “Valore Cultura”
dell’8 agosto 2013, n.91, convertito in legge 7 ottobre 2013, n.112.
L’applicazione delle norma è iniziata nel marzo del 2015 con la
pubblicazione del decreto ministeriale attuativo.
L’attuale quadro normativo sul
cinema fa essenzialmente riferimento a due testi normativi:
* Il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28, cosiddetta “Legge
Urbani”, che, con i relativi decreti attuativi, peraltro aggiornati
nel corso del 2015, costituisce il
testo di riferimento per la gestione di tutti fondi diretti a favore
dei diversi segmenti della filiera e definisce criteri e parametri
per il riconoscimento della nazionalità italiana dei film, ai fini
dell’accesso a tutti i benefici di
legge. I sostegni diretti sono alimentati dal FUS, Fondo Unico
per lo Spettacolo, istituito dalla
legge 30 aprile 1985, n. 163
* La legge 244/2007, art. 1, commi
325-343 e relativi decreti attuativi,
che introduce il tax credit e ne definisce criteri e limiti di applicazione nelle diverse declinazioni.
Come è noto, nel 2013, il credito d’imposta è stato esteso anche ai produttori indipendenti di
opere audiovisive, introducen-
TUTTO HA INIZIO
CON IL PRINCIPIO
DELL’ECCEZIONE CULTURALE
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Nel quadro normativo sul settore audiovisivo, il ruolo delle
emittenti televisive è regolamentato dall’articolo 44 del decreto
legislativo 31 luglio 2005 “Testo
unico dei servizi media audiovisivi e radiofonici” che determina il tempo di trasmissione
che le emittenti nazionali devono destinare alla programmazione di opere europee realizzate da produttori indipendenti e
l’investimento nella produzione,
finanziamento, pre-acquisto o
acquisto delle stesse.
Il successivo decreto inter-ministeriale MiBAC-MiSE del 22 febbraio 2013 stabilisce le sotto-quote
di riserva da destinare a programmazione e investimento in opere
di espressione originale italiana.
La revisione cinematografica, ossia il rilascio del cosiddetto “visto censura” per la proiezione in
pubblico è normata dalla legge 21
aprile 1962, n. 161, e dal successivo Regolamento di Esecuzione,
D.P.R. 11 novembre 1963, n. 2029
Il principio dell’eccezione culturale, va detto in partenza, non ha nulla
a che fare con la diversità culturale. Molta confusione esiste su questo
argomento, anche con un po’ di ingenuità coltivata da chi non gradisce molto la parola “eccezione”, perché intuitivamente suggerisce una
zona franca senza dotarla del fascino del pluralismo, della varietà, della - appunto - diversità.
In realtà proprio di zona franca si tratta. L’eccezione culturale attiene
alla più elementare delle problematiche giuridiche: da una parte vi sono delle regole generali e dall’altra dei casi particolari per i quali si stabilisce che quelle regole non valgono.
Le regole cui ci si riferisce in questo caso sono quelle del libero
scambio commerciale, scritte in
trattati internazionali multilaterali. Il trattato generale di libero scambio per le merci si chiama GATT (General Agreement
on Tariffs and Trade), gestito e
rivisto periodicamente fin dal
1947 in seno all’ONU e, dal 1995,
da un’organizzazione dedicata, il
WTO (World Trade Organisation
o OMC Organizzazione Mondiale del Commercio). Accanto a
quello per le merci, per la prima
volta nel 1994 vengono firmati il
Trattato sui Servizi, GATS (General Agreement on Trade in Services) e il TRIPS (Trade-Related
Aspects of Intellectual Property
Rights), sugli aspetti commerciali
dei diritti di proprietà intellettuale (marchi e brevetti industriali,
prevalentemente).
LA BATTAGLIA DELLA FRANCIA
ALL’URUGUAY ROUND DEL 1994
Fin dal 1957, con il Trattato di Roma, si stabilisce che l’Unione Europea ha competenza esclusiva sulla politica commerciale del
Vecchio Continente, motivo per
il quale di tanto in tanto sorgono questioni in sede di negoziato
tra gli indirizzi comunitari e i desiderata particolari di singoli Paesi membri. Esattamente in questa posizione si incunea il tema
dell’eccezione culturale: la Francia nel 1994, al termine dell’Uruguay Round, ottiene che si estragga l’audiovisivo - in quanto
materia culturale e, quindi, competenza esclusiva degli Stati membri - dall’arena dei servizi su cui si
sta discutendo il trattato di libero
scambio.
È la data di nascita di quel principio, su cui 19 anni dopo si scatena
una nuova battaglia, stavolta in sede di negoziato bilaterale. Sempre
al veto della Francia si deve infatti
il carve-out (sottrazione, appunto)
dei servizi audiovisivi dal mandato
all’UE a trattare l’accordo USA-UE
sul commercio e gli investimenti,
il famigerato TTIP (Transatlantic
Trade and Investments Partnership), i cui negoziati sono partiti
nel giugno 2013. Al termine di una
furiosa maratona politica a colpi di affermazioni, tentennamenti, concessioni, smentite di singoli
Paesi, in un’Europa commerciale
completamente a digiuno dei temi economici dell’audiovisivo, rimane fermo sulla sua posizione
un solo Stato che sull’audiovisivo ha costruito una battaglia cul-
turale (in tutti i sensi), ottenendo
nuovamente ragione sulle ragioni
della meccanica, dell’agricoltura,
della chimica, dell’interesse degli
USA di Obama ad avere mano libera anche nel redditizio settore
dei servizi audiovisivi. Che nell’era
digitale significano tutte le piattaforme di distribuzione online.
FATTI
Dossier di DG Cinema e ANICA
AIUTI PUBBLICI COMPATIBILI
CON IL TRATTATO DI ROMA SOLO
SE PROMUOVONO LA CULTURA
Grazie, sempre, alla Francia. Però
- perché un però c’è - siamo sicuri che al mondo audiovisivo
europeo, e all’industria in particolare, veramente convenga rimanere estraneo alle grandi questioni economiche e commerciali
globali? L’ultimo anno ci dimostra in parte il contrario: dal lancio della Strategia della nuova
Commissione Europea sul Mercato Unico Digitale, nel maggio
2015, i nodi stanno piano piano
venendo al pettine, mettendo
sempre più in evidenza come la
zona franca così strenuamente
protetta corra altri tipi di rischi,
meno evidenti nell’immediato, ma perniciosi nel medio-lun-
go termine. Il principale è quello
di costringere un’area dal grande
potenziale di crescita economica ed occupazionale per l’Europa, come è l’audiovisivo (senza
più distinzioni tra cinema in sala
e servizi di distribuzione tv e online), per lo più rappresentato dalle migliaia di piccole e medie imprese attive nella produzione e
distribuzione indipendente, in
una dimensione ristretta, sconosciuta nei suoi fondamentali economici e industriali ai burocrati europei, governata con logiche
autocratiche estranee all’andamento dei mercati globali. Piaccia
o non piaccia, l’audiovisivo vanta
invece una duplice natura: attivi-
L’INTERVENTO FINANZIARIO
DELLO STATO NELL’AUDIOVISIVO
È ISPIRATO ALLA FUNZIONE
DI PROMOZIONE CULTURALE
E quindi si è già detto il fondamentale perché dell’intervento dello Stato nell’audiovisivo. Non si può trascurare che sia scritto nella Costituzione Italiana, sin dai Principi Fondamentali, all’articolo 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e
tecnica”. La legge cinema in vigore oggi in Italia richiama anche gli articoli 21 e 33, con le relative connessioni all’arte, alla libertà di espressione, all’istruzione in tutti i suoi gradi. Come appena ricordato, invece l’azione dell’UE in ambito culturale è complementare a quella degli
Stati membri (principio di sussidiarietà), disciplinata dall’articolo 6
del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE): “l’U-
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tà culturale e attività economica e
industriale, un’ibridazione portatrice di grande valore ma anche di
una complessità che non sempre
si può (o si vuole) capire quando
si cercano soluzioni semplici.
La Comunicazione Cinema di
fine 2013, che la Commissione
Europea ha approvato dopo un
lungo periodo di consultazioni rivedendo la precedente del 2001,
è il documento ufficiale recente
più importante per comprendere
il presupposto teorico dell’intervento pubblico a sostegno delle
imprese. Per quanto vi si richiami, infatti, l’importanza dell’industria audiovisiva europea per la
crescita economica dell’Europa e
il suo ruolo predominante su scala globale, ribadisce che il regime
degli aiuti pubblici all’audiovisivo può essere compatibile con il
Trattato solo se promuove la cultura. Si basa, quindi, sul principio
di eccezione rispetto alle regole
generali sugli aiuti di Stato.
nione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione
degli Stati membri”, declinato poi
nell’art. 167.
L’intervento anche finanziario dello Stato nell’audiovisivo è
quindi ispirato alla funzione fondamentale di promozione culturale e pertanto rientra nelle competenze del MiBACT. Le linee
guida che storicamente hanno
aggiornato strumenti e formule di
intervento, dagli aiuti diretti agli
incentivi fiscali, hanno sempre
riaffermato il principio di fondo,
agganciando a parametri e dispositivi di “culturalità” (dal concetto di Interesse Culturale Nazionale al test di eleggibilità culturale
per accedere ai benefici fiscali)
ogni azione di sostegno.
Questo è il nodo cruciale nel momento in cui si pensa a una riforma: se “culturale” è un’impresa di
esercizio cinematografico perché
programma prodotto culturale (quale è l’audiovisivo) e, contemporaneamente, è elemento
necessario per mantenere viva la
vita culturale di un centro citta-
dino, ovvero per promuovere la
cultura della socialità e l’avvicinamento alle opere cinematografiche da parte delle giovani generazioni, quanto si può estendere
questo “pensiero laterale”? È possibile superare concettualmente
il limite per cui è il singolo prodotto a essere culturale, avvicinandoci al punto essenziale per
cui è l’impresa - che fa e rende di-
sponibili prodotti audiovisivi, e
quindi produce cultura in varie
forme e formati - a fare un’”attività culturale” a 360 gradi? Questa
estensione non sarebbe affatto
nuova nel panorama delle policy
europee: il caposaldo del sistema francese è proprio questo. Un
sistema non è tale – o non regge se ogni componente non concorre in modo armonico al funzio-
NEL LINGUAGGIO DEL MERCATO
IL TERMINE ‘AUDIOVISIVO’ SI ESPANDE
IN FUNZIONE DELL’EVOLUZIONE TECNOLOGICA
Fra gli argomenti più interessanti oggetto del dibattito sulla riforma del sistema di intervento
statale emerge quello dell’opportunità di estendere l’oggetto
dal solo settore cinematografico
al più ampio settore audiovisivo.
Per audiovisivo, nel linguaggio del mercato, si intende tutta la produzione di immagini in
movimento destinata non prioritariamente, o, meglio, non
necessariamente alla sala cinematografica. Nel tempo il perimetro dell’”audiovisivo” si è definito ed espanso in funzione
dell’evoluzione tecnologica, ovvero della nascita e, in taluni casi, della sparizione delle diverse
piattaforme di diffusione, della
trasformazione e moltiplicazione dei supporti e delle tecniche
di veicolazione dei contenuti. Ne
consegue che, in termini generali, il cinema non è che un sottoinsieme dell’audiovisivo.
Va tuttavia rilevato che le tendenze generali dell’evoluzione tecnologica, ma anche delle prassi di
mercato, sono mosse essenzialmente dal transito delle tecniche
sia di realizzazione che di fruizione dal paradigma analogico a
quello digitale: ciò che cambia, si
evolve, si moltiplica sono quindi
la tecnica di produzione e gli strumenti di diffusione del prodotto,
più che il prodotto stesso.
Da punto di vista del mercato
quindi, la tendenza ormai consolidata vede una progressiva
emancipazione del prodotto, o
opera audiovisiva, dalla sua piattaforma di distribuzione, che
sempre più diventa marginale rispetto al destino distributivo e
commerciale del prodotto. Lo
stesso film, in altri termini, raggiunge il pubblico attraverso la
sala cinematografica, la televisione, il supporto per home video, la
piattaforma web, senza più una
gerarchia consolidata fra i diversi canali e senza una stretta identificazione con un canale specifico: il film non è necessariamente
solo l’opera che esce al cinema, la
fiction non più necessariamente
solo l’opera che esce in televisione e così via. Ciò che diventa quindi centrale nella nuova configurazione del mercato è il prodotto
in quanto tale, la sua qualità, e su
questa nuova consapevolezza sia
l’industria sia le istituzioni stanno
orientando le proprie strategie di
azione ed intervento.
namento complessivo: essendo
riconosciuto che la componente economica è fondamentale e
che le imprese sono le unità che
muovono il sistema e il mercato,
e quindi la creazione e circolazione delle opere, può essere forse
questo il momento di mettere a
fuoco diversamente, di riformare, anche gli obiettivi dell’azione
stessa dello Stato?
FATTI
Dossier di DG Cinema e ANICA
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SUL FRONTE GIURIDICO LA DEFINIZIONE DI ‘OPERA
AUDIOVISIVA’ NELL’AMBITO DELLA NORMATIVA ITALIANA
Sul fronte giuridico e regolamentare, il primo tentativo di definire
l’opera audiovisiva risale al Regolamento AGCom contenuto nella Delibera 30/2011/CSP, relativo
alla limitazione temporale dei diritti secondari. Si tratta di un regolamento dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, a cui
è affidato il compito di garantire il
rispetto delle norme relative al settore delle comunicazioni, con particolare riferimento al comparto
televisivo. È quindi con un regolamento di un’autorità indipendente, ovvero con uno strumento che
nella gerarchia normativa occupa
un posto decisamente subordina-
to, che per la prima volta ci si cimenta nella definizione dei contorni dell’articolata nebulosa che
costituisce l’opera audiovisiva: il
tentativo pionieristico fu interessante, almeno nelle intenzioni,
considerando che fino ad allora,
il 2011!, nessuno aveva proposto
una definizione di opera audiovisiva, né a livello statale né a livello
comunitario. In quel caso comunque la definizione di questa tipologia di opera si rendeva funzionale
all’individuazione dei diritti primari e secondari sull’opera stessa
e non ambiva ad assumere un valore definitorio di per sé.
Una più recente ed esaustiva defi-
nizione di opera audiovisiva, in attesa del testo della legge di riforma
di settore, va rintracciata nel Decreto MiBACT di attuazione della
Legge n. 112/2013, che convertiva
il Decreto Legge “Valore cultura”,
n. 91/2013. Tale Decreto Ministeriale, pubblicato nel marzo 2015,
contiene le disposizioni applicative per l’estensione del tax credit
ai produttori indipendenti di opere audiovisive. Assieme alla Legge
da cui discende, si tratta di un testo molto significativo nella storia
normativa del settore la cui competenza è attribuita alla Direzione Generale Cinema del MiBACT,
perché segna la data del primo in-
tervento di questo Ministero in un
ambito diverso da quello strettamente cinematografico, ovvero
nel settore audiovisivo appunto.
In assenza di una normativa e di
un apparato definitorio dedicato
al prodotto audiovisivo, e anche
in assenza di una esplicita attribuzione di competenza in merito
a questo prodotto, nel Decreto si
è resa necessaria la definizione di
un perimetro che circoscrivesse
l’area oggetto di sostegno. Ne deriva quindi la prima definizione di
“opera audiovisiva” nell’ambito
della normativa italiana, che vale
qui la pena di riportare integralmente (art. 2, comma 1, lettera a):
“Per ‘opera audiovisiva’ si intende la registrazione di immagini
in movimento, anche non accompagnate da suoni, realizzata su
qualsiasi supporto, con contenuto narrativo, documentaristico o di
animazione, tutelata dalla normativa vigente in materia di diritto
d’autore, destinata al pubblico dal titolare dei diritti di utilizzazione”.
L’opera audiovisiva è quindi individuata sulla falsariga della tradizionale definizione di “opera cinematografica”, da cui si
distingue essenzialmente per la
sua destinazione: mentre l’opera cinematografica è tale in quanto prioritariamente destinata alla
fruizione nella sala cinematografica, l’opera audiovisiva è destinata
al pubblico senza ulteriori specificazioni in merito alla tipologia di
piattaforma su cui viene veicolata.
Ne deriva che nell’insieme delle
opere audiovisive rientrano non
solo le opere cinematografiche
stesse, ma anche le opere televisive, le opere per il web e qualsiasi altra opera costituita da immagini in movimento, caratterizzata
da una struttura narrativa o documentaristica e in qualche modo destinata al pubblico. È evidente che, in prospettiva futura,
all’interno di questa definizione
sono candidate a ricadere tutte
le opere che abbiano le caratteristiche citate, indipendentemente dalla piattaforma di distribuzione o diffusione attraverso cui
raggiungeranno il pubblico, oltre
che, come già esplicitamente recita il testo del decreto, indipendentemente dal supporto su cui
saranno realizzate.
L’ESTENSIONE ALLE OPERE
AUDIOVISIVE DEL SOSTEGNO
PUBBLICO GESTITO DAL MIBACT
L’estensione del sostegno pubblico gestito dal MiBACT alle opere
audiovisive è uno degli argomenti più scottanti nel dibattito sulla
riforma del sistema. Va ricordato
che tecnicamente fino ad ora la
competenza sul prodotto audiovisivo non era esplicitamente attribuita a nessun Ministero e, del
resto, finora non se ne era posta la
necessità, in assenza di sostegni
pubblici a favore di tale oggetto.
Per precisione, è d’obbligo ricordare un unico precedente tentativo da parte del MiBACT di intervenire sul prodotto audiovisivo,
attraverso un progetto di sostegno alle emittenti televisive locali per la realizzazione di contenuti
autotpodotti, che si sostanziò nel
2002 con il Decreto Ministeriale
n. 147/2002, ma che non ebbe mai
effettiva applicazione. L’orientamento dell’Amministrazione, annunciato con il DL Valore Cultura e le sue applicazioni, è ormai
chiaro e quindi l’estensione della
competenza del MiBACT a tutto
ciò che riguarda l’audiovisivo dal
punto di vista del prodotto è ormai assodata. La prospettiva futura vede quindi l’aprirsi di opportunità di sostegno al prodotto
audiovisivo in quanto tale, qualsiasi sia il suo veicolo di diffusione
o distribuzione.
Il cambio di prospettiva è altresì
significativo perché rappresenta un importante passo verso la
consapevolezza da parte delle
istituzioni, che si allineano così
alle tendenze del mercato, che
sempre più il prodotto esiste indipendentemente dai veicoli e le
tecniche di sfruttamento, dalle
tecnologie e i supporti su cui viene realizzato e dalle prassi commerciali adottate per valorizzarlo
sul mercato.
L’INTERVENTO DIRETTO
DELL’UNIONE EUROPEA A FAVORE
DELLL’INDUSTRIA AUDIOVISIVA
A differenza di quanto è avvenuto,
almeno sinora, a livello statale, gli
interventi a favore del settore attuati da parte del livello territoriale superiore, ovvero l’Europa, e di
quello inferiore, ovvero le Regioni
e gli enti locali, sin dalla loro origine si rivolgono indistintamente
al cinema e all’audiovisivo. All’origine di questo orientamento ci
sono le motivazioni e gli obiettivi
che ispirano l’intervento di questi
soggetti nel settore, che non coincidono totalmente con quelli che
muovono il sostegno erogato dallo Stato.
Diversamente da quanto avviene nel caso dello Stato, l’intervento diretto a favore del settore
promosso dall’Unione Europea
fin dalle sue origini, ovvero dal
1991 quando nacque il primo Programma MEDIA – attualmente
sottoprogramma di Europa Creativa, è rivolto al settore audiovisivo nel suo complesso, di cui il cinema è un sottoinsieme, accanto
alle fiction televisive, i documentari, le opere di animazione, le
opere multimediali.
I principi ispiratori di MEDIA nascono infatti dalla volontà, espressa dalla Commissione Europea a valle di un approfondito studio del mercato dei media realizzato negli
anni ’80 e le cui evidenze principali sono state confermate
dalle analisi periodiche realizzate successivamente, di promuovere lo sviluppo dell’intera industria europea dell’immagine in movimento, con l’obiettivo di renderla competitiva con quella americana. Quest’ultima, infatti, vantava
alla fine del secolo scorso e, nonostante alcuni buoni risultati della politica europea in questa direzione, continua attualmente a mantenere una presenza molto significativa su
tutti i mercati: dalla sala cinematografica con una quota di
mercato pari a circa il 50% nella maggioranza dei paesi europei, ai palinsesti televisivi con note serie di straordinario
successo, all’offerta web con piattaforme on demand legali in grado di contrastare e competere con le proposte dei
media più tradizionali.
L’obiettivo dell’Unione Europea è quindi lo sviluppo di
un’industria audiovisiva forte e stabile, in grado di produrre contenuti di qualità e di penetrare il mercato interno in
misura significativa, al fine di promuovere le identità culturali europee attraverso l’audiovisivo. Per perseguire questo
fine tanto complesso, che riguarda essenzialmente la costruzione di una consapevolezza culturale europea attraverso l’arte e l’intrattenimento, la prima esigenza è quella
di raggiungere la maggior parte della popolazione, in tutte
le fasce sociodemografiche. È quindi evidente che l’intera
industria dell’audiovisivo debba essere oggetto di sostegno, sia sul fronte cinematografico che su quello televisivo,
sia poi sulle piattaforme digitali.
FATTI
Dossier di DG Cinema e ANICA
LE REGIONI INVESTONO
SECONDO ESIGENZE
E CARATTERISTICHE
DI CIASCUN TERRITORIO
A differenza di quanto avviene
per i fondi di sostegno nazionali e
sovranazionali, mossi da una motivazione che ha a che fare con la
valorizzazione dell’opera audiovisiva in quanto prodotto culturale e frutto di un impegno obbligatorio dell’amministrazione
pubblica nel sostegno
al settore, i fondi regionali nascono da una
volontà politica locale che a fronte di un investimento si aspetta
di ottenere un ritorno
che, di qualsiasi natura sia, deve giustificare
l’investimento stesso.
A differenza dello Stato, le Regioni non sono tenute a investire
nel settore audiovisivo:
se lo fanno è perché ne
traggono un vantaggio.
Questo è il motivo per
cui non tutte promuo-
56 - 57
vono fondi specifici di sostegno
al settore: alcune di esse hanno
investito in fondi regionali per un
periodo per poi decidere di ridimensionare e sospendere l’intervento, altre invece, alla luce dei
risultati positivi dell’investimento, hanno deciso nel tempo di aumentarne il volume e di ampliare
l’area di azione del proprio supporto.
Nello specifico, le motivazioni
che, a partire dal 2003 con l’istituzione del primo Fondo regionale italiano, hanno spinto le amministrazioni regionali a investire in
audiovisivo sono di diversa natura e nascono da esigenze e caratteristiche specifiche di ciascun
territorio. In una prima fase la
maggioranza di queste iniziative
era ispirata a obiettivi di tipo culturale, che avevano a che fare con
la promozione, il recupero e la valorizzazione delle identità locali attraverso le opere audiovisive.
A questa ispirazione, paragonabile allo spirito con lo Stato centrale investe nel settore, si sono presto affiancate iniziative regionali
fondate su obiettivi di natura più
specificamente economica, sul
modello dei fondi regionali tipici delle regioni del Centro e Nord
Europa: si tratta di iniziative che
come fine hanno lo sviluppo industriale del territorio, che si articola in una serie di incentivi rivolti allo sviluppo di imprese e
professionalità specializzate residenti sul territorio, all’aumento del tasso occupazionale locale, all’afflusso di capitali presso
le strutture di ricezione presenti
sul territorio, oppure all’incentivo all’immagine e di conseguenza
ai flussi turistici.
In quest’ottica, è evidente che,
dal punto di vista delle Regioni,
la destinazione prioritaria dell’opera sostenuta, sia essa il cinema
o qualsiasi altra piattaforma, diventa irrilevante, considerando
che gli obiettivi dell’investimento, qualsiasi sia la loro specificità, possono essere ugualmente
raggiunti attraverso il sostegno a
ogni tipologia di opera, sia essa
cinematografica o audiovisiva.
CINEMA ESPANSO
BARBIE,
di WENDY MIGLIACCIO
DIVA
Innovativa, emancipata, trasgressiva eppure rassicurante.
Capace di assimilare le mode e le trasformazioni della società
senza tradirsi mai. In poche parole, un’icona.
DAI MILLE
Di stile, di bellezza, di femminilità: il suo vero nome è Barbara
Millicent Robert, ma tutti la conoscono come Barbie.
VOLTI
Una storia lunga 56 anni raccontata nella mostra
Barbie. The Icon al Museo delle Culture di Milano.
CINEMA ESPANSO
arbie nasce nel 1959 da
un’intuizione di Ruth
Handler, moglie di Elliot, cofondatore della casa di giocattoli Mattel: fino a
quel momento le bambole rappresentavano per lo più neonati che
le bambine si divertivano a coccolare e accudire. Il 9 marzo invece i
negozi accolgono questa bella ragazza, dallo sguardo languido e il
corpo da pin-up, coperta solo da
un costume zebrato. Ed è chiaro
fin da subito che Barbie non si accontenta di essere un comune passatempo per bambine, ma vuole
raccontare una storia in continuo
divenire: la sua e, allo stesso tempo, quella del mondo femminile in
tutta la sua complessità.
Barbie infatti è frivolezza e impegno, famiglia e indipendenza, bellezza e personalità. Da quando è
nata ha seguito passo dopo passo i
cambiamenti della moda, degli usi,
dei costumi e del lavoro femminile. In oltre 50 anni di vita Barbie ha
intrapreso oltre 150 carriere: è stata astronauta, soldato, giocatrice di
basket, popstar e persino presidente degli Stati Uniti d’America. Non
si è mai trattato semplicemente di
giocare con i vestiti, con gli accessori o con le acconciature: le versioni
di Barbie legate alle professioni lavorative hanno ispirato milioni di
bambine, incoraggiandole a seguire i loro sogni e ad essere ambiziose,
per puntare in alto e credere in loro
stesse indipendentemente dalle costrizioni e dai pregiudizi.
Il mondo della moda l’ha sempre
considerata una modella d’eccezione: dal 1985 Barbie inizia a collaborare con stilisti prestigiosi
che vogliono vestirla con creazioni preziose e personalizzate. Curiosando tra i 448 pezzi esposti al
Mudec appare immediatamente
evidente il legame fortissimo tra
Barbie e la moda. Dagli Anni ‘50 ad
oggi la bambola della Mattel ha indossato 1 miliardo di abiti per 980
milioni di metri di stoffa, seguendo le tendenze dei vari decenni,
osando e sperimentando.
Non solo moda: Barbie ha attra-
B
versato trasversalmente tutto il
mondo dell’arte, compresa la settima. Da Marilyn Monroe a Audrey
Hepburn, da Grace Kelly a Cher, la
Mattel ha riprodotto in versione
Barbie molte delle più celebri star
del cinema. Non solo: la stessa Barbie è diventata protagonista di film
per il cinema e per la tv.
In 56 anni di vita ha rappresentato 50
nazionalità diverse e ha raccontato i
cambiamenti del mondo filtrandoli attraverso i suoi occhioni dipinti,
con coraggio e leggerezza. Ha lottato contro il razzismo e il sessismo,
ha ammorbidito le proprie forme
per non sembrare troppo perfetta e
ha perso i capelli per incoraggiare le
bambine malate di cancro.
Barbie è circondata da una numerosa compagnia di amici e parenti, ma
non ha mai voluto essere ingabbiata in definizioni o status. Può essere fidanzata, amica, moglie, sorella
e madre ma allo stesso tempo riesce
ad essere semplicemente se stessa,
con una straordinaria modernità in
grado di anticipare i tempi.
Lo dimostra anche il rapporto difficilmente classificabile con Ken,
più amico che amante, che di Barbie è sempre stato una semplice
spalla e mai un co-protagonista.
Ma come per ogni diva che si rispetti anche Barbie non è riuscita a sfuggire alla crisi di mezza età:
nel 2014 le vendite della bambola sono crollate. La causa va rintracciata nelle nuove sembianze
dell’intrattenimento per bambini,
sempre più orientati verso la virtualità. Film d’animazione, videogiochi e social network hanno
conquistato un posto da protagonisti nello svago dei più giovani,
relegando Barbie ad un ruolo più
marginale. In un mondo popolato da aspiranti starlette e fashion
blogger Barbie non poteva certo
stare a guardare. La bella eroina è
infatti riuscita ad affermarsi anche
sui social: ha un account Instagram ufficiale, @barbiestyle, con
un milione di seguaci raggiunti lo
scorso 12 ottobre.
Perché nessuno può mettere Barbie in un angolo.
58 - 59
MA DAVVERO AL CINEMA
È UNO SCEMPIO?
di Gianni Canova
Mereghetti, nel suo Dizionario dei film, le assegna
quasi sempre una sola stellina (il minimo!), azzardando solo in rari casi la stellina e 1/2 (Barbie
Fairytopia, 2004; Barbie Pollicina, 2009). Leggendo le schede dedicate ai singoli film, i giudizi sono
sempre molto severi: si parla di insulsaggine, mediocrità, scempio. In alcuni casi, senza mezzi termini, si arriva a usare espressioni come “orribile
film in orribile animazione digitale”.
Tutto vero? Boh. Quel che è certo è che dal 2001 al
2015 Barbie è stata protagonista di una trentina di
film, tutti usciti direttamente in DVD, che l’hanno
portata a misurarsi con l’immaginario avventuroso più disparato: è stata moschettiera e ballerina,
ha fatto Il lago dei cigni e Lo Schiaccianoci, ha interpretato Raperonzolo e la Sirenetta, con una duttilità e perfino un mimetismo davvero sorprendenti. Vero esempio di star contemporanea, disposta
a riplasmare la propria identità su quella delle icone della storia dell’immaginario infantile, è diventata una diva per il pubblico femminile under 10.
Non c’è quasi bambina tra i sei e i dieci anni che
non abbia rivisitato i classici seguendo le sue orme
e le sue storie. Scempio? Forse. Ma il fenomeno è
più complesso di quanto non sembri a prima vista,
e andrebbe studiato invece che esorcizzato con
un’aggettivazione sprezzante. Anche perché pure
questo è uno esempio - ci piaccia o no - di cinema
espanso. Che magari fa orrore al critico militante,
ma funziona alla perfezione per il suo target di riferimento. Il che dovrebbe quanto meno indurci a
qualche ragionamento e a qualche cautela.
BE D
&
CINEMA
di NICOLE BIANCHI
L’opportunità di guardare un film
comodamente a letto ma al cinema.
Luciano Stella ci racconta Hart, nuovo spazio multiartistico
che deriva dalla ristrutturazione dello storico Ambasciatori
di Napoli. Senza che i cinefili più integralisti possano storcere
il naso, è garantita una fruizione di altissima qualità, nel rispetto
del rito del buio più assoluto, ma sorseggiando un calice
d’annata sul matrimoniale.
CINEMA ESPANSO
uando e come è nata l’idea di Hart?
Vi siete ispirati
a qualcosa di già
esistente?
Ho viaggiato molto e visto l’Electric Cinema di Londra (esiste
da 100 anni), l’Astor Lounge Film
di Berlino, così l’esercizio si è posto l’obiettivo di avere una struttura più ricca, diversificata, accanto alla riflessione sul futuro delle
mono-sale, sempre più appesantite dall’aspetto economico e da
considerare con un nuovo destino; l’idea di base è stata in seno per
molto tempo. Questo è un discorso che, per me, vale anche per la riprogettazione delle multisale: oggi
vanno ripensati gli spazi, non più
solo cinematografici.
Q
Quanti letti/posti si contano
esattamente, come si fruisce il
film nella nuova sala, come sono disposti i matrimoniali?
Possiamo contare 110 posti – poltrone e divani - di cui 5 letti da 3
posti ciascuno; i letti sono in prima fila. Ogni divano, poltrona o
letto, è provvisto di un tavolino
per la consumazione, perché dentro il cinema ci sono un ristorante
e una cucina, quindi la formula è
cibo&cinema, ma anche musica,
perché c’è anche una grande pedana da club musicale, con la sala insonorizzata appositamente.
Lo spettatore come ‘si siede’?
Può mettersi sotto le coperte,
appoggiarsi a un guanciale?
C’è un equivoco sul termine ‘letto’: lo spettatore, ovunque sieda,
ha un poggia piedi davanti a sé,
che è anche una scatola in cui può
mettere la borsa o quel che desidera, lì dentro si trova anche una
copertina di pile. Lo spazio davanti a ciascuno è molto grande,
perché l’Ambasciatori aveva 350
posti. Quando parliamo di letto
non pensiamo a un letto con le
lenzuola, ma a un enorme sofà,
in tutto e per tutto nello stile delle poltrone, dove ci sono le stesse copertine delle altre sedute e
si poggia poi la testa alla spalliera
con dei cuscinoni.
60 - 61
dai 25 ai 70 anni; man mano stiamo mettendo a punto la macchina, nel suo piccolo complicata:
le maschere in sala sono anche le
persone che servono a tavola, durante la proiezione quelli del bar
in sala lavorano, nel silenzio necessario ma non potendo non esCome avete ovviato al ‘perico- sere presenti.
lo’ della distrazione per quello
che può accadere intorno, co- Che tipo di programmazione
me il bar, o come avete consi- contate di fare?
derato il pericolo del sonno, in Abbiamo iniziato con Dio esiste
virtù della comodità del letto? e vive a Bruxelles, poi a gennaio
Se la persona è stanca, si addor- abbiamo aperto l’anno con Fasmenta dappertutto, quindi non sbender nel Macbeth; inoltre recutemiamo succeda per via del let- periamo film che il mercato qualto. Per quel che riguarda il cibo, che volta può aver un po’ strizzanaturalmente non si mangiano to, quindi paradossalmente anspaghetti con le vongole, ma cibo che il ‘cinefilo fondamentalista’
gourmet accompagnato da una può recuperare un titolo imporcantina di vini significativa, quin- tante.
di non è una degustazione al tavolo, ma un ‘mangiare light’.
Non avete mai pensato che potesse sembrare una scelta un
La sala cinematografica è sino- po’ troppo azzardata, sopratnimo di buio: la sala di Hart co- tutto per un ‘cinefilo puro’?
me ci fa i conti?
Ma chi sono i ‘cinefili puri’? RiMolto bene! La sala ha anzitutto spondo da spettatore: piango
una luce tradizionale con grandi per Nemo, mi piacciono Moretti
lampadari – l’allestimento è tipo e Batman, quindi sono uno spetAnni ’30 - poi c’è un soffitto me- tatore trasversale e come tale
raviglioso in cui abbiamo investi- amo anche la musica: da spettato, dove c’è una volta con una re- tore, dunque, poter avere un luogia di giochi di colore, che creano go dove la visione cinematografil’atmosfera rispetto a quello che ca è perfetta - volendo ho anche il
sta per succedere, ma con l’ini- piacere di una degustazione o di
zio della proiezione diventa tutto una recita pianoforte&poesia in
buio: abbiamo una cabina digitale stile Beat Generation - mi seme un dolby magnifico, con l’inso- bra una proposta culturale in cui
norizzazione che abbiamo fatto si anche la ‘purezza cinéphile’ può
sente perfettamente, così come trovare un proprio appagamento;
perfetta è la proiezione tutta.
Hart è un posto di grande ricchezza tecnologica, di grande fascino
Quanto, dal giorno dell’apertu- d’ambiente, con bistrot a pranzo
ra - inizio dicembre - sta frut- e brunch la domenica. Hart lavotando questa nuova versione ra dalla mattina alla sera: questa è
dello spazio? E che tipo di pub- la vera sfida imprenditoriale! Voblico frequenta la struttura?
lesse Dio ne facessero altri di luoC’è un grandissimo interesse da ghi così in Italia!
parte della gente, il pubblico è
molto trasversale: un successo
IL CINEMA
CONTRO
LA GUERRA
di CRISTIANA PATERNÒ
È nata come reazione
ai fatti dell’11 settembre
la Fondazione
Cinema for Peace,
attiva sui temi
del pacifismo,
dell’ambiente
e dei diritti umani
col sostegno
di artisti, cineasti
e politici.
stato l’artista cinese Ai Weiwei a presiedere alla scorsa Berlinale la giuria
della quindicesima edizione del
Cinema for Peace Award: una
giuria molto particolare ed estesa che comprende 150 personali-
È
tà del mondo del cinema e della
cultura, tra cui membri dei Golden Globe e dell’Academy e tutti
vincitori delle passate edizioni del
premio. Ai Weiwei è uno dei più
importanti artisti contemporanei
ed è stato anche autore di documentari, censurati e proibiti in Cina. Nel 2011 poi è stato arrestato,
incarcerato per 81 giorni e quindi tenuto agli arresti domiciliari
per aver criticato il suo governo e
portato l’attenzione internazionale su alcuni casi di violazione
dei diritti umani con la sua opera.
Ci sono state forti proteste internazionali e la Fondazione Cinema for Peace ha reso visita all’artista a Pechino e l’ha sostenuto
con una serie di iniziative sia presso la Fondazione Beyeler a Basilia, nell’ambito di Art Basel, sia al
Martin-Gropius-Bau di Berlino.
Solo nel luglio 2015 le autorità cinesi gli hanno restituito il passa-
porto permettendogli di partire
per la Germania, dove ha iniziato l’attività di guest professor alla
Universität der Künste di Berlino.
Nata come reazione agli eventi
dell’11 settembre, negli ultimi 15
anni Cinema for Peace ha raccolto oltre 10 milioni di euro raggiungendo circa 10 miliardi di contatti.
Tra i suoi attivi sostenitori ci sono
personaggi dello spettacolo come
Angelina Jolie, Nicole Kidman, Julia Roberts, Charlize Theron, Leonardo DiCaprio, George Clooney,
Sean Penn, Richard Gere, Ben Affleck e Brad Pitt, ma anche personalità come il segretario generale
dell’Onu Ban Ki-moon, il Premio
Nobel Mikhail Gorbaciov, Bill e
Hillary Clinton, Desmond Tutu
e il Dalai Lama. La fondazione ha
organizzato centinaia di eventi e
realizzato campagne su temi caldi come la guerra, l’ambiente e l’emergenza rifugiati. Ha finanzia-
to diversi film, ha collaborato alla
costruzione di una sala cinematografica in Palestina, la lavorato alla diffusione della consapevolezza contro l’antisemitismo in
Germania, ha creato una videoteca del genocidio e fondato ‘Help
Haiti Home’ insieme a Sean Penn.
Nel 2015 il documentario The Voices of Srebrenica, prodotto da Cinema for Peace col sostegno del
Ministero degli Esteri tedesco, è
stato mostrato a Potocari in occasione del ventesimo anniversario del massacro. Ban Ki-moon
si è congratulato con Cinema for
Peace con queste parole: “Ogni
volta che vi impegnate con la comunità artistica a promuovere
i diritti umani e la giustizia, aiutate le Nazioni Unite nella loro
missione di pace”.
Maggiori informazioni sul sito
www.cinemaforpeace.com
DISCUSSIONI
SBAM!
TANTO I FILM
LI GUARDO
SUL TABLET
di ALICE BONETTI
oltanto uno schermo. È questo ciò che
rimarrà dell’Apollo, storico cinema
milanese, che chiuderà i battenti per lasciare spazio a un gigantesco cubo di cristallo, un Apple
Store. La Soprintendenza ha promesso di erigere uno degli schermi della sala all’ingresso del futuro negozio. Magra consolazione:
la decisione dell’Immobiliare Cinematografica di vendere lo stabile all’azienda di Cupertino resta un boccone amaro da digerire.
Tuttavia, benché sin dalle prime
S
ore dalla diffusione della notizia internet sia stato invaso da
petizioni e proteste, la chiusura dell’Apollo sembra, in realtà,
aver diviso l’opinione pubblica:
si tratta di un sacrificio in onore
della modernità o un mero “processo di standardizzazione” delle grandi città? Uno schiaffo alla cultura o un segno inevitabile
dei tempi che cambiano? Quel
che è certo è che la storia del
cinema Apollo è soprattutto la
storia di Milano e della sua gente e ci è quindi sembrato doveroso chiedere ai diretti interes-
sati quale fosse la loro opinione.
I meneghini doc, over 30 soprattutto, sono i più sconcertati dalla chiusura del cinema: la sala
era per loro “un luogo magico,
di aggregazione e di ritrovo” e
in molti avanzano la necessità di
trovare un nuovo spazio al cinema Apollo provando a “riutilizzare sale parrocchiali in disuso o sale storiche del cinema
d’essai milanese come l’Orchidea, il De Amicis o lo Gnomo, in modo da realizzare un
piccolo distretto del cinema
di qualità”.
DISCUSSIONI
A Milano i cinema chiudono. Che fare?
Molti cinefili rimpiangeranno l’Apollo per l’importanza che dava
a una certa tipologia di cinema:
“la perdita di una sala come
questa significa la scomparsa
di tanti film d’autore che nei
multisala non programmano.
Una città che non solo permette, ma incoraggia la chiusura di
cinema e teatri è irresponsabile. I danni ci saranno e si conteranno dopo”. In un mercato cinematografico dominato sempre
di più dai multisala e dai kolossal
ipertecnologici è difficile scommettere sul
cinema d’essai anche
se esempi ben riusciti esistono e in questo
senso viene ricordato
il Beltrade di Milano:
monosala rilanciata
negli ultimi anni grazie all’operazione di
restyling dell’associazione Barz and Hippo,
che ha deciso di puntare la programmazione solo su documentari o film con tematiche ambientali e sociali.
C’è poi chi riflette su come le città in cui viviamo si stiano ormai
trasformando “in vere e proprie
Disneyland, con strade, negozi, centri commerciali tutti
uguali. Tra qualche anno non
riusciremo più a distinguere
New York da Londra e Parigi
da Milano”. Esagerati? Non poi
così tanto. La vita di strada, quella magnifica costellazione fatta di
caffè, bar, librerie, cinema e teatri, che così tanto rappresentava l’Italia e l’Europa, ha lasciato
il posto a un’apparente vitalità,
che dura solo fino allo spegner-
si dei LED di vetrine tutte uguali a se stesse. Cosa ha fatto sì che
il modello piccolo borghese dei
saldi di fine stagione e della tv serale (forse sarebbe meglio dire
streaming serale?) trasformasse
le nostre città in “non-luoghi” in
cui vivere? Domande un po’ naif
che lasciano il tempo che trovano, direte voi, e che si infrangono di fronte alle considerazione
decisamente più pragmatiche di
molti dei giovani intervistati che
ci ricordano come tutto questo
vero e proprio luogo di culto, santuario delle moderne tecnologie
di comunicazione. E tra i fedeli
c’è chi confessa: “fosse successo qualche anno fa mi sarebbe
dispiaciuto che un cinema storico chiudesse…ma adesso che
mi sono convertito a Apple, l’idea di avere uno Store sotto
casa è un sogno che diventa realtà”. E proprio nel flusso di parole celebratrici di questa manifesta schizofrenia targata Apple,
ecco emergere il commento più
sincero e lapidario: “tanto i film
li guardo sul tablet quindi ben
venga l’Apple store”. SBAM!
Eccola qui la cruda verità, quella a cui nessun cinefilo purista e
nostalgico vuole davvero credere. Perché sì, ormai i film si vedono anche sui tablet, sugli iPad
e su tutti quei micro schermi che
invadono le nostre case. Ma più
64 - 65
cinematografica nelle sale? Forse è presto per dirlo ma di sicuro,
come ha detto recentemente un
malinconico Woody Allen, “sarà
un’esperienza molto diversa
da quando ti alzavi la mattina
e non stavi più nella pelle perché sapevi che più tardi saresti andato al cinema. Le sale
erano grandi e bellissime, la
gente aspettava in coda sotto
la pioggia e l’intera esperienza aveva qualcosa di magico.
Ora è un’altra cosa”. E così il
fatto che un Apple Store prenderà il posto di un cinema storico come l’Apollo alla lunga non
sconvolgerà più nessuno. Cinicamente in molti dicono: “ricordate il Teatro Smeraldo
e il nuovo Eataly? Tutti a gridare allo scandalo e poi... tutti da Eataly. Ora tutti a gridare alla morte della cultura, ma
A Milano chiude lo storico cinema
Apollo per fare spazio a un Apple Store.
8½ ha intervistato spettatori comuni
e illustri per capire meglio.
in fondo sia solo “l’esempio dei
tempi che cambiano. 60 anni fa i teatri diventarono cinema e oggi i cinema diventano
Gap, Banana Republic, Eataly,
H&M, Zara e perché no Apple”. Già perché no? È solo un’altra pagina di storia d’altronde.
Quel che è certo è che la chiusura del cinema Apollo renderà appagati e soddisfatti una categoria
decisamente in auge negli ultimi
anni: i Mac-addicted o Mac-fanatici, che dir si voglia. Per loro Apple non è solo un marchio ma una
vera e propria religione (sarà un
caso che il simbolo dell’azienda
sia proprio una mela addentata?)
e l’Apple Store, ovviamente, non
è solo un semplice negozio ma un
che l’esperienza cinematografica
in sé, a essere cambiato è prima
di tutto il pubblico. I suoi interessi e le sue esigenze sono mutate nel corso degli anni e così l’idea stessa di esperienza filmica
si è trasformata nel tempo. Questi piccoli schermi, che diventano sempre più grandi nella qualità dell’immagine, porteranno
alla scomparsa dell’esperienza
fra qualche mese saranno tutti all’Apple store a comprare il
nuovo iPhone7”. Tristemente
vero. Darwin e la sua maledetta
evoluzione. E strappa un sorriso
amaro pensare che in fondo Apple è quasi l’anagramma di Apelle… che era il figlio di Apollo, no?
APOLLO,
APPL E
E GLI SCHERMI
RAPITI
di STEFANO STEFANUTTO ROSA
el centro di Milano c’erano una volta i cinema Excelsior, Mignon, Astra,
Mediolanum, Ambasciatori, Pasquirolo, President, Corallo, Corso, Ariston, Manzoni e Cavour. Al
loro posto ora centri commerciali perché più redditizi. Rimangono in piedi solo l’Arlecchino e
l’Odeon, quest’ultimo nel 2017
ridimensionato per farne un’appendice del grande magazzino La
Rinascente. Sparirà entro l’estate
anche l’Apollo che da un decennio
programma nelle sue 5 sale film di
qualità e d’autore accanto a pre-
N
Le quattro testimonianze
sono a cura di Stefano Stefanutto Rosa
ziose rassegne. “Nel 2015 ha fatto
oltre 306mila presenze con un incasso di 2 milioni di euro. L’Apollo è un’impresa sana, la chiusura
di questo presidio culturale, riferimento importante per i milanesi,
costituisce una grave perdita per la
città” dice Lionello Cerri, socio
al 50% nella gestione del cinema.
L’altra metà fa riferimento alla società proprietaria dei locali che sono stati venduti all’Apple, per farne uno store. “Abbiamo accettato
nostro malgrado la decisione perché costretti, quando fai una società in due al 50%.
Nell’Apollo abbiamo investito
soldi e energie. I soldi li abbiamo
ripresi, ma noi viviamo di iniziative per il cinema e questo è uno
stop che fa male”.
In rete la protesta si è fatta subito
sentire, in poco tempo oltre 15.000
le firme raccolte per dare una nuova sede all’Apollo. “Chi ama il cinema ritiene che sia un’espressione
culturale necessaria alla crescita di
ogni cittadino, e dunque da proteggere come il teatro, le sale da concerto, i musei”, aggiunge Cerri.
Dalla giunta di Milano il generico impegno a trovare una sistemazione alternativa per l’Apollo,
ma nessun intervento sulla ven-
dita all’Apple perché la trattativa
riguarda i privati. Ma una politica
culturale non dovrebbe indirizzare le scelte di spazi di interesse collettivo e progettare un centro della città che non sia solo la vetrina
di grandi marchi? E perché non un
intervento pubblico sul cambio di
destinazione d’uso di sale cinematografiche che funzionano? E ancora perché non una politica fiscale che incentivi e non penalizzi
l’esercizio cinematografico?
Ad alcuni milanesi importanti un architetto, un regista, un attore e un giornalista - abbiamo chiesto che cosa ne pensino.
DISCUSSIONI
A Milano i cinema chiudono. Che fare?
a ragazzo era fantastico andare in corso Vittorio Emanuele, una sorta di
Broadway, magari senza avere
un’idea precisa di quale film vedere, ma bastava leggere il programma delle tante sale che s’affacciavano sul corso. Il centro era
allora pieno di persone, di giovani. Oggi sono rimasti solo l’Apollo e l’Odeon che presto verrà ridimensionato. Ed è difficile trovare
anche un teatro. Così la sera dopo
le 10 il centro è quasi deserto. Mi
fa ancora più specie che un cinema venga ceduto e trasformato
in uno store di una multinazionale, ancora una volta americana,
e non ci vengano a dire, come ha
fatto qualche assessore comunale, che la Apple fa cultura. Sarebbe come sostenere che il tram che
ci porta in libreria fa cultura. Mi
aspettavo che l’attuale giunta ponesse più attenzione alla cultura.
Se Milano vuole diventare, come si va ripetendo da tempo,
ancor di più dopo l’Expo, il motore trainante dell’Italia, anche
in rapporto con le capitali europee, non può dimenticare il cuo-
D
re di qualsiasi civiltà: la cultura.
È vero, il consumo del cinema va
ripensato, non sarà più la sala il
momento centrale. Le nostre città dovrebbero munirsi, come già
avviene nelle capitali europee,
di cityplex facilmente accessibili: cinema con due, tre sale, con
schermi non enormi, comode
e tecnicamente molto avanzate. Perché uno zoccolo duro del
pubblico cinematografico esiste,
e ci sarà sempre la voglia di stare
in una caverna buia e vedere proiettati i propri incubi e i propri sogni, e scambiarli per veri, come ci
raccontava Platone.
Al cinema Apollo sono andati tutti i miei film degli ultimi dieci anni, a cominciare dalle anteprime.
Mi fa pensare a una di quelle sale
che un tempo il pubblico sceglieva perché si fidava della programmazione, come se quel cinema
svolgesse una funzione editoriale. Chiuderlo è da sciocchi, perché pochi paesi come il nostro
hanno creato il loro mito con la
cultura e in particolare con il cinema a partire dagli Anni ’60 in
poi. Insomma quanto accade mi
sembra folle o forse molto lucido.
Antonio Albanese
“Una sala è come
una chiesa”
Apollo è un cinema
con più sale, piacevole e importante,
che puoi facilmente raggiungere in metropolitana,
che propone sempre buoni film,
e ti dà la possibilità di fare una
passeggiata, di mangiare qualcosa perché non è ghettizzato, non
sta in periferia. Capisco i meccanismi economici, ma considero la sala cinematografica un
L’
66 - 67
Gabriele Salvatores
“Chiuderlo
è da sciocchi”
po’ come una chiesa e quando
una chiesa viene sconsacrata di
solito viene adibita comunque a
spazio culturale, di incontro. Per
un’attività commerciale al posto
dell’Apollo si poteva allora, forse
con l’aiuto del Comune, trovare
un’altra sistemazione.
Come accaduto per il Teatro
Smeraldo è sempre un dolore vedere un punto di riferimento sparire, perché si crea un vuoto.
Il teatro, come il cinema, è uno
spazio sacro. Allo Smeraldo ho
visto Giorgio Gaber, la compagnia catalana La Fura dels Baus,
Enzo Jannacci.
Una perdita incredibile, come quando ha chiuso la galleria
Mazzotta, che ospitava mostre
bellissime, davanti al Piccolo Teatro. Più passa il tempo, più noi
avremo bisogno di incontro fisico e di fermento corporale, la
tecnologia ci porta lentamente a questa necessità. Ma se non
abbiamo punti di riferimento o
spazi la cosa si fa triste.
Dovrebbero entrare in vigore leggi che non consentano con questa facilità il cambio d’uso di una
sala cinematografica.
E poi il cinema va visto solo in sala perché ci sono dei signori registi che realizzano immagini per
il grande schermo sviluppando
un’idea e un’atmosfera nel migliore dei modi.
Se poi qualcuno vuole vedere
un film nel palmo di una mano,
perdendo la vista, capendo poco, non riconoscendo una profondità, uno sguardo… beh, è
questione di gusti.
Non perché la tecnologia mi porta a quello e io mi adatto, lo faccio
solo quando le cose mi piacciono
e mi fanno godere.
Stefano Boeri
“Il Comune doveva negoziare”
a vicenda dell’Apollo andava gestita in
modo diverso per
una semplice ragione: l’Apollo non è in deficit, come
è invece successo per la gran parte dei cinema che hanno chiuso,
è gestito con intelligenza e ha un
pubblico fidelizzato. Quando un
soggetto come Apple arriva a Milano, anche se si tratta di un privato che ha tutta la libertà di permettersi una contrattazione con
altri privati in autonomia, occorre che un’amministrazione comunale intervenga, almeno negoziando il fatto che la perdita di
una struttura di alto profilo culturale e sociale come l’Apollo è
una penalizzazione per la città.
L
Finché sono stato assessore alla Cultura di Milano avevo cercato di gestire la vicenda Apple
in modo differente, offrendogli
uno spazio straordinario come
il secondo Arengario in cambio
della possibilità di espandere nel
secondo Arengario, una parte del
Museo del Novecento.
Un’amministrazione che si confronta con un soggetto come Apple non può pensare che si tratti
di un qualsiasi centro commerciale, così come non può ritenere
che l’Apollo sia l’equivalente di
un negozio di scarpe. Sono questioni sulle quali un’amministrazione, anche se priva di un potere
formale e giuridico, ha un potere importante sul piano politico
e culturale dell’autorevolezza.
La moria dei cinema ha tra le
cause anche una certa pigrizia di
idee da parte dell’esercizio e della distribuzione. Perché non proporre in sala maratone delle serie
tv americane? Perché non creare un distretto dei cinema d’essai composto da 4/5 sale, tra loro
vicine, e con una bigliettazione
unica o integrata.
Certo il cinema compete con altre modalità di fruizione, ma resta un’esperienza unica e irrinunciabile come dimostra il
successo Zalone. Il problema
non è allora il cinema in sé ma il
fatto che mancano nuove idee,
che la politica non se ne occupa
e che gli operatori sono distratti.
DISCUSSIONI
A Milano i cinema chiudono. Che fare?
ome fermare questa
strage di cinema? Il
Comune di Milano
dovrebbe modificare le proprie regole sul cambio
di destinazione d’uso delle sale.
Dopo decenni di rigidità assoluta, sull’ondata di un innamoramento collettivo del liberismo e
di una liberalità assoluta, entrambi per me sbagliati, la stragrande
maggioranza dei cinema di corso Vittorio Emanuele si sono trasformati in centri commerciali.
In altri comuni, come Bologna,
non è così semplice cambiare la
destinazione d’uso dei cinema.
C
68 - 69
Paolo Mereghetti
“Così il centro città
si spopola”
Così si ritiene che il cinema non
sia solo un’attività commerciale più o meno redditizia, ma che
abbia un valore di produzione
culturale, di vivibilità della città.
Inoltre il Comune dovrebbe intervenire con provvedimenti a
sostegno della sala. A Bologna
i cinema non pagano più alcune imposte, riscosse in altre città, come l’IMU, la tassa sull’insegna, sui rifiuti. Si dovrebbe allora
attuare una legislazione coerente affinché le attività culturali
non siano confinate nelle periferie, favorendo la loro sopravvivenza nei centri cittadini affollati di banche e grandi magazzini.
L’assessore alla Cultura di Milano
Filippo Del Corno sulla chiusura
dell’Apollo si è trincerato dietro
un’asserzione di liberismo assoluto: è il mercato che lo chiede.
Questa politica dello struzzo ha
portato alla desertificazione di
una via centralissima che alle 9
di sera è buia e si spopola quando
negozi e grandi magazzini chiudono. Credo che il mercato, in
una civiltà complessa come quella occidentale, debba essere sottoposto a limiti e regole.
Non dimentichiamoci poi la politica attuata dal governo nazionale di sinistra nel favorire l’apertu-
ra dei multiplex che è avvenuta
nella totale mancanza di regole.
Allora si sosteneva che tante sale avrebbero corrisposto a tanti titoli diversi, a tante possibilità differenti. E ora ci ritroviamo
con solo tre film che inondano le
sale dei multiplex.
Quando dicevamo quello che sarebbe accaduto, passavamo allora per pericolosi nemici della libertà, e invece avevamo ragione.
La sala non attrae più il pubblico, sostiene qualcuno. Come la
mettiamo con gli incassi dei film
di Checco Zalone? La verità è che
un certo tipo di cinema non è in
crisi e un altro sì.
Steno (Stefano Vanzina)
Come si deve morire ammazzati
da “Quarta parete”, 25 ottobre 1945.
sei mesi dalla liberazione del Paese e poco meno di due dalla fine ufficiale del secondo conflitto mondiale, i fantasmi della guerra e del fascismo si materializzano ancora tra le pieghe della
finzione cinematografica e altrimenti cominciano a cristallizzarsi in un immaginario memoriale condiviso, soggetto a processi di revisione, manipolazione e creazione, secondo criteri
estetizzanti otre che d’opportunità. Stefano Vanzina, che fin
dai tempi delle prime caricature su “La Tribuna Illustrata” si
firmava Steno, è già collaboratore di Mario Mattioli – prevalentemente come sceneggiatore – quando tenta su “Quarta
parete” un’originalissima riflessione sull’estetica della morte
violenta nel cinema, con un sarcasmo e un gusto macabro che
non poteva che venir dal “Marc’Aurelio”, dove pure era già
comparso come vignettista. L’ipotesi, raffinatissima nei riferimenti e assai scrupolosa nel dar conto del costume dell’epoca
– il “cadaverismo la cui documentazione in rotocalco dilaga
settimanalmente dagli ebdomadari ‘gialli’ che fanno capo a
Crimen, che si potrebbe anche definire ‘La Domenica del giustiziere’” – è retta da un’argomentazione assai seria sulla funzione della storia nella definizione di un’estetica della violenza e viceversa sul potenziale riflessivo e auto-riflessivo di una
tale estetica: un potenziale che si riverbera nel gesto plastico
del “morto ammazzato”. Dalla Grecia classica nella morte di
Ettore, all’epoca romantica della morte guascona di Cirano.
Che dire dunque dei giorni dell’immediato dopoguerra italiano, dove l’immagine “spettacolare” dei corpi appesi in piazzale Loreto produce un problema non (ancora) etico, ma estetico: è sufficientemente cinematografica la morte di Starace?
Con un acume notevole Steno riflette sull’impatto scenico e
per l’appunto “spettacolare” delle morti di quelle che l’autore
chiama “le ultimissime belve della tragedia europea” e in gen-
A
erale sul potere estetizzante del cinema nella rappresentazione della violenza: un “Pietro Koch muore pensando evidentemente a certo cinismo Metro Goldwyn di alcuni personaggi
interpretati da Cesar Romero”. Chiudendo sulla morte “con
perfetto stile” di Anna Magnani in Roma città aperta, Steno si
ferma a un passo dalla morale, ma la sua riflessione affonda in
due sostanziali questioni. Entrambe rimandano a due rispettivi “rimossi” della cultura italiana. La prima riguarda una falsa tendenza a considerare il gusto del macabro e in generale
del “terrorifico” come marginale nella cultura italiana moderna – per lo meno quella visiva e spettacolare (per esempio,
solo recentemente si sono ripercorse criticamente le radici
culturali pervasive e diffuse di un’estetica del cinema orrorifico italiano) –, la seconda riguarda il rimosso per eccellenza:
la complessissima elaborazione della violenza del fascismo,
e soprattutto della guerra civile con la maturazione della Resistenza. Il distacco innegabile con cui Steno affronta l’argomento è impressionante, ma anche intelligentemente dosato
e strategicamente efficace. L’argomento è scottante. Il clima
in quei mesi è ancora tesissimo e la diffusione di quel “cadaverismo” di cui parla è sintomatico di un’aria di morte che si
respira nelle città e nelle province italiane, ancora alle prese
con i “conti in sospeso”. L’elaborazione della morte e della violenza che si avvia in quei mesi e che passa, nel nostro Paese,
anche attraverso una complessa estetizzazione – per esempio
nei rotocalchi e attraverso la funzione mediatrice del cinema – non è però tanto catartica e clamorosa, come nell’antica
Grecia, quanto piuttosto sotterranea, strisciante: scorre sommessamente e surrettiziamente per sedimentarsi, progressivamente, sul carattere degli italiani.
Steno, futuro, massimo artigiano della commedia italiana, lo
sa benissimo.
di Andrea Mariani
IN QUESTO NUMERO UN ARTICOLO ESTRATTO DALLA RIVISTA
“QUARTA PARETE”
n° 4, 25 ottobre 1945
articolo a firma di Steno (Stefano Vanzina)
FOCUS
EGI TTO
di ROBERTO SILVESTRI
DENOMINAZIONE: REPUBBLICA ARABA D’EGITTO,
SUPERFICIE: 1.002.450 KM²
DENSITÀ: 84 AB./ KM²
POPOLAZIONE: 89.824.976
CAPITALE: IL CAIRO
VALUTA: STERLINA EGIZIANA LINGUA UFFICIALE: ARABO
FORMA DI GOVERNO: REPUBBLICA PRESIDENZIALE
FOCUS
Il Caso Egitto
n Egitto il cinema
arriva dalla Francia quasi subito.
Nel 1896. E fa colpo. Se è tunisino il primo lungometraggio arabo della storia, e se
non è egiziano, ma turco, il regista
del primo film egiziano della storia, Alessandria e Il Cairo domineranno comunque per decenni
l’immaginario dell’Occidente e
dell’Oriente arabo, del Maghreb,
del Mashreq e oltre. Anche perché l’indipendenza (formale)
dell’Egitto arriva prima, già nel
1922. Si festeggiò con uno spetta-
I
72 - 73
colo continuo e fiammeggiante,
perfino orientalista: con le dive
adorate della canzone, le scandalose danze del ventre di Taheya
Carioca e Naima Akef (su coreografie del Berkeley del Nilo, Wali el Dine Sameh), le armonie orchestrali arabesque ritoccate da
contaminazioni occidentali, i
remake hollywoodiani, i drammi rurali appassionanti, i thriller
di Kamal al-Cheikh (come Vita o
morte del 1954), le storie d’amore intrise di nazionalismo e valori
piccolo-borghesi che cercavano
di eludere, con allusioni sottili,
la ferrea censura sociale e morale impostata e imposta dal 1918
dagli inglesi e dall’Islam letteralista. Non si potevano attaccare né
le autorità politiche né quelle religiose né i capi di stato stranieri.
I conflitti anti-feudali erano banditi e così l’inneggiare al comunismo e alle moltitudini in lotta per
la libertà. Due film storici contro la tirannia e la corruzione nel
lontano passato ebbero problemi
per le allusioni palesi al presente
Con più di 3.000 lungometraggi prodotti in
80 anni, e una ricca tradizione letteraria,
musicale e teatrale alle spalle, l’Egitto è
tuttora una capitale del cinema mondiale
ed è l’unica industria cinematografica
araba, per quantità, qualità e strutture,
che esporta film al di qua e al di là dei
Paesi di cultura islamica.
EGYPT IAN WAY
OF LIFE
dispotico (Lasheen di Fritz Kramp
del 1938 fu poi sbloccato, mentre Laila, figlia del deserto di Bahiga Hafez del 1937 fu proibito). Si
soprannominò Opium Cinema
quel che si realizzò, di leggero,
in Egitto tra il 1938 e il 1945. Film
ambientati negli hotel di lusso,
in vacanza, alla Borsa, alle corse
di cavalli, al casinò. Melodrammi
consolatori della virilità messa in
discussione, nei quali comunque
le donne finivano abbandonate,
ammazzate, stuprate, suicide o in
manicomio, e i confini tra le classi sociali erano invalicabili come
muri. L’equivalente egiziano dei
“telefoni bianchi”, ma la connotazione lisergica promette e mantiene una lussuria visiva più narcotizzante, surreale e “ambrata”.
Poi, cacciato il re Faruk, garante
di una indipendenza solo formale da Sua Maestà britannica, le invettive suadenti ma inattuate del
“socialismo arabo” nasseriano
continuarono a tutelare la moralità patriarcale.
Ne sa qualcosa il più famoso e
amato cineasta egiziano della storia, Yussef Chahine (1926-2008),
che ha sempre fatto scalpore e
spesso rischiato il carcere per il
contenuto laico e libertario delle sue immagini, d’ogni genere e
stile. Saranno i suoi allievi (anche esuli, come Maghed el Madhi) a scoprire quel che si nasconde nell’inconscio collettivo
dell’Egitto ribelle, che non teme
lo scontro di piazza. Fino alle pesanti e certosine interferenze più
che censorie del wahabismo saudita tra XX e XXI secolo, diventato padrone dell’audiovisivo egiziano dopo il boom del petrolio
del 1973 e per più di un ventennio,
prima che il governo militare di
Abd al Fattah al Sisi, deposto l’odiato Mubarak, annientasse i Fratelli musulmani (Qatar), congelasse i Salafiti (Arabia Saudita) e
sganciasse il cinema dal controllo
soffocante dei petrodollari coranici e dei sunniti drastici.
Videocassette e tv cavo quasi distruggono il cinema de Il Cairo
quando Ryad e gli Emirati diventano padroni del gioco. Le sale
che erano 450 negli Anni ‘50, per
20 milioni di abitanti, diventano
150 negli Anni ‘80, per 80 milioni di abitanti… Cinema “della democrazia e della libertà”, dunque
diversamente represso, è stato via
via quello del patriarca Mohamed
Bayumi, delle tante registe donne e degli orientalisti “stranieri”
degli Anni ‘10 e ‘20; del proto re-
alismo contadino di Kamal Selim, Niazi Mostafà, Ahmed Badrakhan e Mohamed Karim degli
Anni ‘30. Quello surreale, danzante e “alla Cocaina” (dal titolo
di un suo film) di Togo Mizrahi
negli Anni ‘40 (caratterizzati anche dalle sperimentazioni linguistiche, fuori genere, addirittura
nella fantascienza, Magici occhi,
di Ahmad Jalal). Quello neorealista, metropolitano, impegnato e
perfino zavattiniano di Salah Abu
Seif, Yussef Chahine (con striature di fellinismo), Tewfiq Selah
e Henry Barakat degli Anni ‘50.
La ‘nouvelle vague’ misteriosa di
Chadi Abdel Salam e Hussein Kamal Anni ‘60. Ali Badrakhan e Attiat el Abnoudi, censuratissima,
ovvero la crisi nera degli Anni ‘70.
Mohamed Khan e Atef al-Tayeb,
cioè il neo-neorealismo critico
degli Anni ‘80. Il realismo magico
degli Anni ‘90 di Sharif Arafa (che
trasforma il comico in un tribuno politico e l’attore Adil Amam
in un Alberto Sordi meno accomodante con il Potere), di Yusri
FOCUS
Il Caso Egitto
Nasrallah e di Asma al Bakry, gli
allievi di Chahine. E lo street style teenager da XXI secolo di el Batout e Abdallah, che precedono la
rivoluzione, comunque irreversibile, del 2011. Troppo commerciale, troppo popolare, troppo
comico e “radiofonico” diranno i critici (soprattutto maghrebini) dell’imperialismo visuale
egiziano, come di quello indiano. Irritati da una rappresentazione così piatta e stereotipata della
personalità umana. Da un disinteresse sospetto per i valori visivi dell’immagine. Da una strabordante, inquietante presenza
simbolica della donna, nel comportamento e intenzionalmente troppo attiva, diva e padrona
della fiction… Eppure. Conosciamo poco di questo tesoro immaginario a due passi da noi e psicologicamente più complesso e
liberatorio di quanto non sembri,
come spiega Yusra, l’ultima super
star: “Attraverso i film e le dichiarazioni lottiamo contro un potere molto forte. Non siamo solo
molto coraggiose e schiette, e un
tempo ve ne renderete conto, ma
abbiamo successo”. Canti e danze fanno parte della vita, “non sono come i capelli nella minestra”
conferma Salah Abu Seif. L’immagine è tendenzialmente idolatrica
se osa rappresentare a tutto tondo l’essere umano che è copia di
ciò che sta nel più alto dei cieli?
Niente affatto. Va separata l’immagine blasfema di Dio da quella
mentale, metaforica, imprecisata.
L’ebraismo non fondamentalista,
oltre che “Charlie Hebdo”, le separa nettamente, anche con il disegno, o con i nomi, el o pesel è una
cosa, temunah un’altra. E il teologo modernista islamico, lo sceicco azharista Mohammad Abduh,
nel 1891 appoggia il nascente cinema scrivendo su Al Waqai: “bisogna eguagliare il livello estetico
dell’Occidente”. E nel 1928 su “Al
Manar”, Rida sentenzia: “L’Islam
non è mai stato contro l’immagine che esprime la bellezza dell’essere umano in movimento”. E
nel 1966 Salah Stétié attribuisce
all’Islam perfino una certa priorità cinetica: “Se è vero che l’arte musulmana, per alcuni aspet-
ti essenziali, punta soprattutto
a esprimere il cambiamento, mi
sembra che non ci sia arte come il
cinema che punti di più a chiarire la mobilità estrema degli esseri
e delle cose”. L’astrattismo, ricordava Apollinaire, non è una sorta
di elogio semiotico dell’arte islamica ossessionata dalle dinamiche metamorfosi floreali?
Gli egiziani e gli arabi adorano
dunque il cinema, la musica e la
danza. Intanto perché il piacere
del movimento e delle immagini in movimento sono intrinseci
alla cultura araba. Altro che iconoclastia. Si dice “ombre cinesi”,
eppure è pionieristica la passione
desertica per le storie raccontate
sotto le tende dai beduini con le
dita, le marionette (qaraqoz) e la
luce… Il canto e la danza sono poi
al centro di un teatro popolare
basato sulle suggestioni di cantastorie dalle antiche radici andaluse (hakawati) e sul balletto, corale e promiscuo, che adorna feste e
celebrazioni, sacre e laiche, e qualunque appuntamento extra lavorativo. La riproduzione musicale
su disco, nata nel 1904, la radio,
esplosa nel 1934, e il cinema sonoro, qui perfezionato nel 1935, sono
dunque stati oggetto di un diabolico desiderio consumistico. I soli sei film musicali della leggendaria cantante Om Kalthum, girati
quasi controvoglia dalla star tra il
1936 e il 1947, non hanno distrutto
né costruito il suo mito. “La voce
della stella dell’Oriente fa vibrare
l’anima anche se non si comprendono le parole delle sue canzoni”,
come spiegava il compositore sovietico Kachaturian. E conquistava tutti, nei concerti dal vivo, come nelle riproduzioni. Ma la sua
intelligenza le sconsigliava di esagerare con la recitazione, non altrettanto divina come le performance vocali che il cinema, anzi,
tende necessariamente a semplificare. Eppure il divismo canoro classico leggermente contaminato da valzer e rumba (nelle
performance di Mohamed Abdel Wahab e Chadia, Badr Lama e Laila Murad, delle libanesi
Asmahan e Nur el Hoda e del libanese Farid El Atrache, di Abdel
Halim Hafez e Shaba, anche lei libanese …) e modificato in star system sul modello hollywoodiano,
ha traghettato il cinema egiziano,
da lusso aristocratico-borghese a
consumo massa. È stato infatti il
carattere cosmopolita, modernista e femminista ante litteram del
Paese durante la Belle Époque, ad
attivare gli ingegni locali più inventivi di una società civile nazionalista, viva e intraprendente,
e ad attirare, specialmente nella Alessandria di Ipazia e Archimede, Durrel e Kavafis, Ungaretti
74 - 75
e Marinetti, artisti e tecnici, operatori, inventori e ingegneri da
Francia, Turchia, Cipro, Grecia,
Germania, Ungheria, Armenia,
Austria, Russia, Malta e soprattutto Italia...
Già. Proprio italiane sono alcune figure chiave del cinema egiziano, come Alvise Orfanelli
(1902-1961), che animò ad Alessandria nel 1917 la prima casa di
produzione locale, quando il nostro cinema, dopo Cabiria, era il
più spettacolare, audace e bello
al mondo, e che fu poi il maestro
di Yussef Chahine. Il napoletano
d’Egitto Mario Volpi (1894-1968),
autore con Istephan Rosti, del
primo film sonoro, secondo Samir Farid, anche se imperfetto
tecnicamente, Enshaudat el Fouadad, “Canzoni del cuore” (1931),
e il visionario alessandrino Togo
Mizrahi, figlio di ricchi romani,
studi in Germania, Francia e Italia, fondatore della Egyptian Film
Company, che sarà fino al 1948 e
alla nascita dello stato di Israele,
uno dei grandi maestri della commedia farsesca di derivazione teatrale (con gli attori Ali Al Kassar
e Fawzi al-Ghazaerly) e del musical classico (con Leila Murad
e Um Kalthoun) ma poi, rientrato nell’Italia postfascista dei suoi
antenati, fu colpevolmente dimenticato, qui e lì (forse perché
ebreo?). Senza la spinta autorevole di Roberto Rossellini, poi, il
talento new wave dell’alessandrino Shadi Abdelsalam non avrebbe mai scodellato il gioiello più
poetico sull’archeologia faraonica e anche l’unico film d’arte finanziato interamente dallo stato
egiziano, cioè La mummia, il capolavoro nubiano del 1969. Non
dimentichiamo comunque che
l’Egitto, prima ancora di ottenere una indipendenza sostanziale,
è stato il solo Paese colonizzato
capace di creare una forte industria nazionale del cinema che ha
potuto pianificare più di una dozzina di film l’anno tra il 1925, con
la fondazione della società di produzione Misr (in arabo vuol dire
Egitto), e il 1934, grazie agli studi
Misr voluti da Tal’al Tharb a Giza, sulla strada per le piramidi Saqqara (saranno poi nazionalizzati
da Nasser). E poi trenta, quaranta, sessanta film all’anno. Dietro
c’è la banca Misr, cuore strategico
del partito liberale indipendentista Wafd, che tutelava gli interessi
della borghesia mercantile e degli
industriali del sale, cotone, zucchero e altre imprese manifatturiere. Con la fine della monarchia
e la rivoluzione guidata dal Movimento degli ufficiali liberi, dopo il 1952, l’Egitto ha dato voce e
cuore con il suo cinema, politico
per decreto, alla grande utopia
popolare panarabista e panafricana, nazionalista e anticoloniale,
e della redistribuzione equa delle ricchezze, grazie ai suoi tre leggendari cineasti, narratori fascinosi di melodrammi popolari, ma
radicali e “realisti” dentro, Yussef
Chahine, Tafiq Saleh e Salah Abu
Seif. Tutti e tre dal 1956 al 1970 al
fianco del Nasser anti imperialista e contro il Nasser sessuofobico e che non attuava la promessa
riforma agraria (l’ezbe, il latifondo, non si tocca!) e impediva di
trattare argomenti tabù: nominare i comunisti, non temere gli
omosessuali e le idee sovversive, offendere l’Islam e la famiglia,
accennare a Israele e agli ebrei,
maltrattare i popoli afro-asiatici
in lotta per l’indipendenza e per
il non-allinamento (e questo mi
sembra sensato). Ma decisero per
esilio (nell’Iraq di Saddam) Tafiq
Saleh (il più perseguitato dalla
censura) e Abu Seif, o, Chahine,
per l’alta arte del compromesso, dopo la caduta di Nasser annientato dalla sconfitta nella
guerra dei Sei Giorni e tradito dalla burocrazia. I registi di La terra, Révoltés e Il processo, alle prese
con il neoliberalismo capitolardo
di Sadat e con il dispotismo crescente di Mubarak, resistettero
comunque. È del 1972 Gli ingannati, di Tafiq Saleh, dal romanzo
del palestinese Ġassān Kanafānī
Riǧāl fī al-šams (Uomini sotto il
sole). Prodotto in Siria narra, con
asciutto bianco e nero, e stile realistico allucinato, l’odissea mortale di tre palestinesi sfruttati più
dai fratelli sauditi che dai nemici di Israele. Chahine, da Djamila
l’algerina (1958) a Il Passero (1973)
a Alessandria… perché? (1978) rende omaggio alla forza e alla coscienza rivoluzionaria delle donne affiancandosi al lavoro di Abu
Seif che nel 1959 in Io sono libe-
FOCUS
Il Caso Egitto
ra aveva affrontato il problema
della distruzione del patriarcato,
obiettivo non solo femminile. Nel
1969, scosso dal Maggio parigino, il Gruppo del Nuovo Cinema
(Mohamed Khan, Atef al Tayeb e
Daul Abdel Sayed ne saranno gli
esecutori rigorosi negli Anni ‘80)
lancia un appello che non verrà
dimenticato: scrutare la società
da tutti i punti di vista. Il pan-realismo, come programma minimo,
ai confini del fantasy, non tollera
più tabù né top secret. È
il manifesto del cinema di questi giorni. Non dimentichiamo
che, con più di 3.000 lungometraggi prodotti in 80 anni, e una
ricca tradizione letteraria, musicale e teatrale alle spalle, di cui
sono simbolo lo scrittore premio
Nobel Naguib Mahfouz, il compositore anti accademico Sayyid
Darwish e il regista teatrale Tawfiq al Hakim, l’Egitto è tuttora una
capitale del cinema mondiale (ha
saputo anche anticipare la rivolta del 2011, con le opere profetiche dei giovani Ahmad Abdallah
e Ibrahim El Batout) ed è l’unica
industria cinematografica araba,
per quantità, qualità e strutture,
che esporta film al di qua e al di là
dei Paesi di cultura islamica, a cui
ha imposto per decenni la propria lingua, stile e moda, l’egyptian
way of life. Quando, dagli Anni ‘30
agli Anni ‘70, perfino Hollywood
aveva espulso dai posti di commando produttrici e registe “capaci di fare qualunque cosa proprio come gli uomini”, ecco che il
cinema egiziano ha scodellato invece numerose cineaste di qualità
commerciale e intellettuale come
le pioniere del muto Aziza Amir,
la libanese Assia Dagher, Bahija Hafidh (o Bahiga Hafez), Fatma Rushdi, Mary Queeny e Amina Mohamed, le antenate delle
documentariste e delle registe di
cinema e di fiction tv di oggi, ancora più “fuori schema”, come
Attiat el Abnoudi (suo il proibitissimo corto Hesan, 1971), Nadia
Hamza, Nadia Salem, Ines Daghidi e Asma Al Bakri.
76 - 77
UN CINEMA DIVERSO
PER L’EGITTO DEGLI ANNI
2000
di DIAA HOSNY *
Ahmad Abdalla ElSayed, che viene dal
cinema
indipendente degli Anni’
90, sconvolse nel 2009 i critici e
i festival internazionali con il suo
magnifico esordio. Girato in digitale e stampato in 35mm, Heliopolis si ambienta nel quartiere est
de Il Cairo, noto anche come Misr
Al-Jadida (Nuovo Egitto). Collocato in una zona desertica, in direzione del canale di Suez, risorse, ai
primi del Novecento, grazie al barone belga Empain che ne ha fatto
un gioiello architettonico arabo-islamico. È stato per decenni simbolo della convivenza e tolleranza multietnica della capitale, un
luogo cosmopolita che ha accol-
A
Filo diretto da Il Cairo.
Il punto di vista critico.
to comunità straniere, per lo più
nordeuropee, appartenenti a confessioni cristiane differenti. Percorsi paralleli di personaggi del
quartiere ma senza legami diretti,
rivelano, tutto in un solo giorno,
una realtà molto diversa, il declino di un pezzo storico della città che ha perso la sua gloria, tranne briciole di ricordi. Quel che fa
unico ed eccellente il film di Ahmed Abdallah è il ritmo visivo che
collega i personaggi, con dolcezza
e fluidità, attraverso connessioni e sconnessioni di montaggio,
senza perdere di vista l’evoluzione drammatica della situazione.
Abdallah dà molto spazio al silenzio, proibito nel cinema egiziano, per radiografare la crisi psicologica e lo stato di alienazione dei
personaggi. Ex montatore e studente di musica, Abdallah viene
dalla sperimentazione amatoriale, non dall’Accademia, fa cinema
per piacere, come dimostra il successivo Microfono (2010). Un film
sulla musica giovanile rivoluzionaria, sull’arte di strada, sui graffitisti, insomma sulla potenza vira-
FOCUS
Il Caso Egitto
le della cultura underground che
il potere teme e cerca in ogni modo di arginare, negando ai giovani artisti ogni spazio pubblico e la
possibilità di infiammare un pubblico. Il film è l’ingresso nella modernità del cinema egiziano, grazie
all’accurato lavoro di montaggio
tra suono e immagine, che rende
il ritmo, pulsante e incalzante, vero protagonista dell’opera. Il film
è stato criticato perché la testarda
ribellione giovanile contro il vecchio mondo non è costruttiva. Eppure proprio quella rabbia, quelle
musiche e quei graffiti heavy metal
saranno i protagonisti della rivoluzione culturale che ha accompagnato l’insurrezione popolare del
25 gennaio 2011. E anche se la rivoluzione non ha modificato lo zoccolo duro del regime, nessuno può
negare l’irreversibilità delle alternative artistiche e culturali che si
sono imposte sin dai primi giorni
dei moti sui muri di piazza Tahrir
e sopra i palchi che i manifestanti hanno costruito per diffondere
musiche e canti di lotta. La rivoluzione del 25 gennaio ha influenzato la cultura e le arti della nuova generazione, ispirato canzoni
originali, fino alla Mahraghanat
(musica festosa), lo stile che ha
conquistato le periferie con il suo
strepito e i ritmi veloci, a dispetto
dei detrattori. L’arte dei graffiti, dai
muri delle piazze, ha contamina-
to il mondo virtuale dei social media, diffondendo in rete fumetti e
vignette satiriche che colpiscono,
come Pop Art, il comportamento
dei politici, le idee repressive e gli
arcaici metodi coercitivi. L’occhio
attento di Ahmed Abdallah aveva colto in Microfono i sintomi di
un’eruzione giovanile imminente.
Nel 2013 Ahmed Abdallah ha raccontato la rivoluzione del 25 gennaio in Farsh wa ghata, “Stracci e
brandelli”. Un giovane, strappato al carcere, è incaricato di consegnare una lettera alla famiglia
di un collega cristiano, poi ucciso durante gli scontri. Il fuggitivo, finalmente libero, scopre che
l’oppressione e l’ingiustizia sono
all’esterno come all’interno della
prigione, e che la rivoluzione viene imbrigliata piano piano da falsi conflitti settari aizzati per dividere la società. Sarà ucciso anche
lui, in uno scontro fratricida, nel
quartiere cristiano del collega.
Il film è quasi senza dialoghi. Gli
eventi non hanno bisogno di commenti, spiega Abdallah, sono eloquenti abbastanza per esprimere
il disastro dell’Egitto oggi. Il nuovo millennio e la rivoluzione hanno liberato soggetti “tabù”, questioni vietate finora al cinema
egiziano, come l’aids, l’ateismo,
la Storia non ufficiale, l’omosessualità, le molestie sessuali in famiglia, la violenza sulle donne...
etc. Argomenti estranei al cinema
commerciale (commedie, drammi d’azione, musical) ma che il
riflusso rivoluzionario e il deterioramento della situazione economica hanno per il momento
completamente bloccato.
Salva però dalla monotonia e dalla
superficialità del cinema di consumo un altro talento che ha affiancato Abdallah, Ibrahim El Batout,
il primo a girare in digitale e a dare struttura drammatica inusuale a Ain Shams (2008). Anche qui
un incrocio di personaggi, isolati nel crogiolo dei loro problemi e
interessi, svela una rete di corruzione, radicata in un Paese dove
*membro dell’associazione critici egiziani
La traduzione è di Muhammad Abdel-Kader.
l’acqua è contaminata, i prodotti alimentari vengono trattati con
materiali cancerogeni, le elezioni
sono falsificate e manipolate dalla corruzione, i servizi sanitari sono pessimi ma lo spirito della rivoluzione s’agita già nei cuori dei
giovani ribelli che protestano attraverso sit-in e manifestazioni. Il
mosaico è intricato e complicato
perché la sceneggiatura parte dalla guerra in Iraq, all’inizio degli Anni ‘90, vissuta da personaggi che
si trovano tra Iraq ed Egitto. Tutti
gli effetti negativi della presenza
militare straniera in Iraq sconvolgono anche l’Egitto, con la grande
differenza che qui non c’è intervento esterno, ma è la corruzione
e l’oppressione politica interna a
distruggere il Paese e a colpire i più
deboli e poveri. A frammentare
ancora di più la struttura del film,
El Batout usa tecniche inconsuete,
come l’improvvisazione attoriale,
esaltata dall’uso dei piani sequenza, o il ricorso a materiali di repertorio (riprese dal fronte iracheno o
del movimento di protesta Kifaya,
Basta, contro il regime di Hosni
Mubarak) armoniosamente integrati al contesto drammatico. Sul
“25 gennaio 2011” El Batout ha girato El-Shetta Elly Fat, L’inverno
del malcontento), raccontandoci
la rivoluzione attraverso tre personaggi emblematici: un informatico, giovane attivista dei diritti
umani; la sua fidanzata, giornalista
televisiva spudoratamente filo governativa; l’ufficiale di polizia che
interroga e tortura i rivoltosi un po’
come in Brazil di Terry Gillian l’impiegato del Ministero degli Interni
che straziava candidamente i sospetti mentre nella stanza accanto i suoi bambini giocavano tranquillamente. El Batout confonde
la continuità spazio-temporale
attraverso un montaggio fluido
che nell’unità dell’evento mescola
passato e presente, la piazza con il
carcere e gli studi televisivi, senza
mai spiazzare lo spettatore. Il secondo protagonista del film è lo
schermo, televisivo, del computer o del portatile. Siamo di fronte a una rivoluzione in diretta, nascondere la verità dei fatti è ormai
78 - 79
vano e assurdo. La tecnologia ha
dato una boccata d’ossigeno a chi
si sente prigioniero di un regime
che non può più ostacolare la comunicazione tra cittadini e verità.
Il film di El Batout è come il manoscritto drammatico degli avvenimenti più importanti accaduti in
Egitto tra la rivoluzione del 1919 a
quella del 2011 (gli egiziani si ribellano solo a inizio secolo?). A prescindere dall’esito negativo di entrambe le sommosse, registrare e
documentare eventi storici con il
cinema può aiutare a ricostruire la
memoria e la coscienza di un popolo e anticipare le ondate di cambiamento, senza dover aspettare
il prossimo secolo. Nel suo nuovo film d’azione, a retrogusto metaforico, Al-Ott (“Il gatto”, 2015),
El Batout amalgama invece cronaca e magia. I trafficanti in organi umani di bambini rapiti non
potrebbero essere fermati senza
l’intervento soprannaturale di una
creatura che controlla gli eventi e
spinge due eroi proletari ad affrontare il “gatto”, il boss della gang.
Quel personaggio di straordinaria
potenza è il simbolo dell’antica e
sadica divinità egizia del Male, che
controlla gli animi degli egiziani e,
come fossero burattini, li spinge
alla violenza fratricida, divertendosi a eccitarli con il miraggio del
denaro, del potere e della fama.
INTERNET E NUOVI CONSUMI
S E N Z A PA R O L E .
IL CODICE VISUALE
DEGLI EMOJI
di CARMEN DIOTAIUTI
una faccina che ride fino alle lacrime
la parola dell’anno
secondo l’Oxford
Dictionaries che, nel designare
il termine che meglio raffigura le
tendenze dell’anno trascorso, per
la prima volta ha fatto cadere la
scelta su un pittogramma. L’icona individuata sta a rappresentare l’intera categoria degli emoji
dei quali, da una ricerca fatta dalla SwiftKey, risulta essere il simbolo più utilizzato nel corso del
2015. Un termine preso in prestito dal giapponese che unisce le
parole “immagine” e “carattere”
e rappresenta quella categoria di
simboli pittografici il cui utilizzo
sembrava inizialmente confinato
a una pigra deriva giovanilistica
del linguaggio. Una serie di segni
grafici codificati dall’Unicode
Consortium, la cui rappresentazione si ispira alle forme tipiche
È
di manga e anime. Volti, oggetti,
cibi, luoghi o animali che vengono aggiunti ai messaggi per enfatizzarne il senso, oppure utilizzati
in sequenza per esprimere concetti e rappresentare visivamente emozioni, sentimenti e attività.
Complice l’avvenuta integrazione nelle tastiere dei dispositivi smartphone, la frequenza d’uso è triplicata rispetto allo
scorso anno. Un’esplosione che
ha sfatato ogni pregiudizio sui
limiti d’uso e aperto la strada a
diversificati, quanto inaspettati, impieghi, che ne avvalorano a
pieno titolo il carattere di variabile espressiva del linguaggio.
Si chiamano emoji e sono quei simboli pittografici entrati a pieno titolo nelle comunicazioni online mediate dagli smartphone. Inizialmente confinati a una pigra deriva giovanilistica del
linguaggio, l’esplosione d’uso dell’ultimo anno li
ha sdoganati dal pregiudizio e aperto la strada
a diversificati, quanto inaspettati, utilizzi. Dalle
campagne promozionali (Star Wars) alla traduzione di romanzi (Moby Dick) o di serie tv (Game
of Thrones). Segni grafici che ritrovano la loro
radice di condensazione espressiva del linguaggio. È nato un nuovo codice?
INTERNET E NUOVI CONSUMI
Da Hillary Clinton, che ha chiesto feedback al suo elettorato in
forma di emoji, a Emoji Dick, 735
pagine illustrate in cui ogni singola espressione dell’epico romanzo di Herman Melville, Moby Dick, è tradotta nel suo corrispettivo
pittografico. Ma non è l’unica singolare traduzione in circolazione.
Su YouTube esiste una versione
video che riassume in simboli gli
eventi della terza stagione di Game of Thrones, interamente realizzata con un telefonino e dall’allusivo titolo Game of Phones.Il
filmato è opera dell’artista americana Cara Rose DeFabio, autrice anche di Melroji Place, versione della popolare soap Anni ’90
Melrose Place sottotitolata nel più
moderno dei linguaggi smartphone e presentata all’Emoji Art &
Design Show, la mostra dedicata ad installazioni artistiche in
pittogrammi. Gli emoji sono stati, inoltre, ampiamente utilizzati nelle ultime campagne promozionali, a partire da Star Wars - Il
risveglio della forza che, in accordo
con Twitter, ha lanciato un set di
icone dedicate ai protagonisti del
film. Così, durante il periodo di
lancio della pellicola, nel digitare
gli hashtag loro associati apparivano automaticamente all’interno dei messaggi i personaggi della
celebre saga stellare. Allo stesso
modo sono diventati popolari in
rete una serie di rebus il cui obiettivo è riconoscere un film a partire da una sequenza di emoji che
ne raffigura titolo o trama.
Proprio il rebus, che rappresenta
un concetto invece che scriverlo,
può essere considerato uno degli
antenati del linguaggio emoji, la
80 - 81
del linguaggio in cui il significato
viene ricondotto all’uso e in cui
la traduzione intersemiotica del
concetto corrisponde a un codice
fortemente influenzato da spazio e tempo, come vuole la teoria
dei giochi linguistici di Ludwig
Wittgenstein. Una tensione costante verso lo spazio della metafora, in cui l’emoji, come oggetto rappresentato, ritrova la
sua radice di condensazione
espressiva del linguaggio.
cui popolarità, secondo il linguista David Crystal, sta nello sforzo cognitivo richiesto e nell’implicita sfida che li rende piacevoli
sia per il lettore che per l’autore.
Neanche Hollywood poteva farsi scappare l’occasione di sfruttare una delle mode del momento,
e ha annunciato per il luglio 2017
l’uscita in sala di The Emoji Movie,
film d’animazione prodotto dalla Sony Pictures Animation e
diretto da Anthony Leondis, già
regista di Lilo & Stitch 2 e del corto
Kung Fu Panda: i segreti dei maestri.
Adottati per velocizzare le nostre
interazioni e rispondere al bisogno di mettere in scena emozioni anche complesse come sarcasmo, ironia o frustrazione, gli
emoji facilitano quel processo di
comprensione ed empatia che
nelle conversazioni face-to-face viene innescato da intonazione, espressione o linguaggio del
VEDI ANCHE:
Game of Phones
youtu.be/l0SYKT4FgGU
corpo. Fin qui potrebbero essere considerati una sorta di surrogato paralinguistico, un po’ come le emoticon di cui sono diretti
discendenti. Ma gli emoji sono
molto di più. Il loro senso non è
sempre univoco e se può essere
facilmente intuitivo, ad esempio,
cogliere una richiesta di complicità in una faccina che strizza l’occhio, è sicuramente meno immediato il senso di una testa Moai o
di una siringa grondante sangue.
Il potere di questo tipo di immagini sta proprio nell’ambiguità e
nella capacità di cambiare senso in base al contesto, alla lingua
e alla cultura in cui vengono inserite. Una concezione sistemica
GEOGRAFIE
a Storia del nostro
Paese inizia a Tripoli, in Africa. Principio
del nostro racconto e purtroppo anche suo presente: dalle colonie ai barconi, tutto sembra essersi manifestato in
quella terra, alla nostra Italia tanto
prossima e sorella.
L
Il viaggio di Italo Moscati parte dal Sud, in un armonico alternarsi tra immagini dinamiche e
fotografiche, tra quelle storiche
dell’Archivio Luce e diverse altre girate di recente in alta definizione, tra bianco & nero e colore,
da Matera alla Capitale, per condurre ai giorni presenti: la “risalita” narrativa dello stivale attraverso 20 Regioni, in virtù di un
sapiente assemblaggio della visione, ascende dalla Sicilia verso il Settentrione per la tecnica
di ripresa e montaggio capace di
dare la sensazione dello scorrere di un percorso, come fosse un
grande carrello del cinema che
cammina fluido attraverso il Paese, con l’accortezza – questo succede soprattutto con l’uso delle fotografie – di soffermarsi per
istanti su dettagli che “impongono” un’impercettibile ma imprescindibile sosta, fondamentale a
non lasciarsi inebriare dall’efficace dinamismo del viaggio, così
da far appoggiare l’occhio sui visi del popolo, tra schiaffi d’acqua di mare e una storia dell’arte
di ineguagliabile bellezza. Il tutto incorniciato dal profilo, sempre presente e protagonista, dello
spettacolo della natura.
Rituali popolari in balli e costumi,
non solo espressione di tradizione ma anche patrimonio delle arti della danza e della moda; architettura d’ogni epoca inserita nella
sinuosità delle “linee” antiche e
perenni del paesaggio, come fos-
LA
BELLEZZA
di NICOLE BIANCHI
Istituto Luce-Cinecittà ha prodotto
il nuovo documentario curato
da Italo Moscati – 1.200 km di bellezza -
un Grand Tour contemporaneo che,
risalendo dalla Sicilia alle Alpi,
attraverso 20 Regioni, ci fa viaggiare
tra popoli e paesaggi, nel nome delle
arti e della natura, dalle tonnare sicule
all’architettura “fantasy”
di Civita di Bagnoregio.
GEOGRAFIE
82 - 83
se un unicum di bellezza che reciprocamente s’innesta su una
perenne colonna sonora trasversale ai generi – dal folk alla classica - nondimeno espressione di
un nostro patrimonio storico e
culturale riconosciuto nel mondo. L’esplosione del concetto di
bellezza, come evocata dal titolo - ispirato a una nozione cara a
Moscati, presa dallo psicologo James Hillman, secondo il quale se
la gente sentisse nella vita l’importanza della bellezza probabilmente scenderebbe per le strade
per reclamarla - è circolare e to-
DELL’
ITALIA
tale poiché, dal racconto di ogni
sequenza, come dall’individuale
dettaglio visivo o sonoro, viene
restituita costantemente un’immagine non solo audiovisiva ma
soprattutto storica, epidermica,
terrena, che riconduce al concetto del “bello” quale espressione
della complessità della Storia di
una nazione intrinsecamente, ora
come allora, profondamente frastagliata e diversa ma, proprio per
questo - nella capacità o nel perenne tentativo – mai monotona,
mai prevedibile, sempre foriera di
stupore e nuovo incanto.
In 75 minuti di durata si viaggia
per 1.200 km, ma anche attraverso due secoli prossimi che – in
fieri – danno forma e senso alla nostra Italia, non raccontabile senza il materiale d’archivio
che il Luce conserva e, come bene qui dimostra, non lascia affondare nello spessore della polvere
accumulata col tempo che trascorre, rendendosi invece perennemente contemporaneo, con il
grande pregio dell’essere portatore di una grande memoria.
LAVORI IN CORSO
QUESTIONE
di CRISTIANA PATERNÒ
DI SGUARDI
Il nodo del femminismo, vecchio e nuovo, nella stratificata identità
del Festival milanese Sguardi Altrove, che vive la sua 23ma edizione
dal 17 al 25 marzo. Ne parliamo con il direttore artistico Patrizia Rappazzo.
pur sempre questione di sguardi, il cinema. E lo sa Patrizia
Rappazzo, direttore
artistico del Festival Sguardi Altrove, che dal 17 al 25 marzo vive a Milano la sua 23ma edizione. Giornalista e critico cinematografico con
una laurea in filosofia, ha incrociato Gabriella Guzzi, fondatrice della manifestazione scomparsa nel
2004, mentre faceva un’inchiesta
sul cinema meneghino: “Il Festival
era nato all’inizio degli Anni ’90 e si
chiamava Donne Altrove. Con Gabriella ci siamo incontrate sul piacere di raccontare il vissuto delle
donne e così ho iniziato a collaborare al progetto e siamo diventate
amiche. Più tardi, il cambiamento del nome, da Donne Altrove a
Sguardi Altrove, ha sottolineato
lo sganciamento dall’ambito del
femminismo per poter parlare di
cinema d’autore, e non solo di temi femminili, ma sempre con l’intento di riflettere sulla condizione
della donna a livello internazionale e con una speciale attenzione alla regia e alla creatività femminile.
L’ambizione è di essere uno spazio
per rileggere la contemporaneità attraverso il cinema e l’arte cercando sinergie con l’attualità”.
È
LAVORI IN CORSO
84 - 85
no prodotti da donne e solo l’11,2%
sono scritti da donne.
Da quale tipo di riflessione
nasce questa esigenza di ridimensionare la vocazione femminista del Festival?
C’è stato, a un certo punto - è innegabile -, un fastidio verso il
femminismo, anche se di fatto la
mia vita è nel segno del femminismo, ma non ho avuto la necessità di doverlo urlare. Mi sono detta: facciamo vedere le cose che le
donne sanno fare, le cose di qualità che producono, quindi capovolgiamo il messaggio. La nostra vocazione a occuparci dello
sguardo femminile rimane nelle
tre sezioni competitive, poi ci sono le sezioni a regia mista. Inoltre, da quest’anno, la sezione di
cinema italiano da panoramica
diventa competitiva, con un premio del pubblico, e prende il nome di Frame Italia. Poi, insieme
al Festival de Films de Femme di
Créteil, abbiamo una retrospettiva dedicata a Chantal Akerman, la
cineasta belga scomparsa a ottobre del 2015.
Stiamo vivendo un momento
in cui la libertà delle donne è
sotto attacco più che mai, anche all’interno di uno scontro
di civiltà in atto, e sembra urgente tornare alla consapevolezza dei propri diritti.
Oggi infatti c’è un recupero del
femminismo. Non siamo più negli Anni ’70 ma in un altro tempo
in cui spesso le giovani non hanno piena coscienza di cosa sia la
violenza sulle donne, violenza
Questo a livello quantitativo, ma parlando della qualità,
qual è la situazione attuale nel
cinema italiano?
Per il cinema di finzione non è ottimale, le storie che ci arrivano
sono a volte banali, le opere prime risentono di una grandissima
ingenuità, devo dire che le donne
non si lanciano. La Scuola di Cinema di Milano ci conferma che
le ragazze preferiscono fare produzione o montaggio, come se
non avessero fiducia in se stesse.
Diverso il caso del documentario,
forse perché costa meno ed è proche passa attraverso il linguaggio, duttivamente più agile, il panorale relazioni e anche la comunica- ma qui appare più ricco.
zione pubblicitaria, oltre che attraverso gesti estremi.
Il tema di questa 23ma edizione è: “Il tempo, tra memoria e
E quindi lavorate sul pubblico progetto”. Come si declina?
delle ragazze.
Parliamo dell’estetica del tempo
L’età media del nostro pubblico è e della percezione nelle culture
diminuita grazie alle attività for- come tempo individuale, sociale
mative pensate per gli studen- e trascendente. In questo affronti, come le matinée o gli incontri tiamo la capacità delle donne di
con i cineasti. I ragazzi e le ragaz- raccontare il passato e il futuro
ze vengono coinvolti anche nelle con una speranza e un’attenziogiurie e nelle preselezioni. Ma, il ne che si amplia con la maternilavoro sul pubblico è tagliato an- tà: le donne hanno una maggiore
che sull’identità di genere: le ra- capacità di spingersi oltre il temgazze, a volte pensano di essere po presente rispetto agli uomini,
libere, non sono neppure consa- hanno una qualità significativa e
pevoli dei diritti perduti.
speciale di racconto, ad esempio
nel racconto della guerra: non c’è
Qual è la fotografia, secondo la solo Kathryn Bigelow ad essersi
vostra esperienza, della presen- occupata di questo tema così forza attuale di donne nella regia?
te e purtroppo attuale.
Il numero delle registe è aumentato, anche se i dati disconferma- Ancora in termini di attualino un cambiamento positivo, co- tà, il vostro Focus è dedicato
me si evince anche dalla ricerca alla Turchia, Paese veramendell’EWA Network realizzata in- te al bivio tra Europa e mondo
sieme al MiBACT che dopo la pre- islamico e dilaniato da vicensentazione alla Mostra di Venezia de politiche drammatiche in
e alla Berlinale animerà una tavola questi ultimi mesi.
rotonda anche da noi.
La Turchia, quando abbiamo
In Italia la metà dei diplomati nel- deciso di occuparcene, non era
le scuole di cinema sono donne, ancora nell’occhio del ciclone.
ma solo il 10% di loro diventano L’abbiamo scelta perché è molregiste; in Europa va meglio ma di to cresciuto il numero delle cipoco, solo il 16% dei registi sono neaste, con tanti nomi nuovi.
donne. Inoltre il 50% delle registe Presentiamo opere di giovani
abbandona la carriera. Il ruolo del- registe, nate a metà degli Anle donne nei film campioni di in- ni ’70, che danno conto delcasso è residuale: solo l’1,9% sono le contraddizioni in atto nella
diretti da donne, solo il 18,9% so- Istanbul contemporanea.
ANNIVERSARI
a 50 anni da
DJANGO
Quando 50 anni fa uscì nelle sale, fu visto come uno dei film più violenti mai prodotti fino a quel momento, ma la
crudeltà e il cinismo contribuirono a renderlo una colonna portante e un mito del western all’italiana. Django fu l’affermazione di Sergio Corbucci come regista di successo e donò al venticinquenne Franco Nero – che pure era già stato
diretto da maestri come Lizzani e Pietrangeli – un’immortalità nell’immaginario cinematografico mondiale, tanto che
Quentin Tarantino, nel suo remake del film del 2013, ha corteggiato e convinto Nero ad accettare un ruolo.
ANNIVERSARI
A 50 anni da... Django
Il mito
e la matrice
gni avventurosa storia di film divenuti cult prevede, da
copione, un groviglio di dichiarazioni, miti, ricostruzioni più o meno veritiere,
spesso contraddittorie. Anche
Django non è esente, per quanto il suo status consolidato ormai da tempo abbia fatto sì che
le vicende della sua produzione e
poi trasmigrazione in altre esperienze nel corso degli ultimi cinquant’anni siano state perlopiù
rendicontate in modo ordinato.
E, però, nell’affresco complessivo che si è venuto a formare, è
intrigante far luce proprio sulle
incongruenze, sui risultati inattesi, sul senso di operazione un
po’ folle e inspiegabilmente riuscita che spesso ammanta il film.
Nel caso di Django, prima dell’inserimento nel canone del western italiano seminale, abbiamo
in tal senso i racconti in prima
persona dei suoi autori, Sergio
Corbucci in testa, al tempo non
troppo convinti della sensatezza dell’operazione, di certo non
dell’immediato successo.
L’idea nasce da una suggestione visiva fumettistica del regista:
un uomo misterioso che trascina
una bara. Attorno a questa trovata, Franco Rossetti, con la collaborazione di Piero Vivarelli e poi
la revisione, strada facendo, di
Bruno Corbucci e di Fernando
Di Leo, strutturano una trama, di
O
di MIMMO GIANNERI
cui il regista immaginava già il finale con il pistolero menomato e
vincente. All’aiuto regia c’è Ruggero Deodato, poi a sua volta regista del culto Cannibal Holocaust
(1980). Lo scenografo e costumista è Giancarlo Simi: sue sono le
ambientazioni desolate dei film
di Leone e gli abiti, sporchi e anti-hollywoodiani, della maggioranza dei pistolero dei western
italiani. Enzo Barboni, alla fotografia, sarà invece il regista – sotto lo pseudonimo di E.B. Clucher
- di Lo chiamavano Trinità (1971)
e di tanti film post-western della coppia Bud Spencer e Terence Hill. Tutti nomi attorno a cui
si costituisce insomma una fetta
del cinema di genere italiano della modernità. Girato in venti giorni, a detta di Barboni, la sceneggiatura viene rimaneggiata fino al
giorno prima dell’inizio delle riprese e, a quanto pare, un Sergio
Corbucci svogliato viene portato
a forza sull’aereo diretto in Spagna, dove si girano gli esterni.
Django parla innanzitutto di circostanze creative e produttive irripetibili, dove si intrecciano personalità eterogenee, idee,
l’abitudine a schivare i colpi con
scaltrezza e a muoversi sulla base di intuizioni (caratteristiche,
queste ultime, del personaggio-tipo del western all’italiana,
tra l’altro). Per dirla con note ca-
86 - 87
tegorie di David Bordwell, non
è tanto l’eccellenza intrinseca del
film a renderlo meritevole di esegesi, quanto la sua esemplarità –
cioè la capacità di manifestare le
tendenze in corso – e la sua influenza, ovvero l’impatto sul cinema coevo e seguente, nonché
l’essere stato a sua volta influenzato dal clima del periodo.
Django è prima di tutto un’operazione derivativa. Nel dizionario del cinema di Mereghetti, non a caso, è censito con una
stella e mezza: a parte l’inedito
uso della violenza, per il resto
Corbucci fa il verso a Leone, che
con Per un pugno di dollari aveva dato il via, due anni prima,
all’ondata di western all’italiana.
E, in effetti, il pistolero interpretato dal ventitreenne Franco Nero – da lì in poi, per il regista, “il
mio John Wayne” – ha gli occhi di
ghiaccio di Clint Eastwood e l’immancabile cappello a tesa larga
che ne svela il volto progressivamente. È un personaggio enigmatico e dal passato oscuro. Inganna per coltivare i suoi interessi, è
un doppiogiochista ed è in cerca
di vendetta… Insomma, Django,
sulla scorta di quanto stava accadendo negli altri western italiani,
ha una precisa matrice leoniana.
Lo fa però con delle idee e uno
stile. Django palesa l’esigenza di
una distorsione del segno in favore dell’eccesso (anche di violenza). Ne sono indicatrici le scelte
di messinscena; scelte che ci dicono di un immaginario disposto
naturalmente a farsi pop, ovvero a essere prima identificato come perfettamente riconoscibile,
e poi destinato a diramarsi attraverso reinterpretazioni successive. Django ha quindi una sua eccellenza intrinseca che si manifesta
fin da subito nella sua esemplarità.
A differenza dei personaggi del
western classico, Django è un
eroe agganciato al presente. Ha
un passato tragico, la morte della
moglie amata, ma la Storia non lo
tange, agisce per vendetta e per il
suo tornaconto. Non c’è un corpo
collettivo a cui appartiene e di cui
si fa vece, magari nostalgicamente, come accadeva ai grandi personaggi del western americano.
In Django non c’è una contrapposizione di stampo tradizionale tra
yankee e messicani, tra yankee e
sudisti e la rivoluzione messicana
sembra una faccenda per banditi
senza scrupoli. Django è anche un
personaggio ambiguo e fallibile.
Spietato, quando ridendo falcidia
gli uomini di Jackson grazie alla
mitragliatrice nascosta nella bara
che trascina con sé; malfattore e
arguto doppiogiochista, quando
ruba insieme ai messicani l’oro
e poi fugge cercando di accaparrarselo; a suo modo romantico,
quando nel finale dichiara il sogno di una vita d’amore a Maria. Inoltre, i suoi progetti non
vanno tutti a buon fine: non solo perde l’oro rubato, inghiottito dalla sabbie mobili, ma viene
anche torturato dai messicani
imbufaliti, i quali gli spappolano le mani sotto gli zoccoli dei
loro cavalli, costringendolo a
ANNIVERSARI
A 50 anni da... Django
un duello finale con Jackson inconsueto quanto geniale.
Corbucci amministra tutte queste idee con la sua cifra: la violenza orgogliosamente esibita - le
uccisioni di massa - e gratuita: la
celebre scena, omaggiata da Tarantino in Le iene, dove i messicani tagliano l’orecchio a Jonathan,
lo costringono a mangiarlo e, solo dopo, lo uccidono. Ma, visivamente, è tutto l’impianto del film
a cercare l’impatto e la novità,
enfatizzando gli stilemi leoniani
di partenza. La città dove si svolge l’azione, priva di vegetazione
e a quanto pare di abitanti, eccetto le prostitute e il proprietario del saloon, ha i toni, i colori
e le assenze di un’ambientazione post-apocalittica, ridisegnata
a china. Django è contraddistinto da un uso insistito di dettagli e
di primi piani, zoom e movimenti di macchina a mano, sporchi.
Lo zoom, in particolare, è ampiamente usato, sia per presentare il personaggio in modalità da
eroe moderno che irrompe sullo
schermo, come un magnetico James Bond nostrano, sia per dare
ampio spazio ai volti iperrealistici di tanti altri personaggi che si
fanno essi stessi paesaggio, fondendosi idealmente agli orizzonti scarnificati e senza vie di fuga
dove si svolgono le vicende.
Se il western classico era l’incontro tra una “mitologia e una forma
di espressione” (Bazin), quello
italiano non è altro che la riela-
borazione di quella mitologia da
parte di scaltri uomini di cinema, e d’affari. Per questo per molti rappresenta una prima forma
di postmodernità. Ma, ancor prima, e facendo la tara a un approccio perlopiù inconsapevole, il cinema di Django è molto vicino ai
modi della modernità delle nuove onde emerse da qualche anno.
Django è un eroe che imita i miti
del passato (John Wayne e Henry Fonda, modelli per il Corbuc-
ci amante del genere, fino al Clint
Eastwood di Leone) in modo non
così distante dal Belmondo del
Godard di Fino all’ultimo respiro. E le vicende produttive raccontano di un film dal soggetto
scarno e costruito via via, giorno
per giorno, sulla base delle contingenze, come accadeva in tanti set della Nouvelle Vague. Così,
i cappucci rossi sullo stile del Ku
Klux Klan con cui vengono agghindati i pistolero del genera-
le Jackson sono un espediente,
a detta di Deodato, per coprire
i volti “sdentati” di alcune comparse scritturate in loco a poco
prezzo. Le giornatacce di cielo plumbeo dove avvengono le
riprese permettono a Barboni
di realizzare una fotografia sot-
toesposta. Il fango (Corbucci
avrebbe preferito la neve…) viene trovato nelle location abbandonate e, piuttosto di pulirlo, si
usa un bulldozer per renderlo
ancora più sudicio… Insomma,
Django consegna il clima di una
stagione in cui certo cinema di
88 - 89
genere all’apparenza raffazzonato aveva delle artigianalità
(in taluni casi, delle autorialità)
abili a rielaborare le innovazione stilistiche e contenutistiche
del tempo in una chiave prettamente commerciale. Non a caso, un modello per Tarantino.
In the Djungle
del cinema popolare
di M.G.
i frequente è citato,
tra gli esempi paradossali della popolarità multiforme di
Django, il musicarello diretto da
Ferdinando Baldi Little Rita nel
West (1967), con protagonista Rita Pavone, e che vanta lo stesso
sceneggiatore, direttore della fotografia e produttore (Manolo
Bolognini) della pellicola di Corbucci. Nel film, una sequela di pistolero imitativi (un Ringo e un
Django, con tanto di bara) vengono affrontati dall’improbabile
giustiziera. Ancora più curioso,
è un altro musicarello dello stesso anno: Riderà (1967), con Little
Tony e la regia del fratello di Sergio, Bruno. In una scena, il protagonista sta facendo la comparsa
in un western italiano e per sbaglio dà un vigoroso cazzotto in
faccia proprio a un simil-Django
che cade a terra stecchito, causando l’interruzione delle riprese
e l’indignazione del regista Sergio
(lo stesso Corbucci), il quale decide di passare alla scena successiva del taglio del naso… alla fine
Little Tony verrà assoldato per intrepretare John Wayne nel “remake musicale di Ombre rosse”.
Piccole curiosità di una stagione
dove le produzioni cambiavano i
generi senza troppi patemi e parlavano a un pubblico ingordo e
avvezzo alle strizzate d’occhio. Il
successo di Django, inizialmente
frenato da un inevitabile divieto
ai minori di 18 anni, passa per un
D
crescendo quasi immediato grazie al passaparola di giovani entusiasti delle scene più cruente
(inizialmente tagliate in alcune
versioni e presenti in altre) ed
elementi paratestuali particolarmente significativi, a partire dalla riuscita locandina del pistolero
nerovestito con la sciarpa appoggiata intorno al collo in modo casuale e raffinato.
I remake, seguiti e prequel di
Django sono innumerevoli. Un
primo, eterodosso, è Preparati la
bara! (1968) diretto dal Ferdinando Baldi di Little Rita nel West, con
Terence Hill nella parte del pistolero. Ma il vero seguito, con Fran-
co Nero a vestire di nuovo i panni dell’eroe, è Django 2 di Nello
Rossati, del 1987, quando il genere è ormai quasi dimenticato. In
mezzo – e dopo – fioccano le citazioni e gli omaggi. Innanzitutto,
abbiamo western che approfittano del brand Django per ingolosire il pubblico distratto di provincia, cambiando strada facendo i
nomi dei protagonisti in quello
del noto eroe e mimando alcuni
modi del film di Corbucci; oppure usando “Django” nei titoli di
pellicole che poi raccontano storie non necessariamente legate al
soggetto di partenza. Marco Giusti in più occasioni ha ricostrui-
ANNIVERSARI
A 50 anni da... Django
to le strade e gli emissari di queste filiazioni. Si tratta di strategie
comuni ai vari Ringo, Sartana o
Sabata, ma che qui trovano un
territorio d’elezione. Alberto Pezzotta, nel suo volume sul western
italiano, suggerisce che il film riesce a imporsi nell’immaginario
del pubblico, tra le altre cose, per
la sua fervida contraddittorietà.
Django è un personaggio i cui
“tratti trasgressivi sono bilanciati da elementi normativi” e il film
giustappone “stili e rimandi intertestuali incoerenti”. Inoltre il
testo di Django è più pop rispetto
a quello di – per fare un esempio
nobile – Per un pugno di dollari. Si
pensi al grandioso incipit del film,
non a caso citato filologicamente
all’inizio di Django Unchained. Di
spalle, un uomo di cui non scorgiamo il volto, si muove faticosamente in un paesaggio dominato dai colori stinti del fango e dal
cielo plumbeo. La camera è fissa,
ma la figura si allontana, con uno
dei classici movimenti ad allargare sui corpi del western italiano. I
versi della canzone di Luis Bacalov ci presentano il personaggio
ancor prima di scoprirne le fattezze (“Django, have you always
been alone / Django, have you never
loved again”). In seguito, vediamo
il dettaglio degli stivali immersi nella melma e intuiamo la presenza dei pantaloni di un’uniforme nordista. Solo a quel punto,
con un font fumettistico dal colore rosso acceso, appaiono le scritte. Sul titolo del film si impone
in primo piano la silhouette della bara, trascinata nel fango dal
misterioso personaggio; vestito
completamente di nero, si allontana, placido, e scompare dietro
una collina. La macchina da presa zooma all’indietro a scoprire
il paesaggio desolato. Il volto di
Franco Nero lo vedremo per la
prima volta soltanto nella scena
successiva della sparatoria. Ma a
quel punto, il film ci ha già consegnato una precisa iconografia,
da rimaneggiare e tramandare.
Al pari dei film di Leone, in molto
immaginario cinefilo, soprattutto
straniero, Django condensa tutto il western all’italiana. Il film si
è sedimentato nei discorsi, e non
solo per le sue qualità estetiche.
In una recente lista dei dieci western preferiti da Tarantino, per
esempio, appare Navajo Joe (per
la regia dello stesso Corbucci, che
lo preferiva al successivo Django),
ma non il film a cui poi ha dedicato il suo penultimo lavoro. Takashi Miike, in occasione dell’uscita di Sukiyaki Western Django
(2006) ammette che l’omaggio
nel suo film si limita “al titolo e alla scena finale”, ma “era doveroso
nei confronti del suo creatore” e
della sua passione per il film.
Più del linguaggio, copyright primario di Leone, Django ha un
packaging complessivo di grande
impatto e un eroe dal cinismo distruttivo che da molti viene interpretato come una forma di protesta, innovativa e perentoria. Così
si può leggere la grandissima eco
avuta dal film in Paesi molto distanti dall’Europa e dagli Stati
Uniti, dalla Turchia al Brasile fino in Giamaica, dove ci fu un vero e proprio culto, testimoniato
innanzitutto dal film The Harder
They Come (1972, Perry Henzell),
nel quale un aspirante cantante, con il mito del personaggio di
Franco Nero, si tramuta gradualmente in un gangster. E così si
può anche leggere, ed è stato letto, l’omaggio di Tarantino. Django è l’emblema di una lotta senza
quartiere contro l’establishment.
La rivalsa degli sconfitti nei confronti dei loro oppressori è un gesto sovversivo e creativo, che avviene tramite lo sfoggio di una
violenza liberatoria. Parafrasando Godard, non è sangue, sono
macchie di colore.
90 - 91
PUNTI DI VISTA
IDEOLOGIA
I TA L I A N A
di GIROLAMO DE MICHELE
n un film come
Suburra il tema della violenza è posto
all’intersezione fra
due direttrici: il rapporto fra la
violenza “reale” e la sua rappresentazione filmica, e il rapporto
fra la rappresentazione di questo
film, e quella del genere “poliziottesco” degli Anni ’70 cui ammicca. Nei poliziotteschi, la violenza
subiva una torsione iperrealistica
rispetto alla violenza percepita,
e virava in una diretta o indiretta ironia (all’interno della quale potevano anche essere depositati frammenti di un discorso
di critica della violenza). In ogni
caso, la scena filmica era la metropoli, con le sue dinamiche e
contraddizioni nelle quali erano
impigliati, pur in uno schemati-
I
smo manicheo, poliziotti e banditi. In Suburra, invece, il genere
è recuperato solo come tecnica
registica, in una narrazione del
tutto diversa: un ambiente chiuso – il mondo della malavita romana – nel quale ciò che malavita
non è si intravede appena; un’omologazione fra le diverse facce
della stessa medaglia malavitosa che ingloba anche i “politici”,
rappresentati non come anelli di
congiunzione o camere di compensazione, ma come interni tout
court a questo mondo. Una rappresentazione monocromatica
della violenza, sottolineata dalla
monotonia delle luci livide e dalla continua pioggia. La prima dissonanza di Suburra nasce qui: la
scena della violenza non offre appigli narrativi verso un’altra sce-
na, non ha porte che si aprono su
altri mondi, finestre dalle quali proviene un’altra luce: eppure,
il film ha una quasi didascalica
pretesa di alludere al “reale” della cronaca giudiziaria – ingenuamente assunto come “dato reale”
e non come rappresentazione da
criticare. Se non che, anche questo mondo chiuso non può non
presentarsi come una metafora
di quel reale “altro” che si vorrebbe escludere dalla narrazione: il
che accade, va detto, anche per i
limiti oggettivi di una regia che è
al di sopra della media nazionale,
ma non arriva ai maestri di genere americani o francesi: Sollima
non è Olivier Marchal o William
Friedkin (cui ammicca con la scena della fuga in auto) – e soprattutto, non lo sono i suoi sceneg-
PUNTI DI VISTA
giatori che, presi dall’urgenza di
una docu-fiction poliziottesca,
non sono esenti da vistose zeppe
e incongruenze nella stesura del
plot. Non arriva, insomma, a far
scaturire dalla tecnica narrativa
un discorso critico sulla violenza
rappresentata: e non vi arriva perché manca di un discorso critico su quel reale che rappresenta.
La violenza (e qui si sente la mano del duo Rulli-Petraglia, col loro psicoanalismo ormai diventato un genere attraverso il quale la
storia patria viene rimasticata, digerita e restituita senza residui) è
rappresentata come un Male che
si genera da sé - senza contraddizioni, senza rapporti di causa-effetto, nel quale la sfera dell’economico si limita alla mazzetta, e
il sociale è al più l’interno di un
market - per finire coll’auto-distruggersi per implosione o erosione dall’interno delle proprie
relazioni. Inevitabile chiedersi
dove sia finito il tentativo di fare
della narrazione – con il romanzo e la serie Romanzo criminale –
un attraversamento di un mondo altrimenti violento, fornendo
allo spettatore spunti di sospetto e inquietudine; o di piegare la
cronaca sull’irruzione del tragico
nella storia, un tragico del quale,
peraltro, si intuiva, accanto a una
dimensione metastorica, anche
una genesi derivata dalla critica
dello stato di cose presente. Qui,
invece, la dimensione della serialità allusa contribuisce, assieme
a certe scelte del cast verso attori mainstream (manca da tempo
nel cinema italiano un discor-
so consapevole sul ruolo del volto dell’attore: ma non è proprio
a Ostia, del resto, che è stato ammazzato Pasolini?), che finisce
per creare fra la rappresentazione
e lo spettatore un clima di familiarità, un adagiarsi nel già visto,
nel conosciuto, nel piacionesco,
che è altra cosa dal glauco Henry
Fonda che ammazza un bambino. Di questa violenza, risfogliando qualche bignamino di Freud e
ritagliando qualche battuta dalle
cronache giornalistiche, alla fine si fornisce, accanto all’implicita ammissione che è una sorta
di trascendentale metastorico, e
come tale ineliminabile, l’ovvia
spiegazione che c’entra il rapporto col padre (al limite con la madre, giusto per sottolineare l’italianità mammona del Samurai,
92 - 93
che fra Cesaroni e Suburra resta
sempre uno di noi): che sia il padre reale al quale si vuole assomigliare senza potergli assomigliare,
o quello metaforico da uccidere, poco cambia. Ma l’assenza di
una critica della violenza, assunta come seconda natura – come
da classica ideologia italiana – finisce per ricadere nella sua estetizzazione un po’ glam (gli M83
che gorgheggiando sottendono
gli ammazzamenti credendosi i
Cocteau Twins): estetizzazione
che si porta dietro la responsabilità di una banalizzazione morale che accarezza lo stato di cose
presente senza neanche provare a
fargli il contropelo, e in definitiva
lo lascia così come è. Viene buono per i prossimi sequel, filmici e
narrativi.
FARE UN FILM È LOTTARE
PER IL MIO PAESE
di LAURA BISPURI
l nostro Paese costringe alla lotta.
Questa è la sensazione che mi porto
dentro dopo l’avventura di Vergine giurata. Un’avventura durata
per l’esattezza due anni e mezzo
di preparazione, quattro settimane e due giorni di riprese, cinque
mesi di montaggio, poi il mix, la
finalizzazione, i sottotitoli e infine un altro anno di presentazione in giro per il mondo: Stati Uniti, Cina, India, Africa, Europa. Per
un totale di circa quattro anni e
mezzo. Cos’è che spinge un regista a rimanere così attaccato alla
sua opera? Cos’è che gli fa credere che senza la creazione di quel
film non riuscirebbe a vivere, a
respirare? Cosa alimenta questo
rapporto così viscerale che lo accompagna per anni? Ripensandoci oggi mi rendo conto che mentre
aspettavo, quello che mi aiutava
era capire che stavo lottando non
solo per il mio film ma per il mio
Paese. La storia di Vergine giurata
è stata fin dall’inizio quella di un
progetto sostenuto più che altro
dall’Europa. In fase di sviluppo
ho passato un momento difficilissimo in cui in Italia stavo perdendo la possibilità di fare il film,
ma proprio allora fui selezionata all’Atelier del Festival di Cannes tra i 14 progetti considerati in
tutto il mondo i più meritevoli.
Questo film, se si fosse basato solo sui finanziamenti italiani, non
sarebbe mai esistito. Questo film
si è potuto realizzare solo perché
è stato fortemente voluto da vari
I
PUNTI DI VISTA
Paesi europei che sono entrati in
co-produzione (Germania e Svizzera) e distribuzione prima delle
riprese (Francia) e perché sostenuto da importanti fondi europei
come Media e Eurimages. La mia
lotta dunque non riguardava più
solo qualcosa di personale e intimo, ma diventava ogni giorno
di più un modo per sentirmi partecipe di un sistema più
ampio. Più in Italia trovavo di fronte un muro,
più volevo abbatterlo e
provare a tutti i costi a
rendere possibile ciò
che qui sembrava impossibile. Il film alla fine ha avuto una storia
che oggi mi rende felice perché il muro è stato abbattuto, il film si è
fatto, è stato selezionato in concorso a Berlino
e da lì in poi ha avuto un
grandissimo percorso
in tutto il mondo.
Ma, accanto alle mie difficoltà, non posso dimenticare altri autori
che ricevono dall’estero
grandissime attenzioni e che qui vengono invece trattati a volte ingiustamente. Mi viene
in mente che Mediterranea di Jonas Carpignano (Semaine de la Critique al Festival di Cannes
2015) in Italia non è uscito e non uscirà. Mi viene
in mente che Le meraviglie di Alice Rohrwacher,
che ha vinto il secondo
premio più importante
al mondo (Grand Prix al
Festival di Cannes 2014),
ha avuto al David di Donatello una nomination
per la produzione ma
non per la regia. Mi vengono in
mente gli incassi poco entusiasmanti di tanti film che all’estero hanno avuto percorsi molto
importanti: Bella e perduta di Pietro Marcello (Festival di Locarno
2015 in concorso), Salvo di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
(Grand Prix e Prix Révélation alla Semaine de la Critique 2013),
Louisiana di Roberto Minervini
(Un Certain Regard al Festival di
Cannes 2015). Mi viene in mente che un Paese come la Francia,
di solito, se ha un talento in casa
propria lo porta sul vassoio d’argento, l’aiuta, l’Italia invece tende ad avere un atteggiamento autolesionista. Sono sicura che ogni
autore che ho citato ha fatto la sua
grande battaglia e nel farla ha aiu-
politici, i documentari, i film d’animazione, che ci sia tutto e più
di tutto. E che la gente possa davvero scegliere perché tutto è offerto nello stesso modo. Sogno
un Paese che impari a non ghettizzare il termine “d’autore” come sfigato, ma che apprezzi l’idea
dell’art-house, cioè di un cinema
“autoriale” e “commerciale”, una
tato il nostro Paese a venire fuori. E sono certa che siamo tutti
pronti a continuarla questa battaglia, a favore di un’Italia che lavori
di più per la parità dei diritti. Che
ci siano pari opportunità di produzione e distribuzione, con più
varietà possibile: i cine-panettoni, i Checco Zalone, le commedie sofisticate, i film d’azione, di
fantascienza, i polizieschi, i film
cosa non deve necessariamente
escludere l’altra, un cinema con
lo sguardo preciso di un autore, la sua libertà, la responsabilità delle idee che propone, la sua
vita tutta lì dentro, ma che vuole arrivare a tutta la gente, un cinema che vuole essere proiettato nelle televisioni di tutte le
case, nelle scuole, nelle sale, nelle piazze, un cinema che cerca il
94 - 95
pubblico. Voglio combattere per
tutto questo e credo che il vero
senso del mestiere che amo abbia a che fare con questo patetico-utopico desiderio di voler
cambiare le cose.
In questo lungo viaggio in cui ho
portato Vergine giurata in giro per
il mondo, sono stata tre volte negli Stati Uniti dove il film è stato
molto amato, ha avuto
subito un distributore,
ha vinto al Tribeca, al Festival di San Francisco,
le più importanti testate
ne hanno scritto un gran
bene, il Festival di Los
Angeles l’ha inserito tra
gli 11 progetti più importanti dell’anno e proprio
all’inizio dell’anno ho ricevuto un invito per parlarne all’Università Tish di New York. Di certo
non si tratta di un film
d’azione! Eppure il calore attorno è stato tanto e
continua a esserci. Nei
miei viaggi ho incontrato lo sguardo e le parole
di uomini e donne di tutte le nazionalità, di tutte
le età e di tante classi sociali diverse. Tantissime persone sono venute a vedere il film e poi
ne abbiamo parlato. Se
esistono così tanti cittadini nel mondo che
vogliono vedere certi film italiani, perché
dobbiamo pensare che
qui in Italia non ci siano altrettanti numerosi
cittadini? Continueremo a lottare per questo
oggi, con entusiasmo e
convinzione, con le nostre idee, i sentimenti, con responsabilità e
passione e mettendo in gioco
noi stessi in modo totale. I risultati già ci sono e ci saranno
ancora di più. Andremo avanti, guardando in alto, lontano,
per un Paese che spero prima
o poi possa accorgersi di più
di noi, dandoci qualche soddisfazione in più e restituendoci
lo stesso coraggio con cui noi
continuiamo a lottare.
BIOGRAFIE
ALBERTO
ABRUZZESE
BRUNO
BALLARDINI
LAURA
BISPURI
VANNI
CODELUPPI
ROBERTO
SILVESTRI
Professore Emerito di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’Università IULM di
Milano, dove è stato Preside della Facoltà di Turismo, Culture e Territorio
e pro-Rettore per le Relazioni Internazionali e l’Innovazione Tecnologica. I
suoi campi di ricerca: comunicazione di massa, cinema, televisione e nuovi media, con un interesse
particolare verso i cambiamenti sociali collegati
all’uso diffuso dei media.
È stato per anni professore
di Sociologia della Comunicazione presso l’Università “Sapienza” di Roma e
presso l’Università “Federico II” di Napoli. Di recente ha pubblicato il testo Punto zero. Il crepuscolo
dei barbari (Luca Sossella
Editore, 2015).
Esperto di comunicazione
strategica e saggista. Filosofo di formazione, dopo
una lunga carriera nelle
multinazionali della pubblicità si è dichiarato un
“pubblicitario pentito” ed
è tornato all’università come docente. Tra i suoi libri di maggior successo,
La morte della pubblicità
(Castelvecchi 1994; ediz.
aggiornata, Lupetti 2013),
Gesù lava più bianco (Minimum Fax 2000, tradotto
in 11 Paesi), e ISIS® Il marketing dell’Apocalisse (Baldini & Castoldi 2015).
Con Passing Time vince il David di Donatello e
il corto viene selezionato tra gli otto più belli del
mondo per l’Académie
des César di Parigi. Con il
successivo, Biondina, ottiene il Nastro d’Argento
come “Talento emergente dell’anno”. Il suo primo
film Vergine Giurata viene
presentato alla 65° Berlinale, in competizione. Sono tanti i premi nei festival di tutto il mondo tra
cui il Nora Ephron al Tribeca Film Festival di
New York, il Firebird
Award all’Hong Kong International Film Festival,
il Golden Gate New Directors al San Francisco
International Film Festival, il FIPRESCI al PK
Off Camera di Cracovia,
il Globo d’Oro come Miglior Opera Prima.
Sociologo, le sue ricerche riguardano i fenomeni comunicativi presenti
nel mondo dei consumi,
dei media e della cultura di massa. Ha insegnato
nelle università di Modena e Reggio Emilia, Palermo e Urbino e, attualmente, è professore ordinario
in Sociologia dei processi culturali e comunicativi
presso l’Università IULM
di Milano.
Giornalista professionista, critico cinematografico de “il Manifesto” e, attualmente, di “Pagina99”;
è un conduttore storico
del programma di Radiorai3 “Hollywood Party”.
Ha pubblicato Da Hollywood a Cartoonia (Manifestolibri, 1993), Macchine
da presa (Minumum Fax,
1996), Il Ciotta Silvestri Cinema (Einaudi, 2012), Il
film del secolo (con R. Rossanda e M. Ciotta, Bompiani, 2013) e I cento colpi di Hollywood Party (Eri,
2014).
Il suo articolo è a pag. 8
Il suo articolo è a pag. 20
Il suo articolo è a pag. 94
Il suo articolo è a pag. 38
Il suo articolo è a pag. 72
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A 50 anni da L'armata Brancaleone
"Sei come una fuga di gas.
Non ti vede nessuno, non ti sente nessuno, ma ci ammazzi tutti..."
(da Joy, 2016, di David O. Russell)
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