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Invito al Vittoriale Invito al Vittoriale
ANO VIII - NUMERO 123
Invito al
Vittoriale
Marzo 2014
Editora Comunità
Rio de Janeiro - Brasil
www.comunitaitaliana.com
[email protected]
Direttore responsabile
Pietro Petraglia
Lavorate, lavorate, lavorate,
voi giovani, voi pieni di fede,
e di forza! Ci sono ancora
molte vette da conquistare
Editori
Fabio Pierangeli
Grafico
Wilson da Silva Rodrigues
COMITATO Scientifico
Alexandre Montaury (PUC-Rio); Alvaro
Santos Simões Junior (UNESP); Andrea
Gareffi (Univ. di Roma “Tor Vergata”);
Andrea Santurbano (UFSC);
Andrea Lombardi (UFRJ); Cecilia Casini
(USP); Cristiana Lardo (Univ. di Roma
“Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ.
Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro
(USP); Ernesto Livorni (Univ. WisconsinMadison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma
“Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ.
di Roma III); Lucia Wataghin (USP); Luiz
Roberto Velloso Cairo (UNESP); Maria
Eunice Moreira (PUC-RS); Mauricio
Santana Dias (USP); Maurizio Babini
(UNESP); Patricia Peterle (UFSC); Paolo
Torresan (Univ. Ca’ Foscari); Rafael
Zamperetti Copetti (UFSC); Roberto
Francavilla (Univ. de Siena); Roberto
Mulinacci (Univ. di Bologna); Sandra Bagno
(Univ. di Padova); Sergio Romanelli (UFSC);
Silvia La Regina (UFBA); Wander Melo
Miranda (UFMG).
COMITATO EDITORIALE
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Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia
Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões;
Floriano Martins; Francesco Alberoni;
Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio;
Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo;
Maria Helena Kühner; Marina Colasanti;
Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio
Michele; Victor Mateus
ESEMPLARI ANTERIORI
Redazione e Amministrazione
Rua Marquês de Caxias, 31
Centro - Niterói - RJ - 24030-050
Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468
Mosaico italiano è aperto ai contributi
e alle ricerche di studiosi ed esperti
brasiliani, italiani e stranieri. I
collaboratori esprimono, nella massima
libertà, personali opinioni che non
riflettono necessariamente il pensiero
della direzione.
SI RINGRAZIAno
“Tutte le istituzioni e i collaboratori
che hanno contribuito in qualche modo
all’elaborazione del presente numero”
STAMPATORE
Editora Comunità Ltda.
ISSN 2175-9537
2
Con gratitudine per gli illustri saggisti intervenuti intorno a
d’Annunzio ed ad altri autori di
poesia e prosa in questo numero di
Mosaico, anticipiamo due significative citazioni dagli articoli di Linda
Terziroli. La bravissima insegnante,
saggista, studiosa di Guido Morselli
(di cui ha curato due splendide edizioni, Lettere ritrovate, Magenta
editore, Una rivolta e altri scritti per
Bietti) ha aperto per noi le porte del
Vittoriale a chiusura delle ricorrenze
dei 150 anni dalla nascita del Vate,
intervistandone il direttore Giordano Bruno Guerri, noto scrittore,
polemista, biografo, a cui si deve
questa citazione dannunziana:
“Operaio della parola, io sono
stato condannato per sette anni ai
lavori forzati del luogo comune,
all’esercizio forzato dell’eloquenza,
su la ringhiera, nella piazza, nel
campo di battaglia. Per sette anni
ho arringato le truppe e le folle,
ho maneggiato l’anima del soldato
e del popolano, mi sono piegato
ai contatti più rudi e talvolta alle
mescolanze più ripugnanti (…). Nes-
suno immagina con che ansia io sia
entrato in questo rifugio, con che bisogno di sprofondarmi in me stesso e
nella più segreta sorgente della mia
poesia” . (Giordano Bruno Guerri,
D’Annunzio l’amante guerriero).
Da questa altre parole del Vate, il
senso di una particolare sintonia con
i giovani di oggi, colta dalla Terziroli
durante la gita scolastica che ci racconta in questo numero di Mosaico:
“Lavorate, lavorate, lavorate, voi
giovani, voi pieni di fede, e di forza! Ci sono ancora molte vette da
conquistare. Tu, che sei una natura così signorilmente squisita
di artista, tu farai molto, andrai
molto avanti. Getta via lungi da
te tutti i timori, tutte le timidezze, tutte le esitazioni: sii audace,
sempre audace: non ti stancare
mai di cercare, tentare, provare.
La via dell’arte è lunga e scabra
ed erta: per salirla ci vogliono dei
lombi armati di valore.” Gabriele
d’Annunzio, I febbraio 1884, lettera a Vittorio Pepe
Buona lettura!
Indice
Saggi
Linda Terziroli
Appunti di scuola: l’audere semper di Gabriele d’Annunzio
Linda Terziroli
LA MIA VITA AL VITTORIALE: INTERVISTA A GIORDANO BRUNO GUERRI “Non chi più soffre ma
chi più gode conosce”
pag. 04
pag. 07
Evelina Di Dio
La nave di Gabriele d’Annunzio: tragedia individuale rappresentata in una dimensione corale
pag. 11
Antonio Armano
“Angelico porco alato”: d’Annunzio e la censura
pag. 16
Francesca Guerrasio
LA ROMANZA DA SALOTTO, ESPRESSIONE DI CIVILTA’ SOCIALE
pag. 19
Gabriele D’Annunzio da Le novelle della Pescara
L’eroe
pag. 23
Claudio Cherin
Proposte di lettura: Dario Buzzolan, Andrea Zanzotto
pag. 25
A cura di Mosaico
Libri ed eventi. Massimo Cacciapuoti, Piero Morales
pag. 28
RUBRICA
Francesco Alberoni
Pigrizia e vigilanza
pag. 30
PASSATEMPO
pag. 31
3
Appunti di scuola:
l’audere semper
di Gabriele d’Annunzio
Linda Terziroli
“Lavorate, lavorate, lavorate, voi giovani, voi pieni di fede, e di forza! Ci sono ancora molte vette da
conquistare. Tu, che sei una natura così signorilmente squisita di artista, tu farai molto, andrai molto
avanti. Getta via lungi da te tutti i timori, tutte le timidezze, tutte le esitazioni: sii audace, sempre audace:
non ti stancare mai di cercare, tentare, provare. La via dell’arte è lunga e scabra ed erta: per salirla ci vogliono dei lombi armati di valore.” Gabriele d’Annunzio, I febbraio 1884, lettera a Vittorio Pepe
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Strano ma vero. Nelle classi italiane (mi riferisco alla mia esperienza nelle scuole superiori), Gabriele
d’Annunzio riscuote una certa popolarità, molta di più di Carducci
ed è sicuramente più amato del
Leopardi. Parlo di popolarità, non
di culto. I cultori di Leopardi, Manzoni, Pascoli si annidano in ogni
classe e sono i più devoti. Il poeta
vate dalla vita inimitabile è tuttavia
sulla cresta dell’onda, anche tra gli
studenti più svogliati e lazzaroni. E
proprio a questi comunica di più.
Complici le mai tramontate leggende metropolitane, mai smentite né
confermate, sulle sue prodezze
sensuali, che si diffondono nelle
classi, tra maliziose occhiatine e
mal soffocate risatine, d’Annunzio ha sempre il suo seguito e non
passa mai inosservato. Perché così
larga simpatia? E’ certamente un
personaggio assai moderno, un
anticonformista, che ha plasmato i
gusti di un’epoca, ha ideato nomi,
inventato pubblicità, creato slogan
e ha persino cambiato il genere
all’automobile: “L’Automobile è
femminile. Questa ha la grazia, la
snellezza, la vivacità di una seduttrice; ha inoltre una virtù ignota
alle donne: la perfetta obbedienza”. E’ stato colui che, pur scandalizzando, ha creato e questo
binomio che fa breccia nei giovani,
da sempre votati al conflitto e alla
ribellione creativa. Conquista gli
studenti meno volenterosi il fatto
che la ribellione diventi tradizione,
celebrità di un autore del cui valore
si continua a discutere e parlarne
sembra “scuotere un’arnia piena
di api” (Santurbano). Onnipresente nei manuali scolastici e nei bigini, per i temutissimi esami di Stato,
tra Decadentismo, edonismo e superomismo con venature fasciste.
Certamente sono molti i detrattori
e non si può negare come, talvolta,
l’estetismo fine a se stesso produca una sazietà barocca vicino allo
stucchevole, tuttavia, a parte l’ornamento pleonastico, d’Annunzio
ha tenuto in mano le redini del
gusto di un’epoca, dominando sui
flutti del mondo, disprezzando la
quotidianità e il carico di banalità
che essa ha prodotto ed è la sua
anima multiforme, forse più della
sua opera, ad incantare. D’Annunzio, benché non sia facile da parafrasare né, a ben guardare, da
leggere (e da inquadrare), in virtù
delle sue laboriose prose e delle ricerca stilistica e lessicale a dir poco
ridondante e artificiosa, si fa amare
dagli studenti, proprio per questo
suo audere semper. A differenza di
altri autori, più avvicinabili e forse
più semplici per il pubblico scolastico, ciò che forse seduce e conquista i giovani di questo personaggio
discusso e contradditorio è proprio
l’invito all’eroismo (e all’erotismo),
l’incitamento al coraggio, all’audacia, la cosiddetta “Coazione al sublime” (Gianni Turchetta).
I ragazzi di oggi, forse più di
quelli di ieri, sono più inclini e disposti ad ascoltare le gesta di
d’Annunzio o il Manifesto del Futurismo, si riconoscono in un autore
che anela all’immortalità, ricorrendo all’immagine, persino al mezzo
televisivo. Il movimento, l’audacia,
la ricerca del bel gesto (e del bel
verso, che “è tutto”), il culto della
vita inimitabile inducono i giovani a
cercare, a modo loro, di fare della
propria vita come si fa di un’opera
d’arte. In tal modo, d’Annunzio,
spesso disprezzato e vituperato, ridicolizzato e considerato in modo
fuorviante fascista, non lascia gli
studenti indifferenti, che lo amino
o lo detestino per ragioni diverse,
lascia una traccia nei loro animi e
questo, sia pure soltanto un graffio
nella loro memoria, potrebbe essere uno dei compiti dell’insegnamento della Letteratura, in tempi
di crisi multidisciplinare.
Visita al Vittoriale: istantanee
di una casa teatro (per i posteri)
“Se vuoi che la tua casa ti paia
grandissima pensa al sepolcro”
“Operaio della parola, io sono
stato condannato per sette anni
ai lavori forzati del luogo comune,
all’esercizio forzato dell’eloquenza, su la ringhiera, nella piazza,
nel campo di battaglia. Per sette
anni ho arringato le truppe e le
folle, ho maneggiato l’anima del
soldato e del popolano, mi sono
piegato ai contatti più rudi e talvolta alle mescolanze più ripugnanti (…). Nessuno immagina
con che ansia io sia entrato in
questo rifugio, con che bisogno di
sprofondarmi in me stesso e nella più segreta sorgente della mia
poesia” . (Giordano Bruno Guerri,
D’Annunzio l’amante guerriero,
Oscar Mondadori, p. 267)
Lascio la macchina nel solito
parcheggio (a pagamento) e mi
avvio su per la non lieve salita
che porta all’ingresso della casa
del vate, principe di Montenevoso, Gabriele in origine Rapagnetta, ma, in arte, d’Annunzio. Arrivata a Gardone Riviera, dopo
aver percorso alcuni chilometri
dall’uscita Brescia Est dell’au-
tostrada, sono immersa in un
paesaggio da villeggiatura lacustre; questi laghi del Nord un
po’ diversi e un po’ simili tra loro
hanno ville stupende affacciate
sul lago. In questo caso, dopo
una larga curva, in prossimità di
Salò, ecco emergere all’orizzonte il bel Lago di Garda con la sua
dolce penisola di Sirmione che
mi ricorda sempre la forma di un
frutto, spezzato a metà.
L’atmosfera è idilliaca, grandi
pini silvestri, cipressi, limonaie e una vegetazione florida e
lussureggiante; il panismo qui,
indipendentemente dall’opera
dannunziana, è assicurato.
La villa svetta nel suo giallo acceso e corposo, ma non aristocratico, e nella sua grandezza più
simile ad un casolare (al d’Annunzio ricordava la sua toscana
Capponcina) mentre il suo parco,
impreziosito da un anfiteatro,
dalla Nave Puglia, nonché dal
Mausoleo ieratico e surreale che
ospita le spoglie del poeta e dei
suoi legionari fiumani, ha vinto
il premio di “più bel parco d’Italia”, nel 2012 e nel 2013. Provo ad
immaginare la musica che allora
risuonava, negli anni in cui qui
visse d’Annunzio e anche prima,
con il precedente proprietario, il
tedesco Henrich Thode che aveva sposato Daniela von Bülow,
figliastra di Wagner, perché figlia
di Cosima Liszt (figlia illegittima
del grande compositore) e del
suo primo marito, nonché nipote
di Franz Liszt a cui apparteneva
il pianoforte a coda, suonato poi
5
da Luisa Baccara, amante dannunziana e giovane pianista veneziana, nella sala della musica.
Sono passati tuttavia numerosi
anni (d’Annunzio ha vissuto qui
dal 1921 al 1938, anno della sua
morte) e occorre ricordare, prima
di fare capolino dentro la casa,
che questa villa ideata, realizzata,
curata dal poeta, grazie all’architetto Gian Carlo Maroni, era stata
già pensata come una casa-museo, teatro del passato per i posteri e rappresenta quindi l’ultima
opera autobiografica e, in quanto
tale, certamente coerente con la
sua contradditoria anima. Visitare
la Prioria, come il poeta, novello
priore, nominava la sua casa, rappresenta sicuramente un modo
per interpretare l’uomo che qui
ha vissuto, poiché l’arredo e gli
oltre diecimila oggetti non sono
stati asportati o restaurati ma
solo, presumibilmente, spolverati e lasciati nei posti in cui precedentemente erano stati collocati,
perciò ancora oggi ne assecondano il gusto e l’estro.
Un certo sentore d’ombra, di passato, di tappeti antichi, di pelli lievemente traspiranti (come quella di daino che ricopre il soffitto
della “camera del Lebbroso”),
vecchie stoffe damascate e tessuti drappeggiati contribuiscono
a dare l’impressione di una casa
ancora abitata dal fantasma di
Gabriele d’Annunzio e dalla sua
vena estetica. A differenza di altri
musei dedicati a scrittori, qui non
si osservano le stanze con il naso
incollato ad una fredda vetrata
ma si possono toccare con gli
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occhi (e quasi con le mani) quelle
stanze, quegli oggetti al poeta
tanto cari. Si riesce, senza grande
sforzo, ad immaginare la sua vita
qui: le lunghe attese di Mussolini
(La scritta sullo specchio: “ricordati che sei vetro contro acciaio”), le chiacchierate con Mondadori, le donne bellissime e i loro
giochi di seduzione, i levrieri, i
creditori. E’ un’opera da leggere
con l’immaginazione, una sorta
di autobiografia non per immagini, ma per stanze. Non è possibile
provare horror vacui, ma, al massimo, una vaga claustrofobia. E’
dunque lampante, muovendosi
delicatamente all’interno delle
stanze in penombra, seguendo
le cadenzate e spedite parole di
una guida colta ed esperta come
il poeta vate soffrisse di fotofobia, non già la fobia di essere
fotografato (anzi: nel museo di
“d’Annunzio eroe” si possono
vedere numerose fotografie,
persino senza veli, e filmati d’epoca) ma propriamente il fastidio della luce diretta e come cercasse riparo nell’ombra, in virtù
di tendaggi, vetrate finemente
decorate e verande fatte costruire a bella posta. Mentre la casa
continua a vivere e brulicare di
scolaresche e turisti germanofoni, i trentatremila volumi della
casa possono essere ancora consultati, dietro preventiva richiesta, e questa mi pare un’eccellente opportunità per tanti studiosi
che spesso si trovano di fronte
ad archivi segreti e casseforti letterarie “a prova di ladro”.
Questo scrigno non può essere
adeguatamente descritto poiché ogni esposizione avrebbe
più dell’inventario che non della rappresentazione: “i trentasei locali, compresi gli affollatissimi corridoi e pianerottoli,
sono denominati secondo gli
schemi della retorica dannunziana: dalla Stanza della Leda
a quella del Lebbroso, del Mascheraio, del Monco, delle Reliquie, delle Marionette, dallo
Schifamondo alla Colonna dei
Giuramenti, dallo Scrittoio del
Mondo al Portico del Parente. Sui muri, campeggiavano
ovunque le tracce della sua
parola, i motti dei suoi ex libris e quelli che decoravano,
con raffinata arte xilografica,
le lettere con cui continuava a
inondare i suoi disparatissimi
interlocutori, politici, artigiani, segretari, editori e amanti:
“Memento audere semper”,
“Ardisco non ordisco”, “Per
non dormire”, “Semper adamas”, “Hic manebimus optime”. (Giordano Bruno Guerri,
D’Annunzio l’amante guerriero, Oscar Mondadori, p. 285).
L’opera è compiuta: sacro e
profano si fondono, mentre
l’umiltà si specchia nella vanità, si celebrano le gesta epiche
del grandioso passato (dalla
stanza delle Reliquie, “Quis
contra nos?” recita il gonfalone della Reggenza del Carnaro), la contraddizione si celebra laddove la bellezza emerge
dalla sublime dialettica di una
personalità artificiosamente
sdoppiata; si celebra l’umiltà
mentre si fa ampio sfoggio di
vanità. Rintracciamo tuttavia
dietro le maschere “orrorose”
e il tripudio del palcoscenico, al
di là della messinscena voluta,
dietro le quinte della teatralità,
un uomo profondamente umano e lacerato, nudo e inerme di
fronte al triste e inarrestabile
incedere della sua vecchiaia
(“la turpe vecchiezza”) e del
suo desolante corredo di decadimento fisico.
La morte lo colse, il primo marzo
del 1938, ponendo fine ai tableaux vivants più estenuanti e ridicole, al consumato tavolo della
sua Zambracca, a pochi passi
dall’armadio che sembra un
guardaroba traboccante di medicine, mentre si allunga un’ombra di solitudine sulla sua avventura terrena, dopo una vita spesa per l’eroismo e l’immortalità,
alla ricerca della bella morte.
LA MIA VITA AL VITTORIALE:
INTERVISTA A GIORDANO
BRUNO GUERRI
“Non chi più soffre ma chi più gode conosce”
Linda Terziroli
Ritorno ancora una volta a Gardone Riviera, ripercorrendo gli stessi passi delle precedenti
visite, stavolta per un incontro non metafisico ma reale e non con l’anima di d’Annunzio bensì
con l’uomo che più di altri ha avuto il privilegio di studiare tra le sue carte, i suoi cimeli e le sue
amanti e le sue stanze, con chi, forse più di altri, l’ha conosciuto e capito, senza falsi pregiudizi e
oltre le leggende, ospite e presidente della dimora dannunziana: Giordano Bruno Guerri.
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Invece di passare dall’ingresso
per i visitatori, suono il campanello
dell’amministrazione del Vittoriale,
una foresteria in pendant con la
dimora del poeta, passo dal grande ufficio della gestione della casa
dannunziana e attendo pazientemente l’arrivo del presidente e
biografo, che mi accoglie, amabile,
nel suo studio di legno traboccante di libri, con una grande finestra
quadrata che è impossibile non
guardare e da cui è impossibile
non sbirciare quel lago che sembra
proprio sotto la finestra, oggi così
malinconico di pioggia e pesante di
nebbia, che, gonfio e umido, rende
anche questa umile finestra un capolavoro.
Sguardo mobile e fermo, pragmatico, elegante nel suo completo grigio scuro e nei modi garbati,
che mostra senza affettazione,
Guerri ci fa accomodare davanti
alla sua scrivania zeppa di carte
e libri dannunziani, accogliendo
l’ennesima intervista con una serena pazienza di cui gli sono grata.
Come sempre è curioso indagare
le ragioni per cui uno scrittore, e
in particolare un biografo, scelgano, nel mare magnum delle possibilità, proprio quell’oggetto di
studio e non un altro, così penso
che la sua ricerca su d’Annunzio
sia nata da un amore per l’avventurosa storia di un personaggio
straordinario, non scevro da una
componente (forse) albeggiante
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di narcisistica immedesimazione.
La vita di d’Annunzio è il suo capolavoro - ci rivela Giordano Bruno
Guerri - che nel Vittoriale trova il
compimento supremo, la celebrazione eternamente tangibile.
La voce di questo singolare
biografo e capo della Fondazione, ultimo vedovo dannunziano,
è seria e cadenzata, in un continuum rauco, graffiato forse dal
fumo di tante sigarette, lento e
solenne, quasi strascicato - che
domani parlerà dalla piccola prigione del mio registratore - mi distrae dai miei pensieri e si snoda
con ampie e calme volute e ben
disegnati periodi, anche sul mio
taccuino dove mi accorgo che la
sua sintassi, ordinatamente latina, non permette fraintendimenti e mi impone domande semplici
e nette, a cui risponde in modo
esaustivo, senza lasciare ombre
al dubbio.
Qual è il libro di Gabriele d’Annunzio che Lei ama di più e perchè?
D’Annunzio scrisse nel ’30 un
libro in francese antico (scrisse
quattro libri in francese), Le dit du
sourd et muet qui fut miraculé en
l’an de grâce 1266, libro in sei esemplari e poi in sessanta, ed è rimasto
praticamente sconosciuto. La cosa
curiosa è che il protagonista di questo libro si chiama Guerri e d’Annunzio nel frontespizio ha scritto
“de Gabriele d’Annunzio qu’on
nommoit Guerri de Dampnes”. E’
una battuta. I miei preferiti sono i
libri più comuni: Il piacere, L’innocente e Notturno.
Quale è la chiave del particolare
successo che d’Annunzio riscuote
nei giovani, in particolare negli studenti che lo incontrano nei manuali
di scuola e in gita al Vittoriale?
Intanto le do una notizia interessante: Google ha comunicato
che nel 2013 è stato il poeta italiano più cliccato nel mondo dopo
Dante ovviamente e questa per
noi è una grande conquista, perché vuol dire che il nostro lavoro
è servito. Il fascino di d’Annunzio
sta nella sua vita inimitabile, non
è solo un poeta, ma un’infinità di
altre cose e il suo capolavoro è la
sua vita. L’interesse nasce dal fatto che si scopre sempre di più che
d’Annunzio, ben lungi dall’essere
un decadente – certo il filone da
cui parte è quello – come lo si in-
tende comunemente, è un modernizzatore, è in avanti, addirittura
anticipa i futuristi su tante cose e
ben lungi dall’essere un protofascista - altro grande equivoco - è
un libertario, certo superomista
per cui poteva avere delle affinità
con dittature. Questo peraltro è
stato il mio lavoro più intenso su
d’Annunzio, affermare questi due
principi: non decadente ma innovatore, non protofascista ma libertario. Il fascino di d’Annunzio è
nella sua vita, che ha dato tanto a
tutti fino a creare le mode, al culto
di sé e del personaggio. E’ morto
un uomo che non solo ha saputo
realizzare i suoi sogni, che è già un
obiettivo supremo, ma soprattutto che ha fatto sognare gli altri uomini: sogniamo ancora con i sogni
di d’Annunzio, che poi, in definitiva, sono: il culto della bellezza, il
culto del piacere. La frase di d’Annunzio che preferisco su tutte è:
non chi più soffre ma chi più gode
conosce, dove per godimento, per
piacere non si intende quel godimento che gli stava tanto a cuore
ma un godimento totale, estetico, culturale, un godimento verso
ogni aspetto della vita, l’amore
per gli animali, l’amore per la natura, l’amore per il classico. Quindi
non a caso il romanzo che lo rappresenta di più e tuttora il più letto
è Il piacere ancora una volta inteso
non come quel piacere, ma il piacere in senso lato e il romanzo che si
intitola Il piacere è una rappresentazione totale del piacere e questo viene dato oltre, per tornare al
Vittoriale, un’estetica che non ha
paragoni al mondo, cioè lo stile di
arredamento di d’Annunzio - non
esiste una definizione tanto è vero
che viene liquidato in forma denigratoria con la definizione di bric-abrac, ma è tutt’altro che un bric-abrac: d’Annunzio ha creato un suo
gusto personale, sovrapponendo
cose certo non a caso, ma nobilitando anche gli oggetti più umili.
La Prioria è piena di cianfrusaglie,
di oggetti che non valgono niente
solo per la disposizione e l’unione
con gli altri. Mi piace ricordare che
non esistono statue di pregio, dentro la Prioria, ma sono tutti calchi
di gesso. D’Annunzio poteva ben
permettersi anche gli originali,
preferiva frasi fare i calchi e ricrearli dipingendoli personalmente in
oro, mettendogli dei gioielli, addi-
rittura dei vestiti e quindi creando
un’opera sua personale.
Quali sono gli ostacoli che d’Annunzio incontra tuttora, oltre ai
pregiudizi dell’essere considerato
un protofascista e un decadente?
Una certa difficoltà della sua
scrittura che era già impegnativa cento anni fa, che lo è di più
adesso. La scrittura di d’Annunzio,
cosiddetta falso antico, è una scrittura molto costruita, difficoltosa la
lettura per la straordinaria ricchezza di vocaboli e di costruzioni sintattiche. D’Annunzio già a trent’anni si vantava, a ragione, di aver
usato nei suoi scritti quindicimila
parole. Se noi pensiamo che, nel
linguaggio della vita di tutti i giorni,
usiamo dalle due alle duemila parole, ci rendiamo conto dell’enormità, anche per questo poi finiscono
per essere note le sue opere più
semplici. Un esempio classico è La
pioggia nel pineto che io ho finito
per detestare. La pioggia nel pineto
è un semplice esercizio di ritmo, il
ritmo è tutto, infatti è eccezionale
da quel punto di vista, ma appunto
è un gioco letterario. Questo ostacola molto la lettura, è in qualche
modo lodata, certamente alcune
opere sono di davvero difficile lettura. L’altro ostacolo è questa sessualità dirompente che finisce per
soffocarlo. (E’ vero che d’annunzio
aveva una sessualità sfrenata certamente, ma non al punto da giustificare tante leggende che sorsero su di lui).
Nel Vittoriale non è cambiato
niente ed è cambiato tutto. Nella
Prioria non è stato spostato neanche un cuscino o un portacenere,
per il resto ci sono state molte novità come l’apertura di nuovi musei, uno è “Il d’Annunzio segreto”
ottenuto appunto svuotando gli
armadi, i cassetti, partendo appunto dal fatto che d’Annunzio volesse essere visto nella sua vita quotidiana. L’altra idea è stata l’omaggio
a d’Annunzio, cioè verificare la vita
di d’Annunzio nell’estetica oggi
e chiedere agli artisti contemporanei: “Amate d’Annunzio? Allora
fategli un regalo” e così ho fatto,
ho chiesto, e ho avuto, seguendo
il principio “Io ho quel che ho donato”. Prima è arrivata la scultura
di Mimmo Paladino, lo stupendo
cavallo, poi Arnaldo Pomodoro,
Ugo Riva, Ettore Greco, il due mar-
zo inaugureremo un nuovo dono
di Villeglé, l’artista famoso che
strappava i manifesti, che ci regala
una grandissima scultura in bronzo
e poi la collezione di quadri di arte
contemporanea che sta nell’Auditorium. Questo è servito per creare attenzione intorno al Vittoriale,
aumentare l’offerta, il valore di
queste opere serve a dare la sensazione che il poeta vive e lotta insieme a noi, partecipa ancora con la
sua influenza nella cultura italiana.
La stagione dell’anfiteatro è diventata una delle dieci più importanti
d’Italia e uno dei punti di riferimento dell’Italia settentrionale per gli
spettacoli estivi.
I presidenti del Vittoriale fra
loro si definiscono scherzosamente, ma non troppo, “le vedove di
d’Annunzio”, perché in effetti il
testamento di d’Annunzio dice che
la Fondazione del Vittoriale è il suo
erede, lui ha scavalcato con una
legge apposita l’asse ereditario e
ha lasciato tutti i suoi beni alla Fondazione del Vittoriale, compresi i
diritti d’autore.
D’Annunzio va valorizzato all’estero, per il centocinquantesimo
anniversario che sta per finire, ho
realizzato mostre a New York, ad
Atene, a Budapest, Cracovia, Tokyo, Kyoto, ne sto progettando una
a Buenos Aires, una a Montevideo,
una a Melbourne, era nelle mie intenzioni farne una a Rio ma evidentemente avevo bisogno di partner,
a Rio non è stato possibile, rilancio
l’idea: se fosse possibile realizzare
una mostra in Brasile, ne sarei felicissimo. Queste mostre servono
non solo per mostrare d’Annunzio,
ma servono per rilanciare le traduzioni. In Giappone ho firmato contratti la ripubblicazione ex novo de
Il piacere, dell’Innocente.
Uno dei problemi che stiamo
affrontando è quello delle pubblicazioni inglesi perché le traduzioni sono state fatte al tempo della
regina Vittoria e hanno ancora dei
tagli (era l’epoca in cui non si poteva parlare delle gambe dei tavoli).
Nell’ambito delle innovazioni è
l’attenzione alle nuove tecnologie:
il mio vanto più grande in questo
senso è che ho concluso un accordo con Mondadori per la pubblicazione in e-book dell’opera omnia
che è in corso e la cosa bella è che
9
questi volumi sono Meridiani con
l’edizione critica. Abbiamo approntato la digitalizzazione dell’archivio, buona parte dell’Archivio è già
reperibile on line: se voi chiedete
un documento, lo potete scegliere
e ve lo mandano entro quarantotto ore, in digitale.
Presidente del Vittoriale degli
italiani dal 14 ottobre 2008; cosa è
cambiato da quando lei ha preso in
mano le redini del Vittoriale ad oggi?
Cominciamo invece a modo mio,
ricostruiamo la storia. Mi sono sempre interessato a d’Annunzio perché
sono uno storico del Novecento,
quindi d’Annunzio è una figura fondamentale. Sono stato al Vittoriale
in tutte le vesti, prima di diventare
presidente: come visitatore, giornalista, storico, visitatore dell’archivio,
convegnista, partecipando ai convegni, presentando i miei libri… La mia
nomina è avvenuta dopo la pubblicazione del libro che lei ha in mano
(D’Annunzio l’amante guerriero) che
è uscito nel 2008, all’inizio del 2008,
dopodiché il ministro mi ha chiesto
di assumere la presidenza del Vittoriale, cosa a cui francamente non ho
mai pensato, ma che ho accettato
con grande entusiasmo, peraltro
non sapendo - l’ho appreso dopo
- che l’incarico è totalmente onorifico. Mi sono dedicato a questa attività con grande impegno perché
questo è un luogo unico al mondo,
d’Annunzio ce lo ha lasciato non
solo per conservare le sue cose, ma
per conservare una memoria di sé,
10
della sua vita globale e della sua vita
quotidiana, tanto è vero che la cosa
eccezionale del Vittoriale è che, in
pratica, il tempo si è fermato, per
legge e per testamento, tutto doveva rimanere nella sua casa come nel
momento della sua morte. Infatti lui
morì per un ictus ad un tavolo mentre studiava, gli caddero gli occhiali
dalla testa e gli occhiali sono ancora
lì, nello stesso punto.
Sulla morte di d’Annunzio sono
emerse alcune ipotesi come quella
del suicidio, che tuttavia non sono
state confermate.
Esistono anche dei libri su queste ipotesi; io personalmente non
ci credo, era un uomo che amava
troppo la vita per pensare a un suicidio, e soprattutto non l’avrebbe
fatto in un modo così poco scenografico, allo stesso modo non credo all’ipotesi dell’omicidio, anche
se la sto studiando.
Nel mio secondo libro che si
chiama La mia vita carnale, che è
ambientato tutto sulla sua vita al
Vittoriale e sulle memorie inedite della sua governante amante,
dove si parla del problema suicidioomicidio, sto seguendo le piste di
questa infermiera altoatesina che,
secondo alcune ipotesi, l’avrebbe
ucciso per incarico dei nazisti, ma
non credo che porterà a molto
questo punto di vista.
Arrivato al Vittoriale, si trattava
non solo di proseguire un’attività
culturale; il compito della Fondazione, e quindi del suo presidente, è di conservare e valorizzare la
memoria di d’Annunzio, ma non si
può trascurare il fatto che questa
sia una fondazione culturale ma si
tratta di un’azienda; abbiamo 40
dipendenti cui dare cibo e stipendio tutti i giorni e spesso abbiamo
problemi di gestione.
Si dice che i beni culturali siano
il petrolio italiano, un’espressione che io detesto perché intanto
è un paragone ripugnante e poi è
un paragone sbagliato, perché il
petrolio più lo si estrae prima finisce, la cultura più la si estrae, più
aumenta. Però è vero che i beni
culturali devono rendere e non
essere solo un costo per la collettività e il Vittoriale in questo senso
è un esempio virtuoso perché, da
quattro anni, il suo bilancio è in attivo. Un caso unico in Italia, di cui
vado fierissimo come potete ben
vedere, che ci permette tutta una
serie di operazioni importanti perché, non avendo azionisti cui dare
dividendi, tutto il denaro che viene
guadagnato serve a essere reinvestito nel Vittoriale con opere di manutenzione, di migliorie, acquisto
di documenti, iniziative di vari tipi.
Quindi cosa è cambiato nel
Vittoriale? Prima di tutto c’è stata
un’operazione di marketing e di
comunicazione indispensabile a
qualsiasi azienda e a qualsiasi impresa culturale nel senso che ciò
che non viene comunicato non
esiste come sapete bene, quindi
si trattava di comunicare l’esistenza del Vittoriale che esiste da
novant’anni ma che dopo la morte di d’Annunzio era andato man
mano declinando dopo la curiosità iniziale e quindi ravvivare l’interesse dei visitatori.
C’è conflitto, competizione
con il collezionismo di d’Annunzio? Una vita inimitabile dalla calligrafia imitabile.
D’Annunzio era un collezionista spurio nel senso che comprava
senza raziocinio, seguendo soltanto il gusto che per me è un raziocinio altissimo, ma non allineava
le sue collezioni, non aveva l’attenzione maniacale ad acquistare
tutti i pezzi. In realtà non era un
vero collezionista d’Annunzio, secondo me. C’è un numero enorme
di appassionati di acquisti di d’Annunzio, tanto è vero che l’attività
del Vittoriale in questi ultimi anni
ha avuto due conseguenze brutte: una di fare aumentare i prezzi,
l’altra di incrementare il lavoro dei
falsari di tutto, ma soprattutto di
autografi, perché l’operazione che
viene fatta è comprare una prima
edizione di d’Annunzio, che costa
cinquanta, cento euro e fare una
dedica falsa. L’inchiostro viene
procurato facilmente, la carta è
buona, la calligrafia di d’Annunzio
è abbastanza facilmente imitabile.
Ci sono dei falsari incredibilmente
bravi, magari sono due persone diverse, magari non sono bravi nella
scrittura, però fanno la dedica giusta, alla persona giusta, nell’anno
giusto, con il libro giusto. Gente
che conosce d’Annunzio benissimo. Per cui ho invitato tutti i collezionisti a sottoporre al Vittoriale il
libro prima di un acquisto.
In fondo è un omaggio a d’Annunzio anche questo.
La nave di Gabriele d’Annunzio:
tragedia individuale
rappresentata in una
dimensione corale
Evelina Di Dio
La Nave di Gabriele
d’Annunzio è una tragedia in versi composta da un prologo e tre
episodi, che il poeta
scrisse nel 1905 dopo
una lunga gestazione
dovuta alla complessità del tema trattato
e alle accurate ricerche necessarie per la
ricostruzione storica.
11
Fu definita dallo stesso autore
“Poema tragico”, è caratterizzata da una raffinata erudizione e
magniloquenza, ma è anche l’unica opera corale nel teatro dannunziano. 1
Ambientata nel 552 nella laguna veneta, narra gli eventi che
portarono alla fondazione di Venezia, al trionfo del cristianesimo sul
paganesimo, alla vittoria dei nuovi
conquistatori sui governanti bizantini.
La protagonista è Basiliola, figlia
del tribuno pagano Orso Faledro,
destituito ed accecato insieme ai
suoi quattro figli da Marco Gratico.
Egli, capo della fazione avversaria,
viene eletto dal popolo Tribuno del
Mare, per aver riportato in patria le
reliquie dei Corpi Santi dalle rovine
di Aquileia, insieme al fratello Sergio che diventa Vescovo della città.
La Faledra, per vendicare l’oltraggio alla sua famiglia, seduce
entrambi i fratelli e li spinge ad
un duello nel quale Marco uccide
Sergio.
L’ammaliatrice, lussuriosa e
assetata di sangue, incarnazione
della superfemmina dannunziana,
paragonata a Venere Dionea per
la sua bellezza fatale, viene però
condannata allo stesso supplizio
dei suoi congiunti da Marco che,
pentito per il fratricidio, e conscio
del pericolo che ella rappresenta,
si accinge a partire sulla nave “Tuttilmondo” alla conquista del mare
per sconfiggere i barbari alle porte.
Basiliola, per evitare la tortura
dell’accecamento si getta orgogliosamente ed eroicamente nel fuoco
che arde sull’ara pagana.
La tragedia prende il titolo
dall’imponente nave che, sotto il
comando di Marco Gratico, è destinata a conquistare i mari, ad edificare nel mare le mura della città
“intrisa d’acque”,2
ma anche a sconfiggere definitivamente la famiglia dei Faledri nella
persona di Giovanni, il primogenito
che si stava organizzando con l’appoggio di Bisanzio per riprendere il
potere a Venezia.
Il grido ”Arma la prora e salpa
verso il Mondo” 3, esclamazione
che, secondo il Gratico, Dio stesso
avrebbe pronunciato per investirlo
della missione, per molto tempo
condizionò l’opera di d’Annunzio
che fu vista principalmente come
un incitamento alle conquiste imperialistiche dell’epoca, sopravvalutandone la componente nazionalistica e politica.4
In realtà essa è una tappa importante nel percorso dell’autore
che si proponeva di creare in Italia
una “tragedia moderna” originale,
non imitazione di quella greca. 5
All’interno della trama vi sono
molti elementi che forniscono suggestioni e rimandi.
E’ un dramma individuale in
quanto l’azione scenica è incentrata sulla figura della protagonista femminile, che nutre un sentimento di odio così profondo e così
spietato da portarla all’efferatezza
del delitto e della vendetta fino al
gesto estremo del sacrificio di sé,
del suicidio.
La sua crudeltà dà anche luogo
ad una scena corale di orrore e di
sadica ferocia, nel primo episodio,
quando i prigionieri della Fossa
Fuia la implorano di ucciderli.
Essi torturarono e accecarono i
suoi familiari e nel contempo furono ammaliati dalla sua bellezza e la
desiderarono sessualmente. Marco Gratico, folle di gelosia, li fece
gettare in quel baratro.
E’ tutto un susseguirsi di frasi
deliranti, urla, maledizioni, provocazioni, profferte d’amore, per
spingerla a por fine al loro tormento. E Basiliola descritta come una
1 PAOLO VALESIO,“Il coro degli Agrigentini” in D’Annunzio- Pirandello. Quaderni del Vittoriale nov.-dic.1982 n°36, pag. 63
2 LA NAVE Tragedia di Gabriele D’Annunzio, Milano, Fratelli Treves Editori, 1914, pag.59
3 Ibid. pag. 65
4 VALERIA GIANNANTONIO, Tra metafore e miti. Poesia e teatro in D’Annunzio, Napoli, Liguori Editore, 2011, pag 171
5 “una forma di espressione nuova, in grado di legare passato e presente, parola e azione, tradizione e innovazione” G. ANTONUCCI, La Nave, in D’Annunzio Tutto il teatro a cura di G.
Antonucci e G. Oliva, Roma, Grandi Tascabili Economici Newton Compton, 1995, pag. XI
12
bellissima belva, una leonessa dalla
chioma fulva,
esaudisce ella gli insensati, perocché tutta ormai l’agiti quella brama di veder correre il
sangue, che travaglia l’oscura
bestialità delle femmine umane, come se per legge di talione volessero élleno ricomperar
quello perduto a ogni luna 6
Nel terzo episodio la massa evidenzia un altro messaggio fondamentale dell’opera: rappresentare
gli albori di un popolo che riuscirà
a fondare una città e partire alla
conquista dei mari per rinnovellare
quello che fu il compito di Roma. 7
Le ultime battute sono proprio
le voci del popolo:
La patria è su la Nave! […] O
Gràtico, l’ammenda! Fa l’ammenda! […] Riscatta il Corpo
dell’Evangelista! Torna col Sacro
Corpo e sarai mondo! O Signore,
santifica la Nave! […] Signor nostro, redimi l’Adriatico! Libera
alle tue genti l’Adriatico! Patria
ai Veneti tutto l’Adriatico! 8
La vicenda si chiude quindi con
il riscatto del protagonista maschile, che si assume il compito di recuperare le reliquie dell’evangelista
San Marco sepolto ad Alessandria
d’Egitto per riconsegnarlo “al popolo dell’isole”. 9
La Nave viene definita” tragedia
profondamente cristiana” 10 perché
rappresenta un’intensa religiosità
espressa attraverso inni, preghiere, litanie, invocazioni al “Signore
Iddio”, alla Santa Vergine, a Cristo
e ai Santi; ma vi è anche una costante presenza popolare e corale,
sia per la partecipazione del popo-
lo, che fin dal prologo prega, incita,
collabora attivamente allo svolgersi del dramma con le sue diverse
voci, sia per l’intervento di vari cori
cristiani e pagani che sottolineano,
cantando inni in latino, i momenti
salienti della vicenda.
D’Annunzio li indica con precisione, nominandoli di volta in volta
nelle loro peculiarità:
gli accòliti, il coro dei Catecùmeni, il coro processionale, il coro
dei Nàumachi, i compagni navali,
le maestranze […] i zelatori della fede, i convivi dell’Agape11
Nel prologo si trova una scena
suggestiva e coinvolgente, quando
vengono riportate nella città le reliquie dei Tutelari: si è in presenza
di un mondo contadino e artigiano, unito in una processione liturgica in cui si evidenziano elementi
rituali e simbolici, frutto di una tradizione che ci è stata tramandata
da una gran quantità di rappresentazioni pittoriche delle processioni
veneziane.12
I cori sono molto efficaci per ricreare quel clima tipico degli albori
della cristianità e per accentuare
l’aspetto antico della tragedia con
la musicalità dei versi.
In particolare quello dei Catecùmeni, quello processionale e
quello dei Nàumachi, invocano Cristo e Maria in un latino medievale. I
Nàumachi definiscono Maria “stella
dei naviganti” cantando :
O salus navigantium/ virgo semper
Maria/ stella Maris praelucida,/ tibi
laus et gloria! 13
Ma non solo: in ognuna delle
parti in cui è suddivisa l’opera si
trovano dei cori che risultano fon-
damentali nell’economia della tragedia. 14
Nel prologo sono solo cristiani, mentre nel primo episodio essi
si alternano agli elogi a Diona pronunciati dalle donne al seguito di
Basiliola.
Nel terzo episodio, a chiusura della tragedia, è il popolo che
esclama in un crescendo quasi musicale:
Cristo vince! […]Cristo regna![…]Cristo e il popolo! Cristo
e San Marco! Cristo e Santo Ermagora! 15
D’Annunzio incaricò il maestro
Ildebrando Pizzetti di comporre gli
intermezzi per i cori, in occasione
della prima rappresentazione al Teatro Argentina di Roma nel 1908.
Il musicista fece riferimento
agli Inni del Breviario ambrosiano,
i più consoni all’epoca della vicenda.16 Dal ricco carteggio dei due
artisti, si evince il ruolo che d’Annunzio intendeva attribuire alla
musica, che doveva essere parte
integrante della struttura drammaturgica, e quanto fosse attiva la
sua collaborazione con il maestro,
al quale suggerì anche di far costruire strumenti molto particolari,
in grado di rendere gli effetti da lui
immaginati.17
Nel secondo episodio troviamo
un momento corale di grande effetto scenico, raffigurato dal presbitero Teodoro.
A capo di una processione che
esce dalla Basilica egli porta la croce equilatere, simbolo di quella cristianità che si stava imponendo sul
paganesimo rappresentato invece
da Basiliola e dall’ara sulla quale
poi cercherà la morte.
6 LA NAVE Tragedia di Gabriele D’Annunzio,cit. pag. 95
7 “La folla guarda verso l’Oriente aspettando dal Cielo il segno della promessa, la folla che riempie la tragedia delle sue grida, delle sue superstizioni, della sua forza.
Mai, io credo, prima d’ora, fu introdotta in un’azione drammatica la folla con le sue mille voci con tanta audacia e in sì larga misura. Il popolo dell’isola è della Nave il
vero protagonista”GIOVANNI POZZA, La tragedia, in «Il Corriere della Sera», 12 gennaio 1908
8 LA NAVE Tragedia di Gabriele D’Annunzio,cit. pag. 248-249
9 Ibid. pag 65
10 GABRIELE D’ANNUNZIO, Tragedie, sogni e misteri a cura di Annamaria Andreoli, Tomo II, Milano, I Meridiani Mondadori, 2013, pag.1570
11 PAOLO VALESIO,“Il coro degli Agrigentini” in D’Annunzio- Pirandello. Quaderni del Vittoriale, cit. pag 66
12 “la processione del prologo è, con i suoi cori, una semplice primitiva cellula rispetto a quelle splendide, abbaglianti, meravigliose pompe di quelle processioni ricche
di broccati e d’oro, che fermeranno lo spettacolo più grandioso delle lagune”. GIOVANNI COMANDE’, Basiliola. Commento storico ed estetico alla Nave di Gabriele
d’Annunzio, Palermo, Santi Andò Editore, 1908, pag.96
13 LA NAVE Tragedia di Gabriele D’Annunzio,cit. pag. 54
14 “[…]il ruolo di primo piano che il poeta riserva al popolo, alle grida dei marinai e in particolare ai Cori, elementi non solo accessori e di corredo ma indispensabili
allo svolgimento della tragedia. Di fatto, senza i Cori liturgici e pagani non si assisterebbe - ad esempio- al banchetto del secondo episodio durante il quale l’alternarsi
delle diverse voci corrisponde, secondo un gioco perfetto di simmetrie creato da d’Annunzio, alla voce di Basiliola da una parte e a quella dei Gràtici dall’altra” GABRIELE D’ANNUNZIO, Tragedie, sogni e misteri a cura di Annamaria Andreoli, Tomo II, cit. pag.1567
15 LA NAVE Tragedia di Gabriele d’Annunzio, cit., pp.249-250
16 “Alla musica arcaizzante di Pizzetti il poeta destina testi latini ricreati secondo gli sperimentati procedimenti della parodia o del pastiche. Alle antifone mariane o ai
canti del rito ambrosiano, a volte riprodotti puntualmente a volte con sottili difformità, si contrappone l’invenzione per anamorfosi, sulla base di tessere anticamente
attestate, degli inni a Diona, la primordiale divinità venerata come principio erotico generatore nel culto demotico della Vita e della Morte che Basiliola importa a
Venezia dall’Oriente”
GABRIELE D’ANNUNZIO, Tragedie, sogni e misteri a cura di Annamaria Andreoli, Tomo II, pag.1568
17 GIOVANNI ISGRO’, D’Annunzio e la mise en scène, Palermo, Palumbo,1993, pag. 119
13
“La croce trionfa, ma non è più l’umile simbolo d’infamia: i nuovi conquistatori l’hanno
rivestita d’oro e di argento, l’hanno incrostata di smeraldi e di ametiste, l’hanno istoriata
d’iscrizioni e di fregi”
D. ANGELI, Lo scenografo della “Nave”:Duilio Cambellotti in «Il Marzocco», Firenze,29
dicembre 1907, anno XII, n°52 (sito internet: http://www.vieusseux.it)
Sempre nel secondo episodio,
poco prima del fratricidio, un’altra
scena corale e popolare è il banchetto profano a cui partecipano
Basiliola ed il vescovo Sergio, ormai
totalmente succube della donna.
Si tratta di un convivio pagano, celebrato però in un luogo sacro, in cui
i commensali, uomini e donne alterni, mangiano e bevono senza
misura, non come fedeli adunati
a celebrare il natalizio del Martire, ma come Gentili in gozzoviglia notturna dedicata ai Mani .18
In un clima di euforia, la protagonista si cimenta in una danza
sensuale e lasciva in cui la folla la
incita a denudarsi. Ad interrompere questa “frenesia erotica collettiva”19 giungono “ i zelatori della
fede” che denunciano il sacrilegio
e la lussuria osannando Dio e sollecitando l’intervento di Marco
Gratico. Egli, condannata l’empietà del fratello, lo sfida a duello e
lo uccide purificando così il luogo
sacro. I rimandi ad episodi biblici
sono molto evidenti, con i due fratelli, novelli Caino ed Abele, spinti
dalla donna che incarna il male che
porta alla distruzione .
Tale episodio si presta ad un
confronto con l’opera di Pirandello
Sagra del Signore della Nave, scritta
nel 1924, che se pur molto distante
per trama e stile, presenta tuttavia
dei punti d’incontro con La Nave di
d’Annunzio.
In particolare entrambe le opere evidenziano il ruolo fondamentale della folla, alternano voci e
personaggi seguendo uno schema
apparentemente confuso, in realtà ben orchestrato e architettato,
necessitano di un gran numero di
attori per la messa in scena. Inoltre
è rilevante il rapporto tra religione
e cultura popolare, sia nell’aspetto
rituale che emotivo.
La Sagra del Signore della Nave
è un atto unico tratto dalla novella
Il Signore della Nave in cui una processione e la folla sono i veri protagonisti. 20
La trama è esile: in occasione di
una festa paesana coincidente con
l’annuale macellazione del maiale,
il signor Lavaccara fa uccidere il
suo animale, ma se ne pente e si dispera perché era particolarmente
intelligente.
Un pedagogo lo consola e cerca di convincerlo che solo gli uomini possiedono l’intelligenza.
Ma durante la celebrazione intorno a loro tutto sembra contraddire questa tesi: i paesani stanno
festeggiando il santo abbandonandosi al vino, alla lussuria, alle
orge, con atteggiamenti violenti e
bestiali, in una escalation di esaltazione degli istinti più bassi.
Solo all’arrivo della processione
e al rintocco delle campane della
chiesa la folla immediatamente si
ricompone e si inginocchia di fronte all’immagine del Cristo insanguinato, un crocefisso appartenuto ad
una nave proveniente dall’oriente,
e recita il “mea culpa” per paura
della punizione divina.
Le due opere descrivono un
mondo primitivo pagano coesistente con un mondo religioso
cristiano, dove è evidente l’opposizione peccato/ penitenza, colpa
/espiazione.
In entrambe abbiamo un sacrificio: il maiale in una, il vescovo Sergio nell’altra.
Le folle si abbandonano alle
gozzoviglie e agli istinti primitivi, ma poi si pentono e si prostrano di fronte ai simboli cristiani (il crocefisso in Pirandello,
18 LA NAVE Tragedia di Gabriele d’Annunzio, cit., pag. 138
19 GABRIELE D’ANNUNZIO, Tragedie, sogni e misteri a cura di Annamaria Andreoli, Tomo II, pag.1579
20 “una folla paesana colorita e vivace si muove tra le baracche della fiera campestre – marinai, prostitute, venditori ambulanti vanno e vengono tra i canti, le grida degli imbonitori, quasi
una musica stridula e penetrante”
CORRADO SIMIONI, Sagra del Signore della Nave. Introduzione in Il teatro di Luigi Pirandello, Milano, Oscar Mondadori Editore, 1980, pag. XXXIV
14
la grande croce equilatere in
d’Annunzio).
In particolare la processione
rappresenta quel momento di aggregazione e recupero dei valori
religiosi e penitenziali, riconducibili
alla simbologia e ritualità dei tempi
antichi.
In d’Annunzio è sia un momento di celebrazione e omaggio alle
reliquie dei Santi Martiri Tutelari,
sia un modo di sottolineare la vittoria del cristianesimo sul paganesimo, incarnato da Basiliola e dalle
sue danze orgiastiche. Egli manifesta un profondo rispetto per la
religione, riprendendo da essa la
magnificenza del linguaggio e la
solennità del rito.
In Pirandello c’è ambiguità.
Dice il giovane pedagogo in chiusura del dramma:
sta come Duilio Cambellotti.
In occasione della prima rappresentazione al teatro Argentina
di Roma nel 1908 egli disegnò i
costumi e le scenografie. Essi risultarono estremamente ricercati e
di grande effetto, ottenuto grazie
ad uno studio accurato dell’epoca,
alla sua passione da archeologo,
alla sua abilità di ricreare perfettamente le atmosfere del passato,
all’utilizzo di materiali puri e non
convenzionali nel teatro della sua
epoca, all’impiego di artigiani veri
per la loro realizzazione. 22
Un enorme scafo di nave fu
costruito sul palcoscenico del teatro Argentina di Roma, “costrutta
con tutte le arti del mestiere, da
un fiumarolo del Tevere, calafato
e maestro d’ascia [… ] occupa tutto il fondo del palcoscenico. Alcuni
operai le danno un’ultima mano di
pece, della vera pece. Duilio Cambellotti forte e barbuto che si è rivelato in questa circostanza artista
potente e geniale dava gli ultimi
tocchi alle scene in una foresta di
lampade votive, di candelabri, di
remi, di croci e di armi” 23
No, no, vede? Piangono, piangono! Si sono ubriacati, si sono
imbestiati; ma eccoli qua ora che
piangono dietro al loro Cristo insanguinato! E vuole una tragedia
più tragedia di questa?21
Forse la tragedia consiste nel
fatto che le persone vengono descritte nella loro dannazione, a
causa di un ravvedimento tardivo
e senza valore, per cui piangono
inutilmente. E allora il pentimento
per non aver salvato il maiale è lo
stesso degli uomini che troppo tardi hanno trovato la propria fede.
Oppure nel loro pianto si può vedere la conversione operata da quel
crocefisso miracoloso che offre la
possibilità della salvezza.
Sia il testo di d’Annunzio che quello di Pirandello hanno in comune il
trionfo di Cristo e il ruolo della processione, il cui scopo è di riunire i fedeli
nella comune venerazione, di trovare
nei simboli cristiani un momento di
aggregazione e di espiazione .
E così la tragedia individuale si
collega alla tragedia della folla che
vive in parallelo e amplifica i sentimenti e le angosce dei protagonisti.
L’opera dannunziana, per la
forza drammatica della trama, per
la sua dimensione corale e religiosa, per l’ambientazione storica ben
si presta ad ispirare un grande arti-
Così viene descritta sull’Illustrazione italiana del 19 gennaio 1908 la grandiosa scenografia. Dalle immagini che Duilio Cambellotti disegnò per la rivista è evidente quanto la nave
vera 24dovette impressionare il pubblico dell’epoca e come attorno a questo “gigante” fosse
possibile ricreare con grande efficacia quelle scene di massa così ricorrenti nel testo.
21 Ibid. pag.136-137
22“[…] per quella virtù che è in lui di dare forma alle immagini antiche e di suscitare tutta una civiltà dimenticata, dai pochi frammenti sparsi nei musei o fra le rovine. Perché egli è veramente uno dei pochi artisti i quali abbiano il «senso della storia» il potere, cioè, di creare un mondo fuori dalle ombre in cui era sepolto” DIEGO ANGELI, Lo scenografo della “Nave”:Duilio
Cambellotti in «Il Marzocco», cit.
23 “A Roma nel giorno del varo”, sabato 11 gennaio in « L’Illustrazione italiana», Anno XXXV n°3, 19 gennaio 1908
24 “[…]posta sopra un vero scalo, così che, tolti i puntelli, può scendere come se veramente fosse varata”
GIOVANNI POZZA, La tragedia, in «Il Corriere della sera», 12 gennaio 1908
15
“Angelico porco alato”:
d’Annunzio e la censura
Antonio Armano
“Se qualcuno mettesse quel libro nelle mani di mia figlia non aspetterei la legge, gli sparerei”. Il libro con
cui ce l’ha il magistrato Crane si intitola The Triumph of Death. La traduzione inglese del romanzo di d’Annunzio (Il trionfo della morte) finisce alla sbarra nel 1897 a New York. Su segnalazione – nientemeno – di Anthony
Comstock, il terribile segretario della Lega per la soppressione del vizio. Un personaggio molto attivo e aggressivo nel denunciare ogni opera in odore di peccato, che gira armato di revolver ed è dotato di potere di
arresto, come racconta Gay Talese nella Donna d’altri, magnifica inchiesta sull’evoluzione dei costumi in America, recentemente ripubblicata dal Saggiatore.
16
In una raccolta di casi di censura per oscenità negli Stati Uniti
(Literature Suppressed on Sexual
Ground), Down B. Sova parla della
vicenda che riguarda d’Annunzio e
di cui si occupa pure il New York Times alla fine dell’800. The Triumph
of Death è l’unico libro italiano processato in America per questo tipo
di crimine, se non contiamo il Decameron. George H. Richmond junior
e suo padre, cioè il distributore e
l’editore del romanzo, sono gli imputati. Dall’altra parte dell’oceano
l’autore si gode la gloria – almeno
dopo l’assoluzione -, e il relativo
successo di vendite.
D’Annunzio non è ignoto al
grande pubblico internazionale
dai tempi di The Child of Pleasure. Il
piacere, l’esordio narrativo che lo
fa conoscere al mondo, ha sedotto i più grandi scrittori – compreso
Joyce - e fa parlare di rinascita della
letteratura nell’Italia post-Risorgimento. La versione inglese è stata
pubblicata, come spesso avveniva,
in una traduzione edulcorata, seppur buona - a quanto pare - nella
resa del sofisticato stile, causa
temperie vittoriana e puritana.
Solo nel 2013, per il 150esimo
anniversario della nascita dell’Immaginifico, Penguin Classics ha
rimesso in stampa l’opera in una
nuova
traduzioneuncensored,
unexpurgated, e con un titolo più
fedele, The Pleasure. Un retour de
flame tra lo scrittore e i lettori di
lingua inglese acceso da The Pike:
Gabriele d’Annunzio: Poet, Seducer
& Preacher of War (Il luccio: Gabriele d’Annunzio: poeta, seduttore
e guerrafondaio). La biografia di
Lucy Hughes-Hallet, sempre uscita nel 2013, ha vinto ben tre premi
letterari: il Samuel Johnson per la
non-fiction, il Costa per le opere
biografiche e il Duff Cooper. Rizzoli l’ha pubblicata in Italia. In breve:
d’Annunzio è tornato in auge a livello globale, dopo il lungo oblio
dovuto a vari motivi come la compromissione col fascismo, di cui è
stato un ispiratore, ma soprattutto
il carattere datato di molte delle
sue opere, alcune delle quali oggi
sono praticamente illeggibili.
Tornando alle vicende censorie,
in Italia d’Annunzio si è meritato
il soprannome di “angelico porco
alato” per via dell’erotismo raffinato che stilla dalla sua prosa ma
nessuno ha provato a mettergli la
mordacchia, al netto del biasimo
di certi critici come il Gargano che
così recensisce Forse che sì, forse
che no (1910): “Bisogna insomma
gridare ch’egli non sa scrivere se
non nel fondo buio di uno stagno
melmoso ove si lordano perpetuamente di belletta negra le creature più care al suo sogno: creature
fatte di egoismo e di bestiale lussuria”. Tra il Superuomo (Supermen,
in inglese) e la preda della sua
temporanea o eterna passione, in
realtà, non può accadere nulla di
gretto e triviale tantomeno tra le
lenzuola di seta. Casomai qualcosa di trasgressivo, incesto incluso.
Nel Piacere ci sono alcune descrizioni ardite, ma sempre sfumate in
uno stile sublime e decadente, mai
dettagliate e realistiche. Si parla a
un certo punto di una donna completamente calva colà dove non
batte il dolce sole romano, una
specie di attrazione tra i mondani amici del protagonista Andrea
Sperelli. Effetto ceretta brasiliana
totale ante litteram... Elena Muti,
la donna di cui Sperelli è perdutamente innamorato, ha un facoltoso marito inglese – oggi diremmo sugar daddy? – che possiede
una biblioteca segreta con testi
libertini di vario genere, compresa
una tremenda raccolta di tavole
necrofile. Il resto sono sensazioni
fluttuanti nell’iperuranio di un universo di aggettivi e iperboli al calor
bianco. Niente a che vedere con il
crudo realismo di un Émile Zola.
Lo stesso vale per The Triumph
of Death, dove si narra dell’amore
tra Giorgio e Ippolita, naturalmente sposata, perché il Superman
dannunziano non si fa scrupoli
borghesi e non è mai incatenato
nelle angustie di un matrimonio o
di una relazione da comuni mortali. Visto che siamo in zona centenario prima guerra mondiale, vale la
pena di ricordare come il divorzio
sia stato introdotto da d’Annunzio nella Carta del Carnaro, la costituzione di Fiume, ma lui stesso
non ne ha approfittato restando
formalmente sposato a Maria Hardouin di Gallese. La vicenda del
romanzo si conclude con la morte
degli amanti, in un salto nel vuoto
da cupio dissolvi. A parte l’epilogo
tragico, riflette la storia d’amore
tra l’autore e Elvira Leoni, in parte
ambientata in un atavico Abruzzo
che minaccia il protagonista/ auto-
re con tutte le sue miserie spirituali
e materiali.
Secondo quanto dice Down
B. Sova, alcuni punti spinti, sono
tutt’al più rintracciabili nelle pennellate che dipingono Ippolita: il
suo “sterile abdomen”, “the narrowness of her tigh”. Più in generale, il puritanesimo di Comstock
deve essere stato colpito dalla
carica sensuale del libro e dal coefficiente di trasgressione, per non
parlare della decadente esaltazione finale della morte di coppia.
Comstock pretendeva di sottoporre a giudizio i singoli punti incriminati mentre la corte, in quella primavera del 1897, esamina l’opera
nel suo insieme non trovandola
oscena o censurabile.
Il segretario della Lega per la
soppressione del vizio ci riprova in
New Jersey, e più precisamente ad
Asbury Park, luogo di villeggiatura
estiva. Negli Stati Uniti la legge federale permetteva di agire contro
i libri tacciati di oscenità in ogni
singolo Stato, ma il tentativo va a
vuoto e il New York Times ridicolizza il censore in un corsivo intitolato
“D’Annunzio at Asbury Park” del
24 luglio 1897. L’unico effetto raggiunto è quello di creare pubblicità
e incrementare le vendite secondo un meccanismo del succèss de
scandale di cui il Vate è maestro se
non precursore assoluto visto che
17
lo associano spesso a Oscar Wilde
nella concezione della vita come
opera d’arte.
I percorsi dei due dandy si incrociano a Parigi. Diventato un
artista di primo piano, non solo in
Italia, d’Annunzio si trasferisce in
una dimora consona, la Capponcina, una villa quattrocentesca
in Toscana degna di un principe
rinascimentale. Il suo santo prediletto è San Francesco ma l’unica cosa che li accomuna sono le
mani bucate. I debiti lo assillano al
punto da costringerlo a un tour di
conferenze ben remunerate, che
lo distraggono dal lavoro, molto
intenso e proficuo in quegli anni,
ma non risolvono le pendenze. Più
guadagna e più spende. Per sfuggire ai creditori si accorda per un
altro ciclo di bagni di folla, questa
volta in Argentina. Si fa anticipare
una ingente somma promettendo
di salpare da Parigi, dopo essersi
curato i denti, ma resta in Francia a
lungo nella atmosfera sfavillante e
morbosa della belle époque.
18
A Parigi resta folgorato da Ida
Rubinstein, la ballerina rimasta
senza veli nell’ultima scena della Salomè di Wilde, con conseguente chiusura dello spettacolo: da
tempo cercava qualcuno che interpretasse un’opera su San Sebastiano e le gambe lunghe e affusolate
della russa gli sembrano quelle giuste per il santo. Un San Sebastiano
interpretato da una ebrea e per
giunta saffica non entusiasma la
Chiesa che va in fibrillazione mentre le notizie sulla preparazione
vengono fatte filtrare ad arte sulla
stampa per creare una grande attesa dell’evento dell’anno. D’Annunzio riesce a convincere Claude
Debussy a comporre le musiche e
si cimenta nella scrittura dei testi
in un francese intarsiato di termini
aulici e medievali che far parlare di
lui come dell’ultimo dei trovatori o
dell’artefice di una lingua poetica
inesistente e falsa.
Il libretto del martirio di San
Sebastiano è stato da poco pubblicato dalla casa editrice Elliot,
con la traduzione in italiano, oltre al testo francese, le immagini
dei costumi e delle scenografie, e
un’ampia prefazione di Paola Sorge che ricostruisce la mirabolante
vicenda. La première si tiene il 22
maggio del 1911 al teatro Châtelet di Parigi e vi assiste tutto il bel
mondo, compreso Marcel Proust
che confesserà di essersi annoiato.
La serata viene definita un “glorioso fiasco”, per quel cockatil di sfarzo e tedium risultante da una mise
en scène dove tutto è eccessivo ed
estenuante, dai colori alla durata
dello spettacolo. Del dramma visivo dannunziano, giocato sull’ambiguità sessuale e su un estetismo
paganeggiante e medievale, resta
la musica di Debussy che viene
giudicata inconciliabile con tutto
resto, ed è languida, sommessa e
misteriosa. Molto meno numerose
le repliche con testo.
Il Vaticano, poco prima della
prèmiere, mette all’indice i romanzi, i racconti e le opere teatrali di
d’Annunzio: una buona parte della sua creazione. La condanna del
Sant’Uffizio, per trame sensuali, blasfemia, accondiscendenza
dell’autore di fronte alle perversioni dei personaggi, viene ricostruita da Matteo Brera in un saggio sui Quaderni del Vittoriale (n.
8/2012). Il lavoro preparatorio per
la Congregazione viene svolto da
un cappuccino di Monterotondo,
Giuseppe Maria Checchi: “Ed epicureo – scrive - è il d’Annunzio:
non di bassa lega, ma aristocratico,
artistico, filosofico; siccome colui
che scrive per i saloni di gente per
bene. Egli infine è un superuomo,
pieno di sé, disprezzator della plebe, e disprezzatore degli infelici, a
guisa appunto dei pagani”.
Sempre sospeso tra una passatismo di maniera e slanci moderni
– la passione aviatoria per esempio, la grandissima abilità divistica
e autopromozionale – d’Annunzio
è sicuramente moderno nell’introdurre tematiche trasgressive in una letteratura assai casta
come quella italiana. Tra Manzoni, Leopardi e Carducci, protesta
Alfredo Sandulli in Arte delittuosa, un saggio degli anni ‘30, si
stava così bene. Poi è arrivato il
“poeta porco”. Se il priapistico
d’Annunzio “scrive vivendo e vive
scrivendo”, come nota Alexander
Stille nella prefazione di The Pleasure, cioè mescola le carte tra l’arte e la vita, anche l’opera riflette
il vitalismo erotico dell’artista. A
tutt’oggi la ricerca più frequente
associata in Internet al suo nome
riguarda la leggenda metropolitana dell’autofellatio, molto diffusa,
tra l’altro, tra gli studenti in visita
al Vittoriale. Bisogna invece dire,
spiega Giordano Bruno Guerri,
presidente della fondazione Il
Vittoriale degli Italiani, che i suoi
sogni non erano molto diversi da
quelli della maggior parte degli
uomini: da giovane gli piacevano le donne mature, da anziano
quelle giovani, e sempre i giochi
a tre, vale a dire con due donne, nonché le storie con amanti
saffiche... A rendere speciale ed
eclatante la vita di d’Annunzio
era il fatto che lui realizzava i suoi
sogni, diversamente dalla maggior parte degli uomini. Talvolta,
come scrive Guerri in La mia vita
carnale (Mondadori), una biografia passionale del Vate, lui stesso
alimentava le leggende mettendo in giro storielle al limite della
perversione: per non spaventare
le donne che vedevano sulle sue
parti intime delle cicatrici, diceva
per esempio che l’aveva morso il
cane proprio lì. E dire che amava
i levrieri... Mentre si trattava delle
tracce della sifilide.
LA ROMANZA DA SALOTTO,
ESPRESSIONE DI CIVILTA’ SOCIALE
Francesca Guerrasio
E’ innegabile, soprattutto alla luce di numerosi studi di musicologia, che la romanza da salotto fu un fenomeno non solo musicale ma anche socio-culturale di ampie
dimensioni che interessò i compositori italiani per tutto l’Ottocento e mise alla
prova una generazione intera di melomani e professionisti, fornendo al pubblico
un amusement fugace, al dilettante un breve momento di divismo, al compositore
una prova di stile e all’editore di quella musica un mezzo commerciale importante
per la divulgazione di trascrizioni e riduzioni di vario genere.
19
Quando nel secondo ottocento
la diffusione del pianoforte investì
i salotti dell’aristocrazia italiana e
della borghesia “perbene”, la romanza divenne, infatti, una delle
forme estetiche più in voga tanto
da richiedere un impegno compositivo quasi esclusivo da parte di
veri specialisti.
“Espressione di civiltà sociale”,
la tradizione del concerto in casa,
animato da melodie ammiccanti
talvolta composte su testi letterari
di insigni poeti, caratterizza gli anni
della Belle Époque durante i quali la
musica e la cultura, autentiche forze di crescita morale e civile, diventano protagoniste di serate raffinate spesso esaltate dalla presenza
di grandi personalità dell’epoca:
Carella, Cilea, Tosti…
Celebri romanze fanno da colonna sonora ad una società che la
studiosa Giovanna Scarsi1 definisce
lucidamente “perbenista, affettata
ed ipocrita”, assetata di brevi palpiti ed intense emozioni erotiche.
Le capitali italiane della musica, Napoli in testa, sono i centri
di esportazione di talenti di fama
mondiale (e della rinomata scuola
pianistica napoletana che ebbe tra
i primi iniziatori Francesco Lanza),
che trovando a Londra uno dei poli
di maggior interesse, danno vita
non solo all’internazionalizzazione
del genere ma anche ad un ampio
sviluppo editoriale testimoniato, in
particolare, dall’impresa di Ricordi.
Inizialmente, la romanza sembra pronunciare il tipico patetismo
delle apostrofi, delle suppliche,
degli accorati vocativi e dei vani
imperativi con temi quasi più drammatici che lirici che spaziano dall’esilio all’amor patrio, dal tormento
amoroso alla morte, declinati a
mo’ di versi da feuilleton. Tanto è
che i giudizi di insigni compositori
sottolineano inequivocabilmente
lo scarso valore poetico e l’esasperazione di temi anche nobili “involgariti” dalla cultura medio-bassa di
una piccola borghesia.
Ildebrando Pizzetti, in particolare, in un saggio apparso nel 1914
dal titolo Musicisti contemporanei,
non nasconde il giudizio acerrimo
per quei compositori che adeguandosi alle esigenze del pubblico, prestavano più attenzione ad
una musicalità di facile presa che
alla profondità dei testi musicati
propendendo, sovente, per scelte
poetiche che esaltassero il sentimento dell’amore e per atmosfere
“funeree, popolate di amanti abbandonati, di vedove inconsolabili,
di giovani morte prematuramente,
possibilmente consunte dalla tisi2”.
“[…] quando vogliono scrivere
delle romanze, scelgono fra tutte
le poesie che hanno sott’occhio,
le più insulse, le più sciocche, o per
averle come essi le desiderano, se
le fanno scrivere apposta da qualche amico compiacente […]3”.
Man mano che la romanza assume un ruolo importante nella vita
culturale del Paese e si diffonde in
Europa, il contesto cambia in favore di situazioni meno languide e
di testi meno legati alla tradizione
“sentimentalistica”. Dietro i fasti e i
luccichii delle paillettes delle prime
romanze, questa, nella fase matura, rivela un suo carattere drammatico e sociale, avvalendosi di una
poesia di interessante valore “che
ebbe il torto di non essere frutto
dei grandi poeti italiani del tempo
(D’Annunzio escluso), ma alla quale dettero importanti contributi letterati e poeti di ispirata perizia e di
dignitosa vena creativa4”.
La disunità artistica nella letteratura cameristica vocale, che
si manifesta in Italia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento,
permette ai compositori una maggiore libertà di espressione che si
traduce in un linguaggio poetico
rinnovato sia nei contenuti che
nella struttura formale più varia e
1 Giovanna Scarsi, La leggenda dell’artista nella Belle époque, Roma, Edizioni Studium. La memoria di Giovanna Scarsi ci riporta indietro di mezzo secolo e più, ad uno dei tanti sabato
fascista che se ne va sulle note di una romanza intonata dal soprano Elsa Scarsi. Il souvenir nostalgico di quelle note raffinate, fornisce lo spunto storico per delineare la genesi della
romanza e della canzone da salotto che affonda le proprie radici nella consuetudine del concerto in casa.
2 Raoul Meloncelli, “Poesie e poeti della romanza da salotto”, in SANVITALE, Francesco (a cura di), La romanza italiano da salotto, p. 69.
3 Ildebrando Pizzetti, Musicisti contemporanei, Milano, Fratelli Treves, 1914, p. 4.
4 SANVITALE, Francesco, “Il salotto italiano dell’Ottocento: non solo i sospiri di Nonna Speranza”, in SANVITALE, Francesco (a cura di), La romanza italiano da salotto, Torino, EDT, 2002,
p. 4. Tra i numerosi contributi letterari Sanvitale ricorda in particolare quello di Enrico Panzacchi, Lorenzo Stecchetti, Errico Fogazzaro, Francesco Cimmino, Rocco Eduardo Pagliara,
Giovanni Alfredo Cesareo, Martini che “lavoravano onestamente per prodotti di pregio e che oggi vengono così malgiudicati senza essere letti”.
20
meno legata allo schema strofico.
Tra i primi ad evitare toni retorici inflazionati oltre misura, Fabio
Campana (1819-1882), autore di romanze, canzoni e melodie, molto
apprezzato da Rossini e dal pubblico dei salotti londinesi per le sue
linee melodiche semplici. Benchè
i testi delle sue romanze non fossero eccelsi, la buona fattura degli
stessi anticiparono e favorirono,
con la loro varietà, il successo che
avrebbero incontrato, più tardi, le
composizioni di Tosti. Quest’ultimo, profondo conoscitore dell’arte vocale, si distinguerà particolarmente per uno stile elegante,
sentimentale ma non sdolcinato
e per la scelta di testi raffinati ma
semplici che corrispondevano al
suo modo di sentire.
Prezioso collaboratore dei più
grandi interpreti del tempo tra cui
Enrico Caruso e Nellie Melba per
esempio, si avvalse dell’esperienza di brillanti letterati italiani (Ada
Negri, Emilio Praga, Salvatore di
Giacomo, Giosué Carducci…anche
solo per isolati episodi), inglesi
(Weatherly, Sowerby) e francesi
(Victor Hugo, Alfred de Musset,
Paul Verlaine) siglando nel 1881 un
felice sodalizio con Gabriele D’Annunzio che durerà fino al 1916.
Autore di quindici titoli e di
trentaquattro brani complessivi, il
poeta sarà legato a Tosti non solo
da un rapporto professionale prolifico e duraturo ma anche da una
sincera amicizia e da una stima
profonda per la persona. Il fascino
di quelle melodie semplici ma di
inconfondibile fisionomia, la cura
dell’espressione musicale e l’aderenza di questa ai contenuti del testo, diventano per il Vate fonte di
ispirazione letteraria e per il compositore il viatico per una carriera
internazionale. A Londra, in particolare, il compositore fu accolto
con molto entusiasmo sapendo
rinvigorire la ballata inglese con
un’impronta meno “dozzinale”.
La romanza da salotto ottocentesca si eleva, con Tosti e D’Annunzio, a lirica da camera portandosi dai
salotti borghesi e aristocratici nelle
sale da concerto fino ad entrare nei
repertori dei più grandi cantanti di
tutti i tempi dal ‘900 ad oggi e negli
studi di registrazione discografica.
Il sodalizio tra i due artistici inizia con “Visione”, ma nella dedica
dei sette Idilli selvaggi (contenuti
nella seconda edizione di Primo
vere), il giovane D’Annunzio esprime già la propria stima nei confronti del compositore, nominandolo per primo in una lista di dedicatari: “A F.P. Tosti, F.P. Michetti,
C. Barella, P. De Cecco questi scialbi pitiambici in ricambio del XXVI
Ottobre, un poema!...”.
Qualche anno più tardi, il suo
giudizio musicale impresso in un
articolo della Tribuna del 12 gennaio
1888, confermerà con veemenza la
propria ammirazione per i modi di
Tosti e per quel raffinato senso della
melodia che lo contraddistingueva:
“Francesco Paolo Tosti… cantava a bassa voce, con modulazioni
d’una inimitabile finezza quelle romanze dove spesso rivivono in tutta la loro natìa freschezza le canzoni della patria e dove una così limpida vena di melodia corre e scintilla
fra le sottili fioriture dell’armonia
accompagnante”.
L’accurato equilibrio tra melodia e armonia, il senso ritmico nel
rapporto tra musica e parola, l’attenzione agli eventi della cultura
artistica europea e ovviamente la
maestrìa nella scelta dei testi, sono
tutti elementi che hanno contribuito alla fama internazionale di Tosti ineguagliabile nell’ambito della
produzione italiana del genere.
Delle circa trenta romanze conosciute, nate dalla collaborazione
tra il poeta e il compositore, lo studioso Emiliano Mariano individua
due “maniere” diverse, coincidenti
con due periodi ben definiti: il pri-
mo databile tra il 1880 e il 1892 che
corrisponde per D’Annunzio alla
fase della giovinezza artistica caratterizzata soprattutto dal tema
dell’amore e per Tosti dalla stagione di maggiore creatività durante
la quale firmerà anche numerosi
canti dialettali (come ad esempio
i Canti popolari abruzzesi); il secondo dal 1906-1916 caratterizzato da
atmosfere più intimistiche, temi
più complessi e forme musicali che
si allontanano dall’estetica della
romanza per andare incontro a
“momenti” musicali di una maggiore carica emotiva.
Lo schema di seguito riportato, permette di cogliere immediatamente alcuni aspetti delle varie
composizioni, a partire da quelli
formali, evidenti dalla dicitura che
segue il titolo. Tosti, infatti non impiegò mai il termine romanza preferendo indicazioni più pertinenti
all’estetica della composizione
come serenata, notturno, ninnananna, poemetto, canzone, melodia, arietta.
Prima maniera
1880 Visione!... Melodia
1882 Buon Capo d’Anno
1882 Vuol note o banconote?
1882 En Hamac
1887 Malinconia. Melodie
1883 Notte bianca. Serenata
1884 Arcano!... Melodia
1885 Vorrei. Melodia
1889 Ninna nanna
1892 Per morire. Melodia
1892 ‘A vucchella. Arietta di Posillipo
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Seconda Maniera
1907 Quattro canzoni di Amaranta
1911 Due piccoli notturni
1893 © 1919 Consolazione. Poemetto (diviso in otto momenti).
1916 La sera. Poemetto (diviso in
sei momenti)
E’ bene precisare che le date
sopra riportate fanno riferimento
a quelle inscritte sugli autografi conservati negli archivi Ricordi
che differiscono dal momento di
stampa o dall’anno del copyright
sovente molto postumo rispetto
alla creazione. Proprio gli autografi
rivelano un aspetto interessante
del momento di creazione e del
modus operandi del compositore:
attraverso la scrittura chiara, decisa e quasi priva di cancellature si
evince la compiutezza del progetto compositivo tale sin dall’inizio.
Tosti, cioè, aveva bene in testa
l’andamento delle linee melodiche e armoniche che solo in poche
occasioni ritoccherà limitandosi,
però, a piccole modifiche di posizione delle note che nulla cambiano della struttura armonica. Le
numerose indicazioni di agogica (a
tempo, col canto, sostenuto, stentato, con anima etc.), dinamiche e
tempi mostrano, inoltre, la volontà
di indirizzare precisamente l’interprete di quella musica. Un aspetto,
questo, che è particolarmente evidente nella prima fase di collaborazione con D’Annunzio poiché col
passare degli anni Tosti si limiterà
ad aggiungere alla musica semplici
segni di dinamiche.
Quanto a D’Annunzio, questi si
divertirà a firmare molti testi con
lo pseudonimo “gentile e aristocratico” secondo la definizione di
Emilio Mariano, di Mario de’ Fiori,
utilizzato soprattutto durante il tirocinio giornalistico alla Tribuna di
Roma e poi abbandonato a partire
dal 1893.
Due romanze non riportano,
curiosamente, alcuna firma: Buon
Capo d’Anno e Vuol note o banconote?, le uniche per altro a non essere
edite dalla casa Ricordi. Canzoni
d’occasione appariranno rispettivamente sul settimanale romano
di letteratura e varietà Capitan Fracassa e sul periodico quindicinale
letterario-sociale-artistico Cronaca
bizantina, la prima figurando come
augurio per l’avvento del nuovo
anno (1882) e la seconda come
uno scherzo musicale in omaggio
al direttore del giornale che è infatti il dedicatario di quella canzone.
Una nota anonima contenuta nel
numero 3 del periodico (1° febbraio
1882) ma attribuibile5 a D’Annunzio, ironizza sui tempi e lo stato
d’animo del compositore che non
appare soddisfatto di quel lavoro:
“L’incisione dello scherzo musicale di F.P. Tosti è un orrore: per
mancanza di tempo ormai siamo
costretti a darlo qual è. Il biondo Ciccillo stamani era disperato:
l’amministratore, per calmarlo, ha
deciso di non pagare l’allampanato
artista autore dello strazio. Chi sa
che il misero a quest’ora non stia
mulinando nella mente grama un
tuffo nel Tevere! O lettrici nervose,
non vi corre un brivido di raccapriccio per il candido solco nelle reni?”.
Il canto napoletano ‘A vucchella, chiude idealmente la fase giovane della collaborazione Tosti-D’Annunzio a partire dalla quale i testi
si allontano sempre più dai temi di
ispirazione tipici del genere (e del
resto già Ninna nanna risulta “anomala”) per andare incontro ad una
letteratura a tratti di carattere autobiografico e ad una parte musicale di più ampio respiro.
Alcune romanze: Per morire o
le Quattro canzoni di Amaranta,
per esempio, fanno cenno, con im-
5 Riccardo Allorto, “Nota storico-testuale” in Francesco Paolo Tosti, Romanze su testi di Gabriele D’Annunzio, cit. p. 191.
6 Giovanna Scarsi, La letteratura fra testimonianza e arte, Roma, Edizioni Studium, p. 58.
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peti di intensa drammaticità, alle
vicende autobiografiche del Vate;
inoltre il rapporto musica-testo
sembra invertito e si direbbe che la
melodia sia al servizio della parola
ed espressione diretta dello stato
d’animo da essa suggerito.
Per morire in particolare fa riferimento all’amore di D’Annunzio
per Barbara Leoni, a quell’amore
che fu per il poeta “molla del mondo, […] levame dell’arte […] in cui
si sublimano l’uomo e l’artista6”.
Per questo, probabilmente e malgrado il titolo, l’andamento della
romanza non è lento né grave ma
un “allegretto” che non mostra
cedimenti, se non fosse per quel
“poco meno” immediatamente
seguito da una ripresa del tempo
iniziale. L’armonia presenta pochi
elementi di reale interesse: scritta
nella tonalità di sib maggiore modula per lo più al grado di dominante concludendo con cadenze
perfette e introducendo sovente
un accordo di sesta napoletana.
La melodia procede per gradi congiunti con pochi salti intervallari
che raramente eccedono la IV o
la V giusta (in posizione discendente). Le uniche distanze più
ampie si riscontrano nel passaggio
“allegretto”/“poco meno” (intervallo di VI maggiore ascendente) e
sulla divisione sillabica della parola
“amore” e “basta” quasi a significare il senso di lacerazione ma anche di apertura verso il nuovo che
risulta dalla fine di quella relazione
sentimentale. Stilema della scrittura tostiana è l’impiego del cromatismo che unitamente ai gradi della
scala abbassati sono finalizzati
all’ottenimento dei cosiddetti semitoni “patetici” utilizzati per ovvie esigenze drammaturgiche.
Nonostante la semplicità della
scrittura musicale e del testo poetico, il risultato è di un’estrema
delicatezza ed eleganza; la musica
si sposa e si sublima nella parola
sincera di un uomo che mostra con
disinvoltura il proprio narcisismo e
la propria infedeltà indispensabile
tanto nella vita quanto nell’arte
perché sinonimo di rinnovamento
necessario “per non morire” e giustificato dall’ansia della ricerca di
un ideale di Bellezza-Armonia.
L’eroe
Gabriele D’Annunzio da Le novelle della Pescara
Sia pur non mancando novelle di toni diversi, vicine a certi tratti del realismo patetico (come il ritratto
della povera lavandaia in La fine di Candia, accusata ingiustamente di furto, o del bozzetto regionale
nella descrizione del rapsodo cattolico Mungià o, con qualche tratto di fantasia, le due novelle dedicate
a Turlendana, il marinaio creduto morto), le tematiche significative nelle Novelle della Pescara, rimangono quelle legate al sangue, alla violenta sensualità e religiosità ancestrale magari nascosta dentro i
riti cristiani, nel loro momento di massima visibilità della superstizione, nel movimento della folla delle processioni nel dittico Gli idolatri – L’eroe, dove, dando vita ad un vero e proprio massacro, si affrontano due schiere rivali, divise dal culto: l’una per San Pantaleone, l’altra per San Gonselvo. Descritto,
nel primo frammento, lo scontro cruento tra le due schiere, con la sconfitta di San Pantaleone, in L’eroe, pubblicata sulla “Cronaca Bizantina” nel novembre del 1885 e poi in San Pantaleone, con uno stile
secco, incisivo, incalzante, si rimane nella medesima atmosfera di una grandiosità sinistra, di volontà
feroce nella superstizione e nella competizione virile, fin dai nomi dei protagonisti, con i sostenitori del
Santo vincitore impegnati a innalzare la statua che però tentenna con l’enorme peso, schiacciando la
mano di uno dei portantini.
Con un gesto raccapricciante, tra eroico e follemente superstizioso, l’uomo, salito sull’altare, innalzandosi cioè sopra al popolo che inorridisce, lava la sua imperfezione, tagliando completamente la mano
ferita e, lasciandola scivolare nel bacino delle offerte, la dona al Santo.
Già i grandi stendardi di San Gonselvo erano usciti su la piazza ed
oscillavano nell’aria pesantemente. Li reggevano in pugno uomini
di statura erculea, rossi in volto e
con il collo gonfio di forza, che facevano giuochi.
Dopo la vittoria su i Radusani, la
gente di Mascàlico celebrava la festa di settembre con magnificenza
nuova. Un meraviglioso ardore
di religione teneva gli animi. Tutto
il paese sacrificava la recente ricchezza del fromento20 a gloria del
Patrono. Su le vie, da una finestra
all’altra, le donne avevano tese le
coperte nuziali. Gli uomini avevano
inghirlandato di verzura le porte e
infiorato le soglie. Come soffiava il
vento, per le vie era un ondeggiamento immenso e abbarbagliante
di cui la turba si inebriava.
Dalla chiesa la processione seguitava a svolgersi e ad allungarsi su la
piazza. Dinanzi all’altare, dove San
Pantaleone era caduto, otto
uomini, i privilegiati, aspettavano
il momento di sollevare la statua
di San Gonselvo; e si chiamavano:
Giovanni Curo, l’Ummàlido, Mattalà, Vincenzio Guanno, Rocco di
Céuzo, Benedetto Galante, Biagio
di Clisci, Giovanni Senzapaura. Essi
stavano in silenzio, compresi della
dignità del loro ufficio, con la testa un po’ confusa. Parevano assai
forti; avevano l’occhio ardente dei
fanatici; portavano agli orecchi,
come le femmine, due cerchi d’oro. Di tanto in tanto si toccavano i
bicipiti e i polsi, come per misurarne la vigoria; o tra loro si sorridevano fuggevolmente.
La statua del Patrono era enorme,
di bronzo vuoto, nerastra, con la
testa e con le mani di argento, pesantissima.
Disse Mattala:
– Avande!
In torno, il popolo tumultuava per
vedere. Le vetrate della chiesa romoreggiavano ad ogni colpo di
vento. La navata fumigava di incenso e di belzuino.23 I suoni degli
stromenti giungevano ora sì ora
no. Una specie di febbre religiosa
prendeva gli otto uomini, in mezzo
a quella turbolenza. Essi tesero le
braccia, pronti.
Disse Mattala:
– Una!... Dua. Trea!...
Concordemente, gli uomini fecero lo sforzo per sollevare la statua di su l’altare. Ma il peso era
soverchiante: la statua barcollò a
sinistra. Gli uomini non avevano
potuto ancóra bene accomodare
le mani intorno alla base per prendere. Si curvavano tentando di resistere.
Biagio di Clisci e Giovanni Curo,
meno abili, lasciarono andare. La
statua piegò tutta da una parte, con
violenza. L’Ummàlido gittò un grido.
23
– Abbada! Abbada! – vociferavano
intorno, vedendo pericolare il Patrono. Dalla piazza veniva un frastuono grandissimo che copriva le
voci.
L’Ummàlido era caduto in ginocchio; e la sua mano destra era rimasta sotto il bronzo. Così, in ginocchio, egli teneva gli occhi fissi alla
mano che non poteva liberare, due
occhi larghi, pieni di terrore e di dolore; ma la sua bocca torta non gridava più. Alcune gocce di sangue
rigavano l’altare.
I compagni, tutt’insieme, fecero
forza un’altra volta per sollevare
il peso. L’operazione era difficile.
L’Ummàlido, nello spasimo, torceva la bocca. Le femmine spettatrici
rabbrividivano.
Finalmente la statua fu sollevata; e l’Ummàlido ritrasse la mano
schiacciata e sanguinolenta che
non aveva più forma.
24
– Va a la casa, mo ! Va a la casa ! –
gli gridava la gente, sospingendolo
verso la porta della chiesa.
Una femmina si tolse il grembiule e
gliel’offerse per fasciatura.
L’Ummàlido rifiutò. Egli non parlava; guardava un gruppo d’uomini
che gesticolavano in torno alla statua e contendevano.
– Tocca a me!
– No, no! Tocca a me!
– No! A me!
Cicco Ponno, Mattia Scafarola e
Tommaso di Clisci gareggiavano
per sostituire nell’ottavo posto di
portatore l’Ummàlido.
Costui si avvicinò ai contendenti.
Teneva la mano rotta lungo il fianco, e con l’altra mano si apriva il
passo.
Disse semplicemente:
– Lu poste è lu mi’
E porse la spalla sinistra a sorreggere il Patrono. Egli soffocava il
dolore stringendo i denti, con una
volontà feroce.
Mattala gli chiese:
– Tu che vuo’ fa’?
– Egli rispose:
– Quelle che vo’ Sante Gunzelve.
E, insieme con gli altri, si mise a
camminare. La gente lo guardava
passare, stupefatta. Di tanto in
tanto, qualcuno, vedendo la ferita
che dava sangue e diventava nericcia, gli chiedeva al passaggio:
– L’Ummà, che tieni?
Egli non rispondeva. Andava innanzi gravemente, misurando il passo
al ritmo delle musiche, con la mente un po’ alterata, sotto le vaste
coperte che sbattevano al vento,
tra la calca che cresceva.
All’angolo d’una via cadde, tutt’a
un tratto. Il Santo si fermò un istante e barcollò, in mezzo a uno scompiglio momentaneo: poi si rimise in
cammino. Mattia Scafarola subentrò nel posto vuoto. Due parenti
raccolsero il tramortito e lo portarono nella casa più vicina.
Anna di Céuzo, ch’era una vecchia
femmina esperta nel medicare le
ferite, guardò il membro informe e
sanguinante; e poi scosse la testa.
– Che ce pozze fa’?
Ella non poteva far niente con
l’arte sua.
L’Ummàlido, che aveva ripreso
gli spiriti, non aprì bocca. Seduto,
contemplava la sua ferita, tranquillamente. La mano pendeva, con le
ossa stritolate, oramai perduta.
Due o tre vecchi agricoltori venne-
ro a vederla. Ciascuno, con un gesto o con una parola, espresse lo
stesso pensiero.
L’Ummàlido chiese:
– Chi ha purtate lu Sante?
– Gli risposero:
– Mattia Scafarola.
– Di nuovo, chiese:
– Mo che si fa?
– Risposero:
– Lu vespre ‘n mùseche.
– Gli agricoltori salutarono. Andarono al vespro. Un grande scampanìo veniva dalla chiesa madre.
– Uno dei parenti mise accanto al
ferito un secchio d’acqua fredda,
dicendo:
– Ogne tante mitte la mana a qua. Nu
mo veniamo. Jame a sentì lu vespre.
– L’Ummàiido rimase solo. Lo scampanìo cresceva, mutando metro. La
luce del giorno cominciava a diminuire. Un ulivo, investito dal vento, batteva i rami contro la finestra bassa.
– L’Ummàlido, seduto, si mise a bagnare la mano, a poco a poco.
Come il sangue e i grumi cadevano,
il guasto appariva maggiore.
– L’Ummàlido pensò:
– È tutt’inutile. È pirduta. Sante
Gunzelve, a te le offre.
– Prese un coltello, e uscì. Le vie
erano deserte. Tutti i devoti erano
nella chiesa. Sopra le case correvano le nuvole violacee del tramonto
di settembre, come mandre26 fuggiasche.
– Nella chiesa la moltitudine agglomerata cantava quasi in coro, al
suono degli stromenti, per intervalli
misurati. Un calore intenso emanava dai corpi umani e dai ceri accesi.
La testa argentea di San Gonselvo
scintillava dall’alto come un faro.
– L’Ummàlido entrò. Fra la stupefazione di tutti, camminò sino
all’altare.
– Egli disse, con voce chiara, tenendo nella sinistra il coltello:
– Sante Gunzelve, a te le offre.
– E si mise a tagliare in torno al
pólso destro, pianamente, in cospetto del popolo che inorridiva.
La mano informe si distaccava a
poco a poco, tra il sangue. Penzolò un istante trattenuta dagli ultimi
filamenti.
Poi cadde nel bacino di rame che
raccoglieva le elargizioni di pecunia, 27 ai piedi del Patrono.
– L’Ummàlido allora sollevò il
.moncherino sanguinoso; e ripetè
con voce chiara:
– Sante Gunzelve, a te le offre.
Proposte di lettura:
Dario Buzzolan, Andrea Zanzotto
Claudio Cherin
Se trovo il coraggio di Dario Buzzolan
Edito dalla Fandango Libri1, Se
trovo il coraggio di Dario Buzzolan
è un romanzo che racconta la disillusione, l’amarezza e il non aver
voce di fronte ad un mondo apparentemente lontano che ritorna
anche se per anni accantonato in
un recondito antro della mente del
protagonista, Matteo.
Il passato che si pensava di aver
dimenticato nella quieta disperazione di una vita normale, fatta di
studi universitari, di un matrimonio, di figli voluti e amati Ritorna
attraverso la presenza di un ex
compagno di liceo, Vincenzo Vono,
che divenuto magistrato, cerca di
chiarire un evento che ha segnato
la loro vita di adolescenti.
Nel giro di una lunga, densa notte il protagonista ripercorre la sua
storia, la storia della città, Torino,
le storie dei suoi compagni, che si
sono persi o che ce l’hanno fatta.
Così dalla disillusa città di oggi, compare quella frizzante degli anni Ottanta, con i suoi problemi, ma anche
con i suoi eventi (il racconto finisce,
infatti, all’alba di quella che sarebbe
passata alla storia della città e dell’Italia come la Marcia dei quarantamila). E si ripercorre ciò che portò alla
catastrofe: alla scomparsa misteriosa di due adolescenti Elen e Luca,
a cui Matteo era legato. Nessuno,
tranne Matteo, può dire che cosa
sia accaduto. Proprio come in una
delle puntate della serie Cold Case o
come in Segreti svelati (un racconto
che dà il titolo ad una raccolta di racconti della scrittrice canadese Alice
Murno)2 la storia di questi due adolescenti e della loro terrificante fine
emerge come un corpo dal fiume.
Ed emergono le trame complesse
che legano le vite le une alle altre.
Il percorso di Dario Buzzolan
è chiaro ormai da qualche tempo:
autore, scoperto grazie al Premio
Calvino, ha intrapreso un percorso,
nella scrittura, sempre più rivolta
alla storia. I suoi romanzi non si
possono definire romanzi storici,
ma sia ne I tuoi occhi sporchi di terra,3 così come ne Se trovo il corag-
gio c’è il bisogno di comprendere
i risvolti della storia contemporanea che sono ancora poco chiari
o ancora poco studiati; il bisogno
di confrontarsi con la penombra
insondata che nasconde spesso cocenti verità.
La scrittura è il modo di prendere
coscienza di un problema più complesso e più articolato di quello che
la storia tramandata ci ha riportato;
1 BuzzolanD., Se trovo il coraggio, Roma, Fandango Libri, 2013.
2 Munro A., Segreti svelati, Torino, Einaudi, 2008.
3 Buzzolan D., I tuoi occhi sporchi di terra, Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2009.
25
è questo il suo scopo, ci dice Buzzolan. Solo il romanzo, proprio perché
contenitore asettico, può far convogliare tutte le diversità e le sfumature che la realtà porta con sé. Ecco,
allora, comparire sullo sfondo delle
sue narrazioni la Resistenza, e ora
gli anni Ottanta. Buzzolan, usando
un genere letterario ben definito, il
noir, vuole farci comprendere che il
romanzo storico è inadatto, inadeguato a raccontare la nostra storia
recente. Come pensare, con quel
genere, di ricostruire qualcosa che
è ancora sotto i nostri occhi? Deve
essere un lettore attento di Gadda,
Dario Buzzolan, per aver compreso,
come e quanto, questo sia appropriato per raccontare e non giustificare parte di quello che è il comportamento e le storie umane. Scoprire
il colpevole non appaga. Non dà tregua. Non ha molto senso. La verità è
un muro invisibile contro il quale si
finisce per scontrarsi. E non ci saranno né vincitori né vinti.
Se trovo il coraggio è un libro di
disvelamenti, un libro in cui si cerca
di indagare la realtà, un libro di genere, in cui il genere è un meccanismo usato per dire altro, quello che
abbiamo detto fin ora, ma Se trovo
il coraggio è anche un romanzo che
parla di adolescenti e di una figura
bellissima come Elen, che impersona
la bellezza sofisticata e ammiccante,
ma anche caotica dell’adolescenza.
Che cosa ci può essere di più bello,
a posteriori di quella tristezza che
viene a ogni adolescente «diversa da
qualunque altra tristezza normale
tipo quando non ti partiva il motorino o non potevi uscire al pomeriggio
o ti beccavi quattro in matematica,
semplicemente per il fatto di averla
vista chiacchierare con qualcuno o di
non averle rivolto la parola per un secondo o avere sbagliato frase»?4 È la
bellezza mortifera di Elen, soprannominata dal protagonista “lucertola”
per il «modo in cui cercava il sole e
ci si crogiolava quando lo trovava»5,
la bella ma anche infelice, che rimane come un sogno. Come un fiore
spezzato. Come qualcosa che non
si è potuto proteggere. Ma che il
protagonista ha avuto la fortuna di
avere, anche se per un tempo limitato. E che forse non ha compreso
fino in fondo. Chi, del resto, al suo
posto avrebbe saputo fare di meglio? Poi c’è tutto il resto, quello che
viene dopo, in quel mondo che è la
giovinezza e la maturità (Matteo nel
libro ha quarantasette anni ed è uno
che viene descritto come schiacciato
«in un angolo»6 costretto dalla realtà
a dormire). Ma non c’è rimpianto.
No, il rimpianto nei confronti dell’adolescenza non è cosa che si addica
a questo libro. Buzzolan descrive
chiaramente come tutto quello che
viene dopo è scoperta diversa, altra
rispetto a quella fatta durante l’adolescenza, e non per questo non
degna di essere vissuto. Anzi. Lo
scrittore ci dà la certezza che l’adolescenza è un luogo, in cui emerge
con forza non soltanto il desiderio
della scoperta, ma anche la rabbia,
la violenza, il nichilismo di cui molto
spesso ci si dimentica.
Buzzolan non si accontenta di
raccontare una storia di genere,
o la storia di un’epoca che fu, la
storia di una giovinezza, ha un intento più complesso: dar voce a
una generazione che ha finito per
soccombere e perdersi. Che ha
provato e cercato di costruirsi una
stabilità economica e sentimentale
che poi si è rivelata vuota e ha portato alla disfatta. una generazione
precaria e instabile non solo negli
affetti ma anche nel lavoro. Così
come gli Editors, gruppo musicale
britannico, in una canzone dal titolo Smokers outside the hospital
doors, citata nel romanzo, anche
Buzzolan dice «siamo tutti cambiati da ciò che eravamo \ i nostri
cuori infranti lasciati \ frantumati
sul pavimento \ siamo tutti cambiati da ciò che eravamo \ i nostri
cuori infranti lasciati frantumati sul
pavimento» e si chiede «riusciremo
a ricominciare»?
«Luoghi e paesaggi» di Andrea Zanzotto
La poesia di Zanzotto è stata
sempre legata all’orizzonte veneto, al rapporto tra uomo e natura,
al bisogno dell’uomo di contemplare lo spazio e l’orizzonte che gli è
più vicino per trarne ispirazione e
consapevolezza. Più forse di chiunque altro, Zanzotto ha tratto ispirazione dalla conformazione della
sua terra, da quel paesaggio che ha
reso parte di sé come se fosse uno
specchio in cui contemplarsi e in cui
ha visto riflessa parte della propria
esistenza e cercando di comprendere l’identità culturale nazionale.
Rivelatori, in questo senso,
sono tra gli altri i titoli di due libri
di Zanzotto, il primo, uscito nel
1951, Dietro il paesaggio, il secondo
del 1986 Il Galateo nel Bosco. Dal
4 Buzzolan D., op. cit., pag.70.
5 Buzzolan D., op. cit., pag.47.
6 Buzzolan D., op. cit., pag.53.
26
primo si comprende il bisogno di
una poesia che in un continuo e
inarrestabile cambiamento tenda
ad afferrare e a svelare l’essenza
ultima che si cela sotto l’immagine
della natura, dal secondo emerge
il rispetto per la nobiltà del paesaggio che ormai a tutti o quasi
sfugge. A fianco a questi libri riveste un particolare interesse il libro
Luoghi e paesaggi,7 a cura e con
introduzione di Matteo Giancotti
che raccoglie vari interventi sugli
stessi temi scritti da Zanzotto negli anni dal 1955 al 2006.
Distribuiti in cinque sezioni (Una
certa idea di paesaggio, Mio ambiente natale, Un’evidenza fantascientifica, Quasi una parte integrante del
paesaggio, Tra viaggio e fantasia),
più un’appendice con la trascrizione di un documentario video del
1974, questi testi cercano di restituire al lettore il concetto di paesaggio, tanto presente nella sua opera
poetica. Questi scritti difficilmente
sarebbero giunti al lettore integri,
dispersi com’erano in riviste dove
erano apparsi in pubblicazioni occasionali per poi essere nel corso
del tempo dimenticati, assenti persino dalle pur accuratissime bibliografie delle opere del poeta.
Solo due di questi testi, Colli Euganei e Venezia, forse, si trovano nel
«Meridiano» apparso nel 1999 e nel
libro Sull’altopiano e prose varie apparso nel 1995.8 Si tratta, comunque,
di testi in cui il pensiero di Zanzotto è
già chiaro, e che vanno ad integrare
le annotazioni e le note messe a margine di quel «colloquio diretto e più
ritmato con le forme della natura»9
che è stata la sua poesia.
Partendo da occasioni e da temi
diversi, il poeta parla in modo teorico di che cosa significhi la parola
“paesaggio”. Per fare ciò, in ben
due di questi scritti, Zanzotto si fa
storico dell’arte e dettagliatamente scrive della rappresentazione
del paesaggio in due pittori apparentemente lontani, come Cima
da Conegliano e Camille Corot. Entrambi, secondo lui, in modi e tempi diversi, hanno saputo «entrare
nel paesaggio, arrivare alla definizione del momento che fissa un
legame tra l’emozione e il segreto
tremito dell’ambiente che aperto
la suscita».10 Rievocare, poi, i viaggi
mancati della sua vita, come in una
breve prosa dal titolo Tra viaggio
e fantasia, o dedicare un ricordo a
persone a lui vicine come il vecchio
Nino carico di un sapere contadino,
evocato più volte nelle sue poesie o
il poeta Luciano Cecchinel considerato da molti il suo erede in poesia
sono suoi modi sempre per riflettere sul paesaggio e su un mondo,
quello agricolo, ormai al tramonto.
Un’attenta lettura di questi
scritti dimostra lo spiccato interesse del poeta rivolto alla comprensione della radice più profonda dell’essere degli individui, del
loro disporsi nello spazio fisico,
nel contesto vitale e sociale, nella stessa vita di relazione. Questa
memoria «territoriale millenaria»,11
dunque, si rivela anche memoria
dell’essere e del «vissuto primo»,12
che qui si mostra e si racconta in
alcuni scritti, forse addirittura
contemporanei, a quelli di Ricoer
o di Jonas. Il paesaggio diventa
struttura non solo psichica, ma anche individuale e collettiva, in cui
l’individuo si riconosce, riconosce
la continuità civile, lo specchiarsi
reciproco degli esseri umani nei
limiti fisici dell’orizzonte.
Al paesaggio appartiene un’architettura pensata come equilibrio
e un rapporto tra la costruzione
umana e lo spazio in cui deve collocarsi. Il poeta crede nella necessità
di un accordo tra bello e giusto,
per questo non va mai dimenticato
che «il paesaggio viene dunque ad
animarsi e a meglio risplendere nel
lavorio umano che vi opera, perché
al di sotto della sua apparente insignificanza esistevano elementi che
un “giusto” antropocentrismo ha
fatto risplendere».13 E ancora «bisogna capire che salvare il paesaggio della propria terra è salvarne
l’anima e quella di chi la abita».14
In questi scritti il poeta insegue
i luoghi e le presenze, ma cerca di
chiarire il costituirsi originario degli
insediamenti umani, il valore dei
nomi dei luoghi, gli effetti che l’ambiente ha direttamente sulla lingua. Aspetti diversi si intrecciano in
questa riflessione, aspetti geografici e storici, linguistici e psichici,
ma anche sociali e culturali, architettonici ed economici che si scontrano con le infinite deturpazioni
che, negli anni vissuti da Zanzotto,
portano fino al nostro presente.
7 Zanzotto A., Luoghi e paesaggi, a cura e con introduzione di Matteo Giancotti, Milano, Bompiani Editore, 2013.
8 Zanzotto A., Sull’altopiano e prose varie, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1995.
9 Zanzotto A., op. cit., pag. 64.
10 Zanzotto A., op. cit., pag. 58.
11 Zanzotto A., op. cit., pag. 152.
12 Zanzotto A., op. cit., pag. 58.
13 Zanzotto A., op. cit., pag. 70.
14 Zanzotto A., op. cit., pag.130.
27
Libri ed eventi.
Massimo Cacciapuoti, Piero Morales
A cura di Mosaico
Oltre le nuvole, dentro l’anima e il dolore.
Una storia vera raccontata con rara, lucida,
commozione da Massimo Cacciapuoti.
Dalla rocca di Leucade (la stessa della Saffo sublime e infelice di Leopardi) si gettavano gli amanti, per
mille diverse ragioni tormentati, oppressi da un impedimento esteriore alla loro passione, pensata
e vissuta come assoluta. Gli amanti rimasti in vita dopo quell’enorme rischio avrebbero comunque
amato la vita più del loro tormento.
Così accade a Nica e Sandro nella scena culminante, ritratta anche nella bella copertina del romanzo, bellissimo e straziante,
di Massimo Cacciapuoti edito da Garzanti, Noi due oltre le nuvole. Con convinzione ne consigliamo la lettura a lettori di tutte le
età. Si tratta di una storia vera, raccontata, ad ogni riga, con il magone, capace di incollarci inesorabilmente, con la sua semplicità solenne, il suo gusto delicato per gli incontri d’amore tra adolescenti, annunciata appunto dalla copertina, forse, in parte
fuorviante, in parte no, nelle tre frasi di sottotitolo: “Quando l’estate è indimenticabile. Quanto l’amore toglie il respiro. La vita
cambia per sempre”. E’ così, il racconto corre, toglie
il respiro, visita un mare splendido, accarezza i sentimenti, ma poi accelera, come non ti aspetti. Ecco che
il lettore è costretto, mentre forse pensava ad un altro
libro sugli amori adolescenziali, pur ben scritto, magari
meglio di altri, a saltare dalla rocca di Leucade, insieme
ai due protagonisti, nell’alba del mare del Salento. A
morire e a tentare di rinascere. A scoprire quel macigno
di impedimento all’amore, tremendo che se ne risolve
un altro, asfalta la memoria, rende tutto limpido e solenne. Ci vuole la padronanza stilistica, la compattezza
narrativa di uno scrittore, giunto alla piena maturità (libro dopo libro, questo è il settimo, cambiando sempre
argomenti e classi sociali) per non scadere nella retorica, a mettersi, senza sbafare, nella mente della ragazza
che, in una notte di stelle gli ha raccontato tutta questa storia, regalandogliela, chiedendo solo di rimanere
nell’anonimato, dopo aver avuto la notorietà effimera
di foto sui giornali, di carabinieri, di un flash di notorietà
pagata al caro prezzo del passaggio tra l’adolescenza
e la piena maturità. Una citazione particolare per due
apparizione cammeo: Barbara di cui preferisco tacere
il ruolo e la professione e la supplente di musica, entrambe decisive, in questo andirivieni nella vita di Nica
(“i ricordi salivano alla gola”), solo per dire di amore
assoluto, quello che effettivamente cambia la vita, ma
non nella retorica o nella favola. Nella tragica realtà,
nella tentativo di un gesto estremo, di una sfida all’ultimo istante contro la vita, per la vita: “Perché limitarsi
la vita? Per quale oscura forma di autolesionismo?”. Eppure, per ottenere la salvezza dell’amore non basta a
Nica neanche questa coscienza, serve andare più a fondo. Lì dove, tra le lacrime, la gioia, la lotta è capace di
portarci Massimo Cacciapuoti, in una lettera, le ultime
parole del libro: “Ma io non voglio smettere di sperare
[…] E’ l’unica cosa che adesso riesco e voglio pensare.
Esiste il cielo, Nica. Basta che alzi gli occhi e lo vedi. Anche quando è coperto di nuvole. Basta che ci credi”.
28
Le vette di Pietro Morales
Il primo romanzo del fisico con forti propensioni umanistiche Pietro Morales, Vette. Donne, Passione, Musica e Tragedia, pubblicato nel 2014 da TEXmat di Roma, è un romanzo insolito, anche graficamente, con i caratteri in neretto, su ottima carta di stampa, con i dialoghi evidenziati da virgolette a
“uncino” che si stagliano, come colline, tra le vicende del libro, costituendo la parte più cospicua di
una dialettica costruita per oltrepassare il tempo, situandosi su più piani cronologici, dall’Ottocento
romantico ai nostri giorni e perfino, nell’Appendice, al futuro, sia pur non troppo distante dalla nostra epoca.
Romanzo autentico, intricato,
pieno di risorse e sorprese, personaggi noti e meno noti, non vuole
ascoltare le sirene della semplificazione degli editor della maggior
parte della editoria italiana, ma
presentarsi arduo come la salita,
tema predominante fin dal titolo:
vette nei diversi sentieri disposti
dal poliedrico autore lungo le ramificazioni possibile della aperta
semanticità della parola. Vette di
montagna, vette di bellezza, vette
di passioni, negli splendidi ritratti
e presenze femminili che accompagnano i due protagonisti, Ugo
(Foscolo) e Ludwig (Beethoven)
in mezzo ad una folla di comprimari, dalla storia alla fantasia. Ci
è richiesto di camminare con loro,
amarli nei loro desideri, nella giusta ambizione dello scrittore di
immaginare incontri verisimili,
come quello centrale tra il poeta
dei Sepolcri esule a Londra e il traduttore di Dante in inglese, Henry
Francis Cary, che l’autore ci dice
aver frequentato negli stessi anni
gli stessi luoghi, tanto da rendere
plausibile quell’incontro tra grandi
uomini di cultura qui raccontato.
Non cercate, in questo libro, una
trama precisa, piuttosto perdetevi
nei suoi meandri alla ricerca della
idea sovrana dell’arte, tra musica
e letteratura, tra oggetti preziosi
e scontri verbali. Un vero piacevole labirinto per lettori attratti dalla bellezza del raccontare,
gratuitamente, vero e puro dono,
senza altra aggiunta di carattere
estrinseco alla stessa struttura
narrativa. Come in montagna il
panorama che si gode dall’alto,
salendo con i diversi personaggi,
ripaga della attenzione profusa.
Così si presenta Piero Morales, in
una testimonianza resa a Mosaico: “Non sono uno scrittore, ma
un fisico; a volte, come capita a
tutti, mi viene qualche idea “letteraria”, che provo a buttar giù.
In questo caso l’idea fu che i due
protagonisti vivevano negli stessi
tempi, avevano forti identità di
vedute, avevano gli stessi idoli, le
stesse passioni, vivevano le stesse
delusioni, soffrivano perfino, negli
stessi giorni, della stessa malattia,
che li uccise entrambi; e in definitiva si andavano cercando. Beethoven in particolare per tutta la vita
aveva cercato un poeta con cui
collaborare. Che cosa sarebbe accaduto se si fossero incontrati? E
poi volevo dare il riconoscimento
che meritano alle loro donne, senza le quali sarebbero stati magari
un po’ meno grandi. Foscolo soprattutto, che senza la sua Quirina (e Mazzini che le stava dietro)
forse riposerebbe ancora, ignoto
e negletto, nel suo sepolcro di
Chiswick; e non lo studieremmo al
Liceo. Ma se la merita davvero la
sepoltura in Santa Croce? Oppure
se l’è conquistata essenzialmente
in quei pochi mesi in cui ha saputo
riempire, e per tutta la vita, il cuore di una donna che sapeva amare? Foscolo resta per me ancora
un mistero, ma comunque lo si voglia vedere, fu un carattere straordinario, al pari di Beethoven;
entrambi bruttarelli ma con una
energia infinita e capacità eccezionali, sviluppate in adolescenze
difficili e dolorose. Così ho voluto
provare a interpretarli, e a capire
come da quelle menti potesse scaturire la loro arte. Non so se la mia
interpretazione sia corretta, ma
provarci è stato affascinante e avvincente”. (F.P) 29
Pigrizia e vigilanza
Oggi vorrei parlare della pigrizia perché è causa di comportamenti dannosi per
noi e per gli altri e, in un paese in crisi, è forse il difetto maggiore. Una pigrizia
che di solito si esprime nel rimandare quello che dobbiamo fare soprattutto se si
tratta di un compito fastidioso. Lo vediamo nelle cose minime: telefonare, andare a trovare gli amici, rispondere alle lettere, soprattutto quelle che ci pongono
qualche problema e richiedono un minimo di riflessione. Molta gente rimanda la
risposta fino a quando non pensa che ormai sia inutile e così poi butta via tutto.
Una pratica molto diffusa fra i politici perché in tutta la mia vita (e occupando le
cariche più diverse) ho scritto centinaia di lettere a sindaci, presidenti delle regioni, ministri e primi ministri senza ricevere risposta.
Non parliamo poi dei problemi impegnativi, delle situazioni in cui dobbiamo
prendere una decisione che richiede coraggio. In questo caso la pigrizia si sposa con la viltà. Rimandando la decisione il problema non risolto si aggrava, fino a
degenerare. Pensiamo a quante opere incompiute è pieno il nostro paese. Personalmente sono del parere che queste cose vanno affrontate subito con un vero e
proprio assalto. Proprio in questi giorni il governo Monti è stato chiamato a
fare delle manovre economiche che aspettavano da troppo tempo. Io mi auguro
che abbia il coraggio di fare tutto subito, perché se anche lui ritarderà, finirà nelle
sabbie mobili come gli altri.
Pigrizia vuol dire anche distrazione, disattenzione, mancanza di vigilanza, una
virtù essenziale non solo per evitare degli incidenti fisici come inciampare in un
gradino che non abbiamo visto, attraversare la strada senza guardare a sinistra
e a destra se arriva una macchina, credere di aver chiuso il gas mentre era aperto ma anche per evitare sbagli sul lavoro negli affari. Chi non è vigilante si lascia
passare sotto il naso una occasione, un affare, sbaglia nel ricevere un cliente importante e non dà le informazioni necessarie ad un collaboratore. Molti managers confondono la vigilanza con la meticolosità. Il meticoloso si fa assorbire da
un solo compito e non si accorge che qualcosa d’altro nel frattempo va in rovina,
mentre il dovere di un buon capo invece è saper tener d’occhio tutto quello che
succede, di percepire i difetti, le debolezze, gli errori, i pericoli incombenti e intervenire tempestivamente.
Francesco Alberoni
30
PASSA
TEMPO
DIVERTIMENTO
I fiori che comunemente attirano api e vespe respingo no le formiche per non diventare sterili e si difendono tenendo eretti gli
stami affinché queste non possano raggiungere il polline. È stato
provato infatti che il polline diventa infecondo dopo un contatto
di soli pochi minuti con il liquido secreto dal torace delle formiche,
detto mirmicacina.
PUZZLE
CURIOSITÀ
SOLUZIONI
AUTODEFINITO
31
Fly UP