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Scaramuzza Dramma Bontà

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Scaramuzza Dramma Bontà
Il dramma della bontà
di Gabriele Scaramuzza
1. Il termine idiota, che dà il titolo all’omonimo romanzo di Dostoevskij1 deriva da
“idios”: particolare, distinto da altri, che sta a sé; ma può anche voler dire totalmente
altro, straniero2. Nel romanzo è l’idiota nel senso spregiativo del termine, e come tale il
principe Myshkin viene spesso insultato e trattato. Ma è anche “il folle di Dio”, segno di
qualità personali profonde, di una profonda religiosità interiore.
Gli è vicino Parsifal: der reine Tor, il puro folle, durch Mitleid wissend: che sa nella
compassione, tramite la pietà: un’arma più penetrante e potente di qualsiasi sapere
intellettivo. Non è un caso che Paci parli dell’Idiota nel suo libro su Dostoevskij, in un
capitolo intitolato "il puro folle", con implicita allusione a Parsifal3. Del Mitleid anche
Myshkin fa uno strumento conoscitivo, una via privilegiata alla verità.
“La compassione è la più importante e forse l’unica legge di vita di tutta
l’umanità”4, dichiara Myshkin. “Chi attenta alla carità individuale attenta alla natura
dell’uomo e ne disprezza la dignità personale”5. A un certo punto Rogozin legge un
libro: “non era già questo ‘pietà’, un principio di ‘pietà’? Forse che la sola presenza di
quel libro non dimostrava che egli aveva piena coscienza di quel che doveva essere il suo
atteggiamento verso di lei?”6. Nella lettura sembra qui riecheggiare il tema della “carità
intellettuale”, della “carità dell’interpretazione”7.
1
I riferimenti sono tutti a L’idiota, trad. di G. Faccioli e L. Satta Boschian, con testo a fronte;
introduzione pp. V-XXII (La bellezza e il topolino) di Armando Torno; Nota introduttiva, pp. XXIII-XL,
di Ettore Lo Gatto, Milano, Bompiani, 2009. L’edizione include nella parte finale anche i “Taccuini su
appunti per L’Idiota” (che indicheremo con T; mentre indicheremo con Idiota l’intero romanzo
nell’edizione indicata). Sull’Idiota e sul tema in esso centrale della bontà ha scritto un saggio condivisibile
pressoché del tutto Rossana Rossanda: La bontà: “L’idiota”, in “Il romanzo”, a cura di Franco Moretti,
vol. I: “La cultura del romanzo”, Torino, Einaudi, 2001, pp. 431-437.
2
Vittorio Strada, Le veglie della ragione, Torino, Einaudi, 1986, pp. 33, 38. Sul termine v. anche Torno, in
Idiota, X-XIII.
3
Enzo Paci, L’opera di Dostoevskij, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1956 (d’ora innanzi indicato con la
sigla od). Inoltre: “Il profilo del principe Myskin si va a ricollegare a Ivanuska, il Semplicione, o meglio,
al jurodivyi (il santo scemo), l’equivalente del teutonico ‘puro folle’“ (Yarmolinsky, La vita e l’arte di
Dostojevkij., trad .it. di F. de Rosa, Milano, Mursia, 1959, p. 282). Cantoni cita Thurneysen che parla di
Myskin come di un “puro folle” e gli attribuisce la “mancanza di paura” (Remo Cantoni, Crisi dell’uomo.
Il pensiero di Dostoevskij, Milano, Il Saggiatore, 1975, p. 56 - d’ora innanzi verrà indicato con la sigla pd).
La mancanza di paura appartiene, aggiungiamo, anche a Sigfrido nell’omonima opera di Wagner, prima
dell’incontro con Brunilde.
4
Idiota, p. 543.
5
Idiota, p. 957.
6
Idiota, p. 541.
7
Si legga in proposito Giovanni Ferretti, Essere cristiani oggi, Torino, Elledici, 2011, p. 162.
1
2. E’ uomo “positivamente buono” Myshkin8, o “totalmente bello” come traduce Strada:
d’una bellezza però che è interiore, spirituale, morale - una bellezza che è insieme bontà;
ma è anche qualcosa di “ambiguamente complesso e tragicamente catastrofico”9. Cerca
di portare tra gli uomini il messaggio evangelico dell’amore, della comprensione, della
pietà, della carità (così è anche Alioscia; ma soprattutto così è Sonja, prostituta, che
tuttavia redime Raskolnikov). Myshkin10 non è Cristo11; cerca tuttavia di realizzare fino
in fondo gli insegnamenti cristiani nella sua vita, scontandone tutte le aporie e uscendone
sconfitto: "non vuole rappresentare Cristo, ma un uomo che, in un certo tempo storico,
riesce a realizzare, almeno in parte, l'ideale cristiano”. La sua bontà non è in grado "di
trasformare concretamente la realtà"12. Tema del romanzo non è la bontà come virtù
astratta (per solito inquinata da aloni di ipocrisia, e ardua da rappresentare, stucchevole13,
molto più del male), ma il mondo di relazioni conflittuali in cui cade, gli effetti
sconcertanti che produce. La storia dell’Idiota non è la parabola della bontà, tanto meno
ne è un’apologia acritica; è piuttosto la storia della disfatta della bontà in un mondo che
di fatto non la accetta – non è questo che di fatto si è sempre verificato? Rocco e i suoi
fratelli di Luchino Visconti ripercorre la parabola dell’Idiota; il regista afferma: “Rocco è un
santo. Ma nel mondo in cui viviamo, nella società che gli uomini hanno creato, non c’è
posto per i santi come lui. La loro pietà provoca disastri”14.
È anche un uomo terribilmente eterogeneo Myshkin, non a caso Rogozin in
qualche modo gli appartiene, vive anche dentro di lui15. Ha ambivalenze, che si
chiariscono anche se si pon mente al fatto che era stato concepito in un primo tempo
come un unico personaggio con Rogozin16. Ha varie tonalità, talvolta contraddittorie e
conflittuali; è buono e al tempo stesso ridicolo, suscita attrazione e pena.
Si autocolpevolizza continuamente; la comprensione, l’immedesimazione con
l’altro lo porta a sottovalutarsi, a non farsi valere, a cancellare se stesso sacrificandosi
all’altro. Come dice Nastasja, “non ho mai incontrato in vita mia un uomo simile a lui
per nobile semplicità e illimitata fiducia […] chiunque voglia può ingannarlo e chiunque
lo ingannasse sarebbe poi perdonato da lui”17.
Avverte ansiosamente l’insufficienza delle sue parole a dire quello che vorrebbe,
l’inesprimibilità della propria verità; è dominato dall’impressione di essere frainteso, di
8
Come Dostoevskij scrive in una lettera all’amica Sòf’ja Aleksàndrovna, ripresa da Torno, Idiota, pp.
IX-X, e da Lo Gatto, Idiota, pp. XXVI-XXVII.
9
V. Strada, op. cit., pp. 41, 44.
10
L’etimologia russa lo riporta al termine ambivalente “topo”, come spiega Torno, Idiota, pp. XIII-XIV.
11
Cristo non è quasi mai citato nel romanzo; di più nei Taccuini. Su “L’immagine di Cristo nell’Idiota” si
veda anche Alessio Scarlato in “Materiali di Estetica”, 9/2003, pp. 131-149; dello stesso Scarlato si veda
L’immagine di Cristo, le parole del romanzo. Dostoevskij e la filosofia russa, Milano, Mimesis, 2006.
12
od 68-9.
13
Come Dostoevskij ammette nella lettera cit. da Torno, Idiota, p. X: “Non c’è nulla di più difficile al
mondo, e specialmente adesso”.
14
Intervista a L. Visconti, apparsa su L’espresso, appena uscito il film, attorno al 14 dicembre 1960.
15
Le due figure erano fuse in uno, come i Taccuini di appunti per l’Idiota abbondantemente mostrano
nella prima delineazione del personaggio
16
Lo ricordano anche George Steiner, Tolstoj o Dostoevskij, trad. it. di C. Moroni, Milano, Garzanti, 1995,
p. 150; e Paci (od 64-70).
17
Idiota, p. 1347.
2
doversi spiegare meglio. Ha la sensazione di dire sempre “tutt’altro”18 da quello che
vorrebbe dire; questo riguarda anche altri personaggi, ma meno.
In tutto il romanzo si susseguono esigenze di spiegazione, si ricordi anche solo la
lunga, “indispensabile spiegazione”, di Ippolit19; il termine torna ossessivamente nei
Taccuini, a proposito dei più vari personaggi, ognuno dei quali cerca di “chiarire” le
cose. Non usa le parole come aggressioni agli altri Myshkin, ma in modo dolce e
ragionevole; è balbuziente, indeciso, incerto, interiorizza il sapore della propria
insufficienza a dire.
Rappresenta al più alto grado quel senso eterno di profondo disagio, di
insoddisfazione che attraversa, in misura diversa, pressoché tutti i personaggi. Forza
continuamente (come accade nel mélo) i limiti del linguaggio e dei gesti per poter toccare
l’inaccessibile meta del tutto detto; la spasmodica tensione a “dire tutto” imprime
torsioni espressionistiche ai linguaggi, e sfocia praticamente nell’afasia.
Ha una straordinaria mancanza di senso della misura e delle opportunità, è
aperto a tutti, “democratico”; e facilmente presta fede ad atteggiamenti altrui di cui non
intuisce la falsità; ne è facile preda, come ricorda anche Steiner. Di fatto è un disadattato,
l’angoscia gli appartiene; è un personaggio assai articolato, in lui la bontà è solo un
elemento che deve fare i conti col resto che ha dentro. Ha un senso molto forte di
autoconservazione ma anche di autodistruzione, una sorta di schizofrenia.
È impresentabile in società, maldestro, goffo20. La sera fatidica del ricevimento in
casa Epancin cade proprio nei discorsi che Aglaia l’aveva diffidato dal fare, per
un’estrema e irrealistica fiducia nei presenti. È sempre eccessivo, si lascia andare a
dichiarazioni estremiste contro il cattolicesimo, paragonato all’ateismo; si mostra
fanaticamente slavofilo (e qui Dostoevskij è autobiografico21). Ma la sua infatuazione
prepara la crisi epilettica con cui si concluderà la serata.
Ha una forte fiducia nella bontà, fondata su una religiosità che va oltre ogni
ragionamento, che antecede ogni prova - come testimonia anche la lettera del 1854 di
Dostoevskij all’amica Natal’ja Fonvizina22 a proposito di Cristo. Non vi sono esplicite
18
Fin nella tesa, allucinata scena finale con Rogozin accanto al cadavere di Nastasja “diceva sempre
tutt’altra cosa da quella che avrebbe dovuto dire” (Idiota, p. 1449).
19
Idiota, pp. 917-975.
20
È “sempre troppo in qua o troppo in là dal giusto punto di armonizzazione con la gente”, come
scrive Formaggio a proposito di Van Gogh (Van Gogh, a cura di Dino Formaggio, Milano, Mondadori,
1952, p. 7).
21
Ma il suo nazionalismo, la sua difesa del ”Cristo russo”, non gli impediranno ad es. di cogliere
analogie tra i contadini visti nella pianura padana e i contadini russi.
22
“Io vi dirò di me che sono un figlio del secolo, un figlio della miscredenza e del dubbio e che (lo so)
lo resterò fino alla tomba. Quante terribili sofferenze mi è costata e mi costa ora questa sete di fede, la
quale è tanto più forte nell’anima mia, quanto più sono gli argomenti contrari. E tuttavia Dio mi manda
talvolta dei minuti nei quali io sono del tutto sereno; in questi minuti io amo e trovo di essere amato
dagli altri e in questi minuti io ho creato a me stesso il simbolo della fede, nel quale tutto mi è chiaro e
sacro. Questo simbolo è molto semplice; eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo,
di più simpatico, di più ragionevole, di più virile e perfetto di Cristo, e non solo c’è, ma con geloso
amore mi dico che non può non esserci. E non basta; se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità
ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo anziché con la
verità” - traggo questa citazione da Pierre Pascal, Dostoevskij: l’uomo e l’opera, trad. it. di A. M. Marietti,
Torino, Einaudi, 1987, p. 84.
3
professioni di fede nell’Idiota, né sono presenti pratiche religiose. Non c’è alcuna
manifestazione esteriore di religiosità, né cenni a istituzioni, alla Chiesa, alla preghiera, ai
riti; c’è piuttosto esercizio attivo della bontà verso tutti. Dostoevskij la pratica anche
verso un ragazzo ebreo, che difende dagli scherni23; malgrado il suo antisemitismo, che
lo porta a vedere gli ebrei per lo più come usurai, con scarsa simpatia comunque.
Non rifiuta il dialogo con l’ateismo; ma la mancanza di fede è un fraintendimento:
“gli atei parlano di tutt’altro quando parlano di Dio”24. La religiosità si esprime come
fattiva partecipazione, come profonda finezza nella comprensione; in sua presenza scatta
la molla che fa esplodere la realtà in tutta la sua ricchezza, ma anche in tutte le sue
inquietanti contraddizioni. La fedeltà alla trascendenza opera dunque in Myshkin sulla
terra come intelligenza primaria.
Il cristianesimo d’altronde è scandalo; il mondo non lo tollera, se ne difende. Che
la pietà venga ritenuta un delitto torna spesso, ad es., nel mondo cupo delle prime opere
di Verdi, ma torna soprattutto nel ben diverso contesto della visione del mondo dei
carnefici della Shoah. È malattia il cristianesimo, non a caso Myshkin resta malato anche
nella parentesi di ritrovata sanità nel cui breve arco si consuma l’intera storia del
romanzo. Le sue due crisi epilettiche si muovono tra momenti di sublime rivelazione
(l’attimo che precede la crisi) e di bestialità (il grido che la inaugura, con gli spasimi che
seguono l’attacco25). Riacquistata la sanità mentale in Svizzera torna in Russia in treno,
ma alla fine ricade nella malattia mentale; è una breve parentesi magica quella del tempo
in cui si svolge il romanzo.
È un compito paradossale il suo: mai presuntuoso ma estremo, spinto fino alla
goffaggine, alla cecità, alla follia - come accade a Don Chisciotte. Accanto a Cristo, l’altra
fonte di ispirazione dell’Idiota è non a caso Don Chisciotte : “ricorderò soltanto che di
uomini buoni nella letteratura cristiana il solo compiuto è Don Chisciotte. Ma egli è
buono esclusivamente perché nello stesso tempo è anche comico”26. Dostoevskij, come
Kafka, ama molto il Don Chisciotte e lo cita spesso27. Il “cavaliere povero” della ballata di
Puskin che Aglaia recita è una controfigura di Don Chisciotte28.
Non è il cavaliere dell’ideale rappresentato nelle sue virtù, e che le realizza, e
insiste ostinatamente, irragionevolmente, a perseguirle malgrado ogni scacco. È piuttosto
l’eroe destinato a uscire reiteratamente sconfitto dal suo scontro con la realtà; e pur è
portatore di alti ideali cristiani (l’amore per i poveri, i diseredati, i deboli, gli oppressi),
per quanto spesso sbagli mira.
Situazioni che rinviano a Don Chisciotte sono ben presenti anche in altri risvolti
del romanzo: delle sorelle Epancin “si parlava con spavento del fatto che avevano letto
molti libri”29. Nastasja legge troppo, e come Don Chisciotte è profondamente
23
Idem, p. 85
Cfr. Idiota, pp. 515, 519.
25
V. la descrizione della crisi epilettica in Pascal, op. cit., 78.
26
Cit. da Torno, Idiota, p. X; Lo Gatto, Idiota, pp. XXVI-XXVII, XXX.
27
V. Idiota, pp. 66-71, 123, 254, 260, 281, 377, 445, 583, 589; T. 1603, 1648.
28
Pascal, op. cit., p. 168.
29
Idiota, p. 35.
24
4
influenzata da quello che legge; Myshkin trova accanto al suo letto Madame Bovary
(Flaubert pure amava Don Chisciotte). Lo stesso Myshkin legge libri dannosi per lui30.
Nel bel libro su Dostoevskij di Enzo Paci31 troviamo una conferma di quanto
stiamo dicendo: egli scorge in Myshkin l’incarnazione dei valori di un'intelligenza
primaria (“fondamentale” la definisce Aglaia32), che è "amore e insieme pensiero", è
capace di "cogliere armonie e rapporti là dove altri non vedono che disarmonia e
assurdità"; è in grado di scoprire dovunque germi di positività e possibilità di amore, di
cogliere la bellezza come "possibilità del bene" anche nel male e nelle malvagità.
Concretamente la bontà si realizza come conoscenza attiva: estrema finezza e profondità
di comprensione, capacità di giustizia nel capire e nel riconoscimento, profonda empatia.
E' oggetto di scandalo non solo per la sua castità, Myshkin, ma anche per "il suo rifiuto
di prendere in considerazione la malizia", per "la sua fiducia in chi lo inganna, tanto che
finisce col lasciarsi imbrogliare da tutti"; è incapace "di giudicare e condannare il male"33.
Prevale in lui il “capire” spinoziano, il perdono fino all’estrema giustificazione di tutto34.
La bontà di Myshkin provoca tragedie. Myshkin verrà sconfitto nel mondo di
intrighi e di risentimenti in cui si troverà a vivere: "La massima tensione del dramma è
dovuta proprio al fatto che proprio la bontà, l'innocenza, l'amore cristiano del principe,
provocano intorno a lui il caos e la ribellione che finiscono per ricondurlo all'idiozia"35.
3. Con la sua estrema finezza di comprensione, di penetrazione empatica, Myshkin
conquista l’amore di Nastasja e di Aglaia; ma la sua è più pietà che amore. Lo ripete
infinite volte: “non l’amo di amore, ma per compassione”. A proposito di Nastasja dice:
“Io non sono mai stato innamorato […] io… sono stato felice altrimenti”36. Dostoevskij
delinea tre tipi di amore: passionale di Rogozin, l’amore per vanità di Ganja, e l’amore
cristiano, appunto, del principe37.
Non ha carne l’amore di Myshkin, le donne si sentono comprese, e per questo
ne sono fortemente attratte. Lo amano per questo, ma non si sentono pienamente
riamate. Nella scena verdiana d’amore Già nella notte densa, alla fine del primo atto,
Desdemona dice a Otello: “e io t’amavo per le tue sventure, e tu m’amavi per la mia
pietà”; e Otello ne riprende le parole e il tema. Che già in questo ci siano i germi della
tragedia che seguirà? Myshkin suscita attese che non può esaudire, e le suscita in due
donne al tempo stesso tra cui non sa scegliere, Aglaia e Nastasja; per questo genera in
loro sofferenze e tragedie.
30
V. per tutto questo Idiota, pp. 1349, 1375, 1427.
A proposito delle letture dostoevskiane di Paci e di Cantoni riprendo qui il mio L’estetica e le arti. La
scuola di Milano, Milano, Cuem, 2007, pp. 139-153, 167-194 rispettivamente.
32
Idiota, p. 1017.
33
Su L'idiota cfr. od 63-78.
34
Scrive Antonia Pozzi: “Paci. Dostoevschiano anche lui. E anche lui sente, acutamente, che una
visione filosofica come quella di Banfi applicata alla vita di un giovane porta a spaventose conseguenze
pratiche. Comprendere tutto, giustificare tutto. L'assassino, l'idiota, il santo. Ma allora anche noi
possiamo farci assassini, pur di non rifiutare nessuna esperienza?” (Antonia Pozzi, Diari, Milano,
Scheiwiller, 1988, p. 43 (e v. pp. 13-14).
35
od 69.
36
Idiota, p. 155.
37
Idiota, T. p. 1578.
31
5
Il comportamento di Myshkin durante lo scontro finale tra Nastasja e Aglaia è
emblematico: è dominato dalla pietà, ad essa sacrifica senza volerlo persino l’amore per
Aglaia, spera che quest’ultima capisca il suo stesso matrimonio con Nastasja, “al di là di
tutto”. Vede davanti a sé la faccia disperata di Nastasja, che gli fa pietà, oltre anche la
paura che gli incute. Basta questa esitazione per decidere “lo sguardo terribile”, l’odio di
Aglaia, che fugge irrimediabilmente; il principe si getta verso di lei, ma è di nuovo
trattenuto dalla pietà verso Nastasja.
Nel successivo, franco dialogo con Evgenij Pàvlovic (personaggio che appare
verso la metà del romanzo) Myshkin è animato dalla convinzione che Aglaia avrebbe
capito se lo avessero lasciato parlare con lei, che avrebbe compreso anche la sua
compassione per Nastasja (di cui confessa di avere paura); e persino il suo matrimonio
con lei, che non metteva in discussione l’amore per Aglaia. Ma sente di andare incontro
alla rovina con questo, e si colpevolizza. È sempre in nome della compassione che
sacrifica se stesso, e l’amore per Aglaia. Il miraggio di “dire tutto”, di spiegarsi fino in
fondo, e la coscienza dalla propria inadeguatezza a farlo, da cui è perseguitato, sono
prodotti dal fallimento dell’amore, dall’incomprensione, e dalla ricerca spasmodica di
superarli:
“Senza Aglaja io… devo assolutamente vederla! Io… io morirò presto; ho
pensato che la prossima notte morirò nel sonno. Oh, se Aglaja sapesse tutto…
cioè assolutamente tutto, questa è la prima cosa. Perché non possiamo mai
sapere tutto di un altro, quando è necessario, quando quest’altro è in colpa!... Del
resto io non so quello che dico, m’imbroglio; voi mi avete costernato… E forse
lei ha la stessa faccia di allora, quando scappò via? Oh sì, sono colpevole. La cosa
più probabile è che io abbia colpa di tutto! Ancora non so di che precisamente,
ma sono colpevole…C’è qualcosa che non posso spiegarvi, Evgenij Pàvlovic,
non trovo le parole, ma… Aglaja Ivanovna capirà. Oh io ho sempre avuto fede
che avrebbe capito”. Al che Evgenij Pàvlovic tuttavia risponde: “È degna di
compassione?”, riferendosi a Nastasja, “Volete dir questo, mio buon principe?
Ma per compassione verso di lei e per farle piacere potete coprire di vergogna
un’altra fanciulla elevata e pura, umiliarla davanti a quegli occhi arroganti, a
quegli occhi pieni d’odio? Ma, dopo ciò, fin dove giungerà la compassione?”; “e
dove avevate il cuore allora, il vostro cuore ‘cristiano’?”. Aglaja “capirà che non
si tratta di questo, ma di tutt’altra, tutt’alta cosa!”, sostiene Myshkin; e
l’interlocutore gli risponde: “No, principe, non capirà. Aglaja Ivanovna vi ha
amato come una donna, come essere umano e non come… uno spirito
astratto”38.
In modo analogo agisce Rocco in Rocco e i suoi fratelli. LuchinoVisconti amava
molto Dostoevskij (cui già si era ispirato per Le notti bianche), e non meno amava Verdi.
Nel film su Rocco entrano motivi dell’Idiota, ma insieme della Traviata (cui Visconti
dedicò la splendida regia con la Callas); oltre che, ma meno, della tragedia greca, data la
presenza di Katina Paxinou nel ruolo della madre. Il tema del denaro, della prostituzione
(una mantenuta è stata Nastasja non meno di Violetta), del gioco, della malattia (la tisi di
Ippolit, l’epilessia di Myshkin), sono presenti in Dostoevskij non meno che nella Traviata
38
Idiota, pp. 1377, 1379, 1381, 1383.
6
(la tisi di Violetta). La figura di Rocco è una trasposizione della figura di Myshkin, e
quella di Simone di quella di Rogozin. Fortemente simili sono le tragiche conclusioni
(l’assassinio), che vedono la sconfitta senza rimedio della bontà.
La figura di Nadia ha non poco di dostoevskiano, e Nastasja deve qualcosa a
Margherita Gautier. Dostoevskij amava La dame aux camélias39. Rocco fa prevalere la
comprensione e la pietà verso Simone, si sente colpevole verso di lui per aver amato
Nadia e per averla con ciò sottratta al fratello. Non si ribella alla violenza di Simone
verso Nadia (lo stupro al Ponte della Ghisolfa). Gli restituisce in certo senso Nadia, ma
con ciò innesca la catastrofe finale. E quanto di simile c’è tra la scena che conclude il
romanzo tra Myshkin e Rogozin, e quella verso la fine del film tra Rocco e Simone a
delitti (l’assassinio di Nastasja e di Nadia) appena avvenuti!
4. La bontà è intenzionale non meno della pietà, è volta al rilievo di qualità, nelle cose e
nelle persone, che altrimenti sfuggono. Non è stato d’animo interiore, tratto solo
caratteriale, ma piuttosto un fare, un modo di essere e di agire nel mondo, nei gesti e
nelle parole con cui Myshkin persegue con costanza e determinazione il suo scopo. Il
romanzo non rappresenta il valore in sé della bontà, ma piuttosto, abbiamo più volte
sottolineato, il confronto aspro della bontà coi contesti in cui tenta di realizzarsi; il suo
proiettarsi, distruttivo a conti fatti, verso gli altri.
Oggetto del romanzo, e asse intorno a cui si dispongono gli eventi, è dunque sì la
bontà, ma nel suo drammatico dialogo col mondo non solo esterno al protagonista, ma
anche interno. Si scontra col sottosuolo, che condiziona Myshkin non meno che altri
personaggi in cui affiora più vistosamente; e che traspare in quel suo tormentarsi e
torcersi le mani, nei suoi violenti rossori, nell’angoscia che lo attanaglia, negli effetti
imprevisti e sconcertanti che produce. Anche il principe Myshkin, nella sua grande
bontà, non è personaggio esente da una interiore, drammatica, complessità.
Il sottosuolo svolge un ruolo decisivo nel mondo con cui si confronta la bontà.
Cantoni ne fa la chiave di volta del mondo dostoevskiano: è sì zona inesplorata della
realtà umana, ma anche mondo di sguardi, di atteggiamenti dotati di una loro valenza
appunto conoscitiva40; in esso sono attive forme di conoscenza "minori", sublogiche, ma
di incalcolabile portata. Non è tutto l'uomo, certo; ma lo attraversa tutto, e percorre in
sensi variabili e a livelli diversi tutta l'opera di Dostoevskij. Consta di un insieme di
momenti non solo "bassi", ma anche intellettualmente impegnativi; e comunque
imprescindibili. Parafrasando Vico, potremmo dire che include tanto la barbarie dei sensi
quanto la barbarie della riflessione. E' a sua volta un mondo stratificato: è libertà
irrazionale che frantuma ogni schema logico, ogni convenzione sociale, ogni certezza
etica; è autodistruttività, colpa, vergogna, peccato, risentimento. Gli appartengono
bassifondi psicologici e insieme sociali, l’inconscio individuale e quello collettivo, ma
anche forme di iper-riflessività angosciosa, di intellettualistico tormento, di astratta e
crudele razionalità. Lo testimonia il monologo di Myshkin precedente il primo attacco
39
La elogia nell’Idiota a p. 357, e ci torna alle pp. 297, 385, 1253.
Carlo Sini parla di "traduzione della tematica del sottosuolo in un peculiare metodo e strumento di
conoscenza" (L’interpretazione di Dostoevskij nel pensiero di Remo Cantoni, in “Problemi attuali di critica
dostoevskiana”, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 1983, p.
22).
40
7
epilettico a Pietroburgo: in realtà un lungo, teso, dialogo tra sé e sé, dominato da
ossessioni e turbamenti, dalla minacciosa prospettiva dell’esplosione della malattia, da
impulsi irrazionali, contraddittori, indecifrabili41.
Vale per la bellezza ciò che vale per la bontà. Non è in gioco una bellezza presa a
sé; ma piuttosto colta nel confronto col resto del mondo, negli effetti che produce. È
ben lontana dalla pacificante serenità della bellezza classica. Myshkin ha una straordinaria
abilità tecnico-artistica nella scrittura, tanto che Epancin gli propone di assumerlo per
questo; ha gusto per la bellezza grafica e di questa discute con competenza all’inizio del
romanzo42. Ma è un elemento che sta a sé e non sembra produrre effetti sulla vicenda.
“La bellezza salverà il mondo”, ripete più volte Myshkin. Ma anche dà pena,
inquietudine: Aglaia è così bella che si ha paura a guardarla, la sua bellezza è un enigma.
Ha un forte impatto sul reale: con la bellezza di Nastasja “si potrebbe sovvertire il
mondo”43; la sua bellezza è “fantastica e demoniaca”44. Ha una strana, pallida, bellezza
Nastasja, che la rende accecante; è ambivalente nel contrasto tra orgoglioso disprezzo,
odio, e fiducia, meravigliosa ingenuità; esprime un’intensa sofferenza, suscita un misto
di compassione, di inquietudine e di paura45.
Dostoevskij coglie la bellezza solo nella sua presenza viva al sentire: “disprezzava
l’abitudine di guardare con la guida in mano” le bellezze naturali e artistiche. Si annoiava
ai musei, soffermandosi solo sui quadri che lo afferravano nel profondo; più dei
monumenti lo prendevano le scene vive, nella natura e nelle strade46. Il quadro di Hans
Holbein il giovane “Cristo nella tomba” (o “La Deposizione”) - che Dostoevskij vede a
Basilea, e cui torna spesso anche nell’Idiota; e di cui esiste una riproduzione nella tetra
casa di Rogozin - lo prende, più che per la riuscita artistica, per la sostanza tragica: fa
soffrire e può far perder la fede47. Alla Pinacoteca di Dresda Dostoevskij e la moglie
vanno a vedere, incantati, soprattutto la Madonna Sistina di Raffaello, e Aci e Galatea di
Claude Lorrain48. La loro bellezza è colta non nella perfezione estetico-artistica, ma nelle
tracce “fantastiche”, di “follia mistica” che conserva; è una bellezza perfetta, sì, ma che
reca le stigmate della sofferenza e del dolore attraversati nel crearla. Non a caso Catteau
nota che l’arte di Dostoevskij può essere avvicinata all’espressionismo49. Per questo il
volto di Marie non è bello, ma ha occhi dolci, buoni e benigni; Marie è taciturna, ma è
altamente espressiva. Bella è Alexandra Ivànovna, d’una “recondita tristezza” che la
rende simile alla Madonna di Holbein vista da Dostoevskij alla Pinacoteca di Dresda50.
41
Idiota, pp. 525-555.
Idiota, pp. 61, 71-75.
43
Idiota, p. 1081.
44
Idiota, p. 1375.
45
Su Nastasja v. anche Licia Fabiani, Nastas’ja Filìppovna: l’amore doppio. Una lettura a partire da Stefan Zweig,
in “Materiali di Estetica” 9/2003, pp. 151-158.
46
Cfr. P. Pascal, op. cit., p. 110.
47
Idiota, pp. 511-13, 543, 967, 971, T 1526. Pascal, op. cit., p. 154.
48
Lo ricorda Torno, Idiota, p. VII
49
Jacques Catteau, La création littéraire chez Dostoevskij, Paris, Institut d’études slaves, 1978, pp. 37-41.
50
In realtà una copia dell’originale, che è a Darmstadt (cfr. la nota in Idiota, p. 1668).
42
8
5. La stessa struttura del romanzo51 esprime il contesto, tutt’altro che univoco, in cui
cadono la bontà e la bellezza: L’idiota è un tessuto di mondi in contrasto, il suo spazio è
quello di una dialettica senza sintesi. Risulta da un dialogo non irenico tra volti diversi in
un mondo di rapporti ingarbugliati, è una polifonia di voci, ideali, valori (tra cui centrale,
ma non unica, è appunto la bontà) che non convivono pacificamente ma si scontrano
drammaticamente, si annullano, si alternano nei diversi contesti. Come aveva ben visto
Bachtin, ma poi vedrà anche Cantoni, il romanzo è tesa coesistenza e interazione, non
divenire lineare; è convivenza piuttosto, nel presente, di eventi e situazioni conflittuali.
Per questo Dostoevskij costruisce il suo romanzo “in forma drammatica”52. Gli stessi
scarsi monologhi si configurano come dialoghi drammatici tra sé e sé, come accade nel
lungo monologo di Myshkin cui abbiamo già accennato. Non c’è tra i personaggi una
voce sola che predomini; non c’è voce che rappresenti le idee dell’autore e in nome di
queste si imponga su tutti; lo scrittore pone se stesso come un cronista neutrale, super
partes; non si immedesima in alcun personaggio, registra i fatti53. Ciononostante se ne
avverte bene la profonda partecipazione all’intera vicenda.
La convivenza delle idee però non le appiattisce tutte, non le mette a pari merito
su uno stesso piano; esistono valori, pensieri che sono punti riferimento, in relazione a
cui tutto si dispone. E qui l’idea dominante è certo la bontà del protagonista, ma vista
come sappiamo nel suo misurarsi con l’altro da sé. Non a caso i temi che le fanno da
pendant sono il conflitto, l’incomprensione, l’angoscia, l’estrema difficoltà a incontrarsi.
8. A ragione Paci osserva che la visione del mondo di Dostoevskij non sta tanto nelle sue
esplicite prese di posizione, quanto in un contesto più articolato, in cui vari fattori
svolgono un ruolo imprescindibile. Come aveva già rilevato Cantoni in termini analoghi,
"il pensiero di Dostoevskij artista è più profondo e supera il pensiero di Dostoevskij
ideologo"54. La sua verità è "la verità dei suoi romanzi e mai quella dei suoi pensieri
astratti e dei suoi appunti", quali si ritrovano nelle lettere o nel Diario di uno scrittore. Il suo
pensiero "è incarnato nel movimento drammatico e nelle forme" della sua arte: "qui e
soltanto qui si trova la sua filosofia". La sua effettiva concezione del mondo "si trova
soltanto nella forma dell'arte"55, è calata in un insieme articolato, in cui interagiscono
momenti diversi, e giocano un ruolo decisivo in primo luogo dimensioni estetiche e
artistiche.
Non a caso Paci sottolinea che "le idee reazionarie e slavofile di Dostoevskij
diventano nei romanzi le idee di un personaggio e, per questo stesso fatto, entrano in
urto e in lotta con altre idee, si limitano nella loro assolutezza, diventano soltanto
momenti e parti di una verità più universale e più profonda, verità che non è mai
rappresentata da nessuno dei personaggi del dramma, ma dal significato estetico, e
insieme filosofico, del dramma tutto intero"56.
51
All’Idiota ha dedicato pagine assai belle anche da questo punto di vista V. Strada, op. cit., pp. 30-64.
Idiota, T, p. 1506.
53
Idiota, pp. 1357-59.
54
od 102
55
od 8
56
od 98-99
52
9
In secondo luogo, "sarebbe grave confondere Dostoevskij con i suoi personaggi";
essi "dialogano e lottano tra loro, e lottano perché non si comprendono, perché ognuno
di essi assolutizza il proprio punto di vista. Perciò nessun personaggio rappresenta,
isolato, ciò che Dostoevskij ci dice come artista"; neppure quelli che sembrano esprimere
"l'essenza del suo insegnamento", quali lo stàrez Zosima: neppure le sue parole "sono
isolabili" da quelle di Ivan o Mitja57. La verità di Dostoevskij risulta dall'interazione di
quelle idee, dal gioco del loro reciproco relazionarsi; non nell'assunzione di una sola di
esse come l'unica dominante.
Non è monologico il romanzo, in nessun senso: non è campo di un trionfo, di
una sopraffazione definitiva, di un’idea sull’altra, non ha una linea unica del suo divenire,
non è portatore di un’unica visione del mondo. Né sono monolitici i caratteri, ma
complessi, contorti, spesso ambivalenti. I personaggi non sono mai davvero soli, non
riflettono in disparte, la scena è sempre animata, vengono colti sempre nel dialogo;
anche i rari monologhi sono confronti tra lati diversi, spesso conflittuali, di sé. Nel loro
spazio più proprio sono presenti altri interlocutori, la loro intima essenza è dialogo
costante con essi.
9. Cantoni58 fa di Myshkin l’eroe di una bontà che si incarna in un intero modo di essere
verso gli altri, e ne fa la figura esemplare del problematicismo dostoevskiano, destinato a
soccombere nel confronto con un “sottosuolo” aggressivo che impone comunque le
proprie leggi.
Il problematicismo viene definito come la concezione "secondo la quale, se ci
poniamo nel cuore del vivente, esso diviene il punto focale di una infinità di rapporti
complessi e misteriosi che un'intelligenza frettolosa e convenzionale solitamente non
coglie"59. Ebbene, è di estremo interesse che Cantoni veda incarnata questa prospettiva
esemplarmente nel principe Myshkin: è sotto il suo sguardo sgombro da preconcetti che
le cose rivelano la loro problematicità. Il principe si fa l'eroe-simbolo del
problematicismo come vita della comprensione e dell'amore cristiano - una vita vissuta
fino alle sue estreme conseguenze, fin nelle tragiche aporie in cui cade allorché tenta di
realizzarsi concretamente nella storia. In questa prospettiva egli risulta per così dire
desacralizzato, ricondotto a coordinate filosofiche o, meglio, a un religioso colto nelle
sue valenze filosofiche. Non incarna la perfezione dell'amore cristiano, la sua compiuta
attuazione nella vita, bensì piuttosto le sue dolorose difficoltà in un mondo in cui ben
altri “valori” drasticamente si impongono.
Myshkin è l'apertura felice dell'amore come dono assoluto di sé, ma anche la
tragedia di questo. Non è un santo, non è la reincarnazione di Cristo, non fa miracoli,
non si fa latore di messaggi da trasmettere, non è depositario di certezze da imporre. E'
piuttosto un semplice uomo che cerca di realizzare il cristianesimo nelle situazioni
laceranti in cui si trova a vivere. Non ha prodigiose capacità di incidere sugli altri, non
compone i conflitti ma piuttosto li fa esplodere, come osserva finemente Paci60. Ma con
57
od 22.
R. Cantoni, Crisi dell’uomo. Il pensiero di Dostoevskij, Milano, Il Saggiatore 1975 (cui d’ora innanzi si
rinvia con la sigla pd).
59
pd 46.
60
Cfr. od 68-69.
58
10
la sua assoluta disponibilità, che sembra svuotarlo di ogni istanza da far valere in proprio
(non giudica, non ha posizioni personali da difendere, non entra in concorrenza con
nessuno; è pura accoglienza, mera apertura), sa cogliere la pluridimensionalità delle cose;
in sua presenza le cose rivelano la loro irriducibilità a facili semplificazioni. Il suo
cristianesimo coinvolge la soggettività (l’intenzione, il pensiero che già condannano,
come avviene nel caso di Dmitri nei Karamazov).
10. La polifonia del romanzo si manifesta anche come dialogo tra stili, generi, linguaggi e
toni diversi61. Anche a questo livello vive, sul piano delle forme letterarie che lo
tematizzano, il dramma della bontà. Il patetico convive col sublime nella storia di Marie,
al tragico si accompagna l’humour noir; rasentano il grottesco personaggi quali il padre
Epancin, come poi anche, ed esemplarmente, Fiodor Karamazov; grotteschi sono a
pieno titolo il padre di Gania con le improbabili storie che racconta, ma lo sono anche
per certi tratti Rogozin, Gania, lo stesso Ippolit nella farsa del fallito suicidio. Non
manca il ridicolo accanto al sublime in Myshkin; la grazia e l’incanto appartengono ad
Aglaia, ma anche a lui, e di entrambi non sono tutto. Le narrazioni delle condanne a
morte, la confessione di Ippolit hanno toni intensamente tragici. Per qualche episodio
Dostoevskij stesso parla di vaudeville62, e non esita a ricorrere a stilemi da letteratura
d’appendice. Ha sensibilità estetica, ma anche grande attenzione ai dati tecnico-artistici63.
Cantoni sa bene cogliere la funzionalità delle forme espressive scelte da
Dostoevskij alle verità che vuole trasmettere. E, come sa apprezzare il senso del nonfinito e del frammentismo kafkiano, così sa valorizzare la tanto spesso denunciata
“incompiutezza stilistica” di Dostoevskij64: “artista trascurato e grossolano”, “letterato
sempre in tensione e oscillante tra forme espressive incompatibili”, “impuro”
esteticamente65 e artisticamente sospetto. Una imperfezione peraltro imputata anche a
61
Cfr. Michail Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, cit., pp. 41-45.
Idiota, T 1501, 1503.
63
Idiota, 1592, 1598, 1601, 1602, 1612,1616, 1642-43.
64
Che ad es. Avrahm Yarmolinsky ancora sottolinea in La vita e l’arte di Dostojevskij, cit.; a suo avviso
Dostoevskij non ebbe un’adeguata preparazione culturale: “non andò mai al di là di una cultura
superficiale” (p. 141). “La forma la rifinitura, il mestiere, eran, sì, cose importanti, ma al di là di lui. Egli
doveva sempre oltrepassare se stesso, doveva sempre balbettare, ripetersi, per l’urgenza di ciò che aveva
da dire”; e per questo “i suoi romanzi avevano qualcosa di incompiuto, qualcosa di sperimentale” (p.
333); “la sua produzione manca di rifinitura, di senso della misura”, di “controllo”; è uno “stilista
trascurato e grossolano”, l’ordito dei suoi scritti è “rude e lento”, mancano del tutto le metafore; “il suo
stile diventa pletorico specialmente a causa della lentezza estrema” (pp. 437, 438, 439). E può essere
sintomatico ricordare le critiche consimili rivolte a Verdi: come Verdi negli “anni di galera”,
Dostoevskij scrive sotto la pressione della necessità, degli editori che lo assediano. Scrive “in gran fretta,
per bisogno, […], per guadagnar denaro”, e questo lo ha “sempre soffocato e divorato” (Pascal, op. cit.,
p. 132); non ha mai respiro per ripensare, perfezionare. “Troppo spesso mi è successo di scriver cose
molto, molto cattive per la fretta, perché avevo un termine” (idem, p. 138) V. per un cenno anche
Berdjajev, La concezione di Dostojevskij, trad. it., Roma, Einaudi, 1945, p. 25. Anche Mirskij, Storia della
letteratura russa, trad. it., Milano 1965, ricorda che i contemporanei lo considerarono “uno scrittore di
grandi doni naturali ma di dubbio gusto e insufficiente disciplina artistica”. Per contro Bachtin mette
bene in luce come la presunta incompiutezza di Dostoevskij sia il correlato della sua apertura dialogica.
65
R. Cantoni, pd, pp. 39, 274-5, e cfr. 297, 353.
62
11
Rembrandt, oltre che a Verdi66. È anche tramite essa che si dà corpo l’accidentata vita
della bontà nel mondo in cui le è toccato in sorte di proporsi.
Ancora, in tempi a noi più vicini in un suo saggio Vladimir Nabokov sostiene che
Dostoevskij “non è un grande scrittore, ma è piuttosto mediocre”, malgrado qualche
“lampo di eccellente umorismo”, sommerso peraltro da “distese di banalità letterarie”.
Solo a lettori che non conoscano “la differenza tra la vera letteratura e la
pseudoletteratura” Dostoevskij può sembrare “più importante e più artistico di ciarpame
come i nostri romanzi storici americani o di cose che s’intitolano Da qui all’eternità o di altre
scempiaggini del genere”; si deve dunque ridimensionarlo. Privo di gusto, “incredibilmente
banale”, drammaturgo sviatosi nel mondo del romanzo; eticamente e politicamente
impresentabile (“cristianesimo nevrotico”, atteggiamento simile a quello “riconoscibile nel
fascismo e nel comunismo”). Influenzato dal romanzo gotico e da quello sentimentale, cui
associa “una religione della compassione che sconfina nel sentimentalismo
melodrammatico”; anzi a volte “ridicolmente melodrammatico”. Delitto e castigo è “prolisso,
terribilmente sentimentale e mal scritto”, grossolano e privo di arte, con scadenti trucchi
letterari, squilibri artistici67.
Il predominio del pensiero sul “bello stile”, il premere di un magma esistenziale in
massimo fermento, un tormento creativo che è insieme mentale e somatico - come ci
ricorda Mirskij: “Dostoevskij ‘sentiva le idee’ come altri sentono il caldo, il freddo o il
dolore”68 - contaminano la perfezione artistica delle sue opere, che sono sempre più che
mera “letteratura”. Dostoevskij ricorre ampiamente (a livello vuoi contenutistico vuoi
formale) al “brutto” (diremmo noi), non si astiene dall’avvalersi dello stile “basso”, del
comico, della caricatura e della parodia69.
Lukàcs parla di una “mancanza di misura” che contraddistinguerebbe Dostoevskij
rispetto alle “forme cesellate” di tanti scrittori occidentali: egli “distrugge ogni forma bella
o non bella, genuina o falsa, perché l’uomo disperato non può più considerare queste
66
Il confronto tra Verdi e Dostoevskij è presente in pd. Con ciò Cantoni risponde anche a un luogo
comune di non poca critica (Nabokov ne è uno dei principali rappresentanti, appunto), che giudica
Dostoevskij, come poi anche Verdi, esteticamente sospetto, incompiuto stilisticamente, non riuscito sul
piano artistico. Qualcosa di analogo si può ritrovare nell’immagine che Jacob Burckhardt ci lascia di
Rembrandt: “autodidatta nel più ardito senso della parola”, renitente agli insegnamenti dei maestri e
dunque carente dal lato professionale, deciso a voler “scoprire da solo tutta la sua arte”, in definitiva
“personalità testarda, forte e bizzarra”(J. Burckhardt, Arte e storia. Lezioni 1844-87, tr. it. di A. Staude,
Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 206-207). Verso Rembrandt Burckhardt non nasconde le sue
riserve, insistendo esplicitamente sulla presenza del brutto nelle sue opere (il suo Rembrandt è del 1877).
Un brutto evidente nei tratti volgari, rozzi, ripugnanti delle figure e nei gesti goffi, sgraziati, ma anche
nell’imperizia della resa formale (non priva di “storpiature ed errori”) - con sacrificio della bellezza a
vantaggio di effetti coloristici e luminosi che prendono a mero pretesto cose e figure mescolandole
arbitrariamente, incuranti della loro “esattezza oggettiva” e in definitiva della loro qualità estetica.
Rembrandt “ama l’oscuro, l’energia indegna, quel che è maledetto ed il dannato, la collera”; vi si
ritrovano tipi plebei, caricaturali: turchi ed ebrei, “gente rugosa e trasandata”, esseri deformi quali
“mendicanti, storpi”, accanto a “disegnatori assorti nel loro lavoro”, e magari pensatori (J. Burckhardt,
op. cit., pp. 204-226; è significativo che un cenno a p. 218 riguardi anche Wagner).
67
V. Nabokov, Lezioni di letteratura russa, a cura di F. Bowers, trad. it. di E. Capriolo, Milano, Garzanti
1987, p.125 e ss.
68
D. Mirskij, op. cit., p. 291 (cit. in pd, p. 276).
69
Cfr. pd, pp. 184, 195, 291, 354.
12
forme come espressioni adeguate di quell’ultimo contenuto psichico che sta cercando.
Ogni barriera imposta dalle convenzioni sociali alla comunicazione tra le persone umane
viene infranta per lasciar posto a una sincerità spinta all’estremo che rasenta quasi la
spudoratezza. E il terrore della solitudine umana travolge tutto con una irresistibile forza
poetica precisamente perché neanche queste distruzioni servono ad eliminarlo”70.
Il suo problematicismo (che è uno dei piani su cui, sappiamo, si gioca la bontà) si
riflette nella struttura dei suoi romanzi: si traduce nell’invenzione di quel nuovo tipo di
romanzo che – come ha teorizzato Bachtin – è il romanzo polifonico, in cui predomina il
dialogo tra idee spesso in contrasto tra loro, un contrappunto (Cantoni ricorre proprio a
termini musicali) di strati di realtà diversi.
Soprattutto Cantoni sottolinea la mescolanza spregiudicata di formule narrative e
di generi letterari tra loro assai diversi71: il romanzo d’appendice, la confessione, il
resoconto neutrale; le cronache giudiziarie che Dostoevskij seguiva con passione72; la
cronaca giornalistica e il giallo73; i toni da romanzo dell’orrore che l’incubo di Rogozin
rasenta. Esemplare da questo punto di vista è “l’indispensabile spiegazione” di Ippolit;
esemplare è il suo incubo terrificante di un essere orrendo, mostruoso, schifoso, non ben
identificabile. E non manca l’elemento autobiografico, ad esempio nelle narrazioni di
condannati a morte; essenziale è il radicale coinvolgimento nei problemi teologici ed
esistenziali: la bontà di Myshkin si fa prova dell’esistenza di Dio, la “spiegazione” di
Ippolit dice anche della sua lotta contro la rassegnazione, contro una religiosità
pacificante. Come altri personaggi dell’Idiota, ma in modo più accentuato, è un
personaggio che si vive sempre come su un palcoscenico Ippolit; cosa inverosimile per
un malato cui restano pochi giorni di vita (ma non è così anche per tanti eroi ed eroine
da melodramma e da opera lirica?).
Il romanzo risulta da un incrociarsi di livelli stilistici e linguistici74 e di gusto75, di
toni, di piani di realtà76, di materiali, di mondi ideali e di categorie estetiche77 eterogenei –
in un contrappunto altamente ricco e articolato78. E L’idiota presenta un insieme di storie
che gemmano le une sulle altre79, come accade nel Don Chisciotte.
11. Paci, non meno di Cantoni, insiste non poco sulla teatralità che domina nei romanzi
dostoevskiani80. Di situazioni drammaturgiche è pieno il romanzo (come riconosce
70
G. Lukàcs, Saggi sul realismo, trad. di M. e A. Brelich, Torino, Einaudi, 1976, p. 289.
pd, pp. 288-9.
72
Lo Gatto, Idiota, pp. XXXV-XXXVII.
73
pd, pp. 54, 287.
74
pd, pp. 286-88
75
“Il genio può permettersi di adoperare tra i suoi ingredienti anche la banalità e il cosiddetto cattivo
gusto”, “si pensi, per un parallelo musicale, a quello che avviene nell’opera verdiana” (pd, p. 288).
76
pd, pp. 289-90.
77
pd, p. 311. Un accenno al comico in Dostoevskij è presente da noi già, ad es., in G.A. Levi, Il comico,
Genova, Formiggini 1913, p. 112.
78
Importante Pascal, Op. cit., p. 173.
79
Dostoevskij vi fa cenno nei Taccuini, Idiota, 1606.
80
“Egli vedeva e pensava il suo mondo essenzialmente nello spazio, e non nel tempo. Di qui la sua
profonda inclinazione verso la forma drammatica” (M. Bachtin, op. cit., p. 41).
71
13
Ganja81). Lo spazio teatrale è il luogo in cui, limitandosi a vicenda, le prese di posizione
dei singoli personaggi svelano la propria relatività e reciprocamente si sdogmatizzano.
Essi possono così comprendersi - giacché "il dogmatismo è un’inibizione" al
comprendere, non "lascia vivere il mondo"82. Lo spazio teatrale è luogo di
conflittualizzazioni disassolutizzanti.
La teatralizzazione dei romanzi operata da Dostoevskij è evidente anche nella loro
struttura ad effetto, nella mescolanza degli stili e dei toni: "l'opera di Dostoevskij si
forma come un grandioso dramma teatrale"83, come "teatro narrativo"84; non a caso la
prima visione che il suo autore ha di Delitto e castigo "è una visione teatrale"85. Egli
riprende anzi, a parere di Paci, "le primitive ed originarie ragioni del teatro", basato sul
"dramma sacro"86. E proprio il dramma è luogo di sdoppiamenti per eccellenza, di
maschere in contrasto tra di loro, e nella cui dialettica soltanto si produce la verità
dell'opera. In esso i vari personaggi discutono e lottano tra loro, "perché non si
comprendono, perché ognuno di essi pretende che il suo punto di vista sia l'unico vero e
che sia falso quello degli altri, perché ognuno, cioè, assolutizza la propria verità e la
chiude nella sua solitudine, negando la verità altrui. Quest'urto tra le verità singole che si
assolutizzano negandosi a vicenda, tra le verità che non riescono a porsi in relazione fra
loro"87, sta al fondo dei romanzi-drammi dello scrittore; nessuna delle posizioni in gioco
può esser contrabbandata per la sua personale.
Ma con la duplicità ha a che vedere anche la tensione presente nel mondo di
Dostoevskij (come peraltro in quello di Kierkegaard) tra etica e religiosità, la paradossale
certezza per cui "l'amore e la pietà vanno al di là della morale". Se nell’Idiota "il principe
vedrà sempre negli altri soltanto l'amore e la possibilità dell'amore", se la sua idiozia "è
l'impossibilità di giudicare e di condannare", questo appunto implica che "la religione
non è dunque la morale perché trascende il giudizio etico di condanna"88.
Anche Paci sottolinea l'uso del grottesco e di tinte caricaturali, il "gusto per
l'intrigo"89, il ricorso all'autoironia caratteristici dei romanzi dostoevskiani. Sottolinea "il
modo singolare con cui Dostoevskij spesso scrive in prima persona presentandosi come
il narratore dei fatti"; talvolta, aggiunge, "sembra che prenda in giro se stesso, in quanto
ingenuo spettatore e puro cronista", si fa personaggio e reporter al tempo stesso; "entra
in medias res, vive e discute con le figure della propria creazione estetica". Anche per
questo "nella sua grande opera drammatica la commedia non manca di fianco alla
81
Idiota, p. 1141.
E. Paci, Dall'esistenzialismo al relazionismo, Messina-Firenze, D’Anna, p. 365.
83
od 7.
84
od 98.
85
od 53.
86
od 100. Altrove Paci parla di analogie tra il Mann del "mito di Giuseppe" e l'ultimo Dostoevskij nella
comune ripresa di un'antica concezione mitico-religiosa, che trova espressione massima "nella
concezione paolina del 'corpo mistico' di Cristo, unica persona che in sé redime tutti gli uomini,
mediatore tra il peccato e la salvezza, tra l'uomo e Dio" (Esistenza e immagine, Milano, Tarantola 1947,
pp. 82-83).
87
od 98.
88
od 72.
89
od 39.
82
14
tragedia"90; la commistione dei generi è anche dialettica di punti di vista e, sullo sfondo,
di visioni del mondo.
Il tema dello sdoppiamento ha rilevantissimi riflessi infine anche sul piano della
generale concezione dell'arte. Paci rileva il rifiuto del realismo91, innanzitutto:
"Dostoevskij non crede all'arte come descrizione realistica e naturalistica", denuncia
coloro che, in nome dell'aderenza al reale, ignorano "la realtà del fatto estetico"; o per
altro verso "si illudono di correggere il proprio intellettualismo con la teoria dell'arte
realistica". L'artista "rivive" e "interiorizza" i processi di dissoluzione della vita che
rappresenta, ma insieme li trasforma "in nuove forme di vita non ancora realizzate e che non
possono, quindi, risultare da una mera e passiva raffigurazione della realtà"92.
12. Particolarmente interessante da questo punto di vista è il rilievo (ricorrente nella
letteratura dostoevskiana: ne è consapevole Camus93, non mancherà in Paci, e verrà
accentuato da Steiner94) di una teatralità melodrammatica95: “Ogni voce individuale e ogni
singolo personaggio fanno parte di una specie di melodramma”96; Dostoevskij utilizza
“tutto il repertorio anche di scarto del melodramma”97. Anche lega Dostoevskij al
melodramma il modo di far agire il tempo nel tessuto narrativo dei suoi romanzi98.
Il mondo di Dostoevskij è intriso di atmosfere, figure, situazioni che ne fanno
un luogo privilegiato di residenza di quello che nella nostra ottica chiameremmo il
brutto: non vi mancano il goffo, il grottesco, il male, il ridicolo, il caricaturale99. La sua
scrittura è profondamente percorsa da tensioni melodrammatiche; lo si è rilevato da più
parti100, è quasi un luogo comune della letteratura dostoevskiana. E al mondo del mélo lo
lega anche il tema della città, dell’uomo alle prese con la realtà della metropoli
90
od 40.
Può essere interessante ricordare a questo proposito quanto, in diverso contesto, Paci osserva su
come viene vista "la casa di Ragozin nell'Idiota" (Relazioni e significati, I, Milano, Lampugnani Nigri 1965,
p. 180.
92
od 34.
93
“Il y a près de vingt ans”, scrive, “ que je vois ses personnages sur la scène. Ils n’ont pas seulement la
stature des personnages dramatiques, ils en ont la conduite, les explosions, l’allure rapide et
déconcertante. Dostoïevski, du reste, a, dans ses romans, une technique de théâtre: il procède par
dialogues, avec quelques indications de lieux et de mouvements. L’homme de théâtre, qu’il soit acteur,
metteur en scène ou auteur, trouve toujours auprès de lui tous les renseignements dont il a besoin”.
(Camus, “Prière d’insérer a Les possédés” [aprile 1959], in Théâtre, récits, nouvelles, Paris, Gallimard 1962, p.
1886).
94
G. Steiner, Tolstoj o Dostoevskij, cit.
95
Dell’uso del coup de théâtre si parla anche nei Taccuini, Idiota, p. 1577.
96
pd, p. 13.
97
pd, p. 308. Dostoevskij amava d’altronde la musica in ogni sua espressione (opera inclusa), da Mozart
e Beethoven a Glinka alla musica popolare; non nutriva tuttavia simpatia alcuna per Wagner (cfr. J.
Catteau, La création littéraire chez Dostoevskij, Paris, Institut d’Etudes Slaves 1978, pp. 43-50).
98
J. Catteau nel suo La création littéraire chez Dostoevskij ha scritto importanti pagine sul tempo nei
romanzi dostoevskiani .
99
Che Rosenkranz annette al brutto nella sua Estetica del brutto, appunto. Ricordo su questo problema
una lezione di Damiano Rebecchini all’Università degli Studi di Milano.
100
Peter Brooks per tutti: Dostoevskij è “uno degli scrittori che hanno saputo ricorrere a stilemi
melodrammatici nel modo più efficace e produttivo” (L’immaginazione melodrammatica, trad. di D. Fink,
Parma, Pratiche, 1985, p. 12).
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capitalistica101. La città in cui i personaggi vivono, Pietroburgo, anticipa atmosfere
kafkiane: “tutta l’atmosfera è tragica”, camere asfittiche, case con “scale sordide”, “strade
soffocanti, con i loro tuguri, la loro puzza, le folle brulicanti; la stessa città di
Pietroburgo, assurda e irreale”102.
Le situazioni e i personaggi del romanzo sono sotto il segno dell’eccesso: nei
loro gesti e nelle parole sono sempre sopra le righe, le continue forzature del linguaggio
ne sono sintomi. Sembra salvarsi Aglaia, ma anch’essa è preda di esasperazioni e di
tormentosi contrasti; anche Gania vive situazioni da eroe mélo. Vi sono rovesciamenti
inaspettati di prospettive: i suoi romanzi hanno “intrecci ampi e complessi, ricchi di
personaggi, di colpi di scena, dove non è risparmiato nulla che possa accendere e tener
desta la curiosità del lettore”103.
Dostoevskij amava la grande letteratura, ma anche la letteratura d’appendice.
Rimase profondamente colpito dai romanzi gotici di Ann Radcliffe, come anche dalle
opere di Sue, Hugo, Dickens, Sand, Dumas, Balzac (oltre che da certo Schiller e da
Hofmann), in cui elementi melodrammatici non mancano. Lo avvicina a I misteri di Parigi
anche il modo in cui lavora e produce i suoi romanzi (appaiono a puntate come
feuilleton): sempre in fretta, sotto la sferza degli editori, senza mai tempo per rifinire.
Già, ed esemplarmente, in Umiliati e offesi non mancano influssi di Victor Hugo e di
Eugene Sue: “effetti crudamente sensazionali”, colpi di scena teatrali, patetismi,
improvvisi stacchi, toni sentimentali; né sono assenti il grottesco, momenti di mistero e di
suspense, di “intrigo elaborato”104. “L’esposizione degli Umiliati e offesi segue un andamento
nervoso e convulso, con improvvise svolte nell’intreccio, proprie del romanzo
d’appendice, e conclusioni di parti e capitoli atte a colpire l’immaginazione. Caratteristico
questo modo di chiudere gli episodi nei momenti decisivi, critici, negli istanti di maggior
sconvolgimento, sorpresa, tensione da parte dei personaggi e di interesse da parte del
lettore”105. Dovunque nei suoi romanzi elementi ideologici e melodrammatici si
mescolano; toni apertamente melodrammatici non mancano anche in Delitto e castigo oltre
che nell’Idiota.
I personaggi dostoevskiani ereditano qualcosa dei personaggi melodrammatici, nel
loro operare sempre in luoghi pubblici o aperti al pubblico, nella loro mancanza di
privatezza: tutto si svolge nelle vie e nelle piazze, o in interni di fatto aperti. E anche in
101
“Dostoevskij fu il primo che – con un’arte tuttora insuperata – fissò i sintomi della deformazione
psichica che, nel campo sociale, nasce necessariamente dalla vita della grande città moderna”, dalla
“miseria della metropoli” (G. Lukàcs, Saggi sul realismo, trad. it. di M. e A. Brelich, Torino, Einaudi 1976,
pp. 283-288). Sulla Pietroburgo di Dostoevskij ha scritto pagine assai fini Gian Piero Piretto: Da
Pietroburgo a Mosca. Le due capitali in Dostoevskij, Belyj, Bulgakov, Milano, Guerini 1990; Gli uomini della folla
di Dostoevskij. Senza dimenticare Hoffmann e Poe, in “Europa Orientalis”, XII\1993:2, pp. 91-122;
“Modernità” a Pietroburgo: ancora a proposito della folla in Dostoevskij, in “Annali dell’Istituto di Lingue e
Letterature Germaniche”, Parma, Zara ,1996, pp. 205-218; e infine Fessure, fenditure, voragini: le finestre di
Dostoevskij, in “Europa Orientalis”, XV/1996:1, pp. 77-101.
102
Pascal, op. cit., p. 145
103
Idem, p. 141.
104
Cfr. il cap. dedicato da D. S. Mìrskij a Dostoevskij nella sua Storia della letteratura russa, cit.
105
L. P. Grossman, Dostoevskij artista, trad. it., Milano, Bompiani 1961. Del protagonista del romanzo
scrive F. Malcovati: Valkovskij “ha la struttura tipica del malvagio del melodramma classico: a lui si
deve l’infelicità di tutti i personaggi” (Introduzione a Dostoevskij, Roma-Bari, Laterza 1992, p. 45).
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questo si tradisce forse un’esasperazione, una disperazione di fondo, una drammatica
insicurezza; e una ricerca di conferme.
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