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Chi mangia indegnamente il corpo del Signore

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Chi mangia indegnamente il corpo del Signore
CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE
(1Cor 11,27)
L. D. Chrupcała
Il racconto dell’istituzione dell’eucaristia viene tramandato, oltre che dai
sinottici, anche da Paolo (1Cor 11,23b-25). Il valore della sua testimonianza
non si riduce però ad una fedele trasmissione della tradizione relativa alla
cena del Signore. Paolo non è soltanto un ripetitore di “quanto ha ricevuto”,
ma risulta pure un autorevole “ermeneuta della tradizione”1. Grazie al carattere peculiare dei suoi scritti, in cui la dottrina si abbina alla parenesi, l’apostolo riesce ad unire, armonicamente e con invidiabile equilibrio, i principi
dell’insegnamento di Cristo con i postulati della prassi cristiana. Questo vale
anche per l’eucaristia. La presentazione della dottrina eucaristica non è fine a
se stessa, ma dipende e viene motivata da concrete ragioni pastorali che diventano, a loro volta, occasione per approfondire la verità di fede. Tutto ciò
suggerisce l’importanza nonché l’originalità della visione di Paolo, sia per
quanto riguarda lo sviluppo normativo della dottrina eucaristica, sia anche per
la conoscenza del modo di celebrare e di vivere l’eucaristia da parte delle prime comunità cristiane2.
Nell’epistolario paolino soltanto la 1Cor tratta dell’eucaristia. Paolo affronta per due volte questo tema, sempre in connessione con un problema
concreto che affligge la comunità. Il primo intervento è legato alla questione
delle carni immolate agli dèi pagani (gli idoli). L’apostolo esorta i corinzi
“forti” ad evitare i pasti idolatrici, dal momento che tale condotta provoca lo
scandalo nei “deboli” e soprattutto contraddice il significato del convito
eucaristico. Infatti, il banchetto sacro è il mezzo di comunione fra i partecipanti e con la divinità. Se, pertanto, un cristiano prende parte alla “mensa del
Signore” ed entra in comunione con il corpo e il sangue di Cristo, non può
unirsi alla “mensa dei demoni” esponendosi così ad un serio pericolo di entrare in comunione con essi (1Cor 10,16-22).
Anche il secondo riferimento all’eucaristia, più complesso e articolato del
precedente, è originato da un problema sorto all’interno della comunità. In1. Léon-Dufour, “Corps du Christ”, 225.
2. Per uno sguardo generale sulla dottrina eucaristica di Paolo rimando agli studi di Allo, De
Orbiso, Peters, Boismard, Neuenzeit, Sloyan, Bornkamm,“Zum Verständnis”, Doudelet, Betz,
Maccoby, citati nella bibliografia.
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formato di gravi abusi avvenuti nel corso delle assemblee conviviali, Paolo
reagisce con fermezza, richiamando l’attenzione dei corinzi sul contenuto
della tradizione della cena del Signore e avvertendoli sui possibili rischi di
incorrere nella condanna divina (1Cor 11,17-34). L’apostolo lancia alla comunità una minacciosa ammonizione che suona come un assioma teologico-etico: “Pertanto chiunque mangia il pane e beve il calice del Signore
indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore” (1Cor 11,27).
Paolo non precisa in che cosa consiste esattamente il reato perpetrato nei confronti del cibo eucaristico, né quale comportamento sia da considerare indegno. Si limita a dire che la condanna è dovuta ad un mancato discernimento
del corpo nell’atto di mangiare il pane e di bere il calice (1Cor 11,29).
Nelle pagine che seguono si tenterà di dare una risposta agli interrogativi
suscitati dal passo paolino. Per farlo, dobbiamo esaminare il contesto della
frase (ampio e immediato), non solo per ricercarvi una soluzione alle incognite, ma anche per evitare il rischio di leggere il detto di Paolo in chiave
pregiudiziale.
1Cor 11,17-34: delimitazione e struttura del brano
La composizione di 1Cor 11,17-34, unitaria e compatta, si stacca chiaramente da quanto precede e segue. Il caso del pasto in comune, unito al valore della celebrazione eucaristica (vv. 17-34), è del tutto differente da quello trattato
nei versetti precedenti: l’abbigliamento dei profeti e delle profetesse partecipanti ai raduni di preghiera (vv. 2-16). Più netta ancora è la cesura conclusiva
del brano. Nel cap. 12 inizia una nuova sezione che si estende sino alla fine
del cap. 14, dedicata al tema del buon uso dei doni dello Spirito (carismi).
In apertura e in chiusura del brano ricorre, a modo di inclusione, lo stesso
verbo sune÷rcomai (“convenire / radunarsi”), ripetuto cinque volte. Nei vv.
17.18.20 Paolo, insistendo sul fatto del “raduno”, biasima il comportamento
negativo dei corinzi durante la cena del Signore. Terminando la sua istruzione, l’apostolo indica il modo corretto del “raduno” comunitario (vv. 33.34).
Altri richiami linguistici rinforzano l’unità del brano. Nel v. 20 si parla di
“un mangiare” (fagei√n) la cena del Signore che crea disordini: alcuni si ubriacano, mentre altri patiscono la “fame” (v. 21: peina◊ˆv). Verso la fine Paolo afferma invece che il raduno per “il mangiare” (fagei√n) è un pasto fraterno (v.
33); per cui, se qualcuno ha “fame” (peina◊)vˆ , dovrebbe saziarsi e˙n oi¶kwØ (v. 34),
dato che proprio la “casa” è il luogo più adatto a questo scopo (v. 22).
L’unità interna di 1Cor 11,17-34 è assicurata inoltre dalla presenza dello
stesso tema. Terminato l’argomento riguardante il decoroso abbigliamento
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nei raduni ecclesiali (vv. 2-16), Paolo passa ad un altro tema, sebbene legato
ancora all’ordinamento dell’assemblea liturgica: il pasto eucaristico della
comunità e i gravi abusi che travisano il vero significato della memoria
celebrativa del Signore. Questo tema viene svolto in modo lineare con successivi ragionamenti3.
La presenza degli abusi durante la cena del Signore (vv. 17-22). A Paolo
sono giunte notizie poco confortanti sullo svolgimento dei raduni conviviali
nella comunità di Corinto. La “cena del Signore” (kuriako\n dei√pnon), che è
il motivo principale della sinassi eucaristica4, viene abitualmente accompagnata da un pasto agapico. Tale prassi diventa però la causa di scissioni (v.
18: sci÷smata) e divisioni interne (v. 19: ai˚re÷siß), dato che i cristiani benestanti si comportano in modo egoistico nei confronti di quelli più poveri e
consumano “la propria cena” (to\ i¶dion dei√pnon); e così gli uni pranzano
lautamente arrivando persino allo stato di ubriachezza, mentre gli altri si tengono in disparte, perché esclusi, vergognosi o scandalizzati, e non di rado
patiscono anche la fame (v. 21). Questo “non è più un mangiare la cena del
Signore” (v. 20), perché snatura il senso genuino dell’assemblea conviviale.
Nonostante la sua gravità, Paolo considera il fatto comunque positivo: le divisioni sono un’occasione propizia per manifestare “quelli che sono i veri
credenti” (v. 19). Tuttavia l’apostolo non può lodare l’atteggiamento scandaloso di alcuni membri della sua comunità-modello. Fa notare perciò, sotto
forma di domande cariche di velato rimprovero e di sottile ironia (v. 22), che
sono le case private i luoghi più adatti per soddisfare le esigenze nutritive;
inoltre la condotta biasimevole dei ricchi getta un discredito sulla chiesa di
Dio e umilia i nullatenenti.
La memoria eucaristica ricevuta e trasmessa da Paolo (vv. 23-26). Il brano presenta un’originale costruzione: un racconto centrale (di cui il Signore
Gesù è il protagonista), preceduto e seguito dagli interventi personali di Pao-
3. Alcuni studiosi propongono una struttura triplice: vv. 17-22, vv. 23-26, vv. 27-34, con una
suddivisione dell’ultima unità in due parti conclusive parallele (vv. 27-32 e 33-34) che traggono le conseguenze di quanto è stato detto; così di recente Barbaglio, La Prima, 561-562. Per
gli altri invece (ad es. Fee, The First, 532) i vv. 33-34 formano la quarta unità del brano. La
discussione esula dalle finalità del presente studio. Comunque, nell’uno e nell’altro caso, i vv.
33-34 sono un’unità letteraria la cui funzione può essere interpretata in modi diversi. Preferiamo considerare i versetti in questione come parte finale di tutto il brano di 1Cor 11,17-34, che
richiama gli argomenti trattati in precedenza (soprattutto il tema della “riunione in assemblea”
della prima unità e il tema della “condanna” della terza).
4. Il verbo sune÷rcomai è “quasi termine tecnico per designare il raduno di tutta la comunità,
specialmente per la celebrazione dell’eucaristia” (Schneider, “sune÷rcomai”, 963). Cf. inoltre
più avanti la nota 21.
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lo (nei quali egli appare, rispettivamente, come trasmettitore del racconto tradizionale e interprete del suo significato). L’apostolo ricorda anzitutto ai
corinzi d’aver trasmesso loro la tradizione cultuale dell’ultima cena (v. 23a)5.
Questa tradizione viene riassunta nella successiva narrazione dei gesti e delle
parole pronunciate da Gesù sul pane e sul vino durante il pasto precedente la
sua morte (vv. 23b-25). In chiusura Paolo offre la sua interpretazione teologica del rito ecclesiale di “mangiare questo pane e bere il calice” (v. 26).
Il modo indegno di mangiare il pane del Signore (vv. 27-32). Dopo aver
presentato il vero significato della cena del Signore, Paolo passa subito ad una
severa esortazione nei confronti di coloro che mangiano il pane e bevono il
calice del Signore “indegnamente / in modo indegno” (v. 27: aÓnaxi÷wß). Per
evitare la condanna destinata a colui che mangia e beve mh\ diakri÷nwn to\
sw◊ma (v. 29), è necessario sottoporsi ad un esame personale (v. 28). Solo così
si potrà sfuggire al giudizio (v. 31), sia a quello storico (v. 30) che a quello
escatologico (v. 32).
L’invito finale a mantenere la fratellanza nei raduni (vv. 33-34). E’ la
breve ma incisiva conclusione dell’istruzione paolina in merito alla cena del
Signore. Nonostante il biasimo iniziale, l’apostolo chiude la sua esortazione
in modo affabile prescrivendo alla comunità corinzia, in un duplice imperativo, due regole pratiche di comportamento eucaristico. “Perciò, fratelli miei,
quando vi radunate per il mangiare, aspettatevi gli uni gli altri; se qualcuno
ha fame, mangi a casa, affinché non vi raduniate per la condanna”. Il raduno
conviviale-eucaristico deve iniziare in presenza di tutti (v. 33: allusione ai
frazionamenti egoistici della comunità) e il suo scopo principale non consiste
nel soddisfare la fame corporale (v. 34: allusione ai pasti propri che degenerano in sfarzosi e ludici banchetti), ma deve condurre in primo luogo a rafforzare la comunione fraterna. Per cui i pasti propri devono essere consumati a
casa, altrimenti si corre un serio rischio di subire la condanna da parte del
Signore (v. 34: allusione alle punizioni temporali e al giudizio escatologico).
Termini e temi di 1Cor 11,27-32
L’intero brano è pervaso da una terminologia giudiziaria: e¶nocoß (v. 27),
kri÷ma (v. 29), kri÷nein (vv. 31.32), diakri÷nein (v. 31), katakri÷nein (v. 32).
5. Si tratta di una tradizione che rimonta al Signore stesso, quale sorgente prima della tradizione. E’ il senso più accreditato dell’espressione aÓpo\ touv kuri÷ou; cf. la nota g a 1Cor 11,23
della Bibbia TOB. Rossano, Lettere ai Corinzi, 124, parafrasa: “Ho ricevuto da una tradizione
che risale al Signore”.
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In questo contesto, anche l’avverbio aÓnaxi÷wß (v. 27) assume un valore
che, come si vedrà più avanti, trascende il piano puramente etico-morale;
d’altra parte l’esame personale di verifica o l’autogiudizio (v. 28: dokima¿zein) allude ad un processo che si svolge in foro interno. Il giudiziocondanna si presenta quindi come un tema dominante e unificatore di tutto
il brano.
Un altro elemento di unità è la figura del Signore. E’ lui che esegue il giudizio e dichiara la condanna (vv. 31.32), perché chi mangia il suo pane e beve
il suo calice aÓnaxi÷wß, diventa colpevole “del corpo e del sangue del Signore” (v. 27). La condanna poi è immediata e viene inflitta nel momento stesso
in cui “chi mangia e beve, mh\ diakri÷nwn to\ sw◊ma, mangia e beve la propria
condanna” (v. 29).
Sulla base del contenuto e della forma è possibile individuare nei vv. 2732 due parti congiunte: un insegnamento generale (vv. 27-29) e la sua applicazione concreta (vv. 30-32). Nella parte dottrinale il discorso paolino si
rivolge a “chiunque / colui che” (v. 27: o§ß a£n), al generico “uomo” (v. 28:
a‡nqrwpoß), a “chi mangia e beve” (v. 29: oJ e˙sqi÷wn kai« pi÷nwn), mentre l’applicazione della dottrina concerne in forma diretta i membri della comunità
di Corinto (v. 30: e˙n uJmi√n), ma è valida anche per tutti i credenti in Cristo, dato
che neppure Paolo può sentirsene esente (nei vv. 31-32 i verbi sono in prima
persona plurale).
Il pensiero dei vv. 27-29 è legato strettamente (cf. la congiunzione w‚ste)
all’affermazione fatta prima sul valore della cena del Signore (vv. 23-26).
Nel v. 26 Paolo dichiara che mangiare il pane e bere il calice rappresenta
una proclamazione dell’evento pasquale. Proseguendo il discorso, egli si
concentra sul modo di “mangiare” e “bere”, concetti che ritornano per quattro volte nei tre versetti successivi. Dato che il raduno della comunità viene
fatto in memoria del Signore, di conseguenza una partecipazione “indegna”
alla mensa eucaristica (v. 27) merita un verdetto di condanna da parte di
Paolo (vv. 17-22) ma soprattutto da parte del Signore stesso. Affinché ciò
non avvenga, l’apostolo raccomanda un profondo esame interiore che mira
a correggere le mancanze nel comportamento: ognuno deve esaminare se
stesso e solo allora è autorizzato a prendere positivamente parte alla cena
del Signore (v. 28).
Il pensiero viene proseguito nel versetto seguente (v. 29), come si deduce
dalla congiunzione ga¿r: la trasgressione, dovuta all’assenza di un esame personale, porta con sé necessariamente la condanna. Con la ripetizione della
stessa radice (kri÷ma, diakri÷nwn), difficile da rendere nella traduzione, chi
scrive intende convogliare l’attenzione dei lettori sul concetto dominante della condanna-giudizio. Lo stesso fenomeno, ma in maniera ancora più accen-
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tuata, si ripete nelle frasi successive (v. 31: diekri÷nomen, e˙krino/meqa; v. 32:
krino/menoi, katakriqw◊men)6.
Nei vv. 30-32 la dottrina generale di Paolo viene applicata al caso specifico della comunità corinzia. Per rinforzare la sua argomentazione,
l’apostolo ricorre ad un esempio concreto interpretando in chiave di giudizio e di condanna i mali fisici che si sono riversati sui corinzi (v. 30).
Se alcuni membri della comunità sono stati puniti corporalmente, si sono
ammalati e parecchi di loro sono deceduti, ciò è risultato (cf. il complemento dia» touvto) di un modo improprio di vivere la cena del Signore. E’
possibile, tuttavia, evitare i castighi sottoponendosi ad un attento esame
personale, ad una verifica del proprio modo di comportarsi e di vivere
l’incontro con il Signore nella cena (v. 31). Il “giudizio” di cui si parla qui
riguarda appunto i mali corporali che colpiscono i fedeli irriverenti portandoli spesso alla morte7. Essi non hanno però un valore esclusivamente
punitivo ma soprattutto pedagogico. Secondo la visione biblica (cf. Sap
12,22; Sir 18,13; 2Mac 6,12), il giudizio divino è insieme castigo e istruzione. Le sofferenze inflitte ai corinzi, di qualsiasi genere esse siano, sono
quindi delle prove medicinali che servono alla conversione dei colpevoli
e in questo modo li sottraggono alla condanna finale “insieme con il mondo” (v. 32).
Articolazione di 1Cor 11,27
Come si è detto sopra, il v. 27 fa parte dell’insegnamento generale di Paolo,
compreso nei vv. 27-29. Questo tipo di asserzioni caratterizza le proposizioni
relative, in cui compare di norma o§ß a‡n corrispondente all’e˙a¿n della proposizione ipotetica vera e propria8. Quindi, possiamo considerare il v. 27 come
equivalente ad un periodo ipotetico: Se uno mangia il pane e beve il calice del
Signore indegnamente (protasi), diventa reo del corpo e del sangue del Signore (apodosi). L’indole universale e perenne dell’affermazione paolina suggerisce di assegnare alla frase il valore iterativo, anche se quello eventuale si
6. Questo procedere, chiamato paronomasia, nel caso di Paolo “si potrebbe dire quasi lezioso”
(Blass - Debrunner, Grammatica, § 488.1).
7. Si veda l’articolo di Perrot, “C’est pourquoi”. Secondo il recente studio di Schneider,
“Glaubensmängel in Korinth”, si tratterebbe invece di un senso metaforico e quindi le infermità dovrebbero riferirsi alla fede. Cf. Pietro Crisologo, Sermo 34: “Item dormientes mortuos
dicit, quos luget in vivo corpore iam sepultos” (PL 52,297B).
8. Cf. Blass - Debrunner, Grammatica, § 380 1a.
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impone dal punto di vista formale9. Paolo mette in guardia sia la comunità
corinzia come tutti i cristiani in genere che, qualora si verificassero determinate circostanze, ossia un modo indegno di mangiare il pane e bere il calice
del Signore, bisogna aspettarsi come conseguenza la condanna da parte del
Signore, e ciò indipendentemente dal quando alla sentenza di colpevolezza
farà seguito un castigo reale (v. 30: al presente; v. 32: nel futuro).
La formula fagei√n to\n a‡rton h£ pi÷nein to\ poth/rion indica la partecipazione alla cena eucaristica10. Nei gesti della manducazione liturgica si riflette l’offerta personale fatta durante l’ultima cena da Gesù mediante i simboli del pane
spezzato e del calice benedetto. Anche qui, nella memoria cultuale, è il Signore
che porge ai partecipanti alla cena gli stessi doni, come viene specificato dal
genitivo possessivo-soggettivo touv kuri÷ou, che si riferisce non soltanto al calice ma anche al pane. La cena così imbandita dal Signore non è un pasto profano, perché le realtà materiali del pane e del vino (il “calice” è una metonimia
che prende il contenente per il contenuto) trascendono l’aspetto fisico e diventano simboli reali touv sw¿matoß kai« touv aiºmatoß touv kuri÷ou. Questa formula,
parallela a quella precedente del pane e calice, presenta il vero significato della
cena cultuale e per questo motivo diventa anche il criterio di misura e giudizio
del comportamento di quanti prendono parte alla cena del Signore.
L’avverbio in forma privativa aÓnaxi÷wß è un hapax legomenon del NT.
Sono numerose invece le sue ricorrenze nella forma positiva di a‡xioß (47 volte nel NT), impiegato di solito nelle costruzioni con il genitivo11. Tenendo conto del significato fondamentale dell’aggettivo a‡xioß12, possiamo affermare che
l’avverbio aÓnaxi÷wß indica un agire umano contrario ad un volere normativo.
In questo modo, il giudizio è commisurato alla condotta dell’uomo che merita
il premio o il castigo. Si comprende così il motivo per cui in Paolo le costruzioni verbali con a‡xioß appaiono solo nei contesti parenetici dove riassumo9. Il caso eventuale ha di norma il futuro nell’apodosi (come appunto nel v. 27), mentre quello
iterativo richiede il presente, ma i confini fra i due casi sono incerti; cf. Blass - Debrunner,
Grammatica, §§ 373.1; 380.2.
10. La congiunzione coordinante disgiuntiva h¡ non ha qui il significato forte di esclusione reciproca (mangiare il pane oppure bere il calice), bensì, in quanto pone in alternativa (e ciò soprattutto nelle proposizioni negative) due concetti diversi dello stesso ordine, assume il valore
copulativo di kai÷; cf. Blass - Debrunner, Grammatica, § 446.1b. Questo significato è confermato, del resto, dalle costruzioni parallele dei vv. 26.28.29.
11. Proprio questo uso abituale ha stimolato l’aggiunta di touv kuri÷ou nel v. 27 (fatta da a, D
corretto, alcuni codici medievali).
12. Foerster, “a‡xioß”, 1013: “Propriamente è colui che mette in equilibrio la bilancia ‘sollevando’ l’altro piatto”; cf. anche Trummer, “a‡xioß”, 271.
13. Foerster, “a‡xioß”, 1016.
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no il movente o lo scopo del vivere cristiano valutato alla luce della volontà di
Dio (cf. Rm 1,32; 16,2; Ef 4,1; Fil 1,27; Col 1,10; 1Ts 2,12). “Anche in 1Cor
11,27 l’invito a guardarsi dal prendere il pasto eucaristico aÓnaxi÷wß non è fatto avendo in vista alcuna qualità morale, ma un comportamento ispirato al vangelo”13. Il cristiano viene giudicato “indegno” non in base alle colpe morali
generiche, ma perché il suo agire risulta inadeguato, difforme o contrario alla
norma, ossia al valore normativo della cena del Signore.
Proprio questa condotta negativa provoca, quale conseguenza immediata,
l’emissione del verdetto di colpevolezza. L’aggettivo e¶nocoß richiede, secondo
l’uso classico, il dativo, ma nel NT compare anche con il genitivo14 e indica
colui che è “giuridicamente soggetto, debitore”15 della colpa (Mc 3,29), della
pena meritata (Mt 26,66), oppure della legge o del valore violato (Gc 2,10).
L’ultimo senso si addice al passo di 1Cor 11,27 in cui il termine forense e¶nocoß
viene elevato a livello teologico-simbolico16. La frase genitivale touv sw¿matoß
kai« touv aiºmatoß touv kuri÷ou presenta l’oggetto della profanazione causata da
un’azione impropria nei confronti del pane e del calice. La dichiarazione della
colpa coincide quindi e scaturisce direttamente nel momento stesso in cui si
verifica la trasgressione. In tal modo, il giudizio sul comportamento (aÓnaxi÷wß)
e la condanna giudiziaria (e¶nocoß) sono strettamente legati17.
La medesima prospettiva ritorna nel v. 29, parallelo nella forma e nel contenuto al v. 2718. E’ in pratica lo stesso pensiero che, dopo essere stato interrotto da una frase di passaggio (v. 28), viene riformulato con parole sinonime.
Questa ripetizione dimostra l’importanza del tema e aiuta nella sua comprensione. Mettendo a confronto i termini corrispondenti rileviamo una perfetta
struttura chiastica dei due versetti:
v. 27: aÓnaxi÷wß
→
e¶nocoß
v. 29: kri÷ma
←
mh\ diakri÷nwn
14. E’ il genitivus pretii; cf. Blass - Debrunner, Grammatica, § 182.2. Cf. anche Is 54,17 LXX.
15. Hanse, “e˙ne÷cw”, 1353.
16. Così Kratz, “e¶nocoß”, 1118.
17. Lo esprime anche la struttura della frase in cui aÓnaxi÷wß si scontra immediatamente con
e¶nocoß, come ha rilevato Delling, “Das Abendmahlgeschehen nach Paulus”, 328.
18. Il parallelismo veniva notato già dalle antiche versioni e dai Padri che uniformavano i due
versetti; cf. Barrett, A Commentary, 275; Barbaglio, La Prima, 600 nota 230, propende a considerare anche il v. 29 equivalente ad un periodo ipotetico: la mancanza del discernimento del
corpo (la protasi), provoca in conseguenza il giudizio di condanna (l’apodosi). Conzelmann,
Der erste, 239, parla di una “variazione”; per una voce nettamente contraria vedi Fee, The
First, 562-563.
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Al modo “indegno” (aÓnaxi÷wß) di partecipare alla cena del Signore corrisponde la mancanza di discernimento o una valutazione erronea (mh\ diakri÷nwn) del “corpo”. Invece la dichiarazione di colpevolezza (e¶nocoß) si accorda
con un verdetto di condanna (kri÷ma), per cui l’asserzione di essere reo e quindi passibile del giudizio equivale in pratica alla stessa condanna giudiziale.
In entrambi i casi infatti, il criterio di verifica dipende da un atteggiamento
improprio nei riguardi di un valore ritenuto vincolante19. Inoltre, siccome nel
v. 29 la condanna viene emessa nel momento stesso in cui uno “mangia e
beve”, si è autorizzati a dedurre che anche nel v. 27 la dichiarazione di colpevolezza sia simultanea alla comparsa di una condotta indegna20.
La cena del Signore celebrata a Corinto
Per poter determinare l’esatta natura del “modo indegno” di partecipazione
al corpo e al sangue del Signore, occorre anzitutto precisare le caratteristiche
delle assemblee ecclesiali praticate a Corinto. Solo allora sarà possibile individuare il genere di abusi denunciati da Paolo e, di conseguenza, comprendere anche le ragioni della condanna dei fedeli colpevoli.
Una ricostruzione dello svolgimento dei raduni conviviali nella città dell’istmo non è facile, dal momento che lo scritto paolino ne offre soltanto
una descrizione sommaria21. Nonostante ciò, molti studiosi hanno tentato in
19. La frase participiale mh\ diakri÷nwn to\ sw◊ma avrà piuttosto valore condizionale (cf.
Schweizer, “sw◊ma”, 722 nota 423; incerto Klauck, Herrenmahl, 326; più deciso Barbaglio, La
Prima, 601), che quello causale; così Weiss, Der erste, 291. Per Conzelmann, Der erste, 239,
e Fee, The First, 562, la scelta del valore non è importante.
20. La colpevolezza è uno stato di fatto già determinato; Hofius, “Herrenmahl”, 374 nota 21:
“kri÷ma V. 29.34 meint nicht das Endgericht, sondern die gegenwärtig erfolgende ‘Verurteilung’ und ‘Bestrafung’”.
21. La prima difficoltà concerne il tipo di riunioni ecclesiali. Il verbo sune÷rcomai, che in 11,1734 compare cinque volte e si riferisce alle riunioni di carattere conviviale (allo stesso genere
appartiene l’assemblea di cui si parla in modo implicito in 10,14-22), ricorre anche in 14,2326 (due volte) dove il raduno è motivato dall’ascolto della parola dei carismatici. Di un’altra
assemblea si parla in 5,4; qui la comunità viene convocata (suna¿gesqai è il verbo parallelo di
sune÷rcomai) per scomunicare l’incestuoso. Si presume che in 11,2-16 l’esigenza di un abbigliamento decente dei corinzi che pregano e profetizzano comporti pure un raduno. In mancanza di dati certi resta aperta la questione se le assemblee conviviali e quelle per ascoltare la
parola fossero due parti dell’unico raduno oppure fossero formalmente distinte. Con fondata
sicurezza possiamo invece affermare che la composizione dei partecipanti nelle assemblee
conviviali – altro tema dibattuto – non aveva carattere settoriale, come si è voluto ipotizzare.
Non sembra infatti che il “voi” di 11,17-34 vada riferito ad un gruppo particolare ma a tutta la
comunità corinzia (fa eccezione il “voi” del v. 22, che riguarda una parte della comunità).
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vari modi di ridisegnare il quadro storico, basandosi, oltre che sulle informazioni frammentarie di Paolo, sulle testimonianze del culto eucaristico
presenti nel NT e negli scritti del cristianesimo antico, e facendo inoltre un
confronto con il fenomeno della convivialità attestata nell’ambiente giudaico
e greco-romano22.
Paolo distingue chiaramente tra la “cena del Signore” (v. 20: kuriako\n
dei√pnon), che consisteva nel mangiare il pane e nel bere il calice secondo il
comando del Signore trasmesso dall’apostolo alla comunità corinzia (vv. 2326), e “la propria cena” (v. 21a: to\ i¶dion dei√pnon), ossia un pasto profano che,
in conformità all’usanza giudaica e greco-romana, aveva luogo al termine
della giornata ed era caratterizzato, in certi casi, da ricche portate. Paolo afferma che questa cena veniva consumata dai partecipanti al raduno liturgico.
Il contesto aiuta però a capire che “ognuno” (eºkastoß) non si riferisce alla
totalità dell’assemblea ma soltanto ad alcuni dei suoi membri23, quelli benestanti e possidenti (v. 22a: oi˙ki÷aß e¶cete) in opposizione ai poveri (v. 22b: tou\ß
mh\ e¶contaß / letteralmente “quelli che non hanno” niente) i quali sono costretti a patire la fame mentre gli altri si ubriacano (v. 21b: kai« o§ß me«n peina◊ˆv o§ß de«
mequ/ei). Tutto lascia pensare che i fratelli facoltosi si portavano da casa delle
abbondanti provviste (i¶dion / “proprio” indicherebbe la provenienza del cibo)
e le consumavano in forma separata (i¶dion / “privato” indicherebbe allora la
modalità del pasto), mentre i fratelli meno abbienti dovevano accontentarsi
di poco cibo, insufficiente per soddisfare le esigenze del corpo.
Sembra che il pasto venga qualificato da Paolo come “proprio-privato”
appunto perché era in stridente contrasto con il pasto “comunitario”, come
risulta dal v. 33: “quando vi riunite insieme per il mangiare (sunerco/menoi
ei˙ß to\ fagei√n), aspettatevi gli uni gli altri”. La cena a cui prendeva parte l’intera comunità doveva trovarsi abitualmente al centro del convito liturgico, tra
le due benedizioni pronunciate rispettivamente sul pane e sul vino. In questo
modo, nella celebrazione eucaristica, veniva fedelmente rispettato l’ordine
dell’ultima cena di Gesù: il rito del pane, la cena vera e propria, e il rito del
calice distribuito “dopo aver cenato” (v. 25a: meta» to\ deipnhvsai). Questa
indicazione temporale ricorre anche in Lc 22,20a, il che dimostra che le co-
22. Meritano attenzione gli studi di Theissen, “Soziale Integration”; Klauck, “Präsenz im
Herrenmahl”; Lampe, “Das korinthische Herrenmahl”.
23. In proposito si registra un vasto consenso. In senso contrario si è pronunciato Hofius,
“Herrenmahl”, 385.387, tentando di dimostrare il valore assoluto del pronome eºkastoß. E’
evidente però che, mentre tutto il discorso di Paolo è rivolto alla comunità intera (il “voi” generale), l’ammonimento dei vv. 21-22 concerne soltanto alcune persone (il “voi” particolare);
cf. inoltre più avanti la nota 33.
CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE
63
munità di origine paolina cercavano di uniformare la struttura della memoria
eucaristica, anche nel suo aspetto formale, all’ultimo pasto del Signore24.
Lo stretto legame tra il pasto eucaristico e quello comunitario registra fra
gli studiosi un consensus plurimum25. Il dibattito concerne invece l’esatta
collocazione del “pasto proprio”. Purtroppo, le informazioni fornite da Paolo
in proposito sono esigue e, di conseguenza, le ricostruzioni storiche non offrono garanzie di certezza assoluta, nonostante il loro più o meno forte grado
di probabilità. Le varie ipotesi si riducono essenzialmente a due: la cena propria si svolgeva prima che iniziasse il pasto liturgico-conviviale (la cena del
Signore e l’agape fraterna) oppure aveva luogo in parallelo con il pasto
cultuale della comunità, tra il rito dello spezzare il pane e quello del calice.
Una cena anticipata
Questa ipotesi è favorita dal valore temporale dei verbi; nel prefisso del verbo composto pro-lamba¿nein (v. 21) si legge (come in Mc 14,8) una connotazione cronologica: “ciascuno infatti, durante la cena (letteralmente: “nel
mangiare”), prende prima il proprio pasto”; per questo motivo, con l’imperativo e˙kde÷cesqe (v. 33) Paolo esorta ad iniziare la cena in presenza di tutti:
“quando vi riunite per la cena (letteralmente: “per il mangiare”), aspettatevi
gli uni gli altri”. To\ i¶dion dei√pnon si presenta così come un pasto informale
che comincia in anticipo, prima che abbia inizio l’assemblea ufficiale con
l’arrivo di tutti i membri della comunità26.
La stratificazione sociale della chiesa corinzia permette di avvalorare
questa congettura. I cristiani di Corinto provenivano infatti da diversi ceti
24. Dal punto di vista grammaticale si impone l’interpretazione del meta» to\ deipnhvsai nel
senso avverbiale di tempo (“dopo aver cenato”) su quello attributivo (“il calice [= il terzo calice nella cena pasquale] del dopo cena”); per la discussione vedi Hofius, “Herrenmahl”, 376383; segnaliamo anche lo studio di Hyldahl, “Meta» to\ deipnhvsai”.
25. Così Hofius, “Herrenmahl”, 375; secondo lui, il racconto di 1Cor 11,23b-25, presuppone –
come viene chiaramente indicato dalle parole meta» to\ deipnhvsai – un pasto tra i due riti del pane
e del calice (pp. 384; 390-391). Per gli altri, però, la prassi corinzia sarebbe ormai evoluta in
senso liturgico, per cui l’inciso meta» to\ deipnhvsai si riferirebbe alla cena agapica che terminava con il rito eucaristico del pane e del calice; cf. ad es. Klauck, Herrenmahl, 295.310.
26. Weiss, Der erste, 281: “Während noch manche Brüder, etwa durch ihre Arbeit, ferngehalten
waren, [die Reichen] setzen sie sich, etwa in Gruppen und Kliquen, zusammen hin und
beginnen schon… sich ihr Teil zu sichern”; Lietzmann, An die Korinther, 56: “Ohne auf die
übrigen zu warten (v. 33) ißt jeder seine eigene selbst mitgebrachte Mahlzeit auf”. Condividono la stessa opinione: Bornkamm, “Herrenmahl”, 142-145; Barrett, A Commentary, 262-263;
Wolff, Der erste, 80-81; Klauck, Herrenmahl, 293; Barbaglio, La Prima, 30.565-566.579.
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L. D. CHRUPCAŁA
sociali, a cominciare dai più ricchi e benestanti fino ai più poveri27. Nonostante la comunanza di fede e la professione dell’ideale evangelico di uguaglianza, riusciva difficile cancellare del tutto le divisioni sociali. Questo fattore
emergeva in maniera assai forte, e perciò anche più scandalosa, nella celebrazione della cena del Signore, durante la quale i cristiani ricchi continuavano
a comportarsi in conformità alle usanze conviviali ereditate dal loro ambiente di provenienza. Come è noto, nel mondo greco-romano erano abituali le
disuguaglianze nel trattamento degli ospiti, tanto nel posto assegnato a tavola, quanto soprattutto nella qualità e nella quantità dei cibi offerti ai commensali; e così agli ospiti di riguardo, disposti comodamente, venivano
servite pietanze squisite e costose, mentre gli ospiti dei ceti bassi dovevano
accontentarsi, non di certo senza una voce di biasimo o critica, di un vitto a
buon mercato o addirittura scadente28. Tenendo conto di questo quadro generale, to\ i¶dion dei√pnon dei corinzi benestanti rappresenta il modo consueto di
celebrare il banchetto in comune, con tutti i suoi risvolti negativi di distinzione sociale e di disparità economica.
E’ possibile, anche se difficile da dimostrare, che le assemblee eucaristiche della chiesa di Corinto si svolgessero prevalentemente nelle case dei
cristiani benestanti (cf. Rm 16,23) i quali, per abitudine, erano inclini a favorire le persone del proprio rango. Questa congettura spiegherebbe i diversi
trattamenti a tavola come il modo naturale di trattare gli ospiti da parte del
padrone di casa. Considerando poi che le suddette “chiese domestiche” non
erano sufficientemente grandi per contenere tutti i fedeli (forse i facoltosi
venivano accolti nella sala da pranzo o triclinio, mentre gli altri rimanevano
in altre sale o nell’atrio), abbiamo un altro elemento per comprendere il sorgere di divisioni nella comunità29.
Non sembra però che a lungo andare i cristiani ricchi, che non dovevano
poi essere tanti (cf. 1Cor 1,26: “non ci sono tra voi… molti potenti, non molti
27. Theissen, “Soziale Schichtung”, 231-271, va contro le ricostruzioni fatte finora, che disegnavano il cristianesimo ellenistico delle origini come un movimento proletario delle classi sociali inferiori oppure un fenomeno legato soltanto a quelle superiori; egli individua
invece nella chiesa corinzia l’esistenza di diverse categorie: una minoranza di fedeli provenienti dal ceto medio e medio-alto e una maggioranza di appartenenti ai ceti più bassi della
società, inclusi gli schiavi. Questo quadro generale appare verosimile, anche se non va
assolutizzato, perché in fondo bisogna riconoscere che i dati “non ci permettono di tracciare
un preciso diagramma della composizione sociologica della chiesa di Corinto” (Barbaglio,
La Prima, 35).
28. Per vari esempi di pasti e del modo di consumarli nel mondo ellenistico-romano cf.
Theissen, “Soziale Integration”, 295-296.303-305.
29. Si veda lo studio di Murphy-O’Connor, “House Churches”.
CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE
65
nobili”), fossero in grado di sostenere le spese di accoglienza per una comunità relativamente numerosa. Anche il ricorso ad una cassa comune pare poco
probabile, dato che l’organizzazione ecclesiale si trovava ancora in una fase
iniziale. Bisogna allora supporre che tutti i cristiani contribuivano, secondo
le possibilità, all’allestimento della tavola mettendo in comune le vivande
portate da casa. La cosa non era per niente insolita, dato che nel mondo greco
veniva praticato un tipo di banchetto (e¶ranoß) in cui ognuno dei partecipanti
si portava le provviste30. Ovviamente, il contributo maggiore pesava sulle
spalle dei ricchi. Essi, inoltre, liberi da esigenze di lavoro, potevano permettersi di venire alle riunioni ecclesiali con un largo anticipo, mentre i fratelli
meno fortunati, essendo impediti da varie attività quotidiane, erano costretti
ad arrivare più tardi. Senza troppi complimenti, i ricchi cominciavano a cenare e così, quando sopraggiungevano gli altri e aveva inizio la celebrazione
della cena del Signore, sulla tavola restavano pochi avanzi. In questo modo,
la cena agapica di tutta la comunità assumeva un aspetto tristemente egoistico
e fortemente discriminatorio: i ricchi si godevano in pace la sazietà, mentre i
poveri erano obbligati a consumare i resti del banchetto o rimanevano a stomaco vuoto.
Una cena privata accanto al pasto cultuale
Secondo un’altra ipotesi, che si richiama al cerimoniale dei banchetti giudaici
e greco-romani, “la cena propria” andrebbe collocata durante la celebrazione
cultuale, tra i due riti di benedizione sul pane e sul calice, come avveniva nei
pasti religiosi dell’epoca. I due verbi, che per l’ipotesi opposta hanno una
connotazione cronologica, qui sono privati del loro valore temporale. Da una
parte, il verbo composto pro-lamba¿nein viene tradotto con “prendere” e quindi, considerato come un equivalente del verbo semplice, esprime l’idea di un
mangiare egoistico oltre che vorace; dall’altra nell’imperativo aÓllh/louß
e˙kde÷cesqe, tradotto con “accoglietevi”31, si legge un appello di Paolo rivolto
ai fratelli ricchi di accettare con benevolenza alla loro tavola ben imbandita i
30. Cf. Lampe, “Das korinthische Herrenmahl”, 192-198. Questo autore individua nelle as-
semblee eucaristiche a Corinto una struttura articolata in quattro momenti, in comparazione
alle cene del mondo greco-romano: (1) benedizione del pane; (2) una cena abbondante; (3)
benedizione del calice; (4) conclusione con i vari “desserts” e in un clima di simposio greco
(canti, preghiere, recita di poesie, interventi di glossolali e profeti).
31. Così Fee, The First, 568: “welcome / receive one another”; Hofius, “Herrenmahl”, 388389: “gastlich aufnehmen / jemanden empfangen-annehmen” ed altri significati simili.
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L. D. CHRUPCAŁA
fratelli poveri32. To\ i¶dion dei√pnon si presenterebbe allora come un pasto privato, consumato dai facoltosi in forma esclusivista, e in pratica coinciderebbe nel tempo (v. 21: e˙n tw◊ˆ fagei√n / “durante il mangiare”) con il kuriako\n
dei√pnon, pur restando in stridente antitesi con esso. Da parte loro, i poveri
della comunità dovevano contentarsi di poco cibo modesto33.
Qualunque fosse il motivo del comportamento dei ricchi34, sembra tuttavia poco probabile che il loro egoismo arrivasse ad un tale grado di indifferenza nei confronti del resto della comunità. Una supposizione del genere
discrediterebbe la fama della chiesa corinzia, non immune da varie imperfezioni, ma certamente piena di fede e di entusiasmo evangelico.
In conclusione, gli argomenti di coloro che vedono nel to\ i¶dion dei√pnon
una cena privata dei ricchi, staccata dalla cena comune, oppure una cena allestita in luogo dell’agape comunitaria ma deturpata del suo vero significato
conviviale, non sembrano convincenti. E’ preferibile quindi scegliere la prima ipotesi: “la propria cena” è un abbondante e fastoso pasto, consumato dai
benestanti in anticipo rispetto al raduno di tutta la comunità.
La divisione della comunità
La critica paolina non è dovuta al carattere essenzialmente negativo della
“cena propria”. L’apostolo non biasima il pasto in quanto tale, ma la sua indebita oltre che nociva collocazione spazio-temporale35. La “cena del Signo32. Così, con le diverse accentuazioni, Conzelmann, Der erste, 229; Winter, “The Lord’s
Supper”; Senft, La première, 147; Fee, The First, 541.
33. Secondo Theissen, “Soziale Integration”, 306, to\ i¶dion dei√pnon sarebbe il pasto privato dei
possidenti, che veniva anticipato rispetto alla cena del Signore ma continuava ancora durante
la cena comune della comunità, di fronte cioè ad un magro pasto consumato dai poveri. Invece
Hofius, “Herrenmahl”, 386-389, è portato a vedervi un pasto comune in cui “ognuno” (tutti i
membri della comunità) mangiava la “propria cena”. Contro questa ipotesi a ragione obietta
Barbaglio, La Prima, 570: “se anche i poveri prendevano la loro propria cena, che presuppone
una tavola sufficientemente imbandita, non si capisce perché alla fine non si siano sfamati”.
34. Cf. su questo più avanti.
35. Nella precedente ricostruzione del to\ i¶dion dei√pnon si è insistito sul fattore temporale. Sembra però che anche il luogo giochi un ruolo non indifferente. Come ha fatto vedere Barton,
“Paul’s Sens of Place”, 234-242, esiste una radicale opposizione tra un raduno liturgico-conviviale “in assemblea” (v. 18: e˙n e˙kklhsi÷aØ; v. 22: thvß e˙kklhsi÷aß) e quello profano “nelle case”
private (v. 34: e˙n oi¶kwØ; v. 22: oi˙ki÷aß). Inoltre, è probabile che nella formula e˙pi« to\ aujto/ (v.
20) si faccia riferimento non solo al fatto dell’adunanza, ma anche alla sua localizzazione “nell’identico luogo”; si veda al riguardo Bogunyowski, “∆Epi« to\ aujto/”, 448. La comunità ecclesiale dimostra pertanto la sua unità nel momento in cui si riunisce insieme alla stessa ora e nello
stesso luogo.
CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE
67
re” che, come si è detto, comportava anche un’agape comunitaria, è “un mangiare” per niente astratto (è un pasto vero e proprio: vv. 20.33), ma non può
essere ridotto a soddisfare unicamente la fame corporale (è “mangiare il pane
e bere il calice del Signore”: vv. 26.27.28.29). Chi però viene al raduno comunitario solo per questo motivo (cf. vv. 22a.34a) e in più consuma il pasto
secondo le abitudini del passato, dimostra di misconoscere il significato della cena comune in memoria del Signore. Per cui to\ i¶dion dei√pnon, situato in
anticipo (ma anche accanto o in sostituzione della cena del Signore), è un
abuso che oltraggia la cena liturgica, provocando una serie di effetti negativi
per la vita della comunità ecclesiale, come possiamo vedere dal triplice interrogativo retorico di Paolo (v. 22).
La “cena propria” svuota, in primo luogo, il senso fondamentale della
cena del Signore. Indicando nelle abitazioni private il luogo normale dei pasti profani, Paolo afferma indirettamente la loro incompatibilità con l’agape
eucaristica, tanto più se certe abitudini egoistiche del mangiare ordinario
mettono a repentaglio la valenza specifica di un raduno comunitario per mangiare il kuriako\n dei√pnon. La comunione è la nota distintiva del banchetto
cristiano, che deve essere preservata ad ogni costo, pena la perdita della sua
identità. A motivo della presenza del Signore, la riunione eucaristica di tutta
la comunità richiede quindi di essere visibilmente espressa attraverso una
cena comune (to\ koino\n dei√pnon), in cui la condivisione e l’unità prendono
il sopravvento sulle tendenze discriminatrici e separatiste36.
La prassi della “cena propria” diventa, in secondo luogo, un atto di disprezzo nei confronti dell’e˙kklhsi÷a touv qeouv, ossia di una comunità che deve
la sua origine e la sua esistenza all’opera di Dio. E’ sottinteso pertanto che il
disprezzo, cosciente o involontario che sia, è indirizzato anche alla persona
di Dio37. Nel presente caso la comunità viene ferita nella sua qualifica di assemblea conviviale, chiamata a proclamare in modo percepibile, e cioè mediante un pasto fraterno, la donazione amorosa e universale del Signore morto
sulla croce.
36. Paolo raccomanda quindi di consumare to\ i¶dion dei√pnon nelle abitazioni private: “Non
avete forse case per mangiare e bere?” (cf. v. 34a: “Se uno ha fame, mangi a casa”). Niente
lascia pensare che egli voglia abolire anche il pasto comune; così Jeremias, Die Abendmahlsworte, 114-115; Conzelmann, Der erste, 230. La “cena del Signore” è una cena vera e
propria, e per mantenere questo carattere conviviale deve comprendere sia il pasto eucaristico,
sia l’agape fraterna. Paolo non elimina quindi il pasto comune dalla cena eucaristica (vv. 2021a), ma esorta di seguire questa prassi in modo corretto (v. 33). E’ l’opinione condivisa dalla
maggioranza; cf. Klauck, Herrenmahl, 294.328; Fee, The First, 541; Barbaglio, La Prima,
571-572.
37. Scrive bene Senft, La première, 148: “quand les pauvres de la communauté sont humiliés,
c’est Dieu, qui l’a rassemblée, qui est méprisé”.
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L. D. CHRUPCAŁA
Strettamente legato al precedente è il terzo effetto negativo della “cena
propria”, indicato da Paolo. L’atto di disprezzo per la comunità ecclesiale si
concretizza in un arrogante affronto nei riguardi dei nullatenenti. Essi, perché
sprovvisti di ogni cosa oppure turbati per la tracotante prepotenza dei loro
fratelli più fortunati, sentono “la vergogna” sperimentando nell’oltraggio personale una frattura della comunione fraterna.
I tre effetti, originati da una maniera sbagliata di vivere la riunione
eucaristica, non fanno altro che evidenziare la frattura dell’unità ecclesiale.
Gli esempi concreti confermano il severo giudizio di Paolo espresso sul conto delle assemblee conviviali che causano le spaccature all’interno della comunità corinzia38. Se prima Paolo ha biasimato il triste fenomeno limitandosi
a denunciarlo in forma generale (vv. 17-19), ora invece (v. 22) presenta le
prove che dimostrano la legittimità della sua valutazione negativa. Diventa
chiaro a questo punto perché le riunioni della chiesa di Corinto non si svolgono “per il meglio, ma per il peggio” (v. 17); invece di conseguire vantaggi
sul versante umano-spirituale (la crescita dei legami fra i cristiani tra loro e
con il Signore), si arriva ad una rottura della comunione, con il conseguente
rischio di subire il peggio, ossia il verdetto di condanna divina (cf. v. 17: ei˙ß
to\ h∞sson sune÷rcesqe con v. 34: mh\ ei˙ß kri÷ma sune÷rchsqe).
E’ evidente, pertanto, che “le divisioni-scissioni” nelle assemblee eucaristiche erano di natura sociologica e non teologica. L’impiego paolino di
due termini sinonimi (v. 18: sci÷smata; v. 19: ai˚re÷siß) non permette di ipotizzare una rottura originata da differenze di carattere ideologico. Il tema
delle divisioni ricorre in altre parti della lettera. In 1,10 Paolo esorta i corinzi
ad eliminare le divisioni (sci÷smata) e stabilire una “perfetta unione di pensiero e d’intenti”. Il contenuto di 1Cor 1-4 è incentrato sui frazionamenti
all’interno della comunità, dovuti a rivalità e forte opposizione tra i diversi
gruppi o partiti i quali, richiamandosi alle figure di Paolo, Apollo, Cefa e
Cristo (1,12; cf. 3,1-4.21-22; 4,6), rivendicavano la loro identità particolare.
L’insistenza continua sull’antinomia sapienza-stoltezza aiuta a capire che il
fenomeno delle fazioni, ancor prima di essere una separazione materiale
vera e propria, si manifestava in discordie e liti (1,11; 3,3: e¶rideß) di tipo
teologico-intellettuale.
Chiaramente distinto invece è il motivo delle divisioni che si verificano
durante le assemblee conviviali. Qui il frazionamento della comunità non
sembra ispirato a correnti teologiche o di pensiero, ma è dovuto a criteri
38. Come rileva Klauck, Herrenmahl, 288, la ripresa del sunercome÷nwn uJmw◊n del v. 18a nel v.
20a indica che le divisioni descritte nei vv. 18-19 sono proprio gli abusi (vv. 21-22) durante la
cena del Signore.
CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE
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socio-economici di appartenenza di classe e di possesso dei mezzi materiali
di sussistenza39. La divisione in due fronti opposti tra chi è sazio dopo aver
consumato un pasto abbondante e chi invece è costretto a patire la fame,
esprime una divisione tra i cristiani benestanti e quelli poveri.
Più avanti, in 12,25, Paolo ritorna sul concetto della divisione. Qui però
il termine è al singolare (sci÷sma) e viene usato in riferimento al corpo ecclesiale. Intravvedendo nella confusione provocata da vari fenomeni carismatici
un pericolo di disgregazione, Paolo cerca di far comprendere ai corinzi che la
diversità non deve diventare un fattore di disunione ma, al contrario, servire
a rafforzare l’unità della chiesa. In questo contesto lo sci÷sma sembra avere
principalmente una base teologica.
Da quanto si è detto risulta quindi che le fratture conviviali non sono da
ricondurre alle diverse concezioni dei corinzi sulla cena del Signore. Niente
lascia supporre che all’origine delle divisioni si trovi “una mentalità garantista e disimpegnata, tipicamente individualista, spiritualista, ritualista”40.
Benché le informazioni di Paolo siano scarse e i motivi del comportamento
dei benestanti rimangano oscuri, tuttavia si è tentato di individuare le ragioni
delle divisioni in un qualche fondamento ideologico. L’antisacramentalismo41, il garantismo sacramentale42 o lo pneumatismo individualistico43
sono però concetti che fanno violenza al testo. E’ difficile poi pensare che, nel
caso si fosse verificato un fenomeno del genere, Paolo non avrebbe colto l’occasione per stornare il pericolo.
Il motivo della condotta deplorevole dei benestanti va ricercato altrove.
L’apostolo è preoccupato non tanto del pasto in quanto tale, ma del suo rapporto con la cena rituale-agapica di tutta la comunità. Il modo in cui si svolgeva
la “cena propria” creava nell’assemblea eucaristica divisioni di carattere so-
39. A ragione scriveva già Lietzmann, An die Korinther, 56: “Was Paulus in v. 20ff. rügt, sind
nicht Parteimeinungen, sondern schlechte Manieren”. Cf. anche Theissen, “Soziale Integration”, 309.
40. Bruni, “Eucaristia”, 38.
41. Weiss, Der erste, 283, leggeva nel comportamento agnostico dei corinzi benestanti “die
Gleichgültigkeit gegen den religiösen Charakter der Mahlzeit”. Schmithals, Die Gnosis, 241243, porta agli estremi questa interpretazione e ipotizza perfino l’esistenza a Corinto di una
setta gnostica la quale, negando qualunque dimensione somatica del Signore, si opponeva in
forma polemica alla cena cultuale.
42. Bornkamm, “Herrenmahl”, 143, richiamandosi allo studio di Von Soden, “Sakrament und
Ethik bei Paulus”, chiama i corinzi colpevoli “massive Sakramentalisten”. Su questa direttrice
si pongono Bruni, “Eucaristia”, 44; Senft, La première, 148-149; Klauck, Herrenmahl,
297.331-332.
43. Così Conzelmann, Der erste, 228: “individualistischer Pneumatismus”.
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L. D. CHRUPCAŁA
ciale. Non pare tuttavia che Paolo voglia rivolgere ai possidenti in primo luogo delle istruzioni di tipo moralistico, invitandoli ad appianare le tensioni tra
ricchi e poveri44. Gli effetti negativi della “cena propria” (v. 22) sono di altro
genere; Paolo vuole dire ai ricchi della chiesa corinzia che tra la “cena propria”
e la “cena del Signore” esiste una radicale incompatibilità. Essi, pertanto, se
intendono davvero partecipare alla “cena del Signore”, devono abbandonare
le consuetudini derivate dal loro passato, in questo caso l’abitudine di consumare la “cena propria”. Sta qui il vero motivo del comportamento dei cristiani
benestanti, biasimato dall’apostolo: i ricchi continuavano a mantenere gli usi
e i costumi connessi con il loro rango sociale. Non si rendevano conto che le
distinzioni di grado, dignità o posizione socio-economica, riconosciute e conservate nell’ambiente circostante, non si conciliavano con il carattere e il significato della celebrazione comunitaria della “cena del Signore”45.
La partecipazione “indegna” alla cena del Signore
La condotta dei ricchi, se umanamente parlando poteva contare su qualche
attenuante per il fatto delle sue radici sociali, tuttavia nel contesto del
kuriako\n dei√pnon era certamente meritevole di biasimo. La comunità
corinzia aveva ricevuto da Paolo la tradizione dell’ultima cena di Gesù (v.
23a) e quindi è lecito presumere che tutti i membri conoscessero il valore del
pasto rituale fatto in memoria del Signore. L’ignoranza, del resto, è inammissibile, altrimenti non si potrebbe parlare di colpa e di condanna (vv. 2932.34). I cristiani benestanti, con l’usanza della “cena propria”, dimostrano
di non riconoscere o d’aver perso di vista il legame che unisce strettamente la
cena di Gesù con la cena cultuale della comunità. La loro partecipazione diventa aÓnaxi÷wß, perché entra in collisione con la cena del Signore, vale a dire
risulta contraria al significato iscritto da Gesù nel suo pasto, il quale rimane
un perenne punto di riferimento e un parametro di giudizio per la prassi
eucaristica della comunità cristiana46.
44. Vedi Klauck, Herrenmahl, 294.329; Ellis, Seven, 91: “Paul says nothing about sharing with
the poor, not because it is unimportant but because it is less important than truly understanding
the significance of the Eucharist”.
45. Cf. Theissen, “Soziale Integration”, 291-292.308-309; Lampe, “Das korinthische Herrenmahl”, 198-201.
46. Così, con diverse accentuazioni, Klauck, “Eucharistie”, 338: “Die Schuld besteht in der
Mißachtung der gemeinschaftsbezogenen und gemeinschafsstiftenden Wirkung des Sakraments,
die ihm Jesus selbst mitgegeben hat”; Hofius, “Herrenmahl”, 407: “das von Paulus getadelte
Verhalten der wohlhabenden Korinther der Stiftung Jesu zutiefst widerspricht”.
CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE
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Si comprende così perché Paolo, dopo aver sottoposto ad una severa critica la “cena propria”, ricordi ai corinzi la tradizione dell’ultima cena del Signore Gesù, interpretando e attualizzando il suo significato47. Egli non
intende propriamente biasimare i benestanti (in questo contesto almeno) per
la loro personale condotta morale48. Certo, l’ubriachezza compare nei “cataloghi dei vizi” (cf. Rm 13,13; 1Cor 5,11; 6,10; Gal 5,21); è senz’altro degna
di condanna e a maggior ragione durante la cena eucaristica. Tuttavia, nel
presente caso (v. 21) “l’essere ubriaco” non riguarda tanto un difetto di ordine morale, quanto invece è l’indice di disparità sociale tra i credenti. L’abbondanza del cibo o la sua carenza esprime la sperequazione tra i benestanti e i
nullatenenti, creando divisioni all’interno della comunità. Quindi, la finalità
delle riunioni ecclesiali non viene rispettata e proprio per questo motivo Paolo richiama l’attenzione dei suoi lettori sui fatti dell’ultima cena di Gesù.
E’ stato notato che il racconto paolino dell’istituzione dell’eucaristia (vv.
23b-25) presenta molte somiglianze con la versione di Luca, mentre si distingue in alcuni punti dalla tradizione comune a Marco-Matteo. L’analisi dettagliata dell’intera pericope esula dai fini del nostro studio49; ci soffermiamo
perciò soltanto sugli aspetti che sembrano particolarmente rilevanti perché
corrispondono al proposito didattico di Paolo.
Valore cristologico-soteriologico della cena del Signore
Nella cena di Gesù con i suoi discepoli si possono individuare le note abituali
della ritualità dei pasti ebraici ma anche di quelli greco-romani, nei quali le
formule di preghiera, di solito recitate dal padrone di casa, segnavano i momenti più importanti del banchetto. L’originalità del racconto dell’istituzione
dell’eucaristia è costituita dall’interpretazione dei riti del pane e del calice
47. Ciò vuol dire che non siamo esattamente di fronte ad una tradizione “im Wortlaut festen,
die Paulus unverändert zitiert” (Pesch, Das Abendmahl, 59). Mentre la versione originale della tradizione trasmessa da Paolo rimane sconosciuta, è certo tuttavia che l’apostolo, richiamandola, diventa anche il suo interprete.
48. Così interpreta Barrett, A Commentary, 272: “[Paul] is thinking of the moral failings of
factiousness and greed which marked the Corinthian assembly”; Ellis, Seven, 89, parla di “avidità”. Anche Clemente Alessandrino riteneva che il rimprovero di Paolo fosse rivolto “a coloro che usano peccare nel cibo” (Paedagogus II,1: PG 8,397B). Per un’opinione contraria cf.
ad es. Weiss, Der erste, 282; Murphy-O’Connor, 1 Corinthians, 111.
49. Sulle convergenze e note proprie dei racconti dell’ultima cena cf. ad es. gli studi di
Moraldi, “L’Eucarestia”; Barbaglio, “L’istituzione”; Lemoine, “Étude comparée”. Specificamente sulla versione paolina si può vedere Karrer, “Der Kelch”.
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L. D. CHRUPCAŁA
fatta da Gesù. La sua parola non è però solo interpretazione, ma assume anche la valenza di dono50. In effetti, questo pane è il corpo che viene donato (v.
24b: to\ uJpe«r uJmw◊n). Nell’attributo preposizionale non si fa esplicitamente
menzione di peccati. Quindi, anche se il sacrificio espiatorio o vicario di Gesù
è presupposto e i commensali della cena proprio in virtù di esso vengono
beneficiati, tuttavia l’accento della formula paolina cade soprattutto sull’oblatività amorosa di Cristo: egli si è consegnato alla morte per amore e in obbedienza al Padre51. In questo senso va inteso anche il passivo teologico
paredi÷deto (v. 23b); più che un riferimento all’opera storica di Giuda o di
altri agenti umani, la consegna di Gesù alla passione costituisce il compimento del progetto salvifico di Dio52.
Secondo le parole interpretative di Gesù, il suo sacrificio redentore si rende effettivamente presente (ai discepoli in forma anticipata e ai futuri credenti in Cristo in forma di memoriale sacramentale) nel segno del vino che
rappresenta la nuova alleanza nel sangue versato da lui sulla croce (v. 25b: hJ
kainh\ diaqh/kh). Quindi, come prima nel caso del pane che indicava il corpo
donato di Gesù, così anche ora la presenza dell’evento salvifico della morte
di Gesù si attua nell’identificazione del calice del vino con il suo sangue versato. Proprio la presenza del corpo e del sangue di Gesù, che egli chiede ai
partecipanti nel banchetto di riconoscere, assicura la presenza dell’evento
salvifico e fa sì che, partecipando al pane e al calice eucaristici, i convitati
possano partecipare anche alla nuova alleanza costituita nel sangue di Cristo53. Il messaggio che Paolo intende trasmettere alla sua comunità non sem50. Hofius, “Herrenmahl”, 373 nota 10, ritiene che la denominazione corrente delle parole di
Gesù come “Deuteworte” (parole di interpretazione) è molto discutibile e perciò preferisce
parlare di “Gabeworte” (parole di donazione). Non si può negare però che Gesù, consegnando
ai discepoli il pane e il calice, li abbia anche interpretati in riferimento alla sua persona.
51. La lettura di Barbaglio, La Prima, 589.591, mi sembra corretta.
52. Hofius, “Herrenmahl”, 372 nota 4, traduce paredi÷deto “von Gott dahingegeben wurde”.
Cf. anche Coleman, “The Translation”.
53. Ha ragione Hofius, “Herrenmahl”, 395 nota 136, di criticare Klauck, Herrenmahl, 374, che
parla di una “presenza somatica” del corpo e sangue del Crocifisso (la concezione
“cafarnaitica” del realismo fisico di Pascasio Radberto esercita tuttora il suo fascino). Non mi
pare però corretto interpretare le parole dell’istituzione alla luce di 1Cor 10,16 e concludere
che “Paulus kennt… überhaupt keine besondere Realpräsenz Christi im Herrenmahl, die sich
von seiner ständigen realen Gegenwart in seiner Gemeinde unterschiede”. E’ un’affermazione
gratuita. Ugualmente discutibile è vedere nella cena eucaristica una “continuazione” dell’ultima cena di Gesù, scorgendo nel pane e nel calice “gli stessi” elementi del pasto di Gesù, che
così congiungono i convitati con il corpo e il sangue di Cristo (pp. 394-395). In questo modo il
simbolismo sacramentale, privato della sua componente oggettiva e reale, rischia di diventare
troppo soggettivo e spirituale, ossia vuoto. E non credo che Paolo, ricordando ai corinzi le
parole di Gesù, le abbia intese unicamente nel senso donativo; cf. la nota 50.
CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE
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bra lasciare dubbi: chi mangia il pane benedetto e beve il calice del Signore
mangia il suo corpo donato e beve il suo sangue versato, e in questo modo
diventa partecipe della sua oblazione sacrificale a favore di tutti e viene accolto nell’ambito della nuova alleanza.
Memoria cultuale del sacrificio di Cristo
Due volte, rispettivamente dopo la consegna del pane spezzato e del calice,
Gesù raccomanda ai discepoli di ripetere in forma rituale (il verbo poiei√n indica un “fare” cultuale) i gesti da lui compiuti ei˙ß th\n e˙mh\n aÓna¿mnhsin (vv.
24c.25c)54. Il parallelo più vicino di questa formula è il passo di Es 12,14 in
cui Dio ordina al popolo presente e futuro di fare la memoria cultuale dei fatti
salvifici dell’esodo in modo da poter essere coinvolti nell’evento del passato
e trarne il beneficio. Il “memoriale” (ˆ/rK;zI) della pasqua d’Egitto non si riduce in tal caso ad un rito statico, ma acquista una forte valenza dinamica: attraverso la ripetizione del segno rituale, ogni ebreo diventa davvero partecipe
della vicenda dei padri e viene realmente, benché in modo sacramentale-simbolico, implicato nell’efficacia salvifica dell’irripetibile evento storico55.
Le parole di Gesù, se non riflettono necessariamente il tenore del passo
anticotestamentario, certamente vanno lette in questa prospettiva56. Con il
comando di iterazione, Gesù ha consegnato ai suoi discepoli e alla comunità cristiana di tutti i tempi l’evento della sua morte e risurrezione. L’oggetto dell’aÓna¿mnhsiß è quindi il Crocifisso che ha dato il suo corpo alla
morte (uJpe«r uJmw◊n) e nell’offerta sacrificale ha stabilito un nuovo ordine
della redenzione escatologica (hJ kainh\ diaqh/kh). Il ricordo di Gesù Cristo
e della sua opera salvifica non deve però assumere le sembianze di una
festa in onore di un defunto di cui si vuole preservare la memoria; il ricordo non è diretto a conservare il passato ma a farlo esistere nel presente.
54. Per la discussione sul carattere del comando di iterazione cf. Smith, “The More Original
Form”, 184-185.
55. Vedi il rito della cena pasquale ebraica: Sëder haggädâ åel pesa˙. Per una presentazione
della relazione tra l’evento fondatore, il segno profetico e la celebrazione cultuale in riferimento alla pasqua ebraica e all’eucaristia cf. Giraudo, Eucaristia, 104-117.
56. Nel tentativo di ritradurre le parole di Gesù in ebraico si oscilla tra i due termini: il nome
d’azione rk,zE e il nome astratto ˆ/rK;zI. Quest’ultimo viene preferito dalle antiche versioni
aramaico-siriache e dai testi anaforici, che rendono sempre l’aÓna¿mnhsiß con un vocabolo equivalente all’ebraico ˆ/rK;z;I cf. Giraudo, Eucaristia, 237 nota 220, il quale opta per la traduzione
“in memoriale di me” sulla scia dello studio di Chenderlin, “Do This as My Memorial”,
216-226.
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L. D. CHRUPCAŁA
Infatti, quel Crocifisso non appartiene al passato, ma è il Vivente (v. 23b: oJ
ku/rioß ∆Ihsouvß), il Signore che trasmette alla chiesa la tradizione della sua
cena (v. 23a), che offre i suoi doni sacramentali ai convitati (v. 27a) e giudica il comportamento dei cristiani indegni (vv. 27b.32). Cristo è il Signore, vivo e presente in mezzo all’assemblea che celebra il suo evento
salvifico. Ne consegue pertanto che l’opera compiuta da Gesù non può essere “ricordata” in senso puramente soggettivo e psicologico, ma vissuta in
modo reale e vitalmente coinvolgente, come un memoriale che rende presente nel rito della cena eucaristica il corpo e il sangue del Signore insieme
con l’evento della sua morte e risurrezione, e proprio a motivo di questa ripresentazione sacramentale si trasforma per i partecipanti in un evento che
attualmente salva57.
La cena del Signore implica perciò una celebrazione attiva in cui i credenti sono profondamente convinti della presenza sacramentale del Risorto,
riconoscono l’attualità dell’evento salvifico ed esprimono questa convinzione mediante una festosa attuazione-proclamazione del rito eucaristico. Nel
suo commento al racconto dell’ultima cena, e soprattutto riferendosi al comando di fare memoria (v. 26), Paolo precisa che tale memoria di Cristo
consiste in un annuncio della sua opera salvifica. Nell’AT, nei salmi anzitutto, i concetti di “ricordo” e “annuncio” sono strettamente legati tra di loro
in parallelismo (cf. LXX Sal 70,15-17; 104,1-5; 144,4-7). Sulla stessa linea
si pone Paolo, per il quale il ricordo sacramentale dell’evento compiuto da
Cristo si concretizza proprio in un annuncio. In che cosa consiste quest’ultimo? Si è pensato ad una recitazione del racconto dell’istituzione
dell’eucaristia, ad un’omelia o predica, alla lettura di un racconto della passione oppure di una particolare preghiera eucaristica58. A tutte queste ipotesi
soggiace l’idea che l’annuncio debba esprimersi unicamente attraverso
un’azione verbale59. “Ma non bisogna disattendere la specificità del nostro
testo che intende determinare quale tipo di memoriale sia la cena del Signore: si tratta di un memoriale proclamatorio… la cena del Signore proclama
57. Si vedano in proposito gli studi di Murphy-O’Connor, “Eucharist”; Hahn, “Herrenge-
dächtnis”.
58. Per i fautori di queste posizioni cf. Hofius, “Herrenmahl”, 402, il quale favorisce l’ultima
(pp. 403-404).
59. Alla categorica affermazione di Wolff, Der erste, 91: “katagge÷llein ist immer eine Sache
des Wortes”, risponde tuttavia Klauck, Herrenmahl, 319: “Das richtet sich gegen die
religionsgeschichtlich inspirierte Auslegung, die in katagge÷llete eine reine Tathandlung
erblickt”. Murphy-O’Connor, Becoming, 188-189, vede l’“annuncio” cristiano espresso non
solo mediante l’azione rituale, ma anche nell’imitazione dell’amore di Cristo.
CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE
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per se stessa l’evento salvifico della morte di Cristo come presente e operante nei convitati”60.
L’evento salvifico di Cristo comprende la sua morte e risurrezione. Paolo
non dimentica di certo la gloria della pasqua; se accentua e menziona soltanto to\n qa¿naton touv kuri÷ou, ciò è dovuto ad una lettura funzionale dei gesti
di Gesù, dettata da un intento pastorale: rievocare ai corinzi l’essenza del sacrificio di Cristo, la sua donazione amorosa a beneficio di tutti61. Il commento personale di Paolo rispetta quindi il significato delle parole pronunciate da
Gesù sul pane e sul calice. L’oblazione totale e l’amore universale sono le
caratteristiche del sacrificio di Cristo, rese presenti ai discepoli nei segni del
pane spezzato e del calice benedetto, e ugualmente presenti ora nella celebrazione della cena del Signore. Ripetendo gli stessi gesti e parole di Gesù, si
annuncia quindi la presenza cultuale di Cristo e si è coinvolti efficacemente
nella sua morte sacrificale in favore di tutti.
Partecipazione “indegna”: l’annuncio rituale separato dalla prassi
Ogni volta che i corinzi attualizzano ritualmente il sacrificio della croce e
vi prendono parte con la manducazione del pane e del vino eucaristici, essi
“annunciano” “la morte del Signore”; si tratta di una morte ben nota, come
suggerisce l’articolo, quella di croce, realizzata nel passato da un personaggio che oggi, essendo il Signore glorioso, è presente con il suo sacrificio
nella cena comunitaria. Si ritiene quasi all’unanimità che il verbo
katagge÷llete sia all’indicativo (“voi annunziate”) e non all’imperativo. Rivolgendosi alla comunità intera, Paolo afferma quindi che il rito eucaristico
è celebrato da essa correttamente. Non è per niente ironica la lode dell’apostolo sul conto dei corinzi che mantengono ferme le tradizioni da lui tra-
60. Barbaglio, La Prima, 597. Osserva Giraudo, Eucaristia, 242: “il katagge÷llete di Paolo
significa ben più del semplice annuncio di tipo kerygmatico: esso significa esattamente ‘fatememoria’, come i testi siriaci sia biblici che liturgici autorevolmente confermano”. Cf. inoltre
il raffronto con i misteri pagani operato da Klauck, Herrenmahl, 319.
61. Nonostante questa sottolineatura, Paolo considera però in sintesi l’intero mistero
cristologico: to\n qa¿naton (il passato) touv kuri÷ou (il presente) a‡criß ou∞ e¶lqhˆ (il futuro). Il qui
presente Signore è, nel contempo, il Crocifisso e il Veniente. L’espressione a‡criß ou∞ e¶lqhˆ, più
che un’indicazione dei limiti storici-temporali entro cui dovrà svolgersi la celebrazione
eucaristica, si riferisce quindi alla venuta finale del Signore, ora presente solo in forma sacramentale, la quale diventa per i cristiani l’oggetto di speranza e di preghiera (1Cor 16,22:
“Maranà tha: Vieni, o Signore!”); cf. inoltre gli studi di Hofius, “Bis daß er kommt”;
Bargellini, “L’attesa del Signore”.
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smesse (cf. 11,2)62; e tra queste doveva trovarsi anche la tradizione dell’ultima cena del Signore (v. 23a). Nel biasimo successivo di Paolo (vv. 17-22)
non bisogna perciò leggere un’accusa dell’abbandono da parte della chiesa
di Corinto della tradizione eucaristica. L’apostolo è dispiaciuto invece, perché il significato conviviale che questa tradizione avrebbe dovuto rappresentare, non viene espresso in modo adeguato; anzi, la scandalosa prassi della
“cena propria” contraddice nettamente il valore del rito liturgico. I corinzi
“annunciano” allora la morte del Signore, ma si tratta di un annuncio che,
per alcuni almeno, risulta del tutto vuoto. Letto nel suo contesto, è evidente
che Paolo intende colpire la prassi dei benestanti che con la loro “cena propria” si mettono in contrasto con il significato della morte del Signore,
attualizzata nel rito della cena comunitaria.
La “cena del Signore” è un pasto che non solo appartiene a lui (l’aggettivo possessivo kuriako/n), ma in cui egli è realmente presente con il suo corpo e il suo sangue nei segni del pane e del vino, e in qualità di padrone
accoglie i suoi ospiti-commensali. Mangiando di questo pane e bevendo di
questo calice, i credenti entrano in comunione vitale con lui. Di conseguenza, per essere veramente una memoria attualizzante, la “cena del Signore”
deve non solo ripresentare nel rito la morte di Cristo ma anche rendere visibile la sua offerta63. Andare contro le caratteristiche proprie del pasto liturgicoconviviale vuol dire allora misconoscere la sua essenza. Per questo motivo
Paolo è costretto ad affermare che un raduno ecclesiale che produce le divisioni oujk e¶stin kuriako\n dei√pnon fagei√n (v. 20b).
A questo punto diventa comprensibile che l’annuncio della morte del Signore, che si realizza nell’atto di mangiare il suo corpo e bere il suo calice (v.
26), si trasforma per alcuni corinzi in un gesto nocivo oltre che infruttuoso. I
benestanti di Corinto mangiano il pane e bevono il calice del Signore
aÓnaxi÷wß (v. 27), vale a dire che prendendo parte con il resto della comunità
alla celebrazione rituale essi “annunziano” sì la morte del Signore; tuttavia,
non rispettando il significato oblativo-donativo di questa morte, quello che il
Signore ha racchiuso nei segni del pane e del calice e ha voluto che venisse
perpetuato nell’azione della comunità cultuale, la loro partecipazione risulta
“indegna” perché contraddice il punto centrale dell’evento salvifico di Cristo. La prassi scandalosa della “cena propria”, essendo segnata dall’esclusi62. Murphy-O’Connor, 1 Corinthians, 103, postula “ironical overtones”. Ma vi si può leggere
piuttosto una generosa esagerazione (dettata dalla captatio benevolentiae) oppure, come sembra più probabile, Paolo vuol dire che non tutto nella chiesa corinzia meritava rimprovero; cf.
Barbaglio, La Prima, 531.
63. Così Barrett, A Commentary, 273.
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vismo e dall’egoismo a scapito dello spirito solidale e fraterno, nega infatti il
valore cristologico e soteriologico (la nuova alleanza / il corpo dato per voi)
del sacrificio di Cristo e quindi si oppone in modo radicale alla “cena del Signore” che viene così spogliata della sua componente essenziale. Perché la
cena del Signore non si trasformi in una celebrazione “indegna”, occorre
quindi realizzare nella pratica il significato e il fine dell’eucaristia: l’annuncio della morte del Signore64.
La colpa nei confronti del “corpo”: Cristo o chiesa?
Secondo Paolo, non è possibile conciliare una consuetudine sociale ereditata
dal passato (la “cena propria”) con la novità dell’evento Cristo, celebrato
dalla comunità nella “cena del Signore”. Contrastando il significato proprio
dell’anamnesi liturgico-conviviale, alcuni corinzi benestanti si rendono
quindi colpevoli del corpo e del sangue del Signore. In che cosa consiste però
il reato? Si tratta di una mancanza di natura sacramentale-cristologica (un
difetto di fede-venerazione), morale (un difetto di santità personale) o
cristologico-soteriologico-ecclesiologica (un difetto di fede-vita)? La risposta
a queste domande consentirà di stabilire con maggiore precisione la natura del
“modo indegno” di vivere il convito eucaristico. Dobbiamo quindi volgere lo
sguardo sul v. 29 in cui, a quanto sembra, l’apostolo ha voluto ricalcare i
concetti espressi nel v. 27 aggiungendo però preziosi particolari che illuminano il suo pensiero.
Sulla base del parallelismo esistente tra il v. 27 e il v. 29, possiamo affermare che il colpevole che mangia il pane e beve il calice del Signore
aÓnaxi÷wß, è lo stesso che mangia e beve la propria condanna mh\ diakri÷nwn
to\ sw◊ma. E’ nota la difficoltà che concerne l’esatta interpretazione di questa espressione enigmatica. Infatti, a seconda del significato dato al verbo e
64. Questa lettura esegetica non è nuova. Già Basilio di Cesarea, dopo aver riportato il testo
dell’istituzione dell’eucaristia trasmesso da Paolo, si chiedeva: “A che giovano queste parole?
A questo: che, mangiando e bevendo, sempre ci ricordiamo di colui che è morto e risorto, e
così necessariamente impariamo a osservare davanti a Dio e al suo Cristo l’insegnamento che
ha trasmesso l’apostolo”. Poi continua: “Chi dunque s’accosta al corpo e al sangue di Cristo, a
memoria di lui che per noi è morto e risorto, non solo deve essere puro da ogni contaminazione di carne e di spirito per non mangiare e bere a propria condanna, ma deve anche mostrare
efficacemente la memoria di colui che per noi è morto e risorto, con l’esser morto al peccato e
al mondo e a se stesso, e col vivere per Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” [De baptismo I,3;
cf. anche II,3: testo e tr. U. Neri, Basilio di Cesarea. Il battesimo (Testi e ricerche di Scienze
religiose 12), Brescia 1976, 292-295.298-299]. Su questo fronte si attesta pure l’interpretazione di Fulgenzio di Ruspe, Contra Faustum 28.
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del valore attribuito al sostantivo, vengono prospettate diverse soluzioni
esegetiche65. Prima di presentarle però, esaminiamo brevemente i vocaboli
in questione.
Il verbo diakri÷nein è la forma rafforzata di kri÷nein che significa “separare / dividere l’uno dall’altro”66. In Paolo, come pure nel resto del NT, non
compare mai in senso spaziale ma in quello figurato di “distinguere / discernere”. Nella domanda retorica di 1Cor 4,7: ti÷ß ga¿r se diakri÷nei; Paolo dubita che al suo interlocutore immaginario debba essere riconosciuta una posizione privilegiata, in modo tale cioè da farlo distinguere da altri membri della comunità. E’ questo il significato più naturale del verbo anche in 1Cor
11,29. Ma è ugualmente possibile la traduzione “discernere / giudicare / valutare bene”; tale senso infatti si addice a 1Cor 14,29 dove l’apostolo raccomanda alla comunità di svolgere l’opera di discernimento delle manifestazioni profetiche.
Il sostantivo sw◊ma occupa in Paolo un ruolo importante67. Esso denota il
“corpo” materiale (1Cor 6,13; 2Cor 5,1-10) destinato ad essere cambiato,
dopo la risurrezione, in un corpo spirituale (Rm 8,11; 1Cor 15,35-44; Fil
3,21). In riferimento a Cristo, sw◊ma può indicare il suo corpo storico (Col
1,22), messo a morte sulla croce (Rm 7,4) e reso presente sacramentalmente
durante la celebrazione eucaristica (1Cor 10,16-17; 11,24.27); oppure, in senso metaforico, la chiesa-corpo di Cristo (Rm 12,5; 1Cor 6,15; 12,13.27: sw◊ma
Cristouv; Ef 5,29-30). In 1Cor 11,29 to\ sw◊ma si riferisce senz’altro al corpo
di Cristo68; si tratta però del corpo del Crocifisso-Risorto oppure di un corpo
figurato e cioè della comunità ecclesiale?
Alcuni studiosi, traducendo il verbo diakri÷nein con “distinguere” e
prendendo to\ sw◊ma in senso cristologico, hanno interpretato la colpa dei
corinzi benestanti come una mancanza di discernimento tra pane profano
e pane identificato con il corpo di Cristo. Pertanto, è sottoposto alla
condanna, chi mangia e beve “‘non discernendo il corpo del Signore’
65. Vedi in sintesi Barrett, A Commentary, 275; Barbaglio, La Prima, 600-601.
66. Cf. Büchsel, “diakri÷nw”, 1090.
67. Cf. Guénel, “Tableau des emplois”; egli precisa che su 145 ricorrenze del vocabolo nel NT,
91 si trovano in Paolo, di cui 46 in 1Cor (p. 85). Vedi inoltre gli studi di Bonnard, “L’Église
corps du Christ”; Ahern, “The Christian’s Union”.
68. Nella nota k a 1Cor 11,29 la Bibbia TOB commenta che Paolo “pour susciter la réflection
de ses lecteurs” ha lasciato aperta l’interpretazione di sw◊ma. Il termine però, in qualunque senso venga inteso, è legato sempre e solo con Cristo. Secondo Klauck, Herrenmahl, 327 nota 238,
soltanto F. Spitta, “Die urchristlichen Traditionen über den Ursprung und Sinn des
Abendmahls”, in Geschichte und Litteratur des Urchristentums, I, Göttingen 1893, 303 nota
2, vedeva in sw◊ma il corpo dei comunicandi.
CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE
79
(non distinguendolo dal cibo profano)”69. Questa lettura soddisfa poco,
non solo perché attribuisce ai corinzi una totale assenza di fede eucaristica,
ma anche perché introduce una distinzione artificiale che non appare nel
testo; infatti, Paolo parla soltanto del pane eucaristico, senza menzionare
quello profano.
La maggioranza degli autori traduce il verbo diakri÷nein con “discernere”. E’ controverso però il modo di comprendere il sostantivo to\ sw◊ma. Per
coloro che gli attribuiscono valore ecclesiologico, si tratterebbe di una insufficiente valutazione della chiesa-corpo di Cristo70. Anche in questo caso, però,
bisogna dire che il concetto della comunità ecclesiale-corpo di Cristo come
oggetto di inadeguato discernimento risulta estraneo al contesto del v. 29,
dove to\ sw◊ma si riferisce senz’altro al corpo personale-eucaristico del Signore (vv. 24b.27b; cf. anche 10,16).
Altri autori, pur traducendo diakri÷nein con “discernere”, prendono to\
sw◊ma in senso cristologico. I corinzi colpevoli non sanno discernere rettamente il corpo del Signore nel cibo eucaristico che mangiano71 oppure, con
più precisione, valutano in modo insufficiente o non riconoscono il senso
della morte di Cristo che viene ripresentata nei segni-doni del pane e del
vino72. Il sostantivo to\ sw◊ma indica allora, in quanto pars pro toto, to\ sw◊ma
69. Büchsel, “diakri÷nw”, 1090; cf. Weiss, Der erste, 283.291; Theissen, “Soziale Integration”,
300-301.306; Ellis, Seven, 90; Dautzenberg, “diakri÷nw”, 733-734. Questa fu anche l’interpretazione di Agostino, Ep. 54,4: “apostolus indigne dicit acceptum ab eis, qui hoc non
discernebant a ceteris cibis veneratione singulariter debita” (PL 33,202); per cui “quid est
indigne accipere? Irridenter accipere, contemptibiliter accipere” (Sermo 227: PL 38,1101). Cf.
Giovanni Cassiano, Collatio XXII,5; Cassiodoro (Ps. Primasio di Adrumeto), In 1Cor. comm.:
“si accipiens quasi communem cibum” (PL 68,534C).
70. Cf., tra gli altri, Rietschel, “Der Sinn”, che applica il valore ecclesiologico a tutte le ricorrenze di sw◊ma, compreso il v. 24b; Conzelmann, Der erste, 238; Murphy-O’Connor, 1
Corinthians, 192; Ellis, Seven, 90; Fee, The First, 564; Ellis, “Söma in First Corinthians”, 141.
71. Cf. Jacono, Le Epistole, 354: chi non “ravvisa / apprezza” il corpo (la presenza reale di
Cristo); Walter, The First, 128-129, il quale non esclude però anche la possibilità del riferimento ecclesiale: Cristo non viene riconosciuto nei poveri; Senft, La première, 153; Barrett, A
Commentary, 275.
72. Vedi Schweizer, “sw◊ma”, 722; Wolff, Der erste, 95; Klauck, Herrenmahl, 326-327;
Hofius, “Herrenmahl”, 408; Lampe, “Das korinthische Herrenmahl”, 210; Barbaglio, La Prima, 601. In questa linea si colloca anche l’esegesi di Ambrosiaster, In 1Cor. comm. 11,28-29:
“Hoc enim apud se debet iudicare: quia Dominus est, cuius in mysterio sanguinem potat, qui
testis est beneficii Dei”; si dimostrano, perciò, negligenti coloro che “inconsiderate corpus
Domini acceperant” (PL 17,257A). Secondo Giovanni Crisostomo, 1Cor. hom. 28,1, la condanna giunge “non esaminando, non pensando come conviene alla magnificenza dei doni proposti; non riflettendo alla grandezza del dono” (PG 61,233); Cassiodoro, In Ps. 22 exp.: “…non
diiudicans corpus Domini; datum scilicet ad remissionem peccatorum, et vitam perpetuam
possidendam” (PL 70,170B).
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kai« to\ aiºma touv kuri÷ou73, come suggerisce il parallelismo con il v. 27 e come
dimostrano le parole dell’istituzione (vv. 24b.25b). Del resto, non è decisiva
l’obiezione basata sull’incompletezza della formula74, dato che anche nel passo di Rm 7,4 Paolo usa l’espressione to\ sw◊ma touv Cristouv, la quale, pur
incompleta dal punto di vista formale (come to\ aiºma touv Cristouv in Ef
2,13), si riferisce tuttavia all’evento salvifico realizzato da Cristo nella sua
morte di croce (cf. Col 1,22).
L’ultima lettura sembra la più probabile. Paolo è preoccupato soprattutto
dell’origine del male che affligge la comunità e provoca quale effetto le divisioni durante la cena del Signore. Certamente, anche l’aspetto ecclesiale-conviviale dell’eucaristia sta a cuore all’apostolo, come dimostra 1Cor 10,14-22.
Tuttavia, nel caso di 11,17-34 l’interesse è diretto in primo luogo al valore
cristologico-soteriologico dell’eucaristia75. Se la memoria eucaristica consiste in una partecipazione attiva all’evento della morte di Cristo, di conseguenza la mancanza di discernimento del corpo del Signore coincide con la perdita
del senso dell’eucaristia in quanto evento universale di salvezza, dono di Cristo. Questa perdita di stima interiore si rende poi percepibile all’esterno attraverso una prassi etica corrispondente (la carenza dell’amore oblativo).
E’ stato giustamente osservato che l’argomentazione della parenesi eucaristica di Paolo presenta qualche analogia con 1Cor 8,11-1276. Infatti, anche
in questo testo l’apostolo parla di una opposizione tra i fratelli “sapienti” e
quelli “deboli”, paragonabile a quella tra benestanti e nullatenenti. La consuetudine di mangiare le carni immolate agli idoli (v. 7) è ritenuta negativa non
per il gesto in se stesso, dato che i cristiani non considerano sacre le carni dei
sacrifici (v. 8), ma per l’effetto che può causare alla comunità (vv. 9-10). Lo
scandalo recato ai fratelli si trasforma in un’azione peccaminosa, non solo nei
loro confronti ma soprattutto nei riguardi di Cristo. Si pecca infatti contro
Cristo peccando contro il fratello “per il quale Cristo è morto” (v. 11; nel passo parallelo di Rm 14,15 compare la preposizione uJpe÷r). E’ molto probabile
che si tratti qui di un riferimento alla tradizione storica della cena del Signore, in cui viene fatta memoria e si annuncia la morte di Cristo uJpe«r uJmw◊n
(1Cor 11,26b). Quindi, la mancanza di rispetto e di amore per i fratelli è una
73. Così si legge in Anastasio Sinaita, Quaestio VII (PG 89,385).
74. Cf. ad es. Fee, The First, 563, che segue la vecchia tesi di Moffat, “Discerning the Body”.
75. Condivido l’opinione di Hofius, “Herrenmahl”, 407 nota 222: “Die Argumentation in 1Kor
11,17-34 erfolgt durchgängig von der Christologie und Soteriologie, nicht dagegen von der
Ekklesiologie her!”.
76. Cf. Schweizer, “sw◊ma”, 722; Barrett, A Commentary, 273; Wolff, Der erste, 94; Barbaglio,
La Prima, 596.599.
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trasgressione che colpisce direttamente l’opera salvifica di Cristo. Ma è proprio, e occorre sottolinearlo, la noncuranza della natura oblativa e universale
del sacrificio di Cristo la conseguenza principale di un comportamento fraternamente scorretto.
Un simile riferimento a Cristo si verifica nella cena del Signore. Quando
i corinzi benestanti non prestano attenzione ai nullatenenti, dimostrano non
solo poca delicatezza nei loro confronti, ma soprattutto dimostrano un
misconoscimento del mistero della morte di Cristo celebrato nella cena del
Signore. Non si può “annunciare” l’evento della salvezza senza essere con
esso vitalmente uniti; non si può proclamare la novità e la presenza vivificante della morte del Signore, la sua offerta amorosa in favore di tutti, e agire,
nello stesso tempo, in senso contrario, restando attaccati alle abitudini del
passato, all’egoistica indifferenza, al separatismo, al prestigio di classe, a tutto quello che costituisce “l’antitesi dell’amore”77. La partecipazione al pane e
al calice del Signore diventa allora “indegna”, perché contraddice la natura e
il significato della “cena del Signore”: un raduno dei fratelli per i quali il Signore ha donato la sua vita e che ora riunisce insieme nel patto del suo amore. Quella partecipazione si trasforma per il credente in un verdetto di
condanna. Chi non discerne la presenza del Signore nei segni della sua morte
oblativa a beneficio di tutti, e lo fa non sintonizzando il suo essere con quello
di Cristo, viene giudicato colpevole. “L’essere reo del corpo e del sangue del
Signore” vuol dire diventare responsabile della morte di Cristo (cf. Dt 19,10),
entrare fra coloro che l’hanno ucciso (cf. Eb 6,6; 10,29). La cena del Signore,
invece di essere una proclamazione della sua morte che dona la salvezza e
costituisce il popolo unito nel nuovo patto (v. 26), si converte in un delitto (v.
27)78. Ne consegue, pertanto, che Paolo disapprova la “cena propria” per i
suoi negativi risvolti socio-comunitari, ma biasima anzitutto la perdita del
significato oblativo della morte di Cristo e quindi, in fin dei conti, l’assenza
dell’amore del Signore (cf. 1Cor 16,22). La colpa infatti o il peccato, ancor
prima di essere ecclesiale o rappresentare una mancanza di santità personale
del credente, tocca la persona di Cristo e la sua opera salvifica, che la cele77. Murphy-O’Connor, 1 Corinthians, 111.
78. Per questi rilievi cf. Murphy-O’Connor, 1 Corinthians, 113; Fee, The First, 561. Ma già
Atanasio di Alessandria parafrasava 1Cor 11,27: “chi mangia e beve indegnamente, sarà reo
della morte del nostro Signore” (Ep. 5,5: PG 26,1383A); sulla stessa lunghezza d’onda sono
Gregorio di Nissa, De perfectione (PG 46,268D); Giovanni Crisostomo, De sanctis martiribus
sermo: “Saranno castigati alla stessa maniera coloro che hanno crocifisso Gesù e quelli che
partecipano indegnamente ai misteri” (PG 50,650); In Matt. hom. 82,5; In Joh. hom. 46,4; Ambrosiaster, In 1Cor. comm. 11,27; Teodoreto di Ciro, In 1Cor. comm. 11,27; Cassiodoro (Ps.
Primasio di Adrumeto), In 1Cor. comm.: “quasi ipse illum occiderit” (PL 68,534B).
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L. D. CHRUPCAŁA
brazione eucaristica rende presenti mentre l’agape fraterna ha lo scopo di rendere visibili.
Al positivo, ciò vuol dire che una “degna” partecipazione all’eucaristia
richiede la massima consapevolezza dell’evento che in essa viene proclamato: consapevolezza di fede operante, che contempla il mistero, annunciandolo presente nella liturgia e insieme confermando la sua efficacia nella vita. La
coscienza di incontrarsi con il Signore e con il dono della sua salvezza richiede quindi, quale premessa ovvia e di certo non disattesa da Paolo, benché non
ne parli esplicitamente, una preparazione sacramentale di tipo morale-personale79, e implica, a sua volta, quale effetto desiderato e necessario, una
ratificazione pratica di tipo ecclesiale-comunitario. Paolo, insomma, invita i
corinzi ad andare al centro della fede cristiana: se si rendessero conto del dono
che viene loro offerto nell’eucaristia, saprebbero anche predisporre i loro cuori a riceverlo, e saprebbero, ugualmente, fare di esso un paradigma per la loro
condotta umana ed ecclesiale.
Il corpo eucaristico di Cristo diventa in questo modo “un’istanza critica”80; intorno ad esso viene formata la vita comunitaria nella cena del Signore, che rappresenta il punto di cristallizzazione dell’essere chiesa, e di fronte
ad esso bisogna assumere la responsabilità ecclesiale81. La responsabilità,
però, è di carattere comunitario o personale? Benché abuso della “cena propria” sia stato compiuto da un gruppo appartenente alla comunità, Paolo tuttavia, dopo aver ricordato la tradizione dell’ultima cena del Signore, indirizza
ai corinzi, a sorpresa, un’ammonizione di tipo generale (vv. 27-29) e non
79. Questo aspetto stava molto a cuore ai Padri che parlano spesso, richiamando il passo di
1Cor 11,27, della profanazione dell’eucaristia dovuta al peccato, all’impurità morale-spirituale del credente e, perciò, invitano ad una preparazione, soprattutto tramite il sacramento della
penitenza; cf., con varie accentuazioni: Cipriano di Cartagine, Ep. 15,1; 16,2; Firmiliano di
Cartagine (Ps. Cipriano), Ep. 75,21; Atanasio di Alessandria, Ep. 5,5; Ambrosiaster, In 1Cor.
comm. 11,28-29; Girolamo, In Tit. comm. 1,15; Agostino, Ep. 54,4; Giovanni Cassiano,
Collatio XXII,5; Cirillo di Alessandria, De adoratione et cultu VI; Teodoreto di Ciro, In 1Cor.
comm. 11,27; Cesario di Arles, Sermo 187,1; Isidoro di Siviglia, De ecclesiasticis officiis
I,18,7; Anastasio Sinaita, Quaestio VII; Oratio de sacra Synaxi; Ps. Gregorio Magno, In 1Reg
exp. II,1. Vedi inoltre Didaché 10,6; 14,1-2. L’esegesi patristica non è mai fine a se stessa, ma
viene ispirata da esigenze di tipo pastorale-dottrinale. Bisogna concluderne che i Padri non
hanno compreso il testo biblico oppure ne hanno travisato il senso? Se questo fosse vero, la
stessa cosa si dovrebbe dire di Paolo il quale, per primo, ha interpretato in chiave parenetica il
racconto tradizionale dell’ultima cena del Signore.
80. Klauck, Herrenmahl, 327.
81. Il tradizionale assioma teologico l’eucaristia fa la chiesa e la chiesa fa l’eucaristia trova,
quindi, in Paolo il suo fondamento: più i cristiani sono uniti nell’eucaristia con il Signore, più
cresce la loro unità ecclesiale, ma solo una chiesa veramente unita nell’amore di Cristo può
celebrare “degnamente” la cena del Signore.
CHI MANGIA INDEGNAMENTE IL CORPO DEL SIGNORE
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menziona direttamente la colpa del gruppo. Ci si aspetterebbe un “voi” rivolto ai benestanti e invece compare un indeterminato “chiunque” (v. 27),
“uomo” (v. 28), “chi mangia e beve” (v. 29). Sorprende anche l’applicazione
concreta del discorso paolino (vv. 30-32) dove l’attento esame, il giudizio e
la condanna non vanno applicati ad un gruppo di cui prima è stata dimostrata
la colpevolezza, ma concerne tutti i membri della comunità presi individualmente. Non mi pare che Paolo voglia qui sorvolare sul “caso” dell’abuso verificatosi nella chiesa corinzia, per il quale prescriverà solo alla fine della sua
parenesi consigli medicinali (vv. 33-34), e parlare in modo puramente astratto. L’ammonizione vale per tutti i credenti, quelli già dichiarati “indegni” e
quelli che potrebbero in potenza diventare tali se non premettono alla celebrazione dell’eucaristia un’attenta verifica del proprio modo di rapportarsi
con il Signore e di vivere, in maniera conseguente, l’incontro fraterno. E se è
così, se cioè anche quelli che attualmente risultano essere “i veri credenti” (v.
19) ne hanno ugualmente bisogno, ciò vuol dire che la verifica oltrepassa il
“caso” dell’abuso provocato dalla prassi della “cena propria”82.
Lesław D. Chrupcała
Studium Theologicum Jerosolymitanum
82. Hanno quindi ragione coloro che negano nella raccomandazione paolina la presenza di un
riferimento alla confessione (cf. ad es. la forte reazione di Senft, La première, 153). Giustamente, e non solo perché ai tempi di Paolo questa prassi sacramentale stava facendo i suoi primi passi nella coscienza della chiesa, ma soprattutto perché quello che Paolo intendeva come
una preparazione alla celebrazione “degna” dell’eucaristia andava molto al di là di una semplice confessione delle colpe commesse in privato dal cristiano.
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L. D. CHRUPCAŁA
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