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I Romani a tavola
I Romani a tavola Nicoletta Marini Trattare della cucina ai tempi dei Romani può comportare delle generalizzazioni. Già nell'Italia del III/II sec. a.C. si poteva distinguere infatti una cucina dell'Italia centro-meridionale, influenzata anche dalle civiltà etrusca e greca, e una cucina del Nord, legata alle tradizioni celtiche. Inoltre, in ogni età, le popolazioni di mare disponevano con maggior facilità di sale (un ingrediente molto caro in antichità) e consumavano alimenti che spesso mancavano alle popolazioni dell'entroterra. Inoltre, con l'estendersi dei domini nel Mediterraneo e poi in Oriente, la cucina dei latini presentò grandi varietà di ingredienti, piatti e abitudini gastronomiche: un cittadino romano dell'Egitto o della Palestina poteva avere un regime dietetico, un atteggiamento verso il cibo, nonché consuetudini alimentari ben diverse da quelle di un romano della capitale. Ciò premesso, vediamo in linea generale come si cibavano i Romani. Lessico cena, –ae pranzo, cena (pasto principale della giornata; iniziava nel pomeriggio) cenam facere dare un pranzo inter cenam durante il pranzo ad cenam invitare invitare a pranzo convivium, –i convivio, banchetto coquus, –i cuoco gustatio, –onis antipasto ientaculum, –i prima colazione mensa, –ae tavola instruere mensas apparecchiare mensam removere (o tollere) sparecchiare piatto, portata secundae mensae dessert prandium, –i pranzo, pasto (consumato intorno a mezzogiorno) symposium, –i banchetto Stoviglie e utensili amphora, –ae anfora, vaso (a due manici, per olio, vino ecc.) calix, –icis calice, bicchiere cantharus, –i cantaro, coppa a due anse catinus, –i piatto fondo, scodella cochlear, –aris cucchiaio crater, –eris cratere, brocca (dove si mescolavano vino e acqua) culter, –cultri coltello linteum, –i tovagliolo (di lino) patella, –ae piatto (per cuocere o servire le vivande) patina, –ae piatto; padella poc(u)lum, –i bicchiere, coppa; bevanda scyphus, –i coppa, tazza trulla, –ae mestolo Cibi e condimenti agnus, –i agnello anser, anseris oca aper, apri cinghiale apium, –ii sedano asparagi, –orum asparagi brassica, –ae cavolo caseus (-um), –i formaggio cepa, –ae cipolla cepula, –ae cipollina ciceres, –um ceci farina, –ae farina fabae, –arum fave far, farris farro ficus, –i fico garum, –i salsa di interiora di pesce azzurro (usata come condimento) holus, –eris ortaggi, verdura lac, lactis latte lactuca, –ae lattuga; insalata lepus, –oris lepre mel, mellis miele oleum, –i olio olivae, –arum olive ostrea, –arum ostriche ovum, –i uovo panis, –is pane panis ater pane nero panis candidus pane bianco cibarius panis pane comune panis nauticus galletta dei marinai perna, –ae prosciutto piscis, –is pesce placenta, –ae focaccia, torta poma, –orum frutta porcus, –i maiale puls, pultis polenta; farinata sal, salis sale sus, suris (m. e f.) maiale; scrofa Bevande aqua, –ae acqua aqua mulsa idromele (acqua con miele) cervisia, –ae birra posca, –ae posca (bevanda a base di acqua e vino scadente) vinum, -i vino vinum merum vino puro (senza aggiunta di acqua) vinum mulsum vino con miele vino madens ubriaco fradicio Nota Benché la cucina al tempo dei romani fosse ben diversa dalla nostra, moltissimi nomi italiani di cibi e ingredienti derivano dal latino (e dal greco), come hai potuto vedere dalla lista che hai appena letto. Tuttavia un certo numero di termini latini non sono entrati in italiano. Alcuni cibi, infatti, come il garum non sono più stati utilizzati dopo la fine della civiltà latina. Oppure si sono imposti altri nomi: è il caso dell'italiano "cavolo" (lat. brassica) sostantivo che sembra derivare dal modo in cui in Italia meridionale si denominava questa pianta, dal greco (nel latino tardo è attestato caulum). Non si conosce invece l'etimologia di "sedano" (lat. apium). Il nome "formaggio" deriva dal francese fromage, nel senso di "cacio messo in forma". Il sostantivo "birra" deriva dal tedesco Bier. Cibi entrati in Italia nel Medioevo e soprattutto dopo la scoperta dell'America presentano nomi non di origine greco-latina: per es. arancio (dal persiano narang), patata e mais (entrambi da dialetti delle popolazioni centro-americane) ecc. I pasti della giornata Tre erano i pasti principali. La prima colazione (ientaculum) si consumava nel primo mattino e comprendeva pane, formaggio, uova, verdure dell'orto, olive, vino puro o con miele. I bambini potevano mangiare anche biscotti e piccoli dolci. Intorno a mezzogiorno aveva luogo un secondo pasto veloce (prandium), spesso consumato in piedi, a base di analoghi alimenti, preparati freddi o caldi. In epoca arcaica il pane non era usato nel Lazio, ma piuttosto polentine di farro, orzo, miglio, successivamente di frumento (il mais fu importato dopo la scoperta dell'America). Questa polenta era chiamata puls e fu alla base dell'alimentazione dei latini per tutta l'epoca antica. Era preparata facendo bollire nell'acqua o nel latte dei cereali macinati; poteva essere arricchita con l'aggiunta di lenticchie, fave, ceci. Solo in un secondo tempo si impose l'uso del pane azzimo, tipo piadina, o lievitato. "La fatidica formula panem et circenses è, almeno sino al III sec. d.C., metaforica: la plebe non riceveva pane, ma frumento" (G. Pucci, p. 379), il quale veniva usato per preparare la puls o altri piatti. In età imperiale esistevano comunque diversissimi tipi di pane: c'era il pane dei poveri, chiamato cibarius, e quello nero (ater) e un po' indigesto per l'abbondante presenza di crusca; c'era poi il pane bianco (candidus) e tenero dei ricchi; e ancora quello condito con burro tipico del Nord Italia e della Gallia o quello dolce, il buccellatum, simile a un biscotto. I contadini e gli operai, e comunque chiunque svolgesse lavori pesanti, usava pagnotte arricchite con formaggio e miele. Il pranzo vero e proprio era la cena, che iniziava nel tardo pomeriggio e si protraeva anche per diverse ore (in certi casi anche per tutta la notte sino al mattino successivo). Durante la cena si riunivano la famiglia e anche gli amici; essa rappresentava non solo l'occasione di nutrirsi (come la prima colazione e il prandium), ma un importante momento conviviale e di piacere. "La cena, a Roma, è uno dei grandi momenti della giornata. I convitati non si limitano soltanto a mangiare, ma celebrano un rituale sociale, quotidiano, fondamentale alla coesione della comunità. (…) Ogni sera, l'uomo romano si inserisce in una comunità umana, famiglia e amici, associazione religiosa, condividendo i piaceri di una cena. Soltanto il celibe sfortunato, la sera in cui non viene invitato o non invita qualcuno, deve accontentarsi di un pasto frugale" (F. Dupont, p. 28; p. 287). È questa mentalità che ci aiuta a capire il significato di componimenti come quello di Catullo rivolto all'amico Fabullo (c. 13) o di tanti versi oraziani (cfr., ad esempio, Sat. I 6, 115; II 7, 29-35 ecc.). Lo svolgimento dei pasti Con l'età imperiale la cena si consumava in stanze apposite, i triclinia, in cui si trovavano dei divani disposti a ferro di cavallo dove i commensali stavano semisdraiati, appoggiati sul gomito sinistro (la mano destra era libera per mangiare). Per i romani, infatti, sedersi a tavola era proprio degli zoticoni di campagna o dei provinciali. Al centro della sala stava la tavola (mensa). Le portate erano servite dagli schiavi sulla tavola centrale e poi offerte ai convitati. Venivano usati anche carrelli di servizio attraverso i quali i commensali potevano attingere direttamente ai grandi vassoi di portata. Il convitato aveva a disposizione un piatto su cui metteva il cibo. Questo, poi, veniva portato alla bocca direttamente con le mani, senza l'uso di forchette o coltelli. Le porzioni venivano tagliate prima dai servi. Inoltre i romani amavano i cibi ben cotti e molto teneri, ragion per cui i commensali non usavano i coltelli. Solo il cucchiaio era indispensabile per i cibi liquidi o semiliquidi. Questo uso durò sino all'età medioevale. Il banchetto comprendeva tre momenti principali. Nell'antipasto (gustatio) si servivano cibi che stuzzicassero l'appetito, accompagnati da vino dolce. Non vi erano i primi piatti, ma, dopo l'antipasto, si passava direttamente a quelli che per noi sono i secondi: si trattava di portate a base di verdure, cereali, uova, legumi, carni e pesci. Alla fine c'erano le secundae mensae, ovvero il dessert, con dolci e frutta. Questo ultimo momento prevedeva brindisi, giochi, spettacoli di mimi, canto e danza. I convitati venivano inghirlandati e profumati (si veda il carmen 13 di Catullo) e talvolta invitati anche a intrattenimenti licenziosi. Plinio il giovane, per esempio, ci informa che le secundae mensae dell'imperatore Traiano erano "oneste" perché prevedevano solo letture e musica. Ben diverso appare invece il banchetto di Trimalcione descritto nel Satyricon. Le cene dei più poveri erano basate sugli stessi alimenti del veloce prandium mattutino. Gli alimenti L'alimentazione dei romani era piuttosto simile a quella dei greci, basata sui prodotti tipici del Mediterraneo, come olio, vino, ortaggi, frutti tipici. Una differenza tra i due popoli riguarda il cereale alla base della puls: per i greci era l'orzo, per i romani, soprattutto in epoca più antica, il farro. La maggior parte dei piatti era preparata con alimenti di origine vegetale. Nella cucina romana avevano largo impiego i cereali, fondamentali per il loro valore nutritivo, i legumi e gli ortaggi (holera). Non mancavano mai la cipolla e l'aglio per insaporire i piatti. I frutti più apprezzati erano i fichi, le mele, le pere, le castagne, le mandorle. La popolazione consumava poca carne. Il tipo di carne più usato era di maiale e di scrofa (le mammelle di scrofa erano considerate particolarmente prelibate). Anche dai resti archeologici emerge che l'animale più comune nel Lazio antico, ricco di querce e lecci, era il maiale. A tavola erano impiegate anche le carni ovine, caprine, nonché la selvaggina (lepri, fagiani, tordi ecc.). Si mangiavano raramente manzi e vitelli, considerati animali da lavoro o trasporto. Solo i bovini più vecchi o malati venivano macellati per scopi alimentari; la loro carne veniva fatta bollire a lungo oppure arrostita. Nei banchetti dei ricchi o alle mense delle popolazioni di mare si consumava pesce azzurro, come sgombri, orate, acciughe, sarde, e anche seppie, calamari e molluschi. I pesci provenivano anche da allevamenti (piscinae). L'apporto di proteine animali era quindi piuttosto scarso e veniva integrato dai grassi vegetali, in particolare dall'olio di oliva, che era il condimento di base nell'Italia centro-meridionale (in Gallia Cisalpina si usava in alternativa il burro e il lardo). L'olivo, importato dalla Grecia, era coltivato già a partire dal VI sec. a.C. in Lazio e in Etruria. La cucina romana non aveva a disposizione elementi per noi divenuti indispensabili, come il pomodoro, le patate, gli agrumi, le melanzane. Anche lo zucchero e la dolcificazione fu spesso un problema per i cuochi romani. Solo pochi conoscevano il saccharon (zucchero) che veniva importato dall'Oriente ed era carissimo. Per rendere dolci gli alimenti o le bevande si usava generalmente il miele, i datteri, l'uva passa. Ma il miele dei romani, poiché gli apicoltori affumicavano le arnie per poterlo estrarre, aveva un retrogusto particolare. Il miele o prodotti dolcificanti venivano ampiamente usati anche per le carni e le verdure, che ottenevano così spesso un gusto agro-dolce. Il miele aveva costi notevoli, quasi pari al migliore olio di frantoio. Anche il sale era un ingrediente piuttosto caro e non sempre disponibile, soprattutto nelle mense dei più poveri: veniva sostituito con il garum, una salsa salata a base di interiora fermentate di pesce. Un altro elemento immancabile nella cucina romana era il vino, usato come bevanda, spesso allungato con l'acqua, oppure come ingrediente nei più diversi piatti. Il vino era vietato alle donne e ai giovani. I più poveri, i contadini e i soldati bevevano la posca, un miscuglio di acqua e vino di scarto che incominciava a inacidirsi. Con questa bevanda era stato bagnato il panno che il legionario romano passò sulle labbra del Cristo morente non come gesto di scherno, ma di pietà. La birra (cervisia) invece fu sempre considerata una bevanda da barbari. Mentre in epoca arcaica i romani furono in cucina molto frugali, con le conquiste nel Mediterraneo anche la gastronomia si fece più raffinata ed esotica. Sulle tavole dei ricchi arrivarono cibi e ricette straniere; si incrementò via via sia il consumo della carne, al posto di puls e holera, sia quello del vino. Con l'età imperiale, cibarsi prevalentemente di alimenti vegetali, come era prassi comune nella Roma delle origini, divenne un ideale di vita da contrapporsi alla luxuria e al degrado morale dei tempi. In origine erano le donne della casa a preparare il pasto, successivamente nelle famiglie più ricche questo compito passò ai cuochi (coqui), alcuni dei quali raggiunsero una notevole fama tanto da venir contesi dalle famiglie più abbienti. Una delle capacità dei cuochi romani era quella di saper trasformare i cibi tanto da renderli irriconoscibili. Questo piaceva ai nobili e ai più ricchi che non amavano i gusti semplici, ma quelli profondamente manipolati che non permettevano di riconoscere quale fosse l'ingrediente-base del piatto. Ecco perché i condimenti erano importantissimi: tra gli aromi più usati dai cuochi c'erano il pepe, il cumino, il ligustico (un tipo di sedano), lo zafferano, lo zenzero, la menta, oltre all'aglio e alla cipolla. Nel banchetto descritto nel Satyricon i commensali sono spesso stupiti alla vista e al gusto delle portate preparate con alimenti diversi da quelli che apparivano. L'estetica di un piatto era molto importante: il bravo cuoco sapeva disporre con straordinaria creatività i cibi nei piatti di portata. La gastronomia nella letteratura latina Nel mondo latino alla gastronomia furono dedicate molte opere, come il De re coquinaria (L'arte culinaria), un ricettario scritto da un certo Apicio, nel I sec. d.C. Secondo le fonti Apicio sarebbe stato un ricchissimo romano che avrebbe sperperato tutto il suo patrimonio nei banchetti e nei piaceri della vita. Secondo Seneca (Consol. Ad Helv. 10, 8-10) "dopo aver dilapidato in pranzi cento milioni di sesterzi (…), oberato dai debiti, fu costretto a fare i conti, per la prima volta: calcolò che gli restavano dieci milioni di sesterzi, con i quali avrebbe fatto la fame. Allora si avvelenò". Si tratta di una notizia ovviamente esagerata (dieci milioni di sesterzi restavano comunque una bella sommetta…). Essa tuttavia ci illumina sulla personalità di Apicio e sulle esagerazioni gastronomiche dei romani di età imperiale, illustrateci anche nel Satyricon e negli epigrammi di Marziale. L'opera di Apicio resta comunque una testimonianza fondamentale sulla gastronomia romana dell'età di Tiberio. Una curiosità Un'ultima curiosità. Secondo alcuni storici moderni, le abitudini culinarie dei ricchi romani avrebbero causato nei secoli un grave processo di intossicazione, causa di un vero e proprio avvelenamento della classe dirigente romana. La preparazione di alimenti e la cottura del vino in pentole di piombo (metallo tossico), il consumo eccessivo di aceto e pepe, l'uso del papavero, la scarsa attenzione per la ruggine del grano, il consumo di carne tratta da animali morti per malattia o per vecchiaia, l'eccessiva frollatura delle carni stesse e altri fattori dovuti a trascurata igiene, avrebbero compromesso negli anni la salute dei ricchi romani. "Da questa intossicazione generale furono immuni i poveri che si erano nutriti e si nutrivano di alimenti semplici e naturali" (G. Carazzali, p. XXIII). Per saperne di più – Apicio, L'arte culinaria, a cura di G. Carazzali, Bompiani, Milano 1990 (con ampia introduzione). – G. Pucci, I consumi alimentari, in Storia di Roma, vol. IV "Caratteri e morfologie", Einaudi, Torino 1989, pp. 369-388. – F. Dupont, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, trad. it., Roma-Bari 1990, cap. XVI "Il cibo, i banchetti e i piaceri della sera". Lettura di brani in traduzione Invito a cena Catullo carmen 13, trad. di F. Della Corte Ti invito, o mio Fabullo, ad una lauta cena, fra pochi giorni, se te lo consentono gli dei, purché sia tu a portarti la cena abbondante e succulenta, non senza una bella ragazza e vino e sale e un mucchio di risate. Se – come dico – sarai tu a portare tutto ciò, ti invito, bello mio, ad una lauta cena. Purtroppo il borsellino del tuo Catullo è pieno solo di tele di ragno. In cambio avrai un'affettuosa accoglienza E in aggiunta quello che c'è di più attraente e raffinato: ti offrirò il profumo che Veneri e Amorini hanno donato alla ragazza del mio cuore. Tu, o Fabullo, quando lo sentirai, pregherai gli dei che ti trasformino tutto in un unico naso. Esagerazioni gastronomiche dei romani Seneca, Consolazione alla madre Elvia, 10, trad. di A. Traina Gli dei e le dee maledicano una ghiottoneria che travalica i confini di un tale impero! Vogliono che si catturi oltre il Fasi (1) gli ingredienti della loro gastronomia, e si preoccupano di importare dai Parti (2) volatili invece che importare vittorie. Convogliano da ogni parte tutti i cibi noti al palato più esigente; si trasporta dall'oceano, ai confini del mondo, ciò che lo stomaco guastato dalle raffinatezze lascia appena entrare: vomitano per mangiare, mangiano per vomitare, e non si danno neppure la pena di digerire le pietanze reperite in ogni angolo della terra. (1) Fiume del Caucaso, ritenuto confine tra Asia ed Europa. Il riferimento di Seneca è ai fagiani, phasiani, che presero il nome dal fiume Phasis. (2) Nemici storici dei romani. Il garum Plinio il Vecchio, Storia Naturale XXXI 93-94, trad. di I. Garofano Vi è ancora un altro tipo di liquido squisito, chiamato garum, ottenuto facendo macerare nel sale gli intestini di pesci e le altre parti che sarebbero da buttar via; il garum è perciò il marcio di materie in putrefazione. Un tempo si preparava col pesce che i Greci chiamavano garos; oggi quello più gustoso si fa dal pesce sgombro, nei vivai di Cartagine Spartaria. A parte i profumi, non c'è quasi altro liquido che sia divenuto più prezioso di questo: ha reso famosi anche i popoli. Gli sgombri vengono catturati in Mauritania e a Carteia, nella Betica, quando vi entrano provenendo dall'Oceano, né servono ad altro. Per il garum sono rinomate Clazomene e Pompei. I ricetta: torta di asparagi Apicio, L'Arte culinaria, IV 2, 5, trad. di G. Carazzali Prendi gli asparagi ben puliti e schiacciali nel mortaio, innaffiali con l'acqua, fanne una poltiglia e passala al setaccio. Metti in un piatto i beccafichi svuotati delle interiora. Pesta nel mortaio 6 scrupoli di pepe, aggiungi il garum e trita bene, poi aggiungi 1 ciato (1) di vino e 1 di passito. Metti nella pentola, dove fai cuocere tutto, 3 once (2) d'olio. Ungi bene una casseruola e mescolaci 6 uova con garum di vino, vuotaci la purea di asparagi e metti a cuocere sulla cenere calda. Versaci poi il composto sopra descritto e distendici i beccafichi. Fai cuocere: insaporisci col pepe e servi. (1) 1 ciato = 0, 045 l. (2) 1 oncia = 27, 27 gr. II ricetta: crema d'orzo Apicio, L'Arte culinaria, V 5, 1, trad. di G. Carazzali Mentre lavi, sminuzza l'orzo o la semola che hai messo a mollo il giorno prima. Poi fallo cuocere a fuoco vivo. Quando bolle, aggiungici una buona quantità d'olio, un mazzetto di aneto, una cipolla secca, santoreggia e un prosciutto; fai cuocere fino ad ottenere una crema. Versa: coriandolo fresco, sale, triturali insieme e falli cuocere. Quando avrà ben bollito, leva il mazzetto e travasa la crema in un'altra pentola, curando che il fondo non attacchi e non si bruci. Stempera bene e passa al setaccio nella pentola stessa, sul prosciuttino. Pesta: pepe, ligustico, un po' di puleggio secco, cumino e sil fritto. Tempera con miele, aceto, mosto cotto e garum. Versa il tutto nella pentola, sul prosciuttino così da coprirlo bene. Fai bollire dolcemente. III ricetta: lesso di maialino da latte caldo con salsa di Apicio cruda Apicio, L'Arte culinaria, VIII 7, 6, trad. di G. Carazzali Versa nel mortaio: pepe, ligustro, semi di coriandolo, menta, ruta; trita e tempera col garum. Aggiungi miele e vino e tempera col garum. Innaffia con questa salsa il lesso ancora caldo e asciugato con un panno pulito; servi.