Ipsoa - Il Corriere Giuridico di Balestra Luigi, Carbone Vincenzo
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Ipsoa - Il Corriere Giuridico di Balestra Luigi, Carbone Vincenzo
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III, 26 giugno 2015, n. 13203 altrui QUANDO NON DOVREBBE ESSERE APPLICATO, E QUANDO INVECE È PREZIOSO, e giurisdizione L’ISTITUTO DELLA GESTIONE DI AFFARI ALTRUI Contratto preliminare Condominio di Daniele Maffeis 1506 PER LA CASSAZIONE, IL GIUDICATO SULLA GIURISDIZIONE INTERNAZIONALE IMPEDISCE SEMPRE E COMUNQUE LO SCIOGLIMENTO DEL CUMULO CONDIZIONALE TRA DOMANDE (NOTE CRITICHE A MARGINE DEL ‘‘CASO AGNELLI’’) di Marcello Stella 1511 Cassazione civile, Sez. III, 22 maggio 2015, n. 10546 ANTICIPATORY BREACH E TERMINI DI PAGAMENTO DELLA PARTE NON INADEMPIENTE, TRA CLAUSOLE GENERALI E INTERPRETAZIONE LETTERALE DEL CONTRATTO di Francesco Astone 1518 Cassazione civile, Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 19663 LEGGE PINTO E LEGITTIMAZIONE DEL CONDOMINIO: IL DICTUM DELLE SEZIONI UNITE di Aldo Carrato 1531 Pubblico impiego Cassazione civile, Sez. lav. 2 settembre 2014, n. 18523 STRANIERI EXTRACOMUNITARI E INSERIMENTO PRESSO LE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI di Anna Montanari Coppia omosessuale 1498 Tribunale di Palermo, sez. I, 13 aprile 2015 Corte d’appello di Palermo, sez. I, 17 luglio 2015 GENITORE ‘‘SOCIALE’’ E RELAZIONI DI FATTO: RICONOSCIUTA LA RILEVANZA DELL’INTERESSE DEL MINORE A MANTENERE UN RAPPORTO STABILE E SIGNIFICATIVO CON IL CONVIVENTE DEL GENITORE BIOLOGICO di Silvia Veronesi 1520 1535 1541 1545 1549 1558 DIRITTO COMMERCIALE Responsabilità degli amministratori Cassazione civile, Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100 LA PRONUNCIA DELLE SEZIONI UNITE SUL DANNO NELLE AZIONI DI RESPONSABILITÀ CONTRO GLI AMMINISTRATORI DI SOCIETÀ FALLITE di Pietro Paolo Ferraro 1568 1573 DIRITTO PROCESSUALE CIVILE Falsus procurator Cassazione civile, Sez. Un., 3 giugno 2015, n. 11377 LA RILEVABILITÀ D’UFFICIO DELL’INEFFICACIA DEL CONTRATTO ED I RAPPORTI CON IL POTERE (NON GIÀ DI ECCEZIONE MA) DI EVENTUALE RATIFICA DEL FALSAMENTE RAPPRESENTATO di Giulia Gargiulo 1584 Principio della domanda 1596 Consiglio di Stato, ad.plen., 13 aprile 2015, n. 2 IL PRINCIPIO DELLA DOMANDA NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO di Franco Gaetano Scoca il Corriere giuridico 12/2015 1588 1600 1483 il Corriere giuridico Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sommario PANORAMA EUROPEO OSSERVATORIO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA a cura di Roberto Conti 1606 OSSERVATORI CORTE DI CASSAZIONE-SEZIONI UNITE a cura di Vincenzo Carbone 1611 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI SEMPLICI a cura di Vincenzo Carbone 1616 CORTE DI CASSAZIONE- CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI a cura di Giacomo Travaglino INDICE DEGLI AUTORI- INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI- INDICE ANALITICO 1622 1624 GLI SPECIALI digitali Segnaliamo che lo Speciale digitale de Il Corriere giuridico ‘‘L’ impiego delle categorie civilistiche da parte del giudice amministrativo’’ a cura Fabio Giuseppe Angelini, Vincenzo Carbone, Franco Mastragostino, Claudio Scognamiglio, Francesca Trimarchi Banfi, è disponibile gratuitamente per gli abbonati nella nuova sezione ‘‘Speciali Riviste’’ del servizio on line il Quotidiano Giuridico. Per consultare e scaricare il fascicolo in pdf vai su www.quotidianogiuridico.it/specialiriviste COMITATO PER LA VALUTAZIONE Salvatore Boccagna, Raffaele Caterina, Paoloefisio Corrias, Marco De Cristofaro, Francesco Delfini, Stefano delle Monache, Francesco di Giovanni, Pasquale Femia, Giuseppe Ferri, Giovanni Furgiuele, Marino Marinelli, Fabiana Massa Felsani, Marisaria Maugeri, Massimo Montanari, Stefano Pagliantini, Massimo Proto, Matteo Rescigno, Alberto A. Romano, Ugo Salanitro, Renato Santagata, Salvatore Sica, Mario Stella Richter, Alberto Tedoldi, Chiara Tenella Sillani, Francesco Venosta 1484 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Primo piano Banca Risoluzione delle crisi bancarie Il bail-in nel nuovo sistema di risoluzione delle crisi bancarie. Quale lezione da Vienna? di Giuseppe Guizzi - Ordinario di diritto commerciale nell’Università Federico II di Napoli Con il D.Lgs. n. 180 del 16 novembre anche l’Italia ha attuato la Dir. 2014/59/UE recante la nuova disciplina della risoluzione delle crisi bancarie, introducendo così lo strumento del c.d. bail-in. Vale a dire la possibilità, riconosciuta alla Banca d’Italia, quale autorità di vigilanza sulle banche e competente per la risoluzione delle crisi, di imporre coattivamente anche ai creditori di “partecipare” al rifinanziamento della banca in dissesto attraverso la conversione del credito in capitale ovvero attraverso la riduzione del valore nominale dei crediti. Tale disciplina rappresenta, per certi versi, una rivoluzione copernicana nel modo di affrontare il rischio di insolvenza delle banche; ed il sistema del bail-in suscita interrogativi anche sotto il profilo della sua compatibilità con le regole e i principi costituzionali, posti a tutela della proprietà e dei diritti patrimoniali nascenti da rapporti di diritto privato. Il lavoro cerca di avviare una primissima riflessione su tali questioni, anche attraverso la lente di una recente pronuncia della Corte costituzionale austriaca, che ha già avuto modo di confrontarsi con problemi analoghi. Il recepimento della Dir. 2014/59/UE e i potenziali problemi legati all’introduzione degli interventi autoritativi sui diritti dei creditori Seppure tra gli ultimi paesi dell’Unione, e a tempo oramai quasi scaduto (1), anche l’Italia ha dato attuazione alla Dir. 2014/59/UE approvata dal Parlamento il 15 maggio 2014, e che delinea il nuovo quadro normativo armonizzato in materia di composizione e risoluzione delle crisi bancarie (2). (1) Il nuovo sistema dovrebbe essere, infatti, operativo in tutta Europa dal 1° gennaio 2016; e il ritardo era costato all’Italia l’apertura, da parte della Commissione Europea, di una procedura di infrazione (2015/0066). (2) Attraverso lo strumento del decreto legislativo delegato, in attuazione dei principi fissati dall’art. 8 della L. n. 114 del 9 luglio 2015. Il D.Lgs. n 180/2015 è stato pubblicato sulla G.U. n. 267 del 16 novembre 2015. (3) Per un esame generale del sistema della direttiva cfr. AA.VV., The Bank Recovery and Resolution Directive, a cura di A. Drombet - P.S. Kenadijan, Berlin-Boston, 2013. Con particolare riferimento ai due meccanismi di cui si accenna nel testo, cfr. A. Capizzi - S. Cappiello, Prime considerazioni sullo strumento del bail-in: la conversione forzosa di debito in capitale, il Corriere giuridico 12/2015 In questo contesto - che nel linguaggio corrente dei pratici è oramai già identificato con l’acronimo BRRD, originante dalla titolazione del testo inglese della direttiva (appunto, banking recovery and resolution directive) (3) - un ruolo sistematicamente centrale, pure in un panorama assai articolato quanto a strumenti per fronteggiare il problema del rischio di insolvenza delle banche (4), è destinato ad assumere il potere affidato alla c.d. autorità amministrativa di risoluzione della crisi (identificata, nel nostro ordinamento, con la Banca d’Italia) di procedere coattivamente ora alla conversione forpaper presentato al convegno L’impresa e il diritto commerciale: innovazione, creazione di valore, salvaguardia del valore nella crisi, Roma, 21-22 febbraio 2014, organizzato dall’Associazione Orizzonti del diritto commerciale, e disponibile sul sito associativo www.orizzontideldirittocommerciale.it; A. Gardella, Il bail-in e il finanziamento delle risoluzioni bancarie nel contesto del meccanismo di risoluzione unico, in Banca, borsa, tit. cred., 2015, 587 ss. (4) Per una prima analisi dei quali cfr. L. Stanghellini, La disciplina delle crisi bancarie: la prospettiva europea, in AA. VV., Dal testo unico bancario all’Unione bancaria: tecniche normative e allocazione di poteri, Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, Roma, 2014, 147 ss. 1485 Primo piano Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Banca zosa di parte del debito in capitale, quando ciò occorra al fine di riportare il c.d. capitale regolamentare - ovvero, come si sarebbe detto con vecchia formula, il patrimonio di vigilanza - ai livelli normativamente prescritti in relazione alla dimensione della banca, ovvero, nei casi più gravi quali potrebbero essere quelli di patrimonio netto negativo, non solo all’azzeramento delle partecipazioni ma anche alla stessa decurtazione del valore nominale dei debiti al fine di realizzare l’assorbimento delle perdite. Si tratta, infatti, di un potere che esprime assai bene la filosofia che ispira la nuova disciplina, giacché è in esso che si coglie esemplarmente il mutamento di prospettiva rispetto al (soprattutto recente) passato, e dunque il superamento dell’idea che l’eventuale salvataggio delle banche in crisi possa essere realizzato, almeno integralmente, con risorse pubbliche poste a carico della collettività, a favore di un’impostazione che vuole invece che tale programma venga ad essere sostenuto primariamente dagli stessi investitori privati, siano essi non solo, com’è naturale, coloro che hanno apportato il capitale di rischio, ma anche i possessori di strumenti rappresentativi di capitale di credito. Il passaggio, insomma, - per usare un’espressione oramai divenuta quasi lessico comune, tanto da essere recepita persino dallo stesso legislatore - da un sistema fondato sul principio del bail-out, in cui allora le risorse vanno aggiunte dall’esterno, a quello basato, in- vece, sul meccanismo del bail-in, in cui il costo del salvataggio deve essere sostenuto innanzitutto dall’interno (5). E tuttavia, proprio perché espressione di un radicale mutamento del paradigma di composizione della crisi, è per certi versi fisiologico che su soluzioni come la debt conversion e il debt write-down si vengano, talora, annidando perplessità (6), e che soprattutto ci si interroghi sulla stessa legittimità, anche costituzionale, di soluzioni che implicano un intervento autoritativo su rapporti di diritto privato modificandone radicalmente i tratti (7). Sotto questo profilo - e a maggior ragione in un panorama come si presenta attualmente quello italiano dove numerose sono, purtroppo, le banche, anche di medie e grandi dimensioni, che si trovano a fronteggiare una situazione di grave difficoltà economica e finanziaria, e comunque costrette ad affrontare radicali misure di ricapitalizzazione per poter restare sul mercato, e la soluzione della cui crisi è stata subito affidata anche all’applicazione delle nuove misure appena introdotte (8) - può essere utile gettare uno sguardo verso altre esperienze a noi vicine che hanno già avuto modo di misurarsi con l’operatività di simili strumenti, per cercare di capire quale lezione, con riferimento a siffatto tipo di problema, sia possibile trarne. In questo senso di estremo interesse appare, allora, la sent. del 3/28 luglio 2015 resa dalla Corte costi- (5) Nella convinzione - è ancora una notazione che si legge in A. Capizzi - S. Cappiello, Prime considerazioni sullo strumento del bail-in, cit., 5 del dattiloscritto - che esso possa porre rimedio alle distorsioni determinate, a livello sistemico, dal meccanismo del bail-out, e rappresentate segnatamente: (i) dall’incremento del c.d. moral hazard da parte degli investitori, portati naturalmente a ritenere che l’attività bancaria sia sempre supportata da una garanzia dello Stato, e quindi meno indotti a monitorarne la rischiosità effettiva; (ii) dalla costituzione di un circolo vizioso tra banche e bilanci degli Stati, e conseguente aggravamento del debito pubblico; (iii) dal rischio della balcanizzazione del mercato dei servizi bancari e dunque da un tendenziale processo di disaggregazione dei grandi gruppi creditizi lungo confini nazionali, giacché la valutazione di ciò che può accadere in caso di crisi in termini di possibile sostegno nazionale, inevitabilmente influisce a monte sulle scelte di organizzazione dell’impresa. (6) Che si sono manifestate anche in occasione dei lavori parlamentari. Esemplare, sotto questo profilo, il resoconto stenografico delle sedute del 27 e 28 ottobre 2015 della VI Commissione permanente Finanze e Tesoro del Senato. In particolare significativa la posizione espressa dall’ABI, nel corso dell’audizione del 22/27 ottobre, in ordine alla necessità di valutare la possibilità di un corretto bilanciamento circa l’applicazione del bail-in con riguardo alla tutela delle obbligazioni detenute dai piccoli investitori e alla opportunità di introdurre un adeguato periodo transitorio per consentire loro di essere consapevoli del (nuovo) rischio assunto. (7) Vedi, ad esempio, in questo senso H. de Vauplane, Pro- cedural aspects of the bail-in mechanism: conflict between public and private interests, in Butterworths Journal of International Banking and Financial Law, 2012, 572 ss., in specie 575, e, soprattutto in una prospettiva di diritto transitorio, di S. Gleeson, Legal aspect of Banks Bail-Ins, LSE Financial Market Group Paper Series, 2012, consultabile su www.lse.ac.uk/fmg; L. Stanghellini, La disciplina delle crisi bancarie, cit., 175, testo e nt. 60. (8) Già in occasione della seduta del 27 ottobre 2015 della VI commissione permanente del Senato (si veda sempre il resoconto stenografico), il presidente del Fondo Interbancario, prof. Maccarone, segnalava la necessità di una sollecita approvazione del decreto delegato, in modo da poter utilizzare anche per la risoluzione delle crisi in atto l’ampio strumentario delle soluzioni previste dalla direttiva. Ciò è poi quanto si è in concreto verificato per far fronte alla situazione prossima al dissesto delle principali quattro realtà creditizie in amministrazione straordinaria alla data di entrata in vigore del decreto (Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara, Cassa di Risparmio di Chieti), rispetto alle quali la Banca d’Italia ha disposto, in data 22 novembre, altrettante procedure di risoluzione, tutte caratterizzate non solo dalla soluzione del conferimento delle attività e passività ad un ente ponte (ai sensi degli artt. 42 ss. del D.Lgs. n. 180/2015) ma anche dal contestuale azzeramento, oltre che delle azioni, pure delle obbligazioni subordinate emesse dai predetti istituti al fine di assorbire la situazione di patrimonio netto negativo, il tutto ai sensi dell’art. 27, lett. b), D.Lgs. n. 180/2015. 1486 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Primo piano Banca tuzionale austriaca (9) con riferimento ad una vicenda, quella del salvataggio della Hypo Group Alpe Adria, di notevole clamore mediatico, per i risvolti anche transfrontalieri, e parzialmente interessanti pure il nostro paese (10). Con tale decisione il Verfassungsgerichtshof - sebbene non pronunciandosi direttamente sulla disciplina di attuazione della direttiva (11) - ha, tuttavia, avuto modo di analizzare proprio la legittimità sotto il profilo costituzionale di una serie di previsioni che appunto avevano consentito all’autorità di vigilanza austriaca di imporre, seppure nell’ambito di un modello di soluzione della crisi che nel caso concreto si era strutturato ancora principalmente secondo le linee del bail-out, un parziale sacrificio pure ai sottoscrittori di obbligazioni, proprio secondo la logica del debt write-down previsto dalla direttiva. Uno sguardo al di là delle Alpi: il caso HETA Per la migliore comprensione del ragionamento della Corte austriaca è certamente necessario qualche breve cenno sulla vicenda che ha dato origine al giudizio. Hypo Alpe Hadria era una banca controllata dal Land tedesco della Baviera, e partecipata anche da quello austriaco della Carinzia, che era peraltro l’ambito territoriale di origine e dunque di principale operatività per l’istituto, ancorché la sua attività si fosse poi largamente ramificata, nel tempo, anche nei Balcani, nell’est Europa e nel nord Italia. Nel corso del 2009 la banca è stata chiamata a fronteggiare una gravissima situazione di difficoltà finanziaria, determinata da non corrette politiche di credito e i cui effetti risultavano amplificati dalla generale crisi di questi ultimi anni, tale da por(9) La motivazione integrale è disponibile, in lingua originale, sul sito ufficiale della Corte, all’indirizzo www.vfgh.gv.at. Nel corso del presente contributo è offerta una libera traduzione, a cura di chi scrive, degli snodi argomentativi principali (indicati con il richiamo dei corrispondenti paragrafi del considerato in diritto e, soprattutto, con l’indicazione dei c.d. Randnummern, ossia i numeri a margine che contraddistinguono i singoli capoversi). (10) La banca austriaca, infatti, era - ed è - presente anche nel territorio nazionale attraverso la propria controllata Hypo Italia. (11) Nell’equivoco sembra, invece, essere incorsa la stampa d’opinione (si veda, ad esempio, Lex 24 del 29 luglio 2015) quando ha presentato la sentenza della Corte austriaca come una “bocciatura” della direttiva. Ma basterebbe leggere, prima ancora della sentenza (§ 2.2.3.4.2.3.; Rdnr. 295), anche solo il comunicato stampa per avvedersi che il Verfassungsgerichtshof ha espressamente precisato come la legge di attuazione della direttiva non abbia formato oggetto del giudizio di legittimità costituzionale. il Corriere giuridico 12/2015 tarla sul punto dell’apertura di una procedura di insolvenza. Al fine di scongiurare siffatta eventualità, il governo austriaco procedeva dapprima alla nazionalizzazione della banca, e quindi, nel 2014, ad un’opera di riorganizzazione societaria, che metteva capo, da un lato, alla separazione delle attività ancora capaci di produrre una redditività, che venivano allocate nella nuova Alpe Hadria e, dall’altro lato, alla creazione di una c.d. Abbaueinheit, denominata HETA, vale a dire di una società veicolo nella quale far confluire, oltre alle passività della vecchia banca, tutta la componente non performing dell’attivo (tra cui anche alcuni rami aziendali, come in particolare quello in Italia) e il cui scopo è la realizzazione di tali assets cercando di massimizzarne il valore. Quest’opera di riorganizzazione è stata compiuta attraverso un complesso intervento normativo, frutto di diversi testi legislativi approvati ad hoc, e seguiti da provvedimenti attuativi addottati dal Finanzmarktaufsicht (FMA), l’autorità di vigilanza austriaca operante quale autorità di risoluzione della crisi, e che si sono mossi, seppure in parte, già sui principi della direttiva (12). In particolare, per quanto di specifico interesse in questa sede - dopo aver ricollocato sul mercato la proprietà della nuova banca il governo austriaco, che ha conservato il controllo di HETA nella sopradescritta prospettiva liquidatoria e che si è accollato ancora un intervento di sostegno di siffatta società in un ordine di grandezza stimato in circa € 3,9 miliardi (13), ha imposto, sulla base di quanto disposto dal § 3 della legge per il risanamento di Alpe Hadria (HaaSanG), l’onere di concorrere allo sopportazione delle perdite di HETA anche ai possessori di obbligazioni subordinate, sancendo segnatamente per tutti coloro che (12) Il processo di riorganizzazione di Alpe Hadria è stato, insomma, realizzato applicando cumulativamente proprio le misure tipizzate dalla direttiva: vale a dire, separazione di assets, creazione di una società veicolo e appunto bail-in. Nel senso che nei procedimenti di risoluzione delle crisi secondo il modello delineato dalla BRRD è fisiologico che le diverse misure siano destinate a un’applicazione sostanzialmente congiunta cfr. A. Capizzi - S. Cappiello, Prime considerazioni sullo strumento del bail-in, cit., 3; L. Stanghellini, La disciplina delle crisi bancarie, cit., 169. (13) Il complesso intervento normativo prevedeva, infatti, che HETA, partecipata come detto totalitariamente dal governo austriaco, si rendesse cessionaria, a titolo oneroso, degli assets non performing di Alpe Hadria, così con un ulteriore esborso finanziario a carico delle risorse pubbliche. Sulla struttura dell’operazione, e sull’impatto della stessa sul debito pubblico austriaco, vedi i riferimenti che si possono leggere sulla stampa quotidiana dell’epoca (e in particolare su Lex 24 del 14 marzo 2014). 1487 Primo piano Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Banca avessero sottoscritto siffatti titoli con scadenza anteriore al 30 giugno 2019 l’azzeramento del diritto al rimborso, appunto secondo la logica del debt write down, sopprimendo altresì per costoro anche la garanzia rilasciata dal Land della Carinzia. Di qui allora il sorgere di diversi dubbi di legittimità costituzionale, che hanno finito per coinvolgere l’intero plesso normativo attraverso cui si è scandito il processo di riorganizzazione e risanamento di Alpe Hadria e comunque in subordine delle disposizioni indicate, in quanto ritenute in contrasto con le norme della Staatsgrundgesetz über die allgemeinen Rechte der Staatsbürger, della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione in tema di tutela della proprietà, nonché più in generale per violazione del principio di uguaglianza. Il Verfassungsgerichtshof davanti alle misure di bail-in imposte dal governo austriaco per evitare il dissesto di HETA Con ampia motivazione la Corte austriaca ha accolto i ricorsi, dichiarando la contrarietà ai principi costituzionali delle sopraindicate disposizioni. Il Tribunale costituzionale muove dall’esame della censura riguardante la contrarietà di una misura di debt write-down con le guarentigie costituzionali della proprietà, affermando (parte IV del considerato in diritto) - e in questo senso in piena consonanza con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi in relazione alla delimitazione dell’ambito applicativo dell’art. 1, del primo protocollo addizionale della Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo - che il principio di inviolabilità del diritto di proprietà, se non in forza di una espressa disposizione di legge e in presenza di un pubblico interesse, ha un ambito assai esteso, e che pertanto esso ben può riguardare anche le “pretese dei creditori nascenti da rapporti contrattuali di diritto privato” (§. 2.2.3.2.1.; Rdnr. 272), quali sono quelle dei possessori di obbligazioni subordinate incise dalla disposizione del § 3 HaaSanG e dal consequenziale provvedimento amministrativo adottato dal FMA. Del resto - prosegue il Verfassungsgerichtshof - il carattere ablatorio insito nella misura della riduzione del valore nominale di un credito non solo è particolarmente penetrante, ma è anzi in un certo senso estremo, in quanto tale misura finisce per andare persino oltre il limite di ammissibilità tradizionalmente ritenuto dalla giurisprudenza costituzionale (quella interna, come quella di Strasburgo), là dove si è affermato che “l’atto 1488 espropriativo nell’interesse pubblico concerne ‘il bene ma non il valore’”, atteso che al contrario “l’azzeramento del valore nominale del credito riguarda invece non già ‘il bene’, ma piuttosto e proprio ‘il valore’” (§ 2.2.3.3.; Rdnr. 275). E tuttavia, pur riconoscendo la cennata contraddizione, la Corte austriaca non esclude che di per sé anche un simile intervento possa superare indenne il vaglio di conformità ai principi costituzionali, purché questa penetrante limitazione del diritto del creditore non sia “unverhältnismäßig und unsachlich”, ossia non sproporzionata e irragionevole rispetto all’interesse pubblico che si è inteso in concreto perseguire. La Corte austriaca enfatizza, insomma, nella propria motivazione, la necessità, in casi del genere, di procedere a uno stretto scrutinio di costituzionalità in ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, che si deve presentare perciò in termini particolarmente penetranti. Orbene, nel caso di specie, il Verfassungsgerichtshof non nega la fondatezza delle argomentazioni addotte in via di principio dal Governo austriaco, il quale ha sostenuto in causa che la misura è più che giustificata in un contesto in cui si tratta, per un verso, di evitare “un ulteriore appesantimento degli oneri delle finanze pubbliche nel perseguimento della missione di HETA”, e, per altro verso, di evitare, se si lasciasse HETA al fallimento, non solo “una rovinosa corsa agli sportelli nelle banche ancora controllate da HETA” ma anche “gli effetti sistemici che l’insolvenza produrrebbe sul mercato bancario” (§ 2.2.2.; Rdnr. 268) e poi in particolare sul tessuto economico del Land della Carinzia. Anzi, al contrario, la Corte non solo riconosce che la “necessità di condurre un processo di risanamento strutturato della vecchia Alpe Hadria - anche in considerazione della notoria dimensione delle perdite di questo istituto e delle implicazioni socio economiche - costituisce un interesse pubblico di indiscutibile importanza”, ma sottolinea altresì come “al legislatore spetti un’ampia sfera di discrezionalità quando, come nella specie, si tratta di scegliere, da una prospettiva ex ante, tra diverse necessarie misure tutte collegate con difficili decisioni economiche di tipo prognostico e si deve, sulla base di una valutazione delle diverse possibili conseguenze, prendere una decisione economicamente rischiosa”, e che pertanto “la Corte nulla può opporre al legislatore, nell’ambito di uno scrutinio di costituzionalità, ad una ammissibile limitazione del diritto di proprietà, quando egli si sia orientato per uno scenario di ‘liquidazione’ piuttosto che di ‘insolvenza’” dal momento che “la scelta tra moltepli- il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Primo piano Banca ci strumenti tutti in principio appropriati rientra nella sua discrezionalità” (§ 2.2.3.4.1; Rdnr. 278). Quel che la Corte piuttosto si chiede è se interessi pubblici siffatti possano però permettere di qualificare come non irragionevole la misura in concreto adottata, consistente nella decisione di azzerare il valore nominale soltanto di alcune obbligazioni subordinate. Ed è allora, qui, secondo i Giudici di Vienna, che si registra il vulnus ai principi costituzionali. Dopo aver rammentato, infatti, che (i) non è possibile predicare la irragionevolezza in sé “della scelta del legislatore di far partecipare a un processo di riorganizzazione i creditori con una riduzione dei loro crediti” dal momento che “in principio effetti equiparabili si realizzano in casi di insolvenza” e che una “una tutela assoluta dei diritti patrimoniali non rientra comunque nello statuto costituzionale della proprietà” (§ 2.2.3.4.2.1.; Rdnr. 280) e (ii) che un simile problema nemmeno può farsi discendere dalla distinzione operata dalla legge tra le obbligazioni subordinate e quelle, per così dire ordinarie, giacché le prime “in caso di disavanzo sono esposte a un rischio più elevato” sicché “le rilevanti differenze tra le une e le altre non rendono la disciplina irragionevole” (§ 2.2.3.4.2.1.; Rdnr. 281), la censura della Corte si rivolge alla scelta del legislatore di differenziare il trattamento tra creditori appartenenti ad un’unica classe, quella appunto dei subordinati, unicamente sulla base di un dato estrinseco, quale la circostanza che i crediti fossero destinati a scadere prima o dopo il 30 giugno 2019, e dunque sulla base del fatto meramente contingente rappresentato dall’appartenere ad una, piuttosto che altra emissione. Si tratta, allora, secondo la Corte, di una differenziazione che non può essere giustificata sulla base delle mere e contingenti esigenze, invocate dal governo austriaco, di costruzione del piano finanziario quinquennale di HETA, e la cui irragionevolezza è poi ulteriormente attestata dal fatto che “diversamente da quanto stabilito al § 162, Abs. 6, BaSag” (ossia appunto la disciplina che nell’ordinamento austriaco ha trasposto la BRRD) “il § 3 HaaSanG neppure sancisce il principio per cui i creditori nell’ambito della liquidazione di HETA non vengano comunque a subire una riduzione del loro credito diversa da quella cui sarebbero esposti in una procedura di insolvenza” (§ 2.2.3.4.2.3.; Rdnr. 295). il Corriere giuridico 12/2015 Segue Esaurito l’esame della prima questione, la Corte austriaca passa quindi a trattare il secondo dei prospettati dubbi di legittimità, ossia quello concernente l’eliminazione, sempre per il medesimo gruppo di obbligazionisti subordinati, della garanzia di rimborso rilasciata, all’atto dell’emissione, dal Land della Carinzia. In questo caso la risposta del Verfassungsgerichtshof è assai più tranchante nel senso dell’irragionevolezza di siffatta limitazione del diritto del creditore, sempre sotto il profilo della contrarietà alle norme che delineano la tutela costituzionale della proprietà. Le difese prospettate dal governo federale sul punto erano sostanzialmente due. Per un verso, si allegava che la “cancellazione” della garanzia rappresentava un elemento complementare e necessario al processo di ristrutturazione di HETA, dal momento che se la Carinzia avesse dovuto onorare il debito, quest’ultima avrebbe poi potuto agire in via di surrogazione legale nei diritti degli obbligazionisti contro la stessa HETA ai sensi del § 1358 dell’ABGB (ossia la norma del codice civile austriaco corrispondente al nostro art. 1203 c.c.), così sostanzialmente vanificando l’effetto dell’azzeramento delle obbligazioni (§ 2.3.1.; Rdnr. 300); per altro verso, si sosteneva, invece, che la misura era preordinata ad evitare che lo stesso Land della Carinzia venisse a trovarsi in una situazione di insolvenza, la quale si sarebbe riflessa inevitabilmente anche sullo Stato federale comportando ulteriori costi per quest’ultimo nel rifinanziamento di HETA (sempre § 2.3.1.; Rdnr. 301). La Corte austriaca disattende, però, con nettezza entrambi gli argomenti. Quanto al primo i Giudici di Vienna osservano che, “anche a prescindere dalla considerazione che è già l’azzeramento delle obbligazioni subordinate disposta dal § 3, prima proposizione, HaaSanG ad essere costituzionalmente illegittimo, sicché lo scopo di assicurare gli effetti utili di tale misura non può assumere rilevanza”, l’argomento evocato non risulta comunque decisivo, atteso che il medesimo obiettivo avrebbe potuto essere egualmente realizzato dal legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, in maniera più rispettosa dei diritti degli obbligazionisti, per esempio semplicemente prevedendo “l’esclusione, a valle dell’adempimento da parte del garante, del diritto di quest’ultimo di surrogarsi al creditore nei diritti contro il debitore principale” (§ 2.3.3.1.; Rdnr. 309). Per quel che concerne il secondo argomento, il Tribunale costituzionale osserva, invece, 1489 Primo piano Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Banca che la dichiarata necessità di “evitare che il Land possa trovarsi in una situazione economica non sostenibile” non è sufficiente, nel caso concreto, per giustificare l’azzeramento anche della garanzia, atteso che un simile rischio “non appare plausibile, specie considerando che il valore complessivo della garanzia oggetto dell’intervento ablatorio è pari a circa 0,8 milioni di euro su di una esposizione complessiva del Land che ammonta ancora a circa 10,2 miliardi di euro” (§ 2.3.3.2.; Rdnr. 312). Insomma, conclude sul punto la Corte austriaca, anche tale intervento costituisce un limite irragionevole apposto al diritto degli obbligazionisti subordinati, giacché, per un verso, questi devono poter continuare a fare affidamento sull’esistenza della garanzia rilasciata dal Land “proprio con l’obiettivo di finanziarie l’espansione dell’Istituto di credito” e che presenta, tra l’altro, un contenuto rafforzato in quanto sostanzialmente assicurativo, mentre, per altro verso, la liberazione del Land dagli obblighi a suo tempo assunti “nulla ha a che vedere con il processo di liquidazione di HETA” (§ 2.3.3.2.; Rdnr. 317 e 318). La decisione resa dalla Corte austriaca mi sembra possa rappresentare una lente appropriata attraverso cui osservare la tenuta, anche rispetto al nostro quadro costituzionale, delle misure di bail-in come regolate nel Titolo IV, Capo IV, Sezione III (artt. 48 ss.) del D.Lgs. n. 180/2015. Premesso che un intervento come quello di ablazione della garanzia verificatosi nella vicenda HETA non potrebbe essere in alcun modo consentito già alla luce della disciplina dettata dalla direttiva, e per come poi trasposta nell’ordinamento interno - vuoi perché essa esclude a monte (così l’art. 48, primo comma, lett. b) la stessa possibilità che passività assistite da una garanzia reale siano sottoposte a riduzione ovvero a conversione a capitale se non per la parte eccedente il valore della garanzia (14), vuoi comunque perché, in caso di obbligazioni e, comunque, di crediti assistiti da garanzia personale la sottoposizione a bail-in non pregiudica il diritto ad agire nei confronti dei fideiussori e di eventuali coobbligati in solido, che saranno semmai i soggetti che sopportano in via finale il rischio dell’azzeramento del proprio credito di regresso (così art. 52, comma 7) (15) - il tema che merita di essere brevemente qui analizzato è se, ed in che limiti, gli interventi disposti per via amministrativa dall’autorità di risoluzione della crisi ai sensi in particolare dell’art. 52 del decreto delegato - relativo al “trattamento di azionisti e creditori”, e che appunto statuisce che gli interventi di riduzione, e financo azzeramento, delle azioni, degli strumenti finanziari c.d. ibridi e delle altre passività, secondo l’ordine gerarchico indicato da siffatta disposizione, abbiano luogo “senza che sia dovuto alcun indennizzo” (così si esprime il comma 5 dell’art. 52) - possano resistere in un eventuale scrutinio di legittimità secondo i principi elaborati dalla nostra giurisprudenza costituzionale. Orbene, sotto quest’aspetto non mi sembra revocabile in dubbio che anche nel nostro ordinamento vuoi i titolari della partecipazione sociale, vuoi gli stessi possessori di strumenti finanziari di tipo obbligazionario - e ciò indipendentemente dal fatto che si tratti strumenti da ascrivere alla nozione tipologica di obbligazioni, ossia di titolari di un diritto di credito, ovvero piuttosto alla nozione normativa di cui all’art. 2411, comma 3, c.c., e dunque espressivi di un investimento più simile a quello proprio dei sottoscrittori del capitale di rischio (16) - possano ambire a invocare, in principio, la protezione di rango costituzionale riconosciuta al diritto di proprietà. Induce, infatti, in tal senso non solo la considerazione - che rappresenta oramai una costante negli orientamenti della nostra giurisprudenza costituzionale - che anche le norme della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, per il tramite dell’art. 117 Cost., possono costituire parametro del sindacato di legittimità costituzionale, sicché evidentemente anche ai fini del diritto interno entra in gioco quella nozione più allargata di proprietà che si è affermata nella (14) Nel senso che la ratio dell’esclusione dal bail-in delle passività garantite risponderebbe oltretutto anche all’esigenza di rispettare quanto avverrebbe in un’ordinaria procedura di insolvenza (dove la possibilità di realizzare la garanzia rimarrebbe ovviamente impregiudicata) cfr. D.H. Bliesener, Legal Problems of Bail-Ins under EU’s proposed Recovery and Resolution Directive, in AA. VV., The Bank Recovery and Resolution Directive, cit., 189 ss., in specie 200. (15) La soluzione accolta dal legislatore è pertanto piena- mente in linea con quanto osservato dai Giudici di Vienna in ordine al fatto che se l’effetto della misura fosse quello della liberazione del fideiussore si finirebbe per arrecare al garante un indebito vantaggio, oltretutto privo di un reale collegamento con l’esigenza di soluzione della crisi della banca. (16) Per la distinzione tra obbligazioni in senso tipologico e obbligazioni in senso normativo si veda G. Ferri jr, Fattispecie societaria e strumenti finanziari, in Riv. dir. comm., 2003, I, 804 ss., in specie 814 Le ragioni che rendono il bail-in compatibile con le norme e i principi costituzionali a tutela della proprietà 1490 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Primo piano Banca Corte di Strasburgo (17) e che arriva a ricomprendere anche i diritti relativi (18), ma pure la stessa tendenza, propria del diritto interno, ad assecondare un sempre più accentuato processo di oggettivazione dei diritti correlati al finanziamento e all’investimento in iniziative imprenditoriali, che oramai si ascrivono alla categoria dei c.d. beni di secondo grado (19), con la conseguenza che essi si prestano a essere considerati (anche) come oggetto di una situazione di appartenenza riconducibile al paradigma proprietario, e suscettibile di essere tutelata probabilmente già in applicazione diretta dell’art. 42 Cost. Se si muove da questa premessa, risulta, allora, di immediata evidenza la delicatezza del tema, e il perché si possa di primo acchito pure dubitare della legittimità di una disciplina come quella introdotta dal decreto delegato, attesa l’irriducibile tensione (che è esattamente quella stessa rilevata anche dalla Corte austriaca) che esiste tra un principio costituzionale, che vuole tutelata la proprietà ammettendone sì l’espropriazione per motivi di interesse pubblico ma sempre “salvo indennizzo”, e una disposizione che, come appunto sancito dal già citato quinto comma dell’art. 51, ammette che simili interventi possano essere realizzati “senza indennizzo”. E tuttavia una simile tensione è, a ben vedere, solo apparente, ed essa in realtà tendenzialmente si scioglie - anche per chi voglia ragionare secondo gli schemi dell’art. 42 Cost. - senza forse nemmeno dover fare ricorso al principio, sempre rinveniente dall’elaborazione della Corte di Strasburgo, secondo cui in presenza di motivate ed eccezionali ragioni di interesse generale si possono ammettere interventi ablatori non solo con un indennizzo inferiore al c.d. valore equo del bene, di base coincidente con il prezzo di mercato, ma financo senza riconoscimento di alcun controvalore all’espropriato (20). Da un simile principio - che poi non solo è quello rammentato, e di fatto applicato, anche dal Verfassungsgerichtshof, ma coincide, a ben vedere, pure con il presupposto indicato dalla stessa direttiva come limite all’operatività del bail-in (21) - potrebbe, infatti, persino prescindersi se solo si tiene presente che la previsione della corresponsione dell’indennizzo come necessario contraltare per garantire la legittimità dell’intervento espropriativo rappresenta una soluzione, per così dire, storicamente condizionata dall’assunzione, da parte dei Costituenti, di un paradigma che è quello della proprietà fondiaria, e comunque quello dei beni corporali (22), ossia di entità dotate pur sempre di un va- (17) L’affermazione che il diritto di proprietà tutelato dal primo protocollo addizionale della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ha una portata autonoma ed è indipendente dalle qualificazioni formali dei diritti operate nei singoli ordinamenti è ampiamente attestata nella giurisprudenza della Corte: vedi, ad esempio, per tale sottolineatura ancora la sentenza della Grand Chambre, 29 marzo 2010, caso 34078/02, Brosset-Triboulet c. Francia, che ribadisce il principio, largamente attestato, ai sensi del quale tutti gli “intérêts constituant des actifs peuvent aussi passer pour des ‘droits patrimoniaux’ et donc des ‘biens’ ‘aux fins de cette disposition’”. (18) Ma in questo senso si veda già F. d’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione dell’impresa e diritti privati sul patrimonio dell’imprenditore, in Giur. comm., 1984, I, 53 ss., in specie 58 che - proprio in relazione al problema del se sia legittimo imporre il costo del risanamento dell’impresa a carico dei creditori piuttosto che della collettività - invitava a misurarsi innanzitutto con l’art. 42, inteso quale “sommo statuto generale dei diritti dei privati a contenuto patrimoniale e pertanto metro universale sul quale misurare ogni norma formalmente o anche solo sostanzialmente ablativa di tali diritti”. (19) Si tratta di un aspetto rilevato con particolare chiarezza soprattutto da G. Ferri jr, Situazioni giuridiche soggettive e disciplina societaria, in Riv. dir. comm., 2011, II, 393 ss. Per la sottolineatura che nel quadro della disciplina dei mercati finanziari i rapporti contrattuali assumono rilevanza innanzitutto come res, ossia come beni oggetto della negoziazione, sia permesso rinviare a G. Guizzi, Mercato finanziario, in Enc. dir. (Aggiornamento V), Milano, 2001, 744 ss. (20) Il principio è ricorrente nella giurisprudenza della Cedu: in tempi recenti è riaffermato nella sent. del 10 luglio 2012, caso 34940/10, Grainger e altri c. Regno Unito, dove si poneva il problema della legittimità di una misura di nazionalizzazione di un istituto bancario in crisi senza corresponsione di alcun indennizzo agli azionisti. Per un’analisi dei problemi posti da tale decisione - che si può leggere in RdS, 2013, II, 715 ss., - sotto alcuni aspetti assai simili alle questioni che pone ora la trasposizione della BRRD, cfr., oltre alla nota di T. Ariani - L. Giani, La tutela degli azionisti nelle crisi bancarie, ivi, 721 ss., anche M. Marini, Il caso Northern Rock: il consolidarsi del nuovo paradigma proprietario nel diritto privato europeo, in Riv. dir. comm., 2014, II, 493 ss., ove ampi riferimenti all’evoluzione degli orientamenti interpretativi della Corte. (21) Nel senso che il bail-in costituisca - almeno nella filosofia alla base della direttiva - uno strumento di ultima istanza, destinato ad operare in presenza di situazioni di eccezionale gravità, e segnatamente per gestire le insolvenze delle banche di maggiori dimensioni, il cui dissesto sarebbe destinato a produrre effetti sistematicamente rilevanti sul mercato bancario nel suo complesso, cfr. ancora A. Capizzi - S. Cappiello, Prime considerazioni sullo strumento del bail-in, cit., 6. Il principio viene positivamente sancito, nel D.Lgs. n. 180/2015, sia in generale (i) dall’art. 21, che stabilisce che la Banca d’Italia esercita i poteri in materia di risoluzione avendo riguardo, inter alia, alle esigenze di stabilità finanziaria e al contenimento degli oneri delle finanze pubbliche, contemperandole con l’esigenza “di evitare, per quanto possibile, distruzione di valore”, sia, più specificamente, (ii) dall’art. 50, che nel definire il requisito minimo di passività soggette a bail-in stabilisce che esso è determinato su base individuale, per ciascun intermediario, dalla Banca di Italia avendo riguardo, tra le altre cose, oltre alla “necessità che la banca in caso di applicazione del bail-in, abbia passività sufficienti per assorbire le perdite e per assicurare il rispetto del requisito di capitale primario di classe 1 previsto per l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria, nonché per ingenerare nel mercato una fiducia sufficiente in essa”, anche alle “ripercussioni negative sulla stabilità finanziaria che deriverebbero dal dissesto della banca, anche per effetto del contagio di altri enti”. (22) Si tratta di un’impostazione orami corrente nella lette- il Corriere giuridico 12/2015 1491 Primo piano Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Banca lore intrinseco, sia esso di uso o piuttosto di scambio, che si possa sempre esprimere in forma monetaria e in termini positivi. Un paradigma che, allora, mal si adatta quando ci si confronta con i beni di secondo grado, come appunto gli strumenti finanziari, siano essi quelli rappresentativi della partecipazione al capitale di rischio o piuttosto della partecipazione a un’operazione di credito, il cui valore costituisce sempre una grandezza derivata (23), che dipende cioè da quello del patrimonio dell’impresa cui rispettivamente si partecipa o nei confronti del quale si vanta pretesa, e che allora può risultare anche pari a zero quando quel patrimonio si riveli privo di consistenza. Insomma, quel che intendo dire è che in fattispecie come quelle descritte la mancata corresponsione dell’indennizzo, più che essere espressione di una disapplicazione della regola per motivate ragioni di interesse generale, potrebbe essere considerata più semplicemente il riflesso del fatto che l’indennizzo dovuto è eguale a zero, appunto perché è il valore del bene espropriato che si esprime, in termini monetari, in quella medesima misura (24). Ebbene, è proprio se si muove da quest’ordine di idee che mi sembra che si possa allora già spiegare perché il bail-in - che, come detto, investe i vari tipi di pretese secondo un ben definito ordine gerarchico, partendo da quelle che, secondo l’articolazione della struttura finanziaria dell’impresa, sono maggiormente esposte al rischio delle perdite, ovvero quelle degli azionisti quali residual claimants, per poi progressivamente passare alle altre diverse classi di finanziatori (titolari di strumenti finanziari partecipativi ai sensi dell’art. 2346, ultimo comma, c.c., possessori di obbligazioni subordinate, titolari di obbligazioni etc.), fino ad arrivare, in ultimissima analisi, ai depositanti i cui depositi non rientrino tra quelli c.d. protetti (ossia quelli sino alla soglia di € 100.000), e dove il passaggio dall’una all’altra classe avviene solo sulla premessa che la riduzione delle passività precedenti non sia sufficiente per coprire le perdite, e comunque per assicurare la realizzazione dell’obiettivo perseguito dall’atto di risoluzione - possa sottrarsi ai paventati dubbi di legittimità. Gli è, infatti, che gli azionisti e i creditori in tanto possono essere privati, progressivamente, dei loro diritti, appunto senza indennizzo, in quanto è il valore di tali diritti che risulta essersi ormai azzerato, sicché per ciò che vale zero, zero sarà dovuto. In questa prospettiva si comprende, pertanto, perché gli unici vincoli che è necessario rispettare, per assicurare la legittimità di tali interventi ablatori, siano quelli espressamente sanciti dalla direttiva, e fedelmente recepiti dal comma 2 dell’art. 52 del decreto delegato, che allora già contiene, per così dire in sé, gli appropriati correttivi per sottrarsi a censure di incostituzionalità. Si comprende, cioè, perché ai fini della loro legittimità occorrerà soltanto, per un verso, (i) che l’applicazione delle misure di bail-in avvenga nel rispetto del principio di uguaglianza (25), e dunque che gli interventi in questione siano disposti “in modo uniforme nei confronti di tutti gli azionisti e i creditori dell’ente appartenenti alla stessa categoria, proporzionalmente al valore nominale dei rispettivi strumenti ratura civilistica: cfr., per tutti, M. Marini, Il caso Northern Rock, cit., 505 ss. (23) Nel senso che ogni processo di valutazione che interessa beni di secondo grado assume carattere inevitabilmente relazionale “implicando un necessario confronto con parametri esterni all’entità valutata”, cfr. - con specifico riferimento al problema della determinazione del valore degli strumenti rappresentativi della partecipazione al capitale di rischio di un’impresa (ma con considerazioni che mi sembrano estensibili anche rispetto al problema della stima del valore degli strumenti rappresentativi del capitale di credito) - M. Maugeri, Partecipazione sociale, quotazione di borsa e valutazione delle azioni, in Riv. dir. comm., 2014, 93 ss. (24) La regola, insomma, non sarebbe tanto quella “dell’esproprio senza indennizzo” bensì quella “dell’esproprio con indennizzo zero”, perché zero è il valore del bene. Si supererebbe così il genere di obiezioni marcatamente critiche già a suo tempo avanzate, contro i modelli di soluzione della crisi di impresa che pongono gli oneri della riorganizzazione della stessa a carico dei creditori, da F. d’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione, cit., p. 60, per il quale lo strumento espropriativo di cui all’art. 42 Cost. sarebbe residuale ed eccezionale, essendovi dato ricorrere solo quando la necessità pubblica non possa essere soddisfatta con denaro, e dunque con il prelievo tributario: “ossia solo quando la necessità pubblica si in- dirizzi verso un bene specifico, considerato come mezzo infungibile alla soddisfazione di quel bisogno”. Gli è, infatti, che a tale ordine di idee - che se trasposto rispetto alla disciplina di attuazione della BRRD potrebbe far dubitare della legittimità degli interventi di bail-in, in quanto “essi mirano sostanzialmente a devolvere, a fini di interesse pubblico, non già beni specificamente individuati come indispensabili, ma genericamente denaro privato” (così sempre F. D’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione, cit., 61) - mi sembra si possa replicare, come appunto meglio chiarito più avanti nel testo, che qui la legittimità dell’intervento è assicurata dal fatto che al creditore non viene tolto nulla di più, in termini di valore, di quanto risulterebbe già comunque perduto nella prospettiva non della risoluzione della crisi, bensì dell’apertura della liquidazione coatta o di altra procedura di insolvenza. In senso assai vicino a quello qui espresso cfr. A. Gardella, Il bail-in e il finanziamento delle risoluzioni, cit., in specie 610. (25) Nel senso che il principio di eguaglianza entra, in tale materia, in gioco solo in una prospettiva successiva, appunto perché esso “non è in grado di dirci se sia legittimo imporre sacrifici ai creditori” ma “può solo, una volta che questo primo problema sia stato risolto positivamente sulla base di altre norme costituzionali, segnare taluni limiti e vincoli circa il modo in cui quei sacrifici possono essere imposti e/o distribuiti”, F. d’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione, cit., 57. 1492 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Primo piano Banca finanziari o crediti, secondo la gerarchia applicabile in sede concorsuale” (il che è, appunto ciò che era mancato nel caso della normativa austriaca per la risoluzione della crisi di HETA, e che la ha inevitabilmente condannata alla censura del Verfassungsgerichtshof ), e, per altro verso, (ii) che “nessun titolare degli strumenti, degli elementi o delle passività ammissibili di cui al comma 1 riceva un trattamento peggiore rispetto a quello che riceverebbe se l’ente sottoposto a risoluzione fosse liquidato, secondo la liquidazione coatta amministrativa disciplinata dal Testo Unico Bancario o altra analoga procedura concorsuale applicabile” (26). Un principio, quest’ultimo, che, come intuito già dalla Corte austriaca, mi sembra rappresentare, allora, il decisivo e definitivo punto di equilibrio - in un sistema che come ci ha ricordato ancora di recente la nostra Corte costituzionale “richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi” (27) - tra le esigenze di salvaguardia e protezione dei diritti dei ceditori e le eventuali esigenze di interesse pubblico alla funzionalità del mercato bancario, e dunque costituire, in termini di ponderazione tra valori tutti dotati di un ancoraggio costituzionale, il ragionevole momento di composizione tra la necessità di assicurare la protezione della proprietà ex art. 42 e l’esigenza di accordare tutela al risparmio ex art. 47 (28). (26) In questo contesto un ruolo centrale e decisivo, al fine di assicurare la complessiva legittimità costituzionale della disciplina, sono allora destinate ad assumere le disposizioni dettate dagli artt. 88 e 89, non a caso collocate nel titolo VI sotto la rubrica “salvaguardie e tutela giurisdizionale”. La prima prevede, infatti, che a seguito dell’avvio della “risoluzione”- che peraltro già deve essere preceduta da una prima valutazione “equa, prudente e realistica delle attività e passività della banca”, (così l’art. 23), e tra le cui finalità è anche, nelle ipotesi di bail-in, una stima del trattamento che le pretese incise da tali misure potrebbero avere in sede concorsuale (art. 24, comma 5) - la Banca d’Italia proceda alla nomina di un esperto indipendente affinché provveda “senza indugio alla valutazione del trattamento che gli azionisti e i creditori (….) avrebbero ricevuto se, nel momento in cui è stata accertata la sussistenza dei presupposti per l’avvio della risoluzione, l’ente sottoposto a risoluzione fosse stato liquidato secondo la liquidazione coatta amministrativa disciplinata dal Testo Unico Bancario o altra analoga procedura concorsuale applicabile e le azioni di risoluzione non fossero state poste in essere” nonché “l’eventuale differenza rispetto al trattamento ricevuto da costoro in concreto per effetto delle azioni di risoluzione”; la seconda stabilisce, invece, che qualora tale valutazione riveli l’esistenza di un trattamento deteriore, l’azionista e/o il creditore pregiudicato “ha diritto di ricevere, a titolo di indennizzo, una somma equivalente alla differenza determinata ai sensi dell’articolo 88”, con oneri posti a carico del “fondo di risoluzione” che dovrà essere costituito ai sensi degli artt. 78 ss. (il fondo costituisce un patrimonio separato alimentato da contributi posti a carico dell’intero sistema bancario e la cui funzione è appunto quella di garantire l’efficace attuazione delle misure di risoluzione in concreto adottate). Il quadro normativo così complessivamente delineato sembrerebbe, insomma, strutturarsi secondo un sistema sufficientemente articolato di pesi e contrappesi, ancorché forse con il limite - evidentemente non secondario - di una non chiarissima individuazione dei meccanismi di controllo giurisdizionale della correttezza di tali valutazioni. Sotto questo specifico aspetto merita, infatti, di essere sottolineato che mentre per la valutazione iniziale ai sensi degli artt. 23 e 24 è testualmente prevista la possibilità di un controllo giurisdizionale da parte del giudice amministrativo (ancorché non in via autonoma, ma solo contestualmente all’impugnazione dell’atto che adotta le misure di risoluzione: così l’art. 26, ultimo comma), un’analoga espressa previsione non è ripetuta rispet- to alla valutazione di cui all’art. 88, ossia proprio quella che entra in gioco ai fini dell’applicazione del bail-in. Atteso che, evidentemente, una forma di tutela giurisdizionale non solo deve essere necessariamente ipotizzata, pena altrimenti la violazione dell’art. 24 Cost., ma deve essere altresì ispirata a un principio di effettività, pena altrimenti la violazione dell’art. 13 della Cedu, ci si deve allora chiedere se, in questo caso, siffatta tutela si esperisca: (i) pur sempre davanti al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 95, e con contestuale impugnazione dell’atto autoritativo che dispone tali misure, oppure sia possibile immaginare un’azione davanti al giudice ordinario che, senza mettere in discussione la loro adozione, contesti solo la valutazione, al fine di ottenere il pagamento dell’indennizzo a carico del fondo; (ii) se tale contestazione sia ammessa senza limiti oppure - come a me sembrerebbe più corretto, anche in forza dell’adesione a quell’indirizzo interpretativo che sottolinea il carattere “eminentemente giuridico di ogni problema estimativo” e come il risultato scaturito da un determinato processo di valutazione di “entità” come gli strumenti di partecipazione al capitale di rischio (e di credito) di un’impresa possa definirsi corretto “non in quanto “esatto”, cioè espressivo di una (preesistente) qualità intrinseca [dell’entità valutata] bensì soltanto ove risponda allo scopo perseguito dall’enunciato normativo che ne prevede l’individuazione” (così espressamente M. Maugeri, Partecipazioni sociali, quotazione di borsa, cit., 95 s) - solo per manifesta erroneità ed iniquità della valutazione, ad instar di quanto previsto dall’art. 1349 c.c. (27) Il brano si legge in Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85. (28) Norma, questa, che del resto nella sua elasticità ben si presta a ricomprendere, in virtù dello stretto collegamento funzionale stabilito tra risparmio ed esercizio del credito, quale valore oggetto di tutela anche la funzionalità del sistema e del mercato bancario. Nel senso che il valore tutelato dall’art. 47 sarebbe anzi, almeno nella prospettiva storica seguita dai Costituenti, “non il risparmio in sé - perché di definitiva la ricchezza accantonata, quale che sia la forma giuridica attraverso cui essa si presenta individualmente attribuita, già gode della tutela apprestata dallo statuto costituzionale della proprietà - ma solo quello che rifluisce, attraverso l’attività bancaria, nel circuito della liquidità monetaria” si veda - riprendendo le tesi di F. Merusi, Rapporti economici, III, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1980, 153 ss F. Guizzi, La tutela del risparmio nella costituzione, in Il Filangieri, 2005, 171 ss. il Corriere giuridico 12/2015 Qualche tema di diritto transitorio Il sistema del bail-in delineato dalla direttiva, per come il nostro legislatore si accinge a recepirlo, sembrerebbe, dunque, potersi sottrarre, almeno in prospettiva, a censure di legittimità costituzionale. Resta semmai da chiedersi se a un esito del pari tranquillizzante possa pervenirsi anche in sede di prima applicazione di tale disciplina, e ciò specie 1493 Primo piano Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Banca in considerazione del fatto che i possessori di strumenti finanziari che siano già in circolazione alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, diversamente da quelli che verranno emessi in futuro, si vedono sottoposti ad un rischio non previsto all’atto della sottoscrizione del contratto, e che allora non hanno potuto consapevolmente valutare. Orbene, a me sembra che all’interrogativo attinente a una possibile illegittimità della sottoposizione a tali misure anche degli strumenti finanziari già in circolazione debba rispondersi negativamente. Gli è, infatti, che se il dubbio che si intende prospettare è che la sottoposizione al meccanismo di riduzione autoritativa delle passività già esistenti, e poi in particolare delle obbligazioni, si risolve in una modifica retroattiva della disciplina applicabile al rapporto contrattuale (29) e quindi anche in una violazione del principio del legittimo affidamento (30), credo che esso possa essere comunque superato rammentando quanto più volte oramai sta- tuito dalla nostra giurisprudenza costituzionale (31) in relazione al fatto che il divieto di irretroattività della legge, pur costituendo un valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve - al di fuori della materia penale - una protezione assoluta, sicché è pur sempre possibile l’emanazione di norme aventi efficacia retroattiva, qualora la retroattività trovi adeguata giustificazione in motivi di interesse generale, segnatamente rappresentati nella necessità di tutelare altri beni di rilievo costituzionale. Il che è, allora, quanto mi sembra possa dirsi ragionevolmente essere nel caso di specie, attesa appunto la ricordata logica di strumentalità delle misure di bail-in per evitare gli effetti sistemici potenzialmente derivanti dall’apertura della procedura di insolvenza, e quindi, sotto questo profilo, la loro strumentalità per garantire tutela a quel valore, che rientra anch’esso come detto nel perimetro di quelli protetti dall’art. 47, rappresentato dalla stabilità del mercato bancario. (29) E questa sembrerebbe essere la perplessità espressa da L. Stanghellini, La disciplina delle crisi, cit., 175, nt. 60. (30) Un valore, quello del legittimo affidamento, che trova copertura costituzionale - secondo gli orientamenti interpretativi del Giudice delle leggi - attraverso l’art. 3. Cfr., in questo senso, per una recentissima applicazione del principio, Corte cost. 5 novembre 2015, n. 216 resa tra l’altro in una fattispecie che presenta anche qualche possibile punto di contatto con le vicende che ci occupano: in tale decisione la Corte ha, infatti, ritenuto costituzionalmente illegittima la previsione dell’art. 26 del D.L. n. 201/2011 con cui il legislatore ha anticipato la scadenza del termine per l’esercizio del diritto di conversione delle lire in euro, così sostanzialmente operando un atto espropriativo del relativo credito (e non a caso l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Milano aveva individuato come ulteriore profilo di possibile illegittimità costituzionale anche la violazione del- l’art. 42, comma 3, Cost.; censura, questa, tuttavia non esaminata dalla Corte in quanto ritenuta assorbita). (31) Il principio è consolidato: in questo senso si veda, ad esempio, Corte cost. 26 gennaio 2012, n. 15; Corte cost. 5 aprile 2012 n. 78; Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236. Analoga è del resto anche la posizione espressa con riferimento al tema della tutela costituzionale del principio del legittimo affidamento: nel senso che “il valore del legittimo affidamento riposto nella sicurezza giuridica trova sì copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., ma non già in termini assoluti e inderogabili” dal momento che “interessi pubblici sopravvenuti possono esigere interventi normativi diretti a incidere peggiorativamente anche su posizioni consolidate, con l’unico limite della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti” cfr. Corte cost. 31 marzo 2015, n. 56. 1494 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Legislazione Novità in sintesi Novità normative a cura di Alessandro Pagano Affido familiare Legge 19 ottobre 2015, n. 173 «Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare» (G.U. 29 ottobre 2015, n. 252) Si novella la L. n. 184/1983 modificando innanzitutto l’art. 4 inserendo alcuni commi (5 bis, ter, quater) secondo cui qualora, durante un prolungato periodo di affidamento, il minore sia dichiarato adottabile ai sensi delle disposizioni del capo II del titolo II e qualora, sussistendo i requisiti previsti dall’art. 6, la famiglia affidataria chieda di poterlo adottare, il tribunale per i minorenni, nel decidere sull’adozione, tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria. (c. 5 bis) Qualora, a seguito di un periodo di affidamento, il minore faccia ritorno nella famiglia di origine o sia dato in affidamento ad altra famiglia o sia adottato da altra famiglia, è comunque tutelata, se rispondente all’interesse del minore, la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento. (c. 5 ter) Si prevede in ultimo che il giudice, ai fini delle decisioni di cui ai commi 5 bis e 5 ter, tenga conto anche delle valutazioni documentate dei servizi sociali, ascoltato il minore che ha compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore se capace di discernimento. Parimenti modificato (art. 2) è l’art. 5 che sostituisce (in senso espansivo del relativo ruolo) l’affidatario o l’eventuale famiglia collocataria che devono essere convocati, a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato ed hanno facoltà di presentare memorie scritte nell’interesse del minore. L’ultima modifica riguarda l’art. 25 con l’inserimento di un comma 1 bis: “Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche nell’ipotesi di prolungato periodo di affidamento ai sensi dell’articolo 4, comma 5-bis” e l’art. 44, comma 1, lett. a) dopo le parole: “stabile e duraturo”, sono inserite le seguenti: “anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento”. Partiti politici Legge 27 ottobre 2015, n. 175 «Modifiche all’articolo 9 della legge 6 luglio 2012, n. 96, concernenti la Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici» (G.U. 31 ottobre 2015, n. 254) Trattasi di disposizioni concernenti la funzionalità della Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici. All’art. 9, comma 3, L. 6 luglio 2012, n. 96, sono apportate modificazioni. In particolare, si prevede che per lo svolgimento dei compiti ad essa affidati dalla legge la Commissione può altresì avvalersi di cinque unità di personale, dipendenti della Corte dei conti, addette alle attività di revisione, e di due unità di personale, dipendenti da altre amministrazioni pubbliche, esperte nell’attività di controllo contabile. Ufficio del processo Decreto del Ministero della Giustizia 1° ottobre 2015 «Misure per l’attuazione dell’ufficio per il processo, a norma dell’articolo 16-octies del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221» (G.U. 2 novembre 2015, n. 255) Il decreto stabilisce (art. 1) le misure organizzative necessarie per il funzionamento dell’ufficio per il processo. L’inserimento dei giudici ausiliari e dei giudici onorari di tribunale nell’ufficio per il processo non potrà comportare lo svolgimento di attività diverse da quelle previste dalle disposizioni vigenti; parimenti, l’inserimento del personale di cancelleria nell’ufficio per il processo non potrà comportare modifiche dei compiti e delle mansioni previsti dalle disposizioni normative e contrattuali vigenti. (art. 1, c. 3) L’art. 2 regola poi la costituzione dell’ufficio per il processo. Il presidente della Corte d’Appello o del tribunale articola le strutture organizzative denominate ufficio per il processo, tenuto conto del numero effettivo di giudici ausiliari o di giudici onorari di tribunale, nonché del personale di cancelleria, di coloro che svolgono lo stage di cui all’art. 73 del D.L. n. 69/2013, convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, o la formazione professionale dei laureati a norma dell’art. 37, comma 5, D.L. n. 98/2011, convertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111. Il dirigente amministrativo adotta le misure di gestione del personale di cancelleria coerenti con le determinazioni del capo dell’ufficio. (c. 1) Al fine di svolgere il periodo di perfezionamento di cui al comma 1 bis dell’art. 50 del D.L. n. 90/2014, convertito dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, possono altresì far parte dell’ufficio per il processo i soggetti in possesso dei cri- il Corriere giuridico 12/2015 1495 Legislazione Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Novità in sintesi teri stabiliti dal decreto previsto dal predetto comma. Tali soggetti svolgono, di regola, nell’ufficio per il processo attività di supporto al personale di cancelleria. Il presidente della Corte d’Appello o del tribunale assegna le strutture organizzative di cui al comma 1 a supporto di uno o più giudici professionali, tenuto conto in via prioritaria del numero delle sopravvenienze e delle pendenze, nonché, per il settore civile, della natura dei procedimenti e del programma di gestione di cui all’art. 37, comma 1, D.L. n. 98 del 2011. Il coordinamento e il controllo delle strutture organizzative di cui al comma 1 sono esercitati dai presidenti di sezione, o dai giudici delegati allo svolgimento dei predetti compiti. Il presidente della Corte d’Appello o del tribunale può accentrare in capo ad una o più delle strutture organizzative di cui al comma 1 anche lo svolgimento di attività di cancelleria che sarebbero di competenza di più sezioni, ivi incluse le rilevazioni statistiche e la risoluzione delle problematiche derivanti dall’impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dalla adozione di nuovi modelli organizzativi. L’art. 3 pertiene alla dotazione degli applicativi informatici: la direzione generale dei sistemi informativi automatizzati sviluppa gli applicativi informatici per il funzionamento, il coordinamento e il controllo delle strutture organizzative denominate ufficio per il processo. Con l’art. 4 si regola l’ammissione allo stage e attestazione del relativo esito. Quando la domanda di ammissione allo stage è accolta, il presidente della Corte d’Appello o del tribunale fissa la data in cui il periodo di formazione teorico-pratica deve avere inizio. (c. 5) Il magistrato formatore redige la relazione di cui all’art. 73, (c. 6), comma 11, del D.L. n. 69/2013, cit., entro quindici giorni dal termine dello stage; il presidente della Corte d’Appello o del tribunale appone il proprio visto sull’attestazione medesima. L’attestazione prevista dall’art. 73, comma 11, D.L. n. 69, cit., è rilasciata anche a coloro che hanno completato con esito positivo lo stage, pur avendolo iniziato prima dell’entrata in vigore dell’art. 16 octies, comma 2, D.L. n. 17/2012, convertito dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221. Il provvedimento e la relazione di cui ai commi 1 e 2 sono redatti in conformità alle linee guida stabilite dalla direzione generale dei magistrati del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del Ministero della Giustizia. Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano, in quanto compatibili, anche ai soggetti di cui all’art. 37, comma 5, D.L. n. 98 del 2011. Con l’art. 5 si regola l’attestazione del completamento del periodo di perfezionamento e del relativo esito. Il capo dell’ufficio o un giudice da lui delegato attesta il completamento, con esito positivo, del periodo di perfezionamento presso l’ufficio per il processo da parte dei soggetti di cui all’art. 2, comma 2, anche ai fini di cui all’art. 21 ter, comma 1 quater, D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito dalla L. 6 agosto 2015, n. 132. (Il testo del comma 1 quater cit., prevede che il completamento del periodo di perfezionamento presso l’ufficio per il processo costituisce titolo di preferenza a parità di merito, ai sensi dell’art. 5 del regolamento di cui al d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 nei concorsi indetti dalla pubblica amministrazione. Stabilisce altresì che nelle procedure concorsuali indette dall’amministrazione della Giustizia sono introdotti meccanismi finalizzati a valorizzare l’esperienza formativa acquisita mediante il completamento del periodo di perfezionamento presso l’ufficio per il processo). L’art. 6 prevede il censimento ed il monitoraggio. Il dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi provvede, avvalendosi, nell’ambito delle rispettive competenze, della direzione generale dei sistemi informativi ed automatizzati e della direzione generale di statistica, alla predisposizione di un sistema informatico volto alla rilevazione dei dati inerenti le strutture organizzative denominate ufficio per il processo, al fine di constatare, in particolare, le corti di appello e i tribunali presso i quali le stesse sono presenti, il numero delle strutture articolate presso ciascun tribunale e Corte d’Appello, le categorie dei soggetti che fanno parte delle medesime strutture organizzative, l’assegnazione di esse a supporto di uno o più magistrati, nonché l’eventuale articolazione di strutture organizzative accentrate a norma dell’art. 2, comma 4. I dati sono elaborati dalla direzione generale di statistica al fine della rilevazione dell’incidenza della presenza dell’ufficio per il processo e del modello organizzativo concretamente adottato sulla produttività dell’ufficio e sulla durata dei procedimenti. Il sistema informatico è reso pienamente operativo entro il 31 dicembre 2017. (c. 1) Il dipartimento di cui al comma 1, con le modalità previste dal predetto comma, provvede altresì alla rilevazione dei dati relativi ai soggetti ammessi al periodo di formazione teorico-pratica di cui all’art. 73 del D.L. n. 69 del 2013, al fine di constatare, in particolare, il numero dei predetti soggetti, la suddivisione degli stessi per fasce di età, per voto di laurea riportato, per media dei voti riportati negli esami di cui al comma 1 del predetto articolo, le università presso le quali hanno conseguito la laurea, nonché le materie per le quali hanno espresso preferenza ai fini dell’assegnazione, il numero di magistrati che hanno espresso la disponibilità a norma del comma 4 del predetto articolo, il numero degli ammessi allo stage a cui è stata fornita la dotazione strumentale prevista dal predetto comma, il numero di coloro che ricevono la borsa di studio prevista dal comma 8-bis del predetto articolo precisandone l’ammontare annuo, il numero dei corsi organizzati a norma del comma 5 del predetto articolo, il numero di coloro che non hanno terminato lo stage con esito positivo, il numero di coloro che si sono avvalsi del titolo di cui al comma 11-bis del predetto articolo ai fini della presentazione della domanda di partecipazione al concorso per magistrato ordinario e il numero di coloro che sono stati dichiarati idonei, il numero di uffici che hanno concluso le convenzioni ai sensi del comma 17 del predetto articolo, nonché l’incidenza dell’ausilio degli ammessi allo stage sulla produttività dell’ufficio e dei magistrati formatori. (c. 2). Le disposizioni di cui al comma 2 si applicano, in quanto compatibili, anche ai soggetti di cui all’art. 37, comma 5, D.L. n. 98 del 2011. (Il comma citato così dispone: 5. Coloro che sono ammessi alla formazione professionale negli uffici giudiziari assistono e coadiuvano i magistrati che ne fanno richiesta nel compimento delle loro ordinarie attività, anche con compiti di studio, e ad essi si applica l’articolo 15 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1496 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Legislazione Novità in sintesi 1957, n. 3. Lo svolgimento delle attività previste dal presente comma sostituisce ogni altra attività del corso del dottorato di ricerca, del corso di specializzazione per le professioni legali o della pratica forense per l’ammissione all’esame di avvocato. Al termine del periodo di formazione il magistrato designato dal capo dell’ufficio giudiziario redige una relazione sull’attività e sulla formazione professionale acquisita, che viene trasmessa agli enti di cui al comma 4. Ai soggetti previsti dal presente comma non compete alcuna forma di compenso, di indennità, di rimborso spese o di trattamento previdenziale da parte della pubblica amministrazione. Il rapporto non costituisce ad alcun titolo pubblico impiego. È in ogni caso consentita la partecipazione alle convenzioni previste dal comma 4 di terzi finanziatori). L’art. 7 è in tema di Banca dati della giurisprudenza di merito. La direzione generale dei sistemi informativi ed automatizzati svolge tutte le attività necessarie per assicurare, a decorrere dal 31 dicembre 2016, l’avvio della banca dati della giurisprudenza di merito e la fruibilità dei dati in essa contenuti su base nazionale. La direzione generale di cui sopra svolge tutte le attività necessarie per consentire l’inserimento dei metadati di classificazione nella banca dati indicata ed agevolare il reperimento dei provvedimenti giurisdizionali ivi contenuti, anche potenziando l’efficacia dei sistemi informatici di ricerca. Per i primi dodici mesi successivi alla data di cui al periodo precedente la banca dati opera in forma sperimentale. (c. 1) Il presidente della Corte d’Appello o del tribunale con cadenza annuale a decorrere dalla pubblicazione del decreto a norma dell’art. 11, i criteri per la selezione dei provvedimenti da inserire nella banca di cui al comma 1, avvalendosi per l’espletamento di tali compiti dell’attività di coloro che svolgono il tirocinio formativo a norma dell’art. 73 del D.L. n. 69/2013 o la formazione professionale dei laureati a noma dell’art. 37, comma 5, D.L. n. 98/2011, convertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, nonché di coloro che fanno parte dell’ufficio per il processo a norma dell’art. 50, comma 1 bis, D.L. 24 giugno 2014, n. 90 convertito dalla L. 11 agosto 2014, n. 114. Con l’art. 8 si dispone l’Organizzazione dei servizi di cancelleria. L’art. 9 assicura infine la copertura assicurativa e previdenziale degli ammessi allo stage. il Corriere giuridico 12/2015 1497 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile e processuale civile Gestione di affari altrui e giurisdizione internazionale Cassazione Civile, Sez. III, 26 giugno 2015, n. 13203 - Pres. Russo - Rel. Vincenti - P.M. Velardi (conf.) - A.D.P.M. (avv.ti Vaccarella, Tavormina) - G.S.F. (avv. Irti) - C.M. (avv.ti Giovannetti, Weigmann, Montalenti) - G.G. (avv.ti Giovannetti, Pavesio) - M.S. (avv.ti Giovannetti, Canale, Carbone) In tema di gestione d’affari la presenza del dominus e la sua scientia non escludono automaticamente il presupposto di fatto della gestione, in quanto la concreta impossibilità del dominus di provvedere rende pienamente ammissibile l’intervento del gestore, sempre che l’inerzia dell’interessato non abbia il senso della prohibitio, atteso che l’esistenza di una opposizione dell’interessato, anche implicita o tacita, alla gestione altrui è fattore da solo sufficiente ad escludere la fattispecie di cui all’art. 2028 c.c. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto sussistente non il difetto del requisito della absentia domini, bensì la presenza di una vera e propria prohibitio, nella “rumorosa opposizione”- giacché manifestata in sede societaria, nonché facendo precedere l’assunzione di iniziative giudiziarie dalla comunicazione delle stesse ad organi di informazione - esercitata dalla coerede di uno dei maggiori imprenditori nazionali, in relazione alla gestione che del patrimonio del de cuius avrebbero fatto i pretesi gestori). La verifica della giurisdizione del giudice italiano si concentra sulla domanda principale, non potendosi tener conto della domanda subordinata o alternativa. La pronuncia sulla giurisdizione italiana resa all’esito di regolamento preventivo di giurisdizione preclude all’attore di sciogliere il nesso di subordinazione originario tra le sue domande in corso di giudizio. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme In tema di gestione di affari Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11135; Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11136; Cass. 7 giugno 2011, n. 12304; Cass. 9 aprile 2008, n. 9269; Cass. 25 maggio 2007, n. 12280; Cass. 23 maggio 1984, n. 3143; Cass. 13 maggio 1964, n. 550; Cass. 3 marzo 1954, n. 607. Sul rispetto dei nessi di subordinazione tra domande ai fini della verifica della giurisdizione italiana: Cass., SS.UU., n. 6331/1981; Cass., SS.UU., n. 3841/2007; Cass., SS.UU., n. 2926/2012; Cass., SS.UU., n. 19675/2014; sul vincolo del giudice di merito al giudicato sulla giurisdizione: Cass. n. 15721/2005; Cass. n. 6850/2010. Difforme In tema di gestione di affari nessun precedente rinvenuto. Ritenuto in fatto 1. - Nel maggio 2007 A.D.P.M. - erede, unitamente alla madre C.M., di A.G., deceduto il 24 gennaio 2003 senza disporre in via generale testamentaria, ma soltanto a titolo particolare - convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Torino, quest’ultima coerede, nonché il Dr. G.G., l’avv. G.S.F. e il sig. M.S. 1.1.- L’attrice dedusse: che il defunto senatore Agnelli si avvalse per la gestione dei propri affari dell’opera del G. e del G.S., suoi professionisti di fiducia, assistiti dal M., ai quali conferì “mandato di durata per la gestione anche del proprio patrimonio mobiliare”; che tale attività fu svolta sia prima, che dopo la morte del senatore e ciò, nonostante l’estinzione del mandato, con animus aliena negotia gerendi, ai sensi dell’art. 2028 c.c.; che il G.S. svolse attività anche oltre i limiti del mandato, perseguendo gli interessi della coerede ed essendo destinatario della nomina di esecutore testamentario, incarico che non accettò; che il G. fu consulente per la gestione degli interessi del defunto “in società, fondazioni, trusts ed enti” al medesimo riferibili; che il M. fu preposto al “family office”, costituito dalla SADCO di Zurigo e dalla SACOFINT di Ginevra, “per la gestione del patrimonio mobiliare internazionale”; che, pertanto, gli 1498 anzidetti mandatari avrebbero dovuto “rendere il conto a parte attrice” (che, invece, ebbe ad ottenere “solo in parte” documenti ed informazioni), comprensivo dell’elenco di tutti i beni e della “evoluzione dell’intero patrimonio riferibile, direttamente o indirettamente, al senatore Agnelli”; che tanto era necessario per la ricostruzione del patrimonio ereditario, al fine di procedere alla “petizione di eredità” ex art. 533 c.c., nonché alla valutazione delle modalità di gestione del patrimonio stesso e, quindi, dell’eventuale responsabilità dei “gestori”; che, peraltro, le operazioni divisorie già effettuate non esaurivano l’intero asse ereditario e, inoltre, erano nulle, in quanto contrarie a norme imperative, le rinunce derivanti dall’accordo tra le eredi del 18 febbraio 2004 e dal successivo “Patto Successorio” del 2 marzo 2004. 1.2. - L’ A., dunque, chiese: a) in via preliminare, che fosse ordinato, ex art. 263 c.p.c., disgiuntamente all’avv. G.S. F., al dott. G.G. e al signor M.S. il rendimento del conto; b) in via pregiudiziale, “ove occorra”, che fosse dichiarata la nullità, l’annullabilità, l’inefficacia degli accordi intercorsi in Svizzera tra essa A.M. e Donna C.M. successivamente all’apertura della successione del senatore A.G.; c) in via principale, che fosse accertata e dichiarata la qualità di erede del senatore Agnelli di il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile e processuale civile essa attrice in relazione a tutti i beni oggetto di rendiconto; d) in via principale eventuale, che fossero solidalmente condannati il G.S., il G. ed il M. al risarcimento dei danni eventualmente provocati dalla violazione degli obblighi di mandatari e/o gestori di affari altrui in relazione all’asse ereditario; e) in via principale, che fosse dichiarato lo scioglimento della comunione ereditaria mediante assegnazione in proprietà esclusiva dei beni; f) in via subordinata, in caso di ravvisata non materiale divisibilità dei singoli beni oggetto di comunione ereditaria, che fosse disposta la vendita degli stessi beni, con liquidazione pro quota a ciascun erede del ricavato. 1.3. - Si costituirono in giudizio tutti i convenuti, contestando la fondatezza delle domande, delle quali chiesero il rigetto. 1.4. - La C. ed il M. - la prima sul presupposto della formulata eccezione di transazione in base agli accordi intervenuti in Svizzera con la figlia M. per la definizione di ogni controversia successoria sui beni del defunto senatore; il secondo in quanto cittadino svizzero - proposero regolamento preventivo di giurisdizione, deducendo il difetto di giurisdizione del giudice italiano e indicando conte competente a decidere la causa il giudice svizzero. A seguito di ordinanza di sospensione del giudizio, l’attrice propose regolamento di competenza avverso tale provvedimento. Con ordinanza n. 25875 del 27 ottobre 2008, le Sezioni Unite di questa Corte dichiararono la giurisdizione del giudice italiano e l’inammissibilità del regolamento di competenza. 1.5. - Riassunto il processo, dichiarati inammissibili (con ordinanza istruttoria del 21 luglio 2009) i capitoli di prova orale articolati dall’attrice e respinte le istanze di esibizione dalla medesima avanzate, l’adito Tribunale, con sentenza del 17 marzo 2010: rigettò la domanda di rendiconto per difetto di prova sui dedotti rapporti di mandato e di gestione di affari; ritenne non esaminabile la domanda di nullità, annullabilità ed inefficacia degli accordi stipulati in Svizzera tra le coeredi, per esser la stessa condizionata dall’eccezione di res transacta, oggetto di rinuncia sia da parte della C., che del M.; rigettò le domande di petizione di eredità e di divisione in relazione ai beni collegati all’azione di rendiconto, mentre le dichiarò inammissibili in riferimento ai restanti beni; dichiarò non esaminabile la domanda risarcitoria in ragione del rigetto della domanda di rendiconto alla quale era connessa. 2. - Avverso tale decisione proponeva gravame A.D.P. M., che la Corte di appello di Torino - nel contraddittorio con gli appellati C.M., G.G., G. S.F. e M.S. - rigettava con sentenza resa pubblica il 10 aprile 2012. 2.1. - La Corte territoriale - affermato preliminarmente che l’appellante non era affatto “terza, sul piano sostanziale e processuale”, rispetto al dedotto contratto di mandato che sarebbe intercorso tra il proprio dante causa e i convenuti appellati G., G.S. e M. - riteneva essersi formato giudicato interno sulla qualificazione del contratto come di “mandato verbale di generale ammi- il Corriere giuridico 12/2015 nistrazione dei beni costituenti il patrimonio personale del defunto A.G.”. A tal fine, la Corte di appello osservava che l’appellante non aveva censurato “in modo specifico” la distinzione tra mandato verbale e mandato tacito operata dal Tribunale, né aveva criticato “in qualche modo l’esclusione della ricorrenza nel caso della possibilità giuridica di un mandato tacito, ritenuta dal primo giudice”, limitandosi a sostenere, infondatamente (stante le diverse conseguenze in termini di oneri di prova), l’indifferenza “per la qualificazione nell’uno o nell’altro senso”. 2.2. - Il giudice di secondo grado escludeva, poi, che l’attrice avesse fornito prova di tale invocata fonte negoziale, ribadendo, anzitutto, il rigetto delle istanze di ammissione della prova orale, anche in forza di una considerazione non solo analitica e frazionata dei capitoli articolati, bensì “alla stregua di un canone di valutazione complessiva”. In tale prospettiva, nonché premesso che non era ravvisabile nella specie un abuso del diritto nell’utilizzo, in forza del mandato conferito dal de cuius, delle “forme societarie dei vari soggetti volta a volta coinvolti nelle diverse attività”, la Corte di merito reputava irrilevanti anche le prove documentali prodotte dalla A. (concernenti, tra l’altro: la posizione del G. come presidente della Exor, socio accomandatario della Giovanni Agnelli & C. s.a.p.a. e socio della Dicembre s.s.; la posizione del G.S. come socio della Dicembre s.s. e la sua nomina ad esecutore testamentario; la posizione del M. come esecutore di deliberazioni delle predette società; la posizione dei tre menzionati quali “protectors” della Fondazione Alkyone). 2.3. - La Corte piemontese riteneva, inoltre, “già solo sulla base della prospettazione di parte appellante”, che non potesse ravvisarsi, dopo la morte del senatore Agnelli, una negotiorum gestio da parte del G., del G.S. e del M., ciò per l’insussistenza del requisito della absentia domini, in ragione “dell’attivismo dispiegato” dalla stessa A.M. “per una gestione diretta ed immediata, ad esclusione di qualsiasi gestori, nell’eredità paterna sin dal 26 febbraio 2003, cioè due giorni dopo la pubblicazione degli olografi”. 2.4. - In forza del rigetto del gravame in ordine alla asserita esistenza di obblighi di rendiconto in capo ai predetti appellati, il giudice di secondo grado reputava conseguentemente travolte le doglianze che investivano la reiezione delle domande di petizione di eredità, di scioglimento della comunione e di risarcimento dei danni. 2.5. - Quanto alla questione della exceptio rei transactae, la Corte di appello, pregiudizialmente, dichiarava l’inammissibilità della domanda dell’appellante di accertamento in via principale della nullità, annullabilità ed inefficacia degli accordi intercorsi in Svizzera tra le coeredi, in quanto nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c., posto che in precedenza essa era stata formulata come “controeccezione di accertamento incidentale subordinato”. La stessa Corte la esaminava, comunque, come tale e, tuttavia, la riteneva non scrutinabile nel merito per difetto di interesse ex art. 100 c.p.c., giacché reso inconsistente dalla rinuncia sull’eccezione di avvenuta transa- 1499 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile e processuale civile zione, rispetto alla quale la “controeccezione preventiva” della A. era da ritenersi condizionata. 3. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre A.D.P. M. sulla base di cinque articolati motivi: due investenti il profilo del contratto di mandato; due la negotiorum gestio; ed uno la questione, processuale, della domanda sulla invalidità degli accordi “Svizzeri” siccome ritenuta paralizzata dalla rinuncia avversaria alla exceptio rei transacta. Omissis. Motivi della decisione Omissis. 3. - Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2028 c.c. La Corte di appello avrebbe errato nell’escludere l’applicabilità nella fattispecie della negotiorum gestio per l’insussistenza del requisito dell’absentia domini, desunto dalla “opposizione della (co)interessata alla gestione dei propri affari”, con ciò mancando di considerare che, alla luce della stessa giurisprudenza di legittimità invocata (Cass. n. 9269 del 2008), il presupposto idoneo e sufficiente a consentire l’operatività dell’istituto è soltanto l’impossibilità materiale, da parte del dominus, di provvedere da s alla gestione. Dunque, nella specie, il giudice di gravame, prima ancora di valutare la circostanza della “rumorosa opposizione” dell’appellante alla gestione, avrebbe dovuto porsi il problema della impossibilità della medesima A. “di provvedere da sé alla gestione, per l’ignoranza del complessivo quadro dell’asse che notoriamente l’affliggeva”. 3.1. - Il motivo non può trovare accoglimento, sebbene la motivazione della sentenza debba essere in parte corretta ai sensi dell’art. 384, comma 4, c.p.c. 3.1.1. - Nella ricostruzione dell’istituto della negotiorum gestio, disciplinato dall’art. 2028 c.c. ss., la nozione che la consolidata giurisprudenza di questa Corte ha accolto del requisito della absentia domini, secondo una direttrice condivisa dalla prevalente dottrina, è quella per cui, a tal fine, non rileva che vi sia una condizione di assoluto impedimento dell’interessato alla gestione dei propri affari ovvero che sussista una impossibilità materiale rispetto alla cura di questi, ritenendosi soddisfatto l’anzidetto requisito là dove il dominus non abbia manifestato, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nella cura dei propri affari (tra le tante, Cass., 3 marzo 1954, n. 607; Cass., 13 maggio 1964, n. 550; Cass., 23 maggio 1984, n. 3143; Cass., 25 maggio 2007, n. 12280; Cass., 9 aprile 2008, n. 9269; Cass., 7 giugno 2011, n. 12304). Si tratta di una concezione relativistica e scevra da rigidità, che tende, in effetti, ad estendere l’ambito applicativo dell’istituto al di là degli angusti limiti tradizionalmente configurati soprattutto nella considerazione, più risalente, che faceva capo al previgente codice civile del 1865, per cui la stessa giurisprudenza aveva allora ritenuto necessario che l’utile gestione dovesse essere intrapresa absente et inscio domino, alla stregua di una ac- 1500 cezione, rispettivamente, di impossibilità oggettiva e di evidente mancanza di consapevolezza dell’intrusione del terzo. L’odierno approdo giurisprudenziale può, quindi, essere compendiato nel principio per cui, nella gestione utile di affare altrui, la absentia domini deve intendersi “non come impossibilità oggettiva e soggettiva di curare i propri interessi, ma come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione o divieto del dominus” (Cass. n. 12280 del 2007 e Cass. n. 12304 del 2011, citate). Sicché, il requisito in esame è rinvenibile “non solo quando l’interessato sia nella materiale impossibilità di provvedere alla cura dei propri affari ma anche quando lo stesso non rifiuti, espressamente o tacitamente, tale ingerenza da parte del negotiorum gestor” (Cass. n. 9269 del 2008, cit.). Un siffatto consolidato orientamento in tema di configurazione dell’elemento dell’absentia domini, tributario delle istanze solidaristiche di cui all’art. 2 Cost., operanti in senso conformativo dell’istituto secondo un bilanciato contemperamento con le esigenze dell’autonomia privata, porta a ritenere, in consonanza anche con una parte della dottrina, non impredicabile una sorta di equiparazione implicita tra il dominus prohibens e il dominus non absens, con ciò assistendosi ad un sostanziale assorbimento del requisito dell’assenza nel rilievo della mancanza di una manifestazione dell’amministrato di preclusione all’intervento gestorio del terzo, che dell’art. 2031 c.c., comma 2, contempla come impedimento genetico degli obblighi scaturenti dalla gestione stessa. Dunque, come già rilevato in passato da questa Corte (Cass., 7 gennaio 1970, n. 35), ma con affermazione che ha trovato continuità, la considerazione non rigorosa del requisito dell’absentia domini non può tuttavia prescindere dalla verifica che l’interessato “non si sia opposto all’intromissione del gestore, che cioè non vi sia stata la prohibitio domini espressamente prevista dall’art. 2031 c.c., comma 2”. In altri termini, la presenza del dominus e la sua scientia “non escludono automaticamente che sussista il presupposto di fatto della gestione, in quanto, se in concreto il dominus non è in grado di provvedere, l’intervento di un gestore e pienamente ammissibile, a meno che l’inerzia dell’interessato abbia il senso della prohibitio, seppure implicita, per fatti, anche omissivi, concludenti” (Cass., 15 ottobre 1963, n. 2757). Sicché, l’impossibilità anche relativa del dominus, intesa come difficoltà dello stesso di gestire i propri interessi, potrebbe certamente concretarsi nell’ignoranza sull’esistenza dell’affare, ma la stessa perde di rilevanza di fronte ad una manifestazione di volontà, anche implicita, del medesimo interessato di opporsi all’ingerenza di terzi. E, difatti, se, per un verso, la mancata opposizione (così come l’ignoranza dell’affare) può ravvisarsi come elemento sufficiente ad integrare l’absentia domini, per altro verso, la verifica dell’esistenza di una opposizione (an- il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile e processuale civile che implicita o tacita) dell’interessato alla gestione altrui - quale apprezzamento, anch’esso, riservato al giudice del merito -, è fattore da solo sufficiente ad escludere la fattispecie di cui all’art. 2028 c.c. ss. 3.1.2. - Nella specie, la Corte di appello piemontese (pp. 108/110) ha posto in evidenza, sulla base di emergenze istruttorie in sé non contestate (segnatamente: lettera dell’attrice sull’attività svolta già prima della pubblicazione degli olografi; intervento, “in termini decisionali”, all’assemblea societaria della Dicembre s.s. nel febbraio 2003, “ad un solo mese ... dall’apertura della successione”; proposizione del giudizio contro i tre pretesi gestori, annunciato “dapprima sui giornali”), l’“attivismo dispiegato” dalla A.D.P. “per una gestione diretta ed immediata, ad esclusione di qualsiasi gestor, nell’eredità paterna sin dal febbraio 2003, cioè due giorni dopo la pubblicazione degli olografi”, così da ritenere dimostrata “la rumorosa opposizione della (co)interessata alla gestione dei propri affari da parte dei tre pretesi gestori”. Pertanto, il giudice del merito, nell’escludere la sussistenza della fattispecie della negotiorum gestio, ha, invero, attribuito, in modo espresso e chiaro, rilievo eminente alla opposizione (altresì definita “rumorosa”), da parte della coerede A., alla gestione altrui del patrimonio paterno e in termini palesi ed evidenti nei confronti degli stessi presunti gestori. 3.1.3. - Una siffatta “rumorosa opposizione” della (co)interessata, personalmente attivatasi nella gestione del patrimonio paterno poco dopo la morte del de cuius con “esclusione di qualsiasi gestore”, viene a configurare, piuttosto che l’inesistenza del requisito della absentia domini, l’esistenza dell’elemento, in negativo dirimente, della prohibitio domini, riconoscibile dai terzi in modo certo e, in ogni caso, tale da non poter ingenerare negli stessi quel legittimo affidamento - che l’inerzia dell’interessato suscita nell’estraneo, il quale intenda intromettersi spontaneamente nell’affare di altri - sulla possibilità di intraprendere la gestione del patrimonio altrui, anche se soltanto per la parte di cui l’interessata non aveva piena cognizione. Ed invero, dato il presupposto, su cui si impernia l’azione di rendiconto promossa dall’attrice, per cui l’affare da gestire era unitario, ossia l’intero patrimonio ereditario, anche la dedotta condizione soggettiva dell’interessata, di non completa conoscenza di tutti gli interessi coinvolti, non assume, comunque, il ruolo di fattore destrutturante la ricostruzione operata dalla Corte territoriale, giacché si palesa del tutto plausibile che, rispetto ad un unico asse ereditario, non si apprezzi una scissione tra interessi suscettibili e non di gestione. 3.1.4. - Dunque, la motivazione della sentenza impugnata da conto, di per sé, dell’elemento su cui la Corte di appello ha ritenuto di escludere, in radice, la configurabilità di una negotiorum gestio da parte dei convenuti G.S., G. e M., individuato, per l’appunto, nell’opposizione della A.D. P. a che i predetti si interessassero della gestione del patrimonio ereditario, quale elemento da reputarsi integrante la prohibitio domini, di per sé idoneo ad escludere il sorgere di un valido atto gestorio e tale il Corriere giuridico 12/2015 da confinare nell’irrilevanza il profilo della impossibilità anche relativa del dominus di provvedere ai propri affari. In siffatti termini, la motivazione, che non viene fatta oggetto di alcuna censura nel suo complessivo apprezzamento di merito, deve essere corretta in iure, giacché i fatti accertati dalla Corte territoriale sono tali da essere sussunti, alla stregua delle coordinate morfologiche della fattispecie gestoria di cui all’art. 2028 c.c. e segg., nel requisito della prohibitio domini, piuttosto che in quello dell’absentia domini; il che non sposta la statuizione di rigetto assunta dal giudice del merito. Omissis. 5. - Con il quinto mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità del procedimento e della sentenza per violazione degli artt. 99, 100, 112 e 345 c.p.c. La Corte territoriale avrebbe erroneamente omesso l’esame del merito della domanda di nullità, annullamento ed inefficacia degli accordi stipulati in Svizzera tra A.M. e C.M. nel febbraio-marzo 2004 (domanda sub “B” in primo grado; domanda sub “B” e sub H” in grado di appello). La ricorrente assume che detta domanda - come evidenziato anche nell’ordinanza delle Sezioni Unite sul regolamento di giurisdizione - era di “accertamento incidentale condizionato” rispetto alla eccezione di res transacta della C., sicché ove costei “non avesse proposto l’eccezione, la domanda avrebbe dovuto essere considerata come non proposta; se viceversa M. avesse proposto l’eccezione, la domanda avrebbe dovuto esser considerata come proposta ad ogni effetto”. Tale ultima ipotesi si era verificata, avendo la C., sin dalla comparsa di risposta del 18 dicembre 2007, formulato l’eccezione di res transacta. Peraltro, soggiunge la ricorrente, la formulazione della domanda contenuta nella memoria del 9 maggio 2009 (“B) in via preliminare eventuale, per l’ipotesi di ammissibilità e accoglibilità della eccezione di Donna C.M. fondata sull’accordo di divisione del 18 febbraio 2004 ..., dichiarare la nullità, annullabilità o comunque l’inefficacia del suddetto accordo di divisione ...”) non integrava “un nuovo e diverso condizionamento della domanda”, bensì un semplice chiarimento sul fatto che la stessa era stata proposta “solo per l’eventualità di un’eccezione della convenuta”. Parimenti era da intendersi la domanda, “poco diversa”, formulata in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado, nel cui corso la C. rinunciava all’eccezione di res transacta; rinuncia alla quale contestualmente si opponeva il difensore di essa A. Pertanto, seppure proposta in via condizionata, la Corte territoriale avrebbe dovuto pronunciare nel merito della domanda di accertamento della invalidità/inefficacia degli accordi “svizzeri”, posto che la condizione si era ormai avverata con la proposizione dell’eccezione di res transacta, con conseguente irrilevanza della successiva rinuncia all’eccezione. Invero, sostiene la parte ricorrente, opinare che la rinuncia all’eccezione assuma nella specie rilevanza, si- 1501 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile e processuale civile gnificherebbe esporre “il sistema del condizionamento ad esiti assurdi”, facendo del convenuto l’“esclusivo signore della pendenza della domanda a tempo indeterminato”. Peraltro, ove si ritenesse di seguire la tesi contraria (ossia del mancato avveramento della condizione, in presenza della rinuncia all’eccezione condizionante), dovrebbe aversi riguardo al fatto che l’appellante aveva, in ogni caso, manifestato (con l’opposizione alla rinuncia; in comparsa conclusionale di primo grado; con l’atto di appello) “chiaramente la volontà che la sua domanda, ab initio condizionata, fosse comunque decisa, indipendentemente dalla (rinuncia, e quindi dal supposto mancato avveramento della) condizione”. Sicché, alla stregua di orientamento espresso da autorevole dottrina, non era impedito all’attrice/appellante ritornare sulla propria “scelta iniziale di articolare in modo condizionale” la domanda, in base ad un “proprio interesse di self-restraint”, “senz’altro ricusabile” se la scelta non sia più “ritenuta congrua e soddisfacente”, e così “liberamente sciogliersi da codesto condizionamento”. Un tale ripensamento non sarebbe, poi, di pregiudizio per la controparte, giacché l’attore avrebbe fin dall’inizio potuto proporre la domanda priva di condizionamento e, in ogni caso, la proposizione di domanda condizionata non impedisce al convenuto stesso di “contraddire ad essa e difendersene”. Da ciò discenderebbe, quindi, che la domanda proposta in appello non sarebbe domanda nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c., ma “sempre la stessa domanda di nullità, annullamento ed inefficacia degli accordi stipulati in Svizzera, alla quale l’attrice ha poi legittimamente tolto il condizionamento iniziale”. Ed ancora, la Corte di appello avrebbe comunque errato a non esaminare la domanda di invalidità degli accordi “svizzeri” per mancanza di interesse ad agire, ex art. 100 c.p.c., di cui “nessuno dei convenuti ha mai pensato di lamentarne il difetto”. Del resto, trattandosi di “domanda di accertamento di nullità condizionato”, l’interesse avrebbe dovuto misurarsi soltanto sulla “obiettiva incertezza della situazione giuridica” che ne formava oggetto, la quale era, nella specie, sussistente, giacché la C. ha mostrato sempre di ritenere gli accordi “svizzeri” validi e vincolanti, mentre di contrario avviso è sempre stata l’attrice, attuale ricorrente, là dove la rinuncia all’eccezione di res transacta non verrebbe ad incidere su tale obiettiva incertezza, posto che alla rinuncia non si è accompagnato “il riconoscimento espresso della nullità del contratto”. Né potrebbe sostenersi, inoltre, che l’interesse ad agire farebbe difetto perché non vi sarebbe più contestazione di nullità degli accordi nel giudizio in cui l’eccezione è stata rinunciata, giacché in tal modo si giungerebbe ad affermare la “tesi assurda” che al convenuto, per sottrarsi alla domanda di nullità contrattuale dell’attore, basterebbe “non contestare la domanda in giudizio”. Infine, l’affermazione del giudice di appello sulla assenza di vantaggi per la A. in conseguenza della dichiarazione di nullità dei predetti accordi sarebbe incongrua, posto che, tra l’altro, a radicare l’interesse ad agire sarebbe 1502 sufficiente “ogni utilità sperata” e che, in forza della predetta declaratoria, anche la C. sarebbe costretta alla restituzione dei beni ereditari e verrebbe meno ogni questione sul diritto di legittimaria rispetto all’eredità di quest’ultima. 5.1. - Il motivo, in tutta la sua articolazione, è infondato. 5.1.1. - Occorre muovere dalla ordinanza n. 25875 del 2008, emessa dalle Sezioni Unite civili di questa Corte, nel corso del giudizio di primo grado della presente controversia, sui ricorsi per regolamento preventivo di giurisdizione proposti (e successivamente riuniti) sia da C.M., che da M.S. La declaratoria di giurisdizione del giudice italiano (rispetto a quello svizzero), recata dall’ord. n. 25875 del 2008, trova ragione d’essere sulla scorta dell’esegesi dell’atto di citazione di A. M. e come esito della individuazione dei “rapporti tra le diverse domande in esso contenute”. Un siffatto giudizio è, dunque, il precipitato della “irrefutabile conclusione” per cui “domanda principale è senz’altro a dirsi quella avente ad oggetto la petitio haereditatis formulata dall’attrice, nonché quella, ad essa conseguente, di scioglimento della comunione ereditaria”; mentre, la “richiesta di dichiarare la nullità, annullabilità, inefficacia degli accordi intercorsi in Svizzera tra la sig.ra A.M. e donna C.M., di cui al punto b) dell’atto di citazione” - su cui trovava fondamento la carenza di giurisdizione del giudice italiano postulata dalla C. con il ricorso per regolamento di giurisdizione - “si pone, difatti, oltre che in un rapporto di pregiudizialità soltanto eventuale rispetto alla domanda successoria svolta in via principale, anche e soprattutto sul piano del merito della causa (atteso che, in via di ipotesi astratta, l’eccezione di transazione sì come paventata dall’attrice sarebbe ben potuta non essere opposta dalla convenuta) e, come tale, irredimibilmente sottratta alla cognizione e all’esame di questa Corte quoad iurisdictionis”. Le Sezioni Unite hanno, quindi, qualificato detta domanda come di “accertamento incidentale condizionato quanto alla (eventuale) inefficacia lato sensu da attribuirsi all’atto transattivo stipulato in Svizzera tra le stesse parti della controversia successoria”. Donde, la ribadita affermazione della “natura ereditaria dell’odierna controversia”, non suscettibile di “subire alcuna mutazione, né genetica né funzionale, sul piano del petitum e della causa, petendi, per il solo fatto che l’attore, in previsione di una possibile eccezione di res litis transacta, ne chieda, in limine, un accertamento pregiudiziale a sé favorevole”, poiché, come detto, “tale questione attiene evidentemente al merito della controversia, e non alla giurisdizione”. Sicché, in forza del combinato operare (in senso, rispettivamente, escludente ed inclusivo) dell’art. 1 della Convenzione di Lugano e dell’ art. 50, L. n. 218 del 1995, la successione del senatore Agnelli Giovanni apertasi in Italia ha radicato davanti al giudice italiano la cognizione della presente causa ereditaria. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile e processuale civile Peraltro, la natura ereditaria della controversia, in forza del carattere principale rivestito dalla domanda di petitio haereditatis, ha consentito alle Sezioni Unite di ravvisare, rispetto a detta domanda, un “evidente rapporto di connessione da pregiudizialità della causa di rendiconto”; per cui l’attrazione di quest’ultima nell’orbita della prima, “con conseguente individuazione, anche sotto tale profilo, della competenza giurisdizionale del giudice italiano”. 5.1.2. - Dunque, a seguito dell’ord. n. 25875 del 2008, il radicamento della presente controversia dinanzi al giudice italiano si è reso possibile in ragione della natura principale della domanda di petizione ereditaria proposta dalla A. con l’atto di citazione e della natura di “accertamento incidentale condizionato” della domanda volta alla declaratoria di invalidità/inefficacia degli accordi transattivi svizzeri, in quanto connotata da pregiudizialità solo eventuale rispetto alla domanda principale, siccome proposta “in previsione di una possibile eccezione di res litis transacta”. In tal senso, l’orbita intorno alla quale ha gravitato la decisione in punto di giurisdizione è stata quella della domanda (per l’appunto, la petizione di eredità) il cui precipuo contenuto si è ritenuto idoneo a costituire la vis actractiva del potere cognitorio del giudice italiano, in ragione dei criteri di collegamento che essa stessa ha attivato. Con la conseguenza che la domanda di “accertamento incidentale condizionato”, da esaminarsi in via pregiudiziale solo nell’eventualità di una eccezione di transazione, si è venuta a collocare al di fuori del perimetro della cognizione delle Sezioni Unite come organo regolatore della giurisdizione, per attestarsi sul piano del merito della causa. 5.1.3. - In questi termini la pronuncia recata dall’ord. n. 25875 del 2008 costituisce giudicato, sicuramente endoprocessuale (quello panprocessuale è profilo che non riveste immediato interesse ai fini della presente decisione), precludente, nel prosieguo del medesimo giudizio, un diverso atteggiarsi del rapporto originario (rectius: su quello in base al quale è stato definito il regolamento di giurisdizione) tra le domande cumulativamente proposte dall’attrice. 5.1.4. - Difatti, ai fini della delibazione sulla sussistenza, o meno, della giurisdizione italiana nei confronti dello straniero, la complessiva prospettazione attorea, che dimensiona il contenuto e l’interazione tra le varie domande cumulate nello stesso giudizio, non soltanto è il presupposto da cui muove una tale verifica (Cass., sez. un., 2 aprile 2007, n. 8095), ma rappresenta pure il suo perno di orientamento, nel senso che anche un diverso modo di (ri)formulare i nessi che reciprocamente legano le pretese svolte può condurre a differenti esiti in punto di individuazione del giudice munito di giurisdizione, data l’incidenza che riveste il modularsi del rapporto di connessione tra domande sull’operare dei criteri di collegamento che conducono alla selezione del giudice. Dunque, al modificarsi dei criteri di collegamento può corrispondere una diversa decisione in punto di giurisdizione e tale modificazione è la risultante del mutamento il Corriere giuridico 12/2015 della domanda inizialmente dedotta in giudizio o dell’ordinarsi tra loro delle domande cumulativamente proposte, là dove proprio quest’ultimo aspetto (piuttosto che quello dell’oggetto della domanda stessa, che viene maggiormente in rilievo sotto il profilo della litispendenza) assume specifica importanza ai fini dell’individuazione del criterio di collegamento che verrà a radicare la giurisdizione nei confronti dello straniero. Del resto, in ottica non dissimile può leggersi anche il principio (che, tuttavia, coglie solo in parte quanto appena evidenziato), consolidato nella giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., 28 novembre 1981, n. 6331; Cass., sez. un., 20 febbraio 2007, n. 3841; Cass., sez. un., 27 febbraio 2012, n. 2926), per cui è sulla domanda individuata come “principale” che si concentra la verifica della giurisdizione del giudice italiano, non dovendosi tener conto della domanda subordinata (ovvero di quella proposta in termini, se analoghi, di alternatività). Sicché, anche il mutamento del quomodo della prospettazione attorea, in un diverso combinarsi dei rapporti tra più domande originariamente proposte cumulativamente (per cui, ad es., la domanda che era stata inizialmente dedotta con il vincolo di subordinazione o di alternatività alla domanda avanzata in via principale venga, successivamente, sciolta da detto vincolo, per essere prospettata anch’essa come principale), è operazione direttamente incidente sulla verifica della giurisdizione nei confronti dello straniero. Con corollario che, ove una tale verifica si sia ormai cristallizzata in una statuizione non più reversibile (come è il caso, che interessa, della pronuncia delle Sezioni Unite sul regolamento preventivo di giurisdizione), il mutamento della prospettazione delle domande che hanno formato oggetto della decisione in punto di giurisdizione non sarà più possibile nel corso del medesimo giudizio. È in questa particolare prospettiva, del tutto peculiare rispetto allo specifico ambito qui considerato, che opera, quindi, il principio di estensione del giudicato sulla giurisdizione ai fondamenti che la giustificano (per il riferimento alla qualificazione del rapporto dedotto in giudizio ed ai correlati e pertinenti presupposti di fatto, cfr. Cass., 27 luglio 2005, n. 15721 e Cass., 22 marzo 2010, n. 6850), divenendo detto giudicato ormai inscindibile da essi e, quindi, vincolante per il giudice di merito, rimettendosi altrimenti in discussione la giurisdizione stessa. Nel caso della giurisdizione nei confronti dello straniero, ove rilevi, come nella specie, un cumulo di domande ordinato in un certo modo, tale da determinare esso stesso la rappresentazione dei nessi di collegamento utili ad individuare il giudice munito di giurisdizione, il fondamento della decisione, da cui la stessa si lega inscindibilmente, è proprio il quomodo della proposizione delle domande, il peculiare ordinarsi tra loro, che, dunque, non potrà essere più rimesso in discussione. Trattasi, ovviamente, di rilievo - quello del giudicato interno sulla giurisdizione, anche nei termini appena delineati - cui questa Corte è tenuta pure d’ufficio, con 1503 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile e processuale civile poteri cognitori tipici del “giudice del fatto processuale” (tra le tante, Cass., 20 gennaio 2006, n. 1099). 5.1.5. - In sede di precisazione delle conclusioni di primo grado, successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite più volte citata, l’attrice ha riproposto anche la domanda volta alla declaratoria di invalidità/inefficacia degli accordi transattivi conclusi in Svizzera con la coerede e lo ha fatto “in via preliminare eventuale, per l’ipotesi di ammissibilità ed accoglibilità dell’eccezione di Donna C.M. fondata sull’accordo di divisione del 18 febbraio 2004”. La sostituzione della locuzione “in via pregiudiziale, ove occorra” con quella “in via preliminare eventuale, per l’ipotesi di ammissibilità ed accoglibilità ...” ha lasciato immutati i termini della delibazione del giudice italiano sul thema decidendum siccome devoluto alla sua giurisdizione, là dove in entrambi i casi (e, anzi, nel secondo con maggiore evidenza) il cumulo delle domande attoree si delinea alla stregua di quell’“accertamento incidentale condizionato” all’eventualità della exceptio rei transacta che l’ord. n. 25785 del 2008 aveva ritenuto essere domanda recessiva rispetto a quella principale di petitio haereditatis, determinativa della giurisdizione in base al criterio di collegamento della materia ereditaria. 5.1.6. - Non altrettanto può ritenersi, invece, quanto al giudizio di appello, in cui l’A. ha concluso per la declaratoria “in via principale” della invalidità/inefficacia dei più volte richiamati “accordi svizzeri”, in tal modo spezzando quel vincolo, originario (e ribadito nelle stesse conclusioni di primo grado), di condizionamento della domanda anzidetta con l’eccezione di transazione, tanto da ridefinire il cumulo delle domande e così da collocare sul piano di “principalità” anche la domanda di invalidità/inefficacia negoziale al pari di quella di petizione ereditaria. Con ciò l’appellante ha, però, infranto la preclusione del giudicato sulla giurisdizione rappresentato dalla pronuncia delle Sezioni Unite, rimettendo in discussione (in modo non consentito) gli stessi termini fondativi del potere cognitorio del giudice italiano, non più ancorati ai medesimi presupposti (ossia le originarie domande attoree) che avevano consentito alla Corte regolatrice di selezionare il criterio di collegamento della materia successoria, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 della Convenzione di Lugano e dell’art. 50 L. n. 218 del 1995, e di escludere la rilevanza di altri criteri di collegamento, i quali (ad es., la materia contrattuale, l’esistenza di una clausola attributiva di competenza o, comunque, il differente atteggiarsi della connessione tra cause) avrebbero anche potuto, in via di mera ipotesi, orientare diversamente l’esito del giudizio sulla giurisdizione. Dunque, il rilievo della preclusione del giudicato interno determinato dalla decisione delle Sezioni Unite sulla giurisdizione (ord. n. 25875 del 2008) consente di superare, in ogni caso, la doglianza della ricorrente che lamenta la violazione dell’art. 345 c.p.c., per aver la Corte piemontese ritenuto nuova (e, come tale, inammissibile) la domanda di invalidità/inefficacia negoziale giacché proposta “in via principale” soltanto in appello. 1504 Con la precisazione (seppur ultronea rispetto all’esito anzidetto dello scrutinio) che la “novità” della domanda di invalidità/inefficacia degli “accordi svizzeri”, sebbene non possa certo essere apprezzata sotto il profilo del suo oggetto (immutato nel corso del giudizio), trova, nel caso di specie, un suo peculiare atteggiarsi proprio nella mutata - e, dunque, nuova - formulazione della stessa sotto il profilo del nesso che la legava originariamente alle altre domande proposte (e, segnatamente, a quella principale di petizione ereditaria), venendo ad innovare rispetto ad una situazione (il quomodo della iniziale - o, comunque, precedente alla decisione delle Sezioni Unite - proposizione del cumulo delle domande stesse) ormai cristallizzata dal giudicato sulla giurisdizione. E con l’ulteriore puntualizzazione che il rilievo, da parte del giudice di secondo grado, della inammissibilità, ex art. 345 c.p.c., della domanda di invalidità/inefficacia degli accordi transattivi siccome proposta in appello come domanda principale, coniugato, però, all’esame della stessa domanda nei termini di come era stata formulata in primo grado (ossia come accertamento incidentale condizionato dall’eccezione di transazione della controparte), giacché ritenuta includente, “come un quod minus, la correlativa eccezione”, risponde armonicamente al principio - enunciato da questa Corte a Sezioni Unite (cfr. sentenza n. 26243 del 12 dicembre 2014) - secondo cui “la domanda di accertamento della nullità di un negozio proposta, per la prima volta, in appello è inammissibile ex art. 345, comma 1, c.p.c. salva la possibilità per il giudice del gravame - obbligato comunque a rilevare di ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma la sua necessaria indicazione alle parti ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c. - di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall’appellante, giusta del citato art. 345, comma 2”. 5.1.6.1. - Sicché, alla luce della rilevata preclusione da giudicato, perde consistenza anche la tesi difensiva (che, attingendo sostrato da autorevole dottrina, corrobora la censura) circa la facoltà della parte di “liberamente sciogliersi” dalla “scelta iniziale di articolare in modo condizionale” la domanda, giacché l’esercizio della postulata facoltà è, nello specificum, inibito dalla ricorrenza, per l’appunto, di un previo giudicato sulla giurisdizione nei confronti dello straniero, che - come detto - impedisce una diversa conformazione dell’originario combinarsi delle domande inizialmente proposte dall’attrice. In forza degli stessi argomenti sinora esposti cade anche l’obiezione - svolta dalla ricorrente nella memoria difensiva (cfr. pp. 27 e 28), là dove l’obiezione stessa si ritenga, in via di mera ipotesi, estensibile anche al tema innanzi affrontato, invece che, come in effetti è da reputarsi, riferibile unicamente ad altro profilo (su cui immediatamente oltre) - fondata sul rilievo (dunque, non conferente) per cui la giurisdizione deve essere verificata al momento di proposizione della domanda, non rilevando a tal fine i successivi mutamenti dello stato di fatto e di diritto (art. 5 c.p.c.). Dovendosi, per altro verso, precisare - condividendo questa volta l’effettivo bersaglio dell’accennata obiezio- il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile e processuale civile ne evidenziata nella memoria ex art. 378 c.p.c. - che la decisione sulla giurisdizione di cui alla ord. n. 25875 del 2008 non ha, invece, preso posizione, con effetti di giudicato, sul punto dell’“avveramento della condizione successivamente alla proposizione della domanda”, in quanto tale profilo è stato ritenuto pertinente al merito della causa e, quindi, come tale da ritenersi estraneo ai fondamenti (o presupposti) della decisione anzidetta. Il che, tuttavia, non sposta affatto i termini, sopra delineati, del giudicato formatosi sull’ordine delle domande attoree. Si tratta, invero, di profilo, quello dell’“avveramento della condizione”, che attiene al diverso ambito delle censure che, di seguito, verranno subito esaminate. 5.1.7. - Le ulteriori doglianze investono la statuizione della Corte territoriale sul difetto di interesse della A., ex art. 100 c.p.c., a conseguire una decisione nel merito della domanda di “accertamento incidentale condizionato” della invalidità/inefficacia degli “accordi svizzeri” e ciò a seguito della rinuncia alla condizionante eccezione di transazione effettuata, in sede di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado, dalla C. 5.1.7.1. - Parte delle censure sono incentrate su una prospettiva che può definirsi “sostanzialistica”, giacché allude, seppur indirettamente, alla disciplina della condizione dettata dal codice civile, in quanto si predica l’avveramento non più risolvibile della condizione in forza della mera proposizione dell’eccezione di transazione. È un’ottica, questa, che non può trovare seguito, dovendosi valutare la questione in funzione eminentemente “processualistica” e in base ai poteri esercitabili dalle parti nel corso del giudizio. Non occorre, infatti, indugiare sulla diversità di ratio, funzione ed effetti giuridici che si frappone alla omologazione tra l’avveramento della condizione elemento accidentale del contratto e gli effetti del condizionamento tra una domanda giudiziale e l’eccezione riservata alla parte, spiegate nella medesima sede processuale. A tal fine è sufficiente mettere in evidenza a quale paradossale conclusione si giungerebbe, ove si intendesse praticare una siffatta sovrapposizione e la conseguente osmosi di principi disciplinatori (mutuandoli da quelli che regolano l’istituto in base alla trama normativa di cui all’art. 1353 c.c. ss.), giacché il predetto condizionamento domanda/eccezione sarebbe esso stesso affetto da nullità ai sensi dell’art. 1355 c.c., considerato che il suo oggetto verrebbe a cadere proprio sulla proposizione dell’eccezione, ossia su un evento rimesso alla mera volontà della parte, avendo la parte medesima il diritto, pieno e incondizionato, di scegliere, liberamente, se esercitare, o meno, tramite l’eccezione ad essa riservata, il proprio diritto alla difesa. Ciò posto, non dubitando la stessa ricorrente della facoltà di una parte di condizionare (rimanendo nell’ambito della fattispecie che ci occupa) una propria domanda alla proposizione di una eccezione della controparte, occorre altresì rilevare che, alla stregua di un orientamento consolidato, la restrizione del thema decidendum, in forza della rinuncia a qualche capo di domanda o ad eccezione in precedenza formulate, è nella piena dispo- il Corriere giuridico 12/2015 nibilità del soggetto processuale non solo fino al momento della precisazione delle conclusioni (Cass., 5 luglio 2013, n. 16840; Cass., 10 luglio 2014, n. 15860), ma anche in sede di comparsa conclusionale (Cass., 25 agosto 1997, n. 1971; Cass., 15 aprile 2014, n. 8737). Né assume consistenza l’obiezione secondo cui la possibilità di rinunciare all’eccezione già proposta comporterebbe una signoria illimitata della parte rinunciante sul condizionamento della domanda avversaria e ciò non soltanto perché tale obiezione è in parte tributaria della prospettiva sostanzialistica di cui si è detto in precedenza, ma anche in considerazione del fatto che la scelta processuale di conformare il condizionamento secondo un determinato assetto (nella specie, all’eventualità che la convenuta proponesse l’eccezione di transazione) proviene proprio dalla stessa parte attrice, che, in tal modo, ha espressamente e liberamente manifestato un interesse alla pronuncia “condizionato” dall’esistenza di una eccezione contraria. 5.1.7.2. - Sebbene la ricorrente deduca, poi, che la Corte di appello abbia errato a disconoscere la sussistenza stessa dell’interesse ad agire, poiché, invece, vi sarebbe stata una situazione di “obiettiva incertezza della situazione giuridica”, tuttavia ella omette di considerare che l’interesse ad agire deve essere apprezzabile anche al momento della decisione (tra le altre, Cass., 13 luglio 2009, n. 16341); sicché, una volta intervenuta la rinuncia all’eccezione di transazione, avrebbe dovuto dare contezza effettiva dell’attualità concreta del pericolo di lesione del bene giuridico che intendeva preservare e quale utilità avrebbe potuto rivestire il provvedimento giudiziale richiesto a tal fine e ciò per non incorrere nella inconcludente postulazione di un ipotetico pregiudizio solo futuro e meramente potenziale. La decisione del giudice di appello è, quindi, armonica rispetto alle coordinate giuridiche che segnano l’ambito entro cui è dato ravvisare l’interesse ad agire, quale possibilità di ottenere, con il giudizio, un concreto risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, giacché il processo non può essere attivato soltanto in previsione dei possibili effetti futuri pregiudizievoli per la parte (tra le tante, Cass., 23 dicembre 2009, n. 27151; Cass., 28 giugno 2010, n. 15355; Cass., 27 gennaio 2011, n. 2051; Cass., 4 maggio 2012, n. 6749). Peraltro, neppure l’ulteriore rilievo - con il quale si pone in risalto che il giudice di appello avrebbe dovuto apprezzare l’esistenza di una obiettiva incertezza della situazione giuridica in forza della formulazione stessa di una “domanda di accertamento di nullità condizionato” coglie nel segno, posto che una tale incertezza conseguiva, invero, proprio dalla proposizione e, soprattutto, dalla persistenza, come tale, dell’eccezione di transazione, giacché, altrimenti, la questione di validità degli “accordi svizzeri”, addotta in via condizionata ed eventuale, non avrebbe avuto motivo di essere discussa nell’ambito dell’instaurato giudizio, ben potendo l’attrice conseguire il risultato utile sperato, con l’accoglimento delle proprie domande - quella pregiudiziale di rendiconto e quella principale di petizione ereditaria -, senza 1505 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile e processuale civile che il giudice del merito si dovesse comunque impegnare nell’accertamento dell’invalidità di accordi transattivi sull’asse ereditario. 6. - Il ricorso va, pertanto, rigettato. (omissis). Quando non dovrebbe essere applicato, e quando invece è prezioso, l’istituto della gestione di affari altrui di Daniele Maffeis Nella ricostruzione dell'istituto della negotiorum gestio, disciplinato dall’art. 2028 c.c. ss., la nozione che la consolidata giurisprudenza della Cassazione ha accolto del requisito della absentia domini, secondo una direttrice condivisa dalla prevalente dottrina, è quella per cui, a tal fine, non rileva che vi sia una condizione di assoluto impedimento dell’interessato alla gestione dei propri affari ovvero che sussista una impossibilità materiale rispetto alla cura di questi, ritenendosi soddisfatto l’anzidetto requisito là dove il dominus non abbia manifestato, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nella cura dei propri affari. Il presupposto della absentia domini nella cura di interessi patrimoniali altrui La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, torna a statuire, e ricordare, che “Nella ricostruzione dell’istituto della negotiorum gestio, disciplinato dall’art. 2028 c.c. segg., la nozione che la consolidata giurisprudenza di questa Corte ha accolto del requisito della absentia domini, secondo una direttrice condivisa dalla prevalente dottrina, è quella per cui, a tal fine, non rileva che vi sia una condizione di assoluto impedimento dell’interessato alla gestione dei propri affari ovvero che sussista una impossibilità materiale rispetto alla cura di questi, ritenendosi soddisfatto l’anzidetto requisito là dove il dominus non abbia manifestato, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nella cura dei propri affari”. Così statuendo, la Corte si pone nel solco di Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11135 e di Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11136 - e di altre sen(1) Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11135, in www.ilcaso.it e Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11136, in Rep. Foro it., 2012, Locazione, n. 98. Così già Cass. 7 giugno 2011, n. 12304, in Rep. Foro it., 2011, Gestione d’affari, n. 3. Cass. 9 aprile 2008, n. 9269, in Riv. not., 2009, 623. Il requisito della absentia domini è sostanzialmente svalutato anche dalla giurisprudenza risalente: Cass. 3 marzo 1954, n. 607, in Giust. civ., 1954, I, 460; Cass. 27 ottobre 1965, n. 2262, in Mass. Giust. civ., 1965. Contra Cass. 13 marzo 1964, n. 550, in Foro it., 1965, I, 866. (2) G. Gabrielli - F. Padovini, La locazione di immobili urbani, Padova, 2005, 110. Intende, a ragione, la absentia domini in senso rigoroso, S. Ferrari, Gestione di affari altrui (dir. civ.), in Enc. dir., s.d. ma Milano, 1969, 647. Nella manualistica si trova ribadito l’insegnamento secondo cui costituisce presuppo- 1506 tenze a sezione semplice ricordate in motivazione (Cass. 3 marzo 1954, n. 607; Cass. 13 maggio 1964, n. 550; Cass. 23 maggio 1984, n. 3143; Cass. 25 maggio 2007, n. 12280; Cass. 9 aprile 2008, n. 9269; Cass. 7 giugno 2011, n. 12304) - secondo cui “l’absentia domini (sarebbe) da intendersi non già come impossibilità oggettiva e soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione e/o divieto del dominus” (1). Si tratta di un orientamento criticabile, ispirato ad una visione marcatamente funzionale dell’autonomia privata, perché, se è condivisibile l’assunto secondo cui, ai fini della ricorrenza della gestione di affari altrui, non si richiede una rigorosa impossibilità oggettiva del dominus di curare il proprio affare, ed è certamente accettabile che neppure debba ricorrere una vera impossibilità soggettiva (2), sto della gestione di affari altrui che il dominus non possa curare personalmente il proprio affare (tra gli altri G. Alpa, Manuale di diritto privato, Padova, 2013, 679; F. Galgano, Trattato di diritto civile, III, III ed., Padova, 2015, 330) ma si trova anche affermato, secondo la più recente tendenza, criticata nel testo, che in via generale alla absentia domini equivarrebbe l’assenza di prohibitio (A. Torrente - P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2013, 455). Nella giurisprudenza di merito, la necessità della absentia domini è statuita da Trib. Roma 20 dicembre 2001, in Giur. mer., 2002, I, 1223 ed è invece negata sul presupposto che alla absentia domini equivalga l’assenza di prohibitio - da App. Roma 9 dicembre 1991, in Nuova giur. comm., 1992, I, 805. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile e processuale civile suscita, invece, più di una perplessità l’idea che chi, come - nel caso a suo tempo deciso dalle Sezioni Unite - il comproprietario di un immobile, che non è evidentemente il titolare dell’interesse degli altri comproprietari, ma si raffigura un modo di curarne gli interessi, disponendo egli solo dell’intero, nel modo - si capisce - che per lui è quello conveniente, pur essendo nella condizione materiale di contattare gli altri comproprietari per condividere ex ante il programma, sia invece incentivato a disporre senz’altro dell’intero e lo sia sulla scorta di una raffigurazione, non già dell’interesse soggettivo del dominus, bensì di una sua - supposta - utilità oggettiva. E del pari, non convincente è l’idea, già propugnata in motivazione dalle ricordate sentenze del 2012 delle Sezioni Unite, secondo cui, al postutto, per ciò che attiene alla posizione del dominus, l’absentia debba ormai coincidere con la pura assenza di una prohibitio (3). Non a caso l’esito applicativo, al quale giungevano le Sezioni Unite nel 2012, allorché statuivano che ricorre la gestione di affari quando “chi sia nella disponibilità di un bene in parte di altri ne disponga concedendolo in locazione, essendo siffatta iniziativa contrattuale, in assenza di opposizioni da parte degli altri comproprietari, chiaramente riferibile anche all’interesse di questi ultimi”, è chiaramente errato (4), perché, oltre al requisito dell’absentia domini, presuppone inesistente anche il requisito della cura dell’interesse, oggettivamente inteso, degli altri comproprietari. Non solo non si comprende quale sia la massima di esperienza in base alla quale, se il comproprietario Tizio ha piacere o necessità di locare la cosa comune, un identico piacere o bisogno avrebbe anche il comproprietario Caio (5), ma, soprattutto, la vera questione in gioco è lo svilimento del mandato, che si finisce così per fingere esistente, quando non c’è (6). E tale ricostruzione appare ancor più inaccettabile, fuori dal caso, che in fondo è peculiare, della comproprietà (7). Ora, secondo la sentenza in commento, invece, quella oggi ribadita e già fatta propria dalle Sezioni Unite è “una concezione relativistica e scevra da rigidità, che tende, in effetti, ad estendere l’ambito applicativo dell’istituto al di là degli angusti limiti tradizionalmente configurati soprattutto nella considerazione, più risalente, che faceva capo al previgente codice civile del 1865, per cui la stessa giurisprudenza aveva allora ritenuto necessario che l’utile gestione dovesse essere intrapresa absente et inscio domino, alla stregua di una accezione, rispettivamente, di impossibilità oggettiva e di evidente mancanza di consapevolezza dell’intrusione del terzo. L’odierno approdo giurisprudenziale può, quindi, essere compendiato nel principio per cui, nella gestione utile di affare altrui, la absentia domini deve intendersi “non come impossibilità oggettiva e soggettiva di curare i propri interessi, ma come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione o divieto del dominus. Sicché, il requisito in esame è rinvenibile “non solo quando l’interessato sia nella materiale impossibilità di provvedere alla cura dei propri affari ma anche quando lo stesso non rifiuti, espressamente o tacitamente, tale ingerenza da parte del negotiorum gestor”. L’applicazione, ora, del principio, da parte della sentenza in commento, suscita ulteriori riserve e perplessità, non tanto per l’esito al quale la sentenza perviene - che, a differenza delle sentenze delle Sezioni Unite del 2012, è quello di escludere la ricorrenza della gestione di affari altrui così rigettando la richiesta di rendiconto -, ma per il percorso, che conduce la Corte Suprema ad escludere la ricorrenza della gestione di affari altrui. Difatti, la coerede del de cuius, che, secondo quanto emerge dalla sentenza, aveva adottato plu- (3) D. Maffeis, Forma ad substantiam, gestione di affari e divieto di venire contro il fatto proprio, in Giust. civ., 2005, I, 1942. (4) Una critica attenta della sentenza delle Sezioni Unite richiamata nel testo si trova in L. Cordopatri, Atto dispositivo del comunista e rappresentanza implicita, in Riv. dir. civ., 2014, 863. (5) È il caso deciso da Trib. Roma 13 luglio 2004, in Giust. civ., 2005, I, 1937 ss. (6) P. Sirena, La gestione di affari altrui come fonte quasi contrattuale dell’obbligazione, in Riv. dir. civ., 1997, 269 al richiamo della nota 96 e nella nota stessa. (7) Caso peculiare sul quale si intrattiene V. Carbone, Le sezioni unite sulla disciplina applicabile alla locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari, in questa Rivista, 2012, 12, 1449 ss. In tema anche F. Toschi Vespasiani, La responsabilità del comproprietario che da solo stipuli un prelimina- re di compravendita del bene in comunione, in Resp. civ., 2008, 49. Criticabile anche la statuizione di Cass. 23 maggio 1984, n. 3143, in Rep. Foro it., 1984, Gestione d’affari, n. 1 - che a sua volta ravvisa una gestione di affari altrui negli atti di disposizione della cosa comune posti in essere dal comproprietario, pur senza che ricorra il presupposto dell’assenza dell’altro comproprietario interessato - nonché quella di Cass. 26 settembre 1997, n. 9465, citata in P. Cendon, Commentario al codice civile. Artt. 1987-2042, Milano, 2009, 865, che riconosce al conduttore il diritto al rimborso delle spese sostenute per il mantenimento della cosa locata motivando che ciò integrerebbe la cura di un interesse del proprietario rilevante come gestione di affari altrui nonostante che il proprietario fosse per certo nelle condizioni di essere informato e di decidere se e come intervenire con spese di manutenzione secondo i diritti e gli obblighi propri di una locazione. il Corriere giuridico 12/2015 1507 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile e processuale civile rime iniziative di opposizione a qualsiasi forma di gestione non autorizzata del suo affare - rappresentato dalla quota di eredità ad essa pertinente -, non è stata considerata, dalla sentenza in commento, come un dominus presente (donde la mancanza del presupposto della absentia domini), bensì è stata considerata, per il fatto di avere rifiutato l’ingerenza, come un dominus assente (absentia domini) che, tuttavia, si oppone alla gestione non autorizzata. Secondo la Corte di cassazione, “Un siffatto consolidato orientamento in tema di configurazione dell’elemento dell’absentia domini, tributario delle istanze solidaristiche di cui all’art. 2 Cost., operanti in senso conformativo dell’istituto secondo un bilanciato contemperamento con le esigenze dell’autonomia privata, porta a ritenere, in consonanza anche con una parte della dottrina, non impredicabile una sorta di equiparazione implicita tra il dominus prohibens e il dominus non absens, con ciò assistendosi ad un sostanziale assorbimento del requisito dell’assenza nel rilievo della mancanza di una manifestazione dell’amministrato di preclusione all’intervento gestorio del terzo, che dell’art. 2031, comma 2, c.c., , contempla come impedimento genetico degli obblighi scaturenti dalla gestione stessa”. È importante notare che la Corte di cassazione, nella sentenza in commento, corregge, ai sensi dell’art. 384, comma 4, c.p.c., la motivazione della sentenza di secondo grado, con la quale la Corte d’Appello di Torino, condivisibilmente, aveva statuito l’inesistenza del requisito della absentia domini, per statuire, invece, in omaggio al principio confermato dalle Sezioni Unite nel 2012, l’esistenza dell’elemento, “in negativo dirimente, della prohibitio domini, riconoscibile dai terzi in modo certo e, in ogni caso, tale da non poter ingenerare negli stessi quel legittimo affidamento”. In breve: mentre, stando ai principi affermati dalla Corte d’Appello di Torino, il presente che tace non è assente, invece, stando ai principi affermati dalla Corte di cassazione, il presente che tace acconsente alla gestione. È un principio di diritto non condivisibile: perché non è vero che chi tace acconsente (e deve subire una lecita ingerenza altrui), vero essendo più semplicemente che chi tace tace (e ha il diritto che nessuno si ingerisca nei suoi affari soltanto perché taceva). L’utilità oggettiva del dominus, quando è assente, e l’interesse patrimoniale soggettivo del dominus, quando non è assente La ragione per la quale il silenzio, o l’inerzia, del dominus, non debbono equivalere a una forma implicita di autorizzazione, all’ingerenza nella propria sfera, è agevolmente intuibile se solo si riflette che il silenzio, e più in generale l’inerzia, solo apparentemente sottendono un disinteresse per i propri affari, e più verosimilmente, e più spesso, sottendono, tutto al contrario, una poderosa raffigurazione, da parte del titolare, del proprio soggettivo interesse. Un interesse che il titolare cura, tacendo, o restando inerte. L’idea che qui è sottoposta a critica è che un terzo possa efficacemente sovrapporre, a questa raffigurazione dell’interesse da parte del titolare, una supposta utilità oggettiva del dominus. In particolare, se si assume, come appare corretto, che la gestione di un affare altrui sia, innanzitutto, una forma di cooperazione non richiesta, occorre ricordare come si atteggia, nella gestione di affari altrui, la cura dell’interesse del dominus. L’assunto di partenza è che, quando il dominus non ha conferito un incarico, l’interesse coincide con l’utilità oggettiva del dominus (8). La ragione di ciò risiede nella circostanza che la gestione di “affari” altrui, in ambito patrimoniale, è, a ben vedere, una gestione di interessi altrui, e la gestione di un interesse - qualsiasi gestione di interessi - presuppone, innanzitutto, la raffigurazione dell’interesse, la quale, se non è operata dal suo titolare, presuppone un mandato (espresso, tacito) o, se l’atto del cui compimento si tratta è materiale, una locazione d’opera. In questa prospettiva, va quindi precisato che l’utilità oggettiva iniziale, in cui consiste l’utiliter coeptum, presuppone che il dominus sia assente, e non è invece ravvisabile, se il dominus è presente, anche se tace. Difatti, se il dominus è presente, e sta inerte, il significato della sua inerzia, giova ribadire, può essere assai diverso dal significato che il gestore può essere indotto ad attribuire ad essa. In particolare, mentre, agli occhi del gestore, l’inerzia del dominus può apparire come una mancata raffigurazione del proprio interesse (io non taglio l’erba del mio giardino di montagna, perché semplicemente non mi pongo il problema), invece essa può accompagnarsi ad una (8) G. Minervini, Il conflitto d’interessi fra rappresentante e rappresentato nella recente codificazione, in Arch. giur. Filippo Serafini, 1946, II, 137, 138. 1508 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile e processuale civile posti dell’ingerenza nella sfera altrui debbono intendersi, secondo la tradizione, in maniera rigorosa (9), e ciò in ossequio ad un principio di diritto, sul punto, opposto a quello fatto proprio dalla Corte di cassazione e ribadito dalla sentenza in commento. raffigurazione molto precisa, che il dominus può fare del suo proprio interesse (non taglio l’erba del mio giardino di montagna perché mi piace l’erba alta). Poiché, quando non ricorrono ragioni di protezione di interessi terzi, di ordine pubblico, di prevenzione di c.d. esternalità negative, il diritto non ha motivo per non assecondare il dato secondo cui il giudice dei propri affari è il suo titolare, il principio sponsorizzato tuttora dalla Corte di cassazione, secondo cui chi tace non tace ma acconsente, è criticabile, e meriterebbe di essere abbandonato. Difatti, se si ammette che un estraneo, in assenza di un incarico o di altro titolo legale, possa curare efficacemente l’interesse di un dominus, bensì presente, ma inerte, fino all’opposizione di questi, si favorisce la cura di una utilità oggettiva del dominus, in luogo della cura dell’interesse soggettivo dello stesso, quale si manifesta se il dominus cura personalmente i propri interessi (anche restando inerte e silenzioso), o se conferisce ad altri l’incarico di farlo. Probabilmente, il principio che la sentenza in commento torna a statuire, ricorrendo alla correzione della motivazione, in un caso in cui l’esito applicativo cui era giunta la Corte d’Appello di Torino poteva semplicemente essere confermato con il rigetto del ricorso sul punto, può essere sponsorizzato perché, a parte il caso molto particolare in cui la gestione, come nel caso deciso dalla sentenza in commento, è allegata al fine di ottenere un rendiconto, i casi di intervento spontaneo nella gestione di patrimoni altrui sono, al postutto, rari. Se essi fossero frequenti, e se fossero sempre ispirati al principio secondo cui chi tace non tace, ma acconsente, risulterebbe svilito il ruolo, che invece è essenziale, del mandato - espresso o tacito, ma esistente - mercè il ricorso a una finzione, qual è quella per cui, per l’appunto, chi tace conferisce un tacito mandato, e ad un errore, qual è quello di pensare che oggetto di un mandato, ancorché tacito, possa essere, non già la cura dell’interesse soggettivo del mandante, ma di una sua utilità oggettiva. In conclusione, in ambito patrimoniale, poiché non è una buona regola che qualcuno gestisca gli interessi di un altro, se non ha ricevuto l’incarico di farlo, e poiché non è utile che chi non è mandatario si assoggetti tuttavia al regime della responsabilità da mandato (art. 2030, comma 1, c.c.), i presup- Quanto osservato fino a qui non significa che l’istituto della gestione di affari altrui debba relegarsi fra quelli destinati a solo sporadiche applicazioni. La sentenza può offrire l’occasione per osservare che, se in ambito patrimoniale, nei rapporti d’affari, non è condivisibile la tendenza ad estendere l’ambito di applicazione dell’istituto della gestione di affari altrui, mercè l’eliminazione dell’antico presupposto dell’absentia domini, testualmente ribadito all’art. 2028, comma 1, c.c., ed invece sostanzialmente ricondotto alla mera prohibitio, con il conseguente svilimento dei limiti del mandato, invece, l’applicazione della disciplina della gestione di affari altrui appare condivisibile, e convincente, quando l’affare della cui cura si tratta riguarda la sfera, e dunque la protezione, della persona, come accade se la gestione consiste nel sostenimento da parte degli affidatari delle spese di mantenimento di un minore (10) o più in generale nella cura di un diritto della persona (11). E ciò, sia che l’intento che sorregge l’azione del gestore, finalizzata alla cura della persona sia puramente altruistico, come accade se il gestore non si ripromette di conseguire alcun compenso dalla sua condotta, sia quando l’intento sia altresì, se si vuol dire così, egoistico, come accade se il gestore presta un’attività che andrà remunerata, dall’interessato, secondo il suo valore di mercato. Soprattutto, l’estensione della disciplina della gestione di affari altrui appare condivisibile allorché si tratta della cura degli interessi di persone bisognose e quando, dunque, l’incentivo appare uno strumento preziosissimo della convivenza civile (12), come accade per le obbligazioni alimentari adempiute da un soggetto che non vi sia tenuto ad altro titolo (13) o di altre obbligazioni di assistenza (9) R. Sacco, Il fatto, l’atto, il negozio, Torino, 2005, 164 scrive che “il potenziale gestore, ovviamente, potrà girare al largo, e non effettuare atti di gestione”. (10) Cass. 20 dicembre 2011, n. 27653, in Rep. Foro it., 2011, Gestione d’affari, n. 4. (11) C. Gozzi, Spunti ricostruttivi per l’inquadramento del soccorso privato nell’ambito della gestione d’affari altrui, in Eur. dir. priv., 2009, 153. (12) A. Greco, La gestione di affari altrui, in Le obbligazioni, a cura di Franzoni, III, Torino, 2005, 573. (13) P. Morozzo Della Rocca, Doveri di solidarietà e prestazioni di pubblica assistenza, Napoli, 2013, 92. il Corriere giuridico 12/2015 L’istituto della gestione di affari altrui al servizio del soccorso privato: il presupposto della absentia domini nella cura di bisogni personali altrui 1509 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile e processuale civile materiale (14). Si pensi al dovere del figlio di assistere il genitore bisognoso nell’inerzia degli altri figli (15) o al caso del soccorso ad una persona in pericolo di vita o di lesione dell’integrità fisica (16). Si pensi ancora ai casi in cui l’inerzia consapevole dell’interessato integri un’omissione contraria - per adoperare la formula dell’art. 2031, comma 2, c.c. - alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. In questi casi, trattandosi di curare, non già un interesse patrimoniale, ma un bisogno della persona, appare socialmente utile ed apprezzabile che, anche in assenza di un incarico o di altro titolo legale, si favorisca un intervento calibrato sulla cura di un bisogno oggettivo. Quando si tratta dei bisogni primari, e non patrimoniali, di una persona, non c’è, o è secondario, il problema di distinguere tra interesse soggettivo e utilità oggettiva e non esiste una ragione per disincentivare la cura di un bisogno personale oggettivamente inteso: si pensi, riprendendo gli esempi giurisprudenziali appena ricordati, al mantenimento di un minore, all’obbligazione alimentare, alla cura del genitore anziano, al soccorso ad una persona in pericolo di vita, al pagamento delle spese funerarie. Qui è assai difficile pensare che l’inerzia di chi trascura i bisogni altrui vada premiata come una intangibile manifestazione di libertà. Essenziale è chiarire che la gestione di affari altrui è bensì un istituto funzionale all’espressione di manifestazioni di solidarietà tra privati, ma la solidarietà non va intesa nel senso che il gestore non possa avere un interesse proprio alla cura del bisogno altrui. È importante al riguardo la delimitazione dei confini di applicazione della disciplina della gestione di affari e della disciplina dell’adempimento del dovere morale o sociale di cui all’art. 2034 c.c. (17). L’intervento nella sfera altrui, che consiste in atti giuridici, o materiali, può ben integrare l’esecuzione di una prestazione (di dare; di fare) sospinta da un dovere morale o sociale. Se è così, occorre distinguere tra le due fattispecie - gestione di affari; adempimento di obbligazione morale o sociale - perché la spontaneità della prima è antinomica rispetto alla doverosità, ancorché su di un piano diverso da quello giuridico, della seconda (18), sicché, se v’è adempimento di un dovere morale o sociale, si applica la disciplina dell’irripetibitilità della prestazione, e non vi è margine per un’applicazione della disciplina della gestione di affari altrui (le due discipline sono diverse nei presupposti, e nel contenuto: si pensi al tratto caratterizzante della negotiorum gestio, che è il dovere di condurre a termine la gestione, ed al tratto, opposto, che caratterizza l’adempimento del dovere morale, cioè la sicura libertà di interrompere ad nutum l’attività solidale). Diverse sentenze applicano la disciplina della gestione di affari altrui al compimento degli atti necessari per organizzare il funerale e la sepoltura, nell’inerzia dei famigliari del defunto (19). Si tratta di una regola opportuna, ma occorre valutare bene se la gestione supplisca all’inerzia, o all’impossibilità dei famigliari di provvedere. Nel secondo caso, l’intervento può essere dettato da un dovere morale, sicché la disciplina applicabile è quella dell’art. 2034 c.c., e colui che è intervenuto non ha diritto di ripetere alcuna somma (20). In senso contrario si è espressa una giurisprudenza, secondo cui integrano gestione di affari altrui i pagamento fatti da un parente del disabile a far data dal momento della richiesta di riconoscimento in via amministrativa del diritto all’assistenza da parte della pubblica amministrazione (21). In questa prospettiva, solleva riserve la motivazione di una sentenza di merito (22), che, per motivare il rigetto della pretesa del figlio, di ottenere dal padre il rimborso del prezzo pagato ai sequestratori per il riscatto, ha statuito che la gestione di affari altrui, per essere utilmente iniziata, deve comportare un iniziale arricchimento patrimoniale o un risparmio di spesa, e quindi non è configurabile se l’utilità iniziale è rappresentata dal rimanere in (14) P. Sirena, L’adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza materiale, in Familia, 2002, 65. (15) Trib. Vallo Lucania 8 luglio 1991, in Dir. fam., 1991, 4. (16) P. D’Amico, Il soccorso privato, Napoli, 1981, 69. (17) Le figure contigue dell’adempimento del dovere morale o sociale e delle altre fattispecie caratterizzate dal perseguimento di scopi di solidarietà sociale sono indagate da P. Morozzo Della Rocca, Gratuità, liberalità e solidarietà. Contributo allo studio della prestazione non onerosa, Milano, 1998, 121 s. (18) P. Morozzo Della Rocca, Obbligazioni naturali e dona- zione remuneratoria, in di Palazzo (a cura), I contratti di donazione, Torino, 2009, 227. (19) Trib. Castrovillari 9 aprile 2004, in Rep. Foro it., 2005, Gestione d’affari, n. 3. (20) In senso diverso D. Carusi, Le obbligazioni nascenti dalla legge, Napoli, 2004, 119. (21) Cass. 8 giugno 2010, n. 18378, in www.plurisdata.it. (22) Trib. Torino, (decr.) 1° dicembre 1986, in Foro pad., 1987, I, 397, in Giur. mer., 1987, 1187 ed in Giur. piem., 1987, 162. Prestazioni solidali e dovere morale o sociale 1510 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile e processuale civile vita, invece che essere uccisi dai sequestratori. Ma il caso era peculiare, come si intuisce, e il rigetto della pretesa del figlio sembra fondato sull’art. 2034 c.c. e così sul fatto che il giudice presumesse che il figlio aveva pagato il riscatto per un dovere morale. Per la Cassazione, il giudicato sulla giurisdizione internazionale impedisce sempre e comunque lo scioglimento del cumulo condizionale tra domande (note critiche a margine del “caso Agnelli”) di Marcello Stella (*) In un celebre caso successorio, dopo la divisione consensuale dei beni ereditari tra successibili, la figlia del de cuius agisce nei confronti della madre per vedersi assegnare pro quota ulteriori beni ereditari di cui sospetta l’esistenza all’estero. L’azione di petitio hereditatis è proposta in Italia. Ad ostacolarne la ammissibilità è la clausola di proroga della giurisdizione a favore del giudice svizzero apposta al patto divisorio. La figlia decide allora di non impugnare direttamente tale contratto, ma chiede accertarsene l’invalidità incidenter tantum per il caso in cui la convenuta sollevi una eccezione di transazione. In grado di appello, la figlia, soccombente in primo grado, cambia strategia e propone una domanda di accertamento con efficacia di giudicato della nullità del patto divisorio. La Cassazione (forse ultroneamente, dato lo svolgimento processuale) si è misurata con il seguente quesito: può l’attore sciogliere il cumulo condizionale tra le sue domande, dopo che sulla questione di giurisdizione italiana (sulla domanda principale di petitio hereditatis) si siano pronunciate le Sezioni Unite in sede di regolamento preventivo di giurisdizione? L’azione italiana: domanda di petitio hereditatis ed eccezione-replica preventiva di invalidità del patto divisorio 1.-Del tormentato contenzioso ereditario interessa mettere a fuoco qui il segmento processualcivilistico, restituito nella sua complessità dalle due pronunce di cassazione, prima a sezioni unite (ord. n. 25875 del 2008), su regolamento preventivo di giurisdizione, infine a sezione semplice, che con la sentenza in epigrafe parrebbe aver posto fine alla annosa lite tra eredi. È noto che il processo civile si era evoluto in parallelo a (e quasi al traino di) indagini penali, che avevano fatto emergere l’esistenza di una consistente porzione dell’asse custodita “offshore”, lontano a quanto pare anche dagli occhi del fisco italiano. Ad un lustro dall’apertura della successione, la figlia del senatore si era dunque risolta a convenire in giudizio, davanti al tribunale di Torino, la madre e tre “storici” consulen- ti del de cuius, prospettati come gestores fiduciari del patrimonio paterno ed in thesi obbligati a rendere conto all’erede della loro gestione. Chiedeva l’attrice lo scioglimento della comunione e l’assegnazione in proprietà esclusiva della quota dei beni ereditari, previa appunto esatta ricostruzione di valore, natura e localizzazione nel mondo di tali beni (1). Nella citazione la figlia narrava altresì di avere, anni prima, stipulato con la madre un accordo per la definizione di ogni controversia successoria. Tale precedente accordo tra coeredi, stipulato in Svizzera, all’indomani dell’apertura della successione, non avrebbe tuttavia “esaurito” l’intero asse, gran parte del quale era tuttora ignota all’attrice. Donde l’interesse al rendimento del conto e alla petizione d’eredità. Non è dato conoscere, peraltro, quale natura avesse l’accordo stipulato tra madre e figlia, e così se si trattasse di una divisione transattiva, (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) Di recente Cass., Sez. VI, 14 maggio 2014, n. 10397, in juscivile.it, 2015, 10, con nota di Lindiner, ha riconosciuto la validità e la liceità di un contratto atipico mediante il quale un intermediario si impegni a ricercare professionalmente per conto degli eredi informazioni sulla collocazione e sulla entità della massa dei beni ereditari. Nel caso risolto dalla sentenza in epigrafe, tuttavia, non questo era il fondamento dell’obbligo di rendiconto che l’attrice affermava sussistere in capo agli ex avvocati e consulenti del padre, tutti titolari di cariche apicali presso società appartenenti alla galassia Agnelli. il Corriere giuridico 12/2015 1511 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile e processuale civile 2.- Attribuito a tale conclusione della figlia valore di autonoma domanda di impugnativa negoziale, la madre convenuta proponeva regolamento preventivo di giurisdizione, concepito all’incirca in questi termini: vertendo la domanda “pregiudiziale” su un accordo divisorio munito di una clausola di proroga della giurisdizione a favore del giudice svizzero, il giudice italiano avrebbe dovuto declinare la propria giurisdizione su tale domanda; “specularmente” tale giudice si sarebbe però dovuto spogliare anche di tutte le altre domande di rendiconto, di scioglimento della comunione e di assegnazione della quota, dato che per espressa volontà di parte attrice l’esame nel merito di tali domande sarebbe stato subordinato all’accoglimento della azione di impugnativa negoziale. Le sezioni unite, con ordinanza n. 25875 del 27 ottobre 2008 (Pres. Carbone, rel. Travaglino), ricostruivano diversamente la volontà dell’attrice. La corte regolatrice, in particolare, individuava nella petitio hereditatis la domanda principale, su cui la giurisdizione italiana veniva senz’altro e definitivamente affermata in base all’art. 50, l. 218/1995, per essersi la successione aperta in Italia. Quanto alla “richiesta” di parte attrice (le sez. un. non usano il termine “domanda”) di “dichiarare” (tra virgolette nell’ordinanza) la nullità, an- nullabilità, inefficacia dell’accordo divisorio, quest’ultima porzione del complessivo petitum attoreo veniva qualificata dalla cassazione in termini di “accertamento incidentale condizionato” che si sarebbe posto “oltre che in un rapporto di pregiudizialità soltanto eventuale rispetto alla domanda successoria svolta in via principale, anche e soprattutto sul piano del merito della causa (atteso che, in via di ipotesi astratta, l’eccezione di transazione siccome paventata dall’attrice sarebbe ben potuta non essere opposta dalla convenuta) e, come tale, irredimibilmente sottratta alla cognizione e all’esame di questa corte quoad iurisdictionis”. Formule espressive, queste, certo un poco sfuggenti rispetto allo stile consueto del relatore dell’ordinanza, ma che secondo noi stavano nella sostanza a significare che, nella specie, non ricorreva affatto un cumulo condizionale di domande: ben lungi dal dedurre ad oggetto del giudizio l’accordo stipulato con la madre per sentirne dichiarare l’invalidità con efficacia di giudicato, la “richiesta” attorea era volta a sollecitare un accertamento incidenter tantum della invalidità negoziale dell’accordo, per il caso in cui la convenuta lo avesse invocato come fatto estintivo del diritto dell’attrice a concorrere pro quota su eventuali beni indivisi rivenienti da una rendicontazione più puntuale ed esaustiva del patrimonio del de cuius. Non altrimenti ci sembra possa interpretarsi il passaggio, poco oltre nella motivazione sempre dell’ordinanza del 2008, in cui la Corte tornava a sottolineare che “la natura ereditaria della presente controversia non può, pertanto, subire alcuna mutazione, né genetica né funzionale, sul piano del petitum e della causa petendi, per il solo fatto che l’attore, in previsione di una possibile eccezione di res litis transacta, ne chieda, in limine, un accertamento pregiudiziale a sé favorevole, poiché, va ribadito, tale questione attiene evidentemente al merito della controversia e non alla giurisdizione”. (2) V., da ult., Cass., Sez. II, 30 aprile 2015, n. 8808: “l'elemento distintivo è da individuare nella circostanza per cui nella transazione divisoria l'accordo transattivo, regolando ogni controversia, anche potenziale, in ordine alla determinazione delle porzioni corrispondenti alle quote ereditarie, ha ad oggetto proprio le questioni costituenti presupposto ed oggetto dell'azione di rescissione (cfr. Cass. 3 settembre 1997, n. 8848) ovvero nella circostanza per cui l'attribuzione compiuta da uno o da taluni dei condividenti a favore dell'altro o degli altri di beni avente valore superiore a quello della quota a quest'ultimo, a quest'ultimi spettante ha da esser pienamente consapevole (cfr. Cass. 10 marzo 1976, n. 836). In tal ultima evenienza il consapevole squilibrio tra porzioni attribuite e quote astrattamente spettanti non vale a far trasmodare l'operazione oltre l'ambito della transazione, sì da connotarla in guisa di un'operazione liberale (il negozio con cui si scioglie una comunione incidentale ereditaria, ove posto in essere senza tener conto della proporzionalità tra valore dell'asse e quota attribuita (elemento essenziale del negozio divisorio)per dirimere o prevenire controversie insorgenti dallo stato di comunione, integra una transazione in senso proprio, la quale, sebbene attuata in occasione della divisione, si pone come fonte autonoma regolatrice del rapporto in luogo del titolo preesistente e produce effetti novativi”. oppure di una transazione divisoria, quest’ultima non impugnabile per lesione, almeno in base al diritto italiano (2). Quel che consta è che la figlia, in previsione di una possibile exceptio litis transactae, eccezione poi puntualmente sollevata dalla madre convenuta, si premurava di inserire tra le sue conclusioni anche la seguente: “in via pregiudiziale, ove occorra, dichiarare la nullità, annullabilità, inefficacia degli accordi intercorsi successivamente all’apertura della successione”. L’individuazione del petitum sostanziale operata dalle Sezioni Unite in sede di regolamento preventivo di giurisdizione 1512 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile e processuale civile La prima osservazione da compiersi, allora, è che per qualificare in modo tecnicamente più acconcio tale segmento del petitum attoreo, le sezioni unite avrebbero potuto convenientemente far ricorso alla figura della c.d. “eccezione-replica” (3): qui preventivamente schierata dall’attrice per pararsi contro una prevedibile e prevista eccezione di transazione. La seconda osservazione, quasi una prova del nove relativa ai contorni della res in iudicium deducta, è che, se la corte avesse ritenuto di trovarsi al cospetto di una autentica domanda di impugnativa negoziale, il vaglio sulla giurisdizione avrebbe dovuto prendere le mosse da quest’ultima domanda. Pregiudiziale rispetto alla ri-determinazione della quota ereditaria sarebbe apparso infatti - per schiette ragioni di diritto sostanziale, prevalenti su ogni ipotetico condizionamento processuale impartito dall’attore alle sue domande (4) - l’accertamento della (in)validità del negozio con cui l’attrice aveva in precedenza disposto dei suoi diritti ereditari. 3.- Veniamo alle vicende del processo di merito. In primo grado il tribunale torinese rigettava la domanda di rendiconto per mancata prova dell’esistenza di un rapporto di mandato o gestione d’affari tra il de cuius e i convenuti tale da far sorgere un obbligo di rendiconto in capo a questi ultimi. Conseguentemente, il tribunale rigettava nel merito pure la domanda di petizione ereditaria in relazione ai beni collegati all’azione di rendiconto. Il tribunale riteneva invece non esaminabile la “domanda” (così la chiama la sentenza in epigrafe) di nullità dell’accordo tra coeredi, dato che la stessa fosse vera domanda o recte una mera eccezione-replica di invalidità negoziale - era condizionata alla proposizione di una eccezione di res transacta e che la convenuta aveva rinunciato alla sua eccezione in corso di causa. La figlia appellava la sentenza e chiedeva alla corte torinese, inter alia, di accertare, questa volta però “in via principale”, la nullità, annullabilità ed inefficacia dell’accordo divisorio stipulato con la madre. La corte d’appello confermava la statuizione di inesistenza di obblighi di rendiconto in capo ai convenuti. Quanto alla domanda di accertamento dell’invalidità dell’accordo divisorio, questa veniva dichiarata inammissibile perché nuova, in violazione del divieto ex art. 345 c.p.c., rilevato che in primo grado l’attrice si era limitata a proporre una “controeccezione di accertamento incidentale subordinato”. Ad abundantiam, la corte d’appello rilevava che una simile domanda sarebbe stata comunque carente di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. dal momento che la convenuta aveva rinunciato alla propria eccezione di transazione. 4.- Impugnata per cassazione la sentenza d’appello per violazione degli artt. 99, 100, 112, 345 c.p.c., la figlia sosteneva di avere sin dal primo grado proposto una domanda vera e propria di accertamento della invalidità dell’accordo divisorio e di essersi limitata, nel passaggio da un grado di giudizio all’altro, a togliere il condizionamento originariamente impartito a tale domanda, per sollecitare senz’altro una decisione di merito in via principale sulla (in)validità dell’accordo divisorio. La figlia soggiungeva che, in ogni caso, allorché nel corso del giudizio di primo grado la madre aveva dichiarato di rinunciare alla eccezione di transazione, essa attrice si era “opposta alla rinuncia” denotando già allora una inequivoca volontà di ottenere una pronuncia meritale incondizionata di invalidità dell’accordo (si badi, per incidens, che così argomentando la ricorrente si esponeva al rischio che la S.C. rilevasse un giudicato interno: non consta infatti che la figlia avesse appellato la sentenza di primo grado per omessa pronuncia sulla supposta domanda di nullità dell’accordo divisorio; a tacere della astratta configurabilità di un interesse dell’attore ad “opporsi” al ritiro di una eccezione da parte del convenuto). Le ragioni di un tale mutamento di strategia processuale sono probabilmente da ricercare nel fatto che la figlia, temendo una doppia conforme negativa sulla sua azione di rendiconto, puntasse almeno a far invalidare l’accordo transattivo a suo tempo stipulato con la madre. La rimozione del negozio spartitorio, è da credere, avrebbe consentito di ripristinare la comunione ereditaria, prodromica a una nuova e più congrua divisione dell’asse. (3) V. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. I. Le tutele (di merito, sommarie ed esecutive) e il rapporto giuridico processuale, Torino, 2015, 151, dove si rileva che “sebbene sia consueta la congiunzione tra l’eccezione e la sfera del convenuto, ben può darsi la figura dell’eccezione dell’attore, sia in funzione difensiva rispetto a una domanda del convenuto (domanda riconvenzionale), sia in funzione di replica ad un’eccezione della controparte (c.d. eccezione-replica)”. (4) Consolo, Il cumulo condizionale di domande. I. Struttura e funzione, Padova, 1985, 321, nt. 84. il Corriere giuridico 12/2015 1513 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile e processuale civile 5.- La Cassazione, come prevedibile, non ha accolto le tesi della figlia ricorrente. Merita tuttavia passare attentamente in rassegna l’intero iter argomentativo, che non appare in toto condivisibile. La ratio decidendi della S.C. è intonata al principio in base a cui, dopo la pronuncia a sezioni unite sul regolamento di giurisdizione “il mutamento della prospettazione delle domande che hanno formato oggetto della decisione in punto di giurisdizione non sarà più possibile nel corso del medesimo giudizio”. La S.C. ha parlato di “estensione del giudicato sulla giurisdizione ai fondamenti che la giustificano” per concludere che all’attrice sarebbe stato precluso, in corso di causa, alterare l’ordine delle sue domande, in modo tale da sollecitare il giudice del merito a pronunciarsi prioritariamente su una domanda diversa da quella che aveva orientato l’esito del giudizio sulla giurisdizione. Con l’esercizio di un simile potere, avverte la Sezione III, l’attrice avrebbe rimesso inammissibilmente in discussione “gli stessi termini fondativi del potere cognitorio del giudice italiano, non più ancorati ai medesimi presupposti (ossia le originarie domande attoree) che avevano consentito alla Corte regolatrice di selezionare il criterio di collegamento della materia successoria ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 della Convenzione di Lugano e 50 della legge n. 218 del 1995 e di escludere la rilevanza di altri criteri di collegamento, i quali (ad es. la materia contrattuale, l’esistenza di una clausola attributiva della competenza o, comunque, il differente atteggiarsi della connessione tra causa) avrebbero anche potuto, in via di mera ipotesi, orientare diversamente l’ambito del giudizio sulla giurisdizione”. 6.- Questa soluzione non convince. Esatta è senz’altro la premessa in base a cui il giudice italiano, investito di più domande nei confronti di un convenuto straniero, tra cui ricorra un nesso di condizionalità processuale impartito dall’attore, dovrà limitarsi a verificare la giurisdizione sulla domanda principale, senza poter estendere il vaglio ai presupposti processuali delle domande subordinate, ché un simile scrutinio sarebbe prematuro, fino a quando il dovere decisorio su tali domande non venga attualizzato dall’accoglimento (in caso di cumulo “successivo” o condizionale in senso stretto) o dal rigetto (in caso di cumulo “eventuale” o subordinato) della domanda principale, così come ribadito più volte dalla Cassazione (5). Non ne consegue però che il “giudicato” sulla questione di giurisdizione precluda “un diverso modo di (ri)formulare i nessi che reciprocamente legano le pretese svolte” dall’attore (fermo restando che, nel caso concreto, come si è veduto supra, non pare affatto che l’attrice avesse, almeno con l’atto di citazione in primo grado, proposto una domanda di impugnativa negoziale, essendosi limitata a formulare una preventiva eccezione-replica). A sostegno di tale assunto la Sezione III ha richiamato due precedenti di legittimità: Cass., 27 luglio 2005, n. 15721 (6) e Cass., 22 marzo 2010, n. 6850 (7). Entrambi, in motivazione, affermano (5) V., da ult., tra i precedenti citati dalla sentenza in commento, Cass., sez. un., 27 febbraio 2012, n. 2926, in Int’l Lis, 2012, 5 ss., nt. Stella, Responsabilità precontrattuale da violazione dei doveri di correttezza e trasparenza degli intermediari finanziari e forum commissi delicti: le Sezioni Unite affermano la giurisdizione italiana nel caso dei contratti derivati sottoscritti dal Comune di Milano; e Cass., SS.UU., 18 settembre 2014, n. 19675, ivi, 2015, 8 ss., nt. Penasa, La giurisdizione in materia di responsabilità (contrattuale e aquiliana) da derivati. (6) Una società di assicurazioni e i suoi soci avevano convenuto davanti all’a.g.o. il Ministero delle attività produttive e l’Isvap per sentirli condannare al risarcimento del danno, previo accertamento dell’inesistenza del provvedimento di revoca dell’autorizzazione allo svolgimento dell’attività di assicurazione e del provvedimento di messa in liquidazione coatta amministrativa, in quanto tali atti erano stati entrambi adottati successivamente alla spontanea rinuncia privatistica della società allo svolgimento della attività riservata mediante mutamento dell’oggetto sociale deliberato dalla assemblea dei soci. Le Sezioni Unite in sede di regolamento preventivo affermavano la giurisdizione del g.o., rilevato che la domanda degli attori aveva ad oggetto un diritto soggettivo. In seguito, la domanda veniva rigettata nel merito con sentenza confermata in appello. In cassazione, le amministrazioni resistenti, con ricorso incidenta- le condizionato, lamentavano che la corretta ricostruzione della sequenza cronologica, quale emersa in corso di causa, tra la rinuncia della società allo svolgimento dell’attività riservata e i provvedimenti amministrativi di revoca della autorizzazione e di messa in liquidazione, adottati per primi, avrebbe dovuto portare alla affermazione della giurisdizione del g.a. e al rigetto in rito della domanda da parte del giudice ordinario. La Cassazione dichiarava inammissibile tale motivo di ricorso incidentale affermando che “la sussistenza materiale della delibera contenente l'atto di rinuncia della società, nonché l'anteriorità di questa rispetto al provvedimento di revoca 29 luglio 1997, non possono essere più esaminate e rimesse in discussione dal giudice di merito non certamente porche già delibate dalla Cassazione, adita in sede di regolamento di giurisdizione, ovvero per un'asserita preclusione al loro autonomo accertamento da parte del giudica di merito, ma perché entrambe le circostanze hanno costituito il momento genetico della qualifica attribuita dalle Sezioni Unite all'atto compiuto dalla società ("rinuncia"-"antecedente"): a sua volta condizione indispensabile della dichiarata giurisdizione del giudice ordinario pur in presenza di un provvedimento di revoca delle autorizzazioni, perché alla stregua di detti accertamenti qualificato "successivo" alla rinuncia”. (7) Un medico assegnatario di incarico a titolo provvisorio Il giudicato sulla giurisdizione estingue il potere dell’attore di sciogliere il condizionamento tra domande cumulate: critica 1514 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile e processuale civile che “la decisione emessa in sede di regolamento preventivo di giurisdizione vincola il giudice, davanti al quale la causa sia riassunta, soltanto per quanto riguarda l’individuazione del giudice avente giurisdizione in ordine al rapporto controverso; mentre l’esame di una questione di merito, come quella attinente alla natura e ai soggetti del rapporto dedotto in giudizio, eventualmente compiuto dalle Sezioni Unite ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione, non dà luogo, per il suo carattere meramente delibatorio e incidentale, ad una pronuncia di merito costituente giudicato, che possa precludere una ulteriore indagine ed una autonoma, eventualmente difforme, statuizione in sede di decisione di merito”. In base a questa giurisprudenza, dunque, il solo effetto endoprocessuale scaturente dal regolamento preventivo di giurisdizione è di impedire al giudice del merito di spogliarsi della domanda in rito, per difetto di giurisdizione, quand’anche all’esito della trattazione tale giudice addivenga a una qualificazione del diritto o del rapporto giuridico dedotto in giudizio difforme da quella assunta dalla Cassazione a fondamento della pronuncia regolatrice (8). Così, presso un istituto correzionale di detenzione e pena adiva il pretore in funzione di giudice del lavoro per sentire accertare la natura a tempo indeterminato del rapporto. Il pretore accoglieva la domanda. Su appello del ministero, il tribunale rigettava la domanda per difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Le Sezioni Unite, accolto il motivo di ricorso del medico sulla giurisdizione, cassavano con rinvio. All’esito del giudizio di rinvio, la corte d’appello rigettava nel merito la domanda del medico rilevando che la regola dell’assunzione per concorso pubblico dettata dalla L. n. 740 del 1970, art. 4, era inderogabile per il pubblico impiego e che nessun concorso aveva preceduto la assunzione dell’attore. Il medico impugnava tale sentenza per violazione di legge, ex art. 360, comma I, n. 3, c.p.c., lamentando la falsa applicazione alla fattispecie della normativa sul pubblico impiego, in ragione della natura privata del rapporto. La Cassazione richiamava sì il proprio dictum a sezioni unite, che aveva affermato la giurisdizione del giudice ordinario in materia di impiego di medici incaricati presso istituti di detenzione, e la massima tralatizia (riportata supra nel testo), in base alla quale il giudicato sulla giurisdizione precluderebbe una diversa qualificazione del rapporto dedotto in giudizio, per affermare che “il rilievo d'ufficio del giudicato interno sulla qualificazione del rapporto toglie qualsiasi rilevanza alle considerazioni svolte sul punto dalla sentenza impugnata ed alle relative censure mosse dal ricorrente”. Ma non questa è la ratio decidendi che ha portato al rigetto del ricorso del ricorrente. Il motivo di ricorso del medico veniva infatti respinto nel merito, per insussistenza dell’error iuris in iudicando, in quanto la legge sull’impiego dei medici presso le carceri prevede che le assunzioni a tempo indeterminato debbano inderogabilmente essere precedute da concorso, ferma la natura privata del rapporto, esattamente al pari di quanto previsto dalla normativa sul pubblico impiego. La statuizione con cui la corte d’appello aveva qualificato il rapporto di lavoro in termini di pubblico impiego è apparsa dunque ininfluente ai fini del rigetto nel merito della domanda del ricorrente. (8) In dottrina si riscontrano molteplici tentativi di descrivere il fenomeno in questione. Per Redenti-Vellani, Diritto processuale civile, Milano, 2011, 418, il giudicato conseguente alla pronuncia a sezioni unite sulla giurisdizione si formerebbe “precisamente e soltanto sul quid decisum e cioè sulla proponibilità legale (in linea di diritto) dell’azione pretesa, così e come prospettata”. Per Gioia, La decisione sulla questione di giurisdizione, Torino, 2009, 176-177, “di fronte alla decisione sulla giurisdizione proveniente dalle Sezioni Unite … la posizione del giudice di merito rispetto alla lite non cambia: comunque né può negare la giurisdizione assegnatagli, né può procedere a una diversa qualificazione degli stessi fatti posti a base del giudicato sulla giurisdizione, ma solo oltre i limiti in cui potrebbe contraddire la pronuncia sulla giurisdizione. Ecco delimitato l’ambito in cui la pronuncia della Cassazione produce effetti anche sul merito”. Una faēon d’expliquer più stringente del fenomeno, senza pericolosi accostamenti agli effetti negativopreclusivi del giudicato sul c.d. motivo portante, la si potrà a nostro avviso ricavare dalla teorica sul doppio oggetto del processo, e tenendo così ben presente l’oggetto su cui cala la statuizione regolatrice delle Sezioni Unite. Questo non potrà che identificarsi nel dovere di tutti i giudici appartenenti al medesimo ordine di decidere nel merito la causa. Se questo solo è l’oggetto processuale di giudizio su cui cala il “giudicato” sulla giurisdizione conseguente alla pronuncia delle Sezioni Unite, interamente impregiudicata sarà la direzione verso la quale il giudice competente potrà indirizzare la decisione di merito all’esito della trattazione. Senza che il “motivo portante” che fonda la giurisdizione possa spiegare alcuna efficacia pregiudicante o conformativa rispetto alla soluzione delle questioni preliminari o anche pregiudiziali c.d. bivalenti (rilevanti sia in rito sia nel merito) che tale giudice dovrà risolvere autonomamente per decidere sull’oggetto sostanziale di giudizio. Per Consolo, Il cumulo, cit., 231 ss., spec. 251-252, in via generale, sarebbe fuori luogo discutere “se la questione processuale riguardante un dato presupposto processuale possa riprodursi tale e quale, od in termini di sostanziale equivalenza, in un successivo processo; non elevandosi tale questione a diretto oggetto di accertamento e di decisione, rimanendo essa piuttosto confinata nel campo delle cognizioni pregiudiziali, non sussiste la eadem res iudicanda, idonea ad originare il vincolo conformativo proprio del giudicato”. Nella nota 200 di p. 251, l’A. rileva come “sulle singole questioni della competenza e della giurisdizione verte invece direttamente l’accertamento reso dalla Corte di Cassazione, con funzione strumentale non già unicamente in vista della decisione sul dovere decisorio di merito da parte del giudice adito; ma, più in generale (con efficacia definita da Redenti “pan-processuale”), con riguardo alla posizione di tutti i giudici sotto i profilo (del presupposto processuale) considerato”. Anche Vaccarella, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Camerino, 1975, 345 ss., 356, nel ribadire l’impossibilità di concepire un giudicato sostanziale su questioni processuali, rileva la eccezionalità del conferimento, “in armonia con la storia e con la ratio della disposizione dell’art. 386 c.p.c.”, di una efficacia vincolante alle sentenze delle Sezioni Unite limitatamente al riconoscimento o alla negazione della giurisdizione del giudice adito. V. anche Ferri, In tema di giudicato sulla giurisdizione, in Riv. dir. proc., 1964, 350 ss., 356, secondo cui “l’efficacia vincolante delle sentenze della Cassazione che regolano la competenza (e la giurisdizione, se si ritiene che la disposizione dell’art. 310 sia interpretabile estensivamente) potrebbe spiegarsi riferendosi alla natura propria di dette statuizioni, in quanto decisioni dell’autorità sovrastante a tutti gli organi della giurisdizione, emesse nell’esercizio del potere regolatore della competenza dei giudici conferito esclusivamente alla Suprema Corte”. Né convince l’assunto, che gode di qualche seguito in dottrina, secondo cui il giudice, se all’esito della trattazione accerta che il rapporto sussistente tra le parti non è quello affermato dall’attore, ma un diverso rapporto, rispetto al quale il giudice adito è incompetente, “rigetterà la domanda nel merito per il profilo di sua competenza … e si dichiarerà incompetente per l’al- il Corriere giuridico 12/2015 1515 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile e processuale civile se la Cassazione, in sede di regolamento preventivo, in aderenza alla prospettazione della domanda e al petitum sostanziale, reputi che una certa domanda ricada nella giurisdizione del g.o. (ad es. perché diretta a far valere un diritto nascente da un rapporto con un datore di lavoro privato), il giudice ordinario, se anche all’esito della trattazione si persuada che il datore di lavoro è un ente pubblico, non potrà rimettere in discussione il proprio dovere di decidere nel merito la causa rilevando che essa rientrerebbe nella giurisdizione del g.a. (a meno che, beninteso, non accerti il difetto di presupposti processuali diversi dalla giurisdizione o la carenza delle condizioni di decidibilità della causa nel merito), ma dovrà statuire sull’esistenza o sulla inesistenza del diritto azionato avanti a lui. Questa giurisprudenza non appare allora conferente, dicevamo, giacché, nel caso concreto, non si poneva alcun problema di estensione del giudicato sulla giurisdizione ai motivi che la determinano, né era controversa la qualificazione del diritto o del rapporto sostanziale compiuta dalla Cassazione per risolvere la questione di giurisdizione. Conclusioni Si tratta piuttosto di stabilire come debba procedere il giudice allorché, nel corso del processo, l’attore (o il convenuto o un terzo interveniente) introduca una domanda nuova, ovvero rimuova il condizionamento inizialmente posto al dovere decisorio su una determinata domanda, sollecitando una pronuncia meritale non più in via gradata ma principaliter. In questi casi (cui adde il caso in cui il giudice decida con sentenza parziale la domanda principale e passi all’esame della domanda subordinata) il giudice adito ben potrà e dovrà valutare tro profilo”: così, Luiso, sub art. 38, in Consolo-Luiso-Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 27, che sintetizza l’opinione, tra gli altri, di Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 285 ss. e Buoncristiani, Giurisdizione, competenza, rito e merito (problemi attuali e possibili soluzioni), in Riv. dir. proc., 1994, 151 ss., ma spec. 203 ss. Secondo quest’ultimo A., in particolare, se un lavoratore agisca per la condanna al pagamento della retribuzione davanti al giudice del lavoro e tale giudice, al termine del giudizio svoltosi secondo il rito del lavoro, accerti che, in realtà, il rapporto tra attore e convenuto è un rapporto di lavoro societario, quel giudice dovrebbe emettere “una sentenza di rigetto nel merito della domanda sotto il profilo del lavoro subordinato” e, alternativamente, dichiararsi incompetente sotto il profilo del rapporto societario e rimettere le parti al giudice competente ovvero, se lo stesso giudice sia competente anche sotto il profilo societario, mutare il rito e decidere nel merito anche su tale rapporto. Questa ed altre ricostruzioni affini sembrano tutte più o meno risentire della concezione “logicistica” della giurisdizione, tale per cui dal processo si attenderebbe solo la solu- 1516 autonomamente la sussistenza del presupposto processuale della giurisdizione rispetto a ciascuna domanda su cui non sia calato ancora un dictum regolatore definitivo da parte delle Sezioni Unite. Più in generale, a fronte di ogni allargamento dell’oggetto del giudizio e del giudicato per effetto della proposizione di domande nuove, se ciò avvenga in primo grado, e finché il giudice non abbia pronunciato nel merito su ciascuna domanda (9), le parti potranno proporre un nuovo regolamento preventivo, per sollecitare una pronuncia regolatrice della giurisdizione. La ratio dell’orientamento di legittimità summenzionato, del “vincolo al motivo portante del giudicato sulla giurisdizione”, non è quella deflattiva di evitare la riproposizione del regolamento preventivo di giurisdizione su domande nuove o anche sulle stesse domande diversamente schierate dall’attore nel corso del giudizio di primo grado. Bisognoso di spiegazioni, passando ad altra questione, è infine il passaggio in cui la Cassazione afferma che la attrice-appellante, a fronte della rinuncia della convenuta alla eccezione di transazione, “avrebbe dovuto dare contezza effettiva dell’attualità concreta del pericolo di lesione del bene giuridico che intendeva preservare e quale utilità avrebbe potuto rivestire il provvedimento giudiziale richiesto a tal fine e ciò per non incorrere nella inconcludente postulazione di un ipotetico pregiudizio solo futuro e meramente potenziale”. Correttamente la Cassazione ha distinto tra l’interesse dell’attore a sciogliere il condizionamento tra domande, e l’interesse ad agire. Sotto il primo profilo, è valido il richiamo al pensiero di quella dottrina, evocata dalla figlia ricorrente, in base a cui l’attore ben potrebbe “purificare” il cumulo condizionale, facendo venir meno il nesso di suborzione di quesiti tecnici e il giudicato si diversificherebbe in relazione al motivo portante della decisione. Invece, se si muove dall’idea che l’esito del processo non può che consistere nell’attribuzione o meno del “bene della vita”, è inevitabile concludere che la pronuncia di merito sull’unico diritto azionato, ove sia divenuta definitiva, “consuma tutte le difese delle parti ed impedisce un reiterato esercizio della funzione giurisdizionale, con la sola e generale riserva per i fatti sopravvenuti”: così, Cerino Canova, La domanda giudiziale ed il suo contenuto, in Comm. Allorio, Torino, 1980, 107 ss., 233. (9) Non rileverà in senso ostativo alla proposizione di un nuovo regolamento di giurisdizione sulla causa cumulata, l’orientamento restrittivo della Cassazione, che interpreta il combinato disposto degli artt. 41 e 367 c.p.c. (Cass., sez. un., 23 marzo 1996, n. 2466 e succ.) nel senso che qualsiasi decisione sulla causa, non solo se attinente al merito, ma anche se inerente ai presupposti processuali, impedirebbe la proposizione del regolamento di giurisdizione in relazione a quella medesima causa. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile e processuale civile dinazione impresso alle sue domande, nel periodo che precede la decisione sulla domanda principale, ove la scelta inizialmente compiuta sia ritenuta “non più congrua e soddisfacente” (10): l’attore agirà nei limiti del principio dispositivo, e non dovrà soggiacere ad alcun onere di allegazione e prova delle ragioni al fondo della sua scelta insindacabile. Il giudice, naturalmente, dovrà invece sempre sincerarsi, venuto meno il condizionamento iniziale, della sussistenza (dei presupposti processuali e) di tutte le consuete condizioni di decidibilità della domanda nel merito. La corte torinese, dunque, aveva fatto bene a chiedersi se la domanda di impugnativa dell’accordo divisorio fosse sorretta da un idoneo interesse ad agire. Corte d’appello e Cassazione hanno però negato coralmente la sussistenza di un interesse ad impugnare l’accordo, ritenendo che ciò che l’attrice mirava a vedersi attribuire - il “risultato utile sperato” - fossero tutt’altri beni ereditari rispetto a quelli contemplati dalla spartizione consensuale. L’assunto non persuade. L’interesse dei contraenti alla rimozione dell’apparenza giuridica del contratto nullo, infatti, è in re ipsa (11). Nel caso concreto, inoltre, la rimozione del contratto divisorio avrebbe determinato il ripristino della comunione e ricostituito le premesse per addivenire a una nuova divisione, previe collazioni e rideterminazione dell’effettivo valore dell’asse. Fermo che una simile domanda non avrebbe potuto essere accolta nel merito dal giudice italiano, in ragione della clausola di proroga della giurisdizione a favore del giudice svizzero. Il contenzioso tra madre e figlia non è affatto escluso possa in futuro riaccendersi - l’impugnativa negoziale è rimasta impregiudicata nel merito - ma davanti alla giurisdizione elvetica. (10) Sono le parole di Consolo, Il cumulo, cit., 402-403, il quale rileva altresì come nessuna obiezione alla “purificazione” del cumulo potrebbe poi venire tratta dalla considerazione che il convenuto “avrebbe una sorta di aspettativa quesita a che l’oggetto del giudizio rimanga delimitato nell’ambito (per vero, come si notò, qualitativo piuttosto che quantitativo) espresso dal modello della trattabilità nel merito condizionata (o da quello tedesco della litispendenza risolubile)”. (11) V. Consolo, Spiegazioni, cit., 581, che ravvisa un caso tipico di incertezza pregiudizievole tale da determinare l’interesse ad agire pur in assenza di una contestazione o di un vanto da parte del convenuto, proprio in quello dato da un’apparenza giuridica, quale si avrà a fronte di un contratto nullo o anche di un contratto simulato. il Corriere giuridico 12/2015 1517 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile Inadempimento anticipato ad un contratto preliminare Cassazione Civile, Sez. III, 22 maggio 2015, n. 10546 - Pres. Russo - Rel. Stalla - P.M. Velardi (diff.) - B.A. e altri (avv.ti Gentili, De Cristofaro, Mamoli, Consolo) c. B.M.G. e altri (avv.ti Cappabianca, Giardini) Il comportamento del debitore incompatibile con l’esecuzione della prestazione dovuta configura un inadempimento prima ancora della scadenza del termine pattuito tra le parti (nella specie, stipulato un contratto preliminare di vendita immobiliare, il promittente venditore, prima della scadenza del termine, aveva instaurato concrete trattative di vendita con terzi). In ipotesi di inesigibilità della prestazione dovuta dalla parte promissaria acquirente (il cui termine di esecuzione non risulti ancora scaduto al momento dell’introduzione di un giudizio ai sensi dell’art. 2932 c.c., promosso prima della data fissata per la stipula del contratto definitivo sul presupposto dell’inadempimento anticipato della controparte), deve ritenersi necessaria e sufficiente un’offerta di adempimento anche non formale, purché espressa in modo da escludere ragionevoli dubbi sulla concreta intenzione della parte di adempiere e, dunque, a tal punto seria e concludente da far ritenere effettiva e puntuale la volontà di adempiere a fronte del trasferimento del bene. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Sulla prima massima v. in senso conforme Cass. 21 dicembre 2012, n. 23823; sulla seconda massima non constano precedenti negli esatti termini; la motivazione classifica tuttavia come coerenti alla soluzione in concreto accolta Cass. 27 settembre 1991, n. 10139; Cass. 28 maggio 1988, n. 3660 e Cass. 11 luglio 2000, n. 9176; invece, il principio affermato da Cass. 13 dicembre 2007, n. 26226, è stato ritenuto non del tutto calzante con la fattispecie oggetto di giudizio. La Corte (omissis). Motivi della decisione p. 1.1 Ragioni logiche e giuridiche inducono a trattare dapprima il ricorso incidentale di S. e B., in quanto incentrato sul presupposto stesso dell’azione costitutiva di trasferimento, insito nella mancanza di consenso da parte dei promittenti venditori. Con l’unico motivo di ricorso incidentale essi lamentano, in particolare, violazione o falsa applicazione dell’art. 2932 c.c., per avere la corte di appello erroneamente affermato l’interesse degli attori ad agire ex art. 2932 c.c., nonostante che, al momento dell’introduzione del giudizio, il termine di adempimento posto a loro carico (perfezionamento del rogito entro il 31 ottobre 2001) non fosse ancora maturato; così da non potersi configurare alcun inadempimento di parte promittente venditrice. p. 1.2 La doglianza è infondata. La corte di appello (sent. pp. 4 e 5) ha affermato l’interesse ad agire dei promissari acquirenti ex art. 2932 cit. poiché l’istruttoria compiuta aveva confermato che il S., nell’estate 2001 e dopo la stipula del preliminare dedotto in giudizio, aveva (anche con l’intervento di mediatori e dispiego di planimetrie) trattative di vendita a terzi dello stesso compendio immobiliare; sottacendo, allo scopo, la circostanza che quest’ultimo fosse già stato promesso agli attori. La valutazione del quadro probatorio (basato essenzialmente su convergenti e qualificate dichiarazioni testimoniali) deponeva dunque per ritenere dimostrato “il comportamento del S. il quale, in violazione del principio di buona fede contrattuale, nonostante l’impegno assunto con gli attori, intavolava trat- 1518 tative con terze persone per la vendita dell’immobile già promesso agli attori. Tale comportamento legittima la proposizione dell’azione ex art. 2932 c.c., l’unico mezzo che poteva assicurare ai promissari acquirenti l’effettiva acquisizione dell’immobile” (sent. p. 6). Ora, l’accertamento in fatto così compiuto dal giudice di merito deve costituire un punto fermo ed intangibile nell’affermazione dell’inadempimento dei convenuti, il cui comportamento, in contrasto con l’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto, denotava, a giudizio della corte di appello, univoca volontà di non dare corso al preliminare, così come stipulato con gli attori; dai quali avevano d’altra parte già ricevuto acconti per 200 milioni di lire. Questo convincimento - tanto più a fronte di una censura incidentale basata esclusivamente sulla violazione o falsa applicazione di legge, non già su carenze motivazionali - non può trovare qui smentita, costituendo espressione di una tipica valutazione di merito; a sua volta derivante da una determinata e concorde ricostruzione, da parte dei giudici di primo e secondo grado, della fattispecie concreta sulla base delle prove conseguite. Significativo è che, in proposito, i ricorrenti incidentali sollecitino espressamente la cassazione della sentenza su questo punto in esito ad una diversa e più esauriente “analisi delle risultanze istruttorie” da parte del giudice di appello; con ciò palesando di voler (inammissibilmente) invalidare il giudizio della corte territoriale proprio sotto il profilo dell’accertamento in fatto del loro inadempimento agli obblighi derivanti dal preliminare e, segnatamente, attraverso una diversa e più gradita valutazione probatoria. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile Quanto allo stretto profilo della conformità normativa della decisione impugnata, rileva che correttamente la corte di appello ha individuato il presupposto dell’azione ex art. 2932 c.c. nell’inadempimento al preliminare da parte dei promittenti venditori. Inadempimento colto sia nella sua attualità, di violazione dell’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto (obbligo che avrebbe dovuto indurre i promittenti venditori ad astenersi dal dedurre gli immobili in concrete trattative di vendita a favore di terzi); sia nella sua inequivoca proiezione futura, di evidente volontà di sottrarsi all’adempimento del preliminare. Anche quest’ultimo profilo deve reputarsi in linea con il presupposto normativo dell’azione ex art. 2932 c.c., posto che l’inadempimento contrattuale può concretarsi anche prima della scadenza prevista per l’adempimento, qualora il debitore - in violazione dell’obbligo di buona fede - tenga una condotta incompatibile con la volontà di adempiere alla scadenza (Cass. n. 23823 del 21 dicembre 2012). Va d’altra parte considerato come sia stata proprio l’anticipata manifestazione della volontà di non eseguire il preliminare da parte dei promittenti venditori a determinare nei promissari acquirenti l’interesse concreto ed attuale a proporre, anche prima della data fissata per il rogito di trasferimento, la domanda ex art. 2932 c.c.; la cui trascrizione, ex art. 2652, n. 2, c.c.), li tutelava nell’ipotesi di alienazione dell’immobile a terzi. Nemmeno in ciò, in definitiva, si ravvisa un profilo di violazione normativa; posto che l’azione ex art. 2932 c.c., può essere proposta anche prima della scadenza del termine di adempimento, qualora risulti già conclamata la volontà di non adempiere dell’altra parte. p. 2.1 Venendo con ciò al ricorso principale, B.A. e D.Q.C. lamentano, con il primo motivo, violazione o falsa applicazione dell’art. 2932, comma 2, c.c. Ciò perché la corte di appello avrebbe erroneamente affermato il loro inadempimento all’obbligo di corrispondere l’ulteriore acconto pattuito, ovvero di farne offerta formale, nonostante che tale acconto (scadente nell’ottobre 2001), non fosse ancora esigibile al momento dell’atto introduttivo del giudizio; con conseguente sufficienza di un’offerta non formale, attestante la loro seria volontà di adempiere (tra l’altro, nella specie dedotta in un’offerta “a borsa aperta” non del solo acconto, ma dell’intero saldo-prezzo). p. 2.2 La censura è fondata. La corte di appello - ritenendo di fare con ciò applicazione di quanto stabilito dalla S.C. con sentenza n. 26226 del 13 dicembre 2007 - ha ravvisato l’inadempimento dei promissari compratori nel non aver corrisposto il prezzo, né formulato offerta formale del medesimo; offerta formale asseritamente resa qui indispensabile, ai sensi dell’art. 2932, comma 2, c.c. dalla circostanza che il pagamento di un acconto (1,4 miliardi di lire) fosse stato dalle parti pattuito per il giorno prima della data fissata per il rogito (al più tardi, il 31 ottobre 2001). In effetti, la sentenza di legittimità citata dalla corte di appello ha affermato che: “in tema di contratto preliminare, ai fini dell’accoglimento della domanda di esecu- il Corriere giuridico 12/2015 zione in forma specifica ex art. 2932. c.c. è sufficiente la semplice offerta non formale di esecuzione della prestazione in qualsiasi forma idonea a manifestare la relativa volontà soltanto se le parti abbiano previsto il pagamento del prezzo, o del residuo prezzo, contestualmente alla stipula del contratto definitivo. Se, invece, il pagamento del prezzo o di una parte di esso deve precedere la stipulazione del contratto definitivo, la parte è obbligata, alla scadenza del previsto termine, anche se non coincidente con quella prevista per la stipulazione del contratto definitivo, al pagamento, da eseguirsi nel domicilio del creditore o da offrirsi formalmente nei modi previsti dalla legge, non sussistendo in tale ipotesi nessuna ragione che giustifichi la sufficienza dell’offerta informale; in caso contrario, colui che è tenuto al pagamento è da considerarsi inadempiente e non può ottenere il trasferimento del diritto, ove la controparte sollevi l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c.”. La presente fattispecie è tuttavia connotata da una peculiarità che non rende del tutto calzante il principio di diritto testè riportato; riferito alle ipotesi (che sono quelle normalmente ricorrenti) in cui la domanda ex art. 2932 c.c. venga proposta successivamente alla scadenza dei termini fissati dalle parti per il pagamento del prezzo e la stipula del definitivo (v. Cass. 10469/01; Cass. 4365/02; Cass. 20867/04; Cass. 25144/14). Nel caso in esame, invece, il giudizio ex art. 2932 c.c. è stato introdotto (settembre 2001) prima, tanto della data fissata per la corresponsione di un’ulteriore rata di acconto (30 ottobre 2001); quanto della data fissata per il rogito (31 ottobre 2001); quanto, ancora, della data fissata per il saldo-prezzo (novembre 2001, dopo il rogito). Ne deriva che il pagamento del prezzo, in base agli accordi del preliminare, doveva qui avvenire in parte prima del rogito (il giorno precedente) ed in parte dopo (nel mese successivo) ma, in ogni caso, né l’ulteriore rata di acconto né il saldo erano per contratto già esigibili nel momento in cui i promissari acquirenti agirono ex art. 2932 c.c.; sicché in tale momento questi ultimi non potevano ritenersi inadempienti, poiché i convenuti non avevano diritto di esigere la loro prestazione. In tale situazione doveva dunque farsi integrale applicazione del disposto dell’art. 2932, comma 2, c.c. secondo cui la parte che agisca in via costitutiva non è tenuta ad eseguire la sua prestazione, né a farne offerta formale, qualora tale prestazione “non sia ancora esigibile” al momento della domanda. Va del resto considerato che la ratio legis sottesa al secondo comma della norma in esame riposa sulla inesistenza dei presupposti di corrispettività per disporre il trasferimento del bene in esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre, ogniqualvolta la parte che domandi tale trasferimento risulti essa stessa inadempiente, per non aver eseguito (ovvero offerto nei modi di legge) la propria prestazione già scaduta al momento della domanda. Si tratta, all’evidenza, di una ratio legis che non ha modo di operare allorquando la parte chieda il trasferimento del bene ex art. 2932 c.c. in un momento in cui la prestazione a suo carico non sia ancora scaduta (nella specie: né per il saldo-prezzo, da corrispondersi addirit- 1519 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile tura dopo il definitivo, né per l’ulteriore rata di acconto). In definitiva - in ipotesi di inesigibilità per mancata venuta a scadenza della prestazione della parte attrice al momento dell’introduzione del giudizio ex art. 2932 c.c. - deve ritenersi necessaria e sufficiente un’offerta di adempimento anche non formale o per intimazione ai sensi degli artt. 1208 e 1209 c.c.; purché espressa in qualsiasi modo che escluda ragionevoli dubbi sulla concreta intenzione della parte di adempiere e, dunque, a tal punto seria e concludente da far ritenere un’effettiva e puntuale volontà di adempimento a fronte del trasferimento del bene, comunque a tale adempimento con- dizionato (Cass. n. 10139 del 27 settembre 1991; Cass. n. 3660 del 28 maggio 1988; Cass. n. 9176 del 11 luglio 2000). Ed in effetti integra i presupposti di concludenza e serietà l’offerta della prestazione formulata in giudizio dalla parte, personalmente o per mezzo del suo procuratore, prima della pronuncia ed in funzione di questa; ovvero la manifestazione di volontà di corrispondere il residuo prezzo di vendita, come rappresentata nell’atto di citazione del promissario acquirente, sottoscritto dal procuratore (Cass. n. 5151 del 3 aprile 2003; Cass. n. 26011 del 23 dicembre 2010). (omissis). Anticipatory breach e termini di pagamento della parte non inadempiente, tra clausole generali e interpretazione letterale del contratto di Francesco Astone La Corte di cassazione - con una apprezzabile sentenza che conferma una sensibilità sempre più marcata - torna a valorizzare la buona fede come clausola generale dalla quale dedurre regole di contenuto specifico: nella specie, in presenza di un comportamento contrario a buona fede, classificato come “inadempimento anticipato” (figura analoga all’anticipatory breach, nota nei sistemi di common law), è stata ritenuta ammissibile l’instaurazione di un’azione di esecuzione forzata in forma specifica prima della scadenza del termine a carico della parte venditrice. È un orientamento che merita di essere approvato e che potrà trovare utile applicazione in fattispecie analoghe. Le questioni oggetto di giudizio e le diverse tecniche utilizzate per risolverle La pronuncia in esame merita di essere segnalata all’attenzione del lettore per avere deciso - con attenzione sicuramente apprezzabile - due diverse questioni di diritto in tema di inadempimento anticipato ad un contratto preliminare di compravendita immobiliare e termine di pagamento a carico della parte non inadempiente. L’interesse che la decisione presenta dipende tuttavia non solo dalle soluzioni concretamente accolte, ma anche dalle diverse tecniche utilizzate per giustificarle: la prima massima sembrerebbe urtare contro le strettoie dello stretto diritto, che il richiamo alla clausola generale di buona fede - utilizzata in funzione di ‘controregola’ rispetto allo ius positum - consente di superare felicemente; la seconda massima, invece, si giustifica in ragione di un’interpretazione letterale del contratto, che tuttavia conduce ad una soluzione finale coerente con l’iniziale richiamo alla buona fede. Clausole generali e interpretazione letterale vengono dunque a confronto in un caso la 1520 cui singolarità dimostra come, nella mani di un giudice sapiente, si tratti solo di tecniche diverse, utilizzabili all’occorrenza in modo convergente, in funzione dell’esito della lite; e segnala altresì che l’interpretazione letterale conduce normalmente ad un risultato conforme alla buona fede (pur non potendosi in senso assoluto escludere che l’interpretazione letterale possa condurre a risultati incompatibili con la buona fede e che, per superare il conflitto, si renda necessario ricorrere alle clausole generali). Inadempimento anticipato nel contratto preliminare, decadenza dal termine e offerta del prezzo della parte non inadempiente All’origine della vicenda, si poneva un’azione proposta ai sensi dell’art. 2932 c.c. dai promissari acquirenti di un immobile in pendenza del termine fissato per la stipula del contratto definitivo. L’instaurazione del giudizio, prima ancora della scadenza del termine, veniva giustificata in ragione del comportamento dei promittenti venditori, i quali il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile avevano operato, conferendo tra l’altro un incarico di mediazione, per instaurare concrete trattative di vendita con terzi. Si trattava pertanto di stabilire - e questa era la prima questione di diritto da affrontare - se il comportamento dei promittenti venditori dovesse considerarsi un inadempimento dell’obbligo di concludere il contratto, al punto da giustificare, prima ancora della scadenza del termine fissato per la stipula del contratto definitivo, l’immediata proposizione dell’azione di esecuzione forzata in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto (e quindi, con chiare finalità cautelari, la trascrizione della domanda prevista dall’art. 2652, comma 1, n. 2, c.c.) (1). La risposta della Corte di legittimità è stata nel senso che i promittenti venditori, obbligati alla conclusione del contratto, non potessero operare con la finalità di vendere a terzi l’immobile (fatto, questo, capace di rendere prospetticamente impossibile l’adempimento dell’obbligazione) e che il loro comportamento si ponesse anzi in chiara violazione del dovere generale di buona fede, con conseguente loro inadempimento a prescindere dalla scadenza del termine, sì da far ritenere giustificata l’immediata proposizione dell’azione da parte dei promissari acquirenti. Ma questo primo chiarimento ancora non chiudeva il caso: nell’esercitare l’azione volta al trasferimento della proprietà, i promissari acquirenti tenuti al versamento del prezzo, per una parte, il giorno prima della data fissata per la stipula del contratto definitivo e, per altra parte, dopo il trasferimento della proprietà - avevano offerto non formalmente la somma dovuta e dunque si trattava di stabilire se, in relazione all’art. 2932, comma 2, c.c. (che richiede il pagamento o l’offerta formale del prezzo all’atto della proposizione del giudizio, salvo il caso in cui la prestazione non sia esigibile) (2), la rata in scadenza il giorno prima del momento fissato per il trasferimento della proprietà dovesse o meno ritenersi esigibile, con conseguente necessità del pagamento ovvero dell’offerta formale al momento della proposizione della domanda. Come si diceva, la risposta è stata elaborata seguendo un ragionamento fondato sulla lettera del contratto ed in particolare sulla precisa data fissata per il pagamento: l’inadempimento anticipato aveva consentito al promissario acquirente di agire prima di quella scadenza (nel mese di settembre), ma ciò non valeva ad anticipare anche la rata in scadenza il giorno prima (il 30 ottobre) della data originariamente fissata per il trasferimento della proprietà (il 31 ottobre). Dunque, l’offerta di pagamento, benché non formale, doveva ritenersi sufficiente e, conseguentemente, l’azione dei promissari acquirenti meritevole di accoglimento anche se non accompagnata dall’offerta reale del prezzo, appunto in quanto non ancora esigibile al dì della notifica dell’atto introduttivo. (1) È noto che il sistema della trascrizione delle domande giudiziali previsto dall’art. 2652 c.c. consente di far retroagire al momento della trascrizione della domanda l’effetto della successiva trascrizione della sentenza di accoglimento della domanda: si parla, a questo proposito, di effetto “prenotativo” della trascrizione (v., ad es., 24 novembre 2014, n. 24960) ed è chiaro che - come si legge nella Relazione al Re, n. 1077 - il sistema è volto a proteggere il promissario acquirente contro il promittente venditore ed i terzi, che in buona fede o meno, potrebbero interferire con l’esecuzione del contratto preliminare. Sotto questo profilo, sembra corretto qualificare come ‘sostanzialmente’ cautelare la funzione assolta dalla trascrizione delle domande giudiziali, appunto in quanto diretta ad assicurare gli effetti della futura sentenza di merito, rendendoli opponibili a coloro i quali abbiano acquistato azioni o ragioni successivamente all’introduzione del giudizio. Il discorso risulta particolarmente evidente ove si consideri la fattispecie in esame, rispetto alla quale era evidente il pericolo di vendita a terzi dell’immobile. (2) È noto che l’art. 2932, comma 2, c.c., con riguardo al contratto preliminare, impone alla parte che propone la domanda di esecuzione in forma specifica - e che chieda pertanto il trasferimento della proprietà in suo favore - il pagamento o l’offerta formale del prezzo e cioè un’offerta nelle forme previste dall’art. 1209 c.c., salvo solo il caso in cui la prestazione non risulti esigibile. Posto che, nella comune prassi del commercio immobiliare, il pagamento del prezzo è dovuto in genere contestualmente al trasferimento della proprietà, la giuri- sprudenza consente l’offerta anche non formale della prestazione, nelle forme d’uso (art. 1214 c.c.), ma condiziona sospensivamente l’effettivo trasferimento della proprietà al pagamento del prezzo. Nel caso di specie, tuttavia, il pagamento del prezzo era stato previsto - non contestualmente, bensì - il giorno prima della data fissata per il contratto definitivo e questo avrebbe reso necessaria un’offerta formale, così come ritenuto da Cass. 13 dicembre 2007, n. 26226, richiamata in motivazione e tuttavia, per le ragioni che poi meglio si vedranno, ritenuta non pertinente rispetto al caso di specie, nella cui massima si legge: “[i]n tema di contratto preliminare, ai fini dell’accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. è sufficiente la semplice offerta non formale di esecuzione della prestazione in qualsiasi forma idonea a manifestare la relativa volontà soltanto se le parti abbiano previsto il pagamento del prezzo, o del residuo prezzo, contestualmente alla stipula del contratto definitivo. Se, invece, il pagamento del prezzo o di una parte di esso deve precedere la stipulazione del contratto definitivo, la parte è obbligata, alla scadenza del previsto termine, anche se non coincidente con quella prevista per la stipulazione del contratto definitivo, al pagamento, da eseguirsi nel domicilio del creditore o da offrirsi formalmente nei modi previsti dalla legge, non sussistendo in tale ipotesi nessuna ragione che giustifichi la sufficienza dell’offerta informale; in caso contrario, colui che è tenuto al pagamento è da considerarsi inadempiente e non può ottenere il trasferimento del diritto, ove la controparte sollevi l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c.”. il Corriere giuridico 12/2015 1521 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile Generalizzando la regola affermata a proposito della prima delle due questioni, chi - obbligato ad un determinato comportamento - operi in modo incompatibile con l’obbligazione già assunta, ponendo le premesse per un futuro inadempimento o anche per l’impossibilità della prestazione, deve ritenersi immediatamente inadempiente ai doveri di buona fede gravanti sulle parti del contratto e, di conseguenza, il creditore ha titolo per l’immediato esercizio di tutti gli strumenti di tutela a sua disposizione. L’essenzialità del richiamo alla clausola generale appare evidente (3): stando allo stretto diritto, non sarebbe stato agevole argomentare l’immediata esigibilità della prestazione dovuta dal promittente venditore prima del termine fissato per la stipula del contratto definitivo, non ricorrendo nessuna delle situazioni espressamente considerate a questi fini dall’art. 1186 c.c. (4), né i presupposti di operatività di una dichiarazione di non voler adempiere riconducibile al modello dettato dall’art. 1219, comma 2, n.2, c.c. in tema di mora del debitore (5). Dunque, rimanendo alle precise indicazioni di questi dati normativi ed al loro stretto ambito ap- (3) Su questo aspetto - e in particolare sull’uso delle clausole generali in funzione ‘correttiva’ del diritto scritto - si avrà modo di tornare nel paragrafo che segue. Per il momento si può segnalare che la nostra giurisprudenza continua a mostrarsi prudente, anche se, in tempi relativamente recenti, possono ricordarsi alcune aperture particolarmente significative: intanto, è da ricordare la recente Corte cost., Ord., 21 ottobre 2013, n. 248, in Giur. cost., 2013, 3767 ed ivi, 3770, un commento di F. Astone, in punto di possibile impiego della clausola generale di buona fede in funzione correttiva dell’equilibrio economico pattuito tra le parti (nel caso di specie, il ricorso alla clausola generale di buona fede è stato considerato possibile in materia di riduzione della caparra confirmatoria utilizzata in funzione sanzionatoria dell’inadempimento); v. altresì Cass. 24 settembre 1999, n. 10511, in tema di riduzione della penale contrattuale, poi confermata da Cass., SS.UU., 13 settembre 2005, n. 18128, in Foro it., 2006, I, 432; v. altresì, in tema di violazione dei doveri di correttezza e buona fede in ambito processuale, una serie di pronunce, tra cui la recentissima, praticamente coeva alla pronuncia qui in esame, Cass., SS.UU., 15 maggio 2015, n. 9935, in tema di concordato preventivo, inammissibile quando contrario a doveri di correttezza e buona fede in quanto volto unicamente a procrastinare la dichiarazione di fallimento; Cass. 24 aprile 2015, n. 8381, e Cass. 24 aprile 2015, n. 8381, in tema di eccessiva durata del processo, buona fede e spese processuali; un’ulteriore serie di pronunce espressione del noto orientamento relativo al c.d. “frazionamento” della pretesa giudiziale avente ad oggetto un unico credito, su cui da ultimo Cass. 9 marzo 2015, n. 4702, e, in precedenza, Cass., SS.UU., 15 novembre 2007, n. 23726; e ancora una serie di importanti pronunce della giustizia amministrativa, tra cui, da ultimo, Cons. Stato, Sez. III., 13 aprile 2015, n. 1855, in tema di violazione dei doveri di buona fede nel corso del processo e divieto di venire contra factum proprium in punto di giurisdizione; ancora sulla buona fede ed il divieto di venire contra factum proprium, Cass. 16 marzo 1999, n. 2315, in questa Rivista, 1999, 4, 429 ed ivi, 401 ss., un commento di P. Schlesinger, nonché in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, 1 ss., ove i commenti di L. Balestra - S. Chiessi - G. Ferrando - S. Patti - M. Sesta, in tema di inammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità da parte del marito della madre che aveva in precedenza assentito alla fecondazione eterologa di lei; Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, apparsa in molteplici periodici, su cui i saggi raccolti in S. Pagliantini (cur.), Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Torino, 2010, in tema di abuso del diritto di recesso dal contratto di concessione di vendita; Cass. 28 aprile 2009, n. 9924, in tema di verwirkung e rapporti di lavoro; Cass. 6 agosto 2008, n. 21250, in tema di abuso del diritto di recesso nei rapporti finanziari, e, all’origine dell’orientamento, Cass. 21 maggio 1997, n. 4538, in Foro it., 1997, I, 2479 (su cui le sempre attuali osservazioni di F. Galgano, Abuso del diritto: l’arbitrario recesso ad nutum della banca, in Contr. e impr., 1998, 18 ss., ove il richiamo ad altri orientamenti significativi degli anni no- vanta, tra cui quelli relativi all’exceptio doli in tema di contratto autonomo di garanzia). Al tema delle clausole generali deve peraltro ricondursi anche il noto orientamento giurisprudenziale in tema di abuso del diritto in ambito tributario (su cui, oltre a Corte di Giustizia 21 febbraio 2006, n. C/255-02, Alifax, si può ricordare Cass., SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30055, seguita poi da numerose altre pronunce conformi), che ha formato oggetto di un recente intervento legislativo in attuazione della c.d. “delega fiscale”. (4) Con riguardo alla decadenza dal termine, l’opinione più tradizionale considera - essenzialmente a garanzia del debitore - tassativo l’elenco delle cause, che dunque s’identificano unicamente in quelle espressamente considerate dalla legge (U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Tratt. CicuMessineo, oggi diretto da P. Schlesinger, Milano, 1984, 136 ss.); in giurisprudenza, nel senso della tassatività dei presupposti della decadenza dal termine, v., ad es., Cass. 18 novembre 2011, n. 24330 e, in tempi ancora più recenti, nella giurisprudenza di merito, Trib. Napoli 11 ottobre 2013, n. 17580. Tuttavia, altra opinione - e questa è appunto l’opinione che qui si ritiene preferibile e che si prenderà in considerazione nel testo - considera che all’elenco delle cause di decadenza vada aggiunta quantomeno la dichiarazione di non voler adempiere resa prima del termine di scadenza dell’obbligazione (così, ad esempio, C.M. Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1990, 223 e, in giurisprudenza, Cass. 17 marzo 1982, n. 1721). (5) L’art. 1219, comma 2, n. 2, c.c., riguarda, in linea di principio, dichiarazioni scritte intervenute dopo la scadenza del termine. Tuttavia, come si è segnalato alla nota che precede, un orientamento dottrinale autorevole ritiene che la dichiarazione di non voler adempiere, resa prima della scadenza del termine, comporti l’immediata esigibilità della prestazione (e ciò in quanto la dichiarazione di non voler adempiere comporterebbe un ‘attuale’ inadempimento della prestazione principale ovvero in quanto la dichiarazione di non voler adempiere comporterebbe un inadempimento dei doveri accessori di correttezza e buona fede): per una compiuta e recente disamina delle opinioni sul tema, A. Venturelli, Il rifiuto anticipato dell’adempimento, Milano, 2013, 7 ss. (peraltro critico rispetto alla possibile utilità di un richiamo alla decadenza del termine). Rispetto al caso di esame, si deve peraltro sottolineare che, ai fini dell’operatività dell’art. 1219, comma 2, n. 2, c.c., la dottrina assolutamente prevalente è nel senso di ritenere essenziale la forma scritta e quindi di escludere la rilevanza dei comportamenti concludenti: v., ad es., C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Scialoja-Branca, Roma-Bologna, 1979, 210; L. Cabella Pisu, Inadempimento e mora del debitore, in N. Lipari - P. Rescigno, Diritto civile, Il rapporto obbligatorio, III, I, 12, Milano, 2009, 682; da ultimo ha scritto sul tema, confermando l’opinione della dottrina tradizionale, G. Sicchiero, sub art. 1219, in V. Cuffaro (cur.), Delle obbligazioni, artt. 1218-1276, nel Commentario del Codice Civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2013, 89 ss., spec. 91-92. È da se- Inadempimento anticipato e doveri di buona fede 1522 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile plicativo, la soluzione del caso sarebbe risultata difficile. E infatti, nessuna di queste due disposizioni si trova richiamata nella motivazione, appunto in quanto non sarebbero risultate di utilità. La scelta è stata pertanto di fondare l’intero ragionamento sul richiamo al ‘principio’ di buona fede, senza necessità di riferimenti normativi specifici appunto in ragione del suo carattere generale, riferibile a qualsiasi rapporto di natura contrattuale (6). La centralità della buona fede in ambito contrattuale è, in effetti, indiscutibile (7) e nel caso di specie, secondo l’operatività tipica delle clausole generali, ha rappresentato lo strumento utile a costruire una nozione - quella di “inadempimento anticipato” - e la regola ad essa relativa, destinata a riferirsi a tutti i casi in cui nessuna precisa disposizione di legge sarebbe utile a giustificare l’immediato esercizio degli strumenti di tutela concessi dall’ordinamento al creditore della prestazione, prima ancora della scadenza del termine pattuito in favore della controparte. La buona fede è stata dunque utilizzata per coniare una figura utile ad arricchire il catalogo delle ipotesi di inadempimento del debitore già espressamente previste dalla legge e concretizzare ulteriori ipotesi rilevanti. Si tratta di un utilizzo corretto: la funzione storicamente più consolidata delle clausole generali è appunto quella di espandere il sistema, consentendone l’adattamento a casi non espressamente considerati, rispetto ai quali anche il ricorso all’analogia potrebbe comportare difficoltà (8). La giurisprudenza ha così la possibilità di creare nuove regole, destinate ad affiancare quelle del codice - con le quali pure spesso si trovano in latente o dichiarato contrasto - e, nel tempo, ad essere in esso recepite (9). gnalare - ma il tema non può qui essere approfondito - che la dichiarazione anche non scritta di non voler adempiere è presa in considerazione l’art. 71 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di cose mobili (CISG), su cui si avrà modo di tornare nella nt. 12 che segue. (6) Come si dirà poi anche nel testo, avrebbe forse potuto trovare specifica considerazione - a prescindere dalle molteplici disposizioni che fanno riferimento alla buona fede nei rapporti contrattuali (artt. 1175, 1337, 1366, 1375, 1358 c.c.) e ne consentono l’agevole richiamo in qualsiasi situazione di carattere più specifico - l’art. 1358 c.c., in tema di pendenza della condizione, che impone ad entrambi i contraenti di tenere un comportamento utile a conservare integre le ragioni dell’altra parte e che può verosimilmente ritenersi applicabile anche al termine, per il quale manca una disposizione di contenuto corrispondente. Tuttavia, la dottrina che si occupa del termine e della pendenza del termine tende a non trattare la questione relativa all’applicabilità dell’art. 1358 c.c., ma ciò probabilmente in quanto la questione è assorbita dalla sicura applicabilità dell’art. 1175 c.c., alle situazioni di pendenza del termine. Come osserva M. Costanza, La condizione e gli elementi accidentali, in E. Gabrielli (cur.), I contratti in generale, in Trattato dei Contratti, a cura di P. Rescigno, Torino, 1999, 885, “[l]’irretroattività degli effetti del verificarsi del termine, sia esso finale che iniziale, non esclude invece il profilarsi di situazioni di pendenza del tutto analoghe a quelle che si realizzano nell’ipotesi di contratto sottoposto a condizione. Le attese e le aspettative di un contraente che ha stipulato un contratto con termine iniziale di efficacia sono, anzi, più intense di quelle di colui che ha negoziato sotto condizione sospensiva” e dunque l’esistenza di doveri di buona fede di particolare intensità a carico delle parti - in ragione sia dell’art. 1175 c.c., sia dell’art. 1358 c.c. deve considerarsi sicura. (7) La buona fede è con frequenza - e così anche nella sentenza in esame - classificata come “principio generale” dei rapporti contrattuali, anche se è forse più proprio classificarla come “clausola generale”, trattandosi di una formula contenuta in disposizioni normative caratterizzate dall’assenza di una fattispecie di riferimento e che pertanto lasciano al giudice un certo grado di discrezionalità - maggiore o minore a seconda della formula concretamente prescelta e della sua capacità di rinviare a valori socialmente definiti (si pensi, ad es., alla clausola del “buon costume”, che lascia verosimilmente una discrezionalità minore rispetto ad altre, quali la “correttezza”) - nel selezionare i casi che alla formula possano effettivamente ricondursi e quelli che invece vadano esclusi. Tuttavia, attesa la varietà di significati attribuiti alla formula “principio generale” (su cui, tra gli altri, è possibile ricordare il classico contributo di N. Bobbio, voce Principi generali di diritto, in Noviss. Dig. it., XIII, Torino 887 ss., spec. 893 ss.), l’aspetto prettamente terminologico è il meno significativo, anche se la contrapposizione tra norme generali (norme di principio o principi generali) e le clausole generali, nasconde molti aspetti problematici, su cui, v., ad es., L. Mengoni, I principi generali del diritto e la scienza giuridica, in AA.VV., I principi generali del diritto (Atti dei convegni lincei), Roma, 1992, 319 ss., spec. 323 ss.; v. altresì, del medesimo A., Spunti per una teoria delle clausole generali, in AA.VV., Il principio di buona fede (giornata di studio - Pisa 14 giugno 1985), Milano, 1987, 5 ss., spec. 9-10, e ancora, sul pensiero di lui, L. Nivarra, Clausole generali e principi generali del diritto nel pensiero di Luigi Mengoni, in Europa e dir. priv., 2007, 411 ss. (8) È impossibile fornire indicazioni sintetiche su questo tema senza peccare di larghissima approssimazione. In questa sede si può appena ricordare che - forse come riflesso alla tragica esperienza consumata dalla giurisprudenza tedesca degli anni trenta - la nostra dottrina guardava inizialmente con sospetto alle clausole generali e così pure la giurisprudenza, che tendeva a non utilizzarle affatto (R. Nicolò, voce Codice civile, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 246; D. Corradini, Il criterio della buona fede e la scienza del diritto privato, Milano, 1970, 317 ss.). Solo a partire dagli anni sessanta e poi in modo deciso negli anni settanta, il ricorso alle clausole generali ha conosciuto una progressiva espansione, favorita dalla necessità di veicolare nel codice i principi della Costituzione repubblicana, favorendone la diretta e immediata applicazione anche nei rapporti tra privati: si possono ricordare, come esemplari di questa fase, P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205 ss.; N. Lipari, Il diritto civile tra sociologia e dogmatica (riflessioni sul metodo), in Riv. dir. civ., 1968, I, 314; S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1967, I, 483 ss., e Id., Le fonti di integrazione del contratto, Milano 1969, 112 ss. e, retrospettivamente, L. Nivarra (cur.), Gli anni settanta del diritto privato, Milano, 2008, 1 ss., spec. 13 ss. Quella fase, mai del tutto interrotta, ha conosciuto un nuovo capitolo con l’avvento del diritto privato europeo - che peraltro, alle clausole generali, tende a fare largo ricorso - e, di recente, momenti di centrale importanza anche in altri settori del diritto, quale, da ultimo, il diritto tributario, a proposito dell’abuso del diritto (cui si è brevemente accennato, retro, nota 3). (9) Anche su questo punto è difficile fornire un quadro il Corriere giuridico 12/2015 1523 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile Con riguardo alle situazioni di pendenza del termine e di comportamenti del creditore incompatibili con l’adempimento, riconoscere un ruolo attivo alla buona fede è del resto assolutamente giustificato. Ferma la possibilità di riferire al termine l’indicazione dettata per la condizione (l’art. 1358 c.c.), l’intero sistema della decadenza dal termine essenziale a configurare l’inadempimento anticipato di lui - è fondato sulla buona fede: pretendere dal creditore un’inutile attesa della scadenza è di per sé contrario a buona fede ed a questa logica rispondono sia l’art. 1186 c.c., sia l’art. 1219, comma 2, n. 2, c.c. (10). Dunque, deve considerarsi corretta la generalizzazione della regola secondo cui il debitore non possa pretendere un’inutile attesa del termine e questo sia nelle situazioni espressamente previste a livello legislativo (mancanza dei mezzi per adempiere per via di una sopravvenuta situazione di insolvenza o comunque di una diminuzione delle garanzie: art. 1186 c.c.; dichiarazione scritta di non voler adempiere: art. 1219, comma 2, n. 2, c.c.) sia in quelle non espressamente previste e tuttavia caratterizzate da un comportamento incompatibile con l’adempimento (11). Tanto che in alcuni sistemi di regole - quali la Convenzione sintetico e conviene senz’altro rinviare alla letteratura in argomento, richiamata alla nota che precede. Con riguardo al caso di specie, un almeno latente conflitto può vedersi sia con l’art. 1186, che con l’art. 1219, comma 2, n. 2, c.c., posto che, come si è visto alle precedenti note 4 e 5, i presupposti applicativi della prima disposizione sono ritenuti tassativi (e dunque il valore della norma consiste anche nell’escludere che la decadenza dal termine possa verificarsi in casi diversi da quelli espressamente previsti dalle legge), mentre la seconda opera in relazione alle dichiarazioni di non voler adempiere rese dopo la scadenza del termine (post diem) e richiede comunque la forma scritta, sicché anch’essa tende ad escludere la rilevanza della dichiarazione di non voler adempiere resa prima della scadenza del termine (ante diem) attraverso comportamenti concludenti. Ma il ricorso alla clausola generale supera il problema, affiancando alle ipotesi considerate in via legislativa un caso ulteriore. Creazioni giurisprudenziali di questa natura si sono a volte talmente sedimentate al punto da essere recepite nei codici: nella nostra esperienza, si consideri l’attuale disciplina dell’interpretazione del contratto, dove si trovano codificate una serie di regole che la dottrina aveva - prima della redazione del codice - identificato come ‘concretizzazioni’ del dovere di interpretare il contratto in buona fede: si veda, per un’idea più precisa del fenomeno, C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico (con particolare riguardo ai contratti), Padova, 1937, 189 ss. che ricollegava alla buona fede interpretativa alcuni orientamenti della giurisprudenza italiana o straniera (ad esempio, quello, proprio della giurisprudenza italiana, secondo cui le clausole manoscritte prevalevano su quelle a stampa ovvero quello proprio principalmente dalla dottrina francese, ma recepito sul piano normativo dall’art. 1282 c.c. del codice spagnolo, a norma del quale, per “giudicare dell’intenzione dei contraenti, si dovrà attenersi principalmente ai loro atti contemporanei e posteriori al contratto”). Questa funzione della buona fede, spesso trascurata, è opportunamente sottolineata da Sacco, L’interpretazione, in Sacco, De Nova, Il contratto, II, in Tratt. Sacco, Torino, 2004, 407, che, muovendo da una posizione scettica in merito alla possibilità di decifrare il significato dell’art. 1366 c.c., spiega che l’interpretazione di buona fede ha generato, prima del 1942, regole importanti (artt. 1362, comma 2, 1370), poi tradotte in regole legali specifiche e perciò “autonome rispetto alla matrice che le ha prodotte. Con il tempo, peraltro, potranno affacciarsi applicazioni nuove”. Un dibattito relativo all’opportunità di recepire o meno una serie di regole di origine giurisprudenziale, spesso coniate in applicazione della clausola generale dettata dal § 242 B.G.B., si è svolto in Germania negli anni in cui si discuteva della “modernizzazione” del codice civile tedesco, quando la dottrina si divise tra voci favorevoli e contrarie (v., per riferimenti a quel dibattito, P. Rescigno, Relazione introduttiva alla terza sessione, in AA.VV., I cento anni del codice tedesco, Pa- dova, 2002, 255 ss., 266-267, dove peraltro l’A. mostra di condividere l’opinione contraria al recepimento degli istituti di creazione giurisprudenziale nel contesto del codice; per un resoconto degli istituti di creazione giurisprudenziale recepiti dal codice tedesco in occasione della Modernisierung, C.W. Canaris, Contenuti fondamentali e profili sistematici del Gesetz zur Modernisierung des Schuldrechts, in Riv. dir. civ., Quaderni, n. 3, 7 ss., spec. 26). (10) Con riguardo alla prima delle due norme, viene in considerazione la scorrettezza del debitore che pretenda un’inutile attesa di un adempimento che non potrà comunque verificarsi; nel secondo caso, viene in considerazione la scorrettezza del debitore che dichiari per iscritto di non voler adempiere e pretenda poi di non essere in mora, onerando così il creditore dell’atto di costituzione, evidentemente del tutto inutile. Più in generale, sembra potersi ritenere che la dichiarazione espressa o tacita di non voler adempiere rappresenti, di per sé, un atto contrario ai doveri di correttezza derivanti dal rapporto e - questo è forse l’aspetto più rilevante - giustifichi la decadenza del debitore dal termine o quantomeno precluda al debitore di eccepire in suo favore l’inesigibilità della prestazione anche in ragione della contraddittorietà del comportamento di chi, da un lato, dichiari di non voler adempiere, dall’altro intenda tuttavia avvalersi del termine in suo favore (sul divieto di comportamenti contraddittori, sia consentito rinviare a F. Astone, Venire contra factum proprium, Napoli, 2006, 80 ss.). Per un’analisi recente e molto accurata, dei problemi relativi alla dichiarazione anticipata di non voler adempiere, v. ancora A. Venturelli, Il rifiuto anticipato dell’adempimento, cit., 7 ss. (l’A., incline a ritenere che la dichiarazione ante diem di non voler adempiere comporti immediatamente la mora e quindi l’inadempimento del debitore, ritiene tuttavia il richiamo all’art. 1186 c.c. ed alla decadenza dal termine sia superfluo). (11) Di norma, le situazioni di questo tipo sono finalizzate a valutare l’opportunità di un inadempimento efficiente: l’inadempimento anticipato dipende normalmente da un ripensamento del venditore, che considera l’inadempimento (e quindi la vendita del bene ad un terzo) più vantaggioso dell’adempimento, il che accade quando il prezzo ottenuto dal terzo consente un utile differenziale superiore al costo del presumibile risarcimento: nella specie, probabilmente, i promissari volevano quantomeno verificare, sollecitando di nuovo il mercato, la concreta possibilità di un loro inadempimento efficiente. Nella dottrina nordamericana, si parla di efficient breach, appunto per sottolineare l’efficienza economica che l’inadempimento può assicurare: v., oltre al classico contributo di R.A. Posner, Economic Analisys of Law, Boston Toronto Londra, 1992, 117, per una trattazione istituzionale e le indicazioni bibliografiche di base, R. Cooter e altri, Il mercato delle regole (analisi economica del diritto civile), Bologna, 1999, 335 ss.). 1524 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili (artt. 71 e 72), la Dir. 99/44/CE (e quindi gli artt. 128 ss. c. cons.), i Principi Unidroit (art. 7.3.3) i Principi di Diritto Europeo dei Contratti (12) - l’Anticipatory Breach si trova, sia pure con qualche variante non del tutto marginale, espressamente codificato e il dato conferma l’attitudine delle clausole generali a produrre regole che, sebbene possano apparire inizialmente eversive del sistema, sono destinate ad essere riassorbite, armonizzate e poi anche formalmente recepite, diventando così diritto positivo. Dunque, l’inadempimento anticipato - e cioè, meno ellitticamente, la possibilità di contestare l’inadempimento prima ancora della scadenza del termine fissato per l’esecuzione della prestazione, ogni qual volta l’attesa del termine sia inutile, a prescindere da una decadenza dal termine espressamente prevista dalla legge o comunque da una formale dichiarazione di non voler adempiere - rappresenta una costruzione coerente con molteplici dati del sistema e la stessa giurisprudenza di legittimità aveva già fatto ricorso ad essa in un recente precedente, ugualmente fondato sui doveri di buona fede, violati ogni qual volta comportamenti posti in essere nella pendenza del termine valessero a pregiudicare la stessa possibilità del futuro adempimento (13). Quest’ultima decisione merita di essere ricordata anche in quanto, nella motivazione, richiama l’anticipatory breach (14) come figura corrispondente all’inadempimento anticipato, nota anche negli ordinamenti di common law: l’universalità della costruzione vale, da un lato, a ribadire la sua conformità (12) Conviene ricordare anzitutto gli artt. 71 e 72 della Convenzione di Vienna, che hanno rappresentato il modello cui varie altre regole sono state ispirate. In particolare, l’art. 71 dispone che: “1. Una parte può sospendere l’adempimento delle sue obbligazioni se, dopo la conclusione del contratto, risulta manifesto che l’altro contraente non adempirà una parte essenziale delle sue obbligazioni in conseguenza di: (a) una grave insufficienza nella sua capacità di adempiere o nella sua solvibilità; o (b) del modo in cui si prepara a dare esecuzione o esegue il contratto. 2. Se il venditore ha già spedito i beni prima che si manifestino le condizioni previste nel paragrafo precedente, egli può opporsi alla consegna dei beni al compratore, anche se questi è in possesso di un documento che lo legittima a riceverli. Il presente paragrafo riguarda solo i diritti sui beni nei rapporti tra il venditore e il compratore. 3. La parte che sospende l’esecuzione, sia prima che dopo la spedizione dei beni, deve immediatamente dare notizia della sospensione all’altra parte e deve procedere nell’adempimento se l’altra parte presta idonea garanzia dell’adempimento delle sue obbligazioni”; l’art. 72 dispone che: “[s]e prima della data di esecuzione del contratto è certo che una delle parti commetterà un inadempimento essenziale, l’altra parte può dichiarare il contratto risolto. 2. Se vi è tempo sufficiente, la parte che intende dichiarare il contratto risolto deve darne notizia all’altra parte in modo tale da permetterle di provvedere ad un’idonea garanzia dell’adempimento delle sue obbligazioni. 3. Le disposizioni del paragrafo precedente non si applicano se l’altra parte ha dichiarato che non adempirà le sue obbligazioni”. Come si diceva nel testo, le altre fonti prima ricordate - alla cui precisa formulazione si rinvia - recepiscono, sia pure introducendo varianti più o meno significative, l’impostazione di cui si è appena dato conto. Peraltro, come subito si vedrà, l’anticipatory breach è un rimedio noto nei sistemi di common law, dai quali la stessa Convenzione di Vienna ha tratto spunto. Si noti infine che, sia nei sistemi di Common Law, sia nelle due disposizioni in esame, l’anticipatory breach è visto essenzialmente nell’ottica della risoluzione del contratto ed è da questo punto di vista che viene normalmente trattato dalla nostra dottrina: v., al riguardo, i contributi richiamati nella nota 13. (13) Il riferimento a Cass. 21 dicembre 2012, n. 23823, che pure, a proposito di una fattispecie relativamente simile (realizzazione di un appartamento da costruire in modo incompatibile rispetto al progetto), si era pronunciata su un inadempimento ‘anticipato’ rispetto al termine contrattualmente pattuito, sempre richiamando la violazione dei doveri di buona fede e l’inadempimento che immediatamente essa consuma. In Italia, un contributo notevole sull’anticipatory breach si deve a G. Conte, L’uniformazione della disciplina giuridica della risoluzione per inadempimento e, in particolare, dell’anticipatory breach dei contratti, in Eur. dir. priv., 1998, 663 ss.; sono poi sopravvenuti vari altri studi, tra cui si devono ricordare quantomeno V. Putortì, Inadempimento e risoluzione anticipata del contratto, Milano, 2008, ove, con particolare riguardo all’anticipatory breach, 97 ss., e A. Venturelli, Il rifiuto anticipato dell’adempimento, cit., 57 ss. Si noti tuttavia sin da adesso che - a differenza del caso di specie - sia la pronuncia di legittimità appena richiamata, sia i contributi della nostra dottrina, si riferiscono a casi in cui, in seguito all’inadempimento anticipato era stata esercitata l’azione di risoluzione e non, come nel caso di specie, un’azione di adempimento: questa differenza, come si proverà a sottolineare anche nel testo, ha particolare rilevanza, perché l’anticipatory breach ha implicazioni diverse a seconda che si associ ad un’azione di risoluzione ovvero ad un’azione di adempimento. (14) Si legge, nella motivazione, che “[v]a qui osservato che l’inadempimento contrattuale, può essere attuale oppure, per così dire, anticipato - come dicono gli inglesi anticipatory breach cioè attuato prima della scadenza temporale prevista per l’adempimento. L’inadempimento anticipato dipende dalla violazione dell’obbligo di buona fede e di lealtà nell’esecuzione del contratto ed è attuato da comportamenti del debitore che rendono antieconomica o impossibile la prosecuzione del rapporto. Ora, nel caso in esame, la Corte genovese ha accertato con giudizio di merito, che essendo privo di vizi logici è, insindacabile in cassazione, che il V. aveva mantenuto comportamenti incompatibili con l’obbligazione assunta con la promessa di vendita, cioè, di fare acquistare alla M. un’unità abitativa autonoma, quantomeno perché i comportamenti mantenuti dallo stesso (in particolare, l’apertura di una porta di comunicazione con l’unità abitativa adiacente) non consentivano di identificare l’unità immobiliare promessa in vendita nella sua specifica oggettività”. Il richiamo all’anticipatory breach - e, in genere, ad istituti di diritto straniero, utili a denotare la generalità o l’utilità di un principio - è sicuramente da apprezzare: nella nostra giurisprudenza, è, ad es., esemplare Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, che esamina con attenzione le soluzioni offerte dalla giurisprudenza straniera in punto di fine-vita e accanimento terapeutico; in dottrina, trattano tra gli altri il tema, A. Somma, L’uso giurisprudenziale della comparazione nel diritto interno e comunitario, Milano, 2001, ed i saggi raccolti in AA.VV., L’uso giurisprudenziale della giurisprudenza straniera, Milano, 2004; B. Markesinis - J. Fedtke, Giudici e diritto straniero. La pratica del diritto comparato, traduzione di A. Taruffo, Bologna, 2009, 27 ss. il Corriere giuridico 12/2015 1525 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile Un’ulteriore motivo di interesse della pronuncia è dato, come si diceva, dalla seconda questione relativa alla necessità di un’offerta reale o meno - e dall’averla affrontata e risolta con metodo diverso rispetto alla prima. Mentre nella costruzione dell’inadempimento anticipato la buona fede è risultata fondamentale, nella decisione in punto di esigibilità della rata del prezzo in scadenza il giorno precedente rispetto alla stipula, la soluzione è stata nel senso di ritenere decisivo l’elemento letterale e cioè la precisa data indicata nel testo contrattuale: posto che, al momento dell’introduzione dell’azione (nel mese di settembre), il termine fissato per il pagamento della rata (il 30 ottobre, mentre per il successivo 31 ottobre era fissata la stipula del contratto definitivo) non era scaduto, la conclusione è stata nel senso che, in quel momento, il pagamen- to non fosse ancora esigibile e dunque, a norma dell’art. 2932, comma 2, c.c. un’offerta seria, benché non formale, fosse sufficiente. La soluzione - fondata, si diceva, sulla precisa data indicata nel testo, attribuendo ad essa significato a prescindere dal fatto che si trattasse del giorno prima di quello fissato per il trasferimento della proprietà - è sicuramente conforme alla regola di base dell’interpretazione del contratto, dettata dall’art. 1362, comma 1, c.c. ed al constante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, che considera il senso letterale delle parole come elemento prioritario di ricerca della comune intenzione delle parti, la concreta soluzione raggiunta dalla pronuncia in esame deve ritenersi corretta (17). Il dato letterale ha del resto consentito di distinguere il caso in esame (caratterizzato da un termine di pagamento non scaduto al momento della proposizione dell’azione) rispetto ad un diverso precedente di legittimità, opportunamente considerato, ma ritenuto non pertinente proprio in quanto, sebbene anche in quel caso il termine di pagamento del prezzo fosse stato fissato in un momento precedente rispetto al trasferimento della proprietà, non era stato contestato un anticipatory breach e l’azione era stata esercitata solo dopo l’inutile scadenza del termine fissato per la stipula del contratto definitivo e cioè in un momento in cui anche il termine di pagamento era scaduto. Di conseguenza, in quel caso, ai sensi dell’art. 2932, comma 2, c.c., il pagamento o almeno l’offerta formale di esso doveva ritenersi senz’altro necessaria (18). Al contrario, il dato peculiare della vicenda ora in esame era rappresentato proprio dal- (15) Il leading case britannico in punto di anticipatory breach è Hochster v De La Tour (1853), 2 El & BI, 678, spec. 689-690; M. Mustill, The Golden Victory: Some Reflections (2008), 124, Law Quarterly Review 503, e, più in generale, del medesimo Autore, Anticipatory breach, Butterwoth Lectures 1989-1990 (1990); v. altresì, anche per la connessione con il tema della buona fede, v. J. Beatson - D. Friedmann, Good Faith and fault in Contract Law, Oxford, 497 ss. Sull’anticipatory breach, nel diritto nordamericano, J.D. Calamari e J.M. Perillo, Contracts, III ed., St. Paul, Minn., 1987, 521 ss., che a fondamento dell’istituto, richiamano, al pari della pronuncia qui in esame, i doveri di cooperazione, osservando che “it could be argued that a repudiation may constitute a breach of a duty of cooperation even before any performance in due”. Ancora con riguardo al diritto nordamericano, rispetto al caso di specie, è peraltro interessante ricordare che il primo Restatement of Contracts, § 318, qualificava in termini di “anticipatory repudiation” sia la dichiarazione di non voler adempiere, sia il comportamento consistente nel “transferring or contracting to transfer to a third person an interest in specific land, goods or in any other thing essential for the substantial performance of his contractual duties”, che è appunto il caso di specie. Similmente, oggi, nel secondo Restatement, dispone il § 250. (16) In questo senso, v. ancora J.D. Calamari - J.M. Perillo, Contracts, III ed., St. Paul, Minn., 1987, 521 ss., dove si insiste, tra l’altro, sulla razionalità economica della figura. (17) Il tema dell’interpretazione del contratto è stato di recente trattato da A. Gentili, Senso e consenso (Storia, teoria e tecnica dell’interpretazione dei contratti), I e II, Torino, 2015, al quale si rinvia anche per la - sconfinata - bibliografia in argomento ed i necessari riferimenti di giurisprudenza. (18) Il riferimento è a Cass. 13 dicembre 2007, n. 26226, in Contratti, 2008, 665, con nota di A. Barba, che afferma il seguente principio di diritto: “[i] n tema di contratto preliminare, ai fini dell’accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. è sufficiente la semplice offerta non formale di esecuzione della prestazione in qualsiasi forma idonea a manifestare la relativa volontà soltanto se le parti abbiano previsto il pagamento del prezzo, o del residuo prezzo, contestualmente alla stipula del contratto definitivo. Se, invece, il pagamento del prezzo o di una parte di esso deve precedere la stipulazione del contratto definitivo, la parte è obbligata, alla scadenza del previsto termine, anche se non coincidente con quella prevista per la stipulazione del contratto definitivo, al pagamento, da eseguirsi nel domicilio del creditore o da offrirsi formalmente nei modi previsti dalla legge, non sussistendo a criteri di comune buon senso, dall’altro, a sdrammatizzare la differenza dei sistemi latini rispetto ad altri che hanno minore familiarità con la buona fede, ma che conoscono rimedi - i c.d. “equivalenti funzionali” - comunque idonei a giustificare il raggiungimento delle medesime soluzioni (15). Dalla cultura anglosassone viene peraltro opportunamente valorizzata la razionalità economica dell’istituto, che normalmente consente al creditore di limitare i danni e quindi rifluisce in favore dello stesso debitore, che quel danno sarebbe costretto a risarcire (16), a conferma della pluralità di ragioni che giustificano il ricorso alla figura. Termine del pagamento, interpretazione letterale del contratto e interpretazione di buona fede 1526 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile l’esercizio “anticipato” dell’azione volta all’esecuzione forzata in forma specifica del contratto preliminare, tale per cui anche il termine di pagamento della prima rata, benché fissato ad una scadenza anteriore rispetto al trasferimento della proprietà, non era scaduto e la soluzione più rigorosa non poteva accogliersi, appunto in quanto, ai sensi dell’art. 2932, comma 2, c.c. il pagamento non poteva ritenersi esigibile. Le implicazioni della soluzione accolta sono evidenti: l’inadempimento ‘anticipato’ ha operato nel senso di rendere immediatamente esigibile la prestazione a carico della parte inadempiente e questo spiega perché, alla parte non inadempiente, sia stato possibile promuovere, prima della scadenza, l’azione di esecuzione forzata in forma specifica, trascrivendo la relativa domanda. Tuttavia - e questo è l’aspetto che ora interessa sottolineare - l’immediata esigibilità di una delle due prestazioni sinallagmatiche (quella a carico della parte inadempiente) non è valsa a rendere immediatamente esigibile anche l’altra (quella a carico della parte adempiente) ed è per questo che un’offerta seria, ma non formale, è stata ritenuta sufficiente a giustificare l’accoglimento della domanda in relazione all’art. 2932, comma 2, c.c. In altri termini, l’inadempimento anticipato ha comportato l’immediata esigibilità della sola prestazione a carico della parte inadempiente, fermo il termine originario di adempimento per l’altra. Si è prodotta così, inevitabilmente, un’alterazione dell’originario sinallagma a danno della parte inadempiente, in favore di quella adempiente: mentre quest’ultima avrebbe dovuto versare una rata del prezzo prima del trasferimento della proprietà, l’inadempimento anticipato ha consentito di esercitare l’azione di esecuzione forzata in forma specifica prima del termine e quindi senza che l’obbligazione di pagamento fosse esigibile. Rispetto alle norme prima richiamate, il fenomeno più simile è quello disciplinato dall’art. 1186 c.c.: la norma consente al creditore di beneficiare di una modifica migliorativa rispetto alla disciplina originaria del rapporto, finalizzata a riequilibrare la situazione di oggettivo svantaggio nel quale l’insolvenza del debitore o la diminuzione delle garanzie lo ha posto. Quest’ultima disposizione, tuttavia, è tratta dalla disciplina dell’obbligazione in generale e dunque prescinde dalla natura eventualmente sinallagmatica del rapporto, ma è chiaro che - nel contesto di un rapporto a prestazioni corrispettive ed in presenza di un’azione di adempimento (19) qualsiasi meccanismo di decadenza dal termine a carico di una sola parte comporta l’alterazione dell’originario sinallagma in punto di esigibilità delle rispettive prestazioni di cui si diceva. Dell’intero discorso relativo all’inadempimento anticipato e all’operatività che esso può trovare in relazione all’azione disciplinata dall’art. 2932 c.c., questo è forse l’aspetto più critico: il sistema della tutela del creditore tende ad evitare che l’inadempimento comporti conseguenze negative a suo carico, prevenendo il danno o ripristinando, in forma specifica o per equivalente, la situazione originaria; mentre la decadenza dal termine di una sola parte, nel contesto di un rapporto sinallagmatico, sembra andare oltre, assicurando al creditore un vantaggio differenziale, rappresentato appunto dalla possibilità di esonerarsi dalla necessità di un’offerta reale per la quota del prezzo che avrebbe dovuto essere versata prima del trasferimento della proprietà (20). Tuttavia, se è vero che, in ipotesi di azione di adempimento esercitata prima della scadenza, l’inadempimento anticipato può operare comportando uno squilibrio dell’originario sinallagma in punto di esigibilità delle rispettive prestazioni, non è vero che l’inadempimento anticipato debba necessariamente operare determinando questo effetto: in tale ipotesi nessuna ragione che giustifichi la sufficienza dell’offerta informale; in caso contrario, colui che è tenuto al pagamento è da considerarsi inadempiente e non può ottenere il trasferimento del diritto, ove la controparte sollevi l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c.”. (19) Il problema, invece, non si avverte nell’ipotesi in cui all’inadempimento anticipato consegua l’azione di risoluzione: l’immediato esercizio dell’azione di risoluzione consente senz’altro alla parte attrice di non adempiere la propria prestazione e di attivare tutti i rimedi utili alle restituzioni ed al risarcimento del danno; ma non implica un’alterazione dei rispettivi termini di adempimento delle prestazioni originariamente fissati a carico delle due parti. È questa l’ottica in cui l’inadempimento anticipato è stato esaminato dalla nostra dottrina: v., ad esempio, V. Putortì, Inadempimento e risoluzione anticipata del contratto, cit., 16 ss., 241 ss. Si noti che anche Cass. 21 dicembre 2012, n. 23823, e cioè il precedente che si era occupato di un caso di anticipatory breach, si era trovato alla prese con un’azione di risoluzione e non con un’azione di adempimento. (20) Sembra in effetti discutibile - e probabilmente inopportuno - che l’inadempimento possa arrecare, al creditore, un vantaggio: se è vero che quest’ultimo non deve in nessun caso risultare danneggiato, riconoscergli un qualche vantaggio può incoraggiarlo ad abbandonare l’originario programma contrattuale ed agire in modo eventualmente strumentale. È questo, probabilmente, uno dei motivi per cui la dottrina e la giurisprudenza italiana sono tradizionalmente caute sull’anticipatory breach. il Corriere giuridico 12/2015 1527 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile almeno in astratto, il giudice ha la possibilità di ricorrere all’inadempimento anticipato e tuttavia rimediare al vantaggio differenziale acquisito dalla parte non inadempiente; altro è se, in concreto, nel caso ora in esame, fosse o meno necessario farlo nel contesto di un decisione improntata alla buona fede. Come subito si vedrà, ferma l’astratta possibilità di rimediare al vantaggio differenziale, la Corte di legittimità ha preferito non farlo, ritenendo che il caso di specie giustificasse la concreta soluzione accolta. Quanto al primo aspetto, una soluzione utile a correggere il vantaggio differenziale acquisito dalla parte non inadempiente, avrebbe potuto essere raggiunta ricorrendo nuovamente alla buona fede e interpretando il contratto ai sensi dell’art. 1366 c.c., in modo da valorizzare la previsione contrattuale che disponeva il pagamento prima del trasferimento della proprietà (e che pertanto avrebbe comportato la necessità del pagamento o dell’offerta reale prima della notifica dell’atto introduttivo e della sua relativa trascrizione). In altre parole, il termine del 30 ottobre avrebbe potuto essere inteso non come rilevante in sé e per sé, alla stregua di un termine ‘fisso’, bensì alla stregua di un termine ‘mobile’, come momento immediatamente precedente alla data stabilita per il trasferimento della proprietà, indicata nel successivo 31 ottobre (21). Il ricorso all’art. 1366 c.c. poteva consentire un risultato di questo tipo appunto in quanto, tra le sue funzioni, è la correzione degli squilibri tra i diritti e gli obblighi delle parti, che nel caso di specie attenevano al momento di esigibilità di prestazioni sinallagmatiche: l’esigibilità era stata programmata in momenti diversi, di modo che l’esecuzione di una delle due prestazioni fosse anticipata rispetto all’altra e questo rapporto tra i due diversi momenti di esigibilità poteva comunque essere salvaguardato, qualificando come esigibile una prestazione che, in base alla lettera del contratto, non lo era ancora, ma poteva essere considerata tale in ragione dell’originaria pattuizione secondo cui quel pagamento andava eseguito prima del trasferimento della proprietà (e dunque, in relazione all’art. 2932, comma 2, c.c., prima del momento in cui l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c. venisse instaurata e la relativa domanda trascritta). Per meglio convincersi della concreta possibilità di intervenire su questo aspetto, conviene tornare all’operazione compiuta dalla Corte nella prima parte della decisione, laddove, in assenza di una norma positiva adeguata al caso, si è dato spazio alla buona fede, ritenendo che il richiamo ad essa consentisse di aggiungere un’ipotesi di decadenza dal termine all’art. 1186 c.c. ovvero di prescindere dai presupposti applicativi dell’art. 1219, comma 2, n. 2, c.c. Su questa premessa - sulla premessa, cioè, che il richiamo alla clausola generale valga a integrare o in una certa misura a correggere il dato legislativo positivo (ritenendo, ad esempio, sufficiente il comportamento materiale laddove sia invece richiesta una dichiarazione scritta) - è tuttavia difficile ritenere che un’uguale possibilità non sussista anche rispetto alle singole clausole di un contratto: a parte la possibilità di un generalissimo richiamo all’art. 1175 c.c., vale, e l’interprete è chiamato a considerare, il richiamo alla buona fede operato dall’art. 1366 c.c. Quest’ultima disposizione continua tuttavia a rimanere sostanzialmente disapplicata anche in una fase in cui la giurisprudenza di legittimità tende ad un più frequente ricorso alle clausole generali (22), (21) La contrapposizione tra rinvio “fisso” e “mobile”, è nota segnatamente nel caso in cui le parti richiamino il disposto di una norma di legge, poi abrogata e sostituita da una norma diversa: si tratta in quel caso di stabilire se le parti abbiano inteso far riferimento al primo testo, nel suo preciso contenuto (rinvio “fisso”) ovvero al contenuto della legge e quindi ad un contenuto capace di variare al variare della legge (rinvio “mobile”). Nella nostra giurisprudenza, su questa contrapposizione, v., ad es., Cass. 8 febbraio 2012, n. 1762; Cass. 4 febbraio 2004, n. 2111. La medesima contrapposizione è invece meno nota quando le parti, come è accaduto nel caso di specie, richiamino una data o un termine e si tratti di comprendere se la precisa fissazione della data o del termine abbia un valore in quanto tale ovvero si giustifichi in ragione della complessiva pianificazione dell’affare e quindi possa eventualmente variare al variare di altre circostanze: per un caso di questa natura, v. Cass. 7 agosto 2003, n. 11921 (in un caso relativo ad un contratto di lavoro a termine, in cui il termine del rapporto era stato indicato per relationem, secondo un criterio ‘mobile’); tra gli altri casi di giurisprudenza in cui l’interpretazione del contratto si incentra sul termine di esecuzione di determinate prestazio- ni, si veda Cass. 7 agosto 2006, n. 11921, con riguardo all’interpretazione di una convenzione urbanistica ed al termine di esecuzione delle opere di urbanizzazione (da intendere non in modo letterale, ma in relazione al complessivo sviluppo del programma edilizio); Cass. 4 novembre 2005, n. 21396, con riguardo al termine di efficacia della fideiussione (da intendere non in modo letterale, ma in relazione alle vicende delle obbligazioni garantite); Cass. 9 giugno 2004, n. 10968, con riguardo ad un contratto di assicurazione (nella specie, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito avesse fatto corretta applicazione dei criteri di ermeneutica in un contratto di assicurazione relativo a merce da spedirsi, interpretando la clausola da “magazzino a magazzino”, indicata nei capitolari inglesi come transit clause, nel senso che le parti con essa avessero voluto ampliare il periodo assicurativo, facendone decorrere l’inizio dal momento in cui la merce veniva prelevata dal deposito e stabilendone il termine finale nel momento del deposito nel luogo di arrivo). (22) Sulla scarsa considerazione dell’art. 1366 c.c. da parte della nostra giurisprudenza, v., di recente, A. Gentili, Senso e consenso, cit., II, 441, secondo cui la buona fede “resta nell’u- 1528 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile quasi che l’integrazione o la correzione del dato legislativo comporti minore difficoltà o imbarazzo rispetto all’integrazione o alla correzione del testo del contratto (23). Tuttavia, nel caso della pronuncia in esame, che ha fatto un’applicazione della buona fede sicuramente felice nella soluzione della prima questione oggetto del giudizio, non devono essere stati questi pregiudizi a comportare la preferenza per l’interpretazione letterale. Devono invece essere risultate decisive le peculiarità del caso di specie, in cui - attesa l’infungibilità del bene oggetto del contratto - l’immediato esperimento dell’azione era indispensabile ad assicurare l’utile esercizio di essa e tuttavia dalla parte adempiente non poteva pretendersi l’immediata disponibilità di un importo di denaro il cui esborso era stato programmato in un momento temporale diverso. La soluzione finale ha dunque il pregio di sottolineare che l’interpretazione maggiormente legata alla lettera del contratto può risultare maggiormente conforme alla buona fede rispetto a quella orientata invece a correggerne il dato letterale. E ciò conferma che - nel contesto di un rapporto sinallagmatico - il ricorso alla figura dell’inadempimento anticipato può implicare anche uno squilibrio dell’originario sinallagma in punto di esigibilità delle rispettive prestazioni, quando le circostanze del caso, e le concrete dinamiche dell’operazione economica programmata dalle parti, giustifichino una soluzione di questa natura. Nel caso di specie, l’inadempimento anticipato doveva necessariamente comportare, secondo buona fede, l’anticipo del solo termine a carico del venditore, non potendosi pretendere in anticipo una prestazione non preventivamente programmata. Non è escluso, tuttavia, so giurisprudenziale fino ad epoca recente un criterio trascurato e comunque sussidiario. La giurisprudenza dei primi decenni dalla promulgazione ne usava poca e con cautela spinta al sospetto” e lo stesso A. sottolinea che ancora oggi le sentenze che risolvono un caso direttamente attraverso l’applicazione dell’art. 1366 c.c. sono effettivamente pochissime. È vero, peraltro, che il criterio dell’interpretazione secondo buona fede ha trovato scarsa fortuna anche in Germania, dove pure la giurisprudenza ha costruito un mirabile sistema di regole intorno alla clausola generale di buona fede dettata dal § 242 B.G.B., che rappresenta una norma sostanzialmente corrispondente al nostro art. 1375 c.c., in punto di esecuzione del contratto secondo buona fede, ma ha trascurato il § 157 B.G.B., che dell’art. 1366 c.c. rappresenta il modello, trattandosi della prima disposizione che estende l’operatività della buona fede dal momento dell’esecuzione (in questo senso l’art. 1134, comma 2 del codice napoleonico e, poi, l’art. 1124 del codice italiano del 1865) a quello dell’interpretazione. Come si diceva, anche in Germania i casi risolti attraverso l’interpretazione del contratto secondo buona fede sono relativamente scarsi (v., su questo aspetto, F. Astone, sub art. 1366, in Commentario del Codice Civile, diretto da E. Gabrielli, Dei contratti in generale, a cura di E. Navarretta - A. Orestano, artt. 1350-1386, **, Torino, 2011, 521, nt. 49) e, sulle ragioni per cui la giurisprudenza non sarebbe riuscita a ricavare dall’art. 1366 c.c. sviluppi particolarmente interessanti, R. Sacco, L’interpretazione, in R. Sacco G. De Nova, Il contratto, in R. Sacco (dir.), Tratt. dir. civ., 408 (dove si spiega che il legislatore avrebbe già recepito in norme di legge, quali l’art. 1362, comma 2, e l’art. 1370 c.c., le applicazioni generate dalla buona fede a livello interpretativo e non ne avrebbe ancora individuate altre). (23) Probabilmente, l’interpretazione del contratto è ancora dominata da un’esigenza di rispetto della privata volontà che spesso tende a ridursi al pedissequo rispetto della lettera o del numero, sul presupposto della sacralità del testo contrattuale, mentre è possibile che proprio il rispetto della volontà richieda la correzione della lettera o del numero. Sia ancora consentito rinviare a F. Astone, sub art. 1366, in Commentario, cit., 502 ss., dove si osserva che, sotto questo profilo, l’assoluta priorità riconosciuta all’interpretazione letterale e la pratica irrilevanza della buona fede trovano una giustificazione unitaria nell’idea secondo cui, laddove la volontà delle parti sia comunque ricostruibile dalle parole utilizzate, il ricorso a qualsiasi diverso criterio finirebbe per sovrapporre l’opinione del giudice a quanto liberamente stabilito dalle parti: è per questo che le parole - in quanto espressione della volontà delle parti - sono di norma ri- tenute “chiare”, anche quando è “chiaro” (sia consentito il gioco di parole) che non lo sono, mentre la buona fede - in quanto veicolo dell’intervento giudiziale - trova limitatissima applicazione. Come efficacemente scrive V. Calderai, La teoria classica dell’interpretazione dei contratti. Origini, fortuna e crisi di un paradigma dogmatico, in Diritto privato, 2001-2002, 343 ss., spec. 352, la chiarezza del testo contrattuale è una nozione vaga, affidata al prudente apprezzamento del giudice: “la giurisprudenza approfitta di questa libertà e nove volte su dieci giudica l’esame della dichiarazione elemento necessario e sufficiente a far presumere la comune intenzione”. In giurisprudenza, la giustificazione della priorità del criterio dell’interpretazione letterale in ragione del pericolo di una possibile sovrapposizione della volontà dell’interprete alla volontà delle parti, si trova per esempio affermato in Cass. 13 dicembre 1986, n. 7496, dove si precisa che: “[n]ella ricerca della comune intenzione delle parti contraenti, il primo e principale strumento dell’operazione interpretativa è costituito dalle parole ed espressioni del contratto e, qualora queste siano chiare e dimostrino una loro intima ratio, il giudice non può ricercarne una diversa, venendo così a sovrapporre la propria soggettiva opinione all’effettiva volontà dei contraenti”. In altre parole, finché le parti rimangono nei limiti dell’autonomia loro riconosciuta dal sistema, e il loro consenso non sia in qualsiasi modo viziato o invalido, l’ordinamento non autorizza alcun intervento sulla composizione d’interessi da loro stessi realizzata. Affermazioni d’identico o simile contenuto si leggono in Cass. 9 aprile 1987, n. 3480; Cass. 18 aprile 1984, n. 2525; Cass. 15 ottobre 1975, n. 3346, in Giur. agr. it., 1978, 360; Cass. 11 maggio 1971, n. 1341; Cass. 14 febbraio 1956, n. 419; Cass. 17 novembre 1954, n. 4249. In dottrina, si può ancora ricordare la posizione di F. Carresi, Dell’interpretazione del contratto, art. 1362-1371, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1992, 109, secondo cui i criteri d’interpretazione oggettiva, e l’art. 1366 in particolare, possono trovare applicazione solo se e qualora appaia verosimile che la comune intenzione delle parti fosse proprio quella che risulterebbe dalla loro applicazione al caso controverso: l’ordinamento non potrà infatti “mai imporre (o attribuire al giudice il potere di imporre) alle parti una volontà che esse non hanno manifestato o che non sarebbe comunque ragionevole imputare loro”. Il medesimo aspetto del problema si ritrova anche in R. Sacco, L’interpretazione, cit., 410: “bisogna resistere alla tentazione di vedere il criterio ermeneutico intitolato alla buona fede come una norma dirompente, in collisione potenziale con l’autonomia delle parti, cui esso sovrapporrebbe un’etica desunta dall’economia prediletta dall’interprete”. il Corriere giuridico 12/2015 1529 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile che in situazioni diverse possano essere raggiunte soluzioni diverse. Conclusioni La critica alle clausole generali si è spesso incentrata sui rischi ricollegabili ad un loro utilizzo eccessivamente disinvolto, poco rispettoso della volontà delle parti e dello stesso equilibrio economico tra loro pattuito: sono questi gli inconvenienti prodotti - per ripetere qui celebri formule - dalla fuga ‘nelle’ clausole generali, cui la fuga ‘dalle’ clausole generali ha cercato di ovviare. Le clausole generali sono in effetti uno strumento di grande forza nelle mani del giudice che, ricorrendo ad esse, può integrare o correggere il diritto positivo, capovolgendo la soluzione delle liti che quest’ultimo parrebbe suggerire e ponendosi alla stregua di una contro-regola di matrice giurisprudenziale. La pronuncia in esame conferma tuttavia, insieme alla forza delle clausole generali, quanto utile possa essere il ricorso ad esse: l’anticipatory breach è una costruzione che il diritto positivo non giustifica e sembra anzi escludere, tendendo inevitabilmente a fondarsi su elenchi di ipotesi definite (art 1186 c.c.) ed a prescrizioni di forma assolutamente ragionevoli nella larga maggioranza di casi (art. 1219, comma 2, c.c.); la buona fede invece ne consente la configurazione ed essa si dimostra di sicura utilità ed anche di sicura razionalità economica, capace com’è di assicurare di regola un risparmio di costi allo stesso debitore. Affidate a giudici ragionevoli ed equilibrati, le clausole generali sono dunque uno strumento irrinunciabile e di questo si mostra del resto consapevole anche la contemporanea esperienza del diritto privato europeo, che in esse ripone ampia fiducia (24). Si è però cercato di sottolineare che, nonostante il sicuro interesse di questo aspetto, esso non sia (24) Sulla centralità della clausola generale di buona fede nel contesto europeo si rinvengono valutazioni unanimi e non sembra necessario insistere: basti considerare il trattamento che la buona fede riceve nei progetti di codificazione, che inevitabilmente rispecchiano le convenzioni dei redattori (ad esempio, sulla necessaria centralità della buona fede in un futuro codice europeo, O. Lando, Optional or Mandatory Europeanisation of Contract Law, in Eur. Rev. Priv. Law, 2000, 59 ss., 66-67); in dottrina, sottolineano il ruolo della buona fede in questi progetti e nel diritto privato europeo in generale, tra gli altri, F. Ranieri, Il principio generale di buona fede, in C. Castronovo - S. Mazzamuto (a cura di), Manuale di diritto privato europeo, II, Milano, 2007, 495; S. Grundmann, D. Mazeaud, Pre- 1530 forse quello principale: maggiore rilievo ancora presenta - proprio da parte di giudici propensi a ricorrere alle clausole generali - la difesa dell’interpretazione letterale, funzionale in realtà a riequilibrare la situazione di svantaggio in cui la parte adempiente era venuta a trovarsi, consentendogli di trarre dall’anticipatory breach il vantaggio dell’immediato esercizio dell’azione, senza tuttavia onerarla dell’immediata offerta formale della parte del prezzo che avrebbe dovuto essere versata prima del trasferimento della proprietà. Si dimostra, così, che - al pari della scelta di ricorrere alle clausole generali - anche la scelta di non ricorrere alle clausole generali ha implicazioni estremamente rilevanti nella definizione dell’assetto di interessi imposto alle parti. E se è vero che il ricorso alle clausole generali può mascherare il tentativo di incidere sull’assetto di interessi programmato dalle parti, anche non ricorrere alle clausole generali, fermandosi al dato meramente letterale, può incidere sull’equilibrio del rapporto allo stesso modo. In altri termini, nessuna tecnica interpretativa è neutrale e certamente non lo è l’interpretazione letterale, anch’essa funzionale a raggiungere il risultato ritenuto ottimale dal giudice chiamato a decidere. Dunque, l’interprete ha sempre un ruolo: ha un ruolo quando ricorre alle clausole generali ed è sicuro che, storicamente, le clausole generali abbiano rappresentato uno strumento privilegiato per esercitarlo; ma è illusorio pensare che quando non si ricorra ad esse, e tutto si affidi al dato letterale, l’interprete si limiti a dichiarare la pura e semplice volontà delle parti: la rilevanza della fattispecie e le ragioni equitative che ad essa possono risultare sottese risultano sempre e comunque decisive. face, in Grundmann-Mazeaud (a cura di), General Clauses and Standards in European Contract Law, The Hague, 2007, XI; C. Castronovo, Un contratto per l’Europa (Prefazione all’edizione italiana dei Principi di Diritto Europeo dei Contratti), Milano, 2001, XIII ss., spec. XXI ss. e XXX ss.; Zimmermann, Whittaker (editors), Good faith in European Contract Law, Cambridge, 2003, 8 ss.; una posizione più problematica sull’opportunità di recepire la buona fede nel diritto scritto, ferma la sua operatività nel diritto non scritto, si legge in Hesselink M.W., The concept of good faith, in Hartlamp, Hondius, Hesselink, du Peron C.E. & Veldman (editors), Towards a European Civil code, Boston & London, 2004, 285. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile Legittimazione del condominio ad agire per l’equa riparazione Cassazione Civile, SS.UU., 18 settembre 2014, n. 19663 - Pres. Rovelli - Rel. San Giorgio P.M. Piccolo (conf.) - M.A., M.M., M.B. (avv. Scancarello) c. Ministro della giustizia (Avvocatura generale dello Stato) In caso di violazione del termine ragionevole del processo, qualora il giudizio sia stato promosso dal condominio, sebbene a tutela di diritti connessi alla partecipazione di singoli condomini, ma senza che costoro siano stati parte in causa, la legittimazione ad agire per l’equa riparazione spetta esclusivamente al condominio, quale autonomo soggetto giuridico, in persona dell’amministratore, autorizzato dall’assemblea dei condomini. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass., I Sez., 11 dicembre 2009, n. 25981; Cass., Sez. I, 1° dicembre 2011, n. 25730; Cass., Sez. VI, 4 giugno 2013, n. 13986. Difforme Cass., Sez. I, 23 ottobre 2009, n. 22558; Cass., Sez. I, 14 ottobre 2011, n. 21322 e Cass., Sez. I, 17 ottobre 2011, n. 21461. La Corte (omissis). Considerato in diritto 1. - Il ricorso pone la questione relativa alla legittimazione dei singoli condomini ad agire in giudizio per far valere il diritto alla equa riparazione per la durata irragionevole del processo presupposto intentato dal Condominio, in persona dell’amministratore, del quale i condomini stessi non siano stati parti. 1.1. - Al riguardo, l’ordinanza interlocutoria n. 21062/2012 rileva che questa Corte, con sentenze della I sezione civile n. 22558 del 23 ottobre 2009, n. 21322 del 14 ottobre 2011 e n. 21461 del 17 ottobre 2011, nell’affermare il difetto di potere rappresentativo in capo all’amministratore del condominio in ordine al diritto fatto valere in giudizio concernente l’equo indennizzo ai sensi della L. n. 89 del 2001, ha osservato, anzitutto, che il condominio è privo di personalità giuridica in quanto unicamente ente di gestione delle cose comuni e l’amministratore può agire in virtù della sola delibera assembleare anche non totalitaria a tutela della gestione delle stesse mentre, per quanto concerne i diritti che i condomini vantano unicamente uti singuli, è necessario lo specifico mandato da parte di tutti i condomini (mandato che, nella fattispecie oggetto dell’allora cognizione, è risultato essere insussistente). In base a siffatta premessa si è quindi ritenuto non esservi dubbio sul fatto che il diritto all’equo indennizzo per la irragionevole durata di un processo non spetti all’ente condominiale, che è preposto unicamente alla gestione della cosa comune, in quanto l’eventuale patema d’animo conseguente alla pendenza del processo incide unicamente sui condomini che quindi sono titolari uti singuli del diritto a risarcimento. 1.2. - Si tratta di indirizzo che, al fondo, è permeato dei contenuti di quella giurisprudenza che ha avuto modo di affermare che nel condominio di edifici, che costituisce un ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, l’esistenza dell’organo il Corriere giuridico 12/2015 rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, né, quindi, del potere di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti del condominio (v., tra le altre, Cass., 4 luglio 2001, n. 9033; si veda anche Cass., 16 maggio 2002, n. 7119, per cui il singolo condomino deve sempre considerarsi parte nella controversia tra il Condominio e altri soggetti, anche se rappresentato ex mandato dell’amministratore: principio, codesto, enunciato, significativamente, in una controversia tra un Condominio ed un soggetto che asseriva di aver svolto attività di portiere, essendosi riconosciuto, ai fini della competenza territoriale ex art. 30-bis c.p.c., come “parte” nel processo un giudice condomino del suddetto Condominio). Tuttavia, precisa la predetta ordinanza interlocutoria, detto orientamento trova specificazione nella posizione, anch’essa fatta propria da una consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass., 4 maggio 2005, n. 9213; Cass., 19 ottobre 2010, n. 21444; Cass., 21 settembre 2011, n. 19223), secondo cui il principio di diritto anzidetto non trova applicazione relativamente alle controversie che, avendo ad oggetto non diritti su un servizio comune ma la sua gestione, sono intese a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale o l’esazione delle somme dovute in relazione a tale gestione da ciascun condomino; pertanto, poiché in tali controversie non vi è correlazione immediata con l’interesse esclusivo di uno o più partecipanti, bensì con un interesse direttamente collettivo e solo mediatamente individuale a funzionamento e al finanziamento corretti dei servizi stessi, la legittimazione ad agire e ad impugnare spetta esclusivamente all’amministratore, sicché la mancata impugnazione della sentenza da parte di quest’ultimo esclude la possibilità per il condomino di impugnarla. 1531 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile 1.3. - L’enunciato principio di esclusività della titolarità del diritto all’equa riparazione in capo ai condomini uti singoli è contrastato da altro indirizzo, che invece ammette la legittimazione del Condominio ad agire in base alla L. n. 89 del 2001. Di siffatto ultimo indirizzo (in relazione alla fattispecie propria del Condominio) sono espressione, segnatamente, Cass., 18 febbraio 2005, n. 3396, Cass., 24 novembre 2005, n. 24841 e Cass., 17 aprile 2008, n. 10084, le quali adducono a sostegno della propria tesi la posizione assunta dalla giurisprudenza della Corte EDU (si veda, in particolare, sebbene in dette pronunce non sia esplicitamente citata, la sentenza Comingersoll SA c. Portugal, del 6 aprile 2000, secondo cui “anche per le persone giuridiche (e, più in generale, per i soggetti collettivi) il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è ..., e non diversamente da quanto avviene per gli individui persone fisiche, conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri”. La richiamata ordinanza interlocutoria precisa, peraltro, che la citata Cass. n. 10084 del 2008 (seguita poi da Cass., 11 dicembre 2009, n. 25981) esclude che in capo all’amministratore del Condominio, in difetto di mandato assembleare, sussista il potere di intraprendere azioni non conservative quale quella relativa al diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, il quale è “ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6 della Convenzione CEDU, e cioè di un evento autonomo e diverso da quello oggetto del giudizio presupposto, ex se lesivo di un diritto della persona alla definizione di detti procedimenti in una durata ragionevole, ed avente per oggetto un indennizzo per il pregiudizio sofferto dal soggetto per il periodo eccedente tale durata”. 1.4. - Il principio della spettanza ai soggetti collettivi del danno non patrimoniale da durata irragionevole del giudizio si è andato consolidando nella giurisprudenza di questa Corte con specifico riferimento alle società, sia di capitali (Cass., 22 dicembre 2004, n. 23789; Cass., 23 agosto 2005, n. 17111; Cass., 12 luglio 2011, n. 15250; Cass., 8 maggio 2012, n. 7024), che di persone (Cass., 10 aprile 2003, n. 5664; Cass. 30 settembre 2004, n. 19647; Cass., 16 febbraio 2005, n. 3118; Cass., 2 febbraio 2007, n. 2246; Cass., 14 maggio 2010, n. 11761). La medesima giurisprudenza appena richiamata ha, peraltro, puntualizzato che il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dall’art. 6, p. 1, della Convenzione, specificamente richiamato dall’art. 2 L. n. 89 del 2001, solo con riferimento alle cause “proprie” e, quindi, esclusivamente in favore delle “parti” della causa nel cui ambito si assume avvenuta la violazione e non anche di soggetti che siano ad essa rimasti estranei, essendo irrilevante, ai fini della legittimazione, che questi ultimi possano aver patito indirettamente dei danni dal protrarsi del processo; 1532 ciò al fine di escludere detto diritto in capo ai soci che non siano stati parti del giudizio al quale abbia partecipato soltanto la società (di capitali o di persone). 1.5. - Analoga affermazione di principio ha regolato fattispecie diverse dalle anzidette, ma che presentavano la comune peculiarità della richiesta del danno non patrimoniale da parte di soggetto non altrimenti partecipe al giudizio presupposto; trattasi, segnatamente, del caso dell’erede che voglia far valere iure proprio il diritto all’indennizzo per irragionevole durata del giudizio presupposto intentato dal dante causa, che può conseguire “soltanto per il superamento della predetta durata verificatosi con decorrenza dal momento in cui, con la costituzione in giudizio, ha assunto a sua volta la qualità di parte; non assume, infatti, alcun rilievo, a tal fine, la continuità della sua posizione processuale rispetto a quella del dante causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., in quanto il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001 non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparazione a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito, il quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione” (Cass., 23 giugno 2011, n. 13803; Cass., 4 novembre 2009, n. 23416; Cass., 7 febbraio 2008, n. 2983; Cass., 13 dicembre 2006, n. 26686). Analogamente è da dirsi quanto alla posizione della persona offesa dal reato, che “al fine di conseguire il risarcimento del danno, si sia costituita parte civile nel processo penale, ha diritto alla ragionevole durata del processo, con le connesse conseguenze indennitarie in caso di violazione, soltanto dal momento di detta costituzione, mentre non rileva la precedente durata del procedimento” (Cass., 3 aprile 2012, n. 5294; Cass., 29 aprile 2010, n. 10303; Cass., 10 febbraio 2006, n. 2969; Cass., 29 settembre 2005, n. 19032). Nella stessa ottica si colloca anche la posizione del minorenne, al quale spetta il danno non patrimoniale ex lege per la sua partecipazione al processo presupposto debitamente rappresentato, fino al momento della maggiore età, al raggiungimento della quale, avendo acquistato il libero esercizio dei propri diritti ed avendo la facoltà di costituirsi nel processo quale parte autonoma, lo stesso soggetto perde da tale momento detto diritto, ove a ciò non abbia provveduto (Cass., 23 maggio 2011, n. 11338). 2.1. - Secondo la concezione tradizionale, per condominio negli edifici dovrebbe intendersi sic et simpliciter la “proprietà comune” di alcune parti dell’edificio, poste a servizio di altre parti dell’edificio (i piani o le porzioni di piano: ossia, normalmente, gli appartamenti) e a queste ultime legate da un rapporto necessario e perpetuo di accessorietà e di complementarietà a senso unico. Così configurato, il condominio si risolve in una comunione meramente strumentale rispetto all’esercizio dei singoli diritti di proprietà esclusiva sui diversi appartamenti: i quali, dal canto loro, seguirebbero “un proprio destino individuale e autonomo”, al di fuori della disci- il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile plina speciale del condominio e in armonia con la definizione generale della proprietà come diritto di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo (art. 832 c.c.). In dottrina però si è delineata anche un’altra definizione, più ampia, di condominio negli edifici come “situazione mista, di comproprietà e di concorso di proprietà solitarie”: l’una legata alle altre da un intimo nesso di reciproca complementarietà e funzionalità. Con lo straordinario diffondersi del fenomeno, è emerso sempre più chiaramente che, se la comproprietà delle parti comuni dell’edificio è funzionale alle proprietà solitarie degli appartamenti, queste ultime a loro volta vanno incontro, nel loro esercizio da parte dei singoli condomini, a una serie di limiti diversi da quelli ricordati in termini generali dall’art. 832 c.c. e desumibili, direttamente o indirettamente, dai principi espressi dalla normativa speciale sul condominio: limiti che, così come sono stati enucleati in concreto dalla giurisprudenza, rispondono all’esigenza di rendere funzionale l’esercizio della proprietà sui singoli appartamenti con la destinazione delle parti comuni dell’edificio a una utilizzazione collettiva e conforme alle caratteristiche naturali dell’edificio stesso. Pertanto, secondo una parte della dottrina, il condominio si configura come una struttura organizzativa che riproduce, sia pure in embrione, il modello tipico delle associazioni, provvedendo a un’attività di gestione che, in quanto affidata a organi dotati ex lege di poteri essenzialmente inderogabili (art. 1138 c.c., comma 4), tende ad attribuire all’interesse del condominio una rilevanza oggettiva, distinguendolo dagli interessi soggettivi dei singoli condomini. 2.2. - Per evidenziare la tendenziale “oggettivizzazione” di un interesse proprio del condominio, la giurisprudenza suole definire quest’ultimo come “ente di gestione”, sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli partecipanti. La definizione, pur efficace, rischia però di ingenerare equivoci circa la possibilità di attribuire al condominio una soggettività paragonabile a quella correttamente ricollegata agli enti collettivi non riconosciuti come persone giuridiche. Un indirizzo minoritario della dottrina riconosce al condominio la personalità giuridica riconducendo il rapporto anzidetto nell’ambito del rapporto organico, e qualificando l’amministratore come un organo della collettività, munito di un potere di rappresentanza che discende dalla specifica funzione della quale è investito. Alla stregua di tale concezione l’ufficio dell’amministratore avrebbe carattere necessario con estensione della rappresentanza anche ai condomini dissenzienti e con facoltà di agire contro il mandante. Tale indirizzo ha ricevuto nuova linfa dalla legge di riforma del condominio (L. 11 dicembre 2012, n. 220, recante “Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici”). Infatti, se è pur vero che nel corso dei lavori preparatori di tale legge si era tentato senza successo di introdurre la previsione espressa del riconoscimento della personalità giuridica del condominio, e che l’art. 1139 c.c. rinvia, per quanto non espressamente previsto, alle norme in tema di comunione, per contro, è da il Corriere giuridico 12/2015 sottolineare l’obbligo dell’amministratore, posto dall’art. 1129, comma 12, n. 4, nella formulazione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 9 della citata L. n. 220 del 2012, di tenere distinta la gestione del patrimonio del condominio e il patrimonio personale suo o di altri condomini, così come la costituzione di un fondo speciale, prevista dall’art. 1135 c.c., n. 4, come sostituito dall’art. 13 della stessa legge, e, soprattutto, la previsione, di cui all’art. 2659 c.c., comma 1 come riformulato dall’art. 17 della legge stessa, in tema di note di trascrizione, secondo la quale, per i condomini è necessario indicare l’eventuale denominazione, l’ubicazione e il codice fiscale. Ebbene, se pure non è sufficiente che una pluralità di persone sia contitolare di beni destinati ad uno scopo perché sia configurabile la personalità giuridica (si pensi al patrimonio familiare o alla comunione tra coniugi), e se dalle altre disposizioni in tema di condominio non è desumibile il riconoscimento della personalità giuridica in favore dello stesso, riconoscimento dapprima voluto ma poi escluso in sede di stesura finale della L. n. 220 del 2012, tuttavia non possono ignorarsi gli elementi sopra indicati, che vanno nella direzione della progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pure attenuata personalità giuridica, e comunque sicuramente, in atto, di una soggettività giuridica autonoma. 3. - Dalla concezione del condominio come ente sprovvisto di personalità giuridica, discende la qualificazione dell’amministratore come mandatario, con conseguente configurabilità nel rapporto tra lo stesso ed i condomini di una rappresentanza volontaria conseguente ad un mandato collettivo. Nei limiti di tali attribuzioni, o dei maggiori poteri eventualmente conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, egli ha la “rappresentanza” dei condomini e può stare in giudizio sia per essi contro terzi sia contro alcuno di essi per tutti gli altri (art. 1131, commi 1 e 2). 3.1. - Ma la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che il singolo condomino debba sempre considerarsi parte nella controversia tra il condominio e altri soggetti, anche se rappresentato ex mandato dell’amministratore: ciò proprio nella prospettazione della mancanza di soggettività del condominio. Così, in una controversia tra un condominio ed un soggetto che asseriva di aver svolto attività di portiere, la Corte ha ritenuto, ai fini della competenza territoriale ex art. 30-bis c.p.c. “parte” nel processo un giudice condomino del suddetto condominio (Cass., sent. n. 7119 del o 2002). Si legge nella motivazione di Cass. sent. n. 9213 del 2005 che, essendo il condominio un ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire a difesa dei diritti connessi alla detta partecipazione, né, quindi, del potere di intervenire nel giudizio per il quale tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore del condominio e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti dell’amministratore stesso che non l’abbia impugnata. 1533 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile Tale principio, affermato in materia di controversie aventi ad oggetto azioni reali, incidenti sul diritto pro quota di ciascun condomino in ordine alle parti comuni, o lato sensu tali, od esclusivo sulla singola unità immobiliare, o anche personali, ove incidenti in maniera immediata e diretti sui loro diritti, non trova applicazione relativamente alle controversie aventi ad oggetto non i diritti su di un servizio comune, bensì la gestione di esso, ed intese, dunque, a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale, o l’esazione delle somme dovute in relazione a tale gestione da ciascun condomino, nelle quali non vi è correlazione immediata con l’interesse esclusivo d’uno o più partecipanti, bensì con un interesse direttamente collettivo e solo mediamente individuale al funzionamento ed al finanziamento corretti dei servizi stessi, onde in tali controversie la legittimazione ad agire e, quindi, anche ad impugnare, spetta in via esclusiva all’amministratore, la mancata impugnazione della sentenza da parte del quale esclude la possibilità d’impugnazione da parte del singolo condomino (cfr. Cass. civ., Sez. II, n. 6480 del 3 luglio 1998; n. 8257 del 29 agosto 1997). 3.2. - La predetta impostazione, che considera il condomino sempre parte nella controversia tra il condominio e gli altri soggetti entra in crisi ove ci soffermi sulla autonomia del condominio come centro di imputazione di interessi, di diritti e doveri, cui corrisponde una piena capacità processuale. In tal caso, infatti, se il condominio - e cioè l’amministratore sulla base della delibera autorizzativa dell’assemblea salvo che si tratti di azione collegata al potere del primo di esercitare gli atti conservativi sui beni di proprietà comune del condominio il singolo condomino può essere considerato “parte” in quel processo solo se vi intervenga. 4. - Per quanto concerne, poi, specificamente le controversie ex art. 2 L. n. 89 del 2001, deve aggiungersi che il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dall’art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, specificatamente richiamato dall’art. 2 L. n. 89 del 2001, solo in relazione alle cause proprie e quindi esclusivamente in favore delle parti della causa nel cui ambito si assume avvenuta la violazione e non anche in favore dei soggetti che siano ad essa rimasti estranei (v. Cass., sent. n. 23173 del 2012). Al riguardo, si è sottolineato che il pregiudizio risarcibile si ricollega non alla situazione soggettiva che costituisce l’oggetto del processo presupposto, ma alle sofferenze correlate alla protrazione ingiustificata dello stesso; in tale ambito appare imprenscindibile la partecipazione a tale causa, che, per altro, soprattutto nel giudizio civile, è sempre sorretta da un interesse non di mero fatto, ma giuridico, che sussiste anche in relazione al c.d. intervento adesivo o dipendente (Cass., sent. n. 23173, cit.). Secondo la dottrina la risarcibilità del danno morale resta ancorata saldamente alla qualità di parte processuale, pena la possibile duplicazione dei risarcimenti, come ritenuto da quella giurisprudenza che giudica irrilevante il disagio patito dai soci o dall’amministratore della società, 1534 anche se ai limitati effetti dell’accoglimento della ulteriore pretesa di indennizzo da questi azionata in proprio. Il che deve naturalmente valere anche per i soci delle società di persone le quali, pur essendo prive di personalità giuridica, costituiscono un autonomo centro di imputazione soggettiva di rapporti giuridici, anche agli effetti della Legge Pinto (v. Cass., sent. n. 3118 del 2005). 4.1.- Ne consegue che il singolo condominio non può essere ritenuto parte qualora sia rappresentato dall’amministratore. Sicché, posto che comunque, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 2 L. n. 89 del 2001, anche per le persone giuridiche e i soggetti collettivi il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è, non diversamente da quanto avviene per gli individui persone fisiche, conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri (v., ex plurimis, Cass., sent. n. 13986 del 2013), deve, perciò, da un lato, ammettersi la legittimazione del condominio ad agire in base alla legge, sia pure solo in presenza di mandato assembleare, non sussistendo in capo all’amministratore il potere di intraprendere azioni non conservative quale quella relativa al diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001. 4.2. - Per altro verso, ed in particolare per ciò che maggiormente rileva ai fini della soluzione della presente controversia, deve escludersi che il singolo condominio che non sia stato parte in senso formale nei processo presupposto sia legittimato ad agire per la equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo ex L. n. 89 del 2001. Siffatta soluzione è, del resto, coerente - come segnalato anche nella ordinanza interlocutoria n. 21062 del 2012 - con gli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità con riferimento al caso dell’erede che voglia far valere iure proprio il diritto all’indennizzo, in relazione al quale si è affermato che ciò può avvenire solo per il superamento della predetta durata verificatosi con decorrenza dal momento in cui, con la costituzione in giudizio, quegli abbia assunto a sua volta la qualità di parte, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la continuità della stessa posizione processuale rispetto a quella del dante causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., in quanto il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001 non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo ha ricevuto danni patrimoniali e non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione in relazione al concreto patema subito, che presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione (v. Cass., sent. n. 13803 del 2011). Analogo discorso deve farsi anche con riferimento alla posizione della persona offesa dal reato, che, al il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile fine di conseguire il risarcimento del danno, si sia costituita parte civile nel processo penale, e che ha diritto alla equa riparazione soltanto dal momento di detta costituzione, mentre non rileva la precedente durata del procedimento (Cass., sent. n. 5294 del 2012). Parimenti, al minorenne spetta il danno non patrimoniale ex lege per la sua partecipazione al processo presupposto “debitamente rappresentato, fino al momento della maggiore età, al raggiungimento della quale, avendo acquistato il libero esercizio dei propri diritti ed avendo la facoltà di costituirsi nel processo quale parte autonoma, lo stesso soggetto perde detto diritto, ove a ciò non abbia provveduto” (Cass., sent. n. 11338 del 2011). 4.3. - Mette conto, infine, richiamare sul punto, ad ulteriore suffragio della tesi qui accolta, la sentenza di queste Sezioni Unite n. 6072 del 2013, con la quale è stata risolta in senso negativo la questione della legittimazione degli ex soci di società che, parte in un giudizio di durata irragionevole, volontariamente si sia cancellata dal registro delle imprese senza aver agito per l’accertamento e la liquidazione del diritto all’equo indennizzo, a succedere alla società estinta nella titolarità del credito indennitario. In tale pronuncia si è rilevato che il credito oggetto del processo presupposto, sorto originariamente in capo alla società, che era parte di detto giudizio lungamente protrattosi, risultava controverso e perciò richiedeva l’accertamento e la liquidazione nel momento in cui la società aveva deciso di farsi cancellare dal registro delle imprese: siffatta scelta aveva implicato la tacita rinuncia della società al credito in questione, manifestandosi incompatibile con la volontà di pervenire al concreto accertamento ed alla liquidazione del credito stesso, per poter poi provvedere all’eventuale ripartizione del ricavato tra i soci. 5. - Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato, alla luce del seguente principio di diritto: “Nel caso di giudizio intentato dal Condominio e del quale, pur trattandosi di diritti connessi alla partecipazione di singoli condomini al condominio, costoro non siano stati partì, spetta esclusivamente al Condominio, in persona del suo amministratore, a ciò autorizzato da delibera assembleare, far valere il diritto alla equa riparazione per la durata irragionevole di detto giudizio”. (omissis). Legge Pinto e legittimazione del condominio: il dictum delle Sezioni Unite di Aldo Carrato (*) Con la sentenza in rassegna le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto relativamente alla questione sul se, nel caso di giudizio presupposto intentato dal condominio e del quale non sono stati parti i singoli condomini, spetti solo al condominio, in persona del suo amministratore, ovvero esclusivamente ai singoli condomini agire in giudizio per far valere il diritto all’equa riparazione in ordine alla durata irragionevole dell’anzidetto giudizio presupposto. La risposta data al quesito è stata affermativa nel primo senso, sul presupposto che il danno non patrimoniale conseguente alla durata irragionevole del processo spetta anche in favore dei soggetti collettivi a condizione che essi abbiano assunto la qualità di parte in senso proprio nell’ambito del giudizio presupposto. La fattispecie esaminata dalle S.U. La vicenda sottoposta all’esame delle Sezioni unite aveva avuto origine dall’esperimento dell’azione per il riconoscimento dell’equo indennizzo, promossa ai sensi dell’art. 2 della L. n. 89 del 2001, da tre condomini appartenenti ad un condominio che, tuttavia, non avevano partecipato al giudizio presupposto, il quale era stato intentato direttamente dal condominio, in persona del suo amministratore pro-tempore. Avendo impugnato i ricorrenti in sede di legittimità il decreto di rigetto della loro pretesa adottato dalla competente Corte di appello, in base all’unico motivo di doglianza ricondotto alla deduzione della loro qualità di parti sostanziali del giudizio durato irragionevolmente (sul presupposto che non potesse riconoscersi al condominio alcuna soggettività giuridica), l’adìta Sezione della Corte di cassazione rimetteva, con apposita ordinanza interlocutoria, la questione di cui in epigrafe (intorno alla quale era insorto contrasto nell’ambito della stessa giurisprudenza di legittimità), alla decisione delle Sezioni unite, alla quale esse rispondevano affermando il principio riportato in massima. (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. il Corriere giuridico 12/2015 1535 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile Le ragioni fondanti del diritto all’equa riparazione secondo la L. n. 89 del 2001 ed il riconoscimento della sua spettanza anche in favore degli enti collettivi Prima di affrontare funditus la problematica questione risolta dalle Sezioni Unite con la sent. n. 19663 del 2014, appare opportuno preliminarmente chiarire la ratio e la funzione che sono sottese alla disciplina introdotta con la L. n. 89 del 2001 (nel gergo forense conosciuta come “legge Pinto”, dal cognome del senatore relatore) sulla previsione relativa al riconoscimento di un’equa riparazione nell’eventualità della violazione del termine ragionevole del processo (i cui termini sono stati ora “normativizzati” nei commi 2 bis e 2 ter, come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lett. a), n. 2, del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., dalla L. 7 agosto 2012, n. 134), che, di regola, si considera rispettato se il giudizio - nella sua complessiva interezza - viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. Con la menzionata L. 24 marzo 2001, n. 89, il legislatore ha inteso prevedere uno strumento procedimentale specificamente rivolto alla tutela del diritto all’ottenimento di un indennizzo ristoratore dei danni subiti a causa dell’eccessiva durata dei processi giurisdizionali. L’art. 2 di detta legge pone, in effetti, riferimento alle conseguenze derivanti dalle violazioni dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (stipulata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848), il quale - come è noto - riconosce ad ogni persona il diritto ad un equo processo, ovvero ad un giudizio da svolgersi “entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge”. Il successivo e correlato art. 13 della stessa Convenzione internazionale enuncia il principio di effettività, in virtù del quale gli Stati firmatari devono munirsi di dispositivi di tutela capaci di assicurare il ripristino dei diritti fondamentali violati e riconosciuti dalla stessa Convenzione, con la previsione di meccanismi di tutela giurisdizionale ad hoc, volti al riconoscimento di un indennizzo da parte dei giudici nazionali. (1) E, tra le stesse, anche quelle rimaste contumaci avendo le SS.UU., con la sent. n. 585 del 2014 (in questa Rivista, 2014, 5, 685 con nota di C. Consolo - M. Negri), statuito che, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, hanno diritto all’indennizzo tutte le parti coinvolte nel procedimento giurisdizionale, ivi compresa la parte rimasta contumace, nei cui confronti - non assumendo rilievo né l’esito della causa, né le ragioni della scelta di non costituirsi - la deci- 1536 Lo Stato italiano ha dato attuazione al menzionato art. 13 della Cedu proprio con la L. n. 89 del 2001 (poi incisivamente integrata dalle disposizioni contenute nel già richiamato art. 55 del D.L. n. 83 del 2012, come convertito, con modif., dalla L. n. 134 del 2012, peraltro applicabili ai soli ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge da ultimo riportata). Del resto lo stesso art. 111, comma 2, Cost. (come inserito dall’art. 1 della L. cost. 23 novembre 1999, n. 2), garantisce a tutte le parti (1) il diritto alla ragionevole durata del processo. In questa ottica, dunque, la L. n. 89 del 2001 prevede - a questo scopo - la realizzazione del diritto ad un giudizio equo ed imparziale in modi diversi, purché ragionevolmente idonei, componendo l’interesse a garantire l’imparzialità del giudizio con i concomitanti interessi ad assicurare la speditezza dei processi, la cui ragionevole durata è oggetto, oltre che di un interesse collettivo, di un diritto di tutte le parti, costituzionalmente tutelato non meno di quello ad un giudizio equo e imparziale (come oggi espressamente risultante dal dettato del citato art. 111, comma 2, Cost.). L’indicato art. 2 della c.d. “legge Pinto”, nel garantire il riconoscimento del diritto all’equa riparazione per effetto della durata (ingiustificata) del giudizio oltre il limite della ragionevolezza, non individua espressamente i soggetti che possono agire per l’ottenimento dell’indennizzo, limitandosi ad affermare che “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale (…) ha diritto ad una equa riparazione”. Si è, perciò, posto il problema se sussista o meno una limitazione soggettiva in ordine all’individuazione dei titolari del diritto all’indennizzo in discorso. Prima di incentrare l’attenzione su quest’ultimo aspetto è importante, però, sottolineare che la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che l’equa riparazione come delineata dal sistema introdotto con la L. n. 89 del 2001: a) non costituisce una mera sanzione pecuniaria, multa o pena privata, dovuta dallo Stato per il solo fatto del danno conseguente alla durata irragionevole del processo, ma attribuisce, piuttosto, un sione è comunque destinata ad esplicare i suoi effetti e a cagionare, nel caso di ritardo eccessivo nella definizione del giudizio, un disagio psicologico, fermo restando che la contumacia costituisce comportamento idoneo ad influire - implicando od escludendo specifiche attività processuali - sui tempi del procedimento e, pertanto, è valutabile agli effetti dell’art. 2, comma 2, L. 24 marzo 2001, n. 89. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile equo indennizzo, riconducibile, in base all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico, corrispondente all’equitable satisfaction richiamata dalla Convenzione EDU e dalla relativa giurisprudenza dalla Corte di Strasburgo, in favore del “soggetto che, per effetto dalla eccessiva durata del giudizio (lesiva del riconosciuto suo diritto ad una ragionevole durata dello stesso)” abbia subito un danno patrimoniale e/o non patrimoniale; b) non rientra fra i diritti fondamentali della persona, come quello alla salute, la cui inviolabilità è garantita da norme costituzionali immediatamente precettive e la cui lesione comporta la sanzione risarcitoria per il fatto in sé della violazione indipendentemente dalla ricaduta patrimoniale che la stessa possa implicare (c.d. danno conseguenza). Tale ricostruzione, tuttavia, non esclude che il danno non patrimoniale costituisca una conseguenza della detta violazione, la quale, a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente, e cioè di regola per effetto della violazione stessa, essendo fisiologico che l’anomala lunghezza della pendenza di un processo (e, quindi, dell’attesa della sua definizione) produce nella parte che vi è coinvolta un patema d’animo o, comunque, una sofferenza psicologica, che non occorre provare, sia pure attraverso elementi presuntivi. Trattasi, in altri termini, di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti nella normalità dei casi secondo il requisito dell’id quod plerumque accidit, ossia senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo alla singola fattispecie. Pertanto, ancorché non possa discorrersi di danno automaticamente insito nella violazione dell’art. 2 della L. n. 89/2001, deve per converso considerarsi, di regola, in re ipsa la prova del relativo pregiudizio nel senso che, provata la sussistenza della violazione, ciò comporta nella normalità dei casi anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale, precisandosi, però, che tale consequenzialità, proprio perché normale e non necessaria o automatica, può trovare nel singolo caso concreto una positiva smentita qualora risultino circostanze che dimostrino che quelle conseguenze non si sono verificate (come, esemplificativamente, accade nell’ipotesi di piena consapevolezza della parte della inammissibilità o infondatezza delle proprie istanze e, comunque, tutte le volte in cui la protrazione del giudizio risponda ad un suo specifico interesse o è destinata a produrre conseguenze cha detta parte percepisca come a sé favorevoli) (2). Riprendendo il discorso sulla legittimazione attiva per la proposizione della domanda di equo indennizzo è necessario ricordare (e di tanto viene dato atto anche nella sentenza qui commentata) che la dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono che, conformemente alla giurisprudenza della Cedu, il danno di carattere non patrimoniale è configurabile anche per le persone giuridiche nella misura in cui il ritardo del processo abbia compromesso valori quali l’esistenza, il nome, l’immagine, la reputazione dell’ente. Ne consegue che risultano, così, legittimate, oltre alle persone fisiche, anche le persone giuridiche e le società in genere. Si è, quindi, in generale ritenuto (3) che anche per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, costituisce conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della CEDU, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri, e ciò non diversamente da quanto avviene per il danno morale da lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui persone fisiche; sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno “in re ipsa” - ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione -, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non risulti la sussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari (2) Cfr. Cass., SS.UU., n. 1338 del 2004; Cass. n. 19666 del 2006 e Cass. n. 24696 del 2011. È interessante, peraltro, evidenziare che la giurisprudenza di legittimità (v., da ultimo, Cass. n. 14775 del 2013 e Cass. n. 18239 del 2013) ha, comunque, inteso chiarire che, in tema di equa riparazione per la non ragionevole durata del processo, la natura indennitaria dell’obbligazione esclude la necessità dell’accertamento dell’elemento soggettivo della violazione, ma non l’onere del ricorrente di provare la lesione della sua sfera patrimoniale quale conseguenza diretta e immediata della violazione, esulando il pregiudizio dalla fattispecie del “ danno evento”, con la conseguenza che sono risarcibili non tutti i danni che si pretendono relazionati al ritardo nella definizione del processo, ma solo quelli per i quali si dimostra il nesso causale tra ritardo medesimo e pregiudizio sofferto. (3) Cfr., ad es., Cass. n. 3395 del 2005; Cass. n. 17500 del 2005, in Danno e resp., 2006, 153-159, con nota di M.V. De Giorgi, Risarcimento del danno morale ex legge Pinto alle persone giuridiche per le sofferenze patite dai componenti; Cass. n. 25730 del 2011 e, da ultimo, Cass. n. 13986 del 2013. il Corriere giuridico 12/2015 1537 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile Ciò posto, è arrivato il momento di soffermarci sul nucleo centrale della sentenza in esame, ovvero sull’attribuibilità o meno della legittimazione ad agire per conseguire l’equo indennizzo ai sensi dell’art. 2 della L. n. 89 del 2001 in capo al condominio e sulla riconoscibilità o meno dello stesso diritto in favore dei singoli condomini che, pur partecipando alla collettività dei condomini appartenenti al condominio rivestente il ruolo di attore o convenuto nel giudizio presupposto, non abbiano assunto, in quest’ultimo, la qualità di parte in proprio. Nella sentenza in discorso le Sezioni Unite non potevano prescindere, quale profilo da approfondire preliminarmente, dall’esaminare la natura giuridica del condominio, anche perché, proprio in rapporto all’individuazione di tale aspetto, si era determinato il contrasto - in seno alle sezioni semplici - sul riconoscimento o meno della legittimazione, in capo al condominio stesso, a proporre la do- manda di equa riparazione ai sensi della c.d. “legge Pinto”. Infatti, per un verso, si era affermato (5) che il diritto all’equo indennizzo per irragionevole durata di un processo non può essere conferito all’ente condominiale, il quale è preposto unicamente alla gestione della cosa comune, in quanto l’eventuale patema d’animo conseguente alla pendenza del processo incide unicamente sui condomini che quindi sono titolari uti singuli del diritto al risarcimento. Questo indirizzo giurisprudenziale era sostenuto anche da quella parte della dottrina, la quale evidenziava che la legittimazione attiva dell’amministratore del condominio (come precisato dall’art. 1131 c.c.), trova il proprio limite nelle attribuzioni previste dall’art. 1130 c.c., specificandosi, in ogni caso, che nel condominio di edifici, costituente un ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, ne’, quindi, del potere di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti del condominio. Il richiamato indirizzo giurisprudenziale si poneva, tuttavia, in contrasto con altro orientamento sostenuto dalla S.C. che, al contrario, ammetteva alla stregua di quanto precedentemente evidenziato - la legittimazione del condominio ad agire in base alla L. n. 89 del 2001, sulla scorta del risolutivo presupposto in virtù del quale la giurisprudenza della CEDU riconosceva il risarcimento del danno non patrimoniale a favore delle persone giuridiche, e, più in generale, a vantaggio dei soggetti collettivi. Come è noto, nemmeno la più recente riforma apportata in materia di condominio con la L. n. 220 del 2012 si è premurata di risolvere - per via normativa - la questione definitoria della natura giuridica del condominio né ha, peraltro, inteso porre mano alla perdurante problematica della distinta ed autonoma soggettività giuridica del condominio edilizio rispetto ai singoli partecipanti che lo compongono. Si è, perciò, asserito (6) che l’istituto del condominio “continua ad essere un ibri- (4) Cfr., in tal senso, di recente, Cass. n. 1007 del 2013 e Cass. n. 4008 del 2014. (5) V., ad es., Cass. n. 22258 del 2009; Cass. n. 21322 del 2011. (6) V., da ultimo, A. Cirla e M. Monegat, Compravendita, condominio, locazioni, Milano, 2014, 4 ss. che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente. È importante, tuttavia, sottolineare (4) che, ai fini della determinazione dei soggetti aventi diritto al relativo indennizzo, il disposto contenuto nell’art. 2, comma 1, L. 24 marzo 2001, n. 89 deve essere interpretato restrittivamente, alla luce del tenore dell’art. 34 della CEDU, che inequivocabilmente esclude, dal novero degli aventi diritto, gli enti pubblici o le loro articolazioni amministrative, prevedendo quali “vittime della violazione” esclusivamente “le persone fisiche, i gruppi d’individui e le organizzazioni non governative”, né una tale interpretazione, in applicazione della richiamata regola di conformazione, risulta in contrasto con il testo della norma stessa ovvero con i principi fondamentali dell’ordinamento interno, limitando invece l’ambito di applicazione delle garanzie assicurate dalla citata Convenzione europea, e quindi l’area di operatività della L. n. 89 del 2001, ai rapporti tra le persone, individualmente considerate o nelle formazioni collettive da esse costituite secondo legge, con i poteri statali o pubblici e con esclusione dei rapporti tra pubblici poteri. La peculiarità della struttura del condominio di edifici e la sua rilevanza ai fini dell’applicabilità della c.d. “legge Pinto” 1538 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile do”, assurgendo ad una forma particolare di comunione caratterizzata dall’esistenza di parti comuni ai proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari site in un edificio. In tal senso, ancorché in modo non pienamente soddisfacente, il condominio viene ancora inquadrato come “ente di gestione”, che, pur non essendo soggetto di diritto, distinto ed in contrapposizione con i singoli partecipanti, rimane qualificabile come ente di fatto (fondato su un’organizzazione pluralistica), idoneo ad assumere obbligazioni e a divenire titolare di diritti, così assumendo una certa autonomia ed una limitata capacità, mutuando, peraltro, ai fini dell’esercizio della sua attività, alcuni strumenti tipici delle persone giuridiche (quali l’assemblea e l’amministratore) (7). Inquadrato in tale dimensione, può dirsi che nel condominio, avuto riguardo ai beni ed agli interessi coinvolti dalla gestione comune, le situazioni singole si combinano in una situazione soggettivamente collettiva, che deve conservare una sua rilevanza esterna. Il fenomeno del condominio, quindi, non si esaurisce nella contitolarità delle parti comuni, poiché esso risulta regolato da un principio di organizzazione e di unificazione dell’insieme, che si fonda su organi aventi competenze esclusive, tali da giustificare un proprio meccanismo d’imputazione. Esiste (come rilevato dalla dottrina specialistica (8)), in ultima analisi, un interesse istituzionale del condominio stesso, distinto dagli interessi individuali dei singoli partecipanti, basato sull’individuazione di un autonomo centro di riferimento giuridico e sulla funzionalizzazione dei meccanismi deliberativi (dell’assemblea) ed esecutivi (dell’amministratore) al perseguimento di uno scopo comune (per l’appunto, collettivo), con il quale risulta incompatibile ogni speciale vantaggio personale (dei singoli condomini). Si è, del resto, posto in risalto (9) che di una tale soggettività (pur se attenuata) il condominio presenta, sintomaticamente, alcuni indici di evidenza normativa: è sufficiente, in proposito, por mente alla capacità processuale attiva e passiva dell’amministratore, alle modalità attraverso le quali il condominio assume obbligazioni sempre per mezzo dell’attività dell’amministratore (che lo rappresenta in qualità di mandatario) o, ancora, alla incisiva rilevanza che, in àmbito condominiale, ricopre il c.d. principio della maggioranza, il quale è, di per sé, espressione di autonomia della struttura organizzata. La conseguenza derivante da tale ricostruzione sarebbe, perciò, quella dell’imputabilità del rapporti giuridici con i terzi all’organismo collettivo, tanto sotto il profilo sostanziale quanto nella loro gestione processuale. (7) In dottrina U. Natoli, La proprietà. Appunti delle lezioni, Milano, 1976, 271, sostiene che la dizione “ente di gestione”, pur non priva di ambiguità, possiede un’indubbia valenza descrittiva dell’istituto ed evoca l’“oggettivizzazione dell’interesse del gruppo”, che, senza assurgere al rango di personalità giuridica, pone una base necessaria e sufficiente per lo sviluppo di un’organizzazione di gestione che trova il suo fulcro nell’ufficio (da intendersi in senso tecnico) dell’amministratore. (8) V., per tutti, A. Scarpa, Le obbligazioni del condominio, Milano, 2007, spec. 14-16. (9) Cfr., ancora, A. Scarpa, ibidem. (10) Si ricorderà che le Sezioni unite - con la importante sent. n. 18331 del 2010 (in questa Rivista, 2012, 2, 189 con nota di G. Vidiri) - ebbero a stabilire il principio per cui l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni ma essendo tenuto a dare senza indugio notizia all’assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131, commi 2 e 3, c.c., può costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea stessa, per evitare la pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione. (11) Si è, infatti, precisato (v., ad es., Cass. n. 10717 del 2011) che, configurandosi - per l’appunto - il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini, l’esistenza di un organo rappresentativo unitario, quale l’amministratore, non priva i singoli partecipanti della facoltà di agire a difesa dei diritti esclusivi il Corriere giuridico 12/2015 Conclusioni Il contrasto originatosi all’interno della giurisprudenza di legittimità è stato ampiamente influenzato dalla qualificazione giuridica che si riconosce al condominio e, conseguentemente, ai poteri che spettano all’amministratore. Come si è detto, l’indirizzo prevalente della dottrina e della giurisprudenza di legittimità ricostruiscono il condominio come ente di gestione che, ancorché sia privo di personalità giuridica (distinta da quella di coloro che ne fanno parte), ha una sua soggettività quale formazione collettiva suscettibile di essere titolare di rapporti giuridici attivi e passivi, tanto è vero che allo stesso si riconosce la legittimazione ad agire e/o a resistere in giudizio a mezzo dell’amministratore, a tanto autorizzato dall’assemblea (10), anche se ciò non risulta di ostacolo a che i singoli condomini siano, a loro volta, legittimati ad agire per la tutela, oltre dei propri personali diritti, anche di quelli comuni (ovvero relativi alla salvaguardia dei beni appartenenti alla comproprietà indivisa condominiale) (11). 1539 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile Partendo da questa impostazione (condivisa anche nella sentenza in commento) si impone, però, la necessità di considerare che, ai fini della legittimazione a proporre la domanda di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della L. n. 89 del 2001, non può prescindersi dal dato che chi vuole ottenere il ristoro indennitario per la durata irragionevole del processo deve essere stato parte in senso proprio nel giudizio presupposto. Infatti, il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dall’art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, specificatamente richiamato dall’art. 2, L. n. 89/2001, solo in relazione alle cause proprie e, quindi, esclusivamente in favore delle parti della causa nel cui ambito si assume avvenuta la violazione e non anche in favore dei soggetti che - ancorché (in ipotesi) legittimati a promuoverla o ad intervenirvi - siano ad essa rimasti estranei. Pertanto, ove i singoli condomini - ancorché muniti di una legittimazione concorrente ad instaurare la controversia a tutela di beni comuni (ovvero a costituirsi per resistervi) - non si siano avvalsi di tale diritto e non abbiano, perciò, inteso partecipare - a titolo autonomo - ad una causa intrapresa legittimamente dal condominio (mediante apposita inve- stitura del suo amministratore) (12), non possono qualificarsi come titolari di un proprio interesse a vedersi riconosciuto l’equo indennizzo per la violazione del termine ragionevole del processo al quale abbia partecipato il solo condominio, a cui favore è, invece, spettante tale diritto per effetto del generale riconoscimento della relativa legittimazione, affermata dall’univoca giurisprudenza, a vantaggio (anche) dei soggetti collettivi (non pubblici), oltre che delle persone fisiche e delle organizzazioni non governative (13). In definitiva (ed in consonanza con la soluzione predicata dalle Sezioni unite nella sentenza in rassegna), bisogna ribadire il principio (14) per il quale, in tema di equa riparazione, sono legittimati a far valere il diritto alla ragionevole durata del processo a norma della L. 29 marzo 2001, n. 89, solo i soggetti che siano stati parti nel giudizio in cui si assume essere avvenuta la violazione, e non anche i soggetti a questo rimasti estranei (nel senso che non vi abbiano partecipato, perché non convenuti nello stesso, non intervenutivi o perché non abbiano esercitato la relativa azione, ove muniti della relativa, concorrente, legittimazione), non assumendo rilievo, a tal fine, il danno che i medesimi possano avere indirettamente subito dall’illegittima protrazione del processo (15). e comuni inerenti all’edificio condominiale, onde non sussistono impedimenti a che i singoli condomini, non solo intervengano nel giudizio in cui tale difesa sia stata assunta dall’amministratore, ma anche si avvalgano, in via autonoma, dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti del condominio rappresentato dall’amministratore, non spiegando influenza alcuna, in contrario, la circostanza della mancata impugnazione di tale sentenza da parte dell’amministratore. È stato anche puntualizzato (cfr., da ultimo, Cass. n. 12911 del 2012) che il giudicato formatosi all’esito di un processo in cui sia stato parte l’amministratore di un condominio, fa stato anche nei confronti dei singoli condomini, pure se non intervenuti nel giudizio, atteso che il condominio è ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini. (12) A tal riguardo la sentenza delle SS.UU. n. 19663 del 2014 richiama la pregressa giurisprudenza di legittimità riguardante situazioni processuali analoghe e, in particolare, Cass. n. 13803 del 2011 (ma, nello stesso senso, v. già Cass. n. 23416 del 2009), secondo cui, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, qualora la parte costituita in giudizio sia deceduta nel corso di un processo avente una durata irragionevole, l’erede ha diritto al riconoscimento dell’indennizzo “iure proprio” soltanto per il superamento della predetta durata verificatosi con decorrenza dal momento in cui, con la costituzione in giudizio, ha assunto a sua volta la qualità di parte; non assume, infatti, alcun rilievo, a tal fine, la continuità della sua posizione processuale rispetto a quella del dante causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., in quanto il sistema sanzionatorio delineato dalla Cedu e tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001 non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di san- zioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito, il quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione (in senso conforme v., da ultimo, Cass. n. 4003 del 2014). Del resto, in termini analoghi circa l’essenzialità della costituzione dell’erede come condizione per far valere la sofferenza morale dipendente dalla ingiustificata durata del processo, si è espressa anche la II Sez. della Cedu con la sentenza - di irricevibilità - del 18 giugno 2013 (in causa Fazio e altri c. Italia), in cui si è statuito che la qualità di erede di una parte nel procedimento presupposto non conferisce, di per sé, il diritto a considerarsi vittima della, eventualmente maturata, durata eccessiva del medesimo e che l’interesse dell’erede alla rapida conclusione della causa è difficilmente conciliabile con la sua mancata costituzione nello stesso, dato che solo attraverso l’intervento nel procedimento l’avente diritto ha l’opportunità di partecipare e di influire sul suo esito. (13) V., da ultimo, in senso conforme alla sentenza oggetto di commento, Cass. n. 6186 del 2015. (14) Già fatto proprio, ad es., da Cass. n. 17111 del 2005 e da Cass. n. 7024 del 2012. (15) Sotto un’altra angolazione, le medesime Sezioni Unite - con la sent. n. 19977 del 2014 - hanno stabilito che, sempre ai fini dell’applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, il termine ragionevole di durata del processo penale decorre per gli eredi della persona offesa dal reato deceduta, costituitasi parte civile, da quando gli stessi hanno avuto conoscenza del procedimento, in quanto solo da tale momento insorgono per essi il patema e l’interesse ad una rapida soluzione della controversia, sicché, in mancanza di prova di detta circostanza, il computo ha inizio dalla data del loro intervento in giudizio. 1540 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile Accesso al pubblico impiego dello straniero extracomunitario Cassazione Civile, Sez. lav., 2 settembre 2014, n. 18523 - Pres. Macioce - Rel. Ghinoy - P.M. Servello (conf.) - T.A. (avv. Consoli) c. Ministero dell’Economia e delle finanze (Avvocatura generale dello Stato) Va esclusa l’esistenza di un principio generale di ammissione dello straniero extracomunitario al lavoro pubblico (e deve perciò ritenersi tuttora validamente richiesto il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso al pubblico impiego) e tale esclusione non determina una pratica discriminatoria, realizzando una mera restrizione dell’accesso all’occupazione, né si pone in contrasto con la normativa costituzionale, che fissa al legislatore ampio margine di discrezionalità per contemperare, in tema di accesso al lavoro, opposte esigenze tutte costituzionalmente rilevanti. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass. 13 novembre 2006, n. 24170. Difforme Ex multis Trib. Firenze 23 gennaio 2014. Svolgimento del processo T.A., cittadina albanese regolarmente soggiornante in Italia, invalida con totale e permanente inabilità lavorativa iscritta nell’elenco degli invalidi civili di cui all’art. 8, comma 2 L. n. 68 del 1999, dal 3 maggio 2005, proponeva ricorso al Tribunale di Firenze ai sensi dell’art. 44 del D.Lgs. n. 286 del 1998, dell’art. 4 del D.Lgs. n. 215 del 2003, e dell’art. 702 bis c.p.c., chiedendo che fosse accertata la natura discriminatoria del comportamento tenuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che aveva indetto un concorso con avviso del 30 novembre 2011 per l’assunzione a tempo indeterminato di cinque lavoratori disabili per la copertura dei posti vacanti presso gli uffici dell’Amministrazione autonoma Monopoli di Stato, riservando la partecipazione ai soli cittadini italiani e comunitari. Chiedeva pertanto di ordinare al Ministero di cessare il comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti, modificando l’avviso in oggetto nella parte in cui non consentiva la sua partecipazione alla selezione in condizioni di parità con i cittadini italiani e di fissare nuovo termine per la presentazione delle domande di ammissione. Omissis. Motivi della decisione Omissis. II. Esame dei motivi di ricorso 1. La questione se il requisito della cittadinanza per gli impieghi pubblici debba ritenersi abrogato, fatta eccezione per gli impieghi costituiti per lo svolgimento di funzioni pubbliche essenziali, oggetto di causa, è stata già affrontata e risolta in senso negativo nella sentenza di questa Corte Sez. Lav., n. 24170 del 2006. In quella sede, la Corte ha affermato che il diritto positivo esprime la regola dell’esclusione dello straniero extracomunitario dal lavoro pubblico, con salvezza delle eccezioni il Corriere giuridico 12/2015 previste dalla legge, regola non sospettabile di illegittimità costituzionale. A tale conclusione occorre dare continuità, pur nella consapevolezza dell’evoluzione sociale che porta alla tendenziale omogeneizzazione a fini giuridici delle etnie e cittadinanze ed alla progressiva attenuazione della rilevanza dell’appartenenza nazionale a scapito di organismi sovranazionali, dovendosi prendere atto che essa è frutto di una scelta politica tutt’ora espressa nella legislazione vigente, che non contrasta con la normativa nazionale ed i principi sovranazionali richiamati dalla parte ricorrente. 2. La norma da cui occorre prendere le mosse è l’art. 38, D.Lgs. n. 165 del 2001, che nel testo originario ai primi due commi prevedeva quanto segue: “1. I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale. 2. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 17 L. 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni ed integrazioni, sono individuati i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all’accesso dei cittadini di cui al comma 1”. La disposizione estendeva quindi l’accesso agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni ai cittadini comunitari, salvo, per questi ultimi, le eccezioni che sono state previste dall’art. 2 D.P.C.M. n. 174 del 1994. 3. La disposizione si coordina con il successivo art. 70, comma 13 a mente del quale “In materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, e successive modificazioni ed integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli artt. 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi ordinamenti”. Tale D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 - Regolamento recante 1541 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi - all’art. 2, comma 1, n. 1 prevede poi che possono accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni i cittadini italiani, specificando poi che “tale requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve le eccezioni di cui al D.P.C.M. 7 febbraio 1994, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 1994, serie generale n. 61”. Le norme fin qui indicate si applicano anche ai cittadini extracomunitari e agli apolidi che abbiano ottenuto in Italia il riconoscimento dello status di rifugiato: l’art. 25, comma 2, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, consente infatti al titolare dello status di rifugiato l’accesso al pubblico impiego, con le modalità e le limitazioni previste per i cittadini dell’Unione europea. Il coordinato disposto dalle disposizioni richiamate supera, a seguito dei vincoli imposti dalla normativa comunitaria, la più restrittiva previsione contenuta nel D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, che all’art. 2 pone la cittadinanza italiana come requisito generale per l’accesso agli impieghi civili dello Stato, senza riferimento ai cittadini dell’UE, ma mantiene l’esclusione per gli stranieri extracomunitari, che non vengono contemplati tra i legittimati. 4. Sull’art. 38 sopra riportato è intervenuta la L. 6 agosto 2013, n. 97, recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea - Legge Europea 2013”, che con l’art. 7, comma 1, lett. a), ne ha modificato il comma 1 nei termini che seguono: “I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. La stessa legge ha aggiunto il comma 3 bis, che prevede che le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo (così ulteriormente modificata la dizione “permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo” dall’art. 3, comma 1 D.Lgs. 13 febbraio 2014, n. 12) o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria. Analoga modifica è stata apportata al citato art. 25 del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251. Il legislatore con il recente intervento ha quindi ampliato l’accesso ai pubblici impieghi solo a determinate categorie di cittadini extracomunitari, allo scopo di ricomprendervi i soggetti direttamente garantiti dalle direttive comunitarie (v. le direttive nn. 2004/38, 2004/83, 2003/109). Il riferimento solo ad alcune categorie di stranieri ammessi al pubblico impiego, a parità con il cittadino dell’Unione Europea, manifesta la persistente volontà del legislatore di escludere le ulteriori ca- 1542 tegorie di cittadini extracomunitari non espressamente contemplati. 5. La limitatezza dell’intervento normativo è stata stigmatizzata da alcuni ordini del giorno presentati in occasione della nuova formulazione dell’art. 38 D.Lgs. n. 165: l’o.d.g. presentato dai deputati G., M., Gu. ed altri n. 9/1327/7, accolto dal Governo, si concludeva con l’impegno del Governo “a valutare la possibilità di fornire, in sede di applicazione delle disposizioni contenute nel disegno di legge in esame, un’interpretazione costituzionalmente orientata di tali disposizioni che espliciti definitivamente la parificazione, ai fini dell’accesso al pubblico impiego, tra il cittadino straniero legalmente soggiornante in Italia per motivi che consentono lo svolgimento di attività lavorativa e il cittadino dell’Unione europea” e quello presentato dai deputati U., D.P., B. ed altri n. G7.100, non posto in votazione ma accolto dal Governo come raccomandazione, impegnava l’esecutivo “a fare chiarezza, con estrema urgenza, su tale materia, anche intervenendo con un’interpretazione autentica che espliciti che, ai lavoratori dei paesi terzi, regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale e titolari di permesso di soggiorno, occorre garantire parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani, secondo le norme espressamente previste ai sensi deli commi 2 e 3 D.Lgs. n. 286 del 1998 “; gli intenti non si sono tuttavia tradotti allo stato in un intervento sostanzialmente modificativo di carattere normativo. 6. La restrizione sopra rilevata non è in contrasto con la normativa nazionale in tema di accesso al lavoro dei lavoratori extracomunitari, che trova la sua essenziale disciplina nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. Detto Testo unico infatti all’art. 2, comma 3 prevede che “La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell’OIL n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con L. 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani”, ma la disposizione espressamente ha ad oggetto la condizione del “lavoratore” ovvero della persona già occupata, senza preoccuparsi delle condizioni di accesso al lavoro. Di tali situazioni invece si occupa l’art. 27 che, nell’ambito del titolo III che raccoglie la disciplina del lavoro dei cittadini stranieri extracomunitari, al terzo comma, nell’elencare le attività che possono essere svolte in Italia e che non rientrano nel cosiddetto decreto-flussi afferma, quale norma di chiusura, che rimangono ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività. Lo stesso Testo Unico manifesta peraltro e legittima l’esistenza di limitazioni per l’accesso a determinate categorie di impieghi. L’art. 26 liberalizza infatti l’accesso al lavoro autonomo, ma a condizione che l’esercizio di tali attività non sia riservato dalla legge ai cittadini il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile italiani o a cittadini di uno degli Stati membri dell’UE. L’art. 27 rinvia al regolamento di attuazione la disciplina di particolari modalità per il rilascio delle autorizzazioni al lavoro, dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato per alcune categorie di lavoratori stranieri specificamente individuate, tra cui i lettori universitari di madre lingua, che appunto vengono assunti prescindendo dal requisito della cittadinanza e al comma 1, lett. r-bis, inserita dall’art. 22, comma 1, lett. a), L. 30 luglio 2002, n. 189, ha aggiunto alle tipologie di lavoratori già previste la categoria degli infermieri professionali, da assumersi con contratto di lavoro subordinato presso strutture sanitarie pubbliche e private. L’art. 37, poi, che consente l’iscrizione agli Ordini o Collegi professionali o negli elenchi speciali agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia in possesso dei titoli riconosciuti, sottolinea esplicitamente che ciò avviene in deroga al requisito della cittadinanza. Ne discende che tale normativa non può sorreggere la tesi dell’esistenza di un principio generale di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico. Inoltre, l’art. 43, in tema di “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, al comma 2, lett. c) prevede che compie un atto di discriminazione “chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità”, in tal modo qualificando discriminante non la restrizione dell’accesso all’occupazione tout court, ma solo quella che si configuri come illegittima, e quindi contraria alla normativa di legge. 7. Deve altresì dissentirsi dall’assunto secondo cui la norma sulla cittadinanza, vigente formalmente, sarebbe contrastante con un principio generale ormai acquisito dall’ordinamento nella parte in cui accorda la tutela antidiscriminatoria. Il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, dispone in effetti all’art. 3 che “Il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale, secondo le forme previste dall’art. 4, con specifico riferimento, tra l’altro (lett. a)) all’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione. La disposizione però al comma 4 aggiunge che “Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’art. 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari”, ed all’art. 2, comma 2 richiama espressamente il disposto dell’art. 43, commi 1 e 2, T.U. n. 286 del 1998, sopra esamina- il Corriere giuridico 12/2015 to, che vieta le discriminazioni in tema di accesso al lavoro se ed in quanto illegittime. La disciplina richiamata conferma quindi in sostanza che la discriminazione è comportamento illecito, non configurabile se tenuto in esecuzione di disposizioni normative. 8. Il sistema desumibile dal complesso normativo sopra delineato non si pone neppure in contrasto con la normativa costituzionale. Come già affermato nella sentenza n. 24170 del 2006 sopra richiamata, non vi è dubbio che, tra gli aspetti giuridici dell’immigrazione extracomunitaria, la materia dell’accesso al lavoro si colloca nel quadro di regole di convivenza fra immigrati e cittadini, ovvero in quel complesso di norme che afferiscono al godimento dei diritti fondamentali. In questo ambito il diritto al lavoro (sancito dall’art. 4 Cost.) è esso stesso diritto soggettivo, e comprende tanto la facoltà di scelta ed esercizio dell’attività professionale (offerta della forza-lavoro), quanto la possibilità di soddisfare il bisogno di accesso alle occasioni di lavoro (domanda della forzalavoro). Il diritto al lavoro garantito dall’art. 4 Cost. costituisce tuttavia garanzia che la legislazione ordinaria, in modo non arbitrario e rispettoso dei valori costituzionali, ha il potere di precisare, richiedendo per talune attività lavorative particolari condizioni e requisiti per la tutela di altri interessi parimenti meritevoli di considerazione (cfr., tra le numerose, Corte cost. 441/2000). Ed in effetti, il lavoro pubblico subordinato, anche quello reso “contrattuale” dalla informa attuata dalle norme ora raccolte nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (che implica, al pari di quello in regime di diritto pubblico, la possibilità del conferimento della titolarità di funzioni pubbliche), costituisce una species del lavoro subordinato contrassegnato da elementi di peculiarità, di cui i principali sono posti dagli artt. 97 e 98 Cost. e che sono la necessità del concorso pubblico (salvo le deroghe previste dalla legge) ed il principio secondo cui gli impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione (in tema di perdurante specialità del lavoro pubblico, pur dopo la cd. contrattualizzazione, si vedano, in particolare, Corte cost. 313/1996; 309/1997, 89/2003,199/2003). Vi è poi da considerare l’art. 51 Cost., secondo cui tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Si ritiene generalmente che l’intento dei costituenti fu di garantire che i fini pubblici fossero perseguiti e tutelati nel migliore dei modi, e di puntare per questo sui cittadini, nei quali si riteneva esistente una naturale compenetrazione dei fini personali in quelli pubblici; nondimeno, la formulazione della norma sembra offrire spunti per una lettura restrittiva del riferimento agli “uffici pubblici”, limitata cioè all’esercizio di attività autoritative. Ma, anche ad accettare questa lettura riduttiva, sono le altre norme costituzionali sopra richiamate ad offrire sufficiente copertura alla disciplina ordinaria preclusiva dell’accesso al lavoro pubblico dei cittadini extracomunitari, nell’ambito di 1543 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile una scelta che qualifica speciale il lavoro pubblico e lo assoggetta a regolamentazione particolare. Nell’ordinanza n. 139 del 2011 richiamata dalla ricorrente la Corte Costituzionale non ha peraltro imposto l’interpretazione favorevole all’accesso al pubblico impiego dei lavoratori extracomunitari regolarmente soggiornanti, ma ha provveduto a dichiarare la questione prospettata dal giudice a quo manifestamente inammissibile in quanto diretta del tutto impropriamente ad ottenere dalla Corte un avallo dell’interpretazione già ritenuta dal rimettente come preferibile e costituzionalmente adeguata. La precedente sentenza n. 454 del 1998 inoltre non si è occupata dell’impiego dei lavoratori extracomunitari alle dipendenze della Pubblica amministrazione, ma ha affermato che dalle disposizioni legislative in vigore si trae la conclusione, costituzionalmente corretta, della spettanza ai lavoratori extracomunitari, aventi titolo per accedere al lavoro subordinato stabile in Italia in condizioni di parità con i cittadini, e che ne abbiano i requisiti, del diritto ad iscriversi negli elenchi di cui alla L. n. 482 del 1968, art. 19 ai fini dell’assunzione obbligatoria. Da tale iscrizione però - di cui è titolare la signora T. - non discende automaticamente, alla stregua delle esposte considerazioni, il possesso dei requisiti per l’accesso a qualunque impiego, e quindi anche a quello offerto dalle pubbliche amministrazioni. Deve quindi concludersi che, diversamente da quanto avviene in tema di provvidenze assistenziali (in ordine alle quali la Corte Costituzionale con numerose sentenze - n. 306 del 2008, n. 11 del 2009, n. 187 del 2010, n. 329 del 2011 - ha rimosso significativi ostacoli che ne impedivano la fruizione da parte degli extracomunitari legalmente soggiornanti nel territorio nazionale), in tema di accesso al lavoro è lasciata al legislatore una più ampia possibilità di contemperare opposte esigenze tutte costituzionalmente rilevanti. Se, quindi, nel lavoro privato opera pienamente la parità di trattamento tra cittadini italiani, comunitari ed extracomunitari, con riguardo agli impieghi pubblici trova spazio la valutazione della particolarità e delicatezza della funzione svolta alle dipendenze dello Stato (ed in particolare, nel caso in esame, del Ministero dell’Economia e delle Finanze che gestisce uno degli aspetti peculiari ed individualizzanti della politica nazionale), differenze che tutt’ora giustificano la preferenza per i cittadini italiani e, in virtù del particolare legame internazionale che lega l’Italia agli altri paesi della UE, per quelli comunitari e ad essi equiparati. 9. Neppure dalla richiamata normativa sovranazionale, sia nella sua diretta precetti vita che nella sua funzione di vincolo interpretativo di quella nazionale, può desumersi un vincolo per la totale assimilazione dei cittadini extracomunitari a quelli nazionali e comunitari per l’assunzione nell’impiego pubblico. La Convenzione OIL sui lavoratori migranti n. 143 del 1975 del 1975, che all’art. 10 prevede che “Ogni Membro per il quale la convenzione sia in vigore s’impegna a formulare e ad attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti al- 1544 le circostanze ed agli usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonché di libertà individuali e collettive per le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio”, costituisce norma programmatica che deve, per trovare attuazione, essere trasfusa nella legislazione nazionale. Peraltro, il successivo art. 14, lett. e) consente agli Stati aderenti alla convenzione di respingere l’accesso a limitate categorie di occupazione e di funzioni qualora tale restrizione sia necessaria nell’interesse dello Stato. 10. La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, poi, prevede all’art. 14 sotto la rubrica “Divieto di discriminazione”, che dev’essere assicurato senza nessuna discriminazione il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione stessa, ma non nomina tra tali diritti quello all’accesso al lavoro. 11. Occorre poi rilevare che anche la normativa comunitaria, pur con le limitazioni che pone per gli stati membri, riconosce la peculiarità dell’impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione, tanto che l’art. 45 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (art. 45 TFUE, già art. 39 TCE) nel sancire il principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione europea, prevede al suo quarto comma un’eccezione relativamente “agli impieghi nella pubblica amministrazione”. Analogamente, l’art. 51, comma 1, TFUE (ex art. 45, comma 1, Trattato CE) dispone che le norme in materia di diritto di stabilimento non trovano applicazione alle “attività che in tale Stato partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri”. 12. Né, ancora, impone una diversa soluzione la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che all’art. 15 sotto la rubrica “libertà professionale e diritto di lavorare” fa riferimento ai cittadini dei paesi terzi, dicendo che quelli che “sono autorizzati a lavorare nel territorio degli stati membri hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’unione”, senza però pronunciarsi sulle condizioni del loro accesso al lavoro ed all’art. 21, pur vietando qualsiasi forma di discriminazione, al comma 2 fa riferimento al divieto di discriminazione basato sulla nazionalità, precisando che esso opera “Nell’ambito d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essa contenute”. 13. Quanto infine alla lamentata violazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, si rileva che la censura non è pertinente alla ratio decidendi adottata dalla Corte d’appello, considerato che nel caso di specie non viene in discussione il diritto delle persone disabili ad essere impiegate nel settore pubblico, e che anzi il concorso cui la signora T. chiedeva l’ammissione era proprio diretto ad assumere cinque lavoratori disabili. L’esclusione non è quindi avvenuta in ragione della disabilità, che anzi costituiva condizione il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile di ammissione, ma della mancanza del prescritto requisito della cittadinanza. 3. Conclusioni. In definitiva, in assenza di alcun riscontro normativo della tesi che sostiene l’esistenza di un principio genera- le di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico, il ricorso dev’essere rigettato. (omissis). Stranieri extracomunitari e inserimento presso le Pubbliche amministrazioni di Anna Montanari La Corte di cassazione fissa un punto di approdo dirimente i contrasti interpretativi in materia di accesso all’impiego pubblico dello straniero extracomunitario, affermando, in continuità con la pronuncia n. 24170 del 2006, l’inesistenza nell’ordinamento di un generale principio di ammissione al lavoro presso le pubbliche amministrazioni dei cittadini di Paesi terzi. Premessa La pronuncia qui pubblicata offre l’occasione per fare il punto sulla questione della possibilità di accesso agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni degli stranieri regolarmente soggiornanti nel nostro paese. La tematica non è di poco conto, sia per la sempre più consistente presenza di immigrati nel nostro Paese, sia per l’incertezza e la frammentarietà che connotano il relativo quadro normativo, amministrativo e giurisprudenziale (1). Il quadro normativo L’art. 2 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (T.U. delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), recependo il principio di cui all’art. 51 Cost., indica fra i requisiti generali per l’ammissione ai pubblici uffici, quello del possesso della cittadinanza italiana. Tale regola fu temperata per i cittadini degli Stati membri dell’UE, ai quali l’art. 37 del D.Lgs. n. 29 del 1993, corrispondente all’attuale art. 38, D.Lgs. n 165/2001, riconobbe il diritto ad accedere ai posti di lavoro nella pubblica amministrazione, limitata(1) Sulla questione v. il saggio di E. Signorini, L’accesso al pubblico impiego dei cittadini extracomunitari, in Lav. giur., 2007, 7, 656 ss. (2) Si tratta del Regolamento recante norme sull’accesso dei cittadini degli Stati membri dell’UE ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche. I posti delle amministrazioni pubbliche per l’accesso alle quali non si può prescindere dal possesso della cittadinanza italiani sono: a) i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell’art. 6, D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, nonché i posti dei corrispondenti livelli delle altre pubbliche amministrazioni; b) i posti con funzioni di vertice amministrativo il Corriere giuridico 12/2015 mente però alle sole posizioni non implicanti esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attinenti alla tutela dell’interesse nazionale. Le posizioni destinate esclusivamente ai cittadini italiani furono individuate con D.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174 (2). Sempre negli anni novanta fu emanato un Regolamento sulle norme per l’accesso al lavoro pubblico e sulle modalità di svolgimento dei concorsi (d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487), che all’art. 2 annoverava la “cittadinanza italiana” tra i requisiti generali per accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni, requisito non richiesto per i cittadini comunitari, per i quali rimanevano comunque valide le limitazioni imposte dal D.P.C.M. n. 174. Alle disposizioni di rango regolamentare si riferisce attualmente l’art. 70, comma 13, D.Lgs. n. 165 del 2001, quando recita che “In materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, e successive modificazioni ed integrazioni […]”. Ad una prima lettura, il quadro normativo fin qui prospettato sembrerebbe univoco verso il riconoscimento di una limitazione all’accesso all’impiego pubblico per il soggetto sprovvisto di cittadidelle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d’Italia; c) i posti dei magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, nonché i posti degli avvocati e procuratori dello Stato; d) i posti dei ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero degli affari esteri, del Ministero dell’interno, del Ministero di grazia e giustizia, del Ministero della difesa, del Ministero delle finanze e del Corpo forestale dello Stato, eccettuati i posti a cui si accede in applicazione dell’art. 16 della L. 28 febbraio 1987, n. 56. 1545 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile nanza italiana o europea (3). È opportuno, tuttavia, considerare che nel nostro ordinamento giuridico, vige un generale principio di parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti tra tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti (e le loro famiglie) e i lavoratori italiani, sancito, in attuazione della Convezione OIL n. 143 del 1975, dall’art. 2, comma 3, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (c.d. Testo unico delle disposizioni sull’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero - T.U. sull’immigrazione). Nel Testo unico si provvede, altresì a definire, all’art. 43, comma 1, la nozione di discriminazione, individuandola in “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”. Sulla base di queste due previsioni sembrerebbe possibile affermare l’esistenza di un obbligo di pari trattamento tra straniero ed autoctono anche per quanto concerne l’ammissione al lavoro, compreso quello presso le pubbliche amministrazioni. Sennonché, in altra parte dello stesso provvedimento del 1998, precisamente nel Tit. III dove è dettata la disciplina specifica dell’ingresso e soggiorno per lavoro dei cittadini extracomunitari, si precisa che, in caso di ingresso per lavoro in casi particolari (si tratta degli ingressi di stranieri extracomunitari autorizzati al di fuori del sistema delle quote annualmente fissate), rimangono valide le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività (art. 27, comma 3). In tale confuso contesto normativo due sono le correnti interpretative che si sono formate: l’una favorevole ad un allargamento ai cittadini extracomunitari del mercato del lavoro pubblico, l’altra contraria. Lo spartiacque è identificabile nella diversa considerazione ed importanza del ruolo del principio di parità di trattamento (4) sancito dall’art. 2, comma 3, T.U. sull’immigrazione, così come interpretato dalla Corte cost. nella sent. n. 454 del 1998 (5). In tale pronuncia la Corte, nel riconoscere agli stranieri il diritto all’iscrizione al collocamento obbligatorio, individua nella parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti dei cittadini extracomunitari e apolidi rispetto ai lavoratori italiani e comunitari, il cardine di tutta la normativa in materia di immigrazione, precisando, altresì che la parità trova automatica applicazione non solo nella fase di svolgimento del rapporto, ma anche nei canali di accesso al lavoro e nelle relative forme di sostegno. La Corte enuncia altresì la regola di diritto per cui, per introdurre una restrizione a tale principio sarebbe necessario ritrovare una norma che «esplicitamente o implicitamente, neghi ai lavoratori extracomunitari, in deroga alla “piena uguaglianza”, il diritto in questione». La tesi che ammette gli extracomunitari agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni viene avvalorata per lo più dalla giurisprudenza di merito (6), che si esprime uniformemente in favore della piena parità di trattamento, ritenendo che dell’art. 70, comma 13, D.Lgs. n. 165/2001 - che, come visto sopra, fa esplicito rinvio alla fonte regolamentare che richiede il requisito della cittadinanza italiana - si debba dare una interpretazione costituzionalmente conforme con la prescrizione paritaria dell’art. 2, D.Lgs. n. 286/1998. (3) Si precisa che l’art. 38, D.Lgs. n. 165/2001, nella versione attualmente in vigore, estende l’accesso agli impieghi pubblici anche ai familiari dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, nonché ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria. (4) Sul principio di parità di trattamento ex art. 2, D.Lgs. n. 286/1998 v. L. Castelvetri, Parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti dello straniero, in G. Dondi (a cura di), Il lavoro degli immigrati, Milano, 2003, 73 ss. (5) Corte cost. 30 dicembre 1998, n. 454, in Dir. merc. lav., 1999, 362 ss., con nota di A. Trojsi, Lavoratori extracomunitari, parità di trattamento e diritto all’avviamento obbligatorio; in Riv. crit. dir. lav., 1999, 277 ss., con nota di A. Guariso, Sul principio di parità di trattamento tra lavoratori italiani ed extracomunitari; in Giur. cost., 1999, 381 ss., con nota di G. Bascherini, Verso una cittadinanza sociale? (6) V. Trib. Firenze 23 gennaio 2014, in Riv. giur. lav., 2015, III, con nota di C. Spinelli, L’accesso degli stranieri al pubblico impiego e al servizio civile nazionale tra norme e giurisprudenza; Trib. Milano 11 gennaio 2010, in Dir. imm. citt., 2009, n. 4, 1102; App. Firenze 28 novembre 2008, in Dir. imm. citt., 2009, 311 con nota di C. Giovannelli, Discriminazione per nazionalità ed accesso ai pubblici impieghi di natura flessibile; Trib. Bologna 25 ottobre 2007; Trib. Perugia 29 settembre 2006, in Lav. giur., 2007, 7, 656; Trib. Genova, ord. 21 aprile 2004, in Dir. imm. citt., 2004, 172 ss., con nota di M. Paggi, Discriminazione e accesso al pubblico impiego; vedi anche T.A.R. Liguria, Sez. II, 13 aprile 2001, n. 3999, in Riv. crit. lav., 2001, 643 ss., con nota di A. Guariso, Un passo (forse) decisivo verso la parità tra europei ed extracomunitari nell’accesso al pubblico impiego. 1546 Il quadro giurisprudenziale il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile Diversamente altra parte della giurisprudenza, prevalentemente amministrativa (7), ha sostenuto la supremazia delle disposizioni che impongono il requisito della cittadinanza italiana (o di uno Stato membro dell’UE) per l’accesso al pubblico impiego, sul principio di parità di trattamento (8). Alcuni giudici amministrativi fondano il proprio ragionamento sull’art. 38 del D.Lgs. n. 165 del 2001, ritenendo che esso configuri quella norma che esplicitamente o implicitamente, nega ai lavoratori extracomunitari, in deroga alla “piena uguaglianza”, il diritto in questione e che, nel ragionamento della Corte costituzionale (v. sent. 30 dicembre 1998, n. 454) rappresenterebbe il limite all’estensione del principio di parità (9). Questa impostazione ha trovato riscontro anche in una significativa pronuncia della Corte di Cassazione. La S.C., con sent. n. 24170 del 2006 (10) ha, infatti, affermato che i cittadini extracomunitari residenti in Italia non hanno diritto ad essere assunti dalla pubblica amministrazione, anche se sono disabili. Due le principali argomentazioni svolte dai giudici di legittimità: da un lato la perdurante vigenza del requisito della cittadinanza italiana, fissato dall’art. 2 T.U. del 1957 (11) - il cui fondamento si rinviene nell’art. 51 Cost. -, che trova solo alcune sporadiche deroghe (12); dall’altro la prevalenza, sull’art. 2, D.Lgs. n. 286 del 1998, delle disposizioni di rango regolamentare del d.P.R. n. 487/1994, dal momento che esse sono state “legificate”, ossia richiamate all’interno di un testo normativo successivo al D.Lgs. n. 286 (in particolare nell’art. 70, comma 13, D.Lgs. n. 165 del 2001). La sentenza della Cass. n. 18523 del 2014 La sentenza in commento si pone in assoluta continuità con la precedente decisione n. 24170 (7) T.A.R. Toscana, Sez. II, 14 ottobre 2005, n. 4689, in Foro Amm. TAR, 2005, 3147; T.A.R. Veneto 25 marzo 2004, n. 782; T.A.R. Toscana, Sez. II, 24 gennaio 2003, n. 38. (8) T.A.R. Toscana, Sez. II, 24 gennaio 2003, n. 38, cit. (9) T.A.R. Toscana, Sez. II, 14 ottobre 2005, n. 4689, cit. (10) V. Cass., Sez. lav., 13 novembre 2006, n. 24170, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 302 con nota di F. Agostini, Il cittadino straniero extracomunitario non può accedere all’impiego pubblico; in Lav. giur., 2007, 2, 135, con nota di F. Di Pietro, Stranieri ed accesso al pubblico impiego. Oggetto della controversia era il ricorso di un cittadino albanese, che aveva ritenuto discriminatorio, in quanto fondato sulla cittadinanza del richiedente, il rifiuto opposto da un’amministrazione provinciale, di procedere all’iscrizione nelle liste riservate ai disabili per l’accesso anche al lavoro presso le pubbliche amministrazioni, ai sensi della L. n. 68 del 1999. (11) In tal senso si è espresso anche il Dipartimento della il Corriere giuridico 12/2015 del 2006 della Corte di cassazione, nel riconoscere la persistente presenza, nel diritto positivo, della regola dell’esclusione dello straniero extracomunitario dal lavoro pubblico, nonostante l’evoluzione sociale conduca alla “tendenziale omogeneizzazione a fini giuridici delle etnie e cittadinanze ed alla progressiva attenuazione della rilevanza dell’appartenenza nazionale a scapito di organismi sovranazionali”. La decisione prende le mosse dall’art. 38 del D.Lgs. n. 165/2001, il quale è stato recentemente modificato ad opera della L. 6 agosto 2013, n. 97 (Legge europea 2013) che ha provveduto ad estendere ai familiari extracomunitari dei cittadini comunitari, titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, nonché ai cittadini di Paesi terzi che godono dello status di soggiornanti di lungo periodo (13) o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria, la possibilità di “accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. Con tale intervento, secondo la Corte, il legislatore italiano ha inteso ampliare il novero di coloro che, pur privi della cittadinanza italiana ed europea, sono ammessi al pubblico impiego (includendo, in particolare, quelli che sono tutelati dalle direttive comunitarie: familiari, rifugiati, cittadini titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo) ma, nello stesso tempo, riferendosi solo ad alcune categorie, ha manifestato la costante volontà di escludere altre tipologie di cittadini di Paesi terzi non espressamente contemplati. Questa restrizione, continua il Supremo Collegio, è legittima, non risultando in contrasto con la normativa vigente. I limiti di accesso, infatti, risultano conformi alla disciplina del D.Lgs. n. 286 del 1998, dal momento funzione pubblica nel parere n. 196 del 2004. (12) Si pensi a quella ricavabile dall’art. 27, comma 1, lett. r bis), T.U. sull’immigrazione, il quale ha espressamente previsto la possibilità di assunzione, a tempo determinato, degli infermieri professionali da parte di strutture anche pubbliche. (13) Questa condizione si acquisisce a seguito della stipula del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo (ex carta di soggiorno). Si tratta di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato che viene rilasciato allo straniero in possesso di un permesso di soggiorno in corso di validità da almeno cinque anni e che può dimostrare la disponibilità di un reddito minimo non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e che non è pericoloso per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato; il rilascio è altresì subordinato al superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana (v. art. 9, D.Lgs. n. 286 del 1998). 1547 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile che il principio paritario in esso stabilito, ad opinione dei giudici, non dovrebbe attivarsi nel momento dell’accesso al lavoro dello straniero (che, si rammenta, è strettamente connesso all’ingresso regolare nel territorio dello Stato), ma nei confronti di chi è già lavoratore, ossia di colui già occupato. Con riferimento specifico all’accesso al lavoro, poi, l’art. 27 T.U. immigrazione fa salve le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività. Né è rilevabile un contrasto tra la norma sulla cittadinanza e i principi generali in materia di tutela antidiscriminatoria: l’art. 3 del D.Lgs. n. 215/2003 (14), infatti, dopo aver affermato il principio di parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, ammette (al comma 4) che quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, sono giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari, non costituiscono atti di discriminazione; in sostanza pur essendo la discriminazione un comportamento illecito, essa non è riscontrabile se tenuta in esecuzione di disposizioni normative. Parimenti il sistema delle limitazioni per gli stranieri extracomunitari non è in contrasto con la disciplina costituzionale. Sul punto, i giudici optano per chiamare in causa il diritto al lavoro, previsto dall’art. 4 Cost., e rammentano che esso garantisce alla legislazione ordinaria il potere di precisare la materia, richiedendo per talune attività lavorative particolari condizioni e requisiti per la tutela di altri interessi meritevoli di considerazione (15). In particolare il lavoro pubblico subordinato, anche dopo la contrattualizzazione, attuata da ultimo con il D.Lgs. n. 165 del 2001, risulta essere una species del genus lavoro subordinato, contrassegnata da elementi di peculiarità, quali il principio della necessità del concorso pubblico per l’accesso al lavoro (art. 97 Cost.) e quello per cui gli impiegati sono al servizio della Nazione (art. 98 Cost.). Anche la Corte costituzionale non ha mai imposto una interpretazione favorevole all’estensione dell’accesso al pubblico impiego dei cittadini non comunitari: non lo ha fatto nell’ordinanza n. 139 del 2011, con la quale è stata respinta, per manifesta inammissibilità, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001 nella parte in cui, contrariamente a quanto previsto per i cittadini comunitari, “non consente di estendere l’accesso ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche anche ai cittadini extracomunitari” (16); né nella già citata sent. n. 454 del 1998, che tratta dell’assunzione di uno straniero disabile. In conclusione, la Cassazione non manca di sottolineare che, diversamente da quanto è avvenuto in materia di provvidenze assistenziali, che sono state progressivamente estese agli extracomunitari legalmente soggiornanti in Italia attraverso l’operato della Consulta (17), in tema di accesso al lavoro è stata lasciata al legislatore una più ampia possibilità di contemperare opposte esigenze, tutte costituzionalmente rilevanti. Ciò posto, mentre nell’impiego privato opera pienamente il principio di parità di trattamento tra cittadini italiani, comunitari ed extracomunitari, nel lavoro pubblico rilevano i profili della particolarità e specificità delle funzioni svolte alle dipendenze dello Stato, che giustificano una preferenza per i cittadini italiani e comunitari. Ad avviso di scrive, tuttavia, quest’ultimo argomento non è completamente persuasivo. Se, infatti, nell’ambito della Pubblica amministrazione si ritrovano attività e funzioni di particolare rilevanza sotto il profilo della sicurezza e della tutela dell’ordinamento interno, quali, per esempio, quelle poste in essere da personale militare, di polizia e magistrati, che giustificherebbero l’affidamento a cittadini italiani (e forse anche europei), ciò non significa, tuttavia, che l’intero settore sia precluso al lavoratore straniero, non essendo tutti i compiti “nevralgici” per l’ordinamento, né il requisito della cittadinanza indispensabile per certe mansioni. (14) Attuazione della Dir. 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (15) V. Corte cost. 26 ottobre 2000, n. 441, in Foro it., 2001, I, 794. (16) Corte cost. 15 aprile 2011, n. 139, in Giur. cost., 2011, 1797; i giudici costituzionali hanno rimproverato al giudice rimettente di non aver neppure tentato una lettura costituzionalmente orientata della norma censurata. (17) V. Corte cost. 29-30 luglio 2008, n. 306, in Foro it., 2008, I, 2711, relativa all’indennità di accompagnamento agli invalidi civili; Corte cost. 14 gennaio 2009, n. 11, in Foro it., 2009, I, 973, in riferimento alla pensione di inabilità; Corte cost. 28 maggio 2010, n. 187, in Foro it., 2012, I, 1, sull’assegno mensile di invalidità; Corte cost. 16 dicembre 2011, n. 329, in Foro it., 2012, I, 1, sull’indennità di frequenza per i minori. Da ultimo v. Corte cost. 27 febbraio 2015, n. 22, con riguardo alla pensione di invalidità e alla speciale indennità in favore dei ciechi parziali e Corte cost. 11 novembre 2015, n. 230, in riferimento all’indennità di comunicazione e alla pensione di invalidità civile per sordi. 1548 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile Coppia di fatto (omosessuale) e figli minorenni Tribunale di Palermo, Sez. I, decr., 13 aprile 2015 - Pres. Grimaldi di Terresena - Est. Ruvolo Nel caso in cui vi sia stato un nucleo familiare nel quale uno dei due conviventi abbia svolto de facto il ruolo di genitore, pur in assenza di un vincolo biologico, nei confronti dei figli dell’altro, deve essere riconosciuto, sulla base di una interpretazione evolutiva e convenzionalmente orientata dell’art. 337 ter c.c., il diritto di detti minorenni a mantenere un rapporto duraturo e significativo con il primo, indipendentemente dal venir meno del vincolo affettivo tra i due. Competente a decidere sulla regolamentazione della frequentazione tra i minorenni ed il genitore “sociale” è il Tribunale ordinario, sulla base della clausola residuale di cui all’art. 38 disp. att. c.c.; legittimato attivo: il P.M. interveniente ai sensi dell’art. 70, comma 3, c.p.c., che abbia fatto proprie le conclusioni della ricorrente. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Non esistono precedenti sul punto Difforme Trib. Ivrea, 12 febbraio 2014 Il Tribunale (omissis). Motivi della decisione (omissis) 4. Sulla legittimazione ad agire della ricorrente omissis e sulla partecipazione del P.M. al procedimento e sull’assunzione in proprio e nell’interesse pubblico del petitum della ricorrente. Ulteriore aspetto da esaminare in via preliminare concerne la legittimazione ad agire dell’odierna ricorrente, il cui difetto determinerebbe la c.d. carenza di azione, rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio. Come è noto, la legitimatio ad causam costituisce, unitamente all’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) ed all’esistenza del diritto (c.d. possibilità giuridica), una delle condizioni dell’azione che il giudice ha l’onere di accertare prima di procedere all’esame del merito. Essa si risolve nella titolarità del potere e del dovere, rispettivamente per la legittimazione attiva e per quella passiva, di promuovere o di subire un giudizio in ordine al rapporto dedotto in causa, indipendentemente dalla questione sull’effettiva titolarità dal lato attivo o passivo del rapporto controverso, che è invece questione di merito della cui prova è onerata la parte attrice, pena il rigetto della domanda (cfr. in generale sulla legittimazione ad agire, tra le altre, Cass. n. 13756 del 14/06/2006, Rv. 592155; Cass. n. 2326 del 06/02/2004, Rv. 569951). Nel caso in esame la ricorrente non è titolare del diritto potestativo di ottenere una decisione nel merito, non potendo ella (che non è né genitore biologico né genitore adottivo) fare valere diritti dei minori (tra cui quello azionato nel presente giudizio del diritto dei minori ad incontrare persone con cui esistono relazioni affettive stabili). Va al riguardo considerato che il vigente sistema legislativo non detta alcuna disciplina con riferimento ai diritti che l’ex convivente (etero o omosessuale che sia) del genitore biologico di figli minori potrebbe vantare nei confronti di questi ultimi né conferisce alcuna legittimazione il Corriere giuridico 12/2015 ad agire per conto e nell’interesse di soggetti minori con cui appunto non sussiste un rapporto genitoriale. Infatti, non v’è allo stato attuale nel nostro ordinamento alcuna previsione che riconosca potestà e responsabilità genitoriali al c.d. “genitore sociale”. È indubbio che l’evoluzione della società ha fatto emergere modelli familiari e sociali differenti da quelli tradizionali (si pensi in via esemplificativa al fenomeno delle c.d. famiglie ricomposte, etero e omosessuali, alle famiglie mogenitoriali, alle famiglie composte da persone dello stesso sesso e dai figli nati da precedenti relazioni o attraverso tecniche di fecondazione assistita, etc.). Ancora, è oltremodo verosimile che il legislatore italiano dovrà necessariamente confrontarsi con l’evoluzione della fenomenologia delle relazioni interpersonali in atto e che delle aperture in tal senso sono già state mostrate (il riferimento è al disegno di legge 1320 - XVII Leg. - presentato nel febbraio 2014 dai senatori Manconi, Palermo e Lo Giudice e non ancora esaminato - che intende introdurre l’istituto della delega dell’esercizio della responsabilità genitoriale, così consentendo di dare sicurezza e validi punti di riferimento ai bambini che crescono all’interno di nuclei familiari atipici). Tutto ciò considerato, è tuttavia altrettanto indubbio che allo stato attuale non è prevista alcuna responsabilità genitoriale in capo all’ex convivente (omosessuale o eterosessuale) del genitore nei confronti dei figli del precedente compagno. Va quindi dichiarato il difetto di legittimazione attiva della ricorrente con riferimento alle domande formulate nel ricorso. Ciò nonostante, deve proseguirsi nell’esame del merito della questione sulla scorta della partecipazione al presente procedimento del PM quale interveniente necessario in base al disposto dell’art. 70 nel testo risultante all’esito della sentenza della Corte Costituzionale n. 214 del 1996 (che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale “nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del pubblico ministero nei giudizi tra geni- 1549 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile tori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai figli”, nei sensi di cui agli artt. 9 della legge n.898 del 1970 e 710 del codice di procedura civile come risulta a seguito della sentenza n. 416 del 1992”). Peraltro, è noto che il P.M. può intervenire in ogni causa in cui ravvisa un pubblico interesse ex art. 70, comma tre, c.p.c. Il Pubblico Ministero, con atto depositato il 17 novembre 2014, nel superiore interesse dei minori, ha fatto propria la domanda della ricorrente, chiedendo, quale mezzo al fine dell’accoglimento della pretesa spiegata con il ricorso, di disporsi una consulenza tecnica d’ufficio al fine di accertare se, nell’esclusivo interesse morale e materiale dei minori, fosse o meno opportuno riconoscere alla omissis la possibilità di frequentare i bambini, omissis e omissis.. 5. Sulla questione di legittimità costituzionale proposta dalla ricorrente. La ricorrente ha sollevato, con l’atto introduttivo del presente procedimento, questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter in relazione agli artt. 2 e 30 Cost., e in combinato disposto con gli artt. 317, 317 bis, 336, 337 bis c.c., nella parte in cui non prevede il diritto al mantenimento di un rapporto equilibrato, continuativo e significativo del minore con il genitore sociale nel caso di separazione della coppia omosessuale. Come è noto, in ragione del carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, il giudice a quo deve in primo luogo verificare che il giudizio alla sua attenzione non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale (c.d. “rilevanza”), vale a dire che la disposizione della cui costituzionalità si dubita dovrà essere applicata nel giudizio in corso e quindi che quel medesimo giudizio non potrà essere definito se prima non viene risolto il dubbio di legittimità costituzionale che ha investito la relativa disposizione. Inoltre, per la Corte costituzionale va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente quando questi trascuri di sperimentare la possibilità di dare alla disposizione censurata un’interpretazione costituzionalmente orientata e di spiegare le ragioni che impediscono di pervenire ad un risultato idoneo a superare i dubbi di costituzionalità (cfr. per tutte Corte cost. 230/2010; 192/2010; 190/2010; 189/2010; 154/2010; 110/2010). Orbene, nella fattispecie concreta sottoposta all’attenzione del Collegio difetta il carattere della rilevanza della questione sollevata e della necessaria strumentalità rispetto alla decisione da adottare per quanto concerne l’art. 317 bis. c.c., e ciò considerato che, come già osservato, nel presente giudizio è stato fatto valere il diritto dei minori ad incontrare persone con cui essi hanno una relazione affettiva stabile e non è stata invece chiesta la tutela del diritto di visita dell’ex convivente del genitore. E per quanto concerne l’art. 337 ter c.c. la questione è inammissibile alla luce dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata che viene adottata con il presente provvedimento (v. infra). (omissis) Deve quindi ora procedersi all’esame del merito. 1550 6. L’esame del merito della questione: necessità di salvaguardare il superiore interesse dei minori. Venendo al merito della controversia, si deve in primo luogo osservare in punto di fatto che, diversamente da quanto sostenuto dalla resistente in comparsa di risposta e ribadito nelle note conclusive, questo Tribunale ritiene idoneamente provato, alla luce degli elementi acquisiti nel corso del procedimento, il dato - rilevante ai fini della decisione - della pregressa sussistenza di un nucleo familiare di fatto tra le odierne parti, omissis e omissis e i di lei figli, omissis e omissis. Al riguardo è sufficiente osservare che, tra gli atti allegati al presente procedimento, si rinviene copia del ricorso presentato congiuntamente dalle odierne parti al Tribunale per i Minorenni di Palermo nel 2011 (momento in cui era ancora in atto la relazione amorosa tra le due donne) al fine di ottenere il riconoscimento in capo alla omissis di poteri e doveri corrispondenti alla potestà genitoriale nei confronti dei minori omissis e omissis. In tale atto, sottoscritto - è bene ribadirlo - non solo dalla omissis ma anche dalla omissis, le ricorrenti danno atto di essere unite dal 2004 da una stabile relazione affettiva, di avere deciso nel 2007 di attuare un comune progetto genitoriale consapevole e di avere abitualmente vissuto insieme con la prole “condividendo ogni decisione inerente la vita, la salute e l’educazione dei bambini dando vita ad un nucleo familiare che ha scelto quale dimora abituale l’abitazione di omissis” (cfr. ricorso al Tribunale per i Minorenni, pag. 2 allegato in atti). Nel ricorso le donne lamentavano che, malgrado la omissis di fatto svolgesse il ruolo di genitore e avesse a carico l’intero nucleo familiare, provvedendo a gran parte dei bisogni familiari, in concreto non aveva alcun riconoscimento giuridico da parte dell’ordinamento come figura genitoriale e, in ragione di ciò, chiedevano al Tribunale per i minorenni l’attribuzione della potestà genitoriale in capo alla stessa. Ora, è evidente che la sottoscrizione da parte della omissis di tale atto giudiziario volto al riconoscimento legale della genitorialità della omissis e, a fronte del decreto di rigetto del Tribunale per i Minorenni, il successivo insistere in tale richiesta col reclamo proposto alla Corte di Appello, fornisce adeguata prova della sussistenza di una stabile unione affettiva e, per quel che qui rileva, di un reale nucleo familiare costituito dalle due donne e dai bambini, omissis e omissis, oltre che dell’esercizio di fatto da parte della omissis del ruolo di genitore. Peraltro, nel corso del presente procedimento, fase in cui la convivenza era già ampiamente cessata, le parti hanno inizialmente raggiunto (su impulso del giudice) degli accordi (poi non rispettati in ragione dell’inasprirsi della conflittualità tra le stesse) con riguardo alle frequentazioni tra i minori e la omissis, il che testimonia ancora una volta l’esistenza di uno schema tipicamente familiare (cfr. verbale udienza dell’11 luglio 2014). Lo stato di fatto appena delineato ha ricevuto altresì conferma da quanto è emerso nel corso delle operazioni peritali svolte dai consulenti d’ufficio, i quali hanno attestato che “non vi è dubbio alcuno che, al di là degli il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile eventi concreti, ad entrambi i bambini deve essere stata prospettata una visione di identità familiare e una storia della loro generatività che deve aver compreso in qualche modo sia la signora omissis che la signora omissis. È prova evidente di ciò che i bambini nel rappresentare la loro costellazione affettiva di riferimento hanno disegnato quattro personaggi: loro stessi, mamma D. e P. (…) In questa direzione risulta ancora più significativo l’inizio della prima osservazione fatta con i bambini, quando omissis per presentarsi propone ai consulenti un indovinello - “indovinate se abbiamo due mamme o due papà oppure una mamma e un papà? “ (cfr. consulenza tecnica d’ufficio, pag. 57 allegata in atti). Ed ancora, osservano che “il percorso peritale ha permesso di evidenziare come i piccoli omissis e omissis si riconoscono nel sistema familiare composto da loro due e da mamma omissis, omissis e le loro famiglie d’origine (…)” (cfr. CTU pag. 59). Viene poi precisato che “la significatività di una relazione affettiva con un bambino va ricondotta, secondo la prospettiva del minore, al suo vissuto, alla possibilità che egli abbia costruito una immagine di quell’adulto e del legame che ad esso lo unisce, tale che lo renda significativo, continuativo, fondante nel suo processo di crescita. Orbene perché ciò si realizzi quell’adulto deve aver espresso nei confronti del bambino una fase di accudimento in qualche modo significativa, una pregnanza di ruolo educativo, una sintonizzazione sull’ascolto dei suoi bisogni e sulla possibilità di rispondere ad essi con modalità adeguate, una capacità di incidere nella costruzione del suo sistema di attribuzione dei significati esperienziali, la possibilità di sostenere il bambino anche solo in alcune delle sue fasi di sviluppo”(cfr. CTU p. 59). Nel rispondere ai quesiti formulati da questo Tribunale, i consulenti d’ufficio evidenziano, per quanto qui di interesse, che “è apparsa evidente una profonda significatività affettiva tra omissis, omissis e la signora omissis, tale che, benché i bambini non la identifichino specificamente in una funzione genitoriale de facto, la riconoscono però come appartenente al loro sistema familiare nucleare in una posizione di seconda mamma. In considerazione di quanto sopra espresso si considera significativamente pericoloso per i bambini una interruzione o una discontinuità del legame tra loro e la signora omissis. Tale decisione per altro non incontra il volere dei bambini. Si considera, altresì, pericoloso una evoluzione che possa stravolgere la storia familiare e di generatività che questi bambini hanno introiettato. Tale interruzione potrebbe avere effetti nefasti sulla loro continuità affettiva e narrativa determinando profonde ripercussioni sulla evoluzione della loro identità psichica. Non risponderebbe, quindi, all’interesse superiore dei minori. Si ritiene altresì che la signora omissis possa costituire con la sua affettività una risorsa positiva per i bambini”. Assodata l’esistenza di una famiglia di fatto all’epoca in cui la relazione tra le due ricorrenti era ancora in atto e di un permanente rapporto affettivo significativo tra la omissis e i due bambini, in adesione a quanto ritenuto dai consulenti d’ufficio - da cui non v’è motivo per discostarsi - circa la necessità di mantenere tale rapporto, il Corriere giuridico 12/2015 pena la produzione sui bambini di effetti gravemente pregiudizievoli e “nefasti sulla loro continuità affettiva e narrativa” con “profonde ripercussioni sulla evoluzione della loro identità psichica”, questo Tribunale ritiene che vada assolutamente preservato - in funzione del preminente interesse dei minori - il solido rapporto esistente tra loro e la persona che, sin dalla loro nascita, ha svolto il ruolo sostanziale di genitore (c.d. genitore sociale). Privare omissis e omissis di un simile legame significherebbe - come ben sottolineano i consulenti d’ufficio - precludere loro di poter fare affidamento su una figura positiva fondamentale e di riferimento per la loro esistenza. Occorre, dunque, porsi in una dimensione sostanziale che salvaguardi il superiore interesse dei minori e valorizzi il rapporto che in concreto si è instaurato negli anni tra la omissis e i bambini. Nel caso in esame, non si può, infatti, ignorare l’esistenza di situazioni consolidate e cristallizzate da tempo: i bambini hanno convissuto con entrambe le ricorrenti dal momento della loro nascita (24 maggio 2008) sino alla rottura della relazione sentimentale tra le due donne, avvenuta definitivamente nei primi mesi del 2014. Nel corso di questi sei anni i bambini hanno instaurato - come sopra evidenziato - un legame forte e significativo con la omissis che, a prescindere dall’inquadramento giuridico, nulla ha di diverso rispetto ad un vero e proprio vincolo genitoriale. Sul punto va precisato che, sebbene l’elaborato peritale - rispondendo al quesito posto dal Tribunale relativamente alla considerazione che i minori hanno della ricorrente e del ruolo della stessa nella loro vita quotidiana - affermino che i bambini “non la identifichino specificamente in una funzione genitoriale de facto”, tuttavia subito dopo precisano che gli stessi comunque “la riconoscono però come appartenente al loro sistema familiare nucleare in una posizione di seconda mamma”. Ne deriva, pertanto, che al di là delle espressioni adoperate dai consulenti per inquadrare il ruolo svolto dalla omissis nei confronti dei bambini, è indubbio che questi ultimi la percepiscono sostanzialmente come una figura significativa appartenente al loro sistema familiare, alla stregua di una seconda madre. Ed ancora, va al riguardo ulteriormente sottolineato che l’esclusione, da parte dei periti, della possibilità di una condivisione con la omissis della funzione genitoriale, esercitata oggi in via esclusiva dalla omissis, viene motivata non tanto sulla base di un’inidoneità della prima a svolgere tale funzione ovvero inopportunità che le venga attribuito tale ruolo, quanto per la forte conflittualità allo stato esistente tra le due donne, che non renderebbe possibile tale condivisione (cfr. pp. 60-61 C.T.U. in cui si afferma che “la signora omissis esercita in atto una piena funzione genitoriale nei confronti dei minori, non vi sono in atto elementi per poter ipotizzare che tale funzione vada condivisa con la signora omissis stante la relazione interpersonale tra le due; …i contatti tra i minori e la signora omissis sono apparsi discontinui e co- 1551 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile munque regolati dalla esclusiva decisione della signora omissis . Di questo i bambini si sono lamentati). Alla luce delle considerazioni sopra esposte, negare ai bambini i diritti ed i vantaggi che derivano dal loro rapporto con la omissis costituirebbe di certo una scelta non corrispondente all’interesse dei minori, principio fondante in ambito di provvedimenti concernenti minori e indicato, quale parametro di riferimento, anche in ambito europeo. Deve infatti a questo punto svolgersi qualche considerazione in punto di diritto prendendo le mosse dalle norme esistenti in materia in ambito sovranazionale, cui il nostro ordinamento si conforma ai sensi degli artt. 11 e 117 comma 1 della Costituzione, e dalla relativa evoluzione giurisprudenziale che, proprio in ambito sovranazionale, ha portato alla compiuta elaborazione del principio noto come “best interest of the child”. Tale principio viene per la prima volta sancito nella Dichiarazione Universale dei diritti del fanciullo del 1959, ove si dice che “il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali, compresa una adeguata protezione giuridica sia prima che dopo la nascita”, ponendo “il superiore interesse del fanciullo” come criterio guida da applicare ad ogni decisione che lo possa riguardare direttamente o indirettamente. Più di recente, il principio in esame ha trovato riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) ove l’art. 24, in materia di “Diritti del bambino”, stabilisce, per quanto qui di interesse, che “ …in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente” ed aggiunge che “ogni bambino ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse”. In una recente pronuncia la Corte di Giustizia, nell’esaminare il quadro dei diritti fondamentali riferibili ai minori, ha precisato che l’art. 7 della Carta di Nizza, che contiene diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’art. 8, paragrafo 1 della Cedu (id est il diritto di ogni individuo al rispetto della vita privata e familiare) va letto in combinato disposto con l’obbligo di prendere in considerazione l’interesse superiore del bambino, sancito dal sopra citato art. 24, paragrafo 2, tenendo conto del pari della necessità per il bambino di intrattenere regolarmente rapporti personali con i due genitori (Corte giust. 6 dicembre 2012, causa C-356/11 e C-357/11). Al contrario, il concetto di superiore interesse del minore è estraneo all’esperienza normativa della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’art. 8, nel garantire ad ogni individuo il “rispetto della propria vita familiare e personale”, non ne fa alcun cenno. Tuttavia, tale lacuna è stata via via colmata dalla giurisprudenza della Corte EDU che ha lodevolmente recuperato il principio in questione facendo diretto riferimento agli strumenti internazionali di protezione dell’infanzia che, come visto, al loro interno contengono 1552 un esplicito riferimento al concetto di interesse superiore del minore. Per quel che rileva ai nostri fini, va infatti evidenziato che la Corte di Strasburgo ha, in più occasioni, affermato che il rispetto della propria vita familiare e personale contempla anche il diritto dei genitori e dei figli - ma anche di altri soggetti uniti da relazioni familiari de facto - a mantenere stabili relazioni, soprattutto in caso di crisi della coppia, precisando al riguardo che occorre assicurare prevalenza al superiore interesse dei minori, anche a rischio di pregiudicare il diritto di uno dei genitori (cfr. sul punto Corte eur. dir.uomo 13 giugno 1979, caso Marckx c. Belgium, in cui la Corte ha esteso la nozione di vita familiare di cui all’art. 8 anche alla famiglia non legittima che, nel caso di specie, era costituita da una madre e dalla figlia nata fuori dal matrimonio; Corte eur. dir. uomo, 26 maggio 1994, caso Keegan c. Irlanda, in cui ha affermato che la nozione di famiglia di cui all’art. 8 non è limitata alle relazioni fondate sul matrimonio e può oltrepassare di fatto i legami familiari quando le parti convivono fuori dal matrimonio). E ancora, preminente interesse ai fini del caso che ci occupa, riveste una decisione della Corte di Strasburgo in cui è stato ribadito che la nozione di vita familiare non è limitata alle coppie sposate, sottolineando che i criteri rilevanti per la definizione sono la convivenza della coppia, la lunghezza della relazione, la presenza di figli: occorre, dunque, accertare l’esistenza di una relazione effettiva. Nel caso di specie, la Corte ha riconosciuto valore giuridico a rapporti familiari di fatto, in particolare tra un partner e i figli dell’altro, valorizzando argomenti a favore dell’esistenza degli aspetti tipici di un regime familiare in presenza di un’effettiva cura e assistenza dei minori da parte degli adulti con essi conviventi (Corte eur. dir.uomo 22 aprile 1997, X., Y. e Z. c. Regno Unito). Del pari nel caso Moretti e Benedetti c. Italia, la Corte, con sentenza del 27 aprile 2010, ha ancora una volta ribadito che l’art. 8 trova applicazione anche rispetto a relazioni familiari di fatto, basate su rapporti affettivi significativi. Nella specie, i ricorrenti si erano visti rigettare la domanda di adozione di un neonato che, subito dopo la nascita, era stato collocato provvisoriamente presso di loro, in quanto la madre aveva rifiutato di riconoscerlo. La Corte europea ha sancito l’applicabilità dell’art. 8 CEDU anche nei confronti dei ricorrenti, benché gli stessi non avessero potestà genitoriale sul bambino, statuendo il principio secondo cui tale disposizione va applicata anche ai legami familiari di fatto, in presenza di vincoli di natura affettiva. La Corte, valorizzando il dato della condivisione dei ricorrenti di tappe importanti nella vita del bambino (in particolare, tutti gli stadi di sviluppo nei primi 19 mesi) e che questo appariva ben integrato nella famiglia, ha ravvisato una violazione dell’art. 8 nel rigetto della domanda di adozione e nel collocamento del minore presso un altro nucleo familiare. È quindi possibile affermare che, nell’ottica della giurisprudenza della Corte EDU, l’art. 8 della Convenzione non assegna un diritto a costituire una famiglia ma è il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile volto a tutelare una famiglia, lato sensu intesa, già esistente. L’esistenza di una “vita familiare” ex articolo 8 CEDU è una questione che va vagliata ed accertata in fatto, in quanto essa non si limita ai rapporti fondati sul matrimonio e sulla filiazione legittima ma può comprendere altre relazioni familiari de facto, purché - oltre all’affetto generico - sussistano altri indici di stabilità, attuale o potenziale, quale potrebbe essere quello di una filiazione naturale o di una convivenza avutasi per un tempo significativo e poi cessata. Invero, in questa prospettiva, la determinazione del carattere familiare delle relazioni di fatto deve tener conto di un certo numero di elementi, quali il tempo vissuto insieme, la qualità delle relazioni, così come il ruolo assunto dall’adulto nei confronti del bambino e la percezione che quest’ultimo ha dell’adulto. Proprio in considerazione del forte legame stabilitosi, la Corte è giunta a statuire - nelle pronunce sopra citate che, nonostante l’assenza di un rapporto giuridico di parentela, esso potesse rientrare nella nozione di vita familiare ai sensi dell’art. 8 CEDU. Orbene, è proprio alla luce degli articoli sinora citati (art. 8 Cedu, artt. 7 e 24 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e dell’interpretazione che di essi ne hanno dato le Corti sovranazionali di riferimento, che vanno interpretate ed applicate al caso che ci occupa le norme dell’ordinamento interno rilevanti in subiecta materia. È appena il caso di rammentare che, con riferimento alle norme della CEDU, è noto che, secondo il costante orientamento della Corte Costituzionale, per i giudici nazionali vige il dovere di interpretare la norma interna in modo conforme alle norme convenzionali, nell’esegesi offertane dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo e solo in caso di impossibilità di interpretazione conforme hanno l’onere di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con la norma convenzionale interposta, per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost.; con l’ulteriore conseguenza che l’interpretazione data dalla Corte Europea vincola, anche se non in modo incondizionato, detti giudici e costituisce il diritto vivente della Convenzione (cfr. Corte cost. n. 348 e 349/ 2007; n. 80/2011; n. 15/2012). Per contro, quando si tratta di norme derivanti dall’Unione Europea direttamente applicabili nel nostro ordinamento (quali, tra l’altro, possono ritenersi le disposizioni della Carta di Nizza, stante il disposto dell’art. 6 del Trattato sull’UE che ha attribuito alla Carta dei diritti lo stesso valore giuridico dei trattati), in caso di insanabile contrasto tra esse e la norma interna, il giudice nazionale ricorre allo strumento della disapplicazione. Ciò posto, la cornice giuridica interna - da interpretare alla luce delle norme sovranazionali sopra richiamate, nell’interpretazione datane dai giudici di Strasburgo - è costituita dagli artt. 337 bis e 337 ter c.c., introdotti dall’art. 55 comma 1 del D.Lgs. 154/2013, che costituiscono oggi il riferimento normativo comune per i rapporti fra genitori e i figli in modo da diventare il solo riferimento per le controversie genitoriali, di separazione, di- il Corriere giuridico 12/2015 vorzio o interruzione di convivenza tra persone anche non sposate. Più precisamente, dal combinato disposto degli artt. 337 bis e 337 ter si desume, per quel che qui rileva, che “nei procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio” (art. 337 bis c.c.) “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (art. 337 ter c.c.). Stabilisce poi il secondo comma dell’art. 337 ter c.c. che “per realizzare la finalità indicata dal primo comma, nei procedimenti di cui all’art. 337 bis, il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa” ed è altresì legittimato ad adottare, sempre nell’ottica di salvaguardia del superiore interesse dei minori, “ogni altro provvedimento relativo alla prole”. Tali disposizioni si ispirano, dunque, al principio, di derivazione sovranazionale, della prevalenza dell’interesse del figlio, specie se minore, su ogni altro interesse giuridicamente rilevante che vi si ponga in contrasto. La ratio della norma di cui all’art. 337 ter è, invero, quella di dare preminenza all’interesse morale e materiale della prole, anche attraverso una restrizione, se ritenuto necessario, dei diritti e libertà degli altri soggetti coinvolti e in tale ottica attribuisce al giudice l’ampio potere di adottare provvedimenti idonei, senza ricorrere a tipizzazioni, al fine di assicurare flessibilità e capacità di conformazione alle esigenze di volta in volta concretamente da soddisfare. Ora, è oltremodo evidente che la norma limita expressis verbis il suo ambito di operatività al diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di coniugio tra questi ultimi. Tuttavia, la necessità di garantire il superiore interesse dei minori, posto alla base della norma di cui all’art. 337 ter e di interpretare la norma in conformità all’elaborazione giurisprudenziale che di tale principio ha fornito la Corte Europea nell’applicazione dell’art. 8 della CEDU sopra riportata, impone di procedere ad un’interpretazione certamente evolutiva ma costituzionalmente e convenzionalmente conforme dell’art. 337 ter c.c. volta ad estendere l’ambito applicativo della stessa sino a delineare un concetto allargato di bigenitorialità e di famiglia, ricomprendendo per tale via anche la figura del genitore sociale, ossia di quel soggetto che ha instaurato con il minore un legame familiare de facto significativo e duraturo. Come già sopra visto, la Corte Europea nelle sue pronunce è pervenuta ad inquadrare nell’ambito dell’art. 8 della CEDU anche il diritto di soggetti, diversi dal genitore biologico o legale, uniti da relazioni familiari effettive, a mantenere uno stabile rapporto, soprattutto in ipotesi di separazione della coppia, precisando al riguardo che occorre assicurare prevalenza al superiore interesse dei minori. Ed è proprio in questa prospettiva che si impone una lettura dell’art. 337 ter conforme a tali parametri, che 1553 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile possa cioè assicurare il preminente interesse dei minori omissis e omissis di frequentare stabilmente l’odierna ricorrente, come riconosciuto dalla consulenza tecnica espletata. Valorizzando il criterio guida del superiore interesse della prole minorile alla luce di quanto appena enunciato, è possibile ritenere che il profilo della discendenza genetica non va più considerato determinante ai fini dell’attribuzione al minore del diritto di mantenere stabili relazioni con chi ha comunque rivestito nel tempo il ruolo sostanziale di genitore, pur non essendo legato da rapporti di appartenenza genetica o di adozione con il minore stesso. Per contro, ciò che assume rilievo determinante è la circostanza che un nucleo familiare esiste con riguardo alla posizione del figlio e della sua tutela, non dovendosi invece dare risalto alla circostanza che sia venuto meno il vincolo affettivo che legava il genitore sociale a quello biologico. Quando il rapporto instauratosi tra il minore e il genitore sociale è tale da fondare l’identità personale e familiare del bambino stesso, questo rapporto deve essere salvaguardato, alla pari di quanto riconosce oggi l’art. 337 ter ai figli nei confronti dei genitori biologici. Una lettura della norma che escludesse dal suo ambito di operatività rapporti genitoriali di fatto sarebbe violativa delle disposizioni della Carta di Nizza e della Cedu: significherebbe, in altri termini, privare di qualsiasi tutela i minori, il cui interesse, invece, va sempre perseguito nelle ipotesi di separazione, compresa quella tra il genitore biologico e il partner con cui di fatto è stata condivisa la responsabilità genitoriale. Tale interpretazione evolutiva, ad avviso di questo Tribunale, si impone proprio nell’ipotesi sottoposta al nostro esame, ossia il caso della separazione personale della coppia omosessuale che ha convissuto con i figli minori di uno dei due, instaurando un rapporto di genitorialità sociale con l’altro. Invero, in tali circostanze l’unico rapporto riconosciuto e tutelato dalla legge è quello con il genitore biologico, mentre il rapporto con il genitore sociale - sebbene avvertito e vissuto dal minore alla stregua dell’“altra figura genitoriale” - non riceve alcun riconoscimento o tutela, con conseguente privazione del minore della doppia figura genitoriale, in spregio al principio fondante in ambito di crisi coniugale o della coppia di fatto del mantenimento di rapporti costanti con ambedue le figure genitoriali (concetto che, ad avviso di questo Collegio, va accolto nella sua accezione “allargata”, comprendente sia i genitori biologici che sociali). Né coglierebbe nel segno un’eventuale obiezione circa l’inidoneità di un individuo omosessuale allo svolgimento di compiti genitoriali. Le acquisizioni delle scienze di settore, principalmente la neuropsichiatria infantile e la psicologia dell’età evolutiva, hanno evidenziato che la qualità dell’attaccamento dei figli e del loro sviluppo cognitivo e relazionale non dipende dalla compresenza di genitori di sesso diverso ma dalla pregnanza della relazione affettivo-genitoriale. 1554 Anche la S.C. di Cassazione nella motivazione della sentenza n. 601 del 2013 ha chiarito che in assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza costituisce un mero pregiudizio l’asserzione che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale, poiché in tal modo si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per la crescita e lo sviluppo dei figli. Ed in tal senso si pongono pure diverse pronunce dei giudici di Strasburgo, i quali, non solo hanno ricondotto le coppie di fatto omosessuali nell’alveo della nozione di “vita familiare” da tutelare ai sensi dell’art. 8 della CEDU, ma hanno altresì ricompreso in tale nozione anche il legame verticale che si stabilisce tra i conviventi omosessuali e la prole di uno di essi, pronunciandosi da ultimo in favore della c.d. second-parent adoption, ossia l’adozione, da parte del partner omosessuale, dei figli dell’altro partner, così da aprire direttamente la strada al riconoscimento delle funzioni genitoriali svolte dall’adulto non genitore omosessuale nella famiglia ricomposta. Ciò posto, alla luce delle considerazioni sin qui enunciate e in applicazione del combinato disposto degli artt. 337 bis e 337 ter c.c. nell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme agli artt. 7 e 24 della Carta di Nizza ed all’art. 8 della Cedu (come interpretato dalla Corte di Strasburgo), ritiene questo Tribunale che vada garantito il diritto dei minori, omissis e omissis, di mantenere un rapporto stabile e significativo con la omissis. Essendo possibile un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata nel senso sopra descritto della normativa interna, non occorre quindi neppure procedere ad un’applicazione diretta dell’art. 7 della Carta di Nizza (che, come detto, ha, per effetto del Trattato di Lisbona, lo stesso valore giuridico dei Trattati - art. 6 TUE) o, non ravvisandosi alcuna lacuna normativa in forza dell’interpretazione sopra indicata, dell’art. 8 della CEDU (che non può essere applicato direttamente in caso di contrasto insanabile in via interpretativa con una norma interna - essendo invece necessario in questo caso sollevare questione di legittimità costituzionale - ma può trovare applicazione diretta in caso di lacuna normativa, essendo stata tale convenzione internazionale recepita da legge ordinaria). E peraltro, anche qualora si volesse ricorrere a tale percorso giuridico, pur astrattamente ipotizzabile, si perverrebbe di fatto, seppure sulla base di parametri normativi in parte diversi, al medesimo risultato del riconoscimento del diritto dei minori al mantenimento dei rapporti significativi con la ricorrente. Va ora precisato che non si tratta di riconoscere un diritto ex novo in capo ai minori ma solo garantire una tutela giuridica ad uno stato di fatto già esistente da anni, nel superiore interesse dei bambini, i quali hanno trascorso i primi anni della loro vita all’interno di un contesto familiare che vedeva insieme la madre biologica con la omissis, figura che essi percepiscono come riferimento affettivo primario al punto tale da rivolgersi il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile spesso a lei con il termine “mamma” (come già ampiamente detto sopra). Ne deriva che, in accoglimento a quanto suggerito dai consulenti d’ufficio, il Tribunale ritiene opportuno pre- vedere un calendario di incontri tra la omissis e i bambini (omissis) Corte d’Appello di Palermo, Sez. I, ord., 17 luglio 2015 - Pres. Librino - Est. Hmeljak In caso di cessazione della convivenza tra due persone, nello specifico dello stesso sesso, durante la quale una delle due abbia svolto de facto il ruolo di genitore nei confronti dei figli dell’altra, l’assenza di legittimazione attiva in capo al “genitore sociale” non può trovare rimedio nell’intervento del P.M. ai sensi dell’art. 70 c.p.c., né la norma di cui all’art. 337 ter c.c., può essere interpretata in modo da ricomprendere, tra i soggetti legittimati a conservare rapporti significativi con i minori, gli adulti di riferimento privi di rapporti di parentela con essi, in considerazione della struttura “rigida” di tale norma. Poiché, ciononostante, mantenere rapporti significativi con l’ex partner del genitore biologico corrisponde al best interest del minore, deve essere sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter c.c., nella parte in cui non consente all’autorità giudiziaria, di effettuare tale valutazione nel caso concreto, in violazione degli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, comma 1, Cost. (quest’ultimo con riferimento all’art. 8, CEDU, quale norma interposta). ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Parzialmente conforme: Trib. Palermo, Sez. I, decr., 6 aprile 2015. Difforme Trib. Ivrea, 12 febbraio 2014 La Corte (omissis). Osserva Occorre in primo luogo rilevare che correttamente il primo giudica ha respinto l’eccezione di incompetenza per materia del Tribunale ordinario in favore del Tribunale per i Minorenni di Palermo, in quanto formulata dalla parte resistente solo in sede di note conclusive nel giudizio di primo grado, e quindi tardivamente (cfr. sull’estensione ai procedimenti di tipo camerale delle norme previste per il rito ordinario, in quanto compatibili, Cass. S.U. n. 5629/1996 o Cass. sez. I n. 15100/2005) e che è infondata quella di incompetenza territoriale del Tribunale ordinario di Palermo in favore del Tribunale di Termini Imerese, in quanto l’effettiva dimora abituale dei minori al momento dell’introduzione del giudizio (da intendersi quale luogo in cui il minore svolge in modo continuativo la propria vita personale e familiare), aldilà del formale cambio di residenza nel comune di omissis è stata individuata, sulla base della documentazione prodotta, a Palermo, dove gli stessi vivevano stabilmente presso l’abitazione della nonna, frequentavano quotidianamente la scuola (l’istituto omissis) o dove continua a vivere la omissis con i figli dal mese di settembre 2014, nell’abitazione di via omissis Va parimenti respinta l’ulteriore questione preliminare, riproposta dalla omissis in sede di reclamo, relativa all’asserita violazione del principio del ne bis in idem, che, ove fondata, determinerebbe l’improcedibilità dell’azione. Non sussiste, invero, identità di domande tra quanto chiesto dalla reclamante con il ricorso introduttivo del presente giudizio e quanto congiuntamente chiesto dalla omissis dalla omissis con il ricorso depositato in data 5 luglio 2011 al Tribunale per i Minorenni di Palermo o de- il Corriere giuridico 12/2015 ciso dal predetto Tribunale con decreto del 25/28 ottobre 2011, confermato dalla Corte dì Appello di Palermo (cfr. doc. n. 4 della produzione di omissis nel giudizio di primo grado), in quanto le rispettive azioni risultano diverse in tutti gli elementi identificativi (soggetti attivi e passivi del rapporto sostanziale dedotto nel processo, petitum e causa petendi). Ed invero, il ricorso del 2011 è stato presentato congiuntamente da entrambe le donne all’epoca conviventi, ed era volto ad ottenere il riconoscimento in capo alla omissis nei confronti dei minori di doveri e poteri analoghi a quelli inerenti la potestà genitoriale, mentre il ricorso introduttivo del presente giudizio è stato presentato dalla sola omissis nei confronti della omissis al fine di ottenere il riconoscimento di un diritto dei minori e l’adozione del “provvedimenti ritenuti più idonei ad assicurare il superiore interesse di omissis e di omissis e per l’effetto stabilire tempi e modalità di frequentazione con la sig.ra omissis”. Sempre in via preliminare va affrontato l’argomento della legittimazione ad agire di omissis oggetto del reclamo incidentale dalla stessa proposto. Ed invero, pur avendo il Tribunale dichiarato il difetto di legittimazione attiva della ricorrente (non essendo la stessa genitore biologico né adottivo dei minori, ma solo ex convivente del genitore biologico), non ha dichiarato inammissibile il ricorso, ma ha proseguito nell’esame del merito della domanda dalla ricorrente, fatta propria dal P.M., intervenuto nel giudizio ai sensi dell’art. 70 c.p.c., come risultante all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 214/1996, e comunque ai sensi del comma 3 dell’art. 70 c.p.c. (intervento facoltativo nelle cause in cui il P.M. ravvisa un pubblico interesse). In particolare, il primo giudice ha ritenuto sul punto di non sollevare l’eccezione di legittimità costituzionale, 1555 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile sollecitato dalla ricorrente, sul presupposto che, per quanto concerno l’art. 337 bis c.c., difettasse nel caso concreto il carattere della rilevanza della questione o della necessaria strumentalità rispetto alla decisione da adottare, poiché “nel presente giudizio è stato fatto valere il diritto dei minori ad incontrare persone con cui essi hanno una relazione affettiva stabile e non è state invece chiesta la tutela del diritto di visita dell’ex convivente del genitore”. Il Tribunale ha invece ritenuto inammissibile la questione di illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 337 ter c.c., in quanto la necessità di garantire il superiore interesse dei minori, posto alla base di tale norma, e di interpretare la stessa in conformità agli artt. 7 e 24 della Carta di Nizza e all’elaborazione giurisprudenziale che del predetto principio ha fornito la Corte Europea nell’applicazione dell’art. 8 a della CEDU, “impone di procedere ad un’interpretazione certamente evolutiva ma costituzionalmente o convenzionalmente conforme dell’art. 337 ter c.c. volta ad estendere l’ambito applicativo della stessa sino a delineare un concetto allargato di bigenitorialità e di famiglia, ricomprendendo per tale via anche la figura del genitore sociale, ossia di quel soggetto che ha instaurato con il minore un legame familiare de facto significativo e duraturo”. Pertanto, sempre secondo il primo giudice, una lettura della norma introdotta dall’art. 337 ter c.c. “che escludesse dal suo ambito di operatività rapporti genitoriali di fatto sarebbe violativa delle disposizioni della Corta di Nizza o della Cedu”, in quando priverebbe di qualsiasi tutela i minori, il cui interesse, invece, va sempre perseguito, nelle ipotesi di separazione, anche quella tra il genitore biologico e il partner (ivi compreso il caso della coppia omosessuale) con cui di fatto è stata condivisa la responsabilità genitoriale. Orbene, noi caso in esame risulta assodato in punto di fatto: - che la omissis aveva avuto una relazione sentimentale con la omissis (non contestata da quest’ultima) con la quale ha convissuto stabilmente dal 2004; - che la omissis in accordo con la omissis al fine di completare il loro progetto di vita, si era sottoposta a procreazione assistita di tipo eterologo, conclusasi con la gravidanza e la nascita nel 2008 dei due gemelli, omissis e omissis e che la omissis, contribuendo alla cura e all’assistenza del figli della sua convivente, aveva assunto di fatto il ruolo di genitore sociale degli stessi, tanto da chiederne noi 2001, insieme alla omissis, un formale riconoscimento, poi rigettato, come si evince dal citato provvedimento del Tribunale per i Minorenni di Palermo del 25 ottobre 2011; - che il riconoscimento di tale ruolo emerge anche dal contenuto della CTU espletata nel giudizio di primo grado (sulla cui regolarità va condivisa la decisione del Tribunale, non ravvisandosi in concreto alcuna violazione del diritto delle parti a partecipare all’indagine peritale e non essendo stata sollevata in proposito alcuna specifica censura da parte della reclamante principale), secondo la quale i bambini riconoscono la omissis 1556 “come appartenente al loro sistema familiare nucleare in una posizione di seconda mamma”. Ciò premesso, la questione preliminare e fondamentale da risolvere a questo punto, visto l’appello incidentale proposto dalla omissis è se a quest’ultima possa essere riconosciuta, alla stregua della legislazione vigente, la legittimazione ad egire nel presente procedimento, in quanto ex partner del genitore biologico dei minori. Il Tribunale ha dichiarato il difetto della legittimazione attiva di omissis salvo poi proseguire nell’esame del merito della domanda della ricorrente, fatta propria dal P.M., intervenuto nel giudizio ai sensi dell’art. 70 c.p.c. I dubbi sollevati dalla difesa di omissis in ordine alla sussistenza di un potere di azione del P.M. nella materia oggetto del presente procedimento - attesa la decisione adottata dal Tribunale che, pur negando la sussistenza della legitimatio ad causam dell’odierna reclamante incidentate, avrebbe riconosciuto sostanzialmente alla omissis il ruolo di genitore sociale attribuendole implicitamente un diritto che non giustifica più l’intervento del P.M., data l’assenza in concreto di un pubblico interesse - verrebbero comunque superati, in termini di rilevanza della questione, ove fosse riconosciuta la legittimazione od agire della omissis. Occorre in effetti evidenziare che erroneamente il Tribunale, dopo avere dichiarato il difetto di legittimazione ad agire della omissis ha ritenuto procedibile il ricorso sul presupposto che il P.M., intervenuto ai sensi dell’art. 70 c.p.c ha fatto propria la domanda della ricorrente, posto che nei casi in cui è previsto l’intervento obbligatorio del P.M. (fra i quali rientrano anche le cause proposte ex art. 337 bis ss. c.c., quale quella in esame), quest’ultimo non può a sua volta proporre autonomamente i relativi giudizi, se non espressamente previsto dalla legge, essendo peraltro ridotta anche la sua legittimazione ad impugnare (cfr. Cass. n. 3502 del 13 febbraio 2013 e n. 27145 del 13 novembre 2008), e ciò a maggior ragione nei casi di intervento facoltativo ai sensi dell’art. 70, ult. comma c.p.c. Peraltro, per affermare la sussistenza di un preminente interesse dei minori, che giustificherebbe la decisione adottata, il Tribunale ha finito per riconoscere di fatto alla omissis una responsabilità genitoriale che, inizialmente, aveva escluso dichiarando la carenza della legittimazione ad agire della medesima. Orbene, questa Corte condivide pienamente l’individuazione dei parametri costituzionali e convenzionali operata dai primo giudice - che sanciscono il principio del cd. best interest del minore (quali la Dichiarazione Universale dei diritti del fanciullo dei 1959, gli artt., 7 e 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea o cd. Carta di Nizza, l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nell’interpretazione loro attribuita dalla Corte EDU, quali “norme interposte” ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, primo comma, Cost.). Contrariamente a quanto stabilito dai Tribunale, tuttavia, si ritiene che per affermare il diritto dei minori a mantenere il rapporto instauratosi con l’ex partner del loro genitore biologico, è quindi, di conseguenza, anche il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile per affermare la sussistenza della legittimazione attiva della omissis, seppure funzionale all’interesse del minore, non sia possibile compiere l’operazione ermeneutica effettuata dal primo giudico in relazione all’art. 337 ter c.c. (che al primo comma stabilisce che “il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti o con i parenti di ciascun ramo genitoriale” e al secondo comma prevede che “per realizzare la finalità indicata al primo comma, nei provvedimenti di cui all’art. 337 bis, il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa...”), stante il carattere “rigido” dì tale disposizione che non si presta ad una differente opzione interpretativa, in considerazione del suo significato non equivoco e non suscettibile di diversa valutazione. In sostanza, non si ritiene possibile interpretare la norma prevista dall’art. 337 ter c.c., applicabile nel caso di specie, in senso conforme alia Convenzione, a causa dell’univocità del dato testuale, a fronte del quale, fra i soggetti con i quali il minore ha diritto a mantenere un rapporto stabile e significativo, non rientra anche l’ex partner dei genitore biologico. Di conseguenza, ravvisandosi un contrasto non componibile in via interpretativa, è necessario sottoporre la norma interna a scrutinio di costituzionalità. Ritiene invero questa Corte che la disposizione di cui all’art. 337 ter c.c. introdotta dall’art. 55 D.Lgs. n. 154/2013, in materia di regolamentazione dei rapporti tra genitori a figli, sembra presentare diversi profili di censura sul piano costituzionale. La predetta norma viola innanzitutto l’art. 2 Cost. - che ricomprende tra le “formazioni sociali” anche le famiglie di fatto, incluse quelle riguardanti coppie formate da persone dello stesso sesso - sotto il profilo della mancata tutela del rapporto tra il minore e l’ex partner del genitore biologico del minore. In secondo luogo, la mancata inclusione di quest’ultimo fra i soggetti con i quali il minore ha diritto a mantenere un rapporto stabile e significativo, anche dopo la disgregazione della coppia, appare in conflitto con l’interesse dei minore violando, di conseguenza, gli artt. 2, 30 e 31 Cost., e il parametro interposto di cui all’art. 8 della Convenzione europea del diritti dell’uomo. Ed invero, la struttura “rigida” della disposizione di cui all’art. 337 ter c.c., caratterizzata da un automatismo che preclude al giudice di vagliare l’affettivo preminente interesse del minore (cfr. sul punto Corte cost. n. 31/2012), vanifica i principi di origine internazionale ed europea ponendosi altresì in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) o con il diritto del minore ad una famiglia (artt. 2, 30 e 31 Cost.), ed in particolare a mantenere rapporti significativi con l’ex partner del genitore biologico, compresi i casi di famiglia omo - genitoriali. Infine, la disposizione in parola si pone in contrasto con l’art. 117, comma 1 Cost., che obbliga il legislatore il Corriere giuridico 12/2015 italiano a rispettare i vincoli giuridici impostigli dal diritto dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali (quali la Convenzione sul diritti del fanciullo adottata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata in Italia con L n. 176/1991, la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con l. n. 77/2003, la Carta del diritti fondamentali dell’Unione Europa del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo o cd. Carta di Nizza), nonché con l’art. 8 Cedu, quale norma interposta, come viene interpretata in modo costante dalla Corte EDU in materia di riconoscimento del diritto dei genitori e dei figli, nonché di altri soggetti uniti da relazioni familiari di fatto, a mantenere stabili relazioni, anche nell’ipotesi di crisi della coppia, avuto riguardo sempre al preminente interesse dei minore (cfr. sul punto Corte EDU del 13 giugno 1979, caso Marckx e. Belgium, Corte EDU del 26 maggio 1994, caso Koogan e. Irlanda, Corte EDU del 22 aprile 1997, X.Y. e Z. c. Regno Unito, Moretti e Benedetti c. Italia del 27 aprile 2010). Per tutti i profili sopra esposti, la Corte di Appello di Palermo ritiene necessario sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter c.c., nella parte in cui non consente al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore mantenere rapporti significativi con l’ex partner del genitore biologico. Nel caso di specie è evidente la rilevanza della questione, posto che, in assenza della pronuncia di incostituzionalità, alla Corte adita verrebbe precluso il dovere di valutare la sussistenza dei superiore interesse del minore a mantenere rapporti stabili con la ex compagna della madre, in quanto, in accoglimento dei reclamo, in mancanza del potere di iniziativa del P.M., la domanda della omissis dovrebbe essere rigettata, perché attualmente la norma impugnata preclude alla Corte di riconoscere tra i soggetti legittimati a conservare rapporti significativi con il minore anche l’ex partner del genitore biologico. Quanto all’ammissibilità della questione, già si è detto dell’impossibilità di esperire un’interpretazione adeguatrice della norma in oggetto, stante il significato univoco della stessa. omissis P.Q.M. Visti gli artt. 134 Cost. e 23 della legge 11 marzo 1953. n. 87; Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter c.c., introdotto dall’art. 55 D.Lgs. n. 154/2013, nella parte in cui - in violazione degli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, comma primo (sub specie in violazione dell’art. 8 CEDU, quale norma interposta), Cost. - non consente al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore conservare rapporti significativi con l’ex partner del genitore biologico. 1557 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile Genitore “sociale” e relazioni di fatto: riconosciuta la rilevanza dell’interesse del minore a mantenere un rapporto stabile e significativo con il convivente del genitore biologico di Silvia Veronesi (*) Le due decisioni che si commentano affrontano, per la prima volta, la questione del riconoscimento, da parte del nostro ordinamento, della figura del “genitore sociale” - ossia di quella persona che, pur non avendo vincoli biologici con i soggetti minorenni facenti parte del nucleo familiare, svolge un ruolo che con quello del genitore si identifica - e della rilevanza giuridica della relazione che tra il primo ed i secondi si crea e merita di essere preservata, in relazione al preminente interesse degli stessi minori al mantenimento delle relazioni affettive, significative e durature. Non è stata considerata ostativa, nel caso concreto, al riconoscimento del diritto dei minorenni al mantenimento della relazione con l’adulto di riferimento, la circostanza che tale adulto fosse la compagna della madre biologica, con la quale i bambini inizialmente convivevano. In considerazione tuttavia dell’assenza, nel diritto positivo interno, di una norma che riconosca espressamente il diritto dei soggetti minorenni, nel momento della disgregazione familiare, a mantenere i rapporti significativi con gli adulti facenti parte del nucleo familiare di fatto, la Corte d’Appello di Palermo ha, in modo convincente, evidenziato la contraddizione e l’irragionevolezza della disparità di trattamento e sollevato l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter c.c., introdotto dall’art. 55, D.Lgs. n. 154/2013, nella parte in cui - in violazione degli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, comma primo (sub specie in violazione dell’art. 8 CEDU, quale norma interposta), Cost. - non consente al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore conservare rapporti significativi con l’ex partner del genitore biologico. I fatti e lo svolgimento del procedimento di primo grado Con ricorso ai sensi dell’art. 737 c.p.c. la ricorrente ha convenuto la ex-compagna innanzi al Tribunale di Palermo affinché lo stesso regolamentasse tempi e modi di frequentazione tra la stessa ricorrente e i due figli minori della ex convivente. La ricorrente, a fondamento della propria domanda, ha dedotto: - di aver intrattenuto una relazione sentimentale per la durata di circa otto anni con la resistente, con cui aveva anche condiviso, sostenendone oneri e responsabilità, un progetto di genitorialità, poi realizzatosi grazie al ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo; - di aver accudito ed accompagnato nella crescita, sin dalla nascita, i figli della ex compagna, predisponendo una organizzazione di vita comune tale da garantire alla prole un contesto di sviluppo armonioso e sereno, oltre che economicamente solido; - di aver adito, assieme alla madre biologica dei bambini, le autorità giudiziarie ritenute competenti affinché le fossero riconosciuti diritti e responsabi- lità analoghi a quelli della madre biologica nei confronti dei bambini; azioni che non avevano avuto tuttavia esito positivo; - che, a causa dell’insorgere di contrasti e dissensi con la resistente per motivi sia economici sia riguardanti le scelte educative dei bambini, la relazione affettiva tra le due si era incrinata fino a rompersi definitivamente nel febbraio 2014; - che la madre biologica aveva reso difficoltosa la frequentazione tra la ex compagna e i due figli. Nel costituirsi in giudizio, la resistente ha sollevato una serie di eccezioni di natura processuale chiedendo, nel merito, il rigetto delle domande avversarie, in considerazione dell’inesistenza, nell’ordinamento italiano, di un diritto soggettivo, in capo all’ex convivente del genitore, a mantenere rapporti con i figli del secondo a seguito della cessazione della convivenza tra i due. Il Pubblico Ministero, intervenuto nel procedimento, ha assunto in proprio e nell’interesse pubblico, le richieste formulate dalla ricorrente. È stata dunque espletata consulenza tecnica d’ufficio volta ad accertare: i) l’esistenza di una relazione affettiva tra i minori e la ricorrente; ii) la percezione, da (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. 1558 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile tre, con riguardo all’art. 337 ter c.c., la questione è stata dichiarata inammissibile alla luce dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata che è stata poi adottata con la decisione assunta in via definitiva. parte dei primi del ruolo della seconda e iii) le eventuali conseguenze della interruzione dei rapporti tra i bambini e la convivente della madre. Esaurita la consulenza tecnica, depositate le note conclusive di entrambe le parti, il Pubblico Ministero ha concluso per l’accoglimento del ricorso, facendo proprie le conclusioni cui erano pervenuti i consulenti tecnici. La decisione di merito è stata assunta dopo che le diverse eccezioni preliminari sollevate dalla resistente sono state superate dal Tribunale positivamente (1) ad esclusione di quella relativa al difetto di legittimazione attiva della ricorrente. Tale ultima eccezione, infatti, non poteva che essere accolta, stante la pacifica assenza nel nostro ordinamento di una previsione che riconosca la responsabilità genitoriale in capo al genitore cd. “sociale”. Ancor meno, secondo il Collegio, la ricorrente poteva far valere diritti dei minori, in nome e per conto dei medesimi, posto che la stessa non era genitore biologico né adottivo dei medesimi. Il Tribunale tuttavia, nonostante la carenza di legittimazione attiva in capo alla ricorrente, ha proseguito l’esame nel merito delle domande formulate nel ricorso introduttivo, a quel punto fatte proprie dal Pubblico Ministero, interveniente necessario nel procedimento (2). Il Tribunale ha infine affrontato la questione, proposta dalla stessa ricorrente, di illegittimità costituzionale dell’art. 337 ter in relazione agli artt. 2 e 30 Cost., e in combinato disposto con gli artt. 317, 317 bis, 336 e 337 bis c.c. laddove tale normativa non prevedeva il diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato, continuativo e significativo dello stesso minore con il genitore sociale nel caso della separazione della coppia omosessuale. Anche tale ultima questione è stata risolta dal Tribunale con una dichiarazione di irrilevanza in considerazione della mancanza del requisito della strumentalità rispetto alla decisione da adottare per quanto concerneva l’art. 317 bis (3) c.c., men- Il Tribunale di Palermo, previa dichiarazione del difetto di legittimazione attiva della ricorrente e in accoglimento delle domande formulate dal Pubblico Ministero nell’esclusivo interesse dei minori, ha disposto, sulla base di una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata degli artt. 337 bis e 337 ter c.c., la regolamentazione della frequentazione tra i minori e la madre “sociale”, ex convivente della madre biologica, secondo i tempi e le modalità suggerite dai consulenti tecnici incaricati dallo stesso Tribunale. Con la decisione in esame il tribunale di Palermo ha affrontato la questione del mantenimento dei rapporti affettivi significativi tra soggetti minori di età e l’eventuale adulto di riferimento facente parte del nucleo familiare, indipendentemente dall’esistenza di vincoli biologici tra i primi ed il secondo, a seguito della disgregazione familiare. Nello specifico la questione riguardava un nucleo familiare formato da due persone dello stesso sesso e dai figli biologici di una delle due, ma la questione e le argomentazioni svolte valgono, a parere di chi scrive, per tutti i legami familiari, significativi e duraturi, che si creino all’interno di un sistema familiare, tra chi svolge un ruolo genitoriale (cd. genitore sociale) ed i soggetti minori. Sotto il profilo fattuale, il Tribunale di Palermo, grazie ai documenti depositati ed all’approfondita ed attenta consulenza tecnica d’ufficio svolta, ha ritenuto accertata l’esistenza di un pregresso nucleo familiare di fatto formato dalla ricorrente e dalla (1) In particolare: 1) incompetenza funzionale del Tribunale ordinario di Palermo, a favore del Tribunale per i minorenni, asseritamente competente ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.p.c.; 2) incompetenza territoriale del Tribunale di Palermo; 3) violazione del principio del ne bis in idem; 4) difetto di legittimazione della ricorrente; 5) irregolarità nelle modalità di svolgimento della consulenza tecnica d’ufficio con particolare riferimento al mancato rispetto del contraddittorio. (2) Il Tribunale di Palermo assume che il P.M. sia da considerarsi interveniente necessario e come tale legittimato a far proprie le conclusioni della ricorrente, sulla base dell’art. 70, n. 2, c.p.c., che prevede che lo stesso debba intervenire nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale tra i coniugi, e, in virtù dell’intervento della Corte Costituziona- le, con sentenza in data 25 giugno 1996, n. 214, “nei giudizi tra genitori naturali che comportino l’adozione di provvedimenti relativi ai figli” (ai sensi di cui all’art. 9, L. n. 898/1970 e dell’art. 710 c.p.c., nella formulazione risultante dall’intervento della Corte costituzionale, con sentenza in data 9 novembre 1992, n. 416). (3) Mentre infatti l’art. 317 bis c.c., fa riferimento al diritto degli ascendenti “a mantenere rapporti significativi con i nipoti”, la domanda contenuta nelle conclusioni della ricorrente mirava all’“assunzione dei provvedimenti ritenuti più idonei ad assicurare il superiore interesse dei due minori e, per l’effetto, a stabilire i tempi e le modalità di frequentazione” degli stessi con la ricorrente. Si trattava quindi di due posizioni differenti da tutelare. il Corriere giuridico 12/2015 La decisione del Tribunale di Palermo: la centralità della questione della salvaguardia dell’interesse del minore 1559 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile resistente, e dai due figli biologici della seconda; figli che riconoscevano anche la ricorrente come soggetto appartenente al proprio sistema familiare, nella posizione di “seconda” mamma. Secondo lo stesso Tribunale, era indubbio che una interruzione dei rapporti tra i bambini e la ricorrente - con la quale avevano convissuto stabilmente per oltre sei anni e che essi consideravano come un secondo genitore - si sarebbe risolta in un pregiudizio dei primi, in considerazione degli “effetti nefasti sulla loro continuità affettiva e narrativa” e quindi sulla evoluzione della loro identità psichica che tale interruzione avrebbe provocato (tali erano state le considerazioni conclusive dei consulenti tecnici d’ufficio). Il Tribunale ha individuato la fondatezza giuridica della propria decisione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo createsi sull’interpretazione ed applicazione dell’art. 8 della CEDU (che sancisce il diritto del rispetto alla vita privata e familiare), sia in relazione al principio di prevalenza dell’interesse del minore sia in relazione alla nozione di “vita familiare”, unitamente alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, in relazione all’interpretazione degli artt. 7 e 24 della c.d. Carta di Nizza. In particolare il Tribunale ha fatto presente che: - l’affermazione del principio della “preminenza” del “superiore interesse del fanciullo” risaliva alla Dichiarazione Universale dei diritti del Fanciullo del 1959 (4) ed aveva trovato espresso riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, laddove l’art. 24 disponeva che in tutti gli atti relativi ai bambini l’interesse superiore degli stessi doveva essere considerato preminente (5); - La Corte di Giustizia aveva precisato che l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il cui contenuto corrispondeva a quello di cui all’art. 8 CEDU, andava letto in combinato disposto con l’obbligo di prendere in considerazione l’interesse superiore del minore, sancito dall’art. 24 della stessa Carta, tenendo conto della necessità dello stesso minore di intrattenere rapporti personali con i due genitori (6); - Il principio della prevalenza del superiore interesse del minore, pur non essendo sancito espressamente dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo del 1950, era stato fatto proprio dalla Corte di Strasburgo, nell’interpretazione dell’art. 8 della stessa Carta, fin da tempi risalenti; - La nozione “di vita familiare” di cui all’art. 8 della CEDU, era stata progressivamente estesa dalla Corte di Strasburgo prima nei confronti delle coppie non coniugate, e poi ai legami familiari di fatto, in presenza di vincoli di natura affettiva anche se non corrispondenti a vincoli biologici (7). La stessa norma, peraltro, seppur non sancisse un diritto a costituire una famiglia, sanciva comunque il diritto a vedere tutelata una famiglia - intesa in senso ampio - già esistente; - Ai sensi dell’art. 337 ter c.c., applicabile anche ai figli nati fuori del matrimonio, “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di mantenere rapporti significativi con gli scendenti, e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”; - Per il giudice nazionale vigeva l’obbligo di interpretare le norme interne in modo conforme alle norme convenzionali, secondo l’esegesi che di esse veniva data dalle Corti internazionali, ricorrendo all’eccezione di incostituzionalità delle norme inter- (4) Principi secondo e settimo della Dichiarazione Universale dei diritti del Fanciullo proclamata il 20 novembre 1959 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite; (5) La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, è stata proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (c.d. Carta di Nizza), è stata modificata il 14 dicembre 2007 (c.d. Carta di Strasburgo, proclamata il 12 dicembre 2007), ed è entrata in vigore, nel testo consolidato, unitamente al Trattato di Lisbona, a seguito della pubblicazione sulla G.U.U.E. il 30 marzo 2010. (6) Nella sentenza con cui sono stati decisi due procedimenti riuniti (C-356/11 e C-357/11), la Corte di Giustizia Europea, ha affermato, in materia di ricongiungimento familiare, che, nel corso dell’esame delle domande di ingresso, e quindi nello stabilire, segnatamente, se i requisiti di cui all’art. 7, paragrafo 1, Dir. 2003/86 vengono soddisfatti, le disposizioni di detta direttiva devono essere interpretate e applicate alla luce degli artt. 7 e 24, paragrafi 2 e 3, della Carta, come risulta del resto dal tenore letterale del considerando 2 e dall’art. 5, paragrafo 5, di tale direttiva, i quali impongono agli Stati membri di esaminare le domande di ricongiungimento in questione nell’interesse dei minori di cui trattasi e nell’ottica di favorire la vita familiare. Di conseguen- za, spetta alle autorità nazionali competenti, in sede di attuazione della Dir. 2003/86 e dell’esame delle domande di ricongiungimento familiare, procedere a una valutazione equilibrata e ragionevole di tutti gli interessi in gioco, tenendo conto in particolare di quelli dei minori interessati. (7) Il Tribunale di Palermo, con riguardo all’affermazione del principio della prevalenza del superiore interesse del minore e della nozione di vita familiare, ha menzionato le seguenti decisioni della Corte Europea dei diritti dell’Uomo: sent. 13 giugno 1979, Marckx v. Belgium; sent. 26 maggio 1994, Keegan c. Irlanda; sent. 22 aprile 1997, X., Y. E Z. c. Regno Unito nonché la sentenza del 27 aprile 2010 (divenuta definitiva il 22 novembre 2010), Moretti e Benedetti v. Italia (Ricorso n. 16318/07); caso, quest’ultimo, in cui una coppia aveva accolto in affido, ad un mese dalla nascita, una infante, trattandola come una figlia per i diciannove mesi successivi e, avendo proposto domanda di adozione, si era vista negare tale possibilità; la Corte di Strasburgo, ritenendo rilevante il legame che si era instaurato tra la coppia affidataria e la bambina affidata, ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 Cedu, per la mancanza del rispetto della vita familiare. 1560 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile ne solo qualora non fosse possibile fornire di esse una interpretazione convenzionalmente orientata, nonché l’obbligo di fare applicazione diretta della normativa europea che, qualora contrastante con la norma interna, doveva prevalere sulla seconda (8). Tutto ciò argomentato, il Tribunale di Palermo, fornendo una interpretazione evolutiva e convenzionalmente orientata dell’art. 337 ter c.c., ha esteso l’ambito di applicazione di tale norma al genitore “sociale”, ossia a quel soggetto che abbia instaurato con il minore un legale familiare de facto significativo e duraturo. Il Collegio dunque, nel preminente interesse dei due minori a non veder interrotti od affievoliti i rapporti tra essi e la “madre sociale” con la quale avevano vissuto prima della disgregazione del nucleo familiare, ha accolto le domande del Pubblico Ministero volte ad ottenere una regolamentazione della frequentazione tra i bambini e la ricorrente. Non è stata considerata ostativa a detta decisione la circostanza che, compagna della madre biolo- gica fosse parimenti una donna, in considerazione della pacifica constatazione, da parte dei giudici nazionali e delle Corti sovranazionali, che, allo stato, in assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza significativi in senso contrario, i legami familiari che nascevano da una coppia dello stesso sesso meritavano tutela come quelli nati nel contesto di una famiglia “tradizionale” (9). Assorbente è stata poi considerata la constatazione conclusiva secondo cui non si discuteva di un diritto “alla filiazione” da attribuire ex novo ad una coppia omosessuale quanto del diritto dei minori, membri di un nucleo familiare di fatto, a mantenere una relazione già esistente. (8) Il Tribunale di Palermo, cita il principio sancito dalle sentenze della Corte cost. nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007, vertenti su identica questione di illegittimità costituzionale, secondo cui il nuovo testo dell’art. 117, comma 1, Cost. (“la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”), seppur non attribuisca rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, come è il caso delle norme Cedu, obbliga il legislatore ordinario a rispettare tali norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma Cedu e dunque con gli obblighi internazionali di cui all’art. 117, comma 1, Cost., viola per ciò stesso tale parametro costituzionale. “Ne consegue che, al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale ‘interposta’, egli deve investire questa Corte (Costituzionale, ndr) della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma [omissis]” (Corte cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349; conformi: Corte cost. 11 marzo 2011, n. 80; Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236 e Corte cost. 26 gennaio 2012, n. 15). Nel senso che il giudice debba conformarsi alla sola giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente in modo da rispettarne la sostanza e fermo restando il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro, Corte Cost. 26 marzo 2015, n. 49; conformi: Corte cost. 11 novembre 2011, n. 303; Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236; Corte cost. 4 dicembre 2009, n. 317 e Corte cost. 26 novembre 2009, n. 311. Correttamente peraltro il Tribunale di Palermo ha evidenziato che, nel caso di specie, si poteva ritenere che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo interpretativa dell’art. 8 Cedu, dovesse ritenersi diritto direttamente applicabile all’interno del nostro ordinamento, in considerazione della corrispondenza del contenuto di tale norma a quello dell’art. 7, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che, parimenti, recita: “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni”. Infatti, in virtù del combinato disposto dell’art. 53, comma 3, Carta Europea Diritti Fondamentali dell’UE, che dispone che laddove detta Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione Europea del 1950, “il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione”, e dell’art. 6, comma 1, T.U.E., che sancisce che l’Unione riconosce alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE lo stesso valore giuridico dei Trattati, e dell’art. 6, comma 3, T.U.E., i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU corrispondenti a quelli previsti da tale ultima Carta avrebbero dovuto essere considerati incorporati nei principi generali dell’Unione e come tali direttamente applicabili all’interno degli Stati Membri. Per una compiuta ed esaustiva analisi dei ‘rapporti’ tra la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, la Corte di Giustizia e i giudici comuni nazionali, si veda Pierpaolo Gori, Il ruolo del giudice ordinario dopo il parere della Corte di Giustizia C-2/13 del 18.12.2014, tra efficacia ed esecuzione delle sentenze CEDU, in Persona e danno (http://www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=47386&catid=211) e Europeanrights (http://www.europeanrights.eu/index.php?funzione=S&op=5&id=1093). (9) In tal senso Trib. Minorenni di Roma 30 luglio 2014, n. 299, in Fam. e dir., 2015, 574, con nota di M. G. Ruo, A proposito di omogenitorialità adottiva ed interesse del minore. Nello stesso senso, di assenza di motivi ostativi alla cura ed all’accudimento di minorenni da parte di una coppia omogenitoriale: Cass. 11 gennaio 2013, n. 601, in Dir. fam. pers., 2013, 2, 515, Giust. civ., 2013, 11-12, I, 2508 e Foro it., 2013, 4, I, 1193; Trib. Palermo 9 dicembre 2013, in Foro it., 2014, 4, I, 1132, con nota di Casaburi, Cass. 8 novembre 2013, n. 25213, in Foro it., 2014, 1, 59, Trib. minorenni Bologna, 31 ottobre 2013, in Foro it., 1, I, 59. Rispetto alla Giurisprudenza della Corte Europea, si veda recentemente, X e altri c. Austria, 19 febbraio 2013 (ricorso n. 19010/2007). Si ricorda infine, seppur non riguardante specificamente l’idoneità educativa e genitoriale delle coppie dello stesso sesso, la recente sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo di condanna dell’Italia per violazione dell’art. 8 Cedu, a causa del mancato adempimento da parte dello Stato degli obblighi positivi volti ad assicurare alle coppie dello stesso sesso la disponibilità di uno specifico istituto legale che garantisca il riconoscimento e la tutela della loro unione (Cedu, Oliari and Others v. Italy, 21 luglio 2015, ricorso n. 18766/11 e 36030/11). il Corriere giuridico 12/2015 La decisione della Corte d’Appello di Palermo A seguito di reclamo presentato dalla resistente - che ha riproposto le questioni preliminari già sollevate nel procedimento di primo grado - la Corte d’Appello di Palermo, pur dando atto della condi- 1561 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile Le due decisioni che si commentano affrontano la questione del riconoscimento, da parte dell’ordi- namento, della figura del “genitore sociale”, ossia di quella persona che, pur non avendo vincoli biologici con i soggetti minorenni facenti parte del nucleo familiare, svolge un ruolo che con quello del genitore si identifica. Non esiste infatti nel nostro ordinamento una disciplina, generale ed organica, che regolamenti i rapporti tra il genitore “sociale”, coinvolto nell’educazione e nell’istruzione del figlio minore del coniuge o del partner in virtù della convivenza, e detto minore. Tale, a volte importante, figura di riferimento per il soggetto minore, non trova alcun riconoscimento e sfugge agli schemi attraverso cui il nostro legislatore ha, fino ad ora, disegnato le relazioni parentali. I pochi istituti esistenti che vengono in rilievo, come l’inserimento del figlio del coniuge nel nuovo nucleo familiare ai sensi dell’art. 252 c.p.c., l’adozione del maggiore di età ai sensi degli artt. 291 ss., e l’adozione in casi particolari ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. b), L. n. 184/1983, presuppongono l’esistenza di un vincolo di coniugio tra i due soggetti conviventi (dei quali uno solo genitore biologico o adottivo dei soggetti minori appartenenti al medesimo nucleo). Vincolo che caratterizza le famiglie “tradizionali” e non quelle, ad esempio, costituite da una coppia omosessuale o da una coppia di fatto rispetto a figli non comuni ad entrambi (10). La dottrina più attenta, a fronte della veloce e significativa trasformazione dell’istituto familiare propria degli ultimi decenni, si è così dedicata a studiare le nuove relazioni familiari e ad individuare possibili strumenti di tutela, soprattutto dei soggetti minori, che sopperissero al vuoto normativo sul punto (11). In particolare l’attenzione si è orientata sui seguenti interrogativi: se ed in che termini il genitore “sociale” sia tenuto, od abbia facoltà, di provvedere alle esigenze di mantenimento (10) Per una analisi degli istituti giuridici e delle posizioni dottrinali che vengono in rilievo con riguardo alla posizione del “genitore sociale”, si vd. Silvia Veronesi, Le ‘nuove famiglie’ e la posizione del genitore ‘sociale’ rispetto ai figli del coniuge o del nuovo partner, in La famiglia si trasforma, a cura di G.O. Cesaro - P. Lovati - G. Mastrangelo, Milano, 2014. Con riguardo al rapporto tra gli istituti positivi dell’adozione del figlio del coniuge ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. b), L. n. 184/1983 e dell’adozione del maggiore di età e la tutela della famiglia ricostituita, si veda G. Corapi, l’adozione di maggiorenne nel caso particolare di famiglia ricostituita, in Fam. pers. succ., 2007, 3. (11) Si vedano, in proposito, tra gli altri: T. Auletta, La famiglia rinnovata: problemi e prospettive, a cura di Bianca - Togliatti - Micci, Interventi di sostegno alla genitorialità nelle famiglie ricomposte, Milano, 2005; G. Bilò, I problemi della famiglia ricostituita e le soluzioni dell’ordinamento inglese, in Familia, 2004, 834; Bruscuglia, Famiglie ricomposte e rapporti patrimoniali, in Interventi di sostegno alla genitorialità nelle famiglie ricomposte, Milano, 2005; D. Buzzelli, la famiglia ‘composita’, Napoli, 2012; E. Carbone, Della famiglia, sub art. 252, a cura di Gabrielli, Commentario del Codice civile, Torino, 2010; A. De Mauro, Le famiglie ricomposte, in Familia, 2005; M. Dell’Utri, Famiglie ricomposte e genitori ‘di fatto’, in Familia, 2005; G. Ferrando, Famiglie ricomposte e nuovi genitori, in Bilanci e prospettive del diritto di famiglia a trent’anni dalla riforma, a cura di T. Auletta, Milano, 2007; Id., Famiglie ricomposte e nuovi genitori, in Giur. it., 2007, 12; Id., Genitori e figli nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, in Fam. e dir., 2011. 1049; G. Oberto, Famiglia ricomposta e obbligazione naturale, in Famiglie ricostituite: aspetti patrimoniali, diritti e responsabilità del genitore sociale (traccia per una relazione), in www.giacomooberto.com; P. Rescigno, Le famiglie ricomposte: nuove prospettive giuridiche, in Familia, 2002; M.G. Scacchetti, La famiglia ricomposta, in Giur. merito, Speciale riforma diritto di famiglia, 2006; M. Sesta, Verso nuove trasformazioni del diritto di famiglia italiano, in Familia, 2003.; M. Sesta, l’unicità dello stato di filiazione e visibilità delle conclusioni del giudice di prime cure con riguardo alle prime tre questioni preliminari, nonché della valutazione di detto giudice con riguardo alla rispondenza al migliore interesse dei minorenni coinvolti del mantenimento dei rapporti con colei che essi consideravano come seconda “madre”, ha concluso diversamente rispetto alla possibilità per il Pubblico Ministero di far propria l’azione in oggetto, in assenza di legittimazione d’agire in capo alla ricorrente nel primo giudizio, e alla interpretabilità della norma di cui all’art. 337 ter c.c., in senso convenzionalmente e costituzionalmente orientato. La Corte, infatti, in considerazione della struttura “rigida” della norma di cui all’art. 337 ter c.c., ha ritenuto che essa non fosse suscettibile di essere interpretata in modo da ricomprendere, tra i soggetti legittimati a conservare rapporti significativi con i minori, gli adulti di riferimento privi di rapporti di parentela con essi. Pertanto, in considerazione dell’insanabile contrasto in via interpretativa tra l’interesse del minore a mantenere rapporti significativi con il “genitore sociale” (nel caso specifico l’ex partner del genitore biologico) ed il diritto interno, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter c.c., nella parte in cui non consente all’autorità giudiziaria, di effettuare la valutazione nel caso concreto del migliore interesse del minore, in violazione degli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, comma 1, Cost. (quest’ultimo con riferimento all’art. 8 Cedu, quale norma interposta). L’irrilevanza giuridica dei rapporti affettivi tra genitore ‘sociale’ e figli del convivente secondo il diritto positivo interno 1562 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile dei figli dell’altro; se ed in che modo lo stesso possa o debba provvedere alle cure quotidiane ed alla educazione dei figli non propri, benché conviventi, ed, infine, quale sia la sorte della relazione, stabile e duratura, tra di essi, in caso di cessazione della convivenza tra il primo ed il genitore biologico. Secondo un primo orientamento dottrinale, che presuppone però l’esistenza di un vincolo matrimoniale tra i due soggetti conviventi, la regolamentazione dei rapporti tra i vari membri all’interno della nuova famiglia dovrebbe avvenire con metodo pattizio. In particolare, i coniugi potrebbero stabilire, ai sensi dell’art. 144 c.c. e con mera rilevanza interna, obblighi di mantenimento del minore a carico del coniuge del genitore, oppure riconoscere al medesimo la facoltà di esercitare poteri educativi nei suoi riguardi (12). Infatti, mentre sarebbe da escludersi la possibilità di una delega integrale delle funzioni educative ad un terzo, in presenza di genitori idonei, dovrebbe ritenersi ammissibile, in linea teorica, una delega parziale di tali funzioni (13); delega che potrebbe avvenire solo in virtù di un accordo tra i coniugi ai sensi dell’art. 144 c.c., non necessariamente nelle forme di un negozio scritto (14), o di un accordo di convivenza. In tal modo, i coniugi potrebbero concordare che il non - genitore collabori nelle cure e nell’educazione del minore, con delega anche soltanto tacita all’esercizio della responsabilità (15). Tale menzionata regolamentazione pattizia, tuttavia, configurabile come “indirizzo della vita familiare”, oltre a riguardare solo coppie coniugate, è stata considerata non idonea a risolvere eventuali problemi successori, in caso di decesso, inaspettato, del genitore sociale e quindi in assenza di testamento, così come a dare indicazioni sulla sorte della relazione socio-affettiva tra genitore sociale e figlio non suo in caso di rottura del secondo matrimonio o cessazione della convivenza tra i due partner (16). Per la regolamentazione dello svolgimento della vita in comune, autorevole dottrina si è anche appellata al principio partecipativo (nel senso della considerazione della volontà di tutti i soggetti affluiti nella famiglia ricomposta, o almeno di tutti i soggetti dotati di un sufficiente grado di consapevolezza), alle regole sui gruppi associativi, a quelle sull’impresa familiare ed all’ingiustificato arricchimento (17). Con riguardo agli oneri di mantenimento è stato poi osservato come, anche in assenza di un vincolo adottivo o di un accordo tra i coniugi ai sensi dell’art. 144 c.c. o di un accordo di convivenza, il genitore sociale possa provvedere di fatto al sostentamento della prole del proprio coniuge o partner, alleviando così il peso economico dei genitori di sangue. In questo caso, la prestazione del genitore sociale configurerebbe, secondo una parte della dottrina, l’adempimento di una obbligazione naturale, nascente dalla comunione di vita e di affetti caratterizzante la convivenza familiare (18). Conseguenza di tale qualificazione è che l’obbligazione avrebbe le caratteristiche dell’irripetibilità ed incoercibilità (19). Altro istituto che è stato ritenuto applicabile al diritto di famiglia ed in particolare alla famiglia ricomposta è quello della negotiorum gestio, secondo il quale chi, senza esservi obbligato, assume scientemente la gestione di un affare altrui, è tenuto a continuarla ed a condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso (art. 2028 c.c. ss.) (20). Secondo altro orientamento dottrinale, invece, l’obbligo del genitore c.d. “sociale” di prendersi cura e provvedere alle esigenze, anche materiali, del figlio dell’altro coniuge o convivente, si fondereb- i nuovi assetti delle relazioni familiari, in Fam. e dir., 2013; I. Thery, Le costellazioni familiari ricomposte: una questione sociale e culturale, a cura di S. Mazzoni, Nuove costellazioni familiari, Milano, 2002; F. Uccella, Dalla famiglia pluriematica alla famiglia putativa come soggetto giuridico: prime considerazioni, in Familia, 2005. (12) M. Sesta, Verso nuove trasformazioni del diritto di famiglia italiano, cit., 159. (13) D. Buzzelli, op. cit., 237, ed ivi Giorgianni, Note introduttive agli artt. 315-318 c.c., in Cian - Oppo - Trabucchi (a cura di), Commentario al diritto italiano della famiglia, Padova, 1992, 305. (14) Villa, Gli effetti del matrimonio, in Bonilini - Cattaneo (a cura di), Il Diritto di famiglia, I, Famiglia e matrimonio, in Tratt., Torino, 1997, 336. (15) Da tale ricostruzione, vengono fatti derivare i seguenti corollari: i) la delega parziale della responsabilità genitoriale avrà rilevanza solo interna nei rapporti tra il genitore di sangue ed il genitore sociale; ii) gli atti di cura e le funzioni educative delegate saranno riferibili sempre al genitore delegante; iii) la delega sarà revocabile in qualsiasi momento. Si veda diffusamente, D. Buzzelli, op. cit., 245 ss. (16) M. Sesta, op. ult. cit., 159. (17) P. Rescigno, op. cit., 8. (18) T. Auletta, op. cit., 65, 66. Sul punto si veda anche G. Oberto, Famiglia ricomposta e obbligazione naturale, in Famiglie ricostituite: aspetti patrimoniali, diritti e responsabilità del genitore sociale (traccia per una relazione) in www.giacomooberto.com/oberto_famiglie_ricostituite_traccia_relazione_milano_2012.htm. (19) Bruscuglia, Famiglie ricomposte e rapporti patrimoniali, in Interventi di sostegno alla genitorialità nelle famiglie ricomposte, Milano, 2005, 36. (20) G. Oberto, Famiglia ricomposta e negotiorum gestio, in Famiglie ricostituite: aspetti patrimoniali, diritti e responsabilità del genitore sociale (traccia per una relazione), cit., ed ivi Marzario, in www.diritto.it/docs/28988#. il Corriere giuridico 12/2015 1563 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile be sul fatto stesso dell’accoglimento del minore presso di sé e quindi sulla base del principio generale per il quale chi convive con una persona che non è in grado di provvedere a sé stessa è tenuto a prendersene cura. Principio considerato tanto più corretto in quanto la convivenza si realizzi nell’ambito della comunità familiare, ove i principi di collaborazione e contribuzione oltre a quello della solidarietà devono ispirare i comportamenti di tutti i componenti del relativo nucleo (21). L’aspetto, venuto in rilievo nel caso che si commenta, che è stato pure indagato dalla dottrina, è se il minore avesse diritto a mantenere rapporti significativi con il coniuge o partner del proprio genitore in caso di disgregazione della nuova famiglia e soprattutto se, passaggio non automatico, l’adulto non genitore avesse speculare diritto nei confronti di detto minore. Secondo un orientamento dottrinale, dal disposto dell’art. 155, comma 1, c.c. (22), trasfuso in virtù della riforma sulla filiazione, nell’art. 337 ter, comma 1, c.c., correttamente interpretato, emergerebbe il diritto del minore non tanto ad intrattenere sempre e comunque rapporti con ascendenti e parenti quanto a vedere conservati rapporti significativi con soggetti diversi dai genitori; soggetti che la norma individuerebbe, in un elenco non tassativo, negli ascendenti e nei parenti di ciascun ramo genitoriale (23). La norma, infatti, così come for- La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha recentemente riaffermato e sviluppato, fino alle estreme conseguenze, il principio della prevalenza dell’interesse del minore di età in tutte le decisioni che lo riguardano; principio che deve essere considerato vincolante per lo Stato aderente alla Con- (21) In tal senso, testualmente, D. Buzzelli, op. cit., 252. Conseguenza di tale ricostruzione dell’obbligazione di mantenimento in capo al genitore sociale è che tale obbligo si configurerebbe, stante l’obbligo primario ed inderogabile in capo ai genitori biologici, solo quando le esigenze materiali del minore restino insoddisfatte. Quello che si delineerebbe in capo all’adulto non genitore sarebbe quindi un obbligo con funzioni sussidiarie ma pur sempre un vero e proprio obbligo giuridico e, in quanto tale, coercibile. (22) Ai sensi dell’art. 155, comma 1, c.c. (ora art. 337 ter, comma 1, c.c.) “anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. (23) Si veda diffusamente D. Buzzelli, op. cit., 253 ss. (24) G. Ferrando, Famiglie ricomposte e nuovi genitori, in T. Auletta (a cura di), Bilanci e prospettive del diritto di famiglia a trent’anni dalla riforma, Milano, 2007, 301 ss., ed ancora G. Ferrando, Genitori e figli nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, in Fam. e dir., 2009, 1052, si domanda se, rispetto a quanto espressamente formulato nell’art. 155, comma 1, c.c., (ora art. 337 ter, comma 1, c.c.) “non si potrebbe fare un passo ulteriore e cominciare a chiedersi se oltre al diritto ad intrattenere rapporti con i parenti non si possa in qualche caso intravvedere il diritto alla protezione dei legami di fatto instaurati nell’ambito delle cd. famiglia moltiplicate dove non è il vincolo di sangue, ma il rapporto di convivenza e di protezione ad acquistare importanza nell’esperienza della vita dei bambini”. D. Buzzelli, op. cit., 259 ss., inoltre, a conforto del risultato raggiunto, rammenta il conforme indirizzo adottato da ordinamenti a noi vicini come quello francese e quello tedesco. L’Autore fa presente in particolare che l’art. 371 - 4 del code civil fa espresso riferimento all’interesse del figlio di intrattenere anche relazioni con soggetti non aventi con lo stesso vincoli di parentela, nonché che l’art. 1626 del BGB prevede che “per il benessere del figlio è richiesta di regola la frequentazione non solo di entrambi i genitori, ma anche di altre persone, con le quali il figlio ha legami, se la loro conservazione giovi al suo sviluppo”, mentre l’art. 1685 contempla espressamente il diritto di frequentazione del minore “per il coniuge o il precedente coniuge di un genitore nonché per il convivente registrato o il precedente convivente registrato di un genitore, che ha convissuto con il figlio a lungo sotto lo stesso tetto”. (25) D. Buzzelli, op. cit., 259 ss., il quale, a conforto del risultato raggiunto, rammenta il conforme indirizzo adottato da ordinamenti a noi vicini come quello francese e quello tedesco. L’Autore fa presente in particolare che l’art. 371 - 4 del code civil fa espresso riferimento all’interesse del figlio di intrattenere anche relazioni con soggetti non aventi con lo stesso vincoli di parentela, nonché che l’art. 1626 del BGB prevede che “per il benessere del figlio è richiesta di regola la frequentazione non solo di entrambi i genitori, ma anche di altre persone, con le quali il figlio ha legami, se la loro conservazione giovi al suo sviluppo”, mentre l’art. 1685 contempla espressamente il diritto di frequentazione del minore “per il coniuge o il precedente coniuge di un genitore nonché per il convivente registrato o il precedente convivente registrato di un genitore, che ha convissuto con il figlio a lungo sotto lo stesso tetto”. 1564 mulata è stata considerata troppo limitata, in quanto si baserebbe su vincoli formali, mentre trascurerebbe rapporti sviluppatesi nella consuetudine di vita e potenzialmente idonei ad avere un profondo significato affettivo (24). Tale interpretazione dell’art. 337 ter, comma 1, c.c., consentirebbe dunque di affermare che la relazione affettiva significativa tra il minore e il coniuge o convivente del genitore sia rilevante sul piano giuridico e rientri tra quei rapporti che il minore ha diritto a conservare anche in caso di disgregazione della nuova famiglia (25). Proprio tale ultima norma, interpretata in modo conforme al diritto sovranazionale, è stata utilizzata dal Tribunale di Palermo per riconoscere ai figli minori coinvolti nella vicenda che si commenta il diritto a mantenere rapporti significativi con la figura adulta di riferimento. La rinnovata rilevanza del dato ‘sociale’ rispetto al vincolo biologico nella più recente giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e nel diritto interno il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile venzione, anche se considerato in contrapposizione con il limite di ordine pubblico, e che prescinde dalla natura del legame - parentale, genetico o “sociale” - da preservare, tra lo stesso minore ed il componente del nucleo familiare di fatto. In un recente caso di filiazione formata all’estero (26), la Corte Europea dei diritti dell’uomo, in assenza di qualsiasi vincolo parentale tra i pretesi genitori ed il minore, ed anzi proprio nell’ottica della protezione della famiglia di fatto e del superiore interesse del minore, ha ritenuto applicabile l’art. 8 Cedu ed ha considerato il rifiuto, da parte delle autorità giudiziarie italiane, di riconoscere la filiazione stabilita all’estero e le misure che ne erano coerentemente seguite in applicazione della normativa interna (allontanamento del minore dal contesto familiare, con la presa in carico del bambino da parte dell’ente; suo collocamento presso una comunità e successivamente presso una famiglia affidataria) come misure non “necessarie” all’interno di una “società democratica”, ai sensi dell’art. 8 della Convenzione. La Corte ha così concluso che la stretta applicazione delle disposizioni legislative nazionali da parte delle autorità Italiane non aveva rappresentato il giusto bilanciamento tra gli interessi pubblici e gli interessi privati in gioco, in considerazione del principio secondo il quale, ogni volta che una controversia coinvolge un minore di età, l’interesse di quest’ultimo deve prevalere. L’Italia è stata quindi condannata dalla Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (27). Non vi è dubbio che la fermezza ed il vigore con le quali la Corte di Strasburgo protegge le relazioni familiari intrattenute dal minore di età, indipendentemente dalla natura di tali relazioni, non possano rimanere privi di considerazione da parte del Giudice nazionale. È altrettanto indubbio che, nel momento in cui l’Unione Europea, dovesse aderire alla Convenzione dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, le norme di detta Convenzione, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, potranno essere considerate di diretta applicazione all’interno degli Stati membri, così eliminando ogni margine di discrezionalità in proposito (28). Non si deve poi trascurare che, anche nel diritto positivo interno, il rapporto di filiazione si sta sempre più “sganciando” dall’appartenenza genetica: a partire dalla centralità attribuita all’interesse morale e materiale del minore di età dalla L. 4 maggio 1983, n. 184, e successive modifiche, in tema di adozione ed affidamento dei minori, alla ultima riforma sulla filiazione di cui al D.Lgs. n. 154/2013, che, nel prevedere un termine di cinque anni dalla nascita per l’esercizio delle azioni di disconoscimento di paternità e di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, ha dato prevalenza alla stabilità del rapporto di filiazione e dunque ai legami ed agli affetti createsi tra il minore e gli adulti di riferimento (parte integrante dell’identità dello stesso minore) piuttosto che al vincolo biologico (29). Con la stessa legge di riforma della filiazione n. 219/2012 peraltro è stata estesa la nozione di parentela, contenuta nell’art. 74 c.c., quale vincolo tra persone che discendono da uno stesso stipite, ai casi in cui la filiazione sia avvenuta al di fuori del matrimonio e ai casi di filiazione adottiva, con l’unica esclusione dell’adozione dei maggiore di età. Il rapporto di parentela viene dunque esteso anche alle relazioni tra i membri dello stesso gruppo familiare pur in assenza di un vincolo di sangue e, secondo la dottrina più attenta, ai rapporti derivanti (26) Corte Europea dei diritti dell’Uomo 27 gennaio 2015, Affaire Paradiso et Campanelli c. Italie (ricorso n. 25358/12). Nel caso di specie i ricorrenti erano due coniugi di cittadinanza italiana che avevano concluso un accordo di maternità surrogata con una società avente sede in Russia, secondo il diritto nazionale russo. A seguito della fecondazione in vitro avvenuta in una clinica di Mosca, il bambino è stato registrato come figlio dei ricorrenti, senza la menzione della gestazione altrui. Rientrati in Italia con l’infante, contestualmente alla richiesta della pretesa madre di registrare l’atto di nascita, il consolato italiano a Mosca ha inviato i documenti relativi alla nascita del bambino al Tribunale per i minorenni competente in Italia, allertandolo del fatto che tali documenti, verificati al momento del rilascio dell’autorizzazione all’espatrio del bambino, contenevano dati, a loro parere, falsi. I ricorrenti sono stati quindi imputati dei reati di alterazione di stato e di falsità oltre che incriminati ai sensi dell’art. 72, legge n. 184/1983. Il P.M. ha avviato di conseguenza una procedura di adottabilità del bambino, nell’ambito della quale i ricorrenti ed il bambino sono stati soggetti al test del DNA dal quale è risultato che il bambino era effettivamente estraneo, sotto il profilo genetico, ad en- trambi i pretesi genitori. A seguito di questa constatazione, il certificato di nascita non è stato trascritto ed il Pubblico Ministero ha chiesto che il bambino venisse collocato in Comunità e che allo stesso venisse attribuita una nuova identità (che però è sopraggiunta dopo una attesa di due anni, durante i quali il bambino non ne aveva una propria). (27) Si segnala che la causa in questione, Paradiso e Campanelli c. Italia, è stata sottoposta, il 1° giugno 2015, all’esame della Grande Camera. (28) Si veda la nt. 8 che precede. (29) Sulla base dei principi di autoresponsabilità nel rapporto di filiazione e di prevalente interesse del minore, il Tribunale di Roma, con ordinanza in data 8 agosto 2014, in Foro it., 2014, 10, I, 2934, nota di Casaburi, ha rigettato il ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c. presentato da due genitori “genetici” volto ad impedire, in via cautelare, la formazione del rapporto di filiazione tra la madre gestante che, per errore umano, aveva portato in grembo e partorito due gemelli formatesi da embrioni geneticamente appartenenti ai ricorrenti (sottoposti alle stesse tecniche di procreazione medicalmente assistita nell’istituto di cura) e gli stessi gemelli. il Corriere giuridico 12/2015 1565 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto civile da adozione speciale, ossia anche a quei casi in cui non vi sia un rapporto di filiazione derivante da adozione legittimante (30). La creazione di rapporti di parentela a prescindere dal matrimonio tra i genitori, unitamente all’abbandono dell’idea che la condivisione della responsabilità genitoriale sulla prole si fondi sulla convivenza dei genitori, consente di valorizzare il passaggio pure effettuato dalla stessa riforma della filiazione da potestà a responsabilità genitoriale. Come è stato autorevolmente osservato, tale passaggio può essere visto come il corollario di un nuovo assetto dei rapporti familiari che il legislatore ha delineato prendendo atto della pluralità dei modelli familiari che caratterizzano l’unione dei genitori e perseguendo l’obiettivo di garantire al figlio la maggiore coesione possibile della rete familiare che lo circonda (31). La sempre maggiore considerazione dell’importanza delle relazioni socio-affettive tra i soggetti minori di età e gli adulti di riferimento trova conferma inoltre nella recente promulgazione della L. n. 173/2015 che, modificando la legge sull’adozione n. 184/1983, ha introdotto il diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare. Così, secondo la nuova normativa, il minorenne affidato temporaneamente ad una fami- glia non solo avrà possibilità, una volta dichiarato adottabile e sussistendone i requisiti, di essere adottato dalla stessa famiglia, ma anche - qualora lo stesso faccia rientro nella famiglia biologica o venga dato in affidamento o in adozione ad altra famiglia - di vedere comunque tutelata la “continuità” delle “positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento” (32). Sempre nella direzione volta a creare strumenti di tutela del rapporto tra il genitore “sociale” e i minorenni conviventi, era stato presentato al Senato della Repubblica, il 19 febbraio 2014, un disegno di legge che prevedeva la “delega dell’esercizio della responsabilità genitoriale”, su accordo del o dei genitori biologici e previo atto di autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria (33). Tale disegno di legge tuttavia non ha proseguito, per il momento, nell’iter parlamentare. È invece in corso di esame in Commissione giustizia, il testo unificato dei disegni di legge riguardanti la disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili, che prevede, tra le altre disposizioni che “avvicinano” le coppie di fatto, anche omosessuali, alle unioni fondate sul matrimonio, la possibilità per il convivente di adottare i figli biologici dell’altro; in particolare la norma prevede che le parti dell’unione civile possono chiedere l’adozione o l’affi- (30) Come argomenta M. Dossetti, in Dopo la riforma della filiazione: i nuovi successibili, in Fam. e dir., 2015, 10, 941, la formulazione dell’art. 74 c.c., che estende la parentela ai casi di filiazione adottiva, non può significare altro che il principio della parificazione riguardi anche i minori adottati con l’adozione in casi speciali ai sensi dell’art. 44, l. n. 184/1983. Infatti, essendo l’adozione legittimante fonte di rapporti di parentela secondo la legislazione vigente già da oltre trent’anni ed essendo esclusa dall’ambito di operatività della norma l’adozione di maggiorenni, l’estensione del vincolo di parentela ai figli adottivi, per non essere priva di significato, non può che riguardare i figli adottati con adozione speciale. D’altra parte “non è solo, e non è soprattutto, l’argomento testuale che sorregge questa tesi. Infatti, l’estensione risponde alla funzione ‘familiare’ dell’adozione in casi particolari, ben diversa dalle tradizionali finalità di tipo patrimoniale e di trasmissione del cognome all’adozione dei maggiorenni. Questa forma di adozione viene incontro all’esigenza di assicurare ai minori, in situazione di difficoltà, una condizione familiare nella quale possano ricevere completa assistenza morale e materiale, senza dover recidere i legami familiari originari, quando questi rappresentino un vissuto per essi ancora significativo’”. (31) In tal senso E. Al Mureden, La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e pluralità dei modelli familiari, in Fam. e dir., 2014, 5, 466. (32) Ai sensi dell’art. 1, della L. 19 ottobre 2015, n. 173, all’art. 4, L. n. 184 del 4 maggio 1983, sono aggiunti, tra gli altri, i seguenti commi: “5 bis. Qualora, durante un prolungato periodo di affidamento, il minore sia dichiarato adottabile ai sensi delle disposizioni del capo II del titolo II e qualora, sussistendo i requisiti previsti dall’art. 6, la famiglia affidataria chieda di poterlo adottare, il tribunale per i minorenni, nel decidere sull’adozione, tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatesi tra il minore e la famiglia affidataria”; 5 ter. Qualora, a seguito di un periodo di affidamento, il minore faccia ritorno nella famiglia di origine o sia dato in affidamento ad altra famiglia, è comunque tutelata, se rispondente all’interesse del minore, la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento”. (33) Il DDL n. 1320 del 2014, è stato così presentato al Senato da Manconi, Palermo e Lo Giudice il 19 febbraio 2014: “Il presente disegno di legge, mira a disciplinare nel nostro ordinamento - in analogia, anche, a quanto previsto in altri Stati - l’istituto della delega all’esercizio della responsabilità genitoriale, di cui tutti i minori dovrebbero godere. L’evoluzione della società italiana presenta ormai da tempo un novero sempre più variegato di famiglie composte da un solo genitore, dai genitori separati e dai rispettivi nuovi compagni, come pure da persone dello stesso sesso e dai figli nati da precedenti relazioni o attraverso tecniche di fecondazione assistita fruibili in altri Paesi. I principali problemi di questo tipo di famiglie sono riconducibili al mancato riconoscimento giuridico del genitore non biologico, che rappresenta un perfetto estraneo, per il minore, agli effetti legali. Ad esempio, in caso di morte del genitore biologico, i figli nati all’interno di una relazione omosessuale rischiano di essere privati della continuità affettiva con il co-genitore; in caso di separazione, i figli nati all’interno di una relazione omosessuale non hanno alcun diritto ad avere contatti con il co-genitore, il quale non è del resto tenuto ad assolvere ad alcun dovere circa il mantenimento dei figli. Ovviamente, per il bambino è negativo, sul piano psicologico, constatare il ‘disvalore sociale’ del genitore non biologico, cioè il fatto che il suo ruolo genitoriale non venga riconosciuto nei contesti ufficiali. A tal fine è necessario un intervento normativo che consenta al compagno o alla compagna del genitore biologico di assumere rispetto al bambino alcuni diritti e doveri che gli siano espressamente ‘delegati’ dal/dai genitori naturali, in virtù di un atto autorizzato dal tribunale, in quanto rispondente all’interesse del minore”. 1566 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto civile damento di minori ai sensi delle leggo vigenti, a parità di condizioni con le coppie di coniugi (34). Non si può inoltre continuare ad ignorare che in numerosi paesi europei viene riconosciuto e regolamentato il potere del partner o del coniuge, anche dello stesso sesso, di prendersi cura della prole dell’altro, se non direttamente di adottarlo (35). Conclusioni Le decisioni dei giudici palermitani di prime e seconde cure, che si commentano, affrontano, per la prima volta ed in modo diretto e concreto, la questione del diritto del minore a vedere riconosciuta le figura adulta di riferimento e a mantenere rapporti significativi con essa, indipendentemente dalla natura, genetica o sociale, della relazione tra i due. Relazione che, in assenza di un vincolo biologico, non trova riconoscimento nel nostro ordinamento e che non può essere ulteriormente ignorata, in considerazione della pluralità delle varie forme di convivenza ormai esistenti nella nostra società e della necessità di tutelare gli interessi dei soggetti minori di età, che in tali contesti nascono e crescono. Come si è visto, l’orientamento della Corte Europea dei diritti dell’Uomo è ormai nel senso del riconoscimento dei legami familiari significativi e duraturi e della tutela di essi, mediante la garanzia della loro continuità, indipendentemente dall’esistenza di vincoli di sangue, così come è in tale senso l’evoluzione del diritto positivo interno, con riguardo a specifici contesti rispetto ai quali è intervenuto il legislatore. (34) Art. 14, DDL 14, presentato il 13 marzo 2013, di iniziativa dei Senatori Manconi e Corsini. (35) Così accade in Germania, laddove, a seguito dell’introduzione, nel 2001, della formalizzazione delle unioni civili, anche tra partner dello stesso sesso, è stato introdotto dapprima il cd. piccolo potere di cura del partner nei confronti dei figli dell’altro, e poi, nel 2004, la possibilità per lo stesso di adottare il figlio biologico del convivente (allo stesso legato da unione registrata); possibilità di adozione che, in virtù della decisione del 19 febbraio 2013 della Corte Costituzionale Tedesca, è stata estesa anche al figlio adottivo del partner. In proposito si veda F. B. d’Usseaux, in adozione del figlio adottivo: un nuovo tassello nell’equiparazione tra coppie etero e coppie dello stesso sesso in Germania, in Nuova giur. civ. comm., 2013, 7-8, 10639. In Svizzera, l’art. 299 c.c. prevede che il nuovo “coniuge sia tenuto ad assistere l’altro coniuge in maniera appropriata nell’esercizio della potestà genitoriale verso il figlio dell’altro”, derivando da questo diritto di assistenza anche un diritto a rappresentarlo “quando le circostanze lo richiedano”. Nell’ordinamento francese, invece, è contemplata la possibilità per i genitori di delegare a terzi, e dunque anche al coniuge o convivente del genitore, taluni doveri parentali. Così, per effetto della entrata in vigore della L. 4 marzo 2002, accanto alla delega della potestà prevista per i casi di carenze dei genitori nell’esercizio della potestà, l’art. 377 c.c. dispone che i genitori, insieme o separatamente, possano qualora le circostanze lo esigano, demandare in tutto o in parte l’esercizio dell’autorità parentale a un terzo, membro della fa- il Corriere giuridico 12/2015 Non si comprende dunque, né si può ragionevolmente accettare, che la continuità delle relazioni affettive instaurate tra il minore di età e gli adulti di riferimento possa trovare riconoscimento in contesti specifici, come ad esempio, nelle situazioni di affido e di adozione in casi particolari, e non, in modo generalizzato, in tutti i casi di disgregazione di nuclei familiari, anche non fondati sul vincolo biologico o adottivo. L’assenza del riconoscimento, nel nostro ordinamento, del diritto del minore di età a vedere riconosciuta la figura del c.d. genitore “sociale” così come il diritto alla continuità delle relazioni affettive che con esso il minore ha creato ed intrattenuto non può dunque protrarsi ulteriormente. Colmare la lacuna normativa è diventata una necessità improrogabile sia per evitare il sorgere di trattamenti differenziati in situazioni simili all’interno dello stesso ordinamento sia per la necessità dell’Italia di conformarsi agli orientamenti delle Corti sovranazionali oltre che, infine, per l’opportunità di rendere la nostra normativa maggiormente omogenea a quella vigente negli Stati europei aventi lo stesso livello di attenzione per i diritti e le libertà fondamentali (36). Si auspica pertanto che la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Palermo, con riferimento all’art. 337 ter c.c., sia l’occasione per indurre il legislatore ad intervenire in modo generale e organico nei riguardi del delicato ma rilevante tema di cui si è trattato nella presente nota. miglia o persona degna di fiducia. Tale delega di potestà, tuttavia, deve essere concessa dall’autorità giudiziaria e non è un effetto del mero accordo tra i genitori o della legge. In Inghilterra poi il Children Act 1989, così come modificato ed integrato dalla legislazione successiva, prevede che lo ‘step-parent’ possa diventare titolare della responsabilità genitoriale su accordo, trilaterale, dello stesso con i due genitori biologici, o, in alternativa, per ordine della Corte, su sua stessa istanza (Children Act 1989, Parte I, Sezione 4). In Olanda, invece, quando la convivenza assuma particolare caratteristiche, al genitore sociale spetta l’obbligo di mantenere il figlio dell’altro convivente (in M. Sesta, Verso nuove trasformazioni del diritto di famiglia italiano, in Familia, I, 2003, 160). Si segnala inoltre che in 28 Stati della Comunità internazionale, coppie dello stesso sesso possono adottare un bambino, o come adozione piena su domanda di entrambi o come adozione da parte di un partner nei confronti del figlio dell’altro. (36) Come evidenziato nel commento a App. Torino 4 dicembre 2014, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 5, 20241, da G. Palmeri, “in un contesto, quale quello italiano, ove la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali è sempre più affidata a un sistema ‘multilivello’ in cui si intersecano ordinamenti nazionali e comunitario, in continua interazione col sistema di regole e principi elaborato al livello internazionale, negare protezione e visibilità alla relazione che unisce i membri di una comunità affettiva significa dare vita ad una discriminazione irragionevole”. 1567 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto commerciale Responsabilità degli amministratori Cassazione Civile, SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100 - Pres. Rovelli - Rel. Rordorf - P.M. Salvato (conf.) - M.G. (avv.ti Amato, Sarno) c. Curatela del fallimento Utens S.r.l. (avv. Nuzzolo) Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146, comma 2, l.fall., la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032; Cass., 4 luglio 2012, n. 11155; Cass., 11 luglio 2013, n. 17198. Difforme Cass., 11 marzo 2011, n. 5876; Cass., 4 aprile 2011, n. 7606. La Corte (omissis). Ragioni della decisione (omissis). 3.1. La questione, come già accennato, riguarda l’individuazione del danno risarcibile ed il relativo criterio di liquidazione nelle azioni di responsabilità promosse dai competenti organi di una procedura concorsuale nei confronti di amministratori di società di capitali dichiarate insolventi, ai quali sia imputato di aver tenuto un comportamento contrario ai doveri loro imposti dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto sociale. Nel caso di specie si tratta, appunto, di un’azione esperita dal curatore del fallimento nei confronti dell’ex amministratore unico di una società a responsabilità limitata, poi dichiarata fallita. Si farà perciò sempre d’ora in avanti soltanto riferimento a questo tipo di fattispecie, ma è intuitivo che le considerazioni che seguiranno sono estensibili anche ad azioni di responsabilità proposte nei confronti degli organi di vigilanza e dei direttori generali delle società dichiarate insolventi, se a costoro il curatore rimproveri di aver mancato ai propri doveri cagionando danno al patrimonio sociale ed ai creditori. Sempre in via preliminare, è appena il caso di precisare che, nell’assumere l’iniziativa giudiziale di cui trattasi, a norma dell’art. 146, comma 2, l.fall., il curatore del fallimento della società ha esercitato cumulativamente sia l’azione sociale di responsabilità che sarebbe stata esperibile dalla medesima società, se ancora in bonis, nei confronti del proprio amministratore ai sensi dell’art. 2393 c.c., sia l’azione che, ai sensi del successivo art. 2394, sarebbe spettata ai creditori sociali danneggiati dall’incapienza del patrimonio della società debitrice (con l’avvertenza che, trattandosi di vicenda anteriore alla riforma del diritto societario, attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, le suindicate norme del codice civile, dettate 1568 per la società azionaria, risultano integralmente applicabili anche alla società a responsabilità limitata in virtù del richiamo operato dal secondo comma del successivo art. 2487). 3.2. L’ordinanza di rimessione focalizza l’attenzione sulla “utilizzabilità, ai fini dell’accertamento e liquidazione del danno nelle azioni di responsabilità, quale quella in questione, del dato costituito dalla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare”, ed aggiunge che, qualora si reputi utilizzabile questo criterio, “occorre stabilire quali siano le condizioni ed i limiti entro i quali tale dato sia utilizzabile, in connessione con le ragioni che lo giustificano”. Come ben evidenziato anche nella citata ordinanza, vi sono già state in passato molte pronunce di questa corte in argomento, delle quali è necessario dare qui brevemente conto. La possibilità che il danno risarcibile venga identificato nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare è stata affermata, in epoca risalente, da Cass. n. 1281 del 1977, in un caso nel quale all’amministratore era stato addebitato di aver violato il divieto di compiere nuove operazioni dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, consistita nella perdita di oltre un terzo del capitale sociale e nella riduzione di questo al di sotto del minimo legale (divieto che, com’è noto, era espressamente previsto dall’art. 2449, comma 1, c.c. nella versione antecedente la già ricordata riforma del diritto societario del 2003). A brevissima distanza di tempo l’utilizzo del suindicato criterio differenziale è stato avvallato anche da Cass. n. 2671 del 1977, ma in un caso in cui si era ritenuto che il dissesto dell’impresa fosse dipeso proprio dall’illecito comportamento degli organi sociali. Anni dopo Cass. n. 6493 del 1985 è tornata ad approvare l’utilizzo dei predetto criterio, in una fattispecie nella quale l’addebito il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto commerciale mosso agli amministratori consisteva nel non aver tenuto la contabilità sociale o nell’averla tenuta in modo sommario e non intellegibile. Nel decennio successivo le critiche che gran parte della dottrina era andata formulando all’adozione di quel criterio, sottolineandone l’inadeguatezza a dar conto del rapporto di causalità che deve sussistere tra il comportamento illegittimo addebitato agli organi sociali ed il danno risarcibile, ha indotto anche la giurisprudenza ad interrogarsi più approfonditamente in proposito. Perciò Cass. n. 9252 del 1997 ha affermato che il danno che gli amministratori ed i sindaci sono tenuti a risarcire, quando abbiano, rispettivamente, violato o non vigilato sul dovere di non intraprendere nuove operazioni in presenza di una causa di scioglimento della società, non s’identifica automaticamente nella differenza tra passivo ed attivo accertati in sede di fallimento, ma può essere commisurato a tale differenza, in mancanza di prova di un maggior pregiudizio, solo se da detta violazione sia dipeso il dissesto economico ed il conseguente fallimento della società. E Cass. n. 10488 del 1998 è prevenuta alla conclusione che, in azioni di tal genere, il danno non dev’essere liquidato alla stregua del suddetto criterio differenziale, ma va invece determinato in relazione alle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate. Quest’ultimo orientamento è stato poi confermato anche da Cass. n. 1375 del 2000, la quale ha precisato come, in simili casi, il danno può essere identificato nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale della società solo qualora il dissesto economico ed il conseguente fallimento si siano verificati per fatto imputabile agli amministratori, liquidatori o sindaci convenuti in giudizio; e che quindi non basta a configurare la responsabilità di costoro che vi sia stato un disavanzo fallimentare, ma occorre dimostrare la specifica violazione dei doveri loro imposti dalla legge, in quanto la prova della violazione di tali obblighi non giustifica la condanna al risarcimento del danno se non si dimostri, da parte del curatore, che quelle violazioni hanno cagionato un pregiudizio alla società. Nel nuovo secolo la giurisprudenza sembrava essersi stabilizzata nel senso da ultimo indicato, come attestano Cass. n. 2538 del 2005 e n. 3032 del 2005, che hanno insistito nell’affermare che il danno in questione non può essere commisurato alla differenza tra passivo ed attivo accertati in sede concorsuale: sia in quanto lo sbilancio patrimoniale della società insolvente potrebbe avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima degli organi sociali, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare l’esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima ed il danno, con l’ulteriore precisazione, tuttavia, che il suaccennato criterio differenziale può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con l’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento degli organi sociali; ma, in tal caso, il giudice del merito deve il Corriere giuridico 12/2015 indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei convenuti, nonché, soprattutto qualora tale condotta non sia temporalmente vicina all’apertura della procedura concorsuale, la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto. Sostanzialmente nella stessa linea si sono collocate le successive pronunce di Cass. n. 16211 del 2007, n. 17033 del 2008 e n. 16050 del 2009; la quale ultima, dopo aver ribadito che il criterio della differenza tra passivo ed attivo fallimentare è in astratto inadeguato, ha nuovamente puntualizzato che quel criterio, tuttavia, può in concreto essere apprezzato, con una valutazione in fatto demandata esclusivamente al giudice di merito e congruamente motivata, ove esso costituisca parametro di riferimento per la liquidazione equitativa del danno nel caso in cui sia impossibile ricostruire i dati contabili ed individuare sulla loro scorta le conseguenze dannose riconducibili agli amministratori. In questo quadro giurisprudenziale, che negli ultimi decenni sembrava dunque essersi delineato in maniera sufficientemente coerente, un elemento distonico - a giudizio dell’ordinanza di rimessione - è stato introdotto da due sentenze intervenute nel corso dell’anno 2011, le quali, pur muovendo anch’esse dalla premessa secondo cui nell’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita compete all’attore dare la prova dell’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito dei convenuti, hanno reputato che si verifichi un’inversione dell’onere della prova quando l’assoluta mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la dimostrazione del predetto nesso di causalità; in questo caso - si è aggiunto - la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, risulterebbe di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale (Cass. n. 5876 del 2011 e n. 7606 del 2011). 3.3. La sommaria ricapitolazione degli sviluppi della giurisprudenza di questa corte negli ultimi decenni, riguardo al tema in esame, induce subito ad osservare che la questione non può essere affrontata in termini generici, quasi che gli illeciti eventualmente ascrivibili all’amministratore di società, idonei a generare l’obbligo di risarcire il danno, si traducano sempre in un’unica e ben determinata tipologia di comportamenti, rispetto alla quale si possa affermare o negare l’utilizzabilità del criterio d’individuazione e liquidazione del danno consistente nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare. I doveri imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dello statuto agli amministratori di società sono assai variegati. In parte risultano puntualmente specificati e s’identificano in ben determinati comportamenti: quali, ad esempio, la tenuta delle scritture contabili, la predisposizione dei bilanci e i prescritti adempimenti fiscali e previdenziali, il divieto di concorrenza, e via elencando. 1569 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto commerciale Ma, per il resto, si tratta di doveri il cui preciso contenuto non è sempre facile da specificare a priori, in quanto essi derivano dall’essere l’amministratore preposto all’impresa societaria e dal suo conseguente obbligo di compiere con la necessaria diligenza tutto ciò che occorre per la corretta gestione di essa. Ne discende che anche le conseguenze dannose - per la società e per i suoi creditori - che possano eventualmente scaturire dalla violazione dei suddetti doveri, dovendo essere in rapporto di causalità con quelle violazioni, non sono suscettibili di una considerazione unitaria, ma appaiono destinate a variare a seconda di quale sia stato l’obbligo di volta in volta violato dall’amministratore. In tanto, allora, ha senso parlare dell’individuazione del danno, del nesso di causalità che deve sussistere tra il danno medesimo e la condotta illegittima ascritta all’amministratore, della liquidazione del quantum debeatur e degli oneri di prova che gravano in proposito sulle parti del processo, in quanto si sia prima ben chiarito quale è il comportamento che si imputa all’amministratore di aver tenuto e quale violazione, tra i molteplici doveri gravanti sul medesimo amministratore, quel comportamento ha integrato. Questa premessa - forse ovvia, ma indispensabile - pone le basi per rispondere al quesito rivolto alle sezioni unite, che concerne sì una questione di onere della prova del danno e del nesso di causalità, ma prima ancora richiede sia messo bene a fuoco il profilo dell’allegazione, che della prova costituisce l’antecedente logico. Giova allora partire dal fondamentale insegnamento di Sez. Un. n. 13533 del 2001, a mente del quale il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento. Ne viene confermata, per il profilo che qui interessa, la necessità che l’inadempimento del convenuto, pur non dovendo esser provato dall’attore, sia nondimeno da costui allegato. Questo principio è stato successivamente confermato da Sez. Un. n. 15781 del 2005 non solo in presenza di un’obbligazione di risultato ma anche qualora venga dedotto l’inadempimento di un’obbligazione di mezzi, onde non sembra si possa seriamente dubitare della sua applicabilità all’azione sociale di responsabilità di cui qui si sta parlando; a proposito della quale - tenuto conto di quanto prima osservato in ordine alla varietà dei doveri gravanti sull’amministratore - si rivela particolarmente calzante quanto (sia pure in relazione ad altra tipologia contrattuale) affermato da Sez. Un. n. 577 del 2008: cioè che “l’inadempimento rilevante nell’ambito delle azioni di responsabilità da risarcimento dei danno nelle obbligazioni cosiddette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisca causa (o concausa) efficiente del danno”, sicché “l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente 1570 alla produzione del danno”. Naturalmente sull’attore grava l’onere di allegare, e poi di provare, gli altri elementi indispensabili per aversi responsabilità civile, che sono perciò al tempo stesso elementi costitutivi della domanda risarcitoria: danno e nesso di causalità. È appena il caso di aggiungere che i suaccennati principi sono stati elaborati e si sono ormai ben consolidati in particolare con riguardo alla figura della responsabilità contrattuale. La loro applicazione non desta quindi problemi quando si discuta dell’azione sociale di responsabilità proposta nei confronti degli amministratori di società, giacché ne è pacifica la natura contrattuale. Per i profili che qui interessano, tuttavia, le considerazioni che si andranno a fare, e che da quei principi si dipanano, possono agevolmente applicarsi anche all’azione di responsabilità spettante ai creditori sociali (la quale, come già s’è detto, in caso di fallimento della società è di regola esercitata dal curatore cumulativamente all’altra), sia che si voglia assegnare anche ad essa natura contrattuale sia che, come per lo più si è propensi a ritenere, la si voglia invece qualificare come aquiliana. Con riferimento ai temi di cui si sta parlando, infatti, la differenza tra le due tipologie di responsabilità si coglie soprattutto in ciò: che solo il creditore di una prestazione contrattualmente dovuta non è tenuto a provare l’imputabilità dell’inadempimento al debitore, sul quale grava l’onere della prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che l’inadempimento è dipeso da una causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). Ma - come s’è visto - compete pur sempre al creditore l’onere di allegare l’altrui comportamento non conforme al contratto o alla legge, oltre che di allegare e provare il danno ed il nesso di causalità. Ed a maggior ragione tali oneri gravano su chi agisce per far valere un’altrui responsabilità extracontrattuale, dovendo egli in aggiunta farsi carico (non solo di allegare, ma altresì) di provare il comportamento del convenuto in violazione del dovere del neminem laedere. Ci si deve allora anzitutto chiedere se e quale tra gli inadempimenti (“qualificati”) in cui può incorrere l’amministratore di società, e che l’attore deve aver allegato quale ragione della sua domanda risarcitoria, sia astrattamente efficiente a produrre un danno che si assuma corrispondente all’intero deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita ed accertato nell’ambito della procedura concorsuale. È evidente che lo potrebbero essere, in ipotesi, soltanto quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio a cagione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza (ma, se avessero soltanto aggravato il dissesto, unicamente tale aggravamento potrebbe essere ricollegato a quelle violazioni). Qualora, viceversa, una tale ampiezza di effetti dell’inadempimento allegato non sia neppure teoricamente concepibile, la pretesa d’individuare il danno risarcibile nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale, accertati in sede fallimentare, risulta fatalmente priva di il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto commerciale ogni base logica: non fosse altro perché l’attività d’impresa è intrinsecamente connotata dal rischio di possibili perdite, il cui verificarsi non può quindi mai esser considerato per sé solo un sintomo significativo della violazione dei doveri gravanti sull’amministratore, neppure quando a costui venga addebitato di esser venuto meno al suo dovere di diligenza nella gestione, appunto in quanto non basta la gestione diligente dell’impresa a garantirne i risultati positivi. Né potrebbe ragionevolmente sostenersi che il deficit patrimoniale accertato nella procedura fallimentare - in quanto tale e nella sua interezza - sia di regola la naturale conseguenza dell’essersi protratta la gestione dell’impresa in assenza delle condizioni economiche e giuridiche che giustificano la continuità aziendale: per l’ovvia considerazione che anche in questo caso non sarebbe logicamente corretto né imputare all’amministratore quella quota delle perdite patrimoniali che ben potrebbero già essersi verificate in un momento anteriore al manifestarsi della situazione di crisi in tutta la sua portata, né, soprattutto, far gravare su di lui, a titolo di responsabilità, anche le ulteriori passività che quasi sempre inevitabilmente un’impresa in crisi comunque accumula pur nella fase di liquidazione, giacché questa ovviamente non comporta l’immediata ed automatica cessazione di ogni genere di costo legato all’esistenza stessa della società in liquidazione e può ben darsi che ulteriori perdite di valore aziendale vengano generate proprio dalla cessazione dell’attività d’impresa. Se dunque, per le ragioni appena esposte, non pare predicabile che, in difetto di specifiche ragioni che lo giustifichino, il deficit patrimoniale fatto registrare dalla società in fallimento venga automaticamente posto a carico dell’amministratore come conseguenza della violazione da parte sua del generale obbligo di diligenza nella gestione dell’impresa sociale, tanto meno una simile conclusione sarebbe giustificabile quando l’inadempimento addebitato al medesimo amministratore si riferisca alla violazione di doveri specifici, cui corrispondono comportamenti potenzialmente idonei a determinare, a carico del patrimonio sociale, soltanto effetti altrettanto specifici e ben delimitati. 3.4. Proprio questa è la situazione che si riscontra nella fattispecie in esame, in cui, come già s’è detto, gli inadempimenti ascritti all’amministratore della società fallita si riferiscono unicamente alla distrazione di alcuni beni mobili custoditi in un magazzino della società, alla mancata redazione di due bilanci d’esercizio e delle dichiarazioni fiscali concernenti i medesimi esercizi ed, infine, all’omessa tenuta della contabilità sociale. Né dalla motivazione dell’impugnata sentenza, né dal ricorso, né dal controricorso emerge che altri inadempimenti siano stati allegati dal curatore. È del tutto ovvio che la distrazione di alcuni beni mobili di proprietà sociale sia suscettibile di riflettersi negativamente sul patrimonio della società, ma è altrettanto evidente che la relativa perdita è commisurata al valore di quei beni, o al vantaggio che da essi l’impresa avrebbe potuto ricavare; ma nulla autorizza a pensare che tale perdita s’identifichi con la differenza tra il passivo e l’at- il Corriere giuridico 12/2015 tivo accertati in sede fallimentare; né la sentenza impugnata si spinge ad affermarlo. Neppure la mancata redazione di due bilanci e di dichiarazioni fiscali possono ambire, sul piano logico, a porsi come causa potenziale dell’intero deficit patrimoniale emerso nell’ambito della procedura concorsuale, potendosi soltanto presumere che le omissioni fiscali abbiano provocato un aggravamento del passivo per l’onere degli interessi e delle sanzioni conseguenti. In realtà ciò che ha indotto la corte territoriale ad addossare all’amministratore, a titolo di risarcimento dei danno, l’intero deficit patrimoniale della società fallita è il mancato rinvenimento delle scritture contabili dell’impresa. Ed è questo, a ben vedere, anche il punto nevralgico del contrasto giurisprudenza che l’ordinanza di rimessione ha inteso porre in luce. Che la tenuta delle scritture contabili sia uno dei doveri gravanti sugli amministratori di società è fuori discussione, ed è quindi ugualmente indiscutibile che il mancato rinvenimento di tali scritture da parte del curatore del fallimento giustifichi l’allegazione dell’inadempimento di quel dovere da parte dell’amministratore convenuto nell’azione di responsabilità. Ma, in coerenza con i principi generali sopra richiamati, occorre domandarsi se e quale pregiudizio sia potenzialmente ricollegabile a tale specifica violazione, in termini di danno emergente o di lucro cessante a carico del patrimonio sociale. La circostanza che il mancato rinvenimento delle scritture contabili (ma lo stesso potrebbe dirsi per la loro irregolare tenuta) non consenta al curatore del fallimento di ricostruire con sufficiente certezza le vicende che hanno condotto all’insolvenza dell’impresa può esser forse addotta, essa stessa, come una causa di danno, almeno nella misura in cui ciò comporti un maggiore onere nell’espletamento dei compiti del curatore ed, eventualmente, un aggravio dei costi della procedura destinato ad incidere negativamente sull’attivo disponibile. Né può in assoluto escludersi l’eventualità di altri effetti dannosi ricollegabili alla mancanza di dette scritture; ma neppure in questo caso appare logicamente plausibile il farne discendere la conseguenza dell’insolvenza o dello sbilancio patrimoniale della società divenuta insolvente. La contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, non li determina; ed è da quegli accadimenti che deriva il deficit patrimoniale, non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità. Può dunque condividersi l’affermazione di Cass. 5876/11 e 7606/11, citt., secondo cui l’omessa tenuta della contabilità integra la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, ed è vero che tale violazione risulta di per sé (almeno potenzialmente) idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale. Non può tuttavia farsene in alcun modo derivare la conseguenza che quel pregiudizio si identifichi nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare. 3.5. Una simile conseguenza non può esser fatta discendere nemmeno dalla considerazione che la mancanza (o 1571 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto commerciale l’irregolarità) delle scritture contabili impedirebbe al curatore che agisce in responsabilità contro l’amministratore della società fallita di ricostruire, e perciò di provare con sufficiente precisione, il danno sofferto dal patrimonio della medesima società (e dai suoi creditori), onde si giustificherebbe che l’onere della prova del danno e del nesso di causalità venga spostato a carico dell’amministratore convenuto, giacché è proprio l’illegittimo comportamento di costui ad impedire all’attore di assolvere quell’onere. Tale argomentazione, come l’ordinanza di rimessione non manca di rilevare, in qualche misura si riallaccia al principio - di origine prevalentemente giurisprudenziale - della cosiddetta prossimità o vicinanza (o anche disponibilità o riferibilità) della prova, adombrato già da Sez. Un. 13533/01, cit., e che si trova affermato in molteplici sentenze di questa corte (prevalentemente, ma non soltanto, in materia di responsabilità medica); principio secondo il quale l’onere della prova di circostanze ricadenti nella sfera d’azione di una sola delle parti in causa dev’essere assolto da quella medesima parte, rischiando altrimenti di rimanere irragionevolmente menomato il diritto costituzionale di azione o di difesa in giudizio dell’altra. Questi enunciati giurisprudenziali non hanno mancato di sollevare obiezioni di parte della dottrina ed occorrerebbe forse meglio chiarire se quel che, di volta in volta, giustifica l’inversione dell’onere della prova, come disegnato dall’art. 2697 c.c., sia la disponibilità in capo all’altra parte della materialità della prova stessa (per lo più documentale) o piuttosto la paternità storica dei fatti da provare. Ma non è necessario approfondire qui tali aspetti (ancorché appaia evidente che sarebbe difficile parlare di disponibilità del materiale probatorio da parte dell’amministratore di una società fallita, per ciò stesso ormai spossessato dell’azienda e dei relativi documenti), giacché comunque il principio della prossimità o disponibilità della prova non sembra invocabile nella fattispecie in esame. La sua applicazione, infatti, postula pur sempre che, come già prima ampiamente sottolineato, l’attore abbia allegato un inadempimento del convenuto almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui pretende il risarcimento. Solo a tale condizione si potrà ipotizzare il suo esonero dalla dimostrazione del nesso di causalità che (soprattutto in senso giuridico) deve esistere tra l’inadempimento ed il danno, se la prova dipenda da fatti o circostanze di cui egli non è in grado di disporre e che sono invece nella disponibilità del convenuto. Ma la mancanza o l’irregolarità della contabilità sociale - anche questo già lo si è detto - non sono legate da alcun potenziale nesso eziologico con il danno costituito dal deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare. Ed allora il fatto che l’amministratore sia venuto meno ai suoi doveri di corretta redazione e di conservazione della contabilità non giustifica che venga posto a suo carico l’onere di provare la non dipendenza di quel deficit patrimoniale dall’inadempimento, da parte sua, di ulteriori ma non meglio specificati obblighi. 1572 Né varrebbe obiettare che il mancato rinvenimento della contabilità potrebbe impedire al curatore la stessa individuazione di altri eventuali inadempimenti ascrivibili all’amministratore, potenzialmente idonei - quelli sì - a porsi come causa del deficit patrimoniale fatto registrare dalla società fallita. A parte il rilievo che è davvero assai improbabile (ed andrebbe comunque adeguatamente ed argomentata mente dedotto dall’attore) che la mancanza delle scritture sociali basti ad impedire al curatore di ricostruire, attraverso altre fonti, le principali vicende della società fallita, e quindi almeno di ipotizzare ed allegare in causa l’esistenza di eventuali comportamenti illegittimi addebitabili agli organi sociali che siano potenzialmente in grado di avere un’incidenza negativa sul patrimonio della società, appare evidente che l’eventuale impossibilità di stabilire ciò di cui gli organi della società fallita potrebbero essersi resi responsabili non giustificherebbe comunque la proposizione alla cieca di un’azione di responsabilità, e tanto meno il conseguente addebito agli amministratori di un deficit patrimoniale che nulla in tal caso consentirebbe di porre in rapporto di causa ad effetto con comportamenti dell’amministratore impossibili persino da individuare. Postulare che l’amministratore debba rispondere dello sbilancio patrimoniale della società sol perché non ha correttamente adempiuto l’obbligo di conservazione delle scritture contabili ed ha reso perciò più arduo il compito ricostruttivo del curatore fallimentare equivale, in tale situazione, ad attribuire al risarcimento del danno così identificato una funzione palesemente sanzionatoria (che, in ipotesi di condotta dolosa, rischierebbe almeno in parte di sovrapporsi alle sanzioni penali già contemplate dalla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 2, e art. 223). Ciò potrebbe oggi forse non apparire più così incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, come una volta si riteneva, giacché negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento (si pensi, ad esempio, all’art. 96 c.p.c., u.c., in materia di responsabilità processuale aggravata), ma non lo si può ammettere al di fuori dei casi nei quali una qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall’art. 25, comma 2, Cost. nonché dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Naturalmente, resta fermo che, se la mancanza delle scritture contabili rende difficile per il curatore una quantificazione ed una prova precisa del danno che sia di volta in volta riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all’amministratore della società fallita, lo stesso curatore potrà invocare a proprio vantaggio la disposizione dell’art. 1226 c.c., e perciò chiedere al giudice di provvedere alla liquidazione del danno in via equitativa. Né può escludersi che, proprio avvalendosi di tale facoltà di liquidazione equitativa, il giudice tenga conto in tutto o in parte dello sbilancio patrimoniale della società, quale registrato nell’ambito della procedura concorsuale. Ma, come condivisibilmente già osservato da il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto commerciale Cass. 2538/2005 e 3032/2005, citt., per evitare che ciò si traduca nell’applicazione di un criterio affatto arbitrario, sarà pur sempre necessario indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducigli alla condotta del convenuto, nonché la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto. 4. Alla stregua delle considerazioni che precedono, appare evidente che l’impugnata sentenza, avendo individuato il danno da risarcire nella differenza tra il passivo e l’attivo patrimoniale accertati in sede fallimentare sul mero presupposto della mancata tenuta delle scritture contabili da parte dell’amministratore della società fallita, deve essere cassata, con rinvio della causa alla corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto: “Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sta individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”. (omissis). La pronuncia delle Sezioni Unite sul danno nelle azioni di responsabilità contro gli amministratori di società fallite di Pietro Paolo Ferraro (*) La decisione delle Sezioni Unite della Cassazione, intervenendo sulla questione della determinazione del danno nei giudizi di responsabilità relativi agli amministratori di società fallite, si allinea al più recente orientamento giurisprudenziale che ha riaffermato, in ambito fallimentare, i principi generali sulla responsabilità civile, rispetto al quale sviluppa argomentazioni giuridiche in parte nuove, di carattere essenzialmente processuale, richiedendo anzitutto che vi sia una certa coerenza logica tra l’illecito allegato dall’attore e il danno risarcibile, così riconoscendo soltanto in via residuale la possibilità di ricorrere al c.d. criterio del deficit fallimentare. Nonostante lo sforzo sistematico, restano alcuni elementi di incertezza, che fanno dubitare dell’idoneità della sentenza in questione ad orientare in modo univoco e razionale il complesso contenzioso in materia. La questione rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione Con la sent. 6 maggio 2015, n. 9100, la Corte di cassazione ritorna, con tutta l’autorevolezza delle Sezioni Unite, sulla tormentata questione della determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità promosse dai curatori fallimentari nei confronti degli amministratori (e degli altri esponenti degli organi) di società fallite (1), con (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) Per una sintesi del relativo dibattito si veda A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. comm., 2011, I, 149 ss.; sia consentito, altresì, rin- il Corriere giuridico 12/2015 una decisione che, ad una prima impressione, sembra voler mandare in soffitta il criterio giurisprudenziale di quantificazione del danno basato sulla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare, che era molto diffuso in passato, per essere poi progressivamente relegato entro margini sempre più stringenti. Se così fosse, una simile pronuncia finirebbe per “chiudere il cerchio”, segnando il passaggio da un sistema sostanzialmente sanzionatorio, il quale riviare a P.P. Ferraro, Responsabilità degli amministratori di società e quantificazione dei danni in sede fallimentare, in N. Abriani - J.M. Embid Irujo (diretto da), Crisis económica y responsabilidad en la empresa, Granada, 2013, 343 ss. 1573 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto commerciale conosceva l’applicazione pressoché generalizzata del criterio del c.d. deficit fallimentare, che oggi possiamo, a ragione, considerare eccessivamente garantista per i creditori, ad una soluzione diametralmente opposta, che rischia di essere sin troppo benevola, se non impropriamente protettiva, nei confronti dei protagonisti delle vicende gestionali, anche illecite, che riguardano la “fase crepuscolare” delle società destinate a fallire. Prima di ogni valutazione, tuttavia, occorre esaminare attentamente il contenuto della sentenza, al fine di verificare se abbia effettivamente una portata dirompente rispetto al passato o se, piuttosto, si ponga in linea di continuità con più recenti orientamenti giurisprudenziali. Per comprendere, allora, la rilevanza sistematica della decisione in esame, occorre preliminarmente individuare con precisione il suo perimetro di applicazione, partendo dalla questione di diritto devoluta alle Sezioni Unite. Orbene, il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte riguarda un’azione di responsabilità promossa nei confronti dell’amministratore di una S.r.l. fallita da parte del curatore, il quale gli contestava, da un lato, la distrazione di determinati beni della società, dall’altro, l’omessa tenuta della contabilità sociale e la mancata redazione di alcuni bilanci d’esercizio, oltre alla violazione di prescrizioni di natura fiscale. Così delimitata la causa petendi, il Tribunale, con una decisione condivisa dalla Corte d’Appello in sede di gravame, aveva considerato accertato l’inadempimento dell’amministratore ai doveri inerenti la carica ricoperta e, conseguentemente, nel condannarlo al risarcimento, aveva liquidato il danno sulla base del criterio dello sbilancio fallimentare, ritenendo che fosse impossibile ricostruire la reale situazione patrimoniale della società fallita a causa della mancanza delle scritture contabili, addebitabile allo stesso amministratore. Proposto ricorso per cassazione, la I Sezione della Suprema Corte, ravvisando un’oscillazione della giurisprudenza di legittimità, rimetteva la questione alle Sezioni Unite per chiarire “se, nei giudizi di responsabilità promossi da una curatela fallimentare nei confronti di amministratori di società di capitali fallite, sia o meno corretto liquidare il danno utilizzando il criterio della differenza tra l’attivo ed il passivo accertati nell’ambito della procedura concorsuale, quando la mancanza di scritture contabili, addebitabile allo stesso amministratore, impedisca di ricostruire quale è stato l’effettivo andamento dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento” (2). Già da questa formulazione del quesito è possibile delimitare l’ambito di incidenza della decisione, che riguarda l’individuazione e la liquidazione del danno nelle azioni di responsabilità ex art. 146, comma 2, l.fall. in relazione all’ipotesi specifica della mancanza delle scritture contabili per fatto imputabile all’amministratore della società fallita (3). Cionondimeno, la Suprema Corte sembra volere utilizzare l’occasione per delineare un quadro teorico più ampio in materia di responsabilità dei soggetti preposti alla governance di società fallite entro cui collocare la questione specifica. Seguendo il percorso logico-argomentativo contenuto nella parte motiva della sentenza, passiamo ad esaminare più analiticamente le problematiche affrontate dalle Sezioni Unite, alla luce delle posizioni assunte dalla giurisprudenza e dalla dottrina. (2) Cass. 3 giugno 2014, n. 12366, in www.giustiziacivile.com. (3) Ovviamente, come si legge nella stessa sentenza (ma è quasi superfluo precisarlo), il discorso, che riguarda in generale le società di capitali (e cooperative), non è rivolto solo agli amministratori, ma può essere esteso anche ai componenti degli organi di controllo e ai direttori generali. Occorre, altresì, evidenziare che la decisione in esame, sebbene intervenga su una vicenda regolata dalla disciplina anteriore alle riforme organiche del diritto societario e della legge fallimentare, va, tuttavia, riferita anche alle fattispecie rientranti nel regime vigente, sia pur tenendo presente che con il nuovo assetto normativo, da un lato, le azioni di responsabilità sono, in parte, diversamente disciplinate per le società azionarie e la S.r.l., per la quale non è più prevista l’azione dei creditori sociali, dall’altro, l’art. 146 l.fall., come modificato, riconosce espressamente in capo al curatore fallimentare un’autonoma legittimazione ad esperire, nell’interesse della massa dei creditori, le azioni di responsabilità contro gli esponenti degli organi di società fallite, così consentendo di superare buona parte delle incertezze che si ponevano in passato in relazione alle azioni risarcitorie relative alle società in bonis contemplate dal codice civile. Per una disamina degli aspetti problematici che si ponevano in passato, si veda, in luogo di molti, A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in G.E. Colombo - G.B. Portale (diretto da), Trattato delle società per azioni, 9**, Torino, 1993, 370 ss.; con riguardo alla disciplina riformata, si consulti, fra gli altri, V. Caridi, Commento ad art. 146, in A. Nigro - M. Sandulli - V. Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, II, Torino, 2010, 1899 ss., anche per ulteriori riferimenti bibliografici. 1574 L’evoluzione giurisprudenziale La Suprema Corte anzitutto ripercorre gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sul tema della determinazione del danno nelle azioni di responsabilità promosse in sede fallimentare, a volte con un’eccessiva sintesi che sacrifica taluni passaggi, comunque significativi, e senza considerare le il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto commerciale decisioni dei giudici di merito (il che è comprensibile atteso il tipo di sindacato attivato dal ricorso per cassazione), che pure sono state determinanti nell’evoluzione del “diritto vivente”. Invero, in passato, proprio nei tribunali (4) si è sviluppata, con una certa disinvoltura, la tendenza, poi avallata dalla Cassazione, a quantificare il danno derivante da mala gestio in misura corrispondente alla differenza negativa tra l’attivo acquisito ed il passivo accertato nell’ambito della procedura concorsuale, sia nel caso in cui la mancanza delle scritture contabili, addebitabile all’amministratore, avesse impedito di ricostruire l’effettivo andamento dell’impresa sociale prima della dichiarazione di fallimento (5), sia qualora gli amministratori ed i sindaci avessero, rispettivamente, violato o non vigilato sul dovere di non intraprendere nuove operazioni dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società (secondo quanto stabilito dal previgente art. 2449 c.c.), sia, ancora, nell’ipotesi in cui l’illecito comportamento degli organi sociali avesse determinato il dissesto economico e il conseguente fallimento della società (6). L’applicazione, pressoché generalizzata, del criterio del deficit fallimentare, sebbene giustificata da apprezzabili esigenze di giustizia sostanziale, ha incontrato, da subito, le aspre critiche della più qualificata dottrina (7), che ne segnalava la distonia rispetto ai principi generali operanti nel nostro ordinamento in materia di responsabilità civile. Appariva evidente, infatti, la forzatura da parte dei giudici nel ricostruire il rapporto di causalità, in quanto, commisurando la responsabilità alla differenza negativa tra attivo e passivo fallimentare, si finiva di fatto per invertire l’onere probatorio, così costringendo gli amministratori a fornire la prova, spesso notevolmente difficoltosa, dell’inesistenza del nesso di causalità tra condotta ed evento dannoso: in sostanza ciò si traduceva in una vera e propria probatio diabolica. Dopo qualche timida deviazione dall’indirizzo dominante da parte di alcuni giudici di merito (8), la Cassazione ha progressivamente ridimensionato l’orientamento tradizionale, statuendo che il danno cui deve essere condannato l’amministratore responsabile deve essere puntualmente quantificato in relazione alle conseguenze dirette e immediate delle singole violazioni riscontrate, e cioè deve essere individuato con riferimento al concreto pregiudizio che ciascun atto di gestione ha comportato (9). In questa direzione, una svolta importante è segnata da due sentenze del 2005 (10) (il cui relatore è il medesimo della sentenza in commento), le quali hanno fermamente (ri)affermato, anche nel contesto concorsuale, i principi civilistici in materia di responsabilità, stabilendo che il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare rimane utilizzabile, quale criterio presuntivo, e salva la prova contraria del minor danno, solo nel caso in cui il curatore si trovi nell’assoluta impossibilità di procedere alla ricostruzione delle vicende societarie per la sostanziale mancanza delle scritture contabili, sempre che sia logicamente plausibile che il (4) Si vedano, tra le pronunce di merito, App. Milano 11 marzo 1986, in Società, 1986, 1098; App. Bologna 5 febbraio 1997, in Foro it., 1997, I, 2284; Trib. Catania 30 agosto 1986, in Giur. comm., 1988, II, 228; Trib. Torino 14 maggio 1991, in Fall., 1991, 867. (5) Cass. 4 aprile 1977, n. 1281, in Giur. comm., 1977, II, 449; Cass. 19 dicembre 1985, n. 6493, in Società, 1986, 505. (6) Cass. 17 settembre 1997, n. 9252, in Dir. fall., 1998, II, 878, con nota di G. Ragusa Maggiore, Ancora su nuove operazioni e responsabilità degli organi sociali in sede fallimentare; Cass. 8 febbraio 2000, n. 1375. (7) Si vedano, fra gli altri, A. Bonsignori, Il fallimento delle società, in F. Galgano (diretto da), Trattato dir. comm. e dir. pubbl. econ., X, Padova, 1986, 262 s.; P.G. Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle procedure concorsuali: una valutazione critica, in Giur. comm., 1988, I, 548 ss.; L. Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità fra atti di mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Fall., 1989, 973 ss.; più di recente, E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, in Riv. dir. priv., 2004, 7 ss.; S. Ambrosini, in S. Ambrosini - G. Cavalli - A. Jorio (a cura di), Il fallimento, in G. Cottino (diretto da), Trattato di diritto commerciale, XI, Padova, 2009, 757 ss.; nonché, M. Spiotta, Luci e ombre sul fallimento della società e dei soci, in A. Jorio M. Fabiani (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze normative a cinque anni dalla riforma, Bologna, 2010, 858; in termini meno critici, G. Guizzi, L’art. 146 l. fall. nel sistema delle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di società. Un falso problema?, in Riv. dir. comm., 1999, 944; N. Rondinone, La responsabilità per l’incauta gestione dell’impresa in crisi tra vecchio e nuovo diritto societario, in Fall., 2005, 59. (8) Cfr. Trib. Genova 6 aprile 1993, in Fall., 1993, 1263; Trib. Torino 24 dicembre 1994, in Dir. fall., 1995, II, 361; Trib. Milano 18 maggio 1995, in Società, 1995, 1597; App. Bologna 5 febbraio 1997, in Foro it., 1997, I, 2284. (9) Fra le altre, Cass. 17 settembre 1997, n. 9252, in Dir. fall., 1998, II, 878, con nota di G. Ragusa Maggiore, Ancora su nuove operazioni e responsabilità degli organi sociali in sede fallimentare; Cass. 2 novembre 1998, n. 10937; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10488, in Giust. civ., 1999, I, 75, con nota di V. Salafia, Considerazioni in tema di responsabilità degli amministratori verso la società e verso i creditori sociali; Cass. 4 aprile 1998, n. 3483, in Dir. fall., II, 1999, 1032; App. Bologna 12 gennaio 2004, in Fall., 2005, 37; Trib. Napoli 4 aprile 2000, in Società, 2000, 1243; Trib. Catania 1° settembre 2000, in Fall., 2001, 1127; Trib. Milano 10 maggio 2001, in Giur. it., 2001, I, 2, 1898; Trib. Como 16 giugno 2001, ivi, 2002, I, 2, 568; Trib. Napoli 22 gennaio 2002, in Giur. napoletana, 2002, 191; Trib. Milano 20 febbraio 2003, in Fall., 2003, 268; Trib. Milano 30 ottobre 2003, ivi, 2005, 45. (10) Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032, in Foro it., I, 2006, 1898; Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538, in Giur. it., 2005, 1637. il Corriere giuridico 12/2015 1575 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto commerciale comportamento illegittimo degli amministratori, in relazione alle circostanze del singolo caso, abbia potuto provocare un danno corrispondente all’intero sbilancio patrimoniale della società, quale accertato in sede concorsuale. A queste sentenze si è tendenzialmente uniformata la gran parte delle decisioni dei giudici di merito e della Suprema Corte (11), sia pure adottando soluzioni non sempre del tutto omogenee tra loro e talvolta sin anche contraddittorie. Si è, in ogni caso, consolidato un nuovo indirizzo giurisprudenziale volto ad escludere la possibilità di impiegare in modo diffuso il criterio dello sbilancio fallimentare, che può, invece, trovare applicazione soltanto in via eccezionale, o meglio in termini residuali, allorché non sia possibile addivenire alla prova effettiva del danno arrecato dalla condotta illecita dei soggetti preposti alla gestione ed al controllo di società (poi) fallite. In questa prospettiva, il naturale ambito applicativo del criterio in questione ha finito per essere costituito dalla mancanza delle scritture contabili, imputabile agli esponenti degli organi sociali, tale da non consentire una precisa ricostruzione delle vicende societarie e dei fatti di gestione. Al tempo stesso, è andata maturando tra i giudici una maggiore sensibilità nell’individuare le tecniche di determinazione del danno risarcibile nelle azioni ex art. 146 l.fall., che ha portato ad affermare criteri di calcolo alternativi, come quello dei netti patrimoniali di periodo (12), che è apparso più appropriato per quelle ipotesi in cui la condotta gestionale illecita rileva, piuttosto che nella causazione diretta del fallimento, nell’aggravamento del dissesto, allorché gli amministratori sono chia- mati a rispondere per avere proseguito l’ordinario esercizio dell’attività produttiva, invece di assumere tempestivamente le iniziative previste dalla legge nel momento in cui si verifica una causa di scioglimento prevista dall’art. 2484 c.c., di solito rappresentata dalla perdita del capitale sociale rilevante ex artt. 2447 e 2482 ter c.c., oppure in presenza dello stato di insolvenza della società. Secondo questa impostazione, in caso di inerzia colpevole, nel dare impulso alla liquidazione, da parte dell’amministratore, il quale non si è limitato ad una gestione meramente conservativa del patrimonio sociale ai sensi dell’art. 2486 c.c., e maggiormente, in presenza di una situazione di insolvenza, non si è attivato per richiedere il fallimento della società, il danno può essere quantificato nella misura differenziale tra il saldo del patrimonio netto risultante dal bilancio nel momento in cui l’amministratore acquisisce o avrebbe dovuto acquisire consapevolezza del dissesto e quello all’atto della dichiarazione di fallimento, rettificando il primo in modo da fare emergere la perdita allora già maturata e tenendo conto della diminuzione di valore che il patrimonio, presumibilmente, avrebbe comunque subito qualora fossero stati assolti senza indugio gli obblighi di legge (13). Un ulteriore affinamento dell’elaborazione teorico-pratica è rappresentato dalla tendenza, rinvenibile in talune sentenze più recenti (14), a ricondurre le metodologie di quantificazione approssimativa del danno da mala gestio nell’ambito del paradigma della liquidazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c., così da consentirne un unitario inquadramento sistematico. (11) Così, ex multis, Cass. 23 luglio 2007, n. 16211, in Società, 2008, 1364; Cass. 22 aprile 2009, n. 9616; Cass. 8 luglio 2009, n. 16050, in Società, 2010, 407; Cass. 4 luglio 2012, n. 11155, in Giur. it., 2013, 1105; Cass. 11 luglio 2013, n. 17198; App. Torino 31 dicembre 2012, in Fall., 2013, 372; Trib. Torino 15 aprile 2005, in Giur. it., 2005, 1859; Trib. Marsala 2 maggio 2005, in Fall., 2006, 461; Trib. Torino, 6 maggio 2005, in Giur. it., 2005, 1858; Trib. Milano 29 marzo 2006, in Corr. mer., 2007, 1, 42; Trib. Salerno 25 ottobre 2006, ibidem, 74; Trib. Milano 14 novembre 2006, in Società, 2007, 864; Trib. Torino 12 gennaio 2009, in Fall., 2010, 35; Trib. Milano 27 aprile 2009, in Giur. it., 2009, 2466; Trib. Milano 14 ottobre 2009; Trib. Milano 24 novembre 2009, in Giur. it., 2010, 1329; Trib. Milano 10 marzo 2010, in Società, 2010, 774; Trib. Milano 31 gennaio 2014, in Fall., 2014, 597. (12) Si vedano, ad esempio, Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538, in Dir. prat. soc., 2005, 71; App., Torino, 12 gennaio 2009, in Fall., 2009, 1003; Trib. Marsala 2 maggio 2005, ivi, 2006, 461; Trib. Torino 12 gennaio 2009, ivi, 2010, 35; Trib. Padova 24 giugno 2009, ibidem, 729; Trib. Milano 3 febbraio 2010; Trib. Milano, 18 gennaio 2011, in Giur. comm., 2012, II, 391; Trib. Catania, 22 gennaio 2015, in www.ilcaso.it; in dottrina, fra gli altri, A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, cit., 155 ss.; D. Galletti, Brevi note sull’uso del criterio dei “netti patrimoniali di periodo” nelle azioni di responsabilità, in www.ilcaso.it, doc. n. 215/2010, 1 ss.; P.P. Ferraro, Responsabilità degli amministratori di società e quantificazione dei danni in sede fallimentare, cit., 350 ss. (13) In questo modo il danno viene quantificato più precisamente in base alla somma algebrica delle conseguenze economiche di vicende positive e negative che trova riscontro nei saldi di periodo, i quali indicano l’evoluzione in peius del patrimonio netto della società nell’arco di tempo considerato, il cui peggioramento deriva dall’illegittima prosecuzione dell’attività d’impresa. (14) Cfr. Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538, cit.; Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032, cit.; Cass. 4 luglio 2012, n. 11155, cit.; Cass. 11 luglio 2013, n. 17198, cit.; App. Roma 14 marzo 2000, in Gius., 2000, 1879; Trib. Roma 10 febbraio 1987, in Dir. fall., 1988, II, 338; Trib. Genova 24 novembre 1997, cit.; Trib. Catania 29 settembre 2000, cit.; Trib. Milano 30 ottobre 2003, cit.; Trib. Milano 29 marzo 2006, cit.; Trib. Bologna 22 maggio 2007, in Guida dir., 2007, 82; Trib. Milano, 6 marzo 2013, in Società, 2014, 219; Trib. Milano 31 gennaio 2014, cit. 1576 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto commerciale Rispetto a questo quadro giurisprudenziale, che sembra essersi delineato in maniera alquanto definita, un elemento diacronico - a giudizio dell’ordinanza di rimessione - è stato introdotto da due recenti sentenze del 2011 (15), le quali, pur riconoscendo che nelle azioni in questione competa all’attore fornire la prova dell’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito del convenuto, hanno ritenuto che, quando la mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili renda impossibile al curatore dimostrare il predetto nesso di causalità, si verifichi un’inversione dell’onere della prova: in questo caso, la condotta dell’amministratore, integrando la violazione di specifici obblighi di legge, sarebbe di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale. Proprio in relazione a queste ultime pronunce va apprezzato principalmente il contributo chiarificatore della sentenza in commento. Il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte Pronunciandosi sulla specifica questione sollevata, le Sezioni Unite, nell’esercizio della funzione nomofilattica sancita dall’art. 363 c.p.c., hanno affermato un principio di diritto solo in parte innovativo rispetto alla più recente giurisprudenza di legittimità, che - da un punto di vista concettuale si articola in tre parti, le quali possono essere considerate autonomamente l’una dall’altra. Con la prima affermazione di principio, la Suprema Corte ha preliminarmente chiarito che “nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile devono essere operate avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento”. Sulla base di questa puntualizzazione inerente l’onere di allegazione che incombe sulla curatela attrice, la seconda parte del principio enunciato dalla Cassazione statuisce che “nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, (15) Cass. 11 marzo 2011, n. 5876; Cass. 4 aprile 2011, n. 7606, in Danno e resp., 2012, 48. (16) Cfr. P.P. Ferraro, Responsabilità degli amministratori di il Corriere giuridico 12/2015 di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare”. “Tale criterio” - arrivando al passaggio di chiusura dell’enunciato di diritto - può “essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”. Su queste premesse, le Sezioni Unite intervengono su quello che ha finora rappresentato pacificamente il principale ambito di applicazione del criterio del deficit fallimentare, ossia la violazione da parte dell’amministratore degli obblighi relativi alla tenuta della contabilità sociale, circoscrivendo in maniera così rigorosa la sua operatività, al punto da farne dubitare l’effettiva fruibilità. I vari profili dell’enunciato di diritto vanno esaminanti separatamente, sebbene il primo, che riguarda l’onere di allegazione, si ponga in rapporto di strumentalità rispetto al secondo, relativo al criterio di liquidazione del danno, che allora - a ben vedere - costituisce il vero enunciato di principio della sentenza. Per comprendere compiutamente la portata del principio giuridico affermato dal Supremo Collegio, è necessario considerare gli argomenti tecnici posti a fondamento della decisione, la quale, per un verso, ribadisce i principi civilistici in materia di responsabilità, che l’autorevole Relatore aveva già affermato nelle due precedenti sentenze del 2005, per altro verso, sviluppa argomentazioni giuridiche, in parte nuove, di carattere essenzialmente processuale. Focalizzando l’attenzione sui passaggi salienti della sentenza, occorre segnalare che la Corte ha opportunamente evidenziato che la questione relativa alla quantificazione dei danni nelle azioni di responsabilità non può essere affrontata in termini generali, il che val quanto dire che non sono ammissibili automatismi, come del resto già acquisito a livello dottrinale e giurisprudenziale (16), occorrendo piuttosto considerare i diversi illeciti contesocietà e quantificazione dei danni in sede fallimentare, cit., 356 ss., anche per ulteriori riferimenti dottrinali e giurisprudenziali. 1577 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto commerciale stati all’amministratore, riferibili all’inadempimento di obblighi specifici imposti dalla legge o dall’atto costitutivo e dallo statuto oppure riconducibili alla violazione del dovere di gestire diligentemente la società. In questa prospettiva, la Suprema Corte precisa che il quesito concerne non solo una questione di onere della prova del danno e del nesso di causalità, ma anche, e ancor prima, il profilo dell’allegazione, che della prova costituisce l’antecedente logico, secondo un’impostazione metodologica (che quasi possiamo dare per scontata) riassumibile nel noto brocardo latino “iudex iuxta alligata et probata iudicare debet” (17). Seguendo tale premessa, la Cassazione arriva ad escludere, in via di principio, l’applicazione del criterio dello sbilancio fallimentare in caso di mancanza delle scritture contabili, così da ridimensionare l’orientamento che si era diffuso tra giudici di legittimità e di merito, da un lato, valorizzando l’onere di allegazione che grava sull’attore, dall’altro, sminuendo il principio giurisprudenziale di vicinanza o prossimità della prova, che pure è stato invocato in alcune più recenti sentenze in materia. La Corte, poi, nella parte finale della pronuncia giunge ad un certo temperamento di quanto nella stessa precedentemente affermato, là dove riconosce che, nell’ambito della liquidazione equitativa del danno, qualora ne ricorrano le condizioni, possa essere presa in considerazione (anche solo in parte) la differenza negativa tra attivo e passivo fallimentari, purché siano indicate dall’attore le ragioni che non hanno consentito la precisa indicazione del danno (si pensi, ad esempio, alla distruzione dei documenti contabili da parte dell’amministratore) e l’applicazione di siffatto criterio sia coerente rispetto al caso concreto, così riconoscendo che, in determinate ipotesi, siano più pertinenti diverse metodologie di quantificazione del danno. La sentenza in esame, quindi, collocandosi nel solco tracciato dalle più recenti pronunce della Cassazione in materia di responsabilità degli ammi- L’argomento giuridico davvero innovativo offerto dal Supremo Collegio è quello, di natura strettamente processuale, relativo all’onere di allegazione che incombe sull’attore (18), al quale sembra ricorrere per contrastare la tendenza diffusa nelle aule dei tribunali a semplificare oltremodo l’articolazione della causa petendi da parte delle curatele attrici. In tal senso, la Corte, nel ricordare il pacifico convincimento secondo il quale il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve provare la fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte (19), sostiene che ciò valga anche per le obbligazioni di mezzi (20), tra cui quelle di comportamento che riguardano l’amministratore di società e, quindi, acquista rilevanza centrale rispetto al relativo giudizio di responsabilità, senza distinzione tra l’azione sociale e quella dei creditori. In questa prospettiva, l’attore, pur non dovendo provare l’inadempimento del convenuto, deve nondimeno individuarlo puntualmente e allegarlo, oltre ovviamente a dover provare il danno che ne consegue e il nesso di causalità (21). Sebbene, in linea teorica, quanto affermato in sentenza sia condivisibile, occorre chiedersi quale tra gli inadempimenti dell’amministratore di società, che la curatela attrice deve allegare, sia astrattamente efficiente a produrre un danno che si assuma corrispondente all’intero deficit fallimentare. Una simile portata - sostiene la Suprema Corte può essere riconosciuta soltanto a violazioni del (17) Sulla distinzione tra allegazione e prova, che vincolano il giudice sulla base di un diverso fondamento logico, si vedano, tra gli altri, B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991, 3 ss. e 289 ss.; M. Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, Milano, 1962, 305 ss. (18) In generale sull’allegazione, si consulti, fra gli altri, L.P. Comoglio, Allegazione, in Dig. disc. priv., sez. civ., I, Torino, 1987, 272 ss.; D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti nel processo civile, Torino, 2001. (19) Così Cass., SS.UU., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Giust. civ., 2002, I, 1934. (20) Si veda Cass., SS.UU., 28 luglio 2005, n. 15781, in Eu- ropa e dir. priv., 2006, 781, con nota di A. Nicolussi, Il commiato della giurisprudenza dalla distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi; con specifico riferimento alla responsabilità medica, Cass., SS.UU., 11 gennaio 2008, n. 577, in Giur. It., 2008, 1653, con nota di A. Citti, Crepuscolo della distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato. (21) Specie con riguardo al nesso di causalità, si rinvia, fra i molti, a G. Visintini, Risarcimento del danno, in P. Rescigno (diretto da), Trattato di diritto privato, II ed., IX, Torino, 1999, 252; F. Realmonte, Il rapporto di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967; G. Gorla, Sulla cosiddetta causalità giuridica: “fatto dannoso e conseguenze”, in Riv. dir. comm., 1951, I, 405. 1578 nistratori di società, conferisce un sigillo di autorevolezza (quello che è proprio delle statuizioni delle Sezioni Unite) ad un rigoroso indirizzo, che già da tempo si è andato affermando anche tra i giudici di merito, al quale cerca di offrire, secondo una visione sistematica, una più solida base teorica, non immune da qualche forzatura. La valorizzazione dell’onere di allegazione il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto commerciale dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio a cagione di esse si sia eroso l’intero patrimonio e siano scaturite le perdite registrate dal curatore o, comunque, a quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza; ma già se queste violazioni abbiano soltanto aggravato il dissesto, unicamente tale aggravamento potrebbe essere ricollegato a quelle violazioni e rilevare sul piano risarcitorio. Qualora, invece, come si legge sempre nella sentenza in esame, una tale ampiezza di effetti dell’inadempimento allegato non sia neppure teoricamente concepibile, la pretesa d’individuare il danno risarcibile nella differenza tra passivo e attivo patrimoniale, accertati in sede fallimentare, risulta priva di ogni base logica e giuridica. D’altra parte, come opportunamente ricordato dalla Corte, occorre tenere presente che le perdite non possono mai essere considerate un sintomo o una conseguenza delle violazioni contestate all’amministratore, il quale non deve certo garantire risultati positivi nell’esercizio dell’impresa, così come - è opportuno aggiungere - le sue scelte imprenditoriali non sono sindacabili nel merito, secondo quanto postulato dalla business judgment rule (22). Ciò porta, quindi, la Cassazione, in piena coerenza con le premesse, ad escludere che il deficit fallimentare venga automaticamente posto a carico dell’amministratore, tanto come conseguenza della violazione del generale obbligo di diligenza nella gestione dell’impresa sociale, quanto come conseguenza della violazione di doveri specifici potenzialmente idonei a determinare soltanto effetti altrettanto specifici e ben delimitati. Pertanto, in presenza della distrazione di alcuni beni della società, come avvenuto nel caso di specie, il danno non può che essere commisurato al valore di quei beni o al vantaggio che l’impresa avrebbe potuto ricavarne. Invece, la mancata redazione delle scritture contabili (così come dei bilanci d’esercizio) di per sé non è fonte di danno risarcibile, in quanto la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività d’impresa, non li determina; ed è da quegli accadimenti che deriva il deficit patrimoniale, non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione contabile. Di conseguenza, secondo la Corte, qualora l’attore non alleghi un inadempimento del convenuto almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui pretende il risarcimento (23), si finirebbe per attribuire impropriamente a quest’ultimo una funzione essenzialmente sanzionatoria, non consentita da alcuna norma di legge (cfr. art. 25 Cost.) (24) e addirittura in contrasto con principi di valenza internazionale (25). In sostanza, le Sezioni Unite richiamano la basilare regola processuale, secondo cui iudex secundum alligata iudicare debet, per conferire un più solido fondamento giuridico ad un orientamento ormai consolidato, pretendendo dall’attore un più coerente e rigoroso comportamento processuale. (22) Si vedano, ad esempio, Cass., 16 gennaio 1982, n. 280, in Dir. fall., 1982, II, 664; Cass., 28 aprile 1997, n. 3652, in Giust. civ., 1997, I, 2780; Cass., 28 agosto 2004, n. 16707, in Giur. comm., 2005, II, 246; Cass., 12 febbraio 2013, n. 3409. Per approfondimenti, si consulti C. Angelici, Diligentia quam in suis e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, 675 ss.; L. Enriques, Il nuovo diritto societario nelle mani dei giudici: una ricognizione empirica, in Stato e mercato, 2001, 75 ss.; R. Weigmann, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Torino, 1974, 186 ss. e 297 ss.; più di recente, C. Gamba, Diritto societario e ruolo del giudice, Padova, 2008; C. Amatucci (a cura di), Responsabilità degli amministratori di società e ruolo del giudice. Un’analisi comparatistica della business judgment rule, Milano, 2014. (23) Cfr. Cass., SS.UU., 11 gennaio 2008, n. 577, cit. (24) Si vedano, fra gli altri, R. Rordorf, Il risarcimento del danno nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, sindaci, liquidatori e direttori generali di società fallite, in Società, 1993, 617; S. Di Amato, L’azione di responsabilità ex art. 146 legge fallimentare alle soglie della riforma del diritto societario, in Dir. fall., 2003, I, 66 s. (25) Il riferimento è all’art. 7 della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. il Corriere giuridico 12/2015 Mancanza delle scritture contabili e danno risarcibile L’impostazione della sentenza, in via teorica, non può che essere condivisa, ma induce a domandarsi cosa, in concreto, debba costituire oggetto di allegazione, ossia quale sia l’inadempimento che, come causa efficiente del danno, deve allegare la curatela fallimentare allorché agisca in responsabilità contro l’amministratore della società fallita. Sul punto richiamato, la tesi sostenuta dalla Corte non appare del tutto esplicita. Non vi è dubbio che non sia sufficiente il generico riferimento alla violazione del dovere di diligenza professionale a cui è tenuto l’amministratore di società, occorrendo indicare specifiche violazioni, che siano coerentemente ricollegabili al danno subito dalla società e dai relativi creditori. In tal senso, il riferimento all’imputabilità di singole condotte illecite, intorno alle quali costruire gli oneri di allegazione e di prova, risponde ai principi generali di diritto 1579 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto commerciale arbitrari) e l’inventario redatto dal curatore, nonché la condotta complessiva dell’amministratore, specie relativa all’ultimo periodo di gestione prefallimentare. D’altra parte, appare incontestabile che di solito la sottrazione o distruzione delle scritture contabili, così come talvolta anche l’omessa redazione delle stesse, non è fine a se stessa, ma è quasi sempre funzionale a non consentire ai terzi l’individuazione di atti dannosi di mala gestio (28). Occorre, dunque, evitare un’eccessiva enfatizzazione dell’onere di allegazione, che porti a pretendere dall’attore una vera e propria alligatio diabolica, richiedendogli di rappresentare in giudizio avvenimenti gestionali di cui non ha, né può avere, conoscenza a causa di un’attività di occultamento posta in essere dall’amministratore (29). Ciò risponde, anzitutto, a un elementare principio di buon senso, che assume puntuale rilevanza sul piano giuridico, secondo cui nessuno può trarre vantaggio dal proprio fatto illecito. È proprio questa, invece, la conseguenza paradossale alla quale si arriverebbe qualora si aggravasse l’onere di allegazione della curatela attrice, finendo in sostanza per riconoscere, quale esimente, l’assenza delle scritture contabili imputabile all’amministratore, il quale abbia in tal modo reciso volontariamente la sequenza causale tra comportamento illecito e danno. civile che regolano la responsabilità contrattuale e da inadempimento. Tuttavia, quando si tratta di gestione (societaria) occorre distinguere tra atto e attività: l’inadempimento può senz’altro avere ad oggetto un atto illecito specifico che sia fonte immediata e diretta di un danno risarcibile, ma può riguardare anche lo svolgimento dell’attività gestionale o di parte di essa, ossia ben può riferirsi ad una serie coordinata di atti legati da una funzione unitaria (secondo la nozione tecnica di attività (26)). Pertanto, anche la violazione del dovere di tenere la contabilità, in determinate circostanze, non può essere considerata avulsa da altri comportamenti illeciti, i quali, appunto, hanno materialmente prodotto l’evento dannoso; anzi, la violazione inerente la contabilità sociale può talvolta assumere una connotazione strumentale rispetto ad atti illeciti pregiudizievoli, nel senso che può essere finalizzata ad occultarli. In questi termini, quindi, si è in presenza di una complessiva sequenza di atti illeciti, che, considerata unitariamente, può ritenersi fonte di danno, in quanto il successivo illecito, relativo alla contabilità, è strumentale rispetto a quello precedente che ha direttamente determinato il danno (27). In tal caso, allora, non sembra sia da escludere che il contenuto dell’onere di allegazione possa essere riferito anche soltanto alla mancanza delle scritture contabili imputabile all’amministratore qualora vi siano elementi che consentano di considerare gli illeciti teleologicamente connessi. E a tal proposito il collegamento funzionale tra i diversi illeciti può essere desunto da una serie di elementi indiziari e presuntivi: ad esempio, considerando soprattutto il contesto temporale delle violazioni relative alla contabilità, rileva l’approssimarsi di una situazione di dissesto e la vicinanza alla dichiarazione di fallimento, ma anche l’ingiustificato depauperamento patrimoniale che può emergere da un confronto tra i dati di bilancio (da cui risultano, ad esempio, ammortamenti e svalutazioni Costituisce un dato acquisito che l’attore, oltre a dover allegare l’inadempimento (specifico) del convenuto, ossia la condotta illecita che idealmente ha cagionato il danno risarcibile, deve fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra la condotta e l’evento dannoso, mentre il convenuto deve provare di avere regolarmente adempiuto le proprie obbligazioni. (26) Sulla nozione giuridica di attività, si veda, per tutti, G. Auletta, voce Attività (diritto privato), in Enc. dir., III, Milano, 1958, 981 ss. La rilevanza che, nel diritto dell’impresa, riveste il concetto dinamico di attività, in contrapposizione ad una considerazione atomistica del singolo atto, è autorevolmente rimarcata da P. Ferro-Luzzi, I contratti associativi, Milano, 1971, 188 ss.; C. Angelici, La riforma delle società di capitali, Padova, 2006, 189 ss. (27) Cfr. A. Patti, La determinazione del danno risarcibile nell’azione di responsabilità per la perdita del capitale sociale, in Fall., 2013, 173; M. Vitiello, Il danno risarcibile nelle azioni di responsabilità della curatela, in Giur. comm., 2013, I, 163. (28) È pacifico che le violazioni che riguardano le scritture contabili, sebbene abbiano una rilevanza penale, non sono di per sé fonte di danno risarcibile, a meno che non siano connesse ad altri inadempimenti dannosi: cfr. Cass. 20 giugno 2000, n. 8368, in Fall., 2001, 745; Cass. 8 marzo 2000, n. 2624, in Foro it., 2001, I, 627; Trib. Milano 7 giugno 2001, in Giur. milanese, 2001, 63; Trib. Ivrea 29 gennaio 2004, in Società, 2004, 1564. (29) In caso di fallimento della società, il curatore che agisce in responsabilità contro l’amministratore non è parte contrattuale, ma è terzo, per cui spesso non solo non dispone di adeguati elementi probatori, ma neppure è a conoscenza dei fatti di gestione, che si sono svolti prima della sua designazione come organo della procedura concorsuale. 1580 La svalutazione del principio di vicinanza della prova il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto commerciale La dove, tuttavia, il curatore che esercita l’azione di responsabilità contro l’amministratore della società fallita sia in grado soltanto di allegare l’illecito relativo alla tenuta della contabilità sociale, non potendo diversamente ricostruire ciascun atto dannoso di mala gestio, anche per quanto riguarda la prova del danno e del nesso eziologico, occorre ricorrere a procedure che sottendono l’impossibilità di una loro precisa individuazione, quale è il sistema delle presunzioni. In questa direzione muovono quelle sentenze più recenti della Cassazione, le quali, pur non discostandosi dall’orientamento prevalente, in caso di mancanza delle scritture contabili, presumendo l’esistenza del danno e del nesso di causalità, sostengono un’inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore convenuto in giudizio. In tal senso, il ricorso alle presunzioni (che devono essere gravi, precise e concordanti ai sensi dell’art. 2729 c.c.), circa la sussistenza del nesso eziologico, si giustifica allorché la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, tenuto conto del rilievo che assume, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova, la “vicinanza della prova” stessa, cioè l’effettiva possibilità per l’una o l’altra parte di offrirla, secondo quanto affermato in giurisprudenza a partire dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione del 2001 (30), la quale ha chiarito che è il debitore che deve provare di avere correttamente adempiuto le sue obbligazioni e non, viceversa, il creditore a dover provare l’inadempimento. Una volta posto il problema nei termini indicati, non sembra pienamente da condividere la presa di posizione delle Sezioni Unite, che tendono ad escludere la rilevanza del principio di prossimità della prova, ritenendo che vi sarebbe un disallineamento delle suddette pronunce, le quali, con riguardo a vicende analoghe a quella trattata in questa sede, sono arrivate ad affermare un’inversione dell’onere della prova. In realtà, tali decisioni, in una logica di maggiore affinamento dell’elaborazione teorica, hanno re- cepito il principio di vicinanza della prova, per addivenire ad un sostanziale aggravamento dell’onere probatorio a carico del convenuto. Non sembra neppure che queste pronunce siano inconciliabili con l’indirizzo dominante, volto ad applicare come extrema ratio il criterio del deficit fallimentare. Invero, queste sentenze, in modo spesso condivisibile, hanno ritenuto che la mancanza (o l’irregolarità) delle scritture contabili impedirebbe al curatore che agisce in responsabilità contro l’amministratore della società fallita di ricostruire, e perciò di provare con sufficiente precisione, il danno sofferto dal patrimonio della medesima società (e dai suoi creditori), onde si giustifica lo spostamento dell’onere della prova del danno e del nesso di causalità in capo al convenuto, giacché è proprio l’illegittimo comportamento di costui ad impedire all’attore di assolvere a quell’onere. In questa prospettiva, il nesso eziologico può essere ricondotto, in via presuntiva, alla mancata tenuta delle scritture contabili, attraverso cui l’amministratore abbia reso non conoscibili gli atti di gestione e, in particolare, quelli illeciti e pregiudizievoli. A ciò si aggiunga che il ricorso al principio di vicinanza della prova è tanto più pertinente con riguardo al curatore fallimentare che agisce ex art. 146 l.fall., il quale è terzo rispetto al rapporto gestorio intercorso tra amministratore e società (poi) fallita, subentrando soltanto in un secondo momento nell’amministrazione del patrimonio sociale. Ovviamente, però, come si legge nella sentenza, pur in mancanza delle scritture contabili, il curatore deve comunque attivarsi per verificare aliunde la condotta illecita fonte di danno imputabile all’amministratore (31). (30) Cass., SS.UU., 30 ottobre 2001, n. 13533, cit. A questa sentenza si è uniformata la giurisprudenza unanime della Suprema Corte: si vedano, in particolare, Cass. 28 gennaio 2002, n. 982, in Giust. civ., 2002, I, 978; Cass. 21 febbraio 2003, n. 2647; Cass. 1° aprile 2004, n. 6395, in Giust. civ., I, 448; Cass. 13 giugno 2006, n. 13674; Cass. 26 gennaio 2007, n. 1743, in Giust. civ., 2007, I, 2121; Cass. 11 novembre 2008, n. 26953; Cass. 3 luglio 2009, n. 15677; Cass. 20 gennaio 2010, n. 936, in Riv. dir. proc., 2011, I, 186; Cass. 15 luglio 2011, n. 15659. (31) Così, ad esempio, se il collegio sindacale ha puntualmente riportato nel libro relativo alle sue riunioni tutti gli aspetti di criticità della gestione sociale, nonostante sia sparita la documentazione contabile, il curatore può essere comunque in grado di ricostruire la condotta illecita imputabile agli amministratori, in modo da poterla allegare in sede processuale. il Corriere giuridico 12/2015 Il paradigma della liquidazione equitativa del danno Nonostante il rigore preteso dalle Sezioni Unite, resta il fatto che la mancanza delle scritture contabili rende in molti casi oggettivamente difficile, se non addirittura impossibile, per il curatore falli- 1581 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto commerciale mentare la quantificazione del danno, che sia di volta in volta riconducibile ad un determinato inadempimento imputabile all’amministratore della società fallita. Di ciò sembra rendersi conto la stessa Cassazione, nel momento in cui, nella parte finale della sentenza in commento, non senza una qualche contraddizione rispetto a quanto precedentemente sostenuto, recupera il criterio del deficit fallimentare, riconducendolo nell’ambito della liquidazione equitativa del danno (32). In tal senso la Corte, ridimensionando in parte il proprio enunciato, riconosce che “lo stesso curatore potrà invocare a proprio vantaggio la disposizione dell’art. 1226 c.c. e perciò chiedere al giudice di provvedere alla liquidazione del danno in via equitativa”, e prosegue ritenendo che “né può escludersi che, proprio avvalendosi di tale facoltà di liquidazione equitativa, il giudice tenga conto in tutto o in parte dello sbilancio patrimoniale della società, quale registrato nell’ambito della procedura concorsuale”. Tuttavia, richiamando i propri precedenti del 2005, precisa che “per evitare che ciò si traduca nell’applicazione di un criterio affatto arbitrario, sarà pur sempre necessario indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta del convenuto, nonché la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto”. Pertanto, la Corte riconosce al curatore la possibilità di richiedere una liquidazione del danno ex art. 1226 c.c., eventualmente - temperando così quanto aveva prima statuito - anche tenuto conto, in tutto o in parte, dello sbilancio patrimoniale della società, come registrato nell’ambito della procedura concorsuale, sia pur affermando - ed ecco che torna di nuovo una impostazione rigorosa - la necessità di precisare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta del convenuto, nonché la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, considerando le circostanze del caso concreto. L’aspetto di grande rilievo che emerge dalla decisione in commento è l’inquadramento del criterio dello sbilancio fallimentare nell’ambito del paradigma della liquidazione equitativa, al quale sono riconducibili anche altre metodologie di calcolo, come evidenziato di recente anche in dottrina (33). Attraverso tale collocazione sistematica, la Corte riconosce che sia possibile utilizzare anche soltanto in parte il dato della differenza tra passivo e attivo fallimentare, cosicché quell’importo differenziale rappresenta il tetto massimo a cui può arrivare il risarcimento, lasciando dunque ampi margini valutativi al giudice, il quale può decidere di condannare l’amministratore al pagamento di un importo più contenuto, a seconda del caso concreto. Inoltre, la Cassazione invita a dare conto delle ragioni ostative che non hanno consentito la prova puntuale dell’inadempimento, come appunto si deve ritenere possano essere l’occultamento, la distruzione o la mancata redazione delle scritture contabili in prossimità della dichiarazione di fallimento. Infine, la Corte, richiedendo di considerare la plausibilità logica del ricorso al criterio dello sbilancio fallimentare, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, sottintende che in determinati casi sia più coerente adottare tecniche di calcolo differenti, come quella dei netti patrimoniali di periodo, comunque riconducibile nell’ambito del sistema di liquidazione equitativa del danno (34), allorché l’amministratore abbia proseguito nel normale svolgimento dell’attività produttiva pur in presenza di una causa di scioglimento, invece di limitarsi ad una gestione meramente conservativa e di dare impulso alla liquidazione della società, oppure, in caso di insolvenza irreversibile, qualora non si sia attivato per tempo al fine di far dichiarare il fallimento della società. Proprio l’invito ad una maggiore coerenza logica consente di affermare che se in bilancio sono iscritte immobilizzazioni materiali per un dato ammontare e dall’inventario redatto dal curatore non risultano beni di pari valore, per quantificare il (32) In questi termini, già Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538, cit.; Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032, cit.; Cass. 4 luglio 2012, n. 11155, cit.; Cass. 11 luglio 2013, n. 17198, cit. (33) Sul punto sia consentito rinviare a P.P. Ferraro, Responsabilità degli amministratori di società e quantificazione dei danni in sede fallimentare, cit., 360 ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici. (34) Ciò consentirebbe di superare, almeno in parte, le obiezioni sollevate da Cass., 23 giugno 2008, n. 17033, in Giust. civ., 2009, I, 2437, con nota di F. Brizzi, La mala gestio degli amministratori in prossimità dello stato di insolvenza e la quantificazione del danno risarcibile, che ha tendenzialmente escluso la possibilità di liquidare il danno in misura pari alla perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell’attività in presenza di una causa di scioglimento della società. 1582 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto commerciale danno, piuttosto che utilizzare il criterio del deficit fallimentare, basta semplicemente considerare la differenza tra le due poste indicate, come emerge dalla casistica giurisprudenziale (35). Pertanto, i giudici di merito che si erano occupati del caso sottoposto poi all’attenzione della Suprema Corte avevano indubbiamente adottato una soluzione semplicistica, non corretta alla luce dei risultati acquisti sul piano teorico-pratico, perché, rispetto alla distrazione di attività patrimoniali della società contestata e allegata dal curatore fallimentare, hanno applicato automaticamente il criterio dello sbilancio fallimentare, dando rilievo alla mancanza delle scritture contabili, nonostante nell’ipotesi considerata il danno fosse determinato. La portata sistematica della sentenza In conclusione, ci si trova in presenza di una sentenza di carattere prevalentemente procedurale o procedimentale, che definisce l’iter logico-argomentativo che occorre seguire nei giudizi di responsabilità contro gli amministratori di società fallite, con specifico riferimento alla determinazione del danno risarcibile. A questo proposito, la pronuncia esprime un’opzione decisamente favorevole ad un’articolazione tipologica dei vari illeciti che sono fonte di responsabilità e ad una puntuale e rigorosa allegazione e prova del corrispondente danno provocato, per poi esaminare la fattispecie più problematica che riguarda le violazioni degli obblighi relativi alla contabilità sociale. Su questa ipotesi, l’apporto nomofilattico della Corte è più incisivo nella parte in cui esclude che la mancanza delle scritture contabili possa automaticamente comportare una liquidazione del danno corrispondente alla differenza attivo-passivo fallimentare, per l’ovvia considerazione che le scritture contabili registrano gli accadimenti economici, ma non li determinano, per cui “il fatto che l’amministrazione sia venuta meno ai suoi doveri di corretta redazione e di conservazione della contabilità non giustifica che venga posto a suo carico l’onere di provare la non dipendenza di quel deficit patrimoniale da inadempimento, da parte sua, di ulteriori ma non meglio specificati obblighi”. (35) Si veda, ad esempio, la soluzione adottata da Trib. Napoli 24 gennaio 2007, in Fall., 2007, 946, secondo cui l’amministratore della società fallita che abbia distrutto, distratto, sottratto, dissipato, abbandonato od occultato una cospicua parte dei beni materiali della società è tenuto al risarcimento, in favore del fallimento, nella misura pari alla differenza tra il valore delle immobilizzazioni materiali da lui iscritte in bilancio e quello delle immobilizzazioni materiali inventariate dal curato- il Corriere giuridico 12/2015 Un tale criterio di quantificazione, per così dire radicale e semplificativo, può essere utilizzato soltanto come extrema ratio, ma non in via immediata e diretta, bensì attraverso il filtro della valutazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c. Eppure anche in tal caso occorre fissare i “paletti” imprescindibili per un corretto giudizio, che resta pur sempre di diritto, sebbene sia caratterizzato da equità suppletiva e integrativa (36). Nei termini ricostruiti, la sentenza è sostanzialmente da apprezzare, essendo del resto in linea con gli orientamenti orami da tempo prevalenti, anche se potrebbe rilevarsi, per un verso, una certa tendenza a ridimensionare le responsabilità degli esponenti degli organi sociali persino in situazioni estreme in cui traspare una diretta responsabilità nella scomparsa delle scritture contabili, per altro verso, una intrinseca genericità nel definire il percorso di una liquidazione equitativa che non contraddica le premesse precedentemente denunciate. Le rilevate ambiguità sono del resto il frutto di una qualche sovrapposizione tra due profili di indagine teoricamente distinti e cioè l’accertamento della responsabilità e la quantificazione del danno. I due aspetti sono evidentemente correlati ma rilevano in termini differenti sul piano degli oneri di allegazione e di prova. L’individuazione della responsabilità contrattuale compete agli organi fallimentari, ma sono poi gli amministratori a dovere dimostrare il rispetto dei relativi obblighi e che l’inadempimento è stato dovuto a cause ad essi non imputabili. Diversamente, nella quantificazione del danno l’onere della prova è tutto a carico del curatore fallimentare e va ricostruito analiticamente in ragione delle singole trasgressioni, non essendo consentito percorrere “scorciatoie”, se non in casi estremi di gravi e conclamate responsabilità. Come emerge da quanto riferito il percorso logico da seguire resta alterno e variegato al punto da far sorgere consistenti dubbi sulla idoneità della sentenza a orientare definitivamente, e occorrerebbe dire razionalmente, il complesso contenzioso in materia. re; in termini analoghi Trib. Milano 18 maggio 1995, in Società, 1995, 1597. (36) In tal senso, Cass. 12 ottobre 2011, n. 20990; Cass. 30 aprile 2010, n. 10607; Cass. 7 giugno 2007, n. 13288; Cass. 18 novembre 2002, n. 16202, in Giur. it., 2003, 1342; in dottrina, G. Visintini, La valutazione equitativa del danno, in G. Visintini (diretto da), Trattato della responsabilità contrattuale, III, Padova, 2009, 450. 1583 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto processuale civile Difetto del potere rappresentativo Cassazione Civile, SS.UU., 3 giugno 2015, n. 11377 - Pres. Rovelli - Rel. Giusti- P.M. Apice (conf.)- R.J (avv.ti Manferoce, Consolo, Malossini) c. Hypo vorarlberg leasing S.p.a., (avv.ti Sassani, Senoner, Mazzeo) In tema di contratto stipulato da “falsus procurator”, la deduzione del difetto o del superamento del potere rappresentativo e della conseguente inefficacia del contratto, da parte dello pseudo rappresentato, integra una mera difesa, atteso che la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è un elemento costitutivo della pretesa del terzo nei confronti del rappresentato, sicché il giudice deve tener conto della sua assenza, risultante dagli atti, anche in mancanza di una specifica richiesta di parte. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Non si rinvengono precedenti in termini. Difforme Cass. 8 luglio 1983, n. 4601; Cass. 14 maggio 1997, n. 4258; Cass. 29 ottobre 1999, n. 12144; Cass. 15 gennaio 2000, n. 410; Cass. 7 febbraio 2000, n. 1320; Cass. 2 agosto 2003, n. 11772; Cass. 26 febbraio 2004, n. 3872; Cass. 30 marzo 2005, n. 6711; Cass. 7 febbraio 2008, n. 2860; Cass. 17 giugno 2010, n. 14618; Cass. 26 luglio 2011, n. 16317; Cass. 24 ottobre 2013, n. 24133; Cass. 23 maggio 2014, n. 11582; Cass. 19 novembre 2014, n. 24643. La Corte (omissis). Considerato in diritto 1. - La questione di massima di particolare importanza rimessa all’esame delle Sezioni Unite è se la deduzione della inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator costituisca materia di eccezione in senso stretto, che come tale può essere sollevata solo dal falsamente rappresentato ed esclusivamente nella fase iniziale del processo di primo grado, o sia una eccezione in senso lato, dunque non solo rilevabile d’ufficio ma proponibile dalle parti per tutto il corso del giudizio di primo grado e finanche per la prima volta in appello. 2. - Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’inefficacia del contratto concluso dal rappresentante senza poteri o eccedendo i limiti dei poteri conferitigli non può rilevarsi d’ufficio ma solo su eccezione di parte, ed essendo volta a tutelare il falso rappresentato può essere fatta valere solo da quest’ultimo (o dai suoi eredi), mentre non è invocabile dal terzo contraente, il quale, ai sensi dell’art. 1398 c.c., può unicamente chiedere al falsus procurator il risarcimento dei danni sofferti per avere confidato senza propria colpa nell’operatività del contratto. Questo principio di diritto ha dato vita ad un orientamento uniforme e consolidato nel tempo (Sez. II, 23 gennaio 1980, n. 570; Sez. II, 8 luglio 1983, n. 4601; Sez. I, 29 marzo 1991, n. 3435; Sez. III, 8 luglio 1993, n. 7501; Sez. I, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. II, 10 maggio 1999, n. 11396; Sez. II, 29 ottobre 1999, n. 12144; Sez. I, 13 dicembre 1999, n. 13954; Sez. II, 15 gennaio 2000, n. 410; Sez. III, 9 febbraio 2000, n. 1443; Sez. III, 26 febbraio 2004, n. 3872; Sez. I, 30 marzo 2005, n. 6711; Sez. II, 7 febbraio 2008, n. 2860; Sez. II, 17 giugno 2010, n. 14618; Sez. III, 20 giugno 2011, n. 13480; Sez. II, 26 luglio 2011, n. 16317; Sez. II, 24 ot- 1584 tobre 2013, n. 24133; Sez. lav., 23 maggio 2014, n. 11582). La conseguenza di tale indirizzo giurisprudenziale è che dell’inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator il giudice non può tenere conto se, pur emergendo dagli atti di causa il difetto del potere rappresentativo e la mancanza della intervenuta ratifica, lo pseudo rappresentato non solleva questa eccezione, o la solleva in ritardo rispetto al momento in cui avrebbe dovuto farlo. Il fondamento dell’inquadramento dell’eccezione di inefficacia del contratto tra le eccezioni in senso stretto viene fatto risiedere: (a) nella circostanza che, non vertendosi in ipotesi di nullità, non soccorre la regola dettata dall’art. 1421 c.c.; (b) nel rilievo che si è di fronte ad una inefficacia asimmetrica (il terzo contraente è vincolato, mentre il falsamente rappresentato non lo è), e che l’improduttività di effetti è rivolta alla protezione della sfera giuridica della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito. 3. - La dottrina generalmente approva la soluzione della giurisprudenza. Talora si sottolinea che l’inefficacia del contratto tutela il falso rappresentato: per questo può farsi valere solo da lui; non può rilevarsi d’ufficio; tanto meno può invocarsi dal terzo contraente, il quale è vincolato dal contratto. Talaltra si rileva che, nella prospettiva normativa, il dominus si pone come arbitro delle sorti della fattispecie, in positivo e in negativo, potendo sia ratificare il negozio o farne al contrario dichiarare la definitiva inidoneità operativa: a differenza dell’eccezione di nullità, che si colloca in una dimensione statica, l’eccezione dello pseudo rappresentato si inserisce in una vicenda instabile e fluida, perché l’assenza del vincolo è recuperabile ad libitum dell’interessato. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile Ancora, si associa la natura in senso stretto dell’eccezione al fatto che la legittimazione ad agire per far valere l’inefficacia del contratto spetta soltanto allo pseudo rappresentato. 3.1. - Questo indirizzo interpretativo, che riconduce l’inefficacia del contratto nei confronti della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito nel novero delle eccezioni riservate alla disponibilità dell’interessato, è stato messo, di recente, in discussione da alcune voci dottrinali, che ne hanno evidenziato la non coerenza con il criterio generale in tema di distinzione fra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato nel frattempo elaborato, con riguardo alle fattispecie estintive, modificative o impeditive, dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite, a partire dalla sentenza 3 febbraio 1998, n. 1099, fino alla ordinanza 7 maggio 2013, n. 10531, passando per la sentenza 27 luglio 2005, n. 15661. In base a tale criterio distintivo, di norma, tutti i fatti estintivi, modificativi od impeditivi, siano essi fatti semplici oppure fatti-diritti che potrebbero essere oggetto di accertamento in un autonomo giudizio, sono rilevabili d’ufficio, e dunque rappresentano eccezioni in senso lato; l’ambito della rilevabilità a istanza di parte (eccezioni in senso stretto) è confinato ai casi specificamente previsti dalla legge o a quelli in cui l’effetto estintivo, impeditivo o modificativo si ricollega all’esercizio di un diritto potestativo oppure si coordina con una fattispecie che potrebbe dar luogo all’esercizio di un’autonoma azione costitutiva. Muovendosi in questa prospettiva - e premesso che per far valere il fatto impeditivo costituito dalla non operatività, per la sfera giuridica dello pseudo rappresentato, del contratto concluso dal rappresentante in carenza o in eccesso di potere rappresentativo, la legge non prevede espressamente l’indispensabile iniziativa della parte una parte della dottrina ha appunto contestato che l’eccezione di inefficacia corrisponda all’esercizio di un potere costitutivo dello pseudo rappresentato. Al riguardo si è rilevato che: - (a) il codice civile non ha costruito la figura del contratto concluso dal rappresentante senza procura o travalicando i limiti della procura come una fattispecie temporaneamente vincolante anche per lo pseudo rappresentato, dotata quindi di un’efficacia precaria che questi possa rimuovere soltanto attraverso un recesso o un rifiuto eliminativo ovvero mediante l’esercizio, nel processo, con la proposizione dell’eccezione ad esso riservata, di un potere conformativo di scioglimento; - (b) si è invece di fronte ad una non vincolatività che consegue automaticamente al difetto di legittimazione rappresentativa dello stipulante, secondo lo schema norma-fatto-effetto, e che non abbisogna, per dispiegarsi, dell’intermediazione necessaria dell’esercizio di un potere sostanziale rimesso al falsus dominus; - (c) affinché lo stato originario di inefficacia resti immutato, e sia riscontrabile dal giudice, non è richiesta allo pseudo rappresentato alcuna iniziativa: egli non deve esercitare alcun diritto potestativo per liberarsi da un contratto che è già, per lui, privo di ogni effetto; il Corriere giuridico 12/2015 - (d) il legislatore ha sì previsto, in capo al falsamente rappresentato, la titolarità, esclusiva e riservata, di un diritto potestativo: ma questo diritto è quello di imputarsi il contratto realizzando, attraverso la ratifica, la condizione esterna di efficacia dello stesso, non quello di sciogliersi dal vincolo. Si è inoltre evidenziato che se l’eccezione di inefficacia del contratto è sottratta al rilievo officioso, pur quando la carenza o l’eccesso di potere di chi ha agito come rappresentante emerga ex actis, e la parte interessata, in ragione di una preclusione processuale, non possa più sollevarla in appello, il risultato che si otterrebbe è la ratifica tacita retta dal principio dell’imputet sibi, indipendentemente dall’effettiva ravvisabilità di comportamenti o atti, da parte dello pseudo rappresentato, che implichino necessariamente la volontà di ritenere per sé efficace quel contratto o che, comunque, siano incompatibili con il suo rifiuto. Ma si tratterebbe - si è fatto notare - di un risultato contrario al diritto sostanziale. Se si attribuisse valore di una ratifica al silenzio mantenuto, rispetto alla domanda giudiziale, dall’interessato che sia rimasto contumace o abbia adottato una strategia processuale che non necessariamente sottende la volontà di fare proprio il contratto rappresentativo, ciò significherebbe, per un verso, far discendere da un comportamento processuale un effetto diametralmente opposto a quello che si sarebbe avuto con l’interpello ai sensi dell’art. 1399, comma 4, c.c. e, per l’altro verso, ricollegare un effetto appropriativo del negozio, con la conseguente instaurazione di una situazione nuova, alla mancata risposta all’invito a difendersi, quando sul piano sostanziale il silenzio del dominus rispetto all’invito proveniente dal terzo contraente ha valore di negazione della ratifica dell’operato del falso rappresentante. 4. - La necessità di interrogarsi se, nella dinamica del processo, la inefficacia, nei confronti del dominus, del contratto concluso dal falsus procurator, costituisca una eccezione in senso lato o una eccezione in senso stretto, sorge ove si muova dalla premessa che la mancanza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui rappresenti un fatto impeditivo della pretesa azionata in giudizio dal terzo contraente. Solo in tale prospettiva, infatti, si pone il problema se basti, al fine di far scattare la possibilità, per il giudice, di porlo a base della decisione, il presupposto minimo che detto fatto impeditivo risulti dagli atti legittimamente acquisiti in causa; o se occorra anche l’espressa e tempestiva istanza dello pseudo rappresentato affinché gli effetti sostanziali del fatto impeditivo, ove riscontrato esistente sul piano sostanziale, possano essere utilizzati dal giudice come motivo di rigetto della domanda dell’attore. 5. - Ad avviso del Collegio, in tema di rappresentanza volontaria, la sussistenza del potere rappresentativo, con l’osservanza dei suoi limiti, costituisce una circostanza che ha la funzione specifica di rendere possibile che il contratto concluso dal rappresentante in nome del rappresentato produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato: come tale, essa è ricompresa 1585 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto processuale civile nel nucleo della fattispecie posta a base della pretesa e integra un elemento costitutivo della domanda che il terzo contraente intenda esercitare nei confronti del rappresentato. Quando si tratta di stabilire, non già semplicemente se il contratto si sia perfezionato, ma se esso produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato, la situazione fenomenica assunta nello schema astratto della disciplina legale pone la legittimazione rappresentativa, accanto allo scambio dei consensi e alla spendita del nome altrui, come elemento strutturale e come ragione dell’operatività, per la sfera giuridica del rappresentato, del vincolo e degli effetti che da esso derivano. È noto che il fatto impeditivo si identifica con la mancanza di un presupposto di efficacia, che interrompe il normale ciclo del fenomeno giuridico: collocandosi in una posizione diaframmatica tra il momento della rilevanza e quello della efficacia, il fatto impeditivo, in quanto portatore di un interesse antitetico e prevalente rispetto a quello rappresentato dal fatto inibito, neutralizza, con la propria azione, l’operatività di una fattispecie già completa, impedendole, così, di liberare gli effetti cui avrebbe dato altrimenti luogo. Ad avviso del Collegio, il terzo contraente che deduce in giudizio un contratto stipulato con il rappresentante per ottenere il riconoscimento e la tutela, nei confronti del rappresentato, di diritti che da quel contratto derivano, pone a fondamento della propria pretesa, non solo (a) gli elementi che l’art. 1325 c.c., richiede per il perfezionamento del contratto, ma anche (b) che detto contratto è stato concluso da un soggetto, il rappresentante, autorizzato dal rappresentato a stipulare in suo nome, o (b1) che lo pseudo rappresentato, attraverso la ratifica, ha attribuito ex post al falso rappresentante quella legittimazione a contrarre per lui, che gli mancava al tempo del contratto. Dunque, la presenza di quel potere rappresentativo (o la ratifica da parte dell’interessato) si pone come fatto costitutivo rilevante, come nucleo centrale del fenomeno giuridico di investitura specificamente considerato, in quanto coelemento di struttura previsto in funzione della regola di dispiegamento degli effetti negoziali diretti nei confronti del rappresentato. 5.1. - È il contesto di diritto sostanziale di riferimento, per come ricostruito dalla dottrina e declinato nelle regole applicative dagli orientamenti giurisprudenziali, che induce a questa soluzione. Ai sensi dell’art. 1388 c.c., infatti, il contratto concluso dal rappresentante in nome del rappresentato produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato solo se concluso nei limiti delle facoltà conferite al rappresentante. La legge condiziona dunque la verificazione dell’effetto negoziale diretto nei confronti del rappresentato alla sussistenza della legittimazione rappresentativa in capo al rappresentante. Il contratto, già perfezionato nei suoi elementi essenziali, è pertinente al rappresentato soltanto se questi ha autorizzato che lo si stipulasse in suo nome. Invece il negozio concluso da chi agisce come rappresentante senza essere tale oppure da chi, pur essendo ti- 1586 tolare del potere rappresentativo, ne abbia ecceduto i limiti, non impegna la sfera giuridica del preteso rappresentato, cioè della persona il cui nome è stato illegittimamente speso. Il contratto stipulato in difetto o in eccesso di rappresentanza non vincola il falsamente rappresentato verso il terzo, perché chi ha agito non aveva il potere di farlo. Si tratta di un contratto - non nullo e neppure annullabile - ma inefficace in assenza di ratifica (Sez. II, 15 dicembre 1984, n. 6584; Sez. I, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. II, 11 ottobre 1999, n. 11396; Sez. II, 7 febbraio 2008, n. 2860): il negozio stipulato, in rappresentanza di altri, da chi non aveva il relativo potere, è privo di ogni efficacia come tale, potendo acquistarla soltanto in seguito all’eventuale ratifica da parte dell’interessato (Sez. II, 26 novembre 2001, n. 14944). Il terzo contraente, pertanto, non ha titolo per esercitare nei confronti dello pseudo rappresentato l’azione di inadempimento (Sez. I, 29 agosto 1995, n. 9061) né quella per l’esecuzione del contratto (Sez. III, 23 marzo 1998, n. 3076). Talvolta si afferma anche che l’inefficacia (temporanea) discende dal fatto che il contratto concluso dal falsus procurator costituisce una fattispecie soggettivamente complessa o a formazione progressiva, un negozio in itinere o in stato di pendenza, destinato a perfezionarsi con la ratifica del dominus (Sez. II, 8 luglio 1983, n. 4601; Sez. II, 17 giugno 2010, n. 14618). Ove la spendita del nome non trovi giustificazione nel potere di rappresentanza (si legge in Sez. I, 9 dicembre 1976, n. 4581) “il negozio non si può ritenere concluso né dal sostituto né dal sostituito ed è perciò improduttivo degli effetti suoi propri, configurando ... una fattispecie negoziale in itinere, al cui perfezionamento è necessario, ai sensi dell’art. 1399 c.c., l’ulteriore elemento della ratifica, solo in conseguenza della quale il regolamento diventa retroattivamente impegnativo anche per il dominus”; “il contratto - medio tempore, cioè tra il momento della conclusione e quello della ratifica - è in stato di quiescenza” (Sez. I, 24 giugno 1969, n. 2267). 5.1.1. - D’altra parte, quando si pone sul terreno dell’applicazione della regola dell’onere della prova, la giurisprudenza di questa Corte non esita a collocare il potere rappresentativo tra gli elementi della fattispecie costitutiva. Si afferma, infatti, che, poiché il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato produce, a norma dell’art. 1388 c.c., direttamente i suoi effetti nei confronti di quest’ultimo solo in quanto il rappresentante abbia agito nei limiti delle facoltà conferitegli, ove il rappresentato neghi di avere rilasciato l’invocata procura, spetta al terzo che ha contrattato con il rappresentante l’onere di provare l’esistenza e i limiti della procura (Sez. III, 10 ottobre 1963, n. 2694; Sez. III, 7 gennaio 1964, n. 13; Sez. I, 13 dicembre 1966, n. 2898; Sez. III, 26 ottobre 1968, n. 3598; Sez. III, 30 maggio 1969, n. 1935; Sez. III, 8 febbraio 1974, n. 372; Sez. III, 25 novembre 1976, n. 4460; Sez. lav., 29 luglio 1978, n. 3788). 6. - La deduzione della inefficacia del contratto stipulato in suo nome da un rappresentante senza poteri rap- il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile presenta, pertanto, non una eccezione, ma mera difesa, con la quale il convenuto non estende l’oggetto del processo al di là del diritto fatto valere dall’attore, né allarga l’insieme dei fatti rilevanti allegati al giudizio. 6.1. - Trattandosi di mera difesa, varranno le seguenti regole processuali: - (a) in linea di principio, per la formulazione di tale deduzione difensiva il codice di procedura civile non prevede alcuna specifica limitazione temporale (cfr. Sez. III, 16 luglio 2002, n. 10280; Sez. lav., 9 ottobre 2007, n. 21073; Sez. III, 17 maggio 2011, n. 10811; Sez. lav., 16 novembre 2012, n. 20157; Sez. III, 12 novembre 2013, n. 25415); - (b) peraltro, la circostanza che l’interessato, costituito nel processo, ometta di prendere posizione circa la sussistenza del potere rappresentativo allegato dall’avversario a sostegno della propria domanda, o comunque ometta di contestare specificamente tale fatto, costituisce un comportamento processuale significativo e rilevante sul piano della prova del fatto medesimo, determinando, in applicazione del principio di non contestazione (per cui v., ora, l’art. 115 c.p.c., comma 1), una relevatio ab onere probandi; - (b1) poiché la non contestazione è un comportamento processualmente significativo se riferito a un fatto da accertare nel processo e non alla determinazione della sua dimensione giuridica (cfr. Sez. Un., 23 gennaio 2002, n. 761), il difetto di specifica contestazione non spiega alcuna rilevanza quando la mancanza del potere rappresentativo dipenda, ad esempio, dalla nullità della procura, per difetto di forma prescritta per la sua validità; - (b2) il mero difetto di contestazione specifica, ove rilevante, non impone in ogni caso al giudice un vincolo assoluto (per così dire, di piena conformazione), obbligandolo a considerare definitivamente come provata (e quindi come positivamente accertata in giudizio) la legittimazione rappresentativa non contestata, in quanto il giudice può sempre rilevare l’inesistenza del fatto allegato da una parte anche se non contestato dall’altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (cfr. Sez. lav., 6 dicembre 2004, n. 22829; Sez. lav., 8 agosto 2006, n. 17947; Sez. lav., 10 luglio 2009, n. 16201; Sez. lav., 4 aprile 2012, n. 5363); - (c) allorché la mancanza del potere rappresentativo sia acquisita agli atti, di essa il giudice può tenere conto anche in assenza di una specifica deduzione della parte interessata, giacché la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda deve essere esaminata e verificata dal giudice anche d’ufficio (cfr. Sez. I, 5 agosto 1948, n. 1390; Sez. II, 15 febbraio 2002, n. 2214; Sez. III, 28 giugno 2010, n. 15375); 7. - Se poi sia lo pseudo rappresentato ad agire in giudizio con una domanda che presuppone l’efficacia del contratto concluso in suo nome dal rappresentante senza poteri (ad esempio, al fine di ottenere la condanna del terzo ad adempiere o la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte), certamente né il terzo potrà difendersi opponendo la carenza del potere il Corriere giuridico 12/2015 di rappresentanza, né vi sarà spazio per un rilievo officioso di quella carenza di legittimazione. Lo stesso superamento delle ragioni per una rilevabilità da parte del giudice si avrà se lo stesso pseudo rappresentato, questa volta convenuto in giudizio, si difenda nel merito tenendo un comportamento da cui risulti in maniera chiara e univoca la volontà di fare proprio il contratto concluso in suo nome e conto dal falsus procurator (cfr. Sez. II, 15 novembre 1994, n. 9638; Sez. I, 8 aprile 2004, n. 6937). Nell’uno e nell’altro caso, questo dipende dal fatto che il comportamento tenuto nel processo dal dominus opera anche sul terreno del diritto sostanziale, facendo venir meno, con la ratifica (pur se tacita), l’originaria carenza dei poteri di rappresentanza e, con essa, la non vincolatività, per la sfera giuridica della persona il cui nome è stato speso, del contratto stipulato dal falsus procurator. 8. - Conclusivamente, deve essere affermato il seguente principio di diritto: “Poiché la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base di detto negozio, non costituisce eccezione, e pertanto non ricade nelle preclusioni previste dagli artt. 167 e 345 c.p.c., la deduzione della inefficacia per lo pseudo rappresentato del contratto concluso dal falsus procurator; ne consegue che, ove il difetto di rappresentanza risulti dagli atti, di esso il giudice deve tener conto anche in mancanza di specifica richiesta della parte interessata, alla quale, a maggior ragione, non è preclusa la possibilità di far valere la mancanza del potere rappresentativo come mera difesa”. (omissis). 1587 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto processuale civile La rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto ed i rapporti con il potere (non già di eccezione ma) di eventuale ratifica del falsamente rappresentato di Giulia Gargiulo (*) Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite, superando il tradizionale orientamento della giurisprudenza di legittimità che qualificava l’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator come eccezione in senso stretto, ne affermano la rilevabilità d’ufficio qualificando la relativa deduzione in termini non già di eccezione ma di mera difesa. Il presente lavoro si propone di indagare, attraverso l’analisi delle ragioni che imponevano un simile revirement ed alla luce della soluzione accolta dal Collegio, i rapporti che intercorrono tra il negozio rappresentativo, il rilievo della sua inefficacia ed il potere di ratifica del falsamente rappresentato, anche avendo riguardo alla posizione del terzo contraente. Le Sezioni Unite con sent. n. 11377 del 3 giugno 2015, n. 11377 si sono pronunciate sulla questione di massima di particolare importanza se la deduzione dell’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator costituisca eccezione in senso stretto oppure eccezione in senso lato. L’ordinanza di rimessione della Seconda Sezione civile del 27 giugno 2014, n. 14688 aveva posto per la prima volta in discussione il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che riteneva tale inefficacia rilevabile unicamente su eccezione dello pseudo rappresentato, quindi non d’ufficio ed improponibile per la prima volta nel giudizio d’appello, ex art. 345 c.p.c. (1). La qualificazione della deduzione dell’inefficacia come eccezione riservata al falsamente rappresentato non è mai stata adeguatamente motivata. Un debole argomento a sostegno dell’esclusione della rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto per mancanza del potere rappresentativo si rinveniva nella circostanza che, non essendo nullo il contratto stipulato dal falsus procurator, non trova applicazione l’art. 1421 c.c. Privo di pregio risultava essere anche il rilievo, pure invocato a giustificazione dell’inquadramento della deduzione tra le eccezioni riservate alla parte, che essendo tale inefficacia posta a tutela del solo pseudo rappresentato, la stessa poteva essere fatta valere solo da quest’ultimo. Se da un lato, infatti, è indubbio che l’inefficacia del contratto tutela esclusivamente il falso rappresentato rispetto al quale il negozio stipulato illegittimamente in suo nome, in ossequio al principio dell’intangibilità della sfera giuridica altrui e della relatività del contratto, non può produrre effetti, dall’altro è evidente come tale circostanza non escluda di per sé la rilevabilità d’ufficio. Non vi è infatti logica incompatibilità tra potere di rilevazione officiosa del giudice e la legittimazione esclusiva ad agire per far valere l’inefficacia del contratto riconosciuta al falsus dominus e ai suoi eredi (2). Nonostante il rilievo officioso, lo pseudo rappresentato resterebbe arbitro della sorte del contratto. Il giudice dovrebbe infatti provocare il contraddittorio sulla questione rilevata d’ufficio ed il falsamente rappresentato conserverebbe il diritto di ratificare il contratto ovvero di rifiutare la ratifica, difendendosi eccependo l’inefficacia o domandandone l’accertamento, anche eventualmente previa rimessione in termini. D’altro canto, la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia non implicherebbe la possibilità per il terzo (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) Tra le altre Cass. 8 luglio 1983, n. 4601; Cass. 14 maggio 1997, n. 4258; Cass. 11 ottobre 1999, n. 11396; Cass. 29 ottobre 1999, n. 12144; Cass. 15 gennaio 2000, n. 410; Cass. 7 febbraio 2000, n. 1320; Cass. 17 settembre 2002, n. 13571; Cass. 2 agosto 2003, n. 11772; Cass. 26 febbraio 2004, n. 3872; Cass. 30 marzo 2005, n. 6711; Cass. 7 febbraio 2008, n. 2860; Cass. 17 giugno 2010, n. 14618; Cass. 26 luglio 2011, n. 16317; Cass. 24 ottobre 2013, n. 24133; Cass. 23 maggio 2014, n. 11582; Cass. 19 novembre 2014, n. 24643. (2) Che non vi sia incompatibilità tra legittimazione riservata alla parte e potere di rilevazione d’ufficio si evince chiaramente dal regime delle nullità di protezione di cui al codice del consumo. Tali nullità operano solo a vantaggio del consumatore mentre il professionista non può né eccepire la nullità della clausola abusiva, né farla valere in via d’azione. La nullità di protezione è comunque rilevabile d’ufficio in tutte le azioni di impugnativa negoziale, come precisato dalle SS.UU. 12 dicembre 2014, n. 26242 e n. 26243, che sul punto si sono poste in linea di continuità con l’orientamento della giurisprudenza della Corte di Giustizia. L’irragionevolezza della qualificazione dell’inefficacia del contratto stipulato dal rappresentante senza potere come eccezione in senso stretto 1588 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile contraente e per i suoi aventi causa di eccepire tale inefficacia o di agire per il suo accertamento (3). Pertanto, anche sotto tale profilo, la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto non si porrebbe in contrasto con la ratio di tutela esclusiva della sfera giuridica dello pseudo rappresentato sottesa alla disciplina di cui agli artt. 1388, 1398 e 1399 c.c. Al contrario, proprio la tesi tradizionalmente accolta dalla giurisprudenza di legittimità si poneva in contrasto con la disciplina sostanziale del contratto stipulato dal falsus procurator. L’esclusione della rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del negozio, anche nei casi in cui la carenza di legittimazione a stipulare in nome del falsamente rappresentato risultava dagli atti di causa, e l’impossibilità per l’interessato di dedurre tale inefficacia oltre la fase iniziale del giudizio di primo grado, imponevano al giudice di decidere considerando efficace nei confronti dello pseudo rappresentato un contratto che, com’è noto, essendo stato stipulato dal rappresentante privo di potere o in violazione dei limiti delle facoltà conferitegli, non lo vincola e non produce alcun effetto nei suoi confronti, sino all’eventuale ratifica. Il che aveva come effetto quello di “consolidare per sentenza un contratto non voluto” (4), riconoscendo a comportamenti quali la mancata tempestiva deduzione dell’inefficacia e la contumacia dello pseudo rappresentato, che di per sé non sottendono necessariamente la volontà di fare proprio il negozio, valore di ratifica tacita del contratto. Al riguardo, va osservato che, perché il negozio possa dirsi ratificato, occorre che la volontà appropriativa dell’interessato, ancorché implicitamente, risulti in modo chiaro, certo e non equivoco. Inoltre, ove la ratifica acceda ad un contratto formale, tale volontà deve essere documentata per iscritto. In tale prospettiva, è stato riconosciuto valore di ratifica tacita del contratto rappresentativo a domande giudiziali proposte dallo pseudo rappresentato per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento dei danni da inadempimento del contratto stesso, posto che dalla proposizione di tali domande risulta in modo univoco la volontà del dominus di fare proprio il contratto concluso dal falso rappresentate (5). Non si potrebbe, invece, riconoscere un simile valore a domande giudiziali dirette alla caducazione del contratto - ed in particolare, alla domanda di annullamento del contratto o di accertamento della nullità dello stesso - poiché in tal caso, lungi dal manifestare una volontà ratificante, l’interessato esprime una volontà incompatibile con quella di fare propri gli effetti del contratto. Allo stesso modo, si ritiene non si possa riconoscere valore di ratifica, ancorché tacita, del contratto rappresentativo a contegni processuali quali la contumacia, la mancata eccezione di inefficacia del contratto nella fase iniziale del giudizio o l’aver agito facendo valere non il difetto o l’eccesso del potere di rappresentanza ma l’abuso dello stesso (6), posto che tali comportamenti non implicano necessariamente la volontà dello pseudo rappresentato di fare proprio il contratto rappresentativo e comunque non sono incompatibili con il rifiuto del contratto stesso. La sostanziale attribuzione del valore di ratifica alla contumacia o alla scelta processuale (consapevole o dovuta ad un errore di strategia difensiva) di non dedurre tempestivamente l’inefficacia del contratto, oltre a porsi in contrasto con il principio secondo cui la ratifica tacita deve risultare da atti o comportamenti da cui possa desumersi univocamente la volontà dell’interessato di far proprio il contratto concluso in suo nome e (3) Pagliantini, L’eccezione di inefficacia ex art. 1398 nella fattispecie complessa della falsa rappresentanza, in Riv. dir. civ., 2014, 6, 1442-1443, evidenzia come la rilevabilità officiosa dell’inefficacia del contratto sia di per sé una vicenda neutra sia per lo pseudo rappresentato, che per terzo contraente. Con particolare riferimento alla posizione del terzo, l’autore precisa che se da un lato la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia non attribuirebbe al terzo la possibilità di giovarsene, dall’altro nemmeno lo pregiudicherebbe, infatti, anticipando endoprocessualmente il momento dell’interpello stragiudiziale di cui all’art. 1399, comma 4, c.c., la rilevazione d’ufficio dell’inefficacia eviterebbe “il procrastinarsi di uno stato di pregiudizievole incertezza” in ordine alla sorte del contratto. (4) In questi termini Pagliantini, L’eccezione di inefficacia ex art. 1398 nella fattispecie complessa della falsa rappresentanza, cit., 1435. L’autore evidenzia, in particolare, come il ritenere che l’eccezione dell’inefficacia ex art. 1398 c.c. sia un’eccezione in senso lato determina il paradossale risultato di rendere “la scelta consapevole - del falsamente rappresentato - di non costituirsi, perché il contratto stipulato in suo nome non gli interessa minimamente, […]indice qualificato del suo contrario”. (5) Tra le altre Cass. 6 gennaio 1981, n. 61; Cass. 27 febbraio 1986, n. 1275; Cass. 1° giugno 1988, n. 3714; Cass. 5 maggio 1989, n. 2127; Cass. 17 maggio 1999, n. 4794; Cass. 11 ottobre 1999, n. 11396. Va osservato che, in tali ipotesi, la volontà ratificante risulta da un atto processuale che è imputabile al falso rappresentato perché sottoscritto dallo stesso interessato o dal difensore cui egli ha rilasciato procura. Inoltre, trattandosi di un atto scritto, risulta altresì soddisfatta l’esigenza di forma scritta richiesta quando la ratifica accede ad un contratto formale. (6) Pagliantini, L’eccezione di inefficacia ex art. 1398 nella fattispecie complessa della falsa rappresentanza, cit., 1436, evidenzia come la difficoltà di individuare in concreto i confini tra l’abuso e l’eccesso di potere rappresentativo renda ancor più evidente come una diversa strategia processuale, volta ad ottenere l’annullamento del contratto rappresentativo per l’abuso ex art. 1394 c.c. piuttosto che l’accertamento dell’inefficacia dello stesso per carenza di legittimazione a contrarre, non possa considerarsi espressiva di una chiara ed univoca volontà ratificante del dominus. il Corriere giuridico 12/2015 1589 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto processuale civile per suo conto (7), contraddiceva la disciplina sostanziale del negozio stipulato dal falso rappresentante anche sotto un altro profilo. Infatti, come evidenziato dalle Sezioni Unite, si faceva derivare da un comportamento processuale omissivo dello pseudo rappresentato un effetto del tutto opposto a quello che il quarto comma dell’art. 1399 c.c. ricollega al silenzio serbato dall’interessato a fronte dell’interpello del terzo contraente. Tale silenzio infatti non produce un effetto appropriativo del negozio ma ha valore di negazione della ratifica. La qualificazione della deduzione dell’inefficacia come eccezione riservata alla parte, oltre a determinare tale distonia tra la realtà processuale e la disciplina sostanziale, appariva altresì non coerente con il criterio distintivo tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato elaborato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione. In base a tale criterio, le eccezioni di regola sono in senso lato, salvo che la legge non le qualifichi espressamente come eccezioni in senso stretto, oppure che attengano alla titolarità di azioni costitutive (8). In altri termini, sono eccezioni in senso stretto solo quelle riservate espressamente dalla legge alle parti ovvero quelle integrate da fatti che corrispondono all’esercizio di un diritto potestativo riservato in via d’azione alla parte; ogni altra eccezione è rilevabile d’ufficio dal giudice purché risulti ex actis. Come evidenziato dall’ordinanza di rimessione, il rilievo dell’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator non è espressamente riservato dalla legge alla parte, né corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo dello pseudo rappresentato per effetto del quale lo stesso di scioglie dal vincolo contrattuale, dal momento che tale vincolo non esiste. Un’inesistenza confermata dalla stessa possibilità riconosciuta dalla legge all’interessato di ratificare il contratto. (7) Cfr. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, II ed., Milano, 2001. In giurisprudenza, tra le altre: Cass. 25 luglio 1980, n. 4821; Cass. 23 febbraio 1983, n. 1397; Cass. 23 aprile 1990, n. 3358; Cass. 13 agosto 1996, n. 7553; Cass. 23 aprile 1998, n. 3071; Cass. 12 gennaio 2006, n. 408; Cass. 9 maggio 2008, n. 11509; Cass. 25 ottobre 2010, n. 21844; Cass. 7 giugno 2011, n. 12308. (8) Il criterio distintivo delle eccezioni è stato così individuato dalla Suprema Corte di cassazione a Sezioni Unite per la prima volta con la sentenza del 3 febbraio 1998, n. 1099, con nota di Giacalone, in Giust. civ., 1998, I, 645; con nota di Negri, in questa Rivista, 1998, 8, 1007, relativamente all’eccezione aliunde perceptum. Il principio è stato successivamente ribadito in: SS.UU. 25 maggio 2001, n. 226, sull’eccezione di giudicato; SS.UU. 27 luglio 2005, n. 15661, relativa all’eccezione di interruzione della prescrizione e SS.UU. 7 maggio 2013, n. 10531, relativamente all’eccezione di accettazione dell’eredità 1590 A ben vedere infatti, lo pseudo rappresentato è sì titolare di un diritto potestativo idoneo a produrre effetti costitutivi ma tale diritto è quello di ratificare, rendendo produttivo di effetti giuridici, un contratto che in assenza di ratifica è inefficace. L’eccezione potrebbe, invece, dirsi in senso stretto solo ove, in contraddizione con quanto affermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza assolutamente prevalenti ed in contrasto con il dato normativo, si affermasse che il falsus dominus sia vincolato al contratto, potendosi liberare dal vincolo solo facendone valere l’inefficacia (9). L’esigenza di tutelare la libertà negoziale del falso rappresentato, non privando d’effettività il potere che la legge riconosce a tale soggetto di decidere della sorte del contratto stipulato illegittimamente in suo nome, e la non coerenza dell’inquadramento della deduzione dell’inefficacia del contratto tra le eccezioni riservate alla parte con il criterio di distinzione tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato hanno imposto una rimeditazione del tradizionale indirizzo interpretativo della giurisprudenza. In particolare, l’ordinanza di rimessione ha ritenuto opportuno un riesame di tale orientamento risultando lo stesso privo di una giustificazione logico-giuridica alla luce dell’inesistenza del vincolo giuridico, anche in considerazione del fatto che il giudice può rilevare d’ufficio, in base alle prove esistenti nel processo, l’inesistenza di un elemento di diritto dedotto in giudizio (10). La difesa del falsamente rappresentato e la rilevabilità d’ufficio della carenza di potere rappresentativo Le Sezioni Unite, pur dando atto delle critiche che opportunamente erano state avanzate alla tesi dell’irrilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator, giungono ad affermare la rilevabilità officiosa della carenza dei poteri di rappresentanza qualificando la deduzione con beneficio d’inventario. (9) Bruscuglia - Giusti Ratifica (diritto privato) in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II ed., I, Torino, 2014, 153; Pagliantini, L’eccezione di inefficacia ex art. 1398 nella fattispecie complessa della falsa rappresentanza, cit.; Caporusso, Eccezione in senso lato, giustizia della decisione e contratto del falsus procurator: profili processuali, in questa Rivista, 2014, 11, 1393. (10) A tal riguardo, l’ordinanza di rimessione cita la sent. n. 1141 del 2 marzo 1997 con la quale la Cassazione ha affermato che, ove risulti dalle prove esistenti nel processo, il giudice di merito può rilevare d’ufficio la mancata conclusione del contratto per difetto di incontro dei reciproci consensi, trattandosi della verifica l’inesistenza di un elemento di diritto dedotto in giudizio e non dell’accertamento di un contro-diritto, materia invece di eccezione in senso proprio. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile dell’inefficacia del contratto in termini non di eccezione ma di mera difesa. Premessa da cui muove il ragionamento del Collegio è che la carenza di potere rappresentativo non costituisce fatto impeditivo della pretesa azionata in giudizio dal terzo contraente per far valere nei confronti del rappresentato il contratto stipulato da chi ha speso il suo nome. La disciplina sostanziale del contratto rappresentativo imporrebbe infatti di ritenere che è la sussistenza del potere di rappresentanza ad integrare un elemento costitutivo della domanda del terzo contraente. Ciò in quanto, nel disporre che il contratto stipulato da un soggetto in nome e per conto d’altri produce i suoi effetti direttamente nella sfera giuridica del rappresentato, se stipulato dal rappresentante dotato del potere di agire in nome altrui che non abbia ecceduto i limiti delle facoltà conferitegli, l’art. 1388 c.c. esclude che in difetto di potere il negozio produca effetti nei confronti di colui il cui nome sia stato speso illegittimamente. Da tale disposizione il Collegio ritiene possa dedursi che la legge non condiziona l’inefficacia del negozio rappresentativo alla carenza di potere ma subordina l’efficacia del negozio stesso alla sussistenza del potere di rappresentanza ed all’osservanza dei suoi limiti. Il contratto stipulato dal falso rappresentante è infatti automaticamente improduttivo di effetti nei confronti dello pseudo rappresentato, a prescindere da un suo contegno volto a farne valere l’inefficacia. Ponendosi come circostanze necessarie - insieme allo scambio dei consensi e alla contemplatio domini - a rendere il contratto stipulato dal rappresentante direttamente efficace nei confronti del dominus, la sussistenza del potere rappresentativo e l’osservanza dei suoi limiti sono considerati dalle Sezioni Unite elementi costitutivi della pretesa del terzo contraente a far valere quel contratto nei confronti del rappresentato. Ne consegue che il terzo contraente, che agisce in giudizio per far valere diritti nascenti da un contratto stipulato con il rappresentante, pone a fondamento della sua pretesa, oltre agli elementi necessari per il perfezionamento del contratto di cui all’art. 1325 c.c., anche la legittimazione a contrarre del rappresentante ovvero l’eventuale ratifica successiva del contratto da parte del rappresentato o dei suoi eredi. La ratifica è infatti atto con il qua- le lo pseudo rappresentato fa propri gli effetti degli atti compiuti in suo nome da chi non ne aveva il potere o da chi ha esorbitato dai poteri di rappresentanza concessi. Essendo la legittimazione a stipulare in nome e per conto del rappresentato elemento costitutivo del diritto fatto valere in giudizio dal terzo contraente, l’onere della relativa prova grava, ai sensi dell’art. 2697 c.c., su quest’ultimo. Pertanto, ove il rappresentato contesti la sussistenza del potere rappresentativo, sarà onere del terzo contraente che ha stipulato con il rappresentante dare prova dell’esistenza della procura e dell’osservanza dei suoi limiti ovvero dell’intervenuta ratifica del contratto. L’esclusione della mancanza del potere rappresentativo dal novero dei fatti impeditivi della pretesa del terzo contraente ha come effetto quello di considerare la deduzione dell’inefficacia del contratto non oggetto di un’eccezione ma di una mera difesa, in relazione alla quale non operano le preclusioni processuali proprie delle eccezioni, di cui agli artt. 167 e 345 c.p.c. È, dunque, alla luce della considerazione che la legittimazione a contrarre del rappresentato è elemento costitutivo della domanda del terzo contraente e l’inefficacia del contratto semplice difesa dello pseudo rappresentato che le Sezioni Unite indagano l’ammissibilità di un rilievo d’ufficio della carenza di potere rappresentativo. Ed è alla stregua di tale conclusione che occorre individuare le conseguenze della contumacia del falsus dominus o della mancata contestazione della sussistenza di tale potere. A tal riguardo, le Sezioni Unite hanno chiarito che, pur non determinando una preclusione processuale, il mancato rilievo da parte dello pseudo rappresentato del difetto o dell’eccesso di potere rappresentativo è comportamento processualmente rilevante sul piano della prova del fatto medesimo. In virtù del principio di non contestazione, il giudice potrà infatti porre a fondamento della decisione il fatto non specificamente contestato dalla parte costituita (11). Ciò consente di affermare altresì che la contumacia dello pseudo rappresentato, lungi dall’avere valore di ratifica tacita del contratto, non dispensa nemmeno il terzo contraente dall’onere di dare prova dei fatti costitutivi posti a fondamento della propria domanda. (11) Sul punto, le Sezioni Unite precisano che la non contestazione costituisce un comportamento processualmente significativo se riferito ad un fatto da accertare nel processo e non alla determinazione della sua dimensione giuridica pertan- to, la mancata contestazione della mancanza del potere rappresentativo, non spiega alcuna rilevanza, quando la stessa dipenda, ad esempio, dalla nullità della procura. il Corriere giuridico 12/2015 1591 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto processuale civile Quanto all’ammissibilità del rilievo d’ufficio della carenza di potere rappresentativo, il Collegio ha precisato che il difetto di contestazione specifica non impone al giudice di ritenere automaticamente provata la legittimazione a contrarre del rappresentato e quindi definitivamente efficace il contratto nei confronti del falsamente rappresentato. Il giudice deve infatti verificare anche d’ufficio la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda. Pertanto, ove il difetto o l’eccesso di potere rappresentativo risulti ex actis, il giudice deve rilevare d’ufficio l’inesistenza del fatto costitutivo della pretesa del terzo contraente, anche se non contestato dallo pseudo rappresentato (12). Le Sezioni Unite hanno altresì precisato che qualora il falsus dominus non si limiti a non contestare il difetto di legittimazione a contrarre del rappresentante ma si difenda assumendo un contegno da cui risulti in modo chiaro e non equivoco la volontà di fare proprio suddetto contratto, ovvero agisca egli stesso in giudizio con una domanda che presuppone l’efficacia del contratto rappresentativo - ad esempio, proponendo domanda di adempimento o di risoluzione del contratto -, costituendo tali comportamenti processuali ipotesi di ratifica tacita del contratto, non sarà rilevabile d’ufficio il difetto di potere rappresentativo, poiché la ratifica, ancorché tacita, fa venir meno l’originaria carenza di legittimazione del falsus procurator rendendo vincolante per lo pseudo rappresentato il contratto stipulato in suo nome. Al riguardo, occorre precisare che, posto che legittimati a ratificare il contratto rappresentativo, ai sensi dell’art. 1399, primo e ultimo comma, c.c., sono esclusivamente il falsamente rappresentato ed i suoi eredi, affinché sussista una ratifica implicita, gli atti, i fatti o i comportamenti da cui si ritenga possibile dedurre una inequivoca volontà ratificante devono essere imputabili a tali soggetti. Sulla scorta di tale osservazione, le Sezioni Unite escludono che possa riconoscersi valore di ratifica tacita del contratto rappresentativo al contegno processuale di un soggetto terzo che, come nel caso di specie, agisca in giudizio, non quale falso rappre(12) Le Sezioni Unite accolgono la tesi, sostenuta da parte della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, il giudice può esercitare un controllo probatorio accertando la sussistenza dei fatti allegati da una parte, anche se non contestati dall’altra. Tra le altre Cass. 10 luglio 2009, n. 16201; Cass. 28 giugno 2010, n. 15375; Cass. 4 aprile 2012, n. 5363. Contra tra le altre Cass. 27 febbraio 2008, n. 5191; Cass. 5 marzo 2009, n. 5356; Cass. 9 marzo 2012, n. 3727; Cass. 21 giugno 2013, n. 15658. In tali pronunce, la Corte di Cassazione ha al contrario ritenuto che in caso di non contestazione il giudice debba astenersi da qualsiasi controllo probatorio del fatto non contestato, dovendolo ritenere sussistente. 1592 sentato, ma quale acquirente a titolo particolare del dominus. Il rilievo d’ufficio della carenza di legittimazione a contrarre è invece precluso in tutti i casi in cui il contratto stipulato dal falso rappresentante sia stato successivamente ratificato, in modo espresso o tacito, dall’interessato o dai suoi eredi e dunque anche in caso di silenzio serbato oltre la scadenza del termine assegnato dal terzo contraente, ai sensi del comma 4 dell’art. 1399 c.c. Il contratto inefficace e la sua ratifica La sentenza delle Sezioni Unite offre alcuni spunti di riflessione in ordine alla qualificazione giuridica del contratto stipulato dal rappresentante senza poteri ed al rapporto che intercorre tra tale contratto e la sua eventuale ratifica. Benché giurisprudenza e dottrina siano concordi nel ritenere che il contratto stipulato dal falsus procurator sia valido ma inefficace, si contrappongono due diverse ricostruzioni di tale fenomeno negoziale. Secondo un primo orientamento, il contratto stipulato dal rappresentante senza poteri è un negozio in itinere o a formazione progressiva che si perfeziona con l’eventuale ratifica. In tale prospettiva, la ratifica opererebbe quale fattore esterno integrante la struttura del negozio e quindi come atto che perfeziona la fattispecie complessa (13). Secondo altra tesi, invece, il negozio stipulato dal falsus procurator è perfetto e completo ancorché improduttivo dei suoi effetti. La ratifica, lungi dal costituire elemento perfezionativo della fattispecie negoziale, è concepita come evento dedotto in una condicio iuris sospensiva dell’efficacia del negozio. La stessa opererebbe quindi quale elemento esterno alla fattispecie negoziale, che ne condiziona l’efficacia e non il perfezionamento. Tale impostazione sembrerebbe giustificata dall’efficacia retroattiva della ratifica di cui al comma 2 dell’art. 1399 c.c. e dalla possibilità dello scioglimento del contratto per mutuo dissenso prevista dal comma 3 della medesima disposizione (14). (13) Questa tesi è stata accolta dalla giurisprudenza prevalente, tra le altre Cass. 24 aprile 1965, n. 719; Cass. 28 ottobre 1967, n. 2668; Cass. 6 aprile 1971, n. 1001; Cass. 8 luglio 1983, n. 4601; Cass. 5 maggio 1989, n. 2127; Cass. 16 febbraio 1993, n. 1929; Cass. 29 agosto 1995, n. 9061; Cass. 16 febbraio 2000, n. 1708; Cass. 28 dicembre 2009, n. 27399; Cass. 17 giugno 2010, n. 14618. (14) Cfr. Natoli, Rappresentanza (diritto civ.) in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987; Bruscuglia - Giusti Ratifica (diritto privato) in Enc. dir., cit.; Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, II ed., Milano, 2001. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile Tale secondo orientamento, allo stato minoritario in giurisprudenza, sembra essere il più corretto alla luce della disciplina della rappresentanza volontaria. La validità del negozio rappresentativo non dipende dalla dichiarazione di volontà del rappresentato ma dalla dichiarazione negoziale del rappresentante. Pur non essendo partecipe del regolamento di interessi che dal contratto discende, parte in senso formale del negozio è infatti il rappresentante e non il rappresentato. Pertanto, ove la volontà del rappresentante si sia formata correttamente, il negozio è valido a prescindere dalla mancanza di una dichiarazione di volontà di appropriazione del negozio rappresentativo del soggetto il cui nome sia stato speso. L’assenza di una dichiarazione di volontà del rappresentato influisce invece sul diverso piano degli effetti giuridici del negozio. Il contratto stipulato da chi ha agito come rappresentante senza averne i poteri o eccedendo i limiti delle facoltà conferite non è in alcun modo impegnativo per colui nel cui nome è stato compiuto. Mancando una preventiva dichiarazione di volontà dello pseudo rappresentato, il negozio non produce effetti nella sfera giuridica di tale soggetto e non lo vincola. Ne consegue che, se il contratto non riveste alcuna utilità per il falsus dominus, questi non è tenuto ad attivarsi per farne valere l’inefficacia, ben potendo restare inerte. Sulla scorta di tali precisazioni può affermarsi che il negozio stipulato dal rappresentante senza potere, ove ricorrano gli altri elementi di cui all’art. 1325 c.c., è completo e perfetto, non difettando un elemento essenziale del contratto ma solo la legittimazione a compiere l’atto (15), che è elemento esterno alla struttura della fattispecie negoziale. Tale ricostruzione sembra trovare conferma in alcuni passaggi della sentenza delle Sezioni Unite. In particolare, al § 5, nel precisare quali siano gli elementi costitutivi della pretesa del terzo contraente, il Collegio distingue il perfezionamento del contratto - che si ricollega alla sussistenza degli elementi di cui all’art. 1325 c.c. - dall’autorizzazione del rappresentato a stipulare in suo nome e dalla ratifica. Nel successivo § 5.1, a riprova del fatto che le Sezioni Unite non ritengono che il potere di rappresentanza e, alternativamente, la ratifica costituiscano elementi di perfezionamento di una fattispe- cie negoziale in itinere, si legge altresì che “il contratto, già perfezionato nei suoi elementi essenziali, è pertinente al rappresentato soltanto se questi ha autorizzato che lo si stipulasse in suo nome”. In tale prospettiva, la ratifica opera, al pari della procura, come negozio di legittimazione. Con la ratifica, infatti, l’interessato esprime la volontà di legittimare l’azione del terzo e dunque attribuisce “ex post al falso rappresentante quella legittimazione a contrarre per lui, che gli mancava al tempo della stipulazione del contratto” (16). A tal riguardo, occorre precisare che, pur avendo procura e ratifica la medesima funzione, consentendo entrambe all’interessato di rendere efficace nei propri confronti il negozio posto in essere da altri, tali atti hanno una struttura differente che impedisce una loro totale assimilazione. La procura infatti presuppone la sussistenza di un rapporto di gestione mentre la ratifica postula, viceversa, l’insussistenza di tale rapporto. Ciò consente di escludere che la ratifica abbia natura di procura successiva. La qualifica di rappresentante si individua ex ante, derivando esclusivamente dalla procura rilasciata prima ed in vista del compimento dell’attività negoziale. Ne consegue che, anche a seguito della ratifica del contratto rappresentativo, chi ha agito in nome altrui senza averne i poteri, resta un non rappresentante (17). La precisazione non è priva di rilievo pratico. Benché la ratifica, rendendo efficace il contratto, esclude che il terzo contraente possa agire nei confronti del rappresentante per il risarcimento dei danni da stipulazione inutile, lo stesso, ove abbia subito un pregiudizio per il ritardo nella definizione dell’affare imputabile alla condotta precontrattuale scorretta del falso rappresentante, potrà agire nei confronti di quest’ultimo per il risarcimento dei danni commisurati al c.d. interesse positivo differenziale. Sulla scorta di tali premesse può affermarsi che la relazione che intercorre tra negozio rappresentativo e ratifica è di dipendenza funzionale e non strutturale. I due atti, pur mantenendo la loro autonomia strutturale, sono tra loro connessi al fine di realizzare un scopo unitario ovvero l’efficacia diretta del primo negozio nella sfera giuridica dello pseudo rappresentato (18). (15) Bruscuglia - Giusti Ratifica (diritto privato) in Enc. dir., cit., 692. (16) In questi termini si esprimono le stesse SS.UU. n. 11377 del 2015 al §5. (17) Bruscuglia - Giusti Ratifica (diritto privato) in Enc. dir., cit., 697. (18) Ritengono si tratti di un collegamento negoziale necessario, unilaterale e funzionale Bruscuglia - Giusti Ratifica (diritto privato) in Enc. dir., cit., 696. il Corriere giuridico 12/2015 1593 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto processuale civile La posizione del terzo contraente La soluzione accolta dalle Sezioni Unite è da salutare con favore nella misura in cui, ammettendo la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto, supera quelle distonie tra diritto processuale e diritto sostanziale cui l’orientamento precedente dava luogo. Come evidenziato, l’esclusione della rilevabilità d’ufficio della carenza di potere rappresentativo pur risultante dagli atti di causa e l’impossibilità per l’interessato di dedurre la consequenziale inefficacia nel negozio oltre la fase iniziale del giudizio di primo grado avevano come effetto quello di attribuire valore di ratifica tacita di un contratto, non autorizzato e non voluto, a comportamenti processuali del falsamente rappresentato non univoci e che, in taluni casi, erano viceversa espressione di una volontà del tutto incompatibile con quella di fare propri gli effetti del contratto. Un simile svuotamento del potere di ratifica che la legge attribuisce al falsamente rappresentato e la surrettizia violazione del principio della intangibilità della sfera giuridica altrui erano probabilmente ispirati dal desiderio di garantire una maggior tutela al terzo contraente che, pur avendo confidando nella sussistenza del potere rappresentativo e quindi nell’efficacia del negozio, sarebbe vincolato ad un contratto che, essendo frutto della sola volontà del rappresentante, non produce gli effetti che egli si riprometteva di conseguire e che pertanto non gli attribuisce alcuna utilità. Si afferma, a tal proposito, che il terzo contraente è vincolato al contratto nella misura in cui non può recedere unilateralmente dallo stesso, potendo ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale solo di comune accordo con il falso rappresentante e sempre che il dominus non lo abbia già ratificato (19). Una simile affermazione non è del tutto condivisibile. Ritenere il contratto vincolante per una parte e non vincolante ed inefficace per l’altra significherebbe attribuire al negozio una natura claudicante, un’inefficacia asimmetrica. A ben vedere, più che essere vincolato al contratto rappresentativo, il terzo è soggetto al diritto potestativo di ratifica dell’interessato. La giurisprudenza ha infatti opportunamente precisato che il vincolo che il mutuo dissenso degli originari contraenti scioglie, non è un rapporto contrattuale (19) Il potere di sciogliere per mutuo dissenso il contratto è sancito già nell’art. 1372 c.c. Pertanto, onde evitare un’interpretazione che renda inutile la norma si ritiene che l’art. 1399, comma 2, c.c. non si limiti a ribadire che il terzo e il falsus procurator possono d’accordo sciogliere ma implicitamente escluda il potere di recesso unilaterale del terzo contraente al fine di evitare che l’esercizio del potere di ratifica dello pseudo rap- 1594 che possa essere sorto fra loro, bensì la situazione di soggezione in cui versa il terzo a fronte del potere di ratifica che compete all’interessato (20). Ma anche sotto tale profilo non si ravvisa l’esigenza di offrire una maggiore tutela al terzo mediante l’esclusione della rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del negozio e la limitazione del potere di eccezione del falsamente rappresentato. Gli interessi del terzo contraente sono infatti adeguatamente tutelati attraverso il riconoscimento del potere d’interpello di cui al comma 4 dell’art. 1399 c.c. Il terzo non versa senza limiti di tempo in uno stato di incertezza circa la sorte del contratto e di soggezione al potere di ratifica del dominus, ma può invitare quest’ultimo a ratificare il contratto assegnandogli un termine, anche molto breve, scaduto il quale, in caso di inerzia, la ratifica si intende negata. La norma, è bene precisarlo, non fissa un termine minimo che il terzo è tenuto a rispettare, con ciò differenziandosi da altre disposizioni che, nell’attribuire ad un soggetto il potere di assegnare all’altro un termine per l’esercizio di un diritto di cui quest’ultimo è titolare, garantiscono un periodo di durata minima o richiedono che il termine assegnato sia congruo o ragionevole; né d’altra parte, a differenza di altre azioni interrogatorie come quelle di cui agli artt. 481 e 650 c.c., è richiesta l’intermediazione dell’autorità giudiziaria, al fine di garantire che il termine assegnato risulti essere adeguato alle concrete esigenze dell’interpellato. Tale peculiarità si giustifica in ragione del fatto che il potere di ratifica, se da un lato consente al falsamente rappresentato di risolvere a proprio vantaggio l’indebita spendita del suo nome, dall’altro soddisfa soprattutto l’interesse del terzo contraente a conservare l’attività giuridica compiuta, lasciando aperta la possibilità che il negozio produca gli effetti cui egli aspirava. Essendo posto anche a tutela del terzo, il riconoscimento del potere di ratificare il negozio non può risolversi in uno svantaggio o in un pregiudizio per lo stesso. Ne consegue che, ove il terzo contraente abbia interesse alla più sollecita definizione della situazione, anche nell’ottica di procurarsi in altro modo l’utilità che dal contratto intendeva conseguire, ben potrà assegnare al falsamente rappresentato un termine anche brevissimo per la ratifica. Tali precisazioni consentono di ritenere insussistente quell’esigenza di giustizia sostanziale che presentato sia ostacolato da un pentimento tardivo del terzo contraente, così De Nova, La rappresentanza, in Il contratto. Dal contratto atipico al contratto alieno, Padova 2011; Pagliantini, L’eccezione di inefficacia ex art. 1398 nella fattispecie complessa della falsa rappresentanza, cit. (20) Cass. 27 novembre 2011, n. 25126. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile presumibilmente induceva a qualificare la deduzione dell’inefficacia del contratto come eccezione in senso stretto. D’altra parte, com’è noto, tale qualificazione risultava essere oramai in contrasto con il criterio distintivo tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato, elaborato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite. Se da un lato tali osservazioni non potevano che deporre per il superamento del tradizionale orientamento della giurisprudenza che escludeva la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del negozio, dall’altro occorre interrogarsi circa la correttezza della scelta di addossare al terzo contraente l’onere della prova della sussistenza del potere rappresentativo. L’assunto su cui le Sezioni Unite fondano la qualificazione della deduzione dell’inefficacia del negozio come mera difesa del falsamente rappresentato è che la sussistenza del potere di rappresentanza o l’avvenuta ratifica siano elementi costitutivi della pretesa del terzo contraente. Il Collegio ha invece escluso che abbia natura di fatto impeditivo la mancanza di tale potere. Com’è noto, complessa è la distinzione tra il fatto costitutivo e il fatto impeditivo. Mentre i fatti modificativi ed estintivi operano sulla fattispecie sostanziale in un momento cronologicamente successivo ai fatti costituivi, i fatti impeditivi operano contestualmente a questi ultimi, rendendo più difficile distinguere gli uni dagli altri. Pur operando contestualmente ai fatti costitutivi, i fatti impeditivi non appartengono alla fattispecie costitutiva. Tali fatti non sono, come pure in passato è stato affermato, fatti costitutivi con il segno invertito, ma integrano un’autonoma fattispecie impeditiva, che opera dall’esterno sulla fattispecie sostanziale già perfetta, impedendo alla stessa sin dall’origine di produrre i suoi effetti. Al pari dei fatti modificativi ed estintivi, i fatti impeditivi si collocano dunque al di fuori della fattispecie costitutiva. Come evidenziato, nella sentenza in commento in più punti si coglie la distinzione che il Collegio opera tra il perfezionamento della fattispecie negoziale (che si ricollega alla sussistenza degli elementi di cui all’art. 1325 c.c.) e l’efficacia della stessa nei confronti del falsamente rappresentato, un’efficacia condizionata dalla sussistenza del potere rappresentativo o della ratifica. Ed a parere di chi scrive, è proprio questa distinzione che induce a ritenere preferibile la tesi che considera il contratto stipulato dal rappresentante senza poteri, non una fatti- il Corriere giuridico 12/2015 specie negoziale a formazione progressiva che si perfeziona con l’eventuale ratifica, ma una fattispecie sostanziale completa e perfetta, difettando non un elemento essenziale del contratto ma solo la legittimazione a compiere l’atto, che è un elemento esterno alla struttura della fattispecie negoziale pur se ne condiziona l’efficacia. In tale prospettiva, più che considerare la legittimazione a stipulare in nome del rappresentato elemento costitutivo della pretesa del terzo, sembrerebbe più corretto ritenere che la mancanza del potere rappresentativo o la mancata ratifica integrino dei fatti ulteriori che rendono inefficace la fattispecie costitutiva, e quindi dei fatti impeditivi. Riconoscere alla carenza di potere del rappresentante natura impeditiva dell’efficacia della fattispecie costitutiva avrebbe comunque consentito la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto, in ragione del fatto che, com’è stato osservato, la stessa sarebbe oggetto di un’eccezione in senso lato perché non espressamente riservata alla parte, né corrispondente ad un potere costitutivo della stessa. D’altra parte però, va osservato che la scelta di addossare al terzo contraente l’onere di provare la sussistenza del potere rappresentativo, oltre a rispondere ad un principio di autoresponsabilità di chi contratta con un rappresentante, risulta essere la più razionale alla luce del noto principio negativa non sunt probanda. A ben vedere infatti, a ragionare diversamente si graverebbe il falsamente rappresentato dell’onere di provare un fatto negativo ovvero di non aver conferito il potere o di non aver ratificato il negozio. Un simile onere probatorio potrebbe essere assolto facilmente nei casi di eccesso di potere con la produzione in giudizio della procura, dal cui esame emergerebbe che il rappresentante ha stipulato il contratto eccedendo i limiti del potere rappresentativo conferito. Assai difficoltosa risulterebbe invece la prova negativa della mancanza di potere rappresentativo nei casi di difetto di potere, così come la prova della mancata ratifica del negozio. È quindi alla luce di un criterio di giustizia distributiva che si può condividere la scelta delle Sezioni Unite di onerare il terzo contraente della prova della sussistenza del potere di rappresentanza o, eventualmente, dell’esercizio del potere di ratifica dell’interessato. 1595 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile Poteri del giudice amministrativo e domanda di parte Consiglio di Stato, Ad. Plen., 13 aprile 2015, n. 2 - Pres. Giovannini - Est. De Felice - G. L. (avv.ti Camerini, Rossi) c. Comune de L’Aquila (avv. De Nardis) Sulla base del principio della domanda che regola il processo amministrativo, il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Sez. V, 28 dicembre 2012, n. 6703; Ap, 27 aprile 2015, n. 5. Difforme Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755. Fatto (omissis). La Sezione riteneva di sottoporre alla Adunanza Plenaria la questione se il giudice amministrativo - in base ai principi fondanti la giustizia amministrativa ovvero in applicazione dell’art. 34, comma 3, c.p.a. - possa non disporre l’annullamento della graduatoria di un concorso, risultata illegittima per un vizio non imputabile ad alcun candidato, e disporre che al ricorrente spetti un risarcimento del danno (malgrado questi abbia chiesto soltanto l’annullamento degli atti risultati illegittimi), quando la pronuncia giurisdizionale - in materia di concorsi per la instaurazione di rapporti di lavoro dipendente - sopraggiunga a distanza di moltissimi anni dalla approvazione della graduatoria e dalla nomina dei vincitori (circa quindici anni sono trascorsi dalla assunzione in servizio dei vincitori incolpevoli e la rilevazione dei vizi, con la pronuncia di remissione), e cioè quando questi abbiano consolidato le scelte di vita e l’annullamento comporti un impatto devastante sulla vita loro e delle loro famiglie. L’ordinanza di rimessione ritiene che, pur avendo la parte formalmente impugnato gli atti della procedura concorsuale chiedendone l’annullamento, l’adito giudice amministrativo potrebbe, basandosi su una valutazione di tutte le circostanze, mutando d’ufficio la domanda, disporre unicamente il risarcimento del danno, senza il previo annullamento degli atti illegittimi; in tal senso varrebbero i principi di giustizia richiamati dalla sentenza del Consiglio di Stato sez. VI n. 2755 del 2011 che, pure in controversia in materia ambientale e in applicazione di principi del diritto europeo, ha statuito il potere del giudice amministrativo di non disporre l’annullamento dell’atto illegittimo, quando nessun vantaggio arrechi al ricorrente né ne derivi alcun beneficio agli interessi pubblici; in tale senso varrebbero anche i principi di proporzionalità, equità e giustizia, che debbono permeare anche la giustizia amministrativa, oltre che l’attività della pubblica amministrazione. 1596 L’ordinanza di rimessione aggiunge che, se l’appellante avesse formulato espressa domanda di risarcimento derivante dalla illegittimità della procedura concorsuale conclusasi nell’anno 1999, il giudizio avrebbe potuto concludersi con l’accoglimento della domanda risarcitoria, senza necessità di provvedere all’annullamento degli atti impugnati, potendo il giudice “modulare” la tutela, in considerazione del danno sociale che deriverebbe da un eventuale annullamento. È vero, osserva l’ordinanza di rimessione, che il lungo tempo trascorso non costituisce in sé una giusta ragione per non disporre l’annullamento; tuttavia, ciò sarebbe possibile su questioni che riguardano le persone fisiche e le loro attività lavorative (si direbbe l’esistenza libera e dignitosa di cui all’art. 36 Cost.), valutando che l’annullamento, mentre sottrarrebbe un bene della vita essenziale ad uno o più controinteressati incolpevoli, neppure attribuirebbe al ricorrente se non una chance o una mera possibilità di rinnovazione procedimentale. A tal fine menziona giurisprudenza che legge il comma 3 dell’art. 34 del c.p.a.- che prevede che “quando nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori” - nel senso che non debba esservi una espressa richiesta dell’interessato (così Cons. Stato, sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817) perché vi è sempre un quid di accertamento, perché il più comprende il meno, perché la norma utilizza una espressione vincolante e quindi la sussistenza dell’interesse può essere compiuta d’ufficio anche in assenza di domanda, a fronte di contrari precedenti (così Cons. Stato, sez. V, 14 dicembre 2011, n. 6539 e 6 dicembre 2010, n. 8550) secondo i quali incombe sempre sulla parte istante l’onere di allegare i presupposti per la successiva azione risarcitoria (così, Cons. Stato, sez. V, 28 dicembre 2012, n. 6703) e quindi di proporre espressamente, se pure non formalisticamente ma in sostanza, la domanda di accertamento dell’illegittimità o di manifestare un interesse al solo accertamento, a successivi fini risarcitori. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile (omissis) Diritto 1. La parte ha chiesto e continuato a chiedere l’annullamento degli atti della procedura concorsuale, comprensivi del giudizio negativo nei suoi confronti e della graduatoria pubblicata; nelle conclusioni dell’appello ha espresso tale richiesta di annullamento (“che la sentenza appellata venga annullata o quantomeno riformata, disponendosi in accoglimento del ricorso al Tar la rinnovazione degli atti della procedura concorsuale con ogni consequenziale statuizione anche in ordine al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio”), chiedendo, come visto, anche, nel petitum, la “rinnovazione” della procedura concorsuale; nella memoria depositata in data 8 gennaio 2014, la parte appellante afferma che il lungo tempo trascorso dalla proposizione dell’appello non ha inciso negativamente sulla posizione, sussistendo ancora interesse alla decisione di merito e all’annullamento dei provvedimenti impugnati. Tale posizione è stata ribadita in sede di udienza di discussione. A fronte di detta domanda, l’ordinanza di rimessione pone la questione se, ritenuta la fondatezza del gravame, sia dato al giudice amministrativo emettere ex officio una pronuncia di risarcimento del danno anziché di annullamento, tenuto conto degli effetti particolarmente pregiudizievoli di quest’ultimo nei confronti delle altre parti interessate, anche in relazione al tempo trascorso dalla emanazione degli atti impugnati. 2. L’Adunanza plenaria ritiene che la tesi contenuta nell’ordinanza di rimessione non può essere condivisa e ciò: a) sulla base del principio della domanda, che regola anche il processo amministrativo; b) sulla base della natura della giustizia amministrativa quale giurisdizione soggettiva, pur con talune peculiarità - di stretta interpretazione - di tipo oggettivo; c) per la non mutabilità ex officio del giudizio di annullamento una volta azionato; d) per la non pertinenza degli argomenti e dei precedenti richiamati. 3.Con riguardo agli argomenti testuali, vale quanto previsto dal codice del processo amministrativo e, in virtù del rinvio esterno ai sensi dell’art. 39 c.p.a, anche quanto prevede il codice di procedura civile. L’art. 29 c.p.a., proseguendo nella tradizione delle precedenti leggi processuali (T.U. Consiglio di Stato e legge TAR), dispone che la sanzione per i vizi di violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza sia l’annullamento ad opera del giudice, la cui azione deve proporsi nel termine di sessanta giorni. L’illegittimità determina l’annullabilità (in potenza); l’azione di annullamento determina, su pronuncia del giudice, l’annullamento (in atto) degli atti impugnati. In caso di accoglimento del ricorso di annullamento (art. 34, comma 1, c.p.a. lettera a) il giudice quindi annulla (necessariamente) in tutto o in parte il provvedimento impugnato. A sua volta l’art. 34 esprime il principio dispositivo del processo amministrativo in relazione all’ambito della il Corriere giuridico 12/2015 domanda di parte; si tratta, nel caso della giurisdizione amministrativa di legittimità, come noto, di una giurisdizione di tipo soggettivo, sia pure con aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo (ma che si manifestano in precisi, limitati ambiti come, per esempio, nella estensione della legittimazione ovvero nella valutazione sostitutiva dell’interesse pubblico in sede di giudizio di ottemperanza o in sede cautelare, ovvero ancora nella esistenza di regole speciali, quali quelle contenute negli artt. 121 e 122 c.p.a., che, riguardo alle controversie in materia di contratti pubblici, consentono al giudice di modulare gli effetti della inefficacia del contratto). Del resto la regola secondo la quale nel processo amministrativo debba darsi al ricorrente vittorioso tutto quello e soltanto quello che abbia chiesto ed a cui abbia titolo, è stata ribadita dalle pronunce di questa stessa Adunanza plenaria n. 4 del 7 aprile 2011 e n. 30 del 26 luglio 2012. 4. Ora, proprio in virtù di detto principio della domanda non può ammettersi che in presenza di un atto illegittimo (causa petendi) per il quale sia stata proposta una domanda demolitoria (petitum), potrebbe non conseguirne l’effetto distruttivo dell’atto per valutazione o iniziativa ex officio del giudice. L’azione di annullamento si distingue, infatti, dalla domanda di risarcimento per gli elementi della domanda, in quanto nella prima la causa petendi è l’illegittimità, mentre nella seconda è l’illiceità del fatto; il petitum nella prima azione è l’annullamento degli atti o provvedimenti impugnati, mentre nella seconda è la condanna al risarcimento in forma generica o specifica. Inoltre il risarcimento è disposto su “ordine” del giudice ed è diretto a restaurare la legalità violata dell’ordinamento, costituendo una situazione quanto più possibile pari o equivalente (monetariamente) o il più possibile identica a quella che ci sarebbe stata in assenza del fatto illecito; l’annullamento invece è una restaurazione dell’ordine violato “ad opera” del giudice. Al massimo, il giudice può non già “modulare” la forma di tutela sostituendola a quella richiesta, ma determinare, in relazione ai motivi sollevati e riscontrati e all’interesse del ricorrente, la portata dell’annullamento, con formule ben note alla prassi giurisprudenziale, come l’annullamento parziale, “nella parte in cui prevede” o “non prevede”, oppure “nei limiti di interesse del ricorrente” e così via. Se poi la domanda di annullamento, con il suo effetto tipico di eliminazione dell’atto impugnato dal mondo giuridico non dovesse soddisfare l’interesse del ricorrente e anzi dovesse lederlo (in realtà l’ordinanza di rimessione riconosce che non si verte in tale ipotesi), la pronuncia del giudice non potrebbe che essere di accertamento, ma nell’altro senso, cioè della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente che aveva proposto domanda di annullamento. Cosa diversa dall’accertamento del sopravvenuto difetto di interesse è, come proporrebbe invece l’ordinanza di rimessione, che sia il giudice ex officio a preferire la forma di tutela, facendo recedere l’interesse, a suo dire, indebolito del ricorrente, sulla base di altre valutazioni di 1597 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto processuale civile interessi (gli interessi dei controinteressati, l’interesse pubblico, il tempo, l’opportunità e così via). È vero che la pronuncia di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse è basata sull’accertamento della esistenza delle condizioni per l’adozione della decisione giurisdizionale domandata dal ricorrente a tutela di una concreta situazione giuridica di vantaggio, accertamento che deve essere compiuto dal giudice, anche di ufficio, in ogni stato e grado del giudizio (tra varie, Cons. Stato, sez. IV, 22 marzo 2007, n. 1407). Non è però consentito al giudice, in presenza della acclarata, obiettiva esistenza dell’interesse all’annullamento richiesto, derogare, sulla base di invocate ragioni di opportunità, giustizia, equità, proporzionalità, al principio della domanda (si tratterebbe di una omessa pronuncia, di una violazione della domanda previsto dall’art. 99 c.p.c. e del principio della corrispondenza previsto dall’art. 112 c.p.c. tra chiesto e pronunciato secondo cui “il giudice deve pronunciare su tutta ladomanda e non oltre i limiti di essa”, applicabili ai sensi del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a. anche al processo amministrativo) e trasformarne il petitum o la causa petendi, incorrendo altrimenti nel vizio di extrapetizione. Non può neppure valere il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione, al c.d. principio di continenza, in quanto, se è vero che l’accertamento è compreso nell’annullamento (il più comprende il meno), l’accertamento a fini risarcitori è qualcosa di più o comunque di diverso dalla domanda di annullamento. 5. Nella specie ad opinione del Collegio deve ritenersi persistente tale interesse all’annullamento, nella forma di interesse strumentale (su tale nozione Ad. Plen. n. 11 del 10 novembre 2008) ad ottenere la rinnovazione della procedura concorsuale, sia perché tale persistenza è stata manifestamente ribadita nella memoria del gennaio 2014 dell’appellante e in sede di discussione orale, sia perché, in esito del motivo di appello ritenuto fondato e per incidenza degli effetti del suo accoglimento sull’intero procedimento, per la ritenuta esigenza di predeterminazione dei criteri di valutazione degli esami, non può non procedersi alla rinnovazione dell’attività viziata (contemperando con il principio dell’utile per inutile non vitiatur). Non rileva, a tal fine, il tempo trascorso. Infatti la durata occorrente per il giudizio, a maggior ragione quando essa sia prolungata e inaccettabile nelle sue dimensioni, non può andare a danno del ricorrente che ha ragione e pregiudicargli la sua pretesa, se non a costo di infliggergli un doppio danno (sul principio del diritto al giusto processo in tempi ragionevoli, si veda l’art. 6 CEDU e, in campo nazionale, la legge c.d. Pinto n. 89 del 24 marzo 2001, sulla durata ragionevole dei giudizi). Non rileva, d’altro canto, neppure l’utilità più o meno ampia, che l’appellante possa ricevere da un eventuale annullamento, né possono avere rilievo le ragioni di inopportunità, in tale sede e fase, per i disagi causati ai controinteressati incolpevoli o la valutazione preminente dell’interesse pubblico, il quale coincide, in tale mo- 1598 mento, con l’annullamento degli atti illegittimi impugnati. 6. In sede di giurisdizione generale di legittimità e in caso di azione di annullamento, non appare utile il richiamo operato dall’ordinanza di rimessione ai poteri di cui all’art. 21 nonies L. 241 del 1990, attenendo essi specificamente (ed esclusivamente, stante la loro natura eccezionale) all’attività amministrativa propriamente detta; così come non appare utile il richiamo alle disposizioni in materia di appalti (artt. 121 e 122 c.p.a.), in cui viene riconosciuta la possibilità al giudice di disporre un rimedio piuttosto che un altro, sulla base della inefficacia, con un potere valutativo che tenga conto del tempo trascorso, della effettiva possibilità di subentrare, delle situazioni contrapposte, dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e così via: trattasi, infatti, di fattispecie esclusive la cui disciplina non è estensibile in via analogica né tanto meno può essere assunta come espressiva di principi generali. 7. Non sono d’altra parte di ausilio alla soluzione prospettata dall’ordinanza di rimessione i precedenti giurisprudenziali da essa menzionati. Quanto alla sentenza della VI Sezione n. 2755 del 2011, essa ha riconosciuto la potestà del giudice amministrativo, in presenza di determinati presupposti attinenti all’interesse del ricorrente, di fissare una determinata posteriore decorrenza degli effetti della pronuncia di annullamento. Si tratta, dunque, di una questione ben diversa da quella posta nella presente fattispecie, nella quale, come si è più volte rimarcato, si controverte sulla possibilità per il giudice di sostituire integralmente ex officio la domanda proposta in giudizio. Ugualmente non convincente è il richiamo alle sentenze che fanno riferimento alla possibilità che il giudice, di ufficio, ritenga che sussista un interesse al mero accertamento. Al di là della considerazione che tale potere di ufficio di accertare l’illegittimità a soli fini risarcitori non è del tutto pacifico (l’ordinanza di rimessione cita anche giurisprudenza più rigorosa sul punto), esso va necessariamente coniugato, se viene spiegata azione risarcitoria in quella sede (anche se in vero, essa potrebbe solo essere annunciata e proposta in sede successiva), con il principio dispositivo in ordine alla proposizione della domanda di risarcimento, sicché la parte attrice deve sempre provarne gli elementi costitutivi (artt. 2043 e 2697 c.c.). Soprattutto, le pronunce richiamate riguardano una fattispecie ben diversa dalla invocata possibilità del giudice di modificare la domanda. Esse ritengono che ope iudicis si possa accertare l’illegittimità di un atto impugnato anche quando la parte, che non ha più interesse all’annullamento, non lo chieda espressamente. Tali pronunce si riferiscono alla situazione in cui, accertata in modo incontestabile, per mutamenti di fatto o di diritto la sopravvenuta carenza di interesse, si debba decidere se, per la pronuncia di mero accertamento, sia necessaria oppure no una apposita istanza della parte. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile Tali pronunce, come visto, tuttavia non incidono né sulla esigenza di previamente accertare se tale interesse a ricorrere o bisogno di tutela giurisdizionale (Rechtsschutzbedürfnis) continui a persistere anche dopo molto tempo, né sul potere, tipico del processo dispositivo, della parte di decidere, essa soltanto, e non il giudice di ufficio, se proseguire nella richiesta di annullamento di atti illegittimi sia pure a distanza di tempo, vantando ancora un meritevole bene della vita. 8. La modificazione degli effetti della domanda di annullamento non può essere neanche giustificata con il richiamo alla disciplina del processo dinanzi alla Corte di giustizia (l’art. 264 del Trattato). L’art. 1 del c.p.a. afferma che la “giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della costituzione e del diritto europeo”, ma ciò avviene sulla base della specifica disciplina del processo amministrativo, non necessariamente dandosi applicazione alle regole processuali comunitarie. Non si tratterebbe qui di recepire principi del diritto comunitario sostanziale o processuale (la proporzionalità, l’affidamento, il mutuo riconoscimento, il giusto processo, il contraddittorio etc.), ma di applicare una disposizione dettata per il giudizio europeo al giudizio (di tutt’altra natura) nazionale. La problematica della limitazione degli effetti dell’annullamento, sorta e applicata in via eccezionale in quella sede soprattutto per i regolamenti, non è sufficiente a portare ad un parallelo con la giustizia amministrativa italiana, trattandosi di modelli giurisdizionali del tutto differenti (basti pensare alla serie di atti scrutinati dalla Corte di Giustizia, che possono essere atti del Parlamento piuttosto che della Commissione europea, della BCE, del Consiglio). Per completezza, si osserva che tale problematica, a prescindere dalle regole codicistiche, è stata affrontata in quel sistema dal Conseil d’Etat francese (Conseil d’Etat, 11 maggio 2004, Association AC), che ha fatto riferimento alle conseguenze manifestamente eccessive, ma limitando il potere officioso del giudice in casi del tutto eccezionali “à titre exceptionnel” e solo nei casi di atti di tale importanza da mettere in crisi il sistema di un settore dell’ordinamento, quindi tenendo conto degli effetti della “securité juridique”. 9. Ai sensi dell’art. 99, comma 4 c.p.a., l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, investita della questione sopra esposta, in omaggio al principio di economia processuale e per esigenze di celerità, di regola decide la controversia anche nel merito, salva la presenza di ulteriori esigenze istruttorie, nel caso di specie insussistenti (così Consiglio di Stato, ad. plen. 13 giugno 2012, n. 22). D’altra parte, la questione sollevata dalla Sezione rimettente di eventualmente non annullare per le ragioni sopra esposte, pur non rappresentata alla udienza precedente alle parti ai sensi dell’art. 73 comma 3, ove ritenuta questione “rilevata d’ufficio” perché riguardante gli eventuali poteri officiosi del giudice, è stata compiutamente rappresentata con l’ordinanza di deferimento e il Corriere giuridico 12/2015 quindi adeguatamente trattata dalle varie parti in sede di discussione dinanzi a questa Adunanza Plenaria. Avendo la Sezione rimettente già accertato l’illegittimità degli atti impugnati pronunciandosi con sentenza parziale ai sensi dell’art. 36 comma 2 c.p.a., sia respingendo il primo motivo sia esprimendosi anche sulla seconda “questione” (il motivo della violazione della regola della previa determinazione dei criteri delle prove), non può che concludersi nel senso dell’accoglimento dell’appello e, in conseguenza, in riforma dell’appellata sentenza, per l’accoglimento del ricorso originario e l’annullamento degli atti impugnati ai sensi e nei limiti di cui in motivazione. Ritenendo pertanto di decidere nel merito la controversia sottoposta all’esame, sulla base delle sopra esposte considerazioni, va accolto l’appello proposto dall’appellante e, in riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso originario, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, con la enunciazione del seguente principio di diritto: “Sulla base del principio della domanda che regola il processo amministrativo, il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita”. (omissis). 1599 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto processuale civile Il principio della domanda nel processo amministrativo di Franco Gaetano Scoca L’Adunanza plenaria riafferma in tutta la sua pregnanza il principio della domanda, per cui esclude che, avendo la parte chiesto l’annulamento di un provvedimento, possa il giudice pronunciare, al posto dell’annullamento, il risarcimento del danno. Riaffermazione del principio della domanda La sentenza in commento costituisce una consapevole, meditata e solenne riaffermazione del principio della domanda vigente nella disciplina (anche) del processo amministrativo; e, in questo, si allinea all’orientamento consolidato in giurisprudenza (1) e assolutamente prevalente in dottrina; principio che discende dalla natura soggettiva della giurisdizione amministrativa (2), e, quindi, dal carattere di processo di parti del processo amministrativo; in linea con gli artt. 24 e 113 Cost., ai sensi dei quali la funzione giurisdizionale è finalizzata ad assicurare tutela alle situazioni soggettive, e, in tale prospettiva ed a questo fine, ad affermare ciò che è giusto, anzi, più esattamente, ciò che è conforme al diritto positivo. La Sezione rimettente, nella sua ordinanza, assumeva che potesse essere consentito al giudice amministrativo di intervenire sulla domanda di parte, diretta all’annullamento, modificandola ex officio in domanda di risarcimento del danno, in presenza di determinate (ed eccezionali) circostanze, sulla base di una valutazione sostanzialmente di equità; ossia comparando il vantaggio (scarso), derivante dall’annullamento al ricorrente, con lo svantaggio, di gran lunga più pesante, per i controinteressati “incolpevoli” (in quanto del tutto estranei al vizio di legittimità, comportante l’annullamento, e imputabile alla sola amministrazione). Per comprendere appieno la portata della sentenza in commento è utile riassumere la vicenda che ne è stata l’oggetto; tuttavia fin d’ora si può dire che l’ordinanza di rimessione ha formulato i suoi quesiti forzando consapevolmente la disciplina positiva del processo amministrativo, sia pure per no(1) Nello stesso senso si esprime con pari determinazione Ad. Plen. 27 aprile 2015, n. 5, spec. punto 7 della motivazione. (2) Si veda sul punto da ultimo, V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014, 341 ss., che pone in rilievo che tale configurazione della giurisdizione amministrativa risale ai primordi, e che “le poche voci, peraltro assai autorevoli, che si espressero in contrario, erano piuttosto condizionate dall’incerta natura degli ‘interessi’ di cui all’art. 24 1600 bili motivi di equità o di giustizia sostanziale, ritenendo compito del giudice la valutazione comparativa di vantaggi e svantaggi per le parti presenti in giudizio. Viene in mente, mi si passi l’inusuale accostamento, il giudizio di Salomone nella contesa tra due donne che si dicevano entrambe madri dello stesso bambino (3). Motivi di ricorso e “misura” dell’annullamento Risulta dalla motivazione della sentenza in commento (4) che: a) il petitum consisteva nella richiesta di annullamento della graduatoria di un concorso; b) la causa petendi, a sua volta, era rappresentata da due diversi vizi di legittimità; c) il primo vizio, attenendo alla composizione della commissione di valutazione, se accolto, avrebbe comportato l’annullamento totale della procedura concorsuale, con la necessità di ripetere le prove; d) il secondo vizio, attenendo alla mancata predeterminazione dei criteri di valutazione delle prove, se accolto, avrebbe comportato l’annullamento parziale, limitato alla ricorrezione delle prove scritte e, di conseguenza, alla rinnovazione del provvedimento di ammissione dei candidati alle prove orali. La Sezione rimettente ha ritenuto infondato il primo motivo e fondato, invece, il secondo. Rendendosi conto che l’annullamento della graduatoria avrebbe comportato la perdita, dopo oltre quindici anni, del posto di lavoro da parte dei numerosi controinteressati, e reputando, d’altro canto, che tale misura processuale non assicurava affatto l’acquisizione di uno dei posti messi a concorso per il ricorrente, il Collegio ha preso in considerazione il problema di evitare, se possibile, l’annullamento, della legge fondamentale” (355-356). (3) Ove si metta al posto della madre falsa il ricorrente, scarsamente avvantaggiato dall’annullamento, e al posto della vera madre il gruppo dei controinteressati, gravemente danneggiati dallo stesso annullamento. L’Adunanza Plenaria non ha condiviso l’idea di una giustizia “salomonica”. (4) L’ordinanza di rimessione, Sez. V, 22 gennaio 2015, n. 284, merita di essere letta. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile attribuendo al ricorrente vittorioso il risarcimento del danno, che però non era stato richiesto (5). Il rigetto del primo motivo esclude l’annullamento totale della procedura. Se, in ipotesi, il motivo fosse stato accolto, si sarebbe posto un diverso problema, dato che il petitum, come disegnato dal ricorrente, non comprendeva l’annullamento totale della procedura concorsuale, bensì solo l’annullamento della graduatoria finale, quindi con salvezza delle prove scritte e necessità della loro ricorrezione (previa determinazione dei criteri di valutazione). Ci si chiede: avrebbe potuto il giudice pronunciare l’annullamento totale in presenza di una domanda limitata all’annullamento parziale? Avrebbe potuto pronunciare l’annullamento parziale sulla base dell’accoglimento di un motivo che comporta l’annullamento totale? Sono problemi diversi da quello esaminato dall’Adunanza Plenaria, ma attengono comunque alla determinazione in concreto del principio della domanda. Se questo principio si assume in modo rigido, se ne deve dedurre che il giudice non possa seguire nessuna delle due strade: non la prima, per difetto della domanda; non la seconda per la discrepanza tra ratio decidendi e decisione. Si può tuttavia pensare che al giudice amministrativo sia consentito “qualificare”. o interpretare, la domanda “in base ai suoi elementi sostanziali” (6), senza tuttavia uscire dai confini del tipo di azione proposto dal ricorrente; ossia, nel caso in esame, mantenendo ferma l’azione di annullamento. In altri termini: possa determinare discrezionalmente la “misura” dell’annullamento, commisurandolo al motivo (dedotto ed) accolto, prescindendo dalla “misura” (dall’ampiezza del segmento procedurale da eliminare) richiesta dal ricorrente. In questo senso si può ricavare argomento dalla sentenza in commento, laddove l’Adunanza Plenaria afferma che il giudice può “determinare, in relazione ai motivi sollevati e riscontrati e all’interesse del ricorrente, la portata dell’annullamento”. L’Adunanza Plenaria ha esaminato un profilo diverso, e tutto sommato, più semplice: se al giudice sia consentito modificare la domanda a tal punto da sostituire, mediante la manipolazione del petitum, l’azione effettivamente proposta con una azione diversa; sostituire cioè l’azione di annullamento, proposta e continuamente riconfermata dal ricorrente, con l’azione di risarcimento del danno, estranea alla domanda. La presa di posizione dell’Adunanza Plenaria è stata netta, come si ricava dal principio di diritto enunciato: “sulla base del principio della domanda che regola il processo amministrativo, il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa arrecare gravi pregiudizi ai controinteressati (7), anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti (8), e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita”. La Sezione rimettente aveva tentato di far leva sul comma 3 dell’art. 34 c.p.a., ma l’argomento è manifestamente privo di consistenza, dato che nel caso di specie l’annullamento non risultava affatto inutile, come invece è espressamente previsto da tale disposizione (9). Se, viceversa, l’annullamento (della procedura concorsuale) fosse divenuto effettivamente inutile (10), probabilmente la disposizione suddetta avrebbe potuto essere applicata. Ed avrebbe potuto esserlo anche nel caso in cui, permanendo l’utilità oggettiva dell’annullamento, ad esso il ricorrente avesse rinunciato (11). L’Adunanza Plenaria sembra non condividere queste affermazioni: essa reputa che, nel caso in cui l’annullamento “non dovesse soddisfare l’interesse del ricorrente (…), la pronuncia del giudice (5) Non è mio compito e tuttavia ritengo di dover osservare che il ricorrente, in una situazione del genere, avrebbe fatto bene a richiedere il risarcimento del danno. Il problema sottoposto all’Adunanza Plenaria sarebbe comunque rimasto inalterato. Osservo altresì che, in un caso del genere, non sarebbe stato facile quantificare e provare il danno subito. (6) Art. 32, comma 2, c.p.a. (7) La sentenza parla di “impatto devastante sulla vita loro e delle loro famiglie”. (8) A proposito del lungo tempo trascorso va messo in rilievo che appare nella specie incomprensibile la durata del pro- cesso di appello, iniziato nel 2002 e terminato solo con la sentenza in commento: tredici anni! (9) Art. 34, comma 3: “quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”. (10) Ad esempio per la impossibilità del ricorrente a partecipare alla procedura rinnovata dall’amministrazione. (11) Vedremo poi se, in questo caso, il ricorrente avrebbe dovuto chiedere il risarcimento del danno o, almeno, manifestare il suo interesse a chiederlo. il Corriere giuridico 12/2015 Sulla manipolazione della domanda da parte del giudice 1601 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto processuale civile non potrebbe che essere di accertamento, ma nell’altro senso, cioè della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente che aveva proposto domanda di annullamento”; senza possibilità di applicazione della disposizione di cui al comma 3 dell’art. 34. Sulla “modulabilità” della domanda da parte del giudice La Sezione rimettente aveva anche richiamato il principio di continenza, sostenendo che l’accertamento della illegittimità dell’atto impugnato è compreso nella domanda di annullamento, costituendo il presupposto per il suo accoglimento. La risposta dell’Adunanza Plenaria è secca: “l’accertamento a fini risarcitori è qualcosa di più o comunque di diverso dalla domanda di annullamento”. Siffatta affermazione lascia lievemente perplessi: l’accertamento della (il)legittimità del provvedimento è identica a se stessa, sia che porti all’annullamento sia che cagioni la illiceità della condotta (o del comportamento) dell’amministrazione, rilevante ai fini del risarcimento. Vero è invece che, in mancanza di apposita domanda, l’accertamento della illegittimità del provvedimento non può essere seguito dalla pronuncia risarcitoria; ed è anche vero che l’accertamento della illegittimità del provvedimento impugnato non costituisce affatto l’unico presupposto per addivenire alla condanna risarcitoria. Va tuttavia osservato che il principio di continenza non è minimamente utile a risolvere il quesito, che attiene alla possibilità di evitare l’annullamento richiesto e non di pronunciarsi sulla (il)legittimità del provvedimento impugnato. Nel tentativo di sostenere la tesi della “modulabilità” da parte del giudice della forma di tutela da attribuire al ricorrente, la Sezione rimettente aveva fatto leva anche sui principi di proporzionalità, equità e giustizia, che devono permeare la giustizia amministrativa; principi compromessi dalla sperequazione tra lo svantaggio “devastante” per i controinteressati e l’“indebolito” interesse del ricorrente. Ancora una volta la risposta dell’Adunanza Plenaria è secca: né l’utilità più o meno ampia che il (12) Art. 21 nonies della L. 7 agosto 1990, n. 241. (13) Risulta d’altronde difficile comprendere come un potere di annullamento potesse giustificare una tesi concernente il rifiuto di un annullamento espressamente richiesto. (14) Si potrebbe aggiungere che riguardano la possibilità di decidere d’ufficio, una volta accolta la domanda di annulla- 1602 ricorrente può ricevere dall’accoglimento della domanda da lui proposta, né il pregiudizio, grave che sia, che ne deriva per i controinteressati, hanno rilevanza alcuna. Vi si oppone il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, articolazione del principio della domanda. L’Adunanza Plenaria mostra con ciò di rispettare per intero il carattere soggettivo della giurisdizione amministrativa, per cui intende il processo come strumento di tutela (del ricorrente, secondo la impostazione da lui concretamente scelta) e non come strumento di giustizia (se del caso, equitativa); conformemente, d’altronde, alle disposizioni costituzionali in materia. I pretesi fondamenti del potere del giudice di modificare la domanda di parte Nella articolata motivazione della ordinanza di rimessione si rinvengono anche altre ragioni a favore della “modulabilità” della tutela da parte del giudice, prescindendo dalla domanda di parte. Una prima ragione è francamente assai debole: alla ricerca di poteri di manipolazione della domanda, la Sezione rimettente richiama, da un lato, la disposizione sulla annullabilità d’ufficio dei provvedimenti illegittimi (12) e, dall’altro, gli artt. 121 e 122 c.p.a. Per l’Adunanza Plenaria è stato facile affermare l’inconferenza di tali richiami: il primo, perché il potere di annullamento d’ufficio è potere di autotutela e, pertanto, è proprio solo dell’amministrazione (13); il secondo, perché le disposizioni riguardanti il rito degli appalti, che conferiscono al giudice il potere di “ampliare” ex officio il petitum di parte, sono con ogni evidenza di stretta interpretazione (14). Un ulteriore argomento viene tratto da un interessante quanto discusso precedente giurisprudenziale: in materia ambientale, accertata la illegittimità di un piano faunistico-venatorio, una sentenza del Consiglio di Stato del 2011 aveva evitato di annullarlo, disponendo soltanto, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. e), c.p.a., misure conformative, ossia stabilendo cosa l’amministrazione avrebbe dovuto fare, in futuro, per adeguarsi al giudicato (15). mento dell’aggiudicazione di un appalto, sulla inefficacia o meno del successivo contratto. Non si tratta comunque di eludere il petitum proposto dalla parte. (15) Cons. Stato, Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755. È interessante riportare il ragionamento seguito dal giudice: “considerate le circostanze, ritiene la Sezione che la presente senten- il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile L’Adunanza Plenaria si limita a rilevare che si tratta di “questione ben diversa da quella posta nella presente fattispecie, nella quale (…) si controverte sulla possibilità per il giudice di sostituire integralmente ex officio la domanda proposta in giudizio”. Si ha l’impressione che l’Organo di nomofilachia abbia voluto evitare di pronunciarsi, sia pure indirettamente, sulla correttezza, o accettabilità, della limitazione alla (sola) determinazione degli effetti conformativi, senza il previo (e richiesto) annullamento del provvedimento impugnato e riconosciuto illegittimo. Infatti, anche nel precedente richiamato dalla ordinanza di rimessione il giudice aveva evitato di pronunciare l’annullamento dell’atto impugnato, espressamente richiesto dal ricorrente: sotto questo profilo le questioni sembrano identiche, e, quindi, il problema poteva essere affrontato dall’Adunanza Plenaria; soltanto sotto l’altro profilo, quello della possibilità di pronunciare sul risarcimento del danno, senza domanda di parte, le due situazioni sono radicalmente diverse. Processo amministrativo italiano e processo europeo L’Adunanza Plenaria esamina viceversa funditus un altro argomento, che risulta appena sfiorato nella ordinanza di rimessione, e che invece era stato adeguatamente trattato nel precedente giurisprudenziale da questa richiamato: l’applicabilità nel processo amministrativo italiano della disciplina del processo dinanzi alla Corte di Giustizia UE, in particolare del comma 2 dell’art. 264 TFUE (16). L’Adunanza Plenaria avrebbe potuto limitarsi ad osservare che la disposizione del Trattato consente (al giudice comunitario) di graduare la portata dell’annullamento (o, secondo il linguaggio del Trattato, della dichiarazione di nullità) dell’atto impuza debba avere unicamente effetti conformativi del successivo esercizio della funzione pubblica, e non anche i consueti effetti ex tunc di annullamento, demolitori degli effetti degli atti impugnati, né quelli ex nunc”. Quando la eliminazione degli effetti dell’atto riconosciuto illegittimo “risulterebbe incongrua e manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale, ad avviso del Collegio la regola dell’annullamento con effetti ex tunc dell’atto impugnato a seconda delle circostanze deve trovare una deroga, o con la limitazione parziale della retroattività degli effetti (Sez. VI, 9 marzo 2011, n. 1488), o con la loro decorrenza ex nunc ovvero escludendo del tutto gli effetti dell’annullamento e disponendo esclusivamente gli effetti conformativi” (dal punto 15 della motivazione). Tale indirizzo ha anche avuto qualche seguito: v., ad esempio, T.A.R. Genova, Sez. II, 22 marzo 2013, n. 514, Id., 22 il Corriere giuridico 12/2015 gnato, ma non gli consente di modificare il tipo di azione proposta dal ricorrente; consente cioè di graduare la “misura”, e quindi gli effetti, dell’annullamento, ma non di sostituire il risarcimento del danno all’annullamento. L’Organo di nomofilachia prende, invece, l’occasione per affermare, sulla base della (ritenuta) profonda differenza dei modelli processuali, l’inapplicabilità, in via generale, della disciplina vigente per il processo europeo al processo amministrativo italiano (17). A me sembra che la questione vada più accuratamente vagliata. Rimanendo sempre nei confini dell’azione di annullamento, il petitum non viene “tradito” se il giudice, ricercando il modo migliore di rendere effettiva la tutela del ricorrente vittorioso, circoscrive razionalmente la “misura” dell’annullamento stesso. D’altronde l’annullamento parziale è comunemente ammesso, anche a seguito di generico petitum di annullamento; l’annullamento ex nunc, o a decorrere da una data successiva alla integrazione della efficacia del provvedimento impugnato, non appare come modificazione, o sostituzione, del tipo di azione proposta dal ricorrente. L’art. 264 TFUE, in definitiva, non risulta eversivo del modello di processo amministrativo vigente in Italia, ove i confini, quantitativi o temporali, dell’annullamento vengano determinati tenendo conto dell’interesse processuale del ricorrente. Il processo amministrativo, a mio avviso, non cessa, per questo, di essere strumento di tutela per diventare strumento di giustizia equitativa (18). Sulla corrispondenza tra chiesto e pronunciato Nella ordinanza di rimessione si rappresenta ancora un argomento, che va esaminato. gennaio 2014, n. 102. Sia la sentenza appena citata sia l’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria relativa alla sentenza in commento sono state decise da Collegi presieduti dallo stesso Presidente, magistrato aduso a proporre intelligenti innovazioni processuali. (16) L’art. 264 TFUE recita, al comma 1: “se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dell’Unione europea dichiara nullo e non avvenuto l’atto impugnato”; e, al comma 2: “tuttavia la Corte, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti dell’atto annullato che devono essere considerati definitivi”. (17) Viene opportunamente citata una decisione del Conseil d’État francese sulla medesima questione. (18) Non è privo di rilievo che l’art. 1 c.p.a., richiami “i principi (…) del diritto europeo”. 1603 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Diritto processuale civile Si sostiene che, se il ricorrente “avesse formulato una espressa domanda risarcitoria (…) il presente giudizio si sarebbe potuto senz’altro concludere con l’accoglimento di tale domanda, senza l’annullamento dei medesimi atti”, ossia degli atti impugnati. L’argomento, a mio avviso, non è convincente: da un lato, l’accertamento della illegittimità del provvedimento impugnato non comporta affatto, da sé solo, l’accoglimento della domanda risarcitoria, dato che occorrono anche (la prova del) la colpa, (la prova de) il danno e (la prova de) il nesso di causalità; dall’altro lato, l’eventuale accoglimento della domanda risarcitoria non comporta, né giustifica, la mancata decisione sulla contestuale domanda di annullamento, se si applica, com’è indubbio, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. In presenza di due domande, corrispondenti a due azioni connesse (19), il giudice amministrativo non può decidere l’una e, a motivo di ciò, trascurare l’altra. Nel caso di specie, comunque la domanda risarcitoria non era stata proposta: l’argomento risulta pertanto inutilmente dedotto dalla Sezione rimettente. Colgo l’occasione per sottolineare, per maggiore chiarezza, che il problema posto all’Adunanza Plenaria dall’ordinanza di rimessione si scinde in due diversi profili: se sia consentito al giudice di non decidere sulla domanda di annullamento (proposta); se sia consentito introdurre nel processo ex officio una domanda di risarcimento del danno (non proposta dal ricorrente). Sotto nessuno dei due profili l’argomento appena esaminato si mostra appropriato. Occorre riprendere il discorso sull’art. 34, comma 3, c.p.a., anche se l’ordinanza di rimessione ritiene che esso, e la sua interpretazione, non riguardino “la problematica che si intende porre all’esame dell’Adunanza Plenaria”. L’opportunità di sottoporlo ad esame deriva dalla molteplicità e diversità degli orientamenti giurisprudenziali che si avvicendano sul modo di interpretare e applicare tale disposizione. Si va dalla verifica d’ufficio, senza alcun bisogno di intervento del ricorrente, della sussistenza oggettiva dell’interesse al risarcimento (20), all’onere per la parte di prospettare espressamente l’interesse alla declaratoria di illegittimità del provvedimento (di cui sia diventato inutile l’annullamento) (21), alla necessità per la parte di formulare espressa riserva di chiedere successivamente il risarcimento (22), fino alla allegazione compiuta dei presupposti per la successiva proposizione dell’azione risarcitoria, a partire dalla prospettazione del danno sofferto (23). Si assiste ad un crescendo di oneri a carico del ricorrente, che si arresta giusto prima della proposizione esplicita, nel giudizio di annullamento, della domanda risarcitoria. La sentenza in commento sembra propendere (ma non si esprime con sicurezza, o, meglio, in modo definitivo) per la tesi della necessità che la parte proponga espressamente, “se pure non formalisticamente ma in sostanza, la domanda di accertamento dell’illegittimità” o, quanto meno, manifesti il suo “interesse al solo accertamento, a successivi fini risarcitori”. Si tratta di una tesi intermedia tra quelle presenti nella giurisprudenza recente, che appare condivisibile. Si devono rigettare le tesi che pretendono che la parte alleghi i presupposti necessari per la proposizione, anzi per l’accoglimento, dell’azione risarcitoria, dato che questa allegazione non è richiesta affatto dalla disposizione in esame (24); la quale prescrive soltanto che sussista “l’interesse a fini risarcitori”. Orbene tale interesse può essere rappresentato dalla parte o anche rilevato d’ufficio: la disposizione stabilisce che la semplice, oggettiva, sussistenza dell’interesse determina il dovere del giudice di accertare l’illegittimità dell’atto, il cui annullamento non risulti più utile per il ricorrente. Le tesi più restrittive partono dall’idea che occorra evitare che l’attività giurisdizionale sia resa inutilmente. L’argomento è condivisibile, ma ogni volta che sussiste l’interesse (manifestato o oggettivamente rilevato) al risarcimento, tale attività non può essere ritenuta inutile. La diversità delle tesi, tutte attualmente seguite, rende necessario, tuttavia, che l’Adunanza Plenaria (19) Il cumulo di domande connesse è espressamente consentito dall’art. 32, comma 1, c.p.a. (20) Il quale è desumibile dal tipo di controversia e dagli atti di causa: Cons. Stato, Sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817. Nello stesso senso, T.A.R. Napoli, VII, 8 maggio 2015, n. 2571. (21) T.A.R. Torino, Sez. II, 28 maggio 2015, n. 877. (22) Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 2015, n. 1385; T.A.R. Roma, Sez. I, 1° aprile 2015, n. 4951. (23) Cons. Stato, Sez. V, 28 dicembre 2012, n. 6703. (24) In concreto questa tesi comporta che il ricorrente enunci tutti gli elementi integranti la causa petendi dell’azione risarcitoria, senza peraltro proporre tale azione. Sul comma 3 dell’art. 34 c.p.a. 1604 il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Diritto processuale civile prenda esplicitamente posizione, mettendo fine alla pluralità degli orientamenti. Giudice amministrativo e azione risarcitoria Le tesi che accollano al ricorrente oneri maggiori per ottenere che il giudice si pronunci ex art. 34, comma 3, c.p.a., sono da porre in relazione con l’atteggiamento di estrema chiusura della giurisprudenza amministrativa maggioritaria verso il riconoscimento al ricorrente, anche se vittorioso nel giudizio di annullamento, del risarcimento del danno. È ben noto che si valorizzano oltre misura gli argomenti, dalla mancata allegazione alla mancata prova del danno, dalla mancanza della colpa (che comunitariamente sarebbe irrilevante) alla valutazione aggravata del comportamento del danneggiato, e così via, per escludere o per limitare il danno risarcibile (25). Il giudice amministrativo utilizza anche istituti processuali per evitare condanne risarcitorie, ricorrendo “generosamente” a pronunce di improcedibilità della relativa azione. Ne è prova una recente sentenza di appello, in cui si trattava di decidere, una volta accertata l’inutilità dell’annullamento, sulla domanda risarcitoria ritualmente formulata in primo grado. Osserva il Consiglio di Stato che la domanda proposta in primo grado (era ed) è da respingere, perché formulata in modo generico, e che la domanda riformulata in grado di appello, benché assistita dalla prova di tutti gli elementi per addivenire alla condanna, doveva considerarsi improcedibile, perché il thema decidendi deve essere “ineluttabilmente definito in primo grado e non può essere esteso in grado di appello” (26). Così è che una azione risarcitoria, alla fine pienamente istruita, non viene esaminata nel merito; per cui, nonostante che il danno sia stato provato, il ricorso viene ritenuto improcedibile. (25) Sarebbe istruttivo porre a confronto l’orientamento del giudice amministrativo in ordine al risarcimento del danno causato dall’amministrazione con l’orientamento del giudice contabile in ordine al risarcimento del danno causato all’amministrazione. (26) Cons. Stato, Sez. V, 23 marzo 2015, n. 1548. il Corriere giuridico 12/2015 Sulla inutilità dell’annullamento Ci si può chiedere quand’è che l’annullamento, nel corso del giudizio, divenga inutile. A mio avviso si tratta delle ipotesi di difetto sopravvenuto di interesse alla decisione, che darebbe luogo alla dichiarazione di improcedibilità del ricorso (27); ed è noto che la cessazione dell’interesse deriva sempre (o quasi) dalla evoluzione della situazione di fatto durante la pendenza del giudizio (28). Mi chiedo tuttavia se l’art. 34, comma 3, possa applicarsi anche allorché cessa (non l’interesse alla decisione, ma) la materia del contendere, ossia quando “nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta” (29). La piena soddisfazione dovrebbe comprendere non soltanto l’annullamento o la revoca, da parte dell’amministrazione resistente, del provvedimento impugnato, ma anche la cancellazione degli effetti da questo nel frattempo prodotti e il risarcimento dell’eventuale danno causato. Se così fosse, non resterebbe margine per l’esperimento dell’azione risarcitoria, e quindi non sussisterebbe l’interesse all’accertamento della illegittimità del provvedimento impugnato dal ricorrente e poi ritirato dall’amministrazione. Se, viceversa, come normalmente accade, la cessazione della materia del contendere viene dichiarata sulla sola base del ritiro del provvedimento impugnato, a me sembra che continui a sussistere l’interesse del ricorrente ai fini risarcitori; con conseguente applicabilità della disposizione in esame. Ritornando alla sentenza in commento, e concludendo il suo esame, bisogna riconoscere che, con essa, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato continua nella sua benemerita azione di “manutenzione straordinaria” del processo amministrativo. (27) Art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a. (28) Per fare un esempio, l’avvenuto completamento dell’opera pubblica rispetto al giudizio diretto all’annullamento dell’aggiudicazione. (29) Art. 34, comma 5, c.p.a. 1605 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi Osservatorio della Corte di Giustizia UE a cura di Roberto Conti RETI E SERVIZI DI TELECOMUNICAZIONI APPARECCHIATURE TERMINALI PER IL SERVIZIO RADIOMOBILE TERRESTRE Corte di Giustizia, Sez. VIII, 17 settembre 2015, n. C416/14 - Pres. Ó Caoimh - Avv. Gen. Kokott- Fratelli De Pra spa eS AIV spa c. Agenzia Entrate - Direzione Provinciale Ufficio Controlli Belluno, Agenzia Entrate - Direzione Provinciale Ufficio Controlli Vicenza 1) Le direttive: - 1999/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 1999, riguardante le apparecchiature radio e le apparecchiature terminali di telecomunicazione e il reciproco riconoscimento della loro conformità, segnatamente il suo art. 8, - 2002/19/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002, relativa all’accesso alle reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate, e all’interconnessione delle medesime (direttiva “accesso”), - 2002/20/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002, relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica (direttiva “autorizzazioni”), come modificata dalla Dir. 2009/140/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, - 2002/21/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (direttiva “quadro”), e - 2002/22/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (direttiva “servizio universale”), come modificata dalla Dir. 2009/136/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009 vanno interpretate nel senso che non ostano a una normativa nazionale relativa all’applicazione di una tassa, quale la tassa di concessione governativa, in forza della quale l’impiego di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre, nel contesto di un contratto di abbonamento, è assoggettato a un’autorizzazione generale o a una licenza nonché al pagamento di detta tassa, in quanto il contratto di abbonamento sostituisce di per sé la licenza o l’autorizzazione generale e, pertanto, non occorre alcun intervento dell’amministrazione al riguardo. 2) L’art. 20 della Dir. 2002/22, come modificata dalla Dir. 2009/136, e l’art. 8 della Dir. 1999/5 vanno interpretati nel senso che non ostano, ai fini dell’applicazione di una tassa quale la tassa di concessione governativa, all’equiparazione a un’autorizzazione generale o a una licenza di stazione radioelettrica di un contratto di abbonamento a un servizio di telefonia mobile, che deve pe- 1606 raltro precisare il tipo di apparato terminale di cui si tratta e l’omologazione di cui è stato oggetto. 3) In un caso come quello oggetto dei procedimenti principali, il diritto dell’Unione, quale risulta dalle direttive 1999/5, 2002/19, 2002/20, come modificata dalla Dir. 2009/140, 2002/21 e 2002/22, come modificata dalla Dir. 2009/136, nonché dall’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dev’essere interpretato nel senso che non osta a un trattamento differenziato degli utenti di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre, a seconda che essi sottoscrivano un contratto di abbonamento a servizi di telefonia mobile o acquistino tali servizi in forma di carte prepagate eventualmente ricaricabili, in base al quale solo i primi sono assoggettati a una normativa nazionale come quella che istituisce la tassa di concessione governativa. Il caso La Commissione tributaria provinciale di Mestre-Venezia chiamata a pronunziarsi, a seguito del ricorso proposto da due società, sul diniego di rimborso della tassa di concessione governativa versata per l’impiego di apparecchi terminali per il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione in forza dell’art. 21 della tariffa allegata al d.P.R. n. 641/1972 che nella versione applicabile alle controversie principali prevede, per ogni mese di utenza, l’assoggettamento alla TCG di ogni licenza o documento sostitutivo della stessa per l’impiego di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione, ha proposto i seguenti quesiti pregiudiziali alla Corte di Giustizia: “1) Se, con riferimento alle apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre di comunicazione, sia compatibile con il diritto comunitario (direttiva 1999/5, nonché [direttive reti]) la normativa nazionale di cui al combinato disposto:-art. 2 comma 4, D.L. 4/2014, convertito successivamente in legge 50/2014; -art. 160 D.Lgs. 259/2003; -art. 21 [della tariffa allegata, che, assimilando le apparecchiature terminali alle stazioni radioelettriche, prevede per l’utente il conseguimento di un’autorizzazione generale, nonché il rilascio di apposita licenza di stazione radioelettrica, da far valere quale presupposto impositivo. E pertanto se, con specifico riferimento all’utilizzo delle apparecchiature terminali, sia compatibile con il diritto comunitario la pretesa dello Stato italiano di prevedere a carico dell’utente il conseguimento di un’autorizzazione generale e di una licenza di stazione radio, quando l’immissione nel mercato, la libera circolazione e la messa in servizio delle apparecchiature terminali sono disciplinate già compiutamente da fonti comunitarie (direttiva n. 1999/5), senza previsione alcuna di autorizzazione generale e/o licenza. E l’autorizzazione generale e la licenza vengono previste dalla normativa nazionale: - nonostante l’autorizzazione generale sia un provvedimento che non interessa l’utilizzatore delle apparecchiature terminali, ma solamente le imprese interessate alla fornitura il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi di reti e servizi di comunicazione elettronica (art. 1-2-3 della direttiva autorizzazioni n. 2002/20); - nonostante la concessione sia prevista per i diritti individuali di uso delle frequenze radio e per i diritti d’uso dei numeri, situazioni sicuramente non riferibili all’utilizzo delle apparecchiature terminali; - nonostante la normativa comunitaria non contempli alcun obbligo di conseguire un’autorizzazione generale o il rilascio di licenza per le apparecchiature terminali; - nonostante l’art. 8 della direttiva 1999/5 disponga che gli Stati membri ‘non vietano, limitano o impediscono l’immissione sul mercato e la messa in servizio sul loro territorio di apparecchi recanti la marca CE’; - nonostante la diversità sostanziale e regolamentare, e la non omogeneità tra una stazione radioelettrica e le apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre di comunicazione. 2) Se sia compatibile con il diritto comunitario (direttiva 1999/5 e direttiva 2002/22, in particolare l’art. 20) la normativa nazionale di cui al combinato disposto:-art.2 comma 4, D.L 4/2014, convertito successivamente in legge 50/2014;art. 160 D.Lgs. 259/2003;-Art. 21 tariffa allegata;-art.3 del DM 33/1990, in base alla quale - il contratto di cui all’art. 20 della direttiva 2002/22 - instaurato tra il gestore e l’utente, atto a regolare i rapporti commerciali tra i consumatori e gli utenti finali con una o più imprese che forniscono la connessione e servizi relativi - possa valere “di per se stesso” anche quale documento sostitutivo dell’autorizzazione generale e/o della licenza di stazione radio, senza alcun intervento o attività o controllo da parte della Pubblica Amministrazione. - il contratto deve contenere anche gli estremi del tipo di apparato terminale e la relativa omologazione (non prevista sulla base dell’art. 8 [della direttiva 1999/5]). 3) Se siano compatibili con il diritto comunitario sopra richiamato le disposizioni di cui al combinato disposto dell’articolo 2, comma 4, D.L. 4/2014, convertito successivamente con L. 50/2014, nonché dell’art. 160 D.Lgs. 259/2003 e dell’art. 21 della tariffa allegata, che prevedono l’obbligo di autorizzazione generale e conseguente licenza di stazione radio radioelettrica nei confronti solo di una particolare categoria di utenti, titolari di contratto denominato formalisticamente abbonamento, mentre nessuna autorizzazione generale o licenza viene prevista in capo agli utenti di servizi di comunicazione elettronica sulla base del contratto solo perché denominato diversamente (= servizio prepagato o di ricarica). 4) Se l’art. 8 della direttiva europea 1999/5 osti ad una normativa nazionale, come quella di cui [al combinato disposto degli artt. 2, comma 4 D.L 4/2014, convertito successivamente con L. 50/2014, nonché dell’art. 160 [del] D.Lgs. 259/2003, e dell’art. 21 della tariffa allegata, che prevede:un’attività amministrativa volta al rilascio dell’autorizzazione generale e della licenza di stazione radioelettrica, - il pagamento di una tassa di concessione governativa a fronte di tali attività, in quanto comportamenti che possono costituire limitazione alla messa in servizio, utilizzo e libera circolazione degli apparati terminali”. La decisione Esaminando congiuntamente la prima e la quarta questione pregiudiziale, la Corte ricorda di avere già affermato che le due delle direttive reti, vale a dire le direttive 2002/20 e 2002/21, non ostavano a una tassa quale la TCG - Corte giust., n. C-492/09, Agricola Esposito EU:C:2010:766 - ribadendo i risultati interpretativi ivi esposti con riguardo alla il Corriere giuridico 12/2015 Dir. 2002/20, nell’ordinanza Umbra Packaging (C-355/13, EU:C:2013:867). La Corte ha quindi riaffermato che l’art.8 della Dir. 1999/5 e le direttive reti vanno interpretate nel senso che non ostano a una normativa nazionale relativa all’applicazione di una tassa quale la TCG, in forza della quale l’impiego di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre, nel contesto di un contratto di abbonamento, è assoggettato a un’autorizzazione generale o a una licenza nonché al pagamento di detta tassa, in quanto il contratto di abbonamento sostituisce di per sé la licenza o l’autorizzazione generale e, pertanto, non occorre alcun intervento dell’amministrazione al riguardo. Quanto al secondo quesito pregiudiziale la Corte ha ritenuto che l’art. 20 della Dir. 2002/22 e l’art. 8 della Dir. 1999/5 vanno interpretati nel senso che non ostano, ai fini dell’applicazione di una tassa quale la TCG, all’equiparazione a un’autorizzazione generale o a una licenza di stazione radioelettrica di un contratto di abbonamento a un servizio di telefonia mobile, che deve peraltro precisare il tipo di apparato terminale di cui si tratta e l’omologazione di cui è stato oggetto. Rispetto al terzo quesito si è invece chiarito che il diritto dell’Unione, quale risulta dalla Dir. 1999/5, dalle direttive reti e dall’art. 20 della Carta, va interpretato nel senso che non osta a un trattamento differenziato degli utenti di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre, a seconda che essi sottoscrivano un contratto di abbonamento a servizi di telefonia mobile o acquistino tali servizi in forma di carte prepagate eventualmente ricaricabili, in base al quale solo i primi sono assoggettati a una normativa nazionale come quella che istituisce la TCG. PROCESSO PENALE REATI IN MATERIA DI IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO E PRESCRIZIONE Corte di Giustizia, Grande Camera, 8 settembre 2015, n. C-105/14 - Pres. Skouris- Avv. gen. Kokott- Taricco e altri Una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato - normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti, che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di IVA comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale - è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE. 1607 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi Il caso Il G.U.P. presso il Tribunale di Cuneo interroga la Corte di Giustizia sulla compatibilità del sistema interno in tema di prescrizione dei reati rimodulato dalla L. n.251/2005 - c.d. legge Cirielli - con una serie di previsioni contemplate nell’ordinamento UE. Nel procedimento penale pendente innanzi al giudice nazionale erano coinvolti taluni soggetti per i reati di frode fiscale IVA asseritamente commessi nell’ambito di un articolato meccanismo di frodi c.d. carosello. Il rimettente, operando una prognosi circa la durata dei processi che sarebbe seguita in base alla richiesta di rinvio a giudizio in relazione alla complessità di tali processi e ritenuto, dunque, che per molti dei soggetti coinvolti “…tutti i reati si prescriveranno, al più tardi, in data 8 febbraio 2018…con assoluta certezza” e che alcuni si erano già prescritti in forza della disciplina interna, chiede alla Corte di verificare se la normativa interna si pone in contrasto con diverse norme comunitarie- concorrenza, aiuti di stato, tutela delle finanze fiscali dell’UE, principio delle finanze sane-. Il giudice rimettente, dopo essersi interrogato sul problema della competenza della Corte di Giustizia a risolvere i quesiti pregiudiziali, muove dal presupposto che in ragione della stretta rete di rapporti che ormai legano l’Italia agli altri Paesi dell’Unione europea, i pregiudizi che la norma interna arreca agli altri Stati pone la stessa in contrasto con diverse norme comunitarie. L’ordinanza del giudice del rinvio si diffonde sul tema della prescrizione, evocando la Relazione del Procuratore generale della Corte di cassazione relativa all’anno 2013 ed operando una comparazione fra i diversi sistemi penali europei in punto di prescrizione ipotizzava che “…Disapplicando la norma qui impugnata si potrà garantire anche in Italia l’effettiva applicazione del diritto comunitario. Cesserà automaticamente la mitraglia delle eccezioni meramente dilatorie a cui i magistrati italiani sono ormai tristemente rassegnati. Tali astute manovre, infatti, non impediranno più di accertare le responsabilità degli imputati ed infliggere la meritata pena ai rei. La Corte di Giustizia gode di una grandissima opportunità: quella di attuare una svolta epocale in vista di un’applicazione sempre più efficace del diritto dell’Unione. D’altro canto, trascurare gli effetti di quel breve comma del codice penale equivarrebbe a trascurare la famigerata piccola crepa che fece crollare la diga gigantesca…”. Il remittente ha quindi chiesto alla Corte di chiarire se tali norme consentano (ed in quali limiti) oppure no ad uno Stato di mantenere una norma che consenta di prosciogliere dei rei nonostante l’azione penale sia stata tempestivamente esercitata, formulando i seguenti quesiti pregiudiziali: “1) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano - nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, consentendo la prescrizione dei reati nonostante il tempestivo esercizio dell’azione penale, con conseguente impunità sia stata infranta la norma a tutela della concorrenza contenuta nell’art. 101 del TFUE; 2) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano - nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, privando di conseguenze penali i reati commessi da operatori economici senza scrupoli - lo Stato italiano abbia introdotto una forma di aiuto vietata dall’art. 107 del TFUE; 1608 3) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano - nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, creando un’ipotesi di impunità per coloro che strumentalizzano la direttiva comunitaria - lo Stato italiano abbia indebitamente aggiunto un’esenzione ulteriore rispetto a quelle tassativamente contemplate dall’articolo 158 della direttiva 2006/112/CE; 4) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano - nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, rinunciando a punire condotte che privano lo Stato delle risorse necessarie anche a far fronte agli obblighi verso l’Unione europea, sia stato violato il principio di finanze sane fissato dall’art. 119 del TFUE”. La decisione La Corte ritiene anzitutto ricevibile la domanda pregiudiziale in quanto le indicazioni contenute nell’ordinanza di rinvio consentono alla Corte di formulare risposte utili per il giudice del rinvio. Peraltro, le questioni portate all’esame della Corte vertevano sull’interpretazione di varie disposizioni del diritto dell’Unione che il giudice del rinvio considera determinanti per la futura decisione concernente il rinvio a giudizio degli imputati. Esaminando con priorità la terza questione la Corte ritiene che la normativa nazionale indicata dal rimettente si risolva in un ostacolo all’efficace lotta contro la frode in materia di IVA nello Stato membro interessato, in modo incompatibile con il diritto UE. La Corte evidenzia la centralità del sistema volto al contrasto delle frodi fiscali in danno dell’UE, destinataria del gettito fiscale derivante dalla riscossione dell’IVA, esso mirando a tutelare gli interessi finanziari dell’Unione conformemente alle disposizioni della Dir. 2006/112 e all’art. 325 TFUE. Ferma l’autonomia dei singoli Stati nell’adozione delle misure concrete volte a salvaguardare tale interesse fondamentale, la Corte osserva però che gli Stati membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie affinché le condotte che integrano una frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno nei casi di frode grave, pene privative della libertà. Ne consegue che il giudice nazionale è tenuto a verificare, alla luce di tutte le circostanze di diritto e di fatto rilevanti, se le disposizioni nazionali applicabili consentano di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo i casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Le disposizioni nazionali di cui trattasi, introducendo una regola in base alla quale, in caso di interruzione della prescrizione per una delle cause menzionate all’art. 160 c.p., il termine di prescrizione non può essere in alcun caso prolungato di oltre un quarto della sua durata iniziale, hanno per conseguenza, date la complessità e la lunghezza dei procedimenti penali che conducono all’adozione di una sentenza definitiva, di neutralizzare l’effetto temporale di una causa di interruzione della prescrizione. Se il giudice a quo dovesse accertare che dall’applicazione delle disposizioni nazionali in materia di interruzione della prescrizione consegue, in un numero considerevole di casi, l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave, perché tali fatti risulteranno generalmente prescritti prima che la sanzione penale prevista dalla legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva, si dovrebbe constatare che le misure previste dal diritto na- il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi zionale per combattere contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione non possono essere considerate effettive e dissuasive, vulnerando gli artt. 325, par. 1, TFUE, 2, par. 1, della Convenzione PIF nonché la Dir. 2006/112, in combinato disposto con l’art. 4, par. 3, TUE. Secondo la Corte, inoltre, il giudice rimettente dovrà verificare se le disposizioni nazionali si applichino ai casi di frode in materia di IVA allo stesso modo che ai casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana, come richiesto dall’art. 325, par. 2, TFUE. Ciò non avverrebbe, in particolare, se l’art. 161, secondo comma, c.p. stabilisse termini di prescrizione più lunghi per fatti, di natura e gravità comparabili, che ledano gli interessi finanziari della Repubblica italiana. Ove il rimettente dovesse giungere alla conclusione che il quadro normativo interno non soddisfa gli obblighi del diritto dell’Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all’IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, tali disposizioni senza necessità di attendere la previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. Quanto agli effetti della disapplicazione sulle posizioni processuali dei soggetti coinvolti nel procedimento penale, la Corte osserva che in forza del principio del primato del diritto dell’Unione, le disposizioni dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE hanno l’effetto, nei loro rapporti con il diritto interno degli Stati membri, di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente. E poiché in caso di disapplicazione della normativa interna detti soggetti potrebbero vedersi infliggere sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggiti in caso di applicazione delle suddette disposizioni di diritto nazionale, il giudice nazionale dovrà assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati. Secondo la Corte la disapplicazione delle disposizioni nazionali avrebbe soltanto per effetto di non abbreviare il termine di prescrizione generale nell’ambito di un procedimento penale pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei fatti incriminati nonché di assicurare, all’occorrenza, la parità di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica italiana. Una disapplicazione del diritto nazionale siffatta non violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali. L’effetto di tale disapplicazione non sarebbe, dunque, una condanna degli imputati per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva un reato punito dal diritto nazionale, né l’applicazione di una sanzione che, allo stesso momento, non era prevista da tale diritto. Al contrario, i fatti contestati agli imputati integravano, alla data della loro commissione, gli stessi reati ed erano passibili delle stesse sanzioni penali attualmente previste. Ciò che sarebbe in linea con la protezione offerta dalla Cedu, secondo la quale la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’art. 7 della suddetta Convenzione, dato che tale disposizione non può essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti. Quanto alle restanti questioni la Corte ha ritenuto che un regime della prescrizione applicabile a reati commessi in materia di imposta sul valore aggiunto, come quello previsto dal combinato disposto dell’art. 160, ultimo comma, il Corriere giuridico 12/2015 c.p., come modificato dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’art. 161 di tale codice, non può essere valutato alla luce degli artt. 101 TFUE, 107 TFUE e 119 TFUE. I precedenti Corte di Giustizia nn. C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e a EU:C:2005:270, punto 72 e giurisprudenza ivi citata, nonché Kücükdeveci, n. C-555/07, EU:C:2010:21, punto 51 e giurisprudenza ivi citata. Corte di Giustizia n. C-606/10, ANAFE, EU:C:2012:34 e giurisprudenza ivi citata; Corte di Giustizia n. C-457/02, Niselli, EU:C:2004:707. AIUTI DI STATO RESTITUZIONE DI AIUTI FISCALI INDEBITAMENTE CORRISPOSTI Corte di Giustizia, Sez. V, 3 settembre 2015, n. C-89/14 - Pres. Vajda - Avv. gen. Wathelet A2A S.p.a. c. Agenzia delle Entrate L’art. 14 del Reg. (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell’art. 93 del trattato CE, nonché gli artt. 11 e 13 del Reg. (CE) n. 794/2004 della Commissione, del 21 aprile 2004, recante disposizioni di esecuzione del Reg. n. 659/1999, non ostano a una normativa nazionale, come l’art. 24, comma 4, D.L. 29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e imprese e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale, convertito, con modificazioni, nella L. del 28 gennaio 2009, n. 2, che preveda, tramite un rinvio al Reg. n. 794/2004, l’applicazione di interessi composti al recupero di un aiuto di Stato, sebbene la decisione che ha dichiarato detto aiuto incompatibile con il mercato comune e ne ha disposto il recupero sia stata adottata e notificata allo Stato membro interessato anteriormente all’entrata in vigore di detto regolamento. Il caso Due società che operavano nel settore della distribuzione dell’acqua, dei trasporti e del gas ricevano alcune agevolazioni fiscali in tema di tassa sulle società dei prestiti contratti. La Commissione europea, con decisione assunta il 5 giugno 2002 (2003/193), dichiarava che le agevolazioni in tema di tassa sulle società riconosciute per un triennio integravano degli aiuti di stato indebitamente concessi, ordinando all’Italia di recuperare le somme indebitamente corrisposte. In tale contesto veniva altresì precisato che l’aiuto da recuperare comprendeva gli interessi decorrenti dalla data in cui l’aiuto era divenuto disponibile per il beneficiario fino alla data dell’effettivo recupero. Veniva altresì previsto che gli interessi andavano calcolati sulla base del tasso di riferimento utilizzato per il calcolo dell’equivalente sovvenzione nel quadro degli aiuti a finalità regionale. Le società coinvolte impugnavano la decisione innanzi al tribunale dell’Unione che, con decisioni assunta nell’anno 2009 - 11 giugno 2009, nelle cause Confservizi c. Commissione (T-292/02), ACEA c. Commissione (T-297/02), AMGA c. Commissione (T-300/02), AEM c. Commissione (T301/02), Acegas c. Commissione (T-309/02), ASM Brescia c. Commissione (T-189/03) e Italia c. Commissione (T-222/04)respingeva il ricorso. Successivamente (anno 2009), l’ufficio fiscale notificava alle società due avvisi di accertamen- 1609 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi to relativi al recupero degli importi indebitamente corrisposti unitamente agli interessi, calcolati in modo composto. Il contenzioso, promosso da una società che aveva assorbito due sodalizi operanti nel mercato dell’acqua e del gas sul computo degli interessi pretesi dall’Agenzia delle entrate, approda innanzi alla Corte di Cassazione che solleva un rinvio pregiudiziale proponendo al giudice europeo il seguente quesito: “Se l’articolo 14 del regolamento (n. 659/1999) e gli artt. 9, 11 e 13 del regolamento (n. 794/2004) devono essere interpretati nel senso che ostano ad una legislazione nazionale che, in relazione ad un’azione di recupero di un aiuto di Stato conseguente ad una decisione della Commissione notificata in data 7 giugno 2002, stabilisca che gli interessi sono determinati in base alle disposizioni del capo V del citato regolamento n. 794/2004 (cioè, in particolare, agli articoli 9 e 11), e, quindi, con applicazione del tasso di interesse in base al regime degli interessi composti”. La decisione La Corte è stata chiamata a chiarire la disciplina normativa applicabile alla fattispecie rispetto alla misura degli interessi pretesi dall’ufficio fiscale in tema di restituzione di aiuti fiscali indebitamente corrisposti. Il giudice europeo, per un verso, precisa che prima dell’adozione del Reg. n. 794/2004 della Commissione, del 21 aprile 2004, recante disposizioni di esecuzione del Reg. n. 659/1999, la disciplina in tema di interessi correlati alla restituzione di somme corrisposte in base ad aiuti di stato ritenuti illegittimi spettava ai singoli Stati. Ciò perché all’epoca in cui la Commissione ha ordinato il recupero degli aiuti (2002), il diritto dell’Unione non conteneva alcuna disposizione relativa agli interessi sulle somme da restituire e sulla natura semplice o composta degli stessi. La Commissione, soltanto nella comunicazione sui tassi d’interesse da applicarsi in caso di recupero di aiuti illegali, pubblicata l’8 maggio 2003 - successiva alla decisione di recupero 2003/193 dell’aiuto indebitamente ammesso dall’Italia - ebbe ad annunciare espressamente che in tutte le decisioni future per disporre il recupero di aiuti illegittimi avrebbe applicato un tasso d’interesse composto (sentenza, n. C-295/07 P, Commissione c. Département du Loiret EU:C:2008:707, punto 46) e che si aspettava che gli Stati membri avrebbero applicato interessi composti all’atto dell’esecuzione di ogni decisione di recupero. Ora, nel caso concreto il giudice di Lussemburgo premette che pur avendo il giudice rimettente indicato diverse norme di diritto interno applicabili alla fattispecie - art. 24, comma 4, D.L. n. 185/2008, art. 1 del D.L. n. 10/2007 e art. 19 del D.L. del 25 settembre 2009, n. 135 - dovrebbe ritenersi applicabile, salva verifica finale del giudice nazionale, l’art. 24, comma 4. Ora, la Corte osserva che il Reg. CEE n. 794/2004, pur prevedendo il computo degli interessi su base composta - art. 11 del Reg. n. 794/2004, par. 2: “Il tasso di interesse è applicato secondo il regime dell’interesse composto fino alla data di recupero dell’aiuto. Gli interessi maturati l’anno precedente producono interessi in ciascuno degli anni successivi” -, era applicabile solo alle decisioni di recupero notificate dopo la data di entrata in vigore di quest’ultimo, quindi dopo il 20 maggio 2004. La Corte prende atto, però, dell’interpretazione della disciplina interna offerta dal giudice del rinvio, secondo la quale l’art. 24, comma 4, D.L. n. 185/2008, rinvia unicamente al Capo V del Reg. n. 794/2004, e non al Capo VI del medesimo - al cui interno si colloca la disposizione transitoria dell’art. 13 (entrata in vi- 1610 gore venti giorni dopo la pubblicazione sulla GUCE della normativa europea) -. Tale interpretazione non può essere considerata contraria all’art. 13 del Reg. n. 794/2004. Se, infatti, detta disposizione determina, al primo comma, la data di entrata in vigore del citato regolamento e precisa, al quinto comma, che l’art. 11, par. 2, di quest’ultimo, relativo al calcolo degli interessi su base composta, è unicamente applicabile alle decisioni di recupero notificate dopo la data di entrata in vigore di questo stesso regolamento, la stessa non può impedire ai singoli Stati di adottare, all’interno della propria discrezionalità- comunque soggetta al rispetto dei principi generali nascenti dai Trattati- di legiferare in un senso anziché in un altro. L’art. 13 del Reg. n. 794/2004 non introduce, dunque, una norma di irretroattività applicabile alle normative nazionali prima dell’entrata in vigore del Reg. n. 794/2004. Peraltro, fra i ricordati principi generali del diritto UE, non risultano vulnerati dalla disciplina nazionale né il principio di certezza del diritto, né quello di tutela del legittimo affidamento. Quanto al primo, infatti, il generale principio di irretroattività impone di applicare la nuova legge anche agli effetti futuri di situazioni sorte in vigenza della vecchia legge (v., in tal senso, sent. 22 dicembre 2010, n. C-120/08, Bavaria, EU:C:2010:798, punti 40 e 41 e giurisprudenza ivi citata). Quanto al principio dell’affidamento, lo stesso non può essere esteso fino ad impedire che una nuova disciplina si applichi agli effetti futuri di situazioni sorte sotto l’impero della disciplina anteriore (sentenza, C-226/08, Stadt Papenburg EU:C:2010:10, punto 46 e giurisprudenza ivi citata). Nel caso di specie, occorre ricordare che l’applicazione di interessi composti è stata introdotta dalla normativa nazionale- adottata fra il 2007 ed il 2009 - e che prima di tali innovazioni vigeva l’art. 1282 c.c. in tema di interessi semplici. Orbene, poiché l’applicazione di interessi composti al recupero di aiuti dichiarati incompatibili con il mercato comune dalla decisione 2003/193 risale al D.L. n. 185/2008, la stessa secondo la Corte europea non ha alcun effetto retroattivo, limitandosi ad applicare una normativa nuova agli effetti futuri di situazioni sorte sotto l’impero della disciplina anteriore. Detto quadro normativo, efficace a far data dalla pubblicazione sulla G.U.R.I. del 29 novembre 2008, non è entrato in vigore anteriormente alla data della sua pubblicazione, posto che il recupero dell’aiuto si è avuto in epoca successiva con l’adozione dell’avviso di rettifica adottato successivamente(anno 2009). La Corte non manca di spiegare, in relazione al notevole scarto fra la decisione di recupero del 5 giugno 2002 e l’emissione, nel corso dell’anno 2009, di un avviso di imposta, che l’applicazione di interessi composti costituisce uno strumento appropriato per neutralizzare il vantaggio concorrenziale conferito illegittimamente alle imprese beneficiarie di detto aiuto di Stato. Quanto infine alla postulata contrarietà del D.L. n. 185/2008 con il principio della parità di trattamento, tale questione non era stata oggetto di rinvio da parte del giudice nazionale, né la Corte disponeva di elementi idonei a verificare se la società contribuente tentava di avvalersi di una prassi decisionale nazionale che potesse disattendere il principio di legalità dovendosi, in linea generale, ritenere che il principio di parità di trattamento deve conciliarsi con il rispetto della legalità, secondo cui nessuno può invocare, a proprio vantaggio, un illecito commesso a favore di altri (sentenza C-259/10 e C-260/10, The Rank Group, EU:C:2011:719, punto 62 e giurisprudenza ivi citata). il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi Osservatorio - Cassazione Sezioni Unite a cura di Vincenzo Carbone PUBBLICA AMMINISTRAZIONE DANNO ERARIALE Cassazione Civile, SS.UU., 20 ottobre 2015, n. 21217 Pres, Rovelli - Rel. Spirito - P.M. Pratis (conf.) - T. M. e altri c. Proc. Gen. Presso la Corte dei conti È legittima l’azione per danno erariale richiesta dal P.M. contabile nei confronti di amministratori comunali per verificare il rapporto tra obbiettivi conseguiti e costi sostenuti e nel caso di specie sussiste la giurisdizione del g.o. o del giudice contabile? ► Risposta affermativa al primo quesito. Sussiste poi la giurisdizione del giudice contabile. Il caso La sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Lazio condannava Tizio e altri - quali sindaco e componenti della giunta di un Comune - al risarcimento dei danni in favore del comune. Li riteneva responsabili della diseconomica attività di ricapitalizzazione del centro energetico Viterbo-Cev, nonché dell’affidamento diretto, senza procedura di gara ad evidenza pubblica, dei servizi pubblici locali e del conseguente danno consistente nella differenza tra il compenso pattuito ed erogato dal comune e il prezzo più basso che la società CEV aveva concordato, poi, con un subappaltatore. In accoglimento parziale dei gravami proposti dei ricorrenti, la Corte dei conti riduceva l’ammontare del risarcimento, motivando che la prospettazione della domanda, da parte della Procura contabile, identificativa del petitum sostanziale, radicava la giurisdizione della Corte dei conti, dal momento che in essa era chiaramente allegato il danno direttamente subito dal Comune. Avverso la sentenza proponevano distinti ricorsi per cassazione, deducendo il difetto assoluto di giurisdizione della Corte dei conti in favore dell’autorità giudiziaria ordinaria. La decisione Si sostiene che la Corte dei conti, sul presupposto erroneo che la CEV fosse una società in house, avrebbe applicato il principio - più volte espresso nella giurisprudenza di legittimità - secondo cui spetta ad essa la giurisdizione sull’azione di responsabilità, esercitata dalla Procura contabile, volta al ristoro del danno arrecato dagli organi sociali al patrimonio di una società in house, tale dovendosi intendere quella costituita per l’esercizio di pubblici servizi, esclusivamente da enti territoriali, che presti la propria attività prevalentemente in favore della P.A. e, con gestione soggetta ad un controllo analogo a quello esercitato da quest’ultima sui propri uffici. I ricorrenti contestano che la CEV possa essere qualificata come società in house providing, in carenza del requisito il Corriere giuridico 12/2015 essenziale del controllo analogo esercitato dalla P.A. sulla gestione societaria. La sentenza impugnata, secondo la Cassazione, è chiarissima nello statuire che la prospettazione attrice del petitum sostanziale in sede di edictio actionis, radicava la giurisdizione contabile, identificando come oggetto de risarcimento preteso il pregiudizio direttamente subito dal comune in conseguenza dell’adozione di delibere di erogazione di somme ingenti a titolo di conferimento in una società che non era più in grado di garantire la continuità aziendale; e non la loro utilizzazione successiva, da parte degli organi sociali, distrattiva dallo scopo prefigurato di risanamento delle perdite che avevano inciso il capitale: ciò che avrebbe configurato, in ipotesi, solo un danno indiretto per la P.A. La statuizione, sul punto, si conclude con il rilievo perentorio che la Procura contabile neppure si era posta il problema dell’eventuale danno alla società, restando aderente alla propria sfera di giurisdizione, mediante contestazione di condotte poste in essere in danno del comune da soggetti ad esso legati da rapporti di servizio. Vengono quindi a cadere, come irrilevanti, tutte le allegazioni sull’inesistenza del controllo analogo, in forza di clausola statutaria che prevedeva la possibilità di cedere a terzi le azioni della Cev. La Corte dei conti, nella sua qualità di giudice contabile, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell’ente pubblico. Se, da un lato, l’esercizio in concreto del potere discrezionale dei pubblici amministratori costituisce espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato della Corte dei conti, dall’altro, l’art. 1, comma 1, L. 7 agosto 1990, n. 241 stabilisce che l’esercizio dell’attività amministrativa deve ispirarsi a criteri di economicità e di efficacia, che costituiscono specificazione del più generale principio sancito dall’art. 97 Cost. ed assumono rilevanza sul piano della legittimità (e non della mera opportunità) dell’azione amministrativa. Pertanto, la verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obbiettivi conseguiti e i costi sostenuti. I precedenti Sulle società in house: Cass., SS.UU., 25 novembre 2013, n. 26283; Cass., SS.UU., 10 marzo 2014, n. 5491; Cass., SS.UU., 26 marzo 2014, n. 7177. Sui poteri della Corte dei conti di valutare la compatibilità tra scelte amministrative e fini dell’ente pubblico: Cass., SS.UU., 9 luglio 2008, n. 18757; Cass., SS.UU., 28 marzo 2006, n. 7024; Cass., SS.UU., 29 settembre 2003, n. 14488. La dottrina D’Auria, Corte dei conti, controllo successivo sulla gestione e conflitti di attribuzione fra poteri dello stato, in Foro it. 2001, I, 436; Lupò Avagliano, Pieni poteri alla corte dei conti per il controllo della spesa pubblica?, in Giur. cost., 1995, 1779. 1611 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi PROCESSO AMMINISTRATIVO RICORSO STRAORDINARIO AL CAPO DELLO STATO Cassazione Civile, SS.UU., 5 ottobre 2015, n. 19786 Pres. Cicala - Rel. Curzio - P.M. Apice (conf.) - R.S. c. Ministero dell’Interno - Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative Antiracket ed Antiusura e altri Contro le decisioni del Consiglio di Stato è ammissibile il ricorso per Cassazione sia se è invasa la competenza del legislatore o la discrezionalità amministrativa, sia se è negata la giurisdizione sull’erroneo presupposto che la domanda non è oggetto di funzione giurisdizionale? ► Risposta affermativa. Il caso Tizio e la Garaventa S.r.l. presentarono istanze al Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket ed usura, volte ad ottenere la concessione di benefici ai sensi della L. n. 108 del 1996 (“Disposizioni in materia di usura”). Il Commissario straordinario le respinse. Tizio e la società proposero ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Il Consiglio di Stato espresse il suo parere nel senso che il ricorso dovesse essere rigettato. Esaminata la normativa di riferimento e udito il parere del Consiglio di Stato il Presidente della Repubblica respinse il ricorso. La decisione Secondo la Cassazione il corretto inquadramento della materia impone di distinguere due problemi: quello della ammissibilità in astratto di un ricorso per cassazione contro il provvedimento con il quale il Presidente della Repubblica decide in caso di ricorso straordinario e quello dei limiti di tale impugnazione. Il punto di orientamento per la soluzione del primo problema è costituito dall’art. 111 Cost., il quale statuisce che “contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinali o speciali, è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge” (comma 7), mentre al comma 8, precisa: “contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso per cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”. Per stabilire se sia ammissibile il ricorso per cassazione contro il decreto del Presidente della Repubblica che decide sul ricorso straordinario al Capo dello Stato è necessario accertare se quel decreto sia un atto amministrativo o un atto giurisdizionale. La questione, estremamente controversa, sino a pochi anni fa veniva risolta affermando che si tratta di un provvedimento amministrativo. Il quadro normativo di riferimento è cambiato all’inizio del nuovo millennio e ciò ha determinato un ripensamento che si è espresso nelle sentenze delle sezioni unite. Le più rilevanti modifiche normative che hanno inciso sui connotati dell’istituto possono essere così schematizzate. L’ art. 3, comma 4, L. 21 luglio 2000, n. 205, ha previsto la tutela cautelare per gravi ed irreparabili danni derivanti dall’esecuzione dell’atto impugnato con ricorso straordinario, mediante sospensione disposta con atto motivato del mini- 1612 stero competente su parere conforme del Consiglio di Stato. La previsione è inserita in una legge sulla giustizia amministrativa (“Disposizioni in materia di giustizia amministrativa”) e specificamente in un articolo intitolato “disposizioni generali sul processo cautelare”, il che è chiaro indice della scelta legislativa di considerare il ricorso straordinario un’articolazione della giustizia amministrativa. Nella stessa logica, l’art. 15, della medesima legge ha previsto che i pareri del Consiglio di Stato sono pubblici e recano l’indicazione del presidente del collegio e dell’estensore, avvicinando così i pareri alle sentenze. L’ art. 69, L. 18 giugno 2009, n. 69, che ha riformato sotto molteplici profili il sistema della giustizia civile, è specificamente dedicato al ricorso straordinario che, nel titolo dell’articolo, viene qualificato rimedio “giustiziale” contro la Pubblica amministrazione. Due sono i cambiamenti di rilievo sistematico introdotti dalla normativa del 2009. Il parere del Consiglio di Stato diviene vincolante, perché il decreto del Presidente della Repubblica deve essere adottato su proposta del Ministro competente “conforme” al parere del Consiglio di Stato, mentre in precedenza era possibile una decisione in senso difforme rispetto al parere, previa delibera del Consiglio dei Ministri. Inoltre, è stata espressamente prevista la possibilità per il Consiglio di Stato di sollevare, in occasione dell’espressione del suo parere, questione di legittimità costituzionale della normativa da applicare. Secondo un giudizio ormai largamente condiviso e consolidato queste due modifiche hanno rimosso gli ostacoli più consistenti all’affermazione della natura giurisdizionale dell’atto. Il codice del processo amministrativo (D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104) in più disposizioni si occupa del ricorso straordinario. L’art. 7 del c.p.a. definisce il perimetro delle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa ed, all’ultimo comma, precisa che il ricorso straordinario è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa. In questo modo il codice riduce l’ambito di applicazione dell’istituto, escludendo ogni possibilità di intervento in sfere di competenza della giurisdizione ordinaria. Sempre nella medesima logica restrittiva, l’art. 120, comma 1, c.p.a., esclude l’esperibilità avverso gli atti delle procedure di affidamento relative a pubblici lavori servizi o forniture, nonché i connessi provvedimenti dell’Autorità sulla vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi, forniture; così come l’art. 128, ne esclude l’esperibilità in materia di contenzioso delle operazioni elettorali. L’inserimento della disciplina sull’ambito di applicazione del ricorso straordinario all’interno di una norma intitolata “giurisdizione amministrativa” è ulteriore indice dell’attrazione dell’istituto nell’area della giurisdizione. Il contenuto della norma poi conferma che, nel nuovo assetto delineato dal codice, i due procedimenti, ordinario e straordinario, costituiscono articolazioni, diverse ed alternative, ma interne al sistema della giurisdizione amministrativa. Un’ulteriore conferma della natura giurisdizionale si ha nell’art. 48 del c.p.a. in cui si stabilisce che “qualora la parte nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario proponga opposizione, il giudizio segue dinanzi al tribunale amministrativo regionale”. In quel “il giudizio segue” vi è un segno preciso della omogeneità dei due diversi procedimenti sotto il profilo della natura giurisdizionale del sistema di cui costituiscono articolazione. Simmetrica riflessione scaturisce dal comma 3, del medesimo articolo, per il qua- il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi le qualora l’opposizione sia inammissibile, il T.A.R. dispone la restituzione del fascicolo “per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria”. Acquista poi rilievo il nuovo assetto del giudizio di ottemperanza delineato dal codice del processo amministrativo agli artt. 112 e 113. La ricostruzione più lineare del sistema è nel senso che la decisione adottata in sede di ricorso straordinario trova la sua collocazione sistematica nell’ambito dell’art. 112, comma 2, lett. b), c.p.a., e quindi il ricorso per l’ottemperanza si deve proporre, ai sensi dell’art. 113, comma 1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica “il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta”. Nelle decisioni che si sono espresse in tal senso si è sottolineato come “il petitum proposto in sede di ricorso straordinario sia perfettamente equiparabile (e produca lo stesso effetto) ad una domanda giudiziale”. Su questa soluzione concorda l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen. n. 9 e n. 10 del 2013), che, componendo un contrasto, ha scelto la tesi che afferma la natura “sostanzialmente giurisdizionale del rimedio e dell’atto terminale della relativa procedura”, aggiungendo che non ostano a tale riconoscimento le persistenti peculiarità che il rimedio presenta rispetto all’ordinario processo amministrativo, con riferimento al perimetro delle azioni esperibili, alle forme di esplicazione del contraddittorio, alle modalità di svolgimento dell’istruttoria e al novero dei mezzi di prova acquisibili. In conclusione, il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è “un procedimento di natura giurisdizionale, con una marcata connotazione di specialità” (Cass., SS.UU., 10414 del 2014), connotazione che però, lungi dall’implicare il riconoscimento della natura amministrativa della procedura e dell’atto che la definisce, risulta coerente con la volontà di enucleare un rimedio giurisdizionale semplificato, in unico grado, imperniato su sostanziale assenso delle parti. I precedenti Cass., SS.UU., 28 gennaio 2011, n. 2065, 19 dicembre 2012, n. 23464 e 14 maggio 2014, n. 10414. La dottrina Sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, Caringella-Protto, Codice del processo amministrativo, sub art. 7, IV ed., Roma, 2015; Morelli, Il ricorso straordinario al presidente della repubblica, Padova, 2010; Gotti, L’adunanza plenaria si pronuncia sulla natura giuridica del ricorso straordinario al Capo dello Stato e sul giudice competente per l’ottemperanza alla decisione presidenziale di accoglimento, in Foro amm., 2014, 11. ► Ne consegue il suo difetto di giurisdizione, avendo denunciato una responsabilità da inadempimento ex lege quale la violazione del dovere di correttezza. Il caso Tizio e Caio, premesso di essere stati contattati dalla società NHS (oggi IMI investimenti S.p.a.) ai fine di procedere ad investimenti in un fondo olandese, convennero la società e la S.p.a. Intesa S. Paolo dinanzi al Tribunale di Torino, chiedendo la declaratoria di nullità del negozio di investimento e la condanna delle convenute alla restituzione delle somme versate per violazione delle norme dettate in subiecta materia e per la violazione dell’obbligo di corretta informazione. Il giudice di primo grado declinò la propria giurisdizione in favore di quella olandese, con sentenza confermata dalla Corte di appello, che rilevò, nella specie, l’esistenza di un accordo originario (c.d. PIA) secondo il quale ogni controversia insorta tra le parti sarebbe stata devoluta alla giurisdizione esclusiva dei Paesi Bassi, e che tutti i successivi atti di adesione sottoscritti singolarmente richiamavano espressamente tale previsione quoad iurisdictionis. La decisione Secondo la Cassazione il motivo con il quale si lamenta la erroneità della pronuncia impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il contenuto della clausola di proroga della giurisdizione fosse tale da ricomprendere anche la responsabilità extracontrattuale non ha giuridico fondamento. Con apprezzamento di fatto scevro da vizi logico-giuridici, la Corte torinese ha ritenuto, sul piano interpretativo, che l’ampiezza della clausola di proroga della giurisdizione fosse tale da estendersi a qualsivoglia fattispecie di responsabilità, tanto contrattuale quanto precontrattuale, e cioè tanto nell’ipotesi in cui l’accordo negoziale avesse costituito, in futuro, il fondamento dell’azione giudiziaria, quanto in quella in cui l’accordo stesso fosse risultato la occasione fattuale per l’esercizio di un’azione giudiziaria dovuta al comportamenti di correttezza e buona fede. I precedenti Cass., Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636; Cass., SS.UU., 6 marzo 2015, n. 4628; Cass., Sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260; Cass., Sez. III, 13 febbraio 2013, n. 3579. La dottrina Franzoni, La responsabilità precontrattuale è, dunque, ... “contrattuale”?, in Contr. e impr., 2013, 283; F. Forte - M.S. Forte, Regole di correttezza e buona fede durante le trattative: natura della responsabilità precontrattuale, in questa Rivista, 2013, suppl. al n. 11, gli Speciali, 5; Carbone, Obbligazioni ex lege e responsabilità da inadempimento, in questa Rivista, 2014, 2, 169. GIURISDIZIONE NULLITÀ DEL NEGOZIO DI INVESTIMENTO Cassazione Civile, SS.UU., 5 ottobre 2015, n. 19783 Pres. Rovelli - Rel. Travaglino - P.M. Salvato (diff.) - V.G. e Z.G. c. IMI investimenti S.p.a. Quali sono le conseguenze se il giudice italiano ha ritenuto, con apprezzamento di fatto scevro da vizi logicogiuridici, che la clausola di proroga della giurisdizione dei Paesi Bassi si estenda a qualsiasi tipo di responsabilità da inadempimento, sia ex contractu, sia ex lege? il Corriere giuridico 12/2015 NOTIFICAZIONE IMPUGNABILITÀ DELLA CARTELLA ESATTORIALE Cassazione Civile, SS.UU., 2 ottobre 2015, n. 19704 Pres, Rovelli - Rel. Di Iasi - P.M. Apice (diff.) Rigante G. S.a.s. c. Equitalia E.TR. S.p.a. Il contribuente può, ai sensi dell’art. 19, comma 3, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, impugnare una cartella di pagamento invalidamente notificata e conosciuta tra- 1613 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi mite l’estratto del ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario? ► Risposta affermativa. Il caso La società Rigante G. S.a.s. impugnò dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Bari la cartella di pagamento emessa da Equitalia E.TR. S.p.a. per IVA, sanzioni e interessi in relazione all’anno 2003, deducendo che tale cartella le era rimasta assolutamente sconosciuta ed assumendo di essere venuta a conoscenza della relativa obbligazione tributaria soltanto dall’estratto di ruolo rilasciato, su sua richiesta, dalla competente concessionaria della riscossione. La Commissione Tributaria provinciale di Bari, ritenuto che solo formalmente l’atto opposto era la cartella, mentre in realtà l’opposizione riguardava l’estratto di ruolo, ne dichiarò l’inammissibilità essendo l’estratto di ruolo “atto interno dell’Agente della riscossione”, non rientrante tra quelli tassativamente indicati dall’art. 19, comma 1, D.Lgs. n. 546 del 1992, “. La Commissione Tributaria Regionale della Puglia ha confermato la decisione. In particolare i giudici d’appello, premesso che nell’atto introduttivo era stata impugnata la cartella in questione per omessa notifica, escludevano che la richiesta al concessionario di copia dell’estratto di ruolo potesse comportare la riapertura dei termini per impugnare una cartella non tempestivamente opposta, ancorché per asserito difetto di notifica, e conseguentemente escludevano che potesse essere “oggetto di discussione” la suddetta cartella in quanto non ritualmente opposta. I giudici ribadivano inoltre l’inammissibilità della opposizione anche ove ritenuta diretta avverso l’estratto di ruolo, rilevando che esso, oltre ad essere atto non previsto nel novero di quelli impugnabili ai sensi dell’art. 19, difetta del requisito della “coattività della prestazione tributaria ivi espressa” e quindi della idoneità a costituire provocatio ad opponendum, senza che sia per ciò solo configurabile violazione del diritto di difesa del contribuente, restando salva la possibilità di denunciare l’inesistenza della notifica della cartella in sede di gravame avverso eventuali e specifici atti realizzativi del credito fiscale. La decisione La Cassazione fa chiarezza sul significato da attribuire a termini come “ruolo” ed “estratto di ruolo”. Il “ruolo” è l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute, formato dall’ufficio ai fini della riscossione a mezzo del concessionario”. Il “ruolo” è un atto amministrativo impositivo proprio ed esclusivo dell’”ufficio competente” quindi “atto” che, siccome espressamente previsto e regolamentato da norme legislative primarie, deve ritenersi tipico sia quanto alla forma che quanto al contenuto sostanziale. In quanto titolo esecutivo, il ruolo sottoscritto dal capo dell’ufficio viene consegnato “al concessionario dell’ambito territoriale cui esso si riferisce”; esso pertanto non solo è atto proprio ed esclusivo dell’ente impositore ma, nella progressione tra imposizione e riscossione, precede ogni attività del concessionario, della quale costituisce presupposto indefettibile. Il concessionario della riscossione redige “in conformità al modello approvato” “la cartella di pagamento” e provvede alla “notificazione della cartella di pagamento” al debitore. L’art. 19, D.Lgs. n. 546 del 1992, elenca tra gli “atti impugnabili” “il ruolo e la cartella di pagamento”, mentre l’art. 1614 21, comma 1, dispone che “la notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo”. L’“estratto di ruolo” non è invece specificamente previsto da nessuna disposizione di legge vigente. Consegnato solo su richiesta del debitore, costituisce un “elaborato informatico formato dall’esattore sostanzialmente contenente gli elementi della cartella”, quindi anche gli “elementi” del ruolo afferente quella cartella. Emerge così la differenza sostanziale tra “ruolo” ed “estratto di ruolo”: il “ruolo” è un “provvedimento” proprio dell’ente impositore; l’”estratto di ruolo”, invece, è solo un “documento” formato dai concessionario della riscossione, che non contiene nessuna pretesa impositiva, diretta o indiretta. Occorre affrontare la questione della ammissibilità della impugnazione della cartella invalidamente notificata e conosciuta attraverso l’estratto di ruolo. I giudici d’appello hanno escluso l’ammissibilità dell’impugnazione della cartella di pagamento sul rilievo che la richiesta al concessionario di copia dell’estratto di ruolo non può comportare la riapertura dei termini per impugnare una cartella non tempestivamente opposta. L’affermazione non è condivisibile perché il contribuente deve poter far valere l’invalidità della notifica di una cartella della quale sia venuto a conoscenza oltre i previsti termini di impugnazione. La giurisprudenza ammettendo l’autonoma ed immediata impugnabilità di qualsivoglia atto che porti comunque legittimamente a conoscenza del contribuente una pretesa tributaria supera la questione della natura recettizia dell’atto amministrativo e della sua impugnabilità solo a seguito della notifica al contribuente. Tanto premesso, occorre rilevare che dopo la riforma del 2005 (L. n. 15/2005) trova espressa legittimazione il criterio c.d. “della qualità degli effetti”, secondo cui sono recettizi i provvedimenti “limitativi della sfera giuridica dei privati”. Gli atti tributari sono invece da sempre considerati atti recettizi. In tali atti pertanto le misure di partecipazione sono elementi costitutivi dell’efficacia giuridica, per cui l’effetto giuridico non decorre dalla data di adozione del provvedimento, ma dalla data di avvenuta comunicazione dello stesso. E indubbiamente la natura recettizia degli atti tributari rende inapplicabile l’istituto della “piena conoscenza” ai fini del decorso del termine di impugnazione, essendo l’inammissibilità dell’utilizzo di strumenti alternativi o surrogatori al fine di provocare aliunde l’effetto di conoscenza una delle più rilevanti conseguenze connesse alla natura recettizia dell’atto, onde l’omessa comunicazione, nei modi di legge, del provvedimento recettizio, nella specie l’atto tributario, comporta il mancato decorso dei termini di impugnativa e impedisce che l’atto diventi inoppugnabile, con pregiudizio per la stabilità dei relativi effetti. Una lettura costituzionalmente orientata dell’ultima parte dell’art. 19, comma 3, D.Lgs. n. 546, impone pertanto di ritenere che l’impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato ivi prevista non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il destinatario sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la facoltà del medesimo di far valere, appena avutane conoscenza, la suddetta invalidità che, impedendo la conoscenza dell’atto e quindi la relativa impugnazione, ha prodotto l’avanzamento del procedimento di imposizione e riscossione, con relativo interesse del contribuente a contrastarlo il più tempestivamente possibile, specie nell’ipote- il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi si in cui il danno potrebbe divenire in certa misura non più reversibile se non in termini risarcitori. La possibilità per il contribuente di conoscere legittimamente attraverso il c.d. estratto di ruolo le iscrizioni a proprio carico e l’eventuale emissione e notificazione di cartelle potrebbe rappresentare un “correttivo” idoneo a bilanciare il rapporto sperequato tra amministrazione e contribuente soltanto se la conoscenza - attraverso l’estratto di ruolo - di un atto che il contribuente avrebbe avuto il diritto di impugnare ne consentisse l’immediata impugnazione, non certo se al contribuente - che a causa dell’invalidità di una notifica della quale era onerata l’amministrazione sia stato espropriato del proprio diritto di accedere alla tutela giurisdizionale - si continui a negare tale accesso, subordinandolo alla notifica di un ulteriore atto da parte dell’amministrazione, senza considerare che: in alcuni casi potrebbe anche non esservi un ulteriore atto prima di procedere ad esecuzione forzata sulla base del ruolo; la possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale da parte del contribuente sarebbe ancora una volta rimessa alle determinazioni dell’amministrazione circa i modi e i tempi della notifica dell’eventuale atto successivo; nel frattempo aumenterebbe per il contribuente il pregiudizio connesso alla iscrizione in un registro di pubblici debitori nei confronti dei quali è stato avviato un procedimento di esecuzione coatta; tale pregiudizio, nonché quello derivante da un eventuale completamento della esecuzione senza possibilità per il contribuente di far valere le proprie ragioni dinanzi ad un giudice, potrebbero essere eventualmente fatti valere poi solo coi tempi e i modi di un’azione risarcitoria nei confronti dell’amministrazione. Né può ritenersi che la riconosciuta impugnabilità del ruolo e della cartella non (validamente) notificati dei quali il contribuente sia venuto a conoscenza tramite l’estratto di ruolo espongano ai rischi di dilatazione del contenzioso e rallentamento dell’azione di prelievo, come da taluno paventato. Quindi si può dire che l’impugnazione della cartella per mancanza di (valida) notificazione proposta non unitamente alla impugnazione dell’atto successivo notificato non comporta un aggravio del contenzioso se si considera che l’impugnazione della cartella, ancorché “ritardata”, interverrebbe in ogni caso al momento della notifica dell’atto successivo, mentre la proposizione “anticipata” di essa potrebbe evitare l’emissione e la notifica (quindi l’impugnazione) dell’atto successivo e perciò indurre un possibile effetto deflativo. È però indubbio che anche un eventuale (modesto) incremento del contenzioso non potrebbe giustificare una compressione del diritto alla tutela giurisdizionale consistente nel posticipare la possibilità di accesso ad essa ad il Corriere giuridico 12/2015 un momento successivo al sorgere dell’interesse ad agire e perciò ad un momento in cui è possibile che alcuni effetti lesivi dell’atto si siano già prodotti. È infine da escludere che dalla impugnabilità di un atto nel quale risulti esternata una ben definita pretesa tributaria possa derivare un “rallentamento” dell’azione di prelievo, che non sia quello strettamente (e legittimamente) derivante dall’interesse e dal diritto costituzionalmente presidiato del contribuente di contrastare la possibilità di un prelievo illegittimo, dovendo rilevarsi che posticipare il momento in cui il contribuente può far valere l’illegittimità della pretesa non serve a “sveltire” l’azione di prelievo ma solo ad aumentare il danno derivante da azioni esecutive in ipotesi portate avanti sulla base di pretese illegittime. Ne deriva il seguente principio di diritto: “È ammissibile l’impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario, senza che a ciò sia di ostacolo il disposto dell’ultima parte dell’art. 19, comma 3, D.Lgs. n. 546 del 1992, posto che una lettura costituzionalmente orientata di tale norma impone di ritenere che la ivi prevista impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la possibilità di far valere tale invalidità anche prima, nel doveroso rispetto del diritto del contribuente a non vedere senza motivo compresso, ritardato, reso più difficile ovvero più gravoso il proprio accesso alla tutela giurisdizionale quando ciò non sia imposto dalla stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione”. I precedenti Cass., SS.UU., n. 16293 del 2007; Cass., SS.UU., n. 3773 del 2014. Sull’impugnabilità degli atti unilaterali Cass. n. 654 del 2014 e n. 8374 del 2015, ma già SS.UU., n. 19854 del 2004. La dottrina Suppa (a cura di), I vizi di notifica degli atti tributari, Milano, 2012; Nicotina, Irregolarità e inesistenza della notifica di atti tributari sostanziali, in Riv. dir. trib., 2010, I, 847; Bruzzone, Gli effetti della riforma al codice di rito sulle notifiche degli atti tributari, Corr. trib., 2009, 2672; Placido, Il d.l. n. 223/2006 introduce rilevanti novità in materia di notifica degli atti tributari, in Fisco 1, 2006, 5461. 1615 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi Osservatorio - Cassazione Sezioni Semplici a cura di Vincenzo Carbone IMMISSIONI I DECIBEL NON DETERMINANO L’INTOLLERABILITÀ DELLE IMMISSIONI Cassazione Civile, Sez. II, 29 ottobre 2015, n. 22105 Pres. Piccialli - Rel. Matera - P.M. Celeste (conf.) P.E. c. N.F. In materia di immissioni, il giudice di merito, nel valutare il superamento dei limiti di tollerabilità, ex art. 844 c.c., è necessariamente vincolato ai parametri fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente, come i decibel? ► Risposta negativa: dette norme possono essere utilizzate solo come punti di riferimento, mentre il giudizio di intollerabilità delle immissioni va rapportato alla situazione concreta, nel rispetto dei criteri fissati dalla normativa civilistica. Il caso Tizio lamenta la sussistenza, anche nelle ore destinate al riposo, di rumori provenienti dall’abitazione di Caio, e in particolar modo dalla sua lavatrice, posizionata in una stanza situata al piano superiore rispetto al proprio ed in corrispondenza della camera da letto. Egli chiedeva, pertanto, che tali rumori fossero fatti cessare o quanto meno ricondotti entro la soglia di tollerabilità, nonché la condanna del convenuto al risarcimento del danno biologico e morale subito da lui e dai suoi familiari. La decisione La Cassazione ha in più occasioni affermato che il limite di tollerabilità delle immissioni, a norma dell’art. 844 c.c., non ha carattere assoluto, ma relativo, nel senso che deve essere fissato con riguardo al caso concreto, tenendo conto delle condizioni naturali e sociali dei luoghi e delle abitudini della popolazione: il relativo apprezzamento, risolvendosi in un’indagine di fatto, è demandato al giudice del merito e si sottrae al sindacato di legittimità, se correttamente motivato ed immune da vizi logici. È stato altresì puntualizzato che i parametri fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente (dirette alla protezione di esigenze della collettività, di rilevanza pubblicistica), pur potendo essere considerati come criteri minimali di partenza, al fine di stabilire l’intollerabilità delle emissioni che li eccedano, non sono necessariamente vincolanti per il giudice civile che, nello stabilire la tollerabilità o meno dei relativi effetti nell’ambito privatistico, può anche discostarsene, pervenendo al giudizio di intollerabilità, ex art. 844 c.c., delle emissioni, ancorché contenute in quei limiti, sulla scorta di un prudente apprezzamento che consideri la particolarità della situazione concreta e dei criteri fissati dalla norma civilistica. La relativa valutazione, ove adeguata- 1616 mente motivata, nell’ambito dei criteri direttivi indicati dal citato art. 844 c.c., con particolare riguardo a quello del contemperamento delle esigenze della proprietà privata con quelle della produzione, costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità. In particolare, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 1° marzo 1991, il quale, nel determinare le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti di tollerabilità in materia di immissioni rumorose, al pari dei regolamenti comunali limitativi dell’attività rumorosa, fissa, quale misura da non superare per le zone non industriali, una differenza rispetto al rumore ambientale pari a 3 decibel in periodo notturno e in 5 decibel in periodo diurno, persegue finalità di carattere pubblico ed opera nei rapporti fra i privati e la P.A. Le disposizioni in esso contenute, perciò, non escludono l’applicabilità dell’art. 844 c.c., nei rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini. Nella specie, la Corte d’Appello, sulla base della risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, ha accertato che la lavatrice, quando lavorava a pieno carico e nella fase di centrifuga, superava il rumore di fondo di 3,5 decibel nelle ore diurne e di 4,5 nelle ore notturne, e ha dato atto che tali valori risultano superiori a quello di 3 decibel del rumore di fondo, normalmente individuato dalla giurisprudenza quale limite di tollerabilità delle immissioni rumorose. Essa, tuttavia, ha evidenziato che l’attore non ha provato una frequenza particolarmente intensa nell’uso dell’elettrodomestico né che i lavaggi avvenissero in orario notturno e di riposo pomeridiano; e, valutate tutte le circostanze del caso concreto è pervenuta alla conclusione secondo cui un rumore superiore di 3,5 rispetto al rumore di fondo, che si protrae per cinque - dieci minuti (il tempo della centrifuga) al giorno in orari non destinati al riposo e, presumibilmente, non più di una volta al giorno, non può essere ritenuto obiettivamente intollerabile. Ciò posto e atteso che, avendo la Corte territoriale escluso che la lavatrice sia stata usata in orari notturni, viene in considerazione solo il rumore di 3,5 decibel rilevato in orario diurno, si osserva che, poiché tale valore non risulta superiore alla soglia massima di rumorosità fissata dalle norme speciali (5 decibel in orario diurno), il giudice di merito ben poteva valutare, sulla base di un prudente apprezzamento che tenesse conto della peculiarità della specifica fattispecie, se si fosse o meno in presenza di immissioni intollerabili. Il giudizio espresso nella sentenza impugnata circa la non intollerabilità delle immissioni in questione, pertanto, essendo sorretto da una motivazione immune da vizi logici e giuridici, si sottrae alle censure mosse dal ricorrente. I precedenti Cass. 25 agosto 2005, n. 17281; Cass. 3 agosto 2001, n. 10735; Cass. 6 giugno 2000, n. 7545; Cass. 12 febbraio 2000, n. 1565; Cass. 11 novembre 1997, n. 11118. Sull’i- il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi napplicabilità del limite dei decibel, Cass. 1° febbraio 2011, n. 2319; Cass. 3 agosto 2001, n. 10735. La dottrina Gerbi, Immissioni intollerabili: qualificazione e quantificazione del danno risarcibile, in Danno e resp., 2014, 1177; Tammaro, Prova e danno nelle immissioni - Dalla fattispecie alla tutela giudiziaria, Padova, 2014; Muratori, Rumore autostradale e criterio della normale tollerabilità ex art. 844 c.c., in Ambiente, 2014, 697; Spina, Le immissioni intollerabili nella recente giurisprudenza di legittimità, in Ambiente, 2013, 732; Rinaldi, Sul risarcimento del danno morale da immissioni acustiche, in Riv. nel diritto, 2013, 1039: Muratori, Inquinamento acustico: meno decibel in discoteca, in Ambiente, 1997, 962. SOCIETÀ LIQUIDAZIONE DEI COMPENSI AGLI AMMINISTRATORI Cassazione Civile, Sez. V, 28 ottobre 2015, n. 21953 Pres. Piccininni - Rel. Olivieri - P.M. Zeno (conf.) - Agenzia delle Entrate c. Veca S.r.l. In materia societaria il vizio di invalidità della delibera assembleare di approvazione del bilancio, assunta in violazione dell’art. 2389 c.c., non riconducibile né alla invalidità-annullabilità (art. 2377, comma 2, c.c.), né alla invalidità-nullità (art. 2379 c.c.), va ricondotto alla nullità generale (art. 1418, comma 1, c.c.) per contrarietà a norma imperativa, avendo, la disciplina di cui all’art. 2389 c.c., natura imperativa ed inderogabile? ► Risposta affermativa. Il caso VECA S.r.l., portava in deduzione nell’esercizio di competenza relativo all’anno 2003 i costi sostenuti per il pagamento dei compensi ad alcuni componenti del Consiglio di amministrazione, fatturati da tre società del Gruppo di imprese per conto delle quali dette persone fisiche avevano svolto l’incarico. L’Ufficio di Viareggio con avviso di accertamento recuperava a tassazione IRPEG ed IVA tali costi, ritenuti indeducibili in quanto non determinati nello Statuto né deliberati preventivamente dall’assemblea di VECA S.r.l. in violazione dell’art. 2389 c.c., e dunque da considerarsi “non certi nell’esistenza e neppure obiettivamente determinabili” come richiesto dall’art. 75 (attuale art. 109) TUIR e dall’art. 19, d.P.R. n. 633 del 1972. La Commissione tributaria provinciale di Lucca, adita con ricorso proposto dalla società contribuente, annullava l’atto impositivo. La Commissione tributaria della regione Toscana, confermava la decisione di primo grado, rigettando l’appello principale dell’Agenzia delle Entrate e l’appello incidentale della società. I giudici di secondo grado rilevavano che non vi erano impedimenti alla determinazione “ex post” del compenso degli amministratori disposta con la delibera assembleare di approvazione del bilancio di chiusura dell’esercizio. La decisione Secondo la Cassazione, essendosi costituita la contribuente nella forma della società a responsabilità limitata, l’Ufficio finanziario, contestando la violazione dell’art. 2389 c.c., (nella interpretazione che di tale norma ha fornito la Cassa- il Corriere giuridico 12/2015 zione con la sentenza SS.UU. 29 agosto 2008, n. 21933) ha ritenuto applicabile alla fattispecie la disciplina normativa delle società vigente nell’anno 2003, cui si riferiva la spesa sostenuta dalla contribuente, ed in relazione alla normativa previgente ha, infatti, svolto le proprie difese criticando la statuizione del giudice tributario, risultando pertanto irrilevante “ratione temporis” la sopravvenuta inapplicabilità dell’art. 2389 c.c., alle società a responsabilità limitata e dovendo, quindi, ritenersi assoggettata la delibera di approvazione del bilancio di esercizio 2003 con contestuale determinazione dei compensi degli amministratori esclusivamente alla “relativa disciplina statutaria e di legge vigente alla data del 31 dicembre 2003”, ai sensi dell’art. 223 bis, comma 3, disp. att. c.c. La violazione dell’art. 2389 c.c., inficia invece in modo insanabile la validità della delibera assembleare di approvazione del bilancio nella parte in cui approva la determinazione dei compensi degli amministratori, liquidati con fatture emesse dalle società “designanti” nel corso dell’anno 2003 attesa la interpretazione che di tale norma ha fornito la Cassazione nella sent. n. 21933/2008. La esigenza di una espressa previsione statutaria o di una specifica delibera assembleare avente ad oggetto la determinazione dei compensi degli amministratori, nel regime normativo antevigente la riforma del D.Lgs. n. 6 del 2003, è stata, infatti, ritenuta funzionale a garantire la piena trasparenza e la previa conoscenza di tutti i soci della relativa voce di spesa, in quanto elemento essenziale del rapporto fiduciario che presiede all’affidamento dell’incarico di amministrazione, esigenza che si ritiene soddisfatta soltanto attraverso la previsione di una specifica manifestazione volitiva dell’assemblea dei soci diretta alla assunzione dell’onere patrimoniale connesso al funzionamento dell’organo di direzione della società. Ne segue che debbono essere sanzionati con la invalidità gli atti degli organi societari diversi dalla delibera della assemblea, così come la delibera assembleare assunta in modo difforme dalla previsione dell’art. 2389 c.c., in quanto avente ad oggetto questioni estranee alla attribuzione dei compensi agli amministratori, come nel caso di specie, in cui la liquidazione delle somme da erogare agli amministratori sia meramente indicata in una delle voci di spesa del bilancio di chiusura esercizio presentato alla approvazione dell’assemblea. Il vizio di invalidità (limitato alla determinazione dei compensi) della delibera assembleare di approvazione del bilancio assunta in violazione dell’art. 2389 c.c., non deve ricondursi nella categoria del vizio di invalidità - annullabilità ex art. 2377, comma 2, c.c., (che può essere opposto soltanto dai soggetti legittimati, ed è suscettibile di convalida), né in quella del vizio di invalidità - nullità ex art. 2379 c.c., concernente la “impossibilità od illiceità dell’oggetto” (che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile anche d’ufficio), ma nella nullità generale di cui all’art. 1418, comma 1, c.c., per contrarietà a norma imperativa, in quanto la disciplina di cui all’art. 2389 c.c., (dettata in continuità con l’orientamento legislativo tradizionale, risalente all’art. 154, n. 4 del codice di commercio del 1882) ha certamente natura imperativa e inderogabile, sia perché, in generale, la disciplina della struttura e del funzionamento delle società regolari sono dettate (anche) nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività commerciale e industriale del Paese, sia perché, in particolare, la loro violazione, in particolare la percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea, era prevista dall’art. 2630, comma 2, c.c., n. 1, (abrogato dall’art. 1, D.Lgs. 1617 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi 11 aprile 2002, n. 61) come delitto che non poteva certo essere scriminato dalla approvazione del bilancio successiva alla consumazione. È pertanto evidente che la violazione dell’art. 2389 c.c., sul piano civilistico, dà luogo a nullità degli atti di autodeterminazione dei compensi da parte degli amministratori per violazione di norma imperativa, nullità che, per il principio stabilito dall’art. 1423 c.c., non è suscettibile di convalida, in mancanza di una norma espressa che disponga diversamente. La oggettiva distinzione della delibera assembleare di determinazione dei compensi rispetto a quella di approvazione di bilancio trova, peraltro, diretto riscontro nell’art. 2364, comma 1, c.c., che contempla separatamente, rispettivamente al n. 1) ed al n. 3), le due distinte materie riservate alla competenza esclusiva della assemblea ordinaria dei soci. La determinazione del compenso/corrispettivo per lo svolgimento di incarichi di amministrazione nella società di capitali, nel caso in cui non sia prestabilita nell’atto costitutivo ovvero in apposita delibera dell’assemblea, non può evidentemente essere compiuta unilateralmente dal creditore, ma richiede necessariamente - in base a norma imperativa - il consenso manifestato dalla società mediante una formale deliberazione dell’assemblea dei soci, essendo irrilevante al riguardo il “fatto compiuto” della appostazione in bilancio degli importi fatturati, atteso il vizio di nullità insanabile del consenso sul quantum del compenso prestato con la delibera assembleare di approvazione del bilancio, non conforme alla prescrizione dell’art. 2389 c.c. I precedenti Cass., SS.UU., 29 agosto 2008, n. 21933, in Foro it., 2008, I, 3544, in Dir. prat. soc., 2008, 20, 46, con nota di Romolotti; Cass., Sez. lav., 7 luglio 2011, n. 14963, in Giur. it., 2012, 1074, in Giur. comm., 2013, II, 19, con nota di Tina. La dottrina Gobbo, Il compenso degli amministratori: delibere implicite e approvazione del bilancio, in Giur. comm., 2010, II, 361; Chiozzi, Delibere implicite e compenso degli amministratori, in Vita not., 2009, 691; Petrazzini, Compenso degli amministratori e assemblea sociale: l’intervento delle sezioni unite, in Giur. it., 2009, 1183; Asaro, La liquidazione del compenso agli amministratori senza espressa deliberazione dell’organo assembleare, in Riv. dott. commercialisti, 2008, 1219; Bei, Sulle delibere implicite, con particolare riferimento al compenso degli amministratori, in Società, 2009, 28. FAMIGLIA ASSEGNO DI DIVORZIO Cassazione Civile, Sez. VI-1, 23 ottobre 2015, n. 21670 – Pres. Dogliotti - Rel. Genovese - G.D. c. C.C. Se in ordine all’assegno divorzile, l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sostentamento per ragioni obiettive rappresenta ipotesi non già alternativa, ma meramente esplicativa rispetto a quella della mancanza assoluta di mezzi, ne deriva che l’accertamento della relativa capacità lavorativa deve essere compiuto non nella sfera dell’ipoteticità o dell’astrattezza, bensì quella dell’effettività e della concretezza? 1618 ► Risposta affermativa: si deve tenere conto di tutti gli elementi soggettivi ed oggettivi del caso concreto in rapporto ad ogni fattore economico-sociale, individuale, ambientale, territoriale. Il caso La Corte d’Appello di Brescia ha parzialmente accolto l’impugnazione proposta dalla signora Caia contro la sentenza del Tribunale di Mantova, disponendo che l’ex coniuge versi un assegno divorzile mensile di € 1.000. Avverso la sentenza della Corte d’Appello ha proposto ricorso il marito. Il coniuge ha resistito con controricorso. La decisione La Cassazione si è già espressa sul punto sostenendo che in tema di attribuzione dell’assegno di divorzio, di cui all’art. 5, L. 1° dicembre 1970, n. 898, modificato dall’art. 10, L. 6 marzo 1987, n. 74, l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sostentamento per ragioni obiettive costituisce ipotesi non già alternativa, ma meramente esplicativa rispetto a quella della mancanza assoluta di tali mezzi. Si deve, pertanto, trattare di impossibilità di ottenere mezzi tali da consentire il raggiungimento non già della mera autosufficienza economica, ma di un tenore di vita sostanzialmente non diverso rispetto a quello goduto in costanza di matrimonio, onde l’accertamento della relativa capacità lavorativa va compiuto non nella sfera della ipoteticità o dell’astrattezza, bensì in quella dell’effettività e della concretezza, dovendosi, all’uopo, tenere conto di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi del caso di specie in rapporto ad ogni fattore economico - sociale, individuale, ambientale, territoriale. Il ricorrente nulla indica in ordine alle concrete capacità lavorative o di impiego che la moglie, già avanti con l’età e già occupata, potrebbe ricavare per migliorare il suo attuale provento da lavoro, onde possano imputarsi ad essa le conseguenze dell’altrimenti inesigibile prova negativa della possibilità (così solo astratta ed ipotetica) di procurarsi maggiori mezzi di sostentamento. Secondo la Cassazione il ricorso del marito deve essere rigettato in quanto incombe al marito, in via di eccezione, l’onere di provare che la moglie avrebbe la possibilità concreta di esercitare un’attività lavorativa a lei confacente ma tale onere non è stato adempiuto (se non genericamente, e perciò inefficacemente, oltre che inammissibilmente, nella memoria conclusionale, allegando” una generica capacità di “interpretariato” della ex moglie, che non si sa neppure di che genere e con quali possibilità di incrementare quanto la stessa già percepisca con il suo attuale lavoro). I precedenti Corte cost. 11 febbraio 2015, n. 11; Cass., Sez. I, 20 marzo 2014, n. 6562, in Foro it., 2014, I, 1496; Cass., Sez. I, 10 febbraio 2014, n. 2948, Guida dir., 2014, 13, 78, con nota di Fiorini. La dottrina Sull’assegno post-matrimoniale, Sesta, Manuale di diritto di famiglia, VI ed., Milano, 2015, 183 ss.; Bonilini, in Basini Bonilini - Confortini, Codice di famiglia, minori, soggetti deboli, Milano, 2014, II, 4276 ss.; Ricci Palopoli, Presupposti e determinazione dell’assegno divorzile, in Famiglia, persone e successioni, 2010, 592. il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi DIRITTO DEL LAVORO DIFFERENZE TRA RETRIBUZIONE E RIMBORSO SPESE Cassazione Civile, Sez. lav., 20 ottobre 2015, n. 21249 Pres. Macioce - Rel. Buffa - P.M. Sanlorenzo (conf.) Fiat Auto S.p.a. c. C.F. Se il rimborso spese è corrisposto in misura non predeterminata, fissa e continuativa, ma in modo variabile ed in relazione alle spese sostenute dal dipendente, può rientrare nella retribuzione? ► Risposta negativa della Sezione lavoro. Il caso Mevio evocava in giudizio innanzi al Tribunale di Torino la Fiat Auto S.p.a. esponendo di essere stato formalmente assunto il 1° marzo 1992, ma di aver di fatto lavorato fin dal 1° giugno 1984 alle dipendenze della stessa, presso le sue consociate estere, e di aver sempre prestato la propria attività lavorativa all’estero e di essere rientrato dalla Cina il 18 giugno 2004. Il rapporto di lavoro si era risolto per mutuo consenso il 31 agosto 2004, ma non aveva percepito il T.F.R. nel giusto importo e non aver percepito nella giusta misura l’indennità di prima sistemazione. Pertanto, affermava di aver dir itto alla c omplessiva somma di € 702.177,42 e ne chiedeva la condanna della società convenuta. Il Tribunale ha riconosciuto il diritto all’inclusione nella base di calcolo del T.F.R. del trattamento estero, del rimborso tasse cinese e benefit auto in Cina, Turchia e Brasile. Ha quindi ritenuto l’imputabilità al T.F.R. complessivamente dovuto dalla Fiat delle somme erogate al lavoratore al termine del periodo di distacco in Brasile dal Fundo de Garantia do Tempo de Servicio sulla base delle norme di diritto brasiliano. La Corte d’Appello di Torino ha riformato la sentenza di primo grado proprio su tale ultimo punto, negando l’imputazione in quanto il trattamento del Fundo trova fondamento e causa nella cessazione di un rapporto di lavoro intercorso con società brasiliana, e risponde a disciplina dettata con carattere pubblicistico dal diritto brasiliano. La Corte ha quindi condannato la Fiat a pagare al lavoratore la somma di euro 98.103,51. La decisione La Fiat lamenta una indebita duplicazione della corresponsione del tfr e delle somme erogate dal Fundo: a fronte di un rapporto lavorativo unico, le somme retributive percepite in Brasile hanno prima costituito base di calcolo per accantonamenti effettuati presso il Fundo dalla Fiat brasiliana e successivamente per gli accantonamenti effettuati in Italia dalla Fiat italiana. In realtà, il lavoratore si avvale di benefici derivanti da due istituti - simili ma non identici - previsti da due ordinamenti distinti. La corte territoriale ha rilevato che il FGTS è istituto di diritto brasiliano di diritto pubblico che, sulla base della contribuzione obbligatoria dei datori, eroga ai lavoratore una somma vincolata alla cessazione del rapporto e che le relative prestazioni vanno distinte da quelle proprie del TFR. Il rilievo è pertinente, atteso che la prestazione corrisposta dal Fundo ed il TFR disciplinato dalle norme italiane sono istituti diversi, con aliquote contributive diverse e con im- il Corriere giuridico 12/2015 porti di ammontare differente, e sono regolati da ordinamenti diversi e quindi disciplinati da fonti normative distinte e congiuntamente applicabili, sulla base del criterio territoriale. Con riferimento all’emolumento corrisposto al lavoratore, questo non è stato pagato dalla società estera dei gruppo Fiat, ma da un soggetto pubblico qual è il Fundo, del tutto estraneo alla compagine societaria del ricorrente. Non si vede come la Fiat possa invocare una compensazione del proprio debito verso il lavoratore con quanto a quest’ultimo è stato erogato da un terzo in forza di un titolo specifico di natura pubblicistica correlato al rapporto di lavoro con la società brasiliana. Né il pagamento da soggetto diverso può riguardarsi come adempimento parziale del terzo (la consociata brasiliana) di obbligo altrui (relativo al pagamento del TFR), trattandosi come detto di istituto straniero avente carattere pubblicistico sulla base del quale, sulla base dei contributi versati dalla consociata estera, un soggetto pubblico eroga un trattamento di fine rapporto a lavoratore che ha svolto per dato periodo servizio all’estero, a prescindere dal titolo di tale servizio. Il trattamento economico aggiuntivo (cosiddetta indennità estero) corrisposto al lavoratore che alle dipendenze di datore di lavoro italiano presti la sua opera all’estero può - in base alle particolari pattuizioni che lo prevedono ed alla stregua delle circostanze del caso concreto - avere sia natura riparatoria, assolvendo la funzione risarcitoria delle maggiori spese connesse alla prestazione lavorativa all’estero, sia natura retributiva, assolvendo la funzione compensativa del disagio ovvero della professionalità propria di detta prestazione lavorativa sia, infine, natura composita (o mista). Deve ritenersi che la corresponsione di una determinata somma con continuità, quale rimborso di spese necessarie incontrate dal lavoratore per svolgere la propria attività e quindi, sia pur indirettamente, per adempiere agli obblighi della prestazione lavorativa contrattuale, costituisce in genere elemento sufficiente a far ritenere il carattere retributivo di siffatta erogazione, in quanto corrispettivamente collegato con la prestazione lavorativa, svolgendo siffatta erogazione una funzione di salvaguardia della retribuzione, e cioè di adeguamento di questa alle maggiori spese in considerazioni delle condizioni ambientali in cui il lavoratore, dislocato all’estero, presta fa sua attività. Per contro, il rimborso spese ha natura riparatoria e costituisce una reintegrazione di una diminuzione patrimoniale, conseguente ad una spesa che il lavoratore sopporta nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, tenuto perciò a riparare la lesione subita, ed è normalmente collegato ad una modalità della prestazione lavorativa, richiesta per esigenze straordinarie, che trova fondamento in una causa autonoma rispetto a quella della retribuzione: le erogazioni effettuate dal datore di lavoro hanno la natura di rimborso di spesa precisamente quando, non rivestendo i suddetti caratteri della continuità e determinatezza (o determinabilità), consistono nella reintegrazione di somme effettivamente spese dal dipendente medesimo nell’interesse dell’imprenditore e non attinenti, perciò, all’adempimento degli obblighi impliciti nella prestazione lavorativa, cui egli è contrattualmente tenuto. Nel caso, la corte territoriale ha evidenziato che l’elemento in discorso è corrisposto in misura non predeterminata, fissa e continuativa, ma in modo variabile ed in relazione alle spese sostenute dal dipendente: conseguentemente, la corte territoriale ha ritenuto la natura di rimborso spese, 1619 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi come tale escluso dalla base di calcolo del TFR per espressa previsione. La valutazione, secondo la Cassazione, è corretta, atteso che nella specie non si trattava di erogazione determinata in misura fissa e predeterminata, ma di un rimborso spese quantitativamente determinato sulla scorta dei giustificativi documentali dei costi effettivamente sostenuti, ed il lavoratore non ha provato il contrario. I precedenti Sulla territorialità dell’obbligo contributivo, Cass., Sez. lav., 25 settembre 2012, n. 16244, in Orient. giur. lav., 2012, I, 693; Cass., Sez. lav., 1° settembre 2014, n. 18479. Sul contributo alloggio, Cass., Sez. lav., 2 marzo 2005, n. 4341, in Not. giur. lav., 2005, 684, su altri contributi, Cass., Sez. lav., 19 novembre 2001, n. 14470, in Foro it., 2002, I, 399, in Mass. giur. lav., 2002, 5, con nota di Maretti, in Arch. civ., 2002, 570. La dottrina Rausei, Rimborsi spese nel libro unico del lavoro: chiarimenti ministeriali, in Dir. prat. lav., 2010, 1867; Petrucci, Natura del rimborso forfetario di spese sostenute nell’interesse del datore di lavoro, in Giur. piemontese, 2005, 51. La decisione Secondo la Cassazione la Corte d’Appello non ha violato i principi in tema di responsabilità medica ed in particolare in tema di ripartizione dell’onere della prova in caso venga prospettata una ipotesi di responsabilità (contrattuale) medica: essa ha positivamente accertato l’esistenza del nesso causale tra la vaccinazione e il danno riportato dalla paziente (sulla cui entità non si è svolto peraltro un approfondimento istruttorio) ma ha poi escluso, sulla base di un accertamento in fatto fondato motivatamente sulle risultanze delle consulenze tecniche, in particolare della prima, che alcuna responsabilità colposa gravasse sulla dottoressa che ha eseguito la vaccinazione, la quale si è attenuta ai protocolli nella localizzazione dell’iniezione e nelle modalità della sua esecuzione, né era tenuta, trattandosi di una pratica ruotinaria ad eseguire altri e più complessi accertamenti preventivi In difetto di colpa in capo all’autrice della vaccinazione (neppure la ricorrente del resto ha allegato una manovra errata, ascrivibile alla dottoressa, che avrebbe provocato il dolore), il verificarsi dell’evento dannoso è stato ricondotto dalla corte territoriale al caso fortuito, ovvero all’andamento variabile e talvolta imprevedibile del nervo circonflesso, come accertato dalla consulenza, che ha ricondotto all’esterno della sfera di controllo e di prevedibilità della professionista che ha effettuato l’intervento routinario. I precedenti RESPONSABILITÀ MEDICA Cass., Sez. III, 31 luglio 2013, n. 18341, in Contratti, 2014, 139, con nota di Putignano, in Gazzetta forense, 2013, 6, 21; Cass., Sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22222. VACCINAZIONI E LESIONI PERMANENTI La dottrina Cassazione Civile, Sez. III, 20 ottobre 2015, n. 21177 – Pres. Salmè - Rel. Barreca - P.M. Soldi (conf.) - P.F. c. Allianza S.p.a. e Asl Carbone, La responsabilità del medico pubblico dopo la legge Balduzzi, in Danno e resp., 2013, 367; Mariotti - Serpetti - Caminiti - Ferrario, Responsabilità medica, Milano, 2014; De Luca, La nuova responsabilità del medico dopo la legge Balduzzi, Roma 2012, 26; Franzoni, Dalla colpa grave alla responsabilità professionale, Torino, 2011, 55 ss.; Camera, Legislazione sanitaria, Roma, 2013, 31 ss. Se la vaccinazione è una pratica abitudinaria in ambito sanitario, per cui il medico che la esegue non è tenuto a svolgere ulteriori e più approfonditi accertamenti, risponde il medico ove sia accertato il nesso di causalità tra la lesione permanente subita dal paziente e la somministrazione del vaccino? ► Va escluso il risarcimento se il medico ha eseguito l’iniezione intramuscolare in conformità al protocollo, sia per quanto concerne la localizzazione che per le modalità operative. Il caso Nel 1997 Mevia conveniva in giudizio dinanzi al Pretore di Torre Annunziata la ASL per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti a seguito della cattiva esecuzione di una iniezione intramuscolare finalizzata alla vaccinazione obbligatoria antitifica, dalla quale assumeva di aver riportato postumi permanenti. La ASL chiamava in giudizio la sua compagnia assicuratrice, Lavoro e Sicurtà S.p.a. e la dottoressa che aveva eseguito l’iniezione. Nel 2003 il Tribunale di Torre Annunziata rigettava la domanda. Nel 2011 la Corte d’Appello di Napoli rigettava l’appello di Mevia, affermando che, benché potesse ritenersi provato che l’iniezione aveva toccato e danneggiato il nervo circonflesso, nessuna responsabilità fosse ascrivibile al medico vaccinatore e per esso alla ASL avendo il medico somministrato il vaccino in maniera tecnicamente corretta e avendo il predetto nervo un andamento variabile da individuo ad individuo. 1620 LOCAZIONI E CONDOMINIO SPESE CONDOMINIALI PAGATE CON BONIFICO BANCARIO Cassazione Civile, Sez. II, 14 ottobre 2015, n. 20786 Pres. Mazzacane - Rel. Falaschi - P.M. Celeste (diff.) Alcor investiment consulting S.r.l. c. Condominio via C. A. Milano Sono dovuti gli interessi di mora sulle quote condominiali pagate a mezzo bonifico bancario, qualora il pagamento sia avvenuto prima delle relativa data di scadenza ma l’accredito sia pervenuto successivamente alla stessa? ► Risposta negativa in quanto l’esecuzione della pre- stazione non va riferita all’accredito del versamento sul conto corrente del condominio, che riguarda la disciplina del rapporto bancario, cui il condomino è estraneo. Il caso Con ricorso ex art. 1137 c.c. notificato il 17 ottobre 2001 la condomina Alcor investiment consulting S.r.l. evocava, dinanzi al Tribunale di Milano, il Condominio, chiedendo - il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi previa sospensione dell’efficacia - l’annullamento della delibera assembleare del 27 giugno 2001 per erronea imputazione delle spese condominiali e per incompleta e carente verbalizzazione della discussione avvenuta sulle questioni poste all’ordine del giorno, ordinando all’amministratore del Condominio di effettuare nuovamente i conteggi, dichiarando non dovuti gli interessi moratori applicati, con conseguente restituzione delle somme indebitamente ricevute. Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del Condominio, il Tribunale, respingeva le domande della ricorrente. La Corte di appello di Milano, nella resistenza dell’appellato, respingeva il gravame. A sostegno della decisione la corte territoriale - premesso che l’appellante era divenuta proprietaria di appartamento nel 16 marzo 2001 ed aveva impugnato la delibera assembleare del 27 giugno 2001, cui la stessa non aveva preso parte, lamentando l’addebito di spese ingiustificate sia perché riferibili a periodo anteriore al suo subentro nella proprietà del bene e sia perché già saldati dalla precedente proprietaria - evidenziava che per la regolarità del verbale assembleare non erano necessarie particolari formalità, purché si tenesse conto di tutte le attività svolte, tramite la verbalizzazione. Aggiungeva che nella specie aveva trovato corretta applicazione l’art. 63, comma 2, disp. att. c.p.c., giacché la natura solidale dell’obbligazione di pagamento fra il condomino acquirente ed il condomino precedente comportava che il Condominio avesse titolo per rivalersi per l’intero nei confronti di uno solo dei soggetti coobbligati. Quanto poi agli interessi di mora, il ritardo nel pagamento dei quattro ratei risultava dall’estratto di conto corrente. La decisione La questione della debenza degli interessi di mora era stata prospettata già al primo giudice ed è stata riproposta da- il Corriere giuridico 12/2015 vanti alla corte distrettuale con l’impugnazione per erronea valutazione della effettiva consistenza della posizione debitoria. La corte di merito, nel riconoscere detta voce di debito, ha argomentato il suo convincimento sul presupposto che per il pagamento delle quote condominiali a mezzo di bonifico bancario, la valuta di addebito, per l’ordinante, corrisponde alla data di esecuzione del pagamento, mentre per il beneficiario la valuta di accredito è in funzione del tipo di disposizione dei tempi di esecuzione concordati con la banca del correntista creditore; ha poi concluso gravando il debitore delle ricadute connesse alla disciplina dei servizio di incasso crediti, noto come MAV, prescelto dallo stesso Condominio. Ne consegue che la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei principi a fondamento della responsabilità del debitore posto che, come osservato dalla ricorrente, dalle quietanze di pagamento i versamenti risultavano avvenuti prima delle rispettive date di scadenza. Infatti, pur avendo dato atto analiticamente di tutti i presupposti necessari ai fini del saldo dei ratei, la sentenza impugnata nell’applicare il principio di esatto adempimento, ha erroneamente riferito la data di esecuzione della prestazione a quella di accredito del versamento sul conto corrente intestato al Condominio, senza tenere conto che questo ulteriore aspetto attiene alla disciplina del rapporto bancario, cui la debitrice è estranea. La dottrina Sul destinatario del pagamento, creditore, rappresentante o banca, Damiani, Destinatari del pagamento, in Comm. al cod. civ. diretto da Gabrielli, sub art. 1188, Milano, 2012, 449 ss. Sulla mora ex re, Sicchiero, Costituzione in mora, in Comm. citato sub art. 1219, 49 ss., specie 95. Sugli interessi nelle obbligazioni pecuniarie, Colombo, Interessi nelle obbligazioni pecuniarie, in Comm. citato sub art. 1282, 29 ss. 1621 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi Osservatorio - Cassazione Contrasti giurisprudenziali a cura di Giacomo Travaglino CONTRASTI TRA SEZIONI SEMPLICI PRONUNZIA DELLA SENTENZA PRIMA DELLA SCADENZA DEI TERMINI La sentenza deliberata anteriormente alla scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c., è automaticamente affetta da nullità? L’orientamento negativo La III Sez. civ., con la sent. n. 7086 del 9 aprile 2015 (Pres. Carleo, Est. Cirillo), ha ritenuto che la pronuncia la cui deliberazione risulti anteriore alla scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c. (nella specie, i termini previsti per il deposito delle memorie di replica), non possa dirsi affetta, ipso facto, da nullità insanabile, essendo viceversa necessario, da parte dell’interessato, dimostrare la lesione concretamente subita in conseguenza della denunciata violazione processuale, evidenziando, in particolare, le argomentazioni difensive - contenute nello scritto non esaminato dal giudice - la cui omessa considerazione avrebbe avuto ragionevoli probabilità di determinare una decisione diversa da quella effettivamente assunta. Il principio di diritto così affermato è sostanzialmente conforme a quello che si legge nella sent. n. 4020 del 23 febbraio 2006, a mente della quale la mancata assegnazione alle parti del termine per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie, o la pronunzia della sentenza prima della scadenza dei termini già assegnati, previsti dall’art. 190 c.p.c., non sono di per sé causa di nullità della sentenza stessa, essendo indispensabile, perché possa dirsi violato il principio del contraddittorio, che la irrituale conduzione del processo abbia prodotto in concreto una lesione del diritto di difesa. A tal fine, la parte deve dimostrare che l’impossibilità di assolvere all’onere del deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica ha impedito alla difesa di svolgere ulteriori e rilevanti aggiunte o specificazioni a sostegno delle proprie domande e/o eccezioni rispetto a quanto già indicato nelle precedenti fasi del giudizio. L’orientamento positivo Altro ed opposto indirizzo - rispetto al quale la decisione segnalata si pone in consapevole contrasto, in ragione della affermata necessità di salvaguardare il principio costituzionale della durata ragionevole del processo - è invece seguito da altra parte della stessa giurisprudenza di legittimità, affermativa dello speculare principio secondo il quale il mancato rispetto dei termini per deposito degli scritti conclusivi costituisce, di per sé, causa di nullità della sentenza: secondo Cass., Ord., n. 7760 del 5 aprile 2011 difatti, ove il giudice di appello abbia deciso la causa senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ciò si traduce in nullità della 1622 sentenza, e tale nullità - comportando il mancato esercizio del diritto di difesa e la violazione del contraddittorio, principio cardine del giusto processo - è deducibile nel giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 360 bis, n. 2), c.p.c. per le cause alle quali è applicabile, ratione temporis, la novella legislativa di cui alla L. 18 giugno 2009, n. 69, né è necessario, al riguardo, che la parte indichi se e quali argomenti avrebbe potuto svolgere ove le fosse stato concesso il termine per il deposito della comparsa conclusionale. In termini analoghi, con specifico riferimento al giudizio di primo grado, si è più volte riaffermata la nullità della sentenza emessa dal giudice prima della scadenza dei termini dal medesimo fissati ai sensi dell’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, risultando in tal modo impedito ai difensori delle parti di svolgere nella sua completezza il diritto di difesa, con conseguente violazione del principio del contraddittorio, il quale non è riferibile solo all’atto introduttivo del giudizio, ma deve realizzarsi nella sua piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio l’impugnata sentenza, deliberata antecedentemente alla scadenza del termine di cui al citato art. 190 c.p.c., in relazione ad una causa da trattare con il rito ordinario ancorché fosse stata erroneamente assegnata alla “sezione famiglia” e nella quale i difensori avevano chiesto i termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle rispettive memorie di replica: così Cass. n. 7072 del 24 marzo 2010, e, negli stessi termini Cass. n. 14657 del 3 giugno 2008, e n. 6293 del 10 marzo 2008). RISARCIMENTO DEL DANNO In quali termini ed entro quali limiti trova applicazione il principio della compensatio lucri cum damno? Gli orientamenti sul punto Con la sent. n. 20548 del 30 settembre 2014, la III Sez. della Corte di legittimità (Pres. Russo - Est. Scarano - P.G. Sgroi) ha (nuovamente) affermato il principio secondo il quale, in tema di risarcimento del danno da illecito, il meccanismo della compensatio lucri cum damno trova applicazione unicamente quando sia il pregiudizio, sia l’incremento patrimoniale risultino conseguenza del medesimo fatto illecito - sicché non può essere detratto dal risarcimento quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, ovvero a titolo di assegni, di equo indennizzo o di qualsiasi altra speciale erogazione connessa alla morte o all’invalidità, trattandosi di attribuzioni che si fondano su un titolo diverso dall’atto illecito e non hanno finalità risarcitorie. Il principio di diritto, conforme a quello risultante da numerose altre pronunce della S.C. (ex aliis, Cass. 10 marzo 2014, n. 5504, 11 febbraio 2009, n. 3357, 25 agosto 2006, n. 18490, 19 agosto 2003, n. 12124, 31 maggio 2003, n. 8828, 25 marzo 2002, n. 4205, 14 marzo 1996, n. 2117), si il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi fonda sul rilievo secondo cui la compensatio lucri cum damno, non potendo il risarcimento costituire fonte di lucro per il danneggiato, è suscettibile di applicazione soltanto nell’ipotesi in cui danno e lucro scaturiscano ambedue in modo “immediato e diretto” dal fatto illecito: tale condizione, tuttavia, non si verifica nel caso di percezione di emolumenti previdenziali o assicurativi da parte della vittima o dei suoi prossimi congiunti, poiché, in tal caso, mentre il danno scaturisce dal fatto illecito, il diritto agli emolumenti previdenziali od assicurativi sorge direttamente dalla legge. A tale indirizzo si è di recente contrapposto, con dovizia di argomentazioni, quello contenuto nella sent. 13 giugno 2014, n. 13537, ove si legge che, in tema di danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui, dall’ammontare del risarcimento deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto, attesa la funzione indennitaria assolta da tale trattamento, che è inteso a sollevare i familiari dallo stato di bisogno derivante dalla scomparsa del congiunto, con conseguente esclusione, nei limiti del relativo valore, di un danno risarcibile. Il contrasto, tempestivamente segnalato alla Prima Presidenza della S.C., è stato rimesso alle sezioni unite (e discusso all’udienza pubblica del 17 novembre 2015) con ordinanza interlocutoria n. 4447 del 2015, che evidenzia l’articolato iter motivazionale della sent. n. 13537/014, all’esito del quale il collegio della III sezione (Pres. Berruti, est. Rossetti) perviene alla negazione della cumulabilità del risarcimento del danno con gli eventuali benefìci assistenziali o previdenziali percepiti dai congiunti della persona defunta in conseguenza del fatto illecito puntualizzando come la sentenza “capostipite”, da cui ha preso corpo il consolidato ed opposto orientamento (Cass. 7 febbraio 1958, n. 370) riguardasse in realtà un caso di “compensazione” non fra danno da morte e benefici previdenziali, ma fra debito risarcitorio e vantaggio acquistato dal parente della vittima per effetto dell’accettazione dell’eredità del defunto. Si evidenzia, così, come la c.d. compensatio lucri cum damno non possa essere intesa come una vera e propria “compensazione” fra crediti e debiti: i concetti di “lucro” e di “danno”, difatti, non andrebbero concepiti come un credito e un debito geneticamente e contenutisticamente autonomi, rispetto ai quali si debba indagare soltanto se sussista la identità della fonte, poiché, del “lucro” derivante dal fatto illecito, occorrerebbe, invece, stabilire unicamente se esso costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensi dell’art. 1223 c.c. Appare opportuno osservare come la stessa sent. n. 20548 del 2014, nel ribadire l’orientamento tradizionale, abbia riconosciuto la correttezza dell’impostazione secondo la quale l’ammontare corrisposto per contratto da compagnie assicurative ovvero erogato per legge da un istituto previdenziale rilevi, in realtà, non già sotto il profilo della compensatio lucri cum damno, ma in ordine alla delimitazione dell’ambito del danno patrimoniale da lucro cessante risarcibile, nel rispetto dei principi che governano il nesso di causalità specifica e del carattere di integralità del risarcimento dovuto dal danneggiante (il quale “è tenuto a ristorare integralmente il pregiudizio, ma non oltre”). il Corriere giuridico 12/2015 CONTRASTI RIMESSI ALLE SEZIONI UNITE DOMANDA NUOVA E PRESCRIZIONE Alla domanda asseritamente nuova introdotta con atto di appello notificato non alla parte personalmente ma al difensore della parte, può riconoscersi efficacia interruttiva della prescrizione? Il caso e l’ordinanza di rimessione La III Sez. della Corte di legittimità, con ordinanza interlocutoria 18 febbraio 2015, n. 3276, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione dell’efficacia interruttiva della prescrizione della domanda introdotta in sede di gravame e notificata al solo difensore dell’appellato, ritenendola di massima importanza, in relazione ad un ricorso nel quale un professionista aveva ottenuto un decreto ingiuntivo nei confronti del comune di Brindisi per circa € 300 mila a titolo di remunerazione della sua attività professionale, costituita dalla valutazione dei danni subiti dagli agricoltori del territorio per calamità naturali. Il tribunale brindisino aveva accolto l’opposizione, e il professionista aveva proposto, in appello, la diversa domanda di indebito arricchimento, dichiarata inammissibile dalla Corte territoriale. La medesima domanda di arricchimento, autonomamente introdotta dinanzi al Tribunale, venne accolta. Con sent. del 28 settembre 2012, la Corte d’Appello di Lecce - in accoglimento del gravame proposto dal Comune di Brindisi - ritenne invece che la domanda dovesse essere respinta per decorsa prescrizione. Avverso tale sentenza il professionista ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo, con il quale egli si duole che il giudice dell’appello abbia ritenuto ormai maturato il termine di prescrizione della domanda di arricchimento considerando erroneamente non interrotto il relativo decorso dalla citazione in appello, in ragione della ravvisata inidoneità ad integrare un valido atto di costituzione in mora, ex art. 2943 c.c., per essere stata essa notificata non al Comune ma al suo difensore. Rileva l’ordinanza di rimessione che, sulla specifica questione, non risultano precedenti in termini. La dottrina C. M. Barone, Prescrizione e decadenza, revocatoria ordinaria, notifica della domanda, in Foro it., 2015, I, 830, nota a Cass. 26 gennaio 2015 n. 1392; N. Bertotto, Prescrizione e danno lungo latente tra Roma e Strasburgo, in Quad. cost., 2015, 1 ss.; S. Bini, I valori dell’efficienza del processo e della certezza del diritto, nel regime decadenziale retroattivo del contratto a termine. Bilanciamento di interessi e ragionevolezza costituzionale, in Giur. cost., 2014, 2479, nota a Corte cost. 4 giugno 2014, n. 155; M. Bona, Appunti sulla giurisprudenza comunitaria e cedu in materia di prescrizione e decadenza: il parametro della “ragionevolezza”, in Resp. civ. prev., 2007, 1709; E. Calzolaio, La riforma della prescrizione in Francia e nella prospettiva del diritto privato europeo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 1087; S. Patti, Certezza e giustizia nel diritto della prescrizione in Europa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 21; G. Terlizzi, Il dies a quo della prescrizione tra tutela del danneggiato e certezza del diritto, in Giur. it., 2008, 1695. 1623 Indici Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. il Corriere giuridico INDICE DEGLI AUTORI 18 settembre 2014, n. 19663, sez. un. ................ 6 maggio 2015, n. 9100, sez. un. ....................... Astone Francesco 22 maggio 2015, n. 10546, sez. III...................... Anticipatory breach e termini di pagamento della parte non inadempiente, tra clausole generali e interpretazione letterale del contratto ........................ 3 giugno 2015, n. 11377, sez. un. ...................... 1520 Carrato Aldo Legge Pinto e legittimazione del condominio: il dictum delle Sezioni Unite ................................... 26 giugno 2015, n. 13203, sez. III....................... 2 ottobre 2015, n. 19704, sez. un. ...................... 5 ottobre 2015, n. 19783, sez. un. ...................... 1535 5 ottobre 2015, n. 19786, sez. un. ...................... 14 ottobre 2015, n. 20786, sez. II....................... Ferraro Pietro Paolo 20 ottobre 2015, n. 21177, sez. III ...................... La pronuncia delle Sezioni Unite sul danno nelle azioni di responsabilità contro gli amministratori di società fallite................................................ 20 ottobre 2015, n. 21217, sez. un. .................... 1573 20 ottobre 2015, n. 21249, sez. lav. .................... 23 ottobre 2015, n. 21670, sez. VI-1 ................... Gargiulo Giulia 28 ottobre 2015, n. 21953, sez. V....................... La rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto ed i rapporti con il potere (non già di eccezione ma) di eventuale ratifica del falsamente rappresentato ... 29 ottobre 2015, n. 22105, sez. II....................... 1588 Il bail-in nel nuovo sistema di risoluzione delle crisi bancarie. Quale lezione da Vienna? ..................... Corte d’appello 17 luglio 2015, Palermo................................... Guizzi Giuseppe 13 aprile 2015, Palermo .................................. Consiglio di Stato Quando non dovrebbe essere applicato, e quando invece è prezioso, l’istituto della gestione di affari altrui ............................................................ 13 aprile 2015, n. 2, ad. plen. ............................ 1506 Montanari Anna 1545 Crisi bancarie Il bail-in nel nuovo sistema di risoluzione delle crisi bancarie. Quale lezione da Vienna? di G. Guizzi ...... 1600 Aiuti di Stato Restituzione di aiuti fiscali indebitamente corrisposti (Corte di Giustizia, Sez. V, 3 settembre 2015, n. C89/14) Osservatorio........................................ 1511 Retribuzione 1558 INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI 1609 1607 1606 Corte di cassazione 1624 1619 Convivenza omosessuale Corte di giustizia 2 settembre 2014, n. 18523, sez. lav. .................. Se il rimborso spese è corrisposto in misura non predeterminata, fissa e continuativa, ma in modo variabile ed in relazione alle spese sostenute dal dipendente, può rientrare nella retribuzione? (Cassazione civile 20 ottobre 2015, n. 21249) Osservatorio ....... Famiglia Giurisprudenza 17 settembre 2015, n. C-416/14, sez. VIII ............. 1609 Diritto del lavoro Veronesi Silvia 8 settembre 2015, n. C-105/14, Grande Camera ..... 1485 Diritto comunitario Per la Cassazione, il giudicato sulla giurisdizione internazionale impedisce sempre e comunque lo scioglimento del cumulo condizionale tra domande (note critiche a margine del ‘‘caso Agnelli’’) .................. 3 settembre 2015, n. C-89/14, sez. V................... 1596 INDICE ANALITICO Stella Marcello Genitore ‘‘sociale’’ e relazioni di fatto: riconosciuta la rilevanza dell’interesse del minore a mantenere un rapporto stabile e significativo con il convivente del genitore biologico .......................................... 1549 Banca Scoca Franco Gaetano Il principio della domanda nel processo amministrativo 1555 Tribunale 1485 Maffeis Daniele Stranieri extracomunitari e inserimento presso le Pubbliche amministrazioni ................................ 1531 1568 1518 1584 1498 1613 1613 1612 1620 1620 1611 1619 1618 1617 1616 1541 Genitore ‘‘sociale’’ e relazioni di fatto: riconosciuta la rilevanza dell’interesse del minore a mantenere un rapporto stabile e significativo con il convivente del genitore biologico (Tribunale di Palermo 13 aprile 2015; Corte d’appello di Palermo 17 luglio 2015) di S. Veronesi.................................................. 1549 Divorzio Se in ordine all’assegno divorzile, l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sostentamento per ragioni obiettive rappresenta ipotesi non già alternati- il Corriere giuridico 12/2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Indici il Corriere giuridico va, ma meramente esplicativa rispetto a quella della mancanza assoluta di mezzi, ne deriva che l’accertamento della relativa capacità lavorativa deve essere compiuto non nella sfera dell’ipoteticità o dell’astrattezza, bensı̀ quella dell’effettività e della concretezza? (Cassazione civile 23 ottobre 2015, n. 21670) Osservatorio ................................................ zione giurisdizionale? (Cassazione civile 5 ottobre 2015, n. 19786) Osservatorio ............................ Processo civile Deposito della sentenza 1618 Giurisdizione Contrasti tra Sezioni Semplici (Cassazione civile 9 aprile 2015, n.7086; Cassazione civile 5 aprile 2011, n. 7760) Osservatorio ..................................... Negozio di investimento Domanda nuova Quali sono le conseguenze se il giudice italiano ha ritenuto, con apprezzamento di fatto scevro da vizi logico-giuridici, che la clausola di proroga della giurisdizione dei Paesi Bassi si estenda a qualsiasi tipo di responsabilità da inadempimento, sia ex contractu, sia ex lege? (Cassazione civile 5 ottobre 2015, n. 19783) Osservatorio ....................................... Contrasti rimessi alle Sezioni Unite (Cassazione civile 18 febbraio 2015, n. 3276, ord. interloc.) Osservatorio .......................................................... 1613 Legittimazione del condominio 1531 1620 1518 1498 il Corriere giuridico 12/2015 Prescrizione del reato 1607 Immissioni In materia di immissioni, il giudice di merito, nel valutare il superamento dei limiti di tollerabilità, ex art. 844 c.c., è necessariamente vincolato ai parametri fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente, come i decibel? (Cassazione civile 29 ottobre 2015, n. 22105) Osservatorio.................................... 1616 Danno erariale È legittima l’azione per danno erariale richiesta dal P.M. contabile nei confronti di amministratori comunali per verificare il rapporto tra obbiettivi conseguiti e costi sostenuti e nel caso di specie sussiste la giurisdizione del g.o. o del giudice contabile? (Cassazione civile 20 ottobre 2015, n. 21217) Osservatorio ... Principio della domanda Contro le decisioni del Consiglio di Stato è ammissibile il ricorso per Cassazione sia se è invasa la competenza del legislatore o la discrezionalità amministrativa, sia se è negata la giurisdizione sull’erroneo presupposto che la domanda non è oggetto di fun- 1613 Pubblica amministrazione Processo amministrativo Ricorso straordinario al Capo dello Stato 1584 Proprietà e possesso Gestione di affari altrui e giurisdizione Il principio della domanda nel processo amministrativo (Consigio di Stato, ad.plen., 13 aprile 2015, n. 2) di F. G. Scoca ............................................... Il contribuente può, ai sensi dell’art. 19, comma 3, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, impugnare una cartella di pagamento invalidamente notificata e conosciuta tramite l’estratto del ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario? (Cassazione civile 2 ottobre 2015, n. 19704) Osservatorio..................... Reati in materia di imposta sul valore aggiunto e prescrizione (Corte di Giustizia, Grande Camera, 8 settembre 2015, n. C-105/14) Osservatorio............... Contratto preliminare Quando non dovrebbe essere applicato, e quando invece è prezioso, l’istituto della gestione di affari altrui, di D. Maffeis; Per la Cassazione, il giudicato sulla giurisdizione internazionale impedisce sempre e comunque lo scioglimento del cumulo condizionale tra domande (note critiche a margine del ‘‘caso Agnelli’’) di M. Stella ( Cassazione civile 26 giugno 2015, n. 13203)............................................. La rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto ed i rapporti con il potere (non già di eccezione ma) di eventuale ratifica del falsamente rappresentato (Cassazione civile 3 giugno 2015, n. 11377) di G. Gargiulo...................................................... Processo penale Obbligazioni e contratti Anticipatory breach e termini di pagamento della parte non inadempiente, tra clausole generali e interpretazione letterale del contratto (Cassazione civile 22 maggio 2015, n. 10546) di F. Astone ............... 1623 Notificazione Spese condominiali Sono dovuti gli interessi di mora sulle quote condominiali pagate a mezzo bonifico bancario, qualora il pagamento sia avvenuto prima delle relativa data di scadenza ma l’accredito sia pervenuto successivamente alla stessa? (Cassazione civile 14 ottobre 2015, n. 20786) Osservatorio ............................ 1622 Falsus procurator Locazioni e condominio Legge Pinto e legittimazione del condominio: il dictum delle Sezioni Unite (Cassazione civile 18 settembre 2014, n. 19663) di A. Carrato................... 1612 1611 1596 Pubblico impiego Lavoratori extracomunitari Stranieri extracomunitari e inserimento presso le Pubbliche amministrazioni (Cassazione civile 2 settembre 2014, n. 18523) di A. Montanari ............... 1541 1625 Indici Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. il Corriere giuridico Responsabilità civile violazione dell’art. 2389 c.c., non riconducibile né alla invalidità-annullabilità (art. 2377, comma 2, c.c.), né alla invalidità-nullità (art. 2379 c.c.), va ricondotto alla nullità generale (art. 1418, comma 1, c.c.) per contrarietà a norma imperativa, avendo, la disciplina di cui all’art. 2389 c.c., natura imperativa ed inderogabile? (Cassazione civile 28 ottobre 2015, n. 21953) Osservatorio....................................... Responsabilità del medico Se la vaccinazione è una pratica abitudinaria in ambito sanitario, per cui il medico che la esegue non è tenuto a svolgere ulteriori e più approfonditi accertamenti, risponde il medico ove sia accertato il nesso di causalità tra la lesione permanente subita dal paziente e la somministrazione del vaccino? (Cassazione civile 20 ottobre 2015, n. 21177) Osservatorio.... 1620 Contrasti tra Sezioni Semplici (Cassazione civile 30 settembre 2014, n. 20548; Cassazione civile 13 giugno 2014, n. 13537) Osservatorio....................... Responsabilità degli amministratori La pronuncia delle Sezioni Unite sul danno nelle azioni di responsabilità contro gli amministratori di società fallite (Cassazione civile 6 maggio 2015, n. 9100) di P. P. Ferraro...................................... Risarcimento del danno 1617 1568 1622 Telecomunicazioni Società e impresa Telefonia mobile Compensi degli amministratori In materia societaria il vizio di invalidità della delibera assembleare di approvazione del bilancio, assunta in Apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre (Corte di giustizia, sez. VIII, 17 settembre 2015, n. C-416/14) Osservatorio ........................ Per informazioni in merito a contributi, articoli ed argomenti trattati, scrivere o telefonare a: Casella Postale 12055 - 20120 Milano telefono (02) 82476.828 telefax (02) 82476.079 e-mail: [email protected] EDITRICE Wolters Kluwer Italia S.r.l. Strada 1, Palazzo F6 20090 Milanofiori Assago (MI) INDIRIZZO INTERNET www.edicolaprofessionale.com/ilcorrieregiuridico DIRETTORE RESPONSABILE Giulietta Lemmi REDAZIONE Francesco Cantisani, Ines Attorresi, Michela Ambrosini REALIZZAZIONE GRAFICA Wolters Kluwer Italia S.r.l. 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