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Tre pacchi, una sola miserabile provocazione

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Tre pacchi, una sola miserabile provocazione
N° 2 - FEBBrAIO 2014 - ADAR RISHON 5774 • ANNO XLVII - CONTIENE I.P. E I.R. - Una copia € 6,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 Roma
ISRAELE
FRANCIA
ITALIA
LA PROTESTA
DEGLI IMMIGRATI
L’ANTISEMITISMO
DEL COMICO DIEUDONNÉ
FILM SUL RABBINO ACCUSATO
DI COLLABORAZIONISMO
SHALOM‫שלום‬
EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
‫בס’’ד‬
Tre pacchi,
una sola
miserabile
provocazione
Ariel Sharon, l’ultimo leone di Israele
FOCUS
CATENA
DI COLLEGAMENTO
If I were a rich man, Ya ha deedle deedle, bubba bubba deedle
deedle dum. È l'inizio della concatenazione di pensieri di Topol, il celebre violinista sul tetto.
Cosa si potrebbe fare avendo una somma a disposizione, un
pò per sé, ma anche per gli altri?
Agli ebrei da sempre non manca la fantasia, l'altruismo, e la
volontà storica di lasciare una traccia del proprio passaggio
su questa terra. Questo è anche lo spirito del Keren Hayesod,
i cui progetti di Lasciti, Donazioni e Fondi nascono per dare
pieno valore alle storie personali e collettive. Sostenendo tra
l’altro progetti per Anziani e sopravvissuti alla Shoah, Sostegno negli ospedali, Sviluppo di energie alternative,Futuro dei
giovani, Sicurezza e soccorso, e Restauro del patrimonio nazionale.
Tu con il Keren Hayesod
protagonisti di una
storia millenaria
Giliana Ruth Malki - Cell. 335 59 00891
Responsabile della Divisione Testamenti
Lasciti e Fondi del Keren Hayesod Italia
vi potrà dare maggiori informazioni
in assoluta riservatezza
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Milano, Corso Vercelli, 9 - Tel. 02.4802 1691/1027
Roma, C.so Vittorio Emanuele 173, - Tel. 06.6868564
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EDITORIALE
I
tre pacchi contenenti le teste di
maiale, recapitati in Comunità,
presso l’Ambasciata di Israele e
presso il Museo storico di Roma
in Trastevere ove era allestita una
mostra sulla Shoah, sono - come
giustamente li ha definiti il
Presidente delle Repubblica, Giorgio
Napolitano - una “miserabile
provocazione’. Sono il gesto
ripugnate, in codice mafioso, di chi
ha pensato di voler offendere e
minacciare gli ebrei tutti insieme,
sia quelli che vivono nella diaspora
sia gli israeliani, usando come
collante l’offesa alla memoria della
Shoah.
In questo senso i criminali ci hanno
visto bene, sul tema della memoria
non ci sono differenze tra gli ebrei e
non esiste distinguo: quello che è
successo tra il 1938 e il 1945 è
diventato uno degli elementi della
nostra identità, sia come Stato di
Israele sia nelle nostre relazioni con
il resto della società nella quale
viviamo. L’affermazione “mai più” è
diventata la coscienza del popolo
ebraico, ovunque esso si trovi a
vivere: “mai più” passivamente
andremo al macello; “mai più”
accetteremo che il mondo si volti
dall’altra parte quando si pianificano
e si attuano genocidi, sotto qualsiasi
parallelo e contro qualsiasi
minoranza. La Shoah, sebbene abbia
travolto il popolo ebraico,
è diventata con il tempo, con un
grande lavoro educativo e politico,
un pagina di storia condivisa da cui
trarre insegnamento.
Ma i mittenti dei pacchi si sono
sbagliati se speravano di suscitare
la rabbia degli ebrei, se speravano
di far perdere il controllo, se si
auguravano che l’offesa venisse
accolta digrignando i denti. Certo
hanno ottenuto una grande
pubblicità, e questo nonostante che
i pacchi non fossero stati accettati e
fossero tornati indietro. Ma quello
che invece merita di essere
sottolineato è che il gesto offensivo
di queste menti malate ha suscitato
una tale riprovazione, un tale
sdegno che è impossibile elencare i
messaggi di solidarietà di tantissimi
cittadini comuni, di personalità e dei
rappresentanti delle istituzioni che
non ci hanno fatto sentire soli.
Attraverso queste pagine li vogliamo
ringraziare tutti, a cominciare dalle
Forze dell’Ordine che hanno
consentito di identificare un autore
della provocazione.
Quello che doveva essere uno
sfregio alla Memoria si è ritorto
contro i suoi stessi autori e il Giorno
della Memoria 2014 è stato vissuto
con una straordinaria ondata
emotiva, con una partecipazione
affettiva di grande intensità. È
venuta meno - almeno fino ad ora la preoccupazione che le
celebrazioni del 27 Gennaio
potessero istituzionalizzarsi, eventi
routinari fatti per forza, mentre
rimangono - grazie anche ai nostri
nemici - occasioni per una profonda
presa di coscienza che si realizza
attraverso decine e decine di
manifestazioni su tutto il territorio
nazionale. Il gesto offensivo ha, per
di più, ulteriormente accelerato il
dibattito parlamentare sul disegno
di legge volto a punire
i negazionisti che abusano dei loro
ruoli istituzionali, scientifici
o accademici.
Il 27 gennaio è però passato, mentre
l’antisemitismo resta, anzi - come
abbiamo raccontato anche nello
scorso numero di Shalom - cresce in
tutta Europa, e assume forme
pubbliche e si manifesta in modi
palesi e condivisi, e con modalità
che era impossibile pensare solo
pochi anni fa. Siamo tornati - come
settanta anni fa - a vedere nelle
piazze e nelle strade di alcune città
europee manifestazioni pubbliche di
odio verso gli ebrei. Perché la storia
non si ripeta, i razzisti,
gli antisemiti, i violenti, i provocatori
e i sobillatori non devono sentirsi
sostenuti da una maggioranza
silenziosa. Bisogna invece
isolarli e condannarli.
E l’Italia lo ha saputo fare.
SHALOM‫שלום‬
COPERTINA
Ebrei come maiali:
un paragone antico
4
MARINA CAFFIERO
MEDIO ORIENTE
Medio Oriente, ovvero
il teatro dell’assurdo
6
8
FIAMMA NIRENSTEIN
la sicurezza dello Stato
ebraico non è aumentata
UGO VOLLI
ISRAELE
L’umiliazione è una delle armi
della propaganda palestinese
10
11
ANGELO PEZZANA
clandestini: un’accoglienza
che può diventare un suicidio
demografico
PIERPAOLO PINHAS PUNTURELLO
12
Dopo Gaza, Israele avrebbe
dovuto ritirarsi anche
dalla Cisgiordania
DANIEL MOSSERI
14
15
Il contadino-guerriero,
simbolo di una nuova nazione
DANIELE TOSCANO
Israele e il vuoto mai colmato
del dopo-Sharon
ARIEL DAVID
PENSIERO
Elie Wiesel: L’età non lo ferma
16
17
18
19
24
ALESSANDRA FARKAS
Perché è così difficile
parlare di Israele
DONATELLA DI CESARE
Dieudonné e l’antisemitismo
alla francese
STEFANO GATTI
Lo scandalo non è
un comico antisemita,
ma il pubblico che ride
GIORGIO ISRAEL
Il mondo capovolto di Terezin
DAVID MEGHNAGI
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
L’unanime condanna
di una ‘miserabile
provocazione’
3
COPERTINA
Ebrei come maiali: un paragone antico
In una curiosa forma di rovesciamento l’animale proibito veniva identificato
dai cristiani con gli ebrei stessi e in particolare con i rabbini
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
I
4
recenti disgustosi eventi che hanno colpito la comunità romana con l’invio delle tre teste di maiale ad altrettanti luoghi
istituzionali non sono stati forse capiti e spiegati nella loro
intera portata che è di inaudita gravità. La stampa e i commentatori, pur dando ampio spazio
alla notizia, hanno parlato di avviso
mafioso o di offesa alle tradizioni
alimentari degli ebrei o, peggio, di
goliardata fatta da persone ignoranti e sprovvedute. Ma per gli storici
che hanno studiato le vicende del
passato queste interpretazioni non
possono che essere considerate
come riduzioniste e pericolosamente minimaliste. Perché si tratta di
ben altro e di molto di più: queste
sono espressioni di razzismo molto
pericolose per il linguaggio simbolico sotteso. E bisogna conoscerle ed
esserne consapevoli.
Leggendo i resoconti dei giornali sembra di piombare nei documenti del Sei-Settecento che ho analizzato nel mio libro Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia,libri
proibiti e stregoneria e in cui sono
descritte le teste di maiale e le figure di ebrei/ maiali portate in giro
sui carri dalla plebaglia romana per
segnalare una precisa identità non
umana degli ebrei. Vale la pena di raccontare questa storia.
A Roma, tra Cinque e Settecento il periodo di Carnevale rappresentava un periodo di esplosione dell’ostilità antiebraica e dunque una fase temibile. Oltre alla più nota corsa o pallio, descritta con disgusto anche da Montaigne che vi aveva assistito nel
1580, nel corso della quale gli ebrei correvano nudi lungo l’attuale via del Corso, esistevano altre espressioni popolari dell’avversione antiebraica esplicitata in quei giorni. Sono espressioni
“dal basso” che vale la pena di ricordare perché sono in grado
di esplicitare i volti dell’ostilità e della paura nelle relazioni con
gli ebrei e la loro durata nel corso dei secoli. La corporazione
cristiana dei pescivendoli- che svolgevano il loro mercato nel
Portico d’Ottavia, dunque in stretta vicinanza al Ghetto - erano
soliti approntare per Carnevale carri e rappresentazioni teatrali
farsesche, dette giudiate, dal forte sapore derisorio. Nel corso di
esse erano presi di mira, ridicolizzandoli, precisi riti, preghiere,
credenze e personaggi della tradizione religiosa degli ebrei nei
cui confronti erano dimostrati avversione e disprezzo. Queste
rappresentazioni erano costantemente denunciate alle autorità
ecclesiastiche dai fattori, i capi della comunità, proprio per la tonalità virulenta e offensiva che fomentava odio e violenza nella
popolazione che assisteva a tali spettacoli. I riti della violenza
culminavano nella messa in scena, su carri decorati di fogliame
e trainati da buoi che percorrevano tutta la città, di un teatro
popolare itinerante che mimava momenti della vita quotidiana
degli ebrei – ad esempio, la circoncisione, un costume che turbava moltissimo l’animo dei cristiani- culminando in genere nel
funerale di un rabbino, accompagnato da una simbologia farsesca e denigratoria. La “Cassa degli ebrei”, o la “Cassaccia”
erano denominate tali rappresentazioni.
Ancora in pieno Settecento le giudiate erano praticate con zelo e
ostilità crescenti. Nel 1710 i fattori della comunità indirizzarono
al papa Clemente XI un memoriale di protesta contro i pescivendoli che in occasione del Carnevale
di quell’anno avevano portato “per
Roma una cassa da morto con diverse teste d’Animali fingendo di far
l’esequie di Rabbini morti , con
scherni, et atti impropij da usar con
morti, da che ne sono nati sempre
inconvenienti, e scandoli grandi,a
segno ch’alli poveri Hebrei gl’è convenuto per molti giorni starsene
chiusi nel Ghetto, o pure esporsi a
battute, e feriti dalla Plebbe”.
I fattori chiedevano che fosse revocato il permesso di fare “giudiate”,
ma ciò non venne concesso. Così nel
1711 tornarono a denunciare ancora
alle autorità ecclesiastiche la scena
di un carro “nel quale (i cristiani)
fingono di scorticare un Hebreo, ferendolo a guisa di un Porco”, celebrandone poi un finto funerale con
tutte le parole e riti già proibiti con
cui veniva deriso “un atto religioso”.
Nel 1715, infine, la protesta riguardò
una recita teatrale in cui si derideva “il pane azzimo, et altri riti della
detta Legge Mosaica, facendo comparire Moisé, e li Rabbini in
figura di mezz’uomo, e mezzo porco”. Si chiedeva perciò, ma
sempre vanamente, di proibire una volta per tutte ai pescivendoli
di inscenare tali “teatri”. Dunque, in una curiosa forma di rovesciamento, dalle lontane origini e di durata secolare, l’animale
proibito veniva identificato dai cristiani con gli ebrei stessi e in
particolare con i rabbini.
Ma c’è qualcosa di più, e di più grave. Dall'immagine del maiale
ferito o ucciso alla accusa di omicidio rituale il passo era breve.
Il dileggio carnevalesco del pane azzimo e del divieto di cibarsi
di maiale non si limitavano alla derisione dei costumi alimentari
ebraici, ma avevano un altro pesante significato. Esso richiamava facilmente alla mente dei contemporanei che assistevano a
tali rappresentazioni l’antica e sempre viva accusa di omicidio rituale che circolava largamente nel mondo cristiano, costituendo
uno dei più terribili e pericolosi stereotipi antiebraici. L’accusa,
costruita sulla leggenda dell’uccisione rituale di un bambino cristiano, in genere nel corso della Settimana Santa, per spillarne il
sangue con cui impastare le azzime, è da porsi in diretto rapporto con l’interpretazione cristiana dei divieti ebraici di mangiare
maiale e di assumere sangue; in sostanza, l’idea sottesa a tale
interpretazione era che gli ebrei/maiali si dovessero identificare
proprio con ciò che era loro vietato, mentre il divieto di assumere sangue veniva letto al contrario come una “ossessione del
sangue”. Gli ebrei erano assimilati ai maiali, e come tali venivano raffigurati nei carri carnevaleschi o anche, soprattutto nel
mondo germanico, nelle diffuse rappresentazioni della scrofa
madre degli ebrei. Ma essi, poiché non potevano mangiare un
loro simile- cioè il maiale con cui erano identificati - uccidevano e
Italia il binomio ebreo/maiale
racchiuso nel gesto offensivo
e derisorio di piegare un pezzo di stoffa a mo’ di orecchio
di porco e di sventolarlo davanti a un ebreo. Primo Levi
racconta esattamente questa
sua esperienza in Il sistema
periodico.
Oggi di tutti questi significati
profondi, oscuri e inquietanti
di tale binomio razzista non si
è più consapevoli e ciò ha indotto a minimizzare quel che
è successo. E invece la storia
di queste usanze di irrisione e
di ribadimento dell’inferiorità
indirizzate contro gli ebrei e
soprattutto i messaggi di violenza che veicolavano è antica e le
sue ricadute sono state lunghe nel tempo. Non so di quanto di
tutto questo si sia generalmente consapevoli mentre, proprio in
concomitanza con il Giorno della Memoria, bisognerebbe esserlo.
Quanto ancora resta da far sapere!
Marina Caffiero
Università La Sapienza di Roma
Nella pagina accanto: incisione antisemita tedesca del XVIII secolo
raffigurante nella parte alta San Simonino e sotto una scrofa che
allatta gli ebrei. In questa pagina: particolare della Cattedrale di Bad
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FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
“mangiavano” la carne e il sangue
di un bambino cristiano, sostituto
più vicino della bestia proibita ma
desiderata. L’antropologia ha da
tempo studiato il tema della somiglianza e contiguità tra bambini e
maiali, animali dagli aspetti infantili e famigliari.
D’altro canto, l’idea dell’uccisione
rituale del bambino-vittima si avvicinava parecchio, nelle raffigurazioni, alle pratiche di dissanguamento
che accompagnavano l’uccisione
del maiale nelle società cristiane.
L’associazione tra il maiale e l’accusa di omicidio rituale è infatti
evidente nelle rappresentazioni
iconografiche del martirio di Simonino – il bambino cristiano la cui pretesa uccisione a Trento, nel
1475, divenne emblematica dell’accusa di omicidio rituale . Si capiscono perciò facilmente tutta la portata e le terribili conseguenze
dell’ “accusa del sangue”, ancora circolante in piena età dei Lumi
e largamente diffusa pure nell’Ottocento e nel Novecento e perfino
ai nostri giorni in alcuni contesti violentemente antisemiti. Si trattava di una lettura precisa dell’essenza ebraica e dei suoi costumi
che restò sempre attiva nella storia. Essa, nella sua terribile ripetizione nel tempo, costituisce una delle matrici dell’antisemitismo
più diffuso e una delle giustificazioni quasi naturale – razziale, dal
momento che proprio dalle caratteristiche delle orecchie si distinguono le diverse razze dei maiali - delle esclusioni, delle persecuzioni e degli stermini. Ancora in tempi recenti era molto diffuso in
5
MEDIO ORIENTE
Medio Oriente, ovvero
il teatro dell’assurdo
Si discute attorno ai tavoli diplomatici come se
il rancore, la rabbia, le stragi, l’odio che separa
gli stessi musulmani non esistessero e si propongono
soluzioni utopiche staccate dalla realtà
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
P
6
er capire dove è il povero, insanguinato Medio Oriente in questo
momento, occorre una premessa
un po’ debilitante: viviamo su un
palcoscenico girevole, in cui rotea l’Egitto,
la Siria, l’Iran, il processo di pace mediorentale, e ognuna delle scene rappresentate ha un carattere sostanzialmente fittizio.
Ovvero, ciò che vediamo, il modo in cui se
ne parla e se ne scrive, non risponde alla
realtà dei fatti, l’interazione politica avviene fra protagonisti che recitano un copione
che prescrive una politica mondiale di
pacificazione mentre in realtà si stanno
modificando con terremoti e tsunami tutti
gli antichi equilibri.
Il palcoscenico girevole ci mostra in questi
noscimento di uno Stato Ebraico da parte di
Abu Mazen con la convinzione che una
soluzione sarà trovata come vuole Kerry.
Sempre in prima fila anche la questione
egiziana, che ci ripropone per intero il tema
del nostro rapporto con la democrazia, quesito micidale che nessuno vuole affrontare
perché le risposte sono ignote: ovvero,
nessuno osa affermare, in Occidente, che in
fondo è stato un bene che il generale Sisi
abbia preso il potere laddove l’alternativa
era la Fratellanza Musulmana; che se Sisi
non è democratico, certo la Fratellanza lo
era ancora meno. Gli USA portano su di sé
il peso dello speranzoso atteggiamento
preso quando Morsi vinse le elezioni e Hillary Clinton dette pubblicamente credito al
giorni la trattativa sulla Siria a Ginevra; la
questione iraniana, che ha avuto una sua
accentuazione a Davos; e il dialogo israelo-palestinese, qui, dalle parti di Gerusalemme e di Ramallah. Sul primo proscenio,
si finge che una bella conferenza internazionale possa organizzare una pace impossibile; sul secondo che i sorrisi di Rouhani
promettano davvero un Iran moderato,
denuclearizzato, forse perfino più democratico; sul terzo che i palestinesi e gli israeliani discutano di Gerusalemme, del diritto al
ritorno, dei confini con la volontà di trovare
un compromesso dalle due parti, e del rico-
gruppo che avrebbe subito tentato di
instaurare la Sharia con la forza, e che subito cooptò i suoi adepti dentro la piramide
della corruzione tradizionale del potere
egiziano, laddove il popolo non aveva questa intenzione.
Lo scenario generale, prima che ci addentriamo brevemente in ciascuno dei nostri
teatri, ci parla della conclusione di un’era,
ovvero della definitiva decadenza di
quell’accordo Sykes Picot (1916) che ignorava la struttura tribale e religiosa del Medio
Oriente, e si limitava con un’intesa segreta
a suddividere l’area fra l’Inghilterra e la
Francia, con l’accordo della Russia zarista.
All’Inghilterra andò la Giordania e l’Iraq
meridionale con l’accesso al mare attraverso Haifa; la Francia ebbe la parte siro-libanese, l’Anatolia sudorientale e l’Iraq settentrionale, e la Russia Costantinopoli e l’Armenia ottomana. L’area mandataria britannica veniva chiamata Surya al Janubiyya,
cioè Siria meridionale, tanto per non dimenticare che cosa era considerata allora la
“Palestina”, e la Siria del nord andava alla
Francia. Ma la base principale dell’accordo
erano i 600 km di confine fra la Siria e l’Iraq.
E’ proprio questo il confine che è saltato,
con tutte le conseguenze del caso. 30 milioni di curdi sono di fatto una sola nazione
che travalica i limiti di Iraq, Turchia, Iran; i
sunniti, in guerra con gli Alawiti di Assad,
gli Sciiti iraniani e e gli Hezbollah libanesi,
hanno spezzato ogni confine, e infatti i vari
gruppi sunniti di Al Qaeda corrono dall’Iraq
ad aiutare i loro alleati siriani, mentre gli
sciiti di Nasrallah sono al fianco di Assad, e
nel loro paese si spacca il fronte libanese,
per riprodursi con una quantità di attentati,
quello creato dall’attuale guerra siriana.
Ci sono anche una quantità di scontri interni al fronte soprattutto sunnita, di cui il più
clamoroso è oggi quello fra Sisi e i Fratelli
Musulmani, che si riverbera nella novità
della rottura del governo egiziano con
Hamas, con alcuni politici e commentatori
che accusano Hamas di un ruolo attivo nel
rifornire di armi gli uomini di Morsi e di
causare i molti attentati che feriscono il
Paese in Sinai e al Cairo.
Anche in Turchia il campo sunnita è in guerra, il nemico numero uno del Primo Ministro
islamico Tayyp Erdogan è il misterioso
imam islamista Fetullah Gulen e quella che
si svolge in questi mesi fra di loro sembra
una guerra senza quartiere che intacca il
cuore del potere e che porterà alla sconfitta
dell’uno o dell’altro. Erdogan si è distinto
per la sua alleanza con i Fratelli Musulmani
fino ad accusare Sisi di una cospirazione
filoisraeliana ma Gulen non si accontenta di
quel tipo di islamismo, vuole imporre il suo,
costruito su una enorme rete di moschee,
scuole, istituti caritativi e sportivi.
Qaeda e dell’ISIS, (gli islamisti associati
iraqeni e siriani) e Aleppo, divisa in due. I
suoi alleati lo sostengono fino in fondo. E i
ribelli a loro volta controllano un’area di non
minore grandezza, e anche se sono spaccati all’interno possono contare su un vasto
supporto da parte di tutto il mondo jihadista sunnita, molto deciso e feroce.
Le due parti sono andate alla conferenza
con la precisa intenzione di non accettare le
condizioni di partenza, le dimissioni di
Assad e il suo rimpiazzo con un’autorità di
transizione che compenda tutte le forze
siriane. Tutti sanno che l’unico modo di
fermare il conflitto è impedire fisicamente
l’uso delle armi, ma l’Europa e l’America di
Obama non lo faranno.
Sull’Iran e la sua strategia dei sorrisi abbiamo scritto ormai molte volte. E’ sinceramente penoso vedere come il mondo abbia
fatto la fila alla conferenza economica di
Davos per qualche affare in più quando è in
gioco il suo intero futuro. L’Iran di fatto non
ha concesso niente di più che un abbassamento del tono, anche se il punto dell’odio
contro Israele e a volte anche contro gli
USA è rimasto lo stesso. L’Iran anche dopo
gli accordi mantiene a casa sua le centrifughe, la costruzione dei missili balistici, l’uranio già arricchito al 5 per cento e gli
impianti che producono acqua pesante per
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FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
Prendendo ora in considerazione i tre palcoscenici, quello di Ginevra è stato ritenuto
importante per il solo fatto di costringere le
due parti che ormai si odiano a incontrarsi.
I morti sono 130mila, i bambini uccisi dalle
pallottole, dalle torture, dalla fame, sono
stati in gran parte eliminati volontariamente, e questo risulta ovviamente imperdonabile. L’accordo per l’evacuazione delle
donne e dei bambini da Homs, è un piccolo
obiettivo raggiunto, ma le parti hanno parlato solo con l’inviato dell’ONU, Brahimi;
non si sono mai rivolte la parola, non sono
arrivate a nessun accordo. E questo per un
motivo fondamentale: sia Assad che i ribelli sono ancora in grado di mandare avanti
con le armi una battaglia che ciascuna delle
due parti considera definitiva per motivi
culturali (alawiti e sunniti non fanno compromessi fra di loro, la loro tradizione centenaria glielo impedisce!) e per il troppo sangue versato. Ciascuna delle due parti pensa
ai propri cari perduti crudelmente, e alle
persecuzioni che seguiranno quando uno
dei due prenderà il sopravvento. Assad ha
tutto il supporto della Russia, dell’Iran,
degli Hezbollah, controlla la capitale Damasco e una striscia di terra contigua fino al
Mediterraneo, a Tartus, dove si trova la
flotta russa. Controlla le città più importanti con l’esclusione di Raqqa nelle mani di al
il plutonio. In questo momento la volontà di
ottenere la cancellazione delle sanzioni
suggerisce alla durissima banda degli ayatollah un atteggiamento benevolo, ma il
problema iraniano è sempre lo stesso, quello di un regime islamista fanatico, che promette la distruzione di Israele e nega la
Shoah, che arricchisce l’uranio, che perseguita con leggi costrittive i suoi cittadini,
proibisce il dissenso, uccide gli omosessuali, esporta terrorismo e milita a fianco di
Assad nella sua politica genocida. In questo
quadro, è mai possibile che in capo a sei
mesi, come vorrebbe Obama e l’Unione
Europea, si arrivi a un accordo che cancelli
il problema iraniano? E’ mai possibile che il
mondo non riesca a mantenere un atteggiamento più dignitoso, più consapevole,
meno ridicolmente credulone?
Il terzo teatro fittizio è quello per cui Abu
Mazen e Natanyahu dovrebbero, per compiacere Kerry e dare all’amministrazione
Obama una soddisfazione fra tante delusioni, raggiungere un accordo, una lettera
d’intenti, una soluzione ad interim, qualcosa in fretta, subito. Ma come si può immaginare che il problema di Gerusalemme,
quello del diritto al ritorno, quello della
sicurezza e dei confini possano essere risolti quando Abu Mazen non è nemmeno
disposto a riconoscere l’esistenza di uno
Stato del popolo ebraico? Avremo modo di
ritornare sulla questione.
Per ora ciò che è da auspicarsi è che dal
teatro dell’assurdo si ritorni a quello della
realtà. Forse guardare negli occhi il presente, senza paura, forse una migliore presa
sui grandi problemi odierni, non resi fumosi
ed evenescenti dal politically correct, può
aiutare l’Occidente a rendersi davvero utile
e a ricominciare a pensare.
7
ISRAELE
I nemici di Israele sono più deboli,
ma la sicurezza dello Stato ebraico non è aumentata
L’equilibrio che si è stabilito non è quello della calma
ma dell’anarchia sanguinosa
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
G
8
uardando alla superficie dei
fatti, questo è un periodo di
grande tranquillità, prosperità e
sicurezza per Israele, forse il
migliore della sua storia. L'ultima guerra
combattuta sul terreno, comunque piuttosto limitata, è l'Operazione Piombo Fuso,
che risale a cinque anni fa; "Pilastro di
Difesa" dell'autunno 2012 è stata combattuta soprattutto nell'aria, coi lanci di razzi
da parte di Hamas contrastati
dall'aeronautica. Il grande disordine delle rivolte arabe si è
sostanzialmente fermato ai confini di Israele, con qualche colpo
di mortaio sul Golan, gli attentati al gasdotto con l'Egitto e poco
più. I governi più ostili, come
quello della Siria e la Fratellanza
Musulmana in Egitto sono stati
abbattuti o sono impegnati a
difendere la loro sopravvivenza.
I movimenti terroristi più vicini,
sono isolati come Hamas o impegnati in altre guerre come Hezbollah. Quelli più lontani, come
le varianti mesopotamiche, siriane ed egiziane di Al Qaeda sono impegnate a loro volta in guerre civili e difficilmente riescono a mettere sotto tiro il territorio
israeliano. Insomma, il grande disordine
del Medio Oriente ha finora disarticolato
gli schieramenti nemici, tolto energie agli
eserciti minacciosi, reso più difficile l'esplosione di un conflitto frontale. Contemporaneamente l'industria ad alta tecnologia fiorisce, nuove prospettive si aprono
con l'inizio dello sfruttamento dei giacimenti marini di gas, il governo è riuscito a
pilotare l'economia nella grande crisi mondiale di questi anni evitando danni gravi.
Ci sono dunque molte ragioni d'ottimismo.
D'altro canto è vero che l'Autorità Palestinese favorisce un terrorismo a bassa
intensità, che colpisce quotidianamente
un po' dappertutto il territorio controllato
da Israele, con accoltellamenti, molotov,
sassi sulle macchine, qualche sparo,
aggressioni alle persone e alla cose, razzi
usati soprattutto per generare allarme e
insicurezza. Sarebbe sbagliato giudicare
semplicemente fastidioso questo stillicidio, perché purtroppo i morti vittime di
quest'ondata di violenza ci sono stati e
l'insicurezza di tutti è molto aumentata.
Ma è evidente che si tratta di azioni di
disturbo e, per il momento almeno, non di
un tentativo di conquistare il controllo del
territorio e di rendere la vita impossibile
agli israeliani come nelle ondate terroristiche degli anni Ottanta e poi del 20002004. La convivenza civile non è seriamente minacciata da questo terrorismo a
bassa intensità, tanto meno lo è la sicurezza militare vera e propria del paese.
Si può essere tranquilli, allora? Si può pensare che finalmente stia arrivando il
momento in cui Israele diventi un paese
normale, come diceva Ben Gurion, cioè un
posto come l'Italia o il Canada, che nessuno minaccia di distruggere, dove certo i
pericoli non mancano, ma riguardano l'economia, la salute, la sicurezza stradale,
magari i terremoti, non la volontà umana
di sterminio e di distruzione?
Purtroppo pensarlo sarebbe cedere a un'illusione. La configurazione delle forze che
ha reso più deboli i nemici di Israele nel
suo vicinato non deriva dal prevalere di
sentimenti pacifici o anche solo realistici,
ma dall'autodistruttività, dall'incapacità di
moderare il conflitto interno che caratterizza il mondo arabo fin dai tempi di Maometto e dei suoi successori; l'equilibrio che si
è stabilito non è quello della calma ma
dell'anarchia sanguinosa, da cui potrebbe
emergere un potere forte e temprato nella
guerra civile che decidesse di legittimarsi
attaccando quel nemico comune dei popoli
islamici che resta Israele. Questa è del
resto la logica che spiega lo strano schieramento di ex alleati di Israele, come la Persia e la Turchia sono stati a lungo, contro
lo stato ebraico, il loro impegno per la sua
distruzione. Si tratta di paesi del "secondo
cerchio", secondo la vecchia dottrina strategica israeliana, avversari naturali e storici del "primo cerchio" dei paesi arabi che
circondano Israele; non ci sono conflitti
territoriali con loro e sarebbe interesse
comune impedire che si formi un potere
imperiale arabo, come voleva essere quello
di Saddam Hussein. Ma contro questa logica degli interessi prevale da tempo quella
ideologica dell'odio razziale contro gli
ebrei, possibile legittimazione di quella
pretesa all'egemonia del mondo musulmano cercata sia dall'Iran che dalla Turchia
islamista. E queste pretese si nutrono
anche di costruzioni di forza
militare il cui esempio più preoccupante (ma non l'unico) è l'armamento nucleare iraniano.
Questa situazione è stabile da
decenni (per quanto riguarda l'Iran) e sta peggiorando da parecchi anni (per la Turchia), e
potrebbe forse portare a un'alleanza tattica fra Israele e alcuni
dei vicini che sono anch'essi
nemici dei candidati "sultani" del
mondo islamico, cioè l'Egitto e
soprattutto l'Arabia Saudita, che
teme molto l'Iran. Ma queste
alleanze non possono che essere
passeggere e segrete, perché
vanno contro l'ideologia antisemita fondamentale di questi paesi, inculcata fin dalle
scuole elementari e continuamente ribadita dai media, oggi per nulla facile da
ammorbidire.
Quel che rende particolarmente preoccupante la prospettiva è però il comportamento dei tradizionali alleati di Israele nel
"terzo cerchio", cioè fra i grandi poteri
mondiali. Russia e Cina hanno ereditato
dai tempi della guerra fredda un'ideologia,
ma soprattutto un sistema di alleanze
"antimperialistiche", difficilissimo anch'esso da superare, nonostante il grande pragmatismo dei loro governanti; l'India non è
uscita da una dimensione di influenza
regionale e certo non vuole farlo per impelagarsi nei conflitti mediorientali. Restano
i tradizionali alleati dell'Europa Occidentale e degli Stati Uniti. E' qui, soprattutto
nell'atteggiamento americano, che negli
ultimi anni è avvenuta una brusca trasformazione. Mentre Israele ha avuto per
molto tempo lo status di essere il solo
paese fra Africa e Asia ad avere un sistema politico-sociale pienamente occidentale, con libere elezioni, separazione dei
poteri, libertà economica e politica, dimensioni e cultura non troppo diversa da quelle di uno stato europeo, essendo riconosciuto così parte di un "noi" occidentale che
bisognava difendere e tutelare,
oggi questo status è quasi scomparso. L'ideologia terzomondista è
diventata dominante nelle élites
europee e in seguito anche americane, Israele è trattato come il
capro espiatorio di tutte le colpe
della storia dei paesi occidentali
nei confronti degli "indigeni". Allo
stesso tempo riaffiora un antisemitismo antico che nega al popolo
ebraico il diritto al suo Stato, alla
sua indipendenza, alla piena
espansione della sua cultura. Il
risultato è una politica che salvo
eccezioni marginali (la repubblica
ceca in Europa e anche l'Italia finché era amministrata da Berlusconi, il
Canada, l'Australia) sta diventando violentemente antisraeliana.
In questa analisi di prospettiva non importa indicare il nocciolo antisemita di questa
ostilità, né mostrare il doppio standard, la
demonizzazione, la delegittimazione che la
caratterizzano e non importa neanche indicare i nomi di chi ha determinato queste
politiche, magari limitandosi a citare
Obama e la sua disastrosa illusione di un
Islam "moderato" da sostenere. Chi governa Israele deve tener conto di un fatto
semplice e veramente terrificante: che i
potenti del mondo sono d'accordo nel cercare di depotenziare e punire, se non proprio di distruggere Israele. Naturalmente
non lo ammettono; ma la politica di quelli
che contano a Washington e in Europa ha
questo senso preciso: stringere con mille
pretesti una morsa alla gola di Israele. La
richiesta di eliminare gli insediamenti oltre
la linea verde significa questo: destrutturare Israele come sarebbe per l'Italia il
compito di fare pulizia etnica di tutta il
Triveneto e la Lombardia per restituirli
"etnicamente puri" all'impero asburgico.
Aggiungeteci l'idea di costruire uno stato
ostile a dieci chilometri dalla zona economicamente più produttiva del paese, il
tentativo di impedire l'autodifesa di fronte
agli attacchi terroristici (qualunque cosa
Israele faccia è sempre sbagliata e "sproporzionata" se non proprio un "crimine di
guerra"). E la grottesca pretesa di far sorvegliare i confini a forze dell'Onu (o di altri
organismi internazionali) che di fronte agli
attacchi a Israele si sono sempre scansati
(in Libano e sul Golan oggi; sul Sinai e sul
Mar Rosso nelle guerre passate).
Il fatto è che Obama silenziosamente ma
con determinazione ha deciso un rovesciamento delle alleanze degli Usa, da Israele ai
suoi avversari: prima ha cercato di sostene-
re al potere in Egitto la Fratellanza
Musulmana (di cui Hamas è una
costola). Dopo il fallimento di questa ipotesi ha saldato un'alleanza
con l'Iran che ormai nei suoi piani
dovrà essere la potenza dominante
del Medio Oriente. E' ovvio che ciò
richieda, se non proprio la nuova
Shoà che vorrebbero gli ayatollah,
un deciso ridimensionamento strategico di Israele. E' a questo che
servono le "trattative di pace" condotte da Kerry, solo così si spiega
l'apparente dilettantismo o irrealismo con cui sono condotte. Il senso
è di sottoporre a Israele l'alternativa del diavolo: o acconsente alle
richieste dell'Autorità Palestinese e si
distrugge da solo, oppure non lo fa e diventa ufficialmente un nemico della pace e
dunque dell'America.
Questo è il problema strategico cui deve
far fronte il Governo di Israele. La situazione tattica è buona, come ho detto all'inizio;
quella strategica pericolosissima. Ci vorrà
una straordinaria bravura diplomatica,
militare e anche comunicativa per uscirne
senza le ossa rotte. È il compito di
Netanyahu, quello che potrà fare di lui il
politico che ha salvato Israele dalla sfida
più difficile, se ci riuscirà; o il contrario,
che non voglio neppure nominare.
Ugo Volli
Nella pagina a fianco: il segretario di Stato
USA John Kerry con il ministro della
Giustizia di Israele Tzipi Livni e con il capo
dei negoziatori palestinesi Saeb Erekat
Il 2014 sarà l’anno della liberazione della spia Pollard?
Lo ipotizza la tv israeliana
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
P
er la prima volta dal 1985, quando fu catturato dai servizi
segreti statunitensi e poi condannato all'ergastolo, la spia
americana Jonathan Pollard (59 anni), condannato per
tradimento in favore dello Stato ebraico, ha adesso la
speranza di essere liberato. Lo ha riferito la televisione di stato
israeliana secondo cui il Segretario di Stato John Kerry ha lasciato
intendere di recente ai dirigenti israeliani che un atto di clemenza
nei suoi confronti sarebbe possibile se Israele liberasse, nel contesto delle trattative di pace con i palestinesi, alcuni cittadini
arabi israeliani che scontano lunghe pene per terrorismo.
L'emittente ha collegato questo sviluppo anche al 'Datagate' ed in
particolare alla rivelazioni di Edward Snowden - molto imbarazzanti per Washington - secondo cui i servizi segreti statunitensi
avrebbero spiato negli ultimi anni, insieme con molti altri leader
stranieri, dirigenti israeliani fra cui l'ex premier Ehud Olmert, l'attuale premier Benyamin Netanyahu e l'ex ministro della difesa
Ehud Barak. All'inizio degli anni Ottanta, in contatto con un ufficio
del ministero israeliano della Difesa, Pollard inoltrò a Tel Aviv
informazioni segrete in possesso degli Stati Uniti relative al potenziale militare di diversi Paesi arabi, nonché sui comandi dell'Olp
allora dislocati a Tunisi. La vicenda aprì una profonda ferita nell'ebraismo Usa, perché gettava un'ombra sulla lealtà di un cittadino
e funzionario statunitense verso la sua patria.
9
ISRAELE
L’umiliazione
è una delle armi
della propaganda
palestinese
La barriera di difesa
e i controlli esistono solo
per fermare il terrore
e intercettare chi vuole
colpire la popolazione
israeliana
C’
è una parola che mi ha sempre colpito con forza, ogni
volta che la leggo una parte
di me si schiera immediatamente dalla parte di chi la pronuncia.
Questa parola è umiliazione. Sono molti gli
aspetti della vita ai quali possiamo riferirci
quando cerchiamo di capire perché quella
parola suscita in noi un senso di urgente
ed emotiva preoccupazione. L’abbiamo
letta, sentita, quante volte, ad esempio, a
proposito dei rapporti con i palestinesi, tra
ebrei e arabi israeliani, oppure tra Israele
e l’Autorità nazionale palestinese. Gli
arabi israeliani la provano quando guardano le differenze tra la loro vita e la paragonano a quella degli ebrei, una diversità
indiscutibile, ma la radice di questa disuguaglianza risiede nella lontananza dalla
modernità che contraddistingue la loro
società da quella ebraica, in fatto di cultura, tradizioni, rapporti famigliari, religione. Mentre Io Stato ebraico procede velocemente verso un continuo progresso, la
società araba, in Israele e nei Territori,
respinge tutti quei cambiamenti senza i
ASSOCIAZIONE
D.A.N.I.E.L.A
DI CASTRO
AMICI MUSEO EBRAICO DI ROMA
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
L’“Associazione Daniela Di Castro
10
Amici del Museo Ebraico di Roma”
è nata per aiutare il Museo Ebraico
di Roma nella tutela, conservazione,
promozione, diffusione e sviluppo
della ricchezza del suo patrimonio.
PER INFORMAZIONI E PER ISCRIZIONI:
www.associazionedanieladicastro.org
[email protected]
Tel. 334 8265285
quali l’immobilismo nel quale
vive non sussisterebbe.
Umiliazione è la parola che
appare sempre quando entra
in gioco la barriera di sicurezza, che costringe chi dai Territori entra in Israele a sottoporsi a lunghi controlli da parte
dei soldati di Tzahal, che svolgerebbero molto più volentieri
altri compiti invece di interpretare quella
parte per garantire la sicurezza del Paese.
E’ umiliante sottoporsi a quei controlli, ma
è indispensabile accettarli per impedire che
dei terroristi entrino per compiere attentati.
In Israele si verificano attacchi, spesso con
gravi conseguenze, da parte di cittadini
arabi israeliani, i giornali riferiscono puntualmente di aggressioni motivate solo da
odio contro gli ebrei che vivono nell’entità
sionista, commesse da fanatici, indotti al
crimine da una educazione all’odio ricevuta
nelle scuole palestinesi, ma anche dall’esempio del governo dell’Anp, che chiama
martiri chi si fa esplodere e li premia dedicando alla loro memoria strade e monumenti. Può arrivare l’umiliazione a produrre un
risultato così tragico? Sì, se è sostenuta da
una ideologia che pervade l’intera società
palestinese, ma non va chiamata con quel
nome, è disonesto l’uso che ne viene fatto.
Non c’è da stupirsi poi se dalle statistiche
risulta che la presenza di arabi vicino alla
propria abitazione non è gradita al 48% dei
cittadini ebrei. Una diffidenza che diventa
inesistente se invece il vicino è cristiano,
druso etc. Anche avere un professore arabo
suscita obiezioni nel 42% degli studenti tra
i 16 e 17 anni, ma anche in questo caso,
visto che la narrativa palestinese è improntata sulla negazione dell’ebraicità di Israele, è più che comprensibile l’esclusione di
un maestro che creerebbe soltanto tensioni
fra gli studenti. Anche in questo caso l’umiliazione è resa possibile dal rifiuto arabo
verso un’integrazione in quanto minoranza
in uno Stato ebraico (ho letto queste statistiche su Haaretz).
E’ chiaro che episodi di violenza possono
esserci anche da parte ebraica, ma sono
illegali, l’autorità giudiziaria israeliana li
sanziona e il governo li combatte. Mentre
nell’Anp avviene il contrario, l’odio – che
poi si trasformerà in atti di vera violenza
– è contenuto nei libri di testo in uso nelle
scuole pubbliche, gli ebrei vengono
descritti come scimmie, maiali e accusati
di commettere i delitti più turpi contro la
popolazione musulmana. Se questa è la
“cultura” alla base della società palestinese, allora i numeri citati dal quotidiano
israeliano mi paiono persino bassi.
Umiliazione è altro, significa
essere cittadini di serie B, e
gli arabi in Israele godono
degli stessi diritti di tutti.
Vuol dire non potersi realizzare pienamente a tutti i
livelli sociali, economici, culturali. Gli arabi, se provassero a considerarsi una minoranza integrata, che si riconosce nello Stato nel quale
vive, che collabora con le
istituzioni invece di ritenerle
illegali – come avviene nelle
elezioni amministrative a
Gerusalemme, dove gli elettori arabi non vanno a votare perché non riconoscono la
sovranità di Israele – allora si sentirebbero
sicuramente meno umiliati nel confronto
con i concittadini ebrei. Avviene così in
tutti gli Stati democratici, il problema è
nell’islam, che respinge anche la sola idea
di democrazia, per cui il futuro si presenta
non molto diverso dal passato. I palestinesi
continueranno a danzare quando cadono i
missili provenienti da Gaza sul territorio
israeliano, così come hanno festeggiato
quando è morto Ariel Sharon. Forse l’unico
ad essere sincero è Abu Mazen quando
ostenta la carta geografica del suo futuro
Stato nella quale manca del tutto la presenza di Israele. Ma ci sono altri palestinesi ad
essere sinceri, sono quelli che vivono nei
Territori amministrati dall’Anp, che reclamano a gran voce il futuro Stato ma con
altrettanta forza dicono di voler rimanere
cittadini di Israele. Ci vuole poco a capire il
perché. Come si vede la parola umiliazione
ha poco a che vedere con il conflitto arabo-israeliano, viene usata spesso, sempre a
sproposito, perché suscita sensi di colpa in
chi non conosce la propaganda palestinese,
un’ottima arma per la delegittimazione di
Israele.
Angelo Pezzana
I clandestini stranieri: la difficile
soluzione di un’accoglienza che
può diventare un suicidio demografico
D
opo aver partecipato alla terza
marcia di Selma per i diritti civili
degli afro americani negli Stati
Uniti, nel marzo del 1965, rabbi
Abraham Joshua Heschel scrisse: “Mentre
marciavo a Selma, i miei piedi stavano pregando.” In Israele lo scorso 8 gennaio la
protesta di più di 10.000 immigrati africani
non ha visto marce ma autobus organizzati
che hanno portato le persone da Tel Aviv a
Gerusalemme, nel giardino antistante la
Knesset, il Parlamento.
I diecimila dimostranti sono all’incirca un
quinto del numero stimato di Eritrei e Sudanesi presenti sul territorio israeliano come
immigrati, spesso illegali, che reclamano il
diritto di asilo date le realtà politiche dei
paesi di origine, divisi tra guerre civili e
persecuzioni religiose e razziali. La protesta
non aveva come scopo la sola e non semplice richiesta di asilo politico, ma anche la
denuncia pubblica della reale situazione
nella quale essi vivono e le conseguenze
sociali di questa situazione.
Riuscire ad avere visti provvisori diventa
sempre più difficile: ci sono giorni di attesa,
ore di fila, spesso i visti non contemplano la
possibilità di lavorare cosa che costringerebbe molti immigrati a lavori di fortuna o
atti criminali. Intanto la polizia si è abituata
a fermare per controlli le persone di colore
e se sprovviste di visto o in attesa del rinnovo sono detenute nei nuovi centri di accoglienza nel mezzo del Neghev, come Holon,
che ultimamente sono stati rinnovati per
accogliere fino a 3.300 persone. Questo
pare essere il clima quotidiano di vita dei
cosiddetti “mistonenim”, infiltrati, termine
rifiutato dagli immigrati che più volte
durante la giornata di protesta hanno gridato: “Noi non siamo infiltrati, noi non siamo
malavitosi, noi siamo rifugiati.” E qui
nascono i dubbi di una certa componente
della società israeliana che giudica la maggior parte dei nuovi immigrati africani non
come rifugiati politici. La stessa freddezza
della Knesset che, nonostante le proteste
dei deputati Henin, Rozin, Michaeli e Solomon, non ha permesso l’ingresso di una
rappresentanza dei manifestanti all’interno
del Parlamento, dimostra i dubbi e forse
anche le paure della società di Israele.
Prima di ogni cosa, davanti agli occhi del
paese, ci sono le difficili condizioni nelle
quali vivono tutti gli abitanti del sud di Tel
Aviv, bianchi e neri, israeliani e non. L’intera zona oggi è pericolosa, insicura, invivibile ad ogni ora e sebbene gli immigrati non
possano essere additati come gli unici
responsabili di questo degrado è indubbio
che essi costituiscano una facile manodopera per la criminalità organizzata che però
è tutta israeliana. Le organizzazioni non
governative fanno notare come questa
situazione sia dovuta alla mancanza di un
adeguato numero di permessi di lavoro che
sono sempre concessi con il contagocce e
con tempi troppi lunghi da gestire per chi
ha l’urgenza di lavorare per vivere. Il nodo
morale della questione sta proprio qui: se i
nuovi immigrati non sono rifugiati, se sono
persone immigrate per lavoro, allora lo
Stato di Israele non è uno stato che può
permettersi immigrazioni di masse non
ebraiche. Questa è la tesi di un certo
mondo politico israeliano, ma anche la logica della stessa esistenza del paese. Israele
è uno stato nazionale. Uno stato che somiglia alla Repubblica Ceca, la Croazia, l’Armenia. Uno stato che, date le situazioni
geopolitiche dalle quali è circondato, non
può permettersi di perdere il delicato equilibrio della costante esistenza di una maggioranza ebraica. La perdita della maggioranza ebraica come elemento fondante
della stessa esistenza del paese costituirebbe, di fatto, un suicidio. Israele non è
uno stato come il Canada o gli Stati Uniti,
sebbene sia nato per volontà di immigrati,
ma si trattava e si tratta di immigrati che
rafforzano i delicati equilibri tra maggioranza ebraica e minoranze non ebraiche. Il
punto è che per molte organizzazioni non
governative le politiche che mirano alla
conservazione di questo delicato equilibrio
sono politiche mostruose. Incivili. Politiche
che negano gli stessi diritti di minoranza,
cosa non affatto vera per milioni di arabi
israeliani, cristiani o altre etnie non ebraiche presenti nel paese.
David Grossmann, salendo sul podio durante la manifestazione ha sottolineato con
forza come per lui la stessa parola “israeliano” includa il senso della parola “rifugiato”, riprendendo il senso storico di una
Israele nata come luogo rifugio per ebrei in
fuga. Mentre i manifestanti, sudanesi ed
eritrei, lo ascoltavano chiedendosi chi fosse
quel signore così gentile e colto, Grossmann ha offerto anche un’ipotesi di soluzione del problema: “Se è vero che Israele
fa entrare ogni anno nel paese decine di
migliaia di lavoratori stranieri (in gran parte
dalle Filippine) perché non potete essere
voi parte di questi lavoratori? Perché non
concedere anche voi permessi di lavoro e di
soggiorno?” La risposta potrebbe essere
nascosta in quel delicato equilibrio geopolitico e sociale che sta dietro la maggioranza
ebraica del paese. I lavoratori che arrivano
dall’estero vengono qui per periodi definiti
di lavoro, senza alcuna intenzione di risiedere permanentemente nel paese. Un
paese che elementi politici post sionisti
vorrebbero dipingere come mostro. Un
paese che però solo una piccola minoranza
dei manifestanti intervistati ha definito
come “vagamente” razzista, più che altro
impaurito dal colore della “nostra pelle”,
come ha detto un ragazzo eritreo fuggito
dalla guerra. Ma forse gli israeliani più che
del colore della pelle hanno paura delle
organizzazioni sudanesi che gestiscono
troppi traffici criminali. Hanno paura di tornare a casa dopo le otto in alcuni quartieri.
Hanno paura ma sanno anche che molti
lavori nello Shuk HaCarmel, nel mercato, di
Tel Aviv non potrebbero essere fatti se non
da immigrati di colore, cosi come molta
bassa manovalanza diffusa nel paese. In
molti ci assicurano che gli immigrati africani non vogliono conquistare il paese ed in
molti, moltissimi sono scappati dai loro
paesi per non morire ed hanno scelto Israele in quanto unica democrazia della regione. Il punto sta nel cercare una non facile
soluzione tra un ipotetico suicidio numerico
per Israele, l’orgoglio di essere una democrazia ed il prezzo da pagare o far pagare ai
propri cittadini in termini di sicurezza quotidiana e di qualità della vita. L’orgoglio di
essere una democrazia che non metta in
piedi un sistema persecutorio contro gli
immigrati africani ma che decida una strada di gestione della realtà totalmente
democratica e totalmente sicura per i delicati numeri del paese e per i diritti dell’Uomo in quanto tale. Diritti che secondo Rabbi
Arik Aschermann, dell’organizzazione Rabbini per i Diritti Umani, potrebbero essere
messi seriamente in pericolo dal modo con
il quale la polizia ha cominciato a trattare
gli immigrati africani, un trattamento che
per molti è antitetico ai veri valori ebraici di
accoglienza. Ma se nelle case ebraiche, da
sempre, l’accoglienza dell’altro è un valore
supremo ed indiscutibile, per la collettività
ebraica divenuta Stato il suicidio numerico
non può essere un’opzione e quindi, tra
valori morali, etica di uno Stato ebraico e
realtà demografiche in Israele è sempre più
difficile pregare con i piedi, come avrebbe
voluto rabbi Heschel.
Pierpaolo Pinhas Punturello
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
Israele non può permettersi di perdere il delicato equilibrio della
costante esistenza di una maggioranza ebraica
11
FOCUS
Dopo Gaza, Israele avrebbe
dovuto ritirarsi anche
dalla Cisgiordania
Secondo Wikileaks questo era il piano
segreto di Sharon che non lo realizzò
per colpa di Abu Mazen, della destra
e infine a causa della sua malattia
“L
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
o abbiamo visto in Libano e ce lo ha anche
confermato Gaza: in Medio Oriente il gesto
unilaterale non paga”. In una recente
intervista rilasciata in occasione dei funerali di
Ariel Sharon, l’ex ambasciatore israeliano in Italia, Avi Pazner,
ricordava uno dei grossi limiti del disimpegno unilaterale di
Israele dal Libano meridionale (maggio 2000) e dalla Striscia di
Gaza (estate 2005), decisi rispettivamente da primi ministri
Ehud Barak e “Arik”. In
entrambi i casi il ritiro non ha
prodotto l’effetto sperato, ossia
la pacificazione del confine. Al
contrario. Nonostante la
risoluzione numero 425 del
Consiglio di Sicurezza dell’Onu
abbia certificato nel 2000 la fine
dell’occupazione del Paese dei
Cedri, nel 2006 la milizia sciita
Hezbollah - che si autodefinisce
“resistenza libanese” provocava un nuovo conflitto
con Israele. Quanto a Gaza, la
pioggia di missili lanciati da
Hamas e dalla Jihad islamica
non è mai veramente cessata, limitandosi a diminuire di
intensità dopo le operazioni Piombo fuso (dicembre 2008) e
Pillar of Defense (novembre 2012).
Alla sua morte Sharon è stato salutato dal presidente Shimon
Peres come “una spalla sulla quale la sicurezza dell’intera
nazione si poteva appoggiare”, mentre il vicepresidente degli
Stati Uniti Joe Biden ha detto che Arik “aveva una stella
polare: la sopravvivenza dello Stato ebraico e del suo popolo”.
Come è dunque possibile che il Leone d’Israele abbia
12
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commesso un così lampante errore di valutazione, imponendo
il disimpegno dalla Striscia senza garantire una vera
pacificazione del confine meridionale? Gli analisti si sono
affrettati a definire la scelta dell’ex generale tanto coraggiosa
quanto miope. Non fidandosi di Mahmoud Abbas (Abu Mazen)
da poco alla guida dell’Autorità palestinese, Arik concluse il
ritiro in autonomia, delegittimando la controparte e piantando
il seme della riscossa di Hamas, che di lì a poco prenderà il
controllo della Striscia
espellendo manu militari gli
uomini di Abbas.
Grazie a Wikileaks, tuttavia,
Haaretz ha ricostruito i mesi in
cui il primo ministro del Likud
- acclamato da sinistra dallo
stesso Peres - imponeva il ritiro
da Gaza alla nazione. Il più
importante giornale
progressista non è solito fare
sconti al blocco conservatore,
eppure scrive che “nella
prospettiva di Sharon il
disimpegno era solo il primo
capitolo di un processo che si
sarebbe poi spostato in Cisgiordania”. In un parallelo fra il
premier israeliano e Charles De Gaulle, si legge che mentre il
presidente francese riuscì a mettere fine all’esperienza
coloniale della Francia in Algeria, gli sforzi del primo “furono
brutalmente interrotti a metà strada”. In altre parole, oltre agli
scarsi esiti dei colloqui con Abu Mazen, fu la malattia di
Sharon a interrompere il processo di pace. Perché Arik,
riconosce lo stesso Haaretz, voleva disfarsi anche di gran parte
della Cisgiordania occupata: “Lui era un falco della sicurezza,
road map, argomentava l’ex generale, “nessuno si aspetta che
Abu Mazen diventi un sionista ma devono essere adottate
misure contro il terrorismo”.
È ancora un documento diplomatico, il rapporto
dell’ambasciatore Usa in Israele Dan Kurtzer, a illustrare il
piano di Sharon per l’annessione dei principali insediamenti
israeliani in Cisgiordania mentre si preparava il ritiro da tutte
le altre zone occupate, a inclusione di alcuni quartieri arabi di
Gerusalemme “ma non il Monte del Tempio, il Monte degli
Ulivi e la Città di David”. Ancora a Joe Biden, a gennaio 2005
Sharon spiegava che “se i palestinesi faranno la loro parte
sulla sicurezza, Israele e i palestinesi possono tornare alla road
map; per un accordo definitivo ci vorranno anni, ma potrà
essere raggiunto”.
Nei mesi successivi le cose non andarono però come sperato.
In una serie di incontri Sharon e il presidente palestinese si
accordarono per lo smantellamento dei posti di blocco e la
liberazione di 900 detenuti in cambio della fine della campagna
di odio anti-israeliano e degli attacchi terroristici. Abbas non fu
però in grado di mantenere la parola data mentre il premier,
spiega ancora l’ambasciatore Kurtzer, “doveva rispondere di
una situazione politica esacerbata dal terrorismo”. Ogni
missile che cadeva da Gaza lo indeboliva un po’ di più. In un
incontro del giugno 2005, Abu Mazen convenne che “ogni
pallottola sparata contro Israele era una pallottola sparata
contro i palestinesi”. Parole di apertura ma, pressato
dall’opinione pubblica, Sharon non poteva più aspettare.
Dapprima ribadì ad Abbas che “in cambio della calma, Israele
è pronta a compiere altri passi in futuro”. Poi proseguì con il
ritiro da Gaza, concluso fra agosto e settembre, quindi lasciò il
Likud per formare Kadima, al centro dello schieramento
politico. A fine anno il primo ictus lo costrinse a lasciare la vita
politica. A gennaio 2006 un’emorragia cerebrale lo sprofondò
nel coma che lo portò otto anni dopo alla morte. Il giorno dei
suoi funerali altri missili cadevano da Gaza su Israele.
Daniel Mosseri
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
non dell’ideologia” e aveva già intuito l’insostenibilità a lungo
termine dell’occupazione di Giudea e Samaria. Una serie di
cablogrammi diplomatici inviati dall’ambasciata Usa a Tel Aviv
al Dipartimento di Stato americano e resi noti da Wikileaks
“mostrano - scrive ancora il quotidiano - che prima ancora del
ritiro da Gaza, Sharon stava pianificando il passo successivo”.
Altre note diplomatiche palestinesi indicano che il premier
“tentò di coordinare il disimpegno con l’Autorità palestinese”.
In un incontro del novembre 2004 con gli allora senatori Usa
Joe Biden (oggi vicepresidente) e Chuck Hagel (segretario alla
Difesa), Sharon ribadì il suo impegno per la pace con i
palestinesi, nonostante le difficoltà in Israele derivanti “da una
sinistra senza potere e da una destra del tutto contraria alla
sua iniziativa”, spiega un cablo americano. Secondo Arik l’era
del post Arafat (morto a novembre 2004) presentava “una
nuova opportunità” per coordinare il disimpegno dalla Striscia
assieme ai palestinesi. Se fosse andata a buon fine, assicurava,
la decisione “avrebbe poi permesso l’applicazione della road
map per la pace, avanzata dall’allora presidente degli Stati
Uniti George W. Bush”. Certo, il lavoro non sarebbe dovuto
ricadere solo sulle spalle di Israele, ribadiva Sharon il 27
dicembre 2004 al senatore Joseph Lieberman. Per tornare alla
13
FOCUS
Il contadino-guerriero, simbolo di una nuova nazione
A
Già nella scelta del nome ha rappresentato
il legame ideale, spirituale e materiale con la terra dei Padri
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
riel Sharon è stato un personaggio che ha fatto la
storia di Israele. Tuttavia, la sua specificità emerge
non solo dalle vicende militari e politiche che lo hanno
visto a lungo protagonista, ma anche grazie alla sua
biografia: soldato, generale, Ministro dell’Agricoltura e della
Difesa, Capo del Governo, ma comune denominatore a tutte le
sue cariche fu l’attaccamento alla terra, che si tradusse nella
passione per l’attività agricola.
Un segno del destino forse risiedeva già nello stesso nome: il
cognome scelto dalla sua famiglia (proveniente dall’Unione
Sovietica) in sostituzione dell’originario Scheinerman fu infatti
“Sharon”, la cui etimologia, come spiega a Shalom Rav Amedeo
Spagnoletto, è dall'accadico e significa foresta, bosco. La radice
“shin resh” ha a che fare con alberi, arbusti, come ad esempio la
parola “asherà” che significa boschetto.
Sharon ha così incarnato la figura dell’uomo nuovo auspicato dal
sogno sionista, un uomo che vive, lavora e combatte per la
propria terra. È quanto ha fatto notare lo scrittore israeliano Meir
Shalev in un recente articolo sul Corriere della Sera: Sharon può
considerarsi un “contadino-guerriero”, un simbolo per la sua
generazione; alla stessa categoria sono appartenuti altri nomi
illustri quali Moshé Dayan e Rafael Eitan. Costoro andavano al
fronte senza esitazioni e dimostravano il loro valore come
militari, ma rimanevano legati all’agricoltura, che rappresentava
le loro origini mai dimenticate: la conferma è offerta proprio
dello stesso Sharon, il quale nei suoi periodi di pausa si ritirava
nel suo ranch nel deserto israeliano del Negev. Come ha
sottolineato anche Yonatan Sredni sul Jerusalem Post, Sharon si
sentiva particolarmente a proprio agio in jeans e giacca da
cowboy, circondato dalle pecore in quello stesso ranch dove
aveva stabilito la sua abitazione, si era ritirato prima di tornare
in politica e dove adesso è sepolto.
Sempre Shalev, inserisce Sharon in una lunga tradizione che ha
visto protagonisti altri importanti leader della storia del popolo
ebraico: Davide era contadino prima di sconfiggere Golia,
mentre il suo predecessore Saul partì per la sua prima battaglia
proprio
da un campo
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1 15/11/2013
16:24:44 arato. L’archetipo del contadino-soldato si
propone in molteplici occasioni nella storia: nella Roma
repubblicana ne furono esempio Cincinnato, console e dittatore,
e Marco
Porcio1 Catone
“il Censore”, mentre un autore
masa.pdf
14/11/2013detto
11:15:53
come Marco Terenzio Varrone, noto per la sua carriera militare,
elogiò l’agricoltura nel suo “De re rustica”. In tempi più recenti,
Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi e il condottiero dei
Mille, nella sua Caprera diventava appassionato contadino e
allevatore; tra i nomi che si possono inserire in questo quadro
anche Vo Nguyen Giap, generale e politico vietnamita morto lo
scorso ottobre, il quale proveniva da origini contadine.
Sicuramente questo connubio tra agricoltura e carriera militare e
politica è stato più marcato in Sharon che in altri personaggi.
La scelta in questo senso di Arik era dettata dal forte sentimento
che egli provava per la sua terra; forse anche l’essere ritratto nel
suo ovile generava un’immagine positiva che poteva giovare alla
sua carriera. Oggi probabilmente è molto più difficile ravvisare
percorsi di questo tipo: il settore militare è investito anch’esso
dal progresso tecnologico, mentre l’agricoltura costituisce una
componente sempre più marginale nelle economie mondiali.
“Sono nato in una fattoria. La mia forza non ha nulla a che
fare con l’apparato politico, ma la ottengo dalla natura, dai
fiori” amava ripetere Sharon su se stesso, dimostrando quanta
importanza avessero per lui la natura e la terra nonostante le
carriere di militare e politico che lo hanno visto a lungo
protagonista.
Tutt’altro che casuale, dunque, il fatto che l’ippocastano piantato
nel Parco “Yitzhak Rabin” di Roma in occasione di Tu Bishvat, il
Capodanno degli alberi, sia stato dedicato proprio a Sharon.
Daniele Toscano
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Giuste o sbagliate, geniali o criminali
– a seconda di chi le giudica – le sue
decisioni erano in grado di portare un
cambiamento, rivoluzionare scenari
apparentemente senza uscita
F
ino all'ultimo, contro ogni logica, Israele ha sperato
nel ritorno del suo ultimo re: Arik, melech Israel –
Arik, re d'Israele – come lo acclamavano i suoi più
ardenti sostenitori nel momento delle grandi vittorie
militari e politiche.
Fino al giorno della sua morte i sondaggi hanno confermato che
se Ariel Sharon si fosse improvvisamente risvegliato dal coma,
una buona parte dell'elettorato avrebbe ancora votato per lui. Un
20-30 percento di potenziali consensi ottenuti così, senza fare
campagna elettorale, senza un partito, giacendo in coma per otto
anni in un letto d'ospedale vicino a Tel Aviv.
Fino alla fine la popolarità di Sharon, eguagliata solo dall'odio
espresso dai suoi nemici, ha rasentato la venerazione ed è rimasta
intatta nonostante l'ex generale e premier fosse uscito dalla scena
politica da quando un'emorragia cerebrale lo aveva lasciato in uno
stato vegetativo permanente. È un dato che dice molto di Ariel
Sharon, morto a gennaio all'età di ottantacinque anni, e che dice
ancora di più del vuoto che ha lasciato e della leadership che
guida il paese oggi.
Non a caso lo chiamavano "bulldozer". Sostenitori e i detrattori
possono essere d'accordo su un punto: Sharon era un uomo
d'azione, pronto a fare, in guerra come in politica, quello che
riteneva necessario per la sicurezza dello Stato ebraico senza
riguardo per i rischi alla propria carriera o alla propria incolumità,
senza esitazioni e senza curarsi delle opinioni avverse.
Quando, nella guerra del Kippur, individuò il punto debole nelle
file nemiche, gettò i suoi carri armati in una corsa disperata verso
il Canale di Suez, accerchiando un'intera armata egiziana. Quando
decise di sfrattare l'OLP di Yasser Arafat dalle sue basi in Libano
lanciò un sanguinoso conflitto che causò migliaia di vittime e
attirò le critiche internazionali su Israele. Di simile critiche non si
curò quanto si trattò di stroncare la seconda Intifada e fermare
l'incubo dei terroristi suicidi palestinesi. E quando capì quanto
l'occupazione dei Territori palestinesi costituisca un pericolo per la
democrazia israeliana e l'esistenza dello Stato ebraico, non esitò a
ordinare il ritiro dalla Striscia di Gaza, smantellando quegli stessi
insediamenti che aveva contribuito a fondare e attirandosi le ire
dei coloni e del proprio partito. Giuste o sbagliate, geniali o
criminali – a seconda di chi le giudica – le sue decisioni erano in
grado di portare un cambiamento, rivoluzionare scenari
apparentemente senza uscita e offrire la possibilità, anche se non
la certezza, di una soluzione.
Per queste capacità i giornali israeliani hanno ricordato il
defunto primo ministro come "l'ultimo leader" del paese e uno
degli "architetti d'Israele". In contrasto con il dinamismo di
Sharon, e quasi a ricalcare lo stato comatoso in cui ha versato
negli ultimi anni della sua vita il "Leone d'Israele", l'attuale
leadership israeliana attraversa una fase di paralisi su quasi tutti
i fronti. L'immobilismo è totale non solo sui negoziati con i
palestinesi, ma sui temi sociali, il divario tra laici e religiosi,
l'immigrazione e i diritti civili.
Anche se dopo il ricovero nel 2006 toccò al vice premier Ehud
Olmert prendere il posto di Arik, l'uomo-simbolo di questa epoca
post-Sharon è Benjamin Netanyahu, e non solo perché oggi
occupa la poltrona di primo ministro, ma perché nel bene e nel
male rappresenta l'antitesi di Sharon.
"Bibi" non è un uomo d'azione. È stato un eroe delle forze speciali
antiterrorismo, ma in veste di statista si dimostra molto prudente
e attento a mantenere lo status quo. È più restio di Sharon a
utilizzare le armi, ma finora non si è dimostrato capace di gesti
coraggiosi. Netanyahu si presenta come l'unico in grado di
mettere insieme un governo nel difficile panorama politico
israeliano e cerca di garantire la stabilità interna ed esterna del
paese. Tenta di accontentare tutti, finendo inevitabilmente per
scontentare tutti. Libera i prigionieri palestinesi per mantenere in
vita i negoziati con Abu Mazen e far contenti gli americani, ma
nello stesso giorno autorizza la costruzione di nuovi insediamenti
per tener buoni i coloni e distrugge così ogni possibilità di un
accordo. Promette di riconoscere i matrimoni tra omosessuali ma
poi cede alle pressioni dei suoi alleati di destra. Taglia il bilancio
della difesa, che pesa eccessivamente sull'economia, ma aumenta
le spese militari per gli anni successivi. Ordina di imprigionare i
rifugiati africani in un campo in mezzo al deserto del Negev, ma
non permette che le loro richieste d'asilo siano esaminate e lascia
decine di migliaia di disperati in un limbo legale.
Questa strategia ha i suoi benefici sia per Israele, che attraversa
un periodo di relativa tranquillità e prosperità economica, sia per
Netanyahu, il cui mandato di premier sta per superare il record di
durata detenuto da David Ben-Gurion, il padre fondatore d'Israele.
Ma nel lungo termine la credibilità dello Stato e di Netanyahu ne
escono danneggiati e, soprattutto, le tante domande sul futuro
d'Israele rimangono senza risposta. Come fermare l'isolamento
internazionale cui va incontro Israele con l'approssimarsi del
fallimento dei colloqui di pace e il proseguimento dello sviluppo
degli insediamenti? Come potrà Israele rimanere uno Stato
ebraico e democratico pur mantenendo l'occupazione della
Cisgiordania? Come potrà mantenere vitale la sua economia
quando una crescente fetta della popolazione, soprattutto ebrei
ultraortodossi, vive di sussidi statali e rifiuta di inserirsi nel
mondo del lavoro?
Per rispondere a queste e tante altre domande, Israele
vorrebbe non tanto un abile politico, capace di garantire la
propria sopravvivenza al vertice, ma un vero leader, qualcuno
come quell'ultimo "re" che per otto anni il paese ha sperato
invano di ritrovare.
Ariel David
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
Israele e il vuoto mai
colmato del dopo-Sharon
15
PENSIERO
L’età non lo ferma
Elie Wiesel ha compiuto 85 anni
Shalom lo ha incontrato, con una esclusiva
intervista: “Il male dell’antisemitismo
esiste e dobbiamo combatterlo”
N
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
EW YORK – Il suo 85° compleanno, lo scorso 30 settembre, è passato quasi inosservato. “Non festeggio mai il
mio compleanno”, spiega a Shalom Elie Wiesel, “non era
una delle ricorrenze celebrate a Sighet, il villaggio transilvanico dove sono nato. Ancora oggi, dopo tanto tempo, mi ritrovo
a seguire solo feste e tradizioni di allora”.
A oltre due anni dal quintuplo bypass che ha ispirato il memoir “A
cuore Aperto” (il suo libro più personale, edito in Italia da Bompiani), lo scrittore e premio Nobel per la pace è stato costretto ad
annullare il suo corso alla Boston University, il più popolare nell’ultracentenaria storia dell’università. “Si tratta di un’interruzione
temporanea, ordinata dal medico”, assicura seduto nel suo grande
e luminoso ufficio a Manhattan, pieno di ricordi di una vita.
Ma i problemi di salute non hanno fermato il suo attivismo. Lo scorso dicembre Wiesel ha pubblicato una pagina a pagamento sul
New York Times e sul Wall Street Journal per invitare il presidente
Obama a “non fidarsi dei mullah iraniani”, esortando il Senato Usa
a “rafforzare le sanzioni”.
“La nuova leadership iraniana è pericolosa quanto quella vecchia e
continua imperterrita a negare l’Olocausto”, racconta Wiesel. “L’aver aperto rapporti diplomatici con Tehran prima che avesse rinunciato ufficialmente alle sue aspirazioni genocide nei confronti dello
stato ebraico è stato un errore”.
Lei ha criticato anche la politica di Washington in Siria.
“L’inerzia dei governi americano e israeliano in Siria è scandalosa.
Il fatto che Assad non abbia pagato alcun prezzo per aver gassato
dei bambini indifesi rappresenta una sconfitta morale per tutto
l’occidente. La comunità ebraica avrebbe dovuto mettersi a capo
della crociata per denunciare questo genocidio”.
Anche il dossier israelo-palestinese sta faticosamente riprendendo quota. Crede che ci sarà mai la pace in Medio Oriente?
“Sono profondamente convinto che vivrò abbastanza a lungo per
vedere la pace tra Israele e palestinesi. E’ solo questione di tempo
e comunque si sono fatti passi da gigante in questa direzione”.
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Il New York Times ha denunciato l’utilizzo di libri di testo acquistati con i fondi Onu in 650 scuole palestinesi che promuovono
l’odio nei confronti di Israele.
“Quand’era segretario generale dell’Onu, chiesi a Kofi Annan di
fare qualcosa ma mi rispose che non era facile. Quando nel 2009
diventò Segretaria di Stato, andai da Hillary Clinton con i libri in
mano ma anche lei non riuscì a fare nulla. E anche Ban Ki-Moon è
stato impotente. E dire che i fondi vengono soprattutto dagli Usa,
principali sponsor dell’Onu”.
Nel suo ultimo libro The Devil That Never Dies, Daniel Goldhagen parla di revival mondiale dell’antisemitismo.
“Nel 2007 io stesso fui assalito in un hotel di San Francisco da un
negazionista che con la forza voleva convincermi a dichiarare che
l’Olocausto è un’invenzione. Da allora sono costretto a girare con la
scorta. Purtroppo il male esiste e dobbiamo combatterlo. Dal francese Dieudonné all’Ungheria dove, per protestare contro il governo
antisemita presieduto da Viktor Orban, ho restituito la Grande
Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica conferitami nel 2004
dall’allora Presidente Ferenc Madl”.
Pensa che anche gli italiani siano un popolo antisemita?
“La prima volta che conobbi gli italiani fu all’inizio degli anni ‘40
quando arrivarono a Sighet e l’intero villaggio se ne innamorò.
Anche se erano soldati dell’esercito fascista, erano gentili, cantavano e sorridevano e non commisero un solo atto di violenza o cattiveria. Anche ad Auschwitz ho incontrato tanti ebrei italiani, tutta
gente speciale”.
Pensa che la Germania abbia fatto i conti col proprio passato?
“Non credo nella colpa collettiva e penso che i tedeschi abbiano
espiato. I figli degli assassini non sono assassini e non a caso i miei
studenti tedeschi all’università di Boston sono i più sensibili, straordinari, autocritici”.
Come giudica il nuovo Papa italo-argentino?
“Sento solo cose positive sul suo conto e la prossima volta che
andrò a Roma voglio assolutamente incontrarlo. I rapporti interreligiosi tra cattolici ed ebrei sono migliorati proprio grazie a Francesco
e ai suoi predecessori e il pregiudizio cattolico degli ebrei ammazza-Cristo è in diminuzione ovunque”.
La letteratura Yiddish è ancora viva?
“La cultura lo è, non la lingua. La maggior parte dei 6 milioni ebrei
trucidati durante la guerra parlava yiddish. Quando arrivai in America, alla fine degli anni ‘50, New York, Montreal, Buenos Aires,
Johannesburg e Parigi avevano almeno tre quotidiani in lingua
Yiddish ciascuna mentre oggi non ne esiste neppure uno. A quell’epoca lavoravo al Jewish Daily Forward, il quotidiano yiddish più
venduto del tempo”.
Ha conosciuto Isaac Bashevis Singer?
“Al Forward lavoravamo gomito a gomito e la sera tornavamo a
casa sempre insieme visto che vivevamo entrambi nell’Upper West
Side. Lui non mi considerava un rivale come invece Saul Bellow – il
loro antagonismo era leggendario – perché ero molto più giovane e
gli stavo simpatico. Ricordo che molti erano gelosi di lui”.
Pensa che l’assimilazione sia un pericolo per la cultura e la letteratura ebraiche?
“L’assimilazione è sempre stata un pericolo per il giudaismo. Siamo
una minoranza e quando cerchiamo di adattarci alla maggioranza,
incorporandone comportamenti, culture, filosofia, costumi e paure,
che cosa resta di noi? Nulla. Rischiamo di non esistere più. Gli ebrei
devono restare ebrei”.
Alessandra Farkas
Perché è così difficile
parlare di Israele
Tra una destra nerboruta e una
sinistra vintage il mondo ebraico
rischia di restare in silenzio
bensì di politica, perché da anni ormai si è aperta un’epoca inedita
per il sionismo e per Israele, che molti, dai politici ai filosofi, dagli
storici ai sociologi, tentano di interpretare.
Che dire poi del tema della “illegittimità” di Israele? Si pensi solo
ai tanti contributi di intellettuali francesi, ad esempio a quello di
Pierre-André Taguieff o di Jacques Tarnéro. C’è chi in Francia e
altrove, anche da posizioni diverse, ha provato e prova a rispondere alla grande accusa rivolta a Israele, quella di aver illegittimamente occupato le terre altrui, un’accusa determinante, perché fa
passare Israele per una grande colonia e avalla l’uso di termini
gravissimi come “coloni”. In Italia si fa buon viso a cattivo gioco,
nei media, nelle università, nella sfera pubblica. Ma così si impedisce alla fin fine ogni critica e ogni riflessione - sia all’esterno, sia
all’interno. Ho scritto un nuovo libro su Israele con l’intento di
introdurre il lettore italiano nel dibattito in corso in America, in
Francia, in Israele. L’ho scritto per indurre a sollevare lo sguardo
dai confini e ad affrontare quei grandi temi, dalla questione dei
due stati al tema della cittadinanza, che fanno oggi di Israele il
laboratorio della globalizzazione.
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Nella foto: Pierre-André Taguieff
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FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
Q
uel che è accaduto di recente, e che ha rappresentato un
nuovo naufragio del dibattito democratico, non ha, a ben
guardare, nulla di inedito e va purtroppo considerato
all’interno di una grande crisi che negli ultimi anni ha
investito non solo il rapporto del mondo con Israele, ma anche il
rapporto degli ebrei con se stessi e con gli altri. Dietro e oltre la
difficoltà di affrontare il tema di Israele c’è la grande questione
dell’identità ebraica. E forse sarà nel futuro indispensabile affrontare questi due temi unitamente, nel loro legame, moltiplicando le
iniziative.
Certo non è tollerabile l’alternativa tra la rissa e il silenzio. L’insegnamento che si deve trarre è che oggi è urgente e indispensabile
trovare i modi per un confronto aperto e democratico che, partendo
dall’interno del mondo ebraico, possa estendersi all’esterno.
Gli ebrei italiani, non diversamente dagli ebrei europei, sono stati
sottoposti in tutti questi ultimi anni al fuoco di fila di una informazione unilaterale e monocorde che ha assecondato una negazione
di Israele e della sua dignità storica, prima ancora che politica, sulla
scena internazionale. Di qui l’imbarazzo della dirigenza ebraica,
spesso costretta a cercare un difficile modus vivendi. Di qui il
malessere di molti ebrei italiani rassegnati all’impossibilità di essere ascoltati e capiti. Come se, insomma, di tutto si possa parlare,
fuorché di Israele.
Sono al contrario convinta che il prius sia proprio Israele. E sono
altresì convinta che sia possibile e, anzi, doveroso riflettere insieme, in modo pacato e sereno sullo Stato di Israele e sul suo ruolo
per l’ebraismo italiano della diaspora.
Ma certo non si tratta solo di forme. E il grande problema sono
proprio i contenuti. Più che altrove, forse, il dibattito in Italia è stato
soffocato fra due posizioni entrambe povere di contenuti. A una
destra quasi sempre pronta a una levata di scudi si è opposta una
sinistra disgregata e assente, legata ai vecchi schemi degli anni
Settanta, incline a mettere pedissequamente l’accento sull’esemplarità democratica dello Stato di Israele.
Che grande delusione per l’ebraismo italiano che nella sinistra –
non certo nella destra – avrebbe dovuto trovare il suo interlocutore
privilegiato!
Questa sinistra negli ultimi anni ha parlato solo dei confini del ’67,
come se il problema fosse unicamente geopolitico. Avrebbe dovuto
invece farsi carico di una riflessione ben più profonda, introducendo nel dibattito italiano i contenuti culturali, politici, filosofici, che
animano la discussione nel resto del mondo. Avrebbe dovuto interpretare il malessere avvertito da molti ebrei italiani, stretti fra le
accuse rivolte a Israele e un grande disorientamento anche su temi
decisivi. E infine avrebbe dovuto essere voce critica all’interno della
sinistra stessa aprendo un confronto ben più ampio e approfondito.
Finora non è stato purtroppo così.
Basti pensare alla grande questione del sionismo, molto dibattuta
ovunque. In Italia il sionismo viene semplicemente identificato con
il vecchio sionismo politico à la Herzl. Si vede perciò nello Stato di
Israele il risultato di una sorta di epopea risorgimentale, come quella italiana. E ovviamente si resta interdetti dinanzi all’antisionismo
dilagante di cui non si riesce a dar conto. Poco si sa dei saggi di
Hannah Arendt e di Emmanuel Lévinas, del sionismo culturale e
della grande discussione che, a partire da qui, si è aperta negli
ultimi due decenni. Non si capisce che non si tratta di erudizione
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Dieudonné e l’antisemitismo
alla francese
La Francia sta registrando il più impressionante
aumento di attacchi a persone e istituzioni
ebraiche, soprattutto da parte di nordafricani
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
A
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lla fine del dicembre scorso, il centravanti francese Nicolas Anelka ha celebrato un suo gol nella Premier League
inglese facendo uno strano gesto, una specie di saluto
romano al contrario conosciuto come quenelle. Il calciatore ha spiegato che era un gesto di supporto all’amico Dieudonné.
Ed è proprio Dieudonné M’bala M’bala, un famosissimo e controverso comico franco-camerunese, l’inventore della quenelle.
Questo gesto, che prende il nome da una polpetta di carne o pesce
di forma oblunga, è stato utilizzato per la prima volta nel 2009,
quando “Dieudò” si è presentato alle elezioni europee alla testa di
una “Liste Antisioniste”, e durante la conferenza stampa, tra accuse contro gli “schiavisti del sistema sionista che dominano Parigi”,
ha detto che il suo obiettivo era quello di “voler infilare una piccola
‘quenelle’ nel culo del sionismo”.
Dieudonnè ha sempre sostenuto che la quenelle non possiede una
valenza antisemitica ma si configura come mero simbolo di disobbedienza al potere, tuttavia in brevissimo tempo si è diffusa in
modo virale come un segnale identitario dei movimenti antisionisti
ed antisemiti, molte persone (tra cui famosissimi sportivi o l’anziano Le Pen), specie giovani, si fanno fotografare presso luoghi simbolo dell’ebraismo, o dove si sono consumati crimini di matrice
antisemita, facendo la quenelle.
Il comico franco-camerunese però non è nuovo alle gag antisemite,
infatti ha iniziato ad usare una comicità innervata di antisemitismo
plebeo a partire dal dicembre 2003, quando apparve in uno show
del canale televisivo “France 3” vestito da rabbino kamikaze e,
dopo aver lanciato delle invettive antiebraiche, salutò con l’urlo
“IsraeHeil”, da quel giorno le sue provocazioni antisemite sono
state innumerevoli e progressivamente sempre più aspre, martellante l’equiparazione tra gli ebrei/sionisti ed i nazisti, e l’accusa agli
ebrei di essere i padroni del mondo.
Dieudonné , che si definisce “un islamico-cristiano”, è molto legato
agli ambienti estremisti sia di sinistra che di destra, ed all’islamismo radicale, è spesso ospite della televisione iraniana, o di Al-Manar la tv degli Hezbollah libanesi, ed è proprio nel corso di una
lunga intervista rilasciata nel settembre 2011 alla televisione ufficiale degli ayatollah Sahar TV che ha esposto i temi fondamentali
della sua visione del mondo antisemita. Ha dichiarato infatti che “Il
sionismo ha ucciso Cristo. E’ il sionismo che afferma che Gesù è il
figlio di una prostituta… i media e la maggior parte delle istituzioni
francesi sono controllate dai sionisti, e Parigi è la capitale del sionismo… il sionismo è l’arte della menzogna e nutre un odio profondo
verso l’umanità, ed in qualunque posto arrivi cancella i valori morali del paese”. Il comico ritiene che ci si debba affidare all’ “islam
moderno promosso dall’imam Khomeyni”, ed auspica la nascita di
un’alleanza islamico-cristiana volta alla distruzione del sionismo.
La comicità antisemita di Dieudonnè fa anche ampio uso delle
tematiche negazioniste, addirittura il 26 dicembre 2008 ha invitato
sul palco di un suo spettacolo al teatro Zenith di Parigi Robert Faurisson, il più famoso polemista negazionista, ed ha improvvisato
con lui e con l’accompagnamento di un finto deportato con la stella
gialla sul petto, uno sketch negazionista che è stato accolto da un
fiume di applausi. Nel 2012 ha poi girato con il sostegno economico
dell’Iran degli ayatollah il film comico negazionista ed antisemita
“AntiSemite”, e recentemente ha composto la canzone Shoahnanas, sgangherata marcetta negazionista che è diventata l’inno dei
numerosi fan di Dieudò, e che il comico canta scuotendo il sedere e
facendosi accompagnare dal solito finto deportato.
La comicità antisemita di Dieudonnè ha raggiunto l’acme con il suo
ultimo spettacolo Le Mur titolo che, ha spiegato il comico, si ispira
al “muro del pianto, dietro il quale si nascondono i media, le banche, lo showbiz e la mer…“ e sul quale lui “pisc..”.
Lo show era talmente intriso di antisemitismo che il Ministro degli
Interni Manuel Valls lo ha fatto vietare. Malgrado l’annullamento
però, gli spettacoli di Dieudò continuano ad avere milioni di spettatori grazie alla piattaforma web di YouTube, sulla quale è una delle
principali star.
Le provocazioni antisemite del comico continuano a cadere su un
paese che, a partire dal 2000, continua a registrare il maggior
numero di episodi di antisemitismo nel mondo e dove l’antisemitismo si configura come una sempre più grave emergenza sociale.
Secondo l’ultimo rapporto ufficiale diffuso sull’antisemitismo in
Francia, a cura del Service de Protection de la Communauté Juive
- SPCJ e del Ministero degli Interni, nel 2012 gli episodi di antisemitismo sono aumentati del 58% rispetto all’anno precedente, e le
aggressioni fisiche e verbali si sono accresciute dell’84% (315 nel
2012 contro 171 nel 2011). Un quarto delle aggressioni fisiche sono
state compiute con un’arma, e la grande maggioranza degli aggressori sono stati identificati come nord-africani. In alcune città e
quartieri le violenze antisemite sono ormai diventate croniche. Il
55% delle violenze razziste avvenute in Francia sono di stampo
antisemitico.
Da quando, a partire dal 2002, il Ministero degli Interni e Service de
Protection de la Communauté Juive - SPCJ hanno cominciato ha
raccogliere dati sull’antisemitismo in Francia sono stati registrati
questi numeri: 936 episodi di antisemitismo nel 2002, 601 nel 2003,
974 nel 2004, 508 nel 2005, 541 nel 2006, 402 nel 2007, 474 nel 2008,
832 nel 2009, 466 nel 2010, 389 nel 2011 e 614 nel 2012. In totale
6737, tra azioni violente e minacce.
Dopo l’attentato di Tolosa del 19 marzo 2012, quando il terrorista
salafita Mohamed Merah ha ucciso a pistolettate tre bambine ebree
ed un rabbino, ci sono stati 90 episodi di antisemitismo in 10 giorni,
e dopo lo smantellamento di una cellula jihadista il 6 ottobre 2012
in seguito all’attentato dinamitardo di Sarcelles ai danni di un
supermarket kasher, 28 episodi in 8 giorni.
Dalla seconda Intifada (2000) la Francia è diventato il paese in cui
l’antisemitismo ha mostrato il suo volto più feroce (persone torturate ed uccise, sinagoghe incendiate, pestaggi ed intimidazioni),
secondo gli esperti la data di inizio delle violenze antisemitiche in
Francia viene fatta coincidere con il 10 ottobre 2000 quando le sinagoghe di Les Ulis e Trappes, entrambe a sud di Parigi, furono date
alle fiamme, da quel momento gli episodi di violenza sono diventati migliaia. Secondo lo studioso Georges Bensoussan a causa del
clima antisemitico sempre più diffuso anche nelle scuole, si è verificato un autentico esodo degli ebrei dagli istituti pubblici a quelli
privati, non necessariamente ebraici. In certe scuole la presenza di
ragazzi ebrei è diventata rarissima, e la loro identità viene occultata
in una sorta di nuova dhimmitudine.
La Francia è il paese che nel XIX secolo ha ‘inventato’ l’ideologia
antisemita, alla fine della Seconda guerra mondiale il negazionismo, e durante la seconda Intifada del 2000 ha generato la Nouvelle Judeophobie, un antisemitismo molto aggressivo e violento
nutrito dagli stereotipi antisemiti dell’islamismo, ed oggi ha invece prodotto l’umorismo antisemita di Dieudonné che ha reso pop
prendersi gioco degli ebrei usando i più vieti stereotipi dell’antisemitismo.
Stefano Gatti
Lo scandalo non è
un comico antisemita,
ma il pubblico che ride
L
a vicenda del comico francese Dieudonné M’bala M’bala,
da un decennio specializzato in provocazioni antisemite,
fornisce l’occasione per diverse riflessioni. Il primo ordine
di riflessioni riguarda l’efficacia delle legislazioni volte a
punire il negazionismo, un tema di cui si è discusso molto in Italia.
A giudicare dagli esiti dell’intervento del ministro degli interni
francese Manuel Valls, che ha ordinato ai prefetti di interdire gli
spettacoli di Dieudonné, si potrebbe concludere che i divieti funzionano: dopo vari contorcimenti e proteste, il comico ha fatto
macchina indietro promettendo di moderare i suoi eccessi. Ma al
riguardo occorre fare tre considerazioni.
La prima è che l’apparato statale francese, nonostante tutto,
conserva un carattere fortemente centralistico sconosciuto in
altri paesi: l’intervento del giudice amministrativo di Nantes che
sospendeva l’esecuzione del decreto prefettizio è stato cassato
in poche ore dal Consiglio di Stato su richiesta del governo. Difficile pensare a qualcosa del genere in Italia. La seconda considerazione è un’obiezione, sollevata anche da noi: è molto difficile e avventuroso cercare di stabilire un confine oltre il quale non
è più ammessa la libertà di opinione. Non è meglio lasciare alle
iniziative legali l’azione di contrasto nei confronti di personaggi
come Dieudonnè? Infine, la terza obiezione riguarda l’efficacia
dei divieti: prima che il Consiglio di Stato sospendesse definitivamente lo spettacolo Le Mur – con il contorno del gesto
simil-nazista della “quenelle” e della canzone sulla Shoah-nanas
– si era formata una folla di quasi seimila persone che attendeva
di entrare nel teatro e che ha accolto con manifestazioni di protesta la sospensione. È sensato pensare che queste persone –
ben disposte nei confronti del comico – abbiano cambiato opinione, o non abbiano piuttosto rafforzato un sentimento di simpatia
nei confronti di una “vittima” della repressione della libertà di
espressione?
In fin dei conti, quel che dovrebbe interessare è curare ed estinguere i sentimenti antisemiti che hanno attecchito nell’animo di
un gran numero di cittadini e che delineano un clima gravemente
preoccupante. Nascondere alla vista la cancrena non risolve nulla.
I sentimenti razzisti non si guariscono con i decreti prefettizi.
Qui giungiamo al secondo ordine di riflessioni: la vicenda Dieudonné è una manifestazione plateale di cattiva coscienza e di
fuga dalle responsabilità che cercano di nascondersi. In fin dei
conti, davvero le provocazioni di Dieudonné rappresentano lo
scandalo più grande, la manifestazione estrema dell’antisemitismo, del negazionismo, di intolleranza nei confronti degli ebrei
francesi? Come si diceva, Dieudonné provoca da anni e nessuno
ha mai fatto nulla. Sono più gravi le sue provocazioni o il fatto
che vi siano interi quartieri delle città francesi dove una persona
non può recarsi con una kippà in testa o una stella di David al
collo senza rischiare per la propria incolumità personale, che vi
siano scuole che un ebreo non può frequentare? Abbiamo
dimenticato il rapimento, la tortura e l’omicidio del giovane Ilan
Halimi?
Più in generale, si tratta di un clima in cui la libertà di opinione è
da tempo compromessa. Ricordiamo che, nel 2006, il professore
francese Robert Redeker, per aver scritto un articolo sul Figaro
che condannava le violente reazioni islamiste nei confronti del
discorso di Ratisbona del papa Benedetto XVI e in cui ammoniva
contro il rischio che fosse dispersa una delle più preziose conquiste dell’occidente, la libertà di pensare e di esprimersi, fu colpito
da una condanna a morte e da quel momento vive in anonimato,
sotto la protezione della polizia: uno scandalo inaudito su cui è
caduto il silenzio proprio perché indica a qual punto sia stata colpita la libertà di pensiero e di espressione. Per anni le critiche al
fondamentalismo islamista sono state accusate di essere eccessive e di minare la possibilità di una convivenza pacifica intercomunitaria; come se la pretesa di sottoporre zone intere di città al
regime della sharia o di praticare la poligamia e altre regole contrarie alle leggi in vigore in tutta Europa, non fossero un attentato
a tale convivenza. Per anni Dieudonné è stato tollerato, anche con
una punta di compiacenza, fino a che se la prendeva con Israele e
con il sionismo e non si spingeva troppo in là nell’attacco esplicito
agli ebrei, con l’alibi – coltivato dalla stampa e da numerosi intellettuali “progressisti” (si fa per dire) – secondo cui l’antisionismo
non è antisemitismo, anzi è una legittima critica dello stato d’Israele. Purtroppo, aveva ragione Martin Luther King (un vero progressista inascoltato) quando ammoniva che l’antisionismo è soltanto antisemitismo malamente mascherato. L’esercizio di chiedersi se oggi vi sia più antisemitismo a destra o a sinistra, e quale
sia più pericoloso, è fuorviante e ipocrita: l’antisemitismo è uno
soltanto anche se dispone di un inesauribile “guardaroba ” (per
dirla con André Neher).
Quando Dieudonné ha fatto un passo più in là e ha mostrato come
nella sua mente fossero perfettamente saldati un antisionismo
che numerosi ambienti avevano tollerato o legittimato come “di
sinistra”, e l’arsenale antisemita classico dalla destra di Le Pen, lo
scandalo è emerso e nessuna cosmesi sofistica ha potuto nascondere l’oscenità insopportabile della coesistenza tra neonazismo e
antisionismo. Il problema è che quella coesistenza è stata coltivata da decenni di scelte vili e irresponsabili. Vi sono certamente
state anche buone intenzioni nella scelta di chiudere la bocca al
comico, ma fino a che non emergeranno comportamenti e atti volti
a curare le cause del male e a ripristinare una condizione in cui si
possa pensare e vivere liberamente, il sospetto di una cattiva
coscienza e di un doppio standard resterà in piedi.
Giorgio Israel
In alto: Dieudonné M’bala M’bala con Jean-Marie Le Pen
In basso: brinda con Robert Faurisson
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
Cosa ci insegna la vicenda di Dieudonné M’bala
M’bala: in Francia non c’è più differenza
tra antisionismo e antisemitismo
19
MONDO
Israele e i Paesi latino-americani,
un rapporto di fiducia da ricostruire
Per troppo tempo le relazioni sono state influenzate dall’antisionismo di Ugo Chavez
e dalla sua amicizia con il Presidente iraniano Ahmadinejad
D
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
urante la Guerra Fredda, i Paesi latino americani, tradizionalmente vicini alle posizioni statunitensi, si sono
costantemente schierati con Israele. Ciò si è tradotto
in posizioni solidali nei
confronti dello Stato ebraico alle
Nazioni Unite e in importanti rapporti economici e militari. Le relazioni
tra Israele e i Paesi sudamericani
sono però mutate negli ultimi decenni. L’aspetto più inquietante può
individuarsi nell’amicizia tra Chavez
e Ahmadinejad, Presidenti fino al
2013 del Venezuela (dal 1999) e
dell’Iran (dal 2005): la loro affinità
ideologica e strategica nel corso
degli anni 2000 ha prodotto un
aumento delle relazioni economiche
tra i due Stati, come testimoniato
dagli oltre duecento accordi bilaterali, che talvolta hanno costituito una copertura per transazioni finanziarie volte ad eludere
le sanzioni internazionali.
La figura di Chavez, Presidente fino alla morte nel marzo 2013, è
stata al centro delle dinamiche sudamericane, visto il suo carattere antiamericano e il suo ruolo di leadership cercato nel continente: egli ha promosso il “socialismo del XXI secolo” ed è stato
un feroce critico della politica statunitense e della globalizzazione, tracciando una linea che è stata sposata in alcune fasi da
Paesi come il Nicaragua, la Bolivia, l’Ecuador.
Il discorso relativo all’intero continente è però estremamente
variegato. Recentemente, la maggior parte di questi Paesi ha
assunto atteggiamenti severi nei confronti di Israele, come dimostrato dal voto all’Assemblea Generale dell’Onu il 29 novembre
2012 in favore dell’ammissione della Palestina con lo status di
Stato Osservatore non Membro, in cui i soli Paraguay, Guatema-
20
la e Colombia si sono astenuti. Non si è trattato di una sorpresa:
Brasile e Argentina, potenze regionali con ambizioni globali,
hanno manifestato apertamente negli ultimi anni la loro tendenza filo palestinese, condannando l’operazione Piombo Fuso del 2009 e
riconoscendo già nel dicembre 2010
lo Stato di Palestina lungo i confini
segnati prima della Guerra dei Sei
Giorni del 1967.
Restano di primo piano i rapporti commerciali, come dimostra la firma il 18
dicembre 2010 dell’accordo di libero
scambio tra Israele e il Mercosur, che
si è aggiunto ai già numerosi trattati
bilaterali e ha bissato un analogo
accordo del 2005. Con questa nuova
Convenzione, Israele ha inteso perseguire il fine di promuovere un miglioramento delle infrastrutture nei commerci con i Paesi sudamericani.
Anche la diplomazia sta lavorando alacremente per mantenere
saldi i rapporti i con i singoli Paesi: nel corso dell’ultimo anno si
sono svolti incontri ufficiali con le autorità di numerosi Stati latinoamericani, Colombia su tutti, ma anche, per esempio, Messico
e Guatemala. Non è poi da sottovalutare il turismo nell’America
Centrale e Meridionale di numerosi israeliani, specialmente di
quei giovani che prendono una pausa dopo aver concluso il servizio militare, e la presenza di solide comunità ebraiche in molti
di questi Paesi.
Il quadro dei rapporti di Israele con il Sudamerica si presenta
dunque come notevolmente eterogeneo, mutando a seconda dei
diversi Paesi e dei vari ambiti che si analizzano.
D.T.
In alto: firma dell’accordo commerciale tra Israele e Argentina
50 anni fa il primo
viaggio di un Papa
nello Stato Ebraico
Ma Paolo VI non pronunciò
mai la parola “Israele”
C
inquant'anni fa, il 4 gennaio, un
Papa volava verso la Terra di Israele
compiendo, all'inverso, il viaggio
fatto dal suo predecessore, Pietro.
“Porteremo sul Santo Sepolcro e nella grotta
della Natività i desideri di coloro che piangono, che hanno fame e sete di giustizia”: queste le parole che Paolo VI pronunciò prima di
salire sulla scaletta dell'aereo che lo porterà,
prima volta per un pontefice, nella Terra della
Bibbia.
Giovanni Battista Montini era stato eletto
Papa da appena sei mesi quando cominciò
questo pellegrinaggio. Breve, appena tre giorni, dal 4 al 6 gennaio del 1964, ma storico. Un viaggio soprattutto
di preghiera nel quale toccò due Paesi, Israele e Giordania e quattro città: Gerusalemme, Amman, Betlemme e Nazareth. Un pellegrinaggio epocale per il quale si mobilitarono
in massa giornalisti e operatori tv, con un
dispiegamento di forze notevole per i tempi.
Alle sette e un quarto del 4 gennaio, a bordo
di una Mercedes scoperta, il pontefice esce
dal Vaticano. All’aeroporto di Fiumicino lo
attende un Dc8 dell’Alitalia, che per l’occasione ha la coda dipinta con i colori della bandiera pontificia. Ci sono il presidente della
Repubblica Antonio Segni e il nuovo presidente del Consiglio, Aldo Moro.
Ad accoglierlo all'aeroporto di Amman è il
giovane re Hussein. Di lì una maratona, dalle
rive del Giordano, dove si ricorda il battesimo
di Gesù, a Nazareth, da Cafarnao al Lago di
Tiberiade, dalla Basilica della Natività a Betlemme fino al Santo Sepolcro a Gerusalemme,
percorrendo la “Via Dolorosa” stretto nell'abbraccio di una folla che però, riguardando le
immagini dell'epoca, non sembra spaventarlo.
A Megiddo, luogo dalla forte carica simbolica,
incontra il presidente israeliano Zalman Shazar e il rabbino capo Nissim. Il papa saluta
ripetendo la parola «shalom», pace, mentre
passa in rassegna il picchetto d’onore e arriva
sul palco imbandierato di vessilli con la stella
di David. Il presidente dice: «Con profondo
rispetto e nella piena coscienza della portata
storica di un evento senza precedenti nelle
generazioni passate, a nome mio e dello Stato d’Israele accolgo il
Sommo Pontefice...». Paolo VI, che nel suo discorso non pronuncia
mai le parole «Stato di Israele», risponde: «Volentieri ricordiamo i
figli del “Popolo dell’Alleanza” il cui compito
nella storia religiosa dell’umanità non possiamo dimenticare».
Ma l'evento che lascia il segno del viaggio è
l'abbraccio tra il Papa e il Patriarca Ecumenico
di Costantinopoli, Athenagoras. È il primo
incontro tra un pontefice romano e un patriarca d'Oriente, a novecento anni dalla reciproca
scomunica tra le due chiese. L'evento segnò la
ripresa del dialogo tra le due grandi comunità
cristiane.
Dall’alto: Paolo VI visita il Santo Sepolcro,
con il Presidente israeliano Zalman Shazar
e con il Patriarca Ecumenico
di Costantinopoli Athenagoras
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ISRAELE
Sostenere Israele
in modo nuovo
e originale
Lo propone l’Associazione Technion
Italia, presieduta da Piero Abbina
che spiega: “Puntiamo a formare
culturalmente e professionalmente
i giovani ebrei della diaspora”
O
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
ggi sostenere Israele è diventato un processo sempre
più complesso rispetto al passato. Il contributo della
diaspora, infatti, è necessario che diventi di tipo
politico e culturale: bisogna far comprendere la realtà
dello Stato ebraico e le opportunità che è in grado di creare. A
spiegarlo a Shalom in un’intervista è Piero Abbina, Presidente del
Technion Italia, associazione di sostegno all’istituto universitario
di Haifa. Fondato dieci anni fa, il Technion Italia si propone di
raccogliere fondi come molti altri enti ebraici, ma ha soprattutto lo
scopo di creare rapporti tra il Technion, il più grosso politecnico di
Israele e tra i primi 50 al mondo, e le università italiane,
coinvolgendo queste ultime ad ogni livello. In questo modo si
realizza un sostegno ad Israele in una forma non tradizionale e
che va incontro alle sfide poste dall’attualità.
Recentemente sono state intraprese varie iniziative importanti e
numerosi sono anche i progetti per il futuro immediato. Un
esempio significativo è quello dell’Israel University Day, in cui
esponenti delle università israeliane vengono in Italia a presentare
i loro corsi per i giovani che vogliono andare a studiare in Israele.
I risvolti positivi di questa iniziativa sono molteplici: agli studenti
ebrei si offre l’opportunità di conservare e rafforzare la propria
identità ebraica in una fase delicata quale quella successiva al
liceo; anche il coinvolgimento degli studenti non ebrei è rilevante,
in quanto possono avere un contatto diretto con Israele, di cui
potranno diventare “ambasciatori” nel mondo portando la
testimonianza diretta di una realtà spesso travisata. In ogni caso,
si offre un percorso di formazione di altissimo livello allo studente,
il quale resta coinvolto anche in progetti lavorativi nella fase
successiva alla laurea. Lo scambio di studenti è incentivato anche
da dodici borse di studio offerte ogni anno a ragazzi italiani per i
corsi di ingegneria del Technion.
22
Nell’ultimo anno sono state organizzate due importanti missioni
in Israele: una dell’Università di Roma Tre ed un’altra che ha visto
coinvolte cinque università, La Sapienza, il Campus biomedico,
Perugia, Salerno e Messina. Sono stati coinvolti professori,
studenti e imprenditori: ogni diversa categoria ha potuto vedere
da vicino la “start-up nation”, vivere il cuore pulsante
dell’innovazione. Gli studenti, in particolare, hanno potuto
incontrare loro coetanei, assistere a delle lezioni (naturalmente in
inglese), oltre ad avere con Israele un contatto scevro dai
pregiudizi spesso veicolati dai media. Queste iniziative hanno
avuto anche l’importante funzione di favorire il confronto tra
diversi professori, utile in vista della promozione di progetti
congiunti tra Israele e Italia.
Con l’incontro tra Netanyahu e Letta del dicembre 2013, si è
aggiunto un ulteriore tassello al già ricco quadro di accordi tra il
Technion e le più prestigiose università italiane: grazie alla firma
di un memorandum di intesa di carattere ospedaliero tra la facoltà
di medicina del Technion, Rambam, e l’ospedale Mauriziano di
Torino, si è avviato lo scambio di medici, studenti e professori tra
le due facoltà.
L’insieme di queste attività è, secondo Abbina, il modo giusto per
affrontare la realtà odierna e per aiutare Israele: si favoriscono gli
investimenti sulle start-up israeliane e l’afflusso di cervelli nello
Stato ebraico, si fa capire al mondo cos’è Israele e le opportunità
che produce. Si realizza così un supporto politico a 360 gradi, con
anche l’obiettivo di sconfiggere il boicottaggio arabo, che si sta
estendendo a nuovi campi, basti pensare ai divieti talvolta posti
dalle università britanniche ai professori israeliani. Con questo
lavoro, Abbina auspica un’ulteriore crescita per Israele e un freno
alla recrudescenza dell’antisemitismo in Europa.
Daniele Toscano
Alla scoperta dei luoghi di Israele
Raanana, la città più verde
N
CENTRO EBRAICO ITALIANO IL PITIGLIANI
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Amdocs. Infatti, il reddito medio è ben più alto della media israeliana (11,235 NIS contro i 7,522 nazionali).
Come in tutta Israele, anche qui in terza elementare iniziano
programmi educativi mirati per bambini particolarmente dotati,
ma Raanana offre una possibilità in più: un programma destinato in modo particolare alle ragazze per incentivarle a studiare
materie tecnologiche, e un ulteriore programma, unico nel suo
genere in tutta Israele, per lo
sviluppo di leadership tecnologica mirato alla gestione delle
informazioni.
Fiore all’occhiello della città è la
sua Orchestra Sinfonica, nata
nel 1991 inizialmente con lo
scopo di aiutare i nuovi immigrati ad ambientarsi e a ritrovare professioni e hobby lasciati
oltremare. Per molti anni l’orchestra ha ospitato solisti e
musicisti noti in tutto il mondo
quali Maxim Shostakovich, Dan
Ettinger e Constantine Orbelian, Ray Charles e Stevie Wonder. Oltre a un repertorio di musica classica l’orchestra ha sempre cercato di presentare lavori musicali con lo scopo di fondere
il passato musicale ebraico con le arie più moderne. Durante gli
oltre 20 anni della sua esistenza l’orchestra si è esibita in una
cinquantina di lavori originali alcuni dei quali anche composti da
musicisti morti durante la Shoà. Nel 2007 per esempio è stata
rappresentata la tragica storia di Alma Rose, che ha diretto l’Orchestra delle donne di Auschwitz, e nello stesso anno l’orchestra
ha vinto il prestigioso Engel Prize per il suo contributo alla promozione di musica ebraica di tutte le generazioni. Chissà se si è
mai esibita a Verona, sua città gemellata?
Paola Abbina
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CON ANIMAZIONE, CENA
SFILATA DELLE MASCHERE
E SORPRESA FINALE!
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SABATO 15 MARZO 2014
14 ADAR 5774 • ORE 20,30
ORE 19,30 • SPECIALE LETTURA DELLA MEGHILLÀ
DALLE DONNE PER LE DONNE A CURA DI SIRA FATUCCI
• LETTURA TRADIZIONALE A CURA DI DAVID LIMENTANI
A SEGUIRE CENA ORIENTALE SOTTO LA NOSTRA TENDA:
TÈ DELLA PACE, ARAK E …ad lo yada!
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
el 2005 è stata designata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità “città verde” con l’assegnazione del
premio Green City: Raanana ospita infatti il più grosso parco urbano della zona, con piste ciclabili, campi
sportivi, zoo, un piccolo laghetto circondato da giardini tra cui il
Giardino delle Sette Specie. Situata tra Kfar Saba ed Herzelia
oggi Raanana ospita circa 73.000 abitanti tra nativi locali, vecchi
e nuovi immigrati, sia americani sia europei. Ma la città ha una
storia antica: nel 1912 la Sochnut fondò il gruppo “Ahuza-New
York” che acquistò terreni per farne insediamenti agricoli. La
Prima Guerra Mondiale fece naufragare il progetto ma nell’aprile
del 1922 due carretti con sopra 4 membri Ahuza, 3 braccianti e
due guardiani armati lasciarono Tel Aviv per approdare dopo
poche ore nella attuale Raanana.
Gli abitanti arabi della zona
hanno chiamato il nuovo insediamento appunto Ahuza - New
York dato che la maggior parte
dei suoi abitanti era di madrelingua inglese e veniva da New
York. Solo più tardi prese il nome
ufficiale di Raanana (lett., fresca) e nel 1948 costituiva un villaggio di già 3.000 residenti.
Negli anni ’60 arrivò a contare
circa 10.000 persone e si estendeva su un’area di circa 15 km
quadrati e negli anni ’80 fu
dichiarata città a tutti gli effetti,
con cittadini spagnoli, americani
francesi e ovviamente italiani.
Sebbene la maggioranza della popolazione sia laica, Raanana
ospita anche una buona comunità di ebrei Modern Ortodox consentendo una buona integrazione fra religiosi e laici nella vita
sociale, culturale e commerciale in genere. Ci sono oltre 100
sinagoghe che vanno dal più piccolo e familiare minian a più
grandi sinagoghe di quartiere con una vasta gamma di tradizioni, dalla yemenita alla libica, afghana e ovviamente sefardita e
askenazita.
Anche la vita economica e commerciale è molto florida visto che
Raanana è sede di una importante zona industriale, con l’immancabile centro commerciale, ma soprattutto con molte imprese ad
alta tecnologia quali Hewlett-Packard, o Microsoft o ancora
23
CINEMA
Il mondo capovolto di Terezin
Il film documentario ‘Wolf’ ha per protagonista il racconto del figlio
del rabbino Murmelstein che fu accusato di aver collaborato con i nazisti
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
H
24
o conosciuto Wolf Murmelstein
molti anni fa. C’eravamo incontrati più volte nei dibattiti. Un
giorno mi telefonò dicendomi
che avrebbe voluto incontrarmi di persona.
Ricevendolo nel mio studio, ha avuto bisogno di precisare che non era lì per un’analisi personale. Voleva confrontarsi con qualcuno che avesse cognizione della tragedia
della Shoah. Confrontarsi su temi storici e
parlare di memoria. Ricordo di avergli detto
che sarebbe stato difficile separare in modo
così netto la memoria storica dagli affetti e
dai ricordi personali. Tanto più per chi come
lui aveva attraversato di persona quelle
temperie storiche.
Wolf Murmelstein era stato a Terezin,
nell’anticamera dell’inferno dove furono
deportati circa 140.000 persone di cui circa
33 mila morirono per le pessime condizioni
di vita, 88.000 furono deportati nei campi di
sterminio. “Un ghetto campo” utilizzato dai
nazisti come specchio per le allodole per un
mondo che di fronte alla tragedia dello sterminio aveva voltato le spalle e chiuso gli
occhi per non vedere. Potevamo parlare di
storia, ma lui era parte di quella storia. Ne
portava i segni e le lacerazioni più profonde. Suo padre era stato il “decano” del
campo, l’unico a essere sopravvissuto. Era
stato incarcerato e processato per “collaborazionismo”. Assolto dall’accusa, fu circondato per il resto della sua esistenza dal
sospetto. La macchia rimase e quando
chiese di poter testimoniare al Processo
Eichmann, non fu ascoltato. Nella preparazione del film ‘Shoah’, Lanzmann lo incontrò a Roma e lo intervistò per ore, ma non
seppe poi come utilizzare tutto quel materiale. A quell’epoca erano disponibili due
importanti libri di L. Trunk e di A. Weiss, in
cui si metteva fortemente in discussione la
lettura deformante e limitativa con cui nei
due decenni precedenti era analizzata l’azione dei Consigli ebraici. Il concetto di
“zona grigia” coniato da Levi, non era ancora disponibile.
Anche senza la conoscenza della poderosa
messe di studi che in seguito si sono succeduti, non era difficile capire che anche nelle
situazioni più discutibili, l’azione dei consigli non aveva nulla a che vedere col collaborazionismo. Le loro azioni erano risposte, tra
l’altro diverse, in condizioni estreme di
gente imprigionata e destinata a morire
come gli altri. La valutazione delle loro azioni e delle loro scelte, non poteva prescindere dalle intenzioni e dal contesto in cui
operavano, dalle informazioni di cui disponevano, della alternative di cui disponevano
e dall’isolamento totale in cui operavano.
Nell’Europa occupata il numero dei consigli
ammontava almeno a mille. Ciascun consiglio operò in una situazione specifica. I
comportamenti furono vari: chi operò per
creare dei nuclei di resistenza e cercò di
alleggerire lo spaventoso fardello di oppressione; chi si sacrificò con la famiglia per
evitare di fare del male ad altri perseguitati,
chi cercò di salvare il salvabile in una spirale mortale di persecuzioni subite, e azioni
ingiuste commesse verso chi stava più in
basso nella gerarchia dei sommersi. Parlare
di collaborazionismo in queste situazioni
estreme è un insulto all’intelligenza. Basta
pensare che se i sovietici non avessero
scelto di ritardare la loro avanzata tra il ’44
e il ’45, Haim Rumkovski, che Primo Levi
assume come emblema della zona grigia,
sarebbe potuto passare alla storia come
colui che, in mezzo a situazioni impossibili,
aveva reso possibile con la sua azione il
salvataggio di decine di migliaia di persone. Il ghetto di Lodz doveva essere “liquidato” tra i primi. Con una strategia atroce e
disperata, che aveva trasformato la popolazione produttiva del ghetto in forza di lavoro schiava dei nazisti, Rumkowski era riu-
scito a farlo tenere in vita per tre anni.
I collaborazionisti scelgono di vendersi al
nemico per avere in cambio dei vantaggi
duraturi. Sono traditori e partecipano all’ideologia dei loro oppressori. Qui siamo in
una situazione radicalmente diversa. I
membri dei consigli erano anche loro vittime che agivano in una situazione disperata, pensando di salvare il salvabile. Le vittime non erano tutte uguali e il “privilegio”
di alcuni non comportava che non fossero
anch’esse condannate a morire. Chi rifiutava gli ordini era ucciso sul posto con la
famiglia, sostituito da altri. Nella strategia
dei nazisti i consigli servivano a “razionalizzare” la pratica dello sterminio, a renderla “più facile”. Nella strategia cognitiva dei prigionieri il problema era come alleggerire il
fardello delle persecuzioni.
Ci fu chi stilò le liste di chi
sarebbe stato deportato
prima, chi invece partì perché altri fossero risparmiati; ci fu chi con la morte nel
cuore, riuscì a fuggire,
esponendo chi restava a
rappresaglie feroci. Vi fu
chi rimase sino all’ultimo
con i genitori e con i figli
per non far mancare loro
l’amore necessario per sopportare l’angoscia. Impossibilitati a reagire militarmente,
molti ebrei si difesero con le armi dello spirito, tenendo alta la speranza, combattendo
la depressione, assistendo i più deboli,
scrivendo la storia di quel che stava accadendo perché dopo la tempesta, parafrasando il profeta Isaia, le poche olive rimaste
sugli alberi, ricostruissero le loro esistenze.
Quando il capo del ghetto di Varsavia si
rese conto che i nazisti non avrebbero
risparmiato i bambini, si suicidò. In un altro
ghetto, il capo della resistenza ebraica si
consegnò ai nazisti per evitare rappresaglie
più grandi contro la popolazione del ghetto.
Quando il ghetto di Varsavia si ribellò, i
nazisti bruciarono il ghetto con la sua popolazione. I militanti della Resistenza avrebbero potuto salvarsi fuggendo in tempo per
le fognature. Rimasero a combattere sino
alla fine. Nessuno intervenne in loro aiuto.
La resistenza polacca non riteneva fosse
giunto il momento. Quando l’anno dopo la
città si sollevò, i sovietici che erano alle
porte non intervennero lasciando che i nazisti facessero per loro il compito sporco per
il dopoguerra. Degli ebrei non importava a
nessuno. I comandi alleati non presero mai
in considerazione l’idea di bombardare le
nale di Wolf Murmelstein. Sovena m’indicò
un regista, Claudio Giovannessi, col quale
lavorare al progetto. Ne parlammo con Wolf
Murmelstein e non fu facile convincerlo.
Alla fine però accettò.
Sapevo che Lanzmann lavorava al suo
nuovo film su Benjamin Murmelstein e che
non avrei potuto inserire materiali della sua
intervista al padre. Non volevamo fare un
film sul padre, ma sul figlio. Il problema per
noi era come parlare col figlio senza schiacciare la sua storia su quella del padre. Ma le
due storie erano come sovrapposte, l’una
chiamava l’altra, non solo sul piano del
dibattito storiografico e culturale, ma anche
su quello più interno dei vissuti personali.
Per via di circostanze storiche e culturali, e
non solo personali e famigliari, la vita del
padre, meglio la sua memoria, occupava
quella del figlio.
Una sfida difficile che abbiamo cercato di
affrontare con la delicatezza e il rispetto
dovuti.
David Meghnagi
Murmelstein:
l’ultimo degli ingiusti
raccontato in due film
D
ue documentari realizzati in
maniera separata dal regista
francese Claude Lanzmann (il
celebre autore di Shoah) e
dall’italiano Claudio Giovannesi (vincitore di vari premi con i suoi lavori precedenti Fratelli d’Italia e Alì ha gli occhi azzurri)
affrontano, seguendo due punti di vista
differenti, la controversa figura di Benjamin Murmelstein, il Rabbino a capo del
ghetto modello di Terezin nei dintorni di
Praga, progettato con diabolica cura dal
criminale nazista Adolf Eichmann al
punto da essere visitato
dalla Croce Rossa nel
1944 senza che gli emissari dell’organizzazione
si accorgessero dell’atroce realtà.
Ne L’ultimo degli ingiusti Lanzmann parte da
un’intervista realizzata a
Roma nel 1975 da lui
stesso a Murmelstein
circa un decennio prima
della scomparsa dell’uomo cui, è bene ricordarlo, fu negata sia la recitazione del kaddish che
la sepoltura nel cimitero
ebraico di Roma. In Wolf
di Claudio Giovannesi
prodotto da Istituto Luce
– Cinecittà in collaborazione con Vivo Film, si
esplora il difficilissimo
rapporto tra Benjamin e il figlio Wolf, il
bambino con cui nessuno ‘voleva giocare’ per colpa delle azioni e dei crimini del
genitore.
Due film molto diversi tra loro che partono
dalla figura di Murmelstein per dare vita a
due riflessioni e a due sguardi molto più
ampi. Da un lato Lanzmann affronta direttamente le responsabilità del rabbino e –
senza il beneficio del dubbio – lo riabilita,
mettendo in luce una serie di azioni nobili
e dimenticate e le vere motivazioni per cui
il suo collaborazionismo con Eichmann va
considerato un tentativo disperato di aiutare il prossimo. Dall’altro, Giovannesi si
concentra sulla figura del figlio Wolf grazie alla preziosa guida dell’ideatore del
progetto, David Meghnagi, psicoanalista
esperto nella cura dei sopravvissuti al
lager, storico e studioso dell’ebraismo.
Se il primo film è, come dice Lanzmann,
un’analisi della capacità dell'uomo di agire
secondo quel che ritiene il suo dovere, la
sua etica, al di là delle evidenti e insidiose
contraddizioni, il secondo, invece, è una
riflessione sulle colpe dei padri che ricadono sui figli e sull’impossibilità di compiere delle scelte seguendo la propria
etica in un momento storico in cui viene
negato il libero arbitrio. Mentre Lanzmann
si concentra sul padre che viene riabilitato
e difeso dal cineasta francese, Giovannesi
insiste su Wolf Murmelstein e il suo rapporto complesso con il presente, non
uscendo quasi mai di casa e raccontando
la sua anima e la sua personalità in virtù
del dialogo con Meghnagi, con alcuni
sopravvissuti, filmando l’incontro con il
rabbino Di Segni avvenuto per strada
visto il rifiuto di Wolf ad entrare nel Tempio di Roma.
Due lavori molto accurati e differenti, che
partono dalla figura di Murmelstein per
offrire conclusioni o, almeno, suggestioni
simili. Secondo Lanzmann, infatti, Benjamin Murmelstein ha accettato un ruolo
odioso e terribile nella consapevolezza
che solo così sarebbe riuscito a salvare
comunque migliaia delle persone. Pur
disponendo di un passaporto rilasciatogli
proprio dalla Croce Rossa, l’uomo è rimasto fino all’ultimo al suo posto, scontando
un anno di carcere in Cecoslovacchia e
venendo assolto dal tribunale locale. Una
serie di eventi che lo stesso decano di
Terezin, chiamato beffardamente il ‘Re
degli Ebrei’ per la sua conoscenza diretta
di Eichmann ha ricordato nel libro di
memorie Terezin, il ghetto modello di
Eichmann.
Claudio Giovannesi, invece, che proprio
da questo testo muove le fila del discorso,
si concentra per raccontare la figura
paterna, guarda alla figura di Wolf con
compassione e intelligenza, sublimando la
sua personalità all’emblema di un figlio
che desidera fortemente la riabilitazione
del padre, arrivando ad auto emarginarsi
e consacrando la propria esistenza alla
memoria del proprio padre e ai traumi
derivati dalla figura di un genitore per cui
un intellettuale come Gershom Sholem
aveva invocato l’impiccagione.
L’ultimo degli ingiusti titolo ispirato da
come lo stesso Benjamin Murmelstein si
definiva e Wolf costituiscono due momenti di riflessione importante sulla Shoah ed
entrambi i film guardano ai loro protagonisti come delle vittime: del proprio tempo
per il padre, delle scelte del genitore per
un figlio. Film da vedere con grande attenzione per comprenderne le posizioni intelligenti e scomode con cui non tutti, inevitabilmente, saranno d’accordo suscitando,
forse, solo quello ‘scandalo’ sempre benvenuto quando ad offrirlo al pubblico è un
cinema intelligente, onesto e consapevole
della propria complessità.
Marco Spagnoli
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
ferrovie che conducevano ai campi: nessun
appello alla resistenza per azioni di sabotaggio, nessuna minaccia di rappresaglia
contro le città tedesche se fosse continuato
lo sterminio degli ebrei, nessuna minaccia
personale a chi eseguiva gli ordini. Diversi
combattenti ebrei del ghetto di Varsavia
fuggiti attraverso le fognature per unirsi
alla resistenza polacca, furono assassinati
dai militanti dell’estrema destra polacca.
Altri che si salvarono dovettero spesso
tenere nascosta la loro vera identità agli
altri combattenti. La tragedia oltrepassa le
capacità d’immaginazione.
Passarono anni dopo il mio incontro con
Wolf Murmelstein. Poi un giorno, tre anni fa,
nel corso di un colloquio con Luciano Sovena, allora amministratore delegato di Cinecittà Luce, proposi di realizzare un documentario che raccontasse la vicenda perso-
25
LIBRI
Testastorta, il nuovo romanzo
di Nava Semel
Un racconto di fantasia per non dimenticare
le storie vere di aiuto e salvezza
I
l nuovo libro della scrittrice israeliana Nava Semel è dedicato
ai salvatori e al prezzo che spesso hanno dovuto pagare
coloro i quali hanno salvato delle vite durante la Shoah.
Testastorta si apre nella città natale dell'autrice, Tel Aviv.
Durante una notte in ospedale, un'infermiera legge un racconto a
un paziente in coma, cercando così di risvegliarlo. La storia
trasporta poi il lettore in un piccolo villaggio del Piemonte durante
l'occupazione nazista e segue le vicende di Tommaso, un trovatello
che viene adottato da Maddalena,
una giovane cantante lirica, e da sua
madre. La vita del ragazzo, che crede
di aver trovato una famiglia
amorevole, viene però stravolta dalla
presenza di una persona nascosta in
soffitta e dal pericolo che questo
segreto rappresenta per tutti gli
abitanti della casa.
L'idea del romanzo è nata otto anni fa
quando Semel ha visitato per caso un
piccolo borgo piemontese scoprendo,
tra quegli idilliaci scenari alpini, che
durante la guerra gli abitanti avevano
nascosto degli ebrei. Il resto della
storia è frutto della fantasia della
scrittrice e di meticolosi studi sull'ebraismo italiano e sulla vita, gli
usi e i costumi dei contadini piemontesi dell'epoca.
Semel, nata nel 1954, è figlia di sopravvissuti alla Shoah e nelle
sue opere tratta spesso i temi della memoria e del ruolo che ha la
cosiddetta seconda generazione nel ricostruire e perpetuare il
ricordo dei traumi vissuti dai propri genitori. Ha pubblicato
diciassette opere tra romanzi, libri di poesie e sceneggiature. I
suoi libri sono stati tradotti in dieci lingue, tra cui in italiano Il
cappello di vetro ed E il topo rise. Testastorta esce per la prima
volta in Europa nella traduzione in italiano di Sara Ferrari ed è
pubblicato dall'Editore Belforte di Livorno.
A. D.
edasitalia.com
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
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26
Prevew Spring-Summer ‘14
La Shoah raccontata
al cinema
e in televisione
Uno studio raccoglie e descrive l’enorme
filmografia italiana nata per raccontare cosa
è stato lo sterminio degli ebrei
È
lodevole lo studio affrontato dalla rivista di studi
Cinema e Storia su "La Shoah nel cinema italiano" a cura
di Andrea Minuz e Guido Vitellio, uscito di recente.
Suggerisce molteplici spunti sulle centinaia di
produzioni riguardanti il genocidio nazista viste dal grande
pubblico sullo schermo e in tv, che nell'ultimo ventennio hanno
vissuto una stagione feconda di sceneggiature e audience.
Offrendoci una risposta affermativa di come il cinema possa
influire sulla cultura e la Memoria.
Nella ricerca vengono passati in rassegna film e fiction sotto la
lente d'ingrandimento di esperti e addetti del settore. Sono
spiegate le dinamiche e le metafore che si celano dietro ai
personaggi di film cult e fiction, con forte penetrazione nella
cultura nazionale, come "Kapò", “L'oro di Roma", "Il giardino dei
Finzi Contini", "Jona che visse nella balena", "La vita è bella",
"Perlasca, un eroe italiano", "La Tregua", "Memoria", oltre a decine
di produzioni che, oltre a svolgere un ruolo didattico, hanno
conseguito un successo al di là di ogni previsione.
Come è premesso dagli opinion makers, il cinema internazionale
è ricorso al tema della Shoah come sfondo
storico sul quale inserire una narrazione,
come è avvenuto in gran parte dei casi,
oppure come spunto per una ricostruzione
storica o poetica dello sterminio nazista.
E' talmente vasto, comunque, il materiale
prodotto che oggi, secondo i cinefili, si
può parlare di un genere individuale
definito. Fa bene la ricerca degli autori ad
individuare come il cinema italiano abbia
intrapreso, con grosso ritardo rispetto ad
altri Paesi, una strada coronata di successi
per le sceneggiature e la libertà di
espressione sul tema. Questo ritardo era
dovuto, nel dopoguerra, alla forte
presssione della politica, che esercitava
un controllo dominante sulla cultura e
sulle arti, soprattutto da parte cattolica e
dalla sinistra. Si è trattato dello specchio di un Paese che ha
tardato a fare i conti con il passato, manifestando un lento
cammino verso quella espressione culturale artistica che richiede
libertà di azione, scevra da pregiudizi e fantasmi del passato, che
poi ha riscosso riconoscimenti internazionali importanti, quali
l'Oscar per i film di De Sica e Begnini che vertevano sul tema della
Shoah. Nel libro viene sottolineato che si è assistito a un punto di
svolta in campo internazionale, con effetti ritardati in Italia, con
quello che viene definito "uno spartiacque nella storia dell'influenza
popolare nella memoria dell'Olocausto" dopo la visione, nel 1979,
della produzione televisiva americana "Olocausto" che tenne
incollati i telespettatori davanti al teleschermo in molti Paesi.
Nelle pagine conclusive del testo, per integrare il tema della
comunicazione multimediale sullo sterminio degli ebrei, vengono
presentati capitoli interessanti sull'immagine della Shoah nella
stampa italiana; e viene presentato un elenco dettagliato
riepilogativo sulla filmografia italiana sulla Shoah dal dopoguerra
ad oggi, che farà contenti gli appassionati sull' argomento.
Jonatan Della Rocca
“Mosè ci ha portato nell'unico posto senza
petrolio!” è una raccolta di storielle ebraiche, selezionate da Angelo Pezzana e pubblicate dalla Bollati Boringhieri editore.
L'autore non è nuovo a questo tipo di scritture, basta citare “Si fa... Per ridere – lo
humor gay in 101 barzellette”, antologia di
barzellette in cui le risate sono assicurate.
“Mose ci ha portato nell'unico posto senza
petrolio!” è uscito da pochi mesi nelle librerie ed è già andato a ruba per l'umorismo
freudiano che percorre l'intera raccolta. Il
tema centrale è il witz ebraico che, secondo
Freud, “rappresenta anche il principio del
piacere, che sa affermarsi contro le avversità delle circostanze reali”. E' proprio questo
l'aspetto su cui ci si sofferma maggiormente: la persecuzione degli ebrei e l'odio verso
Israele.
Attraverso la lettura dei capitoli, si potrà
notare quella punta di umorismo su argomenti caldi come il conflitto israelo-palestinese, ma anche problematiche “leggere”
che possono verificarsi all'interno di ogni
famiglia ebraica ortodossa.
E' una lettura piacevole, fresca e leggera,
consigliabile ad ogni tipo di lettore, soprattutto a quelli che vanno sempre di fretta.
Grazie alle sue minute dimensioni e alla
brevità che caratterizza ogni storiella, è uno
di quei libri che si possono leggere ovunque,
dedicandogli anche 5 minuti al giorno.
Senza accorgervene, lo finirete in un batter
d'occhio e l'unica amarezza sarà quella di
averlo già concluso. Anche da libri di questo
genere si può imparare qualcosa, io, ad
esempio, ne ho tratto spunto per una piccola
riflessione: “ci sarà sempre qualcuno che
avrà da ridire sul sionimo e sull'ebraismo,
tanto vale prenderla a ridere.” Una raccolta
che consiglio a tutti voi, per farci due risate
in allegria. Buona lettura!
Miriam Spizzichino
Non temere e non sperare
Yehoshua Kenaz
La Giuntina, p. 765 € 19
Yehoshua Kenaz anche questa volta non tradisce i suoi lettori
nello stile asciutto e diretto, così come nella sua infinita
capacità di scrutare l’animo umano, di metterlo a nudo per
poterlo analizzare, per conoscerlo e potersi riconoscere in lui.
Una narrazione profonda, che non tralascia nulla, sguardi,
espressioni, accenti inusuali. All’indomani della fondazione
dello Stato di Israele, un gruppo di giovani con lievi problemi
fisici viene impiegato in un addestramento militare più leggero,
ma che non risparmia loro fatiche, umiliazioni, sollecitazioni di
ogni tipo. Questo li cambierà, tra contraddizioni e disillusioni,
sogni e paure di un cuore giovane, impegno e speranze riposte
per rendere reale un paese a partire dal suo popolo. Intenso e
vero.
Il popolo che disse no
Bo Lidegaard
Garzanti, p. 464 € 28
Nel periodo buio delle deportazioni brilla la luce di coloro i quali
hanno messo a repentaglio la propria vita per proteggere e
nascondere gli ebrei. Tra questi è doveroso ricordare il popolo
danese che, nonostante l’occupazione nazista, prestò aiuto ai
propri connazionali ebrei per evitare il rastrellamento. Su 7000
ebrei danesi, 6500 riuscirono a salvarsi raggiungendo la Svezia
grazie a navi o a qualsiasi altro mezzo improvvisato. L’esodo è
descritto minuziosamente per la prima volta da Bo Lidegaard,
storico e giornalista danese, che racconta le due settimane, dal
26 settembre al 9 ottobre 1943, in cui un intero popolo ha
compiuto il gesto più coraggioso e umano che ci sia: salvare i
propri fratelli. Per non dimenticare.
Il Requiem di Terezin
Josef Bor
Passigli Editori, p. 112 € 12,50
Josef Bor (1906 - 1979) noto giurista di nazionalità ceca e
sopravvissuto allo sterminio nazista, in quest’opera racconta
un commovente e significativo episodio accaduto nel lager di
Terezin, il campo di concentramento riservato agli artisti e agli
intellettuali europei, dove lui stesso fu internato nel 1942. Il
protagonista è Rafael Schachter, pianista e compositore, il
quale decide di eseguire il Requiem di Verdi nel lager: ai suoi
occhi quel posto di sofferenza umana si trasformava esattamente
nell’inferno dell’opera verdiana. Tra gli internati trovò dei
grandi musicisti che formarono i solisti, il coro e l’orchestra.
L’esecuzione ebbe luogo nel 1943 alla presenza di Himmler,
l’ideatore della soluzione finale. Pochi giorni dopo vennero tutti
deportati e Schachter morì ad Auschwitz. Toccante.
Il piccolo burattinaio di Varsavia
Eva Weaver
Mondadori, p. 274 € 17
C’è un limite all’immaginazione? Guardare oltre il quotidiano,
oltre se stessi, è un bene o un male? Vuol dire fuggire oppure
affrontare la realtà con uno spirito impavido? Eva Weaver ci
affida una vera e propria perla narrativa, nello stile e nel tocco
delicato di questo racconto. Protagonisti Mika, dodici anni, ed
un cappotto nero, eredità del nonno, che si rivelerà ben altro
che una semplice protezione contro il gelo. Dalle sue infinite
tasche si schiuderanno fantastici mondi di storie e avventure
animate attraverso un piccolo coloratissimo teatro di burattini
che Mika vi nasconde dentro. Ma quando la notizia del piccolo
burattinaio del ghetto che allieta gli animi giunge ai tedeschi,
egli stesso diventerà il protagonista di un’avventura, terrificante
e salvifica al tempo stesso. Un romanzo che emoziona.
A cura di Jacqueline Sermoneta
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
Pillole di ebraismo tra
umorismo e dintorni,
grazie al nuovo libro
di Angelo Pezzana
27
STORIA
O
Oscar Moisé Fano,
eroe della Grande Guerra
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
scar Moisé Fano
(Milano, 27 febbraio 1864 – 31
luglio 1940), di
Angelo e di Clementina
Anan, iniziò la carriera
presso il Collegio Militare
di Firenze il 1° ottobre 1877
e successivamente nella
Regia Accademia Militare
di Artiglieria e Genio di
Torino dal 30 settembre
1880. Nominato Sottotenente di Artiglieria il 19
luglio 1883 venne assegnato alla Scuola di Applicazione di Torino per il prosieguo degli studi. Promosso Tenente il 18
giugno 1885, nell’arco di quarant’anni
assumerà responsabilità crescenti, giungendo pluridecorato nel 1926 al grado di
Generale di Divisione.
Il 24 agosto 1903 sposa la signorina Anna
Coen Ara e partecipa alla Prima Guerra
Mondiale; in qualità di Comandante
dell’Artiglieria di un settore difensivo
sulla fronte degli Altipiani è decorato di
una Medaglia di Bronzo al Valore Militare
perché “Comandante di artiglieria di un
settore vivamente battuto dal nemico,
costantemente operando con ricognizioni
spinte fra le prime nostre linee, preparò
azioni di artiglieria, che con l’efficace e
tempestivo loro intervento contribuiranno
a respingere attacchi nemici”. Poi in qualità di Comandante dell’Artiglieria del 27°
Corpo d’Armata schierato a difesa del
Piave, è decorato della Croce di Cavaliere
28
dell’Ordine Militare di
Savoia con la seguente
motivazione: “Comandante di artiglieria di
un corpo d’armata, curò
con illuminato criterio e
con infaticabile zelo la
preparazione delle batterie e le impegnò poi
nella battaglia in modo
impeccabile, dando un
contributo decisivo alla
vittoria delle nostre
armi”.
Successivamente al conflitto assumerà il comando dell’Artiglieria del
Corpo d’Armata di Bologna e verrà collocato in congedo assoluto e discriminato il 1°
gennaio 1939, ai sensi degli articoli 5 e 16
del RD Legge 22 dicembre 1938, n. 2111, in
applicazione delle Leggi Razziali. Durante
la carriera fu anche decorato con la Croce al
Merito di Guerra, della Medaglia Commemorativa Nazionale della Guerra 1915 –
1918 con quattro anni di campagna (1915,
1916, 1917, 1918), della Medaglia Interalleata della Vittoria, della Medaglia a ricordo
dell’Unità d’Italia senza il motto "Unità d'Italia 1848 - 1918", della Medaglia Militare
d’Oro al merito di lungo comando di reparto, della Croce d’Oro sormontata da Corona
Reale per anzianità di servizio, della Croce
di Commendatore dell'Ordine della Corona
d'Italia e della Croce di Ufficiale dell'Ordine
dei SS. Maurizio e Lazzaro.
Col. Antonino Zarcone,
Capo Ufficio Storico dell’Esercito
Arnoldo Foà,
un ebreo laico
che fu la voce di Dio
Nella versione italiana
fu il doppiatore del colossal
‘La Bibbia’ di John Huston
A
rnoldo Foà amava definirsi
semplicemente un pensatore.
Ferrarese di famiglia ebraica,
si professava ateo e la sua
vera ‘fede’ fu la passione per il teatro
che si manifestò prestissimo e lo spinse
ad abbandonare gli studi di economia e
a trasferirsi a Roma dove frequentò il
Centro Sperimentale di Cinematografia.
Nel '38 però, a seguito della promulgazione delle Leggi razziali fasciste, Foà
dovette lasciare il Centro e fu costretto
a usare nomi fittizi per riuscire a lavorare. Il più celebre fu Puccio Gamma, con
il quale si trovò spesso a sostituire atto-
ri malati in prestigiose compagnie teatrali. Lavorò con attori del calibro di
Gino Cervi, Rina Morelli e Paolo Stoppa
fino a quando, nel 1943, si rifugiò a
Napoli e divennne capo annunciatore
della Radio Alleata. E fu lui - ebreo miracolasamente scampato alle deportazioni
- a dare via radio la comunicazione
dell'armistizio dell'8 settembre 1943.
Alla fine della guerra si unì a importanti
compagnie teatrali e iniziò una carriera
teatrale intensa e ricca di riconoscimenti, interpretando sia autori classici che
contemporanei, e lavorando con registi
celebri quali Luchino Visconti, Luigi
Squarzina, Luca Ronconi e Giorgio
Strehler. Il suo impegno si allargò anche
all’attività di regista, di attore televisivo
e cinematografico e, grazie ad un timbro
vocale particolare, Foà fu il doppiatore
di Anthony Quinn, Kirk Douglas, John
Wayne, Peter Ustinov, Toshiro Mifune e
tanti altri. Fu proprio la sua voce, inconfondibile, ad essere identificata con la
'voce di Dio', che doppiò nel colossal 'La
Bibbia' di John Huston.
Gli ebrei che hanno fatto storia
Ada Ascarelli Sereni
Come un nuovo Mosè ricondusse gli ebrei
nella Terra di Israele riconquistata
come la matriarca araba), verso l'inizio
degli anni ‘30, il clima si fece sempre più
duro e teso. Dopo altri anni trascorsi nel
kibbutz, Enzo Sereni si
occupò di organizzare
le alyot dalla Germania
e dagli Stati Uniti, al
suo fianco l'impavida
Ada che con energica
passione si prodigò per
formare i giovani pionieri del nascente Stato
ebraico. Enzo Sereni,
con l'inizio della Seconda Guerra mondiale e la
sempre più critica condizione degli ebrei
europei,
decise
di
arruolarsi nella British
Army, impegnandosi a
disseminare propaganda anti-nazista e ad aiutare, segretamente, l'emigrazione ebraica in Palestina.
Il 15 maggio del 1944, Enzo Sereni decise
di partire per l'Italia in una missione eroica paracadutandosi nel nord della penisola (sotto il falso nome di
Samuel Barda). Catturato
immediatamente
dai
nazisti presso Maggiano
di Lucca, prima torturato
e poi trasferito in vari
campi di prigionia, il 5
ottobre fu deportato a
Dachau, dove fu brutalmente ucciso. Tutto ciò
all'insaputa di sua moglie
Ada che lasciò il kibbutz
per giungere in Italia alla
ricerca disperata di suo
marito e scoprendo così la triste verità.
Durante il periodo in Italia Ada entrò in
contatto con il movimento segreto d’immigrazione clandestina Aliyah Bet, legato
all'Agenzia ebraica e impegnato nel trasferimento in Palestina degli ebrei europei
sopravvissuti all'Olocausto. Assistendo,
con insofferenza, al disagio e alla disperazione degli ebrei europei, risultato delle
passate leggi razziali, delle vessazioni e
dei campi di concentramento da poco liberati, Ada Sereni si fece carico di ben trentatré spedizioni clandestine per trasferire
segretamente gli ebrei in Palestina. Lei
stessa descrisse nel suo libro, I clandestini del Mare, i disagi e le peripezie vissute
durante questi "viaggi per la libertà". Viaggi che avvenivano in nave, con passeggeri
che il più delle volte lasciavano l'Europa
con un numero sul braccio. Questi viaggi
erano assai pericolosi e pieni d'imprevisti;
inoltre, dovevano avvenire in estremo
segreto in virtù del blocco inglese all'emigrazione ebraica in Palestina, blocco che
smentiva le promesse passate della
Dichiarazione Balfour e che aveva lo scopo
di non alterare gli equilibri ed interessi
strategici dell'Impero inglese con il mondo
arabo. Rappresentativo il caso della nave
Exodus, che a differenza del celebre film
con Paul Newman, fu respinta due volte e
rispedita in Europa con tutti i suoi 4.500
profughi!
Ada Sereni continuò a guidare le emigrazioni ebraiche fino alla notte del 14 maggio 1948, anno in cui partì da Formia l'ultima nave che approdò in una terra presto
dichiarata israeliana. Ada riuscì a portare
ventotto mila ebrei in Eretz Israel.
Terminate le missioni segrete Ada riabbracciò i propri figli nel kibbutz; tornò a
vivere per un periodo a Roma (1954-1967)
e nel 1964 il primo ministro israeliano Levi
Eshkol, le conferì una medaglia per il suo
contributo al salvataggio dei superstiti
della Shoa. Nel 1995 fu insignita dell'Israel
Prize, il premio più prestigioso dello Stato
ebraico. In onore di Enzo Sereni, è stato
dedicato il kibbutz Netzer Sereni e sul
Monte Herzl c'è un’insegna in suo ricordo.
Ada Sereni morì nel 1997 a Gerusalemme,
circondata dall'amore della sua famiglia e
nello Stato che con tanta fatica e coraggio
contribuì a costruire.
Angelo M. Di Nepi
Via dei Volsci,165 - 00185 ROMA
06.4462024 (lab.) - 06.93548963 (abit.)
cell. 349.7710957
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
L
a storia di Ada Sereni è una storia
fatta di amore, sacrificio e coraggio; è l'avventura di una donna
che ha dedicato
la sua intera esistenza
alla realizzazione del
sogno sionista. Ada
Sereni condusse, tra il
1945 e il 1948, numerose
missioni per far giungere segretamente gli
ebrei in Palestina eludendo così il blocco
imposto dagli inglesi.
Grazie alla sua caparbietà e al suo viscerale
amore per il popolo
ebraico, questa donna
guidò, come un Mosè,
circa 28 mila ebrei nella
Terra Promessa.
Ada Ascarelli Sereni
nacque a Roma il 20 giugno 1905 da un'importante famiglia di
commercianti; cresciuta in un ambiente
colto e raffinato, ricevette un'educazione
laica ma fortemente attaccata all'identità
ebraica. L'incontro con il
suo futuro marito, Enzo
Sereni, la avvicinerà agli
ideali sionisti. I due si
conobbero giovanissimi,
vicini di casa e compagni
di scuola presso il liceo
Mamiani, s'innamorarono
e svilupparono insieme l'idea di trasferirsi nel futuro Stato ebraico. Nel 1927,
con una bimba nata da
poco e il parere contrario
dei genitori, Ada ed Enzo
lasciarono Roma e le sue agiatezze per
inseguire un sogno più grande: vivere in
Eretz Israel.
Abbandonato il paese natìo, la giovane
coppia si trasferì nella cittadina di Rehovot; dopo un iniziale momento di difficoltà
dovuto al tempo necessario per adattarsi
ad una vita completamente diversa; la
coppia Sereni decise di fondare, nel 1928,
insieme ad altre famiglie originarie
dell'Europa dell'Est, il kibbutz Givat Brenner, tutt'ora uno dei più grandi kibbutz
d'Israele. In questo nuovo mondo, fatto
d’idealismo socialista e tanta buona volontà, Ada ricoprì il ruolo di direttrice della
fabbrica Rimon di succhi e conserve; se
all'origine i rapporti con i vicini arabi
erano cordiali e pacifici (tanto che la stessa Ada chiamò la sua seconda figlia Hagar,
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ROMA EBRAICA
Quel pasticciaccio brutto di via Balbo
C
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
ome si puó amare una persona?
Fondamentalmente in due modi.
C’è l’amore che supera ogni difetto, che sa anzi trasformare le
imperfezioni in bellezza, che cancella le
incomprensioni trasformandole in armonia. E c’è, al contrario, un amore che pretende che il partner sia migliore, che in
nome di un legame indissolubile non accetta in silenzio gli errori ma cerca un
confronto in un dialogo serrato. Da un lato
un amore rispettoso che condivide tutto,
dall’altro un amore puntiglioso che non ne
fa passare nemmeno una.
Questo in fondo è l’atteggiamento che
divide in due gli ebrei italiani nei confronti della politica, delle azioni e delle scelte
che compie lo Stato di Israele: di chi ama
Israele con il cuore senza se e senza ma;
e di chi ama Israele con la mente ma con
i dubbi e le paure; di chi pensa che Israele debba essere una fortezza perché circondato da nemici; e di chi pensa che
Israele debba essere un ponte, aperto al
confronto.
Unica condizione perché questi due modi
così diversi e antitetici possano convivere
all’interno del mondo ebraico è che l’amore
verso Israele sia sincero, non insegua interessi personali, non rincorra tribune o cerchi pubblicità. Se si rispetta questa condizione, le differenze di opinioni, i litigi, una
dura vis polemica possono, se gestite
bene, far crescere la nostra comunità, a
patto però che le contrapposizioni, le
asprezze – a volte persino le parole uscite
senza controllo – siano parte di una dinamica tutta e solamente interna alla vita
comunitaria. Come esattamente avviene
nelle famiglie dove nella quasi totalità dei
casi, i litigi nascono, evolvono e muoiono
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G
senza lasciare ferite insanate.
Questa comprensione dell’altro è oggettivamente mancata nella serata di via Balbo,
nata per presentare – ad un pubblico
ebraico e non ebraico - un libro (Sinistra e
Israele) di un autore (Fabio Nicolucci)
molto amico dello stato ebraico, ma percepita come una provocazione per la presenza in ambito comunitario di persone notoriamente critiche di Israele e in un caso
sostenitrici della causa palestinese.
Non è mia intenzione ricostruire, i precedenti, le cause e le polemiche (conosciute
ormai da tutti) che hanno preceduto e
accompagnato la serata, che è stata nervosa, disordinata, molto tesa, esattamente
come sono nervose, disordinate e tese le
contestazioni, da qualsiasi area politica o
sociale esse provengano. Perché esattamente di questo si è trattato a via Balbo, di
una contestazione – non giudico se fatta
bene o fatta male, se a ragione o a torto –
non ad un libro ma ad alcune idee che si
temeva venissero espresse. E’ scandaloso
tutto ciò? E’ stata violata la democrazia?
La critica che si trasforma in menzogna,
può essere accettata? Bisogna reagire alle
provocazioni? Cosa distingue una contestazione lecita da una illecita?
Ognuno è libero di dare le risposte che
vuole, e di dare un giudizio complessivo su
una vicenda che non avrebbe minimamante meritato l’onore della cronaca e che
invece – aumentandone la risonanza – è
finita strumentalmente sulle pagine dei
quotidiani.
Due considerazioni mi sento però di fare.
Innazitutto il rifiuto della violenza. E qui
bisogna dirlo con chiarezza: anche per
merito di alcuni degli stessi contestatori, vi
è stato un contenimento di ogni possibile
eccesso fisico. Quindi dura contestazione
anche minacciosa, ma senza violenza.
La seconda è che non bisogna trarre la
facile conclusione che il dialogo si sia rotto
(tanto è vero che il Consiglio della Cer ha
eleborato un documento unitario), ma
soprattutto sono da rigettare con durezza
le parole espresse da Gad Lerner e Moni
Ovadia – che nemmeno appartengono alla
comunità ebraica romana – che hanno
invitato alla dissociazione, a dare vita ad
una nuova comunità che raccoglierebbe
l’anima ‘progressista’, ‘pluralista’, e ‘tollerante’ dell’ebraismo, separandosi – evidentemente per senso contrario – dagli
oscurantisti, conservatori e intolleranti.
Moni Ovadia si è spinto ben oltre: ha accusato gli ebrei romani di essere dei fascisti,
quella stessa accusa formulata da alcuni
nella sala di via Balbo contro i contestatari
e che aveva mandato in escandescenze
persone che hanno avuto parenti deportati
ed uccisi alle fosse Ardeatine.
Questo invito alla secessione espresso da
Lerner e da Ovadia tradisce la loro formazione culturale: la comunità non è un partito dove ci sono le correnti e dove chi è
messo in minoranza può uscire, sbattere la
porta, portandosi via un pezzetto di potere, formando un nuovo movimento. Peccato che i vertici dell’ebraismo italiano non
abbiano sentito la necessità di smentire
pubblicamente l’invito alla separazione
dando quindi la sensazione, con il loro
silenzio, di condividerlo.
All’interno della comunità devono invece
convivere idee diverse, anche opposte e la
demonizzazione dell’altro, etichettandolo
quale ebreo fascista o al contrario ebreo
antisemita, non ha senso e non ha logica.
Giacomo Kahn
COMUNICAZIONE UFFICIALE
DEL CONSIGLIO STRAORDINARIO CER
iovedì 23 Gennaio 2014 (22 Shevat 5774), il Consiglio
Straordinario della Comunità Ebraica di Roma, con i
presenti:Dora Piperno, Emanuele Pace, Massimo
Bassan, Ruth Dureghello, Claudio Moscati, Ruben
Della Rocca, Massimo Misano, Angelo Sed, Riccardo Pacifici,
Eugenio Calò, Antonio Spizzichino, Gianni Ascarelli, Joseph Di
Porto, Alberto Piazza, Marco Sed (avv), Robert Sassun, Raffaele
Sassun, Livia Ottolenghi, Giacomo Moscati, Victor Magiar,
Serena Terracina, Bruno Anav ha deliberato all’unanimità il
seguente documento. Il Consiglio della Comunità Ebraica di
Roma (CER) riunitosi in seduta straordinaria a seguito degli
eventi verificatisi il 14 gennaio, preso atto del monito ricevuto
da Rav Di Segni durante la sua lezione dello scorso 22 gennaio
e raccolto il suo invito ad un’attenta riflessione sul tema, delibera quanto segue:
PREMESSO
che la CER è luogo nel quale ogni iscritto può e deve esprimere
liberamente le proprie opinioni e che il confronto democratico,
anche serrato, è indice di pluralismo di idee, vitalità e ricchezza
irrinunciabili.
CONDANNA
fermamente ogni tipo d’intimidazione e di violenza verbale, fisica o psicologica, alla quale la riunione del 14 gennaio ha dato
luogo e l’uso degli insulti di “fascista” ed “antisemita” indirizzati contro qualunque ebreo.
CONDANNA
altresì l’uso dell’aggressione fisica, denunciata da alcuni presenti, ed esprime la propria solidarietà a tutti coloro che ne sono
stati vittime.
Sette domande per comprendere
che si è superato il limite
La lezione di rav Riccardo Di Segni dopo le polemiche
che hanno preceduto, accompagnato e seguito i fatti di via Balbo
kerem interdizione permanente, per i quali
esistono diversi comportamenti da tenere
nei confronti del reo.
Ma più che l’aspetto giudiziale, ha spiegato rav Di Segni, ciò che la Torà insegna è
che non bisogna odiare il fratello ‘in cuor
tuo’, ma lo si deve ammonire con dolcezza,
tanto che chi svergogna un ebreo in pubblico non ha parte nel mondo a venire. Se
la persona che si è comportata male chiede
perdono, va perdonato.
Da tutto ciò si comprende il significato di
una celebre massima dei Padri (Pirké avot)
che insegna che sopravvivono solo le
divergenze non animate da interessi personali (leshem shammaim), tutte le altre il
tempo le cancellerà.
Infine rav Di segni ha lanciato un invito alla
riflessione ponendo sette domande, le cui
risposte ognuno dovrà trovare in se stesso,
nella consapevolezza che nella polemica di
via Balbo si è superato il lecito.
1. La durezza delle nostre posizioni nei
confronti di Israele, in qualsiasi senso,
nasce da una scelta libera e cosciente, o è
il sostituto psicologico di problemi personali non risolti?
2. Le nostre posizioni su Israele nascono da
scelte personali o si conformano a idee di
gruppo accettate più o meno acriticamente?
3. Il nostro attivismo politico su Israele è
motivato dalla passione o c’è anche qualche ambizione di carriera, di posizione
sociale e di lavoro? Siamo capaci di non
sfruttare a nostro vantaggio i benefici
derivanti da un’esposizione pubblica
come ebrei e di distinguere l’impegno
ebraico dalla nostra vita privata o pubbli-
ca di lavoro o politica non ebraica?
4. Quando attacchiamo altri ebrei in nome di
Israele, abbiamo verificato la nostra personale coerenza ebraica? Abbiamo costruito
una famiglia ebraica, educato ebraicamente, fatto Tzedaqà, rispettato le regole basilari? Cosa abbiamo fatto e facciamo per il
futuro fisico e spirituale del popolo ebraico? 5. Quando prendiamo posizione da qui nei
confronti di Israele ne abbiamo valutato le
conseguenze, ci siamo fatti carico delle
responsabilità, calcolato cosa rischiamo
noi qui e cosa rischiano in Israele? Quando
è stata l’ultima volta che siamo saliti su un
autobus in Israele?
6. Quando attacchiamo chi non la pensa
come noi lo facciamo in nome dei principi
o ci mettiamo dentro anche vecchi astii
famigliari, sociali, invidia, desiderio di
potere politico a tutti i livelli, dalla strada
ai consigli comunitari, alle presidenze, ai
rapporti con le autorità? 7. Quando attacchiamo qualcuno in nome
del bene di Israele abbiamo ben chiaro il
concetto e la Mitzvah di Ahavat Israel, del
rispetto che si deve ad ogni fratello/sorella
anche se lo consideriamo deviante, ne
abbiamo considerato la sua storia personale? Il nostro desiderio è quello di convincere uno che sbaglia o si vuole soltanto
reprimere un dissenso?
G.K.
MANIFESTA DISAGIO
per la campagna mediatica, aggressiva e strumentale che, a
partire dalla grave insinuazione rivolta al Presidente dal Blog di
Gad Lerner è stata messa in atto contro i vertici della nostra
Comunità. Parimenti, esprime preoccupazione per le esternazioni comparse sui social network, non consone all’haavat
Israel.
ESPRIME
la propria vicinanza agli oratori presenti ma ritiene che uno di
essi abbia riportato informazioni evidentemente false.
RINNOVA
La sua gratitudine ai volontari della Sicurezza che, con la loro
vigile presenza sono stati in grado di arginare le contrapposizioni che si sono prodotte, e a tutti i consiglieri della Cer e
dell’Ucei, presenti in quell’occasione, che si sono adoperati per
smorzare i toni.
SI IMPEGNA
a promuovere tutte quelle iniziative che, nel pieno rispetto delle
diverse sensibilità, possano favorire e sviluppare un dibattito
democratico a sostegno della sicurezza dello Stato d’Israele.
DEPLORA
Che gli organizzatori dell’evento non abbiano mostrato la dovuta attenzione alle varie sensibilita della Comunità ebraica
romana, anche nell’apertura a persone la cui ostilità verso il
mondo ebraico è ben nota.
FA APPELLO
a tutti gli iscritti affinché mantengano quello spirito di unità e
fratellanza che da sempre distingue la storia bimillenaria della
nostra Comunità secondo il dettame Alachico.
E IMPEGNA
tutte le strutture comunitarie a lavorare per migliorare il clima di
convivenza e di reciproco rispetto.
Il Consiglio s’impegna infine a sostenere con forza ogni iniziativa, proposta sia da singoli che da associazioni, volta a contrastare, nello spazio pubblico come nel web, la criminalizzazione
dello Stato d’Israele e ogni forma di antisionismo.
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
L
o stesso luogo che ha visto l’accesa
contestazione; lo stesso luogo che
è stata sede di una polemica che
poteva spaccare la comunità (e ciò
non è avvenuto per la successiva moderazione di tutti), è stato pochi giorni dopo il
luogo di incontro – molto affollato – in cui il
rabbino capo rav Di Segni ha tenuto una
lezione sulla libertà di poter esprimere liberamente le opinioni e sui limiti a tale libertà,
nell’ambito della giurisdizione ebraica.
Troppe accuse, troppe parole pesanti erano
state espresse, con la certezza che a sbagliare fossero sempre gli altri, di conseguenza – ha sottolineato rav Di Segni - la
necessità di una riflessione basandosi sulle
fonti per comprendere i significati ed eventualmente i limiti dello stare insieme, definendo a chi spetta decidere se i limiti sono
superati e come comportarsi con le persone
che eccedono questi limiti.
Che gli ebrei siano spesso in polemica gli
uni con gli altri, ha spiegato il rav, non è una
novità. Citando diverse fonti rav Di segni ha
spiegato che coloro che vanno allontanati
sono sostanzialmente i ‘minim’ (traditori,
rinnegati), coloro cioè che apertamente,
manifestamente, in pubblico negano la
Torà, non credono nella resurrezione dei
morti, non credono alle parole dei Maestri,
e si distaccano quindi dal pubblico. Si superano i limiti della libera espressione quando
si calunnia, si svergogna il prossimo, anche
attribuendo un nomignolo cattivo.
Come comportarsi con queste persone?
Esistono tre tipi di pene che il tribunale
rabbinico può comminare: il rimprovero o
biasimo, una interdizione provvisoria e il
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ROMA EBRAICA
Foto di G. Spizzichino
Il Ministro degli Interni Alfano
ha incontrato il rabbino capo Di Segni
Nella visita alla comunità ebraica di Roma
ha ribadito il suo “forte sostegno”
S
icurezza, crisi economica e lotta al negazionismo: questi
i temi trattati durante l’incontro, dello scorso gennaio,
tra il ministro degli Interni Angelino Alfano ed il Rabbino
capo di Roma Riccardo Di Segni.
Nessuna richiesta particolare al Governo, “solo un colloquio
semplice e cordiale”, ha precisato il rabbino Di Segni, in una
visita durata un’ora, non solo istituzionale, ma anche culturale:
la Comunità ebraica ha infatti accompagnato Alfano in un percorso tra le stanze del Museo ebraico e all’interno del Tempio
Maggiore.
Rav Di Segni ha sottolineato che “la visita del ministro è stata
accolta con grande simpatia. Alfano è da tempo amico della
nostra Comunità, fin da quando, da ministro della Giustizia, si è
occupato dei problemi relativi alla complessa questione del
negazionismo”. Secondo Di Segni, il nostro Paese rappresenta,
inoltre, un “caso unico che fa scuola in Europa per la collaborazione tra le forze di polizia e le comunità ebraiche d’Italia”, per
questo ha aggiunto che “nella sua funzione di ministro degli
Interni, abbiamo rinnovato l’espressione della nostra gratitudine
ad Alfano per quanto le forze dell’ordine fanno al fine di tutelare
le nostre istituzioni, le nostre scuole in tutta Italia, per la vigilanza che c’è e per l’attenzione politica complessiva, non esclusiva,
verso i fenomeni di intolleranza e di antisemitismo”.
In questo senso, Alfano ha “ribadito il forte sostegno che il
nostro Paese, le forze politiche e, nel caso di specie, il mio movimento politico hanno nei confronti della Comunità ebraica. Io
sono molto contento del fatto che da parte del Rabbino capo sia
venuto un significativo riconoscimento di come le forze dell’ordine abbiano sempre rispettato e tutelato la comunità, anche
rispetto ai rischi che possono arrivare da rigurgiti di antisemitismo i quali, fortunatamente - ha concluso - vengono immediatamente rigettati dalla grandissima parte dell’opinione pubblica e
del mondo politico italiano”.
A cura del Progetto Dreyfus una serata in ricordo di Ariel Sharon
S
erata in onore di Ariel Sharon, lo scorso gennaio, nella
sala del Jewish Community Center di via Cesare Balbo.
L'ex premier israeliano - figura simbolica che ha suscitato,
e continua a suscitare nell’oponione pubblica sentimenti
contrastanti - è stato ricordato da tutti come ‘un gigante nella
storia moderna di Israele’. Il dibattito - moderato dal giornalista
Mario Sechi - ha visto la partecipazione dell'ex ambasciatore di
attaccata alla terra, caratterizzata soprattutto dalla devozione per il
popolo ebraico». Arbib ha raccontato un suo ricordo di Sharon, una
frase da lui pronunciata: “Fai oggi e non rimandare a domani”.
Ma la serata è stata l'occasione anche per affrontare il tema del
processo di pace Israele-Palestina e non solo. «Siamo sempre
accusati di non fare abbastanza per la pace - ha sostenuto ad
esempio Pazner – e invece noi facciamo tutto per la pace». La
serata è stata organizzata da Progetto Dreyfus, movimento della
Rete, nato per contrastare l'antisemitismo sul web ma anche per
promuovere occasioni di dibattitto come questo.
LA TOP TEN DELLA LIBRERIA
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Foto di A. Nacamulli
KIRYAT SEFER
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Israele in Italia Avi Pazner, per anni a fianco di Sharon come
portavoce quando era al governo; dell'ambasciatore di Israele in
Italia Naor Gilon; del presidente della comunità ebraica di Roma
Riccardo Pacifici; del presidente mondiale del Consiglio del
Keren Hayesod Johanna Arbib; e dallo scrittore Fabio Nicolucci;
e poi in collegamento da Israele i giornalisti Maurizio Molinari e
Menachem Gantz. «Sharon – ha spiegato Pazner - era l'uomo del
destino di Israele. Lo è stato negli anni '50, poi negli anni '70,
infine negli anni Duemila con la sua decisione unilaterale di
lasciare Gaza».
«Ricordiamo – ha spiegato Pacifici - la figura molto controversa
almeno da un punto di vista mediatico, di un militare e al
contempo di un uomo di pace. Probabilmente senza l'energia di
Ariel Sharon, senza il suo coraggio e in alcuni casi anche senza
la sua disobbedienza oggi non ci sarebbe più lo Stato di Israele».
«Un ebreo - ha ricordato invece Johanna Arbib - una persona
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LA SCALA DELLA MORTE
di G. Di Veroli,ed. Marlin
PER QUESTO HO VISSUTO
di S. Modiano, ed. Rizzoli
ISRAELE. TERRA, RITORNO, ANARCHIA
di D. Di Cesare, ed. Bollati Boringhieri
I VICINI SCOMODI
di R. Matatia, ed. Giuntina
RINASCIMENTO EBRAICO
di M. Buber, ed. Mondadori
KOLONIMUS SHAPIRO
di C.Chalier, ed. Giuntina
IL FALSO PROFETA
diF. Kellermann, ed. Cooper
VOLEVO SOLO AVERTI ACCANTO
di R.H. Balson, ed. Garzanti
L’AQUILA E LA FARFALLA
di M. Molinari, ed. Rizzoli
IL COCCIARO DEL PAPA
di D. Limentani, ed. Giubilei Regnani
Foto di S. Meloni
Tu Bishvat, tra rispetto per
la natura e solidarietà sociale
A cura dell’Associazione “Beautiful Israel”
piantati alberi nel giardino
antistante il Ministero dell’Istruzione
G
“Inizialmente non veniva considerata una festa tanto gioiosa –
ha spiegato il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni - in
quanto era una data prettamente fiscale, in cui dovevano essere
consegnate le decime”.
Oggi, questa festività ha regalato un’impronta positiva, nel
gesto di piantare un albero proprio al centro di una delle città più
grandi d’Europa. “Il legame del popolo Ebraico con la natura è
sempre stato più forte di ogni altro – prosegue l’Ambasciatore
d’Israele in Italia Naor Ghilon – l’antica usanza di piantare gli
alberi non è stata dimenticata in Israele, l’unico paese del mondo
in cui il numero degli alberi piantati supera quello degli alberi
abbattuti”. L’Ambasciatore ha colto l’occasione per ricordare la
straordinaria figura di Ariel Sharon; una figura amata e temuta,
ma che ha sempre lottato per la terra d’Israele sia da soldato sia
da politico, e che da vero ebreo mantenne tutta la vita uno stretto legame con la natura. E’ intervenuto anche il Sindaco di Roma,
Ignazio Marino, dichiarando tutto il suo interesse per il legame
tra la Capitale e l’ambiente, e invitando i giovani a dimostrare il
loro amore per Roma anche attraverso piccoli gesti, primo su
tutti il rispetto verso la natura.
A Maria Chiara Carrozza, Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, è stato lasciato l’ultimo intervento, nel quale
ha ribadito l’importanza della cultura e dello studio della storia,
riprendendo il discorso del Sindaco sul centenario della prima
guerra mondiale. L’incontro si è concluso nel miglior modo possibile, con le gioiose immagini di bambini, ragazzi ed insegnanti
che tutti insieme hanno piantato un albero al centro del giardino.
Rebecca Mieli
Un ippocastano dedicato
ad Ariel Sharon
I
Piantato a cura del KKL nel parco
“Yitzhak Rabin” di Villa Ada
n occasione di Tu Bishvat, il capodanno degli alberi nella
tradizione ebraica, l’Ambasciata di Israele in Italia in collaborazione con il Keren Kayemet Leisrael Italia Onlus ha
organizzato la cerimonia di piantumazione di un ippocastano nel “Parco Yitzhak Rabin”, all’interno di Villa Ada. Alla Cerimonia, svoltasi il 17 Gennaio, oltre all’Ambasciatore Naor Ghilon,
erano presenti anche il Presidente del KKL Raffaele Sasson, il
Presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici, Il
Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni, il Vicepresidente del
secondo municipio Emanuele Gisci, Rafi Ovadia, Direttore del
KKL in Italia, e l’Assessore alla Cultura, creatività e promozione
artistica Flavia Barca. La cerimonia, animata come sempre dalla
commovente partecipazione dei bambini della Scuola Ebraica di
Roma, si è aperta con le parole di Raffaele Sasson che ha accennato alle attività della prima grande organizzazione ambientale
israeliana. Il Keren Kayemet Leisrael vanta il merito di avere,
attraverso le migliaia di volontari, piantato più di duecentocinquanta milioni di alberi nel corso della sua storia.
Ad Ariel Sharon è dedicato il “neonato” albero, in quanto grande
amante di Israele, della sua natura e al tempo stesso uomo di
pace. Impossibile non affiancare la figura del l’ex leader Israeliano recentemente scomparso a quella di un altro leader Israeliano, a cui è dedicato l’intero piazzale in cui si è svolta la cerimonia: Yitzhak Rabin, ricordato come una figura amica dall’Ambasciatore d’Israele in Italia Naor Ghilon. “Dimostrare il nostro
amore per la terra attraverso iniziative di questo tipo è meraviglioso - ha spiegato ai bambini il Presidente Riccardo Pacifici ma altrettanto meraviglioso sarebbe poter continuare su questo
percorso insieme ad altri bambini della città”. E’ intervenuto
anche il Rabbino Capo Riccardo Di Segni, che ha ricordato ancora una volta quanto le radici ebraiche siano correlate con la
natura e con le piante, tanto che nella Torah è espresso il divieto
di abbattere gli alberi da frutto.
R.M.
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
iovedì 16 Gennaio, in occasione della festa Ebraica di
“Tu Bishvat” o, se si preferisce “Rosh Hashana Lailanot”, si sono riuniti alunni ed insegnanti delle scuole
Ebraiche Romane e della scuola “Regina Margherita”
nella manifestazione tenutasi nei giardini adiacenti al Ministero
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. L’evento è stato
organizzato dall’associazione “Beautiful Israel” - presieduta da
Dario Coen - con il patrocinio di “Roma Capitale” e dell’Ambasciata d’Israele in Italia, e la collaborazione dell’azienda “Smemoranda” di Nico Colonna.
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Foto di G. Spizzichino
ROMA EBRAICA
Il ministro Kyenge in sinagoga
per ascoltare i sopravvvissuti
alla Shoah
I
nizio particolare, e anticipato, delle cerimonie per il 27 gennaio,
Giorno della Memoria: nella Sinagoga maggiore i sopravvissuti
all'Olocausto, alla presenza del ministro per l'Integrazione Cecile
Kyenge, hanno testimonaito le tragedie della Shoà. Il ministro,
tra l'altro, era accompagnata da un ragazzo romano di origine egiziana, Sidahmed,.
“Quella di oggi è una giornata importante, dedicata all'ascolto dice il ministro al termine della cerimonia al tempio -. Ascolto dei
sopravvissuti, per non dimenticare: la memoria non è un'astrazione, ci deve accompagnare sempre”. Un ascolto che ha avuto
anche una parentesi di cronaca politica: uno dei sopravvissuti,
Alberto Sed (79 anni), di sua iniziativa si è avvicinato al ministro
e le ha consigliato di “rispondere sempre agli attacchi dei leghisti”, aggiungendo “nel caso mi chiami pure e io verrò. Gli immigrati sono una ricchezza, e noi li vogliamo”.
Le cerimonie, sottolinea il presidente della comunità romana, Riccardo Pacifici, sono iniziate prima rispetto al solito “per riguardo
ai sopravvissuti, che dovranno affrontare nei prossimi giorni un
lavoro intenso: sono chiamati in ogni angolo d'Italia a raccontare,
e mi scuso fin da ora se non riusciremo ad accontentare tutti. Mai
come in questo momento è necessario ascoltare i drammi del passato - ha sottolineato - anche per capire quelli del presente. Quelli del passato sono stati causati dall'indifferenza, e all'indifferenza
dobbiamo opporre la mobilitazione”.
“E' un regalo molto particolare quello che mi ha fatto il ministro chiosa infine Sidahmed -. Mi sono sempre ritrovato nel pensiero
del ministro: dobbiamo raggiungere una società in cui siamo tutti
uguali e la diversità è una ricchezza. Questa giornata sarà una
spinta per quella che ritengo la mia lotta”. Particolarmente soddisfatto, infine, Pacifici, che vede “un segnale importante aver
accolto oggi un ragazzo di origine egiziana” al Tempio; “questo ha concluso, invitando il ragazzo a tornare quando vuole - è il
modello di società che vogliamo”.
Nella foto il Ministro con da sinistra
i sopravvissuti Piero Terracina e Alberto Sed.
“Perché raccontiamo?”
Gli ex deportati nei campi di sterminio
incontrano i ragazzi delle scuole di Roma
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
“L
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a nostra voce, e quelle dei nostri figli, devono servire
a non dimenticare e a non accettare con indifferenza
e rassegnazione, le rinnovate stragi di innocenti. […]
I giovani liberi devono sapere, dobbiamo aiutarli a
capire che tutto ciò che è stato storia, è la storia oggi, si sta paurosamente ripetendo.” (Elisa Springer, Il Silenzio dei Vivi)
Dopo la liberazione per i sopravvissuti non è stato facile tornare alla
loro vita di tutti i giorni; non avevano più una famiglia, avevano
perso gli amici, il loro passato era ridotto in cenere. E oltre al danno
la beffa, i loro racconti erano considerati folli: “Come hai fatto tu a
salvarti?”; “Perché tu e non altri?”. Non credevano loro: davanti
all’ignoranza delle persone che non avevano conosciuto gli orrori di
Auschwitz, l’unica soluzione sembrava il silenzio.
Perché oggi hanno deciso di tornare a raccontare? Cosa ha spinto i
sopravvissuti a rompere quel silenzio e a condividere la loro testimonianza con la generazione successiva? Gli studenti delle scuole
di Roma che hanno preso parte al Viaggio della memoria si sono
interrogati a lungo a riguardo, e il 23 gennaio 2014 le loro domande
hanno trovato risposta al Tempio Maggiore in un incontro con i
sopravvissuti.
È Marcello Pezzetti a fare da moderatore e a chiedere agli ex deportati perché hanno deciso di raccontare la loro storia.
Sami Modiano: “Quando sono tornato mi hanno chiesto di raccontare, ma per me era troppo dura e mi sono chiuso in me stesso. Poi
però grazie al mio amico Piero Terracina ho capito che i ragazzi
dovevano sapere, allora mi sono fatto forza e ho iniziato a parlare”.
Altrettanto dura è stata per Alberto Sed che durante la prigionia
lavorava sulla rampa di Birkenau ed era costretto ad assistere alle
violenze delle SS sui nuovi arrivati, così per Rosa Hallel e Donato
DiVeroli .
Dopo il suo ritorno Piero Terracina ha tentato di raccontare l’inferno ai suoi vecchi amici, ma per loro la sofferenza e la fame di
Auschwitz non erano credibili: “Dicevano di essere loro ad aver
sofferto la guerra. Come potevo descrivere loro il dolore e i nostri
corpi ridotti in scheletri?” dice Piero. “Quando mi sono reso conto
che nessuno credeva a quanto fosse successo ho capito di dover
raccontare: prima partecipai ad un convegno dove non parlai molto,
poi ho iniziato ad andare nelle scuole.”
Zio Pucchio ha preferito tacere perché sapeva che lo avrebbero
considerato pazzo: dopo l’arresto, la tortura della Gestapo, la fame
e tutto quello che aveva passato non è mai più voluto tornare ad
Auschwitz nonostante i ripetuti inviti, tuttavia l’interesse e l’affetto
dei giovani lo hanno spinto a parlare nelle scuole e nelle università
e oggi si è rivolto agli studenti parlando da nonno: “Ci sono alcuni
consigli che voglio darvi: apprezzate quello che avete, non date
dispiaceri ai vostri genitori, studiate, non date retta ai balordi, ma
soprattutto conservate la vostra libertà, il dono più prezioso che D.
vi abbia dato.”
Infine Edith Bruck: “Appena tornata ho iniziato a scrivere. Ad
Auschwitz ho fatto la marcia della morte e sono stata costretta a
trascinare mille cadaveri. Inizialmente non ho pubblicato nulla di
ciò che avevo scritto, ma dopo aver parlato con Primo Levi mi
sono convinta e nel 1951 ho pubblicato il mio primo libro e più
tardi sono andata nelle scuole. Avevo capito di avere un’enorme
responsabilità”. Come ha ricordato Rav Di Segni, ogni ebreo ha
questa frase nel cuore: ‫ שמע ישראל‬Ascolta Israele. L’ostacolo dei
testimoni sono stati coloro che non volevano ascoltare, noi invece dobbiamo farlo e raccogliere così l’invito che Mosè rivolse al
popolo d’Israele, ‫ שמע‬ascolta.
Giorgia Calò
Viaggio della memoria: il ministro Carrozza agli studenti,
“siate testimoni per il futuro”
ragazzi raccolgano il testimone dei
sopravvissuti e portino la loro esperienza diretta nel raccontare ad altri
e diventare essi stessi testimoni per
il futuro. E' l'invito lanciato ai circa 200
studenti provenienti da tutta Italia che
hanno partecipato al viaggio della memoria, accompagnati dal ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza, dal presidente del Senato Pietro Grasso, dal direttore della fondazione Museo della Shoah
Marcello Pezzetti e dal presidente dell'Ucei Renzo Gattegna. Prima hanno visitato
il ghetto di Varsavia e ascoltato da Marcello Pezzetti la storia delle
deportazioni nella città polacca e il giorno successivo si sono
recati, insieme a tre sopravvissuti, Sami Modiano e le due sorelle
Bucci, nel campo di sterminio di Auschwitz.
“L'ambizione della scuola - ha detto il Ministro Carrozza, che ha
siglato nella sinagoga Tempel di Cracovia un accordo con la
comunità ebraica per proseguire nella collaborazione per la
conoscenza della storia - è quella di far realizzare le aspirazioni
e i sogni dei ragazzi ma soprattutto diventare cittadini responsabili. Tutto questo - ha sottolineato - passa attraverso il latino e la
fisica, sicuramente, ma soprattutto attraverso la conoscenza e
l'acquisizione di responsabilità”. Un invito quindi ai ragazzi a
sapersi ribellare “di fronte alle ingiustizie. Il ruolo che avete - ha
concluso - è quello di diffondere il più possibile ciò che vedrete.
Sia per ricollegarlo e per comprendere il passato ma soprattutto
per fare in modo che in futuro queste
cose non debbano succedere mai più.
Avete l'opportunità di vivere la memoria e di riportarla ai vostri compagni.
Tutti insieme abbiamo un privilegio
che porta però la responsabilità di
rappresentare tutto ciò di cui siete
testimoni”.
Il Presidente del Senato Grasso quindi
ha sottolineato come le immagini “della
deportazione di un popolo fino alla sua
eliminazione totale, la visione di muri di
cinta e finestre murate, ci hanno dato la
misura della tragedia di questo popolo. Un orrore che entra dentro
e che ci dà la sola sicurezza che noi tutti contribuiremo che fare
in modo che ciò non accada piu'“.
“La visita del ghetto di Cracovia – ha scritto il presidente Grasso
sul suo profilo FB - mi ha molto colpito. Negli anni '40 qui vivevano
oltre 70.000 ebrei, oggi non sono più di 200. La ferocia nazista gli
ha portato via tutto ma non è riuscita nell'impresa di cancellare un
popolo. Ho visto gli studenti ascoltare le spiegazioni di Marcello
Pezzetti, direttore del Museo della Shoah, e dei suoi ricercatori con
attenzione e partecipazione. Loro sono il nostro futuro ed è essenziale che conoscano il passato dell'Europa per poter, un giorno,
contribuire a renderla migliore.”
Grasso ha solo un rammarico. “Mi sono impegnato ad accelerare
la legge contro il negazionismo, ciò non è avvenuto e ne sono
deluso ma mi impegno a proseguire su questa strada”.
Una targa in ricordo di Pacifico Di Segni
Consegnata la Medaglia dei Giusti
alle famiglie Serra e Dominici
I
n occasione dell’incontro in sinagoga con i sopravvissuti, si
è tenuta una piccola ma molto suggestiva cerimonia in
ricordo di Pacifico Di Segni (nato a Roma, il 19/11/1925), alla
cui memoria - su iniziativa di Massimo Gai - è stata posta
una targa nell’area dove si riunisce il coro.
“Come membro del coro - ha
spiegato Gai - e con la condivisione di tutti i colleghi, abbiamo voluto ricordare una storica
voce del coro, la cui storia
drammatica è poco conosciuta
e non ci sono suoi parenti che
possano tramandarla”.
Pacifico Di Segni fu infatti
arrestato all’età di 19 anni
nell’aprile del 1944 in Via Arenula da due fascisti che catturavano gli ebrei per ottenere
5000 lire. Dopo un breve soggiorno a Regina Coeli, fu internato nel campo di Fossoli per
poi essere deportato il
26/06/1944 ad Auschwitz,
dove fu tatuato con il numero A-15722.
Liberato il 27 gennaio 1945, pesava poco più di 28 kg. e dopo una
convalescenza di alcuni mesi, ritornò a Roma dove gradualmente
riprese la sua vita, si sposò con Debora Di Veroli ma non ebbero
mai figli. Ritornò anche tra le file del Coro del Tempio Maggiore,
di cui faceva parte fin da bambino, fino alla sua scomparsa avvenuta il 17 gennaio 2001.
Debora Di Veroli con Massimo Gai
L
o scorso gennaio si è svolta la cerimonia di consegna della
"Medaglia dei Giusti" del Museo Yad VaShem di Gerusalemme alle famiglie Serra e Dominici che si prodigarono
per la salvezza di due famiglie ebraiche romane (Piperno e
Ascarelli), durante il periodo delle persecuzioni naziste, rischiando
la propria vita. La consegna è stata effettuata all'interno dei locali
della libreria ebraica Kiryat Sefer grazie al lavoro di coordinamento
e ricerca dell'Ambasciata d'Israele in Italia-Ufficio Affari Pubblici e
Politici. Alla consegna ha partecipato l'Assessore alle Relazioni
Istituzionali della Comunità Ebraica di Roma, Ruben Della Rocca,
che ha salutato il pubblico e in particolare i ragazzi della terza
media della scuola ebraica di Roma: “Siete voi l'esercito della
Memoria - ha spiegato Della Rocca - e sono felice che questa cerimonia avvenga davanti ai vostri occhi affinché possiate raccontare
ai vostri coetanei e un giorno ai vostri figli cosa è successo nella
nostra città dopo il 16 ottobre 1943, quanti hanno aiutato i membri
della comunità a salvarsi dalla ferocia nazista”.
Livia Link-Raviv, dell'Ambasciata d'Israele in Italia, ha aggiunto
“quanto sia importante il lavoro di ricerca per consegnare il più alto
riconoscimento dello Stato Ebraico alle persone che si sono spese
per salvare delle vite. Vanno ricordate e premiate anche per non
dimenticare quanti non aiutarono gli ebrei perseguitati e chi, purtroppo, ha invece aiutato i nazisti a compiere l'orribile opera di
rastrellamento”.
Per la famiglia Serra ha ritirato la “Medaglia dei Giusti” la signora
Maria Laura, mentre per la famiglia Dominici hanno avuto l'onore di
vedersi consegnata la medaglia le signore Anna e Marisa. Sono loro
le figlie di quegli eroi che salvarono le famiglie Piperno e Ascarelli.
E nella tradizione ebraica chi salva una vita salva il mondo intero.
R. M.
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
I
Il presidente del Senato Grasso: “il mio impegno contro il negazionismo proseguirà”
35
ROMA EBRAICA
27 gennaio al Quirinale
I
l Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano ha premiato le classi vincitrici del concorso nazionale “I giovani
ricordano la Shoah, alla presenza del
ministro della Pubblica Istruzione Maria
Chiara Carrozza, delle massime autorità istituzionali e dei rappresentanti dell’ebraismo
italiano. Gli studenti premiati hanno vissuto
una giornata romana indimenticabile.
“La scala della morte”
Gli orrori di Mauthausen
raccontati da Mario Limentani
A
uschwitz e Birkenau
non sono i soli luoghi
dei
viaggi
della
memoria. Esiste un
altro campo, forse minore rispetto agli altri, ma altrettanto terribile: Mauthausen.
Mauthausen era un campo di
lavoro riservato ai prigionieri
politici, è proprio lì che è stato
internato Mario Limentani,
deportato da Venezia e costretto
a lavorare sulla cosiddetta “scala
della morte” da cui pochi ne
uscivano vivi. Ma Mario ce l’ha fatta e ha
deciso di raccontare la sua storia, grazie
alla collaborazione di Grazia Di Veroli.
“Il lavoro di Grazia è importante, in quanto
esempio del lavoro che spetterà ai testimoni di seconda generazione come promotori
della memoria”, ha sottolineato Riccardo
Pacifici alla serata di presentazione del libro
al Museo Ebraico, a cui hanno preso parte
insieme all’autrice e a Mario Limentani,
Marcello Pezzetti, la prof.ssa Anna Foà e
Mario Avagliano, scrittore e giornalista. È
proprio quest’ultimo a precisare che la persecuzione nazista non ha colpito solo gli
La Memoria
grazie al Corriere.it
ebrei ma anche politici. Ma cosa ci faceva
Mario in un campo politico?
La risposta l’ha fornita Marcello Pezzetti:
“Durante il rastrellamento Mario era uno
dei pochi ebrei in mezzo ai prigionieri politici. Quando le SS se
ne accorsero decisero di non
trasferirli ad Auschwitz, perché
non erano in molti, quindi li tennero lì e li costrinsero a lavorare
in una cava e a portare il materiale su per una scala, dove
Mario vide morire molti suoi
compagni. Poco prima della liberazione giunsero a Mauthausen i
prigionieri trasferiti da Auschwitz, tra cui Shlomo Venezia”.
A conclusione della presentazione, Grazia Di Veroli ha raccontato di come questo libro sia nato dalla
profonda amicizia che la lega a Mario e
nonostante abbia conosciuto moltissimi
sopravvissuti, grazie al suo lavoro all’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati), Mario per lei è sempre stato come uno
zio, quindi scrivere questo libro è stata
una cosa naturale.
Il lavoro che ha svolto Grazia Di Veroli è di
esempio per tutti, il suo libro insieme alle
altre testimonianze sarà un importante
documento per combattere il negazionismo
e mantenere vivo il ricordo.
G.C.
Il Giorno della Memoria al Pitigliani
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
Terza edizione di ‘Memorie di famiglia’.
I ricordi dei nonni letti dai nipoti
36
N
el Giorno della Memoria il ricordo assume un ruolo
imprescindibile, in cui ognuno diventa un testimone. Gli
ultimi sopravvissuti, con la loro presenza coraggiosa; le
molte commemorazioni, le mostre, i documentari e i film.
Vari luoghi e vari modi di trasmettere il ricordo della Shoah.
Al Pitigliani Memorie di famiglia giunge alla sua terza edizione,
facendosi anch’essa testimone e monito attraverso la lettura delle
memorie e dei diari da parte di nipoti e di pronipoti. Come ogni
anno prima di iniziare c’è molto fermento: i ragazzi, guidati da
Nando Tagliacozzo, provano le letture; chi deve suonare e cantare
fa le ultime prove; chi sta allestendo sistema ancora qualcosa nella
sala che a breve sarà gremita di persone. Saluti, chiacchiere, risate,
giochi e corse di bambini... poi silenzio, si inizia.
Ugo Limentani apre con una breve ma intensa presentazione;
Nando Tagliacozzo conduce in modo puntuale e chiaro l’intera
manifestazione, introducendo ogni brano che verrà letto. Quest’anno la presenza dei ragazzi è totale: ragazzi che leggono, ragazzi che
In occasione del Giorno della Memoria il
Corriere.it ha prodotto un interessante
documentario-web di 7 puntate, “Il rumore della Memoria”, che diventerà presto
un film, sulla tragedia di Vera Vigevani
Jarach, a cura di Marco Bechis, Alessia
Rastelli e Antonio Ferrari. La signora
Jarach si definisce “una militante della
memoria”: lei stessa, ancora bambina, ha
subito le leggi razziali durante il fascismo,
a causa delle quali è stata costretta a
lasciare l’Italia con la sua famiglia per
trasferirsi in Argentina, dove ha trovato la
salvezza. Il nonno, Ettore Camerino, rimasto a Milano, viene catturato mentre tentava la fuga verso la Svizzera: rinchiuso
nel carcere di Varese e poi a San Vittore,
Camerino dal Binario 21 arriva ad
Auschwitz, dove muore nelle camere a
gas. In Argentina, durante il periodo della
dittatura, Vera Jarach ha perso anche la
figlia Franca, quasi diciottenne, fiera
oppositrice del regime golpista del generale Videla e impegnata attivamente ad
inseguire ideali di giustizia e di uguaglianza sociale sia in ambito scolastico
che fuori. Dopo essere stata prelevata
dalla scuola insieme con altri 103 studenti, la ragazza desaparecida, è stata torturata, drogata e gettata viva in oceano da
uno dei terribili 'voli della morte'.
Per non dimenticare.
J.S.
cantano: parole e musica. I testi di Auschwitz di Francesco Guccini;
di Dona Dona, canzone popolare yiddish e La stella d’oro si alternano con chi legge, mentre l’accompagnamento musicale alla chitarra
di Emanuele Levi Mortera fa da filo impercettibile e costante.
I nipoti e i pronipoti che leggono sono una decina, ma le persone
che lì ascoltano sono tantissime raccolte in una corale e intima
commozione per oltre due ore. Nonostante la giovane età, i ragazzi
leggono in modo attento e sensibile, consapevoli di quanto accaduto ai loro nonni e zii. L’emozione si fa parola di vita vissuta per
ricordare quei terribili momenti di guerra e di persecuzione, dove
vivere significava nascondersi e occultare la propria identità. Sempre in allerta in ogni situazione e in ogni momento, senza nessuna
sicurezza di trovare un luogo veramente sicuro dove stare; un
vivere fatto di continue peregrinazioni, di fughe da una casa all’altra o da un convento all’altro per evitare di essere scoperti e deportati. Le letture dei ragazzi diventano quindi un percorso di storia
vivente, in cui parole ed emozioni sono testimonianza di ciò che
l’Olocausto è stato. Sconfiggere il passato con la parola è così una
necessità incalzante in ogni momento e luogo, in cui l’unico imperativo morale diviene ricordare, ricordare, ricordare.
Elena Albertini
In edicola con il Corriere e la Gazzetta
dello Sport “I campioni ricordano”
E
ra il 6 giugno 2012 quando - alla vigilia del Campionato di
Calcio in Polonia - la nazionale italiana al completo, guidata dal ct Cesare Prandelli, si recò prima volta in assoluto
in visita al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. A
raccontare ai campioni italiani - alcuni profondamente colpiti - le
storie e le tragedie della deportazione e dello sterminio tre ebrei
italiani sopravvissuti alla Shoah: Samuel Modiano, Piero Terracina
e Hanna Kugler Weiss.
Quella giornata - che colpì molto per l'impatto mediatico - si può
oggi rivedere e rivivere comprando fino a febbraio il dvd «I campioni ricordano» in edicola con il Corriere della Sera e la Gazzetta dello
Sport a 7,90 euro. Un’iniziativa benefica realizzata da Robert Hassan, con il sostegno della Comunità ebraica romana e del Maccabi.
Tradizioni ed usi per
le preghiere dei defunti
“N
el giardino dell’Eden… sarà il suo riposo”. Così
leggiamo con fiducia nell’Askavà e rispondiamo
ogni volta che sentiamo il nome di una persona
defunta nel corso dell’anno. Se queste parole esprimono consolazione e certezza nel mondo futuro, quali parole e quali
atti vanno eseguiti per garantire ai nostri cari quell’elevazione dell’
“anima” che desideriamo con le nostre preghiere?
Il volume “Le regole del lutto”, curato dal Rav Ariel Di Porto, risponde ai quesiti di natura tecnica relativa alla specifica situazione della
persona in lutto. Numerose sono le differenze scelte dai diversi riti
su questo aspetto della vita e della morte.
Rav Riccardo Di Segni ha pubblicato nella rivista Seridim (Vol. XXVI
della “Conferenza Rabbinica Europea”), un articolo in ebraico che
cercheremo di riassumere in queste righe.
Il Midrash commenta il verso in Deuteronomio 21,8 “Espia per il tuo
popolo d’Israele che hai riscattato”: l’espiazione riguarda i vivi,
mentre il riscatto riguarda i defunti per insegnarci che sono i vivi
con le loro preghiere ad espiare per coloro che sono trapassati
(Sifrè, Shofetim 67). Il Midrash Tanchumà afferma quindi che il
motivo per cui recitiamo le ‘ashkavot di shabbat è la possibilità di
non far tornare alla fine del sabato i malvagi nel luogo della punizione chiamato Gheinnom, letteralmente valle di Hinnom, sinonimo
di luogo oscuro e pericoloso. Da qui impariamo che i vivi possono
riscattare i defunti anche nel giorno del Kippur promettendo un’offerta in Zedaqà in loro memoria.
La recitazione del Qaddish per i primi undici mesi aiuta questo
processo, mentre dopo questo periodo potrebbe essere riesaminato
il caso della persona defunta a suo sfavore. Chiaramente prolungare le preghiere di suffragio provoca tristezza ed angoscia contraria
allo spirito del sabato e delle feste.
Rav Di Segni esamina nell’articolo le usanze dei tre riti. Per gli
Askenazim vi sono due formule di suffragio: ‘El Male Rachamim,
Signore pieno di Misericordia, recitata al funerale e con alcune limitazioni anche il Sabato precedente l’anniversario, mentre l’Izkor
viene recitato solo tre volte l’anno l’ultimo giorno di Mo’ed, se non
cade di Shabbat ed una quarta volta nel giorno di Kippur. E’ importante notare che la prima formulazione del testo ‘El Male Rachamim
la troviamo nell’opera Ma’avar haYabbok del rabbino italiano Aharon Berechià da Modena stampata a Mantova nel 1585. Una terza
formula askenazita è ‘Av haRachamim, Padre della Misericordia,
composta in memoria delle vittime delle Crociate e di tutte le persecuzioni.
Un cofanetto speciale, non solo per
le immagini e il contesto, o per le
musiche - quelle del Concerto per
violino e orchestra di Giovanni Allevi
- ma soprattutto perché con l'acquisto ognuno contribuisce, infatti, ai
progetti della Fondazione Museo
della Shoah Onlus.
“Si è trattato - ha spiegato Prandelli
- di una esperienza indimenticabile
che dovrebbero fare tutti. Soltanto così possiamo tenere vivo il
ricordo, per guardare e toccare con mano quello che è stato, che è
successo davvero, e quello che non deve essere mai più”.
Nel dvd, le imprese della Nazionale finalista all’Europeo si
intrecciano con i racconti e le emozioni provate dagli Azzurri
durante la visita ad Auschwitz e Birkenau o interviste esclusive
a Buffon, Chiellini, Balzaretti, De Rossi, Montolivo, Pirlo, De Sanctis, al Commissario Tecnico Cesare Prandelli e al presidente
federale Giancarlo Abete.
I Sefardim iniziano la Askavà, chiamata Menuchà, riposo, con la
formula Menuchà Nechonà un giusto riposo, differenziando il
testo tra uomini e donne ed aggiunte di numerosi versi per i Maestri. Si tratta di un testo molto lungo, criticato da Rabbi Izhaq
Luria, spesso sostituito da un testo più breve; molti lo leggono
dopo la lettura della Torà durante l’anno di lutto, addirittura per
ogni persona che sale alla lettura, sia per il merito dello studio o
della lettura, sia per l’offerta che viene stabilita. Presso i Sefardim
non c’è differenza tra Sabati segnalati, si legge sempre e comunque. Rav Isacco Lampronti limita la formula agli adulti, evitando
di recitarla per minorenni che non sono punibili per le loro trasgressioni. Risponde Daniel Terni che allora per questa ragione
non dovrebbe essere recitata per defunti minori di venti anni. Il
testo recitato per i bambini è estremamente breve.
Il rito italiano originale ha conservato la formula di un Izkor collettivo stampato nel machazor di Soncino del 1486, dopo il Misheberach per il pubblico e prima di Ashrè, come prescrive lo Shibbole’
haLeqet, perché il Sabato è un giorno di riposo simile ai giorni
futuri dove i morti non vengono giudicati.
Il Beth Iosef di R. Iosef Caro riporta questa spiegazione, e Isserless, citando la fonte, aggiunge che in ogni luogo si segue il rito
locale. Il mahazor di Bologna riporta una formula di Izkor solo per
l’ultimo giorno di Pesach, ritenuto generalmente il giorno della
Resurrezione dei morti a causa della Haftara’ di Ezechiele. Solamente dal Siddur di Panzieri del 1936 appare la Ashkava’ sefardita dicendo di averla tratta da Sha’ar haTeshuvà, stampato a
Venezia nel 1706.
Secondo tradizioni orali tramandate da chazanim si legge la Askava’ al funerale, durante il settimo, alla fine del trentesimo e dei
dodici mesi solamente se in quel giorno si recitano le formule
penitenziali del Tachanun, altrimenti si legge l’Izkor.
E’ lecito pensare che la askava’ italiana originale sia stato proprio
l’attuale Izkor, mentre il testo della Askava’ è penetrato per
influenza sefardita. Altrettanto per l’Izkor con l’elenco dei nomi
che si legge solo a Kippur, ma si omette nell’ultimo giorno festivo
dei tre pellegrinaggi. Ogni shabbat inoltre viene letto l’Izkor generale prima che rientri il Sefer Tora’ secondo la formula originale
del rito italiano. Inoltre chi viene chiamato alla lettura della Tora’,
sia di sabato che di giorni feriali viene invitato a ricordare i propri
cari nel Mishebberach, donando una somma in beneficenza in loro
suffragio, senza recitare però la ‘Askava’ come fanno i Sefardim
per i motivi già ricordati di evitare ulteriormente la fatica del pubblico e la tristezza nel giorno festivo.
La trasmissione dell'ebraismo passa attraverso le generazioni in
misura del nostro impegno a ricordare i nostri cari per assicurare
loro la VITA ETERNA.
Rav Umberto Piperno
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
Gli Azzurri ad Auschwitz:
un giorno speciale ora su dvd
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ROMA EBRAICA
Rav Vittorio Chaim Della Rocca
ha festeggiato gli ottanta anni
Maestro e chazzan del Tempio Maggiore,
rappresenta la storia
di una intera generazione
L
o scorso primo novembre Rav Vittorio Chaim Della
Rocca ha compiuto 80 anni. “Shalom” lo ha incontrato
per ascoltare i ricordi di una vita indissolubilmente legata ai tempi e ai modi della nostra comunità, allo stile
inconfondibile di una quotidianità che tuttora si dipana tra il
Portico d’Ottavia, Via Arenula, l’Isola e i Ponti Garibaldi e Quattro Capi, fino ai primi 500 metri di Viale Trastevere. L’invasione
dei turisti curiosi della genuina romanità jewish, la ritrovata
vitalità delle scuole, l’estendersi della passeggiata di Shabat fino
a Porta Portese e Viale Marconi non hanno neppure scalfito i
ritmi dei giorni, dei mesi, degli anni. La vita di Vittorio Della
Rocca è soprattutto la vita di un maestro di scuola ebraica, nel
senso più bello e più alto della prima esperienza nella quale si
formano i bambini delle elementari, poi continuata per gli studenti volenterosi dei primi corsi del Collegio Rabbinico, ragazze
e ragazzi pronti a scambiare qualche pomeriggio dell’adolescenza con l’avvicinamento alla tradizione e alla comprensione
approfondita dei testi. Ma per tutti noi quella del Morè Della
Rocca è comunque una delle voci più belle e più calde che hanno
arricchito le melodie delle Tefillot al Tempio Maggiore di Roma,
celebri ormai in tutto il mondo (non soltanto ebraico, si deve
aggiungere). Una voce legata ai momenti importanti della vita
(Bar Mizvà, Mishmarot, matrimoni) e della liturgia, dunque per
definizione voce dello Shabat di ogni settimana come delle grandi ricorrenze.
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
Quando un compleanno è importante, quando si vede un bel
traguardo raggiunto da un maestro che tutti conosciamo, lo
spazio dell’intervista sembra sempre troppo limitato. Dunque,
da dove si comincia?
Si può iniziare proprio dalla tevà del nostro Tempio Maggiore,
dal luogo nel quale non soltanto i più attenti e devoti, ma la
Comunità tutta idealmente si riunisce ogni giorno nei momenti
di preghiera per le Tefillòt. Tanti che ormai hanno anche loro
una certa età, come si dice a Roma, di sicuro mi hanno conosciuto da alunni nelle Scuole e al Collegio Rabbinico.
38
Certo, è proprio così. E soprattutto è bene raccontare che la
figura fisica corrisponde alla voce, insomma si notava già da
lontano l’abito scuro, impeccabile: una figura per così dire
“all’altezza”… Viene da pensare a quelle note, scure o squillanti che fossero, mai mancate da una voce inconfondibile delle
nostre sinagoghe storiche. Come partecipe e attivo protagonista della vita della Comunità, giudica che nel tempo sia cambiata l’identità dell’ebreo romano?
A Roma come in altre comunità, sono sempre più numerosi coloro che vogliono avvicinarsi allo studio e all’osservanza della
Torà. Ricordo quando nei miei primi anni di servizio mi recavo a
feste familiari, e appena finita la Mishmarà allietata da “pizza e
biscottini”, veniva riservato un tavolino al lato della sala con soli
panini ripieni di prodotti kasher, destinati all’unico che in quel
contesto mangiava secondo i dettami della kasherut , cioè il rabbino o l’ufficiante di turno. Simultaneamente tutti gli altri convitati iniziavano a consumare un pasto assortito di ogni prelibatezza non kasher. Una sera rimasi talmente infastidito da tale consuetudine che decisi di non prestarmi più a questo tipo di
pagliacciata. Pian piano anche con la complicità di altri colleghi,
e con l’approvazione del rabbino Toaff riuscimmo a diffondere la
kasherut in ogni festa familiare che avesse una valenza religiosa.
Senz’altro, si può affermare che abbiamo avuto un grande recupero di osservanza.
Cosa ha rappresentato la scuola ebraica negli anni sessanta ?
Si trattava di ricostruire una visione dell’identità ebraica a tutto
tondo. Dovevamo supplire a una carenza educativa di famiglie
che non avevano quella cultura da trasmettere ai figli. Dovevamo
riuscire a integrare ragazzi di ceti sociali differenti e anche integrare i ragazzi più “indigeni” con i profughi libici. E non era una
sfida facile. Si trattava di “formare” piuttosto che di “informare”.
Ricordo gli sforzi assieme al compianto Morè Moshè Sed z.l. e
assieme ad altri stimati colleghi, per istituire la tefillà nella scuola tutte le mattine e far capire ai ragazzi e alle loro famiglie
quanto fosse importante mettere i tefillin. Dobbiamo renderci
conto che erano abitudini abbastanza sconosciute agli ebrei
romani. È motivo di grande soddisfazione sentire ancora oggi
sulla bocca dei miei allievi, oggi diventati nonni, alcuni adagi
rabbinici che scrivevo alla lavagna per inculcare loro, con maggiore incisività, dei concetti fondamentali dell’identità ebraica.
Ci sono allievi che ancora oggi, durante le “vacanze invernali” si
ricordano quanto stigmatizzavo su quel verso della Torah che
dice: “velò telechu bechukkot agoi” (Vaikra, 20; 23 ) “…non
andate dietro ai costumi dei goim”, stimolandoli a non uniformarsi supinamente alle consuetudini dei festeggiamenti non
ebraici e lottare per mantenere la schiena dritta.
Forse abbiamo assistito ad un miracolo senza rendercene
conto. La tradizione, certo. Ma anche la nascita di una consapevolezza ebraica di tipo ideologico e politico. E poi il sionismo, non importa se laico, socialista o religioso. Dopo la
Seconda guerra mondiale la nostra comunità sembrava davvero devastata.
Sì, siamo riusciti a riprenderci, soprattutto grazie alla sicurezza
psicologica che ci aveva restituito la fondazione dello Stato di
Israele. E la libertà ritrovata dopo la sconfitta del fascismo. E poi
le nostre scuole, che sono state fondamentali per dare un po’ di
fiducia nel futuro. Persecuzioni e deportazione ci avevano messo
a terra. La gioia per essere scampati era offuscata dal dolore per
coloro che non c’erano più. Tanti, troppi sopravvivevano con
lavori occasionali, vivevano in case malsane, spesso non c’era
neppure cibo a sufficienza sulla tavola. Situazioni che si sperava
di non vedere di nuovo, come per qualcuno purtroppo sta accadendo. E voglio ricordare che tutto questo è stato possibile grazie alle quattro figure che hanno contraddistinto il rabbinato
italiano nel dopoguerra. Sa, la mia generazione rabbinica, composta da maestri che poi hanno guidato le comunità ebraiche
italiane nella seconda metà del Novecento, si è formata sotto la
guida di Rav Elio Toaff, Rav David Prato z.l. Rav Dario Disegni z.l.
e Rav Elia Samuele Artom z.l., autorevole biblista di fama mondiale; tutte personalità di alto spessore che al di là del loro
tempo hanno lasciato un’impronta indelebile nell’ebraismo ita-
liano. Abbiamo ereditato i loro insegnamenti in cui erano prioritari l’equilibrio e la cautela nella trasmissione della tradizione,
coniugati alla dignità e all’autorevolezza della figura rabbinica.
Oggi va detto che, purtroppo, alla disciplina, o meglio alla deontologia professionale, non viene data la giusta rilevanza.
Quando si festeggia il compleanno degli ottant’anni credo che
la memoria vada necessariamente agli anni bui, e soprattutto
ai nove terribili mesi dell’occupazione nazista di Roma, con i
solerti e volenterosi fiancheggiatori fascisti.
Sicuramente sì, ma nel 1944 ero ancora un bambino, e ricordo
soprattutto il sollievo della fine di un incubo che mi aveva fatto
crescere troppo presto. La mia era stata una famiglia benestante,
però le leggi razziali l’avevano messa in crisi, ovviamente. Mio
padre, Rubino Della Rocca z.l., lo presero i fascisti il 25 novembre
del 1943. Con lui un fratello, un nipote, e quattro padri di famiglia, in un magazzino a Piazza Benedetto Cairoli. Ne parla dettagliatamente il professor Amedeo Osti Guerrazzi nell’ottima
ricostruzione “ Caino a Roma” . Quelli che lo presero furono
individuati e processati. Della famiglia di mamma, Elisabetta
Moscato z.l., molti, tanti, non c’erano più… Furono 24 persone.
“Le scuole ebraiche
hanno costi alti”
Il presidente della Comunità annuncia:
“E’ allo studio una convenzione con il Miur”
L
e scuole ebraiche in Italia hanno “costi alti”, devono
diventare “più concorrenziali”: senza l'aiuto pubblico “i
loro costi si riversano interamente sulle comunità e sui
genitori. Occorre invece creare un meccanismo per cui lo
Stato paga gli insegnanti delle materie curriculari e le comunità,
assieme alle famiglie, gli insegnanti di cultura e religione ebraica”. Lo ha affermato il presidente della comunità ebraica di
Roma, Riccardo Pacifici.
“Su questo tema - ha spiegato Pacifici, a margine di un incontro
sul dialogo interreligioso tenutosi a Montecitorio - è già aperto un
tavolo al Ministero dell'Istruzione: è allo studio una convenzione
Il resto immagino sia la storia di un ragazzino che dovette
crescere velocemente e cercarsi un lavoro molto presto.
Proprio così. Il 21 novembre del ’46 cantai l’Arvìt del mio
Bar-Mizvà. Il Rabbino Capo di allora, il grande David Prato z.l. si
accorse che avevo una bella voce. Passò un po’ di tempo, e il
Maestro Eliseo z.l. soffriva di una infiammazione alle corde vocali. Mi fu chiesto dal Moreno (Rabbino Capo, ndr), Rav Prato z.l,
per la prima sera di Chanukkà di recitare la preghiera per sostituirlo. Ero emozionatissimo. “Vatti a comprare un vestito nuovo,
con i pantaloni lunghi.”, mi disse. Ero diventato un allievo chazzàn. Al pomeriggio lavoravo nel negozio di un amico di mio
padre mentre al mattino continuavo a studiare al Collegio rabbinico. E anche il sabato… Mi vide Rav Prato, chiamò me e mia
madre. “Chi è al servizio del Bet ha-Keneset non lavora di Shabat”. Mi fece avere una borsa di studio, e così intrapresi, sotto la
sua paterna guida, la strada del rabbinato.
Cosa si aspetta dal futuro ?
Dicono i Pirqé Avot, le Massime dei Padri, che gli ottanta anni
sono il periodo della “forza”. Spero di riuscire a infondere ancora
tanta forza a questa mia amata kehillà.
A cura di Piero Di Nepi
che possa dare attuazione alla nostra richiesta. Sono fiducioso”.
Le scuole ebraiche in Italia sono quattro e si trovano a Roma,
Milano (dall'asilo alla scuola superiore), Torino (fino alla scuola
media) e Trieste (solo elementare)'. A sceglierle sono “il 75% dei
bambini ebrei in età di scuola elementare, il 60% di quelli in età
di scuola media e il 30-40% di quelli in età di scuola superiore”.
“Attualmente riceviamo dallo Stato solo un piccolo contributo per
le scuole elementari - ha aggiunto Pacifici - gli altri ordini sono
completamente a carico di famiglie e comunità . Occorre un'inversione di tendenza, per garantire anche la sopravvivenza della
nostra identità”.
Durante l'incontro Pacifici ha sottolineato come nelle scuole
italiane non si “dia tanta importanza all'identità cattolica, perché l'insegnamento della religione si limita a una sola ora a
settimana. Nella scuola ebraica invece su 40 ore curriculari, 10
sono dedicate all'educazione ebraica. Se non si costruisce una
propria identità forte - ha concluso - la prima reazione che si ha
verso l'altro è la paura”.
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
Come vi siete salvati?
Il 16 ottobre ospitavamo in casa un parente stretto, Augusto
Terracina con la sua famiglia, avevano lasciato casa loro. Arrivano i tedeschi, bussano col calcio dei fucili, entrano. “E’ qui Rubino Della Rocca?”. “No, io sono Augusto Terracina”. Disorientati
perché il nome non corrisponde sulla lista e la precisione germanica non consente simili errori, scendono giù per controlli. E noi
scappiamo tutti. Per i mesi successivi, dobbiamo ringraziare le
suore del Convento di Santa Rufina in Via della Renella. E tutti
quelli che in modo o nell’altro ci aiutarono. Mio padre non aveva
potuto stare con noi dalle suore, naturalmente, e credo cercasse
di continuare a lavorare. Dopo l’arresto lo portarono prima a
Palazzo Braschi, la sede dei fascisti, e poi fu rinchiuso nel terzo
braccio del carcere di Regina Coeli, fino alla seconda metà di
febbraio 1944. Era forte e robusto, da deportato finì tra i prigionieri scelti per lavorare. Morì durante la marcia della morte verso
Bergen Belsen. Non ce la faceva, per il freddo e per la fame. Alla
quarta o quinta volta che cadeva nella neve, lo uccisero con una
raffica di mitra. So che accadde il 25 febbraio 1945. Ma ricordo
benissimo l’ultima volta che lo vidi. Mia madre aveva chiesto alla
ragazza che ci dava una mano, Silvia, era sarda, di correre a
Palazzo Braschi. Andai con lei. Arrivammo trafelati, proprio mentre sopraggiungeva un taxi a 8 posti con gli arrestati. Papà si
accorse di me, si sporse dal finestrino…. “devi dire a mamma che
i mangkoddi (il denaro, ndr) sono riuscito a portarli con me…”.
Per fortuna nessuno badò a noi.
39
ROMA EBRAICA
U
Il Bnei Berith presenta
le start-up al Liceo Levi
na nuova iniziativa del Bnei Berith Roma rivolta alla
diffusione tra i giovani della cultura delle “start-up”
si è svolta il 10 Gennaio, in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche Educative della CER. I saluti
dell’Assessore Ruth Dureghello e di Sandro di Castro, presidente del Bnei Berit Roma, hanno dato inizio all’iniziativa intitolata
“Il miglior modo per realizzare i propri sogni è svegliarsi”.
Gli studenti del 4° e 5° liceo, raccolti nell’aula magna del Liceo
Renzo Levi, hanno ascoltato con grande attenzione la relazione
dell’Ing. Augusto Coppola, investitore nel settore delle “startup” e direttore operativo di “Luiss Enlabs”, l’acceleratore
d’impresa partecipato dalla Luiss. L’esposizione dinamica,
quasi incalzante, ha suscitato interesse e curiosità negli studenti. Numerose le domande dei ragazzi, in particolare sulle
possibilità di partecipare ad iniziative pratiche ed a corsi sulle
“start-up”. Uno di loro ha così commentato l’incontro: “Evento
impressionante, studio in questa scuola da sempre e non ho
mai visto la platea così ipnotizzata”.
Seppur molto soddisfatti, non ci fermiamo qui. Stiamo già programmando con l’Assessore Ruth Dureghello, e con il Preside,
Benedetto Carucci, le prossime attività. L’obiettivo, in parte già
riuscito, è quello di mettere in contatto i giovani con realtà dinamiche che consentano di sviluppare il proprio talento imprenditoriale e lavorativo, mettendo a frutto quanto appreso a scuola.
Un contributo a “svegliarsi” per realizzare i propri sogni.
Mario Venezia
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
La lotta al cybercrime riparte
dalla scuola ebraica
40
“Navigare sicuri” questo è il tema della lezione promossa lo scorso
gennaio da Ruth Dureghello, assessore alle Scuole della Comunità
Ebraica di Roma in collaborazione con la Polizia Postale. L’incontro
è parte integrante del ciclo annuale di lezioni sulla sicurezza con le
forze dell’ordine.
Grazie al coordinamento di Gianni Zarfati, capo della sicurezza
delle Comunità Ebraiche Italiane e alla disponibilità del preside e
del corpo docente, gli studenti della seconda media della scuola
Angelo Sacerdoti hanno partecipato ad un’attività sui pericoli che
oggigiorno caratterizzano il mondo del web.
Il sostituto commissario della polizia di stato Roberto Giuli ha illustrato agli attenti internauti i rischi che comporta navigare su internet. Le tematiche affrontate sono numerose, dalle regole del web
alla sicurezza e all’imprudenza sui social network. “Per navigare su
internet bisogna non solo capire cosa si sta facendo ma anche rendersi conto degli effetti sugli altri utenti”, ha spiegato il commissario. “Mai fornire notizie personali sul web”, ha ammonito i ragazzi.
Il furto di identità e soprattutto il furto della password dell’email o
dei social network sono un pericolo costante. Solo in Italia i danni
per tale furto equivalgono a 3mld di dollari.
Giuli ha illustrato quindi i metodi più efficaci per proteggere la
propria privacy e tra gli sguardi curiosi dei ragazzi ha raccontato
come sfruttare al meglio il wifi e preservare “l’incolumità informatica”. Così come non si permette ad un estraneo di entrare in casa
propria, altrettanto bisogna proteggere la propria privacy sul web,
chiudendo quella finestra che permetterebbe agli estranei di ottenere informazioni riguardo la propria vita attraverso email fasulle,
le cosiddette “fishing”, per ottenere dati personali e accedere ad
informazioni riservate. La password, come la chiave della propria
casa, deve essere efficace e proteggere la propria persona. Del
resto la sicurezza è fondamentale non solo nella vita reale ma anche
nel mondo digitale.
Federica Manasse
L
Torah.it, la preghiera
a portata di click
a società cambia e con essa anche lo studio della Torah per
gli adulti, ma soprattutto per i giovani. Purtroppo non tutti
hanno la possibilità di andare a pregare o a studiare in un
luogo di culto “fisico”. Le motivazioni sono tante. Nel 1997,
direttamente da Gerusalemme, nasce l'idea di creare un portale
dedicato allo studio della Torah e dell'ebraismo: Torah.it. Il sito,
ovviamente in lingua italiana, contiene migliaia di risorse aperte al
pubblico e completamente gratuite: la possibilità di imparare la
lingua ebraica attraverso un corso online scaricabile con file in pdf,
audio e dizionari; lo studio delle parashot settimanali; lo studio del
Talmud; la lettura dei testi del Tannach, dei commenti e delle lezioni sulla Torah, delle tefillot e dei siddurim e tanto altro attraverso
degli e-book; la consultazione del lunario e degli orari di entrata ed
uscita di Shabbat; lo studio per prepararsi all'esame del Bar Mitzva
(e al Bar Mitzva stesso); la spiegazione di ogni festività ebraica.
Infine, contiene tutte le preghiere, come la Birchat HaMazon, in
ebraico e traslitterata, da poter scaricare con un semplice click.
Per chi, invece, vorrebbe portarla sempre con sé... Non ci sono problemi, è possibile importare tutti i materiali desiderati sul proprio
smartphone. Tutto ciò è stato creato per venire incontro alle esigenze di ogni ebreo, e non solo. E' una porta sul mondo dell'ebraismo,
accessibile anche a tutte quelle persone di diversa fede che vogliono saperne di più.
Abbiamo intervistato Jonathan Pacifici, fondatore del sito, insieme
al padre. «Torah.it parte con la mia Alyah. Arrivato in Israele mandavo un email di Shabbat Shalom ai miei amici. Piano piano ho iniziato a inserire qualche cosa sulla Parashat Hashavua. Poi abbiamo
fatto il sito e messo online il materiale che amici e parenti richiedevano come libretti, hagada, mishmara, etc .- ha spiegato – Abbiamo
sempre cercato di raccogliere e rendere disponibile quanto più
materiale. L'audio lo abbiamo integrato dopo con l'idea di aiutare le
persone a prepararsi per cantare un haftarà, tefillà o il seder... Chiaramente non è inteso per un uso di Shabbat!» Quando abbiamo
chiesto se in qualche modo, questo progetto, ha aiutato chi non
poteva venire fisicamente al tempio, ci ha risposto così: «Una volta
un ragazzo che fa il ricordaro mi ha detto: “non sai che soddisfazione leggermi il commento sulla parashà della settimana direttamente da piazza S. Pietro”».
Per ulteriori informazioni potete consultare: www.torah.it
Miriam Spizzichino
I
Lo Shabbat 2.0!
social network sono ormai molto diffusi e in Italia raggiungono
livelli record. Secondo LiveXTansion l'indice di utilizzo è del
75% mentre negli Stati Uniti è del 72%. Viviamo in un mondo
che cavalca l'onda dei Social Network e con esso cambiano
tutte le pratiche sociali che nel tempo si sono consolidate, anche a
livello religioso. Anche lo shabbat ha cambiato forma. Se vent'anni
fa, quando mancava poco all'accensione delle candele, tutte le
donne di casa erano occupate a preparare le ultime cose, oggi, le
nostre mamme "2.0", si divertono a postare foto di Challot, candele
e cibo. Tanto cibo. Il primo scattato con i filtri di instagram, il secondo con l'hashtag #foodporn e il dessert con tanto di ricetta. Facebook diventa così una bacheca in cui il pasto migliore potrebbe diventare un auto-invito a cena perché, detto tra noi, ci sono immagini
che fanno venire fame anche alle 16 del pomeriggio.
Vivere lo Shabbat su Facebook, però, al di là di tutto, avvicina le
persone verso un qualcosa che in molti hanno dimenticato: la
magia del venerdì sera. Un venerdì fatto di luce e preghiera. Chissà, magari nel futuro potremmo materializzare magicamente i
pasti che ci piacciono di più, oppure accendere virtualmente, tutti
insieme, le candele di uno shabbat 2.0!
M.S.
Il cocciaro del papa
Libro di David Limentani sulla storia
della sua famiglia
A Milano la prima cucina
sociale kosher d'Italia
È una iniziativa del movimento ortodosso Lubavitch
È
Prof. Silvestro Lucchese
Chirurgo specialista
CHIRURGIA ANO-RETTALE • CHIRURGIA DELLE ERNIE IN DAY HOSPITAL
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FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
D
avid Limentani va fiero di essere stato il tramite tra il
papa Giovanni Paolo II e Rav Elio Toaff nell’organizzare
quello che sarebbe stato ricordato da tutti come un
incontro storico: dopo circa 2000 anni, nel 1986, per la
prima volta un papa visitava ufficialmente una sinagoga. Con
questo episodio, infatti, apre il suo libro, “Il cocciaro del papa.
Storia di una famiglia di mercanti ebrei”, edito da Giubilei Regnani a cura di Laura Costantini. Ma la storia della famiglia Limentani
va ben più indietro del 1986.
Dopo un’introduzione con cui David si immagina partecipare alle
fasi storiche che hanno vissuto i suoi antenati e che serve ad
introdurre il lettore meno esperto nella lunga storia del popolo
ebraico, il testo affronta la storia di Leone Limentani, vissuto nel
XIX secolo che, grazie ad un debito con un marchese, riuscì ad
avere i suoi bicchieri “fallati” e ad
aprire una bottega che portò poi la
famiglia a diventare i fornitori di
servizi per papi, re e presidenti. Le
vicende della famiglia Limentani
passano attraverso la tragedia
della Shoah, la rinascita del dopoguerra ed il rapporto con Toaff,
Rabbino capo di Roma dal 1951 al
2001. Il libro è stato presentato
presso la Galleria Tedeschi a
Roma. Il giornalista Valerio Monaco ha ricordato l’impegno con cui
ha spinto David Limentani a scrivere il suo libro di memorie, Laura
Costantini ha tessuto le lodi del
testo, mentre Claudio Procaccia, Direttore del Dipartimento Beni
e Attività Culturali della Comunità ebraica di Roma, ha fornito al
folto pubblico un’introduzione storica, contestualizzando le
vicende della famiglia Limentani dal ghetto, aperto definitivamente nel 1870, attraverso l’emancipazione, la prima e la seconda guerra mondiale, il boom economico fino ad arrivare a
quell’incontro tra papa e capo rabbino di Roma che tanto è stato
importante nel dialogo ebraico-cristiano.
Il libro di Limentani è sicuramente un importante contributo alla
salvaguardia delle memorie familiari: microstorie che arricchiscono e concorrono a delineare in modo più nitido la storia del
nostro paese.
Silvia Haia Antonucci
nata a Milano la prima cucina sociale kosher italiana, promossa da Merkos, ramo educativo del movimento Lubavitch, a sostegno dei più bisognosi e di coloro che vivono in
difficoltà economiche. La cucina sociale nasce con l'obiettivo di fornire gratuitamente a chiunque lo necessiti pasti da asporto preparati secondo le regole della kasherut, la dieta alimentare
ebraica, che distingue tra animali permessi e vietati e che applica
una divisione tra gli alimenti di ‘latte’ e quelli di ‘carne’.
Dopo l’esperienze già avviate in Brasile, Australia e Israele (dove la
prima cucina sociale venne aperta dal movimento Lubavitch addirittura nel 1700), la cucina sociale kosher ha sede negli spazi della
scuola Merkos di Milano ed è stata realizzata con il sostegno di Enel
Cuore, onlus che opera anche nell'ambito dell'assistenza sociale.
“L'apertura di una Cucina Sociale kosher a Milano, capitale italiana
del volontariato, si inserisce perfettamente nel tessuto sociale e
culturale di questa città tollerante, aperta, multietnica e multiculturale”, commenta Rav Igal Hazan, direttore della Scuola di Merkos.
“Da sempre operiamo in un'ottica di collaborazione e costante dialogo con il territorio e questa iniziativa, aperta a tutta la cittadinanza, risponde ad un'urgente esigenza sociale dovuta alla pesante
congiuntura economica”. Grazie ad una rete di volontari i pasti
potranno essere ritirati presso la Scuola Merkos o distribuiti al
domicilio di coloro che si trovano in forti condizioni di disagio.
41
DOVE E QUANDO
FEBBRAIO
16
17
17.00 Centro Le Palme
Pomeriggio di cabaret:
Provaci ancora… Palme!
DOMENICA
-------------------------------------------------
10.30 Adei Wizo
Palazzo Cipolla, Via del Corso, 320
L U N E D I “Modigliani, Soutine e gli artisti
maledetti” - Visita guidata
alla mostra con Sara Procaccia
Info e prenotazioni in sede
20.00 Tempio dei Giovani
20
23
GIOVEDI
Isola Tiberina
Ciclo di incontri di etica medica
ebraica: Problematiche sull’inizio
vita: contraccezione, fecondazione
artificiale, cellule staminali, aborto
(limiti e divieti) con Rav Riccardo
Di Segni
------------------------------------------------Giochi di società:
Divertiamoci giocando
-------------------------------------------------
10.30/14.30 Il PitigLiani
20.00 Tempio dei Giovani
Ciclo di incontri di etica medica
L U N E D I ebraica: Problemi sulla fine vita:
informare il paziente e i parenti,
trattamento dei malati terminali,
eutanasia con Dott. Cesare Efrati
-------------------------------------------------
25
19.30 Adei Wizo
Lezione di cucina:
M A R T E D I I dolci parve per lo shabat
-------------------------------------------------
10.00 Adei Wizo
Incontro di Torà
MERCOLEDI con Rav Vittorio Della Rocca
-------------------------------------------------
11.00 Il PitigLiani
Le domeniche del Pitigliani: Tra
DOMENICA miti e realtà… cose che avreste
sempre voluto sapere di ebrei ed
ebraismo, con Claudio Rendina Li
ggiudii nella Roma del Belli dal
Cacamme a Baruccabbà
11.00 Diploma Universitario
Triennale in Cultura Ebraica - UCEI
03
Centro Bibliografico Tullia Zevi
Lezione del Dr Cesare Efrati
Bioetica di inizio vita,
introduzione
Corso di Etica Medica Ebraica
-------------------------------------------------
20.00 Tempio dei Giovani
Isola Tiberina
L U N E D I Ciclo di incontri di etica medica
09
ebraica: Trapianti di organi e
testamento biologico
con Rav Gianfranco Di Segni
-------------------------------------------------
11.00 Diploma Universitario
Triennale in Cultura Ebraica - UCEI
DOMENICA Centro Bibliografico Tullia Zevi
Lezione del Dr Cesare Efrati
Bioetica di inizio vita, II
Corso di Etica Medica Ebraica
13.00 Centro Le Palme
Tutti a tavola! Pranzo al Centro Le Palme
-------------------------------------------------
> A CURA DEL CENTRO DI CULTURA EBRAICA <
APPUNTAMENTI
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
CENTRO DI CULTURA EBRAICA
42
Domenica 30 marzo ore 18.00
Jewish Community Center,
via Cesare Balbo, 33
Il violinista sul Tevere concerto spettacolo dell’Orchestra Popolare Romana
Ingresso libero fino ad esaurimento posti
Info: 06 589 75 89 [email protected] www.culturaebraica.roma.it
IL PITIGLIANI
Gruppo Ghimel: tutti i giovedì alle 16.30
Programmi educativi
Domeniche di ebraismo: continuano gli
imperdibili incontri di attività e giochi per
delineare e rafforzare la nostra identità
ebraica e imparare l’ebraico!
Prossimi incontri: 23 febbraio e 9 marzo
dalle 10.00 alle 15.30, pranzo incluso.
Info e prenotazioni: [email protected] Roberta 3395641847
065800539 - 065897756 (Giorgia)
Chabad Lubavitch Roma presenta
PURIM IN PIAZZA
domenica 16 marzo dalle ore 10.30 alle 13.30
festa per tutta la famiglia - per informazioni tel. 06.86324176
20.00 Tempio dei Giovani
Isola Tiberina
L U N E D I Ciclo di incontri di etica medica
In cucina con Giuliana Astrologo:
MARZO
02
10
16.30 Centro Le Palme
G I O V E D I Le orecchie di Amman
17.00 Centro Le Palme
Seminario pratico di Metodo
DOMENICA FELDENKRAIS®: L’uso
degli occhi e del corpo
in movimento con Irene Habib
-------------------------------------------------
24
26
27
12
13
ebraica: Malattia e pericolo di vita
di shabat come comportarsi con
Rav Benedetto Carucci
-------------------------------------------------
17.00 Centro Le Palme
Parliamo della festa di Purim
MERCOLEDI con Rav Vittorio Della Rocca
-------------------------------------------------
20.30 Il PitigLiani
Incontro con il Talmud
G I O V E D I e i suoi maestri
con Rav Benedetto Carucci Viterbi
-------------------------------------------------
15
19.30 Il PitigLiani
Il nostro purim
S A B A T O Ore 19.30 speciale lettura della
meghillà dalle donne per le
donne a cura di Sira Fatucci e
lettura tradizionale a cura di
Davide Limentani.
Ore 20.30 LE MILLE E UNA
FESTA: Purim con odalische,
sceicchi e beduini tra le dune del
Pitigliani. Special Guest: Livio
Anticoli. Musica dal vivo. Cena
orientale sotto la nostra tenda e
premio per la miglior maschera.
Per i bambini: animazione, giochi,
spettacoli, sfilata delle maschere
e cena. Info e prevendite
065897756 (Diletta e Giorgia)
Ore 21.00 purimusical festa over
16 Dj set, cena, open bar.
Ingresso via dei Salumi.
Info 065898061 (Federica)
SHABAT SHALOM
Parashà: Vaiakel
Venerdì 21 FEBBRAIO
Nerot Shabath: h. 17:32
Sabato 22 FEBBRAIO
Mozè Shabath: h. 18:36
--------------------------------------------------Parashà: Pekudè
Venerdì 28 FEBBRAIO
Nerot Shabath: h. 17.41
Sabato 1 MARZO
Mozè Shabath: h. 18.45
--------------------------------------------------Parashà: Vaikrà
Venerdì 7 MARZO
Nerot Shabath: h. 17.49
Sabato 8 MARZO
Mozè Shabath: h. 18.53
--------------------------------------------------Parashà: Tzav
Venerdì 14 MARZO
Nerot Shabath: h. 17.57
Sabato 15 MARZO
Mozè Shabath: h. 19.01
NASCITE
BAR-BAT MIZVÀ
Nathan Ascarelli di Daniele e Valentina Armetta
Elior Sed di Angelo e Ilaria Calò
Sara Funaro di Angelo e Alessia Anticoli
Andrea, David Zarfati di Marco e Simona Campagnano
Avner Fabio Efrati di Alessandro e Ilenia Limentani
Benedetta, Mevorechet Sassun di Dan e Sara Moscati
Daniel Caivano di Gavriel e Chiara Spizzichino
Noemi, Linda Molayem di Iakov e Miriam Garcea
Maayan Caviglia di David e Jenny Guetta
Ruben, Leon Piperno di Alberto e Silvia Mazouz
Moise Di Veroli di David e Flaminia Hannuna
Elena Leonardi di Marco e Esther Livoli
Leonardo Attia di Gian Morris e Vanessa Jacorossi
David Bondì di Marco e Roberta Pavoncello
Benjamin Pontecorvo di Armando e Shirly Tamman
Camilla Pontecorvo di Armando e Shirly Tamman
Vittorio Sermoneta di Fabio e Debora Vivanti
Sarah Tocci di Paolo e Simona Di Porto
PARTECIPAZIONI
BIRCHONIM
LIBRETTI
Mazal Tov
LITOS
ROMA
AUGURI
Isac Halfon – Ester Joelle Sasson
Il 31 dicembre Or Feldman, dopo dodici anni di lavoro in Italia,
di cui gli ultimi sette nell’ufficio relazioni esterne della Comunità
ebraica, è tornata a vivere in Israele. Una decisione sofferta ma
presa con grande responsabilità. A salutarla, in una serata all’insegna dei suoi colori preferiti, moltissimi amici ebrei e non ebrei.
Tra baci e qualche lacrima di commozione, la promessa di rivederci. In bocca al lupo. Ciao Or.
Ciclo di incontri di
etica medica ebraica
a cura di Rav Roberto Della Rocca e di Fabio Gaj
PROGRAMMA INCONTRI
Gli incontri avranno inizio alle ore 20.00
presso i Locali del Tempio dei Giovani (Isola Tiberina)
Il ciclo di incontri verrà introdotto
da Rav Riccardo Di Segni e Prof Eugenio Gaudio
· 3
Febbraio 2014 : Etica ebraica e medicina “il valore della vita
nella tradizione ebraica: la vita è sempre un valore assoluto ?”
Rav Roberto Della Rocca
· 10 Febbraio 2014 : Il precetto di visitare i malati e di assisterli
(le preghiere per i malati)
Rav Roberto Colombo
· 17 Febbraio 2014 : Problematiche sull’inizio vita: contraccezione, fecondazione artificiale, cellule staminali, aborto (limiti
e divieti).
Rav Riccardo Di Segni · 24 Febbraio 2014 : Problemi sulla fine vita: informare il paziente e i parenti, trattamento dei malati terminali, eutanasia.
Dott. Cesare Efrati
· 3 Marzo 2014 : Trapianti di organi e testamento biologico.
Rav Gianfranco Di Segni
· 10 Marzo 2014 : Malattia e pericolo di vita di shabat come comportarsi.
Rav Benedetto Carucci
· 17 Marzo 2014 : Medicine e kasherut.
Rav Ariel Di Porto
· 24 Marzo 2014 : L’etica medica durante la Shoah.
Amedeo Spagnoletto
· 31 Marzo 2014 : Psichiatria e etica medica.
Prof. Gavriel Levi
· 7 Aprile 2014 : Stato, comunità e diritti del malato.
Rav Umberto Piperno
È nato Nathan Ascarelli. I migliori auguri ai genitori Daniele
Ascarelli e Valentina Armetta, alle famiglie, in particolare al
nonno Gianni Ascarelli, assessore della CER.
Mazal tov a Angelo Sed, assessore della CER, e a Ilaria Calò per
la nascita di Elior.
Vivissimi auguri a Dan Sassun e Sara Moscati per la nascita di
Benedetta. Auguri alle famiglie e in particolare al nonno
Claudio Moscati, assessore della CER.
È nata Noemi Molayem. I migliori auguri ai genitori Iakov
Molayem e Miriam Garcea, segretaria dell’Ufficio Rabbinico
della CER.
Lo scorso 12 gennaio a Firenze l’Assemblea rabbinica ha provveduto ad eleggere il nuovo Consiglio, così formato: Alfonso
Arbib, Riccardo Di Segni, Alberto Funaro (primo degli eletti),
Adolfo Locci e Giuseppe Momigliano. A tutti i rabbanim
auguri di buon lavoro.
Lo scorso 9 gennaio è prematuramente scomparsa dopo una breve
malattia Patrizia Benfenati. La direzione esprime a rav Mino
Bahbout le più sincere condoglianze.
Lo scorso shabbat 2 novembre ad Herzlya è scomparsa
Fiorella Di Tivoli Calò.
Pur abitando da anni in Israele, Roma gli era rimasta nel cuore,
tanto da spingerla a scivere “La mia Piazza. Raccolta di proverbi,
soprannomi e ricordi’. A Edna, collaboratrice di Shalom e ai suoi
fratelli Franco e Susanna, le condoglianze della direzione.
CI HANNO LASCIATO
Patrizia Benfenati in Bahbout 29/08/1959 - 09/01/2014
Bruno Funaro 09/07/1930 – 24/12/2013
Rubina Glam in Spagnoletto 02/05/1960 – 19/12/2013
Italia Lanternari ved. Citoni 20/09/1924 – 22/12/2013
Lidia Paggi 27/12/1914 – 10/01/2014
Samuele Piazza 25/09/1925 – 13/01/2014
Giuliana Piperno in Moreschi 11/09/1951 – 31/12/2013
Massimo Tagliacozzo 19/05/1940 – 24/12/2013
Giulia Terracina ved. Di Porto 11/09/1932 – 06/01/2014
Angelo Veneziano 17/04/1924 – 13/01/2014
IFI
00153 ROMA - VIA ROMA LIBERA, 12 A
TEL. 06 58.10.000 FAX 06 58.36.38.55
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
MATRIMONI
43
ROMA EBRAICA
Ciclo di incontri di etica medica
ebraica all’Isola Tiberina
“L
’etica medica è uno dei temi più dibattuti nella
società civile ed è uno dei punti principali della
tradizione ebraica antica”, ha affermato Rav
Roberto Della Rocca che, insieme al dottor Fabio
Gaj, ha organizzato a Roma il ciclo di incontri di etica ebraica che
nel mese di febbraio si svolgerà tutti i lunedì alle ore 20 presso i
locali del Tempio dei Giovani sull’Isola Tiberina.
Il valore della vita e l’assistenza ai malati, l’inizio e la fine dell’esistenza, i trapianti, l’osservanza dello Shabbat nella malattia, il
rapporto tra medicine e le regole alimentari ebraiche, l’etica
medica durante la Shoah, la psichiatria e l’etica ed i diritti del
malato sono gli argomenti affrontati durante il corso. Rabbini,
medici e psicologi illustreranno al pubblico la posizione della
tradizione ebraica rispetto a questi temi importanti. Medicina e
biologia sollevano problemi morali ed etici ai quali l’uomo cerca
di dare una risposta; il rispetto della vita in generale è uno dei
capisaldi della tradizione ebraica che da sempre è impegnata a
trovare soluzioni pratiche ai problemi teorici: lo stesso tema di
cui si occupa la bioetica, la nuova disciplina accademica che,
coinvolgendo esperti di filosofia, religione, medicina, diritto,
psicologia e scienza, cerca di fornire risposte agli interrogativi
etici. “La natura è, secondo la Torà, al servizio dell’uomo il quale,
però, deve rispettarla - ha affermato Rav Della Rocca - vi devono
essere dei confini da non travalicare”.
Il Dec ha già curato in Italia altre conferenze su questo tema e
l’incontro con il dr. Gaj ha permesso l’organizzazione a Roma di
un ciclo articolato che si preannuncia sicuramente interessante
ed importante per tutti coloro che vogliono conoscere la posizione della tradizione ebraica su temi che ci riguardano tutti.
L’iniziativa è organizzata Dipartimento Educazione e Cultura
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane insieme al Maghen
David Adom (il corrispondente israeliano della Croce Rossa),
all’Ospedale Israelitico, all’Associazione Medica Ebraica, al
Gruppo Ebraico Donatori, al Centro di Cultura Ebraica, alla Fondazione Museo della Shoah di Roma ed all’Associazione Medici
per il ricordo della Shoah.
Silvia Haia Antonucci
Unione Europea:
antisemitismo in aumento
per il 76% degli ebrei
Italia meglio di altri Paesi
C’
è tuttora un problema antisemitismo in Europa, e il
suo livello, secondo il 76% di cittadini europei di
origine ebraica, è aumentato in questi ultimi
cinque anni. È quanto emerge da un’indagine
condotta dall’Agenzia Ue per i diritti fondamentali (FRA) tra le
comunità ebraiche in otto stati membri, tra cui l’Italia (oltre a
Francia, Belgio, Gran Bretagna, Germania, Ungheria, Lettonia e
Svezia).
L’Italia (68%) è tra i paesi in cui, insieme a Germania (anche
68%), Gran Bretagna (65%) e Lettonia (39%), appare comunque
minore la percezione che il problema si sia aggravato.
In generale è in aumento la paura tra i membri delle comunità
ebraiche europee di poter essere vittima di attacchi o violenze
fisiche nei prossimi 12 mesi: in media è preoccupato il 33%, con
i picchi più alti in Francia (60%) e Belgio (54%), mentre si
sentono meno a rischio gli ebrei in Italia (22%), Svezia (18%) e
Regno Unito (17%). In posizione intermedia la Germania (34%).
Quasi un ebreo su due (46%) pensa che potrà essere vittima di
un insulto verbale, mentre per il 59% vi è anche un problema di
antisemitismo nei media. A giocare un ruolo pesante sulla
sensazione di sicurezza delle comunità ebraiche nei paesi Ue è
anche l’andamento del conflitto israelo-palestinese, che ha un
impatto per il 68% degli intervistati che sale al 93% in Belgio, al
90% in Francia e al 74% in Italia. Al punto che il 91% degli ebrei
in Italia (record il Belgio con il 93%, poi Francia 87%), e in media
l’80% di tutti gli intervistati, si sente accusato dai connazionali
per quanto fa il governo d’Israele.
“L’antisemitismo è tuttora una dura realtà in Europa”, ha
denunciato il direttore dell’Agenzia per i diritti fondamentali
Morten Kjaerum, “in parte è rumoroso e violento, ma è spesso
più sottile e accettato quietamente”. Per questo, ha avvertito,
“per andare avanti bisogna affrontare i pregiudizi antisemiti nel
modo più fermo e a ogni livello della società”.
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LETTERE AL DIRETTORE
Un dolore
Desidero esprimere il mio dolore per l’oltraggio alla Comunità
ebraica di Roma. Un forte shalom.
Rosa Maria Perrera
Solidarietà
Egr. Direttore,
a nome mio personale e di tutto l’Ufficio storico desidero formulare la mia piena solidarietà alla comunità ebraica che è stata così
vilmente oltraggiata nel giorno in cui si ricordano le vittime del
nazismo.
Col. Antonino Zarcone
Vi chiedo scusa
Tenevo a inviare le mie scuse come cittadina italiana. Non sono
ebrea, ma vi ho sempre considerato, per usare una frase cara al
papa Giovanni Paolo II, i miei fratelli maggiori, perché i vostri
testi biblici fanno parte anche della mia religione. Ai miei figli e
ai miei alunni ho sempre illustrato il genocidio perpetrato nei
lager e la giornata della memoria, così vicina, è sempre nella mia
mente e nel mio cuore.
Ho potuto visitare solo Dachau, ma sentivo di dover visitare uno dei
luoghi dell’orrore, anche se avrei voluto ancor più recarmi ad
Auschwitz-Birkenau, Bergen Belsen, Mauthausen, dove l’abominio
è arrivato ai massimi livelli, per meditare sul mio orrore e pregare il
Signore per chi si è perduto in quei luoghi.
Vi chiedo scusa per il gesto così inqualificabile ricevuto e per la
malvagità e codardia di persone che hanno disonorato l’umanità,
al pari di chi ha ideato e portato a termine l’Olocausto. Grazie per
la cortese attenzione e un caro saluto: “Colui che ti ha donato ogni
bontà, possa Egli continuare a concederti ogni bontà. Selah”. Con
simpatia.
Gisella Mancini, Pesaro
Sdegno e disgusto
La Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, manifesta tutto lo sdegno ed
il disgusto per i gravi atti di antisemitismo compiuti a Roma da
vandali razzisti in occasione della celebrazione della giornata della
memoria del 27 gennaio prossimo venturo. Esprime piena solidarietà alla comunità ebraica e invita a mantenere sempre viva la
memoria della Shoah affinché non si ripeta mai più l’orrore del
genocidio operato dai nazisti.
Alfredo Arpaia,
Presidente della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo
Un grave caso di bullismo
Caro Direttore,
ti scrivo questa lettera per denunciare quello che sta accadendo
a mia figlia nella scuola media Angelo Sacerdoti. Da circa metà
novembre mia figlia, frequentante la seconda classe della suddetta scuola media, è oggetto e bersaglio di una gravissima
attività di attacco psichico e psicologico posta in essere nell’ambiente scolastico. Le vengono recapitati con frequenza giornaliera messaggi anonimi, in primo tempo telematici ed ora cartacei,
contenenti ingiurie e derisione di una tale volgarità e cattiveria
che ritengo più opportuno non riportarli in questa lettera. Questi
stessi insulti sono stati inoltre anche più volte scritti a caratteri
cubitali sulla porta del bagno.
Fin dall’inizio della vicenda ho informato il Preside e alcuni professori di ciò che stava accadendo. Visto che non si otteneva alcun
risultato e visto che gli insulti persistevano e diventavano sempre
[email protected]
più pesanti ho provveduto il 13 dicembre a fare una denuncia penale per stalking alla polizia postale. Ho provveduto io stessa ad
informare i genitori della classe di tutto quello che stava accadendo. Sempre da sola ho chiesto ad altri genitori i cui figli avevano
ricevuto telefonate anonime che riportavano sempre ingiurie contro
mia figlia, di integrare la mia denuncia. Sempre io ho informato il
Presidente della Comunità e l’assessore alle scuole.
In questa situazione devo rilevare che i Professori ed in particolare la
prof.ssa Marina Tortora che voglio ringraziare pubblicamente si sono
e si stanno adoperando per l’individuazione del o dei responsabili.
Purtroppo non posso dare il medesimo giudizio sulla Presidenza
che si è limitata a qualche giro nelle classi e a tante belle parole.
- Non è stata diramata alcuna comunicazione ai genitori su quello
che sta succedendo e solo dopo due mesi è stata convocata una
riunione con i genitori delle seconde medie.
- Non si è neppure pensato di informare tempestivamente tutti i
professori di ciò che stava accadendo tanto è vero che io stessa ho
informato diversi professori durante i colloqui in data 9 gennaio 2014.
- Non si è ritenuto opportuno imporre alcun tipo di forte sanzione
disciplinare (5 in condotta, sospensione) a tutti in modo da rompere il muro di omertà.
- La scuola non ha neppure ritenuto di fare essa stessa una denuncia nonostante la gravità della situazione.
Ormai ho affidato tutta la pratica ad un avvocato in modo da sollecitare l’intervento dell’autorità giudiziaria per porre definitivamente fine a questa persecuzione che colpisce la stabilità psicologica di
mia figlia e di tutti noi della famiglia. Io e mio marito siamo intenzionati a tutelare legalmente nostra figlia in ogni sede, e nel modo
più fermo possibile, contro chiunque risulterà responsabile di quanto sopra riferito, ed anche nei confronti della Scuola stessa per non
aver impedito che si verificassero, e poi che continuassero, tali
condotte illecite.
Sono veramente arrabbiata e non posso non chiedermi dove sia
l’ebraicità di questa scuola che si limita ad imporre l’ingresso alle
8.00 per fare tefillà e non si preoccupa minimamente di perseguire
ed insegnare i valori fondamentali del derech ahaim.
Dalida Sassun
Caro Direttore,
ogni atto di bullismo e di intolleranza è una sconfitta per la scuola dove questo avviene e per le famiglie di coloro che sono i
responsabili di atti gravi nei confronti dei propri pari. Ed è una
sconfitta anche per una comunità (non qui in senso istituzionale)
che, pur investendo a parole molto sul tema della tolleranza,
evidentemente non riesce a sradicare la possibilità che certe
cose accadano (e non solo tra ragazzi o adolescenti, a quanto mi
risulta). In questo senso ciò che segnala la signora Sassun, la cui
figlia ha tutta la mia solidarietà e tutto il mio appoggio, è certamente anche una mia sconfitta.
Mi preme però rispondere in forma brevissima alle critiche sollevate nella lettera - diffuse anche nella rete - affinché i tuoi lettori
possano giungere alle loro autonome conclusioni
- Si è deciso di non coinvolgere da subito tutti i genitori come
forma di protezione nei confronti della bambina. L’eccesso di parole e di apparenti informazioni, spesso morboso e fuorviante, non
le sarebbe stato di aiuto ed avrebbe ulteriormente appesantito la
sua condizione emotiva. La riunione di cui si parla è stata convocata il giorno del rientro dalle vacanze invernali. In termini di
tempo scolastico, una settimana dopo che la famiglia ha sporto
denuncia alla polizia postale.
- Gli insegnanti delle classi interessate sono stati immediatamente
informati e si sono - tutti - attivati per cercare di individuare i
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
vocedeilettori
La
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LETTERE AL DIRETTORE
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
responsabili e per sostenere la bambina. E’ superfluo sottolineare
che in una scuola le iniziative, anche se portate avanti da singoli,
sono condivise dal corpo docente e dalla direzione. Certamente
alcuni insegnanti del liceo non erano al corrente dei fatti (è a questi
che si riferisce la signora Sassun): perché avrebbero dovuto?
- Sanzioni disciplinari generali preventive, dunque non comminate sulla base di una responsabilità oggettiva e personale, non
sono ammesse dalla legge (v. art. 4 del DPR 21 novembre 2007, n.
235). Non dovrebbero essere ammesse, né invocate, anche se non
fossero regolate da norme: la nostra storia e la nostra cultura
dovrebbero suggerircelo.
- Ho accompagnato personalmente la signora Sassun alla polizia
postale, presso la quale ha sporto denuncia, per chiarire ai funzionari le dinamiche dei fatti; dinamiche di cui ho poi fatto formale
segnalazione.
La scuola, oltre a far fare la tefillà ai ragazzi, cerca anche di insegnare loro i valori fondamentali del derech eretz (tra i quali è compreso
anche l’astenersi dalla calunnia): non sempre ci riesce. Così come
non sempre noi adulti riusciamo a praticarli tra noi.
Benedetto Carucci Viterbi,
Preside della scuola media Angelo Sacerdoti
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Gentile signora Sassun, o meglio cara Dalida,
Innanzitutto voglio esprimere la mia vicinanza e solidarietà alla tua
famiglia e la mia sincera preoccupazione per lo stato di sofferenza
e disagio di tua figlia. E’ indubbia la disponibilità e l’impegno per
addivenire ad una rapida definizione della vicenda attraverso l’uso
di tutti gli strumenti di accertamento e controllo di cui disponiamo
nella scuola, con le cautele necessarie per tutelare tutti i minori.
Siamo evidentemente consapevoli che le problematiche ed i disagi
dei ragazzi sono divenuti (come nel mondo degli adulti) sempre
maggiori e più complessi. I fenomeni di bullismo e stalking sono in
rapido e dilagante aumento, anche perché, in molti casi, legati al
sempre maggior uso da parte dei ragazzi degli strumenti informatici. E’ per questo che già da diverso tempo abbiamo promosso nella
scuola attività periodiche di prevenzione con le forze dell’ordine
(carabinieri polizia, polizia postale), con psicologi specializzati e con
progetti mirati (laboratori teatrali, ecc.) sempre seguiti dall’equipe
psicologica della scuola che si occupa anche della sensibilizzazione
degli insegnanti su questi temi.
E’ evidente che i tempi della scuola
purtroppo non sono i tempi della società, della rete e dell’evoluzione dell’uso degli strumenti da parte dei bambini anche perché
l’educazione è un processo lento e la scuola non può e non deve
perdere di vista questo suo primario obiettivo.
Ribadisco che è
inaccettabile la sofferenza di un bambino, di nessun bambino, a
maggior ragione in un ambiente che dovrebbe garantire e tutelare
la sua educazione e serena formazione di individuo ma il ruolo ed il
compito della scuola può giungere a compimento solo se anche le
famiglie tutte condividono le stesse finalità ed in questa sinergia e
reciproca fiducia potremmo certamente giungere ad una soluzione
e portare avanti il nostro comune obiettivo. Un abbraccio.
Ruth Dureghello,
Assessore alle scuole
Grazie allo staff della Casa di Riposo
Il 13 gennaio nella Casa di Riposo Le Palme è venuto a mancare
nostro padre Angelo. Volevamo ringraziare tutto lo staff della Casa
di Riposo per la professionalità e l’umanità con cui hanno accompagnato nostro padre negli ultimi giorni della sua vita stando nel
contempo vicini umanamente a noi in un momento cosi difficile.
Grazie di cuore a tutti.
Lello e Marco Veneziano
Un grazie collettivo
Egregio direttore,
a nome mio personale e dell’intero consiglio dell’Italian Council for
a Beautiful Israel desidero ringraziare tutti. Il presidente della Commissione Ambiente Roma Athos De Luca con il quale è decollata
l’iniziativa, le scuole Renzo Levi (rav Carucci, la prof. Liberati e
l’assessore Dureghello) e Regina Margherita (prof. ssa Nuccitelli)
con oltre 100 ragazzi, il Ministro Chiara Carrozza ed il suo staff, il
Sindaco Ignazio Marino, il suo staff ed il cerimoniale, la segreteria
del Sindaco Carla Di Veroli, la Sovraintendenza dei Beni Culturali
dott. Cerioni, rav Riccardo Di Segni, l’assessore Estella Marino ed il
suo staff in particolar modo Riccardo Camilleri, tutto il 1 Municipio,
il presidente Sabrina Alfonsi, gli assessori Anna Vincenzoni ed
Alessandra Ferretti, il servizio giardini con Claudio Turella, la sicurezza, l’Ags, il commissariato, la polizia municipale, l’ambasciatore
d’Israele Naor Gilon ed il gruppo Smemoranda (Nico Colonna e
Valeria Bodanza) senza i quali non avremmo potuto festeggiare a
Roma Tu bishvath 5774. Un evento che tutta la città ricorderà con
piacere. Invito tutti ad andare a vedere la targa ed i giardini restaurati fra Viale Trastevere e Viale Morosini. Una gran bella soddisfazione, un bel dono che una associazione ambientalista e per il
decoro urbano come la nostra può e deve fare alla città.
Dario Coen
Sui fatti di via Balbo, n. 1
Non è mai elegante parlare di sé e me ne scuso con i lettori. Dopo
giorni di sofferenza, rabbia, dolore, momenti che non avrei mai
voluto vivere, sento il bisogno di fare chiarezza. Ho questa necessità dopo i fatti del 14 gennaio scorso, in occasione della presentazione del libro “Sinistra e Israele”, trasformatasi in trauma ed evento
di cronaca. Una manifestazione che ho organizzato e di cui mi
assumo la responsabilità, facendo teshuvà: ho sottovalutato quanto
questo evento avrebbe urtato la sensibilità di una parte della nostra
comunità, accendendo sentimenti che vanno innanzitutto riconosciuti, poi compresi e infine anche affrontati. La mia intenzione era
organizzare la presentazione di un libro interessante, e decisamente a favore di Israele, con una serie di oratori qualificati; un’iniziativa che contribuisse al dibattito interno alla sinistra italiana sul ruolo
di Israele e sull’esigenza di sviluppare una nuova concezione, in
questo campo, della mia parte politica.
Una scelta che era ovviamente discutibile. Ma che non può giustificare il clima di odio, sospetto, rancore, violenza verbale e fisica
creatosi prima, durante e dopo l’evento, non sempre ammansito,
talvolta addirittura fomentato, da dirigenti comunitari. Nella mia
vita, mi sono sempre speso per la mia comunità. Non progetto di
costituirne altre, ma vorrei che la nostra fosse davvero unita. Una
comunità che non lasci indietro nessuno: chi è in difficoltà economiche, chi la pensa diversamente da me, chi ha posizioni non condivisibili. Una comunità che non escluda. Degna dello Stato d’Israele, che è la casa di tutti noi. Ho difeso il diritto di parola di chi se
lo vedeva negato la sera del 14. Sarei pronto a farlo anche in difesa
di chi avesse opinioni diametralmente opposte e si vedesse negato
il diritto di esprimerle. Anche se quelle opinioni non avessero neanche un punto di coincidenza con le mie.
Mentre, la sera del 14 gennaio, uscivo precipitosamente dal
Tempio di via Balbo, la sinagoga della mia famiglia da generazioni, pensavo... In questo luogo parlavo con mio nonno a Kippur
prima di prendere la Berachà, qui ho ascoltato le prime volte il
suono dello shofar, qui ho recitato le mie prime haftaroth. E in
quel momento ero costretto a uscire di corsa, grazie all’aiuto di
volontari della sicurezza professionali e generosi, che ho ringraziato personalmente. Mentre scendevo le scale, ancora incredulo, ho come rivisto alcune scene della mia vita, quelle che mi
rendono intimamente legato alla mia comunità: l’incontro alle
Palme a Rosh Ha-Shanà (insieme all’altro nonno); le chiacchiere
fino a notte la sera di Kippur al Portico d’Ottavia; lo spettacolo
meraviglioso e unico della mattina di Hoshanà Rabà; le messiboth del venerdì a scuola (si fanno ancora?); i dolci di Boccione.
E naturalmente i lutti, radicati profondamente nei nostri cuori: il
16 ottobre 1943; le Fosse Ardeatine, che alla mia famiglia portarono via il bisnonno Alberto Di Nepi; l’attentato alla Sinagoga del
1982 con l’assassinio di Stefano Gay Taché.
Alla luce dell’amore che nutro per la mia comunità penso sia
Sui fatti di via Balbo, n.2
Questo testo è stato scritto con il conforto, e quindi la condivisione
della stragrande maggioranza di coloro che la sera di martedì 14
gennaio, hanno contestato la presenza di alcuni personaggi non
graditi, nei locali Comunitari di Via Balbo.
Durante uno scorso shabbat, al termine della Tefillà, ho avuto
modo di parlare con un Rav ed un ragazzo, su quanto successo
martedì, questi, anche se con parole differenti, hanno espresso un
loro parere. Parere che in poche parole riassumo così: chi, in un
confronto di idee, non riesce a portare fino al termine di esso argomentazioni valide a sostegno della propria tesi ed arriva in ultimo,
alla violenza fisica o verbale, quella persona ha torto e non ha
giustificazioni per il suo modo di agire. Queste parole mi hanno
colpito molto, anche perché dette da persone nei confronti delle
quali provo stima ed affetto.
La notte ho riflettuto molto su quanto ascoltato, la mattina mi
sono confrontato con alcuni amici ed insieme, abbiamo voluto
mettere per iscritto ciò che era frutto delle nostre considerazioni.
Siamo stanchi di spiegare: che i missili lanciati su Israele, cercano
con determinazione cinica, di fare strage tra i civili; che, quando
l’esercito israeliano fa una qualche azione militare, questa non è
gratuita, essa è sempre stata fatta solo ed esclusivamente per la
difesa dei suoi cittadini, oppure dalla esigenza di fermare un qualche attentatore, con aspirazione al martirio.
Siamo stanchi di sentire che queste reazioni vengono chiamate
esagerate o sproporzionate.
Siamo stanchi di spiegare a certe persone che le centinaia di
ragazzi israeliani che trovandosi ad un Chek point, avendo ricevuto l’ordine, anche se si avvicina un bambino anche di soli 10/12
anni, debbono fermarlo a cento metri dal controllo e se c’è ne è
l’esigenza, o il sospetto, debbono fargli togliere gli indumenti che
indossa, non sono belve insensibili, desiderosi solo di far valere la
forza bruta grazie alla divisa che indossano. Come spiegare a
quegli ipocriti, che vedono e comprendono solo ciò che gli fa
comodo, che ci sono stati decine di precedenti, con bambini di 10
o 12 anni, i quali imbottiti di esplosivo venivano mandati verso i
militari per farsi saltare in aria e che quello di fermarli a distanza
è un ordine a salvaguardia della vita di questi ragazzi/soldato che
certamente preferirebbero trascorrere le loro serate in discoteca,
con la loro ragazza, a quella di fare 3 lunghi anni di militare.
Siamo stanchi di cercare, usando tutte le argomentazioni possibili,
di far comprendere che ciò che viene, in modo dispregiativo, chiamato “muro”, ha salvato migliaia di civili ed ha diminuito gli
attentati del 92% negli ultimi anni.
Siamo stanchi di ascoltare chi, in modo assillante e ripetitivo,
dichiara che Israele non è uno Stato ebraico, trovi ospitalità nei
nostri edifici.
Come far capire loro, l’indissolubilità del legame che c’è tra ogni
ebreo nel mondo e lo Stato d’Israele. In quale libro possiamo trovare parole più chiare ed inequivocabili, di quelle riportate ben 5
volte sulla “Teudà shel Medinat Israel”, parole che affermano e
ribadiscono, senza ombra di dubbio che lo Stato d’Israele è il focolare del Popolo Ebraico, che lo Stato d’Israele è storicamente e
quindi per diritto uno Stato Ebraico.
Ancora peggio e più devastante per noi, è che a fare affermazioni
infamanti verso Israele, spesso troppo spesso, non sono solo coloro che dietro il loro vituperato antisionismo, celano in modo evidente e sfacciato un antisemitismo viscerale ed ancestrale, ma
sono persone che si definiscono ebree. Siamo stanchi che questi
“ebrei”, con i loro atteggiamenti, sembra non si rendano conto
che chi vive in Israele, ed oggi lì vivono anche centinaia di nostri
amici e famigliari, rischia tutti i giorni la vita.
Ascoltare affermazioni, come quelle fatte da un ebreo, che si sente
in dovere di prendere le distanze dai sentimenti di fratellanza, che
tutti gli ebrei, in ogni dove, hanno provato nei confronti di una
famiglia ebraica, padre, madre e 3 bambini sgozzati nei loro letti
in Israele ci rattrista ed indigna. Vedere un “ebreo”, mentre noi
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
importante chiarire alcuni punti che, pur riguardandomi, possono
essere di interesse generale.
La gran parte della mia famiglia vive in Terra d’Israele dal 1938.
Siamo alla quinta generazione di sabra. Ho passato in Israele
periodi lunghi fin dall’infanzia e lo considero un paese straordinario, cui ogni ebreo nel mondo è naturalmente e deve essere legato.
Mi sembra del tutto pleonastico affermare che difendo - come
tutti gli ebrei che conosco, del resto! - il diritto all’esistenza dello
Stato d’Israele. Posso aggiungere che sul piano intellettuale considero oggi insensata la differenziazione tra antisemitismo e
antisionismo: chi dichiara di essere contro l’esistenza dello Stato
d’Israele esprime, forse inconsapevolmente, la moderna tipologia di antisemitismo.
Sul piano politico penso che siamo tutti d’accordo che si possano
criticare le scelte dei vari governi israeliani. Può essere utile però
spiegare una conseguenza di metodo: ad eccezione di alcuni casi
veramente rarissimi di “odio di sé”, ogni ebreo che critica Israele
non lo fa “tanto per”, ma perché ritiene che quello sia il modo più
efficace di difenderlo e di assicurargli un futuro di pace e sicurezza. L’obiettivo è comune a tutti noi.
Com’è ovvio, ritengo che tutti gli uomini dovrebbero essere “fratelli” e che a maggior ragione questo sentimento nobile debba albergare tra gli ebrei. Al tempo stesso considero un controsenso brandire la “fratellanza” come uno strumento di esclusione nei confronti di altri ebrei che hanno posizioni diverse dalla maggioranza.
Non conosco Marco Ramazzotti Stockel, non ho il suo numero di
telefono, non ci ho mai parlato, confesso che fino a pochi giorni fa
non ero neanche a conoscenza di quello che ha fatto.
Dopo quella serata, ho rifiutato le molte interviste che mi sono
state chieste come “protagonista” della serata. Non è uscita una
mia dichiarazione né un mio commento su Facebook o Twitter. Mi
pare che questa sia la risposta più efficace per quelli che – facendo
lashon harà – descrivono mie fantomatiche “strumentalizzazioni”
politiche. Niente di quello che è emerso sugli organi di informazione è partito da me, e sfido chiunque a dimostrare il contrario.
Non credo che esista un modo migliore o peggiore di essere ebrei.
Personalmente ho avuto vari incarichi e ho sempre cercato di fare
quello che posso e di aiutare come potevo: organizzando eventi
– dai campeggi invernali per giovani ebrei italiani alle Maccabiadi
alle presentazioni di libri –, promuovendo occasioni di aggregazione e incontro, sostenendo la Deputazione. Non penso di essere più
bravo di altri, ma nemmeno di dover continuamente subire un
“processo” sulla base di insinuazioni. Tanto più nel caso specifico: se avessi ragionato cinicamente e strumentalmente, non avrei
certo organizzato la serata del 14 gennaio!
Da qualche anno ho fondato l’Associazione di cultura ebraica
Hans Jonas (www.hansjonas.it), che sostanzialmente si occupa di
fare tre cose: corsi di formazione per giovani ebrei italiani (siamo
giunti alla IV edizione quest’anno, per un totale di circa 80 studenti); promuovere progetti di ricerca e culturali (l’ultimo in ordine di
tempo è la traduzione in italiano del libro di David Ben Gurion
“Cosa significa essere ebreo?”); organizzare convegni su temi
politico-culturali aperti a ebrei e non ebrei. La nostra associazione
è nazionale e rispetta le norme della kasheruth e dell’halachà.
Infine, il mio impegno politico. Nella mia attività di militanza in un
partito o in altri contesti ho sempre sostenuto le mie tesi di Uomo
libero e di Uomo ebreo libero. Per evitare di creare confusioni
pericolose, quattro anni fa mi sono dimesso dal Consiglio della
CER e da allora non mi sono mai più ricandidato. Ho interpretato
in maniera restrittiva il codice “morale” che la dirigenza comunitaria si è data in proposito anni fa. Quello che faccio all’interno del
PD e all’esterno della comunità – poco o tanto, male o bene – è
frutto di dieci anni di impegno e militanza, vittorie e sconfitte, e
non ha niente a che vedere con il mio impegno ebraico, che, per
quello che mi riguarda, davvero non aggiunge nulla in termini di
“carriera”.
Tobia Zevi
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LETTERE AL DIRETTORE
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
tutti, piangevamo per i bambini di Tolosa, uccisi solo in quanto
ebrei, sostare all’interno del nostro Beth ha Keneset, senza la
kippà in testa, ridere con i suoi amici, non può passare inosservato ai nostri occhi e neanche ai nostri cuori.
Siamo stanchi di coloro che, in nome della democrazia, in nome
del confronto delle idee, in nome del diritto ad esprimere le proprie idee, si definiscono “Ebrei per la pace” come se tutti gli altri
amassero la violenza e desiderassero la guerra.
Siamo stanchi di sentire denigrare ed offendere ciò che noi,
insieme alle nostre famiglie ed al nostro Popolo amiamo di più,
lo Stato d’Israele.
Qui non si parla, come strumentalmente si vorrebbe far credere,
di idee o vedute differenti sulla politica Israeliana, non si parla
dei coloni o dei “territori” non si discute come è meglio arrivare
ad un accordo di pace o chi è più adatto a fare il Primo Ministro
d’Israele. Queste considerazioni, le lasciamo agli israeliani ed
alla loro democrazia. No, queste persone non possono dire di
amare Israele e quindi di agire negli interessi di questo Stato,
essi non possono amare Israele e contestualmente utilizzare la
loro ebraicità, chi per avere visibilità nel proprio lavoro, chi per
meglio accreditarsi verso i loro amici di partiti politici o chi, per
ricevere applausi, da un pubblico che già antisionista, probabilmente è anche antisemita. Queste persone che fanno i loro interessi sono deleterie e pericolose per la nostra Comunità e per
tutto il Popolo d’Israele. Se invece a vituperare Israele, vengono
invitate, persone estranee alla nostra Comunità, non gli si deve
mai più permettere di portare il loro odio all’interno delle nostre
istituzioni o locali.
Noi, siamo convinti e certi, che la stragrande maggioranza della
nostra Keillà, condivide le nostre idee. Noi tutti vogliamo e desideriamo la pace, la shalom abait per noi, per la nostra Comunità
e soprattutto per Eretz Israel, di pari passo, a chi fa della provocazione la sua professione, lo invitiamo, con la massima serietà,
a ricordarsi della battuta di Alberto Sordi davanti ad un bel piatto di pasta.
Settimio ‘Mino’ Di Porto
48
Sui fatti di via Balbo, n.3
Nel maggio 2011 Shalom pubblicò una mia lettera in cui scrivevo
che l’assassinio orripilante della famiglia Fogel nell’insediamento di Itamar doveva spingere a meditare, a ragionare, a un atto
di shiva, di affetto e di cordoglio. Non ho mai scritto né pensato
che non sentissi quella famiglia come “fratelli”. Ero angosciato
come tutti per questo tragico lutto. Mi dispiace di avere usato
allora parole inadatte. Penso anche io che il popolo ebraico, di
cui faccio parte, io e la mia famiglia, sia unito da una storia materiale e spirituale comune, di fratellanza. Ma usare questa polemica sui “fratelli” come strumento di esclusione contro di me o altri
da luoghi che dovrebbero appartenere alla Comunità tutta non è
tollerabile. Si è fratelli davvero se si ha integrità morale, se non
si compiono atti violenti contro altri – ebrei e non -, se si rispettano gli avversari. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il
dibattito e la diversità delle idee.
Come ho scritto o detto in altri articoli e interventi pubblici,
echeggiando le posizioni di molti israeliani ed ebrei della Diaspora, ritengo che l’espansione di insediamenti israeliani in territori
densamente abitati da palestinesi rischia di pregiudicare il futuro di Israele come stato ebraico e democratico, in condizioni di
pace e sicurezza, cosa che mi sta a cuore profondamente e per il
quale lotto da più di 40 anni.
Invece, tre anni fa la reazione fu una scritta offensiva sui muri
della scuola ebraica di Roma, un luogo che dovrebbe essere dedicato al rispetto dell’altro e all’educazione al confronto delle idee.
Ancora oggi poi, in occasione di un dibattito su “Sinistra e Israele” organizzato dalle associazioni Hans Jonas e Jcall-Italia, si è
ricorso ad intimidazioni e offese violente alle persone, impedendo
un confronto civile di opinioni. E’ urgente che, oltre alla condanna,
vi sia un impegno educativo serio perché episodi del genere non
accadano più in questa Comunità, come il Rabbino Di Segni ha
esortato qualche sera dopo quanto avvenuto in Via Balbo.
Giorgio Gomel
Sui fatti di via Balbo, n.4
Sì, violenza inaccettabile, e non parlo di quella delle varie posizioni
antisemite che stanno attraversando la nostra Europa ultimamente
in maniera tremendamente pericolosa, no, parlo della violenza a cui
ho assistito martedì 14 gennaio alla presentazione di un libro nei
locali comunitari di via Balbo a Roma, comportamenti per i quali
sono ancora scossa. Il libro in questione si intitola “Sinistra e Israele. La frontiera morale dell’Occidente” di Fabio Nicolucci. La sala
era incredibilmente gremita di pubblico e di personalità della cultura. Bene, ho pensato, finalmente un argomento così importante e
delicato suscita vero interesse! Sono ebrea e sono di sinistra.
Ero seduta in ultima fila e dietro di me avevo un nutrito gruppo di
ragazzi abbastanza giovani a cui ho chiesto se facevano una specie
di servizio d’ordine, impressionata dalle loro espressioni sicure e
solide. Mi hanno risposto di non preoccuparmi che mi avrebbero
protetta. Mah, a dire la verità in quel momento ho cominciato a
preoccuparmi. Dopo pochi minuti, ancora prima che iniziasse la
presentazione, si sono letteralmente avventati su un signore che
era seduto a due posti da me dicendogli “tu sei Marco Ramazzotti
Stockel?” e il signore ha risposto di sì. Lo hanno sollevato di peso e
a spintoni, dicendo a noi “non aprite bocca, non vi immischiate!”,
l’hanno concitatamente sollevato e buttato fuori. Chiunque fosse
Marco Ramazzotti Stockel (ora lo so, mi sono informata) era stato
accuratamente perquisito come tutti noi all’ingresso e quindi non
poteva essere pericoloso sul piano fisico, poteva solo pericolosamente parlare, poteva solo esprimere opinioni, forse pericolosamente diverse da quelle di altri. Da quando ero piccola mi hanno
bene insegnato che i fondamenti dell’ebraismo sono il dubbio, la
discussione e i frutti che ne nascono, l’uso della parola come arte di
scambio tra cuori, anime e cervelli. Ed eravamo nei locali del Tempio di via Balbo. E questa è violenza.
Dopo che ha finito di parlare Emanuele Fiano, in maniera estremamente equilibrata e intelligente sento un trambusto dietro di me e il
“nutrito gruppo di ragazzi” alza un grande striscione che ho stentato un po’ a capire “Torna a Gaza Giorgio” con la foto di Lassie:
Giorgio Gomel reo, anche lui, di avere posizioni di sinistra. Lo striscione è stato fatto abbassare con sorrisetti di condiscendenza, salvo
che poi è stato rialzato ed è rimasto in alto. E questa è violenza.
Sono uscita per paura (verso la mia coscienza, ovviamente) che
solo un secondo di più in quella sala potesse essere scambiato
per complicità o connivenza. Non ho voluto restare in quel luogo
e in quella situazione in cui era stato non solo permesso ma
incoraggiato (e forse anche ben organizzato) qualcosa di orribilmente facinoroso. Mi dispiace solo di non avere avuto la presenza di spirito di salutare ad alta voce il mio amico Giorgio mentre
uscivo. Ci ho pensato dopo.
Sordi, i ragazzi, perché non erano lì per ascoltare, non hanno ascoltato neanche una parola, prede eccitate dalla adrenalina delle loro
bravate. Inutile per loro l’intelligenza degli interventi, anzi, inutile
per loro l’intelligenza! Non sono abituati ad ascoltare, evidentemente, ma solo a dimostrare il loro potere. Ascoltare è già segno di
intelligenza. I due episodi connotano inequivocabilmente un atteggiamento violento, prevaricatore, ignorante, arrogante e offensivo,
in altre parole fascista. Cresciamoli così i nostri giovani ebrei, fanatici e ignoranti! Chi tappa la bocca a un essere umano è fascista, chi
offende con protervia e ignoranza è fascista, chi non accetta opinioni diverse dalle proprie è fascista.
Mi sono cancellata dalle liste della Comunità Ebraica di Roma. Non
sono un’ebrea di quelle che contano, non ho mai partecipato a nessuna iniziativa comunitaria. La Comunità non perde granché, tranne il mio contributo, non sono né religiosa né credente, ma ogni
anno ho pensato che magari anche con il mio contributo chi invece
ci crede può frequentare le scuole, le attività, le sinagoghe, i servizi,
e poi il museo. E poi per amore e rispetto di mio padre, di mia nonna
Sui fatti di via Balbo, n.5
Spettabile Redazione,
a seguito dei noti episodi avvenuti il 14 gennaio in via Balbo alla
presentazione del libro: ”La sinistra e Israele” di Fabio Nicolucci è
stato riferito da molti il clima di intolleranza e di violenza, che dai
forum e dai giornali nazionali sembra essere stata “solo” violenza
verbale. Voglio invece segnalare che la violenza è stata anche fisica
e io ne sono stata una vittima.
Quando la moderatrice Lucia Annunziata, ha chiuso l’incontro
come le altre persone mi sono alzata e ho visto una signora avventarsi contro di me strillando e stringendomi le mani intorno al collo.
Sono rimasta esterrefatta e sconvolta non capendo cosa stesse
succedendo. Alcune persone l’hanno tirata indietro per staccarla
dal mio collo, mentre io mi sentivo svenire. A quel punto mi ha
allungato un calcio colpendomi al ginocchio sinistro. Segnalo, fra
l’altro, che la sottoscritta ha su quella gamba gli esiti di una poliomielite infantile ed è riconosciuta portatrice di handicap grave.
Sono tornata a casa dovendomi fermare a metà strada perché mi
sentivo male. Il giorno dopo la gamba mi faceva male e il ginocchio
era gonfio. Ho aspettato un giorno e la mattina di giovedì mi sono
recata in ospedale a farmi visitare presso l’ambulatorio di Ortopedia. Mi hanno dovuto ridurre l’edema al ginocchio aspirando il
liquido sinoviale e mi hanno prescritto di portare un tutore, di fare
una risonanza e di tornare alla visita dopo 15 giorni.
Non vi era stata da parte mia alcuna frase provocatoria, non vi era
stata alcuna discussione con la signora, di cui solo successivamente ho saputo il nome. Per le possibili conseguenze fisiche e per il
senso di solitudine che sto vivendo ho deciso di denunciare l’aggressore alle autorità competenti. Mi rimane lo sconcerto e il dolore
profondo per una situazione così vergognosa all’interno della
Comunità ebraica di cui faccio parte.
Jane Hassan
Le domande
Gentile Direttore,
i messaggi insiti nella lezione fattaci da Rav Rashi, dopo i fatti di
via Balbo, sono e saranno motivo di grande riflessione sia per me
personalmente, ma credo anche per tutti coloro che hanno a cuore
la nostra Keillà. Al termine della “lezione”, Rav Di Segni ci ha
posto, 7 domande sulle quali riflettere (personalmente le ho messe
su carta, in modo di poterle avere sempre alla mia portata.
Io, pur con le dovute distanze da quelle di Rav Rashì, mi permetto
di porre altre 7 domande, queste molto più semplici, alle quali, con
un semplice SI o un NO, si comprenderà chi siamo.
Si è disposti ad affermare che:
1) Israele è lo Stato degli ebrei e che quindi è uno Stato Ebraico?
2) Che l’esercito d’Israele ha il diritto ed il dovere di difendere i
suoi cittadini anche con azioni preventive?
3) Che Jerusalem è, e dovrà essere la capitale delle Stato d’Israele?
4) Che le varie crisi, economiche o umanitarie che ci sono a Gaza
sono causate esclusivamente da chi li governa?
5) Che soltanto il Governo israeliano ha il diritto di decidere per il
presente ed il futuro dello Stato d’Israele?
6) Che il dovere di ogni ebreo in golà è quello di sostenere senza
se né ma lo Stato d’Israele, lasciando al Governo israeliano ed ai
Suoi cittadini che lo hanno democraticamente eletto, il diritto/
dovere di fare le scelte più opportune?
7) Che l’ebreo in golà ha il diritto di esprimere dubbi e/o perplessità su decisioni prese dal Governo israeliano, siano esse politiche, territoriali o di qualsiasi altra natura, ma… esse non debbono
essere frutto di godimento da parte dei goim, quindi non strumentalizzate per fini personali?
Con 7 “SI” si viene promossi, con un “MA” rimandati, con un
“NO” si viene bocciati. Cordiali saluti.
Lello Mieli
La libertà, un dono che viene dalla Torà
Caro Direttore,
come abbiamo già avuto modo di sottolineare altrove, una delle
affermazione più contestabili di Eugenio Scalfari nel suo editoriale
del 29 dicembre 2013 su «la Repubblica» è che «la legge mosaica
non prevede libertà». La scoperta della libertà umana, la capacità
di scegliere tra la via del bene e la via del male è uno dei più grandi doni che il pensiero biblico abbia fatto all’umanità. Contrapponendosi alla visione religiosa classica del Fato che condiziona
totalmente ogni esistenza, al quale lo stesso Zeus, il sovrano degli
dei, deve sottomettersi, la Torah invece sottolinea la capacità
dell’uomo di autodeterminarsi: «Ti ho proposto la vita e la morte,
la benedizione e la maledizione» (Dt 30,19). Sta all’uomo quindi la
scelta del suo destino.
Che Dio sia “vendicatore” significa che non è indifferente all’ingiustizia, ascolta il grido degli oppressi ed è toccato dalle loro
sofferenze. La “collera” divina è segno del suo amore per l’umanità: «Casa di David, così dice Ha-Shem, amministrate la giustizia
ogni mattina e liberate il derubato dalla mano dell’oppressore,
altrimenti la mia ira divamperà come fuoco, si accenderà senza
che nessuno la possa spegnere, a causa della malvagità delle
vostre azioni» (Ger 21,11-12).
Uomini e donne del mondo biblico non sono schiavi, anzi vengono
liberati da ogni forma di schiavitù sia idolatrica che politica, a
partire da quella liberazione dalla schiavitù egiziana che è l’evento costitutivo del popolo ebraico, esperienza fondante della fede
ebraica e modello di liberazione umana in generale. Ha-Shem
stesso quando per la prima volta si rivolge a Mosè si presenta
come liberatore: «Ha-Shem disse: “Ho osservato la miseria del
mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi
oppressori, conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo
dalla mano dell’Egitto e farlo salire da quella terra a una terra
buona e vasta, a una terra dove scorre latte e miele”» (Es 3,7-8).
Dopo i lunghi secoli dell’antigiudaismo cristiano, cinquant’anni fa,
a partire dall’incontro tra Jules Isaac e Giovanni XXIII, iniziò il
lungo percorso che ha portato all’approvazione del documento
conciliare “Nostra Aetate”.
Seguire dopo quasi due millenni Marcione contrapponendo il
vecchio Dio cattivo al giovane Dio buono, svilendo la Bibbia
ebraica nella fallace illusione di dare maggior valore ai testi cristiani è una procedura dalla quale molti cristiani stanno faticosamente cercando di liberarsi. Suona paradossale che ora siano i
laici a farla propria.
Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri
Cerco testimonianze
Gentile Signor Direttore,
mi rivolgo a Lei per pregarla di pubblicare questa mia in tal
maniera che possa risultare un avviso ai Suoi lettori, in particolar
modo a quelli che hanno una bella età. Si tratta di riuscire ad identificare alcuni ebrei che, nell’immediato periodo dell’anteguerra,
forse negli anni 1937-38-39, furono aiutati in un certo modo e
possano ricordare ora quanto Le riassumo qui di seguito. Comunque il periodo è indicato senza alcuna certezza, solo per una ipotesi. Potrebbe essere diverso.
Protagonisti, alcuni miei zii di Roma.
Signora Geltrude Rocco, tedesca, moglie dell’Ing. Mario Rocco. La
zia si prestò, in quegli anni, forse con passaporto diplomatico, a
fungere da staffetta, Roma-Parigi, portando in Francia, nascosti in
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
e dei miei zii che per appartenere a questa Comunità hanno sfiorato la deportazione. E poi perché mi riconosco laicamente in una
storia e in una tradizione. Da quando sono nata appartengo a questa Comunità quindi non è a cuor leggero che prendo questa decisione. Papà, nonna e gli zii non ci sono più e non se ne possono
dolere, sono io che me ne dolgo ora, ma sono profondamente convinta di non voler far parte di una collettività in cui non mi riconosco
per niente e che anzi rifuggo per la perdita dei suoi principi fondanti e fondamentali.
Sara Modigliani
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LETTERE AL DIRETTORE
una sottoveste imbottita, svariate centinaia di diamanti di proprietà di ebrei che, subodorata la situazione in Italia, trasferirono
così, all’estero, i loro capitali. Mia zia Gert, mi raccontò questa
circostanza, nei primi anni 1980, prima di morire. Non mi ricordo
se mi abbia precisato il numero dei viaggi compiuti.
Mio zio, Mario Rocco, abitante allora in Via Panama, Roma, marito
di zia Gert, fratello di Guido Rocco, noto Ambasciatore (mio zio
Mario era un industriale operante nel comparto delle calzature ed
era amico, forse socio, del noto signor Bata, ebreo ungherese,
famoso calzaturiere di livello mondiale.)
Mio zio Guido Rocco, ambasciatore, abitante allora in Via Tre
Madonne, Roma, con moglie tedesca Berta Rocco, che potrebbe
essersi prestato ad assistere l’operazione anche per le sue particolari possibilità ministeriali.
Mia zia Gert mi raccontò che i viaggi diretta a Parigi li compiva in
treno. Non mi parlò dei particolari e quindi non sono a conoscenza
se partiva da Roma o anche da altra o da altre città italiane. Ricordo questa sua battuta: “Prima di partire sembravo la Madonna
abbigliata per una processione”!!
Sarei veranente felice di offrire a tutti gli ebrei amici e agli italiani
questa testimonianza che riflette molto bene la discrezione caratteriale dei miei zii, i quali certamente, per ovvie ragioni, operarono
in silenzio ma, ciò che mi rende fiero, conservarono il silenzio
anche dopo la fine della guerra.
Le confidenze furono fatte a me, nei primi anni 80. E l’aria era
quella di chi era felice di aver aiutato gli ebrei in un momento
storico amaro.
Se qualche persona ricordasse, per esperienza personale oppure
raccontata da altri, diretti interessati oppure testimoni, sarei
molto grato se volesse riferire quanto a sua conoscenza al Rabbino
di Roma, Dr. Riccardo Di Segni. Vi chiederei in ultimo di realizzare
un certo passa parola perché probabilmente le persone di una
bella età potrebbero non aver letto il vostro bel giornale. Grazie,
gentile signor Direttore, per la cortese ospitalità che vorrà riservare a questa mia.
Emmanuele Rocco
Smokéd / affumicato: un gioco di parole. Una sfida nel
segno di uno humor che non vuole offendere nessuno,
ma sorridere di tutto.
FEBBRAIO 2014 • ADAR RISHON 5774
Esiste una Rete ECO. La sigla ECO sta per Ebrei contro l’occupazione, e si intende la cosiddetta occupazione dei territori di Giudea e Samaria da parte dello Stato di Israele dopo la Guerra dei
sei giorni. Smoked dice “cosiddetta” perché a termini di diritto
internazionale si tratta di territori amministrati e gestiti in attesa
di un accordo definitivo con l’Autorità Nazionale Palestinese. In
ogni caso, Smoked sommessamente suggerisce a ECO un’altra
denominazione. In tempi di antisemitismo ispirato alle farneticazioni del grande complotto, ci manca solo l’accusa di una strategia
contro l’occupazione: che per la sintassi e il lessico spesso maltrattati della lingua italiana altro non significa che “ebrei a favore
della disoccupazione”…
Smokéd
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