cliccando qui - Socrate al Caffè per la cultura e la conversazione civile
by user
Comments
Transcript
cliccando qui - Socrate al Caffè per la cultura e la conversazione civile
U RIB E ON ZI T DIS ww a orn lgi w.i GR is led U AT a ocr ITA Numero settantasette – Maggio 2012 t te.i Mensile di cultura e conversazione civile diretto da Salvatore Veca Direttore responsabile Sisto Capra INTERVISTA IMPOSSIBILE Politica Parola da riscoprire GIOVANNA CORCHIA A pagina 12 Il testamento biologico secondo i Valdesi MONICA FABBRI A pagina 13 Gandhi e i Tessitori della Pace SISTO CAPRA da pagina 2 a pagina 11 SIMONETTA CASCI A pagina 14 Ricerca iconografica PINCA-MANIDI PAVIA FOTOGRAFIA “Caro Socrate, c’è una domanda che mi gira per la testa da qualche tempo. Mi chiedo: perché i giornali ci riempiono ormai settimanalmente di offerte di ‘classici’? Clas- FONDAZIONE SARTIRANA ARTE A Beirut… 10 anni dopo GIORGIO FORNI PAGINA 15 sici della letteratura, della poesia, della filosofia, della scienza, e chi più ne ha più ne metta. Che senso ha tutto ciò, mio saggio amico?”. “Lo sai bene che ho sempre avuto una certa passione perversa per le domande, diletto Glaucone. Ma questa mi sembra piuttosto strana. E poi, perché chiedere proprio a me di sciogliere l’enigma? Di giornali non me intendo granché, dopo tutto. Il mio imbarazzo potrebbe essere pari al tuo. E staremmo lì, tutti e due, imbarazzati e assorti, ad aspettare da un qualche oracolo uno straccio di risposta”. “Ma tu sei un classico, caro Sileno. Mi sembrava una ragione più che sufficiente per rivolgermi a te, nell’imbarazzo.” “Glaucone, lo sai altrettanto bene che non ho mai scritto una riga in vita mia. Già non mi è La luce dei classici nel buio dell’oggi di SALVATORE VECA andata alla grande al processo, avendo solo parlato e chiacchierato molto. Figurati se avessi scritto.” “Ma tu sei un classico. Non puoi negarlo. È vero, lo sei per quello che altri hanno scritto nei secoli a proposito di te e di ciò che tu hai detto nella interminabile conversazione umana. Ma non c’è dubbio sul fatto che tu sia un classico. Devo forse concludere che oggi sei un po’ pigro e semplicemente non ti va di metterti alla prova con la sfida dell’ennesima domanda?”. “E va bene, Glaucone. Anche se il tuo argomento ha un la Feltrinelli a Pavia, in via XX Settembre 21. Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30 sapore lievemente da sofista, o forse proprio per questo, mi viene voglia di cercare con te una risposta alla strana domanda. Sei convinto che quelli che voi chiamate classici, non lo sono sempre stati ma lo sono divenuti nel tempo?” “Certo, Socrate, come potrebbe essere altrimenti?” “Allora dovremo riconoscere che il classico è qualcosa, un pensiero, un testo, un’opera, un’icona, che ha superato la prova e la sfida evolutiva della durata. Qualcosa che ci illumina ancora, anche se da distanze siderali, come fa la luce delle stelle ormai morte nella grande volta del cielo con tutti i suoi epicicli.” “È vero, Socrate, anche lasciando in pace Tolomeo.” “E allora, Glaucone, chiediamoci perché e quando è bene per noi cercare la luce?”. “Quando il nostro andare e viaggiare nel mondo è minacciato dal buio. E rischiamo di perderci, senza più saperci orientare nel guazzabuglio.” “Glaucone, lo senti che le nostre idee cominciano a connettersi felicemente nella ricerca della risposta? Come puoi parlare di buio, in un tempo in cui le scienze guadagnano di continuo, a grandi falcate, risultati luminosi e benefici per i nipotini di Prometeo? Di quale altra luce abbiamo mai bisogno?”. “Hai ragione, Sileno. Adesso non so più come risponderti. Anche se lo so che c’è qualcosa che non torna nel mio modo di pensare.” “Glaucone, il punto è che sappiamo sempre meglio come sono le cose, e com’è fatto il mondo, e come usare al meglio l’arsenale dei mezzi che ci è disponibile. Ma siamo incerti e perplessi sui fini degni di essere perseguiti. Il buio investe lo spazio dei nostri modi di vivere e convivere. Forse, per questo, abbiamo bisogno dei grandi repertori di esperimenti e progetti di convivenza consegnati, nel tempo, ai classici della nostra e di altre tradizioni.” “Vuoi dire che negli uffici marketing della stampa sanno tutta la faccenda dell’opacità dei fini?”. “Non esageriamo, caro Glaucone. Basta che lo facciano, anche non sanno bene perché lo fanno.” Parola di Socrate. Numero settantasette - Maggio 2012 Pagina 2 VITTORIO NECCHI INTERVISTA IMPOSSIBILE Quarant’anni fa Pavia era il secondo capoluogo lombardo per numero di imprese industriali. C’erano la Necchi, la Snia, le Officine Meccaniche Moncalvi, la Carlo Pacchetti, le cartiere Pirola, la Neca, la Magneti Marelli, la Cattaneo e altre ancora. Di tutti i capitani d’industria pavesi, Vittorio Necchi (1898-1975) è stato il più illustre. Creò un mo- dello, un esempio, un’epopea. “Il giornale di Socrate al caffè” vuole ricordarlo con una “intervista impossibile”. Anche per sostenere una causa. Ci uniamo ad Agostino Faravelli e al gruppo di cittadini ed exdipendenti che nel novembre 2010 ha proposto al sindaco Alessandro Cattaneo di intitolare a Vittorio Necchi la rotonda di Bor- go Calvenzano. È giusto ricordare, nell’età della rovinosa deindustrializzazione, un imprenditore che fece grande la città di Pavia. Finora la Giunta Cattaneo ha taciuto: speriamo che voglia colmare questa lacuna. L’ “intervista impossibile” trova il suo alimento nel bel volume Vitto- rio Necchi, ricordi di un grande uomo e di una grande ditta, edito nel 2010 da Agostino Faravelli e da Delta 3, aperto dalla presentazione di Carmine Ziccardi (sotto, la copertina). Faravelli è stato impiegato alla Vittorio Necchi dal 1948 al 1963, fa parte del gruppo “Amis dal dialèt” del Circolo Culturale Pavese “Il Regisole” e ha scritto testi in lingua e in dialetto per il teatro dilettantistico pavese. di SISTO CAPRA «Dove sono le biciclette? Dove sono gli operai? Dove sei Gino? E tu Maria, mia governante? E tu Fredo, mio maggiordomo? E tu Geni, mio autista? Oh cara Lina, adorata Lina, non c’è più nessuno, nessuno. Tutto è perduto, tutto dimenticato qui in via Rismondo. Non ci restano nemmeno le lacrime. Pavia, Pavia, che cosa hai fatto!». L’uomo, il Commendatore, il Cavaliere del Lavoro piangeva in silenzio nel piazzale di via Rismondo. Vittorio Necchi era tornato 36 anni dopo a rivedere la sua fabbrica, la Vittorio Necchi Spa, la mitica industria da lui fondata che aveva fatto di Pavia la capitale mondiale delle macchine per cucire. Era nato nel il 21 novembre 1898 ed era morto il 17 novembre 1975. E non aveva nulla da vedere, perché semplicemente non c’era più nulla. La Fabbrica non esisteva più. Le fabbriche non c’erano più. «Mi avevano avvertito - mormorava - che avrei trovato il deserto della cultura industriale. Volevo rendermi conto di persona. È come se oggi morissi di nuovo». Vittorio Necchi aveva accettato di buon grado la proposta del “Giornale di Socrate al caffè” di rievocare la sua irripetibile epopea industriale ed era tornato. «Su, avanti, mi interroghi pure, prima che il tempo del- la mia licenza sia trascorso. Non credo che la mia testimonianza servirà a qualcosa, se non a risvegliare tramon- Quali erano le origini del Suo cognome? Necchi era tipico delle zone di Pavia e di Milano originato dal latino Nequus (iniquo). Potrebbe anche discendere dal soprannome dialettale legato al vocabolo milanese Gnecch (svogliato). E le origini della Sua famiglia? Già IL PADRE DI VITTORIO, AMBROGIO NECCHI. IN ALTO, DUE MODELLI DI MACCHINA PER CUCIRE NECCHI (L’ANTICA E LA MODERNA) ed esisteva la variante Necco nel Piemonte. Si faceva derivare dal nome tardo medievale Nechus, dal 1835 noi Necchi figuriamo nelle cronache pavesi legati a una azienda commerciale e artigiana di ferramenta. Questa azienda era del mio bisnonno Ambrogio (1802-1874), passata poi nel 1874 al nonno Giuseppe (1832-1900) e poi a mio padre Ambrogio (1860-1916, Cavaliere del Lavoro dal 1° dicembre 1912). Agli inizi del secolo la fabbrica era in corso Cairoli 3 e occupava 150 operai. Eseguiva costruzioni meccaniche, macchine agricole e ave- Il giornale di Socrate al caffè Direttore Salvatore Veca Direttore responsabile Sisto Capra Editore: Associazione “Il giornale di Socrate al caffè” (iscritta nel Registro Provinciale di Pavia delle Associazioni senza scopo di lucro, sezione culturale) Direzione e redazione via Dossi 10 - 27100 Pavia 0382 571229 - 339 8672071 - 339 8009549 [email protected] Redazione: Mirella Caponi (editing e videoimpaginazione), Pinca-Manidi Pavia Fotografia Stampa: Tipografia Pime Editrice srl via Vigentina 136a, Pavia Comitato editoriale: Paolo Ammassari, Silvio Beretta, Franz Brunetti, Davide Bisi, Giorgio Boatti, Angelo Bugatti, Claudio Bonvecchio, Roberto Borri, Roberto Calisti, Gian Michele Calvi, Mario Canevari, Mario Cera, Franco Corona, Marco Galandra, Anna Giacalone, Massimo Giuliani, Massimiliano Koch, Isa Maggi, Arturo Mapelli, Anna Modena, Alberto Moro, Federico Oliva, Davide Pasotti, Fausto Pellegrini, Aldo Poli, Vittorio Poma, Paolo Ramat, Carlo Alberto Redi, Antonio Maria Ricci, Giovanna Ruberto, Antonio Sacchi, Dario Scotti. Autorizzazione Tribunale di Pavia n. 576B del Registro delle Stampe Periodiche in data 12 dicembre 2002 Ecco dove viene distribuito gratuitamente “Il giornale di Socrate al caffè” va una fonderia di ghisa. Nel 1904 l’attività si trasferì nel nuovo stabilimento costruito dietro la stazione ferroviaria (luogo dove resterà anche quando diventerà Neca). Qui cominciò la produzione di radiatori per termosifoni che durerà quanto la vita dell’azienda. Si producevano anche vasche da (Continua a pagina 3) Numero settantasette - Maggio 2012 Pagina 3 VITTORIO NECCHI (Continua da pagina 2) bagno in ghisa e fu allestita di conseguenza una smalteria a caldo in una nuova area adiacente a via Trieste. Lei quando nacque? Il 21 novembre 1898. Il mio primo cognome era Carcano perché così venni registrato all’anagrafe. Ebbi il mio vero cognome solo quando mio padre e mia madre Emilia Carcano (1870-1953) si sposarono. La mia famiglia era agiata e non ebbi una fanciullezza difficile. Ricordo un episodio. Avendo avuto in regalo da un prozio, verso i dodici anni, una carabina Flobert, mi divertivo a sparare a quei bianchi isolatori di porcellana che allora stavano in g r a n d e quantità sui pali telefonici per sostenere i cavi, rompendone parecchi! Chissà se si trattava di semplice monelleria oppure se già emergevano in me gli istinti del cacciatore che diventai da grande. Frequentai le scuole senza problemi, elementari, medie, liceo e mi iscrissi alla facoltà di Legge. Ma non ebbi il tempo di frequentare l’ateneo. Nel 1916 persi mio padre a soli 56 anni e, diciottenne, mi trovai con la mamma e con le mie sorelle Gigina e Nedda a dover gestire una difficile eredità. Poi fu chiamato alle armi. La conduzione dell’azienda venne affidata a un amministratore, il ragionier Giorgi. Ebbi però la possibilità di essere assegnato al Nono Reggimento Artiglieria di stanza nel Castello Visconteo e per alcuni mesi potei così essere an- INTERVISTA IMPOSSIBILE cora vicino alla famiglia e all’azienda. Facevo parte di un gruppo di tecnici che conducevano prove sull’impiego strategico di un mezzo di artiglieria nuovo: un cannone montato su autocarro per rapidi spostamenti, il “Camion cannone” costruito dall’Ansaldo nel 1916. Lo sfondamento del fronte a Caporetto, nell’ottobre del 1917, costrinse lo Stato Maggiore dell’Esercito a raccattare tutte le forze disponibili per arginare il nemico e anche il reparto prove del Nono Artiglieria fu inviato al fronte. Ero tenente, mi feci il resto della guerra e mi congedai capitano. In guerra feci una co- noscenza che poi si rivelò importante. Chi? L’allora capitano Cesare Merzagora (1898-1991), che si era arruolato vo- PAOLA CASATI MIGLIORINI Perito della Camera di Commercio di Pavia dal 1988 C.T.U. del Tribunale di Pavia Perizie in arte e antiquariato Valutazioni e stime per assicurazioni Inventari con stima per eredità Consulenza per acquisti e collezioni Perizie a partire da 100 Euro TRAVACÒ SICCOMARIO (PAVIA), VIA ROTTA 24 TEL. 0382 559992 CELL. 337 353881 / 347 9797907 www.agenziadarte.it - email: [email protected] lontario nel 1915 negli Arditi sull’Isonzo. L’amicizia con il milanese Merzagora, a guerra finita, mi portò in un giro di giovani industriali fra i quali Adriano Olivetti, Vittorio Cini, Gaetano Marzotto, Giuseppe (Pinin) Farina. Merzagora sarebbe diventato nel 1938 direttore generale della Pirelli, quindi altissimo esponente della Democrazia Cristiana, nel 1953 presidente del Senato e dal 1963 senatore a vita. In questo periodo conobbi a Milano Arnaldo Mussolini, fratello del futuro duce, che nel 1922 aveva assunto la direzione del “Popolo d’Italia” in sostituzione del fratello. E trovò moglie. Non potevo godermi la gioventù. La perdita prematura di papà, le responsabilità nei confronti della famiglia, i problemi che derivavano dalla condirezione della fabbrica con mio cognato Angelo Campiglio, marito di Gigina, con il quale non andavo d’accordo sulle strategie aziendali, non mi lasciavano spazio per una spensierata giovinezza. Oltretutto ero timido e non avevo facili rapporti con le donne: al momento di pensare al matrimonio conobbi l’unica donna della mia vita: Lina Ferrari, figlia di un insegnante elementare di Parma, di idee socialiste e per questo confinato dal regime a insegnare in Trentino. Per la famiglia Ferrari a Parma la vita era difficile, Lina si era inserita nel mondo del teatro: era la vedette di un avanspettacolo che andava per la maggiore. Fu a Pavia al Kursaal che la vidi. Mi fu presentata, su insistenza di mia madre, da una comune amica pavese. In breve giungemmo al matrimonio. gosto 1961. Visto che conosceva Merzagora, si occupava di politica? Non presi mai parte alla vita politica attiva, ero di dichiarate simpatie mo- Che tipo era Lina? Una vera donna di classe, una vera padrona di casa, impeccabile nelle molteplici occasioni che ebbe di ricevere ospiti importanti per le nostre relazioni sociali. Fu lei che mi suggerì, nel 1925, l’idea di separarmi dal cognato e di buttarmi RITAGLI DI GIORNALI D’EPOCA. con deciNELL’OVALE, LA MOGLIE LINA FERRARI. sione sulla IN ALTO A SINISTRA, LA FONDERIA DI CORSO CAIROLI 3; A DESTRA, LA FABBRICA AGLI INIZI piccola fabbrica per la c o struzione di macchine narchiche e votai per la per cucire che io, pur o- monarchia anche nel resteggiato dalla famiglia, ferendum del 2 giugno avevo avviato nel 1919. 1946; avevo accettato il Lina amava la musica li- fascismo in quanto avrica, non mancava mai u- vallato da Casa Savoia. na prima alla Scala; con- Le sorelle Nedda e Gigitribuiva con il suo buon na già dal 1924 si erano gusto agli allestimenti e iscritte al Fascio Femmiagli arredi delle nostre nile, facendo una precisa residenze. Non avemmo scelta di campo. Naturalfigli e questo fu il più mente, come fecero altri grande cruccio. Morì do- industriali del tempo, utipo breve malattia il 19 a(Continua a pagina 4) SPORTELLO DONNA – BUSINESS INNOVATION CENTER PAVIA-VIA MENTANA 51 ORGANIZZA OTTOMARZOTUTTOL’ANNO2011FESTIVAL 2011"Anno Europeo delle Attivitá Volontarie che promuovono la Cittadinanza Attiva" Per Info : Tel. 0382 1752269 Cel.: 348 9010240 Fax: 0382 1751273 SIAMO SU FACEBOOK Pagina 4 Numero settantasette - Maggio 2012 VITTORIO NECCHI INTERVISTA IMPOSSIBILE Con la Confindustria i miei rapporti erano tutt’altro che idilliaci Avevo aumentato le retribuzioni ... Decisi di puntare sulle macchine per cucire, anche se questo mi costò la rottura in famiglia A SINISTRA, LA GALLERIA CENTRALE INTERNA IN UNA DELLE FONDERIE NECCHI A PAVIA NEGLI ANNI VENTI. SOPRA, OPERAI IN FONDERIA. SOTTO, UNA VEDUTA DEGLI STABILIMENTI NECCHI DEI PRIMI ANNI. NELL’ALTRA PAGINA, IN ALTO , DOPO UNA BATTUTA DI CACCIA ALLA PORTALUPA, LA VILLA NELL’IMMAGINE (Continua da pagina 3) lizzai i mezzi e le persone che il regime poteva offrire per lo sviluppo delle aziende. Il veicolo più efficace fu l’autarchia imposta dal governo: l’Italia doveva ridurre al massimo le importazioni. Quale occasione migliore per lanciare le macchine per cucire nel mercato italiano fino ad allora dominato dalle aziende americane e tedesche (Singer e Pffaf)! Coniato lo slogan “Il prodotto Italiano ha nome Italiano”, fu assai più facile conquistare il mercato. Indossava la camicia nera? Nelle occasioni ufficiali si doveva indossare camicia nera, fez e orbace. Chiamavo la divisa fascista “il vestito da operetta”. La più nota occasione fu la visita di Mussolini con la moglie Rachele agli stabilimenti di via Rismondo nel 1938. La riserva di caccia nella tenuta di Portalupa era una grande possibilità per avere ospiti importanti sia del regime che del mondo industriale. Ogni volta che un gerarca o un alto funzionario fascista arrivava a Pavia per ragioni politiche, era quasi d’obbligo essere miei ospiti per una battuta di caccia. Ospiti frequenti erano Arnaldo Mussolini e Cesare Merzagora e, attraverso questi, Italo Balbo, presunto delfino di Mussolini, Attilio Terruzzi, il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Le visite di Umberto di Savoia e della moglie Maria Josè erano quasi abituali, non solo a Portalupa ma anche nella riserva di pesca di Cogne. Il Duce, invece, non accettò mai l’invito a caccia: affermava che le armi dovevano avere un impiego più consono ai destini della Patria! Dopo l’8 settembre 1943, proprio perché di fede monarchica, non godetti di alcuna simpatia né tra i neofascisti né presso i tedeschi e dovetti allontanarmi da Pavia. Andai a vivere a Barasso, un paesino sopra Varese, in casa di Gigina e di Angelo Campiglio e vi rimasi fino alla fine della guerra. Nel dopoguerra non mi interessai di politica, salvo mantenere la salda amicizia con Cesare Merzagora. Tracciamo ora il Suo profilo come industriale. Che fossi un industriale di razza l’avevo già dimostrato lanciando la fabbrica di macchine per cucire (I.R.I., Industrie Riunite Italiane) contro l’idea della famiglia di gestire e sviluppare la fonderia di papà, che già dava ottimi risultati. Sostenuto anche da mia moglie, nel 1925 arrivai a un compromesso con la famiglia: alle sorelle, con Angelo Campiglio, andarono le fonderie di ghisa e le smalterie, io mi tenni la fabbrica di macchine per cucire. Libero da ogni necessità di discutere e di mediare con altri ogni mia decisione, potei così scatenare tutta la mia voglia di fare. Riuscii a smentire i famigliari, non solo conquistando il mercato italiano ma sviluppando un’azienda di valore mondiale. Il 27 ottobre 1935 ebbi, per nomina reale, il titolo di Cavaliere del Lavoro per i meriti acquisiti nel campo dell’industria meccanica. Come furono i suoi rapporti con la Confin- dustria? Non proprio idilliaci. Ero considerato con sospetto, come se fossi una scheggia impazzita. Ero solito dire, a chi si lamentava per le troppe spese per il personale, che la retribuzione delle 200 ore (la gratifica natalizia, come si chiamava allora la tredicesima mensilità) sarebbe stato giusto e conveniente erogarla almeno due/tre volte all’anno, poiché questi soldi sarebbero usciti dalla porta ma sarebbero (Continua a pagina 5) Pagina 5 Numero settantasette - Maggio 2012 VITTORIO NECCHI INTERVISTA IMPOSSIBILE Amavo le automobili e con una fuoriserie andai a Roma alle nozze della figlia di Cesare Merzagora (Continua da pagina 4) subito entrati dalla finestra: i dipendenti li avrebbero potuti spendere, muovendo sensibilmente i consumi e il mercato. Per certe orecchie questa era musica stonata. Ecco cosa scriveva di me Indro Montanelli nel libro “Gente qualunque”: «…il capitalismo che Vittorio impersona è alquanto diverso da quello che viene raffigurato nei libri dai suoi apologeti e dai suoi detrattori… e via via che mangiavamo, egli mi parlava di un grande progetto che veniva sviluppando nella sua mente in favore dei dipendenti che andavano in pensione…». Montanelli si riferiva alla mia idea di istituire un vitalizio di diecimila lire mensili per integrare la pensione, già allora piuttosto magra, per i dipendenti, specialmente per quelli di basso livello. Realizzai il progetto nel 1955. Quando i miei uomini migliori cominciarono a capire che la macchina per cucire non avrebbe potu- to avere un futuro e prospettarono la necessità di avviare produzioni alternative, io, già stanco e non più in salute, mi trovai in disaccordo con loro. È di quei tempi la mia frase: «La Necchi è nata con le macchine per cucire e con le macchine per cucire morirà!». Acconsentii, tuttavia, agli accordi con gli americani della Kelvinator per produrre i compressori ermetici per frigoriferi. Quali erano le Sue abitudini? Benché gli affari si svolgessero ormai in tutto il mondo, non amavo viaggiare e delegavo i miei collaboratori a rappresentarmi. Tuttavia, quando era necessaria la mia presenza, il mezzo di tra- sporto che utilizzavo era l’auto, anche per lunghi viaggi, (Roma, per esempio); raramente usavo il vagone letto e ripudiavo l’aereo. Amavo guidare da me l’auto, seppure con l’autista seduto di fianco. La passione per le auto mi portò a posse- derne molte e di vario tipo. Dalla Fiat 501 nel 1919, alla lussuosa Isotta Fraschini 8 A del 1923; nel 1949 mi presi il capriccio di acquistare una Fiat 1100 S (sport tipo Mille Miglia), con la quale giornalmente sfrecciavo da Portalupa, dove risiedevo, alla fabbrica di via Rismondo. Nel 1955, spinto da chi riteneva che un industriale come me dovesse distinguersi con un’auto social simbol, acquistai una lussuosa auto americana, una Oldsmobile di 5000 cc. di cilindrata, io STUDIO DIAPASON PAVIA COUNSELING - PSICOLOGIA - PSICOTERAPIA - PSICOPEDAGOGIA PSICOLOGI E PSICOTERAPEUTI DELLO STUDIO: D.ssa E.Biscuolo Tel. 339 3140196 email: [email protected] Psicologa - Psicoterapeuta Cognitiva Comportamentale D.ssa M. Pala Tel. 393 4184023 email: [email protected] Psicologa - Psicoterapeuta Breve Strategica D.ssa T. Brandolini Tel. 339 8792554 Psicologa - Mediatrice Familiare email: [email protected] D.ssa C. Torciani Tel. 338 3424929 email: [email protected] Psicologa - Psicoterapeuta Cognitiva Comportamentale D.ssa S. Malandra Tel. 338 9027205 Psicologa, specializzata in Psico-geriatria email: [email protected] D.ssa M. Gazzaniga Psicologa email: [email protected] Tel. 339 8438848 D.ssa A. Barcheri Tel. 348 0431015 email: [email protected] Psicologa - Psicoterapeuta Cognitiva Comportamentale INCONTRIAMOCI Domenica 3 giugno alle ore 11 alla Libreria Feltrinelli di Pavia Psicologia: tra palco e realtà Relatrici: Claudia Danesini, psicoterapeuta Arianna Barcheri, psicoterapeuta D.ssa G. Benza Tel. 338 1490089 email: [email protected] Psicologa, Counselor con procedura immaginativa D.ssa C. Danesini Tel. 366 4138854 Psicologa - Psicoterapeuta familiare email: [email protected] Studio Diapason Pavia Dr. L. Bertazzoni Tel. 338 7432153 email: [email protected] Psicologo - Psicoterapeuta ad orientamento Analitico Transazionale STUDIO DIAPASON PAVIA SNC DI CASARINI F e AIELLO F VIA CASE NUOVE, 33/5 27028 SAN MARTINO SICCOMARIO (PV) P.IVA/C.F./Iscriz.Reg.Imprese Pv 02264140183 REA 259294 www.studiodiapasonpavia.it che non avevo mai, per principio, abbandonato il prodotto nazionale. Questa macchina era dotata di cambio automatico, ancora poco diffuso da noi. La usai per la prima volta per recarmi a Roma al matrimonio della figlia di Merzagora. Guidai personalmente per tutto il viaggio per gustarmi il mio nuovo gioiello ma, ahimè, pagai l’inesperienza nell’uso del cambio automatico. Il motore si surriscaldò oltre misura e mi trovai a Roma con l’auto inutilizzabile. Ci volle una lauta mancia agli addetti di un’autofficina perché lavorassero tutta la notte per consentirmi di presenziare l’indomani alla cerimonia con l’auto americana. Amavo allevare canarini, e questo per pura passione. A tal proposito ricordo ancora ciò che scriveva Montanelli: «… e del capitalismo mi mostrò solo uno dei lati più simpatici: una mensa imbandita con varietà e dovizia, pur senza pericoli di indigestione, un buon vinello, un eccellente caffè… si sentì una specie di trillo che veniva dall’altra stanza. Il commendatore tacque di colpo, … poi “Non si meravigli” disse “ sono i miei canarini… sono care be(Continua a pagina 6) Pagina 6 Numero settantasette - Maggio 2012 VITTORIO NECCHI INTERVISTA IMPOSSIBILE La benemerenza più gradita fu quella concessami dalla città di Pavia Laurea honoris causa GRUPPO DI DIPENDENTI CACCIATORI DOPO UNA BATTUTA NELLA RISERVA DELLA PORTALUPA. SONO RICONOSCIBILI: AL CENTRO, IN BORGHESE, GINO GASTALDI, CONSIGLIERE DELEGATO DELLA SOCIETÀ, E PIERLUIGI ORLANDI, IL QUARTO IN PIEDI DA SINISTRA, AMMINISTRATORE DELLA TENUTA DI PORTALUPA (NELLA FOTO IN ALTO) (Continua da pagina 5) stiole…Mi fa un tale piacere sentire i canarini vicino a me …” e aveva la voce commossa. Però questo capitalismo con i canarini, chi lo direbbe?». Un’altra mia passione poco nota era la coltivazione delle orchidee, novello Nero Wolf. Ottenni anche ottimi risultati in mostre importanti, fra cui l’esposizione mondiale del fiore di Genova, nel 1958. Lei ottenne molte benemerenze. Sì molte. Ho già detto del titolo di Cavaliere del Lavoro il 27 ottobre 1935; nell’aprile del 1940 fui insignito del titolo di Grand’Ufficiale della Corona d’Italia. Ma certamente il riconoscimento che più apprezzai, per- ché veniva da un’istituzione della mia città, fu il conferimento da parte dell’Università di Pavia e del Rettore Magnifico Plinio Fraccaro della laurea in fisica honoris causa nel 1955. La città di Pavia, nel 1962, mi proclamò Cittadino benemerito, fondatore della grande azienda che porta il suo nome, nota e apprezzata in tutto il mondo, per aver contribuito in modo determinante allo sviluppo economico e al progresso della Città. Nel 1963 ricevetti dall’Università di Pavia una medaglia di benemerenza. Nel 1950, intanto, si era ammalato? Alla fine dell’anno venni ricoverato al San Matteo per una calcolosi epati- ca. Operato dal professor Morone, la mia degenza andò per le lunghe e in azienda si temette il peggio. Ma mi ristabilii completamente. Ricordo che, quando rientrai in azienda, i 5.200 dipendenti si riunirono davanti alla portineria per salutarmi. Fu una grande dimostrazione di affetto. Nel corso del 1972 si manifestò un dolore alle gambe e cominciai a camminare con difficoltà. La mia presenza in azienda andò pian piano diradandosi. Non così invece per le abituali battute di caccia: mi ero fatto allestire un sedile girevole nella parte posteriore della Campagnola Fiat e con quel mezzo continuai ancora per qualche tempo a frequentare la riserva. La malattia progrediva: si trattò all’inizio di artrosi, aggravata dal sovrappeso, poi si aggiunsero complicanze flebitiche e infine il diabete. Il quadro clinico era aggravato dalla difficoltà respiratoria per essere stato un accanito fumatore. Fui ricoverato in varie riprese nella clinica San Raffaele di Milano, dove l’ultima degenza si protrasse per quasi un anno. I medici, per un ultimo tentativo di prolungarmi la vita avevano p r o g r a m m a t o l’amputazione di una gamba, ma alla vigilia dell’intervento il 17 novembre 1975 morii. Avrei compiuto 77 anni quattro giorni dopo. L’annuncio pubblico avvenne ad esequie avvenute, il 19 novembre. I funerali si svolsero nella tenuta di Portalupa, nella chiesetta che che avevo voluto per i dipendenti. Erano presenti: il personale di ca- sa, i lavoratori della azienda agricola e i loro famigliari. Per rappresentare la Ditta erano presenti Luigi Bono e Giuseppe Luraghi, che dopo la sua clamorosa uscita dall’Alfa Romeo era entrato nel consiglio d’amministrazione della Vittorio Necchi insieme a Nedda Necchi, Reno Ferrata e al Bono stesso. Pavia l’ha dimenticata, non ha nemmeno trovato il modo di onorarLa nella toponomastica. Ebbene sì. Come si dice, nemo propheta in patria. Il colmo fu una notizia che uscì sul “Corriere della Sera” del novembre 2002. Recitava: “Il Comune ha dimenticato Vittorio Necchi, fondatore della più importante fab- brica pavese, lasciando al buio la sua tomba nel Cimitero Maggiore perché nessuno, visto che non ci sono eredi, ha mai pagato il canone per i servizi cimiteriali. Nei giorni scorsi alcuni ex operai dell’azienda di Pavia, che per Ognissanti avevano deciso di deporre fiori sulla tomba dell’imprenditore pavese, hanno scoperto con incredulità che la cappella non era più illuminata. Pensando ad un guasto elettrico, hanno chiamato il custode, il quale ha spiegato che la lampada votiva era stata staccata perché nessuno pagava per il servizio (10 € all’anno!). Il caso è già arrivato in consiglio comunale. «Il Comune conferma l’assessore ai Servizi cimiteriali - ha studiato un piano di inter(Continua a pagina 7) Numero settantasette - Maggio 2012 Pagina 7 VITTORIO NECCHI (Continua da pagina 6) vento per le cappelle storiche del Cimitero Maggiore, lunedì presenteremo il progetto per il restauro delle tombe dei Garibaldini, mentre presto sia la cappella della famiglia Necchi sia quella del premio Nobel Camillo Golgi saranno rimesse a nuovo»”. Apriamo ora il capitolo sioni d’estate e le sciate d’inverno, la Bocciofila, la quadra di calcio, il Necchi club per gli appassionati di teatro, il Gruppo Vogatori Necchi Ticino, una Compagnia teatrale verso la metà degli anni ‘50, il Gruppo Cacciatori alla riserva di caccia della Portalupa. Sponsorizzai la Pallacanestro Necchi Pavia, che dal ’55 al ‘58 militò nella INTERVISTA IMPOSSIBILE c’erano due ingegneri di alta levatura: Emilio Cerri, che veniva dalla Fiat, per il settore Macchine per cucire, e Antonio Beccalli, grande tecnico metallurgico, anche lui proveniente dalle fonderie Fiat-Lingotto, per il settore Fonderia. Cerri nel 1938 progettò e brevettò il sistema di cucitura a zig-zag. Vincendo la mia ritrosia ad assumere parte dei suoi rapporti finanziari. Si era creato così un circolo virtuoso: i risparmi dei pavesi, derivati in larga misura dal reddito dei dipendenti Necchi, affidati alla Banca del Monte rientravano così ad alimentare l’economia locale. Tutto l’apparato che gestiva la parte finanziaria era stato affidato ad un amministratore di razza: France- do a esportarne più di 10 mila, e circa 5 mila tonnellate di ghisa. Per i primi tre anni di guerra il mercato italiano non subì grandi flessioni: nel paese servivano divise militari per l’esercito, nelle famiglie si acquistavano macchine per cucire per permettere alle donne di avere queste commesse e compensare la mancanza di reddito per la delle attività assistenziali alla Necchi. grandezza che Lei scelse nel 1948 fu l’ingegner Gino Martinoli. Martinoli lo scelsi come direttore generale tecnico con il compito di sviluppare la produzione per fronteggiare le richieste del mercato nazionale in espansione e so- VILLA NECCHI ALLA PORTALUPA. SOPRA A SINISTRA, 1936: LA CONSEGNA DEI PACCHI DONO NATALIZI AI DIPENDENTI NECCHI. A DESTRA, VEDUTA AEREA DELL’INTERO COMPLESSO NECCHI A PAVIA NEGLI ANNI ‘70 Sicuramente il più apprezzato fu il FAI (Fondo assistenza interno), istituito l’11 maggio 1944) che garantiva l’intera retribuzione in caso di malattia, mentre la retribuzione dell’INAM (mutua obbligatoria) era del 50% dello stipendio a partire dal quarto giorno di assenza. Inoltre il FAI aveva un ambulatorio interno alla fabbrica, con attrezzature diagnostiche moderne e personale medico a disposizione di tutte le maestranze. Si poteva anche fruire di turni di riposo in montagna presso la casa di Lanzo d’Intelvi o al mare, a Ospedaletti o a Gatteo Mare, per la convalescenza dopo ricoveri in ospedale. Creai il Gruppo Donatori di Sangue, affiliato all’AVIS nazionale, fondato il 18 marzo 1955 e che raggiunse i 514 donatori. Istituii una borsa di studio riservata ai figli dei dipendenti che dimostravano buona predisposizione agli studi. Verso la fine degli anni ‘50 istituì il premio “Maestri del Lavoro” per premiare gli operai particolarmente capaci nelle loro mansioni. Sorse un intero villaggio, ancora oggi chiamato Villaggio Necchi, alla fine di via Olevano. Per la mia generosità il Policlinico San Matteo mi intitolò il padiglione delle cliniche di otorino, odontoiatria e radiologia. Per il tempo libero creai organizzazioni specifiche: il Moto Club, il Gruppo Escursionisti per gli appassionati della montagna per le escur- Un dirigente di prima massima serie. E passiamo a un altro capitolo, quello dei Suoi collaboratori, con cui Lei fece grande la Necchi. Un uomo può avere l’idea, i mezzi, l’iniziativa, ma non potrà mai avere un grande successo senza l’aiuto di validi collaboratori. Può essere necessaria perspicacia nel cercarli, questi collaboratori, ma certamente anche una buona dose di fortuna nel trovarli. Io ebbi entrambe queste cose. La guida dell’azienda agli inizi era stata dura, ho già ricordato il ragionier G i o r g i p e r l’amministrazione. Il primo salto di qualità avvenne agli inizi degli anni ‘30. Alla guida dell’azienda, con me, parenti in azienda, mia moglie mi convinse a far entrare nella direzione un mio cognato, il ragionier Gino Gastaldi, marito di Graziella, sorella di Lina. Gino fu senz’altro la persona più importante che ebbi al mio fianco: egli rivoluzionò il settore della vendita creando le concessionarie. A Gastaldi affiancai i vice direttori Mario De Paoli e Dino De Paoli, rispettivamente per il settore commerciale e amministrativo, e Giuseppe Manidi che resterà sempre in azienda con funzioni sempre più importanti e che poi sostituirà Gastaldi come consigliere delegato quando questi lascerà la società. Gastaldi fu nel contempo anche presidente della Banca del Monte di Pavia, banca con la quale la Necchi intratteneva la maggior sco Gaiano. Potei avvalermi anche della collaborazione di un giovanissimo contabile, il ragionier Repossi, assunto nell’ottobre 1930 con uno stipendio di 450 lire al mese, che rimase in azienda fino all’età della pensione, diventando a sua volta direttore amministrativo, oltre che presidente del FAI. Con queste persone Gastaldi traghettò l’azienda fuori dalla difficile crisi. Come affrontò la guerra e il dopoguerra? La tranquillità economica non durò a lungo: nel 1940 iniziò la guerra e per la Necchi si ripresentarono tempi duri. L’azienda aveva a quel tempo 2500 dipendenti, produceva 52 mila macchine per cucire, riuscen- chiamata alle armi degli uomini. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 la fabbrica dovette collaborare con produzioni belliche, ma qui il genio di Gastaldi si manifestò: mentre la Necchi produceva otturatori per armi da fuoco per i tedeschi, continuava a produrre macchine per cucire (oltre 30 mila solo nel 1944) nascondendole ove possibile, evitando così la requisizione e l’invio in Germania. Quando nel 1945, a guerra finita, l’azienda ricominciò a lavorare con regolarità, la vendita delle macchine che erano state occultate assicurarono un cespite importante per la tranquillità finanziaria nel momento della ricostruzione industriale. Nel giugno del 1958 Gino Gastaldi venne nominato Cavaliere del Lavoro. prattutto per affrontare i nuovi mercati internazionali che si andavano aprendo, primo fra tutti proprio quello statunitense. Gino Levi (il cognome Martinoli fu adottato nel 1938 in seguito all’approvazione in Italia delle leggi razziali) era nato a Firenze nel 1901, figlio di un professore dell’Ateneo torinese, si era laureato in ingegneria chimica presso il Politecnico di Torino. Dopo la laurea si trasferì a Ivrea e nel corso del 1924 cominciò a lavorare presso la Olivetti, dove rimase per ventidue anni curando l'organizzazione produttiva degli impianti in veste di direttore generale tecnico dal 1932. Nel 1945 entrò a far parte del Consiglio Industriale Alta Italia e successivamente della Sottocommissione (Continua a pagina 8) Pagina 8 INTERVISTA IMPOSSIBILE (Continua da pagina 7) Industria Alta Italia; dopo un breve periodo passato alla Navalmeccanica, ricoprì a Milano l’incarico di ispettore della direzione generale dell’IRI per le industrie meccaniche settentrionali. Con lui arrivarono alla Necchi le novità per un’industria che doveva radicalmente innovare se voleva sopravvivere. Martinoli era cognato di Adriano Olivetti (questi aveva sposato sua sorella Paola) e proprio atSOPRA DA SINISTRA, VITTORIO NECCHI CON LA MOGLIE; traverso Olivetti LA CHIESETTA DELLA TENUTA PORTALUPA; face parte negli VILLA NECCHI IN VIALE MATTEOTTI A PAVIA; anni ’30 e ’40 di VITTORIO NECCHI CON UN FAGIANO. una delle prime QUI A DESTRA, IL DISEGNO DI VILLA NECCHI A GAMBOLÒ, esperienze di RAFFIGURATA NELLA FOTO ACCANTO AL TITOLO. businnes school italiane: l’IPSOA di Torino. Per prima cosa, in Necchi, Martinoli decise in favo- cire, coltivò questa idea e strinre di un aumento della manodo- se i primi accordi con pera che portò subito a un au- l’americana “Kelvinator” per la mento della produzione, ma che costruzione su licenza dei comportò anche un parallelo ca- compressori ermetici per lo della produttività. Martinoli frigorifero. A regime cominciò con il chiamare alla l’impianto arrivò a produrNecchi molti tecnici che aveva- re mille compressori no lavorato con lui o presso all’ora. Nel 1985 si prol’Olivetti oppure nell’esperienza dusse il 50 milionesimo con l’IPSOA. compressore; nel solo anno 1989 se ne produssero 4.451.000. Nel corso del Vuole citarne qualcuno? 1956, per via di alcuni contrasti sorti con la vecchia direzione e L’ingegner Alessandro Pagni con me, Martinoli abbandonò la all’Ufficio Progetti, l’ingegner Necchi e tornò a Milano. Gianfranco Clavello all’Ufficio Controllo Qualità, il dottor Giulio Poi venne la crisi, la caduta Volta all’Ufficio Centrale Analisi del mercato delle macchine Tempi e Metodi, l’ingegner Giuper cucire. lio Borello cui affidammo il sistema gestionale dell’ impresa (l’espandersi della fabbrica ri- Anche in Italia il mercato si richiedeva una costante analisi dusse notevolmente. Nella famidei costi di produzione, della glia media italiana degli anni ‘50 produttività, dell’impiego del per- la donna lavorava fuori casa e sonale operativo e di conse- non aveva più il tempo per metguenti tempestivi interventi), il tersi a cucire capi disponibili già progettista di macchine utensili finiti e che l’industria di confezioCarlo Alghisi, il responsabile del ni produce in grandi serie e a servizio attrezzeria Galileo Ton- prezzi abbordabili. Mentre altri dinetti. Voglio poi ricordare gli elettrodomestici ( lavatrice, laingegneri responsabili delle vastoviglie, eccetera) erano di aquattro direzioni di produzione: iuto alle donne di casa, la macVittorio Scherillo (Macchine Fa- china per cucire richiedeva temmiglia), Luigi Bono (Macchine po per usarla, tempo che non industriali), Giuseppe Rossi c’era più. Oltretutto quella che e(Fonderia), Alessandro Valvas- ra stata la prerogativa alla base sori (Mobili). Avviata la ristruttu- del successo delle macchine razione dell’azienda, Martinoli e Necchi ne divenne una delle Gastaldi si posero presto anche cause della crisi: la grande quaun problema chiave: aveva dav- lità del prodotto ne determinò uvero un futuro la macchina per na durata tale che le macchine cucire? Non sarebbe stato bene si tramandavano da madre a fidiversificare? Il patrimonio di e- glia per diverse generazioni, sperienza della Necchi era giu- prova ne è che la vendita oggi è dicato dallo stesso Martinoli ec- ridotta ai minimi termini. Tuttavia cezionale. Perché non sfruttarlo la ditta Alpian Italia di Ariccia in nuovi settori che già si stava- (Roma), divenuta proprietaria no delineando come estrema- del marchio Necchi, faceva promente promettenti? Gastaldi, durre in Cina una macchina per pur sapendo della mia contrarie- cucire che promuoveva alla ventà a tradire la macchina per cu- dita in spot televisivi. Facendo un bilancio, quanti dipendenti ha avuto la Necchi nella sua storia e quante macchine per cucire ha prodotto? Le cifre che Le fornisco sono state pubblicate sulle Riviste Necchi. Nel 1928 la forza lavoro era costituita da 7 dirigenti, 23 impiegati e 439 operai (di cui 100 alle macchine per cucire e 339 alla fonderia); la produzione fu di 1.500 tonnellate di ghisa e 18.500 macchine per cucire. Nel 1950 ecco le cifre: 18 dirigenti, 551 operai e 3.555 operai; la produzione fu quell’anno di 6.000 tonnellate di ghisa e 122.023 macchine per cucire, di cui 4.869 ad uso industriale. Le macchine per cucire esportate passarono dalle 2.646 del 1930 alla 58.461 del 1950. Negli anni Cinquanta e Sessanta il mercato delle macchine per cucire raggiunse il suo massimo. La Necchi arrivò a produrre mille macchine al giorno. Tutto intorno a Pavia fiorirono piccole industrie che producevano macchine complete con i loro marchi: Vigorelli, Casati, Mariani, Simdac. Oltre ad esse, comparvero ditte di componentistica. Pavia diven- ne la capitale italiana della macchina per cucire e nel 1950 ospitò una mostra internazionale. Frattanto Lei aveva creato nel 1937 una scuola professionale con lo scopo di preparare i futuri specialisti e tecnici d’officina. L’aveva chiamata con il nome di Suo padre, Ambrogio Necchi. La scuola era nata nel 1917 per iniziativa della Pia Casa d’Industria in via Volta 19, aveva 24 allievi, poi si trasferì in piazza Ghislieri. Ebbe, in quegli anni, vita stentata per la scarsa cultura industriale di allora. Riuscii a coinvolgere nell’iniziativa alcuni industriali pavesi e alcuni enti locali, incaricai l’architetto Carlo Morandotti di redigere il progetto e feci costruire il grande edificio di piazza Marconi. L’edificio copriva una superficie di un migliaio di metri quadrati, su un’area di oltre quattromila, messa a disposizione gratuitamente dal Comune di Pavia. Qui, finalmente, la scuola ebbe la sua sede adeguata, con locali per aule, laboratori, officina, palestra e ampi spazi aperti per sperimentazioni pratiche. La direzione della scuola fu per più di trent’anni affidata ad Aristide Annovazzi, figura notissima a Pavia, oltre che per la sua elevata capacità tecnica, anche per il suo impegno culturale come filologo e dialettologo di fama. Quando nel 1950 l’Annovazzi (simpaticamente il Gnassi per gli allievi) lasciò la scuola, fu sostituito dall’ingegner Gribaudo, che continuò l’attività didattica con altrettanto impegno, sviluppando anche un settore dedicato all’elettricità: formò elettrotecnici validi che furono anche assunti dall’Enel e da altre aziende del settore. Poi nel 1962, nell’ambito della riforma della scuola media e della conseguente unificazione della scuola secondaria, le scuole professionali furono abolite. Ci volle del tempo perché i legislatori si accorgessero del vuoto lasciato con questa decisione. Corsero ai ripari con l’istituzione di corsi triennali (IPSIA) dove però l’insegnamento pratico era secondario rispetto alle materie teoriche e al nozionismo tipico delle nostre scuole. Anche la scuola Necchi fu assorbita da questa riforma e diventò statale a tutti gli effetti. Pagina 9 VITTORIO NECCHI Lei amava autode- LA FOTOGRAFIA DI VILLA NECCHI A PAVIA COMPARE NELLA COPERTINA DEL VOLUME GUGLIELMO CHIOLINI PALAZZI, SCALE E CORTILI DI PAVIA EDITO NEL 2011 DALL’ASSOCIAZIONE “SOCRATE AL CAFFÈ PER LA CULTURA E LA CONVERSAZIONE CIVILE” E DALL’ASSOCIAZIONE CULTURALE PAVIA FOTOGRAFIA Per vendere una macchina per cucire era assolutamente necessario creare il desiderio nell’acquirente dimostrando le possibilità di lavoro che la macchina forniva, ma era ancor più importante insegnare a usarla, ottenendo da essa il massimo della resa. La rete commerciale Necchi in Italia aveva ormai raggiunto una diffusione notevole: in ogni città, in ogni borgo di rilievo erano sorti concessionari, produttori, negozi di vendita e di assistenza; in ognuna di queste realtà commerciali si istituirono corsi gratuiti di taglio, cucito e ricamo a scopo didattico e propagandistico. Presso i concessionari, o addirittura in azienda, veniva formato il personale per insegnare in questi corsi. In questo ambito venivano donate cospicue partite di macchine a enti benefici e assistenziali del regime e della Chiesa. Specialmente le Suore Educatrici, capillarmente diffuse sul territorio, che da sempre attiravano le giovani a imparare a ricamare a mano la biancheria del corredo, allestivano questi corsi per le future casalinghe e pertanto future clienti Necchi. Era allora considerata una vera fortuna avere una macchina per cucire come dono di nozze e l’entusiasmo che generava nelle allieve l’uso delle Necchi in questi corsi di cucito era un veicolo promozionale per le vendite. La Direzione commerciale chiamò tutto questo “Continuità di Servizio” che comprendeva, oltre ai cicli di cucito e ricamo, permanenti o temporanei, dimostrazioni didattiche, collaborazione tecnica, merceologica, organizzativa per tutta la clientela Necchi con l’ausilio dei circa 10 mila negozi situati in ogni parte del mondo. Un importante fattore di successo dell’organizzazione Necchi nel mondo fu sicuramente l’Assistenza Tecnica. Ogni rappresentante o concessionario in ogni parte del mondo era in grado di assistere il cliente per qualsiasi necessità. I tecnici riparatori venivano inviati a Pavia, e qui addestrati per intervenire su tutti i modelli della rete vendita, inoltre venivano addestrati anche per tenere i corsi di cucito nelle loro sedi. La tecnologia costruttiva delle macchine Necchi, utilizzando criteri tecnologici e metrologici rigidissimi, consentiva di avere pezzi di ricambio perfetti in ogni parte del mondo. Un nome si incontra a un certo punto nella storia della Necchi, quello di Leon Jolson. A lui è legato il sogno americano. Leon Jolson arrivò dalla Polonia negli USA con la moglie Anna dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1947; egli, ebreo, era sfuggito ai campi di concentramento nazisti e aveva aderito alla resistenza lavorando segretamente alle intercettazioni delle radio tedesche per il resto del conflitto. Ai Jolson ora si presentava il problema di ricominciare la loro vita nel nuovo paese. Leon tornò a lavorare su ciò che conosceva bene: la macchina per cucire. A Varsavia la famiglia Jolson era agente di vendita e assistenza tecnica per la Necchi. A New York cominciò a offrire un servizio di riparazione porta a porta. Durante la guerra era impossibile trovare parti di ricambio, perciò erano tante le macchine fuori uso presso le famiglie americane. Jolson allestì allora una officina di riparazioni nell’appartamento nel Bronx. Gli affari non andavano male; inoltre Jolson, avendo per le mani molte marche di macchine per cucire americane, poté rendersi conto che nessuna di queste poteva competere con le Necchi che lui aveva trattato a Varsavia. L’America sarebbe stato il mercato ideale per la Necchi. Jolson contattò la ditta italiana per avere l’assegnazione in prova di alcune macchine. Evidentemente la direzione commerciale Necchi non condivise l’entusiasmo di quest’uomo, perciò non ci fu risposta. Non venne meno però la convinzione di Jolson della bontà della sua idea. Ottenne altri 2 mila dollari di prestito. Con questa somma e una forte fede convinse due uomini d’affari, Ben Krisiloff e Milton Heimlich, a investire nell’affare 50 mila dollari. Con queste credenziali contattò la Vittorio Necchi. Questa volta la risposa fu positiva: così Jolson e Krisiloff vennero a Pavia a colloquio con me e con Gastaldi suscitando il loro interesse per il mercato americano. Comprarono subito 135 macchine, nel giro di una settimana giunse un altro ordine di 3.500 e nelle successive l’ordine arrivò a 7 mila. finirsi un malà ad la preja, (malato del mattone ) che per i pavesi si dice di persona appassionata alla costruzione, ristrutturazione o modifica di fabbricati. In effetti, mai come in questo caso la realtà confermava la definizione. Guardando la cronologia delle Sue residenze si nota che, ultimata appena la prima fase della costruzione della fabbrica in via Rismondo, che era iniziata nel 1919, cominciò la serie, pressoché ininterrotta, delle ville che via via divennero le Sue residenze, temporanee o fisse. Nel 1923 iniziai la costruzione della villa di Pavia, che, attraverso varie modifiche in corso d’opera si protrasse fino al 1929. Seguì il rifacimento totale della villa di Portalupa, che era stata fino ad allora una villa d’appoggio per la riserva di caccia. Nel 1937 diedi il via alla villa di Cogne, da utilizzare per l’estate e per la riserva di pesca. Fu completata nella primavera del 1939. Una pausa dovuta prima ai fatti bellici, poi all’impegno per la costruzione dei nuovi capannoni in fabbrica (1950-1952), e rieccoci con la villa a Nervi, ordinata all’Architetto Tommaso Buzzi nel 1953 e completata nel 1956. Mi parli un po’ della Villa di Piazza Castello. La palazzina che feci costruire per la mia famiglia a partire dal 1924 sorgeva nell’attuale corso Matteotti, nell’area (ora occupata dal condominio al n° 73) compresa tra la Roggia Carona a ponente e il Pio Istituto Pertusati a levante. Affidai il progetto all’architetto Carlo Morandotti. Il progetto, di stile aulico, cinquecentesco, prevedeva una spaziosa e pretenziosa villa a due piani, con dépendances per i garage e la portineria, un laghetto davanti alla facciata e un ampio giardino, l’ortaglia, il canile, il recinto per il gioco delle bocce. Tuttavia, già nel gennaio del 1925 l’architetto Morandotti modificò il tutto aggiungendo, nella porzione centrale, un attico sopraelevato e raccordato alla balconata sottostante con due grandi statue di dèi semisdraiati reggenti canestri di frutta e fiori, opera dello scultore Ambrogio Casati. Altra variante nel 1928: al primo piano furono aggiunti due nuovi saloni e altri servizi, mentre al secondo piano altre camere da letto. L’ampliamento fu realizzato con l’aggiunta di nuovi corpi verso il giardino. Su scelta dell’architetto, per questi (Continua a pagina 10) Numero settantasette - Maggio 2012 Pagina 10 VITTORIO NECCHI INTERVISTA IMPOSSIBILE GLI INTERNI DI VILLA NECCHI A PAVIA. IN ALTO A SINISTRA LA SALA DA PRANZO; A DESTRA LA SALA DA BILIARDO. IN BASSO, DA SINISTRA: IL SALOTTO, L’INGRESSO, LA SCALA. SOTTO A SINISTRA, L’INTERNO DEL REPARTO MACCHINE PER CUCIRE DELLA “VITTORIO NECCHI”; A DESTRA, L’INTERNO DELLA SCUOLA PER MECCANICI (Continua da pagina 8) nuovi fabbricati fu abbandonato lo stile precedente a favore di soluzioni più sobrie. Gli ambienti interni di rappresentanza erano ornati e arredati con grande sontuosità secondo il gusto neosettecentesco. Nel sotterraneo trovavano posto la sala biliardo, la sala da gioco e un tiro a segno. Durante il secondo conflitto mondiale, mentre eravamo sfollati a nord di Varese, nel comune di Barasso, ospiti dei cognati Campiglio, la villa fu prima requisita dai militari tedeschi per farne la sede del comando della piazza di Pavia, poi dal colonnello Wendel E. Phillips, del Comando Militare Alleato per lo stesso scopo. In quel periodo difficile cedetti definitivamente la villa a un altro industriale pavese, Oreste Casati, che l’abitò per breve periodo. Ma alla morte di Casati, il figlio Giancarlo si rese conto che gestire una dimora così sontuosa era al di sopra delle sue possibilità, così la condannò alla demolizione utilizzando la vasta area per costruire un grande centro residenziale di lusso. Situata a Gambolò, frazione Molino d’Isella, la tenuta chiamata “La Portalupa” comprendeva, oltre alla Sua villa, un assieme di villette per la residenza del personale che lavorava a vario titolo nella tenuta stessa. Lei aveva dotato il villaggio di una piccola scuola per i figli dei dipendenti e anche di una chiesetta. Era un’oasi, una immensa distesa di verde, di boschi e di radure proprio come si addice a una grande riserva di caccia. La Portalupa divenne la mia residenza stabile dopo la cessione della villa di Pavia. Era una grande tenuta agricola, con varie cascine, in un terreno che alternava radure a boschi e a cespugli, l’ideale per la caccia. L’area era in parte di proprietà e in parte in affitto agricolo. Erano naturalmente presenti tutte le strutture necessarie per l’allevamento dei fagiani per il mantenimento della riserva di caccia, cioè i locali per le incubatrici, per i pulcini e per le ovaiole. Frequentatori assidui delle battute di caccia erano, a turni, i dipendenti della fabbrica, che sotto l’egida del Gruppo Cacciatori Necchi erano ospitati da me, che scendevo con loro, doppietta a tracolla. Una giornata di caccia nella riserva di Portalupa era un avvenimento atteso con ansia dai dipendenti. Nella riserva la selvaggina era abbondante. Inoltre una schiera di battito- ri, attrezzati con vari aggeggi per far rumore, disposti a semicerchio avanzavano lentamente portando letteralmente la selvaggina verso il gruppo di cacciatori, per i quali c’era solo l’imbarazzo della scelta. La giornata si concludeva con festosi saluti da parte di tutti i presenti, ma molti ricordano che nel commiato ero solito aggiungere: «Ehi, am racumandi, duman matina tüti a timbrà al cartlin, nevera?». (Ehi, mi raccomando, domani mattina tutti a timbrare il cartellino, vero?) Un’altra passione per Lei era la pesca. Per questo, nel 1937 mi ero fatto costruire una villa in montagna, precisamente a Cogne, nella vallata omonima in Val d’Aosta. La valle è una grande spianata prospiciente il massiccio del Gran Paradiso. È solcata da due torrenti, (Grauson è il più grande), le cui acque provengono dal ghiacciaio, scendono dalle cascate di Lillaz, e si uniscono a valle del paese, poi giungono attraverso una stretta gola ad Aosta, per diventare affluenti della Dora Baltea. Benché tutta la zona facesse parte del Parco del Gran Paradiso, io riuscì ad avere la (Continua a pagina 11) Pagina 11 Numero settantasette - Maggio 2012 VITTORIO NECCHI INTERVISTA IMPOSSIBILE La passione per le case. Invitavo i miei dipendenti a caccia alla Portalupa. Vendetti la villa di Nervi quando morì la mia carissima Lina I lavoratori in festa al mio ritorno dall’ospedale QUI SOPRA, LA LINEA DI MONTAGGIO ALLA “VITTORIO NECCHI”. QUI A DESTRA, VITTORIO NECCHI ALLA PREMIAZIONE DEL GRUPPO ANZIANI D’AZIENDA. AL TAVOLO DEL DIRETTIVO SI RICONOSCONO (DA DESTRA): FOGLI, VECCHIO, NECCHI, MANIDI (SEMINASCOSTO) E AGNES. IL PREMIATO È IL SUO AUTISTA, GENI. (Continua da pagina 10) concessione per attuare in queste acque una riserva di pesca per trote. Dovetti accettare come unica condizione che i miei guardia pesca collaborassero con la Guardia Forestale nel controllo del bracconaggio nel Parco. Questa collaborazione fu fattiva, la caccia e la pesca abusive erano una calamità per il Parco. In una di queste occasioni avvenne che un cacciatore sparò a un magnifico esemplare di aquila reale; l’intervento di una guardia pesca Necchi fece arrestare il bracconiere ma, purtroppo, per l’aquila era troppo tardi: finì, impagliata, nel museo del Parco a Valnontey. Anche per la pesca si verificò la frequenza di personaggi importanti per i miei rapporti sociali e industriali. In particolar modo era assidua la presenza di Maria Josè, moglie di Umberto di Savoia, appassionata pescatrice, che diventerà poi la Regina di Maggio. Per finire, ricordiamo la Villa di Nervi. La villa di Nervi fu ordinata all’architetto Tommaso Buzzi nel 1953. Ebbe fin dall’inizio una gestazione difficile: il luogo dove doveva sorgere era un bellissimo parco demaniale, con alberi secolari, situato fra la linea ferroviaria e il mare, su un piano che declinava fino al mare stesso. Se già fu difficile ottenere le autorizzazioni tecniche e amministrative, fu ancora più duro vincere l’ostilità degli abitanti: se era pur v e r o c h e l’amministrazione locale riteneva conveniente cedere una parte di parco in cambio dei vantaggi economici e turistici che ne derivavano, per gli abitanti era pur sempre la privazione di uno spazio bellissimo della costa. Tuttavia la cosa andò in porto poiché, per chi ne ha i mezzi, esistono sempre vie per giungere ad accordi. La villa fu completata nel 1956. L’architetto Buzzi aveva nel suo curriculum la costruzione di ville importanti e bellissime sulla riviera ligure, e non solo, pertanto anche la villa Necchi a Sant’Ilario di Nervi fu una grande realizzazione. Quando, nel 1961, scomparve mia moglie Lina, il mio interesse per la villa di Nervi si esaurì. Era Lei che l’aveva fortemente voluta e c u r a t a nell’arredamento e io non ci tornai mai più. Il 14 ottobre del 1966 la casa d’aste Finarte provvide a battere tutte le o- pere d’arte della villa, disperdendole nel vasto mondo dei collezionisti. Sisto Capra Pagina 12 Numero settantasette - Maggio 2012 Premessa do di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. InsomPERICLE ma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così." Non penso che si debbano aggiungere parole per spiegare la scelta di questa mia riflessione sulla Politica, parola da riscoprire. Dalla Costituzione Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali GRAMSCI davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Da Antonio Gramsci Odio gli indifferenti. Credo […] che vivere vuol dire essere partigiani. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. (11 febbraio 1917) Ho ripreso l’art. 3 della nostra Costituzione come leitmotiv della mia riflessione sulla buona politica. Non ci sarebbe bisogno di nessun aggettivo per accompagnare la parola ma la realtà che scorre sotto i nostri occhi ce lo impone. Ho poi ripreso brevi citazioni da Antonio Gramsci perché ne condivido il contenuto. Sono anch’io partigiana ma senza mai perdere di vista il confronto con gli altri e il bisogno di mediare, senza mai mettere da parte l’interesse generale. Almeno, lo spero. La politica, la buona politica non è equidistanza da ogni cosa, al contrario è presa di posizione, impegno, idee forti sostenute da intelligenza, autorevolezza. Chi dice “La politica non è cosa mia, me ne sto alla larga, tanto sono tutti uguali” non sa che questa sua presa di posizione è “fare politica” nel peggiore dei modi, chiudendosi in se stesso, ignorando che l’impegno per una buona amministrazione della cosa pubblica è anche salvaguardare il proprio interesse. Gramsci sosteneva: “Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città”. Questo imperativo morale è stato, è spesso disatteso e a soffrirne sono tutti i membri della città e la città non è solo il proprio ristretto cerchio di appartenenza, è anche il pro- di GIOVANNA CORCHIA prio paese, membro di una comunità sempre più vasta, sino ad abbracciare il mondo. La buona politica è rifiuto di un’accettazione passiva della realtà. I problemi che si presentano sono problemi di tutti, farsene carico è sentirsi parte integrante della città, sino alla città mondo. Ancora Antonio Gramsci scriveva: “Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare […] La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo”. Per vari motivi, nel nostro presente, molti si allontanano dalla città di cui fanno parte. Per loro la politica non merita nessuna attenzione, perché i politici sono tutti uguali… Trionfa così l’antipolitica, l’indifferenza, l’assenteismo. Questi atteggiamenti di presa di distanza non aiutano a trovare buone soluzioni in nessun campo e ancora meno servono alla convivenza civile. Che fare di fronte ai gravi problemi che toccano tutti? È necessario “essere vigili, presenti, animati da reciproca simpatia”. Una buona dose di utopia, si obietterà, ma senza non si può guardare al futuro con speranza. Due anni fa, avvicinandomi a una soglia importante della mia vita, i miei 70 anni, ora da poco varcata, ho sentito il bisogno di una partecipazione più vigile e attiva a quella che chiamerò, d’ora in poi, la città, e questo per non essere un’estranea alle sue sorti, per non essere tra coloro che pensano che essere partigiani non serva a niente in una realtà in cui gli indifferenti sono di gran lunga la maggioranza. agli Ateniesi” - 461 a.C. - Tucidide “La guerra del Peloponneso”, disarticolandolo in paragrafi, seguiti da brevi note. Quale città? La libertà di cui godiamo si Per rispondere alla domanda “Quale città?” ricorrerò a una pagina ricca di stimoli di riflessione, il “Discorso di Pericle Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così. Favorire i molti invece dei pochi è una garanzia di rispetto del bene comune. Le leggi qui assicurano una giustizia uguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. Qui ad Atene noi facciamo così. Le leggi, è scritto, assicurano una giustizia uguale per tutti. Pensando al nostro oggi, questo principio di uguaglianza, sancito dall’art.3 della nostra Costituzione, è, molte volte, disatteso. Non ignoriamo mai i meriti, sottolinea con forza Pericle. Questo non avviene sempre nel nostro presente: molti giovani, tra le eccellenze, sono costretti ad andare altrove, dove le loro qualità sono apprezzate e producono cultura e ricchezza. Una perdita per il nostro paese in tutti i campi. Pericle aggiunge che il merito è riconosciuto ad Atene indipendentemente dal censo. Anche questa è una lezione da imparare in casa nostra, nel nostro presente. estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così. I cittadini di Atene sono liberi ma nel rispetto della libertà degli altri, e, sottolineatura importante, senza mai trascurare i pubblici affari anche quando ci si occupa dei propri e senza mai servirsi della cosa pubblica a proprio vantaggio. Credete forse che questa sia la condotta di noi tutti oggi? La regola di non anteporre mai i propri affari a quelli pubblici è forse valida sempre oggi? Pensate che si possano far rientrare tra i cittadini ideali di Atene tutti i nostri uomini pubblici? Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è di buon senso. Qui ad Atene noi facciamo così. E noi? Abbiamo forse dimenticato l’insegnamento impartito ai cittadini ideali di Atene? Pensiamo che sia realmente la regola da noi il rispetto dei magistrati e delle leggi, anche quelle non scritte purché risiedano nel sentimento universale del giusto e di ciò che è di buon senso? Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in gra- Nel discorso di Pericle sono richiamati più di una volta l’attenzione e il rispetto di ciascuno per lo Stato. Chi non lo fa non è semplicemente innocuo ma inutile. Che dire allora dei tanti oggi che non sanno cogliere il loro legame con lo Stato, che ignorano che la salute dello Stato dipende da tutti, che lo Stato non è un’entità astratta ma una rete di protezione di ciascuno, di salvaguardia del territorio, così aggredito, cementificato per cui un disastro naturale come a fine ottobre 2011 in Liguria ha provocato morte e distruzione inimmaginabili; di tutela della salute; di arricchimento culturale grazie all’impegno, al contributo di tutti? Infine dipende da tutti noi il rispetto per il nostro paese all’interno della comunità internazionale. Aggiungo un’ultima considerazione a conferma della scarsa consapevolezza che lo Stato siamo noi e che tutti noi dovremmo contribuire alla sua salvezza, ricordando la piaga dell’evasione fiscale. Eppure è ben scritto nella nostra Costituzione: Art. 53 Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività. Infine riprendo: “Qui ad Atene noi facciamo così”. Consideriamo l’uso del verbo fare alla prima persona plurale e la sottolineatura del luogo ben due volte qui, ad Atene perché possa il messaggio essere ben fissato nella mente. Sarebbe un grande cambiamento se noi tutti, uomini, donne privati e pubblici cittadini, potessimo affermare: “Qui, in Italia, noi ci impegniamo a fare così”. Numero settantasette - Maggio 2012 LA Pagina 13 VITA QUALE DIRITTO INVIOLABILE E INDISPONIBILE : MA È SEMPRE COSÌ ? La legislatura chiusa con le dimissioni del governo Berlusconi ha lasciato in eredità alla successiva il disegno di legge Calabrò sul testamento biologico, estremamente controverso. È un ddl che ha diviso l’opinione pubblica italiana. Su questa materia la Chiesa Valdese si è espressa più volte in modo inequivocabile. Nella mia disamina espungo il nostro punto di vista sul concetto di vita e di persona. "La presente legge […] riconosce e tutela la vita umana, quale diritto inviolabile ed indisponibile […]; riconosce e garantisce la dignità di ogni persona in via prioritaria rispetto all’interesse della società e alle applicazioni della tecnologia e della scienza […]": potremmo partire proprio da qui, dal primo articolo del disegno di legge (cosiddetto ddl Calabrò) licenziato al Senato nel 2009 e modificato alla Camera nel luglio di questo anno, ora in attesa di tornare in Senato. Potremmo partire da qui perché il primo articolo della legge sancisce i principi che la fondano e apparentemente non c’è nulla di strano nelle parole che ho riportato sopra. di MONICA FABBRI* rifiutare dei trattamenti sanitari qualora si trovasse in stato di incoscienza, non può porre altro preambolo se non quello della libertà delle scelte individuali, sancito da diversi articoli della nostra Costituzione. Questa questione non è importante solo come norma di diritto, ma mi coinvolge anche come cristiana, protestante, valdese. Viene infatti spesso riportato come "verità" cristiana il diritto alla vita dal momento del concepimento fino alla fine come declinazione di una "legge naturale" così come lo riporta la chiesa cattolica, dimenticando che il mondo cristiano comprende anche le molte realtà protestanti, alcune delle quali, fra cui quella valdese e metodista, significativamente presenti in Italia. a La vita quale diritto invi- L più olabile e indisponibile e la garanzia della dignità: asserzioni certamente condivisibili, ma sono sempre sottoscrivibili? La vita è un diritto indisponibile? Certamente lo è! Non vi è costituzione, convenzione o altro scritto pubblico del dopoguerra che non si basi sul principio della inviolabilità della vita umana e sulla dignità della persona. È altrettanto ovvio, però, che ci si riferisce alla vita e alla dignità altrui, non certo alla nostra stessa persona, su cui prevalgono gli altrettanto importanti principi di rispetto della libertà e delle scelte individuali. Noi siamo quindi liberi di disporre della nostra vita e anche il caso più estremo, quello del suicidio, non è un reato (qualora il tentativo non riesca, come spesso succede, non si incorre, infatti, in alcuna sanzione). La nostra stessa vita quindi non è inviolabile, e una legge, come il ddl Calabrò, che intenda porre delle regole alla volontà della persona di singole persone la libertà di coscienza del legislatore non deve diventare imposizione di coscienza sui cittadini. Sulle questioni bioetiche noi protestanti siamo spesso su posizioni distanti dai cattolici, ma le une e le altre non possono rientrare in articoli di decreti legge. chiesa valdese si è volte espressa proprio sul concetto di vita e di persona. Come credenti riteniamo che la vita non possa definirsi esclusivamente con un significato biologico. Noi non siamo un agglomerato di organi le cui funzioni vitali vanno sostenute con ogni mezzo. Al contrario, noi siamo persone, dotate di capacità relazionali con Dio e con gli uomini e le donne che ci circondano, siamo persone con una biografia che si esprime nei nostri pensieri e nelle nostre azioni. La vita è certamente un dono prezioso di Dio, ma proprio per questo non bisogna ridurre il suo significato profondo alla sua funzionalità biologica. La compiutezza della vita per i cristiani, infatti non è su questa terra: Gesù ha vinto la morte come primizia di tutte le genti, ma nuovi cieli e nuova terra è stata promessa a tutti coloro che sono giustificati dalla loro fede. Non la scienza quindi, ma la nostra fede ci salverà “perché Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio affinché chiunque crede il lui non perisca, ma abbia vita eterna”. Considerare vita un corpo inerme attaccato ai tubi è un atto di presuntuosa onnipotenza. Il progresso della medicina in sé è certamente da guardare con favore. Non dimentichiamo che Gesù guariva i malati! Ma le cure mediche sono un mezzo e non un fine, le utilizziamo per curare e quando possibile, guarire dalle malattie, per lenire le sofferenze e rendere accettabile la vita anche quando questa ci riserva dei momenti difficili. La sofferenza, il patimento e il dolore non portano la salvezza, questo sia chiaro. Sopportare sofferenze atroci non ci rende migliori di fronte a Dio: la grazia non si conquista mediante un percorso di travaglio fisico, ma ci è fornita gratuitamente mediante la fede. Anche su questo punto, in Italia, vediamo un'influenza culturale che deriva dalla teologia cattolica, per cui la sopportazione del dolore fisico ci eleverebbe agli occhi del Signore: basti guardare la scarsa diffusione delle cure palliative. Quindi ben venga la medicina, le cure, le terapie, ma solo come mezzo per rendere la nostra vita dignitosa dall’inizio alla fine: ed è proprio qui che si mettono a fuoco i confini della libertà individuale. Il futuro del Regno di Dio ci impegna a seguire i suoi insegnamenti durante la nostra vita terrena e questo avviene nella piena libertà e responsabilità dei singoli. Agire con libertà di coscienza nell’ ambito della responsabilità: questa è la base dell’etica protestante, che non significa che ognuno fa ciò che vuole, ma che ognuno di noi risponde davanti a Dio delle proprie decisioni. Ne consegue che la libertà del cristiano si esprime anche nel decidere di rifiutare anticipatamente un trattamento sanitario che per noi è sov ra- pr opo r zi on a to, per accettare la parte della vita che si chiama morte. Non ho voluto qui parla- Nel re di morte “naturale”, perché è certamente un terreno scivoloso quello della definizione di ciò che di artificiale è presente nella vita umana. Il progresso della medicina permette oggi spesso di intervenire nel processo del morire con successo. Altre volte invece, come nella nota vicenda di Eluana, la sospensione non fa che prolungare la funzionalità degli organi: sta a noi decidere quali sono i confini della nostra dignità del vivere, decidere quale vita meriti di essere vissuta. Nessuno può intervenire in nostra vece se non designato da noi stessi. Mi si permetta qui un importante inciso: quello che noi crediamo come cristiani deve rimanere nell’ambito delle nostre azioni libere e individuali, non deve assolutamente essere imposto per legge! Per questo noi ci impegniamo così profondamente per la difesa della laicità delle istituzioni: sulle questioni etiche che prevedono scelte differenti per le concludere vorrei rimarcare che la medicalizzazione della morte ha portato, dalla seconda metà del '900, ad allontanare la morte dalla nostra vita, con la conseguenza, da un lato di fare respirare un’aria di “immortalità”, come se la scienza ci potesse salvare sempre, e dall’altro a non sapere più affrontare questo evento come parte della vita. Fino ai primi decenni del XX secolo, la peggior disgrazia che potesse accadere era di morire improvvisamente, senza essersi potuti accomiatare dai propri cari, senza aver sistemato i propri interessi e senza essersi preparati al trapasso; ora invece, è comune sentire il desiderio di una morte rapida e improvvisa. Utilizzare la scienza e la medicina come mezzo, significa anche riappropriarsi della vita, di tutta la vita, dall’inizio alla fine. *Biologa presso l’Istituto Scientifico San Raffaele di Milano. Membro della Commissione bioetica Pagina 14 Numero settantasette - Maggio 2012 M ANIFESTAZIONE ORGANIZZATA DALL ’U NIVERSITÀ IN OMAGGIO A analfabetizzate. Si racconta, inoltre, come attraverso l’enfasi sul filatoio e sulla filatura a mano Gandhi espresse una più ampia concezione politica, che comprendeva nella lotta per l’indipendenza anche il rifiuto del materialismo occidentale e la critica degli eccessi della modernità. Questo rientrava in una visione ideale di Gandhi, che mira all’impegno quotidiano e disinteressato volto al benessere degli altri sottolineando l’aspetto morale della po- G IORGIO B ORSA tività dell’alto artigianato tessile indiano. Nonostante ciò, nell’India odierna, lanciata in una crescita accelerata, che pure ha migliorato le condizioni di vita di un’ampia percentuale della popolazione, i filatori e i tessitori vivono in condizioni di estrema precarietà, dovuta a varie logiche di carattere economico. Artigiani, che creano tessuti di squisita fattura, sono spesso costretti a cercare altro lavoro, necessario per la loro sopravvivenza. Secondo le statistiche nell’ Andhra Pradesh, regione famosa per la città di Hyderabad, centro della Information Terchnology, l’88% delle famiglie legate al settore dell’alto artigianato tessile vive al di sotto della linea di povertà e con forti indebitamenti. Una maggiore visibilità di questo artigianato in Italia, dove il settore della moda è vitale, può migliorare enormemente le condizioni di vita di il Direttore del Centro Studi Popoli Extra-europei “Cesare Bonacossa” di Pavia e Preside della Facoltà di Scienze Politiche Silvio Beretta ha inaugurato la mostra “Gandhi e i Tessitori della pace - Un omaggio a Giorgio Borsa” insieme all’Ambasciatore dell’India Deba-brata Saha e a Mushirul Hashan, Direttore Generale degli Archivi dell’India. La mostra “Gandhi e i Tessitori della Pace” è stata curata da Uzra Bilgrami (Malkha Marketing Trust, Hyderabad), Simonetta Casci (Università di Pavia(, Purnima Rai (Delhi Crafts Council, New Delhi) e Rossana Vittani (IED Milano). Nel Comitato scientifico sedevano Raunak Ahmad (Indira Gandhi National Open UniversityNew Delhi), Sailaja Gullapalli (Gandhi Smriti and Darshan Samiti New Delhi), Laura Maino (Università di Pavia( e Stefania Vilardo (U-niversità di Pavia). L’allestimento di SIMONETTA CASCI “Gandhi e la tessitura, come simbolo del nazionalismo indiano e dello sviluppo dei villaggi”: a questi temi erano dedicati gli eventi - una mostra documentaria dal titolo “Gandhi e i Tessitori della Pace”, un convegno e un seminario - che si sono svolti dall’8 all’11 maggio all’ Università di Pavia. La manifestazione è stata organizzata dall’Università in collaborazione con l’Accademia Galli e con la Fondazione Ratti di Como e ha proposto anche un omaggio al professor Giorgio Borsa, morto nel 2002 all’età di novant’anni e che è stato direttore del Centro Studi per i popoli extra-europei “Cesare Bonacossa”, facente capo al Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’ Ateneo pavese. Poco prima della sua scomparsa, Borsa, che dal 1977 per trent’anni aveva insegnato Storia politica e diplomatica all’Università di Pavia, aveva pubblicato il decimo volume di Asia Major, la pubblicazione del centro studi Cesare Bonacossa , intitolato “Trasformazioni politico-istituzionali dell'Asia nell' era di Bush”. La modernizzazione dell’Asia Orientale sotto l’influenza dell’Occidente era la sua specializzazione, e di questo tipo di studi era stato in Italia l’iniziatore: nel 2000 ne aveva pubblicato un pon- deroso consuntivo, in inglese, sulla rivista “Il Politico”, organo della facoltà di Scienze politiche di Pavia. La mostra “Gandhi e i tessitori della Pace” si è svolta presso l’aula Disegno dell’ Università di Pavia e ha introdotto la filosofia morale di Gandhi spiegando l’attenzione che il Mahatma ha sempre dedicato alla filatura e alla tessitura a mano del cotone khadi trasformandolo in un simbolo del nazionalismo indiano e dello sviluppo dei villaggi indiani. La mostra era divisa in due sezioni; la prima ha carattere storico e si è concentrata sulla figura di Gandhi proponendo una serie di fotografie d’epoca, mentre la seconda ha guardato alla odierna produzione di khadi con l’esposizione di manufatti di alcune cooperative nella speranza di stabilire un contatto diretto fra gli artigiani selezionati e gli imprenditori italiani del settore. La prima parte della mostra ha ripercorso la vita e l’azione del Mahatma sottolineando il significato simbolico, che Gandhi attribuiva al vestiario: si spiega la decisione di adottare il dhoti, l’abbigliamento dei più poveri, che gli permise di creare una cultura patriottica dai forti contenuti morali, comprensibili sia per l’élite borghese sia per le masse litica. Predicata all’inizio del Nove-cento, la filosofia gandhiana è certamente molto attuale. Ancora oggi la filatura e la tessitura a mano di khadi e di malkha( versione moderna e semimeccanizzata del tessuto nazionale) esprimono gli ideali gandhiani puntando a rendere partecipi allo sviluppo economico anche i più poveri. In particolare nel procedimento del malkha l’intera catena di produzione del tessuto di cotone si basa sul villaggio, sperimentando la possibilità per i coltivatori di cotone grezzo e per i tessitori di beneficiare gli uni degli altri. Attraverso questo processo khadi e malkha si vuole anche intervenire nel tessuto sociale migliorando le infrastrutture locali, ad esempio favorendo la costruzione di scuole primarie e secondarie e di strutture sanitarie, per distribuire in maniera più equa le risorse fra zone rurali e zone urbane. Il rigore e la dignità della povertà predicati da Gandhi, che ancora ispirano quanti praticano la tessitura e la filatura a mano del khadi, non escludono l’eleganza. La produzione contemporanea, prevalentemente bianca, è variegata e raffinata. I tessuti, che usano numerosi motivi (anche con righe o quadretti), hanno spessori diversi e in alcuni casi si presentano come veli rarefatti, testimoniano la crea- filatori e tessitori, se si crea un link fra l’alto artigianato khadi e l’ imprendi-toria italiana del settore. La mostra “Gandhi e i Tessitori della Pace” è stata accompagnata da alcuni eventi collaterali. L’8 maggio, presso l’Aula Scarpa dell’ Università, si è tenuto il seminario “Gandhi and Khadi: Nationalism and Development”: alcuni aspetti del discorso gandhiano sul nazionalismo e lo sviluppo vengono discussi da personalità accademiche indiane e inglesi. Dopo il seminario, sempre in Aula Scarpa, si è svolta la tavola rotonda “India vs Italy: Styles and Contamination”, che ha esplorato nuove forme di dialogo fra artigianato indiano e italiano privilegiando un discorso ad ampio spettro e sottolineando le influenze reciproche. Ciò significa innanzitutto coinvolgere nel dibattito quanti già operano nel settore in India e in Italia, ma anche avvicinare in Italia quanti traggono ispirazione da aspetti diversi del discorso gandhiano elaborandolo in maniera creatività senza ancora operare in India. Ha introdotto la tavola rotonda Mukulika Banerjee che, oltre a insegnare antropologia alla London School of Economics, è autrice di un interessante volume su sari e sporadicamente appare come attrice in film bengalesi d’autore. Sempre l’8 maggio della mostra è stato curato dall’architetto Francesco Ardizzone, dell’Università di Pavia. Le fotografie sono state concesse dal National Gandhi Museum and Library di New Delhi; da Gandhi Smriti and Darshan Samiti di New Delhi e dal Nehru Memorial and Museum Library sempre della capitale indiana. Sponsor della mostra sono stati il Centro Studi “Cesare Bonacossa”, il Collegio Del Maino, il Consolato Generale dell’India a Milano, il Master in Cooperation and Development (IUSS e Università di Pavia, il Lions Club International distretto 108 IB 3. Il 9 maggio in Aula Foscolo si è tenuto il convegno “ Cittadinanza umanitaria … Premere per il dialogo”. Sono intervenuti il Rettore dell’Università di Pavia Angiolino Stella, il Governatore distrettuale del Lions Club Adriana Cortinovis e il Past direttore internazionale Giovanni Rigone. Il convegno è stato aperto da Gianni Vaggi, direttore del Master Università-IUSS in Cooperazione allo sviluppo. Si sono quindi svolte le relazioni di Stefano Zamagni, docente dell’Università di Bologna, sul tema “La giustizia benevolente e il neocontrattualismo”, e di Salvatore Veca, vicedirettore dell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia, sul tema “Un’idea di giustizia senza frontiere”. Nelle conclusioni Gianni Vaggi ha tratteggiato in particolare la figura di Amartya Sen, l’indiano Premio Nobel dell’Economia, autore tra l’altro del libro “L’idea di giustizia”. Pagina 15 Numero settantasette - Maggio 2012 Parafrasando Dumas, grazie alla “vecchia” amica Wanda Grillo (dopo Rabat ora Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura in Libano) e all’attuale Ambasciatore d’Italia Giuseppe Morabito, nuovo amico della nostra Fondazione, siamo tornati nella città un tempo perla del Mediterraneo, ora quasi irriconoscibile per la selva di grattacieli che hanno sostituito gli antichi caratteristici palazzi. Malata di cemento, guagliabili materiali ai nostri sarti più famosi a partire dagli anni ‘50 del Novecento. Invito accettato con piacere particolare perché abbiamo potuto festeggiare a Beirut il 12° compleanno della nostra collezione di moda, nata proprio a Beirut, con un allestimento improvvisato per una mostra richiesta dall’allora Ambasciatore d’Italia Giuseppe Cassini. La nostra Fondazione nel 2000 non aveva ebbe un tale successo che ci fece nascere il sospetto di “aver scalato il Cervino” per costruire le altre collezioni, mentre con più facilità avremmo potuto allestire una colorata, affascinante ed apprezzata storia della moda italiana. Decidemmo di affrontare la scommessa con l’aiuto di Teddy Cappello, moglie dell’Ambasciatore d’Italia in Slovenia, dove a Lubiana fummo chiamati nel 2001 a una seconda prova. La sfida era trovare abiti di alta moda, storici quindi e di grande impatto scenografico, adatti alle sale del Castello di Tivoli. Teddy Cappello fu la nostra madrina perché Se Armani non ci offrì mai un contributo, generosissimi invece furono Santo Versace e Raffaella Curiel, che ci aprirono volentieri le ante dei loro archivi storici. Egualmente Rita Airaghi per Ferré. Approdammo quindi al mercato del vintage, a Belgioioso ma non solo, per arricchire in modo progressivo e continuo i nostri armadi di nomi preziosi quali Veneziani e Schubert, Pirovano, Biki, Mila Schon e Moschino. La cosa incominciava a farsi seria e da allora è stato tutto un red carpet con presentazioni, mostre e sfilate in forse ormai 20 Paesi. Allestimenti in luoghi pazzeschi per bellezza e prestigio. dello shopping del lusso, come in Kuwait, a Istanbul e recentemente al Central di Bangkok (nuovo proprietario di Rinascente), o teatri come a Salonicco ed Ankara. Ricordi rinverditi dalla magica atmosfera dello splendido complesso di George Asseyli, dove le nostre sete, tra terrazze, pergolati e profumi di gelsomino, saranno ospiti sino a novembre. Preparandosi a una nuova tappa, non lontana, invernale, alla Royal Gallery di Amman. Ci sarà la Sua Maestà la regina Rania? Dovremo cercare di necessità, in suo onore, qualche Armani da sera. A meno di chiederlo… a Lei! Il ritorno a Beirut è FONDAZIONE SARTIRANA ARTE che anni or sono tenne un frequentato seminario alla Fondazione Hariri di Saida. Dovremo aspettare il 2014 per un ritorno al Museo Soursok con la di GIORGIO FORNI quasi senza ormai giardini, circondata da verdi colline ahimè urbanizzate come la nostra Liguria. Ospiti dell’amico George Asseyli e del suo Museo della seta, antico palazzo in pietra a Bsous, abbiamo allestito in due grandi sale dell’antica manifattura serica due collezioni delle sete di Sartirana. Quella di frammenti del XVII e XVIII secolo conservati e montati su pannello ad Anversa da Jacqueline Dumortier De Bolle (in origine paramenti ecclesiali e tessuti liturgici) per raccontare una storia della seta italiana di un glorioso passato. Accanto quella invece recente dei setifici che hanno offerto preziosi ed ine- ancora un settore dedicato alla moda, ma alla precisa richiesta dell’amico Ambasciatore non si poteva opporre un imbarazzato rifiuto. Che fare allora? Presto detto. Dieci Armani e altrettanti Ferré dal guardaroba di mia moglie, dieci Versace dagli armadi dell’amica neurologa Mariella, compagna di studi medici, il Valentino da sposa di Antonella Griziotti; ad essi aggiungemmo altri abiti storici di mia madre e di mia suocera (ancora Valentino, Balestra, Roberta di Camerino e Ken Scott). Così la collezione improvvisata partì per Beirut, dove il nostro “pronto da indossare” ci introdusse non solo nelle case di sue amiche, nobildonne romane (ricordo un pellegrinaggio fra palazzi storici e magnifiche ville sull’Appia antica), ma anche negli archivi storici di Roberto Capucci, delle sorelle Fontana, di Irene Galitzine e di Gattinoni. Alla fine di una settimana di questue riuscii a caricare sulla mia capiente Renault Espace una sessantina di capolavori di stoffa che fecero grande la mostra a Lubiana e che in buona parte rimasero in prestito a costituire lo zoccolo duro della nuova collezione. Dopo Roma fu la volta di Firenze, poiché ci mancavano Gherardini, Gucci e Pucci, poi finalmente Milano. Palazzi Reali come a Bucarest e Tirana, ex conventi come a Zagabria, Musei di arte contemporanea come a Riyadh, Tunisi e Lima, come anche in palazzi storici o moderni sedi dei nostri Istituti di Cultura. Ricordi straordinari soprattutto delle sfilate organizzate sia con modelle professioniste che con le allieve dei corsi di lingua degli Istituti IIC. Ragazze e ragazzi da quando la collezione cercò di documentare anche la moda maschile, presentata per la prima volta allo stadio del CSKA di Sofia, dove anche molti atleti si prestarono come modelli per una notte. Non abbiamo però mai disdegnato i templi stato anche occasione per nuovi progetti. In novembre esporremo a Villa Audi, tra tesori di mosaici di epoca romana, alcuni set dei nostri argenti più belli. Il servizio da tavola di Olga Finzi per lo Scia di Persia Reza Palhavi, servizi da tè e da caffè, una collezione di brocche, di vasi e candelieri, firmati dai grandi autori del nostro design. Nella nuova galleria di Simone Kosremelli, disegnata con il suo rigore di architetto famoso e appena inaugurata con la sua prima collezione di gioielli, potremmo invece proporre i monili d’argento degli architetti per San Lorenzo, di Alba Lisca, Paola Crema e con quelli di Bice D’Errico, nostra collezione di grafica, mentre già in questo prossimo giugno Mario Maioli sarà protagonista al Palazzo Unesco di una mostra con le immagini del suo lavoro per il Gruppo Fiat Auto. Il felice incontro con Mimo Seman, in Libano portabandiera del design dell’arredo italiano, ha innescato un altro progetto per tempi futuri, quello di portare a Beirut la nostra collezione dressing home di mobili e complementi di arredo, magari nelle sale di Alba, a Beirut quello che a Milano è la Triennale. Proficuo viaggio, quindi, per riaccendere fuochi sopiti e riannodare preziose collaborazioni. Pagina 16 FRANCESCO GUCCINI DIARIO DELLE COSE PERDUTE MONDADORI C’era una volta … già, cosa c’era una volta? Con un poco di nostalgia, ma soprattutto con la poesia e l’ironia della sua prosa, Francesco Guccini, cantautore, poeta, scrittore, posa il suo sguardo sornione su oggetti, situazioni, emozioni di un passato che è di ciascuno di noi, ma che rischia di andare perduto, sepolto nella soffitta del tempo insieme al telefono di bachelite e alla pompetta del Flit. Una volta, c’era la banana: non il frutto am ato d a i b am bin i, b en s ì l’acconciatura arrotolata che proprio i bimbi subivano e detestavano ma che veniva considerata imprescindibile dai loro genitori. I quali, per bere un buon espresso, dovevano entrare in un bar e chiedere un “caffè caffè”, altrimenti si sarebbero trovati a sorbire un caffè d’orzo. Un viaggio nella vita di ieri che si legge come un romanzo: per scoprire che l’archeologia “vicina” di noi stessi ci commuove, ci diverte, parla di come siamo diventati. ALESSANDRO BARICCO TRE VOLTE ALL’ALBA FELTRINELLI Nell’ultimo romanzo che ha scritto, Mr Gwyn, si accenna a un certo punto a un piccolo libro scritto da un angloindiano, Akash Narayan, e intitolato Tre volte all’alba. Si tratta naturalmente di un libro immaginario, ma nelle immaginarie vicende là raccontate esso riveste un ruolo tutt’altro che secondario. Il fatto è che mentre Baricco scriveva quelle pagine gli è venuta voglia di scrivere anche quel piccolo libro, un po’ per dare un lieve e lontano sequel Numero settantasette - Maggio 2012 a Mr Gwyn e un po’ per il piacere puro di inseguire una certa idea che aveva in testa. Così, racconta Baricco, “finito Gwyn, mi sono messo a scrivere Tre volte all’alba, cosa che ho fatto con grande diletto”. “Venga, le ho detto. Perché? Guardi fuori, è già l’alba. E allora? E’ ora che lei torni a casa a dormire. Cosa c’entra che ora è? Sono mica una bambina. Non è questione di ore, è una questione di luce. Che cavolo dice? È la luce giusta per tornare a casa, è fatta apposta per quello. La luce? Non c’è luce migliore per sentirsi puliti. Andiamo”. MASSIMO GRAMELLINI FAI BEI SOGNI LONGANESI È la storia di un segreto celato in una busta per quarant’anni. La storia di un bambino, e poi di un adulto, che imparerà ad affrontare il dolore più grande, la perdita della mamma, e il mostro più insidioso: il timore di vivere. Fai bei sogni è dedicato a quelli che nella vita hanno perso qualcosa. Un amore, un lavoro, un tesoro. E rifiutandosi di accettare la realtà, finiscono per smarrire sé stessi. Come il protagonista di questo romanzo. Uno che cammina sulle punte dei piedi e a testa bassa perché il cielo lo spaventa, e anche la terra. Fai bei sogni è soprattutto un libro sulla verità e sulla paura di conoscerla. Immergendosi nella sofferenza e superandola, ci ricorda come sia sempre possibile buttarsi alle spalle la sfiducia per andare al di là dei nostri limiti. Massimo Gramellini ha raccolto gli slanci e le ferite di una vita priva del suo appiglio più solido. Una lotta incessante contro la solitudine. della Chiesa Valdese 1928-2012