Perché non sono diventato architetto? Why didn`t I become
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Perché non sono diventato architetto? Why didn`t I become
Orhan Pamuk Perché non sono diventato architetto? Why didn’t I become an architect? A metà degli anni Settanta, prima di dedicarsi alla scrittura, il futuro premio Nobel Orhan Pamuk ha frequentato la Facoltà di Architettura presso l’Università Tecnica di Istanbul. In questo saggio autobiografico, inedito in Italia, racconta il suo rapporto con lo spazio costruito e con il mestiere che non ha mai iniziato. In the mid 1970s, before becoming a full-time writer, future Nobel Prize-winner Orhan Pamuk studied in the Architecture School at Istanbul’s Technical University. In this autobiographical piece (hitherto unpublished in Italy) he describes his feelings about architecture and the trade he never took up. 290 481 M i capitava spesso di fermarmi a osservare con rispetto quel vecchio palazzo di novantacinque anni: la facciata stinta, in parte scrostata, sporca e scura, non diversa da quelle degli altri palazzi, era minacciosa come le malattie della pelle. A colpirmi era innanzitutto questo indubbio segno del degrado, dell’abbandono e dello sfinimento. I piccoli rilievi, graziosi rami con foglie, e le figure art déco asimmetriche mi ricordavano invece che questo palazzetto era stato costruito, diversamente da ciò cui alludeva il suo aspetto malandato, per una vita molto più piacevole e felice. Avevo notato parecchie crepe e buchi nei gocciolatoi, nei rilievi. Contandone i piani, compreso quello del negozio a pianoterra, avevo notato che gli ultimi due erano stati aggiunti nell’ultimo ventennio, mentre i primi quattro erano vecchi di un secolo. Sulla facciata di quelli nuovi non c’erano rilievi, gocciolatoi spessi, fini lavorazioni a mano. Alcuni non avevano neppure la stessa altezza. In genere venivano costruiti in fretta e furia approfittando di qualche condono edilizio, di qualche vuoto legislativo o di qualche funzionario comunale corrotto, disposto a chiudere un occhio; a prima vista sembravano più puliti e “moderni” rispetto al resto del vecchio palazzo secolare, ma gli interni erano già fatiscenti. In genere il mio sguardo indugiava poi su un vaso di fiori o su un bambino alla finestrella di un piccolo ballatoio – la caratteristica più specifica dell’architettura ottomana tradizionale – aggettante di circa un metro sulla strada. Allora d’istinto cominciavo a pensare che il palazzo doveva sorgere su un basamento di circa ottanta metri quadrati e a calcolare il suolo calpestabile per capire se fosse quel che andavo cercando. Mi ero messo sulle tracce di un vecchio palazzo nelle zone più antiche di Istanbul, fondate più di duemila anni fa, nei quartieri interni di Galata, Beyoglu, Cihangir, dove un tempo avevano vissuto i greci, gli armeni, e ancor prima i genovesi; non per abitarci, ma per uno scopo bizzarro: scrivere un libro e creare un museo. Quando iniziavo a osservare dal marciapiede il palazzo, il droghiere del rione si affacciava alla porta a illustrarmi le condizioni dell’edificio, la sua storia, chi fosse ILike so many from that era, it was unpainted and had lost would stand in awe before the ninety-five-year-old building: plaster here and there, and its dark and dirty surface had the air of some sort of frightening skin disease. The signs of age, neglect, and fatigue were what struck me first. But when I began to notice its little friezes, its witty leaves and trees, and its asymmetrical Art Deco designs, I forgot its sickly appearance, thinking instead of the happy, easy life this building had once enjoyed. I saw many cracks and holes in its rainspouts, its weatherboard, its friezes, and its eaves. Inspecting the several stories, including the shop on the ground floor, I could see that, like most buildings built a hundred years ago, it had originally been a four-story construction, the top two stories having been added twenty years ago. There were no friezes, no thick weatherboarding over the windows, and no fine handiwork on the facade. Sometimes these floors would not even be of the same height as those below, nor would their windows be aligned in the same way. Most of these floors had been added very hastily, profiting from home improvement drives, loopholes in the law, and corrupt mayors turning a blind eye. Perhaps at first sight they had looked modern and clean next to the building’s original century-old façade; twenty years later, their interiors seemed older and more dilapidated than those of the floors below. When I would look up at the little bay windows, the traditional Istanbul architect’s signature, hanging out over the street by three feet – my eye would settle on a flowerpot or a child peering out at me. My mind would automatically calculate that this building sat on a plot of about eight hundred and fifty square feet, work out how much usable space there was, and try to figure out whether or not it suited my needs. I was not looking for a building to turn into a home; I had begun to search Istanbul’s oldest neighbourhoods – streets going back two thousand years: the back streets of Galata, Beyoglu, and Cihangir, where Greeks and Armenians had once lived and, before them, the Genoese for a stranger purpose. I needed this house for a book and a museum. As I was gazing at the building from across the street, the grocer from the shop behind me came outside to tell me about il proprietario, e io ne deducevo che lui rappresentasse una specie di maggiordomo assunto dal proprietario perché controllasse l’edificio. “Ma si può entrare a dare un’occhiata?” chiedevo, dubbioso di poter accedere a una casa estranea senza chiedere il permesso agli inquilini. “Ma sì, entra, entra, amico mio, non ti preoccupare!” diceva il droghiere, rivelando scarsa sensibilità. L’ampia entrata era straordinariamente fresca durante il caldo estivo (a Istanbul, persino nei quartieri più ricchi, non esistono più palazzi con entrate e soffitti così suggestivi, così alti) e mentre sentivo allontanarsi le voci dei bambini del modesto quartiere o il rumore della fabbrica di plastica o dell’officina lì a due passi, mi era venuto da pensare che queste case erano state costruite per condurvi vite ben diverse. Salivo di due o tre piani e incoraggiato dal droghiere invadente alle calcagna, entravo in uno degli alloggi con la porta spalancata. Gli abitanti di questi palazzi, se non erano parenti, dovevano provenire dallo stesso paese dell’Anatolia e avevano in comune l’abitudine di tenere le porte aperte… Una volta dentro, il cuore mi si stringeva per un senso di vergogna e gli occhi si sgranavano come una cinepresa del cinema muto che registrava accanita tutto ciò che si affacciava all’obiettivo. Vedevo una donna sonnecchiare nel caldo pomeridiano, in un vecchio letto sistemato nell’ingresso. Passavo nella stanza accanto (non c’era il corridoio) senza che lei, riprendendosi dal torpore, si accorgesse di me, e trovavo quattro bambini, tra i cinque e gli otto anni, pigiati sul piccolo divano, davanti alla televisione a colori accesa. Nessuno di loro alzava la testa per guardarmi, le dita dei piedi sporgenti dal divano si muovevano nervose al ritmo del film d’avventura che stavano seguendo. La donna in cui m’imbattevo nell’altra stanza di questa casa affollata e silenziosa come il caldo pomeridiano, mi faceva capire subito chi comandava: “E tu, chi sei?” chiedeva quella mamma scorbutica con un’enorme teiera in mano. Mentre il droghiere le forniva spiegazioni, vedevo che il posto in cui la donna lavorava non era una cucina vera e propria; notavo che passando per forza da questa specie di cucinino si raggiungeva una stanza dove appariva un uomo anziano in mutande e canottiera e afferravo immediatamente che il progetto iniziale del palazzo aveva subito modifiche. Allora – convinto di poter ricostruire l’aspetto originale di questo piano solo dopo aver visto tutta la stanza in cui stava l’uomo in mutande – balzavo in quella stanza e in un’atmosfera d’imbarazzo condiviso da tutti (a eccezione del droghiere) osservavo i muri scrostati con un senso di sgomento. Così, in un mese, con l’aiuto del passaparola, degli sforzi del droghiere che da maggiordomo si era elevato al rango di mediatore e banditore, e grazie ai veri agenti immobiliari, avevo visitato centinaia di vecchie case, in una strada abitata dai curdi di Tunceli, nel quartiere dei Rom, a Galata, dove donne e bambini erano soliti sedersi sui gradini della soglia a osservare l’andirivieni della strada, su una salita dove le anziane signore annoiate mi chiamavano e volevano che visitassi anche loro. Avevo visto cucine semidistrutte, decrepiti soggiorni con temerari tramezzi, gradini corrosi e deformati, stanze con il pavimento di legno a pezzi the building – what condition it was in, how old it was, and who owned it – making it clear to me that the owner had engaged him to act on his behalf, if only as his eyes and ears. “Would it be possible for me to go inside?” I asked, somewhat anxiously, not wishing to enter a strange house without the permission of those living in it. “Go right in, brother, go right in and take a look, don’t worry!” bellowed the worldly grocer. Though it was a hot summer day, the entrance hall was spacious and extraordinarily cool (they don’t make these beautiful high-ceilinged entrance halls anymore, not even in apartment buildings in the wealthiest areas), and I could no longer hear the cries of the children in the shabby sheets outside or the noise from the plastics and machine shops opposite, only a few paces away, and all this reminded me that the houses in this area had been built with a very different sort of life in mind. I went up to the second floor, and then to the third, and with the encouragement of the curious grocer behind me, I entered whatever door, whatever apartment, I pleased. The people living here might not all be from the same family, but they came from the same Anatolian village and they kept their doors unlocked. As I wandered through these apartments, I greedily registered everything I saw, like a camera” making a silent film. Outside an apartment that led out to the entrance hall, I saw a woman dozing in an old bed pushed next to the wall. Before she could come out of her daze to look at me closely, I had gone into the adjoining room (there was no corridor), where I found four children between the ages of five and eight squeezed together on a little divan in front of a colour television set. No one lifted a head to look at me; the little toes of their bare feet, which were dangling over the side of the high divan, were twitching to the rhythms of the adventure film they were watching. When I wandered into the next room in this crowded house that was as quiet as the midday heat, I met a woman who at once reminded me of the days when I’d had to supply my name, rank, and serial number: “Who are you?” asked this frowning mother, in her hand a huge teapot. As the grocer behind me explained the situation, I noticed that the room in which the woman was working was not a proper kitchen; the only access to this narrow space was through a room in which an elderly man was resting in his underpants, and of course I understood that the present configuration was not the original plan for this building. I tried to imagine what this floor had once looked like. I formed a sense that the underpants man’s room in its entirety, staring at the walls, which, like all the others I had seen (except in the grocery) were flaking paint and plaster and a severe embarrassment. With the help of the neighbourhood gossip, with the eager guidance from the grocer, who had by now transformed from a helpful go-between into a real estate agent, as well as real agents working on commission, I spent the next month visiting hundreds of old apartments in that area – in a street where all the residents were Kurds from Tunceli, the Roma neighbourhood in Galata, where all the women and children sat on the stoop to watch the passers-by, or the alley where bored old ladies would shout down from their windows, “Why doesn’t he come up and look at this place too?” I saw half-collapsed kitchens, old sitting rooms haphazardly divided in two, staircases whose steps had been worn away; Questo testo fa parte della raccolta di saggi “Other Colours” (Random House Canada, 2007), di prossima pubblicazione in italiano presso la casa editrice Einaudi. This text is part of the collection of essays “Other Colours” (Random House Canada, 2007), to be published in Italian by Einaudi. 481 291 disegno di / drawing by David Levine 292 481 camuffato dai tappeti, magazzini, manifatture, trattorie e antiche residenze di famiglie ricche dai soffitti e dai muri decorati, trasformate in negozi di luci, edifici vuoti che, abbandonati per problemi di eredità ed emigrazione, marcivano lentamente, stanze dove pullulavano bambini come oggetti ficcati in un armadio, entrate fresche dall’odore di muffa, cantine riempite accuratamente di legna, di pezzi di ferro e di altri scarti raccolti sotto gli alberi o nei cassonetti dell’immondizia nelle strade secondarie della città, scale con gradini diseguali, soffitti gocciolanti, pareti grondanti d’umidità, scale senza luce e ascensori fuori uso, donne con lo scialle in testa che mi squadravano dagli spiragli delle porte mentre salivo le scale, gente nei letti, balconi con la biancheria stesa, muri su cui era scritto “Non buttare qui l’immondizia!”, bambini che giocavano nei cortili, grandi armadi simili tra loro che occupavano intere stanze da letto. Se non avessi visitato tante case, e tutte insieme, non avrei capito con tanta chiarezza che due sono le attività principali che vi si svolgono: 1. Distendersi su un letto, su un divano o su una poltrona e sonnecchiare. 2. Guardare la televisione a tutte le ore del giorno. Il più delle volte entrambe le cose contemporaneamente, e magari bevendo il tè o fumando. Nelle zone della città con lo stesso valore immobiliare, troppo spazio era dedicato alle scale; non ho visto case con diversa impostazione. Senza queste mie visite non avrei potuto accorgermi che le scale occupano uno spazio eccessivo e che i palazzi sono stretti; hanno facciate di cinque o sei metri, non hanno profondità. Così chiudevo gli occhi e dimenticavo tutte le facciate, tutti i palazzi, tutte le strade della città, cercavo di immaginare centinaia di migliaia di gradini e trombe di scale, e capivo che Istanbul è una foresta di rampe segrete dovute ai passaggi e alle suddivisioni di proprietà. Alla fine di tutte queste escursioni, ciò che mi aveva stimolato davvero la fantasia era la constatazione degli usi sorprendentemente differenziati di questi palazzi tuttora imponenti, seppur modesti rispetto alle ambizioni e alle speranze degli architetti e dei capimastri armeni che li avevano costruiti cent’anni fa per la popolazione greca e levantina della metropoli. Studiando architettura avevo imparato prima di ogni cosa che gli edifici prendono una forma consona alle immaginazioni degli architetti e dei committenti. Dato che negli ultimi cent’anni la popolazione greca, armena e levantina che aveva ideato questi edifici e li aveva abitati è stata costretta a emigrare, è intervenuta la fantasia dei nuovi inquilini a determinare la loro vita successiva. Non parlo di un’immaginazione attiva e sorgiva, il cui compito è modellare dal nulla i palazzi, le strade e delineare l’aspetto della città. Quel che ho in mente è una sorta di fantasia passiva, sviluppata dalle persone trascinate in queste vecchie vie, in questi edifici già strutturati, da luoghi lontani e inimmaginabili, per adattarsi all’ambiente. Posso paragonare tale immaginazione a quella di un bambino che prima di addormentarsi fantastica, di notte, in una stanza buia, seguendo le ombre sui muri. Se quel bambino dorme in una stanza sconosciuta che incute paura, la rende vivibile adattando le ombre a ciò che gli è più rooms with broken wooden floorboards concealed under carpets; storerooms, machine shops, restaurants, and old luxury apartments with fine plaster work on their walls and ceilings, now being used as chandelier shops; empty buildings rotting away with no owners, or else owners who had emigrated or were locked in a property dispute; rooms with little children crammed in as tightly as objects in a cupboard; cool ground floors whose damp walls smelled of mould; basements in which someone had carefully stowed wood, gathered from underneath trees and from rubbish bins and the city’s back streets, along with pieces of iron and all variety of rubbish; staircases in which no step was the same height as any other; leaky ceilings; buildings in which the lifts didn’t work and the lights didn’t work either; women in head scarves who watched through cracks in their doors as I walked past them on the stairs and past people sleeping in their beds; balconies where they’d hung their washing, walls that said NO LITTERING! and children playing in courtyards; and enormous wardrobes that all resembled one another and dwarfed everything else in the bedroom. If I hadn’t visited so many houses one after the other, I would never have seen so clearly the two essential things that people did in their homes: (I) Stretch out in a chair or on a divan, a sofa, a cushioned bench, or a bed and doze, and (II) watch television all the hours of the day. Most of the time they did both at the same time, while also smoking and drinking tea. In areas of the city where property values were about the same, there was much too much space given over to stairs; I saw no houses that departed from this design. After seeing how much room was taken up by staircases in buildings with barely fifteen or twenty feet of frontage and no room in the back, I tried to forget the facades, buildings, and streets of the city and conjure up hundreds of thousand of staircases and stairwells; having done so, I came to see the divided properties of Istanbul as a forest of secret stairways. At the end of my travels, what impressed me most was to see how these buildings, which despite their facades were small and humble dwellings made a hundred years ago for the city’s Greek and Levantine populations by Armenian architects and contractors, were being used in ways so amazingly different from the ways that their builders could have hoped for or conceived. I had learned one thing from my years studying architecture: Buildings take the shape of their architects’ and buyers’ dreams. After the Greeks, Armenians, and Levantines who had dreamed up these buildings were forced to leave them in the early years of the last century, they came to reflect the imaginations of the succeeding occupants. I am not talking here about an active imagination shaping these buildings and streets to give the city a certain look. I am talking of the passive imagination of people who came from faraway places to streets and buildings already looking a certain way, who then changed their dreams to adapt to it. I can liken this sort of imagination to that of a child who conjures up visions from the shadows on the walls before he goes to sleep in a dark room in the middle of the night. If he is sleeping in a strange and frightening room, he can make it bearable by imagining the familiar. If he is in a clean room he knows well, a room where he feels secure, he can build himself a dream world by likening the shadows to frightening Orhan Pamuk (Turchia, 1952) scrittore. Premio Nobel per la letteratura nel 2006, ha pubblicato romanzi tradotti in tutto il mondo, tra cui “Il mio nome è rosso” (2000), “Ka” (2002) e “Istanbul” (2003), un “memoir” sulla città in cui è cresciuto. Vive tra gli Stati Uniti e la Turchia, sotto protezione a causa di una serie di minacce di morte ricevute da gruppi di estremisti politici del suo paese. (Turkey, 1952) writer. He was awarded the Nobel Prize for Literature in 2006, and his novels have been translated all over the world. They include “My Name is Red” (2000), “Ka” (2002) and “Istanbul” (2003), a memoir of the city he grew up in. He lives in the US and Turkey under protection against death threats from political extremists in his own country. 481 293 familiare. Se invece si trova nella propria stanza pulita e rassicurante, si prepara al mondo dei sogni scambiando le ombre per le figure terribili delle favole. In entrambi i casi il bambino fantastica con il materiale frammentario e scombinato che ha a disposizione per adattarsi all’ambiente. In questo caso l’immaginazione non è al servizio di chi costruisce nuovi mondi davanti a un foglio bianco, bensì di chi cerca di adattarsi a stabilire un rapporto con un paesaggio preesistente. Ecco, le stanze e gli appartamenti delle persone venute a stabilirsi in quegli edifici abbandonati e decrepiti a causa delle ragioni più diverse – l’emigrazione, il decentramento dei quartieri industriali, l’emergere di una nuova classe borghese di origine turca, il sogno di occidentalizzazione – pullulavano dei segni di questo secondo tipo di fantasia. Chi si rifugiava in queste case e se ne impossessava per mezzo di un muro divisorio, creando cucine nei sottoscala, nei vani delle finestre, trasformando le entrate in magazzini o in sale d’attesa, dando luogo a zone con letti e armadi sistemati in posti inverosimili, chiudendo le porte e le finestre con mattoni e aprendo nei muri altre porte e finestre, a volte semplici buchi, utilizzando stufe con i tubi che uscivano a caso e dovunque per riscaldarsi nonostante la presenza del termosifone, era assolutamente estraneo ai progetti che gli architetti avevano tracciato sui fogli bianchi cent’anni fa. Parlo di fogli bianchi non per caso. Ho studiato per più di tre anni architettura all’Università Tecnica di Istanbul, ma non ho concluso gli studi e non sono diventato architetto. Oggi ormai sento che questo è dipeso dalle mie fastose immaginazioni moderniste compiute davanti a quei lontani fogli bianchi. Ho capito che non volevo diventare architetto, né pittore, come avevo sognato per anni. Mi sono alzato e allontanato dai grandi fogli bianchi di architettura che mi provocavano i capogiri, mi agitavano e mi incutevano paura, e mi sono messo a sedere davanti ad altri fogli bianchi, che allo stesso modo mi provocavano i capogiri, mi agitavano e mi incutevano paura. E sto così da venticinque anni. Il vuoto del foglio bianco, la sensazione di trovarmi all’inizio di ogni cosa, il sogno che il mondo finirà per adattarsi al mio progetto, sono identici a quelli dei tempi in cui sognavo di diventare architetto. Senonché, con gli stessi sogni sono riuscito a scrivere per venticinque anni, e continuo a farlo. Allora riformuliamo la domanda che venticinque anni fa mi veniva rivolta tanto di frequente, come adesso: Perché non sono diventato architetto? Risposta: Perché pensavo che i fogli nei quali avrei rispecchiato i miei sogni fossero bianchi. Invece, dopo venticinque anni di vita da scrittore ho capito ormai che i fogli non sono mai né bianchi né vuoti. So bene che, quando mi siedo alla scrivania, sono accompagnato dalla tradizione, dalle persone mai sottomesse alle regole e alla storia, da tutto ciò che è accidentale, disordinato, oscuro, terrificante e immondo, dal passato e dai suoi fantasmi, dai fatti realmente accaduti sui quali la società e la lingua ufficiali vorrebbero far scendere l’oblio, dalla paura e dagli spettri che alimentano la paura. Per trasferire tutto questo sui fogli ho dovuto scrivere romanzi che per una buona metà guardano alla storia, al passato, a ciò che la moderna Repubblica e l’occidentalizzazione vogliono dimenticare, e per l’altra metà rivolgono il proprio sguardo 294 481 al futuro e ai sogni. Se a vent’anni avessi compreso che avrei potuto fare lo stesso con l’architettura, avrei cercato di diventare architetto. Ma allora ero un risoluto modernista che cercava di liberarsi dal peso e dalla oscenità della storia, dai lemuri e dalla penombra, un ottimista sostenitore dell’occidentalizzazione che credeva di essere ancora agli inizi di tutto. Le persone insofferenti delle regole, la storia e la complessa cultura della mia città si manifestavano a me non come una componente dei miei sogni, bensì come ostacoli al loro avverarsi. Capii subito che non mi avrebbero lasciato costruire gli edifici che avrei voluto realizzare. Ma non potevano impedirmi di chiudermi in casa e scrivere. Ho impiegato otto anni per pubblicare il mio primo libro. In quel periodo, specialmente nei momenti in cui non avevo speranza che qualcuno lo pubblicasse, facevo un sogno ricorrente: sono studente di architettura, disegno un palazzo per la lezione di progettazione e manca poco alla consegna. Sono seduto a un tavolo e mi applico con tutte le mie forze, dovunque intorno a me ci sono disegni rimasti a metà, rotoli di carta, macchie d’inchiostro che sbocciano come fiori velenosi. Più vado avanti con il lavoro, più mi vengono idee brillanti; ma a dispetto del mio fervore i tempi di consegna incalzano angusti, quella terribile scadenza si avvicina; in realtà so bene che se non riuscirò a finire in tempo questo ampio e articolato progetto, la responsabilità e la colpa sono mie. Mentre lavoro fantasticando ancor più febbrilmente il mio senso di colpa è così profondo che si trasforma in un dolore intollerabile e mi sveglio. Vorrei chiarire anzitutto che il terrore dietro a questo sogno ovviamente non riguardava gli esami universitari: è la paura di diventare scrittore. Se fossi diventato architetto avrei avuto bene o male un mestiere e avrei guadagnato abbastanza da garantirmi uno stile di vita medio borghese. Quando iniziai a prospettare in modo vago la mia intenzione di diventare scrittore e scrivere “romanzi”, i miei parenti e amici in coro mi dicevano che negli anni a venire avrei sofferto molto a causa della penuria di denaro. Il mio sogno soddisfaceva dunque un desiderio nascosto, a dispetto di tutti i sensi di colpa: mentre cercavo di diventare architetto non mi distaccavo da una vita “normale”. Ritmi esagerati di lavoro e fantasticherie intense in scadenze strettissime, hanno spesso segnato la mia condizione di spirito anche quando in seguito avrei scritto senza limiti di tempo. Allora, quando mi domandavano perché non fossi diventato architetto, fornivo la stessa risposta adottando un altro linguaggio: “Perché non voglio costruire condomini!” Con “condomini”, intendevo uno stile di vita, un concetto architettonico. Dopo gli anni Trenta la vecchia città fu quasi completamente abbandonata, le classi medie e alte avevano cominciato ad abbattere le case a due o tre piani con grandi giardini, e a costruire palazzi che in sessant’anni avrebbero portato la distruzione di tutto il vecchio tessuto e dell’aspetto storico di Istanbul. Alla fine degli anni Cinquanta, quando incominciai la scuola elementare, tutti gli alunni della classe abitavano in appartamenti. Questi palazzi dalle facciate semplici e moderne stile Bauhaus, ma con gli sbalzi dei balconi tipici delle case turche tradizionali, che avrebbero poi ricordato brutte imitazioni dello stile creatures from legends. In both instances, his imagination is working with the fragmented and haphazard material at hand to create dreams that fit in with the place where the child happens to be. So the imagination in question is not in service to a person who is creating new worlds on a blank sheet of paper, it is in service to someone who is trying to fit in with a world already made. The waves of migration that Istanbul saw over the past century, the shifting of industries from one neighbourhood to another, the emergence of a new Turkish bourgeoisie, the dreams of Westernization that had prompted some people to abandon these buildings and dilapidated rooms, to be replaced by others from elsewhere – everywhere you looked in Istanbul, you saw signs of that second, accommodating, imagination. The people who had built these partitions, who had turned stairwells and bay windows into kitchens and entrance halls into storerooms or waiting rooms, who had created living space by putting beds and wardrobes in the most unexpected places, who had bricked up walls and windows or put new windows and doors into walls or knocked holes through them, who had equipped all the stoves in these buildings with pipes that snaked across every wall and ceiling – who had taken all these measure to turn these places into home – these people were utterly foreign to the intentions of the architects who had conceived these houses a century earlier. It is not by chance that I speak of blank sheets of paper. I studied architecture at Istanbul Technical University for about three years, but I did not graduate to become an architect. I now think that this had to do with the ostentatious modernist dreams I set down on those blank sheets. All I knew at the time was that I did not want to become an architect – or a painter, as I had dreamed for many years. I abandoned the great empty architectural drawing sheets that thrilled and frightened me, making my head spin, and instead sat down to stare at the blank writing paper that thrilled and frightened me just as much. That’s where I’ve been sitting for twenty-five years now. As a book takes shape in my mind, I believe myself to be at the beginning of everything; I believe that the world will conform to my ideas – just as I did when I dreamed up buildings as an architectural student. The only difference is that those dreams informed my writing for twenty five years. So let’s ask the question that I heard quite a lot twenty-five years ago and that I still ask myself from time to time: Why didn’t I become an architect? Answer: Because I thought the sheets of paper on which I was to pour my dreams were blank. But after twenty-five years of writing, I have come to understand that those pages are never blank. I know very well now that when I sit down at my table, I am sitting with tradition and with those who refuse absolutely to bow to rules or to history; I am sitting with things born of coincidence and disorder, darkness, fear, and dirt, with the past and its ghosts, and all the things that officialdom and our language wish to forget; I am sitting with fear and with the dreams to which fear gives rise. To bring all these things to the page, I had to write novels that drew from the past, and all the things that the Westernizers and the modern Republic wished to forget, but that embraced the future and the imagination at the same time. Had I thought, at the age of twenty, that I could do the same with architecture, I might well have become an architect. But in those days I was a resolute modernist who wished to escape from the burden, the filth, and the ghost-ridden twilight that was history – and what’s more, I was an optimistic Westerner, certain that all was going to plan. As for the peoples of the city in which I lived who conformed to no rules with their complex communities and their histories – they did not figure in my dreams: I saw them instead as obstacles, there to keep my dreams off from being realized. I understood at once that they would never let me make the sorts of buildings I wanted in those streets. But they would not object if I shut myself up in my own house and wrote about them. I took me eight years to publish my first book. Throughout this time, and especially at the points when I had lost hope that anyone would ever publish me, I had a recurring dream: I am an architecture student, and I am in an architectural design class, planning a building, but there is very little time left before I have to hand my design in. I am sitting at a table, putting everything I have into my work, surrounded by half-finished sketches and rolls of paper, and on all sides ink stains are opening up like poison flowers. As I labour on, ideas come to me that are even more brilliant than the ones I had before, but despite my feverish efforts the fearsome deadline is fast approaching, and I know full well that I have no more chance of realizing this great new idea than I have of finishing the building on my sheet of paper. It is my fault that I cannot finish my project in the time I have left, my fault entirely. As I conjure up visions of ever-greater intensity, I am so racked by guilt that the pain wakes me up. The first thing to say about the fear that gave rise to this dream is that it is the fear of becoming a writer. Had I become an architect, I would at least have had a proper profession and would at least have been able to earn enough money to enjoy a middle-class life. But when I began to say, somewhat obscurely, that I was going to be a writer and write novels, my family told me I would suffer financial hardship in the years ahead. So in the face of all that guilt and that fearful running out of time, this was a dream that assuaged the pain of my longings. Because when I was studying to be an architect, I was still part of “normal” life. To work this hard, against the clock, and to dream intensely – this would only characterise my life later on, when I was writing novels against no deadlines whatsoever. In those days, when people asked me why I had not become an architect, I would give the same answer in different words: “Because I didn’t want to design apartments!” When I said apartments, I meant a way of life as well as a particular approach to architecture. It was during the I930s that Istanbul’s old historic neighbourhoods emptied out, as the moneyed classes began to tear down their two- and three - story houses with their spacious gardens, using these and other empty lots for apartment buildings that within sixty years had utterly destroyed the city’s old fabric. When I began school in the late 1950s, every child in my class lived in an apartment. In the beginning, the facades mixed a plain Bauhaus modernism with traditionally Turkish bay windows; later on they became poor, uninspired copies of the international style; and because the inheritance law ensured that many of the plots on which one built were very narrow, their interiors were all identical. Between them 481 295 internazionale, presentavano interni molto simili tra loro per via di problemi legati alle divisioni ereditarie o all’esiguità dell’area costruita. Scale strette in mezzo e un buco di aerazione chiamato “cavedio”, un soggiorno davanti e dietro due o tre stanze affidate al talento dell’architetto e allo spazio. Un lungo corridoio che collega il soggiorno alle stanze retrostanti, le finestre sul cavedio e quelle della tromba delle scale sono gli elementi che rendono gli alloggi terribilmente simili tra loro. Puzzavano sempre dello stesso odore di muffa, di stantio, di olio fritto e di escrementi di uccelli. Ciò che m’inibiva di più mentre studiavo architettura era l’idea di essere obbligato a tirar su palazzi del genere, seguendo il piano regolatore, il gusto semioccidentalizzato delle classi medie e, ancor peggio, il profitto. In quei tempi molti parenti e amici scontenti che si lamentavano degli architetti disonesti, mi dicevano che mi avrebbero affidato volentieri, una volta diventato architetto, i terreni ereditati dai loro padri perché ci costruissi quel genere di murature. Non sono diventato architetto e così mi sono liberato dal compito di costruire palazzi di questo tipo. Sono diventato scrittore e ho scritto molte cose su questi edifici. La scrittura mi ha insegnato che sono le fantasie degli inquilini a trasformare un palazzo in una casa. Esse si alimentano degli angoli vecchi, depressi, cupi e sporchi dei condomini. Così come vediamo vecchi palazzi diventare più belli col passare del tempo, allo stesso modo vediamo le facciate di palazzi che non avevano nessuna intenzione di diventare delle case trasformarsi in costruzioni intessute di sogni. Ecco come mi spiego tutte quelle stanze suddivise in due, le pareti forate, le scale sbrecciate or ora descritte. Ecco ciò di cui l’architetto non potrà rinvenire le prove e le impronte tangibili: i sogni attraverso i quali i primi inquilini di un nuovo e ordinario palazzo – costruito con una foga animata da ideali modernisti e filo-occidentali – ne abbiano fatto una casa. Mentre camminavo tra le rovine del terremoto – frammenti di muri, vetri rotti, pantofole, sottolumi, tende infilate dovunque, tappeti e grumi di mattone e calcestruzzo –, quel terremoto costato la vita a trentamila persone, ho avvertito ancora una volta e con maggiore intensità l’esistenza dell’immaginazione dell’uomo che riesce a trasformare ogni edificio, ogni rifugio vecchio o nuovo in una casa. Come i protagonisti di Dostoevskij che si aggrappavano alla vita anche nelle condizioni più difficili grazie alla loro fantasia, così noi sappiamo nelle situazioni più dure trasformare gli edifici in case. E quando queste case crollano dopo un terremoto, capiamo con dolore che esse sono in realtà edifici. Mio padre mi raccontò di essere andato, subito dopo il sisma, a rifugiarsi in un altro palazzo duecento metri più lontano, nel buio della notte, visto che in tutta la città era mancata la corrente elettrica. Quando gliene chiesi la ragione mi rispose: “Quello è solido, l’ho costruito io”. Era quel palazzo di famiglia dove avevo trascorso la mia infanzia con la nonna, gli zii e le zie, e dove ho ambientato molti miei racconti. E mio padre – io credo – era andato a rifugiarsi laggiù non perché fosse davvero più sicuro: ma perché era una casa. 296 481 were stairwells and narrow ventilation shafts that some called “the darkness” and others “the light”; in the front was the sitting room and in the back, according to the size of the plot and the skill of the architect, were two or three bedrooms. There were long narrow corridors connecting the single front room with the several rooms at the back; these, along he windows looking out onto “the light” and the windows in he stairwell, made all these apartments look terrifyingly alike; and they all smelled of mould, cooking oil, bird droppings, and want. What frightened me most during my years of studying architecture was the prospect of having to design cost-effective apartments on these narrow little plots in accordance with current housing regulations and the tastes of the half-Westernized middle class. In those days, many relatives and acquaintances who complained about dishonourable architects told me that, once I was an architect, they would make sure I could build my own apartments on the empty lots owned by their parents. By not becoming an architect, I was able to escape this fate. I became a writer, and I have written a great deal about apartments. What I have learned from everything I have written is this: A building’s homeliness issues from the dreams of those who live in it. These dreams, like all dreams, are nourished by that building’s old, dark, dirty; and disintegrating corners. Just as in some buildings we see facades become more beautiful with age, and interior walls take on a mysterious texture, so too can we see the traces of its journey from a building with no meaning into a home, a construction of dreams. This is how I understand the partitioned rooms, punctured walls, and broken staircases I described earlier. These are things for which an architect can find neither the traces nor the proof: the dreams with which the person who first occupies a new and ordinary building (conceived in a burst of modernizing, Westernizing enthusiasm and made as if it were starting from the beginning) turns it into a home. When I was walking among the ruins of the earthquake that killed 30,000 people, I felt the presence of this imagination again, and very powerfully – walking among all those fragments of walls, bricks, and concrete broken windows. Slippers, lamp bases, curtains, and carpets: every building, every shelter, new or old, that a person entered, it was his imagination that turned it into a home. Like Dostoyevsky’s heroes, who use their imaginations to cling to life even in the most hopeless circumstances, we too know how to turn our buildings into homes, even when life is very hard. But when an earthquake destroys these homes, we are painfully reminded that they are also buildings. Just after that earthquake that killed 30,000 people, my father told me how he’d found his way out of one apartment house and groped his way through the pitch-dark street to take refuge in another apartment building two hundred yards away. When I asked why he had done so, he said, “Because that building’s safe. I made it myself.” He meant the family apartment house where I had spent my childhood, the building we once shared with my grandmother, my uncles, and my aunts, and that I have described so often – in so many novels – and if my father took refuge there, I would say it was not because it was a safe building but because it was a home.