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Invito al Vittoriale Invito al Vittoriale
ANO VIII - NUMERO 123 Invito al Vittoriale Marzo 2014 Editora Comunità Rio de Janeiro - Brasil www.comunitaitaliana.com [email protected] Direttore responsabile Pietro Petraglia Lavorate, lavorate, lavorate, voi giovani, voi pieni di fede, e di forza! Ci sono ancora molte vette da conquistare Editori Fabio Pierangeli Grafico Wilson da Silva Rodrigues COMITATO Scientifico Alexandre Montaury (PUC-Rio); Alvaro Santos Simões Junior (UNESP); Andrea Gareffi (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Andrea Santurbano (UFSC); Andrea Lombardi (UFRJ); Cecilia Casini (USP); Cristiana Lardo (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ. Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ. WisconsinMadison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ. di Roma III); Lucia Wataghin (USP); Luiz Roberto Velloso Cairo (UNESP); Maria Eunice Moreira (PUC-RS); Mauricio Santana Dias (USP); Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle (UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari); Rafael Zamperetti Copetti (UFSC); Roberto Francavilla (Univ. de Siena); Roberto Mulinacci (Univ. di Bologna); Sandra Bagno (Univ. di Padova); Sergio Romanelli (UFSC); Silvia La Regina (UFBA); Wander Melo Miranda (UFMG). COMITATO EDITORIALE Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus ESEMPLARI ANTERIORI Redazione e Amministrazione Rua Marquês de Caxias, 31 Centro - Niterói - RJ - 24030-050 Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468 Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione. SI RINGRAZIAno “Tutte le istituzioni e i collaboratori che hanno contribuito in qualche modo all’elaborazione del presente numero” STAMPATORE Editora Comunità Ltda. ISSN 2175-9537 2 Con gratitudine per gli illustri saggisti intervenuti intorno a d’Annunzio ed ad altri autori di poesia e prosa in questo numero di Mosaico, anticipiamo due significative citazioni dagli articoli di Linda Terziroli. La bravissima insegnante, saggista, studiosa di Guido Morselli (di cui ha curato due splendide edizioni, Lettere ritrovate, Magenta editore, Una rivolta e altri scritti per Bietti) ha aperto per noi le porte del Vittoriale a chiusura delle ricorrenze dei 150 anni dalla nascita del Vate, intervistandone il direttore Giordano Bruno Guerri, noto scrittore, polemista, biografo, a cui si deve questa citazione dannunziana: “Operaio della parola, io sono stato condannato per sette anni ai lavori forzati del luogo comune, all’esercizio forzato dell’eloquenza, su la ringhiera, nella piazza, nel campo di battaglia. Per sette anni ho arringato le truppe e le folle, ho maneggiato l’anima del soldato e del popolano, mi sono piegato ai contatti più rudi e talvolta alle mescolanze più ripugnanti (…). Nes- suno immagina con che ansia io sia entrato in questo rifugio, con che bisogno di sprofondarmi in me stesso e nella più segreta sorgente della mia poesia” . (Giordano Bruno Guerri, D’Annunzio l’amante guerriero). Da questa altre parole del Vate, il senso di una particolare sintonia con i giovani di oggi, colta dalla Terziroli durante la gita scolastica che ci racconta in questo numero di Mosaico: “Lavorate, lavorate, lavorate, voi giovani, voi pieni di fede, e di forza! Ci sono ancora molte vette da conquistare. Tu, che sei una natura così signorilmente squisita di artista, tu farai molto, andrai molto avanti. Getta via lungi da te tutti i timori, tutte le timidezze, tutte le esitazioni: sii audace, sempre audace: non ti stancare mai di cercare, tentare, provare. La via dell’arte è lunga e scabra ed erta: per salirla ci vogliono dei lombi armati di valore.” Gabriele d’Annunzio, I febbraio 1884, lettera a Vittorio Pepe Buona lettura! Indice Saggi Linda Terziroli Appunti di scuola: l’audere semper di Gabriele d’Annunzio Linda Terziroli LA MIA VITA AL VITTORIALE: INTERVISTA A GIORDANO BRUNO GUERRI “Non chi più soffre ma chi più gode conosce” pag. 04 pag. 07 Evelina Di Dio La nave di Gabriele d’Annunzio: tragedia individuale rappresentata in una dimensione corale pag. 11 Antonio Armano “Angelico porco alato”: d’Annunzio e la censura pag. 16 Francesca Guerrasio LA ROMANZA DA SALOTTO, ESPRESSIONE DI CIVILTA’ SOCIALE pag. 19 Gabriele D’Annunzio da Le novelle della Pescara L’eroe pag. 23 Claudio Cherin Proposte di lettura: Dario Buzzolan, Andrea Zanzotto pag. 25 A cura di Mosaico Libri ed eventi. Massimo Cacciapuoti, Piero Morales pag. 28 RUBRICA Francesco Alberoni Pigrizia e vigilanza pag. 30 PASSATEMPO pag. 31 3 Appunti di scuola: l’audere semper di Gabriele d’Annunzio Linda Terziroli “Lavorate, lavorate, lavorate, voi giovani, voi pieni di fede, e di forza! Ci sono ancora molte vette da conquistare. Tu, che sei una natura così signorilmente squisita di artista, tu farai molto, andrai molto avanti. Getta via lungi da te tutti i timori, tutte le timidezze, tutte le esitazioni: sii audace, sempre audace: non ti stancare mai di cercare, tentare, provare. La via dell’arte è lunga e scabra ed erta: per salirla ci vogliono dei lombi armati di valore.” Gabriele d’Annunzio, I febbraio 1884, lettera a Vittorio Pepe 4 Strano ma vero. Nelle classi italiane (mi riferisco alla mia esperienza nelle scuole superiori), Gabriele d’Annunzio riscuote una certa popolarità, molta di più di Carducci ed è sicuramente più amato del Leopardi. Parlo di popolarità, non di culto. I cultori di Leopardi, Manzoni, Pascoli si annidano in ogni classe e sono i più devoti. Il poeta vate dalla vita inimitabile è tuttavia sulla cresta dell’onda, anche tra gli studenti più svogliati e lazzaroni. E proprio a questi comunica di più. Complici le mai tramontate leggende metropolitane, mai smentite né confermate, sulle sue prodezze sensuali, che si diffondono nelle classi, tra maliziose occhiatine e mal soffocate risatine, d’Annunzio ha sempre il suo seguito e non passa mai inosservato. Perché così larga simpatia? E’ certamente un personaggio assai moderno, un anticonformista, che ha plasmato i gusti di un’epoca, ha ideato nomi, inventato pubblicità, creato slogan e ha persino cambiato il genere all’automobile: “L’Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità di una seduttrice; ha inoltre una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza”. E’ stato colui che, pur scandalizzando, ha creato e questo binomio che fa breccia nei giovani, da sempre votati al conflitto e alla ribellione creativa. Conquista gli studenti meno volenterosi il fatto che la ribellione diventi tradizione, celebrità di un autore del cui valore si continua a discutere e parlarne sembra “scuotere un’arnia piena di api” (Santurbano). Onnipresente nei manuali scolastici e nei bigini, per i temutissimi esami di Stato, tra Decadentismo, edonismo e superomismo con venature fasciste. Certamente sono molti i detrattori e non si può negare come, talvolta, l’estetismo fine a se stesso produca una sazietà barocca vicino allo stucchevole, tuttavia, a parte l’ornamento pleonastico, d’Annunzio ha tenuto in mano le redini del gusto di un’epoca, dominando sui flutti del mondo, disprezzando la quotidianità e il carico di banalità che essa ha prodotto ed è la sua anima multiforme, forse più della sua opera, ad incantare. D’Annunzio, benché non sia facile da parafrasare né, a ben guardare, da leggere (e da inquadrare), in virtù delle sue laboriose prose e delle ricerca stilistica e lessicale a dir poco ridondante e artificiosa, si fa amare dagli studenti, proprio per questo suo audere semper. A differenza di altri autori, più avvicinabili e forse più semplici per il pubblico scolastico, ciò che forse seduce e conquista i giovani di questo personaggio discusso e contradditorio è proprio l’invito all’eroismo (e all’erotismo), l’incitamento al coraggio, all’audacia, la cosiddetta “Coazione al sublime” (Gianni Turchetta). I ragazzi di oggi, forse più di quelli di ieri, sono più inclini e disposti ad ascoltare le gesta di d’Annunzio o il Manifesto del Futurismo, si riconoscono in un autore che anela all’immortalità, ricorrendo all’immagine, persino al mezzo televisivo. Il movimento, l’audacia, la ricerca del bel gesto (e del bel verso, che “è tutto”), il culto della vita inimitabile inducono i giovani a cercare, a modo loro, di fare della propria vita come si fa di un’opera d’arte. In tal modo, d’Annunzio, spesso disprezzato e vituperato, ridicolizzato e considerato in modo fuorviante fascista, non lascia gli studenti indifferenti, che lo amino o lo detestino per ragioni diverse, lascia una traccia nei loro animi e questo, sia pure soltanto un graffio nella loro memoria, potrebbe essere uno dei compiti dell’insegnamento della Letteratura, in tempi di crisi multidisciplinare. Visita al Vittoriale: istantanee di una casa teatro (per i posteri) “Se vuoi che la tua casa ti paia grandissima pensa al sepolcro” “Operaio della parola, io sono stato condannato per sette anni ai lavori forzati del luogo comune, all’esercizio forzato dell’eloquenza, su la ringhiera, nella piazza, nel campo di battaglia. Per sette anni ho arringato le truppe e le folle, ho maneggiato l’anima del soldato e del popolano, mi sono piegato ai contatti più rudi e talvolta alle mescolanze più ripugnanti (…). Nessuno immagina con che ansia io sia entrato in questo rifugio, con che bisogno di sprofondarmi in me stesso e nella più segreta sorgente della mia poesia” . (Giordano Bruno Guerri, D’Annunzio l’amante guerriero, Oscar Mondadori, p. 267) Lascio la macchina nel solito parcheggio (a pagamento) e mi avvio su per la non lieve salita che porta all’ingresso della casa del vate, principe di Montenevoso, Gabriele in origine Rapagnetta, ma, in arte, d’Annunzio. Arrivata a Gardone Riviera, dopo aver percorso alcuni chilometri dall’uscita Brescia Est dell’au- tostrada, sono immersa in un paesaggio da villeggiatura lacustre; questi laghi del Nord un po’ diversi e un po’ simili tra loro hanno ville stupende affacciate sul lago. In questo caso, dopo una larga curva, in prossimità di Salò, ecco emergere all’orizzonte il bel Lago di Garda con la sua dolce penisola di Sirmione che mi ricorda sempre la forma di un frutto, spezzato a metà. L’atmosfera è idilliaca, grandi pini silvestri, cipressi, limonaie e una vegetazione florida e lussureggiante; il panismo qui, indipendentemente dall’opera dannunziana, è assicurato. La villa svetta nel suo giallo acceso e corposo, ma non aristocratico, e nella sua grandezza più simile ad un casolare (al d’Annunzio ricordava la sua toscana Capponcina) mentre il suo parco, impreziosito da un anfiteatro, dalla Nave Puglia, nonché dal Mausoleo ieratico e surreale che ospita le spoglie del poeta e dei suoi legionari fiumani, ha vinto il premio di “più bel parco d’Italia”, nel 2012 e nel 2013. Provo ad immaginare la musica che allora risuonava, negli anni in cui qui visse d’Annunzio e anche prima, con il precedente proprietario, il tedesco Henrich Thode che aveva sposato Daniela von Bülow, figliastra di Wagner, perché figlia di Cosima Liszt (figlia illegittima del grande compositore) e del suo primo marito, nonché nipote di Franz Liszt a cui apparteneva il pianoforte a coda, suonato poi 5 da Luisa Baccara, amante dannunziana e giovane pianista veneziana, nella sala della musica. Sono passati tuttavia numerosi anni (d’Annunzio ha vissuto qui dal 1921 al 1938, anno della sua morte) e occorre ricordare, prima di fare capolino dentro la casa, che questa villa ideata, realizzata, curata dal poeta, grazie all’architetto Gian Carlo Maroni, era stata già pensata come una casa-museo, teatro del passato per i posteri e rappresenta quindi l’ultima opera autobiografica e, in quanto tale, certamente coerente con la sua contradditoria anima. Visitare la Prioria, come il poeta, novello priore, nominava la sua casa, rappresenta sicuramente un modo per interpretare l’uomo che qui ha vissuto, poiché l’arredo e gli oltre diecimila oggetti non sono stati asportati o restaurati ma solo, presumibilmente, spolverati e lasciati nei posti in cui precedentemente erano stati collocati, perciò ancora oggi ne assecondano il gusto e l’estro. Un certo sentore d’ombra, di passato, di tappeti antichi, di pelli lievemente traspiranti (come quella di daino che ricopre il soffitto della “camera del Lebbroso”), vecchie stoffe damascate e tessuti drappeggiati contribuiscono a dare l’impressione di una casa ancora abitata dal fantasma di Gabriele d’Annunzio e dalla sua vena estetica. A differenza di altri musei dedicati a scrittori, qui non si osservano le stanze con il naso incollato ad una fredda vetrata ma si possono toccare con gli 6 occhi (e quasi con le mani) quelle stanze, quegli oggetti al poeta tanto cari. Si riesce, senza grande sforzo, ad immaginare la sua vita qui: le lunghe attese di Mussolini (La scritta sullo specchio: “ricordati che sei vetro contro acciaio”), le chiacchierate con Mondadori, le donne bellissime e i loro giochi di seduzione, i levrieri, i creditori. E’ un’opera da leggere con l’immaginazione, una sorta di autobiografia non per immagini, ma per stanze. Non è possibile provare horror vacui, ma, al massimo, una vaga claustrofobia. E’ dunque lampante, muovendosi delicatamente all’interno delle stanze in penombra, seguendo le cadenzate e spedite parole di una guida colta ed esperta come il poeta vate soffrisse di fotofobia, non già la fobia di essere fotografato (anzi: nel museo di “d’Annunzio eroe” si possono vedere numerose fotografie, persino senza veli, e filmati d’epoca) ma propriamente il fastidio della luce diretta e come cercasse riparo nell’ombra, in virtù di tendaggi, vetrate finemente decorate e verande fatte costruire a bella posta. Mentre la casa continua a vivere e brulicare di scolaresche e turisti germanofoni, i trentatremila volumi della casa possono essere ancora consultati, dietro preventiva richiesta, e questa mi pare un’eccellente opportunità per tanti studiosi che spesso si trovano di fronte ad archivi segreti e casseforti letterarie “a prova di ladro”. Questo scrigno non può essere adeguatamente descritto poiché ogni esposizione avrebbe più dell’inventario che non della rappresentazione: “i trentasei locali, compresi gli affollatissimi corridoi e pianerottoli, sono denominati secondo gli schemi della retorica dannunziana: dalla Stanza della Leda a quella del Lebbroso, del Mascheraio, del Monco, delle Reliquie, delle Marionette, dallo Schifamondo alla Colonna dei Giuramenti, dallo Scrittoio del Mondo al Portico del Parente. Sui muri, campeggiavano ovunque le tracce della sua parola, i motti dei suoi ex libris e quelli che decoravano, con raffinata arte xilografica, le lettere con cui continuava a inondare i suoi disparatissimi interlocutori, politici, artigiani, segretari, editori e amanti: “Memento audere semper”, “Ardisco non ordisco”, “Per non dormire”, “Semper adamas”, “Hic manebimus optime”. (Giordano Bruno Guerri, D’Annunzio l’amante guerriero, Oscar Mondadori, p. 285). L’opera è compiuta: sacro e profano si fondono, mentre l’umiltà si specchia nella vanità, si celebrano le gesta epiche del grandioso passato (dalla stanza delle Reliquie, “Quis contra nos?” recita il gonfalone della Reggenza del Carnaro), la contraddizione si celebra laddove la bellezza emerge dalla sublime dialettica di una personalità artificiosamente sdoppiata; si celebra l’umiltà mentre si fa ampio sfoggio di vanità. Rintracciamo tuttavia dietro le maschere “orrorose” e il tripudio del palcoscenico, al di là della messinscena voluta, dietro le quinte della teatralità, un uomo profondamente umano e lacerato, nudo e inerme di fronte al triste e inarrestabile incedere della sua vecchiaia (“la turpe vecchiezza”) e del suo desolante corredo di decadimento fisico. La morte lo colse, il primo marzo del 1938, ponendo fine ai tableaux vivants più estenuanti e ridicole, al consumato tavolo della sua Zambracca, a pochi passi dall’armadio che sembra un guardaroba traboccante di medicine, mentre si allunga un’ombra di solitudine sulla sua avventura terrena, dopo una vita spesa per l’eroismo e l’immortalità, alla ricerca della bella morte. LA MIA VITA AL VITTORIALE: INTERVISTA A GIORDANO BRUNO GUERRI “Non chi più soffre ma chi più gode conosce” Linda Terziroli Ritorno ancora una volta a Gardone Riviera, ripercorrendo gli stessi passi delle precedenti visite, stavolta per un incontro non metafisico ma reale e non con l’anima di d’Annunzio bensì con l’uomo che più di altri ha avuto il privilegio di studiare tra le sue carte, i suoi cimeli e le sue amanti e le sue stanze, con chi, forse più di altri, l’ha conosciuto e capito, senza falsi pregiudizi e oltre le leggende, ospite e presidente della dimora dannunziana: Giordano Bruno Guerri. 7 Invece di passare dall’ingresso per i visitatori, suono il campanello dell’amministrazione del Vittoriale, una foresteria in pendant con la dimora del poeta, passo dal grande ufficio della gestione della casa dannunziana e attendo pazientemente l’arrivo del presidente e biografo, che mi accoglie, amabile, nel suo studio di legno traboccante di libri, con una grande finestra quadrata che è impossibile non guardare e da cui è impossibile non sbirciare quel lago che sembra proprio sotto la finestra, oggi così malinconico di pioggia e pesante di nebbia, che, gonfio e umido, rende anche questa umile finestra un capolavoro. Sguardo mobile e fermo, pragmatico, elegante nel suo completo grigio scuro e nei modi garbati, che mostra senza affettazione, Guerri ci fa accomodare davanti alla sua scrivania zeppa di carte e libri dannunziani, accogliendo l’ennesima intervista con una serena pazienza di cui gli sono grata. Come sempre è curioso indagare le ragioni per cui uno scrittore, e in particolare un biografo, scelgano, nel mare magnum delle possibilità, proprio quell’oggetto di studio e non un altro, così penso che la sua ricerca su d’Annunzio sia nata da un amore per l’avventurosa storia di un personaggio straordinario, non scevro da una componente (forse) albeggiante 8 di narcisistica immedesimazione. La vita di d’Annunzio è il suo capolavoro - ci rivela Giordano Bruno Guerri - che nel Vittoriale trova il compimento supremo, la celebrazione eternamente tangibile. La voce di questo singolare biografo e capo della Fondazione, ultimo vedovo dannunziano, è seria e cadenzata, in un continuum rauco, graffiato forse dal fumo di tante sigarette, lento e solenne, quasi strascicato - che domani parlerà dalla piccola prigione del mio registratore - mi distrae dai miei pensieri e si snoda con ampie e calme volute e ben disegnati periodi, anche sul mio taccuino dove mi accorgo che la sua sintassi, ordinatamente latina, non permette fraintendimenti e mi impone domande semplici e nette, a cui risponde in modo esaustivo, senza lasciare ombre al dubbio. Qual è il libro di Gabriele d’Annunzio che Lei ama di più e perchè? D’Annunzio scrisse nel ’30 un libro in francese antico (scrisse quattro libri in francese), Le dit du sourd et muet qui fut miraculé en l’an de grâce 1266, libro in sei esemplari e poi in sessanta, ed è rimasto praticamente sconosciuto. La cosa curiosa è che il protagonista di questo libro si chiama Guerri e d’Annunzio nel frontespizio ha scritto “de Gabriele d’Annunzio qu’on nommoit Guerri de Dampnes”. E’ una battuta. I miei preferiti sono i libri più comuni: Il piacere, L’innocente e Notturno. Quale è la chiave del particolare successo che d’Annunzio riscuote nei giovani, in particolare negli studenti che lo incontrano nei manuali di scuola e in gita al Vittoriale? Intanto le do una notizia interessante: Google ha comunicato che nel 2013 è stato il poeta italiano più cliccato nel mondo dopo Dante ovviamente e questa per noi è una grande conquista, perché vuol dire che il nostro lavoro è servito. Il fascino di d’Annunzio sta nella sua vita inimitabile, non è solo un poeta, ma un’infinità di altre cose e il suo capolavoro è la sua vita. L’interesse nasce dal fatto che si scopre sempre di più che d’Annunzio, ben lungi dall’essere un decadente – certo il filone da cui parte è quello – come lo si in- tende comunemente, è un modernizzatore, è in avanti, addirittura anticipa i futuristi su tante cose e ben lungi dall’essere un protofascista - altro grande equivoco - è un libertario, certo superomista per cui poteva avere delle affinità con dittature. Questo peraltro è stato il mio lavoro più intenso su d’Annunzio, affermare questi due principi: non decadente ma innovatore, non protofascista ma libertario. Il fascino di d’Annunzio è nella sua vita, che ha dato tanto a tutti fino a creare le mode, al culto di sé e del personaggio. E’ morto un uomo che non solo ha saputo realizzare i suoi sogni, che è già un obiettivo supremo, ma soprattutto che ha fatto sognare gli altri uomini: sogniamo ancora con i sogni di d’Annunzio, che poi, in definitiva, sono: il culto della bellezza, il culto del piacere. La frase di d’Annunzio che preferisco su tutte è: non chi più soffre ma chi più gode conosce, dove per godimento, per piacere non si intende quel godimento che gli stava tanto a cuore ma un godimento totale, estetico, culturale, un godimento verso ogni aspetto della vita, l’amore per gli animali, l’amore per la natura, l’amore per il classico. Quindi non a caso il romanzo che lo rappresenta di più e tuttora il più letto è Il piacere ancora una volta inteso non come quel piacere, ma il piacere in senso lato e il romanzo che si intitola Il piacere è una rappresentazione totale del piacere e questo viene dato oltre, per tornare al Vittoriale, un’estetica che non ha paragoni al mondo, cioè lo stile di arredamento di d’Annunzio - non esiste una definizione tanto è vero che viene liquidato in forma denigratoria con la definizione di bric-abrac, ma è tutt’altro che un bric-abrac: d’Annunzio ha creato un suo gusto personale, sovrapponendo cose certo non a caso, ma nobilitando anche gli oggetti più umili. La Prioria è piena di cianfrusaglie, di oggetti che non valgono niente solo per la disposizione e l’unione con gli altri. Mi piace ricordare che non esistono statue di pregio, dentro la Prioria, ma sono tutti calchi di gesso. D’Annunzio poteva ben permettersi anche gli originali, preferiva frasi fare i calchi e ricrearli dipingendoli personalmente in oro, mettendogli dei gioielli, addi- rittura dei vestiti e quindi creando un’opera sua personale. Quali sono gli ostacoli che d’Annunzio incontra tuttora, oltre ai pregiudizi dell’essere considerato un protofascista e un decadente? Una certa difficoltà della sua scrittura che era già impegnativa cento anni fa, che lo è di più adesso. La scrittura di d’Annunzio, cosiddetta falso antico, è una scrittura molto costruita, difficoltosa la lettura per la straordinaria ricchezza di vocaboli e di costruzioni sintattiche. D’Annunzio già a trent’anni si vantava, a ragione, di aver usato nei suoi scritti quindicimila parole. Se noi pensiamo che, nel linguaggio della vita di tutti i giorni, usiamo dalle due alle duemila parole, ci rendiamo conto dell’enormità, anche per questo poi finiscono per essere note le sue opere più semplici. Un esempio classico è La pioggia nel pineto che io ho finito per detestare. La pioggia nel pineto è un semplice esercizio di ritmo, il ritmo è tutto, infatti è eccezionale da quel punto di vista, ma appunto è un gioco letterario. Questo ostacola molto la lettura, è in qualche modo lodata, certamente alcune opere sono di davvero difficile lettura. L’altro ostacolo è questa sessualità dirompente che finisce per soffocarlo. (E’ vero che d’annunzio aveva una sessualità sfrenata certamente, ma non al punto da giustificare tante leggende che sorsero su di lui). Nel Vittoriale non è cambiato niente ed è cambiato tutto. Nella Prioria non è stato spostato neanche un cuscino o un portacenere, per il resto ci sono state molte novità come l’apertura di nuovi musei, uno è “Il d’Annunzio segreto” ottenuto appunto svuotando gli armadi, i cassetti, partendo appunto dal fatto che d’Annunzio volesse essere visto nella sua vita quotidiana. L’altra idea è stata l’omaggio a d’Annunzio, cioè verificare la vita di d’Annunzio nell’estetica oggi e chiedere agli artisti contemporanei: “Amate d’Annunzio? Allora fategli un regalo” e così ho fatto, ho chiesto, e ho avuto, seguendo il principio “Io ho quel che ho donato”. Prima è arrivata la scultura di Mimmo Paladino, lo stupendo cavallo, poi Arnaldo Pomodoro, Ugo Riva, Ettore Greco, il due mar- zo inaugureremo un nuovo dono di Villeglé, l’artista famoso che strappava i manifesti, che ci regala una grandissima scultura in bronzo e poi la collezione di quadri di arte contemporanea che sta nell’Auditorium. Questo è servito per creare attenzione intorno al Vittoriale, aumentare l’offerta, il valore di queste opere serve a dare la sensazione che il poeta vive e lotta insieme a noi, partecipa ancora con la sua influenza nella cultura italiana. La stagione dell’anfiteatro è diventata una delle dieci più importanti d’Italia e uno dei punti di riferimento dell’Italia settentrionale per gli spettacoli estivi. I presidenti del Vittoriale fra loro si definiscono scherzosamente, ma non troppo, “le vedove di d’Annunzio”, perché in effetti il testamento di d’Annunzio dice che la Fondazione del Vittoriale è il suo erede, lui ha scavalcato con una legge apposita l’asse ereditario e ha lasciato tutti i suoi beni alla Fondazione del Vittoriale, compresi i diritti d’autore. D’Annunzio va valorizzato all’estero, per il centocinquantesimo anniversario che sta per finire, ho realizzato mostre a New York, ad Atene, a Budapest, Cracovia, Tokyo, Kyoto, ne sto progettando una a Buenos Aires, una a Montevideo, una a Melbourne, era nelle mie intenzioni farne una a Rio ma evidentemente avevo bisogno di partner, a Rio non è stato possibile, rilancio l’idea: se fosse possibile realizzare una mostra in Brasile, ne sarei felicissimo. Queste mostre servono non solo per mostrare d’Annunzio, ma servono per rilanciare le traduzioni. In Giappone ho firmato contratti la ripubblicazione ex novo de Il piacere, dell’Innocente. Uno dei problemi che stiamo affrontando è quello delle pubblicazioni inglesi perché le traduzioni sono state fatte al tempo della regina Vittoria e hanno ancora dei tagli (era l’epoca in cui non si poteva parlare delle gambe dei tavoli). Nell’ambito delle innovazioni è l’attenzione alle nuove tecnologie: il mio vanto più grande in questo senso è che ho concluso un accordo con Mondadori per la pubblicazione in e-book dell’opera omnia che è in corso e la cosa bella è che 9 questi volumi sono Meridiani con l’edizione critica. Abbiamo approntato la digitalizzazione dell’archivio, buona parte dell’Archivio è già reperibile on line: se voi chiedete un documento, lo potete scegliere e ve lo mandano entro quarantotto ore, in digitale. Presidente del Vittoriale degli italiani dal 14 ottobre 2008; cosa è cambiato da quando lei ha preso in mano le redini del Vittoriale ad oggi? Cominciamo invece a modo mio, ricostruiamo la storia. Mi sono sempre interessato a d’Annunzio perché sono uno storico del Novecento, quindi d’Annunzio è una figura fondamentale. Sono stato al Vittoriale in tutte le vesti, prima di diventare presidente: come visitatore, giornalista, storico, visitatore dell’archivio, convegnista, partecipando ai convegni, presentando i miei libri… La mia nomina è avvenuta dopo la pubblicazione del libro che lei ha in mano (D’Annunzio l’amante guerriero) che è uscito nel 2008, all’inizio del 2008, dopodiché il ministro mi ha chiesto di assumere la presidenza del Vittoriale, cosa a cui francamente non ho mai pensato, ma che ho accettato con grande entusiasmo, peraltro non sapendo - l’ho appreso dopo - che l’incarico è totalmente onorifico. Mi sono dedicato a questa attività con grande impegno perché questo è un luogo unico al mondo, d’Annunzio ce lo ha lasciato non solo per conservare le sue cose, ma per conservare una memoria di sé, 10 della sua vita globale e della sua vita quotidiana, tanto è vero che la cosa eccezionale del Vittoriale è che, in pratica, il tempo si è fermato, per legge e per testamento, tutto doveva rimanere nella sua casa come nel momento della sua morte. Infatti lui morì per un ictus ad un tavolo mentre studiava, gli caddero gli occhiali dalla testa e gli occhiali sono ancora lì, nello stesso punto. Sulla morte di d’Annunzio sono emerse alcune ipotesi come quella del suicidio, che tuttavia non sono state confermate. Esistono anche dei libri su queste ipotesi; io personalmente non ci credo, era un uomo che amava troppo la vita per pensare a un suicidio, e soprattutto non l’avrebbe fatto in un modo così poco scenografico, allo stesso modo non credo all’ipotesi dell’omicidio, anche se la sto studiando. Nel mio secondo libro che si chiama La mia vita carnale, che è ambientato tutto sulla sua vita al Vittoriale e sulle memorie inedite della sua governante amante, dove si parla del problema suicidioomicidio, sto seguendo le piste di questa infermiera altoatesina che, secondo alcune ipotesi, l’avrebbe ucciso per incarico dei nazisti, ma non credo che porterà a molto questo punto di vista. Arrivato al Vittoriale, si trattava non solo di proseguire un’attività culturale; il compito della Fondazione, e quindi del suo presidente, è di conservare e valorizzare la memoria di d’Annunzio, ma non si può trascurare il fatto che questa sia una fondazione culturale ma si tratta di un’azienda; abbiamo 40 dipendenti cui dare cibo e stipendio tutti i giorni e spesso abbiamo problemi di gestione. Si dice che i beni culturali siano il petrolio italiano, un’espressione che io detesto perché intanto è un paragone ripugnante e poi è un paragone sbagliato, perché il petrolio più lo si estrae prima finisce, la cultura più la si estrae, più aumenta. Però è vero che i beni culturali devono rendere e non essere solo un costo per la collettività e il Vittoriale in questo senso è un esempio virtuoso perché, da quattro anni, il suo bilancio è in attivo. Un caso unico in Italia, di cui vado fierissimo come potete ben vedere, che ci permette tutta una serie di operazioni importanti perché, non avendo azionisti cui dare dividendi, tutto il denaro che viene guadagnato serve a essere reinvestito nel Vittoriale con opere di manutenzione, di migliorie, acquisto di documenti, iniziative di vari tipi. Quindi cosa è cambiato nel Vittoriale? Prima di tutto c’è stata un’operazione di marketing e di comunicazione indispensabile a qualsiasi azienda e a qualsiasi impresa culturale nel senso che ciò che non viene comunicato non esiste come sapete bene, quindi si trattava di comunicare l’esistenza del Vittoriale che esiste da novant’anni ma che dopo la morte di d’Annunzio era andato man mano declinando dopo la curiosità iniziale e quindi ravvivare l’interesse dei visitatori. C’è conflitto, competizione con il collezionismo di d’Annunzio? Una vita inimitabile dalla calligrafia imitabile. D’Annunzio era un collezionista spurio nel senso che comprava senza raziocinio, seguendo soltanto il gusto che per me è un raziocinio altissimo, ma non allineava le sue collezioni, non aveva l’attenzione maniacale ad acquistare tutti i pezzi. In realtà non era un vero collezionista d’Annunzio, secondo me. C’è un numero enorme di appassionati di acquisti di d’Annunzio, tanto è vero che l’attività del Vittoriale in questi ultimi anni ha avuto due conseguenze brutte: una di fare aumentare i prezzi, l’altra di incrementare il lavoro dei falsari di tutto, ma soprattutto di autografi, perché l’operazione che viene fatta è comprare una prima edizione di d’Annunzio, che costa cinquanta, cento euro e fare una dedica falsa. L’inchiostro viene procurato facilmente, la carta è buona, la calligrafia di d’Annunzio è abbastanza facilmente imitabile. Ci sono dei falsari incredibilmente bravi, magari sono due persone diverse, magari non sono bravi nella scrittura, però fanno la dedica giusta, alla persona giusta, nell’anno giusto, con il libro giusto. Gente che conosce d’Annunzio benissimo. Per cui ho invitato tutti i collezionisti a sottoporre al Vittoriale il libro prima di un acquisto. In fondo è un omaggio a d’Annunzio anche questo. La nave di Gabriele d’Annunzio: tragedia individuale rappresentata in una dimensione corale Evelina Di Dio La Nave di Gabriele d’Annunzio è una tragedia in versi composta da un prologo e tre episodi, che il poeta scrisse nel 1905 dopo una lunga gestazione dovuta alla complessità del tema trattato e alle accurate ricerche necessarie per la ricostruzione storica. 11 Fu definita dallo stesso autore “Poema tragico”, è caratterizzata da una raffinata erudizione e magniloquenza, ma è anche l’unica opera corale nel teatro dannunziano. 1 Ambientata nel 552 nella laguna veneta, narra gli eventi che portarono alla fondazione di Venezia, al trionfo del cristianesimo sul paganesimo, alla vittoria dei nuovi conquistatori sui governanti bizantini. La protagonista è Basiliola, figlia del tribuno pagano Orso Faledro, destituito ed accecato insieme ai suoi quattro figli da Marco Gratico. Egli, capo della fazione avversaria, viene eletto dal popolo Tribuno del Mare, per aver riportato in patria le reliquie dei Corpi Santi dalle rovine di Aquileia, insieme al fratello Sergio che diventa Vescovo della città. La Faledra, per vendicare l’oltraggio alla sua famiglia, seduce entrambi i fratelli e li spinge ad un duello nel quale Marco uccide Sergio. L’ammaliatrice, lussuriosa e assetata di sangue, incarnazione della superfemmina dannunziana, paragonata a Venere Dionea per la sua bellezza fatale, viene però condannata allo stesso supplizio dei suoi congiunti da Marco che, pentito per il fratricidio, e conscio del pericolo che ella rappresenta, si accinge a partire sulla nave “Tuttilmondo” alla conquista del mare per sconfiggere i barbari alle porte. Basiliola, per evitare la tortura dell’accecamento si getta orgogliosamente ed eroicamente nel fuoco che arde sull’ara pagana. La tragedia prende il titolo dall’imponente nave che, sotto il comando di Marco Gratico, è destinata a conquistare i mari, ad edificare nel mare le mura della città “intrisa d’acque”,2 ma anche a sconfiggere definitivamente la famiglia dei Faledri nella persona di Giovanni, il primogenito che si stava organizzando con l’appoggio di Bisanzio per riprendere il potere a Venezia. Il grido ”Arma la prora e salpa verso il Mondo” 3, esclamazione che, secondo il Gratico, Dio stesso avrebbe pronunciato per investirlo della missione, per molto tempo condizionò l’opera di d’Annunzio che fu vista principalmente come un incitamento alle conquiste imperialistiche dell’epoca, sopravvalutandone la componente nazionalistica e politica.4 In realtà essa è una tappa importante nel percorso dell’autore che si proponeva di creare in Italia una “tragedia moderna” originale, non imitazione di quella greca. 5 All’interno della trama vi sono molti elementi che forniscono suggestioni e rimandi. E’ un dramma individuale in quanto l’azione scenica è incentrata sulla figura della protagonista femminile, che nutre un sentimento di odio così profondo e così spietato da portarla all’efferatezza del delitto e della vendetta fino al gesto estremo del sacrificio di sé, del suicidio. La sua crudeltà dà anche luogo ad una scena corale di orrore e di sadica ferocia, nel primo episodio, quando i prigionieri della Fossa Fuia la implorano di ucciderli. Essi torturarono e accecarono i suoi familiari e nel contempo furono ammaliati dalla sua bellezza e la desiderarono sessualmente. Marco Gratico, folle di gelosia, li fece gettare in quel baratro. E’ tutto un susseguirsi di frasi deliranti, urla, maledizioni, provocazioni, profferte d’amore, per spingerla a por fine al loro tormento. E Basiliola descritta come una 1 PAOLO VALESIO,“Il coro degli Agrigentini” in D’Annunzio- Pirandello. Quaderni del Vittoriale nov.-dic.1982 n°36, pag. 63 2 LA NAVE Tragedia di Gabriele D’Annunzio, Milano, Fratelli Treves Editori, 1914, pag.59 3 Ibid. pag. 65 4 VALERIA GIANNANTONIO, Tra metafore e miti. Poesia e teatro in D’Annunzio, Napoli, Liguori Editore, 2011, pag 171 5 “una forma di espressione nuova, in grado di legare passato e presente, parola e azione, tradizione e innovazione” G. ANTONUCCI, La Nave, in D’Annunzio Tutto il teatro a cura di G. Antonucci e G. Oliva, Roma, Grandi Tascabili Economici Newton Compton, 1995, pag. XI 12 bellissima belva, una leonessa dalla chioma fulva, esaudisce ella gli insensati, perocché tutta ormai l’agiti quella brama di veder correre il sangue, che travaglia l’oscura bestialità delle femmine umane, come se per legge di talione volessero élleno ricomperar quello perduto a ogni luna 6 Nel terzo episodio la massa evidenzia un altro messaggio fondamentale dell’opera: rappresentare gli albori di un popolo che riuscirà a fondare una città e partire alla conquista dei mari per rinnovellare quello che fu il compito di Roma. 7 Le ultime battute sono proprio le voci del popolo: La patria è su la Nave! […] O Gràtico, l’ammenda! Fa l’ammenda! […] Riscatta il Corpo dell’Evangelista! Torna col Sacro Corpo e sarai mondo! O Signore, santifica la Nave! […] Signor nostro, redimi l’Adriatico! Libera alle tue genti l’Adriatico! Patria ai Veneti tutto l’Adriatico! 8 La vicenda si chiude quindi con il riscatto del protagonista maschile, che si assume il compito di recuperare le reliquie dell’evangelista San Marco sepolto ad Alessandria d’Egitto per riconsegnarlo “al popolo dell’isole”. 9 La Nave viene definita” tragedia profondamente cristiana” 10 perché rappresenta un’intensa religiosità espressa attraverso inni, preghiere, litanie, invocazioni al “Signore Iddio”, alla Santa Vergine, a Cristo e ai Santi; ma vi è anche una costante presenza popolare e corale, sia per la partecipazione del popo- lo, che fin dal prologo prega, incita, collabora attivamente allo svolgersi del dramma con le sue diverse voci, sia per l’intervento di vari cori cristiani e pagani che sottolineano, cantando inni in latino, i momenti salienti della vicenda. D’Annunzio li indica con precisione, nominandoli di volta in volta nelle loro peculiarità: gli accòliti, il coro dei Catecùmeni, il coro processionale, il coro dei Nàumachi, i compagni navali, le maestranze […] i zelatori della fede, i convivi dell’Agape11 Nel prologo si trova una scena suggestiva e coinvolgente, quando vengono riportate nella città le reliquie dei Tutelari: si è in presenza di un mondo contadino e artigiano, unito in una processione liturgica in cui si evidenziano elementi rituali e simbolici, frutto di una tradizione che ci è stata tramandata da una gran quantità di rappresentazioni pittoriche delle processioni veneziane.12 I cori sono molto efficaci per ricreare quel clima tipico degli albori della cristianità e per accentuare l’aspetto antico della tragedia con la musicalità dei versi. In particolare quello dei Catecùmeni, quello processionale e quello dei Nàumachi, invocano Cristo e Maria in un latino medievale. I Nàumachi definiscono Maria “stella dei naviganti” cantando : O salus navigantium/ virgo semper Maria/ stella Maris praelucida,/ tibi laus et gloria! 13 Ma non solo: in ognuna delle parti in cui è suddivisa l’opera si trovano dei cori che risultano fon- damentali nell’economia della tragedia. 14 Nel prologo sono solo cristiani, mentre nel primo episodio essi si alternano agli elogi a Diona pronunciati dalle donne al seguito di Basiliola. Nel terzo episodio, a chiusura della tragedia, è il popolo che esclama in un crescendo quasi musicale: Cristo vince! […]Cristo regna![…]Cristo e il popolo! Cristo e San Marco! Cristo e Santo Ermagora! 15 D’Annunzio incaricò il maestro Ildebrando Pizzetti di comporre gli intermezzi per i cori, in occasione della prima rappresentazione al Teatro Argentina di Roma nel 1908. Il musicista fece riferimento agli Inni del Breviario ambrosiano, i più consoni all’epoca della vicenda.16 Dal ricco carteggio dei due artisti, si evince il ruolo che d’Annunzio intendeva attribuire alla musica, che doveva essere parte integrante della struttura drammaturgica, e quanto fosse attiva la sua collaborazione con il maestro, al quale suggerì anche di far costruire strumenti molto particolari, in grado di rendere gli effetti da lui immaginati.17 Nel secondo episodio troviamo un momento corale di grande effetto scenico, raffigurato dal presbitero Teodoro. A capo di una processione che esce dalla Basilica egli porta la croce equilatere, simbolo di quella cristianità che si stava imponendo sul paganesimo rappresentato invece da Basiliola e dall’ara sulla quale poi cercherà la morte. 6 LA NAVE Tragedia di Gabriele D’Annunzio,cit. pag. 95 7 “La folla guarda verso l’Oriente aspettando dal Cielo il segno della promessa, la folla che riempie la tragedia delle sue grida, delle sue superstizioni, della sua forza. Mai, io credo, prima d’ora, fu introdotta in un’azione drammatica la folla con le sue mille voci con tanta audacia e in sì larga misura. Il popolo dell’isola è della Nave il vero protagonista”GIOVANNI POZZA, La tragedia, in «Il Corriere della Sera», 12 gennaio 1908 8 LA NAVE Tragedia di Gabriele D’Annunzio,cit. pag. 248-249 9 Ibid. pag 65 10 GABRIELE D’ANNUNZIO, Tragedie, sogni e misteri a cura di Annamaria Andreoli, Tomo II, Milano, I Meridiani Mondadori, 2013, pag.1570 11 PAOLO VALESIO,“Il coro degli Agrigentini” in D’Annunzio- Pirandello. Quaderni del Vittoriale, cit. pag 66 12 “la processione del prologo è, con i suoi cori, una semplice primitiva cellula rispetto a quelle splendide, abbaglianti, meravigliose pompe di quelle processioni ricche di broccati e d’oro, che fermeranno lo spettacolo più grandioso delle lagune”. GIOVANNI COMANDE’, Basiliola. Commento storico ed estetico alla Nave di Gabriele d’Annunzio, Palermo, Santi Andò Editore, 1908, pag.96 13 LA NAVE Tragedia di Gabriele D’Annunzio,cit. pag. 54 14 “[…]il ruolo di primo piano che il poeta riserva al popolo, alle grida dei marinai e in particolare ai Cori, elementi non solo accessori e di corredo ma indispensabili allo svolgimento della tragedia. Di fatto, senza i Cori liturgici e pagani non si assisterebbe - ad esempio- al banchetto del secondo episodio durante il quale l’alternarsi delle diverse voci corrisponde, secondo un gioco perfetto di simmetrie creato da d’Annunzio, alla voce di Basiliola da una parte e a quella dei Gràtici dall’altra” GABRIELE D’ANNUNZIO, Tragedie, sogni e misteri a cura di Annamaria Andreoli, Tomo II, cit. pag.1567 15 LA NAVE Tragedia di Gabriele d’Annunzio, cit., pp.249-250 16 “Alla musica arcaizzante di Pizzetti il poeta destina testi latini ricreati secondo gli sperimentati procedimenti della parodia o del pastiche. Alle antifone mariane o ai canti del rito ambrosiano, a volte riprodotti puntualmente a volte con sottili difformità, si contrappone l’invenzione per anamorfosi, sulla base di tessere anticamente attestate, degli inni a Diona, la primordiale divinità venerata come principio erotico generatore nel culto demotico della Vita e della Morte che Basiliola importa a Venezia dall’Oriente” GABRIELE D’ANNUNZIO, Tragedie, sogni e misteri a cura di Annamaria Andreoli, Tomo II, pag.1568 17 GIOVANNI ISGRO’, D’Annunzio e la mise en scène, Palermo, Palumbo,1993, pag. 119 13 “La croce trionfa, ma non è più l’umile simbolo d’infamia: i nuovi conquistatori l’hanno rivestita d’oro e di argento, l’hanno incrostata di smeraldi e di ametiste, l’hanno istoriata d’iscrizioni e di fregi” D. ANGELI, Lo scenografo della “Nave”:Duilio Cambellotti in «Il Marzocco», Firenze,29 dicembre 1907, anno XII, n°52 (sito internet: http://www.vieusseux.it) Sempre nel secondo episodio, poco prima del fratricidio, un’altra scena corale e popolare è il banchetto profano a cui partecipano Basiliola ed il vescovo Sergio, ormai totalmente succube della donna. Si tratta di un convivio pagano, celebrato però in un luogo sacro, in cui i commensali, uomini e donne alterni, mangiano e bevono senza misura, non come fedeli adunati a celebrare il natalizio del Martire, ma come Gentili in gozzoviglia notturna dedicata ai Mani .18 In un clima di euforia, la protagonista si cimenta in una danza sensuale e lasciva in cui la folla la incita a denudarsi. Ad interrompere questa “frenesia erotica collettiva”19 giungono “ i zelatori della fede” che denunciano il sacrilegio e la lussuria osannando Dio e sollecitando l’intervento di Marco Gratico. Egli, condannata l’empietà del fratello, lo sfida a duello e lo uccide purificando così il luogo sacro. I rimandi ad episodi biblici sono molto evidenti, con i due fratelli, novelli Caino ed Abele, spinti dalla donna che incarna il male che porta alla distruzione . Tale episodio si presta ad un confronto con l’opera di Pirandello Sagra del Signore della Nave, scritta nel 1924, che se pur molto distante per trama e stile, presenta tuttavia dei punti d’incontro con La Nave di d’Annunzio. In particolare entrambe le opere evidenziano il ruolo fondamentale della folla, alternano voci e personaggi seguendo uno schema apparentemente confuso, in realtà ben orchestrato e architettato, necessitano di un gran numero di attori per la messa in scena. Inoltre è rilevante il rapporto tra religione e cultura popolare, sia nell’aspetto rituale che emotivo. La Sagra del Signore della Nave è un atto unico tratto dalla novella Il Signore della Nave in cui una processione e la folla sono i veri protagonisti. 20 La trama è esile: in occasione di una festa paesana coincidente con l’annuale macellazione del maiale, il signor Lavaccara fa uccidere il suo animale, ma se ne pente e si dispera perché era particolarmente intelligente. Un pedagogo lo consola e cerca di convincerlo che solo gli uomini possiedono l’intelligenza. Ma durante la celebrazione intorno a loro tutto sembra contraddire questa tesi: i paesani stanno festeggiando il santo abbandonandosi al vino, alla lussuria, alle orge, con atteggiamenti violenti e bestiali, in una escalation di esaltazione degli istinti più bassi. Solo all’arrivo della processione e al rintocco delle campane della chiesa la folla immediatamente si ricompone e si inginocchia di fronte all’immagine del Cristo insanguinato, un crocefisso appartenuto ad una nave proveniente dall’oriente, e recita il “mea culpa” per paura della punizione divina. Le due opere descrivono un mondo primitivo pagano coesistente con un mondo religioso cristiano, dove è evidente l’opposizione peccato/ penitenza, colpa /espiazione. In entrambe abbiamo un sacrificio: il maiale in una, il vescovo Sergio nell’altra. Le folle si abbandonano alle gozzoviglie e agli istinti primitivi, ma poi si pentono e si prostrano di fronte ai simboli cristiani (il crocefisso in Pirandello, 18 LA NAVE Tragedia di Gabriele d’Annunzio, cit., pag. 138 19 GABRIELE D’ANNUNZIO, Tragedie, sogni e misteri a cura di Annamaria Andreoli, Tomo II, pag.1579 20 “una folla paesana colorita e vivace si muove tra le baracche della fiera campestre – marinai, prostitute, venditori ambulanti vanno e vengono tra i canti, le grida degli imbonitori, quasi una musica stridula e penetrante” CORRADO SIMIONI, Sagra del Signore della Nave. Introduzione in Il teatro di Luigi Pirandello, Milano, Oscar Mondadori Editore, 1980, pag. XXXIV 14 la grande croce equilatere in d’Annunzio). In particolare la processione rappresenta quel momento di aggregazione e recupero dei valori religiosi e penitenziali, riconducibili alla simbologia e ritualità dei tempi antichi. In d’Annunzio è sia un momento di celebrazione e omaggio alle reliquie dei Santi Martiri Tutelari, sia un modo di sottolineare la vittoria del cristianesimo sul paganesimo, incarnato da Basiliola e dalle sue danze orgiastiche. Egli manifesta un profondo rispetto per la religione, riprendendo da essa la magnificenza del linguaggio e la solennità del rito. In Pirandello c’è ambiguità. Dice il giovane pedagogo in chiusura del dramma: sta come Duilio Cambellotti. In occasione della prima rappresentazione al teatro Argentina di Roma nel 1908 egli disegnò i costumi e le scenografie. Essi risultarono estremamente ricercati e di grande effetto, ottenuto grazie ad uno studio accurato dell’epoca, alla sua passione da archeologo, alla sua abilità di ricreare perfettamente le atmosfere del passato, all’utilizzo di materiali puri e non convenzionali nel teatro della sua epoca, all’impiego di artigiani veri per la loro realizzazione. 22 Un enorme scafo di nave fu costruito sul palcoscenico del teatro Argentina di Roma, “costrutta con tutte le arti del mestiere, da un fiumarolo del Tevere, calafato e maestro d’ascia [… ] occupa tutto il fondo del palcoscenico. Alcuni operai le danno un’ultima mano di pece, della vera pece. Duilio Cambellotti forte e barbuto che si è rivelato in questa circostanza artista potente e geniale dava gli ultimi tocchi alle scene in una foresta di lampade votive, di candelabri, di remi, di croci e di armi” 23 No, no, vede? Piangono, piangono! Si sono ubriacati, si sono imbestiati; ma eccoli qua ora che piangono dietro al loro Cristo insanguinato! E vuole una tragedia più tragedia di questa?21 Forse la tragedia consiste nel fatto che le persone vengono descritte nella loro dannazione, a causa di un ravvedimento tardivo e senza valore, per cui piangono inutilmente. E allora il pentimento per non aver salvato il maiale è lo stesso degli uomini che troppo tardi hanno trovato la propria fede. Oppure nel loro pianto si può vedere la conversione operata da quel crocefisso miracoloso che offre la possibilità della salvezza. Sia il testo di d’Annunzio che quello di Pirandello hanno in comune il trionfo di Cristo e il ruolo della processione, il cui scopo è di riunire i fedeli nella comune venerazione, di trovare nei simboli cristiani un momento di aggregazione e di espiazione . E così la tragedia individuale si collega alla tragedia della folla che vive in parallelo e amplifica i sentimenti e le angosce dei protagonisti. L’opera dannunziana, per la forza drammatica della trama, per la sua dimensione corale e religiosa, per l’ambientazione storica ben si presta ad ispirare un grande arti- Così viene descritta sull’Illustrazione italiana del 19 gennaio 1908 la grandiosa scenografia. Dalle immagini che Duilio Cambellotti disegnò per la rivista è evidente quanto la nave vera 24dovette impressionare il pubblico dell’epoca e come attorno a questo “gigante” fosse possibile ricreare con grande efficacia quelle scene di massa così ricorrenti nel testo. 21 Ibid. pag.136-137 22“[…] per quella virtù che è in lui di dare forma alle immagini antiche e di suscitare tutta una civiltà dimenticata, dai pochi frammenti sparsi nei musei o fra le rovine. Perché egli è veramente uno dei pochi artisti i quali abbiano il «senso della storia» il potere, cioè, di creare un mondo fuori dalle ombre in cui era sepolto” DIEGO ANGELI, Lo scenografo della “Nave”:Duilio Cambellotti in «Il Marzocco», cit. 23 “A Roma nel giorno del varo”, sabato 11 gennaio in « L’Illustrazione italiana», Anno XXXV n°3, 19 gennaio 1908 24 “[…]posta sopra un vero scalo, così che, tolti i puntelli, può scendere come se veramente fosse varata” GIOVANNI POZZA, La tragedia, in «Il Corriere della sera», 12 gennaio 1908 15 “Angelico porco alato”: d’Annunzio e la censura Antonio Armano “Se qualcuno mettesse quel libro nelle mani di mia figlia non aspetterei la legge, gli sparerei”. Il libro con cui ce l’ha il magistrato Crane si intitola The Triumph of Death. La traduzione inglese del romanzo di d’Annunzio (Il trionfo della morte) finisce alla sbarra nel 1897 a New York. Su segnalazione – nientemeno – di Anthony Comstock, il terribile segretario della Lega per la soppressione del vizio. Un personaggio molto attivo e aggressivo nel denunciare ogni opera in odore di peccato, che gira armato di revolver ed è dotato di potere di arresto, come racconta Gay Talese nella Donna d’altri, magnifica inchiesta sull’evoluzione dei costumi in America, recentemente ripubblicata dal Saggiatore. 16 In una raccolta di casi di censura per oscenità negli Stati Uniti (Literature Suppressed on Sexual Ground), Down B. Sova parla della vicenda che riguarda d’Annunzio e di cui si occupa pure il New York Times alla fine dell’800. The Triumph of Death è l’unico libro italiano processato in America per questo tipo di crimine, se non contiamo il Decameron. George H. Richmond junior e suo padre, cioè il distributore e l’editore del romanzo, sono gli imputati. Dall’altra parte dell’oceano l’autore si gode la gloria – almeno dopo l’assoluzione -, e il relativo successo di vendite. D’Annunzio non è ignoto al grande pubblico internazionale dai tempi di The Child of Pleasure. Il piacere, l’esordio narrativo che lo fa conoscere al mondo, ha sedotto i più grandi scrittori – compreso Joyce - e fa parlare di rinascita della letteratura nell’Italia post-Risorgimento. La versione inglese è stata pubblicata, come spesso avveniva, in una traduzione edulcorata, seppur buona - a quanto pare - nella resa del sofisticato stile, causa temperie vittoriana e puritana. Solo nel 2013, per il 150esimo anniversario della nascita dell’Immaginifico, Penguin Classics ha rimesso in stampa l’opera in una nuova traduzioneuncensored, unexpurgated, e con un titolo più fedele, The Pleasure. Un retour de flame tra lo scrittore e i lettori di lingua inglese acceso da The Pike: Gabriele d’Annunzio: Poet, Seducer & Preacher of War (Il luccio: Gabriele d’Annunzio: poeta, seduttore e guerrafondaio). La biografia di Lucy Hughes-Hallet, sempre uscita nel 2013, ha vinto ben tre premi letterari: il Samuel Johnson per la non-fiction, il Costa per le opere biografiche e il Duff Cooper. Rizzoli l’ha pubblicata in Italia. In breve: d’Annunzio è tornato in auge a livello globale, dopo il lungo oblio dovuto a vari motivi come la compromissione col fascismo, di cui è stato un ispiratore, ma soprattutto il carattere datato di molte delle sue opere, alcune delle quali oggi sono praticamente illeggibili. Tornando alle vicende censorie, in Italia d’Annunzio si è meritato il soprannome di “angelico porco alato” per via dell’erotismo raffinato che stilla dalla sua prosa ma nessuno ha provato a mettergli la mordacchia, al netto del biasimo di certi critici come il Gargano che così recensisce Forse che sì, forse che no (1910): “Bisogna insomma gridare ch’egli non sa scrivere se non nel fondo buio di uno stagno melmoso ove si lordano perpetuamente di belletta negra le creature più care al suo sogno: creature fatte di egoismo e di bestiale lussuria”. Tra il Superuomo (Supermen, in inglese) e la preda della sua temporanea o eterna passione, in realtà, non può accadere nulla di gretto e triviale tantomeno tra le lenzuola di seta. Casomai qualcosa di trasgressivo, incesto incluso. Nel Piacere ci sono alcune descrizioni ardite, ma sempre sfumate in uno stile sublime e decadente, mai dettagliate e realistiche. Si parla a un certo punto di una donna completamente calva colà dove non batte il dolce sole romano, una specie di attrazione tra i mondani amici del protagonista Andrea Sperelli. Effetto ceretta brasiliana totale ante litteram... Elena Muti, la donna di cui Sperelli è perdutamente innamorato, ha un facoltoso marito inglese – oggi diremmo sugar daddy? – che possiede una biblioteca segreta con testi libertini di vario genere, compresa una tremenda raccolta di tavole necrofile. Il resto sono sensazioni fluttuanti nell’iperuranio di un universo di aggettivi e iperboli al calor bianco. Niente a che vedere con il crudo realismo di un Émile Zola. Lo stesso vale per The Triumph of Death, dove si narra dell’amore tra Giorgio e Ippolita, naturalmente sposata, perché il Superman dannunziano non si fa scrupoli borghesi e non è mai incatenato nelle angustie di un matrimonio o di una relazione da comuni mortali. Visto che siamo in zona centenario prima guerra mondiale, vale la pena di ricordare come il divorzio sia stato introdotto da d’Annunzio nella Carta del Carnaro, la costituzione di Fiume, ma lui stesso non ne ha approfittato restando formalmente sposato a Maria Hardouin di Gallese. La vicenda del romanzo si conclude con la morte degli amanti, in un salto nel vuoto da cupio dissolvi. A parte l’epilogo tragico, riflette la storia d’amore tra l’autore e Elvira Leoni, in parte ambientata in un atavico Abruzzo che minaccia il protagonista/ auto- re con tutte le sue miserie spirituali e materiali. Secondo quanto dice Down B. Sova, alcuni punti spinti, sono tutt’al più rintracciabili nelle pennellate che dipingono Ippolita: il suo “sterile abdomen”, “the narrowness of her tigh”. Più in generale, il puritanesimo di Comstock deve essere stato colpito dalla carica sensuale del libro e dal coefficiente di trasgressione, per non parlare della decadente esaltazione finale della morte di coppia. Comstock pretendeva di sottoporre a giudizio i singoli punti incriminati mentre la corte, in quella primavera del 1897, esamina l’opera nel suo insieme non trovandola oscena o censurabile. Il segretario della Lega per la soppressione del vizio ci riprova in New Jersey, e più precisamente ad Asbury Park, luogo di villeggiatura estiva. Negli Stati Uniti la legge federale permetteva di agire contro i libri tacciati di oscenità in ogni singolo Stato, ma il tentativo va a vuoto e il New York Times ridicolizza il censore in un corsivo intitolato “D’Annunzio at Asbury Park” del 24 luglio 1897. L’unico effetto raggiunto è quello di creare pubblicità e incrementare le vendite secondo un meccanismo del succèss de scandale di cui il Vate è maestro se non precursore assoluto visto che 17 lo associano spesso a Oscar Wilde nella concezione della vita come opera d’arte. I percorsi dei due dandy si incrociano a Parigi. Diventato un artista di primo piano, non solo in Italia, d’Annunzio si trasferisce in una dimora consona, la Capponcina, una villa quattrocentesca in Toscana degna di un principe rinascimentale. Il suo santo prediletto è San Francesco ma l’unica cosa che li accomuna sono le mani bucate. I debiti lo assillano al punto da costringerlo a un tour di conferenze ben remunerate, che lo distraggono dal lavoro, molto intenso e proficuo in quegli anni, ma non risolvono le pendenze. Più guadagna e più spende. Per sfuggire ai creditori si accorda per un altro ciclo di bagni di folla, questa volta in Argentina. Si fa anticipare una ingente somma promettendo di salpare da Parigi, dopo essersi curato i denti, ma resta in Francia a lungo nella atmosfera sfavillante e morbosa della belle époque. 18 A Parigi resta folgorato da Ida Rubinstein, la ballerina rimasta senza veli nell’ultima scena della Salomè di Wilde, con conseguente chiusura dello spettacolo: da tempo cercava qualcuno che interpretasse un’opera su San Sebastiano e le gambe lunghe e affusolate della russa gli sembrano quelle giuste per il santo. Un San Sebastiano interpretato da una ebrea e per giunta saffica non entusiasma la Chiesa che va in fibrillazione mentre le notizie sulla preparazione vengono fatte filtrare ad arte sulla stampa per creare una grande attesa dell’evento dell’anno. D’Annunzio riesce a convincere Claude Debussy a comporre le musiche e si cimenta nella scrittura dei testi in un francese intarsiato di termini aulici e medievali che far parlare di lui come dell’ultimo dei trovatori o dell’artefice di una lingua poetica inesistente e falsa. Il libretto del martirio di San Sebastiano è stato da poco pubblicato dalla casa editrice Elliot, con la traduzione in italiano, oltre al testo francese, le immagini dei costumi e delle scenografie, e un’ampia prefazione di Paola Sorge che ricostruisce la mirabolante vicenda. La première si tiene il 22 maggio del 1911 al teatro Châtelet di Parigi e vi assiste tutto il bel mondo, compreso Marcel Proust che confesserà di essersi annoiato. La serata viene definita un “glorioso fiasco”, per quel cockatil di sfarzo e tedium risultante da una mise en scène dove tutto è eccessivo ed estenuante, dai colori alla durata dello spettacolo. Del dramma visivo dannunziano, giocato sull’ambiguità sessuale e su un estetismo paganeggiante e medievale, resta la musica di Debussy che viene giudicata inconciliabile con tutto resto, ed è languida, sommessa e misteriosa. Molto meno numerose le repliche con testo. Il Vaticano, poco prima della prèmiere, mette all’indice i romanzi, i racconti e le opere teatrali di d’Annunzio: una buona parte della sua creazione. La condanna del Sant’Uffizio, per trame sensuali, blasfemia, accondiscendenza dell’autore di fronte alle perversioni dei personaggi, viene ricostruita da Matteo Brera in un saggio sui Quaderni del Vittoriale (n. 8/2012). Il lavoro preparatorio per la Congregazione viene svolto da un cappuccino di Monterotondo, Giuseppe Maria Checchi: “Ed epicureo – scrive - è il d’Annunzio: non di bassa lega, ma aristocratico, artistico, filosofico; siccome colui che scrive per i saloni di gente per bene. Egli infine è un superuomo, pieno di sé, disprezzator della plebe, e disprezzatore degli infelici, a guisa appunto dei pagani”. Sempre sospeso tra una passatismo di maniera e slanci moderni – la passione aviatoria per esempio, la grandissima abilità divistica e autopromozionale – d’Annunzio è sicuramente moderno nell’introdurre tematiche trasgressive in una letteratura assai casta come quella italiana. Tra Manzoni, Leopardi e Carducci, protesta Alfredo Sandulli in Arte delittuosa, un saggio degli anni ‘30, si stava così bene. Poi è arrivato il “poeta porco”. Se il priapistico d’Annunzio “scrive vivendo e vive scrivendo”, come nota Alexander Stille nella prefazione di The Pleasure, cioè mescola le carte tra l’arte e la vita, anche l’opera riflette il vitalismo erotico dell’artista. A tutt’oggi la ricerca più frequente associata in Internet al suo nome riguarda la leggenda metropolitana dell’autofellatio, molto diffusa, tra l’altro, tra gli studenti in visita al Vittoriale. Bisogna invece dire, spiega Giordano Bruno Guerri, presidente della fondazione Il Vittoriale degli Italiani, che i suoi sogni non erano molto diversi da quelli della maggior parte degli uomini: da giovane gli piacevano le donne mature, da anziano quelle giovani, e sempre i giochi a tre, vale a dire con due donne, nonché le storie con amanti saffiche... A rendere speciale ed eclatante la vita di d’Annunzio era il fatto che lui realizzava i suoi sogni, diversamente dalla maggior parte degli uomini. Talvolta, come scrive Guerri in La mia vita carnale (Mondadori), una biografia passionale del Vate, lui stesso alimentava le leggende mettendo in giro storielle al limite della perversione: per non spaventare le donne che vedevano sulle sue parti intime delle cicatrici, diceva per esempio che l’aveva morso il cane proprio lì. E dire che amava i levrieri... Mentre si trattava delle tracce della sifilide. LA ROMANZA DA SALOTTO, ESPRESSIONE DI CIVILTA’ SOCIALE Francesca Guerrasio E’ innegabile, soprattutto alla luce di numerosi studi di musicologia, che la romanza da salotto fu un fenomeno non solo musicale ma anche socio-culturale di ampie dimensioni che interessò i compositori italiani per tutto l’Ottocento e mise alla prova una generazione intera di melomani e professionisti, fornendo al pubblico un amusement fugace, al dilettante un breve momento di divismo, al compositore una prova di stile e all’editore di quella musica un mezzo commerciale importante per la divulgazione di trascrizioni e riduzioni di vario genere. 19 Quando nel secondo ottocento la diffusione del pianoforte investì i salotti dell’aristocrazia italiana e della borghesia “perbene”, la romanza divenne, infatti, una delle forme estetiche più in voga tanto da richiedere un impegno compositivo quasi esclusivo da parte di veri specialisti. “Espressione di civiltà sociale”, la tradizione del concerto in casa, animato da melodie ammiccanti talvolta composte su testi letterari di insigni poeti, caratterizza gli anni della Belle Époque durante i quali la musica e la cultura, autentiche forze di crescita morale e civile, diventano protagoniste di serate raffinate spesso esaltate dalla presenza di grandi personalità dell’epoca: Carella, Cilea, Tosti… Celebri romanze fanno da colonna sonora ad una società che la studiosa Giovanna Scarsi1 definisce lucidamente “perbenista, affettata ed ipocrita”, assetata di brevi palpiti ed intense emozioni erotiche. Le capitali italiane della musica, Napoli in testa, sono i centri di esportazione di talenti di fama mondiale (e della rinomata scuola pianistica napoletana che ebbe tra i primi iniziatori Francesco Lanza), che trovando a Londra uno dei poli di maggior interesse, danno vita non solo all’internazionalizzazione del genere ma anche ad un ampio sviluppo editoriale testimoniato, in particolare, dall’impresa di Ricordi. Inizialmente, la romanza sembra pronunciare il tipico patetismo delle apostrofi, delle suppliche, degli accorati vocativi e dei vani imperativi con temi quasi più drammatici che lirici che spaziano dall’esilio all’amor patrio, dal tormento amoroso alla morte, declinati a mo’ di versi da feuilleton. Tanto è che i giudizi di insigni compositori sottolineano inequivocabilmente lo scarso valore poetico e l’esasperazione di temi anche nobili “involgariti” dalla cultura medio-bassa di una piccola borghesia. Ildebrando Pizzetti, in particolare, in un saggio apparso nel 1914 dal titolo Musicisti contemporanei, non nasconde il giudizio acerrimo per quei compositori che adeguandosi alle esigenze del pubblico, prestavano più attenzione ad una musicalità di facile presa che alla profondità dei testi musicati propendendo, sovente, per scelte poetiche che esaltassero il sentimento dell’amore e per atmosfere “funeree, popolate di amanti abbandonati, di vedove inconsolabili, di giovani morte prematuramente, possibilmente consunte dalla tisi2”. “[…] quando vogliono scrivere delle romanze, scelgono fra tutte le poesie che hanno sott’occhio, le più insulse, le più sciocche, o per averle come essi le desiderano, se le fanno scrivere apposta da qualche amico compiacente […]3”. Man mano che la romanza assume un ruolo importante nella vita culturale del Paese e si diffonde in Europa, il contesto cambia in favore di situazioni meno languide e di testi meno legati alla tradizione “sentimentalistica”. Dietro i fasti e i luccichii delle paillettes delle prime romanze, questa, nella fase matura, rivela un suo carattere drammatico e sociale, avvalendosi di una poesia di interessante valore “che ebbe il torto di non essere frutto dei grandi poeti italiani del tempo (D’Annunzio escluso), ma alla quale dettero importanti contributi letterati e poeti di ispirata perizia e di dignitosa vena creativa4”. La disunità artistica nella letteratura cameristica vocale, che si manifesta in Italia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, permette ai compositori una maggiore libertà di espressione che si traduce in un linguaggio poetico rinnovato sia nei contenuti che nella struttura formale più varia e 1 Giovanna Scarsi, La leggenda dell’artista nella Belle époque, Roma, Edizioni Studium. La memoria di Giovanna Scarsi ci riporta indietro di mezzo secolo e più, ad uno dei tanti sabato fascista che se ne va sulle note di una romanza intonata dal soprano Elsa Scarsi. Il souvenir nostalgico di quelle note raffinate, fornisce lo spunto storico per delineare la genesi della romanza e della canzone da salotto che affonda le proprie radici nella consuetudine del concerto in casa. 2 Raoul Meloncelli, “Poesie e poeti della romanza da salotto”, in SANVITALE, Francesco (a cura di), La romanza italiano da salotto, p. 69. 3 Ildebrando Pizzetti, Musicisti contemporanei, Milano, Fratelli Treves, 1914, p. 4. 4 SANVITALE, Francesco, “Il salotto italiano dell’Ottocento: non solo i sospiri di Nonna Speranza”, in SANVITALE, Francesco (a cura di), La romanza italiano da salotto, Torino, EDT, 2002, p. 4. Tra i numerosi contributi letterari Sanvitale ricorda in particolare quello di Enrico Panzacchi, Lorenzo Stecchetti, Errico Fogazzaro, Francesco Cimmino, Rocco Eduardo Pagliara, Giovanni Alfredo Cesareo, Martini che “lavoravano onestamente per prodotti di pregio e che oggi vengono così malgiudicati senza essere letti”. 20 meno legata allo schema strofico. Tra i primi ad evitare toni retorici inflazionati oltre misura, Fabio Campana (1819-1882), autore di romanze, canzoni e melodie, molto apprezzato da Rossini e dal pubblico dei salotti londinesi per le sue linee melodiche semplici. Benchè i testi delle sue romanze non fossero eccelsi, la buona fattura degli stessi anticiparono e favorirono, con la loro varietà, il successo che avrebbero incontrato, più tardi, le composizioni di Tosti. Quest’ultimo, profondo conoscitore dell’arte vocale, si distinguerà particolarmente per uno stile elegante, sentimentale ma non sdolcinato e per la scelta di testi raffinati ma semplici che corrispondevano al suo modo di sentire. Prezioso collaboratore dei più grandi interpreti del tempo tra cui Enrico Caruso e Nellie Melba per esempio, si avvalse dell’esperienza di brillanti letterati italiani (Ada Negri, Emilio Praga, Salvatore di Giacomo, Giosué Carducci…anche solo per isolati episodi), inglesi (Weatherly, Sowerby) e francesi (Victor Hugo, Alfred de Musset, Paul Verlaine) siglando nel 1881 un felice sodalizio con Gabriele D’Annunzio che durerà fino al 1916. Autore di quindici titoli e di trentaquattro brani complessivi, il poeta sarà legato a Tosti non solo da un rapporto professionale prolifico e duraturo ma anche da una sincera amicizia e da una stima profonda per la persona. Il fascino di quelle melodie semplici ma di inconfondibile fisionomia, la cura dell’espressione musicale e l’aderenza di questa ai contenuti del testo, diventano per il Vate fonte di ispirazione letteraria e per il compositore il viatico per una carriera internazionale. A Londra, in particolare, il compositore fu accolto con molto entusiasmo sapendo rinvigorire la ballata inglese con un’impronta meno “dozzinale”. La romanza da salotto ottocentesca si eleva, con Tosti e D’Annunzio, a lirica da camera portandosi dai salotti borghesi e aristocratici nelle sale da concerto fino ad entrare nei repertori dei più grandi cantanti di tutti i tempi dal ‘900 ad oggi e negli studi di registrazione discografica. Il sodalizio tra i due artistici inizia con “Visione”, ma nella dedica dei sette Idilli selvaggi (contenuti nella seconda edizione di Primo vere), il giovane D’Annunzio esprime già la propria stima nei confronti del compositore, nominandolo per primo in una lista di dedicatari: “A F.P. Tosti, F.P. Michetti, C. Barella, P. De Cecco questi scialbi pitiambici in ricambio del XXVI Ottobre, un poema!...”. Qualche anno più tardi, il suo giudizio musicale impresso in un articolo della Tribuna del 12 gennaio 1888, confermerà con veemenza la propria ammirazione per i modi di Tosti e per quel raffinato senso della melodia che lo contraddistingueva: “Francesco Paolo Tosti… cantava a bassa voce, con modulazioni d’una inimitabile finezza quelle romanze dove spesso rivivono in tutta la loro natìa freschezza le canzoni della patria e dove una così limpida vena di melodia corre e scintilla fra le sottili fioriture dell’armonia accompagnante”. L’accurato equilibrio tra melodia e armonia, il senso ritmico nel rapporto tra musica e parola, l’attenzione agli eventi della cultura artistica europea e ovviamente la maestrìa nella scelta dei testi, sono tutti elementi che hanno contribuito alla fama internazionale di Tosti ineguagliabile nell’ambito della produzione italiana del genere. Delle circa trenta romanze conosciute, nate dalla collaborazione tra il poeta e il compositore, lo studioso Emiliano Mariano individua due “maniere” diverse, coincidenti con due periodi ben definiti: il pri- mo databile tra il 1880 e il 1892 che corrisponde per D’Annunzio alla fase della giovinezza artistica caratterizzata soprattutto dal tema dell’amore e per Tosti dalla stagione di maggiore creatività durante la quale firmerà anche numerosi canti dialettali (come ad esempio i Canti popolari abruzzesi); il secondo dal 1906-1916 caratterizzato da atmosfere più intimistiche, temi più complessi e forme musicali che si allontanano dall’estetica della romanza per andare incontro a “momenti” musicali di una maggiore carica emotiva. Lo schema di seguito riportato, permette di cogliere immediatamente alcuni aspetti delle varie composizioni, a partire da quelli formali, evidenti dalla dicitura che segue il titolo. Tosti, infatti non impiegò mai il termine romanza preferendo indicazioni più pertinenti all’estetica della composizione come serenata, notturno, ninnananna, poemetto, canzone, melodia, arietta. Prima maniera 1880 Visione!... Melodia 1882 Buon Capo d’Anno 1882 Vuol note o banconote? 1882 En Hamac 1887 Malinconia. Melodie 1883 Notte bianca. Serenata 1884 Arcano!... Melodia 1885 Vorrei. Melodia 1889 Ninna nanna 1892 Per morire. Melodia 1892 ‘A vucchella. Arietta di Posillipo 21 Seconda Maniera 1907 Quattro canzoni di Amaranta 1911 Due piccoli notturni 1893 © 1919 Consolazione. Poemetto (diviso in otto momenti). 1916 La sera. Poemetto (diviso in sei momenti) E’ bene precisare che le date sopra riportate fanno riferimento a quelle inscritte sugli autografi conservati negli archivi Ricordi che differiscono dal momento di stampa o dall’anno del copyright sovente molto postumo rispetto alla creazione. Proprio gli autografi rivelano un aspetto interessante del momento di creazione e del modus operandi del compositore: attraverso la scrittura chiara, decisa e quasi priva di cancellature si evince la compiutezza del progetto compositivo tale sin dall’inizio. Tosti, cioè, aveva bene in testa l’andamento delle linee melodiche e armoniche che solo in poche occasioni ritoccherà limitandosi, però, a piccole modifiche di posizione delle note che nulla cambiano della struttura armonica. Le numerose indicazioni di agogica (a tempo, col canto, sostenuto, stentato, con anima etc.), dinamiche e tempi mostrano, inoltre, la volontà di indirizzare precisamente l’interprete di quella musica. Un aspetto, questo, che è particolarmente evidente nella prima fase di collaborazione con D’Annunzio poiché col passare degli anni Tosti si limiterà ad aggiungere alla musica semplici segni di dinamiche. Quanto a D’Annunzio, questi si divertirà a firmare molti testi con lo pseudonimo “gentile e aristocratico” secondo la definizione di Emilio Mariano, di Mario de’ Fiori, utilizzato soprattutto durante il tirocinio giornalistico alla Tribuna di Roma e poi abbandonato a partire dal 1893. Due romanze non riportano, curiosamente, alcuna firma: Buon Capo d’Anno e Vuol note o banconote?, le uniche per altro a non essere edite dalla casa Ricordi. Canzoni d’occasione appariranno rispettivamente sul settimanale romano di letteratura e varietà Capitan Fracassa e sul periodico quindicinale letterario-sociale-artistico Cronaca bizantina, la prima figurando come augurio per l’avvento del nuovo anno (1882) e la seconda come uno scherzo musicale in omaggio al direttore del giornale che è infatti il dedicatario di quella canzone. Una nota anonima contenuta nel numero 3 del periodico (1° febbraio 1882) ma attribuibile5 a D’Annunzio, ironizza sui tempi e lo stato d’animo del compositore che non appare soddisfatto di quel lavoro: “L’incisione dello scherzo musicale di F.P. Tosti è un orrore: per mancanza di tempo ormai siamo costretti a darlo qual è. Il biondo Ciccillo stamani era disperato: l’amministratore, per calmarlo, ha deciso di non pagare l’allampanato artista autore dello strazio. Chi sa che il misero a quest’ora non stia mulinando nella mente grama un tuffo nel Tevere! O lettrici nervose, non vi corre un brivido di raccapriccio per il candido solco nelle reni?”. Il canto napoletano ‘A vucchella, chiude idealmente la fase giovane della collaborazione Tosti-D’Annunzio a partire dalla quale i testi si allontano sempre più dai temi di ispirazione tipici del genere (e del resto già Ninna nanna risulta “anomala”) per andare incontro ad una letteratura a tratti di carattere autobiografico e ad una parte musicale di più ampio respiro. Alcune romanze: Per morire o le Quattro canzoni di Amaranta, per esempio, fanno cenno, con im- 5 Riccardo Allorto, “Nota storico-testuale” in Francesco Paolo Tosti, Romanze su testi di Gabriele D’Annunzio, cit. p. 191. 6 Giovanna Scarsi, La letteratura fra testimonianza e arte, Roma, Edizioni Studium, p. 58. 22 peti di intensa drammaticità, alle vicende autobiografiche del Vate; inoltre il rapporto musica-testo sembra invertito e si direbbe che la melodia sia al servizio della parola ed espressione diretta dello stato d’animo da essa suggerito. Per morire in particolare fa riferimento all’amore di D’Annunzio per Barbara Leoni, a quell’amore che fu per il poeta “molla del mondo, […] levame dell’arte […] in cui si sublimano l’uomo e l’artista6”. Per questo, probabilmente e malgrado il titolo, l’andamento della romanza non è lento né grave ma un “allegretto” che non mostra cedimenti, se non fosse per quel “poco meno” immediatamente seguito da una ripresa del tempo iniziale. L’armonia presenta pochi elementi di reale interesse: scritta nella tonalità di sib maggiore modula per lo più al grado di dominante concludendo con cadenze perfette e introducendo sovente un accordo di sesta napoletana. La melodia procede per gradi congiunti con pochi salti intervallari che raramente eccedono la IV o la V giusta (in posizione discendente). Le uniche distanze più ampie si riscontrano nel passaggio “allegretto”/“poco meno” (intervallo di VI maggiore ascendente) e sulla divisione sillabica della parola “amore” e “basta” quasi a significare il senso di lacerazione ma anche di apertura verso il nuovo che risulta dalla fine di quella relazione sentimentale. Stilema della scrittura tostiana è l’impiego del cromatismo che unitamente ai gradi della scala abbassati sono finalizzati all’ottenimento dei cosiddetti semitoni “patetici” utilizzati per ovvie esigenze drammaturgiche. Nonostante la semplicità della scrittura musicale e del testo poetico, il risultato è di un’estrema delicatezza ed eleganza; la musica si sposa e si sublima nella parola sincera di un uomo che mostra con disinvoltura il proprio narcisismo e la propria infedeltà indispensabile tanto nella vita quanto nell’arte perché sinonimo di rinnovamento necessario “per non morire” e giustificato dall’ansia della ricerca di un ideale di Bellezza-Armonia. L’eroe Gabriele D’Annunzio da Le novelle della Pescara Sia pur non mancando novelle di toni diversi, vicine a certi tratti del realismo patetico (come il ritratto della povera lavandaia in La fine di Candia, accusata ingiustamente di furto, o del bozzetto regionale nella descrizione del rapsodo cattolico Mungià o, con qualche tratto di fantasia, le due novelle dedicate a Turlendana, il marinaio creduto morto), le tematiche significative nelle Novelle della Pescara, rimangono quelle legate al sangue, alla violenta sensualità e religiosità ancestrale magari nascosta dentro i riti cristiani, nel loro momento di massima visibilità della superstizione, nel movimento della folla delle processioni nel dittico Gli idolatri – L’eroe, dove, dando vita ad un vero e proprio massacro, si affrontano due schiere rivali, divise dal culto: l’una per San Pantaleone, l’altra per San Gonselvo. Descritto, nel primo frammento, lo scontro cruento tra le due schiere, con la sconfitta di San Pantaleone, in L’eroe, pubblicata sulla “Cronaca Bizantina” nel novembre del 1885 e poi in San Pantaleone, con uno stile secco, incisivo, incalzante, si rimane nella medesima atmosfera di una grandiosità sinistra, di volontà feroce nella superstizione e nella competizione virile, fin dai nomi dei protagonisti, con i sostenitori del Santo vincitore impegnati a innalzare la statua che però tentenna con l’enorme peso, schiacciando la mano di uno dei portantini. Con un gesto raccapricciante, tra eroico e follemente superstizioso, l’uomo, salito sull’altare, innalzandosi cioè sopra al popolo che inorridisce, lava la sua imperfezione, tagliando completamente la mano ferita e, lasciandola scivolare nel bacino delle offerte, la dona al Santo. Già i grandi stendardi di San Gonselvo erano usciti su la piazza ed oscillavano nell’aria pesantemente. Li reggevano in pugno uomini di statura erculea, rossi in volto e con il collo gonfio di forza, che facevano giuochi. Dopo la vittoria su i Radusani, la gente di Mascàlico celebrava la festa di settembre con magnificenza nuova. Un meraviglioso ardore di religione teneva gli animi. Tutto il paese sacrificava la recente ricchezza del fromento20 a gloria del Patrono. Su le vie, da una finestra all’altra, le donne avevano tese le coperte nuziali. Gli uomini avevano inghirlandato di verzura le porte e infiorato le soglie. Come soffiava il vento, per le vie era un ondeggiamento immenso e abbarbagliante di cui la turba si inebriava. Dalla chiesa la processione seguitava a svolgersi e ad allungarsi su la piazza. Dinanzi all’altare, dove San Pantaleone era caduto, otto uomini, i privilegiati, aspettavano il momento di sollevare la statua di San Gonselvo; e si chiamavano: Giovanni Curo, l’Ummàlido, Mattalà, Vincenzio Guanno, Rocco di Céuzo, Benedetto Galante, Biagio di Clisci, Giovanni Senzapaura. Essi stavano in silenzio, compresi della dignità del loro ufficio, con la testa un po’ confusa. Parevano assai forti; avevano l’occhio ardente dei fanatici; portavano agli orecchi, come le femmine, due cerchi d’oro. Di tanto in tanto si toccavano i bicipiti e i polsi, come per misurarne la vigoria; o tra loro si sorridevano fuggevolmente. La statua del Patrono era enorme, di bronzo vuoto, nerastra, con la testa e con le mani di argento, pesantissima. Disse Mattala: – Avande! In torno, il popolo tumultuava per vedere. Le vetrate della chiesa romoreggiavano ad ogni colpo di vento. La navata fumigava di incenso e di belzuino.23 I suoni degli stromenti giungevano ora sì ora no. Una specie di febbre religiosa prendeva gli otto uomini, in mezzo a quella turbolenza. Essi tesero le braccia, pronti. Disse Mattala: – Una!... Dua. Trea!... Concordemente, gli uomini fecero lo sforzo per sollevare la statua di su l’altare. Ma il peso era soverchiante: la statua barcollò a sinistra. Gli uomini non avevano potuto ancóra bene accomodare le mani intorno alla base per prendere. Si curvavano tentando di resistere. Biagio di Clisci e Giovanni Curo, meno abili, lasciarono andare. La statua piegò tutta da una parte, con violenza. L’Ummàlido gittò un grido. 23 – Abbada! Abbada! – vociferavano intorno, vedendo pericolare il Patrono. Dalla piazza veniva un frastuono grandissimo che copriva le voci. L’Ummàlido era caduto in ginocchio; e la sua mano destra era rimasta sotto il bronzo. Così, in ginocchio, egli teneva gli occhi fissi alla mano che non poteva liberare, due occhi larghi, pieni di terrore e di dolore; ma la sua bocca torta non gridava più. Alcune gocce di sangue rigavano l’altare. I compagni, tutt’insieme, fecero forza un’altra volta per sollevare il peso. L’operazione era difficile. L’Ummàlido, nello spasimo, torceva la bocca. Le femmine spettatrici rabbrividivano. Finalmente la statua fu sollevata; e l’Ummàlido ritrasse la mano schiacciata e sanguinolenta che non aveva più forma. 24 – Va a la casa, mo ! Va a la casa ! – gli gridava la gente, sospingendolo verso la porta della chiesa. Una femmina si tolse il grembiule e gliel’offerse per fasciatura. L’Ummàlido rifiutò. Egli non parlava; guardava un gruppo d’uomini che gesticolavano in torno alla statua e contendevano. – Tocca a me! – No, no! Tocca a me! – No! A me! Cicco Ponno, Mattia Scafarola e Tommaso di Clisci gareggiavano per sostituire nell’ottavo posto di portatore l’Ummàlido. Costui si avvicinò ai contendenti. Teneva la mano rotta lungo il fianco, e con l’altra mano si apriva il passo. Disse semplicemente: – Lu poste è lu mi’ E porse la spalla sinistra a sorreggere il Patrono. Egli soffocava il dolore stringendo i denti, con una volontà feroce. Mattala gli chiese: – Tu che vuo’ fa’? – Egli rispose: – Quelle che vo’ Sante Gunzelve. E, insieme con gli altri, si mise a camminare. La gente lo guardava passare, stupefatta. Di tanto in tanto, qualcuno, vedendo la ferita che dava sangue e diventava nericcia, gli chiedeva al passaggio: – L’Ummà, che tieni? Egli non rispondeva. Andava innanzi gravemente, misurando il passo al ritmo delle musiche, con la mente un po’ alterata, sotto le vaste coperte che sbattevano al vento, tra la calca che cresceva. All’angolo d’una via cadde, tutt’a un tratto. Il Santo si fermò un istante e barcollò, in mezzo a uno scompiglio momentaneo: poi si rimise in cammino. Mattia Scafarola subentrò nel posto vuoto. Due parenti raccolsero il tramortito e lo portarono nella casa più vicina. Anna di Céuzo, ch’era una vecchia femmina esperta nel medicare le ferite, guardò il membro informe e sanguinante; e poi scosse la testa. – Che ce pozze fa’? Ella non poteva far niente con l’arte sua. L’Ummàlido, che aveva ripreso gli spiriti, non aprì bocca. Seduto, contemplava la sua ferita, tranquillamente. La mano pendeva, con le ossa stritolate, oramai perduta. Due o tre vecchi agricoltori venne- ro a vederla. Ciascuno, con un gesto o con una parola, espresse lo stesso pensiero. L’Ummàlido chiese: – Chi ha purtate lu Sante? – Gli risposero: – Mattia Scafarola. – Di nuovo, chiese: – Mo che si fa? – Risposero: – Lu vespre ‘n mùseche. – Gli agricoltori salutarono. Andarono al vespro. Un grande scampanìo veniva dalla chiesa madre. – Uno dei parenti mise accanto al ferito un secchio d’acqua fredda, dicendo: – Ogne tante mitte la mana a qua. Nu mo veniamo. Jame a sentì lu vespre. – L’Ummàiido rimase solo. Lo scampanìo cresceva, mutando metro. La luce del giorno cominciava a diminuire. Un ulivo, investito dal vento, batteva i rami contro la finestra bassa. – L’Ummàlido, seduto, si mise a bagnare la mano, a poco a poco. Come il sangue e i grumi cadevano, il guasto appariva maggiore. – L’Ummàlido pensò: – È tutt’inutile. È pirduta. Sante Gunzelve, a te le offre. – Prese un coltello, e uscì. Le vie erano deserte. Tutti i devoti erano nella chiesa. Sopra le case correvano le nuvole violacee del tramonto di settembre, come mandre26 fuggiasche. – Nella chiesa la moltitudine agglomerata cantava quasi in coro, al suono degli stromenti, per intervalli misurati. Un calore intenso emanava dai corpi umani e dai ceri accesi. La testa argentea di San Gonselvo scintillava dall’alto come un faro. – L’Ummàlido entrò. Fra la stupefazione di tutti, camminò sino all’altare. – Egli disse, con voce chiara, tenendo nella sinistra il coltello: – Sante Gunzelve, a te le offre. – E si mise a tagliare in torno al pólso destro, pianamente, in cospetto del popolo che inorridiva. La mano informe si distaccava a poco a poco, tra il sangue. Penzolò un istante trattenuta dagli ultimi filamenti. Poi cadde nel bacino di rame che raccoglieva le elargizioni di pecunia, 27 ai piedi del Patrono. – L’Ummàlido allora sollevò il .moncherino sanguinoso; e ripetè con voce chiara: – Sante Gunzelve, a te le offre. Proposte di lettura: Dario Buzzolan, Andrea Zanzotto Claudio Cherin Se trovo il coraggio di Dario Buzzolan Edito dalla Fandango Libri1, Se trovo il coraggio di Dario Buzzolan è un romanzo che racconta la disillusione, l’amarezza e il non aver voce di fronte ad un mondo apparentemente lontano che ritorna anche se per anni accantonato in un recondito antro della mente del protagonista, Matteo. Il passato che si pensava di aver dimenticato nella quieta disperazione di una vita normale, fatta di studi universitari, di un matrimonio, di figli voluti e amati Ritorna attraverso la presenza di un ex compagno di liceo, Vincenzo Vono, che divenuto magistrato, cerca di chiarire un evento che ha segnato la loro vita di adolescenti. Nel giro di una lunga, densa notte il protagonista ripercorre la sua storia, la storia della città, Torino, le storie dei suoi compagni, che si sono persi o che ce l’hanno fatta. Così dalla disillusa città di oggi, compare quella frizzante degli anni Ottanta, con i suoi problemi, ma anche con i suoi eventi (il racconto finisce, infatti, all’alba di quella che sarebbe passata alla storia della città e dell’Italia come la Marcia dei quarantamila). E si ripercorre ciò che portò alla catastrofe: alla scomparsa misteriosa di due adolescenti Elen e Luca, a cui Matteo era legato. Nessuno, tranne Matteo, può dire che cosa sia accaduto. Proprio come in una delle puntate della serie Cold Case o come in Segreti svelati (un racconto che dà il titolo ad una raccolta di racconti della scrittrice canadese Alice Murno)2 la storia di questi due adolescenti e della loro terrificante fine emerge come un corpo dal fiume. Ed emergono le trame complesse che legano le vite le une alle altre. Il percorso di Dario Buzzolan è chiaro ormai da qualche tempo: autore, scoperto grazie al Premio Calvino, ha intrapreso un percorso, nella scrittura, sempre più rivolta alla storia. I suoi romanzi non si possono definire romanzi storici, ma sia ne I tuoi occhi sporchi di terra,3 così come ne Se trovo il corag- gio c’è il bisogno di comprendere i risvolti della storia contemporanea che sono ancora poco chiari o ancora poco studiati; il bisogno di confrontarsi con la penombra insondata che nasconde spesso cocenti verità. La scrittura è il modo di prendere coscienza di un problema più complesso e più articolato di quello che la storia tramandata ci ha riportato; 1 BuzzolanD., Se trovo il coraggio, Roma, Fandango Libri, 2013. 2 Munro A., Segreti svelati, Torino, Einaudi, 2008. 3 Buzzolan D., I tuoi occhi sporchi di terra, Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2009. 25 è questo il suo scopo, ci dice Buzzolan. Solo il romanzo, proprio perché contenitore asettico, può far convogliare tutte le diversità e le sfumature che la realtà porta con sé. Ecco, allora, comparire sullo sfondo delle sue narrazioni la Resistenza, e ora gli anni Ottanta. Buzzolan, usando un genere letterario ben definito, il noir, vuole farci comprendere che il romanzo storico è inadatto, inadeguato a raccontare la nostra storia recente. Come pensare, con quel genere, di ricostruire qualcosa che è ancora sotto i nostri occhi? Deve essere un lettore attento di Gadda, Dario Buzzolan, per aver compreso, come e quanto, questo sia appropriato per raccontare e non giustificare parte di quello che è il comportamento e le storie umane. Scoprire il colpevole non appaga. Non dà tregua. Non ha molto senso. La verità è un muro invisibile contro il quale si finisce per scontrarsi. E non ci saranno né vincitori né vinti. Se trovo il coraggio è un libro di disvelamenti, un libro in cui si cerca di indagare la realtà, un libro di genere, in cui il genere è un meccanismo usato per dire altro, quello che abbiamo detto fin ora, ma Se trovo il coraggio è anche un romanzo che parla di adolescenti e di una figura bellissima come Elen, che impersona la bellezza sofisticata e ammiccante, ma anche caotica dell’adolescenza. Che cosa ci può essere di più bello, a posteriori di quella tristezza che viene a ogni adolescente «diversa da qualunque altra tristezza normale tipo quando non ti partiva il motorino o non potevi uscire al pomeriggio o ti beccavi quattro in matematica, semplicemente per il fatto di averla vista chiacchierare con qualcuno o di non averle rivolto la parola per un secondo o avere sbagliato frase»?4 È la bellezza mortifera di Elen, soprannominata dal protagonista “lucertola” per il «modo in cui cercava il sole e ci si crogiolava quando lo trovava»5, la bella ma anche infelice, che rimane come un sogno. Come un fiore spezzato. Come qualcosa che non si è potuto proteggere. Ma che il protagonista ha avuto la fortuna di avere, anche se per un tempo limitato. E che forse non ha compreso fino in fondo. Chi, del resto, al suo posto avrebbe saputo fare di meglio? Poi c’è tutto il resto, quello che viene dopo, in quel mondo che è la giovinezza e la maturità (Matteo nel libro ha quarantasette anni ed è uno che viene descritto come schiacciato «in un angolo»6 costretto dalla realtà a dormire). Ma non c’è rimpianto. No, il rimpianto nei confronti dell’adolescenza non è cosa che si addica a questo libro. Buzzolan descrive chiaramente come tutto quello che viene dopo è scoperta diversa, altra rispetto a quella fatta durante l’adolescenza, e non per questo non degna di essere vissuto. Anzi. Lo scrittore ci dà la certezza che l’adolescenza è un luogo, in cui emerge con forza non soltanto il desiderio della scoperta, ma anche la rabbia, la violenza, il nichilismo di cui molto spesso ci si dimentica. Buzzolan non si accontenta di raccontare una storia di genere, o la storia di un’epoca che fu, la storia di una giovinezza, ha un intento più complesso: dar voce a una generazione che ha finito per soccombere e perdersi. Che ha provato e cercato di costruirsi una stabilità economica e sentimentale che poi si è rivelata vuota e ha portato alla disfatta. una generazione precaria e instabile non solo negli affetti ma anche nel lavoro. Così come gli Editors, gruppo musicale britannico, in una canzone dal titolo Smokers outside the hospital doors, citata nel romanzo, anche Buzzolan dice «siamo tutti cambiati da ciò che eravamo \ i nostri cuori infranti lasciati \ frantumati sul pavimento \ siamo tutti cambiati da ciò che eravamo \ i nostri cuori infranti lasciati frantumati sul pavimento» e si chiede «riusciremo a ricominciare»? «Luoghi e paesaggi» di Andrea Zanzotto La poesia di Zanzotto è stata sempre legata all’orizzonte veneto, al rapporto tra uomo e natura, al bisogno dell’uomo di contemplare lo spazio e l’orizzonte che gli è più vicino per trarne ispirazione e consapevolezza. Più forse di chiunque altro, Zanzotto ha tratto ispirazione dalla conformazione della sua terra, da quel paesaggio che ha reso parte di sé come se fosse uno specchio in cui contemplarsi e in cui ha visto riflessa parte della propria esistenza e cercando di comprendere l’identità culturale nazionale. Rivelatori, in questo senso, sono tra gli altri i titoli di due libri di Zanzotto, il primo, uscito nel 1951, Dietro il paesaggio, il secondo del 1986 Il Galateo nel Bosco. Dal 4 Buzzolan D., op. cit., pag.70. 5 Buzzolan D., op. cit., pag.47. 6 Buzzolan D., op. cit., pag.53. 26 primo si comprende il bisogno di una poesia che in un continuo e inarrestabile cambiamento tenda ad afferrare e a svelare l’essenza ultima che si cela sotto l’immagine della natura, dal secondo emerge il rispetto per la nobiltà del paesaggio che ormai a tutti o quasi sfugge. A fianco a questi libri riveste un particolare interesse il libro Luoghi e paesaggi,7 a cura e con introduzione di Matteo Giancotti che raccoglie vari interventi sugli stessi temi scritti da Zanzotto negli anni dal 1955 al 2006. Distribuiti in cinque sezioni (Una certa idea di paesaggio, Mio ambiente natale, Un’evidenza fantascientifica, Quasi una parte integrante del paesaggio, Tra viaggio e fantasia), più un’appendice con la trascrizione di un documentario video del 1974, questi testi cercano di restituire al lettore il concetto di paesaggio, tanto presente nella sua opera poetica. Questi scritti difficilmente sarebbero giunti al lettore integri, dispersi com’erano in riviste dove erano apparsi in pubblicazioni occasionali per poi essere nel corso del tempo dimenticati, assenti persino dalle pur accuratissime bibliografie delle opere del poeta. Solo due di questi testi, Colli Euganei e Venezia, forse, si trovano nel «Meridiano» apparso nel 1999 e nel libro Sull’altopiano e prose varie apparso nel 1995.8 Si tratta, comunque, di testi in cui il pensiero di Zanzotto è già chiaro, e che vanno ad integrare le annotazioni e le note messe a margine di quel «colloquio diretto e più ritmato con le forme della natura»9 che è stata la sua poesia. Partendo da occasioni e da temi diversi, il poeta parla in modo teorico di che cosa significhi la parola “paesaggio”. Per fare ciò, in ben due di questi scritti, Zanzotto si fa storico dell’arte e dettagliatamente scrive della rappresentazione del paesaggio in due pittori apparentemente lontani, come Cima da Conegliano e Camille Corot. Entrambi, secondo lui, in modi e tempi diversi, hanno saputo «entrare nel paesaggio, arrivare alla definizione del momento che fissa un legame tra l’emozione e il segreto tremito dell’ambiente che aperto la suscita».10 Rievocare, poi, i viaggi mancati della sua vita, come in una breve prosa dal titolo Tra viaggio e fantasia, o dedicare un ricordo a persone a lui vicine come il vecchio Nino carico di un sapere contadino, evocato più volte nelle sue poesie o il poeta Luciano Cecchinel considerato da molti il suo erede in poesia sono suoi modi sempre per riflettere sul paesaggio e su un mondo, quello agricolo, ormai al tramonto. Un’attenta lettura di questi scritti dimostra lo spiccato interesse del poeta rivolto alla comprensione della radice più profonda dell’essere degli individui, del loro disporsi nello spazio fisico, nel contesto vitale e sociale, nella stessa vita di relazione. Questa memoria «territoriale millenaria»,11 dunque, si rivela anche memoria dell’essere e del «vissuto primo»,12 che qui si mostra e si racconta in alcuni scritti, forse addirittura contemporanei, a quelli di Ricoer o di Jonas. Il paesaggio diventa struttura non solo psichica, ma anche individuale e collettiva, in cui l’individuo si riconosce, riconosce la continuità civile, lo specchiarsi reciproco degli esseri umani nei limiti fisici dell’orizzonte. Al paesaggio appartiene un’architettura pensata come equilibrio e un rapporto tra la costruzione umana e lo spazio in cui deve collocarsi. Il poeta crede nella necessità di un accordo tra bello e giusto, per questo non va mai dimenticato che «il paesaggio viene dunque ad animarsi e a meglio risplendere nel lavorio umano che vi opera, perché al di sotto della sua apparente insignificanza esistevano elementi che un “giusto” antropocentrismo ha fatto risplendere».13 E ancora «bisogna capire che salvare il paesaggio della propria terra è salvarne l’anima e quella di chi la abita».14 In questi scritti il poeta insegue i luoghi e le presenze, ma cerca di chiarire il costituirsi originario degli insediamenti umani, il valore dei nomi dei luoghi, gli effetti che l’ambiente ha direttamente sulla lingua. Aspetti diversi si intrecciano in questa riflessione, aspetti geografici e storici, linguistici e psichici, ma anche sociali e culturali, architettonici ed economici che si scontrano con le infinite deturpazioni che, negli anni vissuti da Zanzotto, portano fino al nostro presente. 7 Zanzotto A., Luoghi e paesaggi, a cura e con introduzione di Matteo Giancotti, Milano, Bompiani Editore, 2013. 8 Zanzotto A., Sull’altopiano e prose varie, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1995. 9 Zanzotto A., op. cit., pag. 64. 10 Zanzotto A., op. cit., pag. 58. 11 Zanzotto A., op. cit., pag. 152. 12 Zanzotto A., op. cit., pag. 58. 13 Zanzotto A., op. cit., pag. 70. 14 Zanzotto A., op. cit., pag.130. 27 Libri ed eventi. Massimo Cacciapuoti, Piero Morales A cura di Mosaico Oltre le nuvole, dentro l’anima e il dolore. Una storia vera raccontata con rara, lucida, commozione da Massimo Cacciapuoti. Dalla rocca di Leucade (la stessa della Saffo sublime e infelice di Leopardi) si gettavano gli amanti, per mille diverse ragioni tormentati, oppressi da un impedimento esteriore alla loro passione, pensata e vissuta come assoluta. Gli amanti rimasti in vita dopo quell’enorme rischio avrebbero comunque amato la vita più del loro tormento. Così accade a Nica e Sandro nella scena culminante, ritratta anche nella bella copertina del romanzo, bellissimo e straziante, di Massimo Cacciapuoti edito da Garzanti, Noi due oltre le nuvole. Con convinzione ne consigliamo la lettura a lettori di tutte le età. Si tratta di una storia vera, raccontata, ad ogni riga, con il magone, capace di incollarci inesorabilmente, con la sua semplicità solenne, il suo gusto delicato per gli incontri d’amore tra adolescenti, annunciata appunto dalla copertina, forse, in parte fuorviante, in parte no, nelle tre frasi di sottotitolo: “Quando l’estate è indimenticabile. Quanto l’amore toglie il respiro. La vita cambia per sempre”. E’ così, il racconto corre, toglie il respiro, visita un mare splendido, accarezza i sentimenti, ma poi accelera, come non ti aspetti. Ecco che il lettore è costretto, mentre forse pensava ad un altro libro sugli amori adolescenziali, pur ben scritto, magari meglio di altri, a saltare dalla rocca di Leucade, insieme ai due protagonisti, nell’alba del mare del Salento. A morire e a tentare di rinascere. A scoprire quel macigno di impedimento all’amore, tremendo che se ne risolve un altro, asfalta la memoria, rende tutto limpido e solenne. Ci vuole la padronanza stilistica, la compattezza narrativa di uno scrittore, giunto alla piena maturità (libro dopo libro, questo è il settimo, cambiando sempre argomenti e classi sociali) per non scadere nella retorica, a mettersi, senza sbafare, nella mente della ragazza che, in una notte di stelle gli ha raccontato tutta questa storia, regalandogliela, chiedendo solo di rimanere nell’anonimato, dopo aver avuto la notorietà effimera di foto sui giornali, di carabinieri, di un flash di notorietà pagata al caro prezzo del passaggio tra l’adolescenza e la piena maturità. Una citazione particolare per due apparizione cammeo: Barbara di cui preferisco tacere il ruolo e la professione e la supplente di musica, entrambe decisive, in questo andirivieni nella vita di Nica (“i ricordi salivano alla gola”), solo per dire di amore assoluto, quello che effettivamente cambia la vita, ma non nella retorica o nella favola. Nella tragica realtà, nella tentativo di un gesto estremo, di una sfida all’ultimo istante contro la vita, per la vita: “Perché limitarsi la vita? Per quale oscura forma di autolesionismo?”. Eppure, per ottenere la salvezza dell’amore non basta a Nica neanche questa coscienza, serve andare più a fondo. Lì dove, tra le lacrime, la gioia, la lotta è capace di portarci Massimo Cacciapuoti, in una lettera, le ultime parole del libro: “Ma io non voglio smettere di sperare […] E’ l’unica cosa che adesso riesco e voglio pensare. Esiste il cielo, Nica. Basta che alzi gli occhi e lo vedi. Anche quando è coperto di nuvole. Basta che ci credi”. 28 Le vette di Pietro Morales Il primo romanzo del fisico con forti propensioni umanistiche Pietro Morales, Vette. Donne, Passione, Musica e Tragedia, pubblicato nel 2014 da TEXmat di Roma, è un romanzo insolito, anche graficamente, con i caratteri in neretto, su ottima carta di stampa, con i dialoghi evidenziati da virgolette a “uncino” che si stagliano, come colline, tra le vicende del libro, costituendo la parte più cospicua di una dialettica costruita per oltrepassare il tempo, situandosi su più piani cronologici, dall’Ottocento romantico ai nostri giorni e perfino, nell’Appendice, al futuro, sia pur non troppo distante dalla nostra epoca. Romanzo autentico, intricato, pieno di risorse e sorprese, personaggi noti e meno noti, non vuole ascoltare le sirene della semplificazione degli editor della maggior parte della editoria italiana, ma presentarsi arduo come la salita, tema predominante fin dal titolo: vette nei diversi sentieri disposti dal poliedrico autore lungo le ramificazioni possibile della aperta semanticità della parola. Vette di montagna, vette di bellezza, vette di passioni, negli splendidi ritratti e presenze femminili che accompagnano i due protagonisti, Ugo (Foscolo) e Ludwig (Beethoven) in mezzo ad una folla di comprimari, dalla storia alla fantasia. Ci è richiesto di camminare con loro, amarli nei loro desideri, nella giusta ambizione dello scrittore di immaginare incontri verisimili, come quello centrale tra il poeta dei Sepolcri esule a Londra e il traduttore di Dante in inglese, Henry Francis Cary, che l’autore ci dice aver frequentato negli stessi anni gli stessi luoghi, tanto da rendere plausibile quell’incontro tra grandi uomini di cultura qui raccontato. Non cercate, in questo libro, una trama precisa, piuttosto perdetevi nei suoi meandri alla ricerca della idea sovrana dell’arte, tra musica e letteratura, tra oggetti preziosi e scontri verbali. Un vero piacevole labirinto per lettori attratti dalla bellezza del raccontare, gratuitamente, vero e puro dono, senza altra aggiunta di carattere estrinseco alla stessa struttura narrativa. Come in montagna il panorama che si gode dall’alto, salendo con i diversi personaggi, ripaga della attenzione profusa. Così si presenta Piero Morales, in una testimonianza resa a Mosaico: “Non sono uno scrittore, ma un fisico; a volte, come capita a tutti, mi viene qualche idea “letteraria”, che provo a buttar giù. In questo caso l’idea fu che i due protagonisti vivevano negli stessi tempi, avevano forti identità di vedute, avevano gli stessi idoli, le stesse passioni, vivevano le stesse delusioni, soffrivano perfino, negli stessi giorni, della stessa malattia, che li uccise entrambi; e in definitiva si andavano cercando. Beethoven in particolare per tutta la vita aveva cercato un poeta con cui collaborare. Che cosa sarebbe accaduto se si fossero incontrati? E poi volevo dare il riconoscimento che meritano alle loro donne, senza le quali sarebbero stati magari un po’ meno grandi. Foscolo soprattutto, che senza la sua Quirina (e Mazzini che le stava dietro) forse riposerebbe ancora, ignoto e negletto, nel suo sepolcro di Chiswick; e non lo studieremmo al Liceo. Ma se la merita davvero la sepoltura in Santa Croce? Oppure se l’è conquistata essenzialmente in quei pochi mesi in cui ha saputo riempire, e per tutta la vita, il cuore di una donna che sapeva amare? Foscolo resta per me ancora un mistero, ma comunque lo si voglia vedere, fu un carattere straordinario, al pari di Beethoven; entrambi bruttarelli ma con una energia infinita e capacità eccezionali, sviluppate in adolescenze difficili e dolorose. Così ho voluto provare a interpretarli, e a capire come da quelle menti potesse scaturire la loro arte. Non so se la mia interpretazione sia corretta, ma provarci è stato affascinante e avvincente”. (F.P) 29 Pigrizia e vigilanza Oggi vorrei parlare della pigrizia perché è causa di comportamenti dannosi per noi e per gli altri e, in un paese in crisi, è forse il difetto maggiore. Una pigrizia che di solito si esprime nel rimandare quello che dobbiamo fare soprattutto se si tratta di un compito fastidioso. Lo vediamo nelle cose minime: telefonare, andare a trovare gli amici, rispondere alle lettere, soprattutto quelle che ci pongono qualche problema e richiedono un minimo di riflessione. Molta gente rimanda la risposta fino a quando non pensa che ormai sia inutile e così poi butta via tutto. Una pratica molto diffusa fra i politici perché in tutta la mia vita (e occupando le cariche più diverse) ho scritto centinaia di lettere a sindaci, presidenti delle regioni, ministri e primi ministri senza ricevere risposta. Non parliamo poi dei problemi impegnativi, delle situazioni in cui dobbiamo prendere una decisione che richiede coraggio. In questo caso la pigrizia si sposa con la viltà. Rimandando la decisione il problema non risolto si aggrava, fino a degenerare. Pensiamo a quante opere incompiute è pieno il nostro paese. Personalmente sono del parere che queste cose vanno affrontate subito con un vero e proprio assalto. Proprio in questi giorni il governo Monti è stato chiamato a fare delle manovre economiche che aspettavano da troppo tempo. Io mi auguro che abbia il coraggio di fare tutto subito, perché se anche lui ritarderà, finirà nelle sabbie mobili come gli altri. Pigrizia vuol dire anche distrazione, disattenzione, mancanza di vigilanza, una virtù essenziale non solo per evitare degli incidenti fisici come inciampare in un gradino che non abbiamo visto, attraversare la strada senza guardare a sinistra e a destra se arriva una macchina, credere di aver chiuso il gas mentre era aperto ma anche per evitare sbagli sul lavoro negli affari. Chi non è vigilante si lascia passare sotto il naso una occasione, un affare, sbaglia nel ricevere un cliente importante e non dà le informazioni necessarie ad un collaboratore. Molti managers confondono la vigilanza con la meticolosità. Il meticoloso si fa assorbire da un solo compito e non si accorge che qualcosa d’altro nel frattempo va in rovina, mentre il dovere di un buon capo invece è saper tener d’occhio tutto quello che succede, di percepire i difetti, le debolezze, gli errori, i pericoli incombenti e intervenire tempestivamente. Francesco Alberoni 30 PASSA TEMPO DIVERTIMENTO I fiori che comunemente attirano api e vespe respingo no le formiche per non diventare sterili e si difendono tenendo eretti gli stami affinché queste non possano raggiungere il polline. È stato provato infatti che il polline diventa infecondo dopo un contatto di soli pochi minuti con il liquido secreto dal torace delle formiche, detto mirmicacina. PUZZLE CURIOSITÀ SOLUZIONI AUTODEFINITO 31