...

Il “Manifesto dei Riformisti” è un prezioso “vademecum” per

by user

on
Category: Documents
10

views

Report

Comments

Transcript

Il “Manifesto dei Riformisti” è un prezioso “vademecum” per
MANIFESTO PER UN NUOVO RIFORMISMO
Il “Manifesto dei Riformisti” è un prezioso “vademecum” per chiunque senta il
desiderio di partecipare attivamente alla rinascita dell’Italia.
Il riformismo è il sistema politico congeniale per lo Stato moderno che, sotto l’impulso
dello sviluppo tecnologico, cambia rapidamente le condizioni di vita e di lavoro, e ha quindi
bisogno di una attiva legislazione e di un continuo monitoraggio delle leggi esistenti.
Questa situazione pesa ancor più gravemente sull’Italia, che non ha saputo
accompagnare la sua grande metamorfosi da Paese contadino a Paese industriale con una
adeguata legislazione. L’attività dei Parlamenti della Repubblica si è rivolta soprattutto al
sociale, accentuando così gli inevitabili squilibri. La fine traumatica della Prima Repubblica
ha impedito che gli errori commessi potessero essere sanati dagli stessi protagonisti del
dopoguerra, sebbene, a loro carico, è giusto ricordare che già nel ’79 si era levato un grido
(da parte di Bettino Craxi) sulla necessità di una Grande Riforma che comprendesse la stessa
Costituzione scritta, quando ancora la maggioranza degli italiani viveva nelle campagne.
Con le novità del primo berlusconismo (il premier eletto dal popolo, il maggioritario)
ci siamo illusi che il processo riformatore potesse riprendere. Ma l’eterogeneità delle
coalizioni e, poi, l’autodistruzione di Berlusconi, ci hanno lasciato al punto di prima.
Venti anni perduti, dieci ani di stagnazione produttiva, i partiti disfatti, la crisi
economica, una situazione tale da indurre il Capo dello Stato ad accantonare i partiti e a dar
vita al governo tecnico.
Con Monti, il processo riformatore è ripreso e l’Italia è uscita dal baratro in cui stava
precipitando. Ma c’è un cammino enorme ancora da compiere. Il Manifesto ci indica uno ad
uno i problemi dell’Italia e le necessarie soluzioni.
Il liberalismo del prof. Monti non basta a raddrizzare l’Italia, con una Costituzione non
più in sintonia con il Paese, con un rapporto fra i poteri dello Stato del tutto squilibrato, con
una burocrazia pletorica, prepotente, privilegiata, colma di prerogative, tra le quali quelle del
posto fisso a vita che genera solo negligenze, con sindacati che fanno fuoco e fiamme per
l’art. 18 e accettano i salari più bassi dell’Europa industriale, con un’economia pubblica che
www.federalismi.it
non rinuncia agli sprechi, un personale politico elefantiaco (un milione e mezzo di persone
vivono di politica) e di bassa qualità, i giovani praticamente esclusi dalla vita dello Stato.
Il Manifesto ci guida per mano in un’Europa che ha una valuta comune, ma il cui vero
legame è il debito e il credito, un’Europa senza una leadership politica in grado di guidarla,
persa dietro gli egoismi
nazionali che le impediscono di avere peso nei consessi
internazionali e di concordare una politica economica comune in sintonia con le grandi aree
economiche del mondo, senza una Banca Centrale in grado di evitare le ricorrenti crisi di
liquidità.
E’ giunta l’ora di prendere congedo dalla Prima e dalla Seconda Repubblica, dice il
Manifesto, e questo si può fare solo ridefinendo il Patto Costituzionale scritto per un Paese
che non c’è più. La crisi economica e politica in cui è precipitata l’Italia suggerisce la nuova
forma istituzionale della Repubblica Presidenziale, la sola in grado di sanare situazioni di
drammatico dissesto come il riequilibrio fra i vari poteri dello Stato e la restituzione dei partiti
alla loro funzione di educazione e selezione della classe dirigente. L’esperienza dell’ultimo
Napolitano è istruttiva.
Quando si parla di classe dirigente, si tocca un nervo scoperto della situazione italiana.
Di fronte allo sviluppo tecnologico, il personale nutrito di ideologismi non serve più e non è
sostituibile con improvvisazioni. Occorre che i partiti si pongano in grado di attrarre persone
di qualità, tecnici capaci di quelle sintesi che sono l’anima della politica. E’ questa una
condizione essenziale perché i partiti riacquistino la credibilità e il consenso che oggi hanno
perduto.
L’inefficienza dei partiti e l’inadeguatezza delle Istituzioni, l’abbondante demagogia
che ha sostituito le buone ragioni, hanno generato un forte senso di distacco dalla politica, e
anche di avversione alla politica. E’ un fenomeno che va seriamente combattuto, perché tutto
è politica e niente può andare bene fino a quando la politica non avrà recuperato dignità e
qualità. I governi tecnici possono svolgere un ruolo meritorio in situazioni di emergenza, ma
non possono sostituire a lungo la politica senza produrre crisi della democrazia.
I Riformisti Italiani sono per il libero mercato e per un processo di liberalizzazione,
intesa come rimozione di tutto ciò che confina, ostacola, distorce lo sviluppo di un’economia
dinamica e di una società aperta. L’egemonia della cultura marxista per quasi tutto il secolo
scorso ha impedito in Italia lo sviluppo di una coscienza liberale. Al capitalismo e al mercato
sono state attribuite crisi quasi sempre di altra natura. Possiamo constatare che la ripresa del
pensiero liberale ha trovato
consenso nell’opinione pubblica, avendo solo una feroce
avversione nelle corporazioni e nella lobby di interesse che non accettano di scambiare i loro
www.federalismi.it
2
privilegi con la concorrenza e la trasparenza. Agli stessi principi liberali deve essere orientata
l’economia pubblica. Lo Stato non deve produrre beni, ma adottare politiche industriali che
aiutino le imprese private a nascere o ad ingrandirsi.
Non posso seguire punto per punto il denso contenuto del Manifesto. I lettori vi
troveranno acute analisi e concreti suggerimenti su tutti i punti nevralgici della situazione
italiana, sul fisco, sul federalismo, sulla giustizia, sulla Pubblica Amministrazione, sul
Mezzogiorno, sui giovani, sul welfare, sulla riforma elettorale.
Il nostro programma è ambizioso. Vogliamo spingere l’attuale fase di riforme fino ai
tabù dei partiti politici e, se possibile anche oltre, dopo le elezioni del 2013. Un grande passo
sarebbe fatto se riuscissimo a far approvare la nostra proposta di un’Assemblea Costituente
per modernizzare la nostra Costituzione e farne lo strumento di una nuova rinascita.
Tra poco ricorrono i trent’anni dalla Conferenza Programmatica di Rimini del 1982,
quella che aprì al Partito Socialista le porte del governo.
Fu quello il momento in cui Craxi indicò compiutamente, primo in Italia ed in Europa, i
compiti di una moderna forza riformista. Oggi il nostro compito, la nostra ambizione, non
dovrebbe essere quella del 1982 (lo slogan di quella Conferenza era: “Governare il
cambiamento”), ma ci basterebbe per il momento di capire il cambiamento.
Ai giovani e ai non più giovani, agli italiani liberi che appartengono alla civiltà della critica e
della ragione, è necessario offrire, innanzitutto, un’analisi dei cambiamenti in atto, nuove
chiavi di lettura, in Italia e nel mondo, una nuova visione.
E’ tutto ciò, insieme all’emozione di una verità storica, che emerge con forza.
Ed è forse proprio partendo dall’analisi dei cambiamenti, quelli avvenuti e quelli necessari,
che sarà possibile trovare le ragioni di un nuovo impegno, scoprire dinamiche sociali,
domande politiche nuove, sofferenze e disponibilità nuove, bisogni e meriti.
Stefania Craxi
www.federalismi.it
3
PARTE PRIMA
Il governo dei tecnici, attualmente in carica, è destinato a segnare una vera e propria cesura
nella storia della nostra Repubblica. E' difficile per chiunque prevedere quale possa essere la
durata e l'esito di questa vicenda, tali e tante sono le incognite e le variabili in gioco. Ma una
cosa appare certa: la Seconda Repubblica, se mai è nata, è giunta al suo epilogo e nulla potrà
più essere come prima.
La lunga e travagliata fase di transizione apertasi nel 1992, in concomitanza con l'entrata in
vigore del mercato unico europeo e perfezionata con l'entrata dell'Italia nell'Euro, si è chiusa
dopo venti anni con un sostanziale nulla di fatto. Le forze politiche che nel corso di questi
anni si sono alternate alla guida del paese si sono rivelate incapaci di riformare la società e il
sistema politico e istituzionale, ed hanno clamorosamente fallito la scommessa fatta col
mercato unico e con l' Euro: quella, cioè, di riformare il paese per cancellare il meccanismo
perverso della svalutazione competitiva e dell'inflazione. L'assetto istituzionale ha dimostrato
di rappresentare esso stesso un serio ostacolo alla realizzazione delle riforme, un vero e
proprio collo di bottiglia. Si è creato in tal modo un circolo vizioso, che va spezzato se non si
vuole che il paese imbocchi la via del declino. Una via, del resto, già annunciata dalla
mancata reazione alla crisi economica e finanziaria che dura dalla seconda metà del 2008.
Nell'immediato, pensiamo che vada sostenuto con convinzione lo sforzo che il governo sta
facendo per risanare i conti pubblici e per introdurre alcuni elementi di riforma nella società
italiana. Ridurre il rapporto fra debito e PIL, avviare un processo di liberalizzazioni e di
privatizzazioni, riformare il Mercato del Lavoro: questo è il primo passo da compiere per
portare il paese fuori dall’emergenza finanziaria ed economica. Ad esso dovranno seguire
misure più decisamente orientate alla ripresa degli investimenti e dello sviluppo, se non si
vuole che la crisi sfoci in recessione. Ma ciò di cui il Paese ha in assoluto più bisogno è di
imboccare la via delle riforme politiche ed istituzionali: di riprendere cioè il cammino
interrotto della Grande Riforma.
Un’Assemblea costituente per una Repubblica Presidenziale
L'Italia ha bisogno di una Grande Riforma che chiuda definitivamente l'epoca della infinita
guerra civile, degli odi di parte e delle drammatiche contrapposizioni. Una Grande Riforma,
che renda norma l'alternarsi al governo delle forze conservatrici e di quelle riformiste e che
consenta, a chi vince le elezioni, di poter davvero governare secondo quelle che sono le
indicazioni della maggioranza degli elettori.
www.federalismi.it
4
Una riforma di questo tipo richiede una revisione della nostra Costituzione. Non si tratta
soltanto di modificare la legge elettorale, salvaguardando il principio dell'alternanza, ma
anche di rivedere l'intera architettura istituzionale.
Si deve porre fine al bicameralismo perfetto.
Va ridotto il numero dei senatori e dei deputati.
Va ripensato il rapporto fra il governo centrale e il sistema delle autonomie locali alla luce del
federalismo.
Ma, soprattutto, va riequilibrato il rapporto fra i Poteri dello Stato, che oggi appare
gravemente squilibrato a danno di chi è chiamato a governare il Paese.
L'Italia, come del resto l'Europa, vive una emergenza economica e finanziaria drammatica che
ne minaccia la stabilità e, nel caso dell'Europa, la stessa sopravvivenza. Superare questa
emergenza è possibile se si comincia a pensare seriamente al futuro del Paese: e cioè a quale
Italia, a quale Stato, a quale Democrazia vogliamo arrivare.
Per questa ragione riteniamo giusto, nel momento stesso in cui sosteniamo lo sforzo comune
per fronteggiare la drammatica crisi finanziaria che attanaglia il Paese, proporre l'elezione
diretta di una Assemblea Costituente, cui venga demandato il compito di sottoporre al
Parlamento e al Paese un organico progetto di Riforma Istituzionale e di revisione della Carta
Costituzionale.
Nel corso degli anni ’80, quando questa necessità era già evidente, le forze riformiste
socialiste, d'intesa con quelle di matrice cattolica e liberale, avanzarono la proposta di una
Grande Riforma della società italiana. Una riforma che garantisse, al tempo stesso, la
governabilità del Paese e la sua modernizzazione. Quella proposta non ebbe successo, e lo
sforzo riformatore si infranse contro la resistenza di un vasto e articolato blocco conservatore.
Ma proprio la mancata realizzazione di quelle riforme, e il prevalere del compromesso
conservatore, sono all'origine della drammatica crisi finanziaria e istituzionale che attanaglia
oggi il nostro Paese. Da qui discende l'obbligo, per le forze politiche democratiche artefici
della Costituzione, di avviare una coraggiosa riflessione sulla nostra storia più recente e sulla
ineludibile necessità di una profonda revisione del sistema politico e istituzionale frutto del
compromesso fra le grandi forze politiche antifasciste.
Nessuno intende negare ciò che di grandemente positivo è derivato all'Italia da quel
compromesso: in primo luogo la Repubblica, la Democrazia e la Costituzione stessa. Quel
compromesso ha reso inoltre possibile la realizzazione di grandi riforme economiche e di
significative conquiste sociali Ma col passare del tempo, e col maturare di nuove necessità
per il Paese, quelle stesse Istituzioni, e il compromesso che ad esse era sotteso, si sono
www.federalismi.it
5
rivelate sempre di più come un ostacolo sulla via del rinnovamento e della modernizzazione
del Paese.
La centralità del Parlamento, voluta dai Costituenti per porre un limite al potere dell'Esecutivo
nel timore del possibile ripetersi dell'esperienza del fascismo, presupponeva infatti che fossero
i partiti ad intermediare il rapporto fra le Assemblee elettive e la società. Ma una volta che
questa capacità è venuta meno a causa della crisi del sistema politico fondato sui partiti di
massa, il Parlamento si è trasformato sempre di più in una camera di compensazione degli
interessi contrapposti, con grave danno per la sua funzione legislativa e per il suo stesso
prestigio.
L'inefficienza del Parlamento si è a sua volta ripercossa sulla stessa capacità dell'Esecutivo di
svolgere al meglio la propria funzione. Dovendo sottoporre alla ratifica del Parlamento ogni
suo atto, l'Esecutivo si è trovato nella necessità di fare sempre più spesso ricorso alla
decretazione d'urgenza ed al voto di fiducia. Prova, questa, non della forza, ma della
intrinseca debolezza di entrambi questi poteri.
Il concomitante indebolimento del potere legislativo e di quello esecutivo ha infine
determinato uno squilibrio nel rapporto fra questi due poteri e il potere giudiziario, il quale si
è via via appropriato di funzioni che non gli competono, sino al punto di esercitare un
preventivo diritto di veto nei confronti di ogni ipotesi di riforma della giustizia.
Riequilibrare il rapporto fra i Poteri dello Stato, restituire a ciascuno di essi la pienezza delle
proprie funzioni e la propria autonomia, ridare dignità alla Politica e creare le condizioni
perché essa possa tornare a svolgere il ruolo che la democrazia le assegna: sono questi gli
obbiettivi della Grande Riforma che proponiamo, e per realizzare la quale indichiamo la
necessità di eleggere una Assemblea Costituente.
E' giunta l'ora di prendere congedo dalla Prima Repubblica e dalla cosiddetta Seconda
Repubblica, e questo lo si può fare soltanto ridefinendo il Patto Costituzionale che ci tiene
uniti. L’inderogabile necessità di modernizzare il Paese e di assicurargli un governo che sia
effettivamente in grado di realizzare il programma di riforme per il quale ha chiesto ed
ottenuto la fiducia della maggioranza degli elettori, ci spinge nella direzione di indicare nella
Repubblica Presidenziale e nel sistema elettorale a doppio turno lo sbocco auspicabile della
Grande Riforma per la quale i Riformisti Italiani si battono.
Di questa proposta faremo il centro della nostra iniziativa politica e culturale, e la porremo
alla base del confronto che vogliamo aprire con tutte le forze riformiste e democratiche,
ovunque siano esse collocate.
www.federalismi.it
6
La riforma della politica
Una grande riforma politica e istituzionale dell'Italia sarebbe monca se non si affrontassero
contestualmente anche il problema della creazione di una nuova classe dirigente e quello, ad
esso connesso, del ruolo della politica e dei partiti.
E' per noi del tutto evidente che non esiste democrazia senza politica, così come non esiste
politica senza partiti politici! Ma i partiti italiani, nel corso di questi ultimi venti anni, non
sono stati all'altezza del loro compito. Si sono mostrati incapaci di rinnovare se stessi e,
soprattutto, di rinnovare il Paese. Hanno mancato alla prova decisiva nel ’92, quando si è
aperto il Mercato Unico Europeo e quando è stato introdotto l'Euro, e successivamente,
quando la crisi finanziaria internazionale ha messo a nudo la intrinseca debolezza delle
Istituzioni Europee. In entrambe queste occasioni, la politica in Italia ha ceduto il passo ai
tecnici e agli esperti.
I Governi tecnici possono svolgere, per un breve periodo, un ruolo di supplenza anche
meritorio. Ma alla lunga, essi non possono sostituirsi alla politica senza che la stessa
democrazia abbia a soffrirne.
E' dunque alla politica ed ai partiti politici che spetta il compito di formare e selezionare le
classi dirigenti, la cui legittimità a governare può venire soltanto dal voto e dalla fiducia che
loro accordano, di volta in volta, gli elettori.
Alla politica non ci sono alternative. Ma per recuperare il loro ruolo, la politica e i partiti
debbono rinnovarsi. Per questa ragione è necessaria una legge che ne regolamenti l'attività: a
cominciare dalla elezione degli organismi dirigenti e dalla selezione dei candidati alle elezioni
sino alle forme del loro finanziamento.
La politica ha sempre di più bisogno di competenze. Il vecchio "quadro" politico, nutrito di
ideologia e fedele al partito, è destinato a cedere il passo ad un nuovo tipo di quadro: un
quadro che sia al contempo un "tecnico" e un "politico", competente ma capace di avere
anche una visione politica, cioè d'insieme, della società. E' nella capacità di formare,
selezionare e proporre questo tipo di nuovo "quadro politico" che i partiti possono recuperare
credibilità.
Una seria riforma della politica e dei partiti è anche la condizione per ridare spazio al
confronto fra le diverse culture politiche, senza il quale la politica semplicemente non può
esistere. I partiti non sono creazioni artificiali. Sono il prodotto della storia del paese e sono
anche l'espressione di culture politiche - quella liberale, quella socialista, quella popolare e
altre ancora - che affondano le loro radici nella Storia del pensiero umano. I partiti che non
www.federalismi.it
7
hanno una precisa identità politica e culturale, o che hanno rinunciato ad averne una, non
hanno futuro.
I Riformisti Italiani rivendicano l'eredita politica e culturale del riformismo socialista e di
quello liberale e popolare, che tanto hanno contribuito alla creazione della democrazia e
all'elevamento delle condizioni materiali e morali del popolo italiano, e si propongono di
proseguirne l'azione per fare uscire il Paese dalla crisi e per aprire una nuova stagione di
rinnovamento sociale e di progresso economico e civile.
CAPITOLO 1
Le nostre proposte di riforma istituzionale
L'inefficienza e la lentezza con la quale gli Esecutivi hanno in Italia gestito la crisi economica
mostra che le riforme del disegno elettorale e di quello costituzionale introdotte in questi anni
sono state insufficienti a garantire un efficace governo dell'economia. Il legislativo e
l'esecutivo appaiono ancora soggetti alle interdizioni e ai veti di aggressivi gruppi di
pressione, di corporazioni che intendono riprodurre intollerabili ingiustizie sociali e di
generazione.
Le nuove norme costituzionali sui poteri regionali non hanno eliminato sprechi e una iniqua
distribuzione territoriale delle risorse. Il sistema elettorale del 2005, che avrebbe dovuto
tutelare le scelte degli elettori e impedire l'instabilità parlamentare, non si è mostrato un
rimedio sufficiente alle lentezze decisionali, ai poteri di veto, a una nuova frammentazione
della rappresentanza politica.
Le norme sul giusto processo non hanno prevenuto ingiustizie e l'uso politico del processo. Il
cittadino è sempre meno tutelato dall'invadenza di corpi separati privi di legittimazione e
operanti in dispregio della regola democratica della trasparenza.
L'inefficienza delle Istituzioni sta favorendo la nascita di una cultura antidemocratica, la
cultura del disprezzo nei confronti del popolo sovrano, della politica e dei partiti. In alcuni
casi si manifestano pulsioni tecnocratiche che sembrano riscoprire una antica diffidenza verso
le democrazie senza aggettivi. Riemerge anche, in
settori della politica e in vertici
dell'economia, la tesi della democrazia come sistema inadeguato alla gestione della
complessità sociale.
La lentezza e l'inefficacia dell'agire istituzionale non sono dovute in Italia a un sovraccarico,
bensì ad un difetto, di democrazia. Le Istituzioni sono frenate dall'assenza di legittimazione
elettorale. Una riforma istituzionale deve partire dalla ricostruzione della partecipazione
www.federalismi.it
8
democratica, dalla attribuzione al popolo di poteri effettivi nella scelta del Capo dello Stato e
nella formazione del legislativo.
Una riforma istituzionale deve ridisegnare anche gli attuali poteri di garanzia. Essi, come nella
tradizione delle grandi democrazie dell'Occidente, devono trarre la propria legittimazione da
un collegamento con la sovranità nazionale.
Riforma elettorale : doppio turno e presidenzialismo
I sistemi elettorali introdotti con successive riforme a partire dagli anni '90, che volevano
rafforzare il ruolo degli elettori imponendo alle forze politiche di esplicitare prima del voto
maggioranze e programmi di governo, non sono stati in grado di garantire in diverse
legislature la stabilità. La legge vigente (270 del 21 dicembre 2005) ha cercato di favorire la
indicazione, con il voto, di uno schieramento abilitato a governare, ma ha aperto nuove
contraddizioni. Essa ha consentito percentuali differenziate dei seggi nelle due Camere. Essa
ha prodotto un ceto parlamentare che, svincolato da un rapporto diretto con la società e con i
territori, si manifesta incapace di mantenere gli impegni assunti con l'elettorato.
I Riformisti Italiani propongono e chiedono un sistema elettorale a doppio turno e l' elezione
diretta del Capo dello Stato. La creazione di una Repubblica Presidenziale consentirebbe di
superare le numerose antinomie che la recente crisi, risoltasi con la formazione del governo
dei tecnici, ha evidenziato.
Le norme vigenti, costituzionali ed ordinarie, prevedono un controllo debole del legislativo
sull'esecutivo. L'instabilità parlamentare, le minacce di crisi, l'infedeltà delle maggioranze,
sono spesso dovute a un difetto di poteri di controllo delle assemblee sull'amministrazione e
sull'operato del governo. Una riforma democratica delle Istituzioni deve rafforzare la funzione
ispettiva e di controllo del Parlamento sugli atti del governo. Il potere di proposta dei vertici
dell'amministrazione deve essere attribuito all'esecutivo, ma il legislativo o una delle due
Camere, come il Senato negli USA, deve poter esprimere un parere vincolante dopo un esame
dell'aspirante all'ufficio.
Il federalismo
Il centralismo in Italia non ha favorito l'efficienza, un'equa distribuzione delle risorse, la
giustizia sociale, la responsabilità dei territori nella gestione dell'interesse collettivo. Il
federalismo è un problema di democrazia, ma anche di crescita sociale. Un’Italia federale è
una necessità se si vogliono superare storiche arretratezze, se si vuole favorire la giustizia
sociale e quella generazionale, se si vogliono combattere rendite ed illegalità, se si vuole
www.federalismi.it
9
premiare il merito e la competizione. Il modello federale non si costruisce solo delegando
poteri alle attuali Regioni, ma anche attribuendo alle comunità dei territori federati un ruolo
diretto nella formazione delle decisioni che interessano il Paese. Il bicameralismo ha un
senso, oggi, se una delle due Camere diventa espressione dei poteri federati. Un nuovo
bicameralismo deve prevedere la specializzazione delle funzioni.
Alla Camera della rappresentanza nazionale, alla Camera dei Deputati, deve essere attribuito
il compito di produrre la legislazione ordinaria, di decidere l'indirizzo politico, di votare la
fiducia al governo, di approvare i bilanci. Alla Camera federata deve essere attribuito il
compito di controllare l'operato dell'esecutivo, di concorrere alla formazione delle istituzioni
di garanzia, di vigilare sulla selezione e la lealtà delle burocrazie. In materia di legislazione, la
Camera federale deve essere chiamata a partecipare alla formazione delle leggi che
riguardano i diritti dell'individuo e le libertà fondamentali.
Le due Camere devono contribuire con pari dignità al processo di revisione della
Costituzione.
La riforma della giustizia
Il ruolo di controllo e di risoluzione imparziale dei conflitti che nelle democrazie moderne
spetta al giudiziario, è oggi in Italia fortemente compromesso. L'indipendenza del giudice è
limitata da un Consiglio Superiore della Magistratura eletto per due terzi dai magistrati con
criteri di appartenenza politica ed ideologica. Il controllo sulla costituzionalità delle leggi è
attribuito oggi ad un organo che, a differenza di quanto avviene nelle grandi democrazie
occidentali, è costruito con l'apporto di soggetti non legittimati dal voto popolare diretto: il
Capo dello Stato e i vertici di tre corpi giudiziari.
Occorre cambiare il meccanismo di controllo della costituzionalità delle leggi e renderlo
coerente con i principi della democrazia. La nomina dei giudici chiamati a pronunciarsi sulla
costituzionalità delle leggi deve essere attribuita a due soggetti della decisione collettiva che
godono di legittimazione democratica: il Parlamento, le Regioni federate, il Capo dello Stato
scelto col voto popolare.
Occorre rafforzare le garanzie dell'individuo nel processo, e di fronte all'amministrazione.
Prevedendo la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Garantendo il
cittadino di fronte alle pretese immotivate e agli arbitri delle amministrazioni. Impedendo che
una nuova cultura dello Stato etico fissi per le amministrazioni pubbliche regole meno
vincolanti di quelle che disciplinano la vita e l'attività del cittadino.
www.federalismi.it
10
La riforma della giustizia è una richiesta che ci viene rivolta dall'Europa e dagli organi di
garanzia dell'Unione. La Corte di giustizia europea ha condannato l'Italia per la pretesa di non
ritenersi responsabile di decisioni assunte contra legem dai magistrati! Innumerevoli sono le
condanne che il Paese subisce in materia di garanzia del cittadino nel processo!
Conformare l'ordinamento a quanto previsto dal referendum del 1987 è oggi un obbligo che ci
viene imposto dall'Europa, oltre che un dovere di coerenza con la volontà popolare.
Occorre infine consolidare due diritti inalienabili dell'individuo: la privacy e la libertà di
manifestazione del pensiero.
La violazione della privacy è spesso uno strumento utilizzato per collocare il cittadino in
condizione di inferiorità di fronte allo Stato. Alla difesa della privacy da violazioni che
possono venire da poteri economici, ma anche da poteri pubblici, va affiancato l'allargamento
della libertà di manifestazione del pensiero, definita in modo ancora limitativo dall'articolo 21
di una Costituzione frutto di culture spesso legate all'esperienza dello Stato autoritario.
Occorre negare ogni forma di censura. Occorre impedire che la legge favorisca solo alcuni
settori dell'informazione. Occorre allineare l'ordinamento delle telecomunicazioni a una
disciplina europea che consente l'intervento pubblico solo per l'esercizio di un servizio
destinato alla collettività, non orientato alla produzione del consenso, effettivamente
indipendente.
www.federalismi.it
11
CAPITOLO 2
Modernizzazione, liberalizzazione, riforma della Pubblica Amministrazione.
Lo scopo principale della grande riforma per la quale si impegnano i Riformisti Italiani è la
modernizzazione del Paese.
Modernizzare il Paese vuol dire, innanzitutto, liberalizzare la nostra economia e la nostra
società, aprire il mercato, rompere le posizioni di monopolio, vincere le resistenze
corporative.
Liberalizzazioni, e non solo privatizzazioni. Liberalizzazione dell'accesso alle professioni, al
mercato del lavoro, alla creazione d'impresa. Liberalizzazioni intese come rimozione di tutto
ciò che, nei vari campi, ostacola, comprime e distorce lo sviluppo di una economia dinamica e
di una società aperta.
Ma una effettiva modernizzazione del Paese si potrà avere soltanto se alle liberalizzazioni si
accompagnerà anche una profonda riforma della pubblica amministrazione. In questi anni si è
fatto molto per semplificare le procedure e per contenere i tempi necessari al disbrigo delle
pratiche, e si è avviata la diffusione dell'uso dell'informatica che deve proseguire con forza
nell'accesso dei cittadini e delle imprese alle procedure.
Ma il nodo della riforma della P.A. non è di carattere tecnologico, bensì politico e culturale.
Lo dimostra il fatto che successive “ondate” di innovazioni legislative, susseguitesi da
vent’anni a questa parte, non sono riuscite a determinare un miglioramento sostanziale della
qualità e dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni. Le riforme legislative restano in
gran parte sulla carta, perché le amministrazioni sono refrattarie per strutture (spesso
irrazionali), regole di funzionamento interno, mentalità burocratica, indebolimento delle
strutture tecniche e – non da ultimo – un eccessivo potere sindacale.
L’amministrazione appare quindi come un nodo gordiano, che non può essere sciolto da
singole improvvisazioni amministrative (le riforme per slogan: ad esempio le “zone a
burocrazia zero”), del tutto velleitarie, ma deve essere tagliato con una serie di scelte
strategiche per realizzare il diritto alla buona amministrazione sancito dalla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea.
La prima, e pregiudiziale, è la ridefinizione – nell’ambito del più generale processo di
revisione della spesa – delle funzioni che devono necessariamente essere rese, oggi ed in
futuro, e la verifica di coerenza con le strutture esistenti (che sono frutto di una stratificazione
casuale e non rispondono più a nessuna logica). È un approccio alternativo a quello dei tagli
www.federalismi.it
12
lineari, ottuso per definizione, che deve valere per tutte le amministrazioni centrali e locali,
tradizionali e “parallele”.
La seconda scelta strategica è la deamministrativizzazione, consentendo il massimo
ampliamento degli ambiti di attività umane – economiche, ma anche culturali, sociali etc. –
che non sono assoggettate ad autorizzazioni, permessi, controlli, vigilanze. Il cittadino,
singolo o associato, deve essere libero di fare tutto ciò che la legge non assoggetta
esplicitamente ad interventi di un’amministrazione, ed i poteri amministrativi di intervento
devono essere giustificati dall’esigenza dimostrata di tutelare interessi pubblici rilevanti, nel
rispetto dei principi di indispensabilità e proporzionalità di derivazione europea.
La terza scelta strategica riguarda la promozione della sussidiarietà amministrativa.
In attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale, di cui all’art. 118 della Costituzione,
molte delle attività di prestazione, tradizionalmente svolte da strutture pubbliche, che possono
essere organizzate dalla collettività, soprattutto a livello locale, devono essere esternalizzate
ed affidate ad organismi privati, in particolare ad imprese sociali (previste da un decreto
legislativo del 2006) – ad esempio cooperative tra famiglie – che agiscono con criteri di
efficienza economica e soddisfazione degli utenti, ma senza fini di lucro. Poiché queste
organizzazioni del privato economico – sociale (che vanno dalle associazioni di protezione
civile, alle scuole, alle fondazioni culturali, a quelle di origine bancaria, ai consorzi di tutela
dei vini, etc.) svolgono funzioni pubbliche o di interesse pubblico, il loro funzionamento
(qualità) e la loro gestione economica (se sono sovvenzionate, in qualsiasi modo, dai pubblici
poteri) debbono essere assoggettati a controlli da parte dell’amministrazione “di riferimento”
(per verificare, ad esempio, che in una scuola non vengano impartiti insegnamenti che
contrastano con la Costituzione e le leggi).
La quarta scelta riguarda la valorizzazione dell’autonomia, intesa come potestà di
autoregolamentazione. Il principio di sussidiarietà si deve estendere anche alla
regolamentazione – anche qui secondo un preciso indirizzo di fonte europea – nel senso che il
“regolatore” pubblico deve disciplinare soltanto gli ambiti ed i profili che hanno diretta
attinenza con la tutela di interessi pubblici, lasciando alle organizzazioni, sociali ed
economiche, di autoorganizzarsi e di autoregolamentarsi (dalle associazioni di soccorso
alpino fino agli ordini professionali, i quali hanno origine privatistica).
La quinta scelta strategica concerne il principio di autoresponsabilità, che comporta la
sostituzione dell’ingerenza e della diffidenza con il principio di buona fede amministrativa.
Veniamo da una storia e da una cultura che, sino a non molto tempo fa, considerava il
cittadino non come utente di servizi e titolare di diritti, bensì come un “suddito”, del quale per
www.federalismi.it
13
definizione si doveva diffidare. Questa impostazione va rovesciata: i rapporti tra cittadino ed
amministrazione debbono essere improntati al principio di buona fede.
Tranne eccezioni (ad esempio la tutela del paesaggio) il cittadino (o, per esso, un
professionista abilitato) deve attestare la conformità dei progetti ed istanze presentati alle
norme vigenti, assumendosi la responsabilità civile e penale di quanto dichiara, e poter
iniziare immediatamente l’attività. L’Amministrazione deve solo verificare la completezza e
veridicità di quanto dichiarato e la conformità dell’attività alle discipline vigenti dimostrando,
in caso, la specifica lesività per un interesse pubblico tutelato.
In caso di dichiarazioni false, devono essere applicate sanzioni amministrative e penali
automatiche ed immediate. Specularmente, però, l’Amministrazione non può “fare
ostruzionismo”, ed è obbligata a rispondere. L’inerzia, o peggio le tattiche dilatorie, vanno
puniti risarcendo il danno ed individuando il responsabile.
Il sesto principio è quello di trasparenza e concorrenzialità: tutti i “benefici amministrativi”,
dai posti pubblici, alle concessioni (ad esempio: di beni demaniali), alle sovvenzioni, agli
appalti di opere di servizi, devono essere attribuiti mediante concorsi o gare pubbliche.
Soprattutto, tutti i servizi per i quali sia configurabile una piena concorrenzialità (ad esempio:
le autolinee) devono essere autorizzati senza limitazioni, salvo quelle eventualmente imposte
dalla specifica natura del servizio, senza riguardi per situazioni precostituite, in conformità al
principio europeo di promozione di mercati aperti, efficienti e concorrenziali. D’altra parte, le
amministrazioni devono tutelare i contraenti privati, scelti mediante le gare, rispettando i
termini del contratto e pagando entro i termini previsti dall’Unione europea le prestazioni
regolarmente ricevute. In caso contrario, il risarcimento dei danni deve essere pieno. È l’unica
via per ridurre il “rischio politico – amministrativo italiano” che aumenta i costi per le
imprese e scoraggia gli investimenti, italiani e stranieri, come una serie di casi recenti
dolorosamente dimostra.
La settima scelta strategica – che è al contempo il presupposto e la risultante di tutte quelle
precedenti, a partire dalla ridefinizione delle funzioni – è la riorganizzazione delle
amministrazioni.
È un percorso lungo e difficile – fatto di revisione sistematica delle strutture, delle regole di
azione, delle procedure, dei comportamenti – che presuppone continuità di indirizzi politici e
determinazione nel procedere.
Si tratta sicuramente di ridurre le dimensioni degli apparati amministrativi, ma – al contempo
– anche di aumentarne l’efficienza e la qualità, perché, mentre si ridurranno le funzioni di
gestione, aumenteranno sicuramente le funzioni di programmazione e di controllo, molte delle
www.federalismi.it
14
quali con contenuti tecnici (si pensi alla sicurezza degli impianti o alla verifica dei progetti ad
impatto ambientale).
Amministrazioni più snelle, ma al contempo più preparate e forti, per resistere alla pressione
dei poteri privati.
Senza la riconversione delle amministrazioni – si ripete centrali, regionali, locali e “parallele”
– la modernizzazione è impossibile: sarebbe come cercare di far muovere un carro senza le
ruote.
Le quattro “ruote del carro” sono costituite: dalla revisione sostanziale dei compiti (e quindi
redistribuzione mirata delle risorse) delle singole amministrazioni; dal miglioramento
quantitativo e qualitativo delle prestazioni; dall’informatizzazione (che non va solo prescritta,
ma finanziata e coordinata) delle procedure; dalla politica del personale.
Le amministrazioni devono essere ripensate come aziende, che devono produrre le decisioni e
le prestazioni funzionali agli interessi generali, delle comunità e dei cittadini.
In particolare va ripensato radicalmente il regime del lavoro pubblico, smantellando
protezioni ed incrostazioni sindacali e lacciuoli corporativi, restituendo alle amministrazioni“aziende” il potere di autoorganizzarsi in modo flessibile. Prioritaria è la creazione di una vera
Scuola Nazionale di Amministrazione, con il coordinamento e la progressiva concentrazione
delle troppe scuole di settore e con una rete di interscambi “alla pari” con le eccellenti Scuole
Militari di Applicazione (post Accademia) e con i migliori dottorati universitari, per creare
rapidamente una rete di dirigenti selezionati per merito e non per voto di laurea, autorevoli ed
indipendenti dalla politica.
Se è vero che la “questione amministrativa” nasce con l’Unità d’Italia, non è un buon motivo
per non affrontarla.
Si porranno problemi enormi. Un esempio per tutti: come assorbire gli esuberi derivanti dalla
ridefinizione razionale delle funzioni e, al contempo, assicurare il rafforzamento delle
strutture ed il miglioramento dei servizi.
Qualcuno, significativamente di parte sindacale, suggerisce di utilizzare la flessibilità
organizzativa – recuperata smantellando regole assurde, contratti “gabbia” e prassi
inaccettabili – destinando parte del personale in eccesso all’estensione degli orari di apertura
degli uffici al pomeriggio ed al sabato, avviando vasti processi di riqualificazione o – ancora –
reimpiegando, anche in ruoli dirigenziali, presso altre amministrazioni molte figure
professionali in esubero (ad esempio: gli ufficiali superiori, che sono mediamente più
preparati dei “pari grado” dirigenti civili).
www.federalismi.it
15
PARTE SECONDA
CAPITOLO
1
I Problemi dello sviluppo italiano nel contesto internazionale ed Europeo
I problemi dello sviluppo e del benessere collettivo non possono oggi essere affrontati
efficacemente all’interno delle singole nazioni, perché la produzione e la distribuzione del
reddito sono condizionate dai mercati globali entro cui si svolgono gli scambi di beni, di
servizi e di attività finanziarie. Non avere saputo coordinare a questo livello la risposta alla
crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ha determinato il sostanziale fallimento della linea d'uscita
dalla crisi che si è poi concretamente seguita. Questo fallimento è stato ed è un fallimento
essenzialmente politico. Le risposte necessarie alla crisi e al pericolo della recessione
richiedevano infatti, e richiedono ora più che mai, un coordinamento tra le decisioni degli
Stati sovrani. Questo coordinamento non c'è stato, non solo fra le grandi aree, ma neppure
all'interno della Comunità Economica Europea.
La crisi dei debiti sovrani affonda le sue radici in questo nodo irrisolto. L’esplodere delle
dimensioni dei debiti sovrani dei principali Paesi avanzati non viene, infatti, da una
improvvisa ondata di finanza allegra post- recessione. L’aumento dei debiti pubblici è
derivato dagli interventi di stimolo fiscale con i quali si è risposto in prima istanza alla crisi,
dal salvataggio dei sistemi bancari, dal trasferimento di debito privato a debito pubblico, da
squilibri preesistenti. In Italia, l’alto debito viene dal passato quando la rinuncia alla
monetizzazione del debito anticipò di quasi un decennio la correzione della dinamica della
spesa pubblica. Caso particolare è quello della Grecia, dove sono venuti al pettine
occultamenti di bilancio e una crisi sistemica non recente che le selettive occhiute Istituzioni
comunitarie hanno fatto finta di non vedere per troppo tempo. Ma se la Grecia è divenuta un
problema europeo, ciò dipende da un fallimento politico europeo. Ed è il fallimento politico
dell’Europa che rischia oggi di trascinare il mondo in una nuova recessione globale. Ma
parlare di fallimento dell’Europa significa parlare di fallimento politico dei governi nazionali,
dai quali dipende la politica europea, direttamente o attraverso le Istituzioni comunitarie allo
scopo predisposte. Non si possono affrontare con chiarezza i problemi dell’economia e il
disegno delle politiche di sviluppo dell’Italia senza partire da questi nodi di fondo.
www.federalismi.it
16
Fallimento della politica, non del libero mercato
In reazione alla crisi finanziaria ed economica di tre anni fa, e di fronte alla crisi attuale, si è
parlato di fallimento del capitalismo fondato sul libero mercato. Si è attribuito al libero
mercato, e ai suoi sostenitori, la colpa di aver permesso l’affermarsi di un capitalismo
finanziario rapace e senza regole. Si discute oggi se il futuro sia da cercarsi in nuove forme di
capitalismo di Stato, e se esso sia capace di garantire in modo più efficiente la crescita del
benessere collettivo, o perlomeno di quella parte di benessere che dipende dal benessere
economico. A prova di queste affermazioni, viene portato l’esempio delle economie
emergenti, in particolare delle economie asiatiche ad alto tasso di crescita. In tal modo,
tuttavia, si invertono i termini del problema. In Cina è l’estendersi progressivo dell’economia
di mercato che ha determinato la crescita economica e non il rafforzarsi del controllo dello
Stato sull’economia. In Cina, tuttavia, vi è uno stato e un meccanismo decisionale politico che
permette di governare, seppur in modo autoritario, e soprattutto di guidare l’economia con
una visione strategica di lungo periodo.
La sfida per gli Stati democratici è di riuscire a garantire governi altrettanto in grado di uscire
dagli orizzonti elettorali di breve, e periodicamente di brevissimo periodo, per governare le
trasformazioni economiche in atto che superano il ciclo elettorale.
Alla radice delle crisi finanziarie ed economiche vi è quindi il fallimento della politica e non il
fallimento del mercato. La richiesta di nuove regole per impedire gli eccessi speculativi sui
mercati finanziari è rimasta, a tre anni dall’inizio della crisi dei subprime, senza risposta. E a
chi , se non alla politica, spettava di dare una risposta ? La cattura della politica da parte
dell’economia e della finanza è frutto della debolezza della prima, che non è stata capace di
difendere il proprio ruolo, ed è quindi da questa debolezza che è necessario partire.
Questa debolezza, questo sfaldarsi della capacità di governo, non derivano dall’affermarsi del
libero mercato, ma al contrario dal rafforzarsi di un capitalismo corporativo che dai ritardi
dello Stato nazionale nell’adeguarsi alle sfide della globalizzazione ha tratto vantaggio per
accelerare la dissoluzione dello Stato e renderlo sempre più subalterno e incapace di regolare i
mercati e tanto meno, quindi, in grado di porsi in posizione di controllo e regolazione dei
mercati finanziari, sia come singolo Stato nazionale sia, e soprattutto, attraverso accordi
cooperativi per soluzioni sovranazionali.
Il problema riguarda in generale tutti gli Stati democratici, ma assume una gravità particolare
in Italia, dove il capitalismo di mercato non ha tradizioni consolidate e dove i tentativi di
ampliare l’azione regolatrice del mercato in settori strategici dei servizi e dell’industria, in
sostituzione di quella esercitata direttamente attraverso la proprietà pubblica, si è tradotta in
www.federalismi.it
17
stagioni di privatizzazioni, non di liberalizzazioni, che hanno ancor più distorto il mercato,
ristretto l’effetto positivo della concorrenza, portato alla cattura dei regolatori e alla
subordinazione delle decisioni collettive a interessi economici privati spesso contrastanti tra
di loro e quindi paralizzanti di ogni decisione.
Ciò implica che la ricostruzione dello Stato e la riassunzione di un potere della politica come
espressione della volontà collettiva di guidare anche l’economia è un obiettivo strettamente
connesso a quello della liberalizzazione dei mercati. E’ il caso di dire oggi: “libero mercato in
libero Stato”. Ciò significa soprattutto disegnare i confini tra ciò di cui si deve occupare lo
Stato e ciò di cui non è necessario che si occupi.
I limiti del Fiscal Compact
La possibilità di unire forze politiche disponibili ad allearsi intorno a questo obiettivo
realmente costituente dipende dalla capacità di legarlo ai particolari problemi dell’oggi, cioè
alla necessità di promuovere la crescita economica e di fronteggiare la crisi finanziaria.
Da questo punto di vista, l’approvazione del Fiscal Compact europeo nella versione imposta
dalla Germania rischia di essere un passo indietro. Per l’Italia, la riduzione del debito al ritmo
previsto dall’accordo è infatti sostenibile a seconda del tasso di crescita che l’Italia riuscirà a
conseguire. Ma esso dipenderà, oltre che dalle riforme economiche i cui effetti sulla crescita
sono di medio termine, dalla politica economica, monetaria e di bilancio. La politica di
bilancio, orientata all’obiettivo del pareggio di bilancio per il 2013 e poi al rispetto degli
impegni fissati dal Fiscal Compact sulla riduzione del debito, difficilmente potrà essere tale
da permettere quel ritmo di crescita necessario a consentire la sostenibilità dell’impegno
stesso. Il motivo è che tutta l’Europa sarà ancorata a condurre una politica di bilancio
restrittiva, dal momento che i Paesi con debito elevato dovranno conseguire elevati avanzi di
bilancio ma nessun Paese potrà perseguire politiche di disavanzo compensative, poiché
all’impegno di riduzione rapida e contemporanea di tutti i debiti in eccesso si aggiunge quello
di rendere costituzionale il rispetto del pareggio di bilancio per tutti i Paesi firmatari
dell’accordo.
A fronte di ciò, non si intravede alcun passo in avanti sul piano istituzionale
per il
rafforzamento della capacità europea di governo dell’economia. Il governo di un’economia
implica infatti l’esercizio di un potere discrezionale di scelta delle politiche da adottare e
l’attribuzione di questo potere ad un organo di governo, non la fissazione di una regola fissa e
automatica oltretutto affidandone la garanzia di rispetto ad un organo giurisdizionale europeo.
Il governo della magistratura, di cui l’Italia ha ampia esperienza, esteso al livello europeo.
www.federalismi.it
18
Il Fiscal Compact non crea un’autorità di bilancio, ma neppure è stato compensato con
l’attribuzione di maggiori poteri discrezionali all’autorità monetaria, anch’essa vincolata a una
regola predeterminata senza un’autorità di governo in grado di correggerla. Si tratta del
massimo fallimento della politica, incapace di procedere in direzione di un governo
sovranazionale dell’economia e dei mercati. La cessione di una debole sovranità nazionale in
favore di una sovranità transnazionale nulla.
L’altro aspetto pericoloso di questa deriva è il fatto che in tal modo l’Europa rischia non solo
il suo dissolvimento ed il crollo dell’Unione monetaria, ma anche di entrare in un conflitto
crescente con gli interessi americani e delle economie emergenti, la Cina in primo luogo. E’
interesse di questi Paesi arrivare ad un coordinamento delle politiche economiche in grado di
evitare una stagnazione economica, o una nuova recessione, che renderebbe molto più
difficile sia il superamento degli squilibri commerciali globali, vero fondamento delle crisi
finanziarie ed economiche, sia un possibile accordo su un nuovo sistema di regole monetarie,
finanziarie e commerciali.
Le altre aree del mondo possono concordare politiche convergenti con un governo
europeo, o con governi, ma non con delle regole. Il governo Monti dovrebbe avere il compito
centrale di cercare la convergenza di interessi per un mutamento di fondo delle attuali
strategie europee imposte dalla Germania, che non sono attuabili senza il consenso italiano.
D'altronde anche in altri paesi della Comunità sta emergendo insofferenza non tanto verso la
necessità di tenere in equilibrio i conti pubblici quanto verso metodi e percorsi che vedono
nell'eliminazione dell'indebitamento e nella riduzione del debito non un mezzo per liberare
risorse e favorire crescita ed equità, ma un fine in sé. Una simile impostazione, accettata in
modo dogmatico ed affidata a minuziose regole predefinite, finisce per neutralizzare la
politica nazionale ed europea, negandone la funzione principale che è quella di compiere delle
scelte e di assumerne la responsabilità.
Gli Stati Europei hanno certamente il dovere reciproco di non danneggiarsi a vicenda
assumendo decisioni finanziariamente gravose e destinate a protrarsi nel tempo. I grandi
motori della spesa pubblica, i veri fattori della crescita del debito, come previdenza, sanità,
conferimento di diritti soggettivi e pubblico impiego debbono essere messi in sicurezza da
subito e definitivamente da parte di ogni Paese. Ma una volta disinnescate le " bombe di
profondità " che minano strutturalmente la stabilità dei conti, occorre che il Fiscal Compact
sia interpretato duttilmente riguardo alle scelte nazionali ,concordate in sede europea,
favorevoli a politiche anticicliche ,svolte attraverso misure virtuose quali la riduzione del
www.federalismi.it
19
prelievo sul lavoro, il rilancio delle opere pubbliche locali ,le politiche attive del lavoro ed il
sostegno temporaneo al reddito dei disoccupati. Misure queste necessarie, se si vuole evitare
che il rigore aggravi la recessione anche in Italia, con una spirale di esiti funesti.
CAPITOLO 2
Le Politiche di sviluppo
Le riforme per lo sviluppo
La recessione in atto colpisce l'Europa nel suo complesso ma all'interno di questo dato
comune c'è una peculiarità italiana che fa sì che da noi la crisi assuma i caratteri di una crisi
generale: non soltanto economica, cioè , ma anche e soprattutto, politica ,sociale ed
istituzionale.
Da oltre un decennio l'Italia ristagna. La produttività generale del paese e quella della
Pubblica Amministrazione non crescono. I salari dei lavoratori italiani sono fra i più bassi
d'Europa, come bassa del resto è la loro produttività, mentre la disoccupazione giovanile ed
intellettuale ha raggiunto un livello tale da ipotecare seriamente il futuro stesso del Paese. La
base produttiva, sia quella manifatturiera che quella dei servizi, si è ridotta e frammentata. Il
numero di grandi imprese si conta ormai sulle dita di una mano mentre le Piccole e Medie
imprese, che del sistema produttivo Italiano costituiscono la spina dorsale, vivono una
stagione di enorme difficoltà a causa dell'eccessivo peso fiscale e della drammatica quanto
ingiustificata stretta creditizia.
Non mancano, ovviamente, le eccellenze ,in tutti i campi. Ma questo non compensa il fatto
che il Paese nel suo complesso declina. La causa del declino non è però soltanto di natura
economica ma è, anche e soprattutto, di natura politica. Non sono ,insomma, gli imprenditori
e i lavoratori italiani che non sanno più fare il loro mestiere o che hanno perso ogni capacità
di innovare, ma è l'incapacità della politica di realizzare le riforme necessarie per favorire lo
sviluppo che ha determinato l'attuale situazione di ristagno. Il non avere posto mano in tempo
utile alle riforme necessarie o averle ostacolate in omaggio al principio conservatore "la
Costituzione non si tocca", ha aggravato la crisi del Paese. La crisi attuale è in larga misura
conseguenza della vittoria del blocco conservatore sulle forze riformiste. E' l'esito di un
drammatico fallimento politico che potrebbe sfociare in una altrettanto drammatica crisi della
democrazia .
Realizzare le riforme: questa è, dunque, la condizione affinché il Paese possa riprendere la
via dello sviluppo. A cominciare da una riforma della Scuola e dell'Università che sia
www.federalismi.it
20
ispirata a criteri di merito, di rigore e di qualità dell'insegnamento; a quella del Mercato del
Lavoro, che si ponga l'obbiettivo di superare il dualismo fra garantiti e non e di abbattere il
muro che impedisce ai giovani di accedervi, sino a quella della Contrattazione Sindacale che
deve consentire di ricostruire, a livello aziendale ,un nesso fra il salario e i contenuti concreti
del lavoro, che sono: la fatica, la professionalità, la responsabilità e la produttività. Cruciale,
infine, è la riforma fiscale, il cui scopo dichiarato, oltre ad una riduzione generalizzata della
pressione fiscale, deve essere quello di spostare progressivamente il peso della fiscalità dal
lavoro e dall'impresa verso le rendite, i patrimoni e i consumi.
Queste ed altre riforme ancora, quale quella della Pubblica Amministrazione e quella degli
Enti Territoriali, delle Municipalizzate e del Patrimonio Immobiliare pubblico, vanno portate
avanti da subito e con grande determinazione. L'alternativa alle riforme non è la stagnazione
o il declino economico, ma potrebbe essere una vera e propria crisi della nostra democrazia,
dalla quale questa volta non ci potrebbe mettere al riparo una Comunità Europea
politicamente debole quale è quella attuale.
Come osservava, in un differente contesto, Lord Melbourne, riferendosi alla mentalità
conservatrice inglese, "chi resiste ai miglioramenti in quanto innovazioni, presto dovrà
accettare innovazioni che non sono miglioramenti", intendendo con ciò dire che la mancata
realizzazione delle riforme necessarie e possibili apre quasi sempre la via a cambiamenti
indesiderati e sovente, come nel caso delle Rivoluzioni, dagli esiti catastrofici.
L'intervento dello Stato nell’economia
L'intervento dello Stato nell'economia deve perciò assumere sempre di più i caratteri di un
intervento "strategico": finalizzato cioè alla soluzione dei grandi problemi nazionali tuttora
irrisolti (il Mezzogiorno, innanzitutto), al potenziamento della dotazione di infrastrutture
materiali e immateriali che sono cruciali per la crescita economica e civile del Paese ed al
rafforzamento dell'apparato produttivo.
Per conseguire questi obbiettivi
lo Stato deve, attraverso le Riforme, promuovere la
concorrenza , rompere i monopoli e privatizzare, ove possibile, i servizi pubblici per favorire
lo sviluppo di nuove imprese e attrarre investimenti privati in questi settori. Ma deve anche
potere intervenire direttamente, attraverso il sistema del credito, i Fondi dedicati oppure le
imprese partecipate, in quei settori che sono strategici per lo sviluppo dell'apparato produttivo
o in quelli da cui dipende la sicurezza del Paese. Precludersi questa possibilità non avrebbe
senso, mentre ha senso definire con chiarezza i criteri, i limiti e le finalità di questi interventi.
www.federalismi.it
21
Il principio guida deve essere : il mercato se è possibile, lo Stato se necessario. Lo Stato non
deve sostituirsi all'impresa privata, ma operare in sinergia con il sistema delle imprese. E'
dall'incontro fra l'autonomo sforzo produttivo delle imprese e di chi vi lavora e l'intervento
regolatore e di sostegno dell'attività imprenditoriale da parte dello Stato e della pubblica
amministrazione che nasce lo sviluppo. Ciò vale innanzitutto per i settori cosiddetti strategici
quali le TLC, i trasporti, l'energia e la difesa, nei quali peraltro già operano le Imprese
Partecipate dallo Stato. Ma vale, a maggior ragione, per quei settori quali l'agro-alimentare, il
turismo e la valorizzazione dei beni ambientali e culturali , decisivi per il futuro del Paese e
del Mezzogiorno, nei quali lo Stato non è presente o, se lo è, assolve al suo ruolo con scarsa
efficacia. In ciascuno di questi settori, la possibilità che lo sviluppo superi la fase localistica
ed artigianale per dare vita a veri e propri sistemi industriali dipende dall'incontro virtuoso fra
l'autonoma iniziativa degli imprenditori privati e un’attiva politica industriale da parte dello
Stato, che non può significare soltanto dotare i territori di infrastrutture adeguate, ma anche
politica del credito, sostegno agli investimenti e ,se necessario, investimenti diretti.
I modi e le forme della politica industriale possono variare, ma la sua necessità non viene mai
meno. Non è vero che la migliore politica industriale sia "nessuna" politica industriale. Vi
sono politiche industriali virtuose e politiche industriali cattive. In Italia abbiamo conosciuto
le une e le altre. Le politiche industriali virtuose sono quelle che perseguono finalità coerenti
e compatibili col mercato globale e che agiscono "attraverso" e non "contro "il mercato".
Quelle cattive sono quelle che impongono al mercato e alle imprese finalità extra economiche.
Il fine della politica industriale è lo sviluppo e la qualificazione dell'apparato produttivo; è la
crescita della produttività; è la nascita di nuove imprese. La difesa dell'occupazione esistente,
così come il reddito dei lavoratori e il loro benessere, non dipendono dalla politica industriale,
e non è ad essa che ci si deve affidare per questo. Il fine della politica industriale è la
creazione di ricchezza ed è l'aumento del PIL. L'occupazione ed il benessere dei lavoratori ne
sono la conseguenza e non il presupposto.
www.federalismi.it
22
Il Mezzogiorno
Il Mezzogiorno è il banco di prova decisivo per una politica nazionale di riforme e di
sviluppo .Derubricato, nel corso degli anni ’90, da grande questione nazionale a semplice
problema di ritardato sviluppo, il Mezzogiorno si ripropone oggi come il più grande " nodo "
irrisolto della nostra storia nazionale: un potenziale fattore di ripresa economica e civile ma
anche una palla di piombo ai piedi dell'intera Nazione.
L'idea che il Mezzogiorno, al pari del Galles o di altre aree depresse dell'Europa continentale,
potesse risollevarsi senza dovere più contare su di una politica nazionale di riforme, ma
facendo esclusivo affidamento sui programmi comunitari di sviluppo (arrivati spesso in
ritardo e quasi mai bene utilizzati) e sull'iniziativa dal basso, si è rivelata per quello che era:
una pericolosa e colpevole illusione. Va perciò innanzitutto restituita al Mezzogiorno la sua
concreta dimensione di grande questione sociale, economica, politica e culturale, nazionale.
La questione meridionale, infatti, è soltanto in parte una questione di arretratezza economica.
Essa è, anche e soprattutto, una questione istituzionale, politica e sociale. Deriva cioè dai
caratteri e dalle forme che lo Stato, gli Enti locali e territoriali, la Pubblica Amministrazione,
l'amministrazione della Giustizia e il Mercato (ivi compreso quello del lavoro) hanno assunto
nel corso dei passati decenni. Un carattere talmente distorto (e nel caso dello Stato, talmente
invasivo) da costituire oggi l'ostacolo principale al suo sviluppo. Per questa ragione il
Mezzogiorno, più di qualsiasi altra area del Paese, ha bisogno di grandi riforme.
Non di un nuovo intervento straordinario, ma di una straordinaria accelerazione del processo
di riforme il Mezzogiorno ha bisogno per imboccare la via dello sviluppo. Anche se
nell'immediato il prezzo da pagare per le riforme potrebbe essere assai alto.
La riforma federalista degli Enti locali e territoriali porterà infatti, anche nel Mezzogiorno, ad
una loro drastica riduzione con la conseguente messa in discussione di ampie sacche di
"lavoro assistito". Lo stesso vale per la riforma e la messa in efficienza della P.A., per la
riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali e per le politiche di contrasto al
lavoro nero. Sono tutte riforme che, come quella della sanità o della scuola, se da un lato
riducono le aree di inefficienza e di spreco, dall'altro, però, mettono a nudo una drammatica
dilatazione e degenerazione dell'assistenzialismo dietro al quale, oltre al "potere" dei politici
che lo sfruttano a loro beneficio, c'è una effettiva miseria sociale diffusa. Non sarà facile per
nessuno portare avanti queste riforme, anche se è necessario farlo. Ma proprio per questa
ragione, nel Mezzogiorno più che altrove la politica di risanamento deve collegarsi in modo
chiaro ed evidente alle politiche per lo sviluppo.
www.federalismi.it
23
Ciò significa , innanzitutto, lotta alla criminalità organizzata che dell'economia in molte aree è
arbitra. Ma significa anche politica del credito, dell'energia e delle infrastrutture, che renda
questi beni disponibili per gli operatori economici del Mezzogiorno a costi equivalenti e non,
come è oggi, superiori a quelli del Nord. Significa, infine, politiche industriali attive per
aiutare le "vocazioni " del territorio a trasformarsi in imprese o in un sistema di imprese. Non
lo si può fare per decreto, ma si possono però creare delle opportunità di investimento sia per
gli imprenditori locali che per quelli esterni o esteri. L'agro-alimentare, il turismo, i beni
ambientali e culturali ma anche le tecnologie più avanzate (l'avionica, le biotecnologie, la
chimica verde) e la logistica per servire il grande bacino del Mediterraneo rappresentano
altrettante potenzialità e leve per lo sviluppo del Mezzogiorno, il cui avvenire, come già in
altri momenti della nostra storia, dipende dalle grandi riforme nazionali e da attive politiche di
sviluppo.
www.federalismi.it
24
PARTE TERZA
CAPITOLO 1
Lavoro e welfare
Il lavoro in una società che è cambiata
La società italiana ha cessato da tempo di dividersi fra operai e padroni. Alla tradizionale
divisione di classe se ne sono sostituite di nuove: quella fra lavoratori pubblici e privati, fra
giovani non garantiti e generazioni precedenti, fra attivi ed inattivi, fra aree del Paese, fra
dipendenti ed autonomi, fra metropoli e provincia, fra generi. Quella che ne risulta è una
società molto più poliedrica, di lettura ed analisi molto più complesse di quella precedente.
Ad una contrapposizione frontale si sono sostituite fratture che si sovrappongono e si
intersecano. Ed il compito di una iniziativa riformista è, ad un tempo, di far sì che esse non si
sommino riproducendo uno scontro sociale dagli esiti fortemente conflittuali, e di evitare che
ad una società articolata non consegua l’isolamento del singolo, sottratto all’appartenenza a
qualunque soggetto collettivo.
Il lavoro dipendente è, oggi, lontanissimo da quello dell’operaio massa, la figura prototipo
dell’organizzazione produttiva fordista, e contiene forti elementi di capacità individuale, di
iniziativa, di conoscenza. Il lavoro manuale è, al contrario, forse più presente nell’area del
lavoro autonomo, nel settore artigianale ed in quell’arcipelago di piccole imprese in cui
l’imprenditore è spesso presente anche nello svolgimento materiale del lavoro.
Incredibilmente, in tutto questo tempo, gli strumenti pubblici, sia finanziari che
ordinamentali, di intervento, hanno conosciuto un dinamismo molto inferiore, vittime del
costante veto esercitato da una struttura di rappresentanza degli interessi ancora strutturata su
un assetto che non esiste più.
La conseguenza, a cui il riformismo deve porre rimedio, è che le cause che determinano le
disuguaglianze e gli strumenti per compensarle ormai hanno finito per divergere. E gli istituti,
di diritto del lavoro come di welfare, nati per proteggere e redistribuire, non riescono più a
svolgere il loro ruolo: anziché ridurre le ingiustizie, le lasciano intatte, o le aggravano, o
perfino ne creano di nuove.
www.federalismi.it
25
La tutela del posto di lavoro secondo i bisogni e i meriti
Le tutele contro i licenziamenti che vigono sono concepite sulla base di un approccio
puramente quantitativo al lavoro, che aveva un senso che non trova più rispondenza nella
realtà produttiva. Il loro aggiornamento non serve a favorire il capitale, ma a ridurre le
disuguaglianze insite in un mercato del lavoro frastagliato, in cui molto spesso sono i livelli
differenziati di tutela, più che i meriti, a decidere sulle scelte che riguardano il personale.
Serve a valorizzare la capacità e l’apporto individuale al contenuto del lavoro e, in definitiva,
a permettere l’impiego efficiente del fattore lavoro nell’economia nazionale, evitando una
distorsione che comprime le potenzialità produttive dei lavoratori italiani nel loro complesso.
L’obiettivo della riforma del mercato del lavoro deve essere quello di incoraggiare il rischio
nell’investimento, sia in capitale umano, sia in capitale fisico, sia in nuove tecnologie. Il
rischio accettabile è quello che permette di correggere le decisioni, se le valutazioni di chi
investe gettando il cuore oltre l’ostacolo si rivelano ottimistiche o se le circostanze esterne ne
richiedono la correzione. La rivisitazione delle norme in materia di licenziamento, che deve
trovare il bilanciamento di un sistema di protezione transitorio dei redditi, fa parte di questo
approccio “riformista” alla ricerca di maggiore produttività e occupazione.
Ciò che occorre è una riforma che segni una profonda svolta nell’organizzazione del mercato
del lavoro e nelle relazioni industriali e che lanci principalmente un segnale di ottimismo. E’
infatti un segnale di ottimismo attribuire fiducia agli imprenditori, ai lavoratori e ai sindacati
nella loro capacità di regolare i loro rapporti nel segno dello sviluppo e della capacità
competitiva delle singole imprese in cui operano, laddove si decidono concretamente
investimenti e assunzioni.
Sarebbe un grave errore ricondurre la necessità della riforma soltanto a questioni di carattere
economico e di efficienza del mercati. Questi motivi ci sono, e giustamente la Commissione
Europea li ha sottolineati. Ma l'obbiettivo vero della riforma deve essere una maggiore
giustizia sociale e una più efficace tutela del lavoro e dei lavoratori: di tutti i lavoratori e,
soprattutto, dei giovani.
L'obiettivo di tale riforma non può che essere quello della estensione del lavoro a tempo
indeterminato, riconducendo il ricorso al lavoro temporaneo entro i limiti delle effettive
esigenze aziendali e produttive. Ma per conseguire questo obbiettivo
vanno rimosse le
rigidità che rendono moto difficile, se non impossibile, il licenziamento per motivi economici.
La tutela dei lavoratori rispetto al licenziamento discriminatorio, al contrario, deve essere
garantita a tutti i lavoratori, e non soltanto ai dipendenti delle medie e grandi imprese, dalla
legge ordinaria.
www.federalismi.it
26
Ripensare la spesa pubblica per potenziare e valorizzare le capacità individuali
Le politiche di welfare vanno ripensate anch’esse nella medesima ottica. La spesa sociale
italiana si configura prevalentemente in modo passivamente compensativo. A partire da quella
pensionistica che ha seguito per decenni proprio questa logica: avvicinare l’età di
pensionamento perché se il lavoro è una forma di sfruttamento, un puro scambio di tempo e
fatica contro denaro, allora la mano pubblica deve tendere ad abbreviare il più possibile il
tempo attraverso il quale questo sfruttamento si determina.
Troppo poco spazio, ed impegno finanziario, è riservato al contrario al vero fattore che
garantisce gli individui nella ricerca del lavoro, nella sua conservazione e nella legittima
aspirazione ad un reddito più elevato: il potenziamento delle capacità individuali. Occorre che
il principio di formazione ed elevazione professionale dei lavoratori dell’articolo 35 di una
Costituzione molto celebrata nella retorica e poco praticata nella realtà quotidiana, si traduca
in adeguate politiche fiscali e di welfare. Il trattamento fiscale di favore per le componenti
qualitative della retribuzione va rafforzato e le politiche attive del lavoro devono ricevere
attraverso la responsabilizzazione dei soggetti istituzionalmente competenti, le Regioni, ma
anche con politiche statali di favore, soprattutto nel campo del fisco e del credito.
La stessa fiscalità sul reddito si ispira ad un dogma di progressività come valore assoluto,
tralasciando la necessità di conciliare il principio del concorso alle spese secondo i propri
mezzi con quello della motivazione alla ascesa sociale che, soprattutto ai livelli di reddito
medio bassi, è una componente decisiva. Un’imposta negativa sui soli redditi da lavoro molto
bassi, temporanea e concentrata sui contribuenti giovani o con figli a carico.
Una delle novità che la crisi ha portato con sé, del resto, e che minaccia di divenire un fattore
strutturale della società a venire, è la forte crescita del numero dei workingpoors, da un lato, e
dei cosiddetti “scoraggiati”, dall’altro, cioè di coloro che si ritraggono dal mercato del lavoro
e finiscono per non comparire nelle statistiche. Si tratta di categorie, che possono provenire
tanto dal lavoro dipendente tanto da quello autonomo, sconosciute agli strumenti di welfare
tradizionali, prevalentemente incentrati sulla perdita del reddito da lavoro, e non sulla sua
insufficienza o sulla rinuncia a ricercarlo.
Rispetto a strumenti assistenziali universalistici di spesa diretta, il “Premio per il lavoro”,
sotto forma di imposta negativa, risulterebbe molto più incentivante e responsabilizzante,
contribuirebbe ad ampliare l’area della popolazione attiva, garantirebbe un forte incentivo
all’accettazione di un lavoro e saprebbe meglio conciliare i valori dell’aiuto al bisogno e del
rispetto del merito.
www.federalismi.it
27
Esso permetterebbe inoltre di attutire le difficoltà cui andranno incontro i lavoratori in età
avanzata che la recente riforma pensionistica è destinata a produrre e che, verosimilmente,
presenteranno aspetti di analogia con i problemi che oggi affliggono il segmento giovanile del
mercato del lavoro.
Welfare dal basso: il ruolo delle parti sociali e delle istituzioni locali
Il sostegno al reddito, poi, nelle sue molteplici fattispecie che conseguono alle varie cause di
bisogno - disoccupazione, riconversione aziendale, infortunio,
malattia, maternità, non
autosufficienza - deve essere ripensato sia rispetto agli strumenti che ai destinatari. Quanto al
primo aspetto, occorre che al pilastro pubblico assicurativo e previdenziale, se ne affianchi
ovunque sia possibile un secondo, integrativo e negoziale. E’ una materia che compete,
innanzitutto, alla libera iniziativa della parti sociali ma verso la quale un’utile funzione di
stimolo da parte dei poteri pubblici può comunque essere svolta, sia in termini di regolazione
che di agevolazione fiscale, sia a livello centrale che locale.
Proprio il ruolo delle istituzioni locali e, ancor più, l’attivazione della libera iniziativa delle
parti sociali costituiscono i fattori che possono contribuire a permettere che la geografia delle
risorse e quella dei bisogni tornino a coincidere, correggendo un approccio universalistico
troppo astratto e che molto difficilmente può combaciare con una realtà sociale che si fa
sempre più articolata e differenziata, e che solo un welfare integrativo, territoriale e dal basso
può fedelmente interpretare.
Uno dei fenomeni più interessanti che sta prendendo piede, nelle relazioni di lavoro, del resto,
è l’introduzione di forme assistenziali aziendali, di servizi o prestazioni aggiuntivi rispetto al
reddito monetario, che assumono un carattere multiforme, dai tradizionali buoni pasto, al
contributo dell’azienda per la retta degli asili nido, ai buoni sconto per gli acquisti alimentari
o di abbigliamento. Sono forme innovative, ancora molto sporadiche, che possono però
estendersi se oggetto di politiche pubbliche di favore.
Tutto ciò è ancor più vero dal punto di visto soggettivo, cioè dell’individuazione dei
destinatari delle politiche di welfare. Esse sono state fino ad oggi tarate sulla figura prototipo
del lavoratore dipendente inserito in grandi strutture organizzative private o pubbliche.
Occorre, anche in questo caso, adeguare l’ambito di intervento ai veri settori da cui emergono
condizioni di necessità e che restano, tuttora, largamente trascurati nella distribuzione della
spesa pubblica: dal mondo del lavoro atipico a quello del lavoro autonomo e piccolo
imprenditoriale, che costituiscono spesso forme di lavoro manuale ed in molti casi altro non
www.federalismi.it
28
sono se non l’espressione della volontà di mettersi in proprio da parte di ex dipendenti, e che
finisce per essere disincentivata dalla perdita dei benefici welfaristici.
Nuovi bisogni in una società’ in divenire
Una moderna analisi riformista mostra che nel mondo del lavoro le condizioni potenziali di
bisogno sono diverse perché sono diverse le forme della produzione della ricchezza e diversi,
perciò, non possono che essere i canali attraverso i quali si determinano le condizioni di
ingiustizia.
Lo stesso può dirsi, più in generale, per le condizioni sociali delle persone che hanno assunto
conformazioni molto diverse da quelle tradizionali.
La famiglia, innanzitutto, da soggetto attivo di sostegno, complementare rispetto
all’intervento pubblico, sta diventando sempre più un soggetto che necessita a sua volta di
forme di supporto. Vi sono categorie, innanzitutto madri single e padri separati, che da
fenomeni sporadici sono divenuti fattori socialmente rilevanti e sono, tuttavia, destinatari di
forme di aiuto insufficienti o nulle.
La stessa famiglia soffre, nelle dinamiche stesse della sua formazione, dello spostamento in
avanti del ciclo di vita con ciò che ne consegue sulla natalità e sulle generali condizioni
economiche.
La proprietà della casa, infine, rappresenta oggi uno dei più profondi solchi che separano
l’area del benessere da quella dello stato di necessità. La condizione di mancata proprietà
dell’abitazione, unita agli elevati valori del mercato immobiliare e degli affitti, comporta un
enorme spostamento mensile di ricchezza dal 20% circa della popolazione verso i ceti più
abbienti. E’ una redistribuzione regressiva che si svolge interamente nel settore privato, ma di
dimensioni tali da vanificare largamente l’effetto degli strumenti redistributivi pubblici.
La necessità di adeguare gli istituti di welfare alla realtà economica e sociale attuale richiede
una paziente applicazione del metodo riformista di analisi dei problemi, ascolto della società,
individuazione delle azioni da adottare, misurazione dei risultati non rispetto ad un modello
astratto, ma in termini di miglioramento rispetto alla situazione preesistente.
E’ un compito, del resto, che discende dalla Costituzione stessa. Essa si apre con una
promessa, quella di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano la liberta e
l’eguaglianza dei cittadini e impediscono lo sviluppo della persona umana. Chi l’ha
conquistata e scritta, la società la voleva cambiare. Individuare gli ostacoli che ci sono oggi,
ed i limiti che ci sono oggi, è l’unico modo per restare fedeli a quella promessa.
www.federalismi.it
29
CAPITOLO 2
Ridare speranza ai giovani
L'obbiettivo più ambizioso che i Riformisti Italiani si pongono è quello di contribuire a
riaprire un dialogo con le nuove generazioni. Non era mai accaduto nella storia della nostra
Repubblica che un numero cosi grande e cosi qualificato di giovani non trovasse la via per
inserirsi nel mondo del lavoro e per affermarsi nella società. E' come se una intera "leva" di
giovani bene addestrati fosse stata chiamata alle armi anziché al lavoro, e fosse poi scomparsa
in una guerra. Una perdita secca per tutta la società! Non è tanto la prospettiva di dovere
eventualmente guadagnare meno dei loro genitori che spaventa i giovani, quanto piuttosto la
mancanza di ogni prospettiva, ed è in questo "vuoto" che può maturare una frattura di
generazione. Da promotori del cambiamento, anche culturale e di costume, come è stato
nell'immediato dopo guerra e negli anni dello sviluppo, i giovani rischiano oggi di divenire
soggetti passivi, che non determinano la situazione ma la subiscono. Gli spazi di iniziativa e
di movimento che si aprono, sulle questioni della Scuola e dell'Università come su quelle
ambientali, vedono la parte più visibilmente attiva di loro collocarsi sovente sul fronte di un
inedito antagonismo conservatore piuttosto che su quello delle riforme e dello sviluppo. E'
una drammatica metamorfosi sociale e culturale quella che si sta verificando, e che più di ogni
altra segnala l'urgenza di riaprire un confronto con i giovani sul terreno di un vasto
programma riformatore. E' l'assenza di opportunità e la mancanza del merito che colpisce di
più i giovani. L'assenza di merito, in particolare, provoca un duplice danno: da una parte
scoraggia i giovani più capaci dall'impegnarsi, per timore di vedere vanificati i propri sforzi e,
dall'altro, danneggia il Paese in quanto non di rado persone non meritevoli e non qualificate si
trovano ad occupare posizioni apicali. Per questo molti giovani lasciano il Paese, sia perché
ricercano delle opportunità di lavoro che qui non trovano e sia perché delusi per non avere
trovato riscontro al proprio impegno e alle proprie capacità. Da qui, principalmente, deriva la
ineludibile necessità di ridare slancio alla società italiana ridando innanzitutto slancio ai
giovani attraverso la creazione di occasioni di lavoro, il sostegno alle iniziative
imprenditoriali giovanili e attraverso il riconoscimento e l'attribuzione di premialità a chi lo
merita.
www.federalismi.it
30
I giovani e il lavoro
Parlare di giovani oggi significa soprattutto parlare di lavoro. La disoccupazione, che già di
per sé è un fenomeno macroeconomico serio e che ha gravi conseguenze sulla vita delle
persone, è ancora più preoccupante quando interessa in una percentuale cosi grande le nuove
generazioni. Un lavoro è senza dubbio fondamentale per guardare con fiducia al futuro, per
mantenere una famiglia, acquistare una casa, per provare a raggiungere serenità e stabilità.
Come sempre accade per i problemi complessi, anche nel caso della disoccupazione giovanile
non esiste un’unica soluzione. Esistono una serie di provvedimenti e di idee che insieme
possono contrastare il fenomeno.
Certamente, uno dei modi più efficaci per combattere la disoccupazione che interessa le
nuove generazioni è quello di aumentare gli incentivi per le aziende che assumono giovani.
Così come è fondamentale sostenere i giovani che creano impresa, finanziando i progetti
meritevoli. Bisogna poi contrastare con fermezza lo sfruttamento dei giovani. Troppo spesso
nel nostro Paese, infatti, gli stipendi ed i salari per i giovani che lavorano sono del tutto
insufficienti per permettere ai ragazzi di uscire di casa e costruirsi davvero un futuro. Va
infine dedicata una grande attenzione ai problemi della disoccupazione giovanile nel
Mezzogiorno, che ha raggiunto livelli drammatici e che già determinano un flusso migratorio
verso il Nord e l'estero di dimensioni e di qualità tali da compromettere il futuro stesso di
quest’area del Paese.
Ma la cosa in assoluto più importante ai fini della lotta alla disoccupazione giovanile è aprire
ai giovani il mercato del lavoro. Cosi oggi non è. La stragrande maggioranza dei giovani vive
ai margini del mercato del lavoro. Il lavoro precario, a termine o a progetto, e il lavoro nero,
non rappresentano per i giovani l'eccezione ma, per un numero inaccettabile di essi, l'unico
modo per potere lavorare. A ciò si aggiunge il fatto che, a differenza di quanto accade negli
altri Paesi europei, il giovane italiano è solo quando cerca il suo primo lavoro e lo è ancora di
più quando, avendolo trovato, rischia di non vederselo rinnovare o di perderlo. Tutto ciò non è
più tollerabile da parte dei giovani. Giustamente il Presidente Monti, in un intervento fatto
precedentemente alla assunzione del suo attuale incarico, osservava come in Italia, mentre
non si giustificava uno sciopero generale, avrebbe avuto invece assai maggiori motivazioni
uno sciopero generazionale.
Apertura del mercato del lavoro ai giovani, garanzie del mantenimento dell'impiego diluite
nel tempo e affidate più alla crescita della produttività del lavoro e all'elevamento costante
della professionalità che non a norme che impongano il reintegro in caso di licenziamento per
motivi economici e, infine, salari che corrispondano sempre di più ai contenuti concreti del
www.federalismi.it
31
lavoro. E' questa la via maestra per difendere i giovani, per inserirli nel mercato del lavoro e
per mettere a frutto le loro competenze e risorse professionali. L'attuale normativa in materia
di licenziamenti individuali costituisce un ostacolo ad andare in questa direzione, e per
questo va rimossa
Una politica di riforme per i giovani
Sarebbe poi un grave errore ignorare quanto sia necessaria una riflessione seria ed
approfondita sul ruolo delle Università e delle scuole italiane. Dovrebbe far riflettere il fatto
che quasi sempre le aziende investono risorse importanti sulla formazione dei nuovi giovani
assunti. Come se, dopo 5 anni di scuola superiore, dopo 5 anni di Università, e dopo master di
primo e secondo livello, i giovani non fossero ancora pronti per entrare nel mondo del lavoro.
Queste osservazioni ci portano ad affermare con convinzione la necessità di una più stretta
collaborazione tra il mondo delle imprese e quello universitario. Il mondo del lavoro e quello
della formazione non possono continuare ad essere distanti come lo sono oggi. Se non lo
fossero, con ogni probabilità la conoscenza della lingua inglese fra i ragazzi italiani non
sarebbe cosi scarsa come è oggi.
Bisogna anche contrastare la cultura secondo la quale i figli di notati devono fare i notai, i
figli di avvocati devono fare gli avvocati, i figli di professori universitari devono fare i
professori universitari. La mobilità sociale è un indicatore di civiltà. Tutti i lavori esistenti
hanno la propria dignità. In Italia c’è bisogno anche di artigiani, di falegnami, di operai e non
solo di laureati. Dobbiamo costruire una società più basata sul merito e su una sana
competizione, che offra a tutti le stesse opportunità.
Tuttavia, per essere davvero riformisti, occorre ricordare che i giovani sono anche essi
responsabili del loro futuro. Con ciò non si vuole dire che lo Stato e la politica non hanno e
non possono avere grandi e gravi responsabilità verso le nuove generazioni e i loro problemi.
Vuole più semplicemente dire che ciascuno, giovani inclusi, è in parte responsabile del
proprio destino e lo è nel momento in cui compie una scelta, sia essa di percorso scolastico
che di vita e di lavoro. Bisogna incoraggiare
i giovani a prendere decisioni serie e
consapevoli, ed a riflettere sulle vie migliori da percorrere.
La politica italiana riuscirà a consegnare nelle mani dei giovani un’Italia diversa solo se si
impegnerà davvero a sconfiggere la disoccupazione che affligge le nuove generazioni oggi.
Ma anche se riuscirà finalmente a realizzare la riforma delle Istituzioni, di cui il nostro Stato
ha disperatamente bisogno. Rappresentando infatti il futuro naturale del Paese, i giovani
hanno tutto l’interesse di vivere in una democrazia davvero governante, in grado di dare
www.federalismi.it
32
risposte rapide ed efficaci ai problemi economici e sociali. Ed è anche, e soprattutto per
questo, che è a loro che rivolgiamo la nostra proposta.
CONCLUSIONI
Per un’alleanza dei Riformisti
Chi sono i nemici delle Riforme? In Italia esiste un blocco conservatore che ha impedito nel
passato, e impedisce tuttora, una politica di riforme. E' un blocco variegato, nel quale
confluiscono forze economiche, sociali, politiche e culturali, diversamente collocate ma
convergenti nella tenace difesa dell'ordine esistente delle cose. La più tipica manifestazione di
questo orientamento politico trasversale è il grido indignato di "la Costituzione non si tocca",
che si leva ogniqualvolta vengono proposte riforme nel campo della scuola e dell'Università,
del mercato del Lavoro, della Giustizia, della Pubblica Amministrazione, delle Istituzioni e,
per conseguenza, della Costituzione stessa. A formare questo blocco hanno concorso in
questi anni componenti importanti, e talvolta maggioritarie, di grandi organizzazioni sociali,
dalla Confindustria ai Sindacati, agli ordini professionali, a settori della Pubblica
Amministrazione, della Giustizia, della scuola, della cultura e del giornalismo, oltre ad
esponenti di grandi gruppi economici e finanziari.
Disarticolare questo blocco conservatore e liberare le energie riformiste e modernizzatrici del
Paese è il compito politico e culturale cui debbono dedicarsi i riformisti, ovunque siano
collocati.
Nel campo più propriamente politico, il confronto fra riformisti e conservatori dovrebbe
andare oltre le questioni di carattere programmatico e affrontare invece il vero nodo politico e
culturale, il cui mancato scioglimento è fra le cause principali della mancata realizzazione
delle riforme in Italia. Il nodo è quello della eredità negativa, mai rimessa seriamente in
discussione, del compromesso fra la DC e il PCI, che ha la sua origine nel dopoguerra ma che
raggiunse il suo apice negli anni ‘70 e nella politica del Compromesso Storico. Nessuno può
seriamente negare ciò che di positivo quel Compromesso ha dato all'Italia: in primo luogo la
Repubblica, la democrazia e la Costituzione. Ma in quel compromesso vi era un elemento
negativo che non è mai stato veramente superato, neppure dopo il crollo del muro di Berlino,
dal PCI prima e dai suoi eredi attuali poi, ed è il fatto che quel compromesso politico non si
basava su di un progetto condiviso di riforme e di ammodernamento del Paese, quanto
piuttosto su di una divisione dei ruoli e della rappresentanza degli interessi. Il PCI non
www.federalismi.it
33
perseguiva un programma di "riforme"
chiaramente
finalizzato a rendere più giusta e
moderna l'Italia quanto, più precisamente, un programma di "conquiste" sociali della cui
coerenza con un effettivo rinnovamento del Paese, per non dire della loro compatibilità col
Bilancio dello Stato, poco si curava. Si trattava, e per molti dei suoi eredi si tratta tuttora, di
realizzare conquiste anche parziali, ma in grado di determinare la rottura di equilibri
economici e sociali cosi da aprire la via a cambiamenti più o meno epocali del sistema.
Questa impostazione, che non assume come base dell'agire politico e sindacale il vincolo della
realtà, che non si pone il problema delle compatibilità e delle conseguenze delle
rivendicazioni che si avanzano, perché in realtà non si pone l'obbiettivo di governare il
cambiamento quanto piuttosto quello di aprire brecce per fuoriuscire dal sistema, rappresenta
l'eredita negativa di quel Compromesso Storico, il lascito culturale negativo di uomini come
Berlinguer e Dossetti, e che oggi rivive nell'azione politica dei loro eredi.
Questa cultura costituisce il cemento del blocco conservatore e non è mai stata apertamente
criticata e superata da una parte importante della sinistra italiana, che oggi si riconosce in
SEL, nell'Italia dei Valori, e che è maggioritaria nel PD.
Con questa cultura politica e con il mondo culturale e giornalistico che, oltre ai partiti, la
rappresenta, va aperto un confronto che vada alla radice del problema: esiste una sinistra di
governo ed esiste una sinistra che del governo non intende assumersi le responsabilità, anche
nel caso si trovi a fare parte di una coalizione chiamata a governare. Esiste una sinistra
riformista e garantista, ed esiste una sinistra antagonista e giustizialista. Cosi come nei partiti
di centro e di centrodestra, laici e cattolici, esistono riformisti e conservatori.
Il futuro delle riforme e la possibilità stessa di realizzarle dipende dalla capacità dei riformisti,
ovunque siano essi collocati, di convergere su di un programma condiviso di riforme.
Riformare le Istituzioni e l'economia per consentire al Paese di riprendere la via dello
sviluppo, per superare i problemi storici del Mezzogiorno e per dare ai giovani una effettiva
possibilità di lavoro, comporta passaggi difficili e scelte impopolari. Per questo, l'unità dei
riformisti e le alleanze politiche che ne possono derivare devono fondarsi su di una limpida
assunzione di responsabilità, su di una inequivoca dichiarazione di intenti, su una chiara
vocazione di governo.
Proporre una generica alleanza fra "progressisti" e " moderati " non risponde a questa
necessita di chiarezza, ma crea soltanto ulteriore confusione sul piano politico e culturale.
Nessuno è davvero in grado di dire che cosa significhi oggi
essere progressisti e chi
realmente possa definirsi tale, mentre è del tutto chiaro che cosa significhi essere riformisti ed
è facile individuare chi davvero lo sia, indipendentemente dall'area politica in cui si riconosce.
www.federalismi.it
34
Essere progressisti non vuole necessariamente dire
essere riformisti,
e neppure essere
democratici. La storia ci offre numerosi esempi del contrario.
I riformisti italiani sono stati minoranza sia nell'ambito del movimento operaio e della sinistra,
sia in quello delle forze popolari di ispirazione cattolica. Nel campo delle forze laiche e
moderate, sul riformismo hanno spesso prevalso forze di ispirazione conservatrice.
L'Italia è riuscita a realizzare riforme e cambiamenti soltanto quando si è determinato un
contesto internazionale favorevole che le ha rese possibili. Cosi è stato per l'Unità d'Italia, e
cosi è stato nel dopoguerra, con l'apertura dell'economia italiana ai mercati internazionali e
con l'adesione del paese all'Alleanza Atlantica. Cosi potrebbe essere anche oggi. L'Europa,
che oggi ci vincola, offre però anche l'occasione e l'opportunità per una Grande Riforma, per
un cambiamento e un ammodernamento del Paese. I Riformisti possono contribuire a questo
processo e possono realizzare la Grande Riforma di cui il Paese ha estremo bisogno. La
condizione è che i Riformisti si propongano al Paese, parlino il linguaggio della verità,
scendano in campo.
Il Movimento dei Riformisti Italiani intende muoversi in questa direzione, chiamando tutti i
riformisti, ovunque essi siano oggi collocati, a convergere su questo obbiettivo ed a federarsi
per condurre insieme questa battaglia.
Dobbiamo dare al Riformismo Italiano la forza politica e culturale per essere artefice e
protagonista di una nuova stagione della democrazia italiana.
www.federalismi.it
35
Fly UP