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Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato 11 251 ICTUS ACUTO: MONITORAGGIO E COMPLICANZE NELLA FASE DI STATO La fase acuta dell’ictus rappresenta una delle condizioni neurologiche, e più in generale mediche, che richiedono, e indubbiamente beneficiano, di una gestione assistenziale mirata al pronto riconoscimento e cura di possibili complicanze. Tale esigenza nasce da un lato dalle peculiarità fisiopatologiche dell’ictus, in cui le disfunzioni del sistema cardiovascolare svolgono un ruolo preponderante, dall’altro dalla destabilizzazione neurologica e cardiovascolare che può intervenire imprevedibilmente in via secondaria sia alle alterazioni morfologiche e funzionali del tessuto cerebrale in corso di infarto sia, in alcuni casi, alla sede specifica coinvolta (es. insula). Raccomandazione 11.1 Grado D Nelle prime 48 ore dall’esordio di un ictus è indicato il monitoraggio delle funzioni vitali e dello stato neurologico. Questo va proseguito in caso di instabilità clinica. La maggioranza delle complicanze dell’ictus può essere affrontata con successo tramite interventi medici tempestivi e una assistenza continua. Circa il 25% dei pazienti con ictus peggiora durante le prime 24-48 ore di ricovero,1,2 un rimanente 10% può ancora peggiorare dopo 96 ore,1 ed è stato descritto un peggioramento anche dopo una settimana dall’esordio dei sintomi.2 Nella maggior parte dei casi è difficile prevedere la comparsa di deterioramento per cui tutti i pazienti dovrebbero essere considerati a rischio di peggioramento neurologico, e tutto il periodo nel quale tale evoluzione è possibile deve essere considerato fase acuta. È in questa fase che la gestione generale del paziente secondo protocolli standardizzati può modificare significativamente l’evoluzione clinica. In uno studio pilota,3 il monitoraggio in fase acuta dell’ictus dei parametri fisiologici e il loro mantenimento a livelli omeostatici, si è dimostrato in grado di ridurre il peggioramento neurologico precoce. Vi sono, inoltre, evidenze sperimentali che attribuiscono un ruolo di tipo neuroprotettivo alla pronta correzione dell’alterazione dei parametri fisiologici.4 Tale tipo di approccio all’ictus acuto viene raccomandato anche da Consensus Conference di esperti a livello internazionale.5 Pertanto, le funzioni vitali e lo stato neurologico dovrebbero essere valutati frequentemente durante le prime 24-48 ore dall’esordio di un ictus. Va segnalato per completezza di informazione che per ora non è dimostrata inequivocabilmente l’utilità del monitoraggio strumentale continuo agli effetti di un migliore esito, e l’argomento rimane controverso in attesa di più chiare dimostrazioni.6-8 Il monitoraggio neurologico e pressorio dovrebbe proseguire nei primi giorni di mobilizzazione, la quale è indicata il più precocemente possibile (§ 11.10). 11.1 MONITORAGGIO CARDIOLOGICO La stretta correlazione tra ictus ischemico e patologie cardiache è stata ampiamente evidenziata in passato.9 Nella gestione del paziente con ictus ischemico acuto risulta, quindi, essenziale considerare la possibile coesistenza o insorgenza di disturbi cardiologici tra cui l’infarto miocardico acuto, l’insufficienza cardiaca congestizia, le aritmie e la morte improvvisa,10,11 la cui prognosi è fortemente legata alla tempestività dell’intervento. Alterazioni del tracciato ECG, come ad esempio l’inversione dell’onda T, si possono verificare nel 15%-70% dei pazienti con ictus acuto, in particolare in caso di emorragia subaracnoidea o intracerebrale.12 Nell’ictus acuto, il rilascio di catecolamine può precipitare l’insorgenza di alterazioni del ritmo e/o della funzionalità cardiaca (scompenso cardiaco, infarto miocardico acuto).13 Le aritmie cardiache, in particolare la fibrillazione atriale, possono associarsi all’ictus.11,14 Esse raggiungono la massima incidenza nelle prime 24-48 ore dall’esordio dell’ictus ed in alcuni casi sono ad elevata mortalità.15 Pertanto il monitoraggio ECG continuo è indicato durante tutto l’arco delle prime 48 ore per rilevare aritmie potenzialmente pericolose, in particolare, in pazienti con una delle seguenti condizioni: cardiopatie preesistenti, storia di aritmie, pressione arteriosa instabile, elementi dell’esame obiettivo suggestivi di insufficienza cardiaca, alterazioni dell’ECG di base 11,12,16 e nei casi in cui siano coinvolti i territori profondi dell’arteria cerebrale media e in particolare la corteccia insulare.17 In assenza di monitoraggio continuo è auspicabile effettuare controlli ECG ripetuti nelle prime 24 ore. Se le indagini cardiologiche di base evidenziano la presenza di anomalie, può essere indicato l’uso di procedure diagnostiche più sofisticate o il prolungamento del monitoraggio. In caso di insufficienza cardiaca clinicamente conclamata è indicata l’esecuzione dell’ecocardiogramma transtoracico. stesura 15 marzo 2005 Raccomandazione 11.2 Grado D Laddove sia disponibile, il monitoraggio ECG continuo è indicato nelle prime 48 ore dall’esordio di ictus nei pazienti con una delle seguenti condizioni: cardiopatie preesistenti, storia di aritmie, pressione arteriosa instabile, elementi clinici suggestivi di insufficienza cardiaca, alterazioni dell’ECG di base e nei casi in cui siano coinvolti i territori profondi dell’arteria cerebrale media e in particolare la corteccia insulare. In caso di instabilità clinica il monitoraggio va proseguito oltre le 48 ore. Raccomandazione 11.3 Grado D Qualora non sia disponibile la strumentazione per il monitoraggio continuo sono indicati controlli ECG ripetuti nelle prime 24 ore. In caso di insufficienza cardiaca clinicamente conclamata è indicata l’esecuzione precoce dell’ecocardiogramma transtoracico. 252 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane 11.2 Raccomandazione 11.4 Grado D Il monitoraggio, continuo o discontinuo, dello stato di ossigenazione ematica è indicato almeno nelle prime 24 ore dall’esordio di un ictus medio-grave. In caso di anomalie va proseguito fino alla stabilizzazione del quadro respiratorio. OSSIGENAZIONE EMATICA Un altro punto critico nella gestione ottimale dell’ictus acuto è il mantenimento di una adeguata ossigenazione tessutale.18 L’ipossia, promuovendo il metabolismo anaerobico e la deplezione delle riserve energetiche, ostacola il potenziale recupero della zona di penombra ischemica aggravando l’estensione dell’area infartuata e peggiorando la prognosi. Le più comuni cause di ipossia sono rappresentate dall’ostruzione parziale delle vie aeree, dalla polmonite ab ingestis, dalle atelettasie e dall’ipoventilazione relativa, ad esempio, a scompenso cardiaco, ad embolia polmonare, a estesi infarti cerebrali emisferici o vertebrobasilari, ad ampie raccolte emorragiche o a sostenuta attività epilettica da ictus emisferici. La ventilazione può peggiorare durante il sonno. Pertanto il monitoraggio, continuo o discontinuo, dello stato di ossigenazione ematica tramite, rispettivamente, pulsiossimetria o emogasanalisi è indicato almeno nelle prime 24 ore dall’esordio dell’ictus e va proseguito fino alla normalizzazione e/o stabilizzazione del quadro respiratorio. La posizione sollevata del tronco può essere consigliabile per il suo effetto favorevole sulla saturazione di ossigeno e sulla riduzione della pressione intracranica.19 Raccomandazione 11.5 Grado D Nella fase di stato la somministrazione routinaria di ossigeno non è indicata nei pazienti con ictus acuto. La somministrazione di ossigeno è indicata nei pazienti in stato di ipossiemia (SaO2 <92%). In caso di ipossiemia moderata, in assenza di alterazioni del respiro, è indicata la somministrazione di ossigeno a 2-4 L/min, avviando la somministrazione con elevate concentrazioni di ossigeno da ridurre successivamente in base ai dati di SaO2. Non vi sono tuttora dati a favore dell’efficacia della somministrazione routinaria dell’ossigeno-terapia, che risulta addirittura sconsigliata negli ictus di gravità lieve o moderata,20 e che va invece indirizzata a quei pazienti in stato di ipossia documentata dall’emogasanalisi o in stato di desaturazione alla pulsiossimetria (saturazione O2 <92%). In questi pazienti, la somministrazione di ossigeno a 2-4 L/min per via inalatoria in genere migliora lo stato di ossigenazione ematica e risulta sufficiente per la correzione dell’ipossiemia moderata in assenza di alterazioni del respiro.16 È opportuno in questi casi avviare la somministrazione con elevate concentrazioni di ossigeno, riducendole successivamente in relazione ai dati della pulsiossimetria e della emogasanalisi. Se il paziente rimane ipossiemico in ventilazione spontanea ad alti flussi, è possibile applicare una pressione positiva continua alle vie aeree (CPAP: Continuous Positive Airway Pressure) al fine di reclutare il maggior numero possibile di alveoli polmonari. Tale supporto ventilatorio non invasivo (effettuato cioè senza intubazione tracheale, ma attraverso una maschera facciale o nasale) richiede un certo grado di collaborazione da parte del paziente che deve essere in grado di mantenere un adeguato volume corrente spontaneo e di tossire efficacemente; inoltre può provocare distensione gastrica.21 L’assistenza ventilatoria manuale è indicata se il paziente è in apnea, se il suo volume corrente spontaneo è insufficiente, se è opportuno ridurre il lavoro respiratorio. La ventilazione manuale a maschera deve proseguire fino al ripristino di un’adeguata ventilazione spontanea o fino al posizionamento di un tubo endotracheale. La protezione delle vie aeree superiori e l’assistenza ventilatoria sono indicate in caso di pazienti gravi con alterazione dello stato di coscienza. In questi casi (coma, disfunzione troncoencefalica, assenza dei riflessi troncoencefalici, episodi apneici, rapido deterioramento neurologico) l’opportunità di intubazione tracheale e ventilazione meccanica dovrebbe essere valutata tempestivamente.22-24 Anche se i dati riportati in letteratura non sono molti, si può affermare che la proporzione di pazienti con ictus che richiede intubazione tracheale e ventilazione meccanica è altamente variabile con il tipo di ictus e si pone intorno al 5%-11% nell’ictus ischemico,23-26 nell’ambito 26%-30% nell’emorragia intracranica,25,26 intorno al 50% nell’emorragia subaracnoidea,25 anche se non mancano proporzioni più elevate (fino al 63% dei ricoverati) in specifici centri,27 mentre negli studi epidemiologici su popolazione il tasso è molto più basso e probabilmente inferiore all’1%. L’intubazione tracheale è indicata in presenza di segni di insufficienza respiratoria o di fatica respiratoria, in presenza di alterazioni dello stato di coscienza che non consentano la protezione delle vie aeree e in caso di rischio di aspirazione,28 come specificato nella Tabella 11:I. È importante sottolineare che le manovre di laringoscopia e di intubazione tracheale possono determinare in via riflessa importanti alterazioni emodinamiche in grado di influenzare il flusso cerebrale e la pressione endocranica. Tali manovre devono quindi essere effettuate dopo aver proceduto alla somministrazione di opportune dosi di farmaci sedativi e miorilassanti. Nel caso sia prevedibile la necessità di un supporto ventilatorio di lunga durata è opportuno procedere alla tracheostomia che facilita le manovre di broncoaspirazione, riduce l’incidenza di stenosi laringotracheali da intubazione prolungata e migliora il comfort del paziente. Il corstesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato Tabella 11:I – Indicazioni all’intubazione tracheale (Hacke W. et al 1995)28 pO2 <50-60 mm Hg pCO2 >50-60 mm Hg capacità vitale >500-800 mL segni di fatica respiratoria: • tachipnea (<30) • dispnea • auto PEEP • coinvolgimento dei muscoli respiratori accessori acidosi respiratoria significativa alterazione dello stato di coscienza rischio di inalazione impossibilità di mantenere la pervietà delle vie aeree retto timing di tale procedura è tuttora controverso, sebbene alcuni Autori consiglino la sua esecuzione anche in terza giornata.29 La ventilazione meccanica può essere effettuata con diverse modalità; le più comunemente impiegate sono le seguenti:30 • ventilazione meccanica controllata (CMV; Controlled Mechanical Ventilation); • ventilazione assistita-controllata (ACV; Assist-Control Ventilation); • ventilazione obbligatoria intermittente sincronizzata (SIMV; Synchronized Intermittent Mandatory Ventilation); • ventilazione con supporto pressorio (PSV; Pressure Support Ventilation). Durante la ventilazione meccanica controllata (CMV) tutti gli atti respiratori sono a carico dell’apparecchio di ventilazione; questa modalità è applicabile solo in pazienti che non effettuano alcuno sforzo respiratorio (drive assente o pazienti sedati ed eventualmente curarizzati). La modalità di ventilazione assistita-controllata (ACV) consente al paziente di incrementare la frequenza respiratoria: ogniqualvolta il paziente compie uno sforzo respiratorio raggiungendo un valore soglia prefissato, il ventilatore eroga un flusso inspiratorio pari ai valori preimpostati. La ventilazione obbligatoria intermittente sincronizzata (SIMV) eroga un volume corrente prestabilito ad una frequenza programmata; a ciò si possono aggiungere atti respiratori spontanei del paziente la cui frequenza e volume sono determinati dalle possibilità di ventilazione spontanea del paziente stesso. La ventilazione con supporto pressorio (PSV) garantisce un incremento meccanico della pressione inspiratoria, consentendo una notevole riduzione del lavoro respiratorio. La scelta della modalità di ventilazione e l’impostazione dei parametri ventilatori dipendono dalle condizioni cliniche del paziente. È opportuno iniziare con una concentrazione di ossigeno del 100% (FiO2=1) riducendola poi fino a valori che consentano di ottenere livelli adeguati di PaO2 (saturazione periferica ≥95%). Può essere utile l’applicazione di una pressione positiva di fine espirazione (PEEP). Il volume corrente iniziale deve essere di 8-10 mL/kg. La frequenza respiratoria deve essere regolata sul pH piuttosto che sulla CO2. Se l’adattamento al ventilatore risulta difficoltoso è necessario procedere alla sedazione del paziente o, più raramente, alla curarizzazione. Il supporto ventilatorio può essere progressivamente sospeso (“weaning”) quando siano risolte le condizioni cliniche che ne avevano imposto l’adozione. Nella Tabella 11:II 31 sono precisati i criteri clinici che consentono di avviare le procedure di “svezzamento dal ventilatore”. Tabella 11:II – Criteri per la sospensione del supporto ventilatorio (Wijdicks E.F.M. 1997)31 PaO2 Volume corrente Capacità vitale Pressione inspiratoria > 60 mm Hg > 5 mL/kg > 15 mL/kg > -30 mm Hg stesura 15 marzo 2005 253 254 Raccomandazione 11.6 Grado D Per il trattamento d’emergenza dell’ipertensione nei pazienti con ictus acuto è indicato il seguente algoritmo: (da Stroke Coding Guide of the American Academy of Neurology, http://www.strokesite.org/; febbraio 2003, modificata) 1. Lo sfigmomanometro automatico dovrebbe essere verificato contro uno di tipo manuale. 2. Se i valori di pressione diastolica, in due misurazioni successive a distanza di 5 minuti, superano i 140 mm Hg, iniziare l’infusione continua e.v. di un agente antipertensivo come la nitroglicerina o il nitroprussiato di sodio (0,5-1,0 mg/kg/min), di cui però va attentamente monitorizzato il rischio di edema cerebrale, particolarmente nei grandi infarti, data la loro capacità di aumentare la pressione intracranica. Pazienti con tali rilievi non sono candidati al trattamento trombolitico con t-PA. 3. Se i valori di pressione sistolica sono >220 mm Hg, o la pressione diastolica è tra 121-140 mm Hg, o la pressione arteriosa media è >130 mm Hg in due misurazioni successive a distanza di 20 minuti, somministrare un farmaco antipertensivo facilmente dosabile come il labetalolo, 10 mg e.v. in 1-2 minuti. Tale dose può essere ripetuta o raddoppiata ogni 10-20 minuti fino ad un dosaggio cumulativo di 300 mg. Successivamente a tale approccio iniziale, il labetalolo può essere somministrato ogni 6-8 ore se necessario. Il labetalolo è sconsigliato nei pazienti con asma, scompenso cardiaco o gravi turbe della conduzione. In questi casi può essere usato l’urapidil (1050 mg in bolo, ovvero infusione 0,15-0,5 mg/min). I pazienti che richiedono più di due dosi di labetalolo o altri farmaci antipertensivi per ridurre la pressione arteriosa sistolica <185 mm Hg o diastolica <110 mm Hg, non sono generalmente candidati alla terapia trombolitica. 4. Se il valore di pressione sistolica è di 185-220 mm Hg o diastolica di 105-120 mm Hg, la terapia d’emergenza dovrebbe essere rimandata, se non coesiste una insufficienza ventricolare sinistra, una dissecazione aortica o un infarto miocardico acuto. Pazienti candi- SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane La gestione del supporto ventilatorio impone il ricovero in unità di terapia intensiva e la consulenza di specialisti rianimatori. L’opportunità di procedere alla ventilazione meccanica in pazienti colpiti da ictus è da tempo dibattuta in considerazione della elevata mortalità riscontrata (si veda anche la discussione sulla formulazione dell’ordine di non rianimare, § 8.7.2). La ventilazione meccanica è un intervento terapeutico indispensabile per la sopravvivenza ed al tempo stesso un indice della gravità dell’ictus cerebrale.27 La prognosi dei pazienti colpiti da ictus cerebrale sottoposti a ventilazione meccanica è peraltro migliore di quanto si ritenesse in passato.22 Berroushot e coll. hanno recentemente effettuato uno studio prospettico in pazienti con ictus ischemico evidenziando una mortalità dell’81% nei pazienti sottoposti a ventilazione meccanica a fronte di una mortalità globale del 24%.32 Nei pazienti in ventilazione meccanica la causa più frequente di morte è stata il deterioramento neurologico con ernia cerebrale. Emerge da questo studio la conclusione che ciò che conta non è stabilire la reale opportunità della ventilazione meccanica, quanto riuscire ad evidenziare precocemente i segni di deterioramento neurologico in modo da porre in atto ogni possibile intervento terapeutico. 11.3 PRESSIONE ARTERIOSA Sebbene la presenza di ipertensione arteriosa sia frequente in pazienti con ictus acuto (>80%),29,33 il suo trattamento non deve essere generalmente iniziato precocemente e la sua gestione ottimale non è stata ancora definita in maniera conclusiva,34-37 soprattutto in considerazione della necessità di garantire, particolarmente in questa fase, un flusso di perfusione cerebrale sufficiente alla sopravvivenza della penombra ischemica, non protetta dai meccanismi di autoregolazione.38,39 Una revisione Cochrane conclude che manca ancora sufficiente evidenza per valutare l’effetto sull’esito conseguente ad una modifica della pressione arteriosa nella fase acuta dell’ictus.40 Valori pressori elevati possono essere legati a molteplici cause, quali l’ictus stesso, il riempimento vescicale, il dolore, una ipertensione preesistente, la risposta fisiologica all’ipossia cerebrale o l’ipertensione intracranica, lo stress da ospedalizzazione.41 I valori pressori spesso si normalizzano non appena il paziente viene lasciato riposare in ambiente tranquillo, o la vescica viene svuotata, o il dolore controllato, o l’ipertensione intracranica trattata: a distanza di 410 giorni dall’esordio dell’ictus circa il 60% dei pazienti presenta una risoluzione spontanea dell’ipertensione.42 In caso di ipertensione marcata, la sua correzione deve avvenire gradualmente e con cautela per evitare una risposta esagerata al trattamento antipertensivo e un possibile peggioramento neurologico.18,35,43 Non sono disponibili ad oggi valori definitivi sui cut-off pressori per l’indicazione al trattamento urgente dell’ipertensione nell’ictus acuto.44 Tuttavia sulla base delle evidenze e Consensus finora ottenuti è possibile identificare un algoritmo operativo che integri rilievi clinici e strumentali (Tabella 11:III). La terapia antipertensiva precoce è indicata in caso di ipertensione associata a trasformazione emorragica dell’infarto, a infarto miocardico acuto, scompenso cardiaco, insufficienza renale secondaria allo stato ipertensivo, encefalopatia ipertensiva, dissezione dell’aorta toracica, o nei pazienti che necessitino di trattamento trombolitico o con eparina per via endovenosa.37 Al di fuori di queste condizioni il trattamento in fase acuta non è indicato fino a valori di pressione media ≤130 mm Hg o di sistolica <220 mm Hg.18,37 In questi casi la migliore scelta terapeutica endovena è rivolta all’uso di farmaci facilmente dosabili, di breve durata d’azione, e con minimo effetto vasodilatatorio cerebrale, per il pericolo di incremento della pressione intracranica, quali il labetalolo o l’enalapril (non disponibile in Italia in formulazione e.v.).45 La maggior parte dei pazienti può essere trattata per via orale con captopril o nicardipina. Non è indicato l’uso di calcioantagonisti per via sublinguale per la rischiosa rapidità d’azione di questo tipo di somministrazione.16,46 In caso di emorragia cerebrale è indicata la terapia antipertensiva qualora i valori pressori siano: pressione sistolica >180 mm Hg o pressione diastolica >105 mm Hg.47 L’ipotensione arteriosa è infrequente nell’ictus acuto 48 e generalmente è legata ad una ipovolemia.49 Sebbene non vi siano dati per definire una soglia per il trattamento dell’ipotensione stesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato Tabella 11:III – Algoritmo per il trattamento d’emergenza dell’ipertensione nei pazienti con ictus acuto (Stroke Coding Guide of the American Academy of Neurology, http://www.stroke-site.org/; febbraio 2003, modificata) 1. Lo sfigmomanometro automatico dovrebbe essere verificato contro uno di tipo manuale. 2. Se i valori di pressione diastolica, in due misurazioni successive a distanza di 5 minuti, superano i 140 mm Hg, iniziare l’infusione continua e.v. di un agente antipertensivo come la nitroglicerina o il nitroprussiato di sodio (0,5-1,0 mg/kg/min), di cui però va attentamente monitorizzato il rischio di edema cerebrale, particolarmente nei grandi infarti, data la loro capacità di aumentare la pressione intracranica. Pazienti con tali rilievi non sono candidati al trattamento trombolitico con t-PA. 3. Se i valori di pressione sistolica sono >220 mm Hg, o la pressione diastolica è tra 121-140 mm Hg, o la pressione arteriosa media è >130 mm Hg in due misurazioni successive a distanza di 20 minuti, somministrare un farmaco antipertensivo facilmente dosabile come il labetalolo, 10 mg e.v. in 1-2 minuti. Tale dose può essere ripetuta o raddoppiata ogni 10-20 minuti fino ad un dosaggio cumulativo di 300 mg. Successivamente a tale approccio iniziale, il labetalolo può essere somministrato ogni 6-8 ore se necessario. Il labetalolo è sconsigliato nei pazienti con asma, scompenso cardiaco o gravi turbe della conduzione. In questi casi può essere usato l’urapidil (10-50 mg in bolo, ovvero infusione 0,15-0,5 mg/min). I pazienti che richiedono più di due dosi di labetalolo o altri farmaci antipertensivi per ridurre la pressione arteriosa sistolica <185 mm Hg o diastolica <110 mm Hg, non sono generalmente candidati alla terapia trombolitica. 4. Se il valore di pressione sistolica è di 185-220 mm Hg o diastolica di 105-120 mm Hg, la terapia d’emergenza dovrebbe essere rimandata, se non coesiste una insufficienza ventricolare sinistra, una dissecazione aortica o un infarto miocardico acuto. Pazienti candidati alla terapia con t-PA, che presentano persistenti valori pressori elevati sistolici >185 mm Hg o diastolici >110 mm Hg, possono essere trattati con piccole dosi di antipertensivo e.v. per mantenere i valori di PA giusto al di sotto di tali limiti. Tuttavia la somministrazione di più di due dosi di antipertensivo per mantenere sotto controllo la PA rappresenta una controindicazione relativa alla terapia trombolitica. 5. Non è indicato l’uso di calcio-antagonisti per via sublinguale per la rischiosa rapidità d’azione di questo tipo di somministrazione. 6. In caso di emorragia cerebrale è indicata la terapia antipertensiva qualora i valori pressori siano: pressione sistolica > 180 mm Hg o pressione diastolica >105 mm Hg. 7. La correzione della pressione arteriosa tramite agenti antipertensivi nella fase acuta dell’ictus dovrebbe essere associata ad un attento monitoraggio dello stato neurologico per rilevare prontamente la comparsa di deterioramento. 8. Nei pazienti con ictus ischemico acuto e pressione sistolica <185 mm Hg o diastolica <105 mm Hg, la terapia antipertensiva non è usualmente indicata. 9. Sebbene non vi siano dati per definire una soglia per il trattamento dell’ipotensione arteriosa nei pazienti con ictus acuto, questo viene raccomandato in caso di segni di disidratazione e/o di valori pressori significativamente inferiori a quelli usuali per il dato paziente. Le opzioni terapeutiche prevedono la somministrazione di fluidi e.v., il trattamento dello scompenso cardiaco congestizio e la bradicardia, ed eventualmente agenti vasopressori quali la dopamina. arteriosa nei pazienti con ictus acuto, questo viene raccomandato in caso di segni di disidratazione e/o di valori pressori significativamente inferiori a quelli usuali per il dato paziente. Le opzioni terapeutiche prevedono la somministrazione di fluidi e.v., il trattamento dello scompenso cardiaco congestizio e della bradicardia, ed eventualmente agenti vasopressori quali la dopamina.16,17 L’emodiluizione ipervolemica e l’incremento pressorio farmacologico sono stati usati con successo in pazienti con ischemia secondaria a vasospasmo in corso di emorragia subaracnoidea.37 La regolazione della fluidoterapia è di estrema importanza nel trattamento del paziente colpito da ictus, in considerazione dell’influenza sulla perfusione e sul metabolismo cerebrali esercitata dal tipo e dalla quantità dei liquidi somministrati. In passato la restrizione dei fluidi era considerata essenziale per limitare l’insorgenza di edema cerebrale. Tale approccio è stato oggi sottoposto a revisione essendo stati dimostrati gli effetti negativi dell’ipovolemia sull’evoluzione delle lesioni neurologiche.50 In presenza di lesioni intracraniche, infatti, in conseguenza dell’alterazione dei meccanismi di autoregolazione del flusso cerebrale, i valori di pressione sistemica diventano il determinante fondamentale del flusso cerebrale: il mantenimento di un’adeguata volemia è quindi il primo obiettivo da raggiungere. Peraltro, l’alterazione della barriera ematoencefalica provocata dalle lesioni intracraniche determina l’accumulo di liquido extravascolare che non deve essere in alcun modo aggravato. La quantità di fluidi da somministrare deve essere stabilita sulla base della valutazione di parametri clinici e di laboratorio: peso corporeo, diuresi, ematocrito, elettroliti sierici, urea, creatinina, osmolalità plasmatica, osmolalità urinaria, elettroliti urinari, parametri emogasanalitici. stesura 15 marzo 2005 255 dati alla terapia con t-PA, che presentano persistenti valori pressori elevati, sistolici >185 mm Hg o diastolici >110 mm Hg, possono essere trattati con piccole dosi di antipertensivo e.v. per mantenere i valori di PA giusto al di sotto di tali limiti. Tuttavia la somministrazione di più di due dosi di antipertensivo per mantenere sotto controllo la PA rappresenta una controindicazione relativa alla terapia trombolitica. 5. Non è indicato l’uso di calcio-antagonisti per via sublinguale per la rischiosa rapidità d’azione di questo tipo di somministrazione. 6. In caso di emorragia cerebrale è indicata la terapia antipertensiva qualora i valori pressori siano: pressione sistolica >180 mm Hg o pressione diastolica >105 mm Hg. 7. La correzione della pressione arteriosa tramite agenti antipertensivi nella fase acuta dell’ictus dovrebbe essere associata ad un attento monitoraggio dello stato neurologico per rilevare prontamente la comparsa di deterioramento. 8. Nei pazienti con ictus ischemico acuto e pressione sistolica <185 mm Hg o diastolica <105 mm Hg, la terapia antipertensiva non è usualmente indicata. 9. Sebbene non vi siano dati per definire una soglia per il trattamento dell’ipotensione arteriosa nei pazienti con ictus acuto, questo viene raccomandato in caso di segni di disidratazione e/o di valori pressori significativamente inferiori a quelli usuali per il dato paziente. Le opzioni terapeutiche prevedono la somministrazione di fluidi e.v., il trattamento dello scompenso cardiaco congestizio e della bradicardia, ed eventualmente agenti vasopressori quali la dopamina. Raccomandazione 11.7 Grado D Nei pazienti con ictus acuto è indicato il mantenimento di una adeguata volemia, calcolando la quantità di fluidi da somministrare sulla base di un accurato bilancio idrico. 256 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane Devono essere inoltre calcolati e attentamente rimpiazzati i liquidi persi per via gastrointestinale, respiratoria e cutanea. Raccomandazione 11.8 Grado D Nei pazienti con ictus acuto la somministrazione di soluzioni ipotoniche (NaCl 0,45%, glucosio 5%) non è indicata per il rischio di incremento dell’edema cerebrale. Raccomandazione 11.9 Grado D Le soluzioni contenenti glucosio non sono indicate dati gli effetti sfavorevoli dell’iperglicemia sull’esito neurologico. Raccomandazione 11.10 Grado D Nei pazienti con ictus acuto la soluzione fisiologica è indicata quale cristalloide di scelta per fluidoterapia. La scelta dei fluidi da somministrare deve tenere in considerazione i meccanismi che regolano il movimento dei fluidi nel sistema nervoso centrale: la pressione osmotica, la pressione oncotica, la pressione idrostatica e la funzione della barriera ematoencefalica.51 È dimostrato che gli effetti negativi dei fluidi sull’edema cerebrale sono indotti dalle variazioni della tonicità.52 Le soluzioni per fluidoterapia di impiego clinico si distinguono in cristalloidi e colloidi. I cristalloidi contengono esclusivamente soluti di basso peso molecolare (<30·000 dalton) che possono essere ionici (ad esempio Na o Cl), o non ionici (ad esempio glucosio). I cristalloidi possono essere ipotonici, isotonici o ipertonici. Le soluzioni ipotoniche (NaCl 0,45%, glucosio 5%) sono assolutamente controindicate, in quanto possono incrementare l’edema cerebrale nelle regioni lese, ma anche in quelle perilesionali ed in quelle integre in conseguenza della riduzione dell’osmolalità plasmatica che inducono. Le soluzioni contenenti glucosio devono essere evitate, essendo stata dimostrata un’associazione tra elevati livelli glicemici e peggioramento del danno neurologico in pazienti con ischemia cerebrale; ciò sembra determinato dall’accumulo di acido lattico e dalla conseguente riduzione del pH nel tessuto cerebrale indotti dall’iperglicemia.53 Le soluzioni isotoniche di più comune impiego sono la soluzione fisiologica e le soluzioni di Ringer. Queste ultime sono in realtà lievemente ipotoniche rispetto al plasma, tanto da poter indurre effetti negativi a livello cerebrale, specie se somministrate in notevole quantità. Il cristalloide di scelta nei pazienti con lesioni cerebrali è quindi la soluzione fisiologica. L’infusione di piccoli volumi di soluzioni saline ipertoniche sembra indurre un rapido miglioramento della volemia con effetti positivi sulla pressione endocranica.54 È possibile la comparsa di effetti collaterali provocati dall’eccessivo rapido aumento della sodiemia; inoltre, è stato segnalato che l’impiego delle soluzioni ipertoniche sembra più efficace in pazienti con edema cerebrale postraumatico o postoperatorio, piuttosto che in pazienti con edema cerebrale conseguente ad ictus ischemico o emorragico.55 I dati al momento disponibili non sono sufficienti per stabilire precise indicazioni nel paziente con danno neurologico.56 I colloidi contengono soluti ad elevato peso molecolare che inducono con meccanismo osmotico il richiamo di liquidi nello spazio intravascolare. La loro maggior efficacia rispetto ai cristalloidi nel rimpiazzo volemico è limitata dalla possibile insorgenza di effetti collaterali; inoltre il loro costo è notevolmente più elevato. Le soluzioni di destrano 40 e 70 contengono polimeri del glucosio di peso molecolare medio rispettivamente 40·000 e 70·000 dalton. Il destrano 70 ha una pressione osmotica ed una capacità di espansione volemica simili a quelle del plasma. Il destrano 40 è iperosmotico rispetto al plasma ed ha quindi maggiore efficacia. La loro somministrazione può provocare reazioni allergiche anche gravi, alterazioni dei processi coagulativi ed interferenza con la tipizzazione del gruppo sanguigno. Anche le soluzioni colloidali contenenti amidi possono provocare effetti collaterali analoghi. Le gelatine inducono un’espansione volemica estremamente limitata. Sebbene l’albumina possa teoricamente essere considerata un espansore plasmatico naturale, il suo ruolo e la sua efficacia clinica rimangono controversi. Il plasma non deve essere impiegato come espansore plasmatico. Sintesi 11-1 Dati sia sperimentali che clinici indicano che l’ipertermia è dannosa a livello della lesione ischemica ed è associata sia ad un peggioramento clinico che ad un peggior esito funzionale. L’ipotermia ha un effetto neuroprotettivo. Circa il 50% dei pazienti con ictus cerebrale presenta ipertermia nell’arco delle 48 ore dall’insorgenza dell’evento. 11.4 TEMPERATURA CORPOREA Circa il 50% dei pazienti con ictus cerebrale sviluppa ipertermia nell’arco di due giorni dall’insorgenza dell’evento acuto.57 Le cause più comuni di febbre nei pazienti con ictus sono: infezioni intercorrenti, disidratazione, alterazione dei meccanismi di regolazione cerebrale della temperatura e reazione di fase acuta. L’ipertermia in fase acuta risulta associata ad una prognosi peggiore dell’ictus in termini di mortalità ed esiti, così come evidenziato da una recente metanalisi,58 persino per aumenti della temperatura corporea dell’ordine di mezzo grado. L’ipertermia svolge un ruolo importante nella reazione a cascata che modula il danno neuronale, durante l’insulto ischemico. In modelli sperimentali una temperatura di 39° C attiva ed stesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato 257 accelera nel cervello danneggiato meccanismi neuropatologici che inducono danno anche nelle strutture indenni. Al contrario la riduzione della temperatura corporea ha effetto neuroprotettivo, mentre l’azione dei farmaci neuroprotettivi può essere contrastata dall’ipertermia. L’ipertermia in particolare promuove: 1. la mobilizzazione del calcio intraneuronale; 2. l’attivazione dei recettori glutammatergici; 3. le disfunzioni della barriera emato-encefalica; 4. la proliferazione delle cellule microgliali; 5. la produzione di anioni superossido e di ossido nitrico; 6. il rilascio dei neurotrasmettitori; 7. il danno ischemico da depolarizzazione nell’area di penombra ischemica; 8. la riduzione del recupero energetico e l’inibizione del rilascio di protein-chinasi. È stato inoltre dimostrato che valori di temperatura superiori alla norma inibiscono in maniera determinante il re-uptake del glutammato extracellulare, determinandone l’accumulo in tale compartimento. Concentrazioni più elevate di glutammato e glicina sono state riscontrate in pazienti cerebrolesi ischemici ipertermici rispetto ai normotermici.59-62 Studi sperimentali hanno dimostrato inoltre che la temperatura corporea è correlata significativamente con le dimensioni dell’area ischemica.63 L’esatto periodo entro cui la febbre può contribuire al danno cerebrale post-ischemico, non è stato tuttora ben definito. Recenti studi hanno tuttavia evidenziato che più precoce è l’esordio dell’ipertermia, maggiori sono le dimensioni dell’area ischemica. Nello studio di Castillo e coll.62 durante le prime 72 ore il 60% dei pazienti presentava ipertermia. La mortalità a tre anni era dell’1% nei pazienti normotermici e del 5%-8% in quelli con elevati valori di temperatura corporea. Tuttavia, secondo alcune evidenze, solo l’esordio di ipertermia entro le prime 24 ore sembrerebbe significativamente associato ad un peggiore esito clinico ed a un aumento di dimensioni dell’area ischemica.64 Pertanto è indicato il trattamento antipiretico assiduo nella fase acuta dell’ictus e anche lievi rialzi della temperatura dovrebbero essere corretti mantenendosi entro valori inferiori a 37° C, almeno nei primi giorni.59 Nel trattamento della febbre, il farmaco comunemente usato è il paracetamolo 65 e, se necessario, è possibile il ricorso a mezzi fisici di raffreddamento corporeo.59,66,67 Bisogna inoltre ricordare che numerosi studi clinici stanno valutando l’efficacia di una moderata ipotermia (32-33° C) nei pazienti con ischemia cerebrale. I risultati degli esperimenti su cavie sono incoraggianti.68 Raccomandazione 11.11 Grado D Nei pazienti con ictus acuto è indicata la correzione farmacologica dell’ipertermia, preferibilmente con paracetamolo, mantenendo la temperatura al di sotto di 37°C. In pazienti con ictus la comparsa di febbre è attribuibile ad infezioni nel 60%-85% dei casi;69,70 si tratta di infezioni urinarie nel 10%-30% dei casi, polmoniti nel 10%-20% ed altre infezioni (batteriemie o sepsi, infezioni di ulcere da decubito) nel 5%-30% dei casi.71-73 Le polmoniti sono una importante causa di morte dopo ictus,74,75 in particolare in pazienti che sono immobilizzati o che non sono in grado di tossire efficacemente.75 La comparsa di febbre dopo un ictus impone una immediata valutazione di una possibile complicanza infettiva ed un adeguato trattamento antibiotico.76 Raccomandazione 11.12 Grado D In presenza di febbre in pazienti con ictus acuto è indicata l’immediata ricerca della sede e della natura di una eventuale infezione finalizzata ad un trattamento antibiotico adeguato. In pazienti immunocompetenti non è raccomandata l’attuazione di profilassi antibiotica, antimicotica o antivirale.77 I trattamenti antimicrobici andranno istituiti sulla base del sospetto clinico di infezione e di appropriate indagini microbiologiche. La scelta della terapia antimicrobica deve essere effettuata in relazione alla sede dell’infezione e alla presenza di fattori concomitanti (insufficienza renale, insufficienza epatica, allergie, etc.). Raccomandazione 11.13 Grado D In pazienti immunocompetenti non è indicata l’attuazione di profilassi antibiotica. L’approccio empirico andrà effettuato tenendo presente l’eziologia presunta più frequente stabilita sulla base dei dati epidemiologici generali e locali di ogni singolo ospedale. La terapia verrà poi corretta sulla base dei risultati delle indagini microbiologiche e colturali. 11.4.1 Trattamento delle complicanze infettive nel paziente con ictus Tra le varie complicanze mediche dell’ictus acuto (neurologiche, psichiatriche, tromboemboliche, algiche, da immobilità), quelle infettive costituiscono una delle più frequenti cause di morbosità dopo la depressione, le cadute a terra e la sintomatologia dolorosa della spalla. stesura 15 marzo 2005 258 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane Un punto importante è rappresentato dalla gestione dei pazienti con ictus acuto che manifestano febbre, che però può anche essere dovuta ad un meccanismo centrale legato al danno cerebrale indotto dall’ischemia ed in questo caso la prognosi dell’ictus è ancora più sfavorevole.78 L’esclusione di un’infezione è un fattore di diagnostica differenziale molto importante perché evita l’inutile somministrazione di antibiotici ad ampio spettro con evidenti risparmi sui costi economici e sui rischi di insorgenza di effetti collaterali e di resistenze batteriche. D’altro canto, la conferma della presenza di un’infezione e, soprattutto, l’identificazione dell’agente responsabile mediante apposite indagini microbiologiche è altrettanto fondamentale perché permette, dopo un’iniziale terapia antibiotica empirica ad ampio spettro, di effettuare un trattamento mirato con molecole a spettro più ristretto. 11.4.1.1 Sintesi 11-2 L’infezione delle vie urinarie è la più comune complicanza infettiva nel paziente con ictus acuto, ed il rischio dipende sostanzialmente dalla durata della cateterizzazione. La terapia iniziale è empirica e basata sulla prescrizione di una penicillina semisintetica protetta o, in pazienti allergici, di un fluorochinolone (tenendo conto del rischio convulsivo associato); nei casi gravi si potrà associare un aminoglicoside oppure somministrare un carbapenemico in monoterapia. Il trattamento antibiotico potrà essere modificato sulla base dei risultati dell’urinocoltura e relativo antibiogramma. Infezioni urinarie L’infezione delle vie urinarie (IVU) è la più comune complicanza infettiva nel paziente con ictus acuto oltre a rappresentare, fino a pochi anni fa, la più frequente infezione nosocomiale. Nel 1990, ad esempio, le IVU nosocomiali presentavano un’incidenza del 30%-40% ma negli ultimi anni la loro prevalenza è diminuita, forse in relazione al miglioramento delle misure di prevenzione e sorveglianza e alla migliore gestione dei cateteri urinari, che sono responsabili di almeno l’80% delle IVU. Il rischio di IVU dipende infatti dalla durata della cateterizzazione: la percentuale di infezione è bassa nei primi 3-5 giorni ma dopo 10-14 giorni metà dei pazienti presenta batteriuria e dopo 30 giorni la stragrande maggioranza. Tuttavia altri fattori contribuiscono ad aumentare il rischio di IVU: ritenzione urinaria, ipertrofia prostatica, sesso femminile, cateterizzazione peripartum, diabete mellito, età avanzata, condizioni generali scadenti. È stato osservato che in pazienti con IVU associata a catetere il tasso di mortalità è tre volte più alto che nei pazienti non infetti, probabilmente per la possibile insorgenza di batteriemia e sepsi. Lo 0,5% dei pazienti cateterizzati sviluppa infatti una batteriemia ed il 15% delle batteriemie nosocomiali è dovuto ad IVU associate a catetere, presentando un tasso di letalità del 30%.79 La batteriuria che si produce durante la cateterizzazione a breve termine (durata <1 mese) è di solito dovuta a un singolo microrganismo come Escherichia coli ma vengono isolati anche Pseudomonas æruginosa, Klebsiella sp., Enterobacter sp., Staphylococcus epidermidis, Staphylococcus aureus e Serratia sp. La cateterizzazione a lungo termine (>1 mese) è più spesso polimicrobica ed è causata prevalentemente da E. coli, P. æruginosa, Proteus mirabilis e, meno comunemente, Providencia stuartii, Morganella morganii e Acinetobacter baumanni.79 Secondo i dati statunitensi del sistema NNIS (National Nosocomial Infections Surveillance), i principali agenti eziologici di IVU in generale sono E. coli (24%), enterococchi (16%), P. æruginosa (11%), Candida sp. (11%), Klebsiella sp. (9%) ed Enterobacter sp. (5%).80 Tra questi microrganismi, problemi di resistenza possono emergere con enterococchi (multiresistenza, ivi compresa la resistenza ai glicopeptidi), P. æruginosa (multiresistenza), E. coli, K. pneumoniæ ed Enterobacter sp. (resistenza alle cefalosporine di III generazione mediata dalla produzione di beta-lattamasi a spettro espanso per i primi due batteri, di beta-lattamasi cromosomiche per il terzo genere).81-83 L’urinocoltura è un metodo semplice, relativamente rapido ed economico per la diagnosi di IVU. Almeno 10 mL di urine dal mitto intermedio (o dalla porta urinaria nei pazienti cateterizzati) devono essere raccolti ed inviati in laboratorio entro un’ora per evitare la crescita batterica, altrimenti dovrebbero essere conservati in frigorifero. La batteriurie sono da considerarsi significative se la conta batterica supera le 100·000 ufc/mL di urina, ma anche conte comprese tra 10·000 e 100·000 ufc/mL in presenza di febbre e piuria (associare sempre l’analisi delle urine all’urinocoltura, a maggior ragione in pazienti cateterizzati!) devono essere ugualmente giudicate significative.71 Inizialmente, la terapia antibiotica delle IVU è empirica e, secondo le considerazioni eziologiche sopra ricordate, basata sulla prescrizione di una penicillina semisintetica protetta (piperacillina/tazobactam 4,5 g × 3-4, ticarcillina/clavulanato 3,2 g × 3-4) o, nei pazienti allergici alle beta-lattamine, di un fluorochinolone (levofloxacina 500 mg/die, ciprofloxacina 200400 mg × 2; tenendo conto del rischio convulsivo associato); nei casi gravi si potrà associare un aminoglucoside (amikacina 15 mg/kg/die, gentamicina o tobramicina 5,1 mg/kg/die) oppure somministrare un carbapenemico in monoterapia (meropenem 1 g × 3, imipenem 500 mg × 4). Ovviamente il trattamento potrà essere modificato allorquando dal laboratorio stesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato 259 di microbiologia si rendano disponibili i dati dell’urinocoltura relativi all’identificazione del microrganismo responsabile ed al suo profilo di sensibilità antimicrobica,79,84 in particolare se dovessero essere presenti cocchi gram-positivi multiresistenti (enterococchi vancomicino-resistenti) o funghi del genere Candida (C. albicans o le più temibili specie non-albicans quali C. krusei e C. glabrata, resistenti ai comuni triazolici fluconazolo ed itraconazolo). Nel primo caso potranno essere impiegati nuovi antibiotici appartenenti alla classe delle streptogramine (quinupristin/dalfopristin) o degli oxazolidinoni (linezolid), nel secondo caso nuovi antifungini della classe delle echinocandine (caspofungina) o dei triazolici di seconda generazione (voriconazolo). 11.4.1.2 Polmoniti La polmonite è una delle principali cause d’infezione ospedaliera e la seconda più frequente complicanza infettiva nel paziente con ictus acuto.71,73 La sua importanza epidemiologica è testimoniata dagli elevati tassi di letalità (20%-50%) e dai notevoli costi economici (prolungamento del ricovero di 4-9 giorni con un costo aggiuntivo, negli Stati Uniti, di 1,2 miliardi di dollari l’anno) che essa comporta. Tra i fattori di rischio di polmonite nosocomiale vanno annoverati alcuni correlati al paziente (età anziana, condizioni generali scadenti, immunosoppressione, pneumopatia cronica, alterazione dello stato di coscienza) ed altri iatrogeni (somministrazione di antibiotici, inserimento di sondino nasogastrico, terapia con H2-antagonisti, recente intervento chirurgico o broncoscopia).79 Per quanto riguarda l’eziologia delle polmoniti nosocomiali, è di fondamentale importanza discriminare tra forme ad inizio precoce (entro cinque giorni dal ricovero) e tardivo. Le prime sono per lo più causate da patogeni “classici” facenti parte della normale flora batterica orofaringea (Streptococcus pneumoniæ, Hæmophilus influenzæ, S. aureus generalmente meticillino-sensibile) mentre una particolare tipologia d’infezione delle basse vie aeree è rappresentata dalla polmonite da aspirazione, che si produce soprattutto in soggetti con alterazione dello stato di coscienza – come quelli con ictus di entità medio-grave – in seguito al deficit dell’azione ciliare e della tosse ed in virtù dell’azione favorente esercitata dalla disfagia e dalla presenza di sondino nasogastrico.71 Viene infatti impedita l’espulsione all’esterno del materiale salivare deglutito contenente una discreta quantità della flora batterica orale, costituita per lo più da batteri anaerobi sia gram-positivi (peptostreptococchi, Streptococcus intermedius) che gram-negativi (Bacteroides fragilis, Fusobacterium sp., Prevotella sp.). Sul piano clinico la polmonite da aspirazione si manifesta in modo del tutto simile alle comuni polmoniti alveolari se si eccettua la produzione di un escreato dall’aspetto putrido e dall’odore fetido.85 Le polmoniti ad esordio tardivo (oltre cinque giorni dal ricovero) sono invece delle classiche infezioni ospedaliere, determinate cioè da quei patogeni tipicamente riscontrabili in ambiente nosocomiale ed invariabilmente caratterizzati dalla loro antibiotico-resistenza, spesso multipla: Enterobacteriaceæ con resistenza alle cefalosporine di III generazione mediata dalla produzione di beta-lattamasi a spettro espanso (E. coli, K. pneumoniæ) o di beta-lattamasi cromosomiche (Enterobacter sp.), P. æruginosa ed Acinetobacter sp. multiresistenti, S. aureus meticillino-resistente.81-83 Purtroppo, anche in ambiente nosocomiale una diagnosi microbiologica di polmonite può essere ottenuta in non più della metà dei casi. L’esame batterioscopico e colturale dell’escreato è da una parte gravato da un’elevata frequenza di falsi positivi dovuti alla contaminazione con la flora residente delle alte vie aeree e dall’altra difficilmente ottenibile in pazienti con alterazioni dello stato di coscienza come in caso di ictus. D’altronde le altre metodiche – se si eccettua l’emocoltura, da effettuare sempre e comunque – sono tutte invasive: broncoaspirato, fibrobroncoscopia, agoaspirato transtoracico, biopsia polmonare transbronchiale o a cielo aperto. Tra le indagini invasive appena citate, la fibrobroncoscopia con cultura quantitativa da BAL o brushing protetto rappresenta l’indagine complessivamente più idonea, purché effettuata prima di iniziare una terapia antibiotica (od almeno due giorni dopo la sua sospensione). È della massima importanza inviare il più rapidamente possibile i campioni di materiale respiratorio al laboratorio (entro due ore) e chiedere l’effettuazione non solo dell’esame colturale ma anche di quello batterioscopico, che con il minimo sforzo ed in tempi rapidissimi può fornire informazioni preziosissime. Devono inoltre essere prese tutte le precauzioni possibili (rigorosa anaerobiosi) in occasione della raccolta, trasporto e lavorazione di campioni microbiologici delicati come quelli per l’eventuale identificazione di batteri anaerobi obbligati.86 stesura 15 marzo 2005 Sintesi 11-3 La polmonite, che include la polmonite da aspirazione, è la seconda più frequente complicanza infettiva nel paziente con ictus acuto. La terapia sarà almeno inizialmente empirica utilizzando una monoterapia con un carbapenemico o con una cefalosporina ad amplissimo spettro o una penicillina semisintetica ad ampio spettro in associazione al metronidazolo. Considerato il possibile ruolo eziologico di S. aureus e la sua frequente meticillino-resistenza, può essere opportuno aggiungere alla terapia un glicopeptide. Il trattamento dovrà essere protratto per 7-10 giorni nelle infezioni da S. aureus meticillino-sensibile o da patogeni respiratori classici; per 10-14 giorni in quelli dovuti a S aureus meticillino-resistente e bacilli aerobi gram-negativi; per 14-21 giorni in caso di coinvolgimento multilobare, cavitazioni, gravi condizioni di fondo. Il trattamento antibiotico potrà essere modificato sulla base dei risultati delle colture e relativi antibiogrammi. 260 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane La terapia antibiotica sarà almeno inizialmente empirica e basata sulla conoscenza dei dati epidemiologici riguardanti la possibile eziologia ed il profilo di chemiosensibilità sia generale che locale dei microrganismi più probabilmente in causa. Nelle forme precoci potrà essere impiegata una penicillina semisintetica protetta (amoxicillina/clavulanato 2,2 g × 3, ampicillina/sulbactam 1,5-3 g × 4), una cefalosporina di II (cefuroxime 1,5 g × 3) o III generazione (cefotaxime 2 g × 3, ceftriaxone 2 g/die) o, in pazienti allergici alle beta-lattamine, un fluorochinolone (levofloxacina 500 mg × 2, ciprofloxacina 200-400 mg × 2), tutte queste molecole in associazione ad un agente antianaerobio (clindamicina 900 mg × 3, metronidazolo 500 mg × 4) per la possibilità di trovarsi di fronte ad una polmonite da aspirazione. Nelle forme ad esordio tardivo il medico avrà l'opportunità di scegliere tra una monoterapia con un carbapenemico (meropenem 1 g × 3, imipenem 500 mg × 4) o con una cefalosporina ad amplissimo spettro (cefepime 2 g × 2) ed un'associazione di un aminoglucoside (amikacina 15 mg/kg/die, tobramicina 5,1 mg/kg/die) e di una beta-lattamina ad ampio spettro comprendente gli anaerobi (piperacillina/tazobactam 4,5 g × 4, ticarcillina/clavulanato 3,2 g × 4). Considerato il possibile ruolo eziologico di S. aureus e la sua frequente meticillino-resistenza, può essere opportuno aggiungere all’anzidetta terapia un glicopeptide (teicoplanina 800 mg/die i primi due giorni seguiti da 400 mg/die, vancomicina 500 mg × 4). Il trattamento dovrà essere protratto per 710 giorni nei casi ascrivibili a S. aureus meticillino-sensibile od a patogeni respiratori classici (pneumococco, Hæmophilus influenzæ), per 10-14 giorni in quelli dovuti a MRSA (stafilococco aureo meticillino-resistente) e bacilli aerobi gram-negativi e per 14-21 giorni nei casi impegnativi (coinvolgimento multilobare, presenza di cavitazioni, pazienti con gravi condizioni di fondo).79,84 11.4.1.3 Sintesi 11-4 Poiché il principale fattore di rischio di batteriemia è rappresentato dalla presenza di cateteri vascolari, è indicata un’adeguata gestione di tali presidi medicochirurgici. La terapia iniziale è empirica e basata sull’associazione di una beta-lattamina antiPseudomonas e di un aminoglicoside (oppure di una cefalosporina ad ampio spettro o un carbapenemico da soli), insieme con un glicopeptide. Il trattamento antibiotico potrà essere modificato sulla base dei risultati delle emocolture e relativo antibiogramma. Batteriemie Statistiche statunitensi evidenziano un’incidenza annua di circa 14,5 batteriemie nosocomiali ogni 1·000 ricoveri con 62·500 morti ed un aumento, tra il 1979 ed il 1987, da 7,4 a 17,6 casi ogni 1·000 abitanti. In uno studio su 260·834 pazienti, tra il 1980 e il 1992 è stata registrata una diminuzione della mortalità grezza dal 51% al 29% ma la mortalità attribuibile tra i pazienti ospedalizzati è aumentata da 3,55 a 6,22 per 1·000 ricoveri.79 Il principale fattore di rischio associato all’insorgenza di una batteriemia nosocomiale è rappresentato dalla presenza di un catetere vascolare, con importanti diversificazioni a seconda del tipo di catetere usato (il rischio maggiore si ha con i cateteri venosi centrali non tunnelizzati), della durata prolungata e della sede della cateterizzazione (il rischio maggiore si ha con l’arteria o la vena femorale e, per quanto riguarda i cateteri venosi centrali, la vena giugulare) e della tecnica di inserimento, che richiede la massima sterilità.86 In misura molto minore, anche l’inserimento di materiali protesici e l’effettuazione di altre procedure invasive sono fattori predisponenti alla batteriemia primitiva mentre le batteriemie secondarie conseguono generalmente ad un’infezione respiratoria inferiore (in particolare in pazienti intubati), postchirurgica od urinaria (in genere associata a catetere vescicale o a procedura endoscopica). Altri generici fattori di rischio per batteriemia sono rappresentati dalla neutropenia e dalle terapie citotossiche, cortisoniche e soprattutto antibiotiche.87 Nelle forme secondarie i bacilli aerobi gram-negativi sono preponderanti mentre le infezioni primitive sono dovute in quasi il 60% dei casi ai principali cocchi gram-positivi nosocomiali tra cui S. aureus, stafilococchi coagulasi-negativi (SCN) ed enterococchi.80 In uno studio condotto in 49 ospedali statunitensi durante un periodo di tre anni, sono stati rilevati 10·617 episodi di batteriemia nosocomiale, di cui il 31,9% dovuti a SCN, il 15,7% a S. aureus, l’11,3% a bacilli del gruppo K-E-S, l’11,1% ad enterococchi, il 7,6% a Candida sp., il 5,7% ad E. coli ed il 4,4% a Pseudomonadaceæ. In questo studio la letalità variava dal 21% per le batteriemie da SCN al 40% per quelle da Candida sp.88 Tra tutti questi microrganismi, problemi di resistenza possono emergere con S. aureus e SCN a causa della loro frequentissima meticillinoresistenza negli ospedali italiani (con percentuali che vanno dal 40% ad oltre il 60%), P. æruginosa ed enterococchi (multiresistenza), E. coli, K. pneumoniæ ed Enterobacter sp. (resistenza alle cefalosporine di III generazione mediata dalla produzione di beta-lattamasi a spettro espanso per i primi due batteri, di beta-lattamasi cromosomiche per il terzo genere).81-83 L’emocoltura è il test di riferimento per la diagnosi di batteriemia ed alcuni punti fondamentali devono essere tenuti ben presenti quali: a) il momento del prelievo – all’acme febbrile od in presenza di brivido; b) il numero ed il volume dei campioni – almeno 3 a distanza di 10-20 stesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato 261 minuti l’uno dall’altro e con almeno 5-10 mL di sangue; c) la tecnica di raccolta – sterilità assoluta; d) il sistema di lavorazione in laboratorio; e) la capacità del clinico di interpretare i risultati. Anche quest’ultimo aspetto ha la sua importanza: reperire in un’emocoltura la presenza di pneumococco o di un bacillo aerobio gram-negativo è sempre indice di infezione certa mentre l’isolamento di uno stipite di Staphylococcus epidermidis da un solo campione è indice di contaminazione nella quasi totalità dei casi.89 La terapia delle batteriemie è fondata sull’impiego di farmaci battericidi che assicurino elevate concentrazioni sieriche, somministrati per via endovenosa ad alte dosi, generalmente in associazioni farmacologiche per allargare lo spettro d’azione o per sfruttare il sinergismo di potenziamento. Inizialmente, in attesa dei risultati delle emocolture è preferibile l’associazione di una beta-lattamina anti-Pseudomonas quale ticarcillina/clavulanato 3,2 g × 4, piperacillina/tazobactam 4,5 g × 4, ceftazidime 2 g × 3 (o di un fluorochinolone come la levofloxacina 500 mg × 2 o la ciprofloxacina 200-400 mg × 2 nei soggetti allergici alle beta-lattamine) con un aminoglicoside (amikacina 15 mg/kg/die, tobramicina 5,1 mg/kg/die), oppure l'impiego in monoterapia di un carbapenemico (meropenem 1 g × 3, imipenem 500 mg × 4) o di cefepime 2 g × 2. Considerata l’elevata frequenza con cui negli ospedali italiani vengono isolati stafilococchi meticillino-resistenti (dal 40% per quanto riguarda S. aureus ad oltre il 60% per quanto concerne gli SCN), è altamente consigliabile aggiungere al carbapenemico (od all’associazione beta-lattamina/aminoglicoside) un glicopeptide come teicoplanina (800 mg/die i primi due giorni seguiti da 400 mg/die) o vancomicina (500 mg × 4).79,84 11.4.1.4 Infezioni delle ulcere da decubito Le ulcere da decubito, prevalentemente localizzate nelle aree declivi sottoposte a pressione quali le zone sacrali, calcaneali e coxofemorali, rappresentano una tipica complicanza medica in pazienti cronicamente allettati come quelli con ictus. L’aumento del peso corporeo (obesità) è un fattore di rischio per la comparsa di piaghe da decubito; anche l’iperglicemia e l’ipoproteinemia rappresentano un fattore precipitante, e devono essere tempestivamente corrette. La prevenzione si basa su un capillare e scrupoloso trattamento infermieristico che comprende l’uso di un lettino antidecubito ad aria o ad acqua, di una minuziosa igiene e la mobilizzazione del paziente con intervallo variabile da 1 a 4 ore a seconda dei fattori di rischio per lesioni da decubito. La formazione di ampie piaghe da decubito con tessuto necrotico si avvale di un adeguato trattamento chirurgico. Per le condizioni predisponenti di fondo e l’incontinenza urinaria e fecale che spesso contraddistingue tali pazienti, con facilità le ulcere da decubito si infettano prospettando così un’infezione che è tipicamente polimicrobica.71 Possono essere infatti in causa microrganismi sia aerobi gram-positivi (enterococchi, stafilococchi, Streptococcus pyogenes) e gram-negativi (Enterobacteriaceæ, Pseudomonadaceæ), sia anaerobi gram-positivi (peptostreptococchi) e gram-negativi (Bacteroides sp.). Una terapia antibiotica delle ulcere da decubito infette dovrebbe essere intrapresa solo allorquando la patologia sia particolarmente grave da produrre un’estesa cellulite oppure un processo settico testimoniato dalla presenza di segni e sintomi generali e dalla positività delle emocolture, che devono essere sempre prelevate in pazienti febbrili. Su queste basi, considerando la molteplice eziologia di tali infezioni, un adeguato trattamento antibiotico è rappresentato da una penicillina semisintetica protetta (piperacillina/tazobactam 4,5 g × 4, ticarcillina/clavulanato 3,2 g × 4) oppure da un carbapenemico (meropenem 1 g × 3, imipenem 500 mg × 4) o, in pazienti allergici alle beta-lattamine, dall'associazione tra un fluorochinolone (levofloxacina 500 mg/die) ed una molecola antianaerobia (clindamicina 900 mg × 3, metronidazolo 500 mg × 4).84 stesura 15 marzo 2005 Sintesi 11-5 Le piaghe da decubito rappresentano una grave complicanza dell’ictus acuto associata ad una aumentata mortalità e ad un peggiore andamento clinico e funzionale. Il rischio di piaghe da decubito è più alto nei pazienti obesi, nei diabetici e nei pazienti iponutriti. La terapia antibiotica è indicata solo in presenza di un’estesa cellulite, di segni e sintomi di sepsi o di positività delle emocolture. Raccomandazione 11.14 Grado D Nei pazienti con ictus acuto è indicata la prevenzione delle piaghe da decubito basata sul cambiamento di posizione del paziente, con intervallo variabile da 1 a 4 ore a seconda dei fattori di rischio per lesioni da decubito, su una minuziosa igiene e sull’uso di un materasso ad aria o ad acqua. 262 Sintesi 11-6 La malnutrizione proteico-energetica nel paziente affetto da ictus acuto è un evento frequente. La valutazione dello stato nutrizionale è fondamentale per evidenziare precocemente situazioni di malnutrizione per eccesso o per difetto e per mantenere o ripristinare uno stato nutrizionale adeguato. Una nutrizione adeguata è importante per evitare la comparsa di complicanze, per ridurre i tempi di ospedalizzazione, per migliorare la qualità della vita e rendere più semplice ed efficace il percorso terapeutico. Raccomandazione 11.15 a Grado D La valutazione dello stato di nutrizione e l’intervento nutrizionale sono indicati come componente essenziale dei protocolli diagnostici-terapeutici dell’ictus, sia in fase acuta che durante il periodo di riabilitazione. Raccomandazione 11.15 b Grado D È indicato che figure professionali esperte (medico nutrizionista, dietista) facciano parte del gruppo multidisciplinare che gestisce il lavoro della stroke unit. Raccomandazione 11.15 c Grado D È indicato includere le procedure di valutazione del rischio nutrizionale fra gli standard per l’accreditamento delle strutture sanitarie. Sintesi 11-7 I protocolli diagnostici essenziali per la valutazione dello stato nutrizionale e del rischio nutrizionale nel paziente affetto da ictus includono: a) gli indici nutrizionali integrati, che vanno effettuati all’ingresso nell’ospedale o nella struttura riabilitativa; b) le misure antropometriche, gli indici biochimici, la rilevazione dell’assunzione dietetica e delle condizioni mediche associate, da ripetere nel corso del ricovero con periodicità differente, in relazione al rischio nutrizionale individuale. SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane 11.5 NUTRIZIONE 11.5.1 Valutazione del rischio nutrizionale Il malato colpito da ictus può presentare una condizione preesistente di malnutrizione per eccesso o per difetto ed è a rischio di malnutrizione proteico-energetica.90-94 Uno stato di malnutrizione proteico-energetica è presente nell’8%-16% dei pazienti con ictus acuto, nel 26% dopo 7 giorni, nel 35% dopo 2 settimane e nel 40% all’inizio della fase riabilitativa.95-101 Fattori sia strettamente clinici (disturbi della masticazione, disfagia, disturbi della vigilanza e visuo-spaziali) che assistenziali (difficoltà di alimentazione autonoma per concomitanti disturbi di forza e/o di coordinazione all’arto superiore) contribuiscono al deterioramento dello stato nutritivo. Inoltre età senile, alterazioni metaboliche, nonché fattori psicologici quali depressione e isolamento, possono causare un ridotto interesse nell’alimentazione.95,96,101-107 La presenza di malnutrizione proteico-energetica è correlata ad una maggiore incidenza di infezioni, piaghe da decubito, ridotta capacità di resistere ad insulti di tipo ossidativo ed alla perdita di massa muscolare, che determina o aggrava l’inabilità motoria.95,97,107-109 È necessario quindi includere nei protocolli diagnostici la valutazione dello stato nutrizionale e nei protocolli terapeutici gli interventi nutrizionali correttivi, sia in fase acuta che durante il periodo di riabilitazione.110,111 La valutazione del rischio nutrizionale è una procedura assistenziale che dovrebbe essere inserita negli standard di accreditamento degli ospedali.112,113 Le stroke unit dovrebbero dotarsi di efficaci protocolli nutrizionali e del personale più adatto alla loro gestione. Il team dovrebbe coinvolgere in modo coerente e continuativo un medico nutrizionista e un dietista che, in collaborazione, possano garantire la massima qualità dell’intervento dietetico-nutrizionale, dalle scelte terapeutiche iniziali alla gestione nel tempo.110 Il medico nutrizionista, in particolare, valuta tipologie e costi/benefici dei protocolli terapeutici alla luce delle condizioni cliniche del malato, assicurandone il sistematico follow up metabolico. Al contempo, il dietista esegue la valutazione dietetica del paziente, collabora al monitoraggio dello stato di nutrizione, alla valutazione dinamica della assunzione dietetica, alla gestione della nutrizione enterale, e coopera nella soluzione delle problematiche legate alla disfagia.114 Le metodiche a cui fare riferimento per la valutazione dello stato nutrizionale sono molteplici, alcune di esse complesse ed attuabili solo in centri specialistici di nutrizione clinica, tuttavia è possibile ricorrere a protocolli semplificati applicabili in tutti gli ospedali e gli istituti riabilitativi. La valutazione dello stato di nutrizione deve almeno comprendere:110 a) una prima valutazione o screening del rischio nutrizionale, da effettuarsi utilizzando gli indici nutrizionali integrati entro 24-48 ore dall’ammissione a tutti i pazienti.110,111 I risultati dello screening nutrizionale devono guidare ad una richiesta appropriata d’intervento del dietista per la valutazione ed il trattamento.111 Il Nutritional Risk Screening (NRS)112 ed il Malnutrition Universal Screening Tools (MUST)115,116 possono essere utilizzati anche nel caso dell’ictus. Entrambi gli indici, considerando il BMI, il decremento ponderale non intenzionale, la valutazione dell’assunzione dietetica, la condizione clinica e/o il trattamento, classificano il paziente a rischio lieve (NRS ≤2; MUST ≤1) o moderato/elevato (NRS ≥3; MUST ≥2; Tabella 11:IV e Figura 11–1). b) successive e più complete valutazioni dello stato di nutrizione utilizzando misure ed indici antropometrici, indici biochimici, la valutazione dell’assunzione dietetica e delle patologie associate. Tali valutazioni devono essere ripetute con periodicità settimanale nei pazienti normonutriti; la Tabella11:V elenca gli indicatori ed i valori soglia da considerare.Il sospetto di malnutrizione proteico-energetico necessita di un monitoraggio bisettimanale, viceversa la presenza di una condizione di malnutrizione in atto (identificata dalla presenza di almeno due indicatori, di cui uno biochimico), necessita di un immediato supporto nutrizionale. Gli indici essenziali da includere nel protocollo di valutazione dello stato nutrizionale e del rischio nutrizionale possono essere elencati come segue. stesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato 263 Tabella 11:IV – Nutritional Risk Screening (Public Health Commitee, 2003)112 punti stato nutrizionale 1 perdita peso >5% negli ultimi 3 mesi oppure: assunzione dietetica <50-75% rispetto ai fabbisogni nella settimana precedente 2 3 punti condizione medica e trattamento 1 frattura dell’anca; presenza di patologie croniche anche in fase di riacutizzazione: epatopatie croniche cirrogene, malattie polmonari ostruttive croniche, tumori solidi; radioterapia (ipercatabolismo lieve) perdita peso >5% negli ultimi 2 mesi 2 post-intervento di chirurgia (addominale) maggiore; oppure: pazienti geriatrici istituzionalizzati; IMC 18,5-20,5 associato a condizioni generali scadute ictus; oppure: insufficienza renale nel postoperatorio; assunzione dietetica <25-50% rispetto ai pazienti ematologici; fabbisogni nella settimana precedente chemioterapia (ipercatabolismo moderato) perdita peso >5% nell’ultimo mese 3 traumi cranici oppure: trapianto di midollo osseo IMC <18,5 associato a condizioni generali scadute pazienti in terapia intensiva oppure: (ipercatabolismo grave) assunzione dietetica 0-25% rispetto ai fabbisogni nella settimana precedente totale A totale B TOTALE A+B: basso rischio di malnutrizione (punteggio ≤2); rischio moderato/elevato di malnutrizione (punteggio ≥3) STEP 1 IMC IMC (kg/m2) punteggio >20 (>30 obeso) 0 18,5–20,0 1 <18,5 2 STEP 2 perdita di peso + + decremento ponderale non intenzionale negli ultimi 3-6 mesi decremento % punteggio <5 0 5-10 1 >10 2 STEP 3 effetti di malattia acuta Raccomandazione 11.15 d Grado D È indicato che, all’ingresso nell’ospedale e nella struttura riabilitativa, si proceda alla valutazione del rischio nutrizionale utilizzando il Nutritional Risk Screening (NRS) o il Malnutrition Universal Screening Tool (MUST). Raccomandazione 11.15 e Grado D È indicato procedere alla valutazione del rischio nutrizionale entro 24-48 h dal ricovero. Figura 11–1. Malnutrition Universal Screening Tool.116 se il paziente è affetto da una malattia acuta e si è verificato o si prevede per almeno 5 giorni un introito nutrizionale insufficiente punteggio = 2 STEP 4 valutazione globale del rischio di malnutrizione sommare STEP 1 + STEP 2 + STEP 3 punteggio 0 basso rischio di malnutrizione 11.5.1.1 punteggio 1 medio rischio di malnutrizione punteggio ≥2 alto rischio di malnutrizione Misure ed indici antropometrici Per il paziente in grado di mantenere la stazione eretta: peso, altezza, circonferenza vita. Il peso e l’altezza consentono il calcolo dell’indice di massa corporea (IMC o BMI = peso/altezza2 in kg/m2), con il quale evidenziare la presenza di malnutrizione per eccesso (BMI ≥30) o per difetto (BMI<20).117 La misura ripetuta del peso consente di evidenziare la presenza di decremento ponderale non intenzionale. Un decremento ponderale non intenzionale >5% negli ultimi due mesi può essere riferito ad una situazione di malnutrizione proteico-energetica in atto. La misura ripetuta del peso corporeo va effettuata con periodicità almeno settimanale per tutta la durata del ricovero: un decremento ponderale non intenzionale del 2% rispetto alla precedente settimana è chiaramente indicativo di apporti energetici inadeguati. stesura 15 marzo 2005 Raccomandazione 11.15 f Grado D Nel paziente in grado di mantenere la postura eretta sono indicati misure e indici antropometrici essenziali quali circonferenza della vita, calcolo dell’Indice di Massa Corporea (IMC) e stima del decremento ponderale non intenzionale. Nel paziente non deambulante sono indicate le misurazioni antropometriche di: peso corporeo, se disponibili attrezzature speciali, e semiampiezza delle braccia, in luogo dell’altezza, per il calcolo dell’IMC o, in alternativa, la circonferenza del braccio. 264 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane Tabella 11:V – Criteri per la valutazione della malnutrizione proteico-energetica (PEM) BMI (kg/m2) o, in alternativa, circonferenza braccio (cm) decremento ponderale non intenzionale (%) albuminemia (g/dL) conta linfocitaria (no./mm3) assunzione dietetica (copertura % del fabbisogno) gravità della patologia o presenza di patologie associate sospetto di PEM/PEM lieve ≥20 ≥23,5 >5% in 3-6 mesi 3,0-3,5 1·200-1·500 100%-75% no PEM <20 <23,5 >5% in 2 mesi <3,0 <1·200 <75% sì supporto nutrizionale monitoraggio bisettimanale La circonferenza vita è la misura antropometrica più pratica per la valutazione della quantità di grasso viscerale direttamente correlato, anche nei soggetti normopeso, ad un aumentato rischio di malattie cardiovascolari e diabete di tipo 2. I valori di attenzione sono:118,119 • rischio moderato: >94 cm nell’uomo; >80 cm nella donna • rischio elevato: >102 cm nell’uomo; >88 cm nella donna Per i pazienti non deambulanti, confinati nel letto o incapaci di mantenere la stazione eretta: peso, semiampiezza delle braccia, circonferenza del braccio. Per i pazienti non deambulanti la misurazione del peso richiede la disponibilità di attrezzature specifiche (sedie e letti a bilancia); la misurazione della semiampiezza della braccia permette una stima dell’altezza (secondo apposite tabelle di corrispondenza fra i due dati) mentre la circonferenza del braccio può essere utilizzata, in alternativa al BMI, per evidenziare una situazione di malnutrizione per difetto (<23,5 cm) o per eccesso (>32 cm). 11.5.1.2 Raccomandazione 11.15 g Grado D Nel protocollo di valutazione dello stato di nutrizione sono indicate la valutazione dell’assunzione dietetica e la valutazione clinica; il dosaggio dell’albumina e la conta dei linfociti sono indicati quali valutazioni biochimiche essenziali. Indici biochimici Gli indici biochimici di più semplice determinazione ed interpretazione sono l’albuminemia e la conta linfocitaria. L’ipoalbuminemia è un fattore predittivo di una peggiore prognosi nei pazienti affetti da ictus.93,120,121 I riferimenti diagnostici per albuminemia e conta linfocitaria sono riportati in Tabella 11:V. 11.5.1.3 Valutazione dell’assunzione dietetica La valutazione dell’assunzione dietetica è indicata per la valutazione ed il monitoraggio dello stato nutrizionale, nonché per l’impostazione di un adeguato supporto nutrizionale. La prima valutazione dell’assunzione dietetica va effettuata all’ingresso in ospedale o nella struttura riabilitativa ottenendo informazioni dai familiari o, qualora possibile, direttamente dal malato sui consumi dei 5-7 giorni precedenti; a tale scopo si utilizza l’inchiesta alimentare per ricordo (Recall) o questionari semplificati che mirano a valutare i consumi alimentari e le loro variazioni nel periodo che precede l’osservazione. Le successive valutazioni si effettuano mediante la determinazione diretta di quanto consumato dal malato (p. es. con la valutazione degli scarti); le valutazioni dell’assunzione dietetica vanno eseguite per almeno un giorno a settimana e ripetute nei due giorni consecutivi se l’assunzione dietetica è <75% dei fabbisogni stimati. Misurazioni ripetute <75% impongono variazioni della strategia nutrizionale adottata. Valutazione clinica La valutazione clinica deve essere effettuata per evidenziare la presenza di ulteriori patologie e/o trattamenti terapeutici che possano determinare un incremento dei fabbisogni in energia e nutrienti o richiedere modifiche della composizione nutrizionale della terapia dietetica. stesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato 11.5.2 Il trattamento nutrizionale nella fase acuta Il supporto nutrizionale è parte integrante del trattamento dell’ictus cerebrale. La mancanza di un adeguato supporto nutrizionale determina il rapido instaurarsi di un deficit calorico-proteico che ha conseguenze drammatiche sull’evoluzione del quadro clinico.122 Obiettivi del supporto nutrizionale sono la prevenzione o il trattamento della malnutrizione proteico-energetica, di squilibri idro-elettrolitici o di micronutrienti. L’istituzione del supporto nutrizionale si articola nelle seguenti fasi: a. valutazione dello stato di nutrizione (vedi § 11.5.1); b. valutazione dei fabbisogni di energia e nutrienti; c. timing e scelta delle modalità di somministrazione della nutrizione; d. prevenzione e gestione delle complicanze della nutrizione enterale. 11.5.2.1 265 Sintesi 11-8 Obiettivi del supporto nutrizionale in fase acuta sono la prevenzione o il trattamento della malnutrizione proteico-energetica, di squilibri idro-elettrolitici o di carenze selettive (minerali, vitamine, antiossidanti, ecc.). Valutazione dei fabbisogni di energia e nutrienti Il calcolo del fabbisogno energetico dovrebbe teoricamente essere effettuato mediante la calorimetria indiretta che valuta la spesa energetica sulla base del consumo d’ossigeno e della produzione di anidride carbonica. Più semplicemente il fabbisogno energetico si calcola con il metodo fattoriale: il metabolismo di base (MB), predetto con le equazioni riportate in Tabella 11:VI, va moltiplicato per un fattore che considera o il livello di attività fisica o particolari condizione cliniche.123 Tabella 11:VI – Equazioni di predizione del metabolismo di base (MB; kcal/die) a partire dal peso corporeo (Pc)➀ FAO/WHO/UNU 1985;124 Schofield et al 1985 123 età (anni) 30-59 60-74 ≥75 uomini 11,6 × Pc + 879 11,9 × Pc + 700 8,4 × Pc + 819 donne 8,7 × Pc + 829 9,2 × Pc + 688 9,8 × Pc + 624 Sintesi 11-9 Il fabbisogno di energia si calcola applicando il metodo fattoriale, e cioè misurando o stimando il metabolismo basale e correggendo tale valore per il livello di attività fisica (LAF) o per i fattori di malattia, espressi in multipli del metabolismo basale: sono in genere indicati valori compresi tra 1,2 e 1,5 volte il metabolismo basale. ➀ peso corporeo in kg misurato (se normopeso) o desiderabile (in caso di obesità o magrezza) Allo stato attuale non è stato identificato alcun fattore di correzione specifico per le patologie neurologiche:122 • paziente allettato = 1,2 • paziente non allettato = 1,3 • trauma chirurgico minore = 1,2 • trauma scheletrico = 1,35 • sepsi grave = 1,6 • ustione estesa = 2,1. L’apporto proteico consigliato nei casi non complicati è di circa 1 g/kg di peso corporeo misurato (se normopeso) o desiderabile (in caso di obesità o magrezza) e fino 1,2-1,5 g/kg al giorno in presenza di condizioni ipercataboliche o piaghe da decubito.112,124,125 Se il soggetto è gravemente malnutrito le stime del fabbisogno energetico e proteico vanno personalizzate. Una volta coperti i fabbisogni di proteine, la proporzione dei carboidrati e dei lipidi può variare, rispettivamente, tra il 50% e il 65% dell’energia totale per i primi e tra il 20% e il 30% dell’energia totale per i secondi.112 I fabbisogni di minerali e vitamine del soggetto in fase post ictus normonutrito sono simili a quelli della popolazione generale di età, sesso e peso corporeo similare, mentre nel caso di soggetto affetto da malnutrizione i fabbisogni vanno stimati in modo individuale.125 Nella fase immediatamente post-evento il percorso nutrizionale da intraprendere va attivato in modo differente a seconda della capacità di deglutizione e del sensorio. Per quanto riguarda l’apporto idrico, va eseguito un monitoraggio quotidiano per valutare le esigenze del singolo soggetto mediante bilancio delle perdite sensibili (urine e feci) e insensibili (cute e respiro). stesura 15 marzo 2005 Sintesi 11-10 Il fabbisogno minimo di proteine è di circa 1 g/kg di peso corporeo misurato (se normopeso) o desiderabile (in caso di obesità o magrezza) e fino 1,2~1,5 g/kg al giorno in presenza di condizioni ipercataboliche o piaghe da decubito. Il timing e la scelta della modalità di somministrazione della nutrizione sono condizionati innanzitutto dalle condizioni cliniche del paziente. 266 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane 11.5.2.2 Raccomandazione 11.16 a Grado B Nei pazienti in cui è possibile l’alimentazione per os, non è indicata l’utilizzazione routinaria di integratori dietetici, in quanto non associata ad un miglioramento della prognosi. L’utilizzazione di integratori dietetici deve essere guidata dai risultati della valutazione dello stato nutrizionale. Raccomandazione 11.16 b Grado D Il programma nutrizionale del soggetto affetto da ictus in fase acuta prevede le seguenti opzioni: • soggetti non disfagici normonutriti: alimentazione per os seguendo il profilo nutrizionale delle Linee Guida per una Sana Alimentazione; • soggetti non disfagici con malnutrizione proteico-energetica: alimentazione per os con l’aggiunta di integratori dietetici per os; • soggetti con disfagia: adattamento progressivo della dieta alla funzionalità deglutitoria e alla capacità di preparazione del bolo o nutrizione enterale, eventualmente integrate. Raccomandazione 11.17 a Grado B Nel soggetto affetto da ictus in fase acuta la terapia nutrizionale artificiale di scelta è rappresentata dalla nutrizione enterale. È indicato iniziare il trattamento di nutrizione enterale precocemente e comunque non oltre 5-7 giorni nei pazienti normonutriti e non oltre le 24-72 ore nei pazienti malnutriti. Raccomandazione 11.17 b Grado D La nutrizione parenterale è indicata esclusivamente laddove la via enterale non sia realizzabile o sia controindicata o quale supplementazione alla nutrizione enterale qualora quest’ultima non consenta di ottenere un’adeguata somministrazione di nutrienti. Timing e scelta delle modalità di somministrazione della nutrizione Il timing e la scelta della modalità di somministrazione della nutrizione sono condizionati innanzitutto dalle condizioni cliniche del paziente. Come discusso in dettaglio nel § 11.5.3, molti pazienti con patologie cerebrovascolari, ed in particolare quelli che necessitano di trattamento intensivo, non sono in grado di alimentarsi per via orale, anche in considerazione dell’elevato rischio di aspirazione polmonare, particolarmente frequente nei pazienti con disturbi della deglutizione. Soggetto non disfagico Nei soggetti con stato nutrizionale normale è indicata l’alimentazione per os con eventuale assistenza, se presenti altre alterazioni funzionali (paresi, ecc.). I risultati del FOOD Trial hanno evidenziato che la somministrazione routinaria di integratori dietetici non si associa, nel paziente affetto da ictus, ad un miglioramento della prognosi e ad un decremento della mortalità a sei mesi,126 tuttavia i dati a disposizione non consentono di effettuare un’analisi separata nei soggetti classificati come malnutriti e non sono confermati in altri studi.93,127 Pertanto, allo stato attuale, in presenza di malnutrizione proteico-energetica è indicata l’aggiunta di integratori dietetici per os. Tali integratori dietetici vanno prescritti e somministrati con modalità chiare e precise alla stregua di altre terapie, per evitare che non vengano in realtà assunti.110 Soggetto disfagico L’impostazione del trattamento nutrizionale del paziente disfagico richiede uno studio preliminare della deglutizione, come indicato nel § 11.5.3,128,129 e va pianificata in relazione al rischio di broncopolmonite ab ingestis, al grado di autonomia e allo stato nutrizionale del paziente. Il programma nutrizionale prevede la dieta progressiva per disfagia o la nutrizione artificiale.111,130,131 Se il tipo ed il grado di disfagia presentato dal soggetto lo consentono, si può programmare una dieta con alimenti e bevande a densità modificata; per ulteriori approfondimenti sulle caratteristiche della terapia dietetica in corso di disfagia, si rimanda al § 14.9.2. In caso di disfagia completa è indicata la nutrizione artificiale.110,124,125 Nel paziente neurologico la terapia nutrizionale artificiale di scelta è rappresentata dalla nutrizione enterale, poiché l’apparato gastroenterico è abitualmente integro; l’orientamento verso la nutrizione enterale si basa su quanto le linee guida per la nutrizione artificiale delle principali società scientifiche internazionali e nazionali sostengono da tempo.125,132 Una metanalisi condotta dalla Cochrane Collaboration sull’efficacia degli interventi di nutrizione artificiale in corso di disfagia conclude che non sono presenti studi sufficienti per porre raccomandazioni conclusive né sul periodo ottimale in cui iniziare il trattamento, né sulle modalità di somministrazione.133,134 Più di recente i risultati del FOOD Trial evidenziano un decremento non significativo della mortalità (riduzione assoluta del rischio pari a 5,8%; IC95 –0,8% a 12,5%; P=0,09) e dell’endpoint combinato morte/esito sfavorevole pari a 1,2% (IC95 –4,2% a 6,6%; P=0,7) nei pazienti sottoposti a nutrizione enterale precoce;135 sulla base di tale evidenza, ragionevolmente si può indicare di iniziare precocemente la nutrizione enterale quando necessario e comunque di non superare, nel soggetto normonutrito, i 5-7 giorni di attesa 135 e, nel soggetto con malnutrizione proteico-energetica, i 2-3 giorni.110,125 Nutrizione enterale del paziente in fase acuta post-ictus È ormai dimostrato che la via enterale è da preferirsi rispetto a quella parenterale: essa favorisce il trofismo della mucosa intestinale, consente il mantenimento della sua funzione immunitaria e di barriera riducendo la traslocazione batterica, ha una incidenza minore di complicanze infettive e metaboliche ed è meno costosa.125 Se il soggetto non presenta altre patologie concomitanti (diabete, insufficienza renale, epatica) sono utilizzabili le miscele polimeriche presenti in commercio dotate di tutti i macro e micronutrienti necessari prive di lattosio e glutine, a basso o normale residuo, a concentrazione calorica differente da 0,5 kcal per mL a 2 kcal per mL. L’impiego di tali miscele sterili e liquide, oltre a garantire in modo noto i fabbisogni nutrizionali, riduce in modo rilevante le complicanze gastrointestinali legate a contaminazioni batteriche e quelle meccaniche a livello delle sonde nasogastriche, frequenti con l’uso di miscele allestite in modo artigianale. stesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato 11.5.2.3 267 Prevenzione e gestione delle complicanze della nutrizione enterale Nei soggetti con patologie cerebrovascolari e nei soggetti con postumi di ictus il rischio di aspirazione è consistente. Peraltro, il rischio di aspirazione sussiste anche in caso di svuotamento gastrico ritardato, particolarmente nei cerebrolesi più gravi.136,137 È necessario valutare la presenza di reflusso gastroesofageo e la somministrazione della nutrizione enterale va effettuata con la posizione del tronco inclinata di 30°, valutando periodicamente la presenza e l’entità del ristagno gastrico che non deve superare 150-200 mL.125 Raccomandazione 11.17 c Grado B Nei pazienti che non deglutiscono, è indicato attendere uno o due giorni prima di posizionare il sondino, idratando il paziente per via parenterale. La somministrazione della nutrizione enterale tramite sondino naso-gastrico e mediante l’uso di enteropompe è una buona scelta finalizzata ad un supporto nutrizionale a breve termine in pazienti con grave disfagia da ictus. Infatti, in almeno il 50% dei casi la disfagia migliora entro una settimana.138 L’utilizzo di enteropompe e di programmi di induzione graduali riducono in modo consistente la probabilità di comparsa di complicanze gastroenteriche. Negli anziani vi è spesso ridotta tolleranza del sondino naso-gastrico con conseguente auto-estubazione; il riposizionamento del sondino è stressante e necessita del supporto radiografico per valutarne il corretto posizionamento. La rimozione involontaria comporta il rischio di aspirazione polmonare.139,140 Nel paziente disfagico post-ictus il raggiungimento della quota calorica entro 34 giorni è un obiettivo clinicamente ipotizzabile. Sintesi 11-11 In caso di reflusso gastroesofageo accertato, è indicato considerare dall’inizio la somministrazione distalmente al legamento di Treitz o mediante posizionamento in digiuno della sonda nasoenterica con manovra endoscopica o tramite digiunostomia. Sintesi 11-12 Le principali complicanze meccaniche (occlusione, dislocazione, decubiti sonde nutrizionali) e gastroenteriche (nausea, vomito, diarrea) della nutrizione enterale sono prevenibili mediante l’uso delle seguenti procedure:125,141 • complicanze meccaniche: • lavaggio regolare della sonda; • utilizzo della enteropompa; • utilizzo di sonde di materiale e calibro adeguato; • complicanze gastroenteriche: • protocolli di induzione adeguata; • soluzioni nutrizionali idonee; • manipolazioni con tecniche di asepsi di soluzioni nutrizionali e deflussori: • uso di enteropompe. La PEG (percutaneous endoscopic gastrostomy), è un’alternativa in pazienti che necessitano di nutrizione enterale prolungata. Nel 95% dei casi vi è successo di inserzione, eccellente tolleranza da parte del paziente, bassa morbosità (6-16%) e mortalità (0-1%).142,143 sondino,133,144,145 È un metodo più invasivo rispetto alla alimentazione con e possibili complicanze sono: perforazione gastrica, emorragia gastrica, fistola gastro-colica, infezione sulla zona dello stoma ed aspirazione polmonare. I risultati di uno studio randomizzato controllato, che conclude affermando che nel medio-lungo periodo la PEG si è dimostrata essere più sicura ed efficace del trattamento con nutrizione enterale post ictus,145 non sono confermati dal più recente FOOD Trial, che evidenzia un possibile eccesso di mortalità (aumento assoluto di rischio pari a 1,0%; IC95 –10,0% a +11,9%; P=0,9) e un aumento del rischio combinato di morte ed esito sfavorevole pari al 7,8% (IC95 0,0% a 15,5%; P=0,05) nei pazienti con inserzione precoce di PEG.135 Pertanto, allo stato attuale, la messa in posizione di PEG va presa in considerazione nei soggetti con disfagia persistente post ictus entro 30 giorni, e se è ipotizzabile una durata superiore a due mesi. 11.5.3 Disfagia La disfagia è una possibile conseguenza dell’ictus con ricadute negative sia sulla gestione della fase acuta, sia sui tempi di degenza che sull’esito (morbosità e mortalità).146 La disfagia è presente nei pazienti con ictus in misura variabile fra il 13% (lesione unilaterale) e il 71% (lesioni bilaterali o del tronco).138,147-152 La deglutizione sembra essere mediata da una serie neurale che interessa entrambi gli emisferi cerebrali con input discendenti verso il midollo.151 stesura 15 marzo 2005 La nutrizione enterale tramite sondino naso-gastrico e con l’ausilio di pompe peristaltiche è ritenuta più appropriata rispetto alla nutrizione parenterale per il supporto nutrizionale a breve termine in pazienti con grave disfagia da ictus; l’uso del sondino nasogastrico può essere problematico, specie nei pazienti anziani. Il posizionamento del sondino in sede gastrica può non abolire il rischio di inalazione in caso di svuotamento gastrico ritardato, particolarmente nei pazienti con lesioni cerebrali più gravi. In questi casi il rischio di inalazione si riduce se il bolo viene immesso lontano dal piloro, oltre l’angolo di Treitz. Raccomandazione 11.18 Grado B Nei soggetti con disfagia persistente post ictus e se è ipotizzabile una durata superiore a due mesi, entro 30 giorni è indicato considerare il ricorso alla PEG (gastrostomia percutanea endoscopica), da praticarsi non prima di 4 settimane dall’evento. Sintesi 11-13 La disfagia è una conseguenza frequente dell’ictus con ricadute negative sull’esito clinico e funzionale, sulla mortalità e sui tempi di degenza. Oltre alla malnutrizione, possibili complicanze determinate dalla disfagia sono: l’aspirazione di materiale estraneo con conseguente broncopneumopatia ab ingestis; la disidratazione e l’emoconcentrazione con effetti secondari negativi sulla perfusione cerebrale e sulla funzione renale. 268 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane La disfagia è la conseguenza del danno a carico delle vie cortico-bulbari che connettono il centro di controllo della deglutizione (localizzato nella regione corticale frontale inferiore bilateralmente) con i nuclei bulbari che mediano la via finale del meccanismo della deglutizione. Daniels et al.153 hanno proposto l’importanza del ruolo dell’insula anteriore nel meccanismo della deglutizione, poichè questa era la sede di lesione più comune nei pazienti con ictus e disfagia esaminati. L’insula anteriore ha collegamenti con la corteccia motoria primaria e supplementare, il nucleo mediale ventroposteriore del talamo ed il nucleo del tratto solitario, strutture rilevanti nella mediazione dei meccanismi di deglutizione orofaringea. Di conseguenza, le lesioni dell’insula anteriore possono produrre disfagia, interrompendo questi collegamenti. La compromissione della motilità del faringe determina disfagia per la concomitante ipomobilità della base linguale, per la ritardata e/o incompleta chiusura dello sfintere laringeo e per la disfunzione dello sfintere esofageo superiore con conseguente significativo aumento del rischio di aspirazione.138,154-156 Per quanto i meccanismi ed i substrati neuronali che regolano la coordinazione linguale durante la deglutizione non siano esattamente definiti, l’incoordinazione della lingua durante la deglutizione nei disfagici non sembra essere associata ad aprassia bucco-linguale, a disturbi del linguaggio od aprassia degli arti. La gravità della compromissione della funzione deglutitoria dipende naturalmente dalla sede dell’ictus. I risultati di uno studio recente indicano tuttavia che la gravità della disfagia dopo un ictus ischemico emisferico unilaterale è in relazione alle dimensioni dell’area di rappresentazione faringea a livello dell’area corticale motoria dell’emisfero non interessato dal danno ischemico e pertanto vicariante.157 Tutti i tipi di ictus possono causare disfagia. In oltre il 20% dei casi, l’infarto lacunare si associa a disfagia. L’ictus a carico del tronco encefalico è generalmente associato a disfagia più grave e più frequente rispetto alle lesioni emisferiche.158,159 Le lesioni sottocorticali possono causare disconnessione fra le regioni corticali implicate nel controllo orale e nella coordinazione della deglutizione, producendo cosi un disturbo della deglutizione.160 Nell’infarto nel territorio della ACM di destra è stata evidenziata una maggiore durata di stazionamento faringeo degli alimenti, una più alta incidenza di deviazione laringea con conseguente ingresso di materiale nel vestibolo laringeo ed una più frequente aspirazione di liquidi sotto le corde vocali vere. Anche per quanto riguarda l’ictus emisferico la gravità e le caratteristiche della disfagia variano in base alla sede della lesione, secondo lo schema di Tabella 11:VII. Recentemente è stato dimostrato che la muscolatura per la deglutizione è somatotopicamente rappresentata nella corteccia motoria e pre-motoria di entrambi gli emisferi, ma è stata dimostrata anche una asimmetria emisferica individuale, indipendente dalla dominanza emisferica.152 La topografia dei muscoli miloidei è più laterale, mentre quella per il faringe e l’esofago appare più rostromediale. I pazienti con più pronunciata disfagia sembrano essere quelli con danno dell’emisfero in cui è localizzato il centro dominante motore per la deglutizione. La prognosi a breve termine della disfagia è generalmente considerata favorevole. Di norma il tempo medio di recupero è una settimana, (il 50% di tali pazienti presenta una regressione del Tabella 11:VII – Alterazioni della deglutizione per tipo di ictus tipo di ictus ictus emisferico tipo di lesione monolaterale sinistro gravità ++- ictus emisferico monolaterale destro ++- ictus emisferico lesioni corticali bilaterali +++ stesura 15 marzo 2005 tipo di alterazione FASE ORALE DELLA DEGLUTIZIONE Incoordinazione labio-glosso-mandibolare, disprassia orale, aumento tempo di transito orale del bolo. FASE FARINGEA DELLA DEGLUTIZIONE Ridotta escursione verso l’alto della laringe, ristagno del bolo verso l’alto, rischio di inalazione (soprattutto per i liquidi) TUTTE Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato 269 sintomo dopo 7 giorni), anche se il recupero è in funzione delle condizioni generali e dell’età del paziente.146,161 Anche la prognosi a distanza (6 mesi) è generalmente buona. In una coorte di 128 pazienti nell’87% dei casi i pazienti tornavano alla dieta pre-ictus seppur durante il periodo di osservazione di 6 mesi circa il 20% aveva sofferto di infezioni polmonari. Un controllo tardivo con videofluoroscopia in pazienti con significativi problemi di disfagia all’esordio evidenzia una disfunzione delle false corde vocali nel 50% dei casi ed aspirazione nel 20%-25%. Il riflesso di deglutizione assente o ritardato è indicativo di rischio maggiore di infezioni polmonari nei 6 mesi successivi all’evento cerebrale, cosi come di difficoltà al ritorno ad una dieta normale per il transito orale ritardato. L’evidenza di transito orale ritardato e/o la presenza di liquido di contrasto nel vestibolo laringeo, l’età superiore a 70 anni ed il sesso maschile, predicono una più difficoltosa ripresa deglutitoria ed il maggior rischio di polmoniti da aspirazione a 6 mesi.146 La malnutrizione dopo la prima settimana di ospedalizzazione predice un esito clinico negativo ed è correlata a una maggiore frequenza di infezioni urinarie e polmonari. La disfagia aumenta di 2,6 volte il rischio di esito negativo.162 A trenta giorni dal ricovero per ictus, la malnutrizione ingravescente è fortemente correlata alla disfagia.96,163 La disfagia determina, in corso di ictus, disabilità funzionale ed aumento della mortalità.147,164,165 La valutazione della deglutizione, attraverso le varie fasi: orale, velofaringea e faringea, dovrebbe essere attuata in ogni paziente con ictus. Sebbene la valutazione con videofluoroscopia possa essere necessaria in una percentuale intorno al 20% dei pazienti, l’approccio con il test dell’acqua è molto utile come metodo di screening ed è attualmente il più usato. La videofluoroscopia e il videocounter timer sono stati usati per registrare le caratteristiche di motilità orofaringea durante la deglutizione.149,150,166 Numerosi studi associano significativamente l’evidenza videofluoroscopica di aspirazione di bario al rischio di sviluppare complicanze polmonari.167-169 L’aspirazione silente rappresenta un grave rischio per i pazienti con ictus acuto. In uno studio su 114 pazienti con ictus, l’aspirazione silente, evidenziata alla videofluoroscopia, aumentava di 5,5 volte il rischio relativo di pneumopatie.170 Il tempo di transito faringeo correla con il rischio di infezioni broncopolmonari: il tempo di transito di meno di 2 sec si traduce in rischio lieve o assente; da 2 a 5 sec in rischio moderato (40%); maggiore di 5 sec. in rischio elevato (90%).168 Il test al bario modificato per l’identificazione della disfagia (TBM) rivela l’aspirazione dei liquidi e dei semisolidi. Nei pazienti clinicamente disfagici dopo un ictus, il TBM può distinguere i potenziali soggetti con rischio di aspirazione. Tramite il TBM può essere inoltre definito chiaramente il rischio di aspirazione di alimenti di varia consistenza, guidando così la definizione della dieta più appropriata.171 La prova con 99mTc è particolarmente utile nella gestione della disfagia asintomatica in pazienti anziani con ictus. Alcuni Autori hanno sperimentato questa tecnica di valutazione della disfagia in pazienti affetti da ictus per ridurre il rischio di polmonite da aspirazione;172 è stato somministrato 1 mL di tecnezio (99mTc) al paziente durante il sonno attraverso un catetere nasale disposto nella bocca e verificando l’eventuale aspirazione a distanza di 9 ore. Tuttavia, tutti questi test sono difficilmente eseguibili al di fuori di centri altamente specializzati. Peraltro, il rischio di disfagia è definibile in maniera sufficientemente accurata con una valutazione clinica semplice come il Bedside Swallowing Assessment (BSA) che tiene in considerazione parametri come il livello di coscienza e segni clinici di potenziale disfagia come la presenza di disfonia, disartria, difficoltà nell’espettorare o nell’eliminare le secrezioni e/o il cibo, ridotto gag reflex.149,155,170,173 Quindi, la capacità di deglutizione si può valutare con un semplice test. La prima fase prevede che il paziente tenti di deglutire 10 mL di acqua in tre tempi diversi. Se il paziente riesce a deglutire i 10 mL, dare 50 mL di acqua in un bicchiere. La difficoltà nel bere da 10 a 50 mL di acqua o la comparsa di colpi di tosse (più di una volta) in due circostanze diverse permettono di valutare l’eventuale disfagia. Va notato che sebbene stesura 15 marzo 2005 Raccomandazione 11.19 Grado D Un monitoraggio standardizzato della funzione deglutitoria è indicato al fine di prevenire le complicanze secondarie alla disfagia. Raccomandazione 11.20 Grado D Una valutazione clinica standardizzata del rischio di disfagia (usando il BSA: Bedside Swallowing Assessment) e un test semplice, quale il test della deglutizione di acqua, sono indicati in tutti i pazienti con ictus acuto. In centri specializzati possono essere utilizzati approcci più sofisticati quali un esame condotto dal logopedista o dal foniatra o la videofluoroscopia. 270 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane il 20% dei pazienti con aspirazione alla videofluoroscopia non abbia una disfagia evidenziabile con il test della deglutizione di acqua, tuttavia questo ha una soddisfacente predittività nella prognosi dei pazienti con ictus ischemico.174,175 Infatti, l’insorgenza di complicanze infettive, la mortalità, la disabilità residua e la durata della degenza sono risultate significativamente correlate alla presenza di disfagia, ma non al riscontro di aspirazione evidenziata con la videofluoroscopia.163 L’utilità della videofluoroscopia durante la fase acuta dell’ictus è pertanto limitata e non è quindi giustificato il suo uso routinario.176 Se c’è dunque qualche segno di disfagia al test della deglutizione dell’acqua non iniziare l’alimentazione per os. Un programma di trattamento riabilitativo precoce della deglutizione nei pazienti con ictus e disfagia è sicuramente indicato.177 Tali valutazioni dovrebbero essere ripetute nell’arco della prima settimana mediante lo schema di Tabella 11:VIII. Tabella 11:VIII – Bedside Swallowing Assessment (BSA) 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. FATTORI livello di coscienza secrezioni bronchiali disfonia grave disartria gag reflex diminuito o abolito movimenti palato tosse volontaria funzioni deglutitorie sbavamento di acqua movimenti laringei tosse all’atto di deglutire voce gorgogliante 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. basso rischio vigile no no no no simmetrici normale normale o lieve disfagia no/minimo sì no/qualche volta no 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. alto rischio sonnolenza, stupor o coma sì sì sì sì asimmetria, paralisi assente per una settimana disfagia franca franco no 2 o più sì I pazienti in grado di bere non più di 5-10 mL di acqua con un sorso senza manifestare disfagia, possono iniziare con una dieta semisolida usando tecniche compensatorie di deglutizione. È importante un supporto medico, infermieristico, dietologico e di logopedisti. Pazienti capaci di deglutire con un sorso 10 mL di acqua, tollerano una alimentazione orale se si controlla la struttura della dieta (semisolida), la dimensione del bolo e la postura durante l’alimentazione. La manipolazione della fluidità degli alimenti usando le misure obiettive di un viscosimetro può migliorare la gestione dietetica del paziente disfagico.178 Utili accorgimenti per il compenso di lievi deficit deglutitori sono i seguenti:173,179-181 1. assunzione di una posizione eretta del tronco durante l’alimentazione; 2. assunzione di una posizione di capo e collo appoggiata; 3. utilizzo di alimenti semisolidi; 4. utilizzo di dimensione del bolo inferiore ad un cucchiaino da tè; 5. restrizione di cibi liquidi; 6. usare una tazza o un cucchiaino, e non una cannuccia per i liquidi; 7. tossire delicatamente dopo ogni deglutizione; 8. deglutire più volte, anche per piccoli boli, per svuotare completamente il faringe. Le indicazioni per la nutrizione artificiale e la terapia dietetica del paziente disfagico sono discusse nei paragrafi 11.5.2.2 e 14.8.2. stesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato 11.6 271 GLICEMIA All’esordio dell’ictus circa il 10%-20% dei pazienti con livelli normali di emoglobina glicosilata presenta valori iperglicemici,182,183 quale risposta ormonale precoce all’ischemia cerebrale.184,185 Inoltre dall’8% al 20% dei pazienti con ictus ha una storia di diabete mellito,186,187 ed un ulteriore 5%-28% presenta un diabete non precedentemente diagnosticato o una ridotta tolleranza al glucosio.188,189 Globalmente l’iperglicemia all’esordio dell’ictus è presente in una percentuale, variabile a seconda delle definizioni, tra il 20% ed il 50% dei casi.186,187,190 Non è stata ancora definita una correlazione univoca tra iperglicemia in fase acuta e peggioramento dell’esito dell’ictus. In passato la maggioranza degli studi, sebbene non tutti,187,191 ha riportato una tale relazione in termini sia di mortalità sia di recupero neurologico,192-197 verosimilmente legata all’incremento e accumulo di lattato nell’area ischemica.198 In particolare nello studio TOAST i valori glicemici sono risultati fattori predittivi di peggiore esito clinico nei pazienti colpiti da ictus ischemico non lacunare, mentre non sembravano avere rilevanza negli ictus minori, nè essere associati a maggior rischio di trasformazione emorragica dell’infarto cerebrale.193 Sintesi 11-14 L’iperglicemia è associata ad una maggiore gravità della lesione ischemica cerebrale e ad una aumentata morbosità e mortalità sia in condizioni sperimentali che nell’uomo. Nel paziente diabetico lo scompenso del metabolismo glucidico rappresenta una grave complicanza. L’ipoglicemia può essere un fattore aggravante del danno ischemico cerebrale. In caso di ischemia cerebrale focale, la presenza di un diabete preesistente è risultata associata ad un maggior rischio di esito sfavorevole, in termini di morbosità e mortalità, verosimilmente legato al danno arteriolare e capillare indotto dall’iperglicemia cronica (microangiopatia).199 Tuttavia non vi sono ancora dati conclusivi circa l’efficacia del trattamento dell’iperglicemia nell’ictus acuto sul miglioramento dell’esito, né sul valore soglia oltre cui intervenire. L’iperglicemia dovrebbe essere corretta con terapia insulinica,200 il valore soglia di glicemia consigliato ed adottato in alcuni centri ed indicato dalle linee guida europee è >200 mg/dL o 10 mmol/L, causando una certa ambiguità, dato che 10 mmol/L corrispondono a 180 mg/dL,16,201 mentre le linee guida americane indicano la correzione dell’iperglicemia con obiettivo di mantenere valori <300 mg/dL.202 Tuttavia, valori soglia più bassi (150 mg/dL) sono stati proposti recentemente sulla base dei dati di studi sia clinici che sperimentali sulla relazione tra i valori di glicemia in fase acuta e la dimensione dell’infarto cerebrale o l’esito clinico.203 La somministrazione per via endovenosa periferica di una soluzione di destrosio al 10% con 16 U di insulina rapida e 20 mmol di KCl per ogni 500 mL di soluzione, alla velocità di 100 mL/h, per 24 ore, che rappresenta il protocollo usato nello studio randomizzato e controllato Glucose Insulin in Stroke Trial (GIST),194,204 è risultata efficace e sicura riducendo, in pazienti con ictus acuto, l’iperglicemia entro valori normali senza rischio significativo di ipoglicemia, eventi avversi cardiovascolari o aumento della mortalità a 4 settimane. Da ricordare tuttavia che la somministrazione di insulina in infusione richiede un attento monitoraggio della glicemia (almeno ogni 2 ore) per un pronto aggiustamento della terapia. Una possibile alternativa consiste nella somministrazione di piccole dosi di insulina endovena.16 In caso di ipoglicemia è sempre indicata la pronta correzione con l’infusione di destrosio in bolo (soluzioni al 10% per via venosa periferica, o al 20% e 33% per via venosa centrale).16 In presenza di malnutrizione o di abuso di alcool è consigliabile associare tiamina 100 mg. 11.7 DISFUNZIONI Raccomandazione 11.21 Grado D In pazienti con ictus acuto e iperglicemia >200 mg/dL è indicata la correzione con terapia insulinica. Raccomandazione 11.22 Grado D In pazienti con ictus acuto e ipoglicemia è indicata la pronta correzione tramite infusione di destrosio in bolo e.v., associando tiamina 100 mg in caso di malnutrizione o di abuso di alcool. VESCICALI NELL’ICTUS ACUTO L’ictus cerebrale si accompagna frequentemente a disfunzioni vescicali, l’entità e la natura delle quali sono conseguenza della sede e dell’entità del danno cerebrale. I disturbi più frequentemente riscontrati sono: incontinenza urinaria, ritenzione urinaria, urgenza minzionale. Con opportuni accorgimenti tali disfunzioni possono essere controllate.205 L’incontinenza urinaria, nella fase acuta dell’ictus, è stata ripetutamente riportata come indicatore indipendente di rischio di morte, di disabilità grave, e della destinazione (istituzionalizzazione o meno) del paziente dopo la dimissione.206 Tre sono i meccanismi principali responsabili di incontinenza urinaria dopo un ictus: 1. danno a livello dei centri e delle vie nervose responsabili del meccanismo della minzione; tale danno esita in incontinenza e/o urgenza minzionale; 2. deficit cognitivo e/o di linguaggio, con funzione vescicale integra ma incontinenza da mancato controllo superiore; 3. concomitante neuropatia (p.es. diabetica ) o effetto di farmaci che provocano iporeflessia vescicale con conseguente incontinenza. stesura 15 marzo 2005 Sintesi 11-15 L’ictus cerebrale si accompagna frequentemente a disfunzioni vescicali la cui entità e natura sono correlate alla sede ed entità del danno cerebrale. La presenza di un’incontinenza urinaria nella fase acuta dell’ictus è un fattore prognostico indipendente di morte e disabilità residua grave. La ritenzione e il residuo post-minzionale si associano frequentemente a infezioni del tratto urinario, a loro volta causa di ulteriori complicazioni del quadro clinico. 272 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane Indagini urodinamiche possono indirizzare alla diagnosi, necessaria per un corretto approccio terapeutico.207 Raccomandazione 11.23 Grado D Il posizionamento a dimora di un catetere vescicale è indicato solo nei pazienti con grave disfunzione vescicale. Raccomandazione 11.24 Grado D Nei pazienti senza apparenti disfunzioni vescicali è indicato controllare periodicamente l’esistenza di residuo post-minzionale e qualora se ne verifichi la presenza praticare la cateterizzazione sterile intermittente. Raccomandazione 11.25 Grado D È indicato evitare il cateterismo vescicale quando non è necessario. I disturbi del sistema nervoso autonomo in pazienti con patologie cerebrovascolari sono comuni. Sono attribuibili a danno a livello delle vie autonomiche cerebrali, delle aree corticali fronto-parietali e del tronco encefalico, o alla disconnessione delle vie discendenti dall’ipotalamo al mesencefalo, ponte e midollo spinale. Più frequentemente sono interessati la regolazione della funzionalità cardiaca, della pressione arteriosa, della temperatura corporea, i riflessi vasomotori e la sudorazione. Le disfunzioni intestinali e vescicali e l’impotenza sono allo stato attuale sottovalutate rispetto alla loro prevalenza e al loro significato clinico.208 La ritenzione urinaria e la presenza di residuo minzionale, talvolta misconosciuti, sono altre frequenti complicanze dell’ictus. Nel sospetto, bisogna procedere all’ecografia vescicale.209 Le disfunzioni vescicali, in particolare il residuo minzionale, si associano frequentemente a infezioni del tratto urinario, con ulteriore complicazione del quadro clinico. Inoltre, la presenza di disfunzioni vescicali ha un impatto molto negativo sulla qualità di vita dei pazienti con esiti di un pregresso ictus. Tecniche da preferire sono: la cateterizzazione sterile intermittente, che deve essere eseguita correttamente e secondo programmi di svuotamento prestabiliti, manovre riabilitatorie a livello del pavimento pelvico, particolarmente utili se inserite in un programma di gestione del paziente. Nei pazienti senza apparenti disfunzioni vescicali è indicato controllare periodicamente la presenza di eventuale residuo vescicale post-minzionale e praticare, se necessario, la cateterizzazione sterile intermittente. La presenza di un catetere a dimora è necessario per pazienti con gravi problemi vescicali. Non si deve dimenticare tuttavia che nonostante le disfunzioni vescicali siano comuni nella fase acuta dell’ictus, esse migliorano spontaneamente dopo i primi giorni.205,210,211 11.8 Sintesi 11-16 La valutazione della probabilità clinica di trombosi venosa profonda (TVP) secondo criteri standardizzati (vedi testo) può essere utile nella valutazione dei pazienti con ictus in cui si sospetti una TVP al fine di programmare il successivo iter diagnostico. TROMBOSI VENOSA PROFONDA (TVP) 212 La TVP localizzata agli arti inferiori è la forma più comune di trombosi venosa. Essa viene definita distale quando interessa le vene del polpaccio e/o la parte di vena poplitea posta al di sotto della rima articolare del ginocchio, prossimale nelle forme che si estendono al di sopra di tale rima. La distinzione tra TVP prossimale e distale ha grande importanza clinica in quanto è noto che le complicanze emboliche sono sostenute nella grande maggioranza dei casi da TVP prossimali e solo raramente da quelle distali. Queste ultime possono diventare fonte di emboli quando risalgono fino ad interessare la poplitea. La TVP costituisce una malattia seria e potenzialmente fatale. In assenza di un tempestivo trattamento anticoagulante e adeguato per intensità e durata, la embolia polmonare (EP) può verificarsi anche nel 50% dei casi nell’arco di 3 mesi. Si ha un’elevata tendenza alla recidiva di TVP, con ulteriore rischio di EP e accentuazione dei disturbi a distanza. Inoltre, superata la fase acuta compare con estrema frequenza la cosiddetta “sindrome post-trombotica”, affezione talvolta altamente invalidante, caratterizzata da dolore, edema cronico, distrofia e discromia cutanea e dalla frequente insorgenza di ulcere trofiche croniche. 11.8.1 La probabilità clinica di TVP Sono numerosi i soggetti che sviluppano segni e sintomi ascrivibili alla presenza di una TVP: l’incidenza annuale nella popolazione generale è stimata intorno a 3-4 per 1·000 abitanti. I segni/sintomi clinici della TVP degli arti inferiori sono molteplici (dolore spontaneo o provocato dallo stiramento dei muscoli, rossore, cianosi, aumento della temperatura cutanea, crampi, aumento delle dimensioni dell’arto, edema franco, sviluppo di circoli collaterali, phlegmasia alba dolens). Bisogna però sottolineare che la grande maggioranza di coloro che presentano tali sintomi e segni non ha una TVP ma è affetta da alterazioni muscolo-scheletriche o cutanee i cui sintomi sono simili a quelli della TVP. La sintomatologia della TVP è, tuttavia, incostante e, quando presente, è quanto mai aspecifica e variabile. Da quanto detto sopra si evince chiaramente che per una conferma della presenza di TVP, o per una sua esclusione, non ci si può basare solo su una diagnosi clinica, ma occorre ottenere il riscontro obiettivo di un esame strumentale. Solo una procedura diagnostesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato 273 stica standardizzata, che utilizzi metodi obiettivi e sensibili, consente di confermare o escludere la presenza di TVP. È stato recentemente dimostrato che la valutazione standardizzata di una serie di caratteristiche cliniche del paziente con sospetta TVP (Tabella 11:IX) consente di classificare i pazienti in tre categorie con diversa probabilità di avere effettivamente una TVP: 75%, 17% e 3% di TVP rispettivamente nelle categorie a rischio alto, intermedio e basso.213 L’attribuzione ad una di queste categorie consente di adottare iter diagnostici diversi a seconda del grado di probabilità clinica. Tabella 11:IX – Valutazione della probabilità clinica per la diagnosi di TVP caratteristiche cliniche (se entrambi gli arti sono sintomatici valutare quello più accentuato) punteggio cancro in atto (terapia in corso, o nei precedenti 6 mesi, o palliativa) 1 paralisi, paresi o recente immobilizzazione di un arto inferiore 1 recente allettamento >3 giorni o chirurgia maggiore (entro 4 settimane) 1 dolorabilità localizzata lungo il decorso del sistema venoso profondo 1 edema di tutto l’arto 1 gonfiore del polpaccio, 3 cm > controlaterale (10 cm sotto la tuberosità tibiale) 1 edema improntabile (più accentuato nell’arto sintomatico) 1 circolo collaterale superficiale (non vene varicose) 1 diagnosi alternativa (verosimile almeno quanto quella di TVP) -2 Punteggio totale valutazione conclusiva: 11.8.2 punteggio ≥3 punteggio =1 o 2 punteggio ≤0 alta probabilità media probabilità bassa probabilità Diagnosi strumentale di TVP (arti inferiori) I dati clinici, anche se indicativi di TVP altamente probabile, non possono essere sufficienti per la diagnosi che, in ogni caso, deve essere accertata preferenzialmente mediante ecografia. Solo in casi particolare è necessario ricorrere a flebografia (che resta il gold standard) o a RM. 11.8.2.1 Ecotomografia (ultrasonografia per compressione – CUS) L’ultrasonografia (ecografia B-mode, duplex scanning, eco-color Doppler) è la metodica non invasiva di prima scelta per la diagnosi di TVP prossimale degli arti inferiori (per definizione, trombosi estesa dalla vena poplitea ai segmenti iliaco-femorali). Infatti essa gode di una elevata accuratezza diagnostica, praticità e semplicità d’uso, economicità, innocuità, e può essere ripetuta senza restrizioni. Il criterio più accurato per la diagnosi di TVP è basato sulla non compressibilità (totale o parziale) del lume venoso per effetto di una moderata pressione della sonda.214 La sensibilità del test di compressione per la diagnosi delle trombosi prossimali è del 97% (IC95: 96%-98%) e la sua specificità è del 98% (IC95: 97%-99%).215 La sensibilità cala notevolmente ed è comunque notevolmente dipendente dall’operatore nelle forme distali. In queste una sensibilità più elevata (60%) sembra poter essere raggiunta, secondo alcuni autori, con l’impiego dell’eco-Doppler e dell’eco-color Doppler, sebbene questa opinione non sia supportata da adeguati studi clinici. Recentemente è stata proposta una modalità semplificata di esecuzione della CUS, che prevede il solo esame della vena femorale comune all’inguine, e della vena poplitea alla fossa poplitea fino alla sua triforcazione, con ripetizione dell’esame dopo una settimana, in caso di normalità iniziale. L’indagine così concepita sembra sicura ed efficace, ma implica la ripetizione dell’esame nel 70% dei casi. Tuttavia va sottolineato come questi risultati siano riferibili esclusivamente a pazienti ambulatoriali sintomatici. Il trombo venoso tende a permanere a lungo, una volta formatosi (l’esame ultrasonografico risulta ancora anormale in circa metà dei pazienti a distanza di un anno). Di conseguenza, la diagnosi di recidiva risulta problematica. stesura 15 marzo 2005 Raccomandazione 11.26 Grado D Nel sospetto di TVP agli arti inferiori in un paziente con ictus è indicata l’ecografia venosa. 274 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane 11.8.3 Raccomandazione 11.27 Grado D La determinazione del D-dimero non è indicata nella diagnostica della TVP in pazienti con ictus cerebrale ospedalizzati, in quanto poco specifica. Raccomandazione 11.28 Grado D In pazienti con ictus acuto è indicato controllare attentamente i fattori in grado di aumentare la pressione intracranica, quali l’ipossia, l’ipercapnia, l’ipertermia e la posizione del capo, che andrebbe mantenuta elevata di 30° rispetto al piano del letto. Raccomandazione 11.29 Grado D In pazienti con ictus acuto il trattamento dell’edema cerebrale è indicato in caso di rapido deterioramento dello stato di coscienza, segni clinici di erniazione cerebrale o evidenze neuroradiologiche di edema con dislocazione delle strutture della linea mediana od obliterazione delle cisterne perimesencefaliche. I D-dimeri nella diagnostica della TVP I D-dimeri sono prodotti di degradazione della fibrina stabilizzata e possono trovarsi in circolo per molte cause, un trombo venoso essendo solo una delle loro possibili fonti. Applicati alla diagnostica delle tromboembolie venose i metodi per il dosaggio plasmatico dei D-dimeri hanno un’elevata sensibilità, ma bassa specificità e vengono utilizzati per il loro alto valore predittivo negativo; cioè servono solo per escludere (in caso di risultato normale), ma non per confermare una diagnosi di TVP (in caso di risultato alterato). Il dosaggio dei D-dimeri eseguito in associazione alla CUS ha lo scopo di selezionare quei casi con CUS negativa ma Ddimeri alterati, nei quali non è possibile escludere una TVP distale e che pertanto devono essere ricontrollati con CUS dopo qualche giorno (5-7 giorni) in modo da diagnosticare tempestivamente la estensione prossimale di una TVP distale. Questa procedura diagnostica è stata dimostrata valida da numerosi studi clinici di gestione di pazienti con sospetta TVP Recentemente si sono rese disponibili metodiche di laboratorio rapide, semplici, adatte per il dosaggio di campioni singoli e ad elevata accuratezza diagnostica (con un valore predittivo negativo pari o superiore al 97%). Non è attualmente consigliabile utilizzare questo test nei pazienti asintomatici ad alto rischio non essendo disponibili soglie di discriminazione validate per queste specifiche situazioni. È discusso se utilizzare il test in pazienti con ictus cerebrale. In pazienti ospedalizzati infatti è noto che il D-dimero è assai spesso elevato. Così, poiché il test serve solo per escludere la TVP (se negativo), l’efficacia diagnostica del suo impiego risulterebbe molto bassa. 11.9 COMPLICANZE 11.9.1 Edema cerebrale NEUROLOGICHE L’edema cerebrale solitamente insorge nelle prime 24-48 ore seguenti l’insulto ischemico e la morte durante la prima settimana dall’ictus è frequentemente dovuta alla sua comparsa con aumento della pressione intracranica e conseguente erniazione cerebrale, che rappresentano per lo più complicanze in corso di occlusione delle grandi arterie intracraniche e della formazione di ampi infarti multilobari.216,217 L’aumento della pressione intracranica può essere anche secondario alla comparsa di idrocefalo acuto ostruttivo. Il trattamento dell’edema cerebrale in corso di ictus acuto è raccomandato in caso di rapido deterioramento dello stato di coscienza e/o segni clinici di erniazione cerebrale e/o evidenze neuroradiologiche di edema con dislocazione delle strutture della linea mediana od obliterazione delle cisterne perimesencefaliche. Gli obiettivi del trattamento sono: 1. ridurre la pressione intracranica; 2. mantenere una adeguata perfusione cerebrale per evitare l’aggravamento del danno ischemico; 3. prevenire l’erniazione cerebrale. L’approccio iniziale in passato prevedeva una moderata restrizione dei liquidi somministrati,218 tuttavia va considerato in merito quanto già detto in precedenza (§ 11.3) circa gli effetti sfavorevoli dell’ipovolemia sull’esito neurologico nel caso di ictus. Devono essere controllati attentamente i fattori in grado di aumentare la pressione intracranica, quali ipossia, ipercapnia e ipertermia, e la posizione del capo andrebbe mantenuta elevata di 20°-30° rispetto al piano del letto. L’incremento della pressione arteriosa può essere una risposta compensatoria al mantenimento della perfusione cerebrale in pazienti con ipertensione endocranica marcata, pertanto in questi casi non è consigliato l’uso di antipertensivi, in particolare di quelli ad effetto vasodilatatorio cerebrale.218-220 I pazienti con deterioramento clinico possono essere trattati tramite iperventilazione, diuretici osmotici, drenaggio di liquor o chirurgia, sebbene non vi siano ad oggi studi in favore di tali approcci nell’ictus acuto, così come per l’indicazione al monitoraggio della pressione intracranica che tuttavia risulta indicativa nella scelta terapeutica e nella definizione prognostica.218 L’iperventilazione è una misura d’emergenza che agisce pressoché immediatamente: la riduzione di 5-10 mm Hg di pCO2 nel sangue arterioso induce una riduzione del 25%-30% della pressione intracranica,221,222 va però tenuta presente la necessità di mantenere una adeguata stesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato perfusione cerebrale per ovviare alla possibile vacostrizione indotta dall’iperventilazione, e conseguente aumento dell’area ischemica. L’iperventilazione infine dovrebbe essere seguita da altri interventi correttivi dell’edema. L’inefficacia dell’uso dei corticosteroidi nell’ictus cerebrale negli studi effettuati,223-226 e, al contrario, l’osservazione di una maggiore incidenza di complicanze infettive nei pazienti con ictus trattati con terapia steroidea hanno portato a concludere che, malgrado la loro potenziale efficacia nel contrastare la componente vasogenica dell’edema cerebrale, attualmente non sussistono indicazioni al loro uso nella terapia antiedemigena.227,228 275 Raccomandazione 11.30 Grado A Malgrado la potenziale efficacia dei corticosteroidi nel contrastare la componente vasogenica dell’edema cerebrale, attualmente il loro uso nell’ictus acuto non è indicato. Nonostante l’uso frequente di furosemide o di mannitolo dopo ictus, gli studi effettuati con questi farmaci non risultano conclusivi circa la loro efficacia nel trattamento dell’edema cerebrale ischemico.18,229,230 La somministrazione parenterale di furosemide (40 mg i.v.) viene adottata nei pazienti in rapido deterioramento clinico, ma non è usata nel trattamento a lungo termine. Il mannitolo viene comunemente utilizzato per il trattamento dell’edema cerebrale,227 alla dose raccomandata di 0,25~0,5 g/kg i.v. in boli somministrati rapidamente nell’arco di 20 minuti, ogni 6 ore, fino ad una dose massima giornaliera di 2 g/kg,231 anche se mancano ancora solide evidenze esterne per tale uso.232 Il glicerolo viene generalmente somministrato per via parenterale (250 mL di glicerolo al 10% in 30-60 minuti, ogni 6 ore), in alternativa è possibile la somministrazione orale (50 mL al 10% ogni 6 ore).16,227 Anche in questo caso l’uso non è ancora sostenuto da solide evidenze esterne.233 Da ricordare la necessità di controllo dell’emocromo durante la terapia con glicerolo in quanto il farmaco può indurre emolisi. I barbiturici a breve durata d’azione, come ad esempio il tiopentale, somministrati in bolo, riducono rapidamente la pressione endocranica. Tuttavia il loro effetto è transitorio e richiede il monitoraggio della pressione endocranica e dell’EEG, e inoltre dei parametri emodinamici per il rischio di crisi ipotensive. Il loro uso continuativo è comunque sconsigliato per la mancanza di efficacia a fronte di effetti negativi a lungo termine.28 Nei casi di infarto esteso con grave effetto massa e mancata efficacia dei trattamenti antiedema, può essere considerata la chirurgia decompressiva, specialmente in pazienti giovani senza patologie associate e con lesione situata nell’emisfero non dominante. 11.9.2 Gestione dell’epilessia vascolare in fase acuta Le crisi epilettiche rappresentano un evento non raro nell’ictus sia nella fase acuta che nella fase tardiva.234 Tenuto conto che l’incidenza dell’ictus nella popolazione italiana è di oltre 340 casi per 100·000 abitanti (§ 4.1.3), si può ben ritenere come esso rappresenti una delle cause più comuni di epilessia nella popolazione adulta, anche se lo sviluppo di crisi dopo l’insulto vascolare è un evento relativamente poco frequente (6%-9%).235 Infatti, sulla base di una recente revisione della letteratura, l’incidenza delle crisi varia dal 2,5% al 42,8% e quella dell’epilessia dal 6% al 9%.236,237 Nei soggetti affetti da ictus l’incidenza delle crisi precoci è intorno al 5,8%, quella delle crisi tardive è del 3,1%.238 Nel complesso, il rischio d’insorgenza o di ricorrenza di crisi nei primi 5 anni dopo l’ictus è pari all’11,5% ed il rischio relativo rispetto alla popolazione generale è pari a 35,2.239 A seconda del sottotipo patogenetico, poi, è interessante notare che negli ictus ischemici embolici l’incidenza delle crisi varia dal 16,6% al 42,8%, nei trombotici dal 4,4% al 12,4% e negli ictus lacunari varia dall’1% al 3,7%;235,240-243 anche se in alcuni studi è riportata un’incidenza del 10%-17%. Nei TIA l’incidenza è del 2%-10%.241,243,244 Nelle emorragie intracerebrali, invece, le crisi compaiono nel 2,8%-6,5% con rischio maggiore nelle localizzazioni lobari.240,245-247 Infine, nell’ESA l’incidenza delle crisi varia dal 2,7% al 16,6%, mentre nelle malformazioni artero-venose può salire sino al 40%, rappresentando in quest’ultima situazione il sintomo d’esordio nel 19% dei casi.236,248,249 La maggiore estensione dell’infarto ischemico, l’interessamento corticale, la natura emorragica della lesione e la sua localizzazione lobare, il deficit motorio persistente risultano associati alla maggiore probabilità di comparsa di crisi epilettiche.240,250,251 stesura 15 marzo 2005 Raccomandazione 11.31 a Grado D La somministrazione parenterale di furosemide (40 mg e.v.): • è indicata in emergenza in caso di rapido deterioramento clinico, • ma non è indicata nel trattamento a lungo termine. Raccomandazione 11.31 b Grado D Nel trattamento farmacologico prolungato dell’edema cerebrale sono indicati i diuretici osmotici quali il mannitolo o il glicerolo. Raccomandazione 11.31 c Grado D L’uso continuativo dei barbiturici a breve durata d’azione non è indicato per la mancanza di efficacia a fronte di effetti negativi a lungo termine. Sintesi 11-17 Nei casi di infarto esteso con grave effetto massa e mancata efficacia dei trattamenti antiedema, può essere considerata la chirurgia decompressiva, specialmente in pazienti giovani senza patologie associate e con lesione situata nell’emisfero non dominante. 276 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane A parte le cosiddette crisi precursive (“heralding seizures”) che possono comparire da alcuni giorni ad alcuni anni prima di un ictus,252-255 la distribuzione temporale delle crisi in rapporto all’ictus segue il modello bimodale dell’epilessia post-traumatica, con un primo picco nelle prime 2-4 settimane (early seizures) ed un secondo picco dopo 6-12 mesi (late seizures).236,255,256 Le crisi precoci avrebbero un minor rischio di recidive, poiché verosimilmente legate a modificazioni metaboliche dinamiche 257,258 tipiche della fase acuta dell’ictus (alterazione della sintesi proteica, depolarizzazione anossica della membrana, rilascio di glutammato nell’ictus ischemico; deposito nella lesione di Fe francamente epilettogeno nelle emorragie cerebrali) e potenzialmente reversibili. Invece, per le crisi tardive la formazione di tessuto gliotico con conseguente riorganizzazione delle connessioni assonali (diminuzione delle proiezioni inibitorie gabaergiche, modificazione delle caratteristiche di membrana ed aumento dei recettori per il glutammato) rappresenterebbe il “primum movens” fisiopatogenico delle crisi con rischio di recidive dal 50% al 100% a seconda delle varie casistiche. Nell’infarto cerebrale solo il 30% delle crisi sono precoci, mentre il 68%-73% sono tardive. Nell’emorragia cerebrale il 30%-70% delle crisi compare entro le prime 48 ore. Nel 42%-89% dei casi le crisi sono parziali semplici per lo più motorie, con pronta generalizzazione nel 15%-21% dei casi,240 mentre crisi parziali complesse si hanno solo nel 3%-14% dei casi. Infine, lo stato di male epilettico 240,242 può comparire nel 4%-10% dei casi,243,259 rappresentando la causa prima di stato di male nell’anziano. Ai fini diagnostici è fondamentale l’esclusione di altri tipi di lesione cerebrale (tumorale, degenerativa, demielinizzante)260 con neuroimmagini,261 così come è importante escludere cause dismetaboliche (ipoglicemie, iponatriemia, calcemia) e/o intossicazioni farmacologiche che possono determinare deficit neurologici e convulsioni.260,262 Spesso anche la diagnosi differenziale tra evento critico epilettico da un lato e il TIA, l’ipotensione posturale, embolia polmonare, progressione dell’ictus e l’aritmia cardiaca dell’altro, si presenta difficoltosa, giovandosi di una buona anamnesi clinica e di studio EEG-grafico.263 Sintesi 11-18 L’esame EEG ha poco valore diagnostico, e per la prognosi gli studi sono insufficienti. È invece utile per la diagnosi differenziale tra eventi focali non vascolari ed eventi critici. Raccomandazione 11.32 Grado D La terapia antiepilettica a scopo profilattico non è indicata nei pazienti con ictus in assenza di crisi epilettiche. Raccomandazione 11.33 Grado D La terapia antiepilettica: • non è indicata in caso di crisi epilettiche isolate, • è indicata in caso di crisi ripetute, evitando il fenobarbital per un possibile effetto negativo sul recupero. L’EEG intercritico ha poco significato negli accertamenti routinari delle crisi dopo ictus, mentre può essere un valido aiuto specie con registrazione in fase critica, prolungata e/o Holter nei casi di stato di male epilettico parziale complesso, negli episodi di perdite di contatto o per escludere crisi parziali complesse atipiche o crisi psicomotorie.264,265 Riguardo al trattamento delle crisi associate ad insulto cerebro-vascolare, in letteratura vi è molto poco di specifico e non vi sono studi controllati. Tuttavia bisogna considerare come prima cosa quando un trattamento farmacologico per l’epilessia post-ictus è indicato e necessario. Infatti una o due crisi nei primi quindici giorni da un accidente cerebro-vascolare hanno un rischio di recidiva molto basso e con molta probabilità non necessitano di trattamento con farmaci anticomiziali a lungo termine; mentre la presenza di molteplici crisi, di crisi prolungate o di crisi che possono interferire con il trattamento riabilitativo anche se compaiono in fase precoce, suggerisce il trattamento farmacologico, con una eventuale sospensione delle terapie dopo 3-6 mesi. Le crisi che si presentano dopo 2 settimane dall’evento ictale, e le crisi ricorrenti, necessitano di un trattamento con farmaco anticonvulsivo a lungo termine.246,266-269 Il trattamento con i più comuni e conosciuti farmaci anticonvulsivi comporta un controllo delle crisi, mentre una farmacoresistenza anche alla politerapia si riporta solo nel 10%-30% dei casi. La scelta del farmaco, non essendoci studi clinici controllati, ricade nella maggior parte dei casi sui comuni e collaudati farmaci anticonvulsivi come fenitoina, carbamazepina, fenobarbital e acido valproico.268,269 La scelta del singolo farmaco è legata al caso clinico, tenendo conto dei singoli effetti collaterali dei sopracitati farmaci, dalle loro eventuali interazioni farmacologiche con altri farmaci usati nel paziente con ictus, dalle dosi di somministrazione. Dovrà anche essere tenuto in conto anche il loro eventuale impatto sul sistema neurocognitivo, dato che questi farmaci possono produrre effetti collaterali a carico dei sistemi neurologici, ostacolando di conseguenza il recupero riabilitativo.265,270 stesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato 277 In verità non esiste un farmaco anticonvulsivo ideale nel trattamento dell’epilessia post-ictus che contempla un minor numero di effetti collaterali, una ridotta interazione farmacologica con altri farmaci, e la somministrazione in unica dose. Interessanti e confortanti dati clinici, che dovrebbero tuttavia essere controllati in studi randomizzati e controllati, ci pervengono dall’utilizzo dei nuovi farmaci anticonvulsivi come la lamotrigina, il topiramato ed il gabapentin. Lo stato di male epilettico di tipo parziale semplice o complesso associato ad accidente cerebrovascolare in fase acuta 271 o subacuta, è associato ad alta mortalità – fino al 36% – nell’emorragia cerebrale 247 e ad una prognosi sfavorevole. In atto non vi sono studi clinici controllati nello stato di male epilettico nelle fasi acute dell’ictus.272 Tuttavia appare valido e ben collaudato lo schema terapeutico di Tabella 11:X. Tabella 11:X – Schema terapeutico nello stato di male epilettico 1. Assicurare le pervietà delle vie respiratorie. Somministrare 10 mg di diazepam per via endovenosa rapida. Se le crisi continuano, somministrare altri 10 mg di diazepam per via endovenosa nell’arco di 30 sec. 2. Somministrare ossigeno. Inserire una cannula endovenosa e ottenere un campione di sangue per la determinazione di farmaci antiepilettici, azotemia, glicemia, elettroliti (compresi Ca++ e Mg++). Ottenere un campione di sangue arterioso per determinazione di pH, PO2, HCO3. Monitorare respiro, pressione arteriosa, ECG e, se possibile, EEG. 3. Iniziare una infusione endovenosa di soluzione fisiologica. Somministrare un bolo di 50 mL di glucosio al 50%. 4. Eseguire una ulteriore somministrazione di diazepam ad una velocità non superiore a 2 mg/min sino all’arresto delle crisi o sino al raggiungimento di una dose massima di 20 mg. Iniziare contemporaneamente una infusione di fenitoina ad una velocità non superiore a 50 mg/min sino al raggiungimento di una dose cumulativa di 15-18 mg/kg (ridurre la velocità di infusione in caso di ipotensione). 5. Se le crisi persistono, inserire una cannula endotracheale e fare riferimento a testi specializzati. I trattamenti disponibili comprendono diazepam, fenobarbitale, lidocaina, clormetiazolo, paraldeide. Utilizzare le terapie meglio conosciute e, se necessario, ricorrere all’anestesia generale con tiopentale e bloccanti neuromuscolari. Monitorare l’EEG per rilevare eventuale attività elettrica abnorme. 11.10 PREVENZIONE Raccomandazione 11.34 Grado D Nello stato di male epilettico associato ad ictus cerebrale acuto non vi sono evidenze a favore di un trattamento specifico per cui è indicato il trattamento standard, monitorandone attentamente gli effetti collaterali più probabili nello specifico contesto clinico. PRECOCE DELLE DISABILITÀ CONSEGUENTI ALL’ICTUS È ormai opinione diffusa che l’assistenza finalizzata alla prevenzione della disabilità (riabilitazione precoce) dovrebbe integrarsi con le attività mirate alla diagnosi ed al trattamento di emergenza nella fase acuta della cura dei pazienti con ictus.273 Gli obiettivi della prevenzione delle disabilità nella fase acuta dell’ictus comprendono elementi in grado di influenzare direttamente l’esito clinico, in termini di autonomia residua, senza incidere sulla lesione cerebrale o sulle condizioni generali (intese come comorbosità e complicanze). Essi sono attribuiti, nella pratica clinica, all’attività riabilitativa, anche se hanno, in senso stretto, poco a che vedere con la riabilitazione propriamente detta. Infatti, la prevenzione della disabilità residua mostra alcune differenze rispetto alle procedure che caratterizzano la riabilitazione intensiva:274 a. i programmi assistenziali realizzati al fine di prevenire la disabilità residua hanno lo scopo di prevenire ulteriori problemi, piuttosto che essere direttamente correlate al recupero delle abilità compromesse dalla malattia; b. le pratiche di prevenzione della disabilità sono attivate sui soggetti in condizioni cliniche non stabilizzate, che hanno subíto un ictus pochi giorni prima e non sono riservate, così come accade per la attività riabilitativa, a soggetti senza problemi clinici attivi; c. le attività assistenziali ai fini preventivi sono in genere uguali per tutti i soggetti accomunati sulla base delle condizioni del paziente e non “tagliate su misura”, sulle base delle caratteristiche individuali della persona malata; d. le procedure di prevenzione possono in gran parte essere realizzate da figure professionali non appartenenti al mondo della riabilitazione. Gli interventi mirati alla prevenzione della disabilità conseguente all’ictus influenzano sensibilmente la qualità dell’assistenza prestata a soggetti colpiti da questa malattia, così da risultare determinanti nel produrre vantaggi delle strutture dedicate alle malattie cerebrovascolari acute.275 Un compito della stroke unit è di combinare l’assistenza nella fase acuta, che comstesura 15 marzo 2005 Raccomandazione 11.35 Grado A Nei pazienti con ictus è indicato integrare fin dalla fase acuta l’attività di prevenzione della disabilità (mobilizzazione ed interventi riabilitativi precoci) con il programma diagnostico ed il trattamento di emergenza. 278 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane prende la riabilitazione precoce, all’attività di contenimento della disabilità residua espressa come riabilitazione a lungo termine. Sulla base di tali presupposti, appare necessario realizzare correntemente l’attività di prevenzione della disabilità residua all’ictus fin dai primi giorni dopo l’evento, utilizzando le risorse di personale disponibili, indipendentemente dal numero di fisioterapisti impegnati nell’assistenza agli acuti.276 D’altro canto, le attività che saranno di seguito esposte possono in gran parte essere realizzate da personale prioritariamente impegnato nel nursing, a testimonianza del fatto che la coerenza del programma assistenziale può assumere maggiore rilievo dello specifico trattamento praticato.277,278 Gli obiettivi della prevenzione della disabilità post-ictale, da realizzare precocemente, possono essere sintetizzati come segue:17 a. contenimento della rigidità articolare indotta dall’immobilità; b. conservazione dell’integrità cutanea; c. potenziamento della profilassi delle infezioni respiratorie e delle trombosi venose profonde; d. esaltazione della partecipazione all’attività fisica e ai programmi assistenziali; e. facilitazione della verticalizzazione e prevenzione delle cadute (dal letto e nei trasferimenti); f. formulazione di una prognosi ai fini della identificazione delle esigenze assistenziali destinate al recupero da attivare a breve-medio termine. Raccomandazione 11.36 Grado D È indicata la mobilizzazione degli arti del paziente con ictus per almeno 3-4 volte al giorno. Raccomandazione 11.37 Grado D È indicato stimolare ed incoraggiare i pazienti con ictus alla partecipazione alle attività quotidiane. Raccomandazione 11.38 Grado D Nei pazienti con ictus è indicato selezionare i farmaci utilizzati per evitare interferenze negative con il recupero. Raccomandazione 11.39 Grado D Nei pazienti con ictus è indicato promuovere la verticalizzazione precoce attraverso l’acquisizione della posizione seduta entro il terzo giorno, se non sussistono controindicazioni al programma. Raccomandazione 11.40 Grado D Nei pazienti con ictus è indicato favorire la comunicazione con il paziente ed i familiari anche al fine di indicare e far apprendere le modalità di partecipazione al processo assistenziale. Le attività abitualmente realizzate per raggiungere gli obiettivi sopra indicati possono essere indicate nei seguenti approcci: a. mobilizzazione passiva degli arti paretici o plegici secondo tutto il range di movimento delle articolazioni per almeno 3-4 volte al giorno. Uno studio osservazionale ha documentato che la precocità della mobilizzazione e dell’addestramento del paziente rappresenta il fattore maggiormente correlato con il ritorno a casa entro sei settimane dall’ictus;279 b. utilizzo di presidi antidecubito, mantenimento dell’igiene e cambiamento della posizione con intervallo variabile da 1 a 4 ore a seconda dei fattori di rischio per lesioni da decubito. La prevenzione delle lesioni da decubito è realizzata attraverso il raggiungimento di due distinti obiettivi da perseguire congiuntamente: • la protezione della cute • la riduzione della pressione delle sedi di appoggio L’intensità di tali interventi è condizionata dalla presenza di fattori di rischio per la comparsa di lesioni definiti sulla base della Scala di Norton o di altre scale analoghe (basate su parametri quali lo stato generale, la mobilità/continenza e compromissione della coscienza).280 La protezione della cute è basata sull’igiene, sulla idratazione della superficie cutanea e sul mantenimento del trofismo. In tal senso la pulizia attenta, soprattutto in sede perineale e sacrale, l’uso di creme in grado di proteggere la cute, analoghe a quelle utilizzate per i neonati, ed il frizionamento dolce delle zone sottoposte a pressione, sono considerati attività efficaci. La riduzione della pressione sulle sedi di appoggio è realizzata con sistemi attivi che distribuiscono il peso corporeo su di un’area più vasta (indumenti in lana di pecora, basi di appoggio in lana di pecora o poliestere, imbottiture in gel e sistemi “attivi” che modificano il punto di appoggio, alternando l’immissione e la emissione dell’aria od utilizzando sistemi di rotazione del letto o letti ad acqua). Anche se i sistemi attivi sono ritenuti più efficaci, e più costosi, dei sistemi passivi, la strategia di intervento non può essere basata sull’applicazione indiscriminata di un presidio ma sulla identificazione della migliore condotta, caso per caso, in relazione al rischio di decubiti. È opinione comune che la disponibilità di uno staff infermieristico, numericamente adeguato e sufficientemente preparato, possa garantire la più valida prevenzione dei decubiti, qualunque sia il presidio tecnico impiegato; c. circa un terzo dei soggetti colpiti da ictus sono colpiti da complicanze infettive broncopolmonari,281 verosimilmente in relazione alla disfunzione ventilatoria. Infatti ripetute osservazioni hanno documentato la compromissione dei parametri funzionali polmonari frequentemente in maniera proporzionale alla gravità del deficit motorio.281-283 Accanto all’accurata valutazione clinica, alla terapia antibiotica, associata eventualmente al trattamento con liquidi ed ossigeno, è necessario provvedere ad una attivazione dei muscoli respiratori ed all’igiene tracheo-bronchiale. L’incentivazione della ventilazione autonoma, con posizionamento adeguato a favorire l’espansione di tutti i settori polmonari, appare in grado di stesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato ostacolare la iperventilazione basale. La valutazione del riflesso della tosse e del meccanismo di deglutizione può contribuire a quantificare il rischio di polmonite.284 Nei soggetti con coscienza compromessa, l’acquisizione di posizioni che favoriscano il drenaggio bronchiale e l’eventuale attuazione di manovre che favoriscano l’espulsione delle secrezioni bronchiali possono evitare condizioni predisponenti l’infezione polmonare o l’ipossia. Per la prevenzione delle trombosi venose profonde, accanto al trattamento farmacologico, è opportuno mobilizzare attivamente l’arto inferiore sano e mobilizzare passivamente l’arto paretico. A ciò si aggiunge l’utilizzo di calze elastiche o pneumatiche e l’acquisizione di posizioni che favoriscano il deflusso venoso dall’arto inferiore plegico. Prescindendo dall’intervento farmacologico, gli interventi preventivi della trombosi venosa profonda sono basati spesso su pratiche non documentate da adeguate prove di efficacia. La mobilizzazione precoce del paziente e quella selettiva degli arti colpiti appaiono utili per diversi scopi oltre a quello di evitare la stasi ematica a livello dell’arto inferiore colpito e non sono disponibili indagini selettive sull’efficacia della sola mobilizzazione precoce nella prevenzione della trombosi venosa profonda. L’uso di calze a tutta lunghezza a compressione graduata ha mostrato indubbi vantaggi nella sindrome da immobilizzazione secondaria ad intervento chirurgico e quindi può essere ragionevolmente trasferito ai soggetti immobili in seguito ad ictus.285 Occorre comunque sottolineare che i gambaletti potrebbero non essere analogamente efficaci, e che, in caso di arteriopatia periferica e neuropatia diabetica, la compressione esterna può provocare lesioni ischemiche. Su questi argomenti ci si attendono risposte più chiarre dallo studio CLOTS; § 10.1.3.1). Sull’impiego di strumenti di compressione pneumatica esterna e sull’uso della stimolazione elettrica dei muscoli paretici, al fine di utilizzare la contrazione muscolare per spingere il sangue che refluisce dagli arti inferiori, non si hanno ancora dimostrazioni sicure di efficacia.286 L’incoraggiamento del paziente a partecipare attivamente al programma di posizionamento e di mobilizzazione è basato sul coinvolgimento nella assunzione di posizioni utili alla prevenzione della stasi polmonare e della stasi venosa dell’arto inferiore plegico; d. l’impegno degli arti paretici in qualche attività bimanuale è utile al fine di evitare il fenomeno del “non uso appreso”. L’impegno motorio è verosimilmente potenziato da un uso selettivo dei farmaci. Alcune segnalazioni condotte su piccole serie di pazienti o derivate da studi sperimentali indicano che farmaci ad azione noradrenergica, quali amfetamine e dopaminoagonisti in combinazione con trattamenti riabilitativi, possono favorire il recupero di prestazioni motorie, percettive o linguistiche probabilmente riducendo la diaschisi.287,288 In senso opposto, antagonisti dopaminergici quali le fenotiazine, agonisti gabaergici quali le benzodiazepine ed alcuni anticonvulsivi quali il fenobarbital e la dintoina possono inibire il recupero incrementando la diaschisi e sopprimendo il fenomeno del potenziamento a lungo termine.289,290 Un’esperienza condotta su un piccolo gruppo di soggetti ha documentato un’efficacia del metilfenidrato nel miglioramento dell’esito clinico.291 La facilitazione dell’esplorazione dello spazio, percepito in caso di emianopsia o di disturbo dell’orientamento spaziale dell’attenzione, si ottiene evitando posizioni del letto che lascino poco spazio all’esplorazione visiva. L’impegno nella memorizzazione del programma di attività giornaliere è utile per favorire l’orientamento temporale ed il mantenimento del ritmo sonno-veglia. La promozione dei contatti interpersonali è cruciale per prevenire l’isolamento del paziente e le conseguenze emotive e comportamentali che ne conseguono. L’informazione e l’educazione dei familiari riguardo il loro possibile contributo al miglioramento dell’assistenza al soggetto malato appare cruciale per ottenere una adeguata collaborazione e potenziare l’attività fornita dagli operatori professionali. L’informazione offerta tramite opuscoli predisposti a pazienti e caregiver ha fornito, in uno studio clinico randomizzato, vantaggi in termini di qualità percepita, riguardanti lo stato mentale dei caregiver che ricevevano le informazioni, senza ricadute significative sull’esito clinico dell’ictus o sulla qualità di vita dei pazienti;292,293 e. la facilitazione della acquisizione della posizione seduta nei soggetti senza compromissione dello stato di coscienza è consigliata da molti (anche senza prove formali di efficacia), a partire dal secondo-terzo giorno, a meno di condizioni cardiocircolatorie che rappresentino una controindicazione assoluta all’avvio del programma di recupero della postura. La prevenzione delle cadute può essere realizzata attraverso azioni molteplici: 1. verifica del sistema di chiamata degli infermieri; 2. controllo ad interventi regolari dei servizi igienici; stesura 15 marzo 2005 279 280 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane 3. verifica frequente delle condizioni del paziente, controllando ed eliminando le sorgenti di dolore o le cause di agitazione; 4. supervisione dei trasferimenti dal letto alla sedia o dal letto al bagno; 5. istruzione del paziente e della famiglia. I soli sistemi di contenimento (sbarre nel letto, fasce trasversali, ecc.) possono non essere efficaci ed incrementare l’agitazione nei soggetti confusi: f. previsione del recupero funzionale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, in relazione alle limitazioni esistenti nell’impiego di risorse destinate all’assistenza dopo l’ictus, raccomanda di selezionare i pazienti per i quali il futuro trattamento di riabilitazione intensiva può essere importante, discriminando tre gruppi principali:294 1. pazienti con evoluzione favorevole indipendentemente dalla pratica riabilitativa; 2. pazienti che possono presentare miglioramenti solo grazie all’impiego di idonea assistenza riabilitativa; 3. pazienti con ridotta possibilità di miglioramento a prescindere dal tipo di riabilitazione. Le informazioni disponibili consentono di avere una discreta quantità di indicatori sui fattori predittivi negativi del recupero (numero delle attività compromesse, gravità della compromissione funzionale, comorbosità, incontinenza sfinterica, invalidità persistente all’ictus, deterioramento cognitivo, depressione, ecc.), ma non offrono modi sicuri per discriminare la predizione di recupero spontaneo da quello legato alla riabilitazione intensiva. Due ricerche di autori italiani hanno contribuito a definire alcuni indicatori predittivi favorevoli nei riguardi del recupero dell’autonomia: menomazione non grave, impegno occupazionale persistente dopo l’evento vascolare, età inferiore ai 65 anni, buone capacità di attenzione e di comunicazione verbale, tono dell’umore non compromesso. È comunque opportuno sottolineare che nessuno degli indicatori predittivi costituisce una condizione del tutto vincolante, poiché anche soggetti di età avanzata e particolarmente compromessi possono mostrare una evoluzione favorevole in termini di autonomia soprattutto in relazione al possibile miglioramento inatteso di alcuni fattori potenzialmente limitanti.295,296 La formulazione di una prognosi riguardante la sopravvivenza, l’autonomia nella deambulazione e la ripresa motoria degli arti basata sulla perdita di coscienza all’esordio dell’ictus, sulla rapidità di aggravamento del deficit e sul recupero dell’attività motoria può essere realizzata già al termine della prima settimana.297 Ad essa consegue la realizzazione di una proposta sul setting riabilitativo più idoneo al soggetto curato e sulle modifiche potenzialmente necessarie per adattare la residenza abituale alla vita del paziente sopravvissuto all’ictus. Molte altre situazioni sono comunemente affrontate nella fase acuta dell’ictus con ricadute sull’autonomia residua. Fra queste possono essere sottolineate le problematiche relative all’alimentazione, al controllo sfinterico urinario e fecale, ai traumi della spalla e agli altri traumatismi indotti dalle cadute dal letto, alla sonnolenza diurna eventualmente associata alla agitazione notturna. Tali condizioni sono affrontate in dettaglio nel Capitolo 14. 11.11 ELEMENTI CARATTERIZZANTI LA DIMISSIONE DALLE STRUTTURE DEDICATE ALLA FASE ACUTA La pianificazione della dimissione dovrebbe essere avviata precocemente dopo l’accettazione del paziente e dovrebbe prendere in considerazione i bisogni dei pazienti e dei loro familiari.294 È opportuno indicare le attività correlate alla prevenzione secondaria ed all’attività destinata al recupero delle abilità compromesse, indicando anche eventuali referenti dell’unità ictus che può fornire un aiuto nel coordinamento dell’assistenza. Il piano di dimissione dopo la fase ospedaliera dovrebbe coinvolgere tutte le collaborazioni con gli operatori territoriali, evitando il realizzarsi di attività non coordinate. La dimissione del soggetto che ha subíto un ictus dalla struttura dedicata all’assistenza alla fase subacuta, realizza un passaggio che dovrebbe essere predefinito nell’ambito del progetto assistenziale redatto al momento dell’ammissione del paziente. In altri termini, ogni struttura dovrebbe identificare i propri criteri per la dimissione e realizzare un collegamento con altre strutture assistenziali ospedaliere e territoriali, che garantisca la continuità dell’assistenza.17 La relazione effettuata alla dimissione del paziente dovrebbe comporsi di due distinte sezioni: la prima che ripercorre le fasi assistenziali già espletate e la seconda che individua gli obiettivi da raggiungere e le modalità ritenute più opportune. In assenza di un progetto assistenziastesura 15 marzo 2005 Capitolo 11 — Ictus acuto: monitoraggio e complicanze nella fase di stato le già formulato dal team competente per l’assistenza alle malattie cerebrovascolari, il paziente è trattato “come un pacco” che cambia destinazione a seconda delle prestazioni disponibili nell’area geografica di residenza e non come un soggetto a cui viene offerta una risposta adeguata ai bisogni di salute indotti dalla malattia cerebrovascolare. Sulla base di tali premesse, la dimissione dovrebbe essere accompagnata dal resoconto dei problemi affrontati dall’esordio della malattia con indicazione dei motivi che hanno condotto a certe scelte assistenziali. La relazione dovrebbe inoltre sintetizzare le condizioni al momento dell’ingresso e descrivere l’evoluzione fino all’uscita, oltre a testimoniare gli incontri che il team ha realizzato per affrontare il caso.279 Nella parte prospettica dovrebbero essere rappresentati i suggerimenti terapeutici a breve e medio termine, i criteri di scelta del setting assistenziale preposto (altro ospedale, struttura di lungodegenza, struttura di riabilitazione intensiva, domicilio con assistenza, ecc.) e gli obiettivi degli interventi sanitari realizzabili in tempi diversi. A tale scopo è infine importante sottolineare le motivazioni degli eventuali controlli presso la struttura della fase acuta chiarendo le competenze necessarie per la realizzazione di un’adeguata assistenza continua.275 stesura 15 marzo 2005 281 282 SPREAD – Stroke Prevention and Educational Awareness Diffusion Ictus cerebrale: Linee guida italiane 11.12 BIBLIOGRAFIA 1. 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