Vita davanti alla cinepresa, la verità della finzione
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Vita davanti alla cinepresa, la verità della finzione
Corriere degli Italiani Mercoledi 13 novembre 2013 CULTURA 11 INTERVISTA A colloquio con il ticinese Niccolò Castelli, regista del lungometraggio Tutti giù Vita davanti alla cinepresa, la verità della finzione di Luca Bernasconi Tutti giù è intitolato il lungometraggio d’esordio di un regista che si è già fatto notare per aver realizzato alcuni documentari. Nella sua prima pellicola di finzione Niccolò Castelli (nella foto insieme a Lara Gut) si sofferma sulla realtà giovanile, cogliendola nella sua esuberanza e nella sua fragilità, nel suo impulso alla vita e nel suo spaesamento di fronte alle difficoltà dell’esistenza. In primo piano le vicende separate di tre giovani che lottano per sollevarsi da situazioni delicate che il destino ha riservato loro. Nel ruolo dei tre protagonisti figurano la sciatrice Lara Gut e gli attori Yanick Cohades e Nicola Perot. Prodotto da Imagofilm Lugano in coproduzione con la RSI, Tutti giù è stato presentato anche a Zurigo ed è ora disponibile in dvd. In quell’occasione abbiamo avuto modo di conversare con il giovane regista ticinese che ha spalancato le porte della sua officina creativa. Da che cosa nasce la sua passione per raccontare in immagini le realtà del mondo? Di sicuro so di non sapere l’origine precisa di questa mia passione. Infatti mi chiedo spesso come mai mi ritrovi a fare cinema, senza avere una risposta soddisfacente. Quello che so di certo è che mi piace raccontare storie. Ho iniziato a lavorare in radio e al tempo stesso giravo dei cortometraggi con il mio vicino di casa, situandomi sempre a metà strada fra parole e immagini. Un bel giorno ho messo insieme parole e movimenti, immagini, luoghi, geometrie e architetture: il cinema è una splendida somma di tutto questo. Mi ci trovo a mio agio perché posso lavorare su vari livelli: del suono e del suo montaggio, dell’evocazione di ambienti e dei contrasti – ad esempio, è affascinante poter mostrare un ambiente attraverso un’immagine e contemporaneamente suscitare qualcosa d’altro attraverso il suono. Per fare il regista bisognerà aver assimilato parecchio cinema, ma non solo. Come si riesce a trovare la propria voce sganciandosi dai maestri o dai modelli di riferimento? È un percorso molto personale che si basa principalmente sull’esperienza. Io non penso di fare un lavoro, io credo di esercitare una sorta di artigianato. Tutto quello che si assimila, dai film ai libri passando per le conversazioni, crea una sorta di humus dal quale bisogna sapere attingere. Un mio professore di estetica a Bologna era solito dire che siamo paragonabili ai buoi in quanto mangiamo l’erba del prato in cui ci troviamo: assimiliamo, ruminiamo e poi produciamo qualcosa di nuovo ma composto di ciò che abbiamo assimilato. Io non mi ritengo un sognatore o un inventore, ma semmai un ruminante che guarda la realtà in cui vive e l’emozione che la caratterizza per restituirla in un racconto cinematografico che non è necessariamente vero, ma costruito su una mia esperienza. L’importante è essere leali con le proprie emozioni e con il proprio punto di vista. La sfida è ogni volta quella di trovare il modo migliore per restituire la storia che si vuole raccontare. Il regista va alla ricerca di storie da trasformare in narrazione filmica o sono le storie a scegliere il regista? Nel mio caso sono le storie a imporsi. L’embrione di “Tutti giù” è infatti nato mentre stavo montando un cortometraggio. Ricordo che nel febbraio del 2008 mi trovavo in Val Bregaglia, dove in parte sono cresciuto, quando ho saputo del brutale pestaggio, dall’esito mortale, subìto da un ragazzo, di cui conoscevo l’entourage. All’indomani la sciatrice Lara Gut avrebbe tagliato il traguardo sulla pancia nella sua prima gara in coppa del mondo. Inoltre c’era un mio amico skater che stava lottando contro una malattia e al quale stavo molto vicino. Queste storie di miei coetanei finiti a gambe all’aria mi sono arrivate in contemporanea e mi hanno toccato così profondamente da aver iniziato a scriverle senza pensare che si sarebbero trasformate in un film. Sono queste vicende a essermi venute a cercare, dandomi l’impulso di essere raccontate. In generale alla base dei miei progetti vi è sempre una scintilla emotiva anche se in me prevale l’aspetto cerebrale: devo sempre capire perché una storia mi tocchi tanto. Analizzate le ragioni del mio coinvolgimento, inizia il vero processo di narrazione. Quali sono le tappe che trasformano una sceneggiatura, composta sostanzialmente di parole, in una narrazione anche visiva? Io chiamo questo affascinante processo “la seconda scrittura”. Si ritorna infatti a scrivere avvalendosi di immagini. In questa fase di elaborazione bisogna avere un’idea chiara su ciò che si vuole raccontare, conoscere profondamente la storia e i suoi personaggi, ma è pure necessario essere disponibili e aperti nei confronti di ciò che accade sul set. Ogni volta che giravamo una scena era un momento di scoperta perché succedevano cose impreviste e soprattutto mi rendevo conto che davanti alla camera la vita si crea: un’aggiunta significativa rispetto alla sceneggiatura. Il lavoro più grosso per un regista è quello di riuscire ad analizzare ciò che succede davanti alla camera e scegliere, pensando al film nel suo insieme, quei particolari momenti di vita ideali al racconto se inseriti nel contesto più ampio dell’intera storia. Tutto questo prima di arrivare all’ultima fase del processo creativo, ovvero il montaggio. Qual è il fascino e quali sono le responsabilità nello stare dietro alla cinepresa? Il più grande fascino coincide con la paura più grande. Il regista deve chiedere ai propri attori di mettersi a nudo davanti alla cinepresa, di mostrare le loro paure, i loro conflitti. Allo stesso tempo deve proteggerli quando chiede loro questo. Più un attore si spoglia e più riesce a calarsi nella parte attingendo alla profondità di se stesso - un processo che può risultare doloroso -, più riuscirà a raccontare delle emozioni. E il regista ha il dovere di chiedere tanto agli attori ma pure l’obbligo di difenderli, rassicurandoli che si tratta di una finzione, che le persone presenti sul set li guardano in quanto personaggi e che una volta usciti dalle riprese torneranno a indossare i loro panni. I personaggi creati sulla carta sono già vivi nella sua fantasia o lo diventano una volta che si materializzano attraverso gli attori in carne ed ossa? Sono già profondamente vivi nella mia immaginazione, altrimenti non riuscirei mai a fissarli sulla carta. Ovviamente risultano diversi da quelli che ritrovo in seguito sul set. Una delle domande che mi pongo più spesso quando scrivo è come reagirebbe veramente un determinato personaggio in una determinata situazione. Conoscere a fondo i propri personaggi è fondamentale perché, se davanti a una certa reazione fanno resistenza, significa che non sono autentici. Nel caso di “Tutti giù” le scene che ho scritto e poi eliminato già in fase di scrittura sono di gran lunga più numerose di quelle rimaste poi nella sceneggiatura definitiva. Questo perché ho messo nero su bianco una miriade di situazioni in cui i personaggi vivono e si muovono, utilissime per metterli a fuoco per me, non tanto per la narrazione finale. Terminata questa operazione, iniziano le riprese. Esse implicano un’ulteriore trasformazione delle figure di carta in quanto l’attore o l’attrice che interpreta un certo ruolo porta sul set il suo vissuto. Bisogna fare in modo di non tradire quanto è stato fissato nella sceneggiatura ma anche lasciare all’attore la libertà di portare il proprio bagaglio di esperienze. La magia del cinema consiste anche nella capacità di un volto di esprimere e di emozionare molto più di quello che figura sulla carta. Quando crea un film ha una meta precisa in mente o la si trova cammin facendo? Non ho la presunzione di suggerire agli spettatori risposte generali sulla vita. Mi piacerebbe però che lo spettatore si ponesse delle domande guardando un mio film. Le storie che scrivo partono da emozioni che ho vissuto e che mi hanno portato a chiedermi chi sono, che cosa faccio su questa terra e che cosa voglio fare della mia vita. Sarei contento se anche un solo spettatore, guardando il film, vedesse un aspetto della sua realtà sotto una nuova luce. È successo a un’amica di mia nonna, che incontrando gli skater per strada aveva sempre da ridire. Grazie al film li ha visti da una diversa prospettiva, cogliendo quel senso di amicizia che li lega. Il nostro mestiere non è utile, ma proprio per questo è bello. L’arte è utilissima nel suo essere inutile. Il film ha un’impronta precisa, sia perché ambientato in una Lugano riconoscibile, sia per la sua lingua marcatamente ticinese. Un valore aggiunto o un limite? Quella di ambientare la storia a Lugano è stata una decisione consapevole, presa mentre scrivevo la sceneggiatura. Con il produttore ci eravamo chiesti se fosse il caso di decontestualizzare la vicenda per renderla universale. Se lo avessimo fatto, ne sarebbe risultato un mondo che non esiste veramente e sarebbe andato contro il mio principio di essere leali e vicini alla realtà che si racconta. Come intende lei il concetto di verità applicato a un film? È una questione sulla quale rifletto di continuo perché la trovo fondamentale, ma non ho delle risposte esaurienti. Un criterio cui tengo moltissimo e cui accennavo poco fa, riguarda l’essere leali con la realtà che si intende raccontare in un film e che scaturisce da qualcosa che si è vissuto anche attraverso le emozioni. Lealtà non significa raccontare la verità perché di verità ne esistono infinite. Lealtà significa raccontare ciò che si prova nei confronti della storia narrata. Poco importa come lo si fa, l’importante è essere leali con se stessi, cercare di avvicinarsi il più possibile alle proprie sensazioni e intuizioni. Mi è capitato di vedere due film che affrontano la stessa tematica e di preferirne uno perché ho sentito che il regista era rimasto fedele alla sua verità, riuscendo a trasporla e a trasmetterla nel suo lavoro. I protagonisti di “Tutti giù” non sono propriamente degli attori navigati: Nicola Perot è agli inizi della carriera, Yanick Cohades ha fatto solo un paio di cortometraggi e Lara Gut non è nemmeno del mestiere. Com’è stato lavorare con loro? Per me è stato un grandissimo regalo. Il fatto che non siano dei professionisti li ha portati a credere nel film in maniera totale e a darmi piena fiducia. Pur consapevoli che in certe scene avrebbero dovuto soffrire, si sono lasciati andare completamente, così hanno compensato carenze tecniche e di esperienza con il loro vissuto e la loro umanità. Hanno avuto il coraggio di affrontare questo processo e a me ha fatto un piacere enorme poiché era esattamente ciò che cercavo, una sorta di esperienza più che interpretazione. Girare un film è un lavoro di squadra. Che tipo di regista è Niccolò Castelli sul set? Di conseguenza, ognuno darà il massimo nel suo campo per raggiungere l’obiettivo. Credo nella necessità di creare fin dall’inizio un clima disteso per poter lavorare bene insieme e arrivare alla meta al meglio. In fondo il ruolo del regista è quello di trasmettere in modo chiaro a ogni persona coinvolta nel film, non soltanto gli attori, ciò che vuole raccontare. Più dettagli riesco a dare loro, non tanto in termini di accadimenti ma a livello emotivo, più ognuno disporrà dei mezzi per dare il massimo nel suo campo e raggiungere l’obiettivo che ci siamo prefissati. Il secondo compito del regista è quello di capire quando il film, nel suo insieme, dà troppo o troppo poco. Prendiamo ad esempio una scena drammatica: se gli attori, lo scenografo, la costumista e il direttore della fotografiala hanno dato troppo, il risultato sarà una esagerazione che sa di fasullo. Bisogna quindi sfoltire, togliere, prosciugare, anche perché allo spettatore deve essere lasciata la possibilità di usare la propria mente e immaginazione per navigare dentro il film e aggiungere del suo. Che tipo di lavoro svolge in sala di montaggio una volta che tutto il materiale è stato riunito? Diciamo anzitutto che il montaggio rappresenta la scrittura finale del film. Al primo impatto provo sempre una forma di sconforto perché ho la sensazione che tutto sia un disastro, che nessuno capirà la storia e che il film non susciterà emozioni. Dopodiché ci si rimboccano le maniche e si inizia a elaborare il materiale raccolto: il montaggio è un grande lavoro di artigianato. Per me è indispensabile che all’inizio vi sia un distacco fra me e le scene girate perché sono troppo coinvolto. Per questa ragione affido il compito a un montatore di fiducia, nel caso di “Tutti giù” a Claudio Cea, il quale ha carta bianca. Lui ha la capacità di interpretare la mia visione e di saper ascoltare anche le sue di emozioni, e così inizia la sua prima versione di riscrittura. Una volta che ha proposto una prima bozza, la analizziamo con mente e pancia, andiamo alla ricerca dei problemi e iniziamo a trovare delle soluzioni. Uno dei lavori più grossi in sala di montaggio consiste nell’avere il coraggio di togliere: togliere una bellissima inquadratura che non è però funzionale al film, privarsi di alcuni minuti se il film risulta troppo lungo, tagliare una scena che sembrava indispensabile, e via discorrendo. Sono sempre decisioni durissime da prendere e che fanno male perché in tutto quel lavoro c’è sudore e passione, ma spesso è necessario sacrificare qualcosa. In tal senso poter lavorare con una persona come Claudio per me è indispensabile. Quali sono gli ingredienti che a suo avviso fanno un buon film? Se ci sono emozioni e lealtà nei confronti della vita, allora ci può essere un film. Davanti alla macchina da presa deve succedere qualcosa, deve esserci vita: se si sente l’artificio, il film non funziona. E questo accade solo quando ci sono i conflitti, quando i personaggi non sono solo buoni o solo cattivi, ma quando hanno paure, desideri, pregi e difetti, e lottano per la loro vita. Che cosa ha imparato sull’arte cinematografica realizzando il suo primo lungometraggio? Uno degli aspetti più interessanti che ho imparato è il fatto che bisogna avere molta fiducia e credere in ciò che si vuole raccontare. Al regista spetta il compito di raccontare una vita che si svolge sotto ai suoi occhi. Ho anche imparato ad ascoltare nel modo giusto le altre persone che partecipano al film, ovvero a capire quali sono i problemi che mi pongono e le migliori soluzioni proposte dalla crew. Un’altra importante lezione riguarda la capacità ricettiva e interpretativa degli spettatori. Come dicevo prima, al pubblico non va spiegata ogni cosa perché sa usare perfettamente la propria testa. Fatto il primo lungometraggio, come affronterà il prossimo film? Mentre stavo iniziando a girare “Tutti giù”, ho vissuto un’esperienza molto forte, accaduta vicino a me, che ho capito avrei voluto raccontare. Per poter realizzare una seconda pellicola, ciò che devo lasciarmi alle spalle non è il primo film in sé, ma il processo di elaborazione che l’ha accompagnato. Lavorare a “Tutti giù” ha consumato molte energie emotive, mi ha stancato, mi ha fatto soffrire - una bella sofferenza, intendiamoci - perché mi sono messo a nudo per capire alcuni miei lati, anche negativi, lati che hanno impregnato i personaggi del film. Ora mi tocca liberarmi di tutto questo e fare il prossimo passo. Ovviamente scoprirò altri aspetti di me che mi faranno soffrire, stancare, penare, ma sarà un’avventura nuova. Nel suo curriculum figurano alcuni cortometraggi, un lungometraggio e vari documentari. Quali sono le linee guida nella realizzazione di un documentario? Nel fare un documentario, attività che mi stimola molto, c’è un rapporto diverso con il personaggio che si trova davanti alla cinepresa perché non interpreta una storia scritta da me, ma restituisce la sua vita o il suo ambiente a me che - come per la finzione - devo essere leale con ciò che provo nei suoi confronti. È un rapporto di fiducia estrema, e molto arricchente, fra me e il protagonista. Bisogna instaurare un rapporto paritario, potenziare la propria curiosità perché non posso pensare di sapere tutto di quella persona, ma d’altro canto non devo nemmeno subire ciò che quella persona mostra davanti alla camera. Il risultato è uno sguardo molto personale su un determinato mondo. In sala di montaggio cerco di essere leale nel raccontarlo, ovvero restando fedele al modo in cui l’ho vissuto. Nel film di finzione la lealtà è già presente nella sceneggiatura perché le emozioni vengono vissute prima di iniziare a girarlo, nel documentario scaturisce quasi tutta in fase di montaggio.