CAPITOLO I Le origini della ricerca orafa contemporanea: il gioiello
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CAPITOLO I Le origini della ricerca orafa contemporanea: il gioiello
CAPITOLO I Le origini della ricerca orafa contemporanea: il gioiello da opera artigiana a opera d’arte Premessa “La qualità artistica della gioielleria di un popolo dà la misura del suo livello artistico.” Louis Comfort Tiffany 8 L’inizio dell’Ottocento segnò l’avvio della produzione meccanizzata e massificata dell’oreficeria, al fine di rispondere alla crescente richiesta della piccola borghesia e delle classi operaie, di monili poco costosi e dal design semplice da poter indossare senza impegno. Il gioiello prodotto dalla catena di montaggio era tecnicamente perfetto, ma dal punto di vista estetico-progettuale non aveva alcun valore, tanto più che i modelli di riferimento dei gioielli industriali erano versioni scadenti dei monili più in voga al momento. Gli acquirenti facoltosi continuavano a rivolgersi alle grandi ditte di gioielleria prediligendo ornamenti la cui preziosità consisteva solamente nella quantità di oro utilizzato o nella purezza del diamante. Ogni grande Casa aveva il suo album di repertorio a disposizione della clientela. Se il modello di un anello o di una collana incontrava il gusto del pubblico, questo veniva ripetuto sino all'esaurimento della domanda9. 8 M. MOSCO, L’arte del gioiello e il gioiello d’artista dal ‘900 ad oggi, in M. MOSCO (a cura di), L’arte del gioiello e il gioiello d’artista dal ‘900 ad oggi, catalogo della mostra, Firenze, Museo degli Argenti, 10 marzo-10 giugno 2001, Firenze, Giunti, 2001, p. 18. 7 D’altronde difficilmente una casa di produzione era disposta ad investire nella realizzazione di creazioni innovative nei confronti delle quali però il mercato non era preparato. Accanto alla produzione di prestigio ad opera delle grandi maisons, continuava una produzione artigiana sempre uguale a se stessa. Diffusi erano anche album di modelli che raccoglievano figurazioni di monili realizzati in altri paesi, culture e epoche, da cui ogni orafo artigiano poteva trarre spunto per le sue creazioni, con la conseguente omologazione stilistica della produzione orafa del tempo. La critica ottocentesca relegava perciò l’oreficeria al mero campo dell’artigianato. Si dava inizio così ad un atteggiamento generale di sufficienza, ancora oggi molto diffuso, che, del gioiello, ha ignorato a lungo le possibilità espressive che derivano, come in qualsiasi altra forma d’arte, dalla realizzazione concreta e dalla resa espressiva, attraverso un’acquisita perizia tecnica, di un disegno, di un progetto, di un’idea, di un messaggio 10. Le origini della ricerca orafa contemporanea si individuano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nel momento in cui si cerca di superare il divario tra arti minori e maggiori, rivalutando artisticamente la creazione artigianale11. Sul finire dell’Ottocento voci isolate di liberi pensatori si contrapposero allo svilimento della creazione manuale ad opera della civiltà delle macchine. Un po’ in tutta Europa si sentì l’esigenza di rapportare in modo nuovo la società e l’ambiente al mondo dell’arte. Il movimento inglese Arts and Crafts, ispirato dagli scritti di William Morris e John Ruskin, riteneva che la qualità della vita fosse stata notevolmente compromessa «dall’intrusione della macchina nella società»12; perciò l’unica soluzione era che l’arte facesse di nuovo parte dell’esperienza quotidiana di ognuno grazie all’uso di manufatti 9 G. FOLCHINI GRASSETTO , Il gioiello italiano contemporaneo tra progettualità e sperimentazione tecnica, in Grafica e oggetti d’arte. Catalogo dell’arte moltiplicata in Italia, n. 24, Milano, Mondadori, 1996, p. 181. 10 M. CISOTTO NALON, Padova, centro italiano di ricerca orafa, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Gioielleria Contemporanea. Padova-Vienna. Quattro stazioni… cit., 2002, s.p. 11 Cfr. F. POLATO, Oreficeria contemporanea a Padova, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, (relatore prof. G. Castagnoli), anno accademico 1997-1998, p. 7. 12 V. BECKER, I gioielli Arts and Crafts, in M. MOSCO (a cura di), L’arte del gioiello… cit., 2001, p. 91. 8 creati artigianalmente, in quanto «specialmente quelli che presentavano imperfezioni e irregolarità dovute alla mano o all’“anima” dell’artista», erano «di gran lunga superiori, in senso morale ed estetico, agli impeccabili oggetti levigati e senz’anima prodotti dalla macchina»13. Chi lavorava nei circoli Arts and Crafts si dedicava personalmente ad ogni fase di lavorazione di un manufatto, dall’ideazione al prodotto finito. Allo stesso tempo, gli artisti e gli architetti erano incoraggiati ad ampliare i loro orizzonti e a esercitare i loro talenti in altri campi, incluso il disegno di gioielli14. Numerosi artisti si dedicarono alla realizzazioni di ornamenti unici. Si ricorda soprattutto il nome di un grandissimo sperimentatore: Charles Ashbee (fig. n. 5) (1863-1942), architetto e orafo autodidatta. Nel 1888 inaugurò ufficialmente la scuola Guild of Handicraft il cui obiettivo era quello di coniugare progettazione innovativa e competenza artigiana. I gioielli prodotti nell’ambito Arts and Crafts erano accomunati dalla predilezione per la lavorazione a mano delle superfici metalliche, per pietre a taglio cabochon dai colori tenui, per smalti e per «temi decorativi riferiti ad un passato preindustriale romanzato»15. È in questo momento che nasce il concetto di “gioielleria d’arte” e l’oreficeria contemporanea è «erede e continuatrice» della cultura dell’Arts and Crafts16. Era iniziata per il gioiello la “riabilitazione” per cui esso entrava a buon diritto nelle più alte sfere dell’arte. Direttamente ispirata ai principi dell’Arts and Crafts è la cultura Art Nouveau che nasce in Francia negli stessi anni. Nel periodo Liberty, anche l’oggetto di uso quotidiano era prima di tutto ornamento in quanto 13 Ivi, p. 92. Ivi, p. 93. 15 C. PHILLIPS, Gioielli. Breve storia dall’antichità ad oggi, Milano, Rizzoli-Skira, 2003, p. 183. 16 D. BANZATO e G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Il Tesoro Trieste. Gioielli della collezione Trieste e della collezione Sartori Piovene dei Musei Civici di Padova, catalogo della mostra, Padova, Palazzo della Ragione, 7 giugno-27 settembre 1992, Milano, L’Orafo Italiano Editore, 1992, p. 21. 14 9 il valore estetico non è riservato agli ornati, ma si fa tutt’uno con la funzione; e il rispetto intelligente e sensibile della funzione costituisce la forza espressiva degli ornati medesimi e ne elimina la gratuità17. A maggior ragione, nel campo del gioiello, il valore della creazione non era più legato alla preziosità del materiale, ma all’innovazione stilistica. La natura e la vita diventarono le nuove fonti d’ispirazione dell’arte: insetti, fiori, da sempre relegati al campo delle scienze, divennero i nuovi motivi iconici. Linee fluide e sinuose animavano qualsiasi espressione dell’arte figurativa e decorativa, in quanto ogni oggetto, appartenente alla realtà quotidiana, doveva riflettere il gusto della nuova epoca. L’interesse diffuso allora per le culture orientali aveva improntato le forme dei gioielli ad una forte stilizzazione, come silhouette tridimensionali. Madreperla, vetro opalescente, conchiglie, avorio, uniti ai colori liquidi e brillanti dello smalto18 erano i nuovi materiali preziosi. I più grandi orafi rappresentanti dello stile Art Nouveau furono i francesi. René Lalique (fig. n. 6) (1860-1945) è colui che trasformò il gioiello da portatore di meri valori decorativi, a strumento di diffusione stilistica, segno del genio creativo che lo aveva ideato. I suoi pezzi erano realizzati soprattutto in materiali non preziosi quali il corno e il vetro19. Sull’esempio della Guild of Handicraft di Ashbee, Joseph Hoffmann (1870-1956) e Kolo Moser, insieme all’industriale Fritz Waerndorfer, fondarono nel 1903, a Vienna, le Wiener Werkstätte (Officine Viennesi). Nel 1905 Carl Otto Czeschka (1878-1960) collaborò con le Wiener, fornendo progetti per gioielli improntati a motivi decorativi vegetali e animali. Le attività delle officine cessarono definitivamente nel 1932. Fin dalla fondazione, l’intento delle Wiener Werkstätte era quello di creare uno stretto rapporto fra 17 L’art Nouveau e le arti applicate, in M. MOSCO (a cura di), L’arte del gioiello… cit., 2001, p. 41. Lo smalto fu il materiale più usato dagli orafi modernisti. Una delle tecniche di lavorazione più usate era il plique-à-jour che creava un effetto riflettente e brillante di estrema bellezza, in quanto lo smalto non veniva applicato su un supporto metallico, ma su una «struttura di fili d’oro a giorno» (G. FOLCHINI GRASSETTO, Glossario, in D. BANZATO e G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Il Tesoro Trieste… cit., 1992, p. 173). 19 Henri (1854-1942) e Paul (1851-1915) Vever, invece, prediligevano l’uso delle pietre preziose. Il laboratorio di Georges Fouquet (1862-1957) era particolarmente apprezzato per la sua maestria nella lavorazione dello smalto. Nell’ambito Art Nouveau rientra anche la produzione del newyorkese Louis Comfort Tiffany (1848-1933). 18 R. BOSSAGLIA, 10 la fase progettuale, che deve essere legata a un’effettiva conoscenza dei materiali e delle tecniche, e quella esecutiva20. Le loro creazioni dalle linee asciutte e compatte, lavorate in superficie, rinnovarono il gusto nei vari settori dell’attività artistica, dall’arredamento ai gioielli, anticipando così l’operazione di industrial design attuata dal Bauhaus, scuola fondata a Weimar da Walter Gropius nel 1919, al fine di integrare ricerca estetica e produzione industriale. L’artista che tradusse le teorie della scuola di Weimar nell’ambito orafo fu Naum Slutzky (1894-1965) che creò monili con materiali poveri dalle forme vagamente geometriche. La Secessione viennese, nota Graziella Folchini Grassetto, «definisce il ruolo della creatività in gioielleria» in quanto la figura dell’artista-artigiano è esaltata nella sua inscindibile specificità, e il ruolo dell’ideatore è equiparato a quello dell’esecutore in un inseparabile binomio: qualora l’artista sia privo delle capacità tecniche per la realizzazione dell’opera, egli si avvale del contributo dell’artigiano in uno stretto connubio sperimentale21. Questa era la vera novità per l’epoca. Allora le grandi case di gioielleria producevano pezzi di oreficeria dallo stile unico e ben riconoscibile, frutto di un lavoro d’equipe tra artisti-orafi, progettisti, scultori, tagliatori, cesellatori e altri, posti sullo stesso piano. Fu con la Secessione viennese che l’artista-orafo conquistò una posizione privilegiata al di sopra di tutti22. Secondo, invece, Lara Vinca Masini la prima rivoluzione, nel secolo scorso, nell’ambito del gioiello, si verificò con l’Art Déco, nel momento in cui le linee del gioiello si erano fatte più nette, seguivano una nuova e diversa formatività 20 E. SCHMUTTERMEIER, Gioielleria dal 1900 al 1925 a Vienna, in M. MOSCO (a cura di), L’arte del gioiello… cit., 2001, p. 136. 21 G. FOLCHINI GRASSETTO , Il gioiello italiano contemporaneo tra progettualità e sperimentazione tecnica, in Grafica e oggetti d’arte… cit., 1996, p. 177. 22 Ibidem. 11 geometrica23. L’Art Déco segnò l’avvio di un periodo di grandi rinnovamenti dopo la parentesi straziante della Grande Guerra. Sappiamo bene come questa stagione artistica prese avvio dalla Esposizione Universale delle Arti Decorative che si tenne a Parigi nel 192524. La società che rinasceva dopo il conflitto era vivace attiva e dinamica, dedita allo sport, al divertimento e ai viaggi. Tutto si adattava a questi nuovi ritmi frenetici, anche l'arredamento e la moda. Il gioiello allora si fece più discreto, lineare, funzionale, escludendo ogni orpello decorativo. L’elemento che dava valore al pezzo d’oreficeria era ancora però la pietra preziosa. Se le forme Art Nouveau si ispiravano all’Estremo Oriente, quelle Art Déco, più aggressive, guardavano con interesse alle culture dell’Africa, dell’antico Egitto… Braccialetti, spille dai decisi tagli geometrici e dalla figurazione essenziale venivano firmati da grandi artisti come Raymond Templier (fig. n. 7) (1891-1968), Jean Fouquet (1899-1994), Jean Després (1889-1980), senza dimenticare le grandi case di gioielleria come Boucheròn, Cartier25 (fig. n. 8) e Van Cleef & Arpels rappresentanti di uno stile più cosmopolita per cui la gemma diventava protagonista. Rossana Bossaglia nota come gli orafi Déco invece di ingrandire «minute forme naturali […] rimpiccioliscono forme monumentali alla dimensione del pezzo preziosamente maneggevole»26. Da quanto detto fino a questo momento, appare chiaro come i movimenti artistici che si 23 L. V. MASINI, Gioiello d’Artista, gioiello d’Autore, in M. MOSCO (a cura di), L’arte del gioiello… cit., 2001, p. 356. Vinca Masini poi continua affermando che la seconda rivoluzione si verifica tra gli anni Sessanta e Settanta con la generazione dei “figli dei fiori”, quando gli ornamenti venivano creati con materiali di recupero, o naturali, come sassi e schegge di vetro colorato. 24 L’Art Déco infatti spesso è chiamata altrimenti Stile 1925. 25 Folchini Grassetto, a proposito delle grandi Case di gioielleria francese, sostiene che, esse, «pur avvalendosi di pittori, di grafici e di scultori, coinvolti nelle teorizzazioni delle correnti delle avanguardie dei primi decenni del secolo, seppero sempre assorbirne l’importante apporto artistico, assoggettandolo alla promozione della Casa stessa: forse è stata proprio questa vigile politica aziendale […] a segnare quel ritardo culturale nella Francia di oggi nell’ambito della ricerca orafa contemporanea rispetto ad altri Paesi». G. FOLCHINI GRASSETTO, Il gioiello italiano contemporaneo tra progettualità e sperimentazione tecnica, in Grafica e oggetti d’arte… cit., 1996, p. 178. 26 R. BOSSAGLIA , Il gioiello «déco», in P. C. SANTINI (a cura di), Progettare con l’oro, catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Strozzi, 7 dicembre 1979-15 gennaio 1980, Firenze, Nuova Vallecchi, 1979, p. 16. 12 susseguono tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, da un lato dichiarino la preminenza del gioiello tra le arti minori e, dall’altro riconoscano un valore artistico all’opera di oreficeria. È solo con l’avvento degli anni Cinquanta-Sessanta (del Novecento) che il gioiello viene definitivamente «inteso come libera espressione artistica aperta alle personali interpretazioni e sperimentazioni di forme, materiali e tecniche»27, dando inizio così ad una nuovo campo di ricerca che ha realizzato e realizza ancor oggi straordinari ornamenti. Nei paesi anglosassoni o di lingua tedesca si parla di “gioiello nuovo” (new jewelry, neue schmuck), mentre in Italia si preferisce usare la definizione “gioiello di ricerca o d’artista”. Sulla scena orafa europea, paesi come la Germania, l’Olanda e l’Inghilterra ben presto si distinguono per il modo spregiudicato e rivoluzionario di intendere l’ornamento; esso diventa infatti oggetto di pura sperimentazione artistica spesso del tutto svincolato dai materiali, dalle tecniche o, ancora, dai significati storicamente attribuiti al mondo dell’oreficeria. L’Italia, invece, almeno per un primo periodo, sviluppa la sua indagine all’interno della tradizione prediligendo ancora, ad esempio, l’impiego di materiali preziosi come l’oro28. La spinta per una nuova sperimentazione orafa, come sottolinea Vinca Masini, giunge dai paesi del Nord, perché essi, forti delle esperienze passate di De Stijl e del Bauhaus, a partire dal secondo dopoguerra, hanno rinnovato tutto il campo delle arti applicate29. Questa rivoluzione nell’ambito del prezioso è stata possibile perché si sono istituite scuole e accademie con una sezione dedicata all’oreficeria come, ad esempio, la Fachhochschule für Gestaltung, in Germania, a Pforzheim, l’Akademie der Bildenden Künste a Monaco, il Royal College of Art a Londra, oppure l’Academie Gerrit Rietveld ad Amsterdam e la 27 M. C. BERGESIO , Un nuovo concetto di preziosità: la materia fonte d’ispirazione creativa, in D . L. BEMPORAD (a cura di), Lucca Preziosa… cit., 2005, p. 31. 28 Gli orafi-artisti italiani, in particolare i padovani, hanno sempre prediletto l’uso delle materie preziose (metalli e pietre), ponendosi così in netto contrasto con le scelte operative degli artisti stranieri i quali stigmatizzavano l’uso delle materie preziose in quanto compromesse con il gioiello tradizionalmente inteso. Si reputava infatti che l’oro, in particolar modo, fosse inadatto a esprimere le nuove istanze creative volte a manifestare visivamente concetti quali l’indipendenza e l’intraprendenza del pensiero contemporaneo. 29 L. V. MASINI , Il Gioiello nella cultura socio-economica moderna, in Artisti e disegno nell’oreficeria italiana, catalogo della mostra, Arezzo, Museo Statale d’Arte Medioevale e Moderna, 5-20 settembre 1987, Firenze, Il Torchio, 1987, p. XI. 13 Escola Massana a Barcellona30. Al di fuori dell’Italia, poi, si sono realizzati alcuni dei più grandi eventi legati al mondo del gioiello contemporaneo, a cominciare dalla rassegna internazionale allestita a Londra nel 1961, l’International Exhibition of Contemporary Jewellery 1890-1961. In tale manifestazione si esposero non solo i lavori delle grandi case orafe, ma anche i primi esperimenti di giovani artisti del gioiello. Era la prima esposizione internazionale dal secondo dopoguerra. Nello stesso anno viene aperta al pubblico la nuova sede dello Schmuckmuseum a Pforzheim. Le sale di questo museo espongono la più esauriente raccolta di pezzi di oreficeria contemporanea provenienti da tutto il mondo; inoltre, da anni, lo Schmuckmuseum si dedica con costanza e dedizione alla promozione e diffusione dei nuovi linguaggi dell’oreficeria. Ma cosa s’intende per gioiello contemporaneo? I gioielli contemporanei si creano con la carta, l’acciaio, l’alluminio, il vetro, il nylon, il Pvc, la plastica, con materiali di recupero, materiali solidi, liquidi, naturali o industriali. Basti pensare alle opere dei pionieri dell’oreficeria olandese: Emmy van Leersum (19301984) e suo marito Gijs Bakker (1942). Dalla fine degli anni Sessanta, essi realizzano ornamenti con l’alluminio e la plastica. I loro gioielli sono improntati ad un ricercato minimalismo e sono creati per adattarsi al corpo (fgg. nn. 9-10). Lo scopo di questi due artisti olandesi è quello di comprendere entro l’atto creativo lo stesso corpo umano, che non è più solo supporto, ma è anche complemento significante del gioiello. Bakker è molto noto per le sue spille e collane create interponendo tra due strati di laminato plastico, immagini fotografiche desunte dal mondo contemporaneo (fig. n. 11) e impreziosite dagli inserti luminosi dei diamanti (fig. n. 12). Non c’è limite alla fantasia creativa di quegli artisti che si dedicano esclusivamente all’ambito orafo. Ne dà prova l’opera dell’inglese Peter Chang (1944). L’artista, dai primi 30 Cfr. G. FOLCHINI GRASSETTO, M. SPIAZZI (a cura di), Gioielli Il binomio artista-docente nelle scuole orafe europee, in M. CISOTTO NALON e A. d’Autore. Padova e la Scuola dell’oro, catalogo della mostra, Padova, Palazzo della Ragione, 4 aprile-3 agosto 2008, Torino, Allemandi & C., 2008, pp. 79-83. In Italia il più importante istituto d’arte che ha formato orafi, oggi apprezzati in tutto il mondo, è l’Istituto Pietro Selvatico di Padova. 14 anni Ottanta, riconosce nella plastica (acrilico, resina, Pvc) il proprio materiale prediletto e realizza ornamenti che sono concrezioni di colori sgargianti dalle forme surreali. Le sue spille e bracciali sono creazioni ludiche (fgg. nn. 13-14-15). La preziosità del monile contemporaneo non consiste più quindi nel valore intrinseco del materiale impiegato, ma nell’idea, nell’intenzione comunicativa espressa dall’artista e di conseguenza non è più manifestazione tangibile dello status sociale, ma di una scelta culturale. Il gioiello ora, è ancor più strumento di comunicazione personale del suo creatore. Ce lo ricorda l’artista svizzero Otto Künzli (1948) che si afferma all’inizio degli anni Ottanta proponendo una serie di spille in schiuma espansa rigida, ricoperta con carta da parati. I gioielli di Künzli sono dissacranti, irriverenti, sovversivi nei confronti della società convenzionale e giocosi. Non è un caso se il critico d’arte Peter Dormer definisce l’artista svizzero «the one true political jeweller» e «chic clown»31. L’ornamento contemporaneo si riappropria di significati che la società consumistica, figlia dell’industrializzazione massificata e del benessere, ha cancellato. Esso può essere ancora l’archetipo prediletto del pensiero e delle esigenze umane. Le coeve sperimentazioni nel campo delle arti visive diventano spesso i linguaggi culturali da cui trae spunto l’orafo artista per le sue creazioni; mentre le nuove tecnologie sono i «nuovi strumenti» che egli «può utilizzare per i suoi intenti creativi»32, superando il pregiudizio che vuole l’intervento della macchina e della tecnologia motivo di svilimento dell’atto artistico. L’inglese David Watkins (1940), ad esempio, direttore della sezione dei metalli del Royal College di Londra, utilizza, per la prima volta, vent’anni fa, il computer come strumento di design. Il rapporto fino ad ora inscindibile tra il gioiello e il corpo umano, dovuto alla sua natura fondamentale di ornamento, diventa più labile, tanto da considerare il gioiello contemporaneo protagonista di performance e installazioni. Per poter indossare questi ornamenti bisogna avere una visione della vita più disincantata, 31 P. DORMER, What is the future for contemporary Jewellery?, in M. T. CARNÉ (a cura di), Joieria Europea contemporània, catalogo della mostra, Barcelona, Seu central de la Caixa de Pensions, febrer-març de 1987, s. l., p. 71. 32 M. C. BERGESIO , Il gioiello come ricerca: i linguaggi della tecnica, in L. LENTI (a cura di), Gioielli in Italia. Il gioiello e l’artefice. Materiali, opere, committenze. Atti del quinto convegno nazionale, Valenza, Sala polifunzionale San Rocco, 2-3 ottobre 2004, Venezia, Marsilio, 2005, p. 97. 15 meno convenzionale, bisogna essere in grado di intuire messaggi nascosti tra le cose e di continuare a meravigliarsi di fronte ai nuovi e continui stimoli che le cose stesse ci offrono. Mi piace ricordare a tal proposito l’attuale direttore della scuola Massana di Barcellona, Ramón Puig Cuyás (1953) che sa trasformare relitti della vita quotidiana – pezzi di metallo, bottoni, legno e pietre – in un tutto significante, come reperti del tempo, condensazioni di storie da indossare (fgg. nn. 16-17). Il gioiello contemporaneo è più “democratico” di quello tradizionale, in quanto può essere indossato da tutti quelli che hanno una particolare capacità di interpretare liberamente l’arte di adornarsi. Una collana di carta rigida dell’olandese Nel Linssen (1935) (fgg. nn. 18-19), accomuna per esempio, una volta indossata, la ricca collezionista in cerca del monile inconsueto, scioccante, e la giovane ragazza che non si sente a suo agio con una collana di perle, ma preferisce presentarsi agli altri con una collana, delicata, naturale e concettuale, come appunto può essere quella di carta. L’ornamento contemporaneo è un’espressione della propria singolare personalità e difficilmente può essere un “bene di famiglia” trasmissibile di generazione in generazione perché non può essere indossato da persone diverse senza cambiare significato e valore (ideale). Secondo il nuovo modo di concepire l’ornamento, il gioiello può essere indossato non solo dalla donna, fino ad ora prediletta fruitrice, ma anche dall’uomo. Inoltre, mai come nella produzione orafa contemporanea le donne sono protagoniste in qualità di designer ed esecutrici come l’inglese Wendy Ramshaw (1939), famosa per i suoi set di anelli disposti su un supporto in perspex, da indossare insieme, combinando forme e colori (fig. n. 20). La nascita dell’oreficeria contemporanea in Italia “La qualità di un progetto dipende dal grado, sia pur minimo, di cambiamento culturale che innesca”. Enzo Mari33 33 E. MARI, Progetto e Passione, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 52. 16 Ancora oggi esistono in Italia due tipi di produzione orafa: una commerciale, creata a stampo dalle grandi Case produttrici o dall’orafo nella piccola bottega, apprezzata da una clientela tradizionalista e poco curiosa, e una contemporanea, di ricerca, realizzata sia dall’artista di chiara fama (intendendo non solo pittori e scultori, ma pure architetti e designers) che si cimenta in un campo, quello dell’oreficeria, a lui sconosciuto, sia dagli artisti dell’oro. Della prima dovrebbe occuparsene il mercato e le sue leggi, della seconda la critica artistica. Si può capire bene un atteggiamento di cauto riserbo nei confronti di un’arte, quella dell’ornamento, che da sempre è esposta alle correnti mutevoli della moda e del gusto e che fatica a rinnovarsi dal punto di vista progettuale. Detto questo, non si può giustificare la poca attenzione della critica contemporanea nei confronti del gioiello, ancor di più se si pensa che l’Italia è tra i primi paesi industrializzati al mondo per quanto riguarda la produzione e la lavorazione dell’oro; mi riferisco ai tre distretti maggiori, Arezzo, Vicenza e Valenza Po34, e ad altri centri orafi come Milano, Firenze, Genova, Napoli, Torino e 34 Fin dal secondo dopoguerra, l’attenzione dei tre maggiori distretti dell’oreficeria italiana è rivolta alla cultura della progettazione orafa intesa come nuova filosofia da applicare alla produzione seriale al fine di coniugare tecnica ed estetica, funzionalità e costi di produzione. Arezzo lavora ogni anno circa il 45% dell’oro totale impiegato nella produzione orafa nazionale. L’attività nel settore dei preziosi della città toscana è legata al nome della UnoAErre «la più grande azienda al mondo specializzata nella fabbricazione, distribuzione ed esportazione di prodotti di oreficeria» (S. PICHI, UnoAErre, in L. LENTI e M. C. BERGESIO (a cura di), Dizionario del gioiello italiano… cit., 2005, p. 281). L’azienda viene fondata nel 1926 dalla società aretina Gori & Zucchi che negli anni Trenta già produce a macchina catene metalliche. La UnoAErre negli anni si è imposta sul mercato internazionale soprattutto per la medaglistica per la cui progettazione sono stati coinvolti artisti quali Dalí, Manzù ed Emilio Greco. Arezzo è specializzata nella produzione di oggetti in serie, rivolti al mercato medio. Le tecniche di lavorazione usate sono quelle della tradizione. Dal 1980 ha luogo la manifestazione annuale Oro Arezzo volta a promuovere la produzione locale apprezzata oggi per la sua qualità e attenzione al design. Senza dimenticare che nella città toscana, negli ultimi trenta anni, grazie alle rassegne Oro d’Autore (allestite dal 1987), si è formata la prima collezione pubblica italiana del gioiello internazionale d’autore. La collezione oggi conta più di duecento esemplari unici che non si possono ne’ riprodurre, ne’ vendere. Lo scopo della rassegna è sempre stato quello di commissionare ad un artista, architetto o designer di fama internazionale il progetto per l’ideazione di un gioiello realizzato poi da una delle 1.618 aziende orafe sparse oggi sul territorio aretino (S. PICHI, Arezzo, in L. LENTI e M. C. BERGESIO (a cura di), Dizionario del gioiello italiano… cit., 2005, p. 24). Purtroppo la collezione attende ancora oggi una sede espositiva definitiva nel centro storico della città. Fin dagli anni Cinquanta le aziende orafe aretine hanno incentivato la fondazione di istituti al fine di formare personale specializzato. Viene così creata la sezione orafa presso l’istituto d’arte “Margheritone” e pochi anni dopo si istituisce, all’interno della UnoAErre, una scuola di specializzazione. Vicenza vanta una tradizione orafa che risale al XIV secolo. Dagli anni Venti del Novecento, la fabbricazione delle catene è diventato il fiore all’occhiello della produzione vicentina. Dal 1948, la Fiera Campionaria Nazionale di Vicenza è diventata una della vetrine internazionali più importanti per la promozione del prodotto orafo italiano. I marchi vicentini che ottengono più plauso in Giappone, Usa e Medio Oriente, sono Chimento, Pianegonda, Chiampesan, Fope. Lia Lenti (L. LENTI, Valenza, in L. LENTI e M. C. BERGESIO (a cura di), Dizionario del gioiello italiano… cit., 2005, p. 283) definisce Valenza (provincia di Alessandria, ai piedi delle colline del Basso Monferrato) un «centro orafo di notorietà internazionale e distretto manifatturiero che detiene il primato di confezione di gioielleria medio-alta e alta, caratterizzate da un utilizzo 17 Fano35. Come si è già accennato in precedenza, anche per l’Italia, il secondo dopoguerra sancisce l’inizio di una ricerca autonoma nel settore dell’oreficeria. Tra il 1945 e l’inizio degli anni Sessanta, l’Italia visse una stagione straordinaria all’insegna della ricostruzione e del rinnovamento. Crebbero in modo esponenziale la produzione e i salari. L’informazione e l’istruzione aiutarono a diffondere bisogni e desideri di “massa”. Il boom economico favorì la nascita di un ceto medio dinamico, propositivo, attento alle novità e, soprattutto, desideroso di acquistare. La donna assunse nuova centralità nell’ambito familiare e lavorativo, decretando la propria emancipazione. I movimenti giovanili di contestazione politica, che di lì a poco avrebbero animato, anche violentemente, le piazze cittadine, cominciarono a desiderare un tipo di vestiario e ornamento non omologato e imposto dalle convenzioni sociali36. I nuovi ciondoli, spille e bracciali esplicitavano una scelta ideologica ed erano realizzati in materiali inconsueti e poveri come corda, cuoio, paste di vetro, argento o plastica. Il chiaro grido di protesta delle giovani generazioni contro i valori della nuova società capitalistica e tecnologica richiamano alla mente gli intenti di arretrare ad uno stato “semplificato”, originario, più naturale, di un gruppo di artisti che, in quegli stessi anni, elesse il materiale “povero” a proprio linguaggio espressivo (Mario Merz, Giuseppe Penone…). Si producevano oggetti industriali per la casa e per la persona, in particolare gioielli che ora potevano essere alla portata di tutti e, d’altro canto, le classi più abbienti, che amavano sfoggiare ricchezza e benessere, prediligevano ancora le creazioni delle grandi maisons combinato di manualità artigiana, innovazione tecnologica e ricerca estetica». L’azienda valenzana Damiani (1967) è riconosciuta in tutto il mondo come portavoce dell’italian style. Negli ultimi anni diversi volti noti del mondo dello spettacolo hanno prestato la loro immagine per sponsorizzare le creazioni di casa Damiani, gioielli che coniugano l’altissima qualità esecutiva con design raffinati. Altri marchi prestigiosi legati al territorio di Valenza, solo per citarne alcuni, sono: Pasquale Bruni, Giorgio Visconti, Picchiotti. L’associazione Orafa Valenzana, fondata nel 1945, conta oggi oltre 600 membri. 35 Secondo Alberto Friedenberg (A. FRIEDENBERG, Uno splendido segno, in Gioielli Collezione, Milano, Stampa Inedita, 1993, p. 10) la produzione orafa italiana si basa su un sistema di piccole imprese spesso specializzate in processi di lavorazione tradizionali e poco aperte all’innovazioni. L’industria straniera invece (francese e inglese soprattutto) è conosciuta all’estero grazie alle firme di grandi case di gioielleria tradizionalmente legate alle case reali o alle famiglie alto-borghesi. 36 Senza dimenticare le rivoluzioni realizzate nel campo dell’ornamento sia dal movimento degli hippies nell’America anni Sessanta, sia dai gruppi punk nati nelle periferie londinesi di fine anni Settanta. 18 come i gioielli firmati da Bulgari37. Per quanto riguarda la realtà orafa di allora, il gioielliere romano Mario Masenza lasciò, nel 1950, sulle pagine della rivista «Italia», una vivida testimonianza: durante l’ultima guerra i gioiellieri italiani furono costretti a sospendere ogni attività; si fermarono le vendite, si arrestò la produzione e il nostro lavoro si ridusse a quello di semplici sequestratori delle stesse aziende che ci appartenevano. Ma se l’ozio è il padre dei vizi lo è anche della riflessione, e alcune volte soltanto attraverso una sospensione del proprio lavoro si può raggiungere una pienezza di analisi, direi addirittura una severità di autocritica che non è possibile nei periodi di attività. […] Non ci accorgevamo nemmeno più di essere diventati degli agenti di borsa e che a noi si rivolgeva solo chi voleva investire i propri risparmi in oro. Dove erano finite le tradizioni dell’antica arte orafa italiana? […] Bisognava tornare al passato, bisognava tentare un ravvicinamento fra gli artisti e il gioiello. Da principio non fu facile38. Il mondo orafo italiano, che fino ad allora aveva stancamente portato innanzi una tradizione ormai superata da tempo, o aveva guardato alle produzioni orafe viennesi o francesi di primo Novecento39, adottandone gli stilemi come puro fatto estetico, aveva bisogno di un rinnovamento sostanziale. Questo, tuttavia, non significa che fino agli anni Cinquanta non ci siano stati gioiellieri italiani che abbiano creato dei piccoli capolavori d’oreficeria. Basti pensare a Mario Buccellati (Ancona, 1891 – Milano, 1965)40, al milanese Alfredo Ravasco (Genova, 1873 37 La casa di gioielleria romana Bulgari viene fondata da Sotiris Boulgaris (1857-1932), di origine greca, nel 1881. Nel 1905 viene inaugurata la sede al n. 10 di via dei Condotti che ancor oggi rappresenta il principale punto vendita dell’azienda. E con la metà degli anni Sessanta che nasce lo “stile Bulgari”, contraddistinto dall’uso di oro giallo e di pietre tagliate à cabochon. 38 G. FOLCHINI GRASSETTO , Il gioiello italiano contemporaneo tra progettualità e sperimentazione tecnica, in Grafica e oggetti d’arte… cit., 1996, pp. 178-79. 39 Ibidem. 40 Mario Buccellati fu il gioielliere e argentiere dell’aristocrazia milanese degli anni Venti. Come ricorda Melissa Gabardi, (M. GABARDI, Buccellati Mario, in L. LENTI e M. C. BERGESIO (a cura di), Dizionario del gioiello italiano… cit., 2005, pp. 44-46) le principali fonti d’ispirazione di Buccellati, attingono alla tradizione artistica italiana: la lavorazione a bugnato delle pareti esterne di Palazzo Strozzi a Firenze, i pizzi di Burano… Egli recuperò tecniche antiche di lavorazione come l’incisione, il cesello, l’uso della filigrana e del niello. A partire dal 1922, anno del loro primo incontro, Buccellati divenne personale creatore di gioie per Gabriele d’Annunzio. I suoi gioielli erano creazioni di splendida fattura esecutiva, eleganti, preziosi e curati nei minimi dettagli. Oggi, i figli e i nipoti di Buccellati gestiscono succursali della Casa milanese in tutto il mondo. 19 – Ghiffa, 1958)41e a Fulco di Verdura (Palermo, 1899 – Londra, 1978) che lavorò soprattutto all’estero42; tutti grandi maestri però di oreficeria tradizionale. La gioielleria di ricerca italiana, invece, come afferma Pandora Tabatabai Asbaghi, «pervenne alla sua maturità»43 con l’arte informale. Gli artisti, lavorando l’oro, materia informe, fluida e duttile, plasmata e trasformata in incontrollabili manifestazioni di pensiero, ritrovavano gli stessi stimoli che percepivano nel creare un’opera d’arte informale. Mentre Franco Solmi, citando Lara Vinca Masini, parla di gioiello contemporaneo nel momento in cui partecipa ad un mondo culturale in cui si esprime non più l’adesione a forme, linguaggi o mode dettate dall’alto, e non discutibili, ma la libertà anche dissacratrice dell’individuo: testimonianza ad un tempo della scontata pluralità delle linee ideologiche e culturali e di una frammentazione dei valori ideali di cui si tratta di recuperare non l’astratta unitarietà ma il senso dialettico, e problematico, che è alla base dei nuovi miti e dei nuovi riti dell’oggi44. Il gioiello contemporaneo è quindi nuova ricerca espressiva, una splendida manifestazione polisemica del genio umano. L’oreficeria contemporanea italiana, secondo poi Enrico Crispolti, «vive su un doppio registro di apporti: quello di artisti specializzati, e quello relativo ad incursioni di scultori, 41 Alfredo Ravasco espose i suoi lavori pubblicamente, per la prima volta, nel 1906. Da questo momento divenne uno dei protagonisti indiscussi, anche a livello internazionale, dell’alta gioielleria. Le sue creazioni erano improntate ad un’esemplificazione formale. Non si dedicava solo alla creazioni di monili, ma anche all’oggettistica d’arredo e all’oreficeria religiosa. Dal 1925 divenne direttore della Scuola di Corallo di Torre del Greco. Si spense nel 1958, lasciando tutto il suo patrimonio e tutte le sue opere ad un orfanotrofio. 42 Di origini aristocratiche, Fulco di Verdura, orafo autodidatta, si dedicò alle creazioni di gioielli esclusivi nel momento in cui si trasferì a Parigi, nel 1927, e incontrò Coco Chanel che lo assunse nel suo atelier, prima in qualità di disegnatore di tessuti, poi di direttore dei reparti accessori e gioielli. Nel 1934 si trasferì a New York dove aprì una boutique al numero 172 della 5ª strada. I suoi clienti appartenevano tutti all’alta società e al mondo dello spettacolo. 43 P. TABATABAI ASBAGHI , Art in Jewels, in G. CELANT (a cura di), The Italian Metamorphosis 1943-1968, catalogo della mostra, New York, Guggenheim Museum, New York, s. e., 1995. 44 F. SOLMI, Un problema per la critica d’arte, in G. MARCHIORI e F. SOLMI (a cura di), Aurea 74. Biennale dell’arte orafa, catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Strozzi, 21 settembre-7 ottobre 1974, Firenze, Grafiche Senatori, 1974, s. p. 20 ma anche pittori, nell’ambito orafo»45. Si devono distinguere perciò, secondo sempre Crispolti, gli orafi-artisti dagli artisti-orafi46. Ho scelto questa chiave interpretativa perchè chiarisce bene l’atteggiamento nei confronti del gioiello in Italia negli ultimi sessanta anni. Come tutti i tentativi di classificazione questa distinzione ha in sé un alto potere limitante e discriminante47 e quindi va considerata come una possibile chiave di lettura, applicabile esclusivamente in ambito italiano. Vorrei soffermarmi sul secondo caso con la dovuta attenzione, in quanto non si potrebbe capire (e probabilmente non sarebbe neanche esistita) la gioielleria di ricerca attuale senza le magnifiche creazioni di questi artisti che si prestarono per un momento all’arte dei preziosi. Essi stravolsero quella che era la concezione del gioiello fino ad allora, e d’altra parte, come puntualizza Crispolti nel 1985, proprio in quest’ambito possono avvenire […] le spinte maggiori di sollecitazione innovativa, aprendo a nuove possibilità operative, a nuove combinazioni, a nuove pratiche, a nuovi orizzonti d’uso 48. Al di là di queste etichette sia gli artisti-orafi che gli orafi-artisti si sono dovuti scontrare con 45 E. CRISPOLTI, Gli scultori, in E. CRISPOLTI (a cura di), L’oro della ricerca plastica, catalogo della mostra, Fano, Chiesa di San Domenico, 20 luglio-11 agosto 1985, Milano, Mazzotta, 1985, p. 10. 46 Definizione questa, che Crispolti utilizza in occasione della mostra, realizzata ad Ancona nel 2001, dal titolo Immaginazione aurea. Artisti-orafi e orafi-artisti in Italia nel secondo Novecento. Nel saggio introduttivo del catalogo, (E. CRISPOLTI, Immaginazione aurea in Italia nel secondo Novecento, in E. CRISPOLTI (a cura di), Immaginazione aurea. Artisti-orafi e orafi-artisti in Italia nel secondo Novecento, catalogo della mostra, Ancona, Mole Vanvitelliana, 21 aprile-29 luglio 2001, Milano, Silvana, 2001, p. 13), Crispolti afferma che la «concorrente operosità» tra artisti-orafi e orafi-artisti «ha caratterizzato particolarmente la situazione dell’oreficeria nella seconda metà del secolo, dando continuità di evidenza al succedersi di contraccolpi delle maggiori tendenze di ricerca manifestatesi sulla scena artistica in tali decenni». Nella stessa pagina, il critico sottolinea inoltre che lo scopo della mostra è quello di superare la dicotomia tra artisti-orafi e orafi-artisti attraverso il confronto tra i risultati del lavoro creativo degli uni e degli altri. Si veda anche E. CRISPOLTI, Appunti per una storia del gioiello d’arte in Italia nel secondo Novecento, in M. CISOTTO NALON e A. M. SPIAZZI (a cura di), Gioielli d’Autore. Padova e la Scuola dell’oro… cit., 2008, pp. 58-61. 47 Folchini Grassetto, per esempio, non è assolutamente d’accordo (G. FOLCHINI GRASSETTO, Il gioiello italiano contemporaneo tra progettualità e sperimentazione tecnica, in Grafica e oggetti d’arte… cit., 1996, p. 180) con la distinzione, adottata negli ultimi anni, tra i “gioielli d’artista”, opere di pittori e scultori che si prestano all’arte del gioiello, e i gioielli degli “orafi” diretti artefici dei preziosi. In questo modo questi ultimi vengono discriminati. Grassetto, nota inoltre come, negli ultimi anni, molti dei tentativi fatti (in occasione di mostre o volumi monografici) per indagare sull’attività orafa degli ultimi cinquanta anni, privilegino i gioielli di pittori e scultori, a discapito di designer, grafici, architetti e soprattutto degli artisti orafi. 21 una tradizione che vede nell’indossabilità e nella riconoscibilità dell’oggetto il vero valore aggiunto. Il corollario che definisce un gioiello non un’opera d’arte ma semplicemente un ornamento costoso è davvero il vero grande ostacolo ad una innovazione non solo sul piano formale, ma anche tecnico49. Gli artisti-orafi e il gioiello “d’artista” Dunque, nel caso degli artisti-orafi, si parla di pittori e scultori, che, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, crearono ornamenti realizzati in materiali preziosi, ma che delle forme tradizionali non avevano più nulla. L’artista raramente realizzava i gioielli, ma si limitava a fornire dei disegni poi messi in opera da artigiani esperti attivi presso i laboratori di grandi gioiellieri: solo per citarne i più importanti, i fratelli Fumanti e Mario Masenza a Roma, Gem-Montebello a Milano. Avremo modo di approfondire in seguito l’operato di questi gioiellieri. Per chiarire il concetto, se l’idea iniziale era di Fontana o Capogrossi, la capacità e la particolare sensibilità di come trasformare questa idea in ornamento era degli orafi di professione, magistrali esecutori in grado di scegliere il materiale e la lavorazione adatta. Spesso, nota Solmi, «l’artista puro» era totalmente disinformato su quelle che potevano essere «le possibilità espressive dei materiali usati»50. Questa distinzione tra ideazione ed esecuzione, affidate a due diverse persone che, seppur seguendo le direttive di un unico progetto, di fatto avevano sensibilità, attitudini e capacità differenti, non poteva che riflettersi in modo negativo sulla creazione finale; è noto infatti come, spesso, ogni artista continui a sviluppare il suo progetto iniziale per tutta la fase esecutiva apportando continue modifiche. Era di particolare interesse soffermarsi ad analizzare le sottili corrispondenze che si venivano a creare tra il linguaggio consueto dell’artista puro (pittore e scultore) e il 48 49 E. CRISPOLTI , Gli scultori, in E. CRISPOLTI (a cura di), L’oro della ricerca plastica… cit., 1985, p. 10. D. L. BEMPORAD, Tradizione e innovazione tecnica nel gioiello tra ‘800 e ‘900, in D. L. BEMPORAD (a cura di), Lucca Preziosa… cit., 2005, p. 14. 50 F. SOLMI , Un problema per la critica d’arte, in G . MARCHIORI e F. SOLMI (a cura di), Aurea 74… cit., 1974, s. p. 22 gioiello da lui progettato; ovvero il modo in cui egli si esprimeva in due ambiti artistici così diversi l’uno dall’altro. Crispolti nel 2001, in occasione della mostra allestita ad Ancona, spiega come gli artistiorafi siano in grado di muoversi con totale libertà in scorribande inventive che prescindono da vincoli tipologici quanto tecnici, in una trasgressione tanto maggiore quanto più cospicua è la libertà concessa dall’assenza naturalmente di scrupoli professionali specifici, e dunque di qualsiasi precostituita e tramandata normatività operativa51. Gli artisti non volevano riscattare l’oreficeria, ma solo sperimentare. Progettare e creare gioielli, per un artista, significava portare la propria ricerca creativa a nuovi e diversi livelli semantici; si considerava il gioiello come un particolare campo di prova, molto intimo, personale, quasi segreto, dove esercitare la propria immaginazione, di cui pochi erano a conoscenza. Non a caso le prime creazioni orafe “d’artista” vennero presentate solo in rassegne monografiche e in galleria specializzate. Spesso l’artista si dedicava alla progettazione di un gioiello perché convinto da un amico orafo che voleva creare qualcosa di innovativo. Claudio Cerritelli in un saggio del 1995 dichiara infatti: un dono d’amore, un regalo ad una persona cara, la sollecitazione da parte di un amico orafo, l’esigenza di sperimentare liberamente i mezzi della pittura o della scultura nello spazio miniaturizzato del gioiello: queste e molte altre sono le occasioni, sporadiche, che gli artisti generalmente dichiarano come momenti iniziali del loro interesse verso il gioiello 52. La difficoltà, o meglio lo stimolo, per un artista consisteva nel trasformare il proprio linguaggio artistico in una forma d’arte che, a differenza di qualsiasi altra, va indossata e resa indossabile, è limitata ad una funzione precipuamente ornamentale e deve essere 51 E. CRISPOLTI, Immaginazione aurea in Italia nel secondo Novecento, in E. CRISPOLTI (a cura di), Immaginazione aurea… cit., 2001, p. 14. 52 C. CERRITELLI, Intorno al gioiello d’artista, in L. SOMAINI e C. CERRITELLI (a cura di), Gioielli d’artista in Italia 1945-1995, Milano, Electa, 1995, p. 9. 23 sensorialmente godibile. Rispetto ad una tela appesa alla parete di un museo, o alla scultura che campeggia in una piazza cittadina, il gioiello è in comunicazione costante con la persona che lo indossa e con chi viene a contatto. Uno scambio immediato e costante di idee e pensieri. Klaus Wölfer, direttore artistico del Bundeskanzleramt di Vienna, in occasione della mostra che si tenne a Padova nel 2002 disse: «Il gioiello è arte sul corpo»53 e si potrebbe aggiungere, è arte “dinamica”. Il gioiello è manifesto, in costante movimento, di un pensiero artistico. Il gioiello contemporaneo, per lo meno in Italia, quasi mai è esposto nelle teche di qualche museo o nelle gallerie d’arte. Forse è proprio questo aspetto che affascina di più: indossare un gioiello contemporaneo, ancora oggi, significa collezionare un’opera d’arte e poterla far ammirare al di fuori della stanza chiusa della galleria, così élitaria e distante dalla gente comune, significa diffondere un nuovo linguaggio artistico solo in virtù del fatto che quell’oggetto lo si è scelto, in base al proprio gusto e sensibilità, per adornare il proprio corpo e rappresentare parte di se stessi. E quale incanto poter indossare il segno distintivo e riconoscibile di un artista. L’atteggiamento, nel momento della creazione del “gioiello d’artista”, cambiava se chi lo progettava era uno scultore o un pittore. Lo scultore, rispetto al pittore, era avvantaggiato perché già abituato a lavorare con la materia plastica. Infatti, scultura e gioiello dialogano, più di tutte le altre forme d’arte tradizionali, con la realtà circostante: la scultura, immobile, al centro di una stanza permette al visitatore di girarci intorno, soffermandosi a notare tutti i più piccoli particolari secondo i diversi punti di vista, mentre il gioiello, una volta indossato, oggetto di una mobilità infinita, viene letteralmente trasportato nei diversi ambienti, creando connessioni sensoriali di volta in volta diverse. Il gioiello, come la scultura, sollecita il tatto e la vista, ma, si potrebbe dire, più il tatto perché sono forme che occupano uno spazio fisico e mentale coniugando idea e materia. 53 K. WÖLFER, Il Gioiello è arte sul corpo, in G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Gioielleria Contemporanea. Padova-Vienna. Quattro Stazioni… cit., 2002, s. p. 24 Spesso si è etichettata la creazione orafa di uno scultore come “gioiello-scultura”. Crispolti nel saggio introduttivo alla mostra tenutasi a Fano nel 198554 ricorda come d’altra parte nella formazione stessa degli scultori, in particolare, spesso la componente di operatività artigianale sul metallo è molto forte, e dunque c’è un’intenzionalità, e reale possibilità di notevole autonomia di gestione del lavoro anche nell’ambito orafo 55. Se guardiamo ai nomi di quegli artisti che hanno prestato il loro nome alla creazione orafa, ci accorgiamo effettivamente che gli scultori, più dei pittori, hanno considerato la loro incursione nel mondo dell’ornamento né una pratica periferica alla loro arte, né casuale. Inoltre, gli scultori, data la loro consuetudine a lavorare la materia, spesso non solo progettavano il gioiello, ma pure lo realizzavano studiando attentamente ogni fase esecutiva. La committenza non era quasi mai costituita dal pubblico o dai collezionisti che di lì a poco avrebbero comprato il pezzo, magari senza mai indossarlo. Il gioiello “d’artista” veniva considerato come un’espressione d’arte contemporanea che, allo stesso tempo, attrae e spaventa perché troppo innovativa e sovversiva nei confronti del comune senso del decoro. Allora come adesso è la caratura del diamante a contare, non il pensiero che sottende il gioiello. Chi commissionava la creazione di gioielli contemporanei agli artisti erano i gioiellieri, o isolate personalità di grande sensibilità e carisma, come poteva essere Palma Bucarelli56 (Roma, 1910-1998) direttrice per oltre trent’anni (fino al 1975) della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma. Storica dell’arte e attiva promotrice della vita culturale della capitale, collezionista e sostenitrice dell’arte orafa contemporanea, fu la prima a esporre questo ornamento nelle 54 Mi riferisco alla mostra organizzata a Fano (E. CRISPOLTI (a cura di), L’oro della ricerca plastica… op. cit., 1985) che esponeva le creazioni orafe di sedici scultori impegnati nell’oreficeria tra cui Franco Cannilla, Pietro Consagra, Nino Franchina, Fausto Melotti e Gio’ Pomodoro. 55 E. CRISPOLTI , Gli scultori, in E. CRISPOLTI (a cura di), L’oro della ricerca plastica… cit., 1985, p. 11. 56 Grazie al suo ruolo istituzionale, Palma Bucarelli fu sempre circondata da artisti, molti dei quali le donarono le proprie creazioni orafe. 25 sale di un museo, presentando creazioni dei fratelli Pomodoro, Edgardo Mannucci, Carlo Lorenzetti e Umberto Mastroianni. La capitale, a partire da metà degli anni Cinquanta, diventò il primo centro di sperimentazione orafa. Il primo gioielliere ad avere l’idea di convincere artisti d’avanguardia, pittori e scultori a lavorare per lui per creare ornamenti esclusivi e dai materiali preziosi, fu il romano Mario Masenza (Roma, 1913-1985). La sua era una famiglia originaria di Torino dedita al mondo dei gioielli per tradizione57: il bisnonno commerciava pietre preziose, mentre il padre aveva preferito aprire una gioielleria tramandata poi, negli anni Quaranta, al figlio Mario appassionato estimatore d’arte. Dal 1946 egli aprì le porte del suo laboratorio-negozio in via del Corso (sede inaugurata nel 1924) ai promettenti artisti di allora, quasi tutti dediti alla poetica dell’Informale58, i quali potevano tradurre liberamente, con l’ausilio dello stesso Masenza, il loro pensiero in declinazioni formali di raro prestigio esecutivo. Scultori quali Mirko Basaldella (uno dei primi artisti ad essere contattato da Masenza), Franco Cannilla (fig. n. 21), Giuseppe Uncini e pittori come Giulio Turcato, Giuseppe Capogrossi (fig. n. 22) e Afro, frequentavano, assieme ai collezionisti, l’atelier di Masenza, non solo per progettare e creare monili, ma anche per discutere e confrontarsi in un ritrovato cenacolo59 . Dall’immediato dopoguerra fino al 1973, Masenza si servì del laboratorio orafo di Diderico Gherardi per realizzare i gioielli da esporre nelle vetrine del suo negozio. Masenza aveva dato inizio a questa impresa a ragion veduta. Egli era un uomo di cultura, appassionato d'arte che frequentava gli ambienti culturali romani e perciò non gli sarebbe di certo mancata la clientela culturalmente preparata. Gli artisti poi, nel secondo 57 I Masenza erano fornitori ufficiale della casa reale italiana. Si parla del Gruppo “Forma 1” del 1947 con Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli, Turcato, il Gruppo “Origine” del 1951 con Burri, Capogrossi, Mirko e altri, il Gruppo “Corrente” con Guttuso e Franchina, senza dimenticare i milanesi fratelli Pomodoro, Arnaldo e Gio’. Secondo Folchini Grassetto (G. FOLCHINI GRASSETTO, Il gioiello italiano contemporaneo tra progettualità e sperimentazione tecnica, in Grafica e oggetti d’arte… cit., 1996, p. 179) questi sono i gruppi dell’Informale che si dedicano al gioiello in quanto trovano «nella sperimentazione orafa un ideale terreno proprio per quella accentuata proprietà plastica che è specifica caratteristica dell’oro, atta a trascrivere le tensioni energetiche, le tracce, i segni, gli alfabeti, le labirintiche connessioni organiche e tecnologiche di quella cultura». 59 Altri orafi romani, i Castellani, nell’Ottocento ricevevano nel loro atelier, sovrani, artisti e letterati. 58 26 dopoguerra, non disdegnavano occasioni di guadagno, tanto più quando si offriva loro la possibilità di dedicarsi alla propria passione. I primi esperimenti lasciavano molto a desiderare dal punto di vista tecnico, ma come disse lo stesso Masenza, nel 1950, erano pezzi che dimostravano «freschezza d’inventiva e […] originalità»60. Egli riteneva, comunque, che i gioielli d’artista dovessero sempre rispettare un principio base: quello dell’attenzione all’indossabilità. Gli artisti scoprirono ben presto che l’oreficeria, attività apparentemente di scarso valore in confronto all’arte pura, offriva loro la possibilità di sciogliere molti quesiti sorti durante le personali ricerche artistiche. Gli artisti cominciarono a firmare le loro creazioni orafe, a volerle mostrare ad un pubblico. La prima mostra che si organizzò fu nella sede della Galleria del Milione di Milano nel 1949, in collaborazione con la Galleria dello Zodiaco di Roma, che presentava «trentasei pezzi di gioielleria e sedici oggetti decorativi in argento»61, eseguiti da Afro, Cannilla, Lorenzo Guerrini, Leoncillo e altri. Il critico milanese, Marco Valsecchi, nel pieghevole che accompagnava l’inaugurazione della mostra affermava: nasceranno frutti insperati, invidiati e nuovi insegnamenti: all’artigianato che ora langue appunto per anemia di ingegni e di modelli originari, all’artista stesso che nel rinnovato impegno al mestiere, alla sapienza manuale, alla perfezione tecnica, troverà stimoli per la diuturna lotta con la bellezza62. Masenza prediligeva il gioiello di «fusione o lavorato a mano dall’artista, caratterizzato dal colloquio dell’oro con il corallo, le pietre preziose, in un raffinato gioco cromatico»63 e non rinuncerà mai a creare oggetti “figurativi”. 60 G. FOLCHINI GRASSETTO , Il gioiello italiano contemporaneo tra progettualità e sperimentazione tecnica, in Grafica e oggetti d’arte… cit., 1996, p. 179. 61 L. SOMAINI , L’oro del ferro e del bronzo. Il contributo degli scultori e altre esperienze, in L. SOMAINI e C. CERRITELLI (a cura di), Gioielli d’artista… cit., 1995, p. 31. Fin dalle prime esposizioni dedicate all’oreficeria contemporanea, rientravano, tra gli oggetti esposti, le argenterie e quei pezzi d’arredamento legati all’uso quotidiano; forse retaggio del pensiero ottocentesco che equiparava il gioiello al servizio da tè in argento. 62 Ibidem. 63 Ivi, p. 34. 27 I gioielli creati nei suoi laboratori erano realizzati col famoso “oro Masenza”64, altrimenti detto “oro verde”, ottenuto da una lega particolare di oro e argento. L’oro verde non è lucidabile e presenta una colorazione più tenue rispetto all’oro giallo. Con gli anni Settanta Masenza non si dedicò quasi più alla realizzazione di gioielli d’autore. La casa di gioielleria Masenza chiuse definitivamente i battenti nel 1987 a causa di un furto. Sempre a Roma, negli anni Sessanta e Settanta, i fratelli Danilo (Roma, 1934-1995) e Massimo (Roma, 1936) Fumanti si interessavano alla fornitura di gioielli e pietre preziose, entrando così in contatto con Masenza (il rapporto commerciale tra i tre si concluderà nel 1975). Dal 1968 cominciarono a esporre, nelle vetrine del loro atelier in via Frattina a Roma, gioielli realizzati con la collaborazione di artisti come Getulio Alviani (fig. n. 23), Mario Ceroli (fgg. nn. 24-25), Gino Marotta e Aldo Calò. Gli artisti che lavoravano con Fumanti avevano lasciato alle spalle la stagione dell’Informale, il loro linguaggio apparteneva ai codici espressivi dell’arte Concreta, Optical e Pop. Per gli artisti che collaboravano con i fratelli Fumanti, la creazione del gioiello consisteva spesso nella sola fase dell’ideazione, il disegno, e questo permetteva di creare delle opere sì più impersonali, ma proprio per questo più adatte ad essere riprodotte in piccole serie. Lo scopo della ditta Fumanti era quello di diffondere il gioiello d’artista italiano nel mondo. Purtroppo editarono molti pezzi che poi rimasero invenduti. Nel 1986 cessò l’attività. Maria Cristina Bergesio nota come il gioiello progettato o parzialmente realizzato dagli artisti ha un mercato limitato, formato essenzialmente da un’élite culturale di collezionisti, amanti d’arte e dal bel mondo della nobiltà e dello spettacolo; un pubblico dai gusti non tradizionali attratto dalla risonanza dei nomi degli artisti coinvolti e dall’intrinseca proprietà di comunicazione del gioiello, visibile manifesto delle 64 A. ZORZI, Il rapporto dell’artista orafo contemporaneo con il pubblico, in L. LENTI (a cura di), Gioielli in Italia. Il gioiello e l’artefice… cit., 2005, p. 219. Zorzi afferma che per «ottenere questo risultato nell’oro puro va aggiunta una quantità maggiore di argento puro (titolo 999,99), solitamente la proporzione in un grammo è di 750 parti per l’oro e di 250 parti per l’argento». Si può aggiungere anche il rame o il platino creando una lega ternaria. 28 scelte culturali della persona che lo indossa65. A Roma ebbe inizio la sperimentazione orafa; a Milano, negli stessi anni, ebbe inizio invece il completamento critico. Si è già nominato il critico milanese Valsecchi che presentò nella sua città, nelle sale della galleria del Milione, i gioielli di Masenza. Furono Arnaldo (Morciano di Romagna, 1926) (fgg. nn. 26-27) e Gio’ Pomodoro (fig. n. 28) (Orciano di Pesaro, 1930-Milano, 2002) che promossero il gioiello d’artista a Milano a partire dagli anni Cinquanta: parallelamente alla loro ricerca questi due protagonisti della scultura contemporanea hanno trasformato l’arte del gioiello in un campo capace di produrre un nuovo gusto, mettendo a punto significati formali al tempo stesso autonomi ma anche comunicanti con le forme elaborate nella scultura66. Vinca Masini afferma che è proprio grazie ai fratelli Pomodoro se gli artisti si sono avvicinati al gioiello considerandolo nuovo campo di ricerca e di studio67. La X edizione (1954) della Triennale di Milano (esposizione che documentava l’affermazione su scala mondiale del neonato design italiano) sancì l’inizio della loro entusiasmante carriera di orafi. Dopo aver partecipato ad una personale organizzata dalla Biennale di Venezia nel 1956, cui aveva presenziato sempre Valsecchi, i fratelli Pomodoro, l’anno seguente, vennero chiamati come curatori della sezione della lavorazione dei metalli preziosi alla Triennale di Milano; essi chiamarono a rapporto artisti come Sottsass, Baj, Martinazzi, Lorenzo Guerrini ed altri. I fratelli Pomodoro insieme all’amico Giorgio Perfetti (scomparso pochi anni dopo) fondarono nel 1953 il gruppo 3P il cui scopo era quello di realizzare gioielli 65 M. C. BERGESIO , Masenza, Fumanti, Montebello: interpreti del gioiello d’autore in Italia, in M. MOSCO (a cura di), L’arte del gioiello… cit., 2001, p. 310. 66 C. CERRITELLI, Intorno al gioiello d’artista, in L .SOMAINI C. CERRITELLI (a cura di), Gioielli d’artista… cit., 1995, p. 12. 29 contemporanei e piccoli rilievi. Arnaldo Pomodoro fin dai primi anni Sessanta, si specializzò nella tecnica particolarissima della fusione in osso di seppia; materiale straordinario per la sua capacità di essere lavorato con facilità e per sopportare le altissime temperature di metalli fusi come oro, platino e argento. Il modello del gioiello veniva scavato o impresso sulla superficie dell’osso di seppia68. Folchini Grassetto nota come questo procedimento permetta di creare forme «contorte, aggrovigliate, cosparse di tracciati»69 che richiamano le forme naturali interpretate secondo i canoni della stagione Informale. Fin dagli anni Sessanta i due fratelli realizzavano i gioielli insieme, tant’è che era difficile distinguere le creazioni di Arnaldo da quelle di Gio’. Nel 1964 ognuno aprì uno studio di progettazione orafa per conto suo. Gio’ Pomodoro negli ultimi anni si era riavvicinato al mondo del gioiello. A parte i fratelli Pomodoro che hanno sviluppato il loro linguaggio prima nel gioiello poi nella scultura, tutti gli altri artisti, come già detto in precedenza, non hanno trasformato il gioiello in una manifestazione autonoma della propria poetica. Si è già accennato al tentativo fallito della ditta Fumanti di riprodurre piccole serie di pezzi unici. Ci riuscirà, anche se per poco, la Gem di Milano. Verso la fine degli anni Sessanta (1967) il genio di Giancarlo Montebello70 (Milano, 1941) istituisce, insieme alla moglie Teresa Pomodoro (sorella di Gio’ e Arnaldo), la Gem71 di Milano, la cui finalità, appunto era quella di realizzare, piccole serie72, numerate e firmate 67 L. V. MASINI, Gioiello d’Artista, gioiello d’Autore, in M. MOSCO (a cura di), L’arte del gioiello… cit., 2001, p. 350. 68 Cfr. C. CODINA (a cura di), L’oreficeria. La tecnica e l’arte della lavorazione dei metalli e del taglio delle gemme spiegate in modo chiaro e preciso, Milano, Il Castello, 2006, p. 52. 69 G. FOLCHINI GRASSETTO, Oro italiano, in A. GAME e G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), British gold-Italian gold, catalogo della mostra itinerante, Edinburg, The Scottish Gallery, 7th August-2nd September 1998, s. l., s. p. 70 Il primo interesse di Giancarlo Montebello, (formatosi alla scuola d’arte del Castello Sforzesco a Milano) fu l’arredamento e il mondo del design. 71 Bergesio riconosce che la sigla Gem sta sia per Giancarlo Montebello sia per il termine inglese Gem, pietra preziosa ( M. C. BERGESIO, Masenza, Fumanti, Montebello: interpreti del gioiello d’autore in Italia, in M. MOSCO (a cura di), L’arte del gioiello… cit., 2001, p. 312). 72 Sempre Bergesio continua dicendo «i prodotti della Gem sono concepiti come industrial design “leggero”, i semi-lavorati vengono assemblati dalle mani esperte di un orafo specializzato, quindi secondo la distinzione di Guido Ballo tra multipli e opere seriali, risulta che i pezzi in questione devono essere catalogati come opere seriali. Nel multiplo l’intervento manuale è completamente bandito, la tiratura può essere illimitata e l’oggetto è 30 dall’artista, di gioielli contemporanei, applicando procedimenti tipici dell'industrial design73. Dopo aver valutato l’effettiva riproducibilità del progetto presentato dall’artista, si stabiliva il numero di edizioni del pezzo in questione (inizialmente 200 copie, non firmate). In questo modo, afferma Folchini Grassetto, il gioiello diventa prodotto di design che può inviare «segnali significativi, indicazioni di gusto e di stile»74 al pari della creazione orafa. Una delle conseguenze dell’industrializzazione accelerata di quegli anni fu la diffusione ad ampio raggio di beni di consumo prodotti in serie; oggetti che dovevano essere non solo utili, ma anche belli da vedere, facili da usare e dai costi contenuti. In altre parole era entrato prepotentemente, nei meccanismi della catena produttiva, il concetto di design che investiva non solo l’industria di oggetti d’uso come gli elettrodomestici, le automobili o il mobilio, ma anche il mondo dell’arte e dell’architettura. Il primo catalogo delle opere prodotte da Montebello uscì nel 1968 e le schede dei gioielli erano corredate dagli intensi ritratti dei pezzi in bianco e nero del milanese Ugo Mulas (1928-1973), fotografo d’arte d’eccellenza75. diffuso come un disco o un libro, mentre nell’opera seriale c’è un limite fissato per edizione, spesso viene anche firmata dall’artista ed è anche ammessa una realizzazione manuale». Citazione tratta da M. C. BERGESIO, Masenza, Fumanti, Montebello: interpreti del gioiello d’autore in Italia, in M. MOSCO (a cura di), L’arte del gioiello… cit., 2001, p. 313. 73 Si possono citare altri due orafi che si sono cimentati nella produzione seriale: Cleto Munari (Gorizia 1930) e Luigi Sebastiani. In realtà, Munari nasce come designer ed è solo quando incontra Carlo Scarpa ed Ettore Sottsass che decide di iniziare la sua attività di editore di oggetti d’arte, cominciando nel 1977 con delle posate in argento progettate da Scarpa. Nel 1985 fonda a Vicenza il laboratorio che di lì a poco diverrà la “Cleto Munari Design e Associati” il cui obiettivo era quello di coinvolgere architetti famosi nella creazione di oggetti d’arredamento e di gioielli in piccole serie. 74 G. FOLCHINI GRASSETTO , Il gioiello italiano contemporaneo tra progettualità e sperimentazione tecnica, in Grafica e oggetti d’arte… cit., 1996, pp. 180-81. Qui però l’autrice puntualizza come «mentre la numerazione delle stampe è rigorosamente condizionata dalla qualità delle stesse, e le lastre incise, per legge, devono essere distrutte, la limitazione imposta alle copie, in oreficeria, è del tutto arbitraria. […] Nel passato le grandi Case, che operavano con artisti e artigiani di altissima esperienza tecnica, non avevano il problema dell’unicità del pezzo o della produzione limitata […] quando il modello di una spilla, di un anello incontrava il gusto del pubblico, questo veniva ripetuto sino all’esaurimento della domanda». Basti pensare alla realtà delle grandi Case orafe francesi nell’Ottocento che grazie alla loro immagini di repertorio potevano riprodurre illimitatamente pezzi di grande successo. Ne è un esempio lampante il caso dell’orafo francese Oscar Massin che vide riprodotto per trenta anni, anche in paesi stranieri, un suo modello di spilla in diamanti, evidentemente molto apprezzata (Ibidem). 75 Già dopo il primo conflitto mondiale Adolphe De Meyer (1886-1946) inventa, sulle pagine di «Vogue», la fotografia di moda immortalando l’abito di alta sartoria indossato insieme a gioielli preziosi. Nella seconda metà degli anni Venti, Edward Steichen (1879-1973) individua i caratteri fondanti della fotografia di comunicazione di primo Novecento: raffinatezza, eleganza e semplicità di mezzi tecnici al fine di promuovere e insieme descrivere nei più piccoli particolari, l’oggetto fotografato, sia esso abito o gioiello. Negli anni trenta, Man Ray, collaboratore di «Harper’s Bazaar», e Erwin Blumenfeld (1897-1969) contaminano il mondo della pubblicità di 31 La fotografia d’autore, in Italia, si presta al mondo del gioiello solo a partire dalla metà del secolo scorso, tradendo un ritardo di oltre trenta anni rispetto agli altri paesi. Sonia Delaunay, Man Ray, César e Arman, senza contare i Pomodoro, Consagra (fig. n. 29) e Fontana (fig. n. 30) furono i grandi nomi dell’arte che collaborarono con la Gem. La Gem non ebbe mai un proprio punto vendita. Si appoggiava alle gallerie d'arte per vendere i pezzi. Nel 1978 si chiuse bruscamente l’esperienza della Gem a causa di un ingente furto. Oggi Giancarlo Montebello si dedica in prima persona all’ideazione del gioiello collaborando con note aziende orafe (fig. n. 31). Altra città protagonista del rinnovato interesse rivolto al gioiello di ricerca è Firenze76. Sebbene le incursioni da parte degli artisti nel mondo del gioiello siano state numerose a partire da metà Novecento, non si può pensare a una storia del gioiello d’artista come un percorso autonomo e continuo sia dal punto di vista progettuale che realizzativo. Gli orafi-artisti e il gioiello di “ricerca” La tendenza oggi, ancora ampiamente diffusa in ambito critico nazionale, è quella di considerare opera d’arte solo quel gioiello progettato dagli artisti puri e designers, distinguendo così, il gioiello “d’artista”, che possiede una esplicita valenza artistica, dalle moda con i linguaggi delle avanguardie storiche. Nella New York anni Cinquanta, le immagini sofisticate di Richard Avedon (1923) e William Klein (1928) relazionano ancora l’oggetto prezioso col mondo degli abiti firmati. Sulla scena italiana, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, si affiancano, ai protagonisti della grande oreficeria d’arte, i primi fotografi che si dedicano al ritratto del gioiello contemporaneo. Questi artisti dell’immagine non si limitano a fotografare il gioiello, ma attraverso il loro linguaggio visivo bidimensionale, interpretano, indagano e trasformano il gioiello. Da questo momento viene meno il legame oreficeria-moda, rendendo il gioiello indiscusso ed esclusivo protagonista del ritratto fotografico. In questi anni, il milanese Paolo Monti (1912-1970) immortala in immagini rigorosamente in bianco e nero le creazioni orafe di Gio’ Pomodoro. Dalla metà degli anni Sessanta si impone sulla scena artistica italiana il fotografo Ugo Mulas. Negli ultimi decenni, il ritratto fotografico del gioiello contemporaneo è sempre più diffuso, dando vita ad una produzione vasta, ma spesso ripetitiva e di poco valore artistico (si veda L. GIOTTI, Fotografia, in L. LENTI e M. C. BERGESIO (a cura di), Dizionario del gioiello italiano… cit., 2005, pp. 109-10 e L. GIOTTI, Dall’immagine del prezioso al frammento narrativo, in L. LENTI (a cura di), Gioielli in Italia. Donne e ori. Storia, arte, passione. Atti del quarto convegno nazionale, Valenza, Palazzo Pellizzari, 5-6 ottobre 2002, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 85-92). 76 Dal 1972 al 1978, a Firenze si allestisce la mostra mercato intitolata Aurea. Per 15 giorni ogni due anni, il capoluogo toscano si trasforma nel luogo di incontro tra il nuovo e il tradizionale. Con Aurea si tenta già di 32 creazioni artigianali degli orafi il cui valore è quasi esclusivamente commerciale. Si è detto che la rivoluzione in ambito orafo, in Italia, si realizza a partire dagli anni Cinquanta, grazie al contributo innovativo di alcuni artisti puri che si sono dedicati, seppur occasionalmente, al mondo del gioiello. Questa è una verità parziale in quanto anche gli orafi hanno contribuito a rinnovare il linguaggio dell’ornamento. Se il ruolo dell’artista-orafo è stato quello di muovere inventivamente le acque, quello dell’orafoartista è stato di far tesoro delle prospettive nuove di libertà operativa aperte da tali sollecitazioni inventive, riconfrontandole con un patrimonio di sapienza operativa artigiana, per rinnovarla dall’interno attraverso una reinvenzione sia formale sia tecnica 77. Negli ultimi due decenni, sembra quasi che gli artisti disdegnino l’arte “minore” di creare ornamenti, mentre gli orafi-artisti stravolgono i normali criteri realizzativi del gioiello contemporaneo. Questo, tuttavia, non significa che gli artisti plastico-visivi non siano più interessati a mettere alla prova la propria creatività nell’ambito dell’ornamento, ma, principalmente, che gli artisti di formazione orafa hanno saputo sfruttare appieno la competenza artigiana, al fine di rinnovare “artisticamente” l’arte del gioiello, come mai fino a questo momento si è verificato. L’orafo-artista racchiude infatti in sé l’indagine di espressione comunicativa dell’artista e la sapienza dell’artigiano. È risaputo come l’artista crei e continui a farlo durante tutte le fasi di realizzazione dell’opera d’arte, e cerchi costantemente i mezzi comunicativi più efficaci ed intuitivi per esprimere il proprio pensiero; il suo è un lavoro istintuale. L’ispirazione arriva in un momento e viene tradotta nelle più diverse declinazioni formali. L’artigiano, invece, riproduce oggetti grazie alle conoscenze tecniche-esecutive apprese dopo molta esperienza pratica. Il suo è un lavoro paziente e metodico che, seppur lascia spazio alla fantasia creativa, non gli permette di indagare ulteriormente su quelli che sono i valorizzare non solo l’aspetto economico e merceologico del gioiello, ma anche quello artistico esponendo le creazioni degli artisti-orafi. 33 significati dell’ornamento. Gli orafi-artisti, attraverso una precisa conoscenza della materia orafa e delle tecniche di lavorazione dei metalli, propria dell’artigiano, ricercano, sperimentano e creano oggetti plastici che sono forme e segnali d’arte al pari dell’opere degli artisti puri. I gioielli contemporanei sono segnali comunicativi, figure per il corpo. L’ornamento è il linguaggio della ricerca espressiva degli artisti dell’oro. Come il pittore conosce a fondo le qualità dei colori e i diversi tipi di supporti per dipingere e li sa sfruttare nella maniera più consona al fine di esprimere il proprio “io”, così l’orafo-artista sa sfruttare le qualità dei diversi materiali e le diverse tecniche al fine di creare forme che rappresentino se stesso. Il gioiello contemporaneo non è mai pura esperienza estetica, ma è un coinvolgimento di sensi. Si è già detto quali fossero le caratteristiche del gioiello contemporaneo e queste valgono sia per le creazioni preziose del laboratorio di Masenza o di Giancarlo Montebello, come per i gioielli realizzati dagli orafi-artisti. Resta una differenza sostanziale tra i gioielli realizzati dagli uni o dagli altri: un artista puro che si dedica al gioiello sporadicamente, per quanto il suo intervento sia innovativo sia a livello tecnico che formale, non riuscirà mai a rendere il linguaggio orafo italiano un campo di ricerca artistica autonomo; l’orafo-artista si. D’altronde, come afferma Crispolti, lo scultore passa, anche se lascia il segno, ma l’orafo resta78. Sono gli orafi-artisti i veri sovvertitori della concezione tradizionale di ornamento, coloro che hanno dato vita ad un linguaggio sperimentale nel mondo del prezioso. Essi hanno reso il gioiello contemporaneo un’opera d’arte. 77 E. CRISPOLTI, Immaginazione aurea in Italia nel secondo Novecento, in E. CRISPOLTI (a cura di), Immaginazione aurea… cit., 2001, p. 14. 78 E. CRISPOLTI, Gli orafi, in E. CRISPOLTI (a cura di), L’oro della ricerca plastica… cit., 1985, p. 77. Nella pagina seguente, Crispolti si riferisce agli orafi professionisti che, a metà degli anni Ottanta, dovevano assumere gli esempi degli scultori occasionalmente orafi, «proprio perché si crei una cultura moderna dell’oreficeria occorre 34 I massimi artisti italiani del gioiello contemporaneo sono concentrati per lo più nell’area veneta, in particolare a Padova. Non mi soffermo in questa sede a parlare di questi straordinari artisti in quanto saranno oggetto d’indagine approfondita nei successivi capitoli; preferisco, perciò dedicare qualche riga agli altri orafi italiani, cosciente del fatto che la mia non potrà mai essere una presentazione esaustiva79 e soprattutto che è il frutto di una scelta di carattere personale80. Mi sembra opportuno iniziare questo breve excursus sugli orafi-artisti dalla figura di Bruno Martinazzi (Torino 1923). Martinazzi, già laureato in chimica, decide, nel 1951, di dedicarsi al mondo del gioiello. Frequenta la Scuola Professionale per orefici “Ghirardi” di Torino, nonché corsi presso gli Istituti d’arte di Firenze e Roma. L’interesse di questo artista torinese si volge sia all’ambito orafo, sia a quello della scultura. Come afferma Bergesio, riguardo alla produzione di Martinazzi una scultura può essere la preparazione di un ornamento e la forma di un gioiello può derivare dalla ricerche di più grande dimensione81. Martinazzi è conosciuto, nell’ambiente orafo internazionale, per essere l’artista che ha trasformato in ornamenti, riproduzioni preziose delle singole parti del corpo umano. Grazie allo sbalzo e al cesello, la materia aurea diventa una bocca, una mano e un occhio socchiuso. I particolari anatomici ingranditi di Martinazzi, una volta indossati, non sembrano più microsculture pop, ma oggetti che condensano energia ed evocano significati primordiali creando dei canali preferenziali per conoscere se stessi e il mondo che il patrimonio professionale sia consapevole delle prospettive di ricerca plastica da altri, non professionisti nello specifico, praticate, e con successo inventivo di primissima qualità» (Ivi, p. 78). 79 Per avere una visione più completa del panorama orafo italiano si rimanda ai testi : G. FOLCHINI GRASSETTO, Testimonianza del risveglio di interesse in Italia per l’oreficeria contemporanea, in Grafica e oggetti d’arte. Catalogo dell’arte moltiplicata in Italia, n. 25, Milano, Mondadori, 1997; L. LENTI e M. C. BERGESIO (a cura di), Dizionario del gioiello italiano… op. cit., 2005 e a G. FOLCHINI GRASSETTO, Il gioiello italiano contemporaneo tra progettualità e sperimentazione tecnica, in Grafica e oggetti d’arte… op. cit., 1996. 80 A conferma dell’utilizzo di criteri personali di scelta, si sono trattati i fratelli Pomodoro nell’ambito degli artisti-orafi anche se la loro ricerca artistica si è sviluppata prima nell’ambito orafo poi in quello plastico; come si è scelto di parlare di Bruno Martinazzi nell’ambito degli orafi-artisti, quando non si è dedicato solo alla creazione orafa. 35 circostante (fgg. nn. 32-33). Flora Savioli Wiechmann (Firenze, 1917) è una delle più importanti artiste italiane. Inizia a creare gioielli tra gli anni Cinquanta e Sessanta, convinta dal marito architetto Leonardo Savioli. I gioielli della Wiechmann sono aggregazioni materiche create senza l’ausilio di saldature: i vari metalli vengono piegati, modellati e aggrovigliati in forme giocose e libere. Alcuni dei suoi ornamenti appaiono, ad una prima occhiata, quasi come oggetti di scarto liberamente assemblati (fig. n. 34). L’artista fiorentina, infatti, impiega materiali di recupero (lenti, sezioni di orologi, materiali elettrici), consumati dall’uso o dal tempo, che vengono così riciclati e risemantizzati in un’operazione forse avvicinabile a quelle attuate dagli artisti del Nouveau Réalisme. Barbara Uderzo (Vicenza, 1965) dopo gli studi presso l’Accademia di Venezia, segue dei corsi di design orafo organizzati dalla Scuola di Arti e Mestieri di Vicenza. Collabora con aziende orafe in qualità di designer e da sempre ha focalizzato la sua attenzione sull’anello. Gli anelli facenti parte della serie intitolata Blob rings (dal 1993), ci ricordano gli anelli di plastica usati dalle bambine. Sono vere d’argento avvolte da una materia plastica spumosa (bianca o rosa) che intrappola un oggetto qualsiasi come una piccola tazzina da tè, o una mela rossa (fig. n. 35) o un campanellino, come se questi oggetti della quotidianità fossero stati rimpiccioliti e invischiati nella schiuma dolce e appiccicosa di una realtà da mondo delle fiabe (fig. n. 36). Tra gli ultimi ornamenti ideati dall’artista, mi sembrano di particolare interesse i Gluco gioielli (2003), fatti di zucchero, da mangiare in compagnia. L’idea che il cibo possa diventare un’opera d’arte sicuramente non è nuova, ma che il cibo possa trasformarsi in ornamento è una proposta che fa certamente riflettere. Il gioiello infatti è tradizionalmente legato all’idea di bene prezioso e duraturo. Nell’operazione della Uderzo, invece, il gioiello viene realizzato in una materia comune e deperibile. Già Piero Manzoni, nell’estate del 1960, trasforma delle uova, in opere d’arte. Le uova vengono bollite, timbrate dall’impronta del pollice dell’artista e offerte al pubblico per essere consumate82. In entrambi i casi, l’intervento dell’artista rende una materia tanto comune, tale da essere “indispensabile” nell’alimentazione di ognuno, in 81 M. C. BERGESIO, Martinazzi Bruno, in L. LENTI e M. C. BERGESIO (a cura di), Dizionario del gioiello italiano… cit., 2005, pp. 174-76. 36 un’opera d’arte che va poi ingerita. È come se, una volta mangiato l’anello di zucchero o l’uovo timbrato, lo spettatore si trasformasse in un contenitore di opere d’arte o in un’opera d’arte stessa. Altra artista formatesi a Venezia è Barbara Paganin (Venezia, 1961). A metà degli anni Novanta abbandona il linguaggio geometrico per investigare le forme di vita del mondo acquatico. Oro, argento e perle di vetro sono i materiali impiegati per fingere le forme di anemoni di mare e di coralli (fig. n. 37). Lo scorso anno, presso lo studio GR.20 di Padova, sono stati presentati creazioni dell’orafa veneziana che dimostravano ulteriori ricerche in ambito naturalistico. Da un lato lavori «dedicati […] a nere rocce vulcaniche, a calcaree stalagmiti» in cui «l’oro era celato da nielli, da patinature e da ossidazioni», dall’altro lavori dalle «plurime forme arrotondate […]» che «ripropongono una natura benigna, madre protettiva nel suo eterno rigenerarsi»83 (fig. n. 38). Si potrebbero citare molti altri nomi. Mi limito solo ad alcuni: Giorgio Facchini (Fano, 1947) e Alberto Giorgi (San Lorenzo in Campo, 1947), entrambi formatesi presso l’Istituto Statale d’Arte di Fano con Edgardo Mannucci, Marco Rigovacca (Maserà 1947) che, insieme a Renzo Pasquale, fonda, nel 1984, il “Centro di ricerca e sperimentazione orafa” (Creso)84 a Padova, Antonio Boschin (Mestre 1968) che dal 1985 utilizza il computer come strumento di progettazione orafa, Alba Lisca (Milano, 1935) nata come pittrice dopo il diploma all’Accademia di Brera, ma presto dedita al gioiello... 82 Si veda E. GRAZIOLI, Piero Manzoni, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 101-08. G. FOLCHINI GRASSETTO (a cura di), Gioielleria contemporanea. Natura in bianco e nero, catalogo della mostra itinerante, Padova, Studio GR.20, 27 aprile-20 maggio 2006, s. l., 2006, pp. 8-9. 84 Il Centro di Sperimentazione Orafa non è più attivo. 83 37 38