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memorie di un ribelle
ISTITUTO PER LA STORIA
DELL’UMBRIA CONTEMPORANEA
ADELIO E FAUSTA FIORE
MEMORIE
DI UN RIBELLE
settembre 1943 - maggio 1945
PRESENTAZIONE DI
GIANCARLO PELLEGRINI
CM/1
EDITORIALE UMBRA
1
Storia/e di gente
comune
Curatori
Attilio Bartoli Langeli
Renato Covino
ISTITUTO PER LA STORIA
DELL’UMBRIA CONTEMPORANEA
ADELIO E FAUSTA FIORE
MEMORIE
DI UN RIBELLE
settembre 1943 - maggio 1945
PRESENTAZIONE DI
Giancarlo Pellegrini
EDITORIALE UMBRA
ISBN 88-88802-19-3
© Copyright 1995 Editoriale umbra, Foligno
Istituto per la storia dell’Umbria
contemporanea
Progetto grafico, Roberto Bacci
2a ed. 2004
Finito di Stampare nel mese di Dicembre 2004
dalla tipografia Iriprint per conto
di Fenice Soluzioni Grafiche - Città di Castello (PG)
Indice
Presentazione
di Giancarlo Pellegrini
7
Memorie di un ribelle
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Un fanciullo durante il fascismo
L’Istituto San Carlo
Fra impegno religioso e rifiuto del regime
Da “sancarlisti” a “garibaldini”
Le prime azioni della brigata Garibaldi
Il ferimento del comandante Antero Cantarelli
La conferenza militare del 5 febbraio 1944 e
il battaglione Goffredo Mameli
Il primo rastrellamento
Giustizia partigiana
Memorie a confronto
Nuovi rastrellamenti
La strage di Collecroce
“Sganciamento” e “scioglimento”
del battaglione Mameli
La ricostituzione della brigata e
la Liberazione di Foligno
Monsignor Luigi Faveri commemora i caduti
Volontariato al Nord
Folignati della divisione Cremona
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Presentazione
1. «La Resistenza si nutriva di granellini e si faceva strada
con piccole, piccolissime imprese». Mi sembra che questa frase semplice, (che troviamo a p. 43 del testo), interpreti in modo
compiuto il senso vero, la consapevolezza della partecipazione
di tanti giovani come Adelio Fiore, giovani di una “nuova generazione”, al moto della Resistenza, che fu un evento importante
per il riscatto dell’Italia, proprio perche registrò l’adesione vasta
di tanti cittadini, disponibili a dare talvolta un piccolo contributo, ma che aggiunto ai tanti piccoli contributi di migliaia di cittadini fu determinante poi ai fini del risultato finale.
Le Memorie di un ribelle sono la narrazione della partecipazione di Adelio Fiore alla lotta partigiana: ne esce un quadro che
va al di là dell’analisi di una vicenda personale, che ricostruisce significativamente il clima e l’ambiente entro il quale maturarono le motivazioni che indussero Fiore ed altri amici a fare
la scelta per la Resistenza; che diviene naturalmente poi la
narrazione di una parte delle vicende della brigata Garibaldi e
del battaglione Mameli, entro il quale egli militò.
Le Memorie sono un libro singolare anche per la struttura
scelta nell’impostazione: in parte sono condotte sotto forma di
intervista (e a fare le domande è la moglie di Adelio, Fausta,
che, nel ruolo di piena condivisione della vicenda resistenziale, accompagna il consorte nel tragitto della memoria e di riscoperta dei luoghi delle azioni partigiane e nel tragitto di incontro con abitanti di questi luoghi), in parte come descrizione
dello svolgersi degli eventi, in parte come riflessione ad alta
voce sulle radici della ribellione, sul cadenzare delle azioni, sui
passaggi da un luogo all’altro, su «quelle piccolissime imprese,
sempre rischiose e determinanti» (p. 43).
A due questioni di particolare importanza viene dato il dovuto spazio: come maturò in Fiore e nei suoi amici l’adesione
alla lotta di liberazione? come si concretizzò la decisione di
parecchi di costoro, cattolici impegnati nel laicato, di operare in
una formazione partigiana, quale la “Garibaldi”, di orientamento comunista?
Dalle Memorie emerge nitida l’identità di Adelio Fiore e dei
suoi giovani amici, che imbracciano le armi. Parecchi erano cresciuti nel circolo San Carlo, il famoso circolo cattolico folignate che dal 1888 era andato svolgendo tra i giovani un’importante opera di formazione non solo spirituale-religiosa, ma anche
etico-civile, e che durante il fascismo divenne un’autentica fucina di formazione, una scuola di libertà, e come tale anche una
palestra di antifascismo. Tale formazione in Fiore si innestava
in una personalità che da fanciullo nei monti della Carnia, nei
lunghi periodi estivi trascorsi presso i nonni paterni, aveva
gustato la bellezza della vita all’aperto, dei lavori dei campi, la
spontaneità della vita rurale, il tutto una metafora della libertà. L’ambiente del “San Carlo” con gli incontri e le amicizie che
sviluppò, con le riflessioni che stimolò, con gli episodi di intolleranza e di sopraffazione registrati per volontà di fascisti,
gli fece maturare «il proposito di stringere l’ideale religioso
all’esercizio della libertà». Inoltre la frequenza con il rettore del
seminario, monsignor Angelo Lanna, gli chiarì i contorni della dittatura e gli confermò la convinzione di rifiutarla e di
combatterla. Da qui anche il sentirsi ferito dalle violenze di cui
il “San Carlo” fu oggetto da parte dei fascisti, la non accettazione di tali intimidazioni, che generano in Fiore, come pure in
tanti giovani cattolici del circolo, una rivolta di ordine morale,
i sentimenti di ribellione al sistema autoritario e dittatoriale.
Ribellione di cui si rese interprete il vicario generale della diocesi, monsignor Luigi Faveri, nel discorso di commemorazione
dei caduti il 6 agosto 1944, quando sottolineava che ribellione era
“affermazione di giustizia, di forza, di libertà”. Da quel crogiolo di idee nell’ambito del “San Carlo” fu lineare e conseguente la
scelta per l’impegno nella guerra di Liberazione.
2. Il lavoro offre opportune delucidazioni su come e perché
la brigata assunse il nome di Garibaldi. Fu una scelta, per così
dire, anomala che dovrebbe essere avvenuta nell’ottobre 1943,
quasi al primo contatto con la montagna, dal momento che la
data ufficiale della costituzione della brigata è il 22 settembre
presso la cascina Raticosa. A livello nazionale, già nei primi
dieci giorni dopo 1’8 settembre, quando emersero tanti nuclei
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di resistenza antifascista, si andarono ben definendo quelle che
Bocca ha chiamato «1e forze motrici» della lotta partigiana: le
formazioni garibaldine patrocinate dai comunisti che si distinguevano per il colore rosso, le formazioni gielliste (di Giustizia
e Libertà) patrocinate dal Partito d’azione che si distinguevano
per il colore verde, le formazioni autonome che si distinguevano per il colore azzurro. Ai giovani folignati la scelta del nome
Garibaldi fu suggerita da colui che era il più alto in gradi e che
aveva anche la maggiore esperienza in questioni belliche, il tenente colonnello di fanteria Antonio Salcito, aggregatosi il 30
settembre, quando appunto a livello nazionale erano abbastanza chiari gli orientamenti, e che «ne sapeva più di noi», ammette il comandante Cantarelli, intervistato dai Fiore. Comunque,
benché tali orientamenti verosimilmente non dovessero essere
sconosciuti ai giovani ribelli, la scelta di chiamarsi garibaldini
non dipese da contatti o da direttive provenienti da partiti, ma
unicamente dal desiderio di ricollegarsi idealmente ai moti del
Risorgimento per l’indipendenza dallo straniero, a quel processo risorgimentale di cui Garibaldi rappresentava il massimo
emblema. Anzi nel nome di Garibaldi così motivato risaltava la
nobiltà della scelta, che ebbe infatti un seguito qualche mese
dopo quando Fiore ed i suoi amici "sancarlisti" dettero al proprio battaglione il nome di Goffredo Mameli, rimarcando in tal
modo che la lotta della Resistenza era un secondo Risorgimento, dettato da sentimento patriottico, senza alcuna pretesa nazionalistica ed in più faceva intravedere l’ideale repubblicano.
Entro questa cornice ideale si comprendono le sottolineature,
più volte ripetute nel testo, che l’operato della formazione partigiana avvenne al di fuori di ogni logica partitica, tanto da far
orgogliosamente evidenziare la caratteristica di essere stati
"partigiani senza partito", ma non senza impegno e senza passione per la politica, «autonomi, non neutrali» (p. 53).
La logica cui sembrò obbedire anche la "Garibaldi" folignate
fu quella di brigata e della guerriglia di brigata, cioè della migliore organizzazione possibile per il raggiungimento dello
scopo, senza creare inutili contrasti o sospetti di accaparramento di potere. Dopo la cattura del colonnello Salcito (1 dicembre1943), il comando della formazione venne affidato ad Ante-
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ro Cantarelli, già presidente diocesano dell’Azione cattolica, e
scelto dai suoi compagni per le sue qualità, anche per la sua
esperienza in quanto sottotenente di complemento, e che aveva in suo onore il rifiuto dell’adesione alla Repubblica sociale
italiana e della conseguente promozione a capitano. A questa
impostazione originaria le necessità e l’incombere degli eventi arrecarono qualche aggiustamento di compromesso. Infatti
per un miglior assetto logistico e militare, in collegamento con
il Comitato di liberazione nazionale la "Garibaldi" di Foligno si
adeguò nella struttura a quanto venne deciso nella conferenza
militare del 5 febbraio 1944: in primis, un nuovo organico della
banda, cioè la suddivisione in formazioni più piccole, più mobili, più rispondenti alla logica della guerriglia partigiana e
dalla morfologia del territorio, costituite per lo più secondo criteri di affinità politica; poi, la nomina del commissario politico,
demandata al Comitato di liberazione nella persona del comunista Balilla Morlupo. È indubbio che fu un compromesso,
dettato dalla gravità della situazione e dall’esigenza della brigata di avere un retroterra il meno diffidente possibile: d’altra
parte l’unità antifascista e antinazista presupponeva un pluralismo politico che bisognava salvaguardare e da cui non si poteva prescindere se si voleva arrivare allo scopo finale.
3. Il volume naturalmente narra l’esperienza partigiana di
Adelio Fiore dal settembre 1943 al giugno 1944, e poi, dal febbraio all’aprile 1945, sempre assieme ad un gruppo di sancarlisti, la partecipazione all’ultima fase della guerra, inquadrati
nella divisione Cremona nell’ambito del Corpo dei volontari
della libertà.
I due momenti sono ben definiti ed il lettore può seguire, oltre alle vicende, l’insieme dei sentimenti che pervadevano quei
giovani; i momenti delle varie decisioni, anche difficili, in ordine alla conduzione delle azioni, degli spostamenti, dei rifornimenti di viveri; le modalità con cui si faceva fronte ai vari e
notevoli inconvenienti, come il ferimento del comandante Cantarelli; inoltre i rapporti, talvolta complicati e complessi, con la
gente di campagna, che, seguendo il più delle volte l’orientamento di qualche capofamiglia influente, collaborava con i gio-
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vani resistenti, aiutandoli a risolvere i problemi della quotidianità, fornendo preziose indicazioni sui movimenti delle truppe
tedesche e della milizia fascista. I partigiani cercarono di ricambiare tale sostanziale appoggio, mettendo in comune con tale
gente sia la carne di quelle bestie prelevate dalle tenute dei proprietari più facoltosi, sia altri generi di prima necessità che i
partigiani riuscivano ad avere nel collegamento con il Comitato
di liberazione nazionale. È anche interessante il riscontro condotto dai Fiore sulla memoria dell’attività partigiana tra la stessa popolazione di campagna, e come essa abbia subito nel tempo diverse incrinature, logorii, facendo emergere critici luoghi
comuni.
Merita considerazione, inoltre, anche la funzione di commissario politico svolta da Fiore nell’ambito del battaglione
Mameli. Infatti, nel modo come venne esplicata, essa era svuotata di qualsiasi significato politico partitico e deteriore, ma
serviva a tenere alto l’ideale della Resistenza tra la popolazione locale e particolarmente a preparare, sul piano morale e politico nel senso nobile, i giovani volontari, per lo più renitenti
alla leva, che si apprestavano a fare il grande salto della lotta
partigiana.
Un momento sempre difficile da vivere, ed ancor più da raccontare, è l’azione repressiva nei confronti delle spie, dei traditori, dei nemici presi prigionieri. Purtroppo ogni banda si è
trovata ad affrontare tali penose situazioni e si può dire che
ognuna l’abbia risolta per proprio conto con comportamenti
non sempre in sintonia con le convenzioni internazionali o con
il codice militare di guerra. Nel volume c’è un episodio significativo. Fiore accompagna il comandante Cantarelli a Roccafranca, ove si doveva processare un prigioniero, accusato di
aver fatto ammazzare tre partigiani con una spiata. La descrizione è sobria e la vicenda è narrata con evidente imbarazzo e
dispiacere. Il tribunale partigiano si avvaleva delle testimonianze delle persone locali e la condanna alla fucilazione venne emessa dal momento che non ci fu alcuna voce discorde, né
l’imputato seppe scagionarsi. In tale occasione emerse un comportamento, che fu comune a tante bande: l’estrema severità
nei confronti delle spie, dei traditori ed il rispetto, invece, del
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prigioniero dell’esercito nemico. Infatti nello stesso giorno
della condanna della spia il comandante Cantarelli decise la liberazione di tre prigionieri tedeschi, che ripagarono in malo
modo la grazia ricevuta, ritornando con rinforzi e provocando
la morte di partigiani. Ma con i prigionieri tedeschi non vi furono solo incontri di odio e morte, cioè di nemici: a Castelbuono di Bevagna vi fu anche l’incontro con il "tedesco umano",
che, ormai "stufo di correre" ed ancor più della guerra, corse incontro ai partigiani, li abbracciò e con essi poi fraternizzò fino
al momento della consegna agli alleati. Con questa vicenda si
era ormai negli ultimi giorni della lotta partigiana, poco prima
della liberazione di Foligno, quando – dopo il terribile rastrellamento di metà aprile con stragi di civili e di partigiani nella
zona di Mosciano e di Collecroce e conseguente disperazione
del battaglione – la "Garibaldi" si era ricompattata ed i suoi patrioti erano tornati all’ azione in nuove e diverse destinazioni.
Con la Liberazione di Foligno e con il successivo passaggio
del fronte finiva l’esperienza di lotta della brigata Garibaldi, ma
non quella di Adelio Fiore, di Cantarelli e di parecchi altri partigiani, tra cui diversi sancarlisti, che guardavano con trepidazione alle sorti d’Italia, al fronte che si attestava sulla linea gotica. Il discorso per la commemorazione dei caduti, pronunciato
da monsignor Faveri il 6 agosto 1944, offrì una riflessione intensa di significati, quando giudicava atto di eroismo l’impegno
dei patrioti «ribelli a tutte le ingiustizie e a tutte le mistificazioni
dei profittatori» e li esaltava per aver innalzato la «fiaccola della
riscossa con il solo intento di ridare pace e libertà» all’Italia. Il
vicario della diocesi prospettava un ampio campo di impegno
per tutti e per il cristiano la sollecitazione a non chiudersi in
"sacrestia". Il "San Carlo" fu ancora centro di incontro e di formazione sul dovere di continuare la lotta per la liberazione
dell’Italia. Dopo i comunisti, anche un folto gruppo di sancarlisti nel febbraio 1945 partì per «andare a ripulirsi la faccia» —
per usare un’espressione di Fiore — nel fiume della Resistenza
nazionale. Tra i sancarlisti l’iniziativa era di nuovo di Cantarelli, Cecconelli e Fiore, cioè di quei giovani cattolici che avevano
avuto un ruolo di rilievo nell’avvio dell’esperienza della "Garibaldi". È significativo che questo gruppo affiatato di cattolici
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sancarlisti rifiutasse di essere disperso nei diversi battaglioni o
compagnie. Volle rimanere unito per continuare un impegno di
gruppo, dichiarando di ritornarsene altrimenti a casa. Come
interpretare ciò se non nel senso di voler sottolineare quanto, in
una prova decisiva quale quella che si andava combattendo,
contasse sul morale lo spirito di gruppo, di amicizia, l’idem sentire in senso lato? E che sarebbe stata un’esperienza drammatica i giovani patrioti sancarlisti lo avrebbero verificato di lì a
qualche tempo quando si trovarono in prima linea, «presi nella spietata macchina della guerra ad alta tecnologia», in una
logica «di morte e di distruzione», in una guerra diversa dalla
guerriglia combattuta sull’appennino umbro-marchigiano, la
quale aveva conservato, nonostante momenti profondamente
tragici come nelle stragi di Mosciano e Collecroce, un alone un
po’ romantico, una specie di residuo risorgimentale.
4. Che significato può avere oggi ripensare alle motivazioni
che alimentarono la guerra partigiana, rileggere le vicende della Resistenza, anche quelle locali?
Si diceva all’inizio. La Resistenza fu un moto etico-politico ed
etico-militare di fondamentale importanza per il riscatto dell’ltalia nel teatro delle nazioni europee e di fronte al mondo intero. Ebbe anche una «esasperata politicizzazione» — come ha
sottolineato recentemente Scoppola — e forse per questo non è
riuscita a plasmare dagli ideali che la animavano «la vita civile nel suo insieme a livello di comportamenti individuali e collettivi». La Resistenza ha avuto luci e purtroppo ombre, che
non vanno nascoste o sottaciute. Anche la vita politica dopo il
1945 ad essa alcune volte si è ispirata, altre volte se ne è tremendamente allontanata. Proprio perche talvolta — dico talvolta,
perché non tutto di questi cinquanta anni di Repubblica è da
buttare, anzi di gran lunga prevalenti sono gli aspetti positivi
— la vita politica ha seguito altri binari, di fronte a chi cerca
conseguentemente di svalutare in blocco l’esperienza della Resistenza, oggi ha un’importanza enorme offrire alla riflessione
le vicende di quel periodo, anche quelle locali che potrebbero
essere erroneamente ritenute di minor rilievo, e soprattutto le
motivazioni (di libertà, di giustizia, di democrazia) che mosse-
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ro coloro che si impegnarono nella lotta di liberazione e che furono alla base del nuovo Stato repubblicano. Sono motivazioni perenni, cui si ricollega anche la conclusione di Fiore: «La Resistenza deve continuare a praticarsi in forma costante, progressiva, sino alla piena e duratura affermazione della democrazia effettiva e dei suoi obiettivi, e ogni volta che questi siano minacciati». L’Italia migliore è nata con la Resistenza e da lì
è ripresa la ricostruzione dell’identità nazionale di paese libero che il fascismo aveva spezzato. Ripensare alle vicende della
lotta partigiana, alle motivazioni alla base della Resistenza ha
quindi un valore, come dire, ermeneutico e formativo. Ed è
importante che attraverso un ulteriore esame si possa arrivare
sul piano storiografico a formulare "un patrimonio condiviso di
giudizi sulla storia" (P. Scoppola,"Il Mulino", n. 4, 1994, p. 606),
in modo da uscire da interpretazioni ideologiche o enfatizzate
o fortemente stroncatorie ed approdare ad un sistema autenticamente democratico.
Giancarlo Pellegrini
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MEMORIE DI UN RIBELLE
Resistenza e Liberazione
(settembre 1943 - maggio 1945)
Testo e note di Adelio e Fausta Fiore
Un fanciullo durante il fascismo
— Sono curiosa di scoprire i motivi che concorsero lentamente a maturare in te la rivolta, sino a spingerti alla decisione peraltro precoce d’entrare nella lotta armata, poiché, subito
dopo l’armistizio, si mobilitò soltanto una minoranza molto
esigua di italiani proveniente dall’esercito sbandato e da pochi
oppositori clandestini. Certamente la tua scelta non fu influenzata da forti movimenti d’opinione!
Adelio mi riferisce alcuni fatti della sua fanciullezza e della
sua adolescenza che gli sembrano più indicativi in proposito.
A cinque anni, nel momento del tutto particolare in cui un
fanciullo "non vuole" più frequentare l’asilo infantile e "non
può accedere" alla scuola elementare, fu avviato all’Istituto San
Carlol che aveva sede in via Aurelio Saffi, molto vicino a casa
sua (via Borghi, ora Bechelli n. 21). Ve lo accompagnava al pomeriggio una donnina del vicinato, poiché la madre non poteva lasciare le due bambine più piccole (non era ancora nato l’ultimo). Lo frequenterà anche in seguito per tutto l’anno ad eccezione della lunga stagione estiva, che trascorreva nella materna terra friulana (Rivarotta), mentre il padre maresciallo del 1°
reggimento di artiglieria da campagna raggiungeva la famiglia
solo per breve tempo: sempre in perfetta divisa, raccontava la
sua guerra, era stato un combattente del 1915-18 e aveva dato
1
Per l'Istituto "San Carlo" cfr. E. CAVALCANTI, Lineamenti di vita ecclesiale in
Umbria: l'esempio di Foligno, in Orientamenti di una regione attraverso i secoli:
scambi, rapporti, influssi storici nella struttura dell'Umbria, Atti del X Congresso di Studi Umbri (Gubbio 23-26 maggio 1976), Perugia 1978, pp. 299-312; A.
PAGLIA, Storia e scopo dell'Istituto San Carlo in Foligno, Foligno 1936; D. CESARINI, Don Ernesto Caterini e gli assistenti ecclesiastici dell'Istituto San Carlo in Foligno, Foligno 1989. Cfr. "Gazzetta di Foligno", 103 (1988),39 (e anche 36, 43)
per il centenario della fondazione: conferenza di A. BUONCRISTIANI sulle origini del "San Carlo". Per le vicende durante il ventennio fascista cfr. D. C ESARINI, L' ambiente cattolico di Foligno e la figura di don Consalvo Battenti negli anni
'20, in Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), a cura di A. Monticone, Bologna 1978, pp. 113-130. Cfr. G. CECCONELLI, I sancarlisti e il fascismo e N. Lanzi,
Un vecchio sancarlista, in "Gazzetta di Foligno", 102 (1987),41.
al primogenito il nome d’un carissimo commilitone. L’estate
friulana traboccante di vita all’aperto e di sole, di libertà e di attività, colmava Adelio di piacere e di affetto, quello specialissimo della none [nonna] Elisa, del barbe [zio] Timo. Eccolo in
mezzo ai campi verdi e dorati, di foraggi e di viti, grano e granoturco; in bici o in vaporetto durante le gite domenicali fino all’Adriatico sabbioso di Lignano; spesso a nuoto nelle acque
fredde del fiume Stella pericoloso per i mulinelli dovuti al drenaggio del fondo servito a riempire di breccia i sacchi per le
trincee della prima guerra mondiale. E come potevano mancare
i ricordi di cose e persone di quella guerra? C’erano ancora in
circolazione i vecchi elmetti!
Fervevano i lavori nei campi e Adelio vi partecipava spontaneamente: prima la mietitura e poi nel tempo dovuto la semina del granoturco, la falciatura dei foraggi, la vendemmia, la
raccolta del granoturco con le pannocchie arrostite sulla griglia!
Nel granaio le scorte per la farniglia tra cui più abbondante la
farina di granoturco bianca e rossa, pasto d’ogni giorno, con
l’immancabile cucchiara calcolata per i mendicanti di passaggio.
Tutto il resto prendeva la via del mercato a Latisana. Da ultimo
la pigiatura dell’uva nel tino grande due metri per due, dove
entrava lo zio dopo un’accurata abluzione. Si rifocillava: bevute
abbondanti dalle ciotole smisurate di latte caldo di mungitura,
uova succhiate appena depositate dalla gallina, tanta frutta fresca sempre disponibile nei grandi cesti. I nonni seguivano le
tradizioni inviolabili, tutt’altro che sgradite al ragazzo, della
preghiera al momento dei pasti e al suono dell’Ave Maria; la
famiglia non mancava mai alle sagre paesane, alla gita collettiva nel paludo per la mangiata dell’anguria e del melone, i giovani andavano al ballo domenicale nelle piazze dei paesi.
Alla riapertura delle scuole si ripartiva per Foligno con le riserve di formaggio e burro, grasso d’oca e salami, e la bavella
del bozzolo per confezionare quando c’ era bisogno le coltri invernali morbide e calde. La vita di grande spontaneità e dinamicità continuava per Adelio, una volta tornato a Foligno, dove
però la sua famiglia aveva deboli radici, ed egli faticava più di
altri ragazzi a darsi una precisa identità. La passione per l’agricoltura non pote svilupparla e se la portò dentro per sempre.
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Mentre molti figli di sottufficiali dell’esercito frequentavano il
Ginnasio, egli fu mandato alla Scuola di avviamento industriale dove evidenziò attitudini eccellenti per la matematica, il disegno, l’officina; solo dopo aver frequentato seriamente nel
dopo-guerra l’Istituto tecnico per geometri di Assisi, poté iniziare la libera professione a trentadue anni (1952) esercitandola ininterrottamente.
Ma da ragazzino era tutto preso dai giochi nelle piazze e nel
"San Carlo" con i suoi coetanei, i quali erano seguiti e avvicinati da
un giovane educatore2, che, svolgendo il suo apostolato, riusciva
ad attirarli nell’Istituto "San Carlo", dove peraltro venivano riproposti tanti tipi di giochi insieme con l’educazione religiosa.
La bella piazza XX Settembre (prima dei Canepai, poi della
Spada) era la preferita per le partite di pallone insieme alla deliziosa fontanella del piccolo largo di Montarone situata nelle
adiacenze, dove i ragazzi del rione si bagnavano e si dissetavano a volontà, senza ascoltare le raccomandazioni delle madri.
I fatti culminanti della sua vita sbarazzina furono "le sfide delle piazze" (allora tacevano le gare rionali della grande Giostra
della Quintana), in cui scendevano in lizza i ragazzini e solo
loro: piazza XX Settembre, del Grano, di San Domenico, di San
Nicolò, il parco dei Canapé, che non era ancora alberato e
ospitava con il gioco del pallone anche gli slittini confezionati
dai ragazzi, che gareggiavano nel grande cratere centrale, colmato in seguito a poco a poco.
Con l’arrivo della primavera e del bel tempo la gente povera del rione usciva all’aperto e in mancanza di orti, giardini,
terrazzi, proprietà e orgoglio dei ricchi, sistemava nei punti meglio ventilati, nell’angolo meno in vista dell’elegante palazzo
Barnabò, qualche tavolino dove le donne stiravano e giocavano a carte (scopone). Le anziane indossavano ancora le vesti
2
Per questo e altri personaggi appartenuti all'ambiente del "San Carlo" e
dell'Azione cattolica si rimanda a R. SCHOEN - D. CESARINI, Fonti orali per la
recente storia politica e religiosa dei cattolici folignati, in Storia religiosa e civile
folignate, Miscellanea I, Foligno 1990, pp. 312-369 passim. Vi si trovano molte
informazioni biografiche.
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lunghe alla caviglia alla maniera ottocentesca senza portare le
mutande; s’ appartavano in un angolo e pisciavano diritte e pudiche con facilità e disinvoltura come gli stessi uomini.
— Quelle donne meravigliose — dice Adelio vibrando di
commozione — in mezzo alle loro faccende non ci perdevano
mai d’occhio e ci soccorrevano al bisogno amorosamente come
loro figli; così ci sentivamo nella strada come in famiglia. Non
dimenticherò mai l’Annunziata, una bruna, non giovane non
vecchia, che capeggiava, consigliava, difendeva le donne, i giochi, la piazza con fermezza e dolcezza nelle varie situazioni.
Al pomeriggio la piazza e le sue adiacenze traboccavano di
giochi, che "da ultimo" s’estendevano anche alle bambine e
quindi al giro tondo e alla campana. Allora i maschi stanchi del
gran correre andavano in via Mezzalancia a sentire i racconti
del garibaldino più che ottantenne, seduto fuori della porta di
casa e appoggiato al bastone; lo circondavano in sette otto dieci per ascoltarlo bene. Le imprese di guerra, a scuola e fuori, si
prospettavano alla fantasia dei ragazzi come si trattasse di un
gioco. Non era scoppiata la cultura della pace che dovrebbe
produrre la mutazione radicale dell’uomo.
Quando Mussolini per creare lo stato totalitario emanò le
"leggi fascistissime" (1926), decretò lo scioglimento di tutti i
partiti e contemporaneamente la fondazione dell’Opera nazionale balilla, proibendo l’uso di qualsiasi divisa che non fosse
voluta dal regime. Adelio aveva solo otto anni e doveva indossare la tanto desiderata divisa di "lupetto" degli esploratori cattolici, che facevano capo al "San Carlo". Mamma Giovanna
l’aveva cucita e perfettamente ultimata, essa rappresentava un
elemento importante d’identificazione per un bambino che
aveva bisogno d’un gruppo d’appartenenza oltre la famiglia
quasi di emigrati e la vita di scuola per lui troppo angusta. Ma
proprio in quei giorni gli esploratori cattolici dovettero essere
sciolti per ordine del dittatore (1928). Un grandissimo trauma,
dunque, il primo della sua vita. Quella divisa divenuta a un
tratto inutile non lo fu del tutto, poiché lasciò nel cuore di Adelio un piccolo seme indelebile di disgusto e di rivolta insieme
con l’amarezza dell’umiliazione e l’effetto d’una sbandata.
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Il fascismo doveva ferirlo nuovamente, quando Mussolini
decise di assestare qualche duro colpo contro l’attivismo dell’Azione cattolica italiana, l’unica forma di associazione tollerata secondo i Patti lateranensi e anche comoda al regime per
irreggimentare e controllare l’attività del clero. Così Adelio a
undici anni, con altri giovani folignati, conobbe la brutalità anche fisica dei cagnotti del regime. Era un pomeriggio del maggio 1931 ed egli dovette fermarsi e scendere dalla bicicletta per
la ressa dei fascisti che volevano entrare nel "San Carlo". Rimase a osservare: il portone dell’Istituto venne chiuso in fretta dai
Cippitelli, Ciammarroni, Bianchi, Ricciolini, e vide i fascisti che
non riuscendo a entrare piombarono addosso al presidente dei
giovani cattolici del Circolo, il geometra Venanzo Baccanari,
sorpreso in strada davanti al portone; guardò come venne bastonato, schiaffeggiato, gli occhiali pestati sugli scalini dell’ingresso, fino a quando non scomparve sanguinante alla sua vista, travolto in mezzo alla folla. Altro segno indelebile.
Questo ragazzino, frequentatore assiduo della piazza XX
Settembre, venne a conoscenza delle azioni repressive della polizia politica, dei ripetuti arresti di onesti cittadini, che poi altro
non erano che i più noti antifascisti di Foligno, come gli Spadoni, Ferroni, Innamorati, Ricci, Zaccardi e altri "sovversivi". In
occasione di ricorrenze e manifestazioni fasciste avvenivano
tali operazioni accompagnate da un gran frastuono di grida di
donne e di bambini; all’udirle i ragazzi interrompevano i loro
giochi e andavano a informarsi dell’accaduto presso le donne
loro alleate, e capivano bene il significato di quegli episodi.
L ’Istituto San Carlo
L’opera del "San Carlo", per quanto si deduce dalle sue origini e dai vari contributi storici che la illustrano, non era un fiore nel deserto, ma bene inserita nello specifico contesto culturale religioso e socioeconomico folignate. Bisogna tener conto
del periodo post-risorgimentale e dell’intreccio che s’andava
consolidando fra le linee dei due sistemi educativi, confessionale e laico, dentro cui si colloca anche la nascita stessa del "San
21
Carlo", per capire bene la sua funzione e la situazione complessiva dei giovani folignati dentro le mura della città. Si voleva
aggregare la soggettività giovanile laica di sesso maschile attorno a
un progetto di educazione globale (etico religiosa, professionale, ricreativo sportiva) ispirata all’educatore contemporaneo
don Giovanni Bosco. Tali caratteri, sembra di capire, fecero del
"San Carlo" un istituto forse unico, o quanto meno tra i pochissimi dell’ltalia di fine Ottocento, sia come stimolo all’attualizzazione storica del messaggio cristiano sia come tentativo di risposta ai bisogni umani e sociali dei giovani laici. Certamente
esso costituisce ancora una realtà rilevante e un monito severo
per i poteri sia ecclesiastico sia civile che sono chiamati ad assolvere ai doveri verso la gioventù difendendone i diritti fondamentali, con piena dedizione e capacità creative e sensibilità.
Per la sua stessa nascita (1888) l’Istituto, riallacciandosi all’età post-risorgimentale, assumeva il significato preciso di volontà di affermazione e di difesa della libertà religiosa. Liberali e repubblicani, anticlericali, si battevano per l’affermazione di
altri sacrosanti diritti umani e civili. Scontri e aspre lotte si
verificavano per il radicalizzarsi di posizioni inconciliabili proprio quando nasceva il "San Carlo" non a caso. Era presente e
fondato il timore che una egemonia potesse instaurarsi da una
parte o dall’altra nel momento del cambiamento e della crescita civile e culturale che doveva seguire al passaggio dal governo papale a quello liberal monarchico; infatti bisognava pur
dare un contenuto a quel poco o molto di libertà conquistata. Il
vero nodo, la vera sfida non riguardò tanto l’attacco al vecchio
apparato delle tradizioni religiose, così piene di fascino, né il
celebrare una processione in più o una in meno. Invece interessavano alle parti in conflitto i contenuti e i metodi della nuova
educazione da dare al popolo, alla gioventù in particolare e alla
donna specialmente: ciò di cui con motivazioni diverse si occuperà successivamente il fascismo volto alla conquista della propria piena egemonia.
A Foligno con l’intento di risollevare l’economia e consentirle un certo sviluppo fu accolta la diffusa richiesta delle aziende
locali d’istituire la Scuola di arti e mestieri (1875) progettata per
sopperire al fabbisogno di buone maestranze. Tale scuola, sorta
22
con un certo anticipo sulle altre delle città dell’Umbria, fu diretta dallo stesso leader del Partito repubblicano umbro Domenico Benedetti Roncalli; seguiva al corso elementare istituito dalla monarchia in ogni comune italiano. In ottemperanza alle
nuove disposizioni nel 1875 fu riformato l’Orfanotrofio maschile, mediante concorso vi furono assunti maestri laici. Con notevole ritardo l’Orfanotrofio femminile venne laicizzato temporaneamente con direttrici, maestre e ispettrici laiche, ma era ancor prima nata la Scuola elementare pubblica femminile, sormontando difficoltà di ogni genere.
Alle novità che s’ andavano delineando il clero folignate, riprendendosi dalla disfatta, vuoi per integrare vuoi per contrapporre o giustapporre, ebbe il merito di rispondere con proprie iniziative educative, tra cui la più felice quella del "San
Carlo": dapprima per realizzare la preparazione dei fanciulli
alla prima Comunione, poi il Ricreatorio festivo, la Società ginnastica Fulginium, i laboratori di sarto, falegname, calzolaio, la
tipografia degli Artigianelli, il Teatro "San Carlo" e tardivamente la Scuola elementare maschile, tenuta dai Fratelli Maristi
(1902-1905). All’esterno del "San Carlo" fiorirono altre iniziative d’istruzione religiosa e di lavoro rivolte al sesso femminile3.
Il travaglio che comportò alla comunità civile e religiosa il grande fatto dell’unità d’Italia ebbe un valore positivo per coloro
che, impegnati su fronti opposti, tendevano alla liberazione
dell’uomo totale e a una religione più pura cui tutti dovremmo
aspirare; però generalmente non se ne seppe prendere atto e
non ci fu conciliazione.
Dei "sancarlisti" degli anni Venti di questo secolo, cresciuti
nel clima o nella memoria del periodo storico liberale ormai
3
Sulle nuove istituzioni educative di carattere laico e i nuovi orientamenti post-unitari cfr. B. LATTANZI, Da Scuola di arti e mestieri ad Istituto tecnico
industriale, in "Bollettino Storico della Città di Foligno", X (1986), p. 229;
L'Istruzione tecnico-industriale a Terni dal 1860 ai giorni nostri, a cura del Comitato per le celebrazioni del centenario della Società Temi, Temi 1985, p.
23; F. FIORE, Dentro le mura di una città. Ottocento familiare, Todi 1986, note
18,19,20,21, p.233; L 'educazione delle donne, a cura di S. Soldani, Milano 1989.
23
concluso, segnato dalle dette contrapposizioni, si sa che nessuno volle aderire al fascismo o collaborare, dando prova di non
piegarsi alle intimidazioni e alle violenze: i presupposti di libertà inducevano anche alcuni moderati di matrice cattolica a
prendere posizioni coraggiose. Nella storia di Foligno i gesti di
aperta opposizione al fascismo (1924) da parte dei "sancarlisti",
eletti a rappresentare il Partito popolare italiano di don Sturzo
in seno al Consiglio comunale, si debbono ricordare dando
onore al merito, soprattutto trattandosi d’una minoranza che
sfidava un blocco di forze consistenti4.
Nel secondo decennio della dittatura fascista il quadro politico è mutato, il paese asservito, l’opposizione incarcerata, emigrata, clandestina; i giovani del "San Carlo", i nostri futuri partigiani, dovettero purtroppo scontare le conseguenze della
estrema condiscendenza e cedevolezza del Vaticano al fascismo in quegli anni, appunto detti del "consenso", fortemente
connessi con la "morale dell’obbedienza" alla Chiesa, alla Patria, alla Famiglia, nonostante l’affermazione d’indipendenza
contenuta nell’enciclica Non abbiamo bisogno di Pio XI. Non erano sassolini, ma solide pietre che segnavano la strada della Resistenza, la quale non nacque un bel giorno all’improvviso.
Dopo la crisi del maggio 1931 e la "riconciliazione" del settembre successivo, avvenuta fra Mussolini e il Vaticano con i
noti patti, prevalse ancor più la volontà di concedere ai giovani cattolici organizzati sempre meno di autonomia e di responsabilità nell’orientamento laico delle forme di vita sociale
4
Dei consiglieri di minoranza del Partito popolare al Comune di Foligno,
che negarono la cittadinanza onoraria a Mussolini dopo il delitto Matteotti,
parla A. MENCARELLI, Aspetti e figure dell'antifascismo cattolico umbro, in Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), cit., p. 350: «Zeno Fedeli, Fortunato Benedetti, Filippo Chiassi, Sante Santucci, Nazzareno Morlupi, Francesco Pizzoni». All'ambiente del San Carlo erano legati altri popolari importanti come
l'avvocato Benedetto Pasquini, l'ingegnere Paolo Lattanzi, segretario del partito a Foligno, Giovanni Battista Cantarelli, l'onorevole Mario Cingolani che
guidava il partito in Umbria.
24
religiosa5; fino al punto che il potere ecclesiastico locale poté
tranquillamente, se non dimenticare le norme statutarie del
"San Carlo"6, che venivano frequentemente richiamate nella
vita dell’Istituto, e in Adelio n’è viva la memoria, certo trascurare le caratteristiche originarie della "benemerita Società San
Carlo", istituita fra i giovani e dai giovani. Proprio loro, almeno alcuni di loro, giudicarono in alcuni casi seriamente vanificate le proprie capacità e la volontà di elaborazione autonoma
di programmi strettamente attinenti ai loro bisogni, alle loro
aspirazioni, ai loro vincoli amicali, ivi compresi quelli con i preti dell’Istituto. Su due fatti di carattere ecclesiale dobbiamo
fermarci, in ambito locale e in ambito nazionale, di segno negativo e per l’avvenire dell’Istituto e per la formazione che vi si
doveva ricevere.
Coerentemente con i più recenti sviluppi autoritari della vita
politica e sociale italiana, per iniziativa del vescovo diocesano
Stefano Corbini, sostenuto da monsignor Giuseppe Botti Veglia
e contrastato da Consalvo Battenti, Angelo Lanna, Dino Tomassini, l’Istituto stette per essere ceduto "perennemente" alla
direzione dei padri de "La Salette", che avevano fra i loro compiti quelli di educare la gioventù e di fondare un secondo seminario, oltre quello diocesano già esistente. Dietro a questa situa-
5
Cfr. G.B. NAITZA - G. PISU, I cattolici e la vita pubblica in Italia (1919- 1943),
Firenze 1977 (interessante anche la bibliografia), p. 88. Nei patti del 1931 si
stabilisce che «l' Azione Cattolica Italiana è essenzialmente diocesana, e dipende direttamente dai Vescovi, i quali ne scelgono i dirigenti ecclesiastici e
laici. Non possono essere scelti a dirigenti coloro che appartennero a partiti
avversi al Regime...». A. RICCARDI, Il clerico-fascismo, in Storia del movimento
cattolico in Italia, Roma 1981, p. 259: «...la stretta dei freni sul laicato era la
Chiesa stessa a volerla».
6
Lo Statuto del San Carlo, che una volta doveva essere stato scritto, non
si trova citato negli studi, dai più lontani ai più vicini, della Cavalcanti (1978)
e del Cesarini (1988). Si suppone sia andato perduto; Adelio Fiore testimonia che se ne tramandava la memoria orale. Per colmare in parte tale lacuna
è utile leggere lo scritto di uno dei primi assistenti dell'Istituto, don Antonio
De Sanctis, in "Gazzetta di Foligno", 102 (1987),41, oltre a A. PAGLIA, Storia e
scopo dell'Istituto San Carlo di Foligno, cit.
25
zione c’ erano certamente grandi problemi che non vanno sottovalutati, ma...
In effetti la storia del "San Carlo" risentiva d’incertezze, contrasti, condizionamenti. Lo danno a intendere la speranza e l’attesa d’un insediamento di qualche ordine religioso salesiano o
marista o de "La Salette" nell’Istituto (appartenuto in antico regime ai padri Bamabiti); la volontà di aprirlo a qualche associazione giovanile che facesse presa sui giovani, come la "Nova Juventus" e l’ Azione cattolica; la non sottovalutabile ristrettezza di
mezzi finanziari; e — non meno importante — la non facile reperibilità d’un prete (e non di uno solo), d’un "assistente" ecclesiastico in grado di far fronte alle esigenze di giovani consapevoli e
capaci (così giudicati autorevolmente). Sembra divenisse un oggetto di odio amore; nel momento in cui pericolosamente appariva anomala, l’istituzione non trovava il sostegno compatto del
clero, lacerato dai contrasti, e neppure quello del vescovo7.
Assistente-direttore del "San Carlo" negli anni 1936-39 fu
don Manlio Remoli; presidente dei giovani cattolici del "San
Carlo" fu nominato Adelio Fiore alla presenza d’una cinquantina di "sancarlisti" riuniti nella sala grande del piano terreno.
La trattativa con i padri Salettiani si svolse nell’anno 1938-39.
Di tale operazione non se ne parlò o se ne parlò in modo molto oscuro ai giovani; si reputava fuori luogo chiedere il loro
consenso. Era duro dover sopportare tale autoritarismo in
guanti di velluto nelle associazioni cattoliche!
Le prime apparizioni in "San Carlo" del padre salettiano
Francesco Molinari fra il gennaio e il marzo del 1940 non passarono inosservate, pur non sorprendendo, essendo persona
conosciuta dai "sancarlisti" che frequentavano "La Salette" in
Salmata di Nocera Umbra per incontri, ritiri, convegni vari. Fin-
7
Il padre Francesco Molinari e il geometra Adelio Fiore, presente monsignor Odorisio Capoccia, s'incontrarono il 21 luglio 1988 nell'Istituto di Salmata (Nocera Umbra). Da padre Molinari è venuta la notizia della spaccatura determinatasi all'interno del clero folignate in merito alla destinazione
del "San Carlo". È certo che il Vescovo voleva consegnarlo ai padri de "La
Salette".
26
ché esplose durissima la reazione dei giovani chiamati alle
maggiori responsabilità. Racconta Adelio:
— Dicevo ad Antero Cantarelli, che era un deciso oppositore, perché non fai tu il presidente? e lui mi rispondeva con una
battuta: faccio il membro aggiunto! Così ci trovammo insieme
al "San Carlo" per un colloquio da noi richiesto col padre Molinari, il quale sentendosi violentemente respinto si mise a piangere e se ne andò. Questa è una pagina nera della mia vita di
"sancarlista" che non vorrei mai ricordare... poiché il fatto nei
confronti della dedizione dei giovani laici assunse il carattere
d’una grave ingiustizia. Il progetto comunque si arenò.
Ma non terminarono gli effetti spiacevoli e deludenti, se non
anche devastanti, prodotti da un sistema autoritario, così poco
consono ai bisogni della vita spirituale, ricaduti su alcuni "sancarlisti" più anziani, che trovano chiarissimo riscontro nella testimonianza autorevole d’un futuro assistente don Odorisio
Capoccia, di cui riferiremo.
La bandiera tricolore imposta dagli accordi del 1931 si presenta nelle foto commemorative del 1937 con la bella coccarda
e con i due nastri discendenti dove s’intuisce l’avvenuta fusione della Associazione San Carlo con la Gioventù maschile di
Azione cattolica di Foligno. Ciò non significava aprire l’ opera
del "San Carlo" a sviluppi nella direzione originaria, ma ingabbiarla. Infatti avvenimento devastante fu quello dell’inserimento dei "sancarlisti" nelle varie parrocchie cittadine e periferiche
con la conseguente dispersione dei soci e l’imposizione d’una
dimensione socioculturale non appropriata rispetto a quella
comunitaria comprensiva dell’intero territorio folignate. Si trattava d’un infelice ridimensionamento o, se si vuole, sconvolgimento. I parroci in gara s’immedesimarono nelle direttive gerarchiche dell’Azione cattolica italiana: da una parte massima
uniformità culminata nell’introduzione del "Tema comune" nazionale per tutte le branche della organizzazione; dall’altra,
estrema capillarità parrocchiale nelle località più sperdute. In
previsione delle difficoltà che il regime fascista avrebbe potuto incontrare, il Vaticano pare rafforzasse il regime confessionale, seguendo gli stessi moduli concepiti dal dittatore, contando
27
anche su una possibile "utilizzazione" dei due milioni e mezzo
di iscritte e iscritti all’Azione cattolica8.
— Da questa direttiva mi volevo dissociare — spiega Adelio
—, ma fui tanto pregato dal padre Luigi Fratini di assumere nel
1940 la presidenza della gioventù maschile dell’Azione cattolica
nella parrocchia di San Francesco, e qui ebbi la possibilità di
stringere più profondamente l’amicizia con Stefano Ponti, delegato degli aspiranti. Di lui ho avuto sempre una grande stima.
Il "San Carlo" ormai veniva frequentato solo dai più grandi.
I piccoli erano stati dirottati nelle parrocchie. Ma anche noi anziani partimmo ben presto chiamati al servizio di leva. Dopo
tale dura prova l’Istituto non ritrovò più la primitiva carica se
non nel momento, tragico ed esaltante insieme, che vedrà noi
"sancarlisti" nuovamente uniti metterci alla testa della Resistenza armata, che non nasceva all’improvviso. Per ora si era alla
riflessione critica, che s’estendeva via via a tutto l’esistente!
Ed ecco i tratti salienti della testimonianza appassionata e
critica di monsignor Capoccia:
8
Dell' Azione cattolica in questi anni era presidente Luigi Gedda. Cfr.
R.A. WEBSTER, La croce e i fasci. Cattolici e Fascismo in Italia, Milano 1964, p.
155: esisteva da parte del fascismo il «ben fondato timore che i cattolici potessero prepararsi a lanciare un risorto Partito popolare quando il regime
cominciasse a vacillare». L'esercito degli iscritti all'Azione cattolica (2.500.000),
specie quello della gioventù maschile, poteva prestarsi a qualche pericolosa
"utilizzazione". Da una lettera dell'agosto 1943 del presidente L. Gedda si
apprende che egli intendeva offrire l'Azione cattolica al servizio del governo Badoglio per amore di patria: cfr. T. SALA, Un'offerta di collaborazione dell'
Azione Cattolica Italiana al governo Badoglio (agosto 1943), in "Rivista di Storia
Contemporanea", 1972, 4, pp. 517- 533. Circa i timori di Mussolini, G. DE
ANTONELLIS, Storia dell'Azione Cattolica, Milano 1987, cita il diario di Galeazzo
Ciano del 1° gennaio 1939 (p. 197); inoltre precisa che la proposta di Gedda
a Badoglio di servirsi dell'apparato cattolico, per ricostruire gli organismi
sociali intermedi prima occupati dai fascisti, fu presentata a nome dell'intera Azione cattolica, ma di fatto era una iniziativa personale del presidente
(p. 206). R. Moro, Azione cattolica, clero e laicato di fronte al fascismo, in Storia
del movimento cattolico in Italia, cit., pp. 335-345, sottolinea che la «crisi del '38
per l'Azione Cattolica fu al limite ancora più grave e decisiva di quella del
'31» per le tensioni tra fascismo e chiesa provocate dal disputato ruolo egemonico educativo.
28
[...] alcuni responsabili vollero portare l’ Azione cattolica sul piano molto molto parrocchiale; forse non si capì bene la situazione, secon- do me [...] A San Carlo c’era un prete apposta per i giovani, e
poteva far meglio che stando in parrocchia; questo non s’è voluto capire; anche i religiosi non erano adatti a San Carlo, con tutto il rispetto
per i religiosi, perché essi sono soggetti a un avvicendamento e questo non dà continuità al lavoro [...] Non è che a San Carlo eravamo
sganciati dalle parrocchie [...] Però non si doveva arrivare allo smembramento del San Carlo, la burocratizzazione mediante il Centro diocesano [...] San Carlo non poteva ridursi a un Centro diocesano! [...]
Una delle accuse che facevano i giovani di allora era questa: voi preti strumentalizzate il San Carlo, perchévi ci fanno stare o ci state finché vi fa comodo, poi ve ne andate9.
Fra impegno religioso e rifiuto del regime
Sempre più fortemente s’affermava in Adelio il proposito di
stringere l’ideale religioso all’esercizio della libertà, affinché né
l’uno, né l’altra fossero sacrificati nel cammino della sua giovane vita. Ma la ricerca di questo equilibrio era ordinariamente
negata.
Altre forme di autoritarismo ricadevano sui giovani obbligati fra i sedici-vent’anni a frequentare i corsi dell’istruzione premilitare, molto apprezzati dal fascismo e delegati alla Milizia volontaria della sicurezza nazionale. Uno di questi gerarchi istruttori trovava il modo di schiaffare in galera una decina di giovani, senza darsi la pena d’individuare il colpevole, che lo aveva
offeso riproducendo irriverentemente un suo tic che si diceva
volgarmente: arrotare i denti. Furono rinchiusi, all’insaputa delle
famiglie e liberati a notte inoltrata, nel palazzo Fongoli in via
9
R. SCHOEN -D. CESARINI, Fonti orali per la recente storia politica e religiosa dei
cattolici, cit., pp. 363-368. Don Odorisio Capoccia fu in San Carlo dal 1941 al
'45 in un periodo tanto difficile per i giovani allora in guerra e nella Resistenza e per le sorti dell'Istituto stesso. Mantenne i contatti con i giovani
partigiani, stampando fogli ciclostilati a Belfiore dove era sfollato, avvalendosi della collaborazione del "sancarlista" Nestore Lanzi.
29
Santa Margherita, che funzionava allora come sede della milizia
volontaria fascista, formata generalmente da squadristi. Tra i dieci c’ era Adelio. Si sa che le prepotenze sono causa di profonde
ribellioni e in specie il carcere ingiusto. Ne seguirono le naturali
reazioni di non frequentare i corsi della premilitare, le manifestazioni, le adunate, il sabato fascista, di rifiutare la divisa.
Avvenimenti non trascurabili, lasciarono i loro segni, che aggiunti agli altri costituirono i motivi per cui s’ affacciarono prepotentemente alla mente di Adelio finalmente gli interrogativi propriamente politici cui non sapeva da solo rispondere con compiutezza. Non aveva confidenza con gli studi di carattere storico
letterario filosofico, come non era d’altronde vittima dei pesanti
condizionamenti operati dalla scuola, solerte organizzatrice del
"consenso" e che non permetteva alcun accesso alla cultura democratica. Né si poteva tranquillamente intavolare quel discorso con una persona qualsiasi, tanto era pericoloso. Quasi sempre
di fronte ad ogni argomento spinoso i genitori tacevano. Aveva
capito bene che c’ era da stare zitti, poiché si buscava anche il
carcere. La "cosa" lo aveva insospettito e incuriosito fin da ragazzino e non riusciva a vivere tranquillo se non fosse riuscito a capirla: chi erano propriamente i fascisti? che volevano? Andava in
cerca di qualcuno che glielo spiegasse proprio bene.
Dai quindici anni in poi aveva preso a intrattenere colloqui
riservati con il rettore del seminario, Angelo Lanna, e volendo
capire bene le "cose" che stavano accadendo fuori del suo piccolo mondo, osò parlare dell’argomento proibito. Dal confronto con il sacerdote le sue intuizioni uscirono confermate e chiariti i punti oscuri, prendendo forma esattamente il concetto di
dittatura e unitamente la necessità per un seguace di Cristo di
rifiutarla e condannarla in tutte le sue forme. Sognò di espatriare segretamente per andare a combattere in Spagna contro i fascisti... Sentì parlare vagamente dell’esistenza del Partito popolare dallo stesso Lanna, quando per il discorso ufficiale
d’inaugurazione della bandiera (1937) al "San Carlo" fu invitato l’avvocato Mario Cingolani ex deputato al parlamento per
quel disciolto partito. Ricorda che molta gente si recò al teatro
"San Carlo" in quella occasione, che non vi poté essere contenuta. La direzione del "San Carlo" temendo incidenti aveva predi-
30
sposto un piano di fuga per l’oratore. Ma nello stesso "San Carlo" in quegli anni si parlò con riserbo e rispetto anche dei massoni, come i Bertoni e i Buccioli perseguitati dal fascismo, della compattezza e solidarietà della loro organizzazione; si conosceva la pratica del soccorso alle famiglie dei "fratelli" in necessità; figli di massoni, di socialisti, di anarchici, non solo i figli
dei popolari frequentavano il "San Carlo" e si frequentavano tra
di loro. Non mancava il figlio dello squadrista, della camicia
nera, ma questa eccezione era dopotutto più che normale. Tale
mescolanza di estrazione politica si spiegava con la religiosità
delle madri di questi giovani e con il senno dei padri che non auguravano ai loro figli di vivere nell’isolamento (in casi molto più
rari, ma non inesistenti, membri di famiglie ebree s’iscrivevano
al partito fascista). Ciò basta a dimostrare la rilevanza sociale che
ebbe il "San Carlo" in alcuni periodi della vita cittadina.
Le donne in carne e ossa e in quanto tali non ebbero spazi per
organizzarsi all’interno dell’Istituto e similmente scarsa considerazione trovò la cultura della donna. Piaceva il protagonismo della "propagandista" che viaggiava fra le varie diocesi italiane, dedita all’apostolato. Ma al "San Carlo" non si parlava di
preparazione al matrimonio, né di educazione sessuale; fino
alla seconda guerra mondiale venne osservata la prassi della
separazione dei sessi, che nella scuola pubblica secondaria era
stata scavalcata da molto tempo. Non si ha memoria dell’esistenza di "sacarliste"!
Si sa che al disimpegno politico, imposto dalla situazione,
corrispondeva la fioritura delle molteplici forme di attività caritative e interiori: la meditazione quotidiana, la visita ad anziani e ammalati (anche di tubercolosi). Le letture preferite di
Adelio furono il Libro di Angela da Foligno, che gli additava la
via della libertà francescana; la biografia di Pier Giorgio Frassati, modello di santità non sublime, ma umana; gli scritti di
don Bosco, con cui si confrontava per l’educazione dei più piccoli. Le barzellette "contro" erano l’unico sfogo possibile negli
anni neri dell’autoritarismo, di quel nero funereo che è assenza di luce e assorbe tutti i colori. Giunto alla piena giovinezza
nel desiderio della libertà, visse nel più completo distacco dal
regime; durante la guerra si tenne informato attraverso "Radio
31
Londra", che ebbe un’efficacia ineguagliabile sulle masse,
esempio positivo dell’immenso potere dei mezzi di comunicazione. Trovò lavoro alla Areonautica umbra Società anonima
Macchi in qualità d’impiegato dal 1937 al 1940 e s’impegnò nel
gioco del calcio con l’ Associazione sportiva del Foligno10. Dalle
gare non si tirò mai indietro, nelle difficoltà raddoppiava la sua
energia. Qualche concittadino di fronte a un giocatore tanto
deciso, specialmente contro gli avversari che volevano intimidirlo, chiedeva in giro: — Ma è lo stesso che la mattina va a farsi
la Comunione?
A Fausta sembra di poter concludere:
—Per il tuo carattere e il tuo orientamento c’erano bastanti
provocazioni e ferite a generare coraggio e ferme convinzioni
per abbracciare sino in fondo e con tutti i rischi la risoluzione di
ribellarti al sistema autoritario e dittatoriale diffuso in ogni ambiente. Dove ti trovasti al momento dell’armistizio?
— L’8 settembre 1943 mi trovai in divisa (e anche bella!),
come 1° aviere di governo, all’aeroporto di Foligno dove abbandonai il servizio militare iniziato a Palermo dal gennaio
194111. Non aderendo alla Repubblica sociale voluta da Mussolini, mio padre interruppe la sua attività di sottufficiale con la
perdita dello stipendio.
10
Adelio Fiore giocò nell'Associazione sportiva Foligno dall'anno 1934'35 (nel '31 nella squadra dei "pulcini") fino alla partenza per il servizio militare. Con I'Aviosicula a Palermo nel 1941 e '42; di nuovo a Foligno nella
pausa fra la Resistenza e la guerra di Liberazione giocò con la Polisportiva S.
Carlo, 1944 ("Gazzetta di Foligno", 103, 1988, 20 ). Con il Siracusa nel 194647, con il Prato nel 1947-48, con il Macerata nel 1948-49, quindi abbandonò
per dedicarsi alla libera professione di geometra.
11
Dal foglio di congedo illimitato: N. T. 359, Regia Aeronautica, comando
della 3° Z.A.T. Roma, Foglio di congedo illimitato per smobilitazione (dal 17
giugno 1944) si rilascia al I° aviere di governo" Adelio Fiore, Perugia, li 6
dicembre 1945; dal Foglio matricolare e caratteristico N. 4476 del Distretto
di Perugia, (conservato nell'Archivio di Stato di Spoleto) risultano i vari periodi delle operazioni di guerra a cui partecipò in territorio metropolitano
sino al 15.07.45.
32
Il tetto della cascina Radicosa distrutta dai nazisti e attualmente ricostruita. Prima sede del comando Brigata “Garibaldi” di
Foligno, a m. 830 sulle pendici del monte Brunette fra Cupoli (Foligno) e Ponze (Trevi).
Da "sancarlisti" a "garibaldini"
Non lasciamo fuggire questo breve momento quasi magico
per raccontare una storia che non è giusto debba morire con
noi. Sono le ferie estive del 1988, il termometro è fermo a trenta gradi. Il sole cocente costringe a una quasi completa immobilità tutta la natura e il silenzio del bosco invita alla massima
concentrazione. Abbiamo indugiato sin troppo a soddisfare
questo impegno e desiderio. Alla prima rinfrescata con mappe
binocolo macchina fotografica carta e penna e panini imbottiti
andremo sulle montagne intime a verificare il nostro racconto
nel contesto globale geografico, paesaggistico, antropologico e
a rivisitare tutti i luoghi come in un pellegrinaggio.
Finalmente mio marito mi racconta ordinatamente la storia
del battaglione Goffredo Mameli, di cui egli fece parte nella brigata Garibaldi di Foligno durante la Resistenza. La sua storia
partigiana confluirà nelle trecentomila storie di volontari combattenti e seicentomila internati e nelle infinite altre di persone
che favorirono con la morte e in vari modi concreti la Resistenza, dando origine alla prima Repubblica italiana nata nel 1946.
Il suo racconto comincerà da una celebre fotografia; non si parlerà di eroi o di santi anche se non mancarono i martiri, né solo
di fatti di primo piano o di azioni di guerra come in una storia
generale, ma di avvenimenti umanamente e soggettivamente
non trascurabili e forse anche validi ad arricchire il quadro generale pur sempre trattando dello specifico locale12; si conclu-
12
Per la storia della brigata Garibaldi di Foligno ricche di notizie particolari sono le pubblicazioni locali: Il contributo di Foligno nella lotta partigiana e
nella guerra di liberazione per il secondo Risorgimento d'Italia, a cura dell'Amministrazione comunale in occasione della consegna della Medaglia d'argento
al valor civile della città di Foligno, Foligno 18 giugno 1961; "Resistenza",
numero unico a cura del Comitato per le celebrazioni del ventennale della
Resistenza, Foligno giugno 1964; Speciale Resistenza, "Notizie del Comune di
Foligno", aprile 1974 (cfr. anche nota 18). Per le storie della Resistenza in
Umbria la raccolta più consistente di documenti è stata curata da S. Bovini,
L'Umbria nella Resistenza, Roma 1972, dove si trovano relazioni e documenti
vari, anonimi e non, sulla Resistenza nella zona di Foligno (voI. Il, pp. 251-296);
34
derà con le vicende della guerra di Liberazione, abbracciando
il periodo dal settembre 1943 al maggio 1945.
Fuori d’ogni retorica e d’ogni atmosfera commemorativa,
comincia il suo racconto con visibile disagio:
— La Resistenza, per i grandi ideali che racchiudeva, non ha
dato quel che speravamo. Tanti beneficiari e profittatori, usciti dalle cantine e dai pagliai, che oggi possiedono finanza, produzione, distribuzione, informazione, la ignorano di fatto; ruminatori di nuove ideologie, esperti di ogni questione e operatori di confusione tornarono senza troppi scrupoli ad esercitare un illimitato potere sulle istituzioni, sulla mente e la volontà della gente contrastando le conquiste essenziali al vivere civile e piegandola a nuove forme di oppressione.
Un simile bilancio fecero i vecchi patrioti ripensando alla Repubblica romana e alle delusioni registrate nell’Ottocento da
garibaldini e volontari del primo Risorgimento e pessimisticaal comandante A. Cantarelli sembra doversi attribuire la Relazione sull'attività svolta dalla brigata G. Garibaldi dal settembre 1943 al luglio 1944, poiché ne
circolò almeno una copia da lui firmata (pp. 262-272 ). Riguardo ai cattolici
del Circolo San Carlo e la brigata Garibaldi di Foligno, cfr., Politica e società
in Italia dal fascismo alla Resistenza. Problemi di storia nazionale e storia umbra, a
cura di G. Nenci, Bologna, 1978, in particolare F. FRASCARELLI, Contributo ad
uno studio sui cattolici umbri nella Resistenza, pp. 386-388 e note; A. MENCARELLI, Aspetti e figure dell'antifascismo cattolico umbro, in Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), cit., pp. 355-357 e G. CECCONELLI, Il contributo dei cattolici
folignati alla Resistenza, pp. 445-447. La Consulta Regionale per le celebrazioni del 30° della Liberazione pubblicò La dimensione donna nella Resistenza
umbra. Primi risultati di una ricerca condotta nella Provincia di Perugia, Perugia,
1975, con note bibliografiche. Cfr. anche Antifascismo e Resistenza nella Provincia di Perugia, un numero speciale di "Cittadino e provincia", V (1975), per
il "XXX della Resistenza e della Liberazione". In ambedue le pubblicazioni
vi sono pagine che interessano Foligno.
Sulla Resistenza in generale sono particolarmente utili i lavori di R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana (8 settembre 1943 -25 aprile 1945), Torino
1953 e di S. TRAMONTIN, I cattolici e la Resistenza, in Storia del movimento cattolico in Italia, IV, Roma 1981; in entrambi si trovano riferimenti alle vicende
dell'Umbria, ma non a quelle di Foligno. Anche dell'Umbria tratta R. BATTAGLIA, Un uomo, un partigiano, Firenze-Roma-Milano 1945. Per i partigiani jugoslavi che impressero un carattere duro alla guerriglia in Umbria, cfr. l'opuscolo Jugoslavi in Umbria (settembre 1943-giugno 1944), Perugia,1972.
35
mente si fermarono a considerare la sequenza di errori e di riscatti che accompagnano il cammino dell’umanità, dove le lezioni
della storia vanno ad accrescere la furbizia del potere e degli stessi dittatori. Quando la storia non sarà più così ripetitiva e devastante? Quando il realismo politico combacerà con l’utopia e si
potrà esclamare: "Giustizia e pace si sono baciate"? Forse in quest’epoca disincantata, minacciata dalle guerre etniche ricorrenti,
se non dalla bomba atomica, e dalla catastrofe ecologica?
In pochi casi la storia fu governata dall’intelligenza e dalla
saggezza, dall’amore o dal sano istinto: quella volta sì! L’evento
di cui ci occupiamo è fissato nella notissima foto di gruppo, riprodotta in ogni occasione celebrativa, pubblica e privata. In
cartolina o ingrandita, in cornice o senza, esposta o riposta, a
noi sempre presente come le immagini dei nostri cari, quella
dei primi "ribelli", partiti dalla città alla volta della montagna
del folignate, con i quali Adelio condivise le peripezie proprie
delle bande di guerriglieri di tante parti del mondo. È databile
ai primi di novembre del 1943; è già mancato infatti il loro compagno Franco Ciri vittima del primo scontro a fuoco con i fascisti di Foligno (26 ottobre). Chi erano? (vedi foto p. 39)
Da sinistra nell’ordine della foto li identifichiamo, cercando
di corredare la scheda13 con le notizie rinvenibili da documen-
13
L'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito e l' Archivio dell'Istituto per la Storia dell'Umbria contemporanea custodiscono i documenti
relativi alle formazioni partigiane. I nomi e i dati che riguardano i partigiani
che rientrano in questo studio risultano dagli atti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero per l'assistenza post-bellica. Commissione
Regionale, Riconoscimento Partigiani dell'Umbria, Perugia, 19-28 marzo 1946,
Allegato D, Fogli nn. 51-59. Alla brigata Garibaldi di Foligno sono intestati
nove fogli, che includono circa 650 nominativi dal numero d'ordine 2948 al
n. 3605.
La medesima Commissione Regionale redasse il documento Gradi riconosciuti ai partigiani della brigata Garibaldi di Foligno, 20 ottobre - 11 novembre
1946. È un solo foglio timbrato con i nomi di 78 combattenti cui furono conferiti dei gradi gerarchici.
Le notizie sui Decorati della Guerra di Liberazione. Morti e feriti si trovano in
Il contributo di Foligno nella lotta partigiana e nella guerra di liberazione per il
secondo Risorgimento d'Italia, cit. p.17.
36
ti o testimonianze, affinché chi vuole possa farsi una cognizione dei componenti mediante i dati anagrafici e socioculturali:
Enrico Cimarelli, Eugenio Cucciarelli, un montenegrino, Antonio Salcito, Mario Tardini, Antero Cantarelli, Mauro Antonini,
Socrate Mattoli, Spartaco Pattumi (riconosciuto dalla sorella
Ai volontari che appaiono nella foto scattata a Raticosa i documenti attribuiscono generalmente il massimo periodo di partecipazione alla regolare
attività della brigata Garibaldi di Foligno dal 22.9.1943 al 31.7.1944. Procedendo da sinistra verso destra di chi guarda la foto ne diamo qualche notizia.
Enrico Cimarelli, 1917, Foligno; arruolato 22.9.1943, tenente, intendente
di brigata. Eugenio Cucciarelli, 1920, Fossato di Vico, studente di scienze
economiche e commercio, sottotenente di fanteria; a. 22.9.1943, capitano,
comandante di zona. Antonio Salcito, 1887, Casalnuovo Monterotaro (FG),
tenente colonnello di fanteria; a. 30.9.1943, comandante di brigata, morto a
Mauthausen.Mario Tardini, 1917, Foligno, militare; a. 22.9.1943, tenente comandante di battaglione. Antero Cantarelli, 1917, Foligno, maestro, sottotenente di complemento di Fanteria; a. 22.9.1943, maggiore comandante di
brigata, ferito nel gennaio 1944 a Nocera Umbra e nel marzo 1945 a Casa
Zanarda (Ravenna), "sancarlista". Mauro Antonini, 1920, Foligno, civile; a.
22.9.1943, medico di brigata, già "sancarlista". Socrate Mattoli, 1922, Foligno, civile, studente d'ingegneria; a. 22.9.1943, addetto alla radio della brigata. Spartaco Pattumi, 1924, La Spezia, militare, a. 1.10.1943. Asiago Cerretti, 1918, Foligno, militare; a. 1.10.1943, sottotenente comandante Distaccamento. Fausto Franceschini, 1924, Foligno, studente di giurisprudenza,
militare; a. 22.9.1943, maggiore, vicecomandante di brigata, già "sancarlista". Adelio Fiore, 1920, Foligno, giocatore di calcio, militare; a. 22.9.1943,
tenente, commissario politico di battaglione, "sancarlista". Giacinto Cecconelli, 1919, Manzano (UD), studente di giuri- sprudenza, sottotenente di
Fanteria; a. 22.9.1943, maggiore, comandante di battaglione e di zona, vice
comandante di brigata, "sancarlista".
Dal documento di Riconoscimento Partigiani dell'Umbria apprendiamo che
al 22.9.1943 sono attivi, ciascuno ovviamente con la sua storia personale,
altri volontari combattenti o civili e ne diamo notizia per fornire il quadro,
sia pure incompleto, della iniziale consistenza numerica della storica Brigata.
Francesco Castellani, comandante di distaccamento. Zeffirino Cerquiglini, militare. Ciro Ciri e Olga Caputo Ciri, membri del Comitato di liberazione nazionale (genitori del primo caduto). Piero Donati, civile, commissario
politico di battaglione. Luciano Formica, civile, comandante battaglione.
Marcello Formica, civile, comandante battaglione, ferito il 16.10.1943. Mario
Franceschini, militare. Franco Lupidi, militare, comandante battaglione, fe-
37
Alberta), Asiago Cerretti, Fausto Franceschini, un montenegrino, Adelio Fiore (avanti). Non si vede Giacinto Cecconelli che,
se ben ricordo, sta fotografando.
Si radunarono e rifugiarono nella casa o cascina Raticosa (m.
830 di altitudine)14 detta brevemente Raticosa, isolata e circondata dal bosco, allora semidistrutta, poi distrutta dai tedeschi
e oggi riedificata. Sulla destra della foto si scorge il pozzo d’acqua non potabile, utilissimo per lavarsi. Il paesaggio presenta
l’inconfondibile immagine autunnale con gli alberi spogli. I "ribelli" indossano indumenti conformi alla stagione piuttosto rigida. Adelio ricorda che quel giorno tirava un forte vento di tramontana.
Situata nel territorio di Trevi non lontana dal paesino di Ponze, Raticosa si trova in linea d’aria pressappoco a un chilo-
rito i1 26.10.1943. Balilla Morlupo, commissario politico di brigata. Quinto
Santarelli, militare. Mario Tardini, militare, comandante distaccamento. Otello Tardini, civile, comandante di squadra. Orlando Tardini, militare. Bernardo Toni, civile, comandante di squadra. Franco Ciri, militare, comandante di battaglione, morto in combattimento a Foligno (26.10.1943). Angelo Morlupo, assassinato a Pieve Torina (19.2.1944). Enrico Mascioli, militare,
commissario politico battaglione, morto a monte Cavallo (2.5.1944).
Poche decine di persone prima della fine del settembre 1943 avevano organizzato la "Garibaldi" di Foligno, che in seguito ottenne l'adesione di circa
650 combattenti e civili (Riconoscimento partigiani, cit.).
14
I dati geografici contenuti nella narrazione sono tratti dai fogli,della
Carta d'Italia, Serie M 891, Edizione 1-IGMI, scala di 1: 25000. Per "C. Raticosa", prima sede del comando della brigata Caribaldi, vedi foglio 131, Foligno, l, Nord-Ovest, coordinate geografiche 20-56. Le altre località dell'Umbria menzionate sono contenute nei seguenti fogli: foglio 131, Casenove, l,
Nord-Est con Roccafranca seconda sede del comando della brigata Garibaldi, coordinate geografiche 31-57; foglio 123, Colfiorito, II, Sud-Est con Mosciano sede del comando del battaglione Mameli, coordinate geografiche
24-72; foglio 124, Pieve Torina, III, Sud-Ovest; foglio 124, Camerino, III, NordOvest; foglio 123, Nocera Umbra, II, Nord-Ovest; foglio 123, Valtopina, II,
Sud-Ovest; foglio 123, Assisi, III, Sud-Est; foglio 131, Spello, IV , Nord-Est;
foglio 131, Collemancio, IV , Nord-Ovest con Castelbuono seconda sede del
Battaglione "G. Mameli", coordinate geografiche 00-59. A queste località andrebbe aggiunta la segnalazione delle località della Romagna dove combatterono gli uomini dell'ex battaglione Mameli nell'ultima fase della guerra di
Liberazione, ma non è stato facile reperire quei Fogli della Carta d'Italia.
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Alcuni fra i primi “ribelli” della futura Brigata “G. Garibaldi” in sosta presso la cascina Radicosa
metro da Civitella, Cupoli, Vallupo, antiche città e antichi villaggi montani del territorio a est-sud-est di Foligno, arroccati
con estrema grazia e naturalezza sulle pendici del Monte Brunette (alt. m. 1408). Dall’alto del lungo dosso maestoso il monte li domina. Proteggeva chi doveva fuggire in caso di pericolo dalle valli attraverso gli infiniti recessi per guadagnare il versante opposto. Per tale ragione Raticosa fu ritenuta sicura. Infatti era raggiungibile da un unico sentiero non rotabile che la
collegava con Ponze, l’altro accesso da Cupoli era difficilmente abbordabile data la posizione scoscesa del paesino racchiuso tra balze e rupi in una cintura di monti boscosi. Le comunicazioni in questa zona erano allora costituite unicamente dalle
mulattiere, difficilmente percorribili, solo in qualche tratto da
un carro a due ruote; e questo fu un ulteriore elemento di relativa sicurezza per organizzare la Resistenza.
Domando:
— Qual era il senso dato alla ribellione da voi giovani che
rappresentavate il seme della futura brigata Garibaldi di Foligno? Poteva trovarsi nell’appartenenza a qualche partito clandestino antifascista, nel sentimento patriottico nazionale, nelle rivendicazioni di libertà e di giustizia?
Cerco di trovare la chiave del discorso, ma Adelio mi risponde:
— Lo valuterai poco alla volta, lo verificherai nei fatti, sul terreno concreto della vicenda in continuo svolgimento.
Possiamo dire per ora che era maturato, attraverso le situazioni e i pensieri più diversi, il gesto necessario di rivolta; che
i giovani folignati convenuti a Raticosa si apprestavano a divenire il braccio armato della Resistenza e a combattere nientemeno che l’esercito del più vasto impero formatosi in Europa dai
tempi di Roma, degli zar, di Carlomagno e di Napoleone; che
provenivano da famiglie di piccoli borghesi e operai, non fra le
più note per il passato antifascista o per l’opposizione clandestina, ma neppure compromesse con il regime se non eccezionalmente, anzi con qualche episodio vissuto di violenze fasciste nel proprio archivio domestico. Alcuni di loro erano "sancarlisti": cattolici osservanti organizzati nell’Istituto San Carlo
e nella Gioventù maschile di Azione cattolica e quindi in stretto rapporto con il clero diocesano. Erano esperti delle dinami-
40
"Ribelli"! fu il nome di origine! a prima vista non troppo rassicurante [...] Di ingiustizie, di prepotenze, di sopraffazioni era ormai così
alto il cumulo nella vita privata e sociale che si può dire era degenerato in un’ordinaria e normale forma di governo [...] Ed i giovani si
fecero avanti[...] e gridarono: Ribelliamoci! Ribelliamoci contro ogni
forma di paura, di ipocrisia, di servilismo [...]17
Era dunque una rivolta in primo luogo d’ordine morale,
chiara premessa della loro lotta partigiana, e a questo punto pare
importantissimo sapere quando come perché la brigata prese il
nome di Giuseppe Garibaldi. Fu una scelta meditata sicuramente; non fu per semplice assonanza o imitazione di quanto era
nell’aria? o per affinità con le brigate comuniste che portavano
questo nome? Pensando di trovarci di fronte a un fatto interessante e forse anomalo rispetto al quadro generale delle varie formazioni partigiane, vogliamo procedere con il massimo d’informazione e decidiamo d’interpellare lo stesso comandante della
Brigata, l’amico Antero Cantarelli, che gentilmente risponde:
— Prendemmo il nome di Garibaldi al primo impatto con la
montagna, a Raticosa. Eravamo quelli che la foto ha immortalato, che nei documenti ufficiali risultano arruolati sin dal 22
settembre del 1943. II suggerimento venne dal tenente colonnello di Fanteria, Antonio Salcito, che ci aveva raggiunto il 30
dello stesso mese, e ne sapeva più di noi! Nel ricordo di Garibaldi, con l’ amor di patria trovammo maggior coraggio e maggiore dedizione che in altissimo grado accorrevano per liberare il nostro paese dalla oppressione, e ci rendemmo conto che
stavamo dando inizio al secondo Risorgimento. Tutti fummo
17
L. FAVERI, Comitato pro patrioti brigata Garibaldi. Commemorazione dei Caduti, Foligno, 6 agosto 1944 (opuscolo), pp. 1-2. Cfr. anche G. CECCONELLI, Il
contributo dei cattolici folignati alla Resistenza in Cattolici e fascisti in Umbria
(1922-1945), cit., p. 446: «... dopo 1'8 settembre 1943, non ci sono state perplessità: I giovani del San Carlo si sono schierati contro la Repubblica Sociale (almeno idealmente, n.d.a.). Nello stesso mese di settembre qualche piccolo gruppo di giovani ha preso la via della montagna; erano iniziative autonome».
42
d’accordo nel chiamarci "garibaldini", senza subire alcuna influenza e interferenza esterna, ma autonomamente.
Il comandante Cantarelli asserisce che al momento della formazione della futura brigata Giuseppe Garibaldi18 non ebbe contatti con alcuna autorità in campo politico; non ricercò e non ricevette alcuna direttiva da parte di qualche partito; ebbe un colloquio con il vescovo di Foligno, presente monsignor Luigi Faveri, durante il quale espresse il proposito e la decisione d’inserirsi da protagonista e come cattolico nel vivo della Resistenza.
Alla rivolta morale si congiunse il sentimento patriottico:
profonda più che non si creda nell’animo della gioventù era
l’impronta della scuola, dove non si parlava della guerra civile spagnola, ma dei moti carbonari e mazziniani, delle bande
garibaldine, delle insurrezioni popolari delle città italiane contro l’oppressione straniera; attraverso i ricordi tramandati dai
nonni e gli insegnamenti assimilati durante il servizio militare,
non era difficile per un italiano, che l’avesse voluto, entrare
nella comprensione e nello spirito della Resistenza come di un
secondo Risorgimento.
In maniera altrettanto autonoma, cioè in base al consenso
espresso unanimente dai primi partigiani presenti a Raticosa,
furono nominati il primo e il secondo comandante, che subentrò a breve distanza di tempo. Il Cantarelli sottotenente di complemento era stato subito indicato quale comandante dai compagni che gli riconoscevano tutte le qualità necessarie e l’esperienza. Era figlio di Giulio, macchinista delle ferrovie dello Stato, a suo tempo dai fascisti bastonato e avvertito con colpi intimidatori di rivoltella nella via P. Benaducci del centro di Foligno. Il nonno Gioacchino aveva partecipato come garibaldino
18
Per la brigata Garibaldi di Foligno cfr ."Comando raggruppamenti bande partigiane Italia Centrale", Attività delle bande. Settembre 1943-luglio 1944,
a cura del colonnello E. De Michelis, Roma 1945, p. 45; Raggruppamento "Gran
Sasso", pp. 71-73; Elenco caduti in combattimento, fucilati, dispersi e feriti, pp.
109-126 passim; Grafico dei collegamenti, Allegato N. 5; Grafico della situazione
al 10 maggio 1944 (inizio offensiva alleata), Allegato n. 9; Azioni compiute dalle
bande, Allegato n. 10 (5° foglio).
43
alla presa di Porta Pia. Nel 1941 chiamato a rinnovare la tessera fascista non volle farlo, dicendo:
— Non ha senso, porto le stellette!
Dal presidente nazionale Luigi Gedda fu proposto come presidente diocesano dell’Azione Cattolica e ciò può essere una
prova della non appartenenza del Cantarelli ad alcuna formazione partitica, essendo questa una precondizione posta dal
regime per il conferimento di un tale incarico da parte della
gerarchia ecclesiastica. Il generale Graziani con una lettera gli
chiese di aderire alla Repubblica sociale come ufficiale con la
promozione a capitano.
Aveva appreso i segreti della guerriglia durante la campagna
contro la Jugoslavia; dopo l’armistizio, avventurosamente
combattendo contro i tedeschi e patteggiando con i partigiani,
cui cedette un grosso quantitativo di armi e vettovaglie, era riuscito a ritornare in Italia guidando con un maggiore e altri ufficiali migliaia di connazionali da Villa di Nevoso a Basovizza
fino a Trieste19. Giunse a Foligno prima fingendosi ferroviere in
servizio e poi bisognoso di auto ambulanza. Però egli volle che
il comando della formazione garibaldina fosse preso dal colonnello Salcito, assumendo la funzione di vice. Ben presto gli dovette subentrare perché il colonnello fu catturato il primo di
dicembre nel villaggio di Roviglieto dove si era recato per rivedere la famiglia che era lì sfollata da Foligno per sfuggire ai
bombardamenti. Il poveretto morì in campo di concentramento a Mauthausen e una simile tragica sorte toccò anche a suo
figlio Vincenzo rastrellato e deportato con lui.
19
A. MENCARELLI, Aspetti e figure dell'antifascismo cattolico umbro, in Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), cit., p. 355: «Sui monti del folignate e nei
monti Martani operò la brigata Garibaldi. I cattolici del Circolo San Carlo vi
formarono la maggioranza dei quadri. Il comandante capitano Antero Cantarelli, già distintosi quale ufficiale di complemento per aver riportato in
Italia dalla Croazia migliaia di soldati sbandati e averli salvati dalla cattura
dei Tedeschi...»
Il colloquio con il comandante Cantarelli avvenne il 17.12.1988 nello studio del geometra Adelio Fiore a Foligno.
44
Le prime azioni della brigata Garibaldi
Nei giorni successivi all’armistizio per iniziativa dei tre amici
Cantarelli, Cecconelli, Fiore s’erano tenuti in "San Carlo" incontri con i giovani che si mostrarono sensibili e favorevoli al
progetto di organizzare la partenza per la montagna.
Il conflitto con i familiari fu naturale, e più che legittimo il
pianto delle madri, che fece desistere alcuni dal proposito.
Adelio lasciò ad altri il compito di soccorrere la propria in lacrime e capì che bisognava far tacere gli affetti, primi ad esser colpiti dalla logica della guerra. Imboccò la sua strada sapendo
d’andare a rischiare la pelle. Inaccettabile e inverosimile egli ritiene l’infelice abusata immagine di quel salire sui monti "quasi
per una avventurosa scampagnata20". Se non fossero stati gravi gli avvertimenti di morte che provenivano da tutta Europa,
specie dai bombardamenti, almeno a qualche seria riflessione
doveva indurre il pianto accorato delle madri! Altro che allegre
passeggiate e gustose merende!
I problemi che attanagliavano la mente di molti intellettuali
e politici di professione si presentarono anche a loro, ma non
produssero i noti attesismi o i meno noti opportunismi21. Accantonarono l’idea di privilegiare le attività caritative, proprie
dei seguaci di Cristo e anche molto necessarie, per il dilagare
della guerra, la penuria di generi di prima necessità, il numero
crescente degli sfollati; questo compito svolsero gli ordini religiosi salvando, com’è noto, tante vite. Si caratterizzarono invece come "sancarlisti" combattenti, decidendo in questo senso
subito dopo l’armistizio, senza portare odio nel cuore e senza
voler fare vendetta, come dimostrarono i loro comportamenti
in ogni occasione.
20
M. ARCAMONE, La brigata Garibaldi, in "Resistenza", cit. L 'autore riferisce
un giudizio molto diffuso, di cui non si conosce la fonte: avverso o favorevole ai "ribelli"?
21
«Vi furono in Italia – com'è naturale e come avveniva nel più delle Nazioni –quelli che stettero a vedere... che non si pronunciarono... che si rimpiattarono nelle cantine morali dell'attesismo e dell'opportunismo» (M. SALVADORI, Breve storia della Resistenza italiana, Firenze, 1974, p. 21).
45
L’assistente del "San Carlo" consapevole della decisione, il
giovane don Odorisio Capoccia, al momento della partenza benedisse i suoi bravi e buoni amici, pronti a uscire fuori al momento giusto, sicuri che ne valeva la pena.
In montagna, a Raticosa, nel settembre del 1943 i "ribelli" folignati non erano molti, come s’è visto; nelle "retrovie" erano presenti e attivi uomini e donne del Comitato di liberazione nazionale, organizzato in clandestinità; ma bisognava aumentare il
numero degli uni e degli altri22. Non era giunto ancora il momento di fare piani strategici difensivi o offensivi; bisognava
affrontare i problemi di equipaggiamento e approvvigionamento, insomma i rifornimenti di viveri armi munizioni vestiario medicinali denari alloggi, bisognava occuparsi anche delle
relazioni con la popolazione locale a volte subito amica a volte
diffidente e timorosa a volte poco affidabile. Quella che stava
dalla parte dei "ribelli", dovendo scendere al piano per il mercato dei propri prodotti, legna e formaggio, si mostrò ben presto capace di assumere e riferire le informazioni utili sui movimenti delle truppe tedesche e delle squadre fasciste. Si distinse per l’efficacissima collaborazione Pietro Mattei23 di Cupoli
detto "maresciallo" dai partigiani e "pietruccella " dai compaesani, un cinquantenne che riusciva a coinvolgere e trascinare
gran parte della gente cercando di vincere ogni forma di diffidenza e di omertà; al suo ricordo è rimasto legato il sentimento di profonda riconoscenza dei partigiani. Ad una buona radio
trasmittente ricevente era addetto lo studente d’ingegneria Socrate Mattoli (detto Chicchio).
22
Cfr. S. BOVINI, L'Umbria nella Resistenza, cit., vol. I, p. 162: «Il movimento
partigiano dell'Italia centrale, compreso quello umbro, ha uno sviluppo precoce, che precede nel tempo quello di altre regioni settentrionali, che occuperanno in seguito un posto di primo piano». R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit., pp. 145-146, rispetto alle zone interessate dell'Italia centrale, osserva: «invece assai attive fin dal settembre sono l'Umbria e le Marche».
23
Pietro Mattei è attestato come partigiano: brigata Garibaldi di Foligno,
n. 3433 dal 1.10.1943 al 30.6.1944 (cfr. per le fonti nota n. 13).
46
Olio, pasta, zucchero, sale, medicinali, vino e sigarette venivano riforniti per la via di Ponze dal Comitato di liberazione
nazionale di Foligno, un primo "audace e fedelissimo nucleo di
volenterosi24” formato da Benedetto Pasquini presidente25,
monsignor Luigi Faveri, e da rappresentanti di tutti i partiti che
dal fascismo erano stati soppressi26. Per ogni partigiano occorreva l’opera di resistenti civili procacciatori di aiuti materiali e
di altrettanti generosi donatori, la collaborazione di numerose
staffette fra cui alcune donne. In proporzione dei combattenti
s’ingrossava l’esercito della Resistenza nelle "retrovie"; e vi erano dei quindicenni! I partigiani ricevevano talvolta la visita di
qualche esponente del Comitato di liberazione; in questi incontri si trattava dei piani di attacco e di difesa, e del reclutamento dei giovani. L ’intesa non mancò mai fra combattenti e civili
anche per la saggia convinzione del comandante Cantarelli di
doverla mantenere e consolidare a ogni costo; le varie posizio-
24
L. FAVERI, Comitato pro patrioti brigata Garibaldi. Commemorazione dei Caduti, cit., pp. 3-4.
25
Benedetto Pasquini (Foligno, 1889-1967) avvocato, di vasta cultura e
competenza amministrativa, rivestì il doppio ruolo di commissario prefettizio al Comune di Foligno all'epoca del federale e prefetto A. Rocchi e di
Presidente del Comitato di liberazione nazionale a Foligno, destreggiandosi
in un pericolosissimo doppio gioco per favorire i rifornimenti verso la montagna per i partigiani (cfr. F. FRASCARELLI, Contributo ad uno studio sui cattolici
umbri per la Resistenza, in Politica e società in Italia dal fascismo alla Resistenza,
cit., pp. 387-388).
26
I membri del Comitato di liberazione nazionale sono attestati nel documento Riconoscimento partigiani dell'Umbria (cit. n.13): n. 3049 Ciangaretti
Vincenzo, n. 3071 Ciro Ciri, n. 3072 Caputo Olga Ciri, n. 3102 Ferroni Ulderico, n. 3139 Innocenzi Vincenzo, n. 3206 Nicoletti Giulio, n. 3243 Passarelli
Pula Donato, n. 3248 Pasquini Benedetto (presidente), n. 3357 Faveri don
Luigi, n. 3362 Raponi Giuseppe, n. 3406 Innamorati Francesco, n. 3871 Palmieri Ottorino, n. 7090 Innamorati Ferdinando, ai quali si dovrebbero aggiungere Monti Edmondo (n. 3181) e Ercolani Decio (n. 3355). Membri del
Comitato di liberazione nazionale clandestino sono attestati Ciangaretti,
Caputo Ciri, Innocenzi, Nicoletti, Faveri; nel documento citato possono riscontrarsi omissioni come nel caso di Ferroni e di altri. Pertanto si rimanda
alle pubblicazioni locali citate nella nota 12 per il confronto.
47
ni ideologiche non avevano ancora preso il sopravvento e comunque prevalse lo spirito di tolleranza nella brigata Garibaldi. Per le bande partigiane operanti in Umbria non esistette
altro collegamento se non con i Comitati di liberazione clandestini e con i partiti che ne facevano parte. Una struttura militare gerarchica si costituì soltanto nella primavera del 1944 nel
nord d’Italia con un comando unico e se tardivamente poté
estendersi anche al centro lo fu in maniera tale che non se ne
percepì alcuna efficacia.
Il rifornimento della carne costituì inizialmente il problema
più grosso, cui lo stesso Comitato da solo non poteva provvedere; si trattava infatti di toccare interessi considerevoli di
cittadini che si sentivano estranei, quanto meno, alla situazione. L’ orientamento adottato fu quello di trattare con i proprietari di bestiame e di evitare le requisizioni o i colpi di mano che
invece si resero necessari. Siccome non si poteva continuare a
mangiare per troppo tempo soltanto minestrone o pasta asciutta, brodo di pecora o sangue di maiale (lavorazione che si faceva in ogni casa), quando andava bene un boccone di pecorino
e di affettato, in cambio generalmente di sale; quando andava
peggio qualche cornacchia, decisero per non gravare sulla popolazione meno abbiente di procacciarsi la carne operando un
grosso colpo di mano nella stalla e gli annessi recinti della tenuta detta il Casone sul piano di Colfiorito nel paese di Taverne
(m. 758 alt.), frazione di Serravalle del Chienti. I proprietari
Sordini avvertiti di quanto stava per accadere non denunciarono il fatto all’autorità competente se non altro per il timore di
eventuali rappresaglie. Di notte una ventina di partigiani s’impadronirono di alcuni capi di bestiame e, chi a cavallo chi a piedi per i sentieri coperti di ghiaccio, li guidarono a destinazione
nella zona di Vallupo e di Cancelli, curando di non andare mai
allo scoperto, non potendo tuttavia evitare gli attraversamenti
pericolosissimi della strada Val di Chienti, oggi statale 77, e di
altre strade minori. Le bestie furono tenute a brado e settimanalmente ne ammazzavano in genere una, che veniva macellata dai montanari esperti. Si sfamavano i partigiani ma anche la
popolazione anch’ essa bisognosa alla quale si consegnavano
sale e altri generi di prima necessità. Ogni volta che veniva of-
48
ferto ai partigiani un quantitativo di viveri il comandante rilasciava una dichiarazione ai proprietari con la quale avrebbero
potuto ottenere un indennizzo dal Comitato di liberazione nazionale che faceva fronte all’impegno. In seguito toccò al lanificio Tonti presso Rasiglia di essere costretto a fornire un considerevole quantitativo di tessuto di lana, che doveva essere
prelevato dai tedeschi e invece fu consegnato ai partigiani e alla
popolazione27. Da qui la famosa e sofferta nomea di "briganti".
A Taverne, dove si sono recati, Adelio e Fausta hanno avvicinato alcuni paesani intenti ad aggiustare il marciapiede avanti l’uscio di casa. Bisognava disporre l’animo a sentir dire tutto il male possibile dei partigiani senza tradirsi, pena l’insuccesso della nostra visita. Così c’informano che in più sortite i
partigiani presero dal Casone di Sordini 44 mucchette, 30 vacche grosse, 30 cavalli, un toro di dodici quintali per ucciderlo a
Dignano. Altri testimoni ricordano un rastrellamento dei tedeschi che trovarono sessantaquattro uomini a Colfiorito, ma nessuna arma e perciò non infierirono. Trovarono anche dodici
renitenti alla leva, li presero, li misero in divisa a Macerata, poi
li mandarono a Pesaro, di lì i prigionieri partivano per la Germania. Ma un bombardamento consentì loro una fuga fortunata e in sei giorni di marcia, 23-29 marzo 1944, ritornarono in
paese e s’imboscarono nei dintorni, tornando a casa di soppiatto per prendere i rifornimenti quando lo permetteva il lenzuolo che sventolava dalla finestra in segno di via libera. Nessuna
simpatia per i partigiani recepimmo in questo incontro a più di
quarant’anni dalla Resistenza. Taverne, ci dicono, era segnata
in "nero" sulla carta dei tedeschi e questo per noi era buon segno e motivo di tranquillità per tutto il paese. Infine si sfogano
27
[A. CANTARELLI], Relazione sull'attività svolta dalla brigata Garibaldi dal settembre 1943 al luglio 1944 in L'Umbria nella Resistenza, cit., II, pp. 464-465:
«generi alimentari sottratti alla vendita degli esercenti», «forte quantitativo
di stoffa militare e civile». La citata relazione risulta anonima, ma il comandante Cantarelli, firmandola la presentò alla Commissione regionale competente in una riunione cui parteciparono tutti i comandanti e lo stesso Filipponi della Gramsci di Terni. La stessa Relazione con il suo nome circolò fra
gli ex partigiani di Foligno.
49
parlando, o meglio sparlando, delle "nefandezze" compiute dai
partigiani che rubavano, della "cattiveria" di due montenegrini che taglieggiavano la gente e soprattutto di due "carogne":
Pasquale28 il romano evaso dal carcere di Regina Coeli, che fu
fucilato insieme al suo braccio forte presso il cimitero di Pieve
Torma, anche perché aveva ucciso il partigiano Angelo Morlupo della brigata Garibaldi, e ciò sembra accertato; e il suo complice, un tale che pare abitasse a Foligno nella via sotto l’orologio del palazzo del municipio, e non sappiamo se sia vero. Infatti non è la verità che si vuole stabilire con questi incontri con
la gente a più di quarant’anni, e con questi racconti. È interessante invece l’immagine che possono offrire della lotta partigiana persone che furono coinvolte dalla furia degli eventi, ma
rimanendone spettatori intenti solo a salvare la propria pelle.
Oltre ai gruppi di partigiani e di famiglie sfollate dalle città vicine, in montagna si rifugiava gente d’ogni specie: sbandati e
imboscati, ex prigionieri di guerra iugoslavi, russi, inglesi, greci, americani, scappati dal campo di Colfiorito, insieme a reduci, fascisti travestiti, doppiogiochisti, delinquenti comuni, squilibrati. Tutti cercavano di eclissarsi e mimetizzarsi: nell’andirivieni per monti e per valli in ogni sconosciuto poteva nascondersi un nemico, una spia. La gente, quella ospitale dei villaggi, pagava dovendo accogliere e sfamare individui di passaggio e finirà spesso per subire feroci rappresaglie dei tedeschi. I
partigiani potevano ancora accostarsi e mescolarsi alla popola-
28
I comandanti partigiani che operando in Umbria non trovano nelle varie storie una dimensione giusta si limitano a due soli nomi (M. SALVADORI,
Breve storia della Resistenza, cit.): il capitano Melis e il comunista Pasquale (p.
186 e p. 97), presentati come antagonisti (p. 26). Nella storia locale essi occupano un ruolo deludente. Il comandante Melis piuttosto misterioso, un ufficiale di Spoleto perseguitato dai fascisti che minacciavano la famiglia, risultò introvabile, nonostante l'aiuto e l'ospitalità di N. Lanzi, anche al partigiano Adelio Fiore che ebbe il compito di cercarlo nel territorio di Norcia per
organizzare con lui un incontro con la brigata Garibaldi di Foligno nel dicembre 1943. Il "comunista" Pasquale fu giustiziato dal tribunale di guerra
straordinario a Pieve Torina (cfr. Dalla Resistenza alla Liberazione. La brigata
Garibaldi, settembre 1943-luglio 1944, in Speciale Resistenza, cit.
50
zione. Il peggio doveva venire... Bisognò evitare di trovarsi in
gruppo allo scoperto, perché i tedeschi mandarono in ricognizione un velivolo insidioso, la "cicogna", dal quale potevano
fare fotografie che ingrandivano per identificare, con l’aiuto
delle spie, luoghi e persone frequentate dai partigiani: in questo modo, sorpreso dall’obbiettivo in compagnia di alcuni giovani armati, fu riconosciuto, arrestato il 3 febbraio 1944 il parroco di Casale e Cancelli, Pietro Arcangeli, con altri internato in
Germania da cui molti non tornarono. Morti e deportati sono
ricordati in una cappella votiva eretta sulla cadente Maestà di
Cancelli, meta dell’annuale celebrazione del 25 aprile29.
Era ora di scendere dai monti per compiere audaci colpi di
mano per il rifornimento delle armi. Il primo s’effettuò il 26 ottobre 1943 dentro la città di Foligno per prelevare armi depositate presso gli orti del floricultore Cerbini, durante il quale
perse la vita Franco Ciri30. Battesimo di sangue nel primo scontro con i fascisti di Foligno. Seguirono ricchi bottini prelevati
dalla Chiesa di Sant’Agostino (in via Garibaldi) trasformata in
magazzino fornitissimo d’ogni tipo d’indumenti militari italiani, scarpe zaini coperte vestiario. A guardia c’ erano i fascisti,
però attraverso uno spioncino collocato nell’abside un giovane
prete rettore del seminario, Venanzo Crisanti31, poteva control-
29
Cfr. P. ARCANGELI, Un prete galeotto, Foligno 1984. Don Pietro Arcangeli
non è attestato nell'elenco dei partigiani cit. nella nota 13, mentre risulta al n.
8 dell'elenco dei deportati redatto dal Comune di Foligno, in Il contributo di
Foligno nella lotta partigiana e nella guerra di Liberazione per il secondo Risorgimento d'Italia, cit., p. 14. Cfr. P. ARCANGELI, A Cancelli 30 anni fa, in "Salire XXX della Liberazione", p. 11: «... propongo (già dal 1965) di ricostruire la
cadente Maestà di Cancelli trasformandola in Cappella Votiva» con lapidi
commemorative dei morti e dei deportati, per un appuntamento annuale
lassù. Il progetto e la direzione dei lavori furono eseguiti gratuitamente dal
partigiano geometra Adelio Fiore. Il Comune di Foligno partecipò con il
lavoro delle sue maestranze.
30
Ciri Franco è attestato: brigata Garibaldi di Foligno, n. 3391, 22.9.1943,
26.10.1943, militare, comandante di Battaglione, morto in combattimento a
Foligno (fonte cit. nella nota 13).
31
Crisanti don Venanzo (Foligno 1916-1957) è attestato: brigata Garibaldi
di Foligno, n. 3588 (fonte cit. nella nota, 13).
51
lare la situazione in modo che il furto non venisse scoperto:
infatti una volta i partigiani dovettero scappare. Bisognava approfittare dell’ora del pranzo quando i guardiani chiudevano la
chiesa. Attraverso un cunicolo che dalla sacrestia immetteva in
un confessionale entravano i partigiani armati e scalzi (Cantarelli e Fiore); si caricavano sulle spalle moltissima roba e via nel
cunicolo e da questo nei locali adiacenti del seminario che avevano un’uscita secondaria quasi sconosciuta sulla via Nicolò
Alunno. Un fidatissimo carrettiere, "resistente" delle retrovie,
certo Cardinali32, sopra il suo carro tirato dal cavallo caricava la
refurtiva camuffata con arte e la portava a destinazione salendo a circa m. 800 sino a Ponze, dove il bottino si smistava a
dorso d’asino verso Raticosa, Cupoli, Cancelli, Civitella, Vallupo, dovunque esistesse un nucleo di partigiani della "Garibaldi". Le operazioni di equipaggiamento ripetute per sei o sette
volte andarono bene anche sotto la furia del primo bombardamento della città, 22 novembre 194333, che seminò gravi lutti e
rovine. Adelio trasportò varie salme all’obitorio e altri trassero
dalle macerie la statua lignea della Madonna "Patrona di Foligno" crollata con la omonima Chiesa della Madonna del Pianto vicinissima a quella di sant’ Agostino.
Si studiava il modo di recuperare le armi che i militari dopo
l’armistizio abbandonavano. Se ne ebbero informazioni dal
partigiano Antonio Pizzoni34 fornaio di Belfiore e in quel paesino pianeggiante, distante cinque chilometri circa da Foligno
e anche meno dal Sasso di Pale, scesero quattro partigiani, Bernardo Toni, Marcello Cerretti, Adelio Fiore, Bruno Serlupini,
sull’imbrunire di un tiepido giorno di novembre del 1943, passando per la frazione di Casale (m. 838 alt.) e per i sentieri più
riparati. Dovevano prendere sei fucili e munizioni depositati e
32
Il Cardinali non è attestato nell'elenco cit. alla nota 13.
Cfr. Il contributo di Foligno, cit.: Vittime delle incursioni aeree, 22 novembre 1943, totale 97 (p. 27); Danni per bombardamenti aerei, Incursioni aeree, n. 33
(p. 20).
34
Pizzoni Antonio è attestato: brigata Garibaldi di Foligno, n. 3221,
1.10.1943 -1.7.1944, militare, commissario politico di Battaglione (fonte cit.
nella nota 13).
33
52
nascosti da antifascisti belfioresi dentro una capanna sul fiume
Topino nei pressi di Scanzano località sulla linea ferroviaria Foligno-Ancona, sede d’un carnificio militare divenuto in tempo
di guerra fabbrica di maschere antigas35. Proprio in quella notte Adelio ricevette in dono un’arma preziosa da un alto esponente della Resistenza, membro del Comitato di liberazione, il
"sor" Fiore ovvero l’ex deputato socialista Ferdinando Innamorati, che sarà sindaco di Foligno liberata36. Volendo parlare con
il gruppetto di coraggiosi "garibaldini", si fece trovare sulla
strada e poi rientrando un attimo in casa ritornò con la sua pistola a tamburo e la mise nelle mani di Adelio:
— La tenevo nascosta — disse — aspettando la buona occasione. Questo mi pare il momento giusto per consegnarla a voi
che avete forza coraggio necessità di usarla, che in questo momento io non ho.
Alludeva alla sua età e ai suoi acciacchi. Fece con loro un vibrante discorso, basato sui principi di libertà giustizia e amor di
patria. Si abbracciarono commossi e furono subito inghiottiti
dal buio.
— Quel linguaggio politico nuovo per me, la passione di cui
era pervaso fino allora a me sconosciuta, mi rimasero scolpiti
nel cuore — afferma Adelio.
Il giorno successivo a quell’avvenimento in piccoli crocchi a
Belfiore si commentò il passaggio dei "ribelli" circonfuso di leggenda e ne fu testimone Fausta che vi si trovava sfollata ed ebbe
modo di riflettere con gli amici:
— Per racimolare sei moschetti i partigiani rischiavano la
vita scendendo nel grosso borgo di Vescia-Scanzano?
35
Cfr. "Resistenza", numero unico a cura del Comitato per le celebrazioni
del ventennale della Resistenza, 16-21 giugno 1964, La tregua, p.5. Si legge
nella foto di un lasciapassare rilasciato dal comando tedesco delle SS di Perugia il 21 maggio 1944 al capobanda Sandro: "fabbrica maschere contro i
gas di Vescia».
36
T. MARZIALI, Appunti storici sul movimento operaio nel folignate, Perugia
1975, p. 39, pp. 140-142; N. PROIETTI, Ferdinando Innamorati (Belfiore di Foligno
1877-1944) in "Bollettino storico della Città di Foligno", IX (1987), pp. 345359.
53
— Sì; la Resistenza si nutriva di granellini e si faceva strada
con piccole, piccolissime imprese, sempre rischiose e determinanti.
Nella stessa foto famosa si può osservare che i primi "ribelli" avevano in dotazione più fucili da caccia che moschetti.
Sembra incredibile: la Resistenza nei primi mesi del 1944 riuscirà a tenere impegnate intere divisioni tedesche nell’Italia centro-settentrionale distogliendole dall’obiettivo principale che
erano le armate alleate37.
Poiché le file dei "garibaldini" s’ingrossavano, essi studiarono i piani d’attacco alle caserme dei carabinieri e della milizia
volontaria fascista, dislocate in varie località dell’Umbria e delle Marche, sulle quali erano informati in tutti i dettagli utili al
successo dell’azione. Così il 13 dicembre 1943, consigliando gli
informatori le ore della sera come le più opportune per scongiurare complice il buio il sopraggiungere d’immediati rinforzi, avvenne l’assalto alla caserma dei carabinieri di Casenove
di Foligno (m. 572 alt.). Il paesino gode della sua posizione mediana tra le colline e le montagne del folignate, si assiepa lungo la statale 77 che l’attraversa per tutta la lunghezza; la caserma dei carabinieri è un’ampia costruzione regolare in vedetta
su di un’altura, allora sgombra da altre case. L’accerchiarono e
dopo aver aperto il fuoco intimarono la resa, che fu pronta.
Fecero prigionieri cinque uomini, che consegnarono armi e munizioni ai trenta partigiani. Tagliarono i fili del telefono e scapparono. I prigionieri furono condotti ad Acqua Santo Stefano,
altro villaggio a pochi chilometri da Raticosa; non fu quella tra
le più lunghe camminate (di circa un’ora e mezza soltanto), ma
37
"L'Italia e la Jugoslavia tenevano impegnate una cinquantina di divisioni tedesche e forze mercenarie considerevoli»: cfr. M. SALVADORI, Breve storia,
cit., p. 177. Anche D. MACK SMITH, Storia d'Italia, 1861-1958, Bari 1965, II, p.
774, che giudica abbastanza severamente, riconosce: "è certo che essi (i partigiani) sia da soli che in collaborazione con gli Alleati, tennero impegnate
nell'Italia del Nord parecchie divisioni tedesche, e le loro imprese furono
senza dubbio un fattore determinante nel restaurare il "morale degli italiani
e la loro fiducia in se stessi. Senza dubbio combatterono valorosamente e
con scarsi mezzi».
54
assai scomoda e faticosa. La segreta intenzione era di liberarli.
Servivano però le scarpe, le sbirciarono, erano belle, quasi nuove; e prima di rimandarli a casa se ne impadronirono consegnando le proprie ai carabinieri, talmente logore e sfascia- te
che qualcuno di loro dovette rimanere scalzo. Il giorno dopo
ebbero la bella sorpresa di vedere arrivare a Raticosa il vice brigadiere trentenne che chiese di essere arruolato.
Ma era solo l’inizio, le più grandi prove dovevano ancora
venire.
Il ferimento del comandante Antero Cantarelli
Arrivò il Natale del 1943 e la Messa di mezzanotte. Nella
chiesetta di Cupoli, eretta su di un terrapieno in mezzo a una
decina di case e di stalle come in un presepe, le due campanelle civettuole del campanile tacevano, i "ribelli" erano mescolati alla gente amica della valle per assistere al rito celebrato da
Angelo Lanna assistito dal parroco di Casale e Cancelli, Pietro
Arcangeli. Nelle posizioni ritenute più idonee all’avvistamento tempestivo del nemico, che in quei luoghi boscosi privi di rotabili poteva salire semmai solo a piedi e portando in braccio
armi e munizioni (cosa assai improbabile), avevano predisposto come di regola il turno delle sentinelle: esse nella notte potevano soprattutto ascoltare ed eventualmente segnalare rumori sospetti, poiché la guerriglia è senza confini ed espone a terribili sorprese. Nella omelia don Angelo affermò che compivano un dovere ed erano con la coscienza a posto coloro che
combattevano contro i soprusi e l’oppressione e per l’affermazione della libertà, anche se ciò comportava l’uso delle armi. E
i partigiani ricevettero il sacramento della Comunione quale salutare viatico.
Fu presto pieno inverno e freddissimo nel 1943-44; la permanenza di molta neve e gelo più che al nemico creò grandissime
difficoltà ai patrioti. Ormai per dormire bisognava usare le stalle e in specie le mangiatoie per resistere al gelo notturno e di
giorno quando si era bagnati cercare un focolare acceso, coin-
55
Il paesaggio di Cupoli, in alto e in basso con la chiesina e il campanile emergente, attualmente trasformato dagli
evidentissimi tagli delle rotabili, allora mulattiere protette dal bosco
volgendo ancor più la gente esposta alla rappresaglia tedesca.
Subito dopo Natale in una riunione tenuta a Raticosa il comando della brigata prese la decisione di operare un trasferimento
di tutta la formazione nel territorio delle Marche38, tenendo
conto delle informazioni ricevute, studiata bene la mappa e
definiti chiaramente gli obiettivi e le strategie. La pausa di riflessione servì ad elaborare una linea complessiva d’ azione che
fu portata avanti nei mesi di gennaio e di febbraio prevalentemente volta ad assalire le caserme per il prelievo di armi e
munizioni39, ma anche a portare sostegno e rinforzi a gruppetti ancora deboli di partigiani del maceratese e mettere il fermento della rivolta fra quelle popolazioni. Pertanto negli ultimi giorni dell’anno 1943 la Brigata attraversando le zone di
Seggio, Colfiorito, Taverne (m. 916, m. 758 alt.) si muoveva alla
volta di Serravalle del Chienti, Pieve Torina e Camerino per disarmarne le caserme simultaneamente.
A questa importante e complessa operazione contribuì
l’aggregazione d’una nuova forza rappresentata da un impavido gruppo di partigiani di Spello, già arruolati nella "Francesco
Innamorati" e già distintisi in azioni coraggiose, i quali erano
rimasti isolati da quando la brigata Francesco Innamorati si era
allontanata da Foligno, spostandosi a nord nella zona di monte Malbe in una grande ansa del Tevere fra Umbertide e Castel
del Piano40.
Era la sera del 31 dicembre 1943 e si metteva a nevicare. I partigiani s’accamparono parte a Taverne, parte a Dignano, parte
a Borgo di Dignano di Serravalle del Chienti. Colti dalla bufera dovettero sostare e furono ospitati nelle case, nei magazzini,
38
[A. CANTARELLI], Relazione sull'attività svolta dalla brigata Garibaldi, cit., in
L'Umbria nella Resistenza, cit., Il, p. 263.
39
Ibidem, pp. 263-264.
40
Le notizie sulla brigata Innamorati si ricavano dai documenti rilasciati
dal comandante D. Taba (Libero), dal commissario politico R. Tenerini e dal
Maggiore comandante G. Ciarelli. Cfr. L 'Umbria nella Resistenza cit., II, pp.
118-143. Il Ciarelli parla di un gruppo di partigiani di Spello che «data la
distanza che li separava dal comandante Taba, si fuse con la brigata Garibaldi di Foligno verso la fine di novembre del 1943» (pp.142-143).
57
nelle stalle. Nella notte fece tanta neve che al mattino bisognò
uscire di casa dalle finestre. Dignano, arrampicato sui novecento metri di altezza fuori della strada principale (SS. 77 della VaI
di Chienti), consente un’ampia veduta panoramica che abbraccia Taverne e il piano di Colfiorito fino alla cima del monte
Acuto; si vedeva bene che il tempo non prometteva nulla di
buono. Incerti se proseguire o no, si fermarono due giorni e poi
approfittando d’una schiarita decisero di riprendere la faticosa marcia, mentre la neve alta anche un metro e mezzo li obbligava ad abbandonare la mulattiera incisa profondamente fra i
monti e a camminare più in evidenza e più scomodamente sulle scarpate.
La "Garibaldi" s’era tanto incrementata che i sessanta partigiani giunti ormai a Massa Profoglio (m. 767 alt.) poterono suddividersi in tre gruppi; il più consistente doveva dirigersi su
Camerino, dove le due caserme di carabinieri e fascisti erano tenute dal numero più forte di circa quaranta uomini; gli altri due
gruppi partirono per Serravalle e Pieve Torina contemporaneamente41. Quelli che mossero su Camerino, dopo una sosta a
Morro, vi giunsero il 4 gennaio e disarmati i carabinieri riuscirono a farsi aprire la porta della caserma dai fascisti con un inganno, avendo per strada catturato un milite dei loro; lo usarono per piombare dentro all’improvviso, mentre il comandante Cantarelli intimava la resa dicendo:
—Siamo in tremila, abbiamo nelle mani la caserma dei carabinieri e il paese è circondato!
L’azione vittoriosa e molto violenta terminò con un’arringa
del comandante in piazza42.
Ritornando da questa impresa in una sosta a Dignano, Adelio Fiore incontrò il partigiano Markos, robusto e rude capita-
41
[A. CANTARELLI], Relazione sull'attività svolta dalla brigata Garibaldi, cit., in
L'Umbria nella Resistenza, cit., II, pp. 263-264.
42
Cfr. Episodi di guerra nel Camerinese. Resoconti dall'8 settembre 1943 al
luglio 1944, pubblicati da G. BOCCANERA, Camerino, pp. 11-16, e per l'attacco
alle caserme pp. 122-123. L'assalto a Camerino (dal diario di L. FORMICA) in
"Resistenza", Foligno 1964, numero unico, cit.
58
parte requisita da un comando tedesco, a Petrignano d’ Assisi.
Anch’egli munito di bicicletta e ferri chirurgici andò a curare il
partigiano, asportandogli denti spezzati e allentati e osso di
mandibola, dicendo che era necessario fare una lastra per un
intervento successivo; e non li tradì.
Allarmati per il grande movimento di tedeschi che si notava
nella cittadina di Spello, i "garibaldini" decisero di portare il
ferito al convento dei Cappuccini di Foligno; essendo fuori del
centro urbano dava maggiori garanzie di relativa tranquillità...
Per l’intervento Adelio fu consigliato di rivolgersi a un dentista di Perugia. Dovette procurarsi una lettera di presentazione
indirizzata da monsignor Luigi Faveri al vicario dell’arcivescovo di Perugia, e quindi accompagnò l’amico.
Ma come avvenivano tutti gli spostamenti e cosa si rischiava? Evidentemente la cattura.
Con il pensiero della cattura il partigiano viveva ininterrottamente, era molto più temuta della stessa morte per le sue conseguenze. In questa circostanza la scommessa da vincere, la vittoria da registrare doveva essere proprio quella della impossibile cattura. Per trasportare il ferito dalla montagna a Spello, da
Spello a Foligno, bisognò più volte transitare per le strade piene di mezzi militari dentro un furgone d’un trasportatore di
mestiere, il bravo Mario Lupparelli47 che generosamente si metteva a disposizione dei partigiani quando c’ era bisogno. Si
viaggiava disarmati e nascosti sotto le coperte. Così fecero i due
amici. Ma il tragitto Foligno-Perugia dovettero effettuarlo con
un’automobile privata, nientemeno, e senza poter far ricorso a
un assurdo travestimento.
Furono sistemati nei locali adiacenti alla cattedrale di Perugia dove stettero nascosti per alcuni giorni, quasi una settimana. Ma per i pasti dovettero frequentare il ristorante Altromondo (via Caporali), famoso per le sue sale chiamate "Inferno,
Purgatorio, Paradiso"; era in parte requisito dai tedeschi. Biso-
47
Il Lupparelli non è attestato nel documento citato alla nota 13. Negoziante di mobili, in seguito commendatore.
61
gnò in ogni modo acconciarsi all’ ambiente, sbarbarsi bene,
vestirsi con cura, sciarpa al volto del comandante per nascondere la ferita. Del ferimento del comandante della brigata già si
parlava in giro e il suo amico Fiore era conosciutissimo a Perugia quale giocatore di calcio... tanto da essere invitato dal giocatore perugino Guido Mazzetti a partecipare a una partita di
beneficenza contro una squadra tedesca!
Al dentista Fuso (che aveva lo studio in corso Vannucci, 87)
prudentemente si raccontò che la ferita era stata causata dalla
scheggia d’un bombardamento. Il radiologo Ugo Lupattelli socialista (che li ricevette nello studio di via delle Streghe, 15) constatò dalla lastra che si trattava d’una ferita d’arma da fuoco, capì
con chi aveva a che fare, non pretese una lira. Necessitava un
grosso intervento alla mandibola, altamente specializzato, da affrontare in piena guerra e nella più assoluta clandestinità.
In uno di quei giorni, trascorsi a Perugia, Antero e Adelio
notarono che nella sala del ristorante riservata ai tedeschi sedeva con loro il preside del Ginnasio di Foligno, Antonio Panfalone48. Poiché si diceva che fosse stato deportato in Germania,
i due partigiani mediante cenni gli fecero capire di volerlo incontrare. Eludendo e sfidando la stretta sorveglianza delle sentinelle e con la complicità di un cameriere riuscirono a entrare
nella camera d’albergo del prigioniero. Egli scrisse e consegnò
loro una lettera che fu recapitata all’amico e collega Guarrella,
preside dell’Istituto industriale di Foligno. La missione compiuta fu determinante per la liberazione del Panfalone, che mostrò riconoscenza per tutta la vita inviando da Genova ad Adelio messaggi e messaggeri. Se fosse stato un fascista preso per
48
Panfalone Antonio, catanese, è menzionato a proposito di denunce che
pervenivano alla Gestapo di Perugia, come nei casi del professor Apponi,
del giudice Aubert, del prefetto Notarianni, del professor Granata e di Rosi
e Basile (cfr. F. ROSI CAPPELLANI, Ricordi della macchia, in L'Umbria nella Resistenza cit., vol. II, p. 177). La Commissione permanente d'inchiesta della Provincia di Perugia al 20.3.1944. XXII lo definisce «tipica figura di traditore».
Firma il documento il Console Carlo Bozzi (Archivio di Stato di Perugia,
Prefettura, Archivio di Gabinetto, b. 38, fasc. 12-6).
62
do, era Balilla Morlupo gradito soprattutto ai partigiani comunisti e filocomunisti, che chiedevano e ottennero la nomina di
"un commissario politico per ogni formazione e un commissario generale del comando".
Maturava una svolta profonda nel movimento partigiano.
Non si trattava solo di divergenze di carattere strategico militare. Era l’ingresso ufficiale dei partiti a sostegno della lotta armata sollecitato soprattutto dagli aderenti o simpatizzanti del
Partito comunista, che svolgevano un’attiva propaganda. I verbali di tale riunione riflettono una forte tensione: si temeva che
l’evidenziarsi delle varie colorazioni partitiche andasse a corrodere il patto d’unità in vigore fino a quel momento tra le forze
partigiane. In realtà la crisi, che sicuramente ci fu, definita "crisi
di sviluppo", fece finalmente chiarezza sulle scelte partitiche che
stavano avvenendo; fu una svolta positiva in seno al movimento per la maturazione della coscienza politica, che apriva la strada alla futura democrazia pluralistica... tutt’altro che univoca in
quel momento. D’altro canto il principio d’un fronte unico delle
varie componenti partigiane contro il nemico comune, voluto
anche da Palmiro Togliatti, portava ottimi frutti sul piano operativo e urgeva nell’immediato. Le due esigenze si conciliarono.
Gli esiti innovativi della conferenza furono due:
[...] nuovo organico delle bande, divise in squadre autonome, le squadre divise a loro volta in piccoli gruppi di non più di cinque elementi, comandati da un capogruppo; gruppi snelli e mobilissimi per meglio colpire in più punti, in larghe zone e celermente sfuggire alla reazione nemica [...l;
inoltre
[...l su proposta del comandante... la nomina del commissario politico centrale sia demandata al Comitato cittadino, considerata l’importanza della mansione che detto commissario deve espletare50.
50
Ibidem, p. 257.
64
Mentre il comandante era soprattutto responsabile della organizzazione, dell’efficienza e dell’azione militare, il commissario politico curava i problemi umani, sociali, politici. Stretta
collaborazione e interdipendenza fra commissario e comandante, che erano pari grado. Al commissario, oltre al lavoro interno al reparto, spettava il compito del lavoro politico fra la
popolazione dove il reparto risiedeva, per cui doveva operare
con un contegno tale da assicurarsi la simpatia e l’appoggio
della popolazione51.
Spetta al commissario politico l’opera di tessitura unitaria, il
compito di chiarire, commentare e spiegare ogni avvenimento politico, di discutere con i propri uomini ogni aspetto della vita del distaccamento e di cercare assieme a loro le ragioni di eventuali deficienze
e i mezzi per eliminarle52.
Si creava quindi un nuovo organico per rispondere più efficacemente alle esigenze di carattere militare e politico. Migliore
controllo e rapidità delle azioni, maggiore facilità di vettovagliamento pesando meno indiscriminatamente sulle popolazioni, attenzione alle emergenze politiche, per evitare pericolose secessioni53, che potevano venire soltanto da minoranze vivaci (comunisti, unitamente a slavi e montenegrini, erano tra
queste, però sostenuti dalla più grossa organizzazione politica
51
S. FLAMIGNI-L. MARZOCCHI, Resistenza in Romagna. Antifascismo, partigiani
e popolo in provincia di Forlì, Milano 1969, p. 164.
52
R. BARAZZONI e U. GIGLIOLI, La liberazione dell'Emilia Romagna, Milano
1979, p. 13.
53
Dal verbale cit. nella nota 49 del Comitato federale (Comitato nazionale
di liberazione provinciale) si ricavano le seguenti notizie. 1) «La formazione
che si è separata è composta di trenta patrioti ("secessionisti"), quindici dei
quali sono slavi e montenegrini; essi hanno già nominato un loro commissario politico ed in una recente azione si sono impossessati di tutto il materiale
occorrente per il commissario (ciclostile, macchina da scrivere ecc.)». 2) La
secessione viene testualmente attribuita alla «formazione comunista», che
contesta «le tendenze all'attesismo dominanti nel Comitato stesso». Dunque
il patto di solidarietà tra le forze antifasciste era arduo a sostenersi, ma comunque reggeva e portava buoni frutti!
65
in campo antifascista). I battaglioni che si formarono furono per
lo più ispirati a criteri di affinità partitica, prendendo manifestamente un colore54.
Ma ci furono tra i partigiani coloro che vollero mantenersi indipendenti rifiutando un ruolo partitico nel periodo della lotta armata. Formarono un battaglione che prese il nome proprio di Goffredo Mameli con quello comune di Giuseppe Garibaldi, poiché non intendevano compiere nessuna scissione o
smembramento, ma rimanere integrati nell’unica brigata, cui
avevano dato vita dal tempo di Raticosa; di questo battaglione
intitolato al mazziniano e garibaldino, studente e poeta, ventenne eroe della Repubblica romana, fecero parte quasi tutti gli
amici "sancarlisti", comandante e commissario politico ne furono Giacinto Cecconelli e Adelio Fiore. I due amici si troveranno insieme nel momento più tragico della loro vicenda partigiana, come si vedrà.
Appelli a Garibaldi e Mameli non erano frutto di retorica, impensabile in quei momenti, anzi il nome di Mameli lascia intravvedere accesa la speranza che l’ideale repubblicano potesse tradursi in realtà nell’Italia liberata e ricostruita e rifletteva
caratteri propri e inconfondibili di alcuni giovani; della storia
patria avevano il sentimento e messi al muro morivano con le
parole "Viva l’Italia", "Viva l’Italia libera". Lo attesta più d’una
volta il rapporto dettagliato del comandante Cantarelli. Ma il
sentimento patriottico non era deformato in senso nazionalistico come quello inculcato dalla propaganda fascista; era inanel54
Si formarono i seguenti battaglioni in seno alla Garibaldi di Foligno:
battaglione comando con Fausto Franceschini comandante ad interim e Balilla Morlupo commissario politico; battaglione Franco Ciri operante sulle
montagne di Gualdo Tadino al comando di Mario Tardini e poi di Piero
Donati; battaglione Goffredo Mameli nella zona di Nocera Umbra comandante Giacinto Cecconelli, commissario politico Adelio Fiore; battaglione
Morlupo nella zona di monte Cavallo al comando di Franco Lupidi, che si
divise quasi immediatamente in due distaccamenti, uno al comando di Luciano Formica e l'altro del motenegrino Milan Tomovic; battaglione Ardito
operante nella zona tra Foligno e Campello, prima al comando di Alberto
Albertini e poi di Marcello Formica. Cfr. M. ARCAMONE, La brigata Garibaldi,
in L'Umbria nella Resistenza, cit., vol. II, pp. 275-276.
66
lato allo spirito di fratellanza universale; "patrioti" e "sancarlisti" poterono riconoscersi nei valori della patria e del messaggio evangelico. Tra di loro s’effettuò una spontanea intesa sui
valori di fondo (homo absconditus, uomo totale, planetario, caro
al padre Ernesto Balducci!), che nella Commemorazione dei caduti
monsignor Luigi Faveri indicava in "una sfera ancor più nobile, dignitosa, universale"55, che s’innalzava al di sopra dei ruoli partitici. Egli aveva colto nella ribellione dei giovani il profondo respiro etico-religioso di liberazione da ogni "servilismo"
che fu la forza travolgente del movimento.
Dunque "partigiani senza partito"? Ebbene, sì, ma non senza
impegno, preoccupazione, passione per la politica.
Autonomi, non neutrali.
Avevano potuto riflettere a lungo seriamente sul vilipendio
dei diritti umani universali, l’occupazione dello Stato, la cattura
della società e della Chiesa. Con ciò si spiegano i loro cauti
entusiasmi verso i partiti. Tuttavia una volta restituiti alla comunità rifondata su nuovi principi i partigiani "sancarlisti" confluirono generalmente nella Democrazia cristiana, ricollegandosi al passato prefascista dell’Istituto San Carlo. Però questi
giovani emergenti non entrarono per volontà propria o per volontà altrui nelle strette maglie della politica, non vi assunsero
posizioni di rilievo, ben presto uscirono dalla scena ufficiale; alcuni si riaffacciarono in seguito a fianco di movimenti della sinistra o frequentarono l’ Associazione nazionale partigiani
d’ltalia56 senza mai abbandonare gli ideali della Resistenza e
55
L. FAVERI, Commemorazione dei caduti, cit., p. 3.
L' Associazione nazionale partigiani d'Italia di Foligno si è caratterizzata per la frequenza costante ai raduni indetti per l'anniversario della battaglia del Senio e della Liberazione di Alfonsine. Per il particolare rilievo che
ebbe l'azione del Gruppo di combattimento Cremona (come ricorda nel 40°
anniversario della vittoria il Comando brigata motorizzata Cremona) anche
per merito dei volontari folignati, essi hanno ricevuto la cittadinanza onoraria dai Comuni di Alfonsine e Cremona.
Ai lavori della Consulta regionale per le celebrazioni del 30° della Liberazione (che dette vita all'Istituto per la storia dell'Umbria dal Risorgimento
alla Liberazione) partecipò Adelio Fiore (1974); fu poi intervistato da "Paese
Sera" su Il contributo dei sancarlisti alla lotta contro il fascismo (29 giugno 1975).
56
67
svolgendo anche nella propria sede (corso Cavour, 61 e ora via
Aurelio Saffi in Foligno) iniziative socioculturali per trasmetterli ai giovani.
Il primo rastrellamento
Dopo la storica riunione del 5 febbraio 1944, il comandante
ferito tornò nel suo nascondiglio al convento dei Cappuccini:
l’amico Adelio, lasciandolo a malincuore tornò a Cancelli (m.
900 alt.), per partecipare alla preparazione del difficile attacco
alla polveriera di Foligno (m. 416 alt.) Gli edifici tuttora si trovano seminascosti (inutilizzati) in una spianata sulla sponda
sinistra del fosso Renaro a circa mezza strada fra il paesino di
Uppello e la sorgente dell’acqua minerale di Sassovivo. L’operazione, guidata dal comandante ad interim Fausto Franceschini, fu organizzata con una cinquantina di asini accompagnati
dai loro padroni, i fedeli montanari capeggiati dal "maresciallo". La notte del 10 febbraio57 fu indicata come la più opportuna da persona che conosceva bene le abitudini dei fascisti che
presidiavano la zona. Fatalità volle che un somaro intoppasse
su una grossa pietra facendola rotolare a valle con un grande
rumore ingigantito dal silenzio notturno. I fascisti iniziarono
una nutrita sparatoria cui risposero i quaranta partigiani colti
purtroppo mentre avanzavano allo scoperto sulla collina lungo la strada che proviene dall’abbazia di Sassovivo (m. 574 alt.).
Nel frattempo erano arrivati rinforzi militari tedeschi su camion. Per sfuggire ad una sicura carneficina i partigiani si ritirarono registrando una sconfitta, che pesò molto poiché era
quello il momento di fare largo uso di esplosivo per far saltare
i ponti e i tralicci delle linee elettriche e telefoniche, contorcere
le linee ferroviarie e sconvolgere i nodi stradali; ne occorreva in
gran quantità per rifornire tutti i nuclei partigiani delle zone di
operazione della brigata: Foligno, Spello, Nocera, Gualdo, Fos-
57
[A. Cantarelli], Relazione sull'attività svolta dalla Brigata Garibaldi, cit., in
L'Umbria nella Resistenza cit., II, p. 265.
68
sato, Camerino, Serravalle, Visso, Trevi, Campello, un vasto
territorio libero, perché controllato dai partigiani; dalla montagna di Colfiorito ai monti Martani.
Convenne sparire immediatamente da quella zona, secondo
i piani stabiliti, per non provocare anzi per scongiurare la rappresaglia sulla gente che si era alleata nel tentativo fallito.
Pertanto la Brigata si sposterà dalla montagna del folignate
verso la zona di monte Cavallo (m. 1485 alt.), Nocera Umbra e
Gualdo Tadino. Era l’ addio a Raticosa! Sarà distrutta dai tedeschi.
Il giorno seguente alla disfatta subita alla polveriera avvenne che Adelio, essendosi fermato da solo a Ponze (m. 864 alt.)
per alcune necessità igieniche che si facevano penosamente
sentire, fu sorpreso e catturato dai tedeschi che effettuavano un
"rastrellamento"; erano una quarantina, avevano circondato le
case del paese; fece appena in tempo con l’aiuto d’una donna a
nascondere il moschetto sotto un materasso e i caricatori dentro un sacco di farina. Non li trovarono, ma fu condotto al comando tedesco a Cannaiola di Trevi, un paesino in pianura
sulla strada per Montefalco. Nell’attesa dell’interrogatorio poté
esaminare attentamente quale possibilità di fuga ci fosse da
quel cortile dove lo tenevano. Dovendo attraversare l’aperta
campagna, non temeva d’essere superato in velocità dai tedeschi di guardia, anche se ne occorreva moltissima per riuscire
a trovare un nascondiglio nel bosco, bastava prenderli di sorpresa; e avrebbe tentato il colpo, quando s’accorse della presenza di due grossi cani lupo, che gli fecero concludere di non poter arrivare lontano con quelle bestie alle calcagna. All ’ esame
dei documenti non risultò renitente alla leva militare. Nell’interrogatorio le scuse addotte per giustificare la sua presenza in
montagna, avrebbe cercato viveri per la famiglia, non furono
credute e venne incarcerato in una cella della caserma dell’aeroporto di Ospedalicchio (Perugia). Gli buttarono un pane
duro come una pietra e lo lasciarono sotto la furia d’un bombardamento terrificante. Si ricorda d’aver pregato fervorosamente Dio di salvarlo dalla morte insieme ai suoi compagni, che
erano sottoposti al primo rastrellamento in atto "nella zona controllata dalla "Garibaldi"; soprattutto di liberarlo dalle torture.
69
E sperava: un eroe di meno, una tomba di meno, un uomo di
più a lavorare amare creare. Il giorno dopo fu chiamato a due
interrogatori: prima d’un anziano in borghese della Gestapo,
poi d’un giovane pure in borghese della Gestapo, che parlava
benissimo l’italiano; guardando bene fra le sue carte trovò il
tesserino di giocatore di calcio; Adelio lo vide sorridere molto
interessato; quel tedesco pazzo per il calcio italiano gli restituì
i documenti. Era libero.
Non avendo più nemmeno la forza di riflettere, senza pensieri si mise a camminare e guidato dal sano istinto prese la
strada di casa... stremato dal lungo digiuno di tre giorni, unico
ristoro una bottiglia di vino; da Ospedalicchio a Foligno trenta chilometri pianeggianti. Della famiglia non aveva saputo più
nulla, ma pure nelle piccole distanze il silenzio era normale,
anzi dovuto. Una mossa sbagliata, una piccola imprudenza
d’ambo le parti poteva innescare un meccanismo perverso di
voci, ed essere fatale. Padri e madri di partigiani in quella primavera del 1944, funestata dai rastrellamenti, nulla dovevano
sapere dei loro figli. Neppure quando le loro creature si fossero
trovate per caso a loro materialmente vicini. Altri beninteso sapevano per loro. Al pensiero di riabbracciarli stringerli baciarli se
ne sovrapponeva un altro opprimente: quello della cattura.
Trovò deserta l’abitazione in Foligno; il parroco Luigi Fratini, che non aveva mai abbandonato i parrocchiani, pochi in
vero rimasti in città, gli disse che i suoi si trovavano a pochi
chilometri sfollati nella frazione di Scafali sulla riva sinistra del
fiume Topino (Adelio portava con sé un Breve di S. Antonio che
il parroco gli aveva consegnato prima di partire per la montagna: Ecce Crucem Domini. Fugite partes adversae, vicit leo de tribu
Juda. Radix David Alleluja!). Lasciando Foligno si mise in cammino in direzione di Scafali accompagnato amorevolmente dal
vice parroco padre Michele Millozzi, seguendo il corso del fiume, sotto un pesante e vasto bombardamento; era notte e il
chiarore dei bengala investiva anche la zona di Ponte S. Magno.
Per guadagnare qualche metro di strada fu costretto a tuffarsi
continuamente in qualche buca, vincendo lo sfinimento. Raggiunse i suoi, trovandoli desti per l’allarme aereo e riuniti in un
cortile dove avvenne l’abbraccio drammatico. Se lo figuravano
70
deportato in Germania poiché della cattura era stata avvertita
la sorella allora impiegata nel Comune di Foligno. Invece era lì
in carne e ossa in mezzo a loro, e sorrideva. Ma i suoi piansero
dallo sbigottimento e non solo dalla gioia. Non aveva incontrato anima viva in quella notte d’inferno e rimase nascosto agli
occhi di qualsiasi estraneo dentro uno sgabuzzino mascherato
da armadio per rispettare la regola della prudenza, poiché non
pativa la paura... Aveva bisogno di un paio di scarponi chiodati
destinati a lunghissime camminate. Glieli confezionò meravigliosamente il bravo calzolaio del paesino, che non volle essere pagato. Aveva infatti i suoi buoni motivi per aiutarlo molto
generosamente. Avvenuta la Liberazione, Adelio lo rivide fra
i comunisti partecipare a una manifestazione.
Si rese conto dei sacrifici che affrontavano i suoi familiari,
essendo rimasti privi dello stipendio del padre, che non aveva
aderito alla repubblica sociale fascista. Il fratello minore Mario
di quattordici anni operava nelle "retrovie" della Resistenza
insieme con l’amico Eros Pucci (detto Lillo), raccogliendo in
città e in periferia, su indicazione di monsignor Luigi Faveri,
viveri di tutti i generi, anche preziose damigiane d’olio. Non
erano ragazzinate, non ricevettero però alcun genere di riconoscimento.
Gli capitò nottetempo, durante quello straordinario congedo, di fare un’opera buona e pericolosa per l’anziano amico di
famiglia, Sebastiano Vita, in grave pericolo per un’ernia strozzata. Mandando al diavolo l’educazione, obbligò un carrettiere a trasportarlo all’ospedale e tirò fuori di casa il primario chirurgo professor Mioni, che si godeva il meritato riposo.
In quei giorni il comandante Cantarelli dovette recarsi a Milano in piena occupazione nazista per sottoporsi all’intervento
chirurgico al volto. L’indirizzo di uno specialista straniero clandestino antifascista e il duro viaggio su di un camion con documenti falsi gli furono possibili grazie agli aiuti del Comitato di
liberazione nazionale e del dentista Biondi, che lo preparò ingessandogli la testa. Lo accompagnò Alviero Ponti presso la famiglia del proprio fratello comunista, residente a Milano, il cui
figlio ricondusse a Foligno il comandante con un bel nulla di
fatto. Il chirurgo straniero, che lo aveva visitato tre volte, fu
71
arrestato dai tedeschi... Cantarelli a Foligno fu ospitato da Giuseppe Raponi membro del Comitato di liberazione nazionale.
Finita la guerra, all’Ospedale Fatebenefratelli di Milano la ricostruzione della mandibola, effettuata mediante prelievo di osso
dell’anca, purtroppo non dette un esito tale da permettere l’applicazione della protesi dentaria e ogni altra possibilità d’intervento fu preclusa.
Subito dopo la Liberazione il comando della brigata "Garibaldi " pose la propria sede nel palazzo Barnabò sul fianco prospiciente la chiesa di S. Giovanni dell’ Acqua. In quei giorni
chiese d’essere ricevuto dal comandante Cantarelli il maresciallo dei carabinieri, che a Nocera lo aveva ferito al volto, per porgergli le sue scuse e pregarlo di non chiedere alcun risarcimento o altra sanzione grave per il danno irrimediabile procuratogli nello scontro a fuoco. Il Cantarelli gli dichiarò di fronte a
vari testimoni che non aveva nulla contro di lui, che aveva fatto in quel momento il suo dovere. E rimandò in pace quel povero padre di famiglia. Non fu solo una serena valutazione
dell’accaduto, fu anche un sincero perdono cristiano. Di questo
episodio Adelio conserva vivissimo il ricordo.
Giustizia partigiana
D’ ora in avanti, continuando a esporre vicende attinenti alla
sua diretta esperienza, il narratore si atterrà prevalentemente o
meglio esclusivamente a quelle del battaglione Mameli, al quale appartenne dopo la svolta del febbraio 1944. Altri potranno,
se lo vorranno, integrare questo racconto parziale per comporre un quadro completo della storica brigata, tenendo conto
dell’esistenza di altri battaglioni (che abbiamo in un’apposita
nota elencato precedentemente).
La sede del battaglione Mameli si fissò a Mosciano nel territorio di Nocera Umbra ma assai vicino a quello folignate. Il comandante di brigata (Cantarelli), che non aveva ceduto alle
sofferenze prodotte dalla menomazione alla mandibola, e aveva riacquistato il solito sguardo intenso e lampeggiante, vi passò ai primi di marzo riprendendo il suo compito. Questo fatto
72
ci fa dire che il comandante della brigata non solo "rimase sino
all’ultimo, almeno nominalmente, il tenente indipendente Cantarelli58", ma anche più che nominalmente. Un comandante,
ferito e menomato, tuttavia moralmente presente, se non dappertutto data l’ articolazione della brigata, non fu certamente
solo un nome, ma una forza, un’idea, un esempio e quanto altro. Egli fu successivamente anche comandante ferito e decorato di un plotone del 22° reggimento di fanteria Cremona.
Dunque ferito due volte prima nella lotta partigiana e poi nella guerra di Liberazione. Fu anche una presenza cattolica in una
brigata garibaldina, e può aggiungersi ai vari esempi di cattolici combattenti nelle brigate garibaldine, generalmente comuniste, che sono stati raccolti e presentati dallo storico Tramontin59; volendo si possono citare casi di comunisti combattenti
nelle brigate autonome, che non avevano un ruolo partitico, ma
arti- colazioni territoriali. In Umbria è molto conosciuto l’esempio di "Bruno" comunista (nato a Gubbio) che volle al suo fianco il cattolico "Doriguzzi" quale vice commissario e intendente della brigata Gramsci operante nel bellunese.
Anche il cattolico Cantarelli ebbe al suo fianco come commissario politico Balilla Morlupo comunista o filocomunista. Si dovette al suo temperamento schivo fin troppo se non entrò nella
leggenda e non ce n’era bisogno, poiché egli rimase nella storia
come comandante "garibaldino" e "indipendente". Comandante
atipico, dato che nella storia partigiana generalmente garibaldino divenne sinonimo di comunista. In questo caso i vincoli che
legavano i vari combattenti non derivavano solo e sempre dai
partiti politici: un esempio ne sono i "sancarlisti" nella "Garibaldi" di Foligno; inoltre non si trattò d’imprese straordinarie, né di
meriti riconosciuti a una persona eccezionale, fatti riscontrabili
in altre brigate partigiane, ma di giovani capaci di autogovemo,
d’iniziativa, d’organizzazione, di sacrificio, di lunga, profonda,
58
S. BOVINI, La lotta armata in Umbria, in L’Umbria nella Resistenza, cit., I, pp.
162-163.
59
S. TRAMONTIN, I cattolici e la Resistenza, in Storia del movimento cattolico in
Italia, cit., pp. 461-466.
73
ricca amicizia, i quali si trovarono uniti prima e si mantennero
uniti poi lungo i dolorosi e pericolosi sentieri della guerra.
Il comandante di brigata era stato chiamato a Roccafranca di
Verchiano (m. 830 alt.), sede temporanea del comando, per giudicare una spia tenuta prigioniera. Chiese all’amico d’accompagnarlo. Da Mosciano (m. 780 alt.) (sede, ripetiamo, del battaglione Mameli), che si trova nei pressi di monte Pennino (m. 1571
alt.), per raggiungere Roccafranca, che è a ridosso del monte
Cavallo (m. 1485 alt.), Antero e Adelio impiegarono una giornata
di cammino, dovettero portarsi in direzione sud-est di Mosciano, in un cuneo del territorio folignate incastrato fra i comuni di
Sellano (Umbria) e di Serravalle del Chienti e di Visso (Marche).
Alla costruzione di Roccafranca fortezza dei Trinci, castello
con due torrioni poligonali e chiesa annessa, concorse in primo
luogo la natura mettendo a punto una geometrica difesa naturale formata da una mirabile collina conica quasi perfetta, che
scendendo ripidamente poggia la propria base dentro un altro
cono pur esso molto regolare, rovesciato e poco più grande. Il
letto del fiume Vigi incide per un buon tratto la base della caratteristica altura di Roccafranca segnando il confine imprati- cabile
fra i comuni di Foligno, di Serravalle del Chienti e di Visso; giungendo da Castel d’Elce o da Forcella è impossibile raggiungere
Roccafranca se non attraversando il profondo letto del fiume.
Anche in questo caso, come s’è detto a proposito di Raticosa, è
praticabile un unico accesso; a quei tempi per una mulattiera che
da Verchiano passava per i villaggi di Collenibbio e Ali. Molte
invece e difficili le possibilità di uscita da queste fortezze naturali. In caso di rastrellamenti, potendo contare sulla propria prestanza fisica, con velocissimi salti si poteva correre giù nel fondovalle, poi con una risalita sul lato opposto del burrone si guadagnavano i gioghi di monte Cavallo. Al bivio fra il monte Cavallo (m. 1485 alt.) e il monte Pizzuto (m. 1287 alt.) si trova il paese
di Forcella che ospitò anch’esso il comando di brigata. Zone boscose difficilissime da aggredire allora con i mezzi militari in
dotazione del nemico e in mancanza di vie di comunicazione.
Il comando di brigata occupava in quei giorni la casa parrocchiale di Roccafranca incorporata al castello attualmente purtroppo abbandonato e fatiscente, come la chiesa dedicata a Ma-
74
ria Assunta, che all’esterno ancora mostra la cassetta delle "Regie Poste". All’interno ci sono vari ambienti capaci d’accogliere
parecchie persone in una stanza centrale dotata d’un grande focolare e altri spazi nascosti formati a volte da grotte naturali. Ma
nessuna traccia vi si trova della Resistenza e lo stesso è da dire
per la cascina Raticosa, prima sede del comando.
In periodi di pace invece sarebbe opportuno ripercorrere e
meditare il capitolo di storia, dove s’intrecciarono la lotta armata contro l’oppressore e la difesa del nostro territorio, seguendo l’itinerario quanto più possibile organico e puntuale, fornito dalle più appropriate e ben evidenziate indicazioni. A questo scopo sono stati eretti monumenti, lapidi e cippi, a Cancelli, a Collecroce, a Cesi e altrove, che risultano utilissimi, ma non
del tutto sufficienti a legare i fatti all’ambiente, certamente mutato, e quindi anche all’immaginazione, altra preziosa componente della ricomposizione quanto più completa del passato.
Il prigioniero che si doveva processare era un trentenne non
bene identificato, accusato d’aver fatto ammazzare tre partigiani con una spiata. Il processo si svolse con le testimonianze rese
individualmente da uomini e donne del posto. Giudicato da
tutti colpevole di quei misfatti, nessuna voce essendo discorde
e non sapendosi scagionare, fu condannato alla fucilazione dal
tribunale partigiano, che non ebbe mai più da affrontare una
simile dolorosa situazione. Molti documenti pubblicati sulla
Resistenza confermano che i tribunali partigiani in molti casi
non portavano odio e lasciavano andare alla loro sorte i prigionieri di guerra non fanatici; invece non perdonavano mai i traditori e quindi le spie; non infierivano sui condannati60. Biso-
60
Cfr. G. NOZZOLI, Quelli di Bulow, Roma 1957, p. 128: dai documenti consultati sembrerebbe, sostiene l'autore, che le fucilazioni siano state eseguite
sempre e solo dai nazifascisti, accompagnate da orribili stragi e nefandezze.
Invece furono compiute esecuzioni anche dai partigiani che non infierivano
sui condannati e la differenza va sempre sottolineata. Il libro di F. FORTINI, La
Cena delle ceneri e Racconto fiorentin, Milano 1988, riapre il dibattito, tenendo
conto dell'esistenza di diverse mentalità e culture, sul problema di quale sia
giustizia o ingiustizia nel compiere o non compiere esecuzioni ad opera di
partigiani nel caso particolare delle spie.
75
Roccafranca fortezza dei Trinci (m. 830 alt.), un cuneo del territorio folignate incastrato fra i Comuni di
Sellano (Umbria) e di Serravalle del Chienti e di Visso (Marche). Anch’essa sede del comando della Brigata
“G. Garibaldi” di Foligno.
gnava impedire che la spia potesse fare uso mortale delle informazioni. Nel senso della liberazione invece fu nello stesso giorno decisa la sorte di tre soldati tedeschi prigionieri da qualche
giorno e adibiti alla custodia dei cavalli. Appena videro il comandante gli s’accostarono baciandogli le mani e piangendo. Ed egli
si espresse in favore della liberazione, anche commosso per la
loro età e presunta innocuità. Ma purtroppo tornarono ben presto con i loro commilitoni e uccisero quattro partigiani in uno
spietato attacco alla Romita nei pressi di Forcella (monte Cavallo), zona dove operava il battaglione Angelo Morlupo.
Memorie a confronto
Ed ora cerchiamo riscontri e maggiori ragguagli presso due
anziani del posto, che ci accolgono in casa per rispondere alle
nostre domande e ci offrono una rustica merenda. Mentre lui
era in guerra, lei, diventata capofamiglia, si guadagnò il titolo
di "carabiniera". Per il marito chiese l’esonero, ma non l’ottenne. La posta non arrivava, lo aspettava ogni giorno guardando
l’orizzonte; ritornò dopo sette anni, dall’ America; lo riconobbe subito da lontano e gli andò incontro volando. Con i partigiani abitò porta a porta, la facevano da padroni anche in casa
sua. Fu la loro vivandiera, obbligata, non c’era nessun’altra
donna valida; mentre doveva fare anche da uomo per la sua famiglia.
— E con le partigiane erano buoni i rapporti? Vi aiutavate?
— Cantavano. Una era di Foligno e un’altra era una brava
sarta delle parti nostre, sposò un montenegrino. Che donne!
Dormivano nel mio letto senza badare a me anche quando avevo la febbre e non mi rimaneva che un cantone del focolare. Dormivano anche sulla paglia assieme a quella farsumaglia (plebe).
Lei invece per sfamare la famiglia si recava a Sellano a comprare il grano a mercato nero da un mercante famoso e poi doveva andare al mulino di nascosto, di notte quando la mugnaia lavorava clandestinamente, non incontrava anima viva e rischiava di precipitare con l’asino nel burrone. A Foligno doveva presentarsi agli uffici degli ammassi obbligatori per la con-
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segna dei prodotti requisiti, poiché erano proprietari di bestiame. Un uomo incontrandola all’alba, sola come sempre, le chiese se portava la rivoltella. E lei:
— Chi s’avvicinerà vedrà se la porto o no.
Il marito interviene per dire:
—I partigiani facevano del male, rubavano anche in chiesa,
camici e tappeti. Ora stanno in Comune.
Ma poi si scusa per aver detto male del Comune... e la moglie
riprende il suo racconto:
— Quando il comando si spostò a Forcella, tornarono in tre
o quattro per rubarmi i soldi, seimila lire e altri oggetti, che ci
avevano lasciato l’òmini nostri. Mi dissero che l’aveva mandati
il comandante. Ma non la passarono liscia, poiché gli andai a
raccontare tutto; s’infuriò e mi chiese se potevo riconoscerli.
La "carabiniera" riconobbe subito quello che aveva piantonato con il fucile l’uscio di casa e il comandante disse che un ladro
doveva essere punito con la pena di morte e allora lei implorò
la grazia, trattandosi poi del figlio di amici. Gli dettero una lezione a furia di bastonate.
Invece va orgogliosa dell’attestato di riconoscenza ricevuto
da quei prigionieri tedeschi, liberati dal comandante; quando
tornarono in forza per la rappresaglia la salvarono dicendo: —
Quella famiglia non si tocca, ci ha aiutato.
Come li aveva aiutati? Li teneva informati degli umori del
comando e portava il cibo anche a loro.
— Signora, dicono Kaput?
— No! Non vi ammazzano.
E ci racconta di aver sentito le parole del comandante: — Se
non li avete uccisi prima, non potete più ucciderli ora, lasciateli
andar via.
Li aveva aiutati tutti indistintamente perché, dichiara:
— Combattevano tutti "per la stessa cosa".
Certamente non era facile per la gente dei paesi più sperduti della montagna, forte delle sue secolari tradizioni, capire il
perché di avvenimenti tanto sconvolgenti di cose e persone,
nonostante la propria capacità di riflessione.
Le nostre gite domenicali non sono troppo allegre e i colloqui
non esaltanti... Ci diamo l’aria di turisti in cerca d’emozioni o di
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pensionati che non sanno come ammazzare il tempo e non discutiamo le loro affermazioni.
Nuovi rastrellamenti
Gli alleati sempre molto sospettosamente (specie gli Inglesi)
cominciarono a prendere in considerazione l’attività delle "bande" e stabilirono con loro i primi contatti nel mese di febbraio
1944 iniziando i lanci, in vero rari e magri, di armi e munizioni
dagli aerei che molte volte fallivano l’obiettivo lasciando i partigiani a bocca asciutta. Adelio ne ricorda uno solo ben riuscito a Visso, che gli permise di possedere uno sten, simile a un mitra leggero adattissimo per la guerriglia in montagna.
I nazifascisti di contro nella primavera di quell’anno misero
mano ad una vasta manovra di feroci rastrellamenti. Nel paese di Cesi (m. 791 alt., comune di Serravalle del Chienti, provincia di Macerata) il 14 marzo furono condannati alla fucilazione
quattro partigiani della "Garibaldi"61 per volere del prefetto
Rocchi recatosi sul posto per processarli nella casa Capisciotti.
Si trattava della seconda grande ondata di rastrellamenti, la cui
ferocia è rimasta impressa nelle lapidi, negli scritti, nella mente degli abitanti. Una donna che fu presente ai fatti ci racconta
che c’ era ancora la neve quando improvvisamente tutte le
montagne intorno brulicarono di militari che risaltavano con il
bruno delle divise nel biancore di quel giorno:
— Circondarono il paese, fecero uscire dalle case tutti gli uomini, e appena fuori sulla strada fra Cesi e Popola, dove un cippo li ricorda, fucilarono quattro partigiani e due civili.
Stiamo parlando ai piedi della lapide messa sulla piazzetta del
paese. Il rastrellamento era stato operato con grande spiegamento di forze e le fucilazioni accompagnate da "orrende sevizie".
61
C. COSTANTINI, La fucilazione di Cesi (dal rapporto di un testimone al Comitato di Liberazione Nazionale), in L 'Umbria nella Resistenza, cit., vol. II, pp. 290291.
79
Il monte conico di Roccafranca al confine del territorio folignate nei pressi di Sellano; sullo sfondo il paesino di
Rasenna in territorio marchigiano
Bisognava fiaccare la Resistenza, incutendo terrore anche
nelle popolazioni. Appena un mese dopo in aprile, Cristo, il
cielo, le montagne, la terra piansero anzi urlarono... con gli
uomini e gli animali... per la strage di Collecroce (Mosciano)...
È noto che la guerriglia ha bisogno assoluto di movimento e
di grandi spazi sia per effettuare improvvise incursioni sia per
garantire un minimo d’incolumità ai combattenti e ai civili. La
zona occupata in quel momento dal battaglione Mameli rispondeva alle dette caratteristiche, comprendeva Mosciano e Sorifa sino a Collecroce da una parte e Serre di Mosciano da un’altra, paesini di Nocera Umbra vicini alle montagne del folignate, specialmente ad Annifo, la frazione di Foligno più prossima
al confine nocerino.
I renitenti alla leva filtravano alla spicciolata, frutto del lavorio del Comitato di liberazione cittadino, saldo e robusto quasi albero secolare, che facilitava loro la presa di contatto con le
"bande". Arrivavano sempre in due con uno zainetto e alcuni
senza, perché scappati da casa all’improvviso, talvolta contraria la famiglia. Il primo impatto con i combattenti doveva avvenire tramite il commissario politico, detto anche commissario
di guerra. Adelio Fiore poteva essere un fratello maggiore, cinque anni di più al massimo, e parlava senza complicazioni e
complimenti:
— Qui nessuno vi garantisce la salvezza; si dorme e non si
dorme, si mangia e non si mangia; le giornate sono intensissime, tante sono le emergenze cui far fronte; di notte si compiono azioni sempre più pericolose cercando di salvare la pelle. Sei
sicuro di potercela fare?
Riflettevano seriamente... ma non avevano altra strada. La
preparazione morale e politica dei nuovi volontari precedeva
quella del maneggio delle armi. Ben più dura sarà la prova per
coloro che parteciperanno in seguito alle operazioni infernali
sulla "linea gotica", catapultati all’improvviso e stretti nei fuochi dei vasti fronti e degli armamenti ad alta tecnologia. Il commissario politico del battaglione doveva prospettare alle reclute gli obiettivi più alti e più importanti della lotta, qualsiasi fosse l’azione da compiere, anche la più minuta e apparentemente irrilevante; ma soprattutto quella di disarmare il nemico per
81
indebolirlo e intimorirlo, ostacolarlo in ogni modo, e invece
incoraggiare la popolazione, aiutarla a mantenere vivi senza
tentennamenti gli ideali della Resistenza volti a costruire un
mondo decisamente migliore. Ma proprio la figura del commissario fu argomento di molte discussioni, significativa e insostituibile per alcuni, inutile e dannosa per altri62.
La strage di Collecroce
Giunta la domenica di Pasqua del 9 aprile 1944 nella chiesina
di Mosciano dedicata a San Giovanni Apostolo celebrò il rito religioso il parroco Alfonso Guerra, un tipo gioviale sui trentacinque anni. La chiesetta ora restaurata si caratterizza per la valorizzazione degli arredi sacri in legno policromo dalle vivacissime
tonalità ispirate all’arte popolare; l’altare in marmo sarà modificato poiché esiste il paliotto nello stile degli altri arredi, così dice
l’attuale parroco che è subentrato al defunto don Alfonso. Alcuni
giovani del battaglione Mameli dormivano al piano superiore
della casa parrocchiale (oggi completamente abbandonata) attaccata alla chiesa, e ordinariamente si giovavano per sfamarsi dell’aiuto prezioso e generoso della sorella del parroco.
Don Alfonso infuse molto coraggio nell’animo dei combattenti e della popolazione, che si distingueva in modo eccezionale per l’ospitalità generosissima, invitando tutti a partecipare al grande banchetto pasquale preparato all’aperto con dovute precauzioni e massima cura, rallegrato dalla splendida giornata di sole. Una delle due mense fu apparecchiata proprio nell’orticello fra la chiesa e il lavatoio ampio e grazioso del paese;
l’altra alle Serre dove c’era la combattente Aurora Pascolini, che
andava sempre col fucile a tracolla, condividendo la vita dei
compagni.
62
Cfr. R. BARAZZONI e U. GIGLIOLI, La liberazione dell'Emilia Romagna, cit., p.
220: «si discute e si contesta da parte democristiana la stessa funzione dei
commissari politici, spesso di estrazione comunista».
82
Le Serre che stanno dirimpetto a Mosciano, a breve distanza
in linea d’aria al di là della profonda valle che separa i due paesi, erano una vedetta utilissima per scambiarsi rapide segnalazioni fra i vari nuclei e abbracciare orgogliosamente con lo
sguardo l’intero anello dei monti circostanti; partendo dal grugno aggressivo del monte Pennino (m. 1571 alt.) sino a valle
verso i paesini di Sorifa e Stravignano-Bagni sormontati dall’immagine suggestiva di Nocera Umbra potente baluardo con
la maestosa cattedrale, per chiudere il circuito con la vista del
monte Subasio (m. 1290 alt.). Queste fortezze montane più intime ai partigiani delle loro donne li difesero durante l’inverno, bianche di neve; essi non finivano di corteggiarle, spostandosi di sopra e di sotto, di qua e di là. Ma ora cominciavano a
far le civette indossando folte incantevoli pellicce verdi predisponendosi così ad essere violate dal nemico.
Il pranzo pasquale consisteva nel rustico antipasto di pizza
di formaggio salame uova benedette, le tagliatelle al pomodoro, gli agnelli arrostiti all’aperto, la pizza dolce. Il vino scorreva a fontana dalla damigiana troneggiante accanto al tavolo.
Adelio mangiò un po’ qua un po’ là, facendo la spola fra le due
mense, fedele al suo compito.
Su questo paradiso di profonda umanità e gentilezza si scatenò la "bufera infernale".
I fascisti avevano in Nocera Umbra un caposaldo particolarmente presidiato, dove la "Garibaldi" aveva avuto la peggio,
come s’è detto. Che essi potessero giungere per la via dei monti
ora descritta era da escludere, poiché oltre alle scontate difficoltà orografiche, bisognava fare un cammino troppo lento e
pieno d’insidie per la boscaglia con la probabilità di essere segnalati da qualche staffetta. L’unica possibile strada era quella
a partire dal territorio folignate attraverso Colfiorito-Annifo,
che conduceva diritto a Collecroce (m. 872 alt.) per un tratto ripidissimo e stretto. Questo percorso è rimasto segnato da cippi, monumenti, lapidi mortuarie.
Uscendo dal confine montano del comune di Foligno, quella di Collecroce è infatti la prima frazione del Nocerino che s’incontra appena lasciato Annifo (m. 874 alt.). Ora si segue una
strada nuova, ricavata dal bosco di allora, fin troppo larga al
83
confronto della tanto angusta Flaminia. All’ingresso del paese
si viene subito accolti da un cippo, posto molto in vista sulla
scarpata della strada con due fotografie e la scritta agghiacciante: "Coccia Angelo 1922.1944 -Tesauri Tito 1925.1944. Canea nazifascista il 17.4.1944 voleva qui le sue vittime. Trucidava Partigiani". Poco più avanti sulla piazzetta di Collecroce, isolato,
spoglio, severo, non può passare inosservato un altro monumento: "Aprile 1944 -Aprile 1988. Ai caduti per la Liberazione",
E i nomi di ventitre martiri cui s’accompagna un’alta e svelta
figura laminiforme, che efficacemente rappresenta "l’urlo nero
della madre" con le braccia slanciate verso il cielo. Sostiamo in
silenzio, non si riesce neppure a pregare. Leggiamo i nomi: è un
cimitero di famiglia, dove aleggia il fantasma fosco della strage rimasta ancora oggi incredibile. Rabbia e pietà pervadono la
mente e il cuore. Sul fronte di casa Berardi, che si affaccia sulla
stessa piazzetta, si legge su travertino: "Aprile 1944. Aprile
1972. A perenne ricordo ed onore dei Martiri di Collecroce vittime della barbarie nazifascista. Gli antifascisti posero. 25 aprile
1972". Il tutto in pochi metri quadrati. Scendendo a valle fra
Sorifa e Stravignano-Bagni s’incontra un altro cippo con fotografia con su scritto: "Qui fu trucidato dai nazifascisti Tiburzi
Giovanni di anni 21 il giorno 2 aprile 1944". Dunque era avvenuta una strage di civili e di partigiani di cui ha scritto fondatamente ed efficacemente il raccapricciante racconto un testimone non certo estraneo e non passivo come don Alfonso
Guerra63. A questo punto Adelio fa le sue amare riflessioni.
Ci tiene molto a precisare che l’arrivo della primavera coincise con episodi cruenti che facevano parte d’un vasto e ben definito piano offensivo nazifascista consistente in una serie orchestrata di rastrellamenti e stragi a tappeto intesi a piegare
l’Umbria meridionale (e non solo l’Umbria, ma anche il Piceno
63
A. GUERRA, Il movimento partigiano e la rappresaglia nazifascista nella parrocchia di Mosciano. Nocera Umbra, in Antifascismo e resistenza, cit., pp. 94-97.
Don Alfonso Guerra è attestato: brigata Garibaldi di Foligno, n. 3541 (fonte
cit. alla nota 13).
84
la Guardia nazionale repubblicana (fascisti della Repubblica di
Salò detti comunemente "repubblichini") a chiedere un colloquio per trattare la resa con garanzia di piena incolumità per i
combattenti che dovevano ovviamente consegnare le armi. La
mossa forse nascondeva anche qualche piano mostruoso, se si
considera che i partigiani avrebbero dovuto arrendersi con la
propria banda nella fabbrica statale di Scanzano (Vescia) pronta a riceverne mille o duemila67. Decisero di andare al colloquio
usando l’astuzia: promettere la resa, chiedendo una "tregua"
giustificata dal fatto di dover informare del disegno in atto tutti
i compagni. In tal modo avrebbero ottenuto del tempo per effettuare il trasferimento programmato e sempre più urgente.
Ma avrebbero potuto carpire anche qualche notizia circa i rastrellamenti. Insomma tra nemici incontrandosi avrebbero giocato tutti di furberia.
Scesero da Mosciano, come sempre a piedi, il bravo e prestante comandante Giacinto Cecconelli e il commissario politico del Mameli giungendo nei dintorni di Nocera Umbra, a valle
di Stravignano-Bagni, in un luogo pianeggiante (m. 400 alt.)
sovrastato da una collinetta col suo pugno di case chiamato Le
Cese. Riconobbero il vecchio mulino da olio e da grano che era
stato loro indicato per l’incontro. Per timore di qualche imboscata erano stati scortati da due ali di compagni che avanzavano nascondendosi tra gli alberi del bosco che costeggiava la
strada. In attesa c’era l’intermediario un trentacinquenne, e subito arrivarono con una macchina militare due ufficiali della
Guardia nazionale repubblicana vestiti in grigioverde, un capitano e un tenente dall’aspetto molto distinto. Era il pomeriggio
del lunedì o martedì dopo Pasqua. L’ anziano proprietario del
mulino introdusse gli ospiti in una sala raccomandando fervorosamente "tranquillità e pace". Gli ufficiali con maniere e parole bellissime fecero la loro richiesta di resa:
67
Un tale Sandro, capobanda non identificato, conduceva a Scanzano i
membri della sua banda per consegnare le armi entro il 24 maggio 1944 in
base alla resa concordata ("Resistenza", numero unico, cit. , La tregua, p. 5;
cfr. nota 35 ).
86
— Desideriamo di por fine a una guerra fratricida. Il nostro
discorso non è di marca fascista. Siamo in questa divisa perché
solo così potevamo evitare il campo di concentramento.
A loro volta i partigiani fecero la loro richiesta di tregua. E
furono avvertiti che se la resa non fosse avvenuta sarebbero
state impiegate forze imponenti per rastrellamenti ad ampio
raggio e di lunga durata.
Si era dunque in stato d’allarme sul cocuzzolo di Collecroce.
Gli uomini del battaglione Mameli avevano disposto sin dalla
fine di marzo la mitragliatrice con le sentinelle in un ottimo
punto d’avvistamento (dove ora si trova il cippo funebre) per
tenere d’occhio tutto il piano d’ Annifo che è mediano fra quello di Colfiorito e quello di Collecroce. Da laggiù poteva arrivare
il nemico, da lontano, a piedi non essendoci allora strade rotabili, e allo scoperto. Questi erano elementi a tutto vantaggio dei
partigiani. L’ allarme doveva essere dato a colpi di fucile.
All’alba del 17 aprile si udirono "tre colpi di moschetto" e "subito la raffica delle mitragliatrici" (nemiche), racconta don
Guerra68. E Adelio nota:
— Dice "subito". Perciò qualcosa non aveva funzionato. Qual
era stato l’errore? l’imprevisto? l’inganno?
Giunsero disperati alcuni partigiani gridando:
— I tedeschi sono in corsa contro di noi ...le sentinelle dormivano.
Adelio corse incontro ai compagni con i calzoni in mano. A
distanza di tanti anni è ancora accorato e non riesce a farsi una
ragione dell’accaduto:
— Avevo accompagnato le sentinelle nella postazione, ero
sceso nella fossa con loro, avevamo puntato insieme la mitragliatrice e avevo dato tutte le istruzioni necessarie raccomandando di non dormire. Infatti rompendo i tedeschi il punto di
prima difesa, non c’era più possibilità di fermarli. Mentre invece bastava una mezz’ora di fuoco per ritardare l’attacco nemi-
68
A. GUERRA, Il movimento partigiano e la rappresaglia nazi-fascista nella parrocchia di Mosciano. Nocera Umbra, in Antifascismo e resistenza, cit., p. 94.
87
co, e avremmo potuto difenderci dando battaglia o trovando
scampo sul monte Pennino nostro alleato.
Con tutta la sua foga Fausta gli risponde che sicuramente
s’era consumata all’alba del 17 aprile su quell’avamposto una
tragedia, non perché le sentinelle dormissero; o per un agguato teso nel momento in cui gli uccelli ed altri animali del bosco
rompono il silenzio con i loro fruscii o per un banco di nebbia
persistente che può coprire la vista o per qualsiasi altra macchinazione infernale, le sentinelle sarebbero state assalite e disarmate, ma non dormivano.
"Sganciamento" e "scioglimento" del battaglione Mameli
Il battaglione prese allora l’immediata decisione di dileguarsi velocissimamente.
C’ era a fianco della chiesetta di Mosciano un burrone che
porta quasi a picco dentro la gola strettissima, in cui si precipitarono gli scampati al massacro per risalire poi il fianco anch’esso ripido del monte opposto, cercando d’uscire dalla traiettoria dei probabili tiri nemici (e perciò spostandosi verso
Sorifa). Sparirono così, costeggiando il monte boscoso e scendendo sino a Giove (m. 557 alt.) dove si riunirono. Si contarono: erano una trentina. Aspettarono che facesse buio e quindi
raggiunsero il paese di Valtopina. Bisognò attraversare prima
il fiume Topino su una passerella e i binari della linea ferroviaria Roma-Ancona e la strada statale Flaminia frequentata dai
tedeschi e poi nascondersi di gran corsa nuovamente nel bosco
più vicino. Si erano ancor più assottigliati lungo quest’ultimo
percorso, erano rimasti una ventina. Presero gli ultimi accordi
prima di lasciarsi. Bisognava uscire dalle maglie del terzo rastrellamento il più terribile. Sciogliere il battaglione, sparpagliarsi, sparire. Si salvi chi può e come può. In quei paraggi scoprirono una adattissima grotta asciutta e ben chiusa anche all’esterno, dove nascosero le armi (che ritrovarono intatte).
Disperata era la loro situazione di renitenti alla leva, e di
persone sin troppo conosciute, nessuno dei quali poteva far ritorno alle proprie abitazioni senza correre gravissimi pericoli.
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Neppure potevano avvicinarsi ai paesi perché la gente, informata delle stragi, appena avvistava i partigiani si metteva a urlare con le mani nei capelli, cacciandoli immediatamente. Tutta la popolazione sapeva cosa toccava a chi li ospitava o li aiutava in qualche modo. Le spiate erano facili e all’ordine del
giorno. Al più veniva loro lanciato un pezzo di pane, proprio
come ai lebbrosi di vecchia memoria.
I più giovani e i meno esperti di quei luoghi furono consigliati e stradati nelle più diverse direzioni; partito anche l’ultimo uomo, scapparono i quattro fra i maggiori responsabili,
amici nella buona e cattiva ventura, Cantarelli, Cucciarelli,
Franceschini, Fiore.
Era una sera chiara quando si misero in cammino affidandosi al sentiero in salita che più s’addentrava negli anfratti scoscesi e profondi del sacro monte occupato dai nazifascisti sull’uno
e sull’altro fianco. Fu necessario chiedere indicazioni per salire ad Armenzano, da cui bisognava passare per scendere poi in
Assisi. La salvezza insomma questa volta poteva venire soltanto dal mistico monte Subasio (m. 1290 alt.). E fortunatamente
trovarono una casa abitata dove attinsero le informazioni per
continuare il viaggio. Attraversando i verdi labirinti disabitati
di boschi di querce, castagni e cedui, all’altitudine di circa seicento metri s’imbatterono affamati in due o tre case isolate (località chiamata il Falcione) dove tutti dormivano, ché era passata la mezzanotte. Sperando che lassù non fosse giunta la notizia delle recenti stragi, bussarono a una porta al pianterreno.
S’affacciò una donna dal piano superiore che disse:
— Non possiamo aprire. Siamo donne sole.
Erano della famiglia Carpisassi, originaria di Armenzano,
probabilmente sfollate nella loro casa di campagna isolata
nell’universo verde del monte. Gli uomini si sa che in quei frangenti non si trovavano mai nelle abitazioni, anzi c’erano ma
invisibili. Fausto, uno dei quattro, ovviamente fingendo, minacciò di far saltare la casa con un tubo di gelatina. Si sentirono allora le donne gridare:
— No, no, no!
E tirato il paletto, dischiusero la porta di casa. In fretta e furia vennero fatti accomodare e furono serviti di ogni ben di Dio
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da sette distinte signore, affaccendate intorno a loro: prosciutto, salame, pecorino, pane di casa, e una grandissima frittata
cotta alla fiamma dell’ampio focolare. Con tanti ringraziamenti
scapparono, facendosi accompagnare da un malcapitato montanaro, che avevano svegliato e tirato giù dal letto solo perché
era esperto di quei luoghi. Correvano strani tempi di manzoniana memoria.
Per i fuggiaschi braccati fu l’addio alle verdi intime montagne, solitarie, avvolgenti, voluttuose e insanguinate, mai più
tanto note come allora; addio alle verdi fortezze del monte Brunette, del monte Cavallo, del monte Pennino, del monte Subasio, mai più rivisitate da persone di paesi idiomi fogge costumi
tanto differenti.
Al seminario regionale di Assisi furono accolti da un amico
monsignore, Dino Tomassini69, che poi sarebbe diventato vescovo di Assisi e Nocera Umbra. Si fermarono giusto per dormire, ventiquattro ore. In fretta un boccone e via come il vento
scappando da una porta segreta, poiché infuriavano i rastrellamenti proprio nei conventi della città. A Spello si rifocillarono
a casa del compagno comunista Persiano Ridolfi70 che, più fortunato di loro, si era già messo al riparo.
Quale soluzione potevano trovare dopo le estenuanti peripezie, una volta giunti a Foligno, che non fosse ancor più pericolosa delle precedenti?
La città era stata sconvolta dalle decine di bombardamenti, in
media un allarme suonava ogni giorno; non vi funzionavano
più servizi né pubblici né privati, erano stati trasferiti anche gli
uffici municipali; s’era svuotata.
69
Monsignor Dino Tomassini era stato assistente del San Carlo fra il 1940
e 1941; trasferitosi al Seminario Regionale, al San Carlo rimase Don Odorisio Capoccia (cfr. nota 9).
70
Ridolfi Persiano è attestato: brigata Garibaldi di Foligno, n. 3269,
1.10.1943 -1.7.1944, civile, commissario politico di brigata (fonte cit. alla nota
13). Cfr. i documenti da lui firmati in L'Umbria nella Resistenza cit.
90
Perché non domandare aiuto proprio a questa martoriata città, di esser protetti dai nazifascisti che li cercavano sulle montagne? Questo decisero di fare.
Nel centro antico si rinchiuse Adelio con il partigiano "sancarlista" Bruno Serlupini71 nell’appartamento disabitato in via
Principe Amedeo (ora Gramsci, n. 85), dove con ammirevole
spirito papà Serlupini portava loro il vitto. Il comandante Cantarelli tornò nella sua abitazione (palazzo Guiducci in piazza
San Nicolò). Un consistente gruppo di cinquanta o sessanta
partigiani non tutti folignati si rifugiò nel monastero disabitato delle suore agostiniane di Betlemme (via Pierantoni, vicolo
cieco, appendice di via Garibaldi)72, per iniziativa tempestivamente presa con monsignor Faveri che con immensa dedizione evitò la dispersione d’una buona parte della brigata.
I partigiani maggiormente responsabili dell’andamento
delle operazioni non poterono esimersi dal mantenere i contatti con tutti i compagni e perciò trovarono il modo d’inviarsi
messaggi lasciandoli in luoghi convenuti. Al compito di consolidare tali contatti si dedicarono soprattutto la madre d’un
caduto Olga Ciri e Luigi Faveri, ambedue membri del Comitato di liberazione nazionale clandestino. Furono disseppellite le armi e costituito un "battaglione cittadino ed un corpo di
polizia" comandato da Edoardo Marinelli73. Tre giovani che
avevano frequentato il "San Carlo", ravvedendosi del loro errore per effetto d’una efficace opera di persuasione, passarono armi e bagagli nelle file dei partigiani e andarono poi a
combattere in prima linea nella divisione Cremona con l’VIII
Armata inglese.
71
Serlupini Bruno è attestato: brigata Garibaldi di Foligno, n. 3294,
28.9.1943 -1.7.1944, militare, comandante di squadra, "sancarlista" (fonte cit.
nota 13).
72
M. SENSI, S. Maria di Betlemme a Foligno. Monastero di contemplative agostiniane, Foligno 1981, pp. 61-62.
73
[A. Cantarelli], Relazione cit., in L 'Umbria nella Resistenza, cit., II, p. 270.
Marine1li Edoardo è attestato: brigata Garibaldi di Foligno, n. 3166, 1.10.1943
-1.7.1944, commissario politico di Battaglione (fonte cit. alla nota 13).
91
La ricostituzione della brigata e la liberazione di Foligno
Intorno alla metà di maggio del 1944 dopo un incontro, nel
villaggio di Seggio, dei comandanti e commissari politici dei
vari battaglioni della brigata Garibaldi, comandante di brigata
Antero Cantarelli e commissario politico di brigata Balilla Morlupo, fu diramato l’ordine di ricompattare tutti gli uomini disponibili per raggiungere nuove destinazioni e tornare all’azione. Infatti il 10 maggio ebbe inizio la grande offensiva alleata
contro la "linea Gustav".
Intorno al battaglione Mameli si radunarono sessanta elementi fra vecchi e nuovi, che andarono a operare con il comandante Giacinto Cecconelli e il commissario politico Adelio Fiore
nella zona collinare di Bevagna e di Cannara (m. 224 e 191 alt.)
con qualche rilievo non più alto di settecento metri.
Là era previsto un forte passaggio di truppe nemiche in ritirata da Cassino che potevano essere attaccate lungo la strada
provinciale abbastanza vicina alle posizioni tenute dai partigiani del luogo. La scelta fu ritenuta dalla maggior parte dei volontari della brigata Garibaldi importante soprattutto perché consentiva di allargare il campo d’ azione e di propaganda con il
coinvolgimento di altre popolazioni e di nuovi ceti nella Resistenza. Infatti i contatti che si stabilirono con i bevanati nel "San
Carlo" risultarono fruttuosi, registrandosi l’immediata adesione di circa trenta volontari di estrazione prevalentemente contadina, che si aggiunsero ai quarantadue uomini già organizzati dal comandante Damino Pelagatti74 di Castelbuono (m. 354
alt.), frazione di Bevagna. Si modificò pertanto la fisionomia
74
Pelagatti Damino è attestato: brigata Garibaldi di Foligno, n. 3216,
1.11.1943 - 11.7.1944, militare, comandante di Distaccamento (squadra) (fonte
cit. alla nota 13). Egli firma il documento della banda Garibaldi di Bevagna,
di 42 uomini, come sottotenente, in data 31.1.1945 (Archivio di Stato di Perugia, Archivio del Comitato di Liberazione nazionale, b. 13, Attività dei patrioti,
Fasc. Brigata Garibaldi 1944-1945, sottofasc. h, Bevagna, Foligno, Monte FavaIto, Gualdo Cattaneo, Nocera Umbra, Spello). È annessa al fascicolo la
carta del territorio occupato dai patrioti con Bevagna, Gaglioli, GuaIdo Cattaneo, Civitelle, Limigiano, Cantalupo, Torre.
92
piccolo borghese e studentesca del primitivo gruppo di partigiani appartenenti al centro antico di Foligno. Il fatto rappresenta una novità importante del secondo Risorgimento rispetto al primo; e cioè l’affratellamento tra il popolo delle città e
quello delle campagne, che produsse un allargamento della coscienza democratica collettiva e la partecipazione alle lotte per
le scelte politiche nazionali da parte delle masse sino allora
estromesse. Studenti, artigiani e operai, già presenti nel primo
Risorgimento, trovarono finalmente il modo di allearsi con
pastori e coloni. Riaffiorava attraverso lo scontento profondo il
ricordo di precedenti lotte contro gli agrari soffocate con l’avvento del fascismo come quelle degli operai nei centri industriali.
Avvenuta la fusione, questa volta il battaglione in marcia si
affidò alla guida intelligente, esperta e coraggiosa d’un contadino, il comandante Damino Pelagatti di Castelbuono. Quattro
ore occorsero per il trasferimento della banda da Foligno nel
territorio di Bevagna. Durante la notte furono agevolati dal
tracciato del fiume Topino, e poi del fiume Timia e del torrente Attone.
I primi di giugno una pattuglia di partigiani in perlustrazione scendendo a Cannara catturò quattro tedeschi armati. Mentre venivano condotti al comando in Castelbuono, uno di essi
agilissimo scappò lanciandosi per una scarpata con un volo di
almeno venti metri; evidentemente era un acrobata! Lo cercarono subito, e con le torce per tutta la notte in quel burrone, ma
non riuscirono a trovarlo. Si era salvato e perciò non tardò a
compiersi la temuta rappresaglia. Infatti dopo qualche giorno
si vide giungere al comando un piccolo corteo di civili piangenti ai quali erano stati presi quali ostaggi trenta dei loro congiunti. Imploravano perciò la liberazione dei tre prigionieri tedeschi. Attraverso alcuni intermediari si presero allora contatti
con il comando tedesco di stanza a Cannara e si preparò l’incontro per lo scambio dei prigionieri, da effettuarsi nelle prime
ore del pomeriggio sulle alture di Castelbuono in un terreno
ben controllabile e pianeggiante dalla forma simile a un quadrilatero. Si fronteggiarono alla distanza di circa trenta metri un
plotone di tedeschi armati di tutto punto da un lato e su quel-
93
lo opposto il comandante e il commissario politico (Cecconelli
e Fiore con la pistola in tasca) e i rispettivi prigionieri; sul terzo lato si dispose il gruppo dei familiari avvertito in tempo di
quanto si stava per compiere; sul quarto lato protetto dal bosco
erano appostati nascosti e invisibili tutti gli altri partigiani
pronti a intervenire nel caso d’un maledetto tradimento. La tensione era altissima. Lo scambio dei prigionieri avvenne al centro del quadrilatero. E subito scoppiò un tripudio di gioia di
abbracci di baci con le lacrime.
Per facilitare l’avanzata degli alleati continuarono gli attacchi ai tedeschi ormai in ritirata. Alla vigilia della liberazione,
mentre il battaglione era in procinto di muoversi verso la città
di Bevagna per incontrare gli alleati, durante una perlustrazione Adelio scorse su una strada in collina tre tedeschi che cercavano rifugio. Intimò l’alt ed essi lasciarono immediatamente
cadere le armi. Uno di essi maresciallo quarantenne della Wehrmacht gli corse incontro abbracciandolo e disse:
— Stufo di correre.
Gli consegnò un leggio di legno con su scritto il proprio
nome, Butz, in una borsa di cuoio le carte topografiche in cui
era tracciata la linea della ritirata da Cassino sino alla linea gotica, una pistola maschine efficientissima e molto maneggevole,
simile a una piccola mitragliatrice. Adelio si compiacque molto di quell’incontro con un tedesco umano. Fraternizzarono con
i tedeschi nei giorni che l’ebbero loro "ospiti" fin tanto che non
vennero consegnati all’ufficiale inglese addetto al raggruppamento dei prigionieri in Bevagna. Si salutarono con un caloroso abbraccio... Era un preludio di pace? Una fuga spontanea di
sentimenti? Abbiamo detto all’inizio della narrazione: guardiamo bene dentro i fatti, per capire i significati e il valore dei gesti che segnarono la vita di questi giovani "garibaldini" del
Novecento.
Impegnati sino all’ultimo momento nelle azioni di sabotaggio contro le colonne tedesche, nei combattimenti e nella cattura dei nemici, furono testimoni di molti episodi verificatisi da
parte dei soldati della Wehrmacht. C’era chi preferiva arrendersi
ai partigiani, chi correva incontro agli alleati; altri indecisi rimanevano intrappolati nella morsa fra partigiani e alleati che s’in-
94
contrarono in Bevagna prima d’entrare a Foligno (16 giugno ).
Ma la più sconvolgente delle vicende era rappresentata dall’uccisione per parte delle SS di molti loro connazionali che per lo
sfinimento tentavano di sottrarsi agli ordini impartiti.
Con la liberazione dell’Umbria meridionale si concludeva un
ciclo d’imprese che vanno ascritte a varie eroiche formazioni
partigiane, fra cui le brigate Gramsci, Garibaldi e Melis. È certamente parziale la storia del battaglione Mameli con i fatti più
minuti che vengono qui riferiti, ricavati dalla memoria e dalle
opinioni di un solo uomo, per quanto sempre presente e attento
a tutta l’attività svolta; parziale in confronto al raggio d’azione
dell’intera brigata Garibaldi, che è sintetizzata dal Comandante
nella Relazione, cui s’è fatto spesso riferimento nelle note. Alle
righe riguardanti il 4-17 giugno, liberazione di Roma -arrivo
degli alleati "a sorpresa" a Foligno, si legge:
È una lotta senza tregua e senza quartiere che gli uomini della "Garibaldi" conducono contro il nemico a Foligno, a Trevi, a Colle Croce,
a Mosciano, a Nocera Umbra, a Gualdo Tadino, a Bevagna, a Bastia,
ad Assisi, a Cannara, a Torre del Colle, a Ponze Collesecco e in tutte
le zone circostanti, che sono il campo di battaglia della brigata.
Adelio vuole ricordare accanto ai caduti che compaiono negli elenchi dei documenti ufficiali del Comune di Foligno, il
partigiano "sancarlista" Carlo Silvestri75, che sopravvisse di
poco alla vittoria, morendo di tisi per i patimenti sofferti in
montagna. E si augura di poter leggere altre memorie che diano la conoscenza sempre più completa del periodo 1943-’45 nel
territorio folignate.
L’Umbria s’era riscattata, aveva lottato e sofferto massacri,
terrore, rovine d’ogni genere, miseria e fame, anche troppo
lungamente per la tattica temporeggiatrice degli alleati, la loro
75
Silvestri Carlo è attestato: brigata Garibaldi di Foligno, n. 3295, 28.9.1943
- 1.7.1944, militare, comandante di squadra, "sancarlista" (fonte cit. nota 13).
95
debole offensiva e l’avanzata lentissima76. Scarse le forze messe in campo complessivamente dagli alleati a fronte dei loro
indiscriminati devastanti bombardamenti; mentre i tedeschi
cedevano palmo a palmo opponendo la "ritirata aggressiva"77,
sfruttando alture e corsi d’acqua, bersagliando le popolazioni,
sguinzagliando pochi "guastatori" a fare terra bruciata anche
dei più piccoli impianti produttivi; sebbene nessun luogo fosse più sicuro per loro per la presenza dei partigiani78.
I "sancarlisti" pensarono che non era ancora giunto il momento di consegnare le armi agli alleati, una volta liberato il
nostro territorio. Furono raccolte e nella massima segretezza
nascoste dentro il monastero delle suore di San Giuseppe e poi
dentro il "San Carlo" in un luogo conosciuto a pochissimi responsabili. Il legittimo governo militare e civile del territorio
era nelle mani degli alleati (il Town Major Bennett) e del Comitato di liberazione nazionale.
Monsignor Luigi Faveri commemora i caduti
Il 6 agosto 1944 a cura del Comitato pro patrioti brigata Garibaldi di Foligno si celebrò la commemorazione dei Caduti. Il
discorso pronunciato dal Vicario generale della Diocesi, monsignor Luigi Faveri, fu considerato un documento indimenticabile anzi imprescindibile per la conoscenza dello spirito della
76
M. SALVADORI, Breve storia della Resistenza italiana, cit., p. 177: «Molti hanno detto che la campagna del 1944, lo stillicidio di vittime umane, il consumo materiale non erano necessari, che sarebbe stato possibile evitare la rovina di tanta parte dell'ltalia Centrale». R. BARAZZONI e U. GIGLIOLI, La liberazione dell'Emilia Romagna, cit., p. 20: «La guerra di logoramento voluta dal comando alleato finisce per accrescere a dismisura il costo della liberazione in
sangue e sofferenza. Le popolazioni intuiscono il rischio tremendo a cui
l'espone questa strategia temporeggiatrice».
77
Espressione del maresciallo Kesserling (P. SECCHIA, La guerra partigiana
nell'Italia centrale, in L'Umbria nella Resistenza, cit., I, p. 172).
78
Archivio di Stato di Perugia, Prefettura, Archivio di Gabinetto, b. 38, fasc.
12-6 (1 carta), Foligno, brigata GaribaIdi, Agosto 1944, Questura di Perugia.
Situazione di Foligno.
96
Resistenza folignate, del clima che caratterizzò nel bene e nel
male la nostra città; per la ricchezza delle informazioni, segno
d’una presenza diretta e sofferta; per i giudizi netti, forti e anche molto duri.
Ribelli! fu il nome d’origine! A prima vista non troppo rassicurante, non troppo lusinghiero e che fa istintivamente pensare ad una infrazione morale, recante il pensiero alla superbia ed alla sua legittima
figlia: la rivolta!
Lucifero fu il primo ribelle e condannato all’Inferno. Sotto questa
luce noi siamo soliti considerare ogni atto di ribellione! Ma spesso a
torto. Di fronte ad una ingiustizia, ad una prepotenza, ad una sopraffazione, noi legittimamente e santamente diciamo di ribellarsi; e la
nostra ribellione suona allora affermazione di giustizia, di forza, di libertà.
Di ingiustizie, di prepotenze, di sopraffazioni era oramai così alto il
cumulo nella vita privata e sociale che si può dire era degenerato in
un’ordinaria e normale forma di governo, in una prassi legislativa che
dal primo gerarca, giù giù, fino all’ultimo incosciente pedissequo, intrecciava una iniqua catena di ben arduo e difficile rompimento! Occorreva generosità, audacia, sacrifizio, ed i giovani si fecero avanti. I tanto decantati giovani nati e cresciuti nel clima rovente del passato regime, i giovani per i quali la gioventù era stata bellamente ribattezzata in
giovinezza, che in meno di 22 anni si riscontrò decrepita, si fecero avanti e gridarono: Ribelliamoci! Ribelliamoci contro ogni forma di paura, di
ipocrisia, di sevilismo! ribelliamoci contro tutti gli iniqui bandi dello
straniero invitato ad invadere ignominiosamente le nostre belle contrade; ribelliamoci contro ogni forma di turpe mercato di coscienze, contro ogni viltà e contro ogni forma di tradimento.
Ribelliamoci infine contro ogni supina e colpevole inazione creata
da vessazioni e da tutte le gamme di insulsa propaganda volta a favore di pochi profittatori e a danno supremo della patria!
E divennero così "Ribelli..." e si allontanarono dai centri coinquinati di ipocrisia, di servilismo, e di paura raggiungendo la corona dei
nostri monti che furono generosi dei loro passi impervi, delle loro gole
occultanti, delle loro cime spianti, dei loro bei ripiani accoglienti! In
questo primo loro deciso trapasso dalla città alla montagna videro cadere il loro primo compagno: l’eroico e baldo giovane Franco Ciri che,
aprendo la serie delle vittime dei sicari, militanti tra le file dello straniero, fu assurto ad un puro simbolo della rinata gioventù italiana!
97
I ribelli messi al bando da ordinanze tedesche, fiutati da un nutrito spionaggio, avidamente cercati chiesero e trovarono armi! E quando sui nostri monti giunsero i malaugurati discendenti degli Unni,
dei Vandali, Goti, Visigoti, Ostrogoti (Barbari in una parola), i ribelli
impugnando le armi contro il dichiarato nemico della nostra patria,
che si accingeva a saccheggiare e a colmare di sventure, dimenticando quasi la loro personale ribellione alle ingiustizie ed ai tradimenti,
spaziando in una sfera ancor più nobile, dignitosa e universale, preferirono chiamarsi Patrioti... amanti ossia di quella Patria che molti
italiani rinnegavano facendo causa comune con il secolare nemico
della sua fulgida civiltà.
Di qui la lotta aperta, di qui gli accampamenti regolari, di qui il
reclutamento militare, di qui le retrovie e le trincee e tutto quel complesso di opere che trasformarono i piccoli gruppi dei nostri giovani
in veri e propri reparti armati, in veri e propri centri militari.
Ma il soldato non si sostiene soltanto con le armi, delle quali del resto non ne ebbero abbastanza i patrioti, ma di indumenti, di viveri, di
medicinali, di tutto quell’insieme che rende se non comoda, per lo
meno possibile la vita umana! Ed essi non disponevano di magazzini
avanzati, non di sussistenze o di commissariati e pur dovevano vivere per combattere. Ecco la dura necessità di chiedere, di requisire!
L ’egoismo umano, l’incomprensione, la perfida propaganda, i vieti preconcetti, avevano ristretto il cuore e annebbiata la mente del
nostro popolo, che si preparava a negare... e ne nacque necessariamente la forza per ottenere quanto necessitava alla vita.
Si gridò subito ai violatori della pacifica proprietà, agli scassinatori, ai briganti gettando manate di fango sul volto dei patrioti che non
desistettero, per altro, con tale profonda ferita nel cuore, dalla requisizione di viveri, di armi, di indumenti e di alloggi.
Un audace e fedelissimo nucleo di volenterosi, il primo piccolo
nucleo che costituisce oggi il Comitato della liberazione nazionale
(giova ricordarlo per rispondere alla domanda che viene ogni tanto
raccolta: Ma chi sono questi signori del Comitato?) organizzò raccolte
di danaro, di viveri, di indumenti, di armi e munizioni e di medicinali. Stabilì un servizio di trasporti clandestino, creando dei gustosissimi episodi di scaltrezza, di coraggio: travestimenti, documenti alterati, mezzi celeri di trasporto notturno adibiti nelle ore diurne al servizio degli stessi tedeschi, tutto fu osato... e armi e pane non vennero mai meno ai nostri giovani colti in montagna dalla rigida stagione.
Viveri di conforto, visite di amici e famigliari, corrispondenza epistolare, perfino assistenza culturale e religiosa, tutto fu imbastito ed
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eseguito sotto il naso delle spie e degli sgherri, in un clima di terribili sanzioni e di una diffidenza agghiacciante!
Ma avanti, avanti sempre di lotta in lotta, di sorpresa in sorpresa,
di ardimento in ardimento... E i primi caduti, i primi catturati, i primi seviziati e fucilati nei feroci rastrellamenti, le prime deportazioni!
I patrioti non tentennarono. I deportati nelle carceri (alcuni dei quali
qui presenti) restarono fedeli ed eroicamente fermi di fronte a tutte le
insidie, a tutte le intimidazioni, a tutte le lusinghe, a tutte le barbare
forme di sevizie e di allestimenti di plotoni di esecuzione! Dalle stesse
prigioni giungevano assicurazioni ed avvertimenti. Non sono mancate brillanti evasioni da infermerie, da reclusori, non sono mancate notizie false a scopo di disorientamento, scambio di documenti, simulate mansioni... un tutto meraviglioso e confortante legame tra il tavolaccio del carcere, le retrovie ed il campo trincerato! Questo il tormento e
questo il lavoro dei patrioti che i pavidi, gli indecisi, gli imbelli, circondavano e forse circondano ancora di diffidenza e interpretano alla stregua del proprio egoismo e del proprio quieto vivere gli atti di requisizione imposti dalle dure necessità del momento.
Ma nessuno ricorda gli atti di generosità operati dai Patrioti per le
popolazioni montane; nessuno ricorda la lotta spietata al mercato
nero che imperversava dovunque, specie sui monti, con obbligo a
mano armata di vendita di generi di prima necessità a prezzo normale; nessuno ricorda gli scovamenti di merci e la larga provvista a famiglie povere o malati, di latte, di carne e di coperte. Nessuno ricorda gli equi e talvolta lauti compensi in danaro per quanto veniva apprestato ai patrioti!
Le favole più ricamate, gli episodi più conditi, le amplificazioni più
ricercate... tutto fu al servizio della denigrazione! Per altro i Patrioti
rispondevano al nemico cui infliggevano perdite, toglievano armi e
indumenti, inibivano scorrerie e deviavano dai piani di rastrellamento e di rappresaglia sulle popolazioni. Purtroppo, non sempre,
data l’impari forza numerica e di armamento, fu possibile di impedire rappresaglie delle quali bene spesso vennero, per colmo, resi responsabili i patrioti! Ma si è voluto sempre persistere nel non voler
considerare i purtroppo duri rischi della guerra, attaccati all’assillante proprio comodo e alla considerazione delle proprie cose.
A chi da un ben difeso podio gridò un giorno che "si sarebbe fatta
tabula rasa della vita civile" fu risposto con un lungo applauso da una
folla briaca di parole e di promesse!
A coloro dai quali, a prezzo di sacrifizi e della propria vita, fu messo a repentaglio qualche lembo di vita civile fu gridato il Crucifige!
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Tant’è! Ma i patrioti non han preteso mai applausi. Consapevoli
della loro missione e sostenuti dal proprio ideale stettero saldi nella
lotta, insensibili a tutte le incomprensioni, fieri dinanzi alla stessa
morte che li doveva sublimare artefici della rinascita di una coscienza libera e nazionale!
Per voi o gloriosi caduti la gratitudine perenne e sentita degli onesti che non si macchiarono di infingimenti e di dedizioni vergognose allo straniero. La storia di un prossimo domani vi additerà ad un
mondo ricomposto e riformato sulle rovine materiali e morali, come
veri ed eroici soldati, che caddero con le armi in pugno colpiti nel
petto forte, ignari della fuga e della viltà. Ribelli a tutte le ingiustizie
e a tutte le mistificazioni dei profittatori, conservate se così più vi piace, il vostro nativo titolo di ribelli, ma noi amiamo maggiormente appellarvi Patrioti, perché nel più oscuro periodo della Patria nostra voi
innalzaste la fiaccola della riscossa con il solo intento di ridare pace
e libertà a questa Italia che fu donna di province e tale riprenderà faticosamente ad essere, perché voi bagnaste di sangue le sue zolle imbalsamandole del vostro sacrifizio.
La Chiesa vi ha pregato il suo riposo, la Chiesa vi ha pregato la luce
perpetua, mentre ancora, per coloro che lasciaste in vita e corroboraste col vostro eroico esempio, c’è ancora lungo lavoro da compiere e
fitte tenebre da dissipare.
Aiutateci dal Cielo a continuare la vostra opera e siate gli angeli tutelari di questa martoriata Patria fino al suo pieno riassesto per la sua
ascensione alla meta radiante di pace — di benessere — di libertà!
Volontario al nord
Adelio, e non solo lui, aveva avvertito il bisogno e il dovere
di continuare la lotta di liberazione nel nord dell’ltalia ed esprimeva agli amici il proposito di partire immediatamente. Diceva scherzosamente, alludendo alle calunnie e denigrazioni che
sui partigiani e le partigiane erano ricadute:
— Bisogna andare a ripulirsi la faccia.
Lasciava la piccola sorgente che scendeva sommessa dalle montagne umbre per entrare nel fiume della Resistenza nazionale.
Ma la partenza fu ritardata ed egli ne fu contrariato. Non
c’era accordo fra gli alleati, favorevoli alla monarchia, sulla
partecipazione dei volontari italiani alla guerra, soprattutto per
100
la prevalente connotazione partitica che alle varie formazioni
dei volontari conferivano complessivamente i molti aderenti al
partito comunista. Il governo italiano, di cui facevano parte anche comunisti e socialisti, riuscì ad averla vinta. Era importante per gli italiani potersi riscattare con una larga e motivata
partecipazione (notevole in questo l’opera di Togliatti).
Durante la lunga attesa del nuovo arruolamento con i suoi
amici partecipò al lavoro di propaganda svolto in preparazione,
che dette ottimi risultati. Un buon numero di volontari era costituito dagli stessi vecchi "ribelli", ora chiamati "patrioti" o "partigiani"; i nuovi erano giovanissimi entusiasti, sui sedici anni alcuni, bisognosi di molte attenzioni da parte degli anziani.
Dalla piazza XX Settembre di Foligno, ricca di bellissimi ricordi per lui, partì il 12 febbraio del 1945 con un camion militare insieme a sessanta giovani, "sancarlisti" e loro amici, affini socialmente e spiritualmente.
Il nuovo gruppo di volontari si era formato e affiatato frequentando gli incontri promossi da coloro che avevano costituito il primo nucleo della brigata Garibaldi. Nella sede del
"San Carlo" si svolse la funzione d’orientamento e d’aggregazione fra giovani, forte e incisiva opera d’impegno politico,
distintasi nel panorama delle associazioni cattoliche e nel quadro dei partiti storici per la sua autonomia. I giovani organizzati nel gruppo del "San Carlo" entrarono liberamente nella
Resistenza; e non tutti poiché ognuno aveva la sua storia e la
sua situazione personale; nessuno dall’esterno li costrinse o li
condizionò; non evidenziarono affiliazioni partitiche, non ricevettero direttive da organizzazioni esterne, le maturarono
nella propria coscienza e nella comunicazione con i propri
compagni. La loro originalità sta nell’essersi organizzati non
ad opera di qualche partito o per qualche partito79.
Adelio non accettava l’idea di un cristianesimo chiuso nel recinto morale e spirituale della sacrestia, faceva i conti con il nuovo impegno politico che emergeva nel cambiamento della socie-
79
P. E. TAVIANI, Cristiani nella Resistenza, in "Civitas", XXXI, Roma, 1980,
pp.5-17.
101
protetta. Dissero che altrimenti avrebbero abbandonato l’impresa ritornando a casa. Il maggiore si ritirò senza dare alcuna
risposta al momento.
Non è facile valutare quale peso poté avere quell’alzata di scudi, quanto potessero o meno influire considerazioni riguardanti la composizione e il carattere politico della loro "banda" (termine usato proprio dagli alleati), quanto grande fosse la necessità
d’incrementare la consistenza dei volontari: sta di fatto che ottennero di rimanere tutti uniti entrando a far parte della 10° compagnia formata da quattro plotoni, del 22° reggimento fanteria, 3°
battaglione della divisione Cremona agli ordini del generale Primieri, nell’VIII Armata inglese del generale R. L. Mac Creery81.
Altri valorosi folignati combattevano sullo stesso fronte nel
21° reggimento fanteria, 3° compagnia, 3° battaglione della
stessa divisione Cremona82.
Con fatica e sofferenza il gruppo di giovani "garibaldini" folignati andava a incorporarsi nell’esercito regolare multirazziale degli inglesi e americani raccolto da tutti i continenti! Avevano dismesso i loro stracci, non erano più nella necessità di "rubare" il pane ai civili, ricevevano cibo cucinato anche fresco,
caffé sigarette liquori, la regolare distribuzione della posta.
Cantarelli e Cecconelli secondo i gradi acquisiti nell’esercito
italiano avevano il comando del primo e del secondo plotone,
formati dagli amici folignati; Adelio caporal maggiore veniva
nominato vice comandante del primo plotone rimanendo al
fianco dell’amico Antero.
Cercarono di evitare anche un altro pericolo: quello d’essere
mandati in prima linea senza la necessaria conoscenza dell’uso
delle armi e chiesero perciò un congruo periodo di tempo per
l’addestramento, che eseguirono, solo per dodici giorni, pochissimi, sulla spiaggia di Porto Corsini con i bersagli situati
presso il mare, dato che il tempo s’era messo al bello.
81
Dati ricavati dagli attestati in possesso di Adelio Fiore.
Cfr. Il contributo di Foligno, cit.; M. FORMICA, I volontari di Foligno nella
Cremona, in Antifascismo e resistenza, cit., pp. 117-118.
82
103
Ben presto si resero conto di essere presi nella spietata macchina della guerra ad alta tecnologia dove non erano chiamati
in causa tanto i loro valori interiori quanto la logica più fredda
della violenza dai mille ordigni di morte e di distruzione. Alcuni nel frattempo furono colti da un’altissima febbre... e trasportati all’ ospedale riapparvero dopo il 25 aprile! Un volontario tra i più anziani si udì mormorare frastornato:
— Dove c... ci ha mandato Togliatti? Questi episodi mostrano i traumi sconvolgenti prodotti dal durissimo impatto. La
guerriglia di montagna, sin allora praticata, esteriormente e interiormente aveva avuto risvolti e momenti persino "romantici".
Ebbero il nuovo battesimo il 2 marzo a Torre di Primaro sulla
destra della foce del Reno.
L’ordine dell’attacco venne dato con un giorno d’anticipo. Cosa
fare per poter prendere sonno al momento di coricarsi? C’era un
pallone e si giocò una partita per scaricare l’ansia crescente.
Dovevano andare all’assalto per snidare i tedeschi che occupavano una decina di fortini in cemento armato con mitragliatrici e cannoncini sulla riva destra del Reno, ostacolando l’avanzata degli alleati. Il grosso dell’esercito nemico stava sull’altra
sponda del fiume. Preceduti dai carri armati che sradicavano
gli alberi della famosa pineta "garibaldina" di Ravenna, i nostri
soldati avanzavano attraversandola fra la sabbia e il mare,
mentre echeggiava il grido di qualche ufficiale: "Savoia! Savoia!"
La stupidità omicida della guerra richiedeva ancora un elevato numero di perdite umane. Chi moriva sventrato dalle
mine, chi cadeva sotto le cannonate tedesche, chi rimaneva
stecchito sotto gli alberi che piombavano in testa. Era un inferno. In vista dei fortini si gettarono carponi sulla sabbia e avvenne che, mentre gli ufficiali ordinavano d’aprire il fuoco, s’accorsero che quasi tutti i fucili di grande precisione, enfield, thompson, bren, avendo toccato la sabbia non sparavano più. Ma i tedeschi non attesero molto, non potendo scappare imbottigliati fra il Reno e il mare, uscirono dai fortini e si arresero. Vennero
fatti circa 350 prigionieri originari di varie nazioni occupate dai
tedeschi. Sempre nel territorio ravennate a Casal Borsetti il 3°
battaglione dovette successivamente attaccare i tedeschi. Ces-
104
sato il fuoco, si formò una pattuglia per effettuare una perlustrazione e fu necessario procedere con la baionetta in canna.
Accanto ad Adelio c’era il giovanissimo Ubaldo Balducci83 che
mantiene vivo il ricordo di questo e altri episodi. Verificarono
che i tedeschi s’erano ritirati ed era libera la via per avanzare,
ma furono colti da un improvviso e prolungato cannoneggiamento che li costrinse a rifugiarsi proprio nelle postazioni abbandonate dai tedeschi poco prima; il tenente Cantarelli si rese
conto che stavano per essere ammazzati dall’artiglieria polacca e quindi dai loro stessi alleati e ordinò tramite il comando di
battaglione che fosse cessato il fuoco. Protestarono vivacemente per quello "scherzo" troppo pericoloso... cecità della guerra!
Le operazioni in prima linea s’alternavano ai periodi di riposo sempre abbastanza brevi; spettacoli teatrali e musicali venivano offerti a Ravenna. Una sera i ragazzi giocarono a poker
nel comodo magazzino d’uno zuccherificio di Mezzano il paese
dov’ era il loro alloggio. Adelio fu improvvisamente svegliato
da uno dei suoi più giovani amici di Foligno che gli stava dicendo: —Adè, ciànno pulito!!
Due sergenti napoletani li avevano spogliati di tutti i loro soldi e perciò chiedevano aiuto. Adelio giocò fino al mattino recuperando la somma che ritornò ai proprietari, trattenendo per sé
i soldi della vincita:
— Non giocate più a poker — li ammonì — senza il papà.
Dentro di sé si sentì rassicurato verificando la buona tenuta
della sua mente al gioco del poker: infatti temeva molto che
fosse logorata o già fuori uso per il grave stress della guerra.
Un periodo drammatico fu quello trascorso a difendere un
punto avanzatissimo del fronte chiamato Casa Zanarda, dov’erano avvenuti furiosi bombardamenti, le case diroccate, le
bestie morte sotto le macerie. Dovevano sostituire i commandos
inglesi formati, com’è noto, di elementi molto prestanti, altamente specializzati, armatissimi, ognuno col suo fucile mitra-
83
Balducci Ubaldo (1927) non prese parte alla lotta partigiana per la sua
troppo giovane età; merita di essere menzionato tra i molti decorati per aver
combattuto nella divisione Cremona con grande coraggio e generosità.
105
gliatore. A differenza degli italiani che ne avevano quattro per
plotone. Subito i tedeschi arrivarono con una pattuglia fino alle
postazioni italiane. Nella notte durante il turno di perlustrazione Piero Donati84 e Adelio avvertirono dei rumori. Piero sparò
una raffica, si udì il tramestio e il calpestio di vari tedeschi che
scappavano. Erano in procinto di irrompere nella postazione
per catturare qualche soldato da cui carpire preziose informazioni; infatti stavano già trascinando via uno dei nostri, un trentino. Lasciarono la stretta fuggendo; riverso sul suo bazooka
giaceva però un prussiano di diciannove anni. I tedeschi erano
specialisti in tali agguati notturni e una volta riuscirono, si raccontava, a prelevare un intero plotone. Dunque i nostri s’erano
difesi con la massima destrezza.
Era terminato da due giorni il turno di prima linea e tardava
a giungere il cambio. Giunse invece un grande attacco nemico
con bombardamento di mortai che durò dall’imbrunire all’alba. Corsero il rischio di essere circondati e annientati; saltarono tutti i mezzi di comunicazione e il plotone fu dimezzato. I
folignati furono feriti in vario modo, più gravemente il comandante Cantarelli di nuovo alla testa, ma nessuno di loro rimase vittima di quella dura battaglia da cui la fine regolare del turno li avrebbe dovuti esonerare. Erano rimasti isolati e privi del
comandante. Adelio dovette farne le veci: si occupò del trasporto dei morti, del rifornimento delle munizioni, raggiungendo le retrovie, sempre rischiando la vita, dovendo camminare sui campi bombardati per raggiungere il comando dal
quale ottenne munizioni e uomini per il trasporto.
Si facevano sentire nei momenti più difficili le carenze dell’alimentazione ridotta ai soli prodotti in scatola. Si correva
qualche rischio per catturare fuori dalla propria zona una innocente gallina che coccodava: la cossero improvvisando uno
spiedo ed ebbero un attimo d’allegria. Dopo il più che merita-
84
Donati Piero è attestato: brigata Garibaldi di Foligno, n. 3091, 22.9.194331.7.1944, civile, commissario di guerra (politico) di Battaglione (fonte cit.
alla nota 13); decorato di medaglia di bronzo, come risulta da Il contributo di
Foligno, cit., p. 17.
106
to riposo eccoli su di un altro avamposto, a Fusignano, dove
occuparono la casa abbandonata d’un prete e d’un ingegnere.
Ebbero in dono insperatamente i frutti della terra di Romagna
e della sua gente laboriosa così duramente provata dalla guerra. Trovarono nelle cantine grandi tini di frutta sciroppata circondati di filo spinato con il cartello "pericolo di morte" e la
maschera della morte. Un po’ per intuito un po’ col fiuto capirono: ci furono per tutti pesche e vino a volontà. La ricca biblioteca abbandonata e rimasta intatta fornì ottima materia di lettura, lampi di luce nelle tenebre: Cronin, Steinbeck, un breviario...
La fine della guerra non era lontana e appunto per questo si
fece più tragica che mai.
Appostati vicino al fiume Senio dove resisteva la "linea gotica", dovevano compiere l’avanzata su tutto quel fronte per cacciare i tedeschi dalle due rive del fiume e quindi dal centro agricolo di Alfonsine. Tutta la linea facendo fuoco si mise allora in
movimento lungo il fianco destro del fiume per circa quindici
chilometri di lunghezza. I tedeschi che da tempo avevano scavato nell’alto argine i loro abitacoli, portandovi anche i mobili, dopo una giornata di combattimenti furono costretti ad abbandonare le loro posizioni. Penetrando nell’entroterra in direzione di Alfonsine, i volontari vi entrarono all’imbrunire del 10
aprile 194585. In una casa diroccata si bevve ai "liberatori" da
una bottiglia di spumante offerta dalla famiglia che l’aveva
conservata tenendola nascosta in un sacco di fieno.
Adelio provava uno sfinimento mai sentito in vita sua, ma
del massacro non aveva conosciuto ancora il peggio. Attraversate le valli di Comacchio, dove l’acqua dolce si fa salata in un
dedalo di canali e lambisce l’ arenile selvaggio delle distese di
canneti, nascondiglio dei partigiani, s’incontrò con la disperazione più atroce. A Codigoro, posto al centro della bonifica fer-
85
Con la città di Alfonsine il Comune di Foligno e l' Associazione nazionale partigiani d'ltalia hanno mantenuto legami privilegiati che si sono riaffermati in ogni annuale ricorrenza con ampi riconoscimenti per la gloriosa
divisione Cremona.
107
rarese sul corso del Po di Volano, la gente era inebetita per la
tragedia che s’era consumata nella ritirata ad opera dei nazisti.
Il 17 aprile in Argenta aveva ceduto il fronte tedesco. I nostri
fanti della 10° compagnia si fermarono a Codigoro a smurare le
porte delle case divenute altrettante fosse di bruciati vivi per
mezzo dei lanciafiamme. Il cimitero fu ricolmo di cadaveri di
tutte le famiglie, che non se ne salvò una; le strade imbrattate di
sangue, il fetore tale da svenire. Nell’animo impietrito dei soldati trascinati nel più profondo abisso della guerra, s’infittiva
la tenebra dei sentimenti, dominati dal terrore e dalla pietà per
la vastità e la gravità delle rovine.
Nel Polesine attraversato il Po di Goro fecero una breve sosta ad Ariano e quindi prepararono l’attraversamento del fiume in direzione di Adria. Credendolo un torrentello come tanti
altri, molti fra i soldati stranieri inesperti vi morirono. Nella carenza di mezzi anfibi, che gli inglesi tenevano per le loro imprese, gli italiani costruirono con i pioppi a loro portata di mano
degli zatteroni da usare insieme a qualche barcone che potevano trovare; trasportarono sul Po truppe e cannoni affrontando
le più grandi difficoltà. Passando per Cavarzere attraversarono
più agevolmente l’ Adige e quindi il Bacchiglione e il Brenta,
mai sicuri di poterla scampare, ma sostenuti dalla consapevolezza che dopo la liberazione di Alfonsine l’esercito tedesco era
in rotta.
L’aria tuttavia era lacerata dall’assordante rumore ininterrotto dei cannoneggiamenti delle retrovie tedesche e dei bombardamenti degli alleati, che avevano accompagnato tutta la
campagna militare. Le privazioni d’ogni genere, anche la
mancanza di cibo, i lunghi tratti di cammino accidentato avevano quasi azzerato le forze dei fanti cosicché lo stesso zaino
durante la marcia veniva svuotato anche delle cose più necessarie. Rimanevano da trasportare soltanto l’arma e le munizioni.
Sulla riva sinistra del Brenta nei pressi della laguna veneta
Adelio e i suoi amici furono raggiunti dall’attesa notizia della
fine della guerra. Erano alloggiati nei casolari prossimi a Codevigo, dove ebbe fine l’inseguimento dei tedeschi in rotta (29
aprile). Le acque del fiume continuavano a trascinare silenzio-
108
samente cadaveri di civili compostamente vestiti vittime delle
ultime rappresaglie.
Gli altri volontari folignati appartenenti al 21° reggimento
della divisione Cremona, compiendo "il volo d’importanza
decisiva"86 ebbero la memorabile soddisfazione d’entrare il 29
aprile in Venezia insorta.
Umberto di Savoia in quei giorni andava a visitare le truppe
italiane. Per la rivista militare furono chiamati i reparti della
divisione Cremona. Adelio non volle parteciparvi nonostante
l’insistenza dei compagni; sentì raccontare da vari commilitoni presenti alla scena che al "presentat’arm" alcuni volontari
fecero cadere a terra le armi e videro che il principe preso il
fazzoletto si asciugò le lacrime87.
Non trascorsero cinque giorni da quell’avvenimento che dal
quartier generale giunse nel mese di maggio l’ordine di smobilitazione di tutti i volontari. Sciogliersi rapidamente. Come era
avvenuto nell’Ottocento ai primi garibaldini.
In una foto di gruppo di alcuni "sancarlisti", scattata a Padova in quei giorni, (vedi foto p. 110) si possono riconoscere da sinistra Ennio De Santis, Ubaldo Balducci, Adelio Fiore, Vinicio
Sabbatini, Caio Mario Lolli, e ricordare la loro gioventù sconvolta dalla guerra, l’impegno cristiano e politico, le prove di
amicizia, l’amore per la libertà testimoniato affrontando volontariamente gravi pati- menti e il rischio delle torture e della
morte88. Tornati a Foligno, rimasero vigilanti e attivi nel timore che alla nascita e alla culla della democrazia, che volevano
pluralistica, potesse avvicinarsi qualche genio malefico...
86
Cfr. Il contributo di Foligno nella lotta partigiana e nella guerra di liberazione
per il secondo Risorgimento d'Italia, cit., p. 18.
87
Un episodio sulle frequenti visite di Umberto di Savoia ai combattenti
italiani è pure narrato da R. BARAZZONI, Le ferite di Ravenna, in La liberazione
dell'Emilia Romagna, cit., pp. 60-61.
88
Ennio De Santis, 1924, pensionato dello zuccherificio di Pontelagoscuro
(FE); Ubaldo Balducci, 1927, pensionato di banca; Adelio fiore, 1920, geometra professionista; Vinicio Sabbatini, 1925, commerciante a Bari; Caio Mario
Lolli, 1927, pensionato di banca.
109
“Sancarlisti”della Divisione “Cremona”, Padova, maggio 1945. Fine della guerra di Liberazione
— La "resistenza" — sostiene Adelio — deve continuare a
praticarsi in forma costante, progressiva, sino alla piena e duratura affermazione della democrazia effettiva e dei suoi obiettivi, e ogni volta che questi siano minacciati. Questa mia profonda convinzione desidero consegnare ai giovani ai quali non
potrò parlare personalmente come ho fatto spesso nelle aule
scolastiche e in ogni opportuna occasione. Affinché non cedano al pessimismo.
111
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