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cliccando qui - Socrate al Caffè per la cultura e la conversazione civile

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cliccando qui - Socrate al Caffè per la cultura e la conversazione civile
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Numero settantasette – Maggio 2012
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te.i
Mensile di cultura e conversazione civile diretto da Salvatore Veca
Direttore responsabile Sisto Capra
INTERVISTA IMPOSSIBILE
Politica
Parola da riscoprire
GIOVANNA CORCHIA
A pagina 12
Il testamento biologico
secondo i Valdesi
MONICA FABBRI
A pagina 13
Gandhi
e i Tessitori della Pace
SISTO CAPRA
da pagina 2 a pagina 11
SIMONETTA CASCI
A pagina 14
Ricerca iconografica
PINCA-MANIDI PAVIA FOTOGRAFIA
“Caro Socrate, c’è una
domanda che mi gira per
la testa da qualche tempo. Mi chiedo: perché i
giornali ci riempiono ormai settimanalmente di
offerte di ‘classici’? Clas-
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
A Beirut…
10 anni
dopo
GIORGIO FORNI
PAGINA 15
sici della letteratura, della poesia, della filosofia,
della scienza, e chi più
ne ha più ne metta. Che
senso ha tutto ciò, mio
saggio amico?”. “Lo sai
bene che ho sempre avuto una certa passione
perversa per le domande, diletto Glaucone. Ma
questa mi sembra piuttosto strana. E poi, perché
chiedere proprio a me di
sciogliere l’enigma? Di
giornali non me intendo
granché, dopo tutto. Il
mio imbarazzo potrebbe
essere pari al tuo. E staremmo lì, tutti e due, imbarazzati e assorti, ad
aspettare da un qualche
oracolo uno straccio di
risposta”. “Ma tu sei un
classico, caro Sileno. Mi
sembrava una ragione
più che sufficiente per
rivolgermi a te,
nell’imbarazzo.”
“Glaucone, lo sai altrettanto bene che non ho
mai scritto una riga in
vita mia. Già non mi è
La luce dei classici
nel buio dell’oggi
di SALVATORE VECA
andata alla grande al
processo, avendo solo
parlato e chiacchierato
molto. Figurati se avessi
scritto.” “Ma tu sei un
classico. Non puoi negarlo. È vero, lo sei per
quello che altri hanno
scritto nei secoli a proposito di te e di ciò che tu
hai detto nella interminabile conversazione umana. Ma non c’è dubbio
sul fatto che tu sia un
classico. Devo forse
concludere che oggi sei
un po’ pigro e semplicemente non ti va di metterti alla prova con la
sfida dell’ennesima domanda?”. “E va bene,
Glaucone. Anche se il
tuo argomento ha un
la Feltrinelli a Pavia,
in via XX Settembre 21.
Orari:
Lunedì - sabato 9:00-19:30
Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30
sapore lievemente da
sofista, o forse proprio
per questo, mi viene voglia di cercare con te
una risposta alla strana
domanda. Sei convinto
che quelli che voi chiamate classici, non lo sono sempre stati ma lo
sono divenuti nel tempo?” “Certo, Socrate,
come potrebbe essere
altrimenti?” “Allora dovremo riconoscere che il
classico è qualcosa, un
pensiero, un testo,
un’opera, un’icona, che
ha superato la prova e la
sfida evolutiva della durata. Qualcosa che ci
illumina ancora, anche
se da distanze siderali,
come fa la luce delle
stelle ormai morte nella
grande volta del cielo
con tutti i suoi epicicli.”
“È vero, Socrate, anche
lasciando in pace Tolomeo.” “E allora, Glaucone, chiediamoci perché e
quando è bene per noi
cercare la luce?”.
“Quando il nostro andare
e viaggiare nel mondo è
minacciato dal buio. E
rischiamo di perderci,
senza più saperci orientare nel guazzabuglio.”
“Glaucone, lo senti che
le nostre idee cominciano a connettersi felicemente nella ricerca della
risposta? Come puoi
parlare di buio, in un
tempo in cui le scienze
guadagnano di continuo,
a grandi falcate, risultati
luminosi e benefici per i
nipotini di Prometeo? Di
quale altra luce abbiamo
mai bisogno?”. “Hai ragione, Sileno. Adesso
non so più come risponderti. Anche se lo so che
c’è qualcosa che non
torna nel mio modo di
pensare.” “Glaucone, il
punto è che sappiamo
sempre meglio come
sono le cose, e com’è
fatto il mondo, e come
usare al meglio
l’arsenale dei mezzi che
ci è disponibile. Ma siamo incerti e perplessi sui
fini degni di essere perseguiti. Il buio investe lo
spazio dei nostri modi di
vivere e convivere. Forse, per questo, abbiamo
bisogno dei grandi repertori di esperimenti e progetti di convivenza consegnati, nel tempo, ai
classici della nostra e di
altre tradizioni.” “Vuoi
dire che negli uffici marketing della stampa sanno tutta la faccenda
dell’opacità dei fini?”.
“Non esageriamo, caro
Glaucone. Basta che lo
facciano, anche non
sanno bene perché lo
fanno.” Parola di Socrate.
Numero settantasette - Maggio 2012
Pagina 2
VITTORIO NECCHI
INTERVISTA IMPOSSIBILE
Quarant’anni fa Pavia era il secondo capoluogo lombardo per
numero di imprese industriali.
C’erano la Necchi, la Snia, le Officine Meccaniche Moncalvi, la
Carlo Pacchetti, le cartiere Pirola,
la Neca, la Magneti Marelli, la Cattaneo e altre ancora.
Di tutti i capitani d’industria pavesi, Vittorio Necchi (1898-1975)
è stato il più illustre. Creò un mo-
dello, un esempio, un’epopea.
“Il giornale di Socrate al caffè”
vuole ricordarlo con una
“intervista impossibile”. Anche
per sostenere una causa.
Ci uniamo ad Agostino Faravelli
e al gruppo di cittadini ed exdipendenti che nel novembre
2010 ha proposto al sindaco Alessandro Cattaneo di intitolare a
Vittorio Necchi la rotonda di Bor-
go Calvenzano. È giusto ricordare, nell’età della rovinosa deindustrializzazione, un imprenditore
che fece grande la città di Pavia.
Finora la Giunta Cattaneo ha taciuto: speriamo che voglia colmare questa lacuna.
L’ “intervista impossibile” trova il
suo alimento nel bel volume Vitto-
rio Necchi, ricordi di un grande
uomo e di una grande ditta, edito
nel 2010 da Agostino Faravelli e
da Delta 3, aperto dalla presentazione di Carmine Ziccardi (sotto,
la copertina).
Faravelli è stato impiegato alla
Vittorio Necchi dal 1948 al 1963,
fa parte del gruppo “Amis dal dialèt” del Circolo Culturale Pavese
“Il Regisole” e ha scritto testi in
lingua e in dialetto per il teatro
dilettantistico pavese.
di SISTO CAPRA
«Dove sono le biciclette? Dove sono
gli operai? Dove sei
Gino? E tu Maria,
mia governante? E
tu Fredo, mio maggiordomo? E tu Geni, mio autista? Oh
cara Lina, adorata
Lina, non c’è più
nessuno, nessuno.
Tutto è perduto, tutto dimenticato qui
in via Rismondo.
Non ci restano nemmeno le lacrime.
Pavia, Pavia, che
cosa hai fatto!».
L’uomo, il Commendatore, il Cavaliere
del Lavoro piangeva
in silenzio nel piazzale di via Rismondo. Vittorio Necchi
era tornato 36 anni
dopo a rivedere la
sua fabbrica, la Vittorio Necchi Spa, la
mitica industria da
lui fondata che aveva fatto di Pavia la
capitale mondiale
delle macchine per
cucire. Era nato nel
il 21 novembre 1898
ed era morto il 17
novembre 1975. E
non aveva nulla da
vedere, perché semplicemente non
c’era più nulla. La
Fabbrica non esisteva più. Le fabbriche non c’erano
più. «Mi avevano
avvertito - mormorava - che avrei trovato il deserto della
cultura industriale.
Volevo rendermi
conto di persona. È
come se oggi morissi di nuovo». Vittorio Necchi aveva
accettato di buon
grado la proposta
del “Giornale di Socrate al caffè” di
rievocare la sua irripetibile epopea industriale ed era tornato. «Su, avanti, mi
interroghi pure, prima che il tempo del-
la mia licenza sia
trascorso. Non credo che la mia testimonianza servirà a
qualcosa, se non a
risvegliare tramon-
Quali erano le origini
del Suo cognome?
Necchi
era tipico delle
zone di Pavia e di Milano
originato dal latino
Nequus (iniquo). Potrebbe anche discendere dal soprannome
dialettale legato al
vocabolo milanese
Gnecch (svogliato).
E le origini
della
Sua famiglia?
Già
IL PADRE DI VITTORIO,
AMBROGIO NECCHI.
IN ALTO, DUE MODELLI
DI MACCHINA PER CUCIRE NECCHI
(L’ANTICA E LA MODERNA)
ed esisteva la variante
Necco nel Piemonte. Si
faceva derivare dal nome
tardo medievale Nechus,
dal 1835 noi
Necchi figuriamo nelle cronache pavesi
legati a una azienda
commerciale e artigiana di ferramenta.
Questa azienda era del
mio bisnonno Ambrogio
(1802-1874), passata poi
nel 1874 al nonno Giuseppe (1832-1900) e poi
a mio padre Ambrogio
(1860-1916, Cavaliere
del Lavoro dal 1° dicembre 1912). Agli inizi del
secolo la fabbrica era in
corso Cairoli 3 e occupava 150 operai. Eseguiva
costruzioni meccaniche,
macchine agricole e ave-
Il giornale di Socrate al caffè
Direttore Salvatore Veca
Direttore responsabile Sisto Capra
Editore: Associazione “Il giornale di Socrate al caffè”
(iscritta nel Registro Provinciale di Pavia delle Associazioni senza scopo di lucro, sezione culturale)
Direzione e redazione via Dossi 10 - 27100 Pavia
0382 571229 - 339 8672071 - 339 8009549 [email protected]
Redazione: Mirella Caponi (editing e videoimpaginazione), Pinca-Manidi Pavia Fotografia
Stampa: Tipografia Pime Editrice srl via Vigentina 136a, Pavia
Comitato editoriale: Paolo Ammassari, Silvio Beretta, Franz Brunetti, Davide Bisi, Giorgio Boatti,
Angelo Bugatti, Claudio Bonvecchio, Roberto Borri, Roberto Calisti, Gian Michele Calvi, Mario Canevari,
Mario Cera, Franco Corona, Marco Galandra, Anna Giacalone, Massimo Giuliani, Massimiliano Koch,
Isa Maggi, Arturo Mapelli, Anna Modena, Alberto Moro, Federico Oliva, Davide Pasotti, Fausto Pellegrini,
Aldo Poli, Vittorio Poma, Paolo Ramat, Carlo Alberto Redi, Antonio Maria Ricci, Giovanna Ruberto,
Antonio Sacchi, Dario Scotti.
Autorizzazione Tribunale di Pavia n. 576B del Registro delle Stampe Periodiche in data 12 dicembre 2002
Ecco dove viene distribuito gratuitamente
“Il giornale di Socrate al caffè”
va una fonderia di ghisa.
Nel 1904 l’attività si trasferì nel nuovo stabilimento costruito dietro la
stazione
ferroviaria
(luogo dove resterà anche quando diventerà
Neca). Qui cominciò la
produzione di radiatori
per termosifoni che durerà quanto la vita
dell’azienda. Si producevano anche vasche da
(Continua a pagina 3)
Numero settantasette - Maggio 2012
Pagina 3
VITTORIO NECCHI
(Continua da pagina 2)
bagno in ghisa e fu allestita di conseguenza una
smalteria a caldo in una
nuova area adiacente a
via Trieste.
Lei quando nacque?
Il
21 novembre 1898. Il
mio primo cognome era
Carcano perché così
venni
registrato
all’anagrafe. Ebbi il mio
vero cognome solo
quando mio
padre e mia
madre Emilia Carcano
(1870-1953)
si sposarono. La mia
famiglia era
agiata e non
ebbi
una
fanciullezza
difficile. Ricordo un episodio. Avendo avuto
in regalo da
un prozio,
verso i dodici anni, una
carabina
Flobert, mi
divertivo a
sparare
a
quei bianchi
isolatori di
porcellana
che
allora
stavano in
g r a n d e
quantità sui
pali telefonici per sostenere i cavi,
rompendone parecchi!
Chissà se si trattava di
semplice monelleria oppure se già emergevano
in me gli istinti del cacciatore che diventai da
grande. Frequentai le
scuole senza problemi,
elementari, medie, liceo
e mi iscrissi alla facoltà
di Legge. Ma non ebbi il
tempo di frequentare
l’ateneo. Nel 1916 persi
mio padre a soli 56 anni
e, diciottenne, mi trovai
con la mamma e con le
mie sorelle Gigina e
Nedda a dover gestire una difficile eredità.
Poi fu chiamato alle
armi.
La
conduzione
dell’azienda venne affidata a un amministratore, il ragionier Giorgi. Ebbi però la possibilità di
essere assegnato al Nono Reggimento Artiglieria
di stanza nel Castello Visconteo e per alcuni mesi potei così essere an-
INTERVISTA IMPOSSIBILE
cora vicino alla famiglia e
all’azienda. Facevo parte
di un gruppo di tecnici
che conducevano prove
sull’impiego strategico di
un mezzo di artiglieria
nuovo: un cannone montato su autocarro per rapidi spostamenti, il
“Camion cannone” costruito dall’Ansaldo nel
1916. Lo sfondamento
del fronte a Caporetto,
nell’ottobre del 1917, costrinse lo Stato Maggiore
dell’Esercito a raccattare
tutte le
forze disponibili
per arginare il
nemico
e anche
il reparto prove
del Nono Artiglieria
fu inviato
al
fronte.
Ero tenente,
mi feci il
resto
della
guerra
e
mi
congedai capitano.
In guerra feci
una co-
noscenza che poi si rivelò importante.
Chi?
L’allora capitano Cesare
Merzagora (1898-1991),
che si era arruolato vo-
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Perito della Camera di Commercio di Pavia dal 1988 C.T.U. del Tribunale di Pavia
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lontario nel 1915 negli
Arditi
sull’Isonzo.
L’amicizia con il milanese Merzagora, a guerra
finita, mi portò in un giro
di giovani industriali fra i
quali Adriano Olivetti, Vittorio Cini, Gaetano Marzotto, Giuseppe (Pinin)
Farina. Merzagora sarebbe
diventato
nel
1938 direttore generale
della Pirelli, quindi altissimo esponente della
Democrazia Cristiana,
nel 1953 presidente del
Senato e dal 1963 senatore a vita. In questo periodo conobbi a Milano
Arnaldo Mussolini, fratello del futuro duce, che
nel 1922 aveva assunto
la direzione del “Popolo
d’Italia” in sostituzione
del fratello.
E trovò moglie.
Non
potevo godermi la
gioventù. La perdita prematura di papà, le responsabilità nei confronti
della famiglia, i problemi
che derivavano dalla
condirezione della fabbrica con mio cognato Angelo Campiglio, marito di
Gigina, con il quale non
andavo d’accordo sulle
strategie aziendali, non
mi lasciavano spazio per
una spensierata giovinezza. Oltretutto ero timido e non avevo facili rapporti con le donne: al
momento di pensare al
matrimonio
conobbi
l’unica donna della mia
vita: Lina Ferrari, figlia di
un insegnante elementare di Parma, di idee socialiste e per questo confinato dal regime a insegnare in Trentino. Per la
famiglia Ferrari a Parma
la vita era difficile, Lina si
era inserita nel mondo
del teatro: era la vedette
di un avanspettacolo che
andava per la maggiore.
Fu a Pavia al Kursaal
che la vidi. Mi fu presentata, su insistenza di mia
madre, da una comune
amica pavese. In breve
giungemmo al matrimonio.
gosto 1961.
Visto che conosceva
Merzagora, si occupava di politica?
Non presi mai parte alla
vita politica attiva, ero di
dichiarate simpatie mo-
Che tipo
era Lina?
Una
vera
donna
di
classe, una
vera padrona di casa,
impeccabile
nelle molteplici occasioni
che
ebbe di ricevere ospiti importanti per le
nostre relazioni sociali. Fu lei
che mi suggerì,
nel
1925, l’idea
di separarmi dal cognato e di
buttarmi
RITAGLI DI GIORNALI D’EPOCA.
con deciNELL’OVALE, LA MOGLIE LINA FERRARI.
sione sulla
IN ALTO A SINISTRA, LA FONDERIA DI CORSO
CAIROLI 3; A DESTRA, LA FABBRICA AGLI INIZI
piccola fabbrica
per la
c o struzione di macchine narchiche e votai per la
per cucire che io, pur o- monarchia anche nel resteggiato dalla famiglia, ferendum del 2 giugno
avevo avviato nel 1919. 1946; avevo accettato il
Lina amava la musica li- fascismo in quanto avrica, non mancava mai u- vallato da Casa Savoia.
na prima alla Scala; con- Le sorelle Nedda e Gigitribuiva con il suo buon na già dal 1924 si erano
gusto agli allestimenti e iscritte al Fascio Femmiagli arredi delle nostre nile, facendo una precisa
residenze. Non avemmo scelta di campo. Naturalfigli e questo fu il più mente, come fecero altri
grande cruccio. Morì do- industriali del tempo, utipo breve malattia il 19 a(Continua a pagina 4)
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Pagina 4
Numero settantasette - Maggio 2012
VITTORIO NECCHI
INTERVISTA IMPOSSIBILE
Con la Confindustria
i miei rapporti erano
tutt’altro che idilliaci
Avevo aumentato
le retribuzioni ...
Decisi di puntare
sulle macchine
per cucire, anche se
questo mi costò
la rottura in famiglia
A SINISTRA, LA GALLERIA CENTRALE INTERNA IN UNA DELLE FONDERIE NECCHI
A PAVIA NEGLI ANNI VENTI.
SOPRA, OPERAI IN FONDERIA.
SOTTO, UNA VEDUTA DEGLI STABILIMENTI NECCHI DEI PRIMI ANNI.
NELL’ALTRA PAGINA, IN ALTO , DOPO UNA BATTUTA DI CACCIA
ALLA PORTALUPA, LA VILLA NELL’IMMAGINE
(Continua da pagina 3)
lizzai i mezzi e le persone che il regime poteva
offrire per lo sviluppo delle aziende. Il veicolo più
efficace fu l’autarchia imposta dal governo: l’Italia
doveva ridurre al massimo le importazioni. Quale occasione migliore per
lanciare le macchine per
cucire nel mercato italiano fino ad allora dominato dalle aziende americane e tedesche (Singer e
Pffaf)! Coniato lo slogan
“Il prodotto Italiano ha
nome Italiano”, fu assai
più facile conquistare il
mercato.
Indossava la camicia
nera?
Nelle
occasioni ufficiali
si doveva indossare camicia nera, fez e orbace.
Chiamavo la divisa fascista “il vestito da operetta”. La più nota occasione fu la visita di Mussolini con la moglie Rachele
agli stabilimenti di via Rismondo nel 1938. La riserva di caccia nella tenuta di Portalupa era una
grande possibilità per avere ospiti importanti sia
del regime che del mondo industriale. Ogni volta
che un gerarca o un alto
funzionario fascista arrivava a Pavia per ragioni
politiche, era quasi
d’obbligo essere miei ospiti per una battuta di
caccia. Ospiti frequenti
erano Arnaldo Mussolini
e Cesare Merzagora e,
attraverso questi, Italo
Balbo, presunto delfino
di Mussolini, Attilio Terruzzi, il Maresciallo
d’Italia Pietro Badoglio.
Le visite di Umberto di
Savoia e della moglie
Maria Josè erano quasi
abituali, non solo a Portalupa ma anche nella riserva di pesca di Cogne.
Il Duce, invece, non accettò mai l’invito a caccia: affermava che le armi dovevano avere un
impiego più consono ai
destini della Patria! Dopo
l’8 settembre 1943, proprio perché di fede monarchica, non godetti di
alcuna simpatia né tra i
neofascisti né presso i
tedeschi e dovetti allontanarmi da Pavia. Andai
a vivere a Barasso, un
paesino sopra Varese, in
casa di Gigina e di Angelo Campiglio e vi rimasi
fino alla fine della guerra.
Nel dopoguerra non mi
interessai di politica, salvo mantenere la salda amicizia con Cesare Merzagora.
Tracciamo ora il Suo
profilo come industriale.
Che
fossi un industriale
di razza l’avevo già dimostrato lanciando la
fabbrica di macchine per
cucire (I.R.I., Industrie
Riunite Italiane) contro
l’idea della famiglia di gestire e sviluppare la fonderia di papà, che già
dava ottimi risultati. Sostenuto anche da mia
moglie, nel 1925 arrivai a
un compromesso con la
famiglia: alle sorelle, con
Angelo Campiglio, andarono le fonderie di ghisa
e le smalterie, io mi tenni
la fabbrica di macchine
per cucire. Libero da ogni necessità di discutere
e di mediare con altri ogni mia decisione, potei
così scatenare tutta la
mia voglia di fare. Riuscii
a smentire i famigliari,
non solo conquistando il
mercato italiano ma sviluppando un’azienda di
valore mondiale. Il 27 ottobre 1935 ebbi, per nomina reale, il titolo di Cavaliere del Lavoro per i
meriti acquisiti nel campo
dell’industria meccanica.
Come furono i suoi
rapporti con la Confin-
dustria?
Non proprio idilliaci. Ero
considerato con sospetto, come se fossi una
scheggia impazzita. Ero
solito dire, a chi si lamentava per le troppe
spese per il personale,
che la retribuzione delle
200 ore (la gratifica natalizia, come si chiamava
allora la tredicesima
mensilità) sarebbe stato
giusto e conveniente erogarla almeno due/tre volte all’anno, poiché questi
soldi sarebbero usciti
dalla porta ma sarebbero
(Continua a pagina 5)
Pagina 5
Numero settantasette - Maggio 2012
VITTORIO NECCHI
INTERVISTA IMPOSSIBILE
Amavo le automobili
e con una fuoriserie
andai a Roma alle
nozze della figlia di
Cesare Merzagora
(Continua da pagina 4)
subito entrati dalla finestra: i dipendenti li avrebbero potuti spendere,
muovendo sensibilmente
i consumi e il mercato.
Per certe orecchie questa era musica stonata.
Ecco cosa scriveva di
me Indro Montanelli nel
libro “Gente qualunque”:
«…il capitalismo che Vittorio impersona è alquanto diverso da quello
che viene raffigurato nei
libri dai suoi apologeti e
dai suoi detrattori… e via
via che mangiavamo, egli mi parlava di un grande progetto che veniva
sviluppando nella sua
mente in favore dei dipendenti che andavano
in pensione…». Montanelli si riferiva alla mia idea di istituire un vitalizio
di diecimila lire mensili
per integrare la pensione, già allora piuttosto
magra, per i dipendenti,
specialmente per quelli
di basso livello. Realizzai
il progetto nel 1955.
Quando i miei uomini migliori cominciarono a capire che la macchina per
cucire non avrebbe potu-
to avere un futuro e prospettarono la necessità di
avviare produzioni alternative, io,
già stanco e non
più in salute, mi
trovai in disaccordo con loro. È
di quei tempi la
mia frase: «La
Necchi è nata
con le macchine
per cucire e con
le macchine per
cucire morirà!».
Acconsentii, tuttavia, agli accordi
con gli americani
della Kelvinator
per produrre i
compressori ermetici per frigoriferi.
Quali erano le
Sue abitudini?
Benché gli affari si svolgessero ormai in tutto il
mondo, non amavo viaggiare e delegavo i miei
collaboratori a rappresentarmi. Tuttavia, quando era necessaria la mia
presenza, il mezzo di tra-
sporto che utilizzavo era
l’auto, anche per lunghi
viaggi, (Roma, per esempio); raramente usavo il
vagone letto e ripudiavo
l’aereo. Amavo guidare
da me l’auto, seppure
con l’autista seduto di
fianco. La passione per
le auto mi portò a posse-
derne molte e di vario tipo. Dalla Fiat 501 nel
1919, alla lussuosa Isotta Fraschini 8 A del
1923; nel 1949 mi presi
il capriccio di acquistare
una Fiat 1100 S (sport tipo Mille Miglia), con la
quale
giornalmente
sfrecciavo da Portalupa,
dove risiedevo, alla fabbrica di via Rismondo.
Nel 1955, spinto da chi
riteneva che un industriale come me dovesse distinguersi con un’auto
social simbol, acquistai
una lussuosa auto americana, una Oldsmobile di
5000 cc. di cilindrata, io
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che non avevo mai, per
principio, abbandonato il
prodotto nazionale. Questa macchina era dotata
di cambio automatico,
ancora poco diffuso da
noi. La usai per la prima
volta per recarmi a Roma
al matrimonio della figlia
di Merzagora. Guidai
personalmente per tutto
il viaggio per gustarmi il
mio nuovo gioiello ma,
ahimè,
pagai
l’inesperienza nell’uso
del cambio automatico. Il
motore si surriscaldò oltre misura e mi trovai a
Roma con l’auto inutilizzabile. Ci volle una lauta
mancia agli addetti di
un’autofficina perché lavorassero tutta la notte
per consentirmi di presenziare l’indomani alla
cerimonia con l’auto americana. Amavo allevare canarini, e questo per
pura passione. A tal proposito ricordo ancora ciò
che scriveva Montanelli:
«… e del capitalismo mi
mostrò solo uno dei lati
più simpatici: una mensa
imbandita con varietà e
dovizia, pur senza pericoli di indigestione, un
buon vinello, un eccellente caffè… si sentì una
specie di trillo che veniva
dall’altra stanza. Il commendatore tacque di colpo, … poi “Non si meravigli” disse “ sono i miei
canarini… sono care be(Continua a pagina 6)
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Numero settantasette - Maggio 2012
VITTORIO NECCHI
INTERVISTA IMPOSSIBILE
La benemerenza più
gradita fu quella
concessami dalla
città di Pavia
Laurea honoris causa
GRUPPO DI DIPENDENTI CACCIATORI DOPO UNA BATTUTA NELLA RISERVA DELLA
PORTALUPA. SONO RICONOSCIBILI: AL CENTRO, IN BORGHESE, GINO GASTALDI,
CONSIGLIERE DELEGATO DELLA SOCIETÀ, E PIERLUIGI ORLANDI,
IL QUARTO IN PIEDI DA SINISTRA, AMMINISTRATORE DELLA TENUTA DI PORTALUPA
(NELLA FOTO IN ALTO)
(Continua da pagina 5)
stiole…Mi fa un tale piacere sentire i canarini vicino a me …” e aveva la
voce commossa. Però
questo capitalismo con i
canarini, chi lo direbbe?». Un’altra mia passione poco nota era la
coltivazione delle orchidee, novello Nero Wolf.
Ottenni anche ottimi risultati in mostre importanti, fra cui l’esposizione
mondiale del fiore di Genova, nel 1958.
Lei ottenne molte benemerenze.
Sì
molte. Ho già detto
del titolo di Cavaliere del
Lavoro il 27 ottobre
1935; nell’aprile del 1940
fui insignito del titolo di
Grand’Ufficiale della Corona d’Italia. Ma certamente il riconoscimento
che più apprezzai, per-
ché
veniva
da
un’istituzione della mia
città, fu il conferimento
da parte dell’Università di
Pavia e del Rettore Magnifico Plinio Fraccaro
della laurea in fisica honoris causa nel 1955. La
città di Pavia, nel 1962,
mi proclamò Cittadino
benemerito, fondatore
della grande azienda che
porta il suo nome, nota e
apprezzata in tutto il
mondo, per aver contribuito in modo determinante allo sviluppo economico e al progresso
della Città. Nel 1963 ricevetti dall’Università di Pavia una medaglia di benemerenza.
Nel 1950, intanto, si era ammalato?
Alla fine dell’anno venni
ricoverato al San Matteo
per una calcolosi epati-
ca. Operato dal professor Morone, la mia degenza andò per le lunghe e in azienda si temette il peggio. Ma mi ristabilii completamente.
Ricordo che, quando
rientrai in azienda, i
5.200 dipendenti si riunirono davanti alla portineria per salutarmi. Fu una
grande dimostrazione di
affetto. Nel corso del
1972 si manifestò un dolore alle gambe e cominciai a camminare con difficoltà. La mia presenza
in azienda andò pian piano diradandosi. Non così
invece per le abituali battute di caccia: mi ero fatto allestire un sedile girevole nella parte posteriore della Campagnola Fiat
e con quel mezzo continuai ancora per qualche
tempo a frequentare la riserva. La malattia progrediva: si trattò all’inizio
di artrosi, aggravata dal
sovrappeso, poi si aggiunsero complicanze
flebitiche e infine il diabete. Il quadro clinico era
aggravato dalla difficoltà
respiratoria per essere
stato un accanito fumatore. Fui ricoverato in varie
riprese nella clinica San
Raffaele di Milano, dove
l’ultima degenza si protrasse per quasi un anno. I medici, per un ultimo tentativo di prolungarmi la vita avevano
p r o g r a m m a t o
l’amputazione di una
gamba, ma alla vigilia
dell’intervento il 17 novembre 1975 morii. Avrei
compiuto 77 anni quattro
giorni dopo. L’annuncio
pubblico avvenne ad esequie avvenute, il 19
novembre. I funerali si
svolsero nella tenuta di
Portalupa, nella chiesetta
che che avevo voluto per
i dipendenti. Erano presenti: il personale di ca-
sa, i lavoratori della azienda agricola e i loro
famigliari. Per rappresentare la Ditta erano presenti Luigi Bono e Giuseppe Luraghi, che dopo
la sua clamorosa uscita
dall’Alfa Romeo era entrato nel consiglio
d’amministrazione della
Vittorio Necchi insieme a
Nedda Necchi, Reno
Ferrata e al Bono stesso.
Pavia l’ha dimenticata,
non ha nemmeno trovato il modo di onorarLa nella toponomastica.
Ebbene
sì. Come si dice, nemo propheta in patria. Il colmo fu una notizia che uscì sul “Corriere
della Sera” del novembre
2002. Recitava: “Il Comune ha dimenticato Vittorio Necchi, fondatore
della più importante fab-
brica pavese, lasciando
al buio la sua tomba nel
Cimitero Maggiore perché nessuno, visto che
non ci sono eredi, ha mai
pagato il canone per i
servizi cimiteriali. Nei
giorni scorsi alcuni ex operai dell’azienda di Pavia, che per Ognissanti
avevano deciso di deporre fiori sulla tomba
dell’imprenditore pavese,
hanno scoperto con incredulità che la cappella
non era più illuminata.
Pensando ad un guasto
elettrico, hanno chiamato
il custode, il quale ha
spiegato che la lampada
votiva era stata staccata
perché nessuno pagava
per il servizio (10 €
all’anno!). Il caso è già
arrivato in consiglio comunale. «Il Comune conferma l’assessore ai
Servizi cimiteriali - ha
studiato un piano di inter(Continua a pagina 7)
Numero settantasette - Maggio 2012
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VITTORIO NECCHI
(Continua da pagina 6)
vento per le cappelle storiche del Cimitero Maggiore, lunedì presenteremo il progetto per il restauro delle tombe dei
Garibaldini, mentre presto sia la cappella della
famiglia Necchi sia quella del premio Nobel Camillo Golgi saranno rimesse a nuovo»”.
Apriamo ora il capitolo
sioni d’estate e le sciate
d’inverno, la Bocciofila,
la quadra di calcio, il
Necchi club per gli appassionati di teatro, il
Gruppo Vogatori Necchi
Ticino, una Compagnia
teatrale verso la metà
degli anni ‘50, il Gruppo
Cacciatori alla riserva di
caccia della Portalupa.
Sponsorizzai la Pallacanestro Necchi Pavia, che
dal ’55 al ‘58 militò nella
INTERVISTA IMPOSSIBILE
c’erano due ingegneri di
alta levatura: Emilio Cerri, che veniva dalla Fiat,
per il settore Macchine
per cucire, e Antonio
Beccalli, grande tecnico
metallurgico, anche lui
proveniente dalle fonderie Fiat-Lingotto, per il
settore Fonderia. Cerri
nel 1938 progettò e brevettò il sistema di cucitura a zig-zag. Vincendo la
mia ritrosia ad assumere
parte dei suoi rapporti finanziari. Si era creato
così un circolo virtuoso: i
risparmi dei pavesi, derivati in larga misura dal
reddito dei dipendenti
Necchi, affidati alla Banca del Monte rientravano
così ad alimentare
l’economia locale. Tutto
l’apparato che gestiva la
parte finanziaria era stato affidato ad un amministratore di razza: France-
do a esportarne più di 10
mila, e circa 5 mila tonnellate di ghisa. Per i primi tre anni di guerra il
mercato italiano non subì
grandi flessioni: nel paese servivano divise militari per l’esercito, nelle
famiglie si acquistavano
macchine per cucire per
permettere alle donne di
avere queste commesse
e compensare la mancanza di reddito per la
delle attività assistenziali alla Necchi.
grandezza che Lei scelse nel 1948 fu
l’ingegner Gino Martinoli.
Martinoli
lo scelsi come
direttore generale tecnico con il compito di sviluppare la produzione
per fronteggiare le richieste del mercato nazionale in espansione e so-
VILLA NECCHI ALLA PORTALUPA.
SOPRA A SINISTRA, 1936: LA CONSEGNA DEI PACCHI DONO NATALIZI
AI DIPENDENTI NECCHI.
A DESTRA, VEDUTA AEREA DELL’INTERO COMPLESSO NECCHI A PAVIA
NEGLI ANNI ‘70
Sicuramente
il più apprezzato fu il FAI (Fondo
assistenza interno), istituito l’11 maggio 1944)
che garantiva l’intera retribuzione in caso di malattia, mentre la retribuzione dell’INAM (mutua
obbligatoria) era del 50%
dello stipendio a partire
dal quarto giorno di assenza. Inoltre il FAI aveva un ambulatorio interno alla fabbrica, con attrezzature diagnostiche
moderne e personale
medico a disposizione di
tutte le maestranze. Si
poteva anche fruire di
turni di riposo in montagna presso la casa di
Lanzo d’Intelvi o al mare,
a Ospedaletti o a Gatteo
Mare, per la convalescenza dopo ricoveri in
ospedale. Creai il Gruppo Donatori di Sangue,
affiliato all’AVIS nazionale, fondato il 18 marzo
1955 e che raggiunse i
514 donatori. Istituii una
borsa di studio riservata
ai figli dei dipendenti che
dimostravano buona predisposizione agli studi.
Verso la fine degli anni
‘50
istituì il premio
“Maestri del Lavoro” per
premiare gli operai particolarmente capaci nelle
loro mansioni. Sorse un
intero villaggio, ancora
oggi chiamato Villaggio
Necchi, alla fine di via Olevano. Per la mia generosità il Policlinico San
Matteo mi intitolò il padiglione delle cliniche di otorino, odontoiatria e radiologia. Per il tempo libero creai organizzazioni
specifiche: il Moto Club,
il Gruppo Escursionisti
per gli appassionati della
montagna per le escur-
Un dirigente di prima
massima serie.
E passiamo a un altro
capitolo, quello dei
Suoi collaboratori, con
cui Lei fece grande la
Necchi.
Un
uomo può avere
l’idea, i mezzi, l’iniziativa,
ma non potrà mai avere
un grande successo senza l’aiuto di validi collaboratori. Può essere necessaria perspicacia nel
cercarli, questi collaboratori, ma certamente anche una buona dose di
fortuna nel trovarli. Io ebbi entrambe queste cose.
La guida dell’azienda agli
inizi era stata dura, ho
già ricordato il ragionier
G i o r g i
p e r
l’amministrazione. Il primo salto di qualità avvenne agli inizi degli anni
‘30.
Alla
guida
dell’azienda, con me,
parenti in azienda, mia
moglie mi convinse a far
entrare nella direzione
un mio cognato, il ragionier Gino Gastaldi, marito di Graziella, sorella di
Lina. Gino fu senz’altro
la persona più importante che ebbi al mio fianco:
egli rivoluzionò il settore
della vendita creando le
concessionarie. A Gastaldi affiancai i vice direttori Mario De Paoli e
Dino De Paoli, rispettivamente per il settore commerciale e amministrativo, e Giuseppe Manidi
che resterà sempre in azienda con funzioni sempre più importanti e che
poi sostituirà Gastaldi come consigliere delegato
quando questi lascerà la
società. Gastaldi fu nel
contempo anche presidente della Banca del
Monte di Pavia, banca
con la quale la Necchi intratteneva la maggior
sco Gaiano. Potei avvalermi anche della collaborazione di un giovanissimo contabile, il ragionier Repossi, assunto
nell’ottobre 1930 con uno
stipendio di 450 lire al
mese, che rimase in azienda fino all’età della
pensione, diventando a
sua volta direttore amministrativo, oltre che presidente del FAI. Con queste persone Gastaldi traghettò l’azienda fuori dalla difficile crisi.
Come affrontò la guerra e il dopoguerra?
La
tranquillità economica non durò a lungo: nel
1940 iniziò la guerra e
per la Necchi si ripresentarono tempi duri.
L’azienda aveva a quel
tempo 2500 dipendenti,
produceva 52 mila macchine per cucire, riuscen-
chiamata alle armi degli
uomini. Dopo l’armistizio
dell’8 settembre 1943 la
fabbrica dovette collaborare con produzioni belliche, ma qui il genio di
Gastaldi si manifestò:
mentre la Necchi produceva otturatori per armi
da fuoco per i tedeschi,
continuava a produrre
macchine per cucire
(oltre 30 mila solo nel
1944) nascondendole ove possibile, evitando così la requisizione e l’invio
in Germania. Quando nel
1945, a guerra finita,
l’azienda ricominciò a lavorare con regolarità, la
vendita delle macchine
che erano state occultate
assicurarono un cespite
importante per la tranquillità finanziaria nel
momento della ricostruzione industriale. Nel giugno del 1958 Gino Gastaldi venne nominato
Cavaliere del Lavoro.
prattutto per affrontare i
nuovi mercati internazionali che si andavano aprendo, primo fra tutti
proprio quello statunitense. Gino Levi (il cognome Martinoli fu adottato
nel 1938 in seguito
all’approvazione in Italia
delle leggi razziali) era
nato a Firenze nel 1901,
figlio di un professore
dell’Ateneo torinese, si era laureato in ingegneria
chimica presso il Politecnico di Torino. Dopo la
laurea si trasferì a Ivrea
e nel corso del 1924 cominciò a lavorare presso
la Olivetti, dove rimase
per ventidue anni curando l'organizzazione produttiva degli impianti in
veste di direttore generale tecnico dal 1932. Nel
1945 entrò a far parte del
Consiglio Industriale Alta
Italia e successivamente
della Sottocommissione
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INTERVISTA IMPOSSIBILE
(Continua da pagina 7)
Industria Alta Italia; dopo un
breve periodo
passato alla Navalmeccanica,
ricoprì a Milano
l’incarico di ispettore
della
direzione generale dell’IRI per
le industrie meccaniche settentrionali. Con lui
arrivarono alla
Necchi le novità
per un’industria
che doveva radicalmente innovare se voleva
sopravvivere.
Martinoli era cognato di Adriano
Olivetti (questi
aveva sposato
sua sorella Paola) e proprio atSOPRA DA SINISTRA, VITTORIO NECCHI CON LA MOGLIE;
traverso Olivetti
LA CHIESETTA DELLA TENUTA PORTALUPA;
face parte negli
VILLA NECCHI IN VIALE MATTEOTTI A PAVIA;
anni ’30 e ’40 di
VITTORIO NECCHI CON UN FAGIANO.
una delle prime
QUI A DESTRA, IL DISEGNO DI VILLA NECCHI A GAMBOLÒ,
esperienze
di
RAFFIGURATA NELLA FOTO ACCANTO AL TITOLO.
businnes school
italiane: l’IPSOA
di Torino. Per
prima cosa, in
Necchi, Martinoli decise in favo- cire, coltivò questa idea e strinre di un aumento della manodo- se i primi accordi con
pera che portò subito a un au- l’americana “Kelvinator” per la
mento della produzione, ma che costruzione su licenza dei
comportò anche un parallelo ca- compressori ermetici per
lo della produttività. Martinoli frigorifero. A regime
cominciò con il chiamare alla l’impianto arrivò a produrNecchi molti tecnici che aveva- re mille compressori
no lavorato con lui o presso all’ora. Nel 1985 si prol’Olivetti oppure nell’esperienza dusse il 50 milionesimo
con l’IPSOA.
compressore; nel solo anno 1989 se ne produssero
4.451.000. Nel corso del
Vuole citarne qualcuno?
1956, per via di alcuni contrasti
sorti con la vecchia direzione e
L’ingegner Alessandro Pagni con me, Martinoli abbandonò la
all’Ufficio Progetti, l’ingegner Necchi e tornò a Milano.
Gianfranco Clavello all’Ufficio
Controllo Qualità, il dottor Giulio
Poi venne la crisi, la caduta
Volta all’Ufficio Centrale Analisi
del mercato delle macchine
Tempi e Metodi, l’ingegner Giuper cucire.
lio Borello cui affidammo il sistema gestionale dell’ impresa
(l’espandersi della fabbrica ri- Anche in Italia il mercato si richiedeva una costante analisi dusse notevolmente. Nella famidei costi di produzione, della glia media italiana degli anni ‘50
produttività, dell’impiego del per- la donna lavorava fuori casa e
sonale operativo e di conse- non aveva più il tempo per metguenti tempestivi interventi), il tersi a cucire capi disponibili già
progettista di macchine utensili finiti e che l’industria di confezioCarlo Alghisi, il responsabile del ni produce in grandi serie e a
servizio attrezzeria Galileo Ton- prezzi abbordabili. Mentre altri
dinetti. Voglio poi ricordare gli elettrodomestici ( lavatrice, laingegneri responsabili delle vastoviglie, eccetera) erano di aquattro direzioni di produzione: iuto alle donne di casa, la macVittorio Scherillo (Macchine Fa- china per cucire richiedeva temmiglia), Luigi Bono (Macchine po per usarla, tempo che non
industriali), Giuseppe Rossi c’era più. Oltretutto quella che e(Fonderia), Alessandro Valvas- ra stata la prerogativa alla base
sori (Mobili). Avviata la ristruttu- del successo delle macchine
razione dell’azienda, Martinoli e Necchi ne divenne una delle
Gastaldi si posero presto anche cause della crisi: la grande quaun problema chiave: aveva dav- lità del prodotto ne determinò uvero un futuro la macchina per na durata tale che le macchine
cucire? Non sarebbe stato bene si tramandavano da madre a fidiversificare? Il patrimonio di e- glia per diverse generazioni,
sperienza della Necchi era giu- prova ne è che la vendita oggi è
dicato dallo stesso Martinoli ec- ridotta ai minimi termini. Tuttavia
cezionale. Perché non sfruttarlo la ditta Alpian Italia di Ariccia
in nuovi settori che già si stava- (Roma), divenuta proprietaria
no delineando come estrema- del marchio Necchi, faceva promente promettenti? Gastaldi, durre in Cina una macchina per
pur sapendo della mia contrarie- cucire che promuoveva alla ventà a tradire la macchina per cu- dita in spot televisivi.
Facendo un bilancio, quanti
dipendenti ha avuto la Necchi
nella sua storia e quante macchine per cucire ha prodotto?
Le
cifre che Le fornisco sono
state pubblicate sulle Riviste
Necchi. Nel 1928 la forza lavoro
era costituita da 7 dirigenti, 23
impiegati e 439 operai (di cui
100 alle macchine per cucire e
339 alla fonderia); la produzione
fu di 1.500 tonnellate di ghisa e
18.500 macchine per cucire. Nel
1950 ecco le cifre: 18 dirigenti,
551 operai e 3.555 operai; la
produzione fu quell’anno di
6.000 tonnellate di ghisa e
122.023 macchine per cucire, di
cui 4.869 ad uso industriale. Le
macchine per cucire esportate
passarono dalle 2.646 del 1930
alla 58.461 del 1950. Negli anni
Cinquanta e Sessanta il mercato
delle macchine per cucire raggiunse il suo massimo. La Necchi arrivò a produrre mille macchine al giorno. Tutto intorno a
Pavia fiorirono piccole industrie
che producevano macchine
complete con i loro marchi: Vigorelli, Casati, Mariani, Simdac.
Oltre ad esse, comparvero ditte
di componentistica. Pavia diven-
ne la capitale italiana della macchina per cucire e nel 1950 ospitò una mostra internazionale.
Frattanto Lei aveva creato nel
1937 una scuola professionale con lo scopo di preparare i
futuri specialisti e tecnici
d’officina. L’aveva chiamata
con il nome di Suo padre, Ambrogio Necchi.
La scuola era nata nel 1917 per
iniziativa della Pia Casa
d’Industria in via Volta 19, aveva
24 allievi, poi si trasferì in piazza
Ghislieri. Ebbe, in quegli anni,
vita stentata per la scarsa cultura industriale di allora. Riuscii a
coinvolgere nell’iniziativa alcuni
industriali pavesi e alcuni enti locali, incaricai l’architetto Carlo
Morandotti di redigere il progetto
e feci costruire il grande edificio
di piazza Marconi. L’edificio copriva una superficie di un migliaio di metri quadrati, su un’area
di oltre quattromila, messa a disposizione gratuitamente dal
Comune di Pavia. Qui, finalmente, la scuola ebbe la sua sede adeguata, con locali per aule,
laboratori, officina, palestra e
ampi spazi aperti per sperimentazioni pratiche. La direzione
della scuola fu per più di
trent’anni affidata ad Aristide
Annovazzi, figura notissima a
Pavia, oltre che per la sua elevata capacità tecnica, anche per
il suo impegno culturale come filologo e dialettologo di fama.
Quando nel 1950 l’Annovazzi
(simpaticamente il Gnassi per gli
allievi) lasciò la scuola, fu sostituito
dall’ingegner Gribaudo,
che continuò l’attività didattica
con altrettanto impegno, sviluppando anche un settore dedicato all’elettricità: formò elettrotecnici validi che furono anche assunti dall’Enel e da altre aziende
del settore. Poi nel 1962,
nell’ambito della riforma della
scuola media e della conseguente unificazione della scuola
secondaria, le scuole professionali furono abolite. Ci volle del
tempo perché i legislatori si accorgessero del vuoto lasciato
con questa decisione. Corsero
ai ripari con l’istituzione di corsi
triennali (IPSIA) dove però
l’insegnamento pratico era secondario rispetto alle materie teoriche e al nozionismo tipico
delle nostre scuole. Anche la
scuola Necchi fu assorbita da
questa riforma e diventò statale
a tutti gli effetti.
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VITTORIO NECCHI
Lei amava autode-
LA FOTOGRAFIA DI VILLA NECCHI A PAVIA
COMPARE NELLA COPERTINA DEL VOLUME
GUGLIELMO CHIOLINI
PALAZZI, SCALE E CORTILI DI PAVIA
EDITO NEL 2011 DALL’ASSOCIAZIONE
“SOCRATE AL CAFFÈ PER LA CULTURA
E LA CONVERSAZIONE CIVILE”
E DALL’ASSOCIAZIONE CULTURALE
PAVIA FOTOGRAFIA
Per vendere una macchina
per cucire era assolutamente
necessario creare il desiderio
nell’acquirente dimostrando
le possibilità di lavoro che la
macchina forniva, ma era ancor più importante insegnare
a usarla, ottenendo da essa il
massimo della resa.
La
rete commerciale Necchi in
Italia aveva ormai raggiunto una
diffusione notevole: in ogni città,
in ogni borgo di rilievo erano
sorti concessionari, produttori,
negozi di vendita e di assistenza; in ognuna di queste realtà
commerciali si istituirono corsi
gratuiti di taglio, cucito e ricamo
a scopo didattico e propagandistico. Presso i concessionari, o
addirittura in azienda, veniva
formato il personale per insegnare in questi corsi. In questo
ambito venivano donate cospicue partite di macchine a enti
benefici e assistenziali del regime e della Chiesa. Specialmente le Suore Educatrici, capillarmente diffuse sul territorio, che
da sempre attiravano le giovani
a imparare a ricamare a mano la
biancheria del corredo, allestivano questi corsi per le future casalinghe e pertanto future clienti
Necchi. Era allora considerata
una vera fortuna avere una
macchina per cucire come dono
di nozze e l’entusiasmo che generava nelle allieve l’uso delle
Necchi in questi corsi di cucito
era un veicolo promozionale per
le vendite. La Direzione commerciale chiamò tutto questo
“Continuità di Servizio” che comprendeva, oltre ai cicli di cucito e
ricamo, permanenti o temporanei, dimostrazioni didattiche,
collaborazione tecnica, merceologica, organizzativa per tutta la
clientela Necchi con l’ausilio dei
circa 10 mila negozi situati in ogni parte del mondo.
Un importante fattore di successo dell’organizzazione
Necchi nel mondo fu sicuramente l’Assistenza Tecnica.
Ogni rappresentante o concessionario in ogni parte del mondo
era in grado di assistere il cliente per qualsiasi necessità. I tecnici riparatori venivano inviati a
Pavia, e qui addestrati per intervenire su tutti i modelli della rete
vendita, inoltre venivano addestrati anche per tenere i corsi di
cucito nelle loro sedi. La tecnologia costruttiva delle macchine
Necchi, utilizzando criteri tecnologici e metrologici rigidissimi,
consentiva di avere pezzi di ricambio perfetti in ogni parte del
mondo.
Un nome si incontra a un certo punto nella storia della
Necchi, quello di Leon Jolson.
A lui è legato il sogno americano.
Leon Jolson arrivò dalla Polonia
negli USA con la moglie Anna
dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1947; egli, ebreo, era sfuggito ai campi di
concentramento nazisti e aveva
aderito alla resistenza lavorando
segretamente alle intercettazioni
delle radio tedesche per il resto
del conflitto. Ai Jolson ora si
presentava il problema di ricominciare la loro vita nel nuovo
paese. Leon tornò a lavorare su
ciò che conosceva bene: la
macchina per cucire. A Varsavia
la famiglia Jolson era agente di
vendita e assistenza tecnica per
la Necchi. A New York cominciò
a offrire un servizio di riparazione porta a porta. Durante la
guerra era impossibile trovare
parti di ricambio, perciò erano
tante le macchine fuori uso
presso le famiglie americane.
Jolson allestì allora una officina
di riparazioni nell’appartamento
nel Bronx. Gli affari non andavano male; inoltre Jolson, avendo
per le mani molte marche di
macchine per cucire americane,
poté rendersi conto che nessuna di queste poteva competere
con le Necchi che lui aveva trattato a Varsavia. L’America sarebbe stato il mercato ideale per
la Necchi. Jolson contattò la ditta italiana per avere
l’assegnazione in prova di alcune macchine. Evidentemente la
direzione commerciale Necchi
non condivise l’entusiasmo di
quest’uomo, perciò non ci fu risposta. Non venne meno però la
convinzione di Jolson della bontà della sua idea. Ottenne altri 2
mila dollari di prestito. Con questa somma e una forte fede convinse due uomini d’affari, Ben
Krisiloff e Milton Heimlich, a investire nell’affare 50 mila dollari.
Con queste credenziali contattò
la Vittorio Necchi. Questa volta
la risposa fu positiva: così Jolson e Krisiloff vennero a Pavia a
colloquio con me e con Gastaldi
suscitando il loro interesse per
il mercato americano. Comprarono subito 135 macchine, nel
giro di una settimana giunse un
altro ordine di 3.500 e nelle successive l’ordine arrivò a 7 mila.
finirsi un malà ad la
preja, (malato del
mattone ) che per i
pavesi si dice di
persona appassionata alla costruzione, ristrutturazione
o modifica di fabbricati. In effetti,
mai come in questo
caso la realtà confermava la definizione. Guardando
la cronologia delle
Sue residenze si
nota che, ultimata
appena la prima fase della costruzione della fabbrica in
via Rismondo, che
era iniziata nel
1919, cominciò la
serie, pressoché ininterrotta,
delle ville che via via divennero le Sue residenze, temporanee o fisse.
Nel
1923 iniziai la costruzione
della villa di Pavia, che, attraverso varie modifiche in corso
d’opera si protrasse fino al
1929. Seguì il rifacimento totale
della villa di Portalupa, che era
stata fino ad allora una villa
d’appoggio per la riserva di caccia. Nel 1937 diedi il via alla villa
di Cogne, da utilizzare per
l’estate e per la riserva di pesca.
Fu completata nella primavera
del 1939. Una pausa dovuta prima ai fatti bellici, poi all’impegno
per la costruzione dei nuovi capannoni in fabbrica (1950-1952),
e rieccoci con la villa a Nervi, ordinata all’Architetto Tommaso
Buzzi nel 1953 e completata nel
1956.
Mi parli un po’ della Villa di
Piazza Castello.
La
palazzina che feci costruire
per la mia famiglia a partire dal
1924 sorgeva nell’attuale corso
Matteotti, nell’area (ora occupata dal condominio al n° 73) compresa tra la Roggia Carona a
ponente e il Pio Istituto Pertusati
a levante. Affidai il progetto
all’architetto Carlo Morandotti.
Il progetto, di stile aulico, cinquecentesco, prevedeva una
spaziosa e pretenziosa villa a
due piani, con dépendances per
i garage e la portineria, un laghetto davanti alla facciata e un
ampio giardino, l’ortaglia, il canile, il recinto per il gioco delle
bocce. Tuttavia, già nel gennaio
del 1925 l’architetto Morandotti
modificò il tutto aggiungendo,
nella porzione centrale, un attico
sopraelevato e raccordato alla
balconata sottostante con due
grandi statue di dèi semisdraiati
reggenti canestri di frutta e fiori,
opera dello scultore Ambrogio
Casati. Altra variante nel 1928:
al primo piano furono aggiunti
due nuovi saloni e altri servizi,
mentre al secondo piano altre
camere da letto. L’ampliamento
fu realizzato con l’aggiunta di
nuovi corpi verso il giardino. Su
scelta dell’architetto, per questi
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Numero settantasette - Maggio 2012
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VITTORIO NECCHI
INTERVISTA IMPOSSIBILE
GLI INTERNI DI VILLA NECCHI A PAVIA. IN ALTO A SINISTRA LA SALA DA PRANZO; A DESTRA LA SALA DA BILIARDO. IN BASSO, DA SINISTRA: IL SALOTTO, L’INGRESSO, LA SCALA.
SOTTO A SINISTRA, L’INTERNO DEL REPARTO MACCHINE PER CUCIRE DELLA “VITTORIO NECCHI”; A DESTRA, L’INTERNO DELLA SCUOLA PER MECCANICI
(Continua da pagina 8)
nuovi fabbricati fu abbandonato lo stile precedente a favore di soluzioni
più sobrie. Gli ambienti
interni di rappresentanza
erano ornati e arredati
con grande sontuosità
secondo il gusto neosettecentesco. Nel sotterraneo trovavano posto
la sala biliardo, la sala da
gioco e un tiro a segno.
Durante il secondo conflitto mondiale, mentre eravamo sfollati a nord di
Varese, nel comune di
Barasso, ospiti dei cognati Campiglio, la villa
fu prima requisita dai militari tedeschi per farne la
sede del comando della
piazza di Pavia, poi dal
colonnello Wendel E.
Phillips, del Comando
Militare Alleato per lo
stesso scopo. In quel
periodo difficile cedetti
definitivamente la villa a
un altro industriale pavese, Oreste Casati, che
l’abitò per breve periodo.
Ma alla morte di Casati, il
figlio Giancarlo si rese
conto che gestire una dimora così sontuosa era
al di sopra delle sue possibilità, così la condannò
alla demolizione utilizzando la vasta area per
costruire un grande centro residenziale di lusso.
Situata a Gambolò, frazione Molino d’Isella, la
tenuta chiamata “La
Portalupa” comprendeva, oltre alla Sua villa,
un assieme di villette
per la residenza del
personale che lavorava
a vario titolo nella tenuta stessa. Lei aveva dotato il villaggio di una
piccola scuola per i figli dei dipendenti e anche di una chiesetta.
Era un’oasi, una immensa distesa di verde, di
boschi e di radure proprio come si addice a una grande riserva di caccia. La Portalupa divenne la mia residenza stabile dopo la cessione
della villa di Pavia. Era una grande tenuta agricola, con varie cascine, in
un terreno che alternava
radure a boschi e a cespugli, l’ideale per la caccia. L’area era in parte di
proprietà e in parte in affitto agricolo. Erano naturalmente presenti tutte le
strutture necessarie per
l’allevamento dei fagiani
per il mantenimento della
riserva di caccia, cioè i
locali per le incubatrici,
per i pulcini e per le ovaiole. Frequentatori assidui delle battute di caccia erano, a turni, i dipendenti della fabbrica,
che sotto l’egida del
Gruppo Cacciatori Necchi erano ospitati da me,
che scendevo con loro,
doppietta a tracolla. Una
giornata di caccia nella
riserva di Portalupa era
un avvenimento atteso
con ansia dai dipendenti.
Nella riserva la selvaggina era abbondante. Inoltre una schiera di battito-
ri, attrezzati con vari aggeggi per far rumore, disposti a semicerchio avanzavano lentamente
portando letteralmente la
selvaggina verso il gruppo di cacciatori, per i
quali
c’era
solo
l’imbarazzo della scelta.
La giornata si concludeva con festosi saluti da
parte di tutti i presenti,
ma molti ricordano che
nel commiato ero solito
aggiungere: «Ehi, am
racumandi, duman matina tüti a timbrà al cartlin,
nevera?». (Ehi, mi raccomando, domani mattina
tutti a timbrare il cartellino, vero?)
Un’altra passione per
Lei era la pesca.
Per questo, nel 1937 mi
ero fatto costruire una
villa in montagna, precisamente a Cogne, nella
vallata omonima in Val
d’Aosta. La valle è una
grande spianata prospiciente il massiccio del
Gran Paradiso. È solcata da due torrenti,
(Grauson è il più grande), le cui acque provengono dal ghiacciaio,
scendono dalle cascate
di Lillaz, e si uniscono a
valle del paese, poi giungono attraverso una
stretta gola ad Aosta, per
diventare affluenti della
Dora Baltea. Benché tutta la zona facesse parte
del Parco del Gran Paradiso, io riuscì ad avere la
(Continua a pagina 11)
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Numero settantasette - Maggio 2012
VITTORIO NECCHI
INTERVISTA IMPOSSIBILE
La passione per le
case. Invitavo i miei
dipendenti a caccia
alla Portalupa.
Vendetti la villa
di Nervi quando morì
la mia carissima Lina
I lavoratori in festa
al mio ritorno
dall’ospedale
QUI SOPRA, LA LINEA DI MONTAGGIO ALLA “VITTORIO NECCHI”.
QUI A DESTRA, VITTORIO NECCHI ALLA PREMIAZIONE DEL GRUPPO
ANZIANI D’AZIENDA. AL TAVOLO DEL DIRETTIVO SI RICONOSCONO
(DA DESTRA): FOGLI, VECCHIO, NECCHI, MANIDI (SEMINASCOSTO)
E AGNES. IL PREMIATO È IL SUO AUTISTA, GENI.
(Continua da pagina 10)
concessione per attuare
in queste acque una riserva di pesca per trote.
Dovetti accettare come
unica condizione che i
miei guardia pesca collaborassero con la Guardia Forestale nel controllo del bracconaggio nel
Parco. Questa collaborazione fu fattiva, la caccia
e la pesca abusive erano
una calamità per il Parco. In una di queste occasioni avvenne che un
cacciatore sparò a un
magnifico esemplare di
aquila reale; l’intervento
di una guardia pesca
Necchi fece arrestare il
bracconiere ma, purtroppo, per l’aquila era troppo tardi: finì, impagliata,
nel museo del Parco a
Valnontey. Anche per la
pesca si verificò la frequenza di personaggi
importanti per i miei rapporti sociali e industriali.
In particolar modo era
assidua la presenza di
Maria Josè, moglie di
Umberto di Savoia, appassionata pescatrice,
che diventerà poi la Regina di Maggio.
Per finire, ricordiamo
la Villa di Nervi.
La villa di Nervi fu ordinata all’architetto Tommaso Buzzi nel 1953.
Ebbe fin dall’inizio una
gestazione difficile: il luogo dove doveva sorgere
era un bellissimo parco
demaniale, con alberi secolari, situato fra la linea
ferroviaria e il mare, su
un piano che declinava
fino al mare stesso. Se
già fu difficile ottenere le
autorizzazioni tecniche e
amministrative, fu ancora
più duro vincere l’ostilità
degli abitanti: se era pur
v e r o
c h e
l’amministrazione locale
riteneva conveniente cedere una parte di parco
in cambio dei vantaggi economici e turistici che
ne derivavano, per gli abitanti era pur sempre la
privazione di uno spazio
bellissimo della costa.
Tuttavia la cosa andò in
porto poiché, per chi ne
ha i mezzi, esistono
sempre vie per giungere
ad accordi. La villa fu
completata nel 1956.
L’architetto Buzzi aveva
nel suo curriculum la costruzione di ville importanti e bellissime sulla riviera ligure, e non solo,
pertanto anche la villa
Necchi a Sant’Ilario di
Nervi fu una grande realizzazione. Quando, nel
1961, scomparve mia
moglie Lina, il mio interesse per la villa di Nervi
si esaurì. Era Lei che
l’aveva fortemente voluta
e
c u r a t a
nell’arredamento e io
non ci tornai mai più. Il
14 ottobre del 1966 la
casa d’aste Finarte provvide a battere tutte le o-
pere d’arte della villa, disperdendole nel vasto
mondo dei collezionisti.
Sisto Capra
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Numero settantasette - Maggio 2012
Premessa
do di dare vita
ad una politica,
beh tutti qui ad
Atene siamo in
grado di giudicarla. Noi non
consideriamo la
discussione come un ostacolo
sulla via della
democrazia. Noi
crediamo che la
felicità sia il frutto della libertà,
ma la libertà sia
solo il frutto del
valore. InsomPERICLE
ma, io proclamo
che Atene è la
scuola
dell’Ellade e
che ogni ateniese cresce
sviluppando in
sé una felice
versatilità, la
fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi
situazione ed è per questo
che la nostra città è aperta al
mondo e noi non cacciamo
mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo
così."
Non penso che si
debbano aggiungere parole per spiegare la scelta di
questa mia riflessione sulla Politica,
parola da riscoprire.
Dalla Costituzione
Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali
GRAMSCI
davanti alla legge,
senza distinzione di
sesso, di razza, di
lingua, di religione,
di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali. È
compito della Repubblica rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di
fatto la libertà e l’eguaglianza
dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese.
Da Antonio Gramsci
Odio gli indifferenti. Credo
[…] che vivere vuol dire essere partigiani. Non possono
esistere i solamente uomini,
gli estranei alla città. Chi vive
veramente non può non essere cittadino, e parteggiare.
Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è
vita. Perciò odio gli indifferenti. (11 febbraio 1917)
Ho ripreso l’art. 3 della nostra
Costituzione come leitmotiv
della mia riflessione sulla buona politica. Non ci sarebbe
bisogno di nessun aggettivo
per accompagnare la parola
ma la realtà che scorre sotto i
nostri occhi ce lo impone.
Ho poi ripreso brevi citazioni
da Antonio Gramsci perché
ne condivido il contenuto. Sono anch’io partigiana ma senza mai perdere di vista il confronto con gli altri e il bisogno
di mediare, senza mai mettere da parte l’interesse generale. Almeno, lo spero. La politica, la buona politica non è
equidistanza da ogni cosa, al
contrario è presa di posizione,
impegno, idee forti sostenute
da intelligenza, autorevolezza. Chi dice “La politica non è
cosa mia, me ne sto alla larga, tanto sono tutti uguali”
non sa che questa sua presa
di posizione è “fare politica”
nel peggiore dei modi, chiudendosi in se stesso, ignorando che l’impegno per una
buona amministrazione della
cosa pubblica è anche salvaguardare il proprio interesse.
Gramsci sosteneva: “Non
possono esistere i solamente
uomini, gli estranei alla città”.
Questo imperativo morale è
stato, è spesso disatteso e a
soffrirne sono tutti i membri
della città e la città non è solo
il proprio ristretto cerchio di
appartenenza, è anche il pro-
di GIOVANNA CORCHIA
prio paese, membro di una
comunità sempre più vasta,
sino ad abbracciare il mondo.
La buona politica è rifiuto di
un’accettazione passiva della
realtà. I problemi che si presentano sono problemi di tutti,
farsene carico è sentirsi parte
integrante della città, sino alla
città mondo. Ancora Antonio
Gramsci scriveva: “Ciò che
avviene, non avviene tanto
perché alcuni vogliono che
avvenga, quanto perché la
massa degli uomini abdica
alla sua volontà, lascia fare
[…] La fatalità che sembra
dominare la storia non è altro
appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di
questo assenteismo”. Per vari
motivi, nel nostro presente,
molti si allontanano dalla città
di cui fanno parte. Per loro la
politica non merita nessuna
attenzione, perché i politici
sono tutti uguali… Trionfa così l’antipolitica, l’indifferenza,
l’assenteismo. Questi atteggiamenti di presa di distanza
non aiutano a trovare buone
soluzioni in nessun campo e
ancora meno servono alla
convivenza civile. Che fare di
fronte ai gravi problemi che
toccano tutti? È necessario
“essere vigili, presenti, animati da reciproca simpatia”. Una
buona dose di utopia, si obietterà, ma senza non si può
guardare al futuro con speranza. Due anni fa, avvicinandomi a una soglia importante
della mia vita, i miei 70 anni,
ora da poco varcata, ho sentito il bisogno di una partecipazione più vigile e attiva a quella che chiamerò, d’ora in poi,
la città, e questo per non essere un’estranea alle sue sorti, per non essere tra coloro
che pensano che essere partigiani non serva a niente in
una realtà in cui gli indifferenti
sono di gran lunga la maggioranza.
agli Ateniesi” - 461 a.C. - Tucidide “La guerra del Peloponneso”, disarticolandolo in paragrafi, seguiti da brevi note.
Quale città?
La libertà di cui godiamo si
Per rispondere alla domanda
“Quale città?” ricorrerò a una
pagina ricca di stimoli di riflessione, il “Discorso di Pericle
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e
per questo viene chiamato
democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo
così.
Favorire i molti invece dei
pochi è una garanzia di rispetto del bene comune.
Le leggi qui assicurano una
giustizia uguale per tutti nelle
loro dispute private, ma noi
non ignoriamo mai i meriti
dell’eccellenza. Quando un
cittadino si distingue, allora
esso sarà, a preferenza di
altri, chiamato a servire lo
Stato, ma non come un atto di
privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà
non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo
così.
Le leggi, è scritto, assicurano
una giustizia uguale per tutti.
Pensando al nostro oggi, questo principio di uguaglianza,
sancito dall’art.3 della nostra
Costituzione, è, molte volte,
disatteso. Non ignoriamo mai
i meriti, sottolinea con forza
Pericle. Questo non avviene
sempre nel nostro presente:
molti giovani, tra le eccellenze, sono costretti ad andare
altrove, dove le loro qualità
sono apprezzate e producono
cultura e ricchezza. Una perdita per il nostro paese in tutti
i campi. Pericle aggiunge che
il merito è riconosciuto ad Atene indipendentemente dal
censo. Anche questa è una
lezione da imparare in casa
nostra, nel nostro presente.
estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi
siamo liberi, liberi di vivere
proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a
fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non
trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto
non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo
così.
I cittadini di Atene sono liberi
ma nel rispetto della libertà
degli altri, e, sottolineatura
importante, senza mai trascurare i pubblici affari anche
quando ci si occupa dei propri
e senza mai servirsi della cosa pubblica a proprio vantaggio. Credete forse che questa
sia la condotta di noi tutti oggi? La regola di non anteporre
mai i propri affari a quelli pubblici è forse valida sempre
oggi? Pensate che si possano
far rientrare tra i cittadini ideali
di Atene tutti i nostri uomini
pubblici?
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato
insegnato anche di rispettare
le leggi e di non dimenticare
mai che dobbiamo proteggere
coloro che ricevono offesa. E
ci è stato anche insegnato di
rispettare quelle leggi non
scritte che risiedono
nell’universale sentimento di
ciò che è giusto e di ciò che è
di buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo
così.
E noi? Abbiamo forse dimenticato l’insegnamento impartito ai cittadini ideali di Atene?
Pensiamo che sia realmente
la regola da noi il rispetto dei
magistrati e delle leggi, anche
quelle non scritte purché risiedano nel sentimento universale del giusto e di ciò che è di
buon senso?
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e
benché in pochi siano in gra-
Nel discorso di Pericle sono
richiamati più di una volta
l’attenzione e il rispetto di ciascuno per lo Stato. Chi non lo
fa non è semplicemente innocuo ma inutile. Che dire allora
dei tanti oggi che non sanno
cogliere il loro legame con lo
Stato, che ignorano che la
salute dello Stato dipende da
tutti, che lo Stato non è
un’entità astratta ma una rete
di protezione di ciascuno, di
salvaguardia del territorio, così aggredito, cementificato per
cui un disastro naturale come
a fine ottobre 2011 in Liguria
ha provocato morte e distruzione inimmaginabili; di tutela
della salute; di arricchimento
culturale grazie all’impegno,
al contributo di tutti? Infine
dipende da tutti noi il rispetto
per il nostro paese all’interno
della comunità internazionale.
Aggiungo un’ultima considerazione a conferma della
scarsa consapevolezza che lo
Stato siamo noi e che tutti noi
dovremmo contribuire alla sua
salvezza, ricordando la piaga
dell’evasione fiscale. Eppure
è ben scritto nella nostra Costituzione:
Art. 53
Tutti sono tenuti a concorrere
alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è
informato a criteri di progressività.
Infine riprendo: “Qui ad Atene
noi facciamo così”. Consideriamo l’uso del verbo fare alla
prima persona plurale e la
sottolineatura del luogo ben
due volte qui, ad Atene perché possa il messaggio essere ben fissato nella mente.
Sarebbe un grande cambiamento se noi tutti, uomini,
donne privati e pubblici cittadini, potessimo affermare:
“Qui, in Italia, noi ci impegniamo a fare così”.
Numero settantasette - Maggio 2012
LA
Pagina 13
VITA QUALE DIRITTO INVIOLABILE E INDISPONIBILE : MA È SEMPRE COSÌ ?
La
legislatura chiusa
con le dimissioni del governo Berlusconi ha lasciato in eredità alla
successiva il disegno di
legge Calabrò sul testamento biologico, estremamente controverso. È
un ddl che ha diviso
l’opinione pubblica italiana. Su questa materia
la Chiesa Valdese si è
espressa più volte in modo inequivocabile. Nella
mia disamina espungo il
nostro punto di vista sul
concetto di vita e di persona. "La presente legge […] riconosce e tutela la vita umana, quale
diritto inviolabile ed indisponibile […]; riconosce
e garantisce la dignità di
ogni persona in via prioritaria
rispetto
all’interesse della società e alle applicazioni della tecnologia e della
scienza […]": potremmo
partire proprio da qui,
dal primo articolo del
disegno
di
legge
(cosiddetto
ddl
Calabrò) licenziato al Senato nel
2009 e modificato
alla Camera nel
luglio di questo
anno, ora in attesa di tornare in
Senato. Potremmo partire da qui
perché il primo articolo
della legge sancisce i
principi che la fondano e
apparentemente non c’è
nulla di strano nelle parole che ho riportato sopra.
di MONICA FABBRI*
rifiutare dei trattamenti
sanitari qualora si trovasse in stato di incoscienza, non può porre
altro preambolo se non
quello della libertà delle
scelte individuali, sancito da diversi articoli della nostra Costituzione.
Questa questione non è
importante solo come
norma di diritto, ma mi
coinvolge anche come
cristiana,
protestante,
valdese. Viene infatti
spesso riportato come
"verità" cristiana il diritto alla vita dal
momento
del
concepimento
fino alla fine come declinazione
di una "legge naturale" così come lo riporta la
chiesa cattolica,
dimenticando
che il mondo cristiano comprende anche
le molte realtà protestanti, alcune delle quali,
fra cui quella valdese e
metodista, significativamente presenti in Italia.
a
La vita quale diritto invi- L
più
olabile e indisponibile e
la garanzia della dignità:
asserzioni
certamente
condivisibili, ma sono
sempre sottoscrivibili?
La vita è un diritto indisponibile? Certamente lo
è! Non vi è costituzione,
convenzione
o
altro
scritto pubblico del dopoguerra che non si basi
sul principio della inviolabilità della vita umana
e sulla dignità della persona. È altrettanto ovvio,
però, che ci si riferisce
alla vita e alla dignità
altrui, non certo alla nostra stessa persona, su
cui prevalgono gli altrettanto importanti principi
di rispetto della libertà e
delle scelte individuali.
Noi siamo quindi liberi di
disporre della nostra
vita e anche il caso più
estremo, quello del suicidio, non è un reato
(qualora il tentativo non
riesca, come spesso
succede, non si incorre,
infatti, in alcuna sanzione). La nostra stessa
vita quindi non è inviolabile, e una legge, come il
ddl Calabrò, che intenda
porre delle regole alla
volontà della persona di
singole persone la libertà di coscienza del legislatore non deve diventare imposizione di coscienza sui cittadini. Sulle questioni bioetiche noi
protestanti siamo spesso su posizioni distanti
dai cattolici, ma le une e
le altre non possono rientrare in articoli di decreti legge.
chiesa valdese si è
volte espressa proprio sul concetto di vita
e di persona. Come credenti riteniamo che la
vita non possa definirsi
esclusivamente con un
significato biologico. Noi
non siamo un agglomerato di organi le cui funzioni vitali vanno sostenute con ogni mezzo. Al
contrario, noi siamo persone, dotate di capacità
relazionali con Dio e con
gli uomini e le donne che
ci circondano, siamo
persone con una biografia che si esprime nei
nostri pensieri e nelle
nostre azioni. La vita è
certamente un dono prezioso di Dio, ma proprio
per questo non bisogna
ridurre il suo significato
profondo alla sua funzionalità biologica. La compiutezza della vita per i
cristiani, infatti non è su
questa terra: Gesù ha
vinto la morte come primizia di tutte le genti, ma
nuovi cieli e nuova terra
è stata promessa a tutti
coloro che sono giustificati dalla loro fede. Non
la scienza quindi, ma la
nostra fede ci salverà
“perché Dio ha tanto amato il mondo che ha
dato il suo unigenito Figlio affinché chiunque
crede il lui non perisca,
ma abbia vita eterna”.
Considerare vita un corpo inerme attaccato ai
tubi è un atto di presuntuosa onnipotenza. Il
progresso della medicina in sé è certamente da
guardare con favore.
Non dimentichiamo che
Gesù guariva i malati!
Ma le cure mediche sono
un mezzo e non un fine,
le utilizziamo per curare
e quando possibile, guarire dalle malattie, per
lenire le sofferenze e rendere
accettabile
la
vita anche quando questa ci riserva dei momenti difficili. La
sofferenza,
il
patimento e il
dolore non portano la salvezza, questo
sia chiaro. Sopportare
sofferenze atroci non ci
rende migliori di fronte a
Dio: la grazia non si conquista mediante un percorso di travaglio fisico,
ma ci è fornita gratuitamente mediante la fede.
Anche su questo punto,
in Italia, vediamo un'influenza culturale che
deriva dalla teologia cattolica, per cui la sopportazione del dolore fisico
ci eleverebbe agli occhi
del Signore: basti guardare la scarsa diffusione
delle cure palliative.
Quindi ben venga la medicina, le cure, le terapie, ma solo come mezzo
per rendere la nostra
vita dignitosa dall’inizio
alla fine: ed è proprio qui
che si mettono a fuoco i
confini della libertà individuale. Il futuro del Regno di Dio ci impegna a
seguire i suoi insegnamenti durante la nostra
vita terrena e questo avviene nella piena libertà
e responsabilità
dei singoli. Agire con libertà di
coscienza nell’
ambito
della
responsabilità:
questa è la base
dell’etica
protestante,
che non significa che ognuno fa ciò che
vuole, ma che ognuno di
noi risponde davanti a
Dio delle proprie decisioni. Ne consegue che
la libertà del cristiano si
esprime anche nel decidere di rifiutare anticipatamente un trattamento
sanitario che per noi è
sov ra- pr opo r zi on a to,
per accettare la parte
della vita che si chiama
morte.
Non ho voluto qui parla-
Nel
re di morte “naturale”,
perché è certamente un
terreno scivoloso quello
della definizione di ciò
che di artificiale è presente nella vita umana. Il
progresso della medicina permette oggi spesso
di intervenire nel processo del morire con
successo. Altre volte
invece, come nella nota
vicenda di Eluana, la sospensione non fa che
prolungare la funzionalità degli organi: sta a noi
decidere quali sono i
confini della nostra dignità del vivere,
decidere
quale vita meriti di essere vissuta. Nessuno
può intervenire
in nostra vece
se non designato da noi
stessi.
Mi
si permetta qui un
importante inciso: quello
che noi crediamo come
cristiani deve rimanere
nell’ambito delle nostre
azioni libere e individuali, non deve assolutamente essere imposto
per legge! Per questo
noi ci impegniamo così
profondamente per la
difesa della laicità delle
istituzioni: sulle questioni etiche che prevedono
scelte differenti per le
concludere vorrei
rimarcare che la medicalizzazione della morte
ha portato, dalla seconda metà del '900, ad allontanare la morte dalla
nostra vita, con la conseguenza, da un lato di
fare respirare un’aria di
“immortalità”, come se
la scienza ci potesse salvare sempre, e dall’altro
a non sapere più affrontare questo evento come
parte della vita. Fino ai
primi decenni del XX secolo, la peggior disgrazia che potesse accadere era di morire improvvisamente, senza essersi potuti accomiatare
dai
propri
cari,
senza aver sistemato i propri interessi e
senza essersi
preparati
al
trapasso; ora
invece, è comune sentire il desiderio di
una morte rapida e improvvisa. Utilizzare la
scienza e la medicina
come mezzo, significa
anche riappropriarsi della vita, di tutta la vita,
dall’inizio alla fine.
*Biologa presso
l’Istituto Scientifico
San Raffaele di Milano.
Membro
della Commissione
bioetica
Pagina 14
Numero settantasette - Maggio 2012
M ANIFESTAZIONE
ORGANIZZATA DALL ’U NIVERSITÀ IN OMAGGIO A
analfabetizzate.
Si racconta, inoltre,
come
attraverso l’enfasi sul filatoio e
sulla filatura a
mano
Gandhi
espresse
una
più ampia concezione politica,
che comprendeva nella lotta per
l’indipendenza
anche il rifiuto
del materialismo
occidentale e la
critica degli eccessi della modernità. Questo
rientrava in una
visione ideale di
Gandhi, che mira all’impegno
quotidiano e disinteressato volto al benessere
degli altri sottolineando l’aspetto
morale della po-
G IORGIO B ORSA
tività dell’alto artigianato
tessile indiano. Nonostante
ciò, nell’India odierna, lanciata
in una crescita accelerata,
che pure ha migliorato le condizioni di vita di un’ampia
percentuale della popolazione, i filatori e i tessitori vivono
in condizioni di estrema precarietà, dovuta a varie logiche
di carattere economico. Artigiani, che creano tessuti di
squisita fattura, sono spesso
costretti a cercare altro lavoro,
necessario per la loro sopravvivenza. Secondo le statistiche nell’ Andhra Pradesh,
regione famosa per la città di
Hyderabad, centro della Information Terchnology, l’88%
delle famiglie legate al settore
dell’alto artigianato tessile
vive al di sotto della linea di
povertà e con forti indebitamenti. Una maggiore visibilità
di questo artigianato in Italia,
dove il settore della moda è
vitale, può migliorare enormemente le condizioni di vita di
il Direttore del Centro Studi
Popoli Extra-europei “Cesare
Bonacossa” di Pavia e
Preside della Facoltà di
Scienze Politiche Silvio Beretta ha inaugurato la mostra
“Gandhi e i Tessitori della pace - Un omaggio a Giorgio
Borsa” insieme all’Ambasciatore dell’India Deba-brata
Saha e a Mushirul Hashan,
Direttore Generale degli Archivi dell’India. La mostra
“Gandhi e i Tessitori della Pace” è stata curata da Uzra
Bilgrami (Malkha Marketing
Trust, Hyderabad), Simonetta
Casci (Università di Pavia(,
Purnima Rai (Delhi Crafts
Council, New Delhi) e Rossana Vittani (IED Milano). Nel
Comitato scientifico sedevano
Raunak Ahmad (Indira Gandhi National Open UniversityNew Delhi), Sailaja Gullapalli
(Gandhi Smriti and Darshan
Samiti New Delhi), Laura
Maino (Università di Pavia( e
Stefania Vilardo (U-niversità
di Pavia).
L’allestimento
di SIMONETTA CASCI
“Gandhi
e la tessitura, come
simbolo del nazionalismo indiano e dello sviluppo dei villaggi”: a questi temi erano
dedicati gli eventi - una mostra documentaria dal titolo
“Gandhi e i Tessitori della Pace”, un convegno e un
seminario - che si sono svolti
dall’8 all’11 maggio all’
Università di Pavia. La manifestazione è stata organizzata
dall’Università in collaborazione con l’Accademia Galli e
con la Fondazione Ratti di
Como e ha proposto anche un
omaggio al professor Giorgio
Borsa, morto nel 2002 all’età
di novant’anni e che è stato
direttore del Centro Studi per i
popoli extra-europei “Cesare
Bonacossa”, facente capo al
Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’ Ateneo
pavese. Poco prima della sua
scomparsa, Borsa, che dal
1977 per trent’anni aveva
insegnato Storia politica e diplomatica all’Università di
Pavia, aveva pubblicato il
decimo volume di Asia Major,
la pubblicazione del centro
studi Cesare Bonacossa ,
intitolato “Trasformazioni politico-istituzionali dell'Asia nell'
era di Bush”. La modernizzazione dell’Asia Orientale sotto
l’influenza dell’Occidente era
la sua specializzazione, e di
questo tipo di studi era stato
in Italia l’iniziatore: nel 2000
ne aveva pubblicato un pon-
deroso consuntivo, in inglese,
sulla rivista “Il Politico”,
organo della facoltà di Scienze politiche di Pavia.
La mostra “Gandhi e i tessitori della Pace” si è svolta presso l’aula Disegno dell’
Università di Pavia e ha introdotto la filosofia morale di
Gandhi spiegando l’attenzione che il Mahatma ha sempre dedicato alla filatura e alla
tessitura a mano del cotone
khadi trasformandolo in un
simbolo del nazionalismo indiano e dello sviluppo dei villaggi indiani. La mostra era
divisa in due sezioni; la prima
ha carattere storico e si è
concentrata sulla figura di
Gandhi proponendo una serie
di fotografie d’epoca, mentre
la seconda ha guardato alla
odierna produzione di khadi
con l’esposizione di manufatti
di alcune cooperative nella
speranza di stabilire un contatto diretto fra gli artigiani selezionati e gli imprenditori italiani del settore.
La
prima parte della mostra
ha ripercorso la vita e l’azione
del Mahatma sottolineando il
significato simbolico, che
Gandhi attribuiva al vestiario:
si spiega la decisione di adottare il dhoti, l’abbigliamento
dei più poveri, che gli permise
di creare una cultura patriottica dai forti contenuti morali,
comprensibili sia per l’élite
borghese sia per le masse
litica. Predicata
all’inizio del Nove-cento, la
filosofia gandhiana è certamente molto attuale. Ancora
oggi la filatura e la tessitura a
mano di khadi e di malkha(
versione moderna e semimeccanizzata del tessuto nazionale) esprimono gli ideali
gandhiani puntando a rendere
partecipi allo sviluppo economico anche i più poveri. In
particolare nel procedimento
del malkha l’intera catena di
produzione del tessuto di
cotone si basa sul villaggio,
sperimentando la possibilità
per i coltivatori di cotone grezzo e per i tessitori di beneficiare gli uni degli altri. Attraverso questo processo khadi
e malkha si vuole anche intervenire nel tessuto sociale migliorando le infrastrutture locali, ad esempio favorendo la
costruzione di scuole primarie
e secondarie e di strutture
sanitarie, per distribuire in
maniera più equa le risorse
fra zone rurali e zone urbane.
Il rigore e la dignità della povertà predicati da Gandhi, che
ancora ispirano quanti praticano la tessitura e la filatura a
mano del khadi, non escludono l’eleganza. La produzione
contemporanea, prevalentemente bianca, è variegata e
raffinata. I tessuti, che usano
numerosi motivi (anche con
righe o quadretti), hanno
spessori diversi e in alcuni
casi si presentano come veli
rarefatti, testimoniano la crea-
filatori e tessitori, se si crea un
link fra l’alto artigianato khadi
e l’ imprendi-toria italiana del
settore.
La
mostra “Gandhi e i
Tessitori della Pace” è stata
accompagnata da alcuni eventi collaterali. L’8 maggio,
presso l’Aula Scarpa dell’
Università, si è tenuto il
seminario “Gandhi and Khadi:
Nationalism and Development”: alcuni aspetti del discorso gandhiano sul nazionalismo e lo sviluppo vengono
discussi da personalità accademiche indiane e inglesi.
Dopo il seminario, sempre in
Aula Scarpa, si è svolta la tavola rotonda “India vs Italy:
Styles and Contamination”,
che ha esplorato nuove forme
di dialogo fra artigianato indiano e italiano privilegiando un
discorso ad ampio spettro e
sottolineando le influenze reciproche. Ciò significa innanzitutto coinvolgere nel dibattito
quanti già operano nel settore
in India e in Italia, ma anche
avvicinare in Italia quanti traggono ispirazione da aspetti
diversi del discorso gandhiano
elaborandolo in maniera creatività senza ancora operare in
India. Ha introdotto la tavola
rotonda Mukulika Banerjee
che, oltre a insegnare antropologia alla London School of
Economics, è autrice di un
interessante volume su sari e
sporadicamente appare come
attrice in film bengalesi
d’autore.
Sempre
l’8 maggio
della
mostra è stato curato
dall’architetto Francesco
Ardizzone,
dell’Università di Pavia. Le fotografie sono state concesse
dal National Gandhi
Museum and Library
di New Delhi; da
Gandhi Smriti and
Darshan Samiti di
New Delhi e dal Nehru Memorial and
Museum Library sempre della
capitale indiana. Sponsor della mostra sono stati il Centro
Studi “Cesare Bonacossa”, il
Collegio Del Maino, il Consolato Generale dell’India a Milano, il Master in Cooperation
and Development (IUSS e
Università di Pavia, il Lions
Club International distretto
108 IB 3.
Il 9 maggio in Aula Foscolo si
è tenuto il convegno “ Cittadinanza umanitaria … Premere
per il dialogo”. Sono intervenuti il Rettore dell’Università di
Pavia Angiolino Stella, il Governatore distrettuale del
Lions Club Adriana Cortinovis
e il Past direttore internazionale Giovanni Rigone. Il convegno è stato aperto da Gianni Vaggi, direttore del Master
Università-IUSS in Cooperazione allo sviluppo. Si sono
quindi svolte le relazioni di
Stefano Zamagni, docente
dell’Università di Bologna, sul
tema “La giustizia benevolente e il neocontrattualismo”, e
di Salvatore Veca, vicedirettore dell’Istituto Universitario di
Studi Superiori di Pavia, sul
tema “Un’idea di giustizia senza frontiere”. Nelle conclusioni
Gianni Vaggi ha tratteggiato in
particolare la figura di Amartya Sen, l’indiano Premio Nobel dell’Economia, autore tra
l’altro del libro “L’idea di giustizia”.
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Numero settantasette - Maggio 2012
Parafrasando Dumas,
grazie alla “vecchia”
amica Wanda Grillo
(dopo Rabat ora Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura in Libano)
e all’attuale Ambasciatore d’Italia Giuseppe
Morabito, nuovo amico
della nostra Fondazione, siamo tornati nella
città un tempo perla del
Mediterraneo, ora quasi irriconoscibile per la
selva di grattacieli che
hanno sostituito gli antichi caratteristici palazzi. Malata di cemento,
guagliabili materiali ai
nostri sarti più famosi a
partire dagli anni ‘50
del Novecento.
Invito accettato con
piacere particolare perché abbiamo potuto
festeggiare a Beirut il
12° compleanno della
nostra collezione di moda, nata proprio a Beirut, con un allestimento
improvvisato per una
mostra richiesta
dall’allora Ambasciatore
d’Italia Giuseppe Cassini. La nostra Fondazione nel 2000 non aveva
ebbe un tale successo
che ci fece nascere il
sospetto di “aver scalato il Cervino” per costruire le altre collezioni, mentre con più facilità avremmo potuto
allestire una colorata,
affascinante ed apprezzata storia della moda
italiana. Decidemmo di
affrontare la scommessa con l’aiuto di Teddy
Cappello, moglie
dell’Ambasciatore
d’Italia in Slovenia, dove a Lubiana fummo
chiamati nel 2001 a
una seconda prova. La
sfida era trovare abiti
di alta moda, storici
quindi e di grande impatto scenografico, adatti alle sale del Castello di Tivoli.
Teddy Cappello fu la
nostra madrina perché
Se Armani non ci offrì
mai un contributo, generosissimi invece furono Santo Versace e
Raffaella Curiel, che ci
aprirono volentieri le
ante dei loro archivi
storici. Egualmente Rita
Airaghi per Ferré. Approdammo quindi al
mercato del vintage, a
Belgioioso ma non solo,
per arricchire in modo
progressivo e continuo i
nostri armadi di nomi
preziosi quali Veneziani
e Schubert, Pirovano,
Biki, Mila Schon e Moschino. La cosa incominciava a farsi seria e
da allora è stato tutto
un red carpet con presentazioni, mostre e
sfilate in forse ormai 20
Paesi. Allestimenti in
luoghi pazzeschi per
bellezza e prestigio.
dello shopping del lusso, come in Kuwait, a
Istanbul e recentemente al Central di Bangkok (nuovo proprietario di Rinascente), o
teatri come a Salonicco
ed Ankara. Ricordi rinverditi dalla magica atmosfera dello splendido
complesso di George
Asseyli, dove le nostre
sete, tra terrazze, pergolati e profumi di gelsomino, saranno ospiti
sino a novembre. Preparandosi a una nuova
tappa, non lontana, invernale, alla Royal Gallery di Amman. Ci sarà
la Sua Maestà la regina
Rania? Dovremo cercare di necessità, in suo
onore, qualche Armani
da sera. A meno di
chiederlo… a Lei!
Il ritorno a Beirut è
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
che anni or sono tenne
un frequentato seminario alla Fondazione Hariri di Saida.
Dovremo aspettare il
2014 per un ritorno al
Museo Soursok con la
di GIORGIO FORNI
quasi senza ormai giardini, circondata da verdi colline ahimè urbanizzate come la nostra
Liguria.
Ospiti dell’amico George Asseyli e del suo
Museo della seta, antico palazzo in pietra a
Bsous, abbiamo allestito in due grandi sale
dell’antica manifattura
serica due collezioni
delle sete di Sartirana.
Quella di frammenti del
XVII e XVIII secolo
conservati e montati su
pannello ad Anversa da
Jacqueline Dumortier
De Bolle (in origine paramenti ecclesiali e tessuti liturgici) per raccontare una storia della
seta italiana di un glorioso passato. Accanto
quella invece recente
dei setifici che hanno
offerto preziosi ed ine-
ancora un settore dedicato alla moda, ma alla
precisa richiesta
dell’amico Ambasciatore non si poteva opporre un imbarazzato rifiuto. Che fare allora? Presto detto.
Dieci Armani e altrettanti Ferré dal guardaroba di mia moglie, dieci Versace dagli armadi
dell’amica neurologa
Mariella, compagna di
studi medici, il Valentino da sposa di Antonella Griziotti; ad essi aggiungemmo altri abiti
storici di mia madre e
di mia suocera (ancora
Valentino, Balestra, Roberta di Camerino e
Ken Scott).
Così la collezione improvvisata partì per
Beirut, dove il nostro
“pronto da indossare”
ci introdusse non solo
nelle case di sue amiche, nobildonne romane (ricordo un pellegrinaggio fra palazzi storici e magnifiche ville
sull’Appia antica), ma
anche negli archivi storici di Roberto Capucci,
delle sorelle Fontana, di
Irene Galitzine e di
Gattinoni. Alla fine di
una settimana di questue riuscii a caricare
sulla mia capiente Renault Espace una sessantina di capolavori di
stoffa che fecero grande la mostra a Lubiana
e che in buona parte
rimasero in prestito a
costituire lo zoccolo duro della nuova collezione. Dopo Roma fu la
volta di Firenze, poiché
ci mancavano Gherardini, Gucci e Pucci, poi
finalmente Milano.
Palazzi Reali come a
Bucarest e Tirana, ex
conventi come a Zagabria, Musei di arte contemporanea come a
Riyadh, Tunisi e Lima,
come anche in palazzi
storici o moderni sedi
dei nostri Istituti di Cultura. Ricordi straordinari soprattutto delle
sfilate organizzate sia
con modelle professioniste che con le allieve
dei corsi di lingua degli
Istituti IIC. Ragazze e
ragazzi da quando la
collezione cercò di documentare anche la
moda maschile, presentata per la prima
volta allo stadio del
CSKA di Sofia, dove
anche molti atleti si
prestarono come modelli per una notte.
Non abbiamo però
mai disdegnato i templi
stato anche occasione
per nuovi progetti. In
novembre esporremo a
Villa Audi, tra tesori di
mosaici di epoca romana, alcuni set dei nostri
argenti più belli. Il servizio da tavola di Olga
Finzi per lo Scia di Persia Reza Palhavi, servizi
da tè e da caffè, una
collezione di brocche, di
vasi e candelieri, firmati dai grandi autori del
nostro design.
Nella nuova galleria di
Simone Kosremelli, disegnata con il suo rigore di architetto famoso
e appena inaugurata
con la sua prima collezione di gioielli, potremmo invece proporre i monili d’argento
degli architetti per San
Lorenzo, di Alba Lisca,
Paola Crema e con
quelli di Bice D’Errico,
nostra collezione di
grafica, mentre già in
questo prossimo giugno
Mario Maioli sarà protagonista al Palazzo Unesco di una mostra con
le immagini del suo lavoro per il Gruppo Fiat
Auto.
Il felice incontro con
Mimo Seman, in Libano
portabandiera del design dell’arredo italiano,
ha innescato un altro
progetto per tempi futuri, quello di portare a
Beirut la nostra collezione dressing home di
mobili e complementi di
arredo, magari nelle
sale di Alba, a Beirut
quello che a Milano è la
Triennale. Proficuo viaggio, quindi, per riaccendere fuochi sopiti e
riannodare preziose
collaborazioni.
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FRANCESCO GUCCINI
DIARIO DELLE COSE
PERDUTE
MONDADORI
C’era una volta …
già, cosa c’era una volta? Con un poco
di nostalgia, ma soprattutto con la poesia e l’ironia della sua prosa, Francesco Guccini, cantautore, poeta, scrittore, posa il suo sguardo sornione su
oggetti, situazioni, emozioni di un passato che è di ciascuno di noi, ma che
rischia di andare perduto, sepolto nella
soffitta del tempo insieme al telefono
di bachelite e alla pompetta del Flit.
Una volta, c’era la banana: non il frutto am ato d a i b am bin i, b en s ì
l’acconciatura arrotolata che proprio i
bimbi subivano e detestavano ma che
veniva considerata imprescindibile dai
loro genitori. I quali, per bere un buon
espresso, dovevano entrare in un bar
e chiedere un “caffè caffè”, altrimenti
si sarebbero trovati a sorbire un caffè
d’orzo. Un viaggio nella vita di ieri che
si legge come un romanzo: per scoprire che l’archeologia “vicina” di noi
stessi ci commuove, ci diverte, parla di
come siamo diventati.
ALESSANDRO BARICCO
TRE VOLTE ALL’ALBA
FELTRINELLI
Nell’ultimo romanzo che ha scritto, Mr
Gwyn, si accenna a un certo punto a
un piccolo libro scritto da un angloindiano, Akash Narayan, e intitolato Tre
volte all’alba. Si tratta naturalmente di
un libro immaginario, ma nelle immaginarie vicende là raccontate esso riveste un ruolo tutt’altro che secondario. Il fatto è che mentre Baricco scriveva quelle pagine gli è venuta voglia
di scrivere anche quel piccolo libro, un
po’ per dare un lieve e lontano sequel
Numero settantasette - Maggio 2012
a Mr Gwyn e un po’
per il piacere puro di
inseguire una certa
idea che aveva in
testa. Così, racconta
Baricco, “finito Gwyn,
mi sono messo a scrivere Tre volte
all’alba, cosa che ho fatto con grande
diletto”. “Venga, le ho detto. Perché?
Guardi fuori, è già l’alba. E allora? E’
ora che lei torni a casa a dormire. Cosa c’entra che ora è? Sono mica una
bambina. Non è questione di ore, è
una questione di luce. Che cavolo dice? È la luce giusta per tornare a casa,
è fatta apposta per quello. La luce?
Non c’è luce migliore per sentirsi puliti.
Andiamo”.
MASSIMO GRAMELLINI
FAI BEI SOGNI
LONGANESI
È la storia di un segreto celato in una
busta per quarant’anni. La storia di un
bambino, e poi di un adulto, che imparerà ad affrontare il dolore più grande,
la perdita della mamma, e il mostro
più insidioso: il timore di vivere. Fai
bei sogni è dedicato a quelli che nella
vita hanno perso qualcosa. Un amore,
un lavoro, un tesoro. E rifiutandosi di
accettare la realtà, finiscono per smarrire sé stessi. Come il protagonista di
questo romanzo. Uno che cammina
sulle punte dei piedi e a testa bassa
perché il cielo lo spaventa, e anche la
terra. Fai bei sogni è soprattutto un
libro sulla verità e sulla paura di conoscerla. Immergendosi nella sofferenza
e superandola, ci ricorda come sia
sempre possibile buttarsi alle spalle la
sfiducia per andare al di là dei nostri
limiti. Massimo Gramellini ha raccolto
gli slanci e le ferite di una vita priva
del suo appiglio più solido. Una lotta
incessante contro la solitudine.
della Chiesa Valdese
1928-2012
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