La competitività del trasporto merci nello scenario europeo
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La competitività del trasporto merci nello scenario europeo
La competitività del trasporto merci nello scenario europeo di Pietro Spirito, docente incaricato di economia dei trasporti presso la facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Tor Vergata PARTE PRIMA Considerazioni generali. Il ruolo del trasporto merci e della logistica per la competitività dell’economia Il peso della filiera trasporti e logistica nell’economia italiana Trasporto delle merci e servizi di logistica costituiscono fattori chiave non solo, e non tanto, per la dimensione intrinseca del mercato servito, quanto per la rilevanza che queste attività assumono come pilastro strategico per la definizione degli assetti competitivi tra imprese e territori nello scenario contemporaneo della globalizzazione1. In questo nostro ragionamento ci concentreremo in particolare sulla componente del trasporto, che costituisce ancora oggi la parte dominante, dal punto di vista della produzione, sul complesso dei servizi logistici, pur se sta crescendo il peso di tutti i servizi che si aggiungono alla trazione per comporre il disegno complessivo della mobilità delle merci (dal magazzinaggio alla movimentazione, sino al ciclo di personalizzazione dei prodotti che caratterizza le fasi più sofisticate della logistica moderna). Uno studio recente del Ministero dello Sviluppo Economico ha ricostruito il quadro della struttura economica nazionale, articolando le basi di dati per individuare le filiere dominanti per la nostra organizzazione produttiva. Sono state individuate diciassette filiere, che rappresentano circa l’80% della struttura economica del nostro Paese, per tutti i principali indicatori considerati (numero di imprese, addetti, fatturato, valore aggiunto, costo del lavoro, export). Dall’analisi di questi dati risulta evidente che la filiera dei trasporti e della logistica è uno degli assi portanti del nostro sistema economico, in particolare in termini di numero di dipendenti (6,9% del complesso dell’economia italiana), valore aggiunto (6,6% sul totale) e di costo del lavoro (7,8% del totale), collocandosi per questi tre indicatori al terzo posto complessivo, dopo le filiere delle costruzioni e dell’agroindustria. Utilizzando sempre lo studio del Ministero dello Sviluppo Economico, che ha costruito il quadro delle filiere dell’economia italiana, possiamo articolare il settore dei trasporti e della logistica separando le attività di vezione in senso stretto dai servizi di logistica, nei quali sono compresi il magazzinaggio e le attività di supporto ai trasporti. Si verifica (cfr. il seguente Grafico 1) che, mentre il trasporto terrestre è fortemente rilevante sul settore in termini di numero di imprese e di occupati (rispettivamente l’81,9% ed il 58,5% del totale della filiera), le attività logistiche hanno una minore densità frammentata di aziende (sono il 16,8% 1 Per una analisi sulla influenza dei servizi di trasporto e di logistica sulla competitività dei sistemi economici e sulla generazione della produttività totale dei fattori, cfr. di Gaetano Fausto Esposito e Pietro Spirito, “Il ruolo dei servizi e dei processi di outsourcing nelle dinamiche della produttività totale dei fattori: una applicazione al settore della logistica”, dattiloscritto di prossima pubblicazione 1 del totale), ma crescono come rilevanza in termini di occupati e di fatturato (rispettivamente il 35,9% ed il 23,3% del totale di settore). Grafico 1 Filiera dei trasporti e della logistica: stica: peso delle attività per alcune variabili (dati 2010, in %) Fonte: elaborazioni su dati Istat Il valore del fatturato delle aziende di trasporti e logistica conto terzi (escludendo i trasporti aereo e navale) è stato pari in Italia a 73,7 miliardi di euro nel 2010, con un incremento in termini reali pari al 2% rispetto al 2009. Dopo un 2011 con un fatturato ancora in crescita, pari al 2%, si prevede per il 2012 ed il 2013 una situazione di stabilità, legata alla difficile situazione economica del Paese, solo in parte compensata da maggiori servizi di trasporto e di logistica a supporto delle esportazioni. Si stima una riduzione del fatturato dei servizi serv di trasporto e logistica terziarizzati pari allo 0,3% per il 2012 ed una crescita del 2% per il 2013. Per er dimensionare il mercato del trasporto e della logistica in conto terzi in Italia è necessario depurare il fatturato complessivo (73,7 miliardi di euro) dal valore degli scambi interni alla filiera. Effettuando questa operazione, si stima che il valore del mercato italiano dei servizi logistici terziarizzati sia stato pari nel 2010 a 40 miliardi di euro. Rapportando questo valore al totale dei costi logistici per i committenti al netto del costo delle scorte - valutato dal Centro Studi Confetra e da AT Kearney in 109 miliardi di euro - si ottiene un grado di terziarizzazione dei servizi logistici pari al 37%, sostanzialmente invariato rispetto al 200 2009. Si tratta di uno degli elementi che differenzia la struttura economica della filiera dei trasporti e della logistica italiana rispetto a quella di altri Paesi industrializzati, che hanno invece già percorso un processo di forte crescita della terziarizzazione. terziarizz L’autotrasporto è l’attività che pesa più sul fatturato dei servizi logistici terziarizzati (52%), seguita dagli spedizionieri (19%) e dagli operatori logistici (11%). Crescono a tasso più elevato le categorie ad alto contenuto di trasporto: i gestori gestori di interporti/terminali intermodali (+10,2%), corrieri/corrieri espresso (+ 6,9%). Se consideriamo invece non il fatturato, ma il mercato della logistica in conto terzi, anche in questo caso il maggiore contributo è dato dall'autotrasporto (36%), cui sseguono gli spedizionieri (26%), gli operatori logistici (19%) ed i corrieri/corrieri espresso (11%). 2 La selezione dell’offerta e la leva dell’outsourcing nei trasporti e nella logistica La crisi economica in corso sta determinando un processo di selezione dal lato dell’offerta. Il settore dei servizi logistici terziarizzati si è mosso verso una maggiore concentrazione, testimoniata dalla riduzione del numero complessivo di aziende (da 114.491 a 108.967), con una contrazione che ha riguardato soprattutto gli autotrasportatori non organizzati in società di capitali (i cosiddetti “padroncini”), e dall’incremento del fatturato medio per azienda (+9%), particolarmente spiccato nella categoria degli operatori logistici per le aziende comprese nella classe dimensionale tra i 50 ed i 100 milioni di euro di fatturato, in cui si è registrata una crescita del volume d'affari pari al 35%. La stima è contenuta nel Rapporto su “Outsourcing della logistica: le potenzialità di crescita e di innovazione”2, promosso dal Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano3. L’Osservatorio propone una distinzione tra le forme differenti di terziarizzazione delle attività logistiche, distinguendo tra affidamento ad operatori specializzati di prestazioni elementari (handling, trasporto primario, trasporto secondario) o di attività complesse che comprendono la gestione di un intero set di attività (che includa almeno la movimentazione ed i trasporti). Nel primo caso si parla di "commodity outsourcing", con la regia del processo che rimane in capo al committente, mentre nel secondo caso siamo in presenza di "strategic outsourcing": il committente assume una scelta di medio periodo che delega al fornitore terzo anche attività di coordinamento e ricerca di efficienze. Considerando solo i servizi compresi nello "strategic outsourcing", il valore del mercato scende dai 40 miliardi di euro della logistica terziarizzata nel suo insieme a 7,7 miliardi di euro, pari a circa il 20% del mercato totale, con un grado di terziarizzazione per le funzioni più complesse pari in Italia al 7%, con valori ben lontani da quelli che si registrano negli altri principali Paesi industrializzati. L’approccio dominante nelle relazioni di outsourcing logistico è quindi in Italia ancora il "commodity outsourcing" (che comunque pesa solo poco più di un terzo sul totale dei costi logistici), mentre non si delineano ancora quelle consapevolezze sulla necessaria evoluzione del modello di organizzazione dei flussi di merce come leva per un recupero strutturale di competitività: dall'approvvigionamento di materie prime e semilavorati, sino alla distribuzione dei prodotti finiti, con l’insieme delle funzioni più sofisticate di postponement che caratterizzano la piattaforma delle moderne organizzazioni manifatturiere. Secondo le valutazioni del modello di previsione che l'Osservatorio Contract Logistics ha messo a punto, esistono comunque interessanti opportunità di crescita del settore: vi è un 63% del mercato potenziale oggi non raggiunto da modelli operativi di terziarizzazione logistica, ed un 30% di mercato attualmente servito con servizi di base che può evolvere verso servizi complessi. Ma quali sono le motivazioni che inducono oggi una azienda italiana a non ricorrere alla terziarizzazione della logistica, neanche nelle attività di trasporto ? Secondo l’indagine dell'Osservatorio, esse sono riconducibili essenzialmente a due principali tipologie: la preoccupazione di perdere competenze di gestione del processo logistico ed il timore di dover sostenere elevati costi legati al cambiamento. Al contrario, le motivazioni che spingono le aziende a scegliere la terziarizzazione sono riconducibili a due categorie: la presenza di un forte commitment 2 Osservatorio Contract Logistics, “Outsourcing della logistica: potenzialità di crescita e innovazione”, Politecnico di Milano, novembre 2012. 3 Per una rassegna delle attività dell'Osservatorio, che sta per lanciare la sua terza edizione, cfr. il sito www.contractlogistics.it. 3 da parte del vertice e la consapevolezza del valore che deriva dalla condivisione dei flussi logistici con altri attori. Si tratta di investire nel rinnovamento della cultura industriale per allargare la consapevolezza sul ruolo che una logistica moderna può giocare per rilanciare la competitività dell'industria italiana. Nei decenni recenti, molti Paesi hanno fatto della logistica e dei trasporti una leva per il rilancio della efficienza industriale e per una presenza più attiva sui mercati internazionali. In Italia, molto resta da fare su questo fronte. Le stime condotte sui risparmi di costi generabili attraverso il ricorso all’outsourcing logistico sono estremamente rilevanti: “15% dei costi logistici, 8% dei costi di magazzino, 26% di riduzione degli asse fisici dedicati alla logistica”4. Secondo stime di Armstrong & Associates, nel mondo il mercato dell’outsourcing logistico vale nel 2011 616,1 miliardi di dollari: è interessante notare che i tassi di crescita di questo mercato si concentrano in particolare in America Latina (+43,6% rispetto all’anno precedente) ed in Asia (+21,2%): per la prima volta, sempre nel 2011, la regione asiatica ha registrato il valore più elevato rispetto alle altre realtà continentali, con un valore di 191,1 miliardi di dollari. I costi logistici in percentuale dei ricavi da vendita dei prodotti sono mediamente nel mondo pari al 12%. E’ da osservare che l’Europa registra ancora oggi, tra le altre realtà continentali, una maggiore incidenza delle spese di outsourcing sul totale dei costi logistici (55% rispetto ad un valore medio del mondo pari al 39%), con una accentuazione particolarmente rilevante sull’outsourcing per i servizi di trasporto, che per l’Europa pesa per il 71% rispetto alla media complessiva del 54%. La debole struttura del sistema dei trasporti e della logistica italiano è uno dei fattori alla base delle deludenti performance di competitività industriale del nostro Paese. La nostra bilancia commerciale dei noli rileva un disavanzo superiore a 8 miliardi di euro (dati 2010). Nella classifica della Banca Mondiale sulla efficienza dei servizi logistici, l’Italia è al ventiquattresimo posto, mentre nei primi dieci posti sono presenti ben sei Paesi aderenti alla Unione Europea: questo gap condiziona pesantemente la competitività dell’industria italiana, non solo in termini di costosità delle operazioni, quanto soprattutto in termini di efficienza e di posizionamento sui mercati internazionali. Rispetto alla precedenti edizioni del Rapporto della Banca Mondiale (la prima risale al 2007), il nostro Paese ha perso altre due posizioni. In termini concreti, considerando il divario nelle performances logistiche che viene registrato dalla Banca Mondiale tra Italia e Germania, esso corrisponde a 1,08 giorni aggiuntivi per la movimentazione delle merci dal porto al magazzino dell’azienda, pari ad una perdita di efficienza dell’11,5% per il nostro Paese5. L’incidenza dei trasporti e della logistica nelle strutture di costo delle produzioni è rilevante, e costituisce fattore strategico per il posizionamento competitivo sui mercati. Nell’Unione Europea: “il settore della logistica costituisce il 15% del costo dei prodotti finiti. Secondo le stime della Commissione, le inefficienze che si determinano nei canali logistici pesano per l’1% del prodotto nazionale lordo comunitario”6. 4 2013 Third –party logistics study, “The state of logistics outsourcing. Results and findings”, 2012. Per una analisi sull’andamento dei mercati logistici in Gran Bretagna e Stati Uniti, cfr. rispettivamente Price Waterhouse Coopers, “The Logistic Report 2012” e Council of Supply Chain Management Professionals, “State of logistics report”, 2012. 5 Questa stima è contenuta in Oliviero Baccelli, Francesco Barontini, “L’Italia in Europa. Le politiche dei trasporti per rimanere in rete”, Egea, 2013, p.10. 6 Hakan Keskin, “The exigence of the common logistics policy for European community and the deconstruction of the common transportation policy”, in African Journal of business management”, vol. 6 (43), p. 10699. 4 Un Paese che offre un telaio di servizi logistici adeguati dal punto di vista competitivo consente alle industrie di poter attingere a vantaggi comparati che determinano un valore aggiunto competitivo. Al contrario, un costo logistico più elevato rispetto ai concorrenti, ed una qualità inferiore dei servizi erogati, “costringe” le aziende o ad assumere decisioni di offshoring7, o a pagare un extracosto di inefficienza logistica. Insomma: “la qualità della logistica può influenzare le decisioni di localizzazione delle imprese, da quali fornitori comperare, ed in quali mercati dei consumatori entrare; per tale ragione, rendere efficienti i sistemi logistici è una determinante critica della connettività di un Paese al mondo e per questa ragione è uno strumento importante delle politiche di sviluppo”8. In Italia si è determinato, nel corso degli ultimi decenni, un processo di autoreferenzialità del settore del trasporto e della logistica, non comprendendo le ricadute possibili derivanti da una maggiore efficienza di questi servizi in termini di competitività per l’intero sistema economico. Il dibattito che si è svolto sul rapporto tra trasporti e sistema economico ha riguardato prevalentemente, se non esclusivamente, gli investimenti infrastrutturali, intesi da un lato come leva per rilanciare la crescita economica e dall’altro come necessità per superare un deficit di capacità nelle nostre reti. E’ stato un grave errore non porre invece al centro della discussione pubblica e delle decisioni la modernizzazione dei servizi, sia per le attività di vezione pura sia per le componenti a maggior valore aggiunto determinabili attraverso operazioni logistiche moderne ed efficienti. In questo modo, si è determinato uno svantaggio competitivo sia sul versante dell’offerta sia su quello della domanda: sul versante dell’offerta, perché si sono rallentate operazioni di innovazione nella organizzazione dei fattori di produzione, sul versante della domanda, perché si è determinato una inefficienza che ha gravato sulla competitività delle produzioni manifatturiere nazionali. La mancanza di una visione sistemica delle politiche dei trasporti Non abbiamo compreso sino in fondo la profondità dei cambiamenti che si sono determinati anche nella struttura del trasporto, per effetto dei processi di globalizzazione delle produzioni e delle transazioni commerciali. Si è determinato un processo di “marittimizzazione” dell’economia: “il trasporto marittimo, così come si è evoluto nell’ultimo trentennio, è sempre più un anello della catena del trasporto globale che dipende non solo dall’efficienza della tratta navale, ma anche da quella dell’intero sistema di connessione tra terminali ed entroterra portuale”9. Se andiamo ad analizzare la qualità della connettività marittima dei principali Paesi europei nella evoluzione degli anni recenti, possiamo verificare che l’Italia si colloca in una posizione subalterna, sulla quale dovremmo riflettere, in quanto questo elemento condiziona poi la competitività dell’intero flusso di trasporti, anche nella interconnessione tra mare e terra. Possiamo fare questo raffronto utilizzando i dati del Liner Shipping Connectivity Index, elaborato dall’Unctad, per valutare l’accessibilità marittima di 162 Paesi, considerando il numero delle navi che scalano annualmente, la sommatoria delle capacità di ogni singola nave in TEU, la capacità 7 Il passaggio da modelli di organizzazione produttiva in outsourcing (decentramento esterno di funzioni produttive) a quelli in offshoring (delocalizzazione degli stabilimenti) è una delle caratteristiche dominanti della nuova età della globalizzazione. Le coordinate di questa trasformazione hanno modificato radicalmente il meccanismo strategico dell’economia italiana, basata su un radicamento forte sul territorio del sistema delle imprese. I nuovi reticoli hanno destrutturato uno dei pilastri del sistema manifatturiero nazionale, e le conseguenze di questo processo sono ancora tutte da comprendere. 8 Charles Kunaka, Monica Alina Mustra, Sebastian Saez, “Trade dimension of logistics services. A proposal for trade agreements”, The World Bank, gennaio 2013, p. 2. 9 Paolo Sellari, “Geopolitica dei trasporti”, Laterza, 2013, p. 3. 5 massima di queste navi in TEU, il numero di compagnie che offrono servizi container, il numero di servizi offerti per Stato, il costo complessivo della logistica, la dotazione infrastrutturale (cfr, il seguente Grafico 2). Risultiamo tra i cinque grandi Paesi europei il fanalino di coda in termini di accessibilità marittima, e siamo stati superati dalla Spagna, che precedevamo in questa classifica nei primi due anni della serie storica. Grafico 2 Indice di connettività marittima dei principali Paesi europei (massimo valore Cina = 100) Anni 2004 - 2012 100,0 90,0 80,0 70,0 60,0 50,0 40,0 2004 2005 France 2006 Germany 2007 2008 Italy 2009 Spain 2010 2011 United Kingdom 2012 Fonte: Elaborazioni su dati Unctad Nella pianificazione nazionale, siamo rimasti prigionieri ancora di schemi interpretativi propri della fase economica precedente, quando ancora la rivoluzione marittima non aveva dispiegato pienamente i suoi effetti, e quando non si erano ancora delineati i processi di riarticolazione dei flussi delle merci, che hanno spostato il proprio baricentro nei Paesi asiatici e nell’Est dell’Europa, rispetto ad una struttura dei flussi che privilegiava precedentemente l’asse centrale terrestre dell’Europa, entro quella spina dorsale che è stata definita “Blue Banana”10. Mentre i trasporti diventavano sempre più anello complesso di una catena logistica globale, noi abbiamo continuato ad affrontare le questioni connesse alla mobilità delle merci come la sommatoria scomposta di sotto-sistemi poco comunicanti. Una politica dei trasporti per segmenti, in assenza di una visione di sistema, ha indebolito la competitività delle catene logistiche che dovevano essere poste al servizio del nuovo concetto di trasporto che emergeva a seguito della globalizzazione. Anche le riforme monografiche che sono state faticosamente gestite negli ultimi decenni (la legge sugli interporti del 1990, la riforma portuale del 1994, la liberalizzazione ferroviarie del trasporto merci del 2007, le leggi pluridecennali sugli incentivi all’autotrasporto) sono state interpretate come 10 L’espressione nasce da uno studio condotto nel 1989 dall’Istituto “Reclus” di Montpellier, che evidenziò l’esistenza di un corridoio urbano coerente in forma ricurva, che si estende tra Londra e Milano, centro principale dello sviluppo spaziale europeo. Le regioni coinvolte erano il bacino londinese, l’asse del Reno e la parte occidentale della Pianura Padana. 6 singole issues prive di quella connessione sistemica che avrebbe dovuto essere alla base di una efficace politica nazionale dei trasporti. Emblematica è la vicenda dei sussidi all’autotrasporto: in dieci anni sono stati erogati oltre 5 miliardi di euro di incentivi pubblici a vario titolo, sostanzialmente per mantenere in stato stazionario un settore che vive una crisi strutturale di competitività: come se non bastasse, ci siamo da ultimo inventati l’idea, davvero balzana, delle tariffe minime per l’autotrasporto, con un contenzioso che va avanti ormai da tempo, e che sarà deciso infine dalla Corte di Giustizia della Unione Europea. Con esempio ciclistico tratto dalle gare di velocità su pista, potremmo dire che abbiamo deciso di bruciare tante energie per restare in stato di surplace, mentre gli altri corridori hanno lanciato ormai da tempo la volata e si preparano a doppiarci per l’ennesima volta, mentre noi restiamo impassibili a guardare il mondo che passa. Serve una stagione profonda di riforme, che stenta ancora a prendere corpo: “Modificare l’impianto normativo del settore è fondamentale per permettere il passaggio da politiche dei trasporti e della logistica di tipo reattivo di breve periodo ad iniziative di tipo proattivo di medio e lungo periodo”11. Anche le mosse condotte in questi decenni dall’Unione Europea sono state indirizzate più a sviluppare le connessioni terrestri della rete transeuropea, che non a delineare una politica comune e coordinata che rafforzasse la competitività dei sistemi portuali comunitari, che sono diventati la porta strategica determinante della battaglia competitiva che si è svolta nel riposizionamento delle industrie e delle merci. “L’approccio esclusivamente terrestre, che escludeva interventi nel settore marittimo, mostrava con chiarezza le linee geopolitiche dell’Unione: rafforzare il tessuto interno attraverso la realizzazione di anelli mancanti di interconnessione tra i Paesi membri e di direttrici ferroviarie veloci in grado di aumentare gli scambi di persone, lavoratori, merci, cultura”12. Il disegno europeo dei corridoi, di matrice essenzialmente terrestre, rischia oltretutto di creare una frattura tra flussi di traffico lungo gli assi principali, ed arretratezza delle reti regionali escluse da questo processo di miglioramento nella qualità degli asset infrastrutturali. Proprio per ovviare a questo rischio, la Commissione Europea ha lanciato l’idea di considerare, nell’approccio di politica comunitaria dei trasporti, non solo il “core network”, vale a dire la rete dei collegamenti principali, ma anche il “comprehensive network”, vale a dire quella rete complementare di afflusso e deflusso degli scambi che altrimenti rischia di diventare in prospettiva un collo di bottiglia delle inefficienza, con ricadute negative anche sulla rete principale. Nell’approccio europeo, le scelte sul “comprehensive network” sono lasciate agli Stati nazionali, mentre sul “core network” si concentra l’azione comunitaria per potenziare la rete delle connessioni in una logica transnazionale. Dunque, il pallino, per garantire che i territori restino agganciati alla componente più solida delle infrastrutture, resta ai Governi nazionali, e torna ancora una volta centrale la necessità di cambiare passo, introducendo quell’approccio integrato al sistema dei trasporti che sinora non è emerso nel nostro Paese, sempre slabbrato tra localismi, che chiedono investimenti a pioggia, ed interessi settoriali dei diversi comparti, che reclamano attenzione prioritaria rispetto alle altre modalità. Il quadro che ne emerge è sconfortante. 11 Oliviero Baccelli, Francesco Barontini, “L’Italia in Europa. Le politiche dei trasporti per rimanere in rete”, Egea, 2013, p.XXVIII 12 Paolo Sellari, “Geopolitica dei trasporti”, Laterza, 2013, p.99. 7 La coperta è corta, sempre più corta, dal punto di vista finanziario, mentre l’approccio di intervento resta focalizzato ancora sulle opere infrastrutturali, più che sulla efficienza dei servizi che devono correre sulle reti. Per inseguire la logica del consenso, non si fanno scelte, e di distribuisce quei finanziamenti sempre minori con la costante logica della distribuzione a pioggia. Non si effettuano quindi scelte per gerarchizzare le reti, e per renderle maggiormente attrattive e competitive. Continuano a proliferare Autorità Portuali, nuovi interporti che bussano alla porta dei finanziamenti, mentre restano al palo le leggi nazionali di riforma di porti ed interporti. E intanto, l’Unione Europea presenta una proposta di regolamento sui servizi portuali, della quale non di discute nemmeno nel nostro Paese. Insomma, rischiamo ancora una volta di segnare il passo, marcando ulteriore ritardi in scelte che già colpevolmente non abbiamo effettuato nei passati decenni. E’ proprio da questo punto di vista che la produttività totale dei fattori nel nostro Paese continua a perdere terreno e ad arretrare. La competitività, nell’economia della conoscenza e della globalizzazione, è data dalla intelligenza e dalla efficienza della rete delle connessioni logistiche. Come aveva già nel 2002 opportunamente evidenziato Brian Slack, “l’essere punti intermedi del ciclo dei trasporti, fungere da anello di congiunzione tra modalità diverse, rende i porti estremamente vulnerabili rispetto alle strategie di riorganizzazione dei traffico continentali e marittimi, rispetto alle quali sempre più debole è la loro capacità di intervento”13. Quello che Slack dice sui porti, vale anche per gli interporti e per le piattaforme logistiche. Le cerniere funzionano se il vestito logistico nel suo insieme è progettato in modo coerente ed armonico. Ha ragione Paolo Costa quando scrive che “il contributo infrastrutturale alla competitività italiana si gioca tutto sulle “porte” dell’Italia sul mondo: per le merci, sui porti internazionali e, per i passeggeri, sugli aeroporti internazionali … Urgenti e cruciali collegamenti efficienti da “ultimo miglio” di porti ed aeroporti con la “rete essenziale” europea”14. Evidentemente, invece di costruire le porte sul mondo, preferiamo gestire sgabuzzini di periferia. Se non comprendiamo per tempo che è necessario gerarchizzare le funzioni e puntare sugli snodi primari delle reti, resteremo sempre alla finestra a guardare il mondo attorno a noi cambiare, sempre più lontani, sempre meno connessi. Recuperare il tempo perduto non sarà operazione semplice. Per farlo, si dovrebbero mettere al centro della discussione almeno quattro questioni, che sono nel cuore invece della discussione e delle riforme europee: 1. 2. 3. 4. le politiche e le scelte di liberalizzazione, in particolare nel settore del trasporto ferroviario; le politiche fiscali del trasporto merci stradale; il ruolo delle piattaforme logistiche per lo scambio modale; le scelte per la intermodalità. Sono questi i temi che affronteremo nei paragrafi seguenti. 13 Brian Slack, “Globalizzazione e trasporto marittimo: competizione, incertezza, e implicazioni per le strategie di sviluppo portuale”, in S. Soriani (a cura di), “Porti, città e territorio costiero”, Il Mulino, 2002, p. 67. 14 Paolo Costa, “Prefazione”, in Oliviero Baccelli, Francesco Barontini, “L’Italia in Europa. Le politiche dei trasporti per rimanere in rete”, Egea, 2013, p. XIV. 8 1. Verso il completamento dello spazio ferroviario europeo unico 1.1 Le proposte del quarto pacchetto ferroviario Il 30 gennaio scorso, a poco più di due mesi di distanza dalla approvazione della Direttiva n. 34/2012 sulla costituzione dello spazio ferroviario unico, la Commissione Europea ha presentato al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Europeo Economico e Sociale ed al Comitato delle Regioni il quarto pacchetto ferroviario15. Il settore ferroviario costituisce un ambito economico rilevante per la struttura produttiva dell’Unione. L'industria ferroviaria europea genera un fatturato annuo di oltre 73 miliardi di euro ed occupa oltre 800.000 addetti. Le istituzioni pubbliche nazionali e territoriali investono risorse ingenti della fiscalità nel settore. Nel 2009, ultimo anno per il quale è possibile disporre di valori economici certificati per tutti i Paesi della Unione Europea, i corrispettivi dei governi europei per gli obblighi di servizio pubblico sono stati pari a 20 miliardi di euro, e 26 miliardi sono stati investiti dalle autorità pubbliche per il mantenimento e lo sviluppo della rete. Secondo le analisi della Commissione, "in molti Stati membri gli esborsi di denaro pubblico sono aumentati in modo consistente, mentre la crescita dei passeggeri/km è stata moderata". Questo andamento viene messo in relazione con la mancanza di appropriati incentivi concorrenziali. I risultati della prima fase della liberalizzazione ferroviaria comunitaria, avviata sin dal 1991 con la direttiva 440, non sono però certamente esaltanti: la quota modale del trasporto ferroviario merci è diminuita dall'11,5% del 2000 all'attuale 10,2%. Nello stesso periodo la quota del trasporto ferroviario passeggeri intra-europeo è rimasta costante attorno al 6%, con situazioni estremamente differenziate (dalla riduzione del 10% dei volumi in Ungheria all'incremento del 20% del traffico in Svezia). Scarso successo nella inversione della marginalizzazione del trasporto ferroviario nel mercato della mobilità ed inadeguata qualità dei servizi erogati costituiscono punti strutturali di debolezza che non sono stati superati dal processo europeo di liberalizzazione. Non è questione che riguarda solo i Paesi della Unione Europea. Nel recente rapporto della Banca Mondiale sulla qualità internazionale dei servizi logistici, si sottolinea che “l’infrastruttura ferroviaria ispira generale insoddisfazione: il numero degli operatori che giudicano alta o molto alta la qualità dei servizi erogati è pari alla metà rispetto alle altre tipologie di infrastruttura”16. Anche per i servizi ferroviari la situazione è analoga, in tutti i Paesi del mondo. In Europa, l'ultimo survey dell'Eurobarometro evidenzia che solo il 6% degli Europei usano il treno almeno una volta alla settimana. Tra i consumatori comunitari, i servizi ferroviari sono posizionati al ventisettesimo posto nella graduatoria tra i trenta servizi di mercato, con valutazioni particolarmente inadeguate sul livello di soddisfazione per la qualità del servizio erogato. La storia della regolazione comunitaria in materia ferroviaria è ormai iniziata più di venti anni fa, ed è stata caratterizzata, negli anni recenti, dalla approvazione di tre pacchetti ferroviari e dalle recente direttiva 34 del 21 novembre 2012, con la quale è stato istituito lo spazio ferroviario europeo 15 Per una sintetica rassegna sui contenuti delle recenti proposte dalla Commissione Europea per il completamento dello spazio ferroviario unico, cfr. Pietro Spirito, “Il quarto pacchetto ferroviario europeo: gli snodi di una liberalizzazione incompiuta”, in www.huffingtonpost.it, 5 febbraio 2013. 16 Banca Mondiale, “Connecting to compete. Trade logistics in the global economy. The logistics performance index and its indicators”, 2012, p. 15. 9 unico17. Il principio fondamentale che ha guidato la legislazione europea dei decenni recenti è stato il tentativo di determinare l’inversione del processo di marginalizzazione dell’industria ferroviaria europea mediante un miglioramento dell'efficienza, realizzato attraverso una progressiva apertura del mercato, la costituzione di imprese ferroviarie e gestori della infrastruttura, e la separazione almeno contabile tra loro. Il quarto pacchetto ferroviario, che ora inizia il suo iter istituzionale per la approvazione, è stato predisposto dalla Commissione Europea per contrastare e rimuovere le barriere residue verso la creazione di uno spazio ferroviario europeo unico. Si tratta di un insieme complesso di misure, composto da tre proposte di modifiche di direttive e tre proposte di modifiche di regolamenti comunitari. Secondo la Commissione, le asimmetrie informative, che derivano dal mantenimento di una struttura integrata tra impresa ferroviaria e gestore della rete, conducono a vantaggi competitivi per l'incumbent e ad un persistente rischio di sussidio incrociato dovuto alla mancanza di completa trasparenza finanziaria. I requisiti attuali sulla separazione contabile non prevengono, nelle valutazioni della Commissione, i conflitti di interesse. Più della metà dei 25 Stati membri con un sistema ferroviario di trasporto sono peraltro già andati oltre quanto disposto dalle attuali leggi europee, ed hanno adottato una separazione istituzionale. Per queste ragioni la Commissione propone di procedere lungo il sentiero progressivo di una separazione istituzionale tra il gestore della rete e le imprese di trasporto, introducendo meccanismi di terzietà verso le imprese di trasporto, almeno per le funzioni maggiormente sensibili in termini concorrenziali. Le imprese ferroviarie indipendenti rispetto ai gestori della rete avranno immediato accesso al mercato interno dei passeggeri ferroviari entro il 2019. Comunque, nel caso in cui gli Stati membri vogliano mantenere le strutture di holding attualmente esistenti, viene introdotta una stretta salvaguardia per proteggere l'indipendenza del gestore della rete, mediante un processo di verifica da parte della Commissione per assicurare una effettiva neutralità rispetto a tutte le imprese ferroviarie. Dovranno quindi, nel caso di mantenimento delle strutture di holding, essere definite "barriere cinesi" per assicurare la separazione legale finanziaria ed operativa della rete dai servizi. Le imprese di trasporto che faranno parte di struttura di holding integrate potranno non essere ammesse al mercato europeo passeggeri dei servizi ferroviari, se prima non avranno adempiuto alle misure di salvaguardia che la Commissione Europea richiederà per assicurare condizioni di equa concorrenza sul loro mercato interno. La soluzione di compromesso adottata nella redazione del quarto pacchetto ferroviario testimonia le resistenze che ancora sussistono alla applicazione rigorosa del modello di separazione verticale tra gestore della infrastruttura ed imprese di trasporto ferroviario. Sul tema del modello strategico di organizzazione del sistema ferroviario europeo, a novembre del 2012, proprio nella fase in cui la Commissione Europea stava elaborando lo schema di quarto pacchetto ferroviario, è stato presentato uno studio promosso dalla CER, l’organizzazione che rappresenta gli interessi delle aziende ferroviarie eredi del monopolio. In questa analisi si sostiene la tesi che non è verificata una evidenza statistica significativa che la concorrenza riduca i costi totali di produzione, generando per questa via un recupero di efficienza e di competitività: “L’argomento generale a favore della integrazione verticale si riferisce alla complessità tecnica del settore ferroviario ed alla necessità di uno stretto coordinamento tra binari e treni”18. Secondo gli autori di questo studio, l’imposizione di un modello di separazione verticale tra 17 Va sottolineato che, accanto al processo di liberalizzazione, l’Unione Europea ha promosso una stagione di attenzione prioritaria all’ammodernamento della rete transeuropea, a partire dal Piano Delors, testimoniata dalle ingenti risorse stanziate per lo sviluppo delle reti ferroviarie dal bilancio comunitario, che ammontano sinora a 50 miliardi di euro. 18 Inno-V, “Economic effects of vertical separation in the railway sector. Summary report”, 2012, p. 8 10 rete e servizi ferroviari determinerebbe, agli attuali tassi di traffico, un costo emergente pari a 5,8 miliardi di euro su base annua. Gli argomenti svolti nello studio promosso dalla CER non tengono in conto diversi elementi che andrebbero considerati: il mantenimento di aziende integrate in uno scenario di mercato liberalizzato determinerebbe innanzitutto una asimmetria nel mercato rispetto a competitori che gestiscono solo la leva del servizio erogato, dovendo rivolgersi ad un fornitore di tracce orarie posto inevitabilmente in una condizione di conflitto di interessi. Inoltre, lo stimolo derivante dalla competizione tra diversi vettori ferroviari costituisce un fattore che può indurre certamente mutamenti nei comportamenti della domanda, attualmente poco attratta dai servizi ferroviari per la scarsa qualità delle prestazioni erogate. Infine, molto dipende anche dalle politiche pubbliche nel settore della mobilità, che possono orientare, con decisioni, incentivi, fiscalità le scelte modali dei cittadini e delle merci, determinando un allargamento potenziale della domanda di servizi ferroviari che indurrebbe certamente un miglior sfruttamento delle reti esistenti, maggiori pedaggi per i gestori, possibilità di finanziare per questa via anche programmi di miglioramento della qualità infrastrutturale, innescando il circolo virtuoso che sinora non è ancora stato attivato. Con la proposta del quarto pacchetto ferroviario, la Commissione Europea ha deciso di procedere lungo il sentiero della riforma, allargando anche l’area dei servizi che saranno liberalizzati nell’arco dei prossimi anni. Mentre il trasporto ferroviario delle merci è stato pienamente aperto alla competizione europea dall'inizio del 2007, ed il trasporto internazionale di passeggeri dal primo gennaio 2010, i mercati nazionali per i servizi passeggeri restano largamente chiusi e sono, nella espressione della Commissione, "i bastioni dei monopoli nazionali". Una larga proporzione dei servizi ferroviari europei (il 66% dei passeggeri/km) sono operati in regime di contratto di servizio pubblico, e gli affidamenti diretti di tali contratti agli incumbent rappresentano a loro volta il 42% del totale dei passeggeri/km prodotti. In 16 dei 25 Stati membri dotati di un sistema ferroviario, l'incumbent possiede una quota di mercato superiore al 90%. La Commissione propone l'apertura del mercato dei servizi nazionali passeggeri ferroviari entro il 2019, con la sola possibilità di limitare l'accesso quando l'equilibrio economico di un contratto di servizio pubblico possa essere compromesso. D'altra parte, la Commissione mira ad introdurre l'obbligatorietà di assegnare i contratti di servizio pubblico mediante gara per il mercato entro dicembre del 2019. Si prevede anche l'obbligo per le autorità competenti di definire piani di trasporto pubblico con indicatori di performance, integrandoli con i piani di azione per la mobilità urbana. Con il quarto pacchetto ferroviario, la Commissione intende intervenire sui costi di regolamentazione e sulle vischiosità che si sono determinate nei processi di autorizzazione verso gli operatori del settore. Non si tratta ovviamente di mettere in discussione gli indici positivi che le ferrovie europee registrano in materia di sicurezza. Il trasporto ferroviario presenta in Europa indici di sicurezza per passeggero/km decisamente più rassicuranti rispetto al trasporto stradale (62 incidenti per passeggero, rispetto ai 31.000 della strada) e la performance delle ferrovie europee da questo punto di vista ha continuato a migliorare nell'ultimo decennio. Mentre però gli standard tecnici ed il sistemi di approvazione hanno creato un sistema sicuro, le competenze si sono frammentate tra l'Agenzia Ferroviaria Europea (ERA, European Railway Agency) e le autorità nazionali, creando costi eccessivi amministrativi e barriere di accesso al mercato. Le procedure per autorizzare all'immissione in esercizio di un nuovo veicolo ferroviario possono durare sino a due anni, e costare sino a 6 milioni di euro, rispetto ad un periodo più breve e con costi meno elevati per l'industria del trasporto aereo. Le procedure di autorizzazione alla circolazione per ciascun Paese costano attorno al 10% del costo di una locomotiva, e quindi, per poter ottenere la circolabilità in 3 Paesi europei, i soli costi di autorizzazione aumentano il costo di acquisto per un 30%. 11 Per queste ragioni, la Commissione propone di rivisitare la regolamentazione dell'Agenzia Ferroviaria Europea, trasferendo alla stessa Agenzia le competenze per le autorizzazioni dei veicoli ferroviari e la certificazione di sicurezza per le imprese ferroviarie. La responsabilità legali di questi processi sarà in capo all'ERA, che lavorerà in stretta cooperazione con gli organismi nazionali di sicurezza ferroviaria. Lo scopo di queste proposte è di raggiungere una riduzione del 20% del tempo di attraversamento delle decisioni amministrative per le imprese ferroviarie e di ridurre del 20% il costo di autorizzazione all'immissione all'esercizio di un nuovo materiale rotabile, con un effetto cumulato di risparmio stimabile in 500 milioni di euro in cinque anni. La Commissione Europea sottolinea, all’interno dell’articolato quarto pacchetto ferroviario, anche la dimensione sociale del processo di liberalizzazione, ed i mutamenti che si stanno determinando nella struttura della composizione demografica. Nel prossimo decennio il settore ferroviario dovrà affrontare simultaneamente la sfida di una popolazione lavorativa in età avanzata e gli effetti di efficienza derivanti dalla apertura del mercato. Circa il 30% di tutti i lavoratori oggi occupati nelle ferrovie andrà in pensione nei prossimi dieci anni, mentre nello stesso tempo molte aziende ferroviarie dovranno operare piani di ristrutturazione per affrontare la sfida della produttività e della efficienza. Nelle misure definite dalla Commissione Europea all'interno del quarto pacchetto ferroviario, gli Stati membri avranno la possibilità di proteggere i lavoratori richiedendo ai soggetti aggiudicatari delle gare per i contratti di servizio pubblico di assorbire i lavoratori precedentemente impiegati, applicando quindi la clausola sociale per evitare che la concorrenza tra le imprese di traduca in una competizione al ribasso su diritti dei lavoratori. 1.2 Gli anelli mancanti per la formazione di uno spazio ferroviario europeo unico Insomma, come ha affermato il Vice-Presidente della Commissione Europea, e Commissario ai Trasporti, Siim Kallas, "le ferrovie europee si stanno avvicinando ad uno snodo molto importante. Rispetto alla stagnazione o al declino delle ferrovie in molti mercati europei, abbiamo una sola semplice scelta. Possiamo prendere decisioni difficili ora per ristrutturare il mercato ferroviario europeo incoraggiando l'innovazione e l'offerta di migliori servizi. Le ferrovie saranno in grado di crescere nuovamente con beneficio per i cittadini, i sistemi economici, l'ambiente. Oppure possiamo scegliere un'altra strada. Possiamo accettare un irreversibile destino in base al quale le ferrovie sono in Europa un giocattolo lussuoso per pochi Paesi ricchi e sono un lusso non sostenibile per la gran parte degli altri che hanno scarsità di risorse pubbliche". Sarà una discussione da seguire con attenzione, quella che impegnerà il Consiglio ed il Parlamento Europeo sul quarto pacchetto ferroviario. Sarebbe bene discutere approfonditamente di questi temi anche nel nostro Paese, non relegando la questione ad un dialogo tra gli stakeholders ed i tecnici, con un frettoloso recepimento nell'ordinamento nazionale quando proprio non se ne potrà fare a meno, a valle delle decisioni da parte degli organismi comunitari sui testi definiti del quarto pacchetto ferroviario. Certo, l'Europa ha scelto sinora un approccio tortuoso, mediante la proliferazione di molti atti normativi spesso troppo articolati, di difficile lettura, di continua mediazione tra la volontà di cambiamento e la resistenza degli Stati nazionali. Però, la questione ferroviaria è davvero uno snodo, non solo per il sistema europeo di mobilità, ma anche per il rilancio della competitività e della crescita nel contesto comunitario. Molto però resta ancora da fare per realizzare effettivamente uno spazio ferroviario europeo unico, anche a valle di quello che sarà stabilito dal quarto pacchetto ferroviario. Le politiche dei pedaggi di 12 accesso alle reti nazionali restano di competenza degli Stati, ed in questi decenni si sono radicate scelte fortemente divergenti: in alcuni casi l’algoritmo che determina il montante dei pedaggi paga i soli costi di circolazione, in altri i costi totali di produzione (compresa la manutenzione), in altri ancora viene remunerato anche il costo del capitale. Inoltre, alcuni Stati europei utilizzano la leva del pedaggio per mettere in campo politiche attive di promozione del trasporto ferroviario, in particolare per promuovere lo sviluppo del traffico merci. Nei suoi documenti, la Commissione Europea ha proposto, a tale riguardo, di prendere in considerazione la tariffazione d’uso delle infrastrutture secondo il principio del costo sociale marginale, che incorpora nel segnale del prezzo anche le esternalità determinate dalle diverse modalità di trasporto. Su questo fronte, nulla di sostanziale si è mosso, pur se è estesa la consapevolezza sulla rilevanza delle scelte modali, nel trasporto dei passeggeri e delle merci, sulla qualità ambientale, con particolare riferimento al necessario controllo delle emissioni nocive determinate dalle scelte di mobilità. Nella prospettiva di uno Stato Federale europeo, che purtroppo non è nella agenda di questa fase, andrebbe avviato un ragionamento sulla possibilità di costituire un gestore unico della rete ferroviaria europea, accelerando per questa via da un lato l’armonizzazione tecnica ed operativa dei modelli di circolazione e della soluzioni tecnologiche per l’esercizio, e favorendo dall’altro l’attenzione sugli itinerari principali transeuropei, sia per il trasporto passeggeri di lunga distanza sia per il trasporto delle merci. 13 2. Le politiche fiscali per il trasporto merci stradale in Europa 2.1 I livelli di tassazione dell’autotrasporto in Europa L'OCSE ha recentemente aggiornato l'analisi comparativa a livello quantitativo in 29 Paesi europei sulle forme e sui livelli di pressione fiscale nel trasporto merci stradale19. Ne viene fuori, come vedremo dalla analisi dei dati, che l'Italia, a differenza di quanto accade in altri settori della vita economica, non si colloca ai massimi livelli quanto ad imposizione fiscale. In un Paese come il nostro, che ha certamente effettuato negli anni recenti un incremento robusto della pressione fiscale, per fare fronte alla crisi della finanza pubblica, l'autotrasporto italiano si colloca in una fascia di peso fiscale medio basso rispetto a quanto accade negli altri Paesi europei. Questo assetto delle politiche fiscali per il trasporto delle merci è figlio di un indirizzo politico che a parole intende promuovere il riequilibrio modale, ma dall’altro è ancora prigioniero, nei fatti e nelle decisioni, di schemi vecchi, ereditati da un modello di sviluppo storicamente datato e dalla incapacità, sinora dimostrata, di modificare l’assetto di mercato dell’industria dell’autotrasporto. Nello studio dell'OCSE sono valutate le seguenti variabili fiscali: tasse sul possesso dei veicoli, accise sui carburanti e tasse sull'esercizio e sui pedaggi, tenendo conto anche delle misure di rimborsi, sconti ed esenzioni. Nella valutazione del carico fiscale, conta evidentemente non il valore facciale nominale, ma l’effetto netto che si determina, a valle delle tante forme, spesso opache, di sostegno e di incentivo al settore, che sono particolarmente rilevante in Italia. Per armonizzare la misurazione degli impatti economici, nello studio OCSE viene considerato un veicolo standard: un semitrailer a 3+2 assi dal peso di 40 tonnellate, con standard di emissione Euro 4. Vedremo successivamente, nel corso della nostra analisi, che la struttura del parco circolante per il trasporto merci in Italia è ancora purtroppo sbilanciata verso veicoli a maggiori emissioni: i riferimenti quantitativo dello studio andrebbero quindi ponderati con la struttura di anzianità delle flotte tra i diversi Paesi. Le tre categorie di tassazione considerate sono classificate nello studio secondo i criteri economici e territoriali che le caratterizzano. La tassazione sul possesso dei veicoli viene imposta sulla base della proprietà nel Paese in cui si effettua la registrazione, ed è di conseguenza una forma di imposizione basata su un criterio territoriale. Le accise sui carburanti posseggono invece un legame più debole con il territorio, in quanto è possibile effettuare carburante in un luogo geografico differente rispetto all'uso del veicolo. Le forme di tassazione sull'esercizio si suddividono in due categorie: i bolli ("vignette"), che seguono un criterio economico di prezzo fisso, legato moderatamente al territorio, ed i pedaggi, che sono prezzi d'uso delle infrastrutture, fortemente connessi al territorio in cui vengono emessi. Il livello di armonizzazione fiscale tra i Paesi comunitari sinora non è giunto ad un grado particolarmente efficace. Da diversi anni l'Unione Europea ha avviato un percorso che condurrà, nel prossimo futuro, ad un percorso di convergenza, sul cui sfondo resta ancora il nodo irrisolto, vale a dire l'applicabilità, o meno, di principi di internalizzazione dei costi esterni, per utilizzare le politiche fiscali come meccanismo per riequilibrio competitivo tra diversi sistemi di trasporto, per favorire lo sviluppo delle modalità a minore impatto ambientale negativo20. 19 I risultati di questo studio sono presentati nel documento di Bertil Hylén , Jari Kauppila, e Edouard Chong, "Road haulage charges and taxes", International Transport Forum, discussion paper 2013, n. 8. 20 Per una analisi sull’accidentato e contraddittorio percorso di armonizzazione fiscale nell’Unione Europea, cfr. tra gli altri, Eduardo Cuenca Garcia, Margarita Navarro Pabsdorf, Antonio Mihi-Ramirez, “Fiscal harmonisation and economic integration in the European Union”, Engineering Economics, 2013, 24, pp. 44-51. I vantaggi di una armonizzazione fiscale in uno spazio economico cooperativo, come quello della Unione Europea, sono illustrati da 14 Per la tassa di possesso sui veicoli non esiste alcuna forma di indirizzo comunitario. Per quanto riguarda rda le accise sui carburanti ricordiamo che la normativa europea (Direttiva 2003/96/EC) stabilisce un livello minimo, fissato nella misura di 0,33 euro/litro per il diesel, ma non è stato fissato un livello massimo. Minore è stata l'efficacia dei processi di armonizzazione per quanto riguarda le Eurovignette, che restano in vigore solo in 5 Paesi europei. Vedremo successivamente, che la direttiva 2011/76/UE avvia una possibilità di internalizzazione dei costi esterni, i cui esiti potremo misurare nei prossimi mi anni, dal momento che l’entrata in vigore di questo provvedimento è fissata a partire dal prossimo mese di ottobre del 2013. Per consentire la comparazione tra i diversi Paesi considerati nello studio OCSE, è stata considerata la tassazione netta, tenendo do conto quindi di tutti i rimborsi, gli sconti e le esenzioni. La tassa media di possesso per un veicolo adibito a trasporto merci è pari nei Paesi europei considerati dallo studio a 1.417 euro all'anno. Esiste però un elevato livello di variabilità molt molto elevato tra le Nazioni considerate: dai 4.833 euro dell'Irlanda a zero in Slovenia, Paese nel quale non esiste alcuna tassa di questo genere. In Svizzera, Spagna ed Italia la tassa di possesso è fissata su base regionale. In Germania è previsto uno sconto sconto per i possessori di veicoli Euro 5, per favorire il rinnovo del parco verso caratteristiche maggiormente eco-compatibili. eco Il costo della tassa di possesso in Italia si colloca nella fascia bassa rispetto agli altri Paesi, con un valore di 825 euro all'anno. nno. Nel seguente gra grafico 3 si mette a confronto il livello di imposizione in alcuni Paesi considerati nello studio, evidenziando anche la dinamica che si è determinata nel corso degli anni, dal 2000 ad oggi. Grafico 3 Tassa di possesso nell'autotrasporto (valori in euro) 4833 5000 4500 3800 4000 3500 3000 2283 2500 2000 1500 1000 2020 2000 1752 2005 1320 1233 926 932 929 825 2012 500 0 Per quanto riguarda le accise sui carburanti, carburanti, considerato il livello minimo precedentemente richiamato in base alla direttiva comunitaria vigente, la forchetta che emerge tra i Paesi considerati nello studio si colloca tra 0,40 e 0,50 euro per litro. I Paesi con maggior livello di tassazion tassazione sul carburante per il trasporto merci sono il Regno Unito e la Svizzera, con 0,72 e 0,63 euro per litro rispettivamente. Il carico delle accise per l'autotrasporto in Italia è pari a 0,44 euro al litro, un valore Yutao Han, Patrice Pieretti, Bentezeng Zou, “On “On the desiderability of tax coordination when countries compete in tax t and infrastructure”, ”, Center of Mathematical Economics, working paper, n. 476, marzo 2013. 15 in linea con la media dei Paesi europei. Anche in questo sto caso, nel seguente Grafico 4, 4 riportiamo, per gli stessi Paesi precedentemente considerati, il livello delle accise nel corso del periodo tra il 2000 ed il 2012. Grafico 4 Accisa sui carburanti per l'autotrasporto (euro per litro) 0,8 0,72 0,63 0,7 0,6 0,5 0,4 0,44 0,44 0,47 0,43 0,5 0,47 0,41 0,44 0,4 2000 0,3 2005 0,2 2012 0,1 0 Forme di tassazione del tipo Eurovignette esistono per ora solo in 5 Paesi europei (Svezia, Danimarca, Olanda, Belgio e Lussemburgo). Un bollo pagato in uno di questi cinque Paesi consente l'accesso anche negli altri (ad eccezione di forme di pedaggio specifiche per qualche ponte. L'Italia è tra i Paesi che ha deciso di non introdurre forme di tassazione del tipo Eurovignette. Pedaggi di accesso alle infrastrutture sono forme di tassazione originariamente introdotte in Francia, Spagna ed Italia, che poi hanno trovato un allargamento progressivo, e crescente in altri Paes Paesi europei, al punto che oggi si stima che il mercato dei pedaggi di accesso alle reti per il trasporto stradale valga oggi in Europa oltre 10 miliardi di euro all'anno21. In media, sulla base dei risultati dello studio condotto dall'OCSE, si stima che una ccompagnia di autotrasporto paghi 84 euro per trasporto nel Paese di registrazione. I più bassi livelli di imposizione si registrano nei Paesi dell'Est europeo (Romania, Lettonia e Lituania,), con un carico per viaggio pari a 44 euro, meno della metà della media. I Paesi che invece registrano un maggior carico fiscale per l'autotrasporto sono Gran Bretagna, Repubblica Ceca, Germania, Austria e Svizzera, con un valore per carico superiore ai 100 euro. Queste differenze di carico fiscale tra i diversi Paesi eu europei ropei in tema di autotrasporto delle merci determina anche effetti rilevanti sulla scelta delle rotte del trasporto, ad esempio nel traffico transalpino, dove sono significativi i differenziali di carico fiscale in base ai diversi instradamenti che vengono scelti. Se analizziamo la ripartizione dei carichi fiscali per l'autotrasporto tra le diverse fonti, la tassa di possesso incide in modo minoritario, ad eccezione dell'Irlanda, dove comunque pesa per il 18% sul totale degli introiti per la finanza pubblica. E' dalle dalle accise sui carburanti che proviene per quasi tutti i Paesi la maggior parte delle entrate fiscali dal settore dell'autotrasporto. 21 Una stima di questo mercato è contenuta nello studio RWW-EREV, RWW “Road pricing in Europe”, ”, second version, aprile 2012 16 Negli anni recenti, la tendenza degli Stati che hanno introdotto cambiamenti nella impostazione delle politiche fiscali dell trasporto si orienta verso un peso crescente, e sempre più rilevante, dei pedaggi e dei bolli. In Svizzera, in particolare, queste fonti di finanziamento pesano ormai per l'80% sul totale del carico fiscale di settore, mentre in Germania ed Austria si è ormai attorno alla metà del valore complessivo. L'ammontare netto dei pedaggi pagati per veicolo chilometro vale mediamente per i Paesi considerati 0,20 euro per veicolo chilometro, con variazioni relativamente modeste tra la gran parte dei Paesi. Il caricoo di gran lunga più rilevante riguarda la Svizzera, dove i pedaggi di accesso valgono 0,61 euro al chilometro, mentre il valore più basso di registra in Lussemburgo, Lettonia, Lituania e Romania (0,11 euro al chilometro). L'Italia si colloca sulla fascia bassa, con un costo medio di pedaggio pari a 0,13 euro al chilometro. In termini di costo per tonnellata km, l'ammontare netto pagato per pedaggi e diritti fissi è pari a 0,005 euro a tonnellata/km. Anche in questo caso, per consentire una lettura della di dinamica nel tempo dei pedaggi di accesso alle infrastrutture per l’autotrasporto, si mettono mettono a confronto nel Grafico 5 alcuni casi di Paesi, sempre nel periodo tra il 2000 ed il 2012. Grafico 5 Pedaggi netti per l'autotrasporto (valore in euro/km) 0,35 0,35 0,3 0,26 0,25 0,22 0,2 0,18 0,2 2000 0,17 2005 0,13 0,15 2012 0,1 0,05 0 Austria Repubblica Ceca Francia Germania Italia Spagna Slovenia 2.2 Le prossime mosse degli Stati europei a valle della entrata in vigore della Direttiva 2011/76/UE Siamo alla vigilia, come ricordavamo in precedenza, della scadenza fissata dalla Direttiva 2011/76/EU sulla tassazione degli autoveicoli pesanti adibiti al trasporto trasporto di merci su strada: entro il 16 ottobre 2013 gli Stati membri dovranno definire le regole di tariffazione d'uso delle infrastrutture, rispettando i principi generali definiti dalla direttiva stessa. Sarà possibile, ma non obbligatorio, introdurre principi rincipi di internalizzazione dei costi esterni, per tener conto dell'inquinamento, della congestione e del rumore, favorendo un approccio attento alla tutela della risorse naturali, del territorio e della salute dei cittadini. 17 Nelle premesse al testo dellaa Direttiva, si afferma con estrema chiarezza che “la promozione dei trasporti sostenibili è un elemento chiave della politica comune dei trasporti. A tal fine, è opportuno ridurre il contributo del settore dei trasporti ai cambiamenti climatici ed ai suoi impatti negativi”22. Sulla base di quanto stabilisce la Direttiva, viene lasciata agli “Stati membri la possibilità di decidere se e su quali strade imporre oneri che tengano conto dei costi esterni, in funzione delle caratteristiche locali e nazionali della della rete”, pur se resta sullo sfondo un obiettivo di armonizzazione: “Al fine di garantire che gli autotrasportatori europei ricevano segnali adeguati in materia di tariffazione, che li incentivino ad ottimizzare il loro comportamento, è opportuno compiere degli sforzi a medio termine per realizzare una convergenza dei metodi utilizzati dagli Stati membri per calcolare i costi esterni”. Nell’allegato al testo della Direttiva citata, sono stabiliti i principi per la determinazione dei costi esterni in tema dii inquinamento atmosferico ed acustico, individuando una forchetta di valori minimi e massimi di imposizione per centesimo a veicolo km, differenziata in funzione delle caratteristiche dei differenti veicoli dal punto di vista dell’impatto ambientale, ed iin funzione della tipologia delle strade. La consapevolezza sulla rilevanza economica dei costi esterni ambientali generati dalla organizzazione strutturale del trasporto stradale è ormai diffusa, e molti sono gli studi che ne hanno quantificato l’impatto. Si tratta di valori economici rilevanti, per tutti i principali Paesi comunitari, come si può verificare dal Grafico 6, 6 tratto da un recente studio dell’European European Environment Agency235 Grafico 6 Costi marginali di inquinamento in euro/tonn. per inquinante nel trasporto stradale (dati 2010) 80000 70860 62981 70000 61544 60000 48584 47489 50000 PM 2.5 40000 26994 Nox 25992 30000 18304 17343 20000 17907 12231 7996 10000 0 Svizzera Germania Spagna Francia Italia Regno Unito Tra i tanti temi di rilievo economico e politico di cui non si parla nel nostro Paese, distratto da una crisi istituzionale tanto grave quanto distante dalle questioni concrete, ovviamente di politica fiscale dei trasporti non si parla. Ce se ne comincerà ad occupare quando sarà troppo tardi, sempre fuori tempo massimo rispetto alle scadenza che sono fissate dalle regole comunitarie. 22 Direttiva 2011/76/UE del Parlamento Europeo Europeo e del Consiglio del 27 settembre 2011, che modifica la direttiva 1999/62/CE relative alla tassazione di autoveicoli pesanti adibiti al trasporto di merci su strada per l’uso di talune infrastrutture. 23 European Environment Agency, “Road Road user charges for heavy goods vehicles”, ”, Technical Report, n. 1, 2013. 18 2.3 I profili possibili di una politica fiscale del trasporto merci per modernizzare il settore Più in generale, a livello internazionale si discute sulla opportunità di riorientare i sistemi di tassazione per incentivare consumi più consapevoli ed orientare l’economia verso profili di sostenibilità, non solo per quanto riguarda i sistemi di trasporto ma per l’economia nel suo insieme; la sensibilità sociale verso profilo di sostenibilità sta crescendo, e di conseguenza i modelli di tassazione devono evolvere verso forme che siano coerenti con il sentire comune dei cittadini. Anche in termini di gettito conseguibile, si tratta di importi che possono consentire non solo un bilanciamento dei deficit pubblici, ma anche un riequilibrio rispetto ad una tassazione oggi eccessivo verso la produzione del reddito. Un recente studio della Brookings Institution, ha evidenziato che “la carbon tax può determinare un gettito significativo. Ad esempio, nel 2007 questo tipo di tassa ha generato un valore equivalente allo 0,3% del PNL in Finlandia ed in Danimarca, ed allo 0,8% in Svezia”24. Tassare i beni non meritevoli, in questo caso i soggetti che determinano inquinamento e costi esterni, genera incentivi coerenti con un migliore funzionamento del sistema economico e sociale: “A differenza di altre tasse, la carbon tax può migliorare l’efficiente allocazione delle risorse incorporando le esternalità nel prezzo di mercato”25. Da forme di tassazione ambientale che colpiscono i beni non meritevoli si può conseguire un “doppio dividendo”, sia in termini di introiti per le finanze pubbliche sia in termini di orientamento dei consumi verso comportamenti più sostenibili26. La tassazione del trasporto, riconvertendola verso il principio del “chi inquina paga”, è tema connesso non solo all’assetto competitivo tra le diverse modalità, per favorire lo sviluppo di quelle forme di mobilità maggiormente rispettose dell’ambiente e del territorio, ma anche al tema del finanziamento degli investimenti nelle reti e dei servizi di trasporto. Il Segretario Generale dell’International Transport Forum ha stimato che servono nel mondo, nel periodo tra il 2013 ed il 2030, 24 trilioni di dollari per il finanziamento degli investimenti nel settore delle infrastrutture e dei servizi di trasporto27. Una parte almeno di queste risorse, considerate lo stato precario delle finanze pubbliche, deve essere reperito secondo forme di tassazione che trasferiscano risorse da un consumo non sostenibile verso una riconversione modale. Nei Paesi industrializzati, in particolare, le analisi costi benefici disponibili testimoniano che strumenti per la gestione del traffico e della domanda presentano tassi di ritorno di gran lunga superiori rispetto alla realizzazione di nuove strade. Visione moderna degli investimenti e forme coerenti di tassazione costituiscono due facce della stessa medaglia per rinnovare in modo sostanziale l’approccio alle politiche per la mobilità nel ventunesimo secolo. Anche per questa ragione, politiche di internalizzazione dei costi esterni appaiono necessarie, ed anche ineludibili. L’esperienza più consolidata in questa direzione è stata maturata dalla Svizzera, che ha introdotto - dal 2001 - una forma stabile di tassazione del trasporto merci stradale, caratterizzata da un pedaggio fissato per centesimo di tonn*km, differenziato per tipologia di mezzo impiegato, con una tassazione minore per i veicoli a minore impatto ambientale. Gli introiti di questa tassa vanno per due terzi al Governo Federale, che li impiega per il finanziamento dei 24 William G. Gale, Samuel Brown, Fernando Saltiel, “Carbon taxes as part of the fiscal solution”, Brookings Institution, marzo 2013, p. 5. 25 William G. Gale, Samuel Brown, Fernando Saltiel, “Carbon taxes as part of the fiscal solution”, Brookings Institution, marzo 2013, p. 6. 26 L’espressione “doppio dividendo” riferita alla tassazione ambientale si trova in Ian Crawford, Stephen Smith, “Fiscal instrument for air pollution abatement in road transport”, Journal of transport economics and policy”, gennaio 1995. 27 Jose Viegas, “Innovating for growth through transport infrastructure”, marzo 2013. 19 progetti di investimento ferroviario nel potenziamento dei transiti alpini, e per un terzo ai Cantoni, che li utilizzano in linea di massima per investimenti e manutenzione stradale28. Tra le tante anomalie che presenta il settore dell’autotrasporto in Italia, si segnala anche una struttura fortemente invecchiata del parco veicolare circolante. Nel comparto dei veicoli industriali superiori a 3,5 tonnellate, l'86,6% della flotta circolante al 31.12.2011 era immatricolato nelle tipologie tra Euro 0 ed Euro 3, con una davvero pesante incidenza dei veicoli Euro 0 (il 43,02% del totale). L'anzianità media della flotta per il trasporto merci su strada, alla fine del 2011, era pari a 9 anni e 4 mesi per gli autocarri sino a 3,5 t., mentre per quelli superiori alle 3,5 t. risultava di 19 anni e 7 mesi. Il 73% degli autocarri superiori a 3,5 t. ed il 45% di quelli sino a 3,5 t. ha una età superiore ai 10 anni29. La stagnazione del mercato nazionale per i veicoli commerciali ed industriali del trasporto stradale determina inevitabilmente un peggioramento degli standard ambientali ed un invecchiamento costante delle flotte operative sul nostro territorio, con conseguenze inevitabili in termini di emissioni inquinanti, livello di sicurezza, aumento dei costi manutentivi per il parco circolante. Anche da questo punto di vista, una politica fiscale del trasporto potrebbe giocare un ruolo positivo, per incentivare percorsi di riconversione del parco verso veicoli più moderni, a minore impatto ambientale. Il miglioramento di efficienza energetica nell’esercizio del trasporto stradale delle merci costituisce certamente un indirizzo necessario ed opportuno per determinare effetti positivi in termini di compatibilità ecologica30. Questo obiettivo è conseguibile mediante un miglioramento nella qualità delle flotte in circolazione, ed anche mediante un più razionale uso delle risorse, minimizzando i percorsi a vuoto dei mezzi ed incentivando forme di cooperazione per il carico congiunto delle merci, opportuno in particolare nei percorsi urbani di ultimo miglio, laddove maggiori sono le esternalità negative. 28 Per una analisi anche critica sulla tassazione del trasporto stradale delle merci in Svizzera, cfr. Sandra Daguet, Bernard Dafflon, “The Swiss vehicle fee tenth anniversary: what do we really know ?”, 2011. 29 Per una analisi sul mercato del trasporto merci stradale in Italia, ed un approfondimento sulla struttura delle flotta in circolazione, cfr. Anfia, ACI, "Trasporto merci su strada. Analisi economico-statistica delle potenzialità e delle criticità di un settore strategico per lo sviluppo sostenibile", marzo 2013 30 Per una analisi su questi aspetti, cfr. Olivera M. Medar, Vladimir D. Papic, Aleksandar V. Manojlovic, Snezana M. Filipovic, “Assessing the impact of transport policy instruments on road haulage energy efficiency”, 2012. 20 3. Le piattaforme logistiche per la competitività del sistema logistico italiano 3.1 L’arretratezza logistica come fattore di perdita della competitività per l’economia italiana Ricordavamo all’inizio della nostra esposizione che l’economia italiana registra un pesante deficit di competitività logistica, sottolineato dal ventiquattresimo posto nella graduatoria internazionale curata dalla Banca Mondiale sulla qualità dei servizi logistici31, con un arretramento di due posti rispetto alla performance fatta registrare dal nostro Paese nella stessa classifica del 2007. Ai primi dieci posti della stessa classifica si collocano sei Paesi che aderiscono alla Unione Europea. Questo ritardo nella qualità logistica è certamente uno dei fattori che hanno determinato la perdita di produttività globale dei fattori, che ha caratterizzato l’economia italiana nel corso dei due ultimi decenni, anche perché intanto la logistica ha assunto un ruolo sempre più decisivo nella gerarchizzazione dei sistemi produttivi nello scenario della globalizzazione. Uno snodo fondamentale per aggredire l’arretratezza che si è determinata nel corso degli ultimi decenni nel funzionamento dei servizi logistici del nostro Paese è rappresentato da un piano di riforme nella organizzazione e nei meccanismi di funzionamento delle principali piattaforme logistiche, che costituiscono l’ossatura della rete logistica nazionale, il meccanismo connettore tra la rete nazionale e la rete internazionale dei collegamenti. Possiamo definire piattaforma logistica un’area specializzata con strutture dedicate, che comprende elementi per facilitare la multi modalità e l’intermodalità. Nella realtà economica del nostro Paese, per il peso preponderante che ha assunto l’autotrasporto nelle attività vettoriali, si sono sviluppate una pluralità di strutture logistiche sostanzialmente monomodali, che consentono lo stoccaggio dei prodotti ed il loro inoltro attraverso il sistema camionistico. Nelle nostre considerazioni, esaminiamo solo quelle che abbiamo definito come piattaforme logistiche. E’ in queste aree pensate per effettuare lo scambio tra diverse modalità di trasporto che si gioca la battaglia fondamentale per il cambiamento del mercato dei trasporti e della logistica nel nostro Paese. Porti, interporti ed aeroporti rappresentano la cerniera tra il sistema produttivo italiano e la sua proiezione sui mercati mondiali. Velocizzare il transito e l’efficienza nelle operazioni che si determinano nei gangli vitali dei nodi logistici costituisce un punto d’attacco obbligato per determinare un punto di svolta nella qualità complessiva della organizzazione logistica nazionale. Operare in tale direzione significa non solo, come pure è necessario, delineare un programma di investimenti per migliorare la qualità e la capacità di questi delicati punti di snodo, intervenendo sui colli di bottiglia che condizionano la qualità delle infrastrutture puntuali di trasporto. Serve anche determinare una decisa inversione di tendenza nella qualità dei servizi erogati nelle principali piattaforme logistiche del Paese. Nell’analisi che segue si affrontano questi temi prioritari, che fanno parte di una agenda per il rinnovamento del sistema logistico nazionale. Occorre partire da scelte di politica dei trasporti che definiscano una gerarchizzazione delle piattaforme per il traffico intermodale, indispensabile per assicurare efficienza ai flussi di merce, diversamente dagli orientamenti che si sono concretamente determinati negli ultimi decenni, con 31 Banca Mondiale, “Connecting to compete. Trade logistics in the global economy. The logistics performance index and its indicators”, 2012 21 una proliferazione delle piattaforme intermodali, che ha aumentato il grado di dispersione del sistema logistico italiano. Mentre si continuava a disperdere senza gerarchia il sistema dei punti di interscambio delle merci, determinando di fatto una competizione tra piattaforme limitrofe, ostinatamente le merci hanno continuato a privilegiare gli snodi fondamentali della rete: “La quantità di merce movimentata negli interporti italiani con trasporto intermodale è concentrata per oltre il 90% nei soli interporti di Verona, Padova e Bologna”32. Di converso, mentre cresceva il grado di entropia della rete logistica, in Lombardia, che non dispone di un interporto, i 18 terminali intermodali movimentano 11 milioni di tonnellate di merce all’anno, circa il 40% delle unità di traffico dell’intero Paese, con uno stock di immobili logistici pari ad oltre 4,5 milioni di mq, 3.2 Gli investimenti necessari per l’efficienza delle infrastrutture logistiche Nei passati decenni l’attenzione è stata posta, in modo sostanzialmente quasi esclusivo, sugli investimenti necessari nelle grandi opere per recuperare un gap infrastrutturale che era ritenuto l’elemento alla base del deficit di qualità nella organizzazione dei servizi di trasporto e di logistica nel nostro Paese. Certamente servono investimenti mirati per superare i colli di bottiglia e per dotare l’Italia di una rete di asset fisici coerenti con la necessaria qualità dei collegamenti con i principali mercati internazionale. Ma questi investimenti devono essere concentrati nelle aree a maggiore congestione, e soprattutto devono essere coerenti con una visione gerarchizzata delle infrastrutture di rete (nodi e linee) nel nostro Paese. Hanno prevalso, nei passati decenni, spinte localistiche a competere sulla attribuzione delle risorse pubbliche per gli investimenti nei trasporti e nelle reti, in assenza di un disegno nazionale che abbia prima definito con chiarezza le priorità, per assicurare finanziamenti certi che poi consentano di realizzare le opere necessarie in tempi coerenti con le necessità del mercato. Si è scelto invece di allargare la lista delle opere da finanziare, realizzando così un duplice danno: da un lato si è determinata una attribuzione a pioggia delle risorse pubbliche, peraltro decrescenti, che ha dilatato i tempi di realizzazione delle opere in quanto al formale conferimento delle risorse seguiva una erogazione con il contagocce, e dall’altro si sono anche realizzati progetti infrastrutturali spesso in competizione, in aree geografiche limitrofe. Si sono così determinati fenomeni di insaturazione e di bassa utilizzazione degli impianti, che hanno implicato non solo uno sperpero di risorse in conto capitale, ma anche un disavanzo costante in termini di equilibrio dei conti economici di strutture che non erano, e non saranno mai in grado, di ripagare neanche i propri costi di gestione ordinaria. Nella presente analisi limitiamo il nostro angolo di osservazione alle infrastrutture puntuali, ma le considerazioni che saranno espresse possono essere traslate anche, con le dovute differenze, al sistema complessivo degli investimenti per le opere infrastrutturali. La proliferazione di porti, aeroporti ed interporti ha indotto ad un provincialismo delle infrastrutture logistiche che non ha migliorato la qualità infrastrutturale del nostro Paese. La competizione tra infrastrutture limitrofe ha generato un gioco a somma zero, che non ha attratto volumi aggiuntivi di merce, ma ha anzi determinato una marginalizzazione ulteriore di un tessuto logistico nazionale che vede i suoi principali punti di debolezza nei servizi erogati alla merce e nella 32 Ennio Forte, Luigi D’Ambra, Lucio Siviero, “Interporti in Italia tra intermodalità e retroportualità: un’analisi di efficienza con frontiera di produzione stocastica”, dattiloscritto, 2011, p. 1. 22 rete dei collegamenti dei nodi della rete, in cui si scambia la merce, verso l’hinterland, per l’afflusso e la distribuzione dei prodotti. Occorre innanzitutto superare quella frammentazione logistica che ha impoverito la competitività del sistema nazionale, definendo una gerarchia chiara tra le piattaforme, che consenta agli operatori internazionali di leggere con chiarezza il disegno di rete ed i punti di interscambio primari tra l’economia mondiale ed il nostro Paese. Riportando al centro la gerarchizzazione tra i nodi di interscambio è poi possibile specializzare ed integrare le funzioni delle diverse piattaforme logistiche, restituendo al mercato una mappa coerente dei servizi per ambiti e profili differenti di architettura di rete. A tal fine è innanzitutto opportuno portare a compimento le due riforme che sono state lungamente discusse, e non approvate, nel corso della ultima legislatura, vale a dire la riforma dei porti e quella degli interporti. Tali piattaforme sono strategiche per il rilancio della competitività del nostro sistema logistico. Occorre definire una scelta nazionale di gerarchizzazione e di specializzazione delle funzioni tra le principali piattaforme logistiche del nostro Paese, puntando innanzitutto a migliorare il processo di erogazione dei servizi alla merce e favorendo il completamento di quell’azione di liberalizzazione avviata con la riforma portuale che tanti benefici iniziali aveva determinato. A tal fine va introdotta una distinzione netta tra infrastrutture di carattere nazionale, che devono essere integrate nella rete europea dei collegamenti primari (quello che con linguaggio comunitario viene definito il “core network”), ed infrastrutture di carattere regionale, che costituiscono un completamento della rete fondamentale (nella espressione comunitaria “comprehensive network”) . Solo operando scelte chiare per concentrare masse critiche di movimentazione negli hub strategici è poi possibile indurre scelte di intermodalità, che vanno poi assecondate e promosse mediante politiche di promozione e di sviluppo. Serve poi definire un Masterplan degli investimenti prioritari per il consolidamento della rete logistica nazionale, senza indulgenze verso le spinte localistiche, ma con una visione di priorità nazionale. Un piano di “piccole opere”, mirate ad intervenire sui colli di bottiglia che strozzano la rete logistica nazionale, è urgente per determinare un miglioramento nella capacità infrastrutturale e per allocare al meglio le risorse finanziarie effettivamente disponibili. In questo senso andrebbe anche ridotto il numero dei soggetti gestori di porti, aeroporti ed interporti, in un disegno di consolidamento e di specializzazione per area geografica omogenea dei sistemi infrastrutturali, ed andrebbero favoriti processi di aggregazione tra i principali soggetti economici che operano in tale settore di attività, per addensare masse critiche coerenti di piattaforme logistiche adeguate a presentare al mercato una offerta solida di servizi logistici competitivi e moderni. Una riforma del disegno istituzionale ed organizzativo può aiutare un processo di razionalizzazione che non si è realizzato negli anni recenti, ad esempio riducendo drasticamente il numero delle Autorità Portuali (dalle attuali 25 a non più di 6), per costringere il sistema italiano dei porti a ragionare in modo sistemico rispetto al posizionamento necessario nelle diverse filiere del comparto marittimo e l’approvvigionamento energetico, oppure introducendo, come si è tentato di fare nel disegno di legge discusso nella passata legislatura in Parlamento sulla riforma degli interporti33, 33 La fine anticipata della legislatura ha bloccato anche l’approvazione di questa riforma, votata solo da uno dei due rami del Parlamento. Così come ferma è rimasta la riforma dei porti. Entrambi questi provvedimenti sono pilastri per rilanciare la competitività del sistema logistico italiano, ed è auspicabile che se ne occupi tempestivamente la prossima legislatura. 23 criteri di accesso ai finanziamenti pubblici basati sulla effettiva offerta di servizi intermodali da parte degli interporti stessi. E’ auspicabile che nella nuova legislatura vengano unificati i due provvedimenti di riforma su porti ed interporti, per dare vita ad un disegno unitario di riforma delle principali piattaforme logistiche, dalla cui efficienza dipende in buona misura la qualità del ciclo logistico complessivo. Incentivi che consentano di favorire l’aggregazione imprenditoriale dei gestori per bacini omogenei di traffico adeguati a specializzare le vocazione delle diverse piattaforme logistiche possono essere strumenti utili a ridisegnare la competitività della rete logistica nazionale. Analogo processo di razionalizzazione e di selezione è stato avviato nel settore aeronautico con l’atto di indirizzo del Piano per lo sviluppo aeroportuale, recentemente presentato dal Governo34, che pone le premesse per una scrematura degli scali di interesse nazionale, pur se non focalizza con sufficiente attenzione il tema del cargo aereo. Si tratterà di vedere se, nel corso dell’iter di concertazione previsto dalla Conferenza Stato-Regioni, saranno confermati gli indirizzi assunti e saranno meglio focalizzate le tematiche connesse non solo al traffico passeggeri, ma anche a quello merci. L'industria dell'aviazione, che comprende l'insieme delle compagnie aeree, gli aeroporti, l'industria aeronautica ed i fornitori di servizi, rappresenta una componente rilevante dell'economia comunitaria: occupa 5 milioni di addetti, contribuisce al PIL europeo con 365 miliardi di euro (il 2,4% del PIL totale dell'Unione), trasporta 800 milioni di passeggeri all'anno. In Italia, il settore opera con 500.000 addetti, contribuisce al PIL con 15 miliardi di euro, trasporta 149 milioni di passeggeri. Il flusso dei passeggeri che transitano negli aeroporti italiani genera sull'economia dei territorio un ritorno stimato in almeno 100 miliardi di euro all'anno. Si tratta di un settore destinato a crescere ancora nei prossimi decenni, in termini di domanda di servizi da parte della clientela. Il traffico aereo passeggeri ha registrato, tra il 2000 ed il 2011, un tasso medio annuo di aumento pari al 4,6%, in linea con quanto si è verificato in Europa negli stessi anni. Va aggiunto che, in rapporto al reddito pro-capite, i passeggeri originati dall'Italia sono sensibilmente minori rispetto alla media dei paesi europei, ciò che sta significare un "serbatoio" di domanda ancora inespressa. Proprio per questa ragione l'Italia è terra su cui si stanno cimentando le compagnie aeree di altri paesi ed è assolutamente necessario, in uno scenario economico caratterizzato ancora da una recessione che ormai dura da più di un lustro, cogliere le opportunità di sviluppo possibili per le imprese (gestori, operatori aeroportuali e vettori). A distanza di 26 anni dall'ultimo provvedimento approvato, è stato emanato, il 29 gennaio 2013, l'atto di indirizzo del Governo per la definizione del Piano nazionale per lo sviluppo aeroportuale. Il documento, che recepisce gli orientamenti comunitari, è stato inviato alla Conferenza permanente Stato-Regioni, per la necessaria intesa, e, successivamente, sarà adottato con un apposito decreto dal Presidente della Repubblica. Nel nostro Paese sono attualmente operativi 112 aeroporti, di cui 90 aperti al solo traffico civile (43 per voli commerciali e 47 per voli civili non di linea), 11 militari aperti al traffico civile (con 3 scali aperti a voli commerciali e 8 a voli civili non di linea), 11 esclusivamente ad uso militare. Si è determinato nei passati decenni uno sviluppo disordinato e convulso, originariamente all'insegna della rivendicazione "un aeroporto per campanile (e pure una stazione)", nell'assunto che anche i servizi aerei dovessero rispondere a principi di universalità; successivamente mirato ad intercettare su base locale una domanda di servizi aeroportuali che sembrava destinata a crescere 34 Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, “Atto di indirizzo per la definizione del Piano nazionale per lo sviluppo aeroportuale”, 29 gennaio 2013. 24 ovunque ed in ogni caso, con l'obiettivo di attrarre soprattutto le compagnie low cost, in un meccanismo di concorrenza tra scali che ha generato una disarticolazione del disegno strategico di sviluppo della rete aeroportuale. L'atto di indirizzo del Governo si propone di ridurre la frammentazione esistente, favorendo anche un processo di riorganizzazione e di efficientamento. Nella proposta del Governo vengono individuati 31 aeroporti di interesse nazionale, che dovrebbero costituire l'ossatura strategica su cui fondare lo sviluppo del settore nei prossimi anni. Si tratta di: • • • 10 aeroporti inseriti nel "core network" europeo (Bergamo, Bologna, Genova, Milano Linate, Milano Malpensa, Napoli, Palermo, Roma Fiumicino, Torino, Venezia); 29 aeroporti inseriti nel "comprehensive network" europeo (13 aeroporti con traffico superiore al milione di passeggeri annui, 4 con traffico superiore ai 500mila passeggeri e con specifiche caratteristiche territoriali, 2 indispensabili per la continuità territoriale) 2 aeroporti non facenti parte delle reti europee (Rimini, per il traffico in crescita, Salerno, per la possibilità di delocalizzare il traffico di Napoli). Per gli aeroporti di interesse nazionale è previsto sia il mantenimento della concessione di gestione totale nazionale, sia il rilascio di essa, laddove al momento mancante. Non viene precisato dal piano se in questi ultimi casi, le attuali società affidatari e di gestioni parziali o precarie verranno automaticamente trasformate in affidatari di gestioni totali o se (molto più opportunamente) ciò avverrà in esito a gare. Gli aeroporti di interesse nazionale potranno essere interessati da un programma di infrastrutturazione che ne potenzi la capacità, l'accessibilità, l'intermodalità: questo sviluppo vale in particolare per i tre aeroporti intercontinentali di Roma Fiumicino (realizzazione di una nuova posta, potenziamento delle aree di imbarco e dei terminal), Milano Malpensa e Venezia (miglioramento dell'accessibilità alle strutture e della interconnessione con la rete ferroviaria ad alta velocità. Gli aeroporti non di interesse nazionale dovranno invece essere trasferiti alle Regioni, che saranno responsabili del rilascio delle concessioni di carattere regionale, e ne valuteranno la diversa destinazione d'uso e/o la possibilità di chiusura. Rispetto al precedente Piano Nazionale degli Aeroporti, presentato a febbraio del 2012 dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e dall'ENAC, l'atto di indirizzo compie una opportuna scelta di selezione e di concentrazione, sia evitando di dare corpo ad ipotesi di nuovi scali sia riducendo il numero degli scali di interesse nazionale. Non sono previsti, come era in precedenza, nè la realizzazione dei nuovi scali di Grazzanise, in quanto si ritiene che Napoli Capodichino possa sostenere ulteriori aumenti di traffico nel medio periodo e si possa utilizzare lo scalo di Salerno, nè la realizzazione di Viterbo, in quanto si ritiene che gli investimenti previsti debbano essere finalizzati al potenziamento infrastrutturale dell'aeroporto di Roma Fiumicino. Non sono compresi negli scali di interesse nazionale, come invece era nel precedente documento di pianificazione, gli aeroporti di Brescia, Bolzano, Foggia e Forlì. Manca però, nell’atto di indirizzo del Governo per il Piano di sviluppo degli aeroporti, una focalizzazione sul contributo che il sistema aeroportuale può fornire alla riorganizzazione del sistema logistico nazionale. Nel documento di pianificazione che sarà all’esame della Conferenza Stato-Regioni, il traffico aereo cargo è appena citato di sfuggita. Eppure, sebbene il traffico cargo in Italia rappresenti una parte marginale in termini di volumi delle merci trasportate (circa il 2%), il ragionamento cambia se guardiamo al valore economico, pari circa il 40% del valore totale delle merci trasportate. Rispetto ai principali paesi europei concorrenti, su circa 12 milioni di merci movimentate, la quota relativa generata dai nostri aeroporti è di circa il 7%, quella tedesca il 37%, quella francese il 15%. 25 In Italia il traffico cargo aereo è concentrato in 3 aeroporti, che rappresentano il 77% del traffico complessivo: Milano Malpensa (47%), Roma Fiumicino (18%) e Bergamo Orio al Serio (12%). Circa il 51% del traffico gestito dai vettori aerei destinato od originato dal mercato italiano raggiunge via terra altri importanti aeroporti europei (Monaco, Francoforte, Parigi, Zurigo, Amsterdam e Madrid). Una linea di indirizzo strategica opportuna per il futuro è quella di riuscire a servire il mercato italiano del cargo aereo con una offerta competitiva attratta dai nostri scali aeroportuali. Accanto alla approvazione della riforma di porti ed interporti, è opportuno dunque che vada a compimento, a seguito della condivisione da parte della Conferenza Stato-Regioni, il documento di indirizzo del Governo sul Piano di sviluppo dei sistemi aeroportuali: le misure proposte per la razionalizzare la rete degli aeroporti di interesse nazionale, e per favorire il processo di aggregazione tra gestori aeroportuali sono linee di azione opportune per conseguire economie di scala e di scopo. 3.3 Migliorare i servizi logistici nei porti, negli interporti e negli aeroporti Un asse prioritario di intervento riguarda dunque la riforma del sistema degli interporti, dei porti e degli aeroporti, per qualificarne l’offerta di servizi e per gerarchizzarne le funzioni, evitando una polverizzazione degli asset logistici che costituisce uno dei principali punti di debolezza attuali. Da diversi anni i documenti governativi di pianificazione parlano della necessità di costituire piattaforme logistiche35 che integrino in una organizzazione unitaria di offerta ciò che oggi invece diventa micro-competizione territoriale distruttiva. Si tratta ora di passare dalla consapevolezza alla implementazione di politiche coerenti, creando processi di pianificazione e provvedimenti normativi tendenti ad incentivare processi di aggregazioni tra porti, interporti, aeroporti e piattaforme logistiche, in modo tale da generare per questa via processi di concentrazione industriale, capaci di secondare percorsi di efficienza e di riduzione dei costi logistici. Come abbiamo detto in precedenza, si è determinata invece, nel corso dei passati decenni, una spinta localistica a disperdere gli investimenti in una pluralità di siti, determinando per questa via l’effetto di una concorrenza territoriale che ha generato processi di spiazzamento competitivo. Nella geografia della globalizzazione, per attrarre gli operatori internazionali occorre disporre di una chiara articolazione dell’offerta di servizi, valorizzando le sinergie possibili. In Campania sono stati realizzati due interporti a distanza di poche decine di chilometri (a Marcianise ed a Nola), l’arco ligure vede tre porti competere per attrarre le compagnie di navigazione (Genova, La Spezia e Savona), lungo l’asse adriatico si sono fronteggiati progetti antagonisti di sviluppo portuale (Monfalcone, Venezia, Trieste), con discussioni teoriche che hanno avuto l’effetto solo di generare una paralisi decisionale. Per poter generare una geografia logistica coerente la competitività delle prestazioni del settore e con la capacità di attrarre operatori del mercato, occorre che si superi quindi il provincialismo nelle decisioni sugli investimenti da realizzare, e che si punti su una maggiore qualificazione dei servizi offerti nelle piattaforme logistiche. Entrambi questi aspetti hanno determinato un arretramento delle performance industriali della logistica per le imprese. Nei porti, negli aeroporti e negli interporti occorre attrarre funzioni 35 Di piattaforme logistiche si parla negli allegati ai DPEF dei Governi degli anni passati, anche se lo slogan è rimasto tale e non ha dato luogo ad alcun mutamento nel rovinoso disegno di frammentazione delle infrastrutture che ha caratterizzato le scelte degli ultimi decenni. 26 qualificate di servizi per la logistica, per arricchirne valore e competitività: meno investimenti in cemento, più investimenti nelle tecnologie e nella organizzazione. Non si è puntato ad una riqualificazione del mercato dei servizi offerti nelle infrastrutture logistiche, continuando nella strada che era stata segnata dalla prima riforma dei servizi portuali. Le infrastrutture per la logistica generano valore per l’economia quando sono in grado di assicurare efficienza e competitività nei servizi destinati alle operazioni di scambio modale, cucendo quella organizzazione monomodale basata sul trasporto stradale che costituisce una eredità del passato, non più funzionale alla diversa qualità della domanda di trasporto e di prestazioni accessorie da parte del sistema manifatturiero. Ancora oggi, tanto per fare un esempio, alcune prestazioni di servizio costituiscono un fattore bloccante per l’efficienza nella intera catena logistica: pensiamo ad esempio al costo delle manovre ferroviarie in alcuni porti italiani, che rappresentano una vera e propria barriera all’accesso per sviluppare l’intermodalità. Rendite di monopolio in un singolo elemento della catena logistica, come è nel caso delle manovre ferroviarie portuali, determinano conseguenze di spiazzamento competitivo che si riverberano sulla intera catena della intermodalità marittima, rendendo meno attraente la soluzione della integrazione tra mare e ferrovia, che costituisce invece uno dei punti di svolta essenziali per ribaltare la tendenza ad una organizzazione del trasporto e della logistica orientata oggi in modo eccessivo verso la soluzione del tutto gomma. La qualità e la tempestività delle operazioni doganali nei punti di interscambio strategici per il commercio internazionale costituisce un altro elemento determinante per incidere sull’efficienza delle prestazioni logistiche nel ciclo complessivo delle lavorazioni: “Una chiave della nuova agenda è un approccio maggiormente olistico nelle procedure di autorizzazioni doganali. Un tale approccio richiede maggiore collaborazione tra tutti gli organismi deputati ai controlli sugli standard, ai controlli sanitari, al trasporto ed alla salute, e l’adozione di approcci moderni alla compliance regolatoria”36. Consentire i controlli doganali non solo nei porti di arrivo delle merci, ma anche negli interporti, se la merce viene inoltrata via ferrovia, può costituire uno snellimento delle operazioni ed un incentivo sostanziale all’utilizzo maggiore della intermodalità. 3.4 Modificare il sistema di incentivi nelle concessioni e nei contratti Parallelamente, sono possibili, e devono essere rapidamente realizzate, riforme a costo zero che consentirebbero una migliore utilizzazione degli asset esistenti, modificando la struttura dei contratti e delle regole di concessione delle attività economiche nelle infrastrutture logistiche. Serve operare per costruire una politica industriale per la logistica, mediante: • • • selettività degli investimenti nelle piattaforme; miglioramento della competitività dei servizi erogati; incentivi selettivi alla domanda industriale per la logistica. 36 Banca Mondiale, “Connecting to compete. Trade logistics in the global economy. The logistics performance index and its indicators”, 2012, p.29. 27 Per andare in questa direzione è indispensabile riscrivere le regole di funzionamento degli atti di concessione e dei contratti di servizio delle pubbliche amministrazioni. Questo aspetto, che vale in generale per il miglioramento di efficienza nella erogazione dei servizi pubblici, ha ricadute molto rilevanti nel funzionamento delle piattaforme logistiche, soprattutto nei recinti portuali, che sono gestiti secondo meccanismi di concessione o con contratti stipulati dalle Autorità Portuali. Il fenomeno del contracting out di funzioni precedentemente erogate in modo diretto dalla pubblica amministrazione costituisce uno degli elementi di più profonda trasformazione che si sono determinati nei decenni scorsi. Tale processo è stato realizzato mediante due leve: da un lato la “aziendalizzazione” delle funzioni pubbliche, mediante la trasformazione in società per azioni sia di enti pubblici nazionali (poste, ferrovie) sia di aziende municipalizzate (tutti i servizi pubblici locali), dall’altro mediante il conferimento a soggetti del mercato di prestazioni prima erogate direttamente nel perimetro della funzione pubblica. In entrambi i casi, questo processo si è realizzato allargando in modo molto sensibile l’area dei contratti di servizio pubblico e delle concessioni. La matrice delle inefficienze nei servizi dipende anche proprio dalla assenza di incentivi economici e di controlli sostanziali negli atti della pubblica amministrazione, quando viene affidato a terzi lo svolgimento di attività economiche (concessione di banchine portuali, contratti di servizi pubblico per il trasporto locale, ecc.)37. E’ una operazione a costo zero che può dare uno stimolo molto rilevante alla riorganizzazione di molti mercati di prestazioni di servizio che sono decisivi per il posizionamento competitivo e per il recupero di produttività dell’economia italiana. Facciamo, giusto per comprendere la logica oggi applicata ed i possibili interventi correttivi, un esempio relativo alle concessioni per la gestione delle banchine nei porti. Attualmente le Autorità Portuali affidano le banchine ai terminalisti in cambio di un corrispettivo generalmente fissato mediante un valore di affitto dell'area a metro quadrato. A quel punto, il gestore costruisce il proprio conto economico considerando il canone di concessione un costo fisso, e lavorando per massimizzare gli introiti, che in larga parte derivano dai tempi di stazionamento delle merci e dei contenitori in banchina. L’esito di questa regola contrattuale è paradossale: il sistema è costruito, dal punto di vista delle convenienze economiche, per massimizzare i giorni di stoccaggio delle merci in porto, determinando per questa via uno spiazzamento competitivo della portualità italiana. Mutando il sistema di incentivi alla base di concessioni o contratti, cambierebbe il quadro delle convenienze per i terminalisti: se fosse in particolare definita una regola in base alla quale il corrispettivo economico per la concessione o per il contratto fosse inversamente proporzionale rispetto al numero dei giorni di stoccaggio in banchina delle merci e dei contenitori (e quindi maggiore al crescere dei giorni di stoccaggio), molto probabilmente i terminalisti dovrebbero agire per rendere più spedito l’inoltro, evitando, come ha osservato Ikea, che i tempi di stoccaggio dei container siano pari oggi a 9 giorni nel porto di Genova. Cambierebbe a quel punto anche l’attrattività del sistema portuale italiano, oggi certamente condizionata dalla lentezza e dalla costosità delle operazioni in banchina. Modificando il 37 In molti settori dei servizi, l’assenza, nel sistema dei contratti, di corretti strumenti di incentivazione per premiare i comportamenti virtuosi è stata foriera di gravi inefficienze. A questo elemento, si aggiunge anche un assetto fortemente instabile del quadro normativo, continuamente messo in discussione tra liberalizzazioni e monopoli. Il pendolo istituzionale nella disciplina dei servizi, con tutte le connesse conseguenze di incertezza e di mantenimento delle inefficienze, costituisce una delle tematiche critiche per il nostro Paese. Vale per la logistica come per il trasporto pubblico locale. Per un riferimento alle recenti vicende connesse al trasporto pubblico locale, cfr. Andrea Boitani e Pietro Spirito, “Chi guida il trasporto locale”, in www.lavoce.info, 4 dicembre 2012 28 meccanismo di assegnazione dei contratti di concessione delle banchine portuali, cambierebbero le aspettative razionali degli operatori, ed i loro comportamenti gestionali; l’attuale modello contrattuale pone gli operatori nella condizione di massimizzare la propria rendita, speculando proprio sulla inefficienza delle operazioni: più la merce o i container restano fermi, e maggiore è il loro tornaconto economico. Se invece si modifica l’algoritmo di questi contratti, passando ad una valorizzazione proporzionale rispetto al tasso di rotazione della merce (il valore del canone pagato dai concessionari cresce all’aumentare del numero di giorni medi di sosta della merce), l’interesse degli operatori sarà allineato con l’obiettivo di efficienza delle attività di movimentazione portuale, determinando, in un arco temporale ragionevole, un miglioramento negli indici di attraversamento delle merci dallo sbarco dalle navi all’inoltro verso la destinazione finale. Per questa via si darebbe concreta risposta ad una delle ragioni per le quali le grandi navi porta contenitori preferiscono percorrere maggiori giorni di navigazione per toccare i porti del Nord Europa, anche per merce che è destinata al mercato nazionale. L’efficienza delle operazioni portuali, ed i maggiori tempi di attraversamento della merce, erodono oggi il vantaggio competitivo teorico dato dalla minore percorrenza della navigazione marittima, in caso di scelta di un porto italiano. Meccanismi di riforma di questa natura opererebbero in direzione di un rilancio della competitività del sistema portuale nazionale, una questione che viene oggi affrontata esclusivamente nella dimensione delle risorse necessarie a finanziare gli investimenti per l’allargamento della capacità produttiva e per la ricezione delle grandi navi container in termini di dragaggi e di miglioramento nella profondità dei fondali. 29 4. Dalla intermodalità alla comodalità 4.1 L’evoluzione della intermodalità tra sviluppo del traffico marittimo e crisi del traffico terrestre In generale, possiamo definire intermodalità “quel concetto di trasporto dei passeggeri e delle merci con due o più differenti modi di trasporto durante un singolo viaggio, effettuato in modo tale che tutte le parti del processo di trasporto, inclusi gli scambi di informazione, siano connesse e coordinate in modo efficiente”38. Più specificamente, si definisce intermodalità, nel settore delle merci, quella tecnica di trasporto che consente ad una unità di carico di utilizzare diversi modi di trasporto senza manipolare la merce nella fase di cambio tra le diverse modalità. L’intermodalità rappresenta un indicatore qualitativo del livello di integrazione tra i diversi modi di trasporto, in termini di infrastrutture, operazioni, attrezzature, servizi e condizioni di regolamentazione. Possiamo quindi dire che l’efficienza dell’offerta intermodale di un Paese sia una proxi efficace del suo grado di adeguatezza complessivo, in quanto il funzionamento dell’interscambio modale dipende essenzialmente dalla integrazione efficace tra le diverse componenti che ne determinano il funzionamento, vale a dire i terminali intermodali (porti, interporti, scali ferroviari), le attività vettoriali (ferrovia, strada, mare, aereo), i servizi di interscambio modale (carico e scarico, manovre, terminalizzazioni). Che l’efficienza della offerta intermodale sia una componente determinante del suo successo, deriva dal fatto che la rottura di carico introduce comunque costi aggiuntivi al flusso della merce. “Per rendere il trasporto intermodale una alternativa preferibile al trasporto camionistico, i costi generalizzati di trasporto dovrebbero essere eguali o più bassi, in modo tale che gli extra-costi dovuti al carico e scarico nei terminal intermodali possano essere compensati da costi più bassi nelle relazioni lunghe di trasporto”39. Si stima che i costi aggiuntivi derivanti dalle operazioni di carico, scarico e trasbordo delle unità intermodali costituiscano tra il 25% ed il 40%del costo totale di movimentazione di una unità intermodale nella logica di un collegamento door to door. Per questa ragione è indispensabile non solo che le singole componenti che ne determinano la catena del valore siano prodotte con un adeguato grado di efficienza, ma anche che siano costruite quelle condizioni di adeguata connessione tra gli anelli della catena, in modo tale che il flusso nella sua interezza sia adeguato alle caratteristiche della domanda, in termini di costo e di qualità della prestazione erogata. “Essendo l’intermodalità il risultato di una catena multi-attoriale è naturale che il tema del coordinamento, informazione e comunicazione sia assai rilevante dal punto di vista dell’analisi degli incentivi alla collaborazione ed all’influenza che ha il potere di mercato e la struttura gerarchica della catena nel determinare il risultato collaborativo”40. Veniamo da una storia dei trasporti del secolo passato caratterizzata da un approccio settoriale per singola modalità: “Ciascun modo di trasporto (aereo, fluviale, marittimo, attraverso oleodotti, ferroviario, stradale) ha attraversato la propria evoluzione tecnologica ed è stato funzionalmente 38 Christopher M. Monsere, “Trends in intermodal freight transportation”, Portland State University, dattiloscritto 2007. Thor-Erik Sandberg Hanssen, Terje Andreas Mathisen, Finn Jorgensen, “Generalized transport costs in intermodal freight transport”, 15th meeting of the Euro Working Group on Transportation, 2012, p. 2. 40 Romeo Danielis, “Il trasporto intermodale ferroviario: quale ruolo per l’analisi economica ?”, Riunione annuale SIET, Genova 18-20 novembre 2004. 39 30 separato da una specifica struttura di regolamentazione concepita per singola modalità”41. Nel ventunesimo secolo il trasporto intermodale delle merci deve essere reinterpretato sulla base di requisiti che corrispondono alle catene globali della logistica. L’evoluzione delle tecnologie di trasporto ha consentito di estendere il raggio di applicazione della intermodalità, resasi sempre più necessaria anche per effetto della crescita dei processi di globalizzazione industriale nel corso dei decenni più recenti. Con la delocalizzazione delle fabbriche nei Paesi di nuova industrializzazione, è inevitabilmente cresciuto il flusso degli interscambi su scala mondiale, e si sono sviluppati trasporti che mettono in connessione da un lato i diversi insediamenti produttivi per gli scambi di semilavorati e dall’altro le fabbriche con i mercati finali di sbocco. E’ per questa via aumentata quella che viene definita la intermodalità obbligata, vale a dire quella condizione in base alla quale, per la lunghezza e la complessità dei percorsi della merce, non sia una scelta la soluzione di utilizzare due o più modi di trasporto, ma una necessità inderogabile. Del resto, più si allunga la distanza percorsa dalla merce, meno incidono in termini percentuali i costi di trasbordo tra le diverse modalità, rendendo per questa via l’intermodalità anche maggiormente competitiva, oltre che necessaria: la globalizzazione dell’economia ha generato dunque inevitabilmente un crescita robusta nel ricorso a soluzioni intermodali di trasporto. In questo processo di internazionalizzazione della intermodalità, un ruolo essenziale è stato giocato dalla marittimizzazione dell’economia: “L’intermodalità ha spinto i porti a orientare in via prioritaria la loro attività verso l’interno anche a grandi distanze, modificando la natura stessa del retroterra e producendo territori di discontinuità in particolare delle aree situate subito a ridosso del porto stesso”42. Le catene lunghe del trasporto hanno anche determinato una maggiore articolazione delle spedizioni intermodali, che spesso devono sopportare più rotture di carico, e diverse modalità di trasporto coinvolte nel processo di produzione. La tratta prevalente di lungo raggio viene svolta in modo dominante dai vettori marittimi, che spesso stanno passando dall’essere puri “carrier” delle spedizioni ad operatori “merchant”, facendosi carico della consegna della unità di carico sino al cliente finale. Con l’accelerazione dei processi di delocalizzazione produttiva hanno assunto rilevanza, accanto alla consegna del prodotto finito dalla fabbrica al cliente, anche i flussi interstabilimento dei beni intermedi e dei semilavorati: dal concetto distrettuale dell’industria primaria approvvigionata da fornitori limitrofi, anche la costellazione degli scambi di beni intermedi è entrata dentro la rete delle connessioni internazionali. Paradossalmente, mentre cresceva per effetto della globalizzazione l’intermodalità obbligata, connessa ai grandi flussi marittimi su scala internazionale, si è venuta riducendo, in alcuni contesti, l’intermodalità terrestre, che aveva rappresentato invece la principale strada di crescita di questa tecnica di trasporto nei decenni precedenti. Tale fenomeno ha assunto dimensioni particolarmente rilevanti in alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, ed è connessa, per via indiretta, al processo di liberalizzazione comunitaria del trasporto ferroviario, che si è realizzato compiutamente a partire dal 2007. Nella lunga stagione della statalizzazione ferroviaria europea, l’intermodalità terrestre si era sviluppata essenzialmente grazie al traino assicurato da basse tariffe di trazione ferroviaria, che 41 William DeWitt, Jennifer Clinger, “Intermodal freight transportation”, Committee on intermodal freight transport, 2000. 42 Paolo Sellari, “Geopolitica dei trasporti”, Laterza, 2013, p.25. 31 avevano attratto il mercato a scegliere anche tale soluzione, soprattutto per i collegamenti nazionali nella direttrice fondamentale del Paese, quella dei collegamenti tra il Nord ed il Sud dell’Italia. Tale assetto aveva certamente drogato il mercato, che si era abituato a considerare l’intermodalità una soluzione competitiva essenzialmente sul fronte della convenienza economica, resa possibile da politiche di prezzo dei monopolisti ferroviari che collocavano sul mercato il costo della trazione ad un valore assolutamente non corrispondente non solo ai reali costi di produzione (inefficienti), ma anche ad un ipotetico costo di produzione sulla frontiera della efficienza. Eravamo in una stagione nella quale il trasporto ferroviario intermodale era funzionale per calmierare i prezzi della soluzione tutto-gomma, e quale tecnica di supporto per evitare una totale dipendenza dall’autotrasporto, che restava comunque la soluzione dominante. L’avvio della liberalizzazione ha indotto, inevitabilmente, gli incumbent dell’industria ferroviaria ad abbandonare politiche di sostegno alla intermodalità, che non si conciliavano più con l’applicazione di concetti di mercato e di competizione, che impongono il pieno recupero della razionalità economica da parte degli operatori di settore. In assenza di esplicite scelte di incentivazione pubblica verso l’intermodalità, che sono state adottate da diversi Paesi europei (in particolare dalla Svizzera, dall’Austria e dalla Germania), la rete dei servizi intermodali nazionali terrestri, nel giro di pochi anni, è stata sostanzialmente azzerata. L’ex monopolista abbandonava una produzione di servizi ferroviari intermodali a prezzi assolutamente squilibrati rispetto ai costi di produzione, ed i nuovi entranti non erano nemmeno in grado di sostituirsi, perché il mercato si era intanto abituato a corrispettivi della trazione ferroviaria inferiori rispetto ai costi efficienti di produzione. La mano pubblica degli incentivi, laddove è stata attivata, ha consentito di attenuare il divario che si stava determinando tra aspettative della domanda e costi della trazione ferroviaria, consentendo di reggere i volumi di traffico. Laddove, come in Italia, questa politica non è stata adottata, se non per brevi stagioni intermittenti, lo scenario è stato radicalmente diverso, ed il mercato dell’intermodalità terrestre ha subito un drastico ridimensionamento. Insomma, si è generata in Italia una forbice tra incremento della intermodalità obbligata, indotta dai processi di marittimizzazione degli scambi economici, e decremento della intermodalità opzionale, soprattutto nella componente dei trasporti terrestri di medio e lungo raggio. Questo fenomeno asimmetrico ha indebolito la completezza della gamma dei servizi intermodali complessivamente intesi, impoverendo l’effetto di rete ed inducendo un vantaggio competitivo determinante alla soluzione di una intermodalità marittima baricentrata nella soluzione integrata tra nave e gomma. Del resto, in questa direzione ha spinto anche il progetto governativo ed europeo delle “autostrade del mare”, che ha finanziato mediante incentivi proprio l’interscambio tra soluzione marittima e soluzione camionistica, nel tempo stesso in cui veniva meno la rete dei collegamenti intermodali ferroviari sulle principali direttrici del traffico terrestre nazionale. Insomma, proprio mentre l’intermodalità cominciava a conoscere una stagione di forte sviluppo, l’intermodalità ferroviaria, nella duplice dimensione del traffico terrestre e di quello marittimo, ha invece conosciuto nel nostro Paese una crisi profonda, dalla quale ancora non si è ripresa. L’intermodalità opzionale che si era sviluppata prima dei processi di globalizzazione che hanno indotto verso l’intermodalità obbligata ha lasciato in eredità un prezioso patrimonio industriale, indispensabile per consentire di dispiegare gli effetti della rivoluzione nei trasporti che abbiamo conosciuto a cavallo tra la fine del secolo passato e l’inizio del ventunesimo secolo. Le unità di carico intermodali si sono standardizzate progressivamente nel corso del tempo, ed il container è diventato lo strumento prevalente della intermodalità marittima, mentre la cassa mobile 32 ha assunto la stessa funzione nella intermodalità terrestre. Le operazioni di carico e scarico delle unità intermodali si sono consolidate nella esperienza dei decenni passati, ed hanno conosciuto processi di miglioramento e di efficienza costanti. Insomma, standardizzazione delle unità di carico e miglioramento dei processi industriali nei terminali hanno costituito le premesse necessarie per la crescita dei traffici merci su scala internazionale. E’ il trasporto intermodale non accompagnato, nel caso delle merci, ad aver conosciuto lo sviluppo più intenso, grazie alla rete dei collegamenti marittimi mondiali, alla standardizzazione delle unità di carico, allo sviluppo di una rete di terminali intermodali che hanno investito nella automazione delle operazioni di carico e scarico. La velocizzazione di queste operazioni si è determinata in particolare nei sistemi portuali, per le necessità connesse al gigantismo navale, ed all’elevato costo di immobilizzazione delle grandi imbarcazione di transhipment, che devono inevitabilmente minimizzare i tempi di sosta nei porti. Non si sono invece evolute in modo economicamente sostenibile le tecniche di trasporto intermodale accompagnato, che prevedono, come nel caso dell’autostrada viaggiante, l’inoltro anche della tara costituita dal mezzo di trasporto su gomma e dell’autista del camion, che viaggia su un vagone dedicato. La costosità di questa tecnica la rende ancora oggi quasi totalmente dipendente dai sussidi pubblici dei Governi, ed è utilizzata in modo significativo per l’attraversamento alpino, nei collegamenti Italia-Austria, Italia.-Svizzera ed Italia-Francia. Nel caso del trasporto ferroviario intermodale marittimo, uno degli ostacoli che ancora non è stato rimosso per sviluppare tale tipologia di traffico riguarda l’assetto infrastrutturale nei porti e l’efficienza delle operazioni di manovra ferroviaria nei segmenti terminali delle tratte. La riforma portuale realizzata in Italia con la legge 84/94 ha assegnato alla titolarità delle Autorità Portuali le infrastrutture ferroviarie che insistono entro il perimetro dei porti stessi. Questo assetto ha generato una sorta di “no man’s land”, in quanto le reti terminali di collegamento tra i terminali ferroviarie le banchine stanno dentro due giurisdizioni diverse: quella del gestore della rete ferroviaria nazionale, per il primo tratto, e quella dell’Autorità Portuale, per il secondo tratto. L’esito che si è determinato è una mancanza di investimenti che sarebbero necessari per modernizzare le reti ferroviarie terminali, dalla cui inadeguatezza dipende spesso sia la costosità delle operazioni di manovra, sia l’inadeguatezza del livello di servizio. D’altra parte, la gestione delle manovre nei porti, in molti casi, è caratterizzata da un livello di costo troppo elevato, che incide in modo significativo sulla struttura complessiva del servizio intermodale, soprattutto quando le tratte ferroviarie da servire sono di medio raggio, come inevitabilmente accade, per motivi oggettivi di natura geografica, nei collegamenti tra porti italiani del Nord e retroterra industriale della Pianura Padana. 4.2 Le politiche per la intermodalità in Europa: il ruolo delle istituzioni e degli operatori L’Unione Europea, che per lungo tempo ha considerato l’intermodalità una delle chiavi strategiche necessarie per il cambiamento strutturale del mercato dei trasporto nel continente comunitario, più recentemente, a partire dal 2006, è passata ad utilizzare il termine co-modalità, intendendo con questa espressione “l’uso di differenti modo di trasporto al fine di ottenere un impiego sostenibile delle risorse”. In questo modo si intende sottolineare la necessità di un approccio ai servizi di trasporto come componente integrata della catena logistica, evidenziando in particolare la necessità di ottimizzare l’uso delle risorse proponendosi anche di guardare alle implicazioni di sostenibilità. 33 Molta parte dello sviluppo della intermodalità e della comodalità dipende dall’ambiente istituzionale e dalle regole del mercato. Inevitabilmente, l’intermodalità introduce elementi di costo aggiuntivo rispetto alla soluzione monomodale, in quanto deve almeno gestire le operazioni di scarico e carico tra un modo di trasporto e l’altro, oltre che sopportare i costi di un sistema informativo più complesso di tracciatura della merce da origine a destinazione. Nulla quaestio, quando l’intermodalità non è una scelta, ma una necessità. Siamo in questo caso nell’area delle spedizioni transcontinentali, che vedono il vettore marittimo come mezzo modale per la connessione di più lungo percorso, mentre il trasporto su gomma ed il trasporto ferroviario svolgono le funzioni ancillari per i collegamenti via terra, in origine ed in destinazione. Diverso è il caso della intermodalità solo terrestre, che vede il suo naturale antagonista nella soluzione del tutto gomma. In questo caso, anche quando un razionale uso delle risorse secondo una logica di sostenibilità (e quindi abbracciando il concetto di comodalità) vedrebbe la soluzione intermodale avvantaggiata, occorre creare le condizioni per una convenienza economica che induca gli operatori a scegliere questa soluzione. E’ questa la ragione per la quale molti Governi hanno da tempo deciso di mettere in campo politiche attive di sostegno della intermodalità, che sono accompagnate da una strumentazione di carattere fiscale tendente a tassare i veicoli maggiormente inquinanti, secondo una logica di internalizzazione dei costi esterni. Ne abbiamo parlato nel corso del secondo capitolo di questo percorso logico. Su tale strada si è incamminata, con incertezze e con prudenza, l’Unione Europea, che, anche con gli ultimi atti normativi, lascia ancora agli Stati la facoltà, o meno, di percorrere tale sentiero di regolazione, pur ritenendolo opportuno e possibile. Nella struttura del mercato per i servizi intermodali un nodo che non è stato ancora pienamente sciolto è quello che si determina tra soggetti che organizzano puramente l’offerta integrata di servizi rispetto ad altri soggetti che, essendo parte di una filiera specialistica del trasporto, si propongono anche di offrire in aggiunta servizi intermodali, cercando evidentemente di massimizzare anche la ottimizzazione del proprio modo di trasporto prevalente. Insomma, tra i cosiddetti multimodal transport operators, che svolgono una funzione da puri intermediari, e gli operatori vettoriali che si convertono alla logica intermodale si determinano conflitti di mercato, acuiti anche dal tentativo, da parte di soggetti delle piattaforma logistiche, di entrare la loro volta come soggetti che si propongono di vendere al mercato servizi intermodali, con lo scopo, in questo caso, di saturare la capacità delle piattaforme intermodali stesse. Il gioco del mercato intermodale risponde ad una logica binaria, spesso in conflitto. I puri intermediari si possono presentare alla propria clientela come soggetti che svolgono una funzione “neutrale” tra i diversi componenti della catena del valore intermodale, e per questa ragione possono comporre i diversi segmenti dell’offerta seguendo una logica di massimizzazione della utilità del cliente finale. D’altra parte, quando un singolo attore della catena intermodale si propone sul mercato con una propria offerta di servizi, può presentarsi al mercato con elementi di duplice vantaggio competitivo: da un lato può non ricaricare margini eccessivi sulla funzione di produzione direttamente erogata, dall’altro, curandone direttamente parte del processo di erogazione, può dare maggiori garanzie sulla qualità del servizio. Agendo in un mercato ormai liberalizzato, e quindi competitivo, queste due logiche espresse da operatori intermodali con caratteristiche strutturalmente differenti si confrontano. Un ruolo fondamentale sull’esito di questa concorrenza deve essere giocato dalle politiche pubbliche per la 34 intermodalità. Negli indirizzi espressi dalla Commissione Europea, sussidi pubblici finalizzati allo sviluppo di soluzioni intermodali sono considerati ammissibili, a condizione che vengano erogati in modo trasparente, ed a pari condizioni tra tutti gli attori del mercato. Proprio per andare in tale direzione, sembrerebbe opportuno individuare meccanismi che consentano di corrispondere ai principi stabiliti dalle istituzioni comunitarie. Per quanto riguarda l’intermodalità in generale, e l’intermodalità ferroviaria in particolare, occorrerebbe andare in direzione di assegnare gli incentivi per l’intermodalità o direttamente ai clienti finali oppure indirettamente come abbattimento di costi che siano comuni per tutti i soggetti che attingono agli elementi della catena intermodale: nel caso ferroviario sarebbe in particolare opportuno operare riducendo il pedaggio di accesso alla rete ferroviaria. Se invece gli incentivi vanno ai soggetti della offerta intermodale, siano essi intermediari o produttori diretti di una delle componenti della catena del valore, si possono determinare condizioni di asimmetria che non consentono di generare una diretta corrispondenza tra incentivi erogati e volumi di traffico intermodale da sviluppare. 35 Conclusioni In sintesi, una politica industriale per la logistica, necessaria per recuperare il tempo perduto, deve essere articolata su fronti convergenti: qualificazione e gerarchizzazione delle infrastrutture, stimolo alla domanda delle imprese, una mano pubblica più efficiente, che incentivi competizione e modernizzazione. E’ una delle sfide prioritarie per modernizzare il sistema nazionale dei trasporti, inserendolo dentro la rete delle connessioni internazionali. Dentro la questione della ripresa di competitività dei servizi logistici sta il tema del recupero di competitività del trasporto ferroviario delle merci, settore nel quale alla compiuta liberalizzazione dei servizi su scala comunitaria, realizzata da ormai sei anni, non è seguito in tutti i Paesi europei quell’auspicato recupero di competitività derivante dalla apertura del mercato alla competizione. A sei anni dall’avvio della liberalizzazione comunitaria, pur scontando gli effetti della crisi economica che hanno certamente inciso sulla perdita dei volumi, si deve registrare che la liberalizzazione di per sé, senza una politica industriale di accompagnamento per la ripresa della competitività del sistema ferroviario, non basta ad invertire la tendenza decennale all’arretramento delle quote modali. Misure per la riorganizzazione e la competitività dei principali nodi di interscambio (porti, interporti, aeroporti) devono essere accompagnate anche da politiche per l’intermodalità, che possono essere rese praticabili da un lato orientando gli aiuti pubblici all’autotrasporto verso l’aggregazione e la riorganizzazione industriale delle aziende del settore, e dall’altro favorendo il ricorso alla intermodalità mediante un sistema di incentivi tesi a favorire la crescita della modalità ferroviaria. Soprattutto, una politica industriale per il trasporto e la logistica non può limitarsi ad una ottica visuale solo concentrata su singoli segmenti di intervento, pur rilevanti, ma deve abbracciare un arco coordinato di misure e di provvedimenti. In assenza di una visione d’insieme, singoli provvedimenti, pur animati dalle migliori intenzioni, rischiano di generare risultati solo parziali. Serve un approccio integrato, consapevole delle interrelazioni che esistono tra le diverse modalità di trasporto. E’ questa la premessa vera, e necessaria, per sviluppare poi l’intermodalità. 36