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Ipsoa - Il Corriere Giuridico di Balestra Luigi, Carbone Vincenzo

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Ipsoa - Il Corriere Giuridico di Balestra Luigi, Carbone Vincenzo
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il Corriere giuridico
Sommario
PRIMO PIANO
Crisi bancarie
IL BAIL-IN NEL NUOVO SISTEMA DI RISOLUZIONE DELLE CRISI BANCARIE. QUALE LEZIONE
DA VIENNA?
di Giuseppe Guizzi
1485
LEGISLAZIONE IN SINTESI
NOVITÀ NORMATIVE
a cura di Alessandro Pagano
1495
DIRITTO CIVILE
Gestione di affari Cassazione civile, Sez. III, 26 giugno 2015, n. 13203
altrui
QUANDO NON DOVREBBE ESSERE APPLICATO, E QUANDO INVECE È PREZIOSO,
e giurisdizione L’ISTITUTO DELLA GESTIONE DI AFFARI ALTRUI
Contratto
preliminare
Condominio
di Daniele Maffeis
1506
PER LA CASSAZIONE, IL GIUDICATO SULLA GIURISDIZIONE INTERNAZIONALE
IMPEDISCE SEMPRE E COMUNQUE LO SCIOGLIMENTO DEL CUMULO CONDIZIONALE TRA
DOMANDE (NOTE CRITICHE A MARGINE DEL ‘‘CASO AGNELLI’’)
di Marcello Stella
1511
Cassazione civile, Sez. III, 22 maggio 2015, n. 10546
ANTICIPATORY BREACH E TERMINI DI PAGAMENTO DELLA PARTE NON INADEMPIENTE, TRA
CLAUSOLE GENERALI E INTERPRETAZIONE LETTERALE DEL CONTRATTO
di Francesco Astone
1518
Cassazione civile, Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 19663
LEGGE PINTO E LEGITTIMAZIONE DEL CONDOMINIO: IL DICTUM DELLE SEZIONI UNITE
di Aldo Carrato
1531
Pubblico impiego Cassazione civile, Sez. lav. 2 settembre 2014, n. 18523
STRANIERI EXTRACOMUNITARI E INSERIMENTO
PRESSO LE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI
di Anna Montanari
Coppia
omosessuale
1498
Tribunale di Palermo, sez. I, 13 aprile 2015
Corte d’appello di Palermo, sez. I, 17 luglio 2015
GENITORE ‘‘SOCIALE’’ E RELAZIONI DI FATTO: RICONOSCIUTA LA RILEVANZA DELL’INTERESSE
DEL MINORE A MANTENERE UN RAPPORTO STABILE E SIGNIFICATIVO
CON IL CONVIVENTE DEL GENITORE BIOLOGICO
di Silvia Veronesi
1520
1535
1541
1545
1549
1558
DIRITTO COMMERCIALE
Responsabilità
degli
amministratori
Cassazione civile, Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100
LA PRONUNCIA DELLE SEZIONI UNITE SUL DANNO NELLE AZIONI DI RESPONSABILITÀ
CONTRO GLI AMMINISTRATORI DI SOCIETÀ FALLITE
di Pietro Paolo Ferraro
1568
1573
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE
Falsus procurator Cassazione civile, Sez. Un., 3 giugno 2015, n. 11377
LA RILEVABILITÀ D’UFFICIO DELL’INEFFICACIA DEL CONTRATTO ED I RAPPORTI CON IL POTERE
(NON GIÀ DI ECCEZIONE MA) DI EVENTUALE RATIFICA DEL FALSAMENTE RAPPRESENTATO
di Giulia Gargiulo
1584
Principio
della domanda
1596
Consiglio di Stato, ad.plen., 13 aprile 2015, n. 2
IL PRINCIPIO DELLA DOMANDA NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO
di Franco Gaetano Scoca
il Corriere giuridico 12/2015
1588
1600
1483
il Corriere giuridico
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Sommario
PANORAMA EUROPEO
OSSERVATORIO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA
a cura di Roberto Conti
1606
OSSERVATORI
CORTE DI CASSAZIONE-SEZIONI UNITE
a cura di Vincenzo Carbone
1611
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI SEMPLICI
a cura di Vincenzo Carbone
1616
CORTE DI CASSAZIONE- CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI
a cura di Giacomo Travaglino
INDICE DEGLI AUTORI- INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI- INDICE ANALITICO
1622
1624
GLI SPECIALI digitali
Segnaliamo che lo Speciale digitale de Il Corriere giuridico ‘‘L’ impiego delle categorie civilistiche da parte del giudice amministrativo’’ a cura Fabio Giuseppe Angelini, Vincenzo Carbone, Franco Mastragostino, Claudio Scognamiglio, Francesca Trimarchi
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Per consultare e scaricare il fascicolo in pdf vai su www.quotidianogiuridico.it/specialiriviste
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
Salvatore Boccagna, Raffaele Caterina, Paoloefisio Corrias, Marco De Cristofaro, Francesco Delfini, Stefano delle Monache, Francesco di Giovanni, Pasquale Femia, Giuseppe Ferri, Giovanni Furgiuele, Marino Marinelli, Fabiana Massa Felsani, Marisaria Maugeri,
Massimo Montanari, Stefano Pagliantini, Massimo Proto, Matteo Rescigno, Alberto A. Romano, Ugo Salanitro, Renato Santagata,
Salvatore Sica, Mario Stella Richter, Alberto Tedoldi, Chiara Tenella Sillani, Francesco Venosta
1484
il Corriere giuridico 12/2015
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Primo piano
Banca
Risoluzione delle crisi bancarie
Il bail-in nel nuovo sistema di
risoluzione delle crisi bancarie.
Quale lezione da Vienna?
di Giuseppe Guizzi - Ordinario di diritto commerciale nell’Università Federico II
di Napoli
Con il D.Lgs. n. 180 del 16 novembre anche l’Italia ha attuato la Dir. 2014/59/UE recante la nuova disciplina della risoluzione delle crisi bancarie, introducendo così lo strumento del c.d. bail-in.
Vale a dire la possibilità, riconosciuta alla Banca d’Italia, quale autorità di vigilanza sulle banche
e competente per la risoluzione delle crisi, di imporre coattivamente anche ai creditori di “partecipare” al rifinanziamento della banca in dissesto attraverso la conversione del credito in capitale ovvero attraverso la riduzione del valore nominale dei crediti. Tale disciplina rappresenta, per
certi versi, una rivoluzione copernicana nel modo di affrontare il rischio di insolvenza delle banche; ed il sistema del bail-in suscita interrogativi anche sotto il profilo della sua compatibilità
con le regole e i principi costituzionali, posti a tutela della proprietà e dei diritti patrimoniali nascenti da rapporti di diritto privato. Il lavoro cerca di avviare una primissima riflessione su tali
questioni, anche attraverso la lente di una recente pronuncia della Corte costituzionale austriaca, che ha già avuto modo di confrontarsi con problemi analoghi.
Il recepimento della Dir. 2014/59/UE e i
potenziali problemi legati all’introduzione
degli interventi autoritativi sui diritti
dei creditori
Seppure tra gli ultimi paesi dell’Unione, e a tempo
oramai quasi scaduto (1), anche l’Italia ha dato attuazione alla Dir. 2014/59/UE approvata dal Parlamento il 15 maggio 2014, e che delinea il nuovo
quadro normativo armonizzato in materia di composizione e risoluzione delle crisi bancarie (2).
(1) Il nuovo sistema dovrebbe essere, infatti, operativo in
tutta Europa dal 1° gennaio 2016; e il ritardo era costato all’Italia l’apertura, da parte della Commissione Europea, di una procedura di infrazione (2015/0066).
(2) Attraverso lo strumento del decreto legislativo delegato,
in attuazione dei principi fissati dall’art. 8 della L. n. 114 del 9
luglio 2015. Il D.Lgs. n 180/2015 è stato pubblicato sulla G.U.
n. 267 del 16 novembre 2015.
(3) Per un esame generale del sistema della direttiva cfr.
AA.VV., The Bank Recovery and Resolution Directive, a cura di
A. Drombet - P.S. Kenadijan, Berlin-Boston, 2013. Con particolare riferimento ai due meccanismi di cui si accenna nel testo,
cfr. A. Capizzi - S. Cappiello, Prime considerazioni sullo strumento del bail-in: la conversione forzosa di debito in capitale,
il Corriere giuridico 12/2015
In questo contesto - che nel linguaggio corrente
dei pratici è oramai già identificato con l’acronimo
BRRD, originante dalla titolazione del testo inglese
della direttiva (appunto, banking recovery and resolution directive) (3) - un ruolo sistematicamente
centrale, pure in un panorama assai articolato
quanto a strumenti per fronteggiare il problema del
rischio di insolvenza delle banche (4), è destinato
ad assumere il potere affidato alla c.d. autorità amministrativa di risoluzione della crisi (identificata,
nel nostro ordinamento, con la Banca d’Italia) di
procedere coattivamente ora alla conversione forpaper presentato al convegno L’impresa e il diritto commerciale: innovazione, creazione di valore, salvaguardia del valore nella
crisi, Roma, 21-22 febbraio 2014, organizzato dall’Associazione Orizzonti del diritto commerciale, e disponibile sul sito associativo www.orizzontideldirittocommerciale.it; A. Gardella,
Il bail-in e il finanziamento delle risoluzioni bancarie nel contesto
del meccanismo di risoluzione unico, in Banca, borsa, tit. cred.,
2015, 587 ss.
(4) Per una prima analisi dei quali cfr. L. Stanghellini, La disciplina delle crisi bancarie: la prospettiva europea, in AA. VV.,
Dal testo unico bancario all’Unione bancaria: tecniche normative
e allocazione di poteri, Quaderni di ricerca giuridica della Banca
d’Italia, Roma, 2014, 147 ss.
1485
Primo piano
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Banca
zosa di parte del debito in capitale, quando ciò occorra al fine di riportare il c.d. capitale regolamentare - ovvero, come si sarebbe detto con vecchia
formula, il patrimonio di vigilanza - ai livelli normativamente prescritti in relazione alla dimensione
della banca, ovvero, nei casi più gravi quali potrebbero essere quelli di patrimonio netto negativo,
non solo all’azzeramento delle partecipazioni ma
anche alla stessa decurtazione del valore nominale
dei debiti al fine di realizzare l’assorbimento delle
perdite.
Si tratta, infatti, di un potere che esprime assai bene la filosofia che ispira la nuova disciplina, giacché è in esso che si coglie esemplarmente il mutamento di prospettiva rispetto al (soprattutto recente) passato, e dunque il superamento dell’idea che
l’eventuale salvataggio delle banche in crisi possa
essere realizzato, almeno integralmente, con risorse
pubbliche poste a carico della collettività, a favore
di un’impostazione che vuole invece che tale programma venga ad essere sostenuto primariamente
dagli stessi investitori privati, siano essi non solo,
com’è naturale, coloro che hanno apportato il capitale di rischio, ma anche i possessori di strumenti
rappresentativi di capitale di credito. Il passaggio,
insomma, - per usare un’espressione oramai divenuta quasi lessico comune, tanto da essere recepita
persino dallo stesso legislatore - da un sistema fondato sul principio del bail-out, in cui allora le risorse vanno aggiunte dall’esterno, a quello basato, in-
vece, sul meccanismo del bail-in, in cui il costo del
salvataggio deve essere sostenuto innanzitutto dall’interno (5).
E tuttavia, proprio perché espressione di un radicale mutamento del paradigma di composizione della
crisi, è per certi versi fisiologico che su soluzioni
come la debt conversion e il debt write-down si vengano, talora, annidando perplessità (6), e che soprattutto ci si interroghi sulla stessa legittimità, anche costituzionale, di soluzioni che implicano un
intervento autoritativo su rapporti di diritto privato modificandone radicalmente i tratti (7).
Sotto questo profilo - e a maggior ragione in un
panorama come si presenta attualmente quello
italiano dove numerose sono, purtroppo, le banche, anche di medie e grandi dimensioni, che si
trovano a fronteggiare una situazione di grave difficoltà economica e finanziaria, e comunque costrette ad affrontare radicali misure di ricapitalizzazione per poter restare sul mercato, e la soluzione della cui crisi è stata subito affidata anche all’applicazione delle nuove misure appena introdotte (8) - può essere utile gettare uno sguardo
verso altre esperienze a noi vicine che hanno già
avuto modo di misurarsi con l’operatività di simili
strumenti, per cercare di capire quale lezione, con
riferimento a siffatto tipo di problema, sia possibile trarne.
In questo senso di estremo interesse appare, allora,
la sent. del 3/28 luglio 2015 resa dalla Corte costi-
(5) Nella convinzione - è ancora una notazione che si legge
in A. Capizzi - S. Cappiello, Prime considerazioni sullo strumento del bail-in, cit., 5 del dattiloscritto - che esso possa porre rimedio alle distorsioni determinate, a livello sistemico, dal meccanismo del bail-out, e rappresentate segnatamente: (i) dall’incremento del c.d. moral hazard da parte degli investitori, portati naturalmente a ritenere che l’attività bancaria sia sempre
supportata da una garanzia dello Stato, e quindi meno indotti
a monitorarne la rischiosità effettiva; (ii) dalla costituzione di
un circolo vizioso tra banche e bilanci degli Stati, e conseguente aggravamento del debito pubblico; (iii) dal rischio della balcanizzazione del mercato dei servizi bancari e dunque da un
tendenziale processo di disaggregazione dei grandi gruppi creditizi lungo confini nazionali, giacché la valutazione di ciò che
può accadere in caso di crisi in termini di possibile sostegno
nazionale, inevitabilmente influisce a monte sulle scelte di organizzazione dell’impresa.
(6) Che si sono manifestate anche in occasione dei lavori
parlamentari. Esemplare, sotto questo profilo, il resoconto stenografico delle sedute del 27 e 28 ottobre 2015 della VI Commissione permanente Finanze e Tesoro del Senato. In particolare significativa la posizione espressa dall’ABI, nel corso dell’audizione del 22/27 ottobre, in ordine alla necessità di valutare la possibilità di un corretto bilanciamento circa l’applicazione del bail-in con riguardo alla tutela delle obbligazioni detenute dai piccoli investitori e alla opportunità di introdurre un adeguato periodo transitorio per consentire loro di essere consapevoli del (nuovo) rischio assunto.
(7) Vedi, ad esempio, in questo senso H. de Vauplane, Pro-
cedural aspects of the bail-in mechanism: conflict between public and private interests, in Butterworths Journal of International Banking and Financial Law, 2012, 572 ss., in specie 575, e,
soprattutto in una prospettiva di diritto transitorio, di S. Gleeson, Legal aspect of Banks Bail-Ins, LSE Financial Market
Group Paper Series, 2012, consultabile su www.lse.ac.uk/fmg;
L. Stanghellini, La disciplina delle crisi bancarie, cit., 175, testo
e nt. 60.
(8) Già in occasione della seduta del 27 ottobre 2015 della
VI commissione permanente del Senato (si veda sempre il resoconto stenografico), il presidente del Fondo Interbancario,
prof. Maccarone, segnalava la necessità di una sollecita approvazione del decreto delegato, in modo da poter utilizzare anche per la risoluzione delle crisi in atto l’ampio strumentario
delle soluzioni previste dalla direttiva. Ciò è poi quanto si è in
concreto verificato per far fronte alla situazione prossima al
dissesto delle principali quattro realtà creditizie in amministrazione straordinaria alla data di entrata in vigore del decreto
(Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio,
Cassa di Risparmio di Ferrara, Cassa di Risparmio di Chieti), rispetto alle quali la Banca d’Italia ha disposto, in data 22 novembre, altrettante procedure di risoluzione, tutte caratterizzate non solo dalla soluzione del conferimento delle attività e
passività ad un ente ponte (ai sensi degli artt. 42 ss. del D.Lgs.
n. 180/2015) ma anche dal contestuale azzeramento, oltre che
delle azioni, pure delle obbligazioni subordinate emesse dai
predetti istituti al fine di assorbire la situazione di patrimonio
netto negativo, il tutto ai sensi dell’art. 27, lett. b), D.Lgs. n.
180/2015.
1486
il Corriere giuridico 12/2015
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Primo piano
Banca
tuzionale austriaca (9) con riferimento ad una vicenda, quella del salvataggio della Hypo Group Alpe Adria, di notevole clamore mediatico, per i risvolti anche transfrontalieri, e parzialmente interessanti pure il nostro paese (10). Con tale decisione il Verfassungsgerichtshof - sebbene non pronunciandosi direttamente sulla disciplina di attuazione
della direttiva (11) - ha, tuttavia, avuto modo di
analizzare proprio la legittimità sotto il profilo costituzionale di una serie di previsioni che appunto
avevano consentito all’autorità di vigilanza austriaca di imporre, seppure nell’ambito di un modello
di soluzione della crisi che nel caso concreto si era
strutturato ancora principalmente secondo le linee
del bail-out, un parziale sacrificio pure ai sottoscrittori di obbligazioni, proprio secondo la logica del
debt write-down previsto dalla direttiva.
Uno sguardo al di là delle Alpi:
il caso HETA
Per la migliore comprensione del ragionamento
della Corte austriaca è certamente necessario qualche breve cenno sulla vicenda che ha dato origine
al giudizio.
Hypo Alpe Hadria era una banca controllata dal
Land tedesco della Baviera, e partecipata anche da
quello austriaco della Carinzia, che era peraltro
l’ambito territoriale di origine e dunque di principale operatività per l’istituto, ancorché la sua attività si fosse poi largamente ramificata, nel tempo,
anche nei Balcani, nell’est Europa e nel nord Italia. Nel corso del 2009 la banca è stata chiamata a
fronteggiare una gravissima situazione di difficoltà
finanziaria, determinata da non corrette politiche
di credito e i cui effetti risultavano amplificati dalla generale crisi di questi ultimi anni, tale da por(9) La motivazione integrale è disponibile, in lingua originale, sul sito ufficiale della Corte, all’indirizzo www.vfgh.gv.at.
Nel corso del presente contributo è offerta una libera traduzione, a cura di chi scrive, degli snodi argomentativi principali (indicati con il richiamo dei corrispondenti paragrafi del considerato in diritto e, soprattutto, con l’indicazione dei c.d. Randnummern, ossia i numeri a margine che contraddistinguono i
singoli capoversi).
(10) La banca austriaca, infatti, era - ed è - presente anche
nel territorio nazionale attraverso la propria controllata Hypo
Italia.
(11) Nell’equivoco sembra, invece, essere incorsa la stampa d’opinione (si veda, ad esempio, Lex 24 del 29 luglio 2015)
quando ha presentato la sentenza della Corte austriaca come
una “bocciatura” della direttiva. Ma basterebbe leggere, prima
ancora della sentenza (§ 2.2.3.4.2.3.; Rdnr. 295), anche solo il
comunicato stampa per avvedersi che il Verfassungsgerichtshof ha espressamente precisato come la legge di attuazione
della direttiva non abbia formato oggetto del giudizio di legittimità costituzionale.
il Corriere giuridico 12/2015
tarla sul punto dell’apertura di una procedura di insolvenza.
Al fine di scongiurare siffatta eventualità, il governo austriaco procedeva dapprima alla nazionalizzazione della banca, e quindi, nel 2014, ad un’opera
di riorganizzazione societaria, che metteva capo, da
un lato, alla separazione delle attività ancora capaci di produrre una redditività, che venivano allocate nella nuova Alpe Hadria e, dall’altro lato, alla
creazione di una c.d. Abbaueinheit, denominata
HETA, vale a dire di una società veicolo nella
quale far confluire, oltre alle passività della vecchia
banca, tutta la componente non performing dell’attivo (tra cui anche alcuni rami aziendali, come in
particolare quello in Italia) e il cui scopo è la realizzazione di tali assets cercando di massimizzarne il
valore.
Quest’opera di riorganizzazione è stata compiuta attraverso un complesso intervento normativo, frutto
di diversi testi legislativi approvati ad hoc, e seguiti
da provvedimenti attuativi addottati dal Finanzmarktaufsicht (FMA), l’autorità di vigilanza austriaca operante quale autorità di risoluzione della crisi,
e che si sono mossi, seppure in parte, già sui principi della direttiva (12). In particolare, per quanto di
specifico interesse in questa sede - dopo aver ricollocato sul mercato la proprietà della nuova banca il governo austriaco, che ha conservato il controllo
di HETA nella sopradescritta prospettiva liquidatoria e che si è accollato ancora un intervento di
sostegno di siffatta società in un ordine di grandezza stimato in circa € 3,9 miliardi (13), ha imposto,
sulla base di quanto disposto dal § 3 della legge per
il risanamento di Alpe Hadria (HaaSanG), l’onere
di concorrere allo sopportazione delle perdite di
HETA anche ai possessori di obbligazioni subordinate, sancendo segnatamente per tutti coloro che
(12) Il processo di riorganizzazione di Alpe Hadria è stato,
insomma, realizzato applicando cumulativamente proprio le
misure tipizzate dalla direttiva: vale a dire, separazione di assets, creazione di una società veicolo e appunto bail-in. Nel
senso che nei procedimenti di risoluzione delle crisi secondo il
modello delineato dalla BRRD è fisiologico che le diverse misure siano destinate a un’applicazione sostanzialmente congiunta cfr. A. Capizzi - S. Cappiello, Prime considerazioni sullo
strumento del bail-in, cit., 3; L. Stanghellini, La disciplina delle
crisi bancarie, cit., 169.
(13) Il complesso intervento normativo prevedeva, infatti,
che HETA, partecipata come detto totalitariamente dal governo austriaco, si rendesse cessionaria, a titolo oneroso, degli
assets non performing di Alpe Hadria, così con un ulteriore
esborso finanziario a carico delle risorse pubbliche. Sulla struttura dell’operazione, e sull’impatto della stessa sul debito pubblico austriaco, vedi i riferimenti che si possono leggere sulla
stampa quotidiana dell’epoca (e in particolare su Lex 24 del 14
marzo 2014).
1487
Primo piano
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Banca
avessero sottoscritto siffatti titoli con scadenza anteriore al 30 giugno 2019 l’azzeramento del diritto
al rimborso, appunto secondo la logica del debt write down, sopprimendo altresì per costoro anche la
garanzia rilasciata dal Land della Carinzia.
Di qui allora il sorgere di diversi dubbi di legittimità costituzionale, che hanno finito per coinvolgere
l’intero plesso normativo attraverso cui si è scandito il processo di riorganizzazione e risanamento di
Alpe Hadria e comunque in subordine delle disposizioni indicate, in quanto ritenute in contrasto con
le norme della Staatsgrundgesetz über die allgemeinen
Rechte der Staatsbürger, della Convenzione Europea
dei diritti dell’Uomo, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione in tema di tutela della proprietà, nonché più in generale per violazione del
principio di uguaglianza.
Il Verfassungsgerichtshof davanti alle
misure di bail-in imposte dal governo
austriaco per evitare il dissesto di HETA
Con ampia motivazione la Corte austriaca ha accolto i ricorsi, dichiarando la contrarietà ai principi costituzionali delle sopraindicate disposizioni.
Il Tribunale costituzionale muove dall’esame della
censura riguardante la contrarietà di una misura di
debt write-down con le guarentigie costituzionali
della proprietà, affermando (parte IV del considerato in diritto) - e in questo senso in piena consonanza con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi in relazione alla delimitazione dell’ambito applicativo dell’art. 1, del primo protocollo addizionale della Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo - che il principio di inviolabilità
del diritto di proprietà, se non in forza di una
espressa disposizione di legge e in presenza di un
pubblico interesse, ha un ambito assai esteso, e che
pertanto esso ben può riguardare anche le “pretese
dei creditori nascenti da rapporti contrattuali di diritto privato” (§. 2.2.3.2.1.; Rdnr. 272), quali sono
quelle dei possessori di obbligazioni subordinate incise dalla disposizione del § 3 HaaSanG e dal consequenziale provvedimento amministrativo adottato dal FMA. Del resto - prosegue il Verfassungsgerichtshof - il carattere ablatorio insito nella misura
della riduzione del valore nominale di un credito
non solo è particolarmente penetrante, ma è anzi
in un certo senso estremo, in quanto tale misura finisce per andare persino oltre il limite di ammissibilità tradizionalmente ritenuto dalla giurisprudenza costituzionale (quella interna, come quella di
Strasburgo), là dove si è affermato che “l’atto
1488
espropriativo nell’interesse pubblico concerne ‘il
bene ma non il valore’”, atteso che al contrario
“l’azzeramento del valore nominale del credito riguarda invece non già ‘il bene’, ma piuttosto e proprio ‘il valore’” (§ 2.2.3.3.; Rdnr. 275).
E tuttavia, pur riconoscendo la cennata contraddizione, la Corte austriaca non esclude che di per sé
anche un simile intervento possa superare indenne
il vaglio di conformità ai principi costituzionali,
purché questa penetrante limitazione del diritto
del creditore non sia “unverhältnismäßig und unsachlich”, ossia non sproporzionata e irragionevole rispetto all’interesse pubblico che si è inteso in concreto perseguire. La Corte austriaca enfatizza, insomma, nella propria motivazione, la necessità, in
casi del genere, di procedere a uno stretto scrutinio
di costituzionalità in ordine all’esistenza dell’interesse pubblico, che si deve presentare perciò in termini particolarmente penetranti.
Orbene, nel caso di specie, il Verfassungsgerichtshof
non nega la fondatezza delle argomentazioni addotte in via di principio dal Governo austriaco, il quale ha sostenuto in causa che la misura è più che
giustificata in un contesto in cui si tratta, per un
verso, di evitare “un ulteriore appesantimento degli
oneri delle finanze pubbliche nel perseguimento
della missione di HETA”, e, per altro verso, di evitare, se si lasciasse HETA al fallimento, non solo
“una rovinosa corsa agli sportelli nelle banche ancora controllate da HETA” ma anche “gli effetti sistemici che l’insolvenza produrrebbe sul mercato
bancario” (§ 2.2.2.; Rdnr. 268) e poi in particolare
sul tessuto economico del Land della Carinzia. Anzi, al contrario, la Corte non solo riconosce che la
“necessità di condurre un processo di risanamento
strutturato della vecchia Alpe Hadria - anche in
considerazione della notoria dimensione delle perdite di questo istituto e delle implicazioni socio
economiche - costituisce un interesse pubblico di
indiscutibile importanza”, ma sottolinea altresì come “al legislatore spetti un’ampia sfera di discrezionalità quando, come nella specie, si tratta di scegliere, da una prospettiva ex ante, tra diverse necessarie misure tutte collegate con difficili decisioni
economiche di tipo prognostico e si deve, sulla base di una valutazione delle diverse possibili conseguenze, prendere una decisione economicamente
rischiosa”, e che pertanto “la Corte nulla può opporre al legislatore, nell’ambito di uno scrutinio di
costituzionalità, ad una ammissibile limitazione del
diritto di proprietà, quando egli si sia orientato per
uno scenario di ‘liquidazione’ piuttosto che di ‘insolvenza’” dal momento che “la scelta tra moltepli-
il Corriere giuridico 12/2015
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Primo piano
Banca
ci strumenti tutti in principio appropriati rientra
nella sua discrezionalità” (§ 2.2.3.4.1; Rdnr. 278).
Quel che la Corte piuttosto si chiede è se interessi
pubblici siffatti possano però permettere di qualificare come non irragionevole la misura in concreto
adottata, consistente nella decisione di azzerare il
valore nominale soltanto di alcune obbligazioni subordinate. Ed è allora, qui, secondo i Giudici di
Vienna, che si registra il vulnus ai principi costituzionali.
Dopo aver rammentato, infatti, che (i) non è possibile predicare la irragionevolezza in sé “della scelta
del legislatore di far partecipare a un processo di
riorganizzazione i creditori con una riduzione dei
loro crediti” dal momento che “in principio effetti
equiparabili si realizzano in casi di insolvenza” e
che una “una tutela assoluta dei diritti patrimoniali
non rientra comunque nello statuto costituzionale
della proprietà” (§ 2.2.3.4.2.1.; Rdnr. 280) e (ii)
che un simile problema nemmeno può farsi discendere dalla distinzione operata dalla legge tra le obbligazioni subordinate e quelle, per così dire ordinarie, giacché le prime “in caso di disavanzo sono
esposte a un rischio più elevato” sicché “le rilevanti differenze tra le une e le altre non rendono la disciplina irragionevole” (§ 2.2.3.4.2.1.; Rdnr. 281),
la censura della Corte si rivolge alla scelta del legislatore di differenziare il trattamento tra creditori
appartenenti ad un’unica classe, quella appunto dei
subordinati, unicamente sulla base di un dato
estrinseco, quale la circostanza che i crediti fossero
destinati a scadere prima o dopo il 30 giugno 2019,
e dunque sulla base del fatto meramente contingente rappresentato dall’appartenere ad una, piuttosto che altra emissione.
Si tratta, allora, secondo la Corte, di una differenziazione che non può essere giustificata sulla base
delle mere e contingenti esigenze, invocate dal governo austriaco, di costruzione del piano finanziario quinquennale di HETA, e la cui irragionevolezza è poi ulteriormente attestata dal fatto che “diversamente da quanto stabilito al § 162, Abs. 6,
BaSag” (ossia appunto la disciplina che nell’ordinamento austriaco ha trasposto la BRRD) “il § 3
HaaSanG neppure sancisce il principio per cui i
creditori nell’ambito della liquidazione di HETA
non vengano comunque a subire una riduzione del
loro credito diversa da quella cui sarebbero esposti
in una procedura di insolvenza” (§ 2.2.3.4.2.3.;
Rdnr. 295).
il Corriere giuridico 12/2015
Segue
Esaurito l’esame della prima questione, la Corte
austriaca passa quindi a trattare il secondo dei prospettati dubbi di legittimità, ossia quello concernente l’eliminazione, sempre per il medesimo gruppo di obbligazionisti subordinati, della garanzia di
rimborso rilasciata, all’atto dell’emissione, dal Land
della Carinzia.
In questo caso la risposta del Verfassungsgerichtshof
è assai più tranchante nel senso dell’irragionevolezza
di siffatta limitazione del diritto del creditore, sempre sotto il profilo della contrarietà alle norme che
delineano la tutela costituzionale della proprietà.
Le difese prospettate dal governo federale sul punto
erano sostanzialmente due. Per un verso, si allegava che la “cancellazione” della garanzia rappresentava un elemento complementare e necessario al
processo di ristrutturazione di HETA, dal momento che se la Carinzia avesse dovuto onorare il debito, quest’ultima avrebbe poi potuto agire in via di
surrogazione legale nei diritti degli obbligazionisti
contro la stessa HETA ai sensi del § 1358 dell’ABGB (ossia la norma del codice civile austriaco
corrispondente al nostro art. 1203 c.c.), così sostanzialmente vanificando l’effetto dell’azzeramento delle obbligazioni (§ 2.3.1.; Rdnr. 300); per altro
verso, si sosteneva, invece, che la misura era preordinata ad evitare che lo stesso Land della Carinzia
venisse a trovarsi in una situazione di insolvenza,
la quale si sarebbe riflessa inevitabilmente anche
sullo Stato federale comportando ulteriori costi per
quest’ultimo nel rifinanziamento di HETA (sempre
§ 2.3.1.; Rdnr. 301).
La Corte austriaca disattende, però, con nettezza
entrambi gli argomenti. Quanto al primo i Giudici
di Vienna osservano che, “anche a prescindere dalla considerazione che è già l’azzeramento delle obbligazioni subordinate disposta dal § 3, prima proposizione, HaaSanG ad essere costituzionalmente
illegittimo, sicché lo scopo di assicurare gli effetti
utili di tale misura non può assumere rilevanza”,
l’argomento evocato non risulta comunque decisivo, atteso che il medesimo obiettivo avrebbe potuto essere egualmente realizzato dal legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, in maniera
più rispettosa dei diritti degli obbligazionisti, per
esempio semplicemente prevedendo “l’esclusione, a
valle dell’adempimento da parte del garante, del
diritto di quest’ultimo di surrogarsi al creditore nei
diritti contro il debitore principale” (§ 2.3.3.1.;
Rdnr. 309). Per quel che concerne il secondo argomento, il Tribunale costituzionale osserva, invece,
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che la dichiarata necessità di “evitare che il Land
possa trovarsi in una situazione economica non sostenibile” non è sufficiente, nel caso concreto, per
giustificare l’azzeramento anche della garanzia, atteso che un simile rischio “non appare plausibile,
specie considerando che il valore complessivo della
garanzia oggetto dell’intervento ablatorio è pari a
circa 0,8 milioni di euro su di una esposizione complessiva del Land che ammonta ancora a circa 10,2
miliardi di euro” (§ 2.3.3.2.; Rdnr. 312).
Insomma, conclude sul punto la Corte austriaca,
anche tale intervento costituisce un limite irragionevole apposto al diritto degli obbligazionisti subordinati, giacché, per un verso, questi devono poter continuare a fare affidamento sull’esistenza della garanzia rilasciata dal Land “proprio con l’obiettivo di finanziarie l’espansione dell’Istituto di credito” e che presenta, tra l’altro, un contenuto rafforzato in quanto sostanzialmente assicurativo,
mentre, per altro verso, la liberazione del Land dagli obblighi a suo tempo assunti “nulla ha a che vedere con il processo di liquidazione di HETA” (§
2.3.3.2.; Rdnr. 317 e 318).
La decisione resa dalla Corte austriaca mi sembra
possa rappresentare una lente appropriata attraverso cui osservare la tenuta, anche rispetto al nostro
quadro costituzionale, delle misure di bail-in come
regolate nel Titolo IV, Capo IV, Sezione III (artt.
48 ss.) del D.Lgs. n. 180/2015.
Premesso che un intervento come quello di ablazione della garanzia verificatosi nella vicenda HETA non potrebbe essere in alcun modo consentito
già alla luce della disciplina dettata dalla direttiva, e per come poi trasposta nell’ordinamento interno - vuoi perché essa esclude a monte (così
l’art. 48, primo comma, lett. b) la stessa possibilità
che passività assistite da una garanzia reale siano
sottoposte a riduzione ovvero a conversione a capitale se non per la parte eccedente il valore della
garanzia (14), vuoi comunque perché, in caso di
obbligazioni e, comunque, di crediti assistiti da
garanzia personale la sottoposizione a bail-in non
pregiudica il diritto ad agire nei confronti dei fideiussori e di eventuali coobbligati in solido, che
saranno semmai i soggetti che sopportano in via
finale il rischio dell’azzeramento del proprio credito di regresso (così art. 52, comma 7) (15) - il tema che merita di essere brevemente qui analizzato
è se, ed in che limiti, gli interventi disposti per
via amministrativa dall’autorità di risoluzione della crisi ai sensi in particolare dell’art. 52 del decreto delegato - relativo al “trattamento di azionisti e creditori”, e che appunto statuisce che gli interventi di riduzione, e financo azzeramento, delle
azioni, degli strumenti finanziari c.d. ibridi e delle
altre passività, secondo l’ordine gerarchico indicato da siffatta disposizione, abbiano luogo “senza
che sia dovuto alcun indennizzo” (così si esprime
il comma 5 dell’art. 52) - possano resistere in un
eventuale scrutinio di legittimità secondo i principi elaborati dalla nostra giurisprudenza costituzionale.
Orbene, sotto quest’aspetto non mi sembra revocabile in dubbio che anche nel nostro ordinamento vuoi i titolari della partecipazione sociale, vuoi
gli stessi possessori di strumenti finanziari di tipo
obbligazionario - e ciò indipendentemente dal fatto che si tratti strumenti da ascrivere alla nozione
tipologica di obbligazioni, ossia di titolari di un
diritto di credito, ovvero piuttosto alla nozione
normativa di cui all’art. 2411, comma 3, c.c., e
dunque espressivi di un investimento più simile a
quello proprio dei sottoscrittori del capitale di rischio (16) - possano ambire a invocare, in principio, la protezione di rango costituzionale riconosciuta al diritto di proprietà. Induce, infatti, in tal
senso non solo la considerazione - che rappresenta
oramai una costante negli orientamenti della nostra giurisprudenza costituzionale - che anche le
norme della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, per il tramite dell’art. 117 Cost., possono
costituire parametro del sindacato di legittimità
costituzionale, sicché evidentemente anche ai fini
del diritto interno entra in gioco quella nozione
più allargata di proprietà che si è affermata nella
(14) Nel senso che la ratio dell’esclusione dal bail-in delle
passività garantite risponderebbe oltretutto anche all’esigenza
di rispettare quanto avverrebbe in un’ordinaria procedura di insolvenza (dove la possibilità di realizzare la garanzia rimarrebbe ovviamente impregiudicata) cfr. D.H. Bliesener, Legal Problems of Bail-Ins under EU’s proposed Recovery and Resolution
Directive, in AA. VV., The Bank Recovery and Resolution Directive, cit., 189 ss., in specie 200.
(15) La soluzione accolta dal legislatore è pertanto piena-
mente in linea con quanto osservato dai Giudici di Vienna in
ordine al fatto che se l’effetto della misura fosse quello della liberazione del fideiussore si finirebbe per arrecare al garante
un indebito vantaggio, oltretutto privo di un reale collegamento con l’esigenza di soluzione della crisi della banca.
(16) Per la distinzione tra obbligazioni in senso tipologico e
obbligazioni in senso normativo si veda G. Ferri jr, Fattispecie
societaria e strumenti finanziari, in Riv. dir. comm., 2003, I, 804
ss., in specie 814
Le ragioni che rendono il bail-in
compatibile con le norme e i principi
costituzionali a tutela della proprietà
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Corte di Strasburgo (17) e che arriva a ricomprendere anche i diritti relativi (18), ma pure la stessa
tendenza, propria del diritto interno, ad assecondare un sempre più accentuato processo di oggettivazione dei diritti correlati al finanziamento e
all’investimento in iniziative imprenditoriali, che
oramai si ascrivono alla categoria dei c.d. beni di
secondo grado (19), con la conseguenza che essi si
prestano a essere considerati (anche) come oggetto di una situazione di appartenenza riconducibile
al paradigma proprietario, e suscettibile di essere
tutelata probabilmente già in applicazione diretta
dell’art. 42 Cost.
Se si muove da questa premessa, risulta, allora, di
immediata evidenza la delicatezza del tema, e il
perché si possa di primo acchito pure dubitare della
legittimità di una disciplina come quella introdotta
dal decreto delegato, attesa l’irriducibile tensione
(che è esattamente quella stessa rilevata anche dalla Corte austriaca) che esiste tra un principio costituzionale, che vuole tutelata la proprietà ammettendone sì l’espropriazione per motivi di interesse
pubblico ma sempre “salvo indennizzo”, e una disposizione che, come appunto sancito dal già citato
quinto comma dell’art. 51, ammette che simili interventi possano essere realizzati “senza indennizzo”.
E tuttavia una simile tensione è, a ben vedere, solo
apparente, ed essa in realtà tendenzialmente si
scioglie - anche per chi voglia ragionare secondo
gli schemi dell’art. 42 Cost. - senza forse nemmeno
dover fare ricorso al principio, sempre rinveniente
dall’elaborazione della Corte di Strasburgo, secondo cui in presenza di motivate ed eccezionali ragioni di interesse generale si possono ammettere interventi ablatori non solo con un indennizzo inferiore
al c.d. valore equo del bene, di base coincidente
con il prezzo di mercato, ma financo senza riconoscimento di alcun controvalore all’espropriato (20).
Da un simile principio - che poi non solo è quello
rammentato, e di fatto applicato, anche dal Verfassungsgerichtshof, ma coincide, a ben vedere, pure
con il presupposto indicato dalla stessa direttiva
come limite all’operatività del bail-in (21) - potrebbe, infatti, persino prescindersi se solo si tiene presente che la previsione della corresponsione dell’indennizzo come necessario contraltare per garantire la legittimità dell’intervento espropriativo rappresenta una soluzione, per così dire, storicamente
condizionata dall’assunzione, da parte dei Costituenti, di un paradigma che è quello della proprietà fondiaria, e comunque quello dei beni corporali (22), ossia di entità dotate pur sempre di un va-
(17) L’affermazione che il diritto di proprietà tutelato dal primo protocollo addizionale della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ha una portata autonoma ed è indipendente dalle
qualificazioni formali dei diritti operate nei singoli ordinamenti
è ampiamente attestata nella giurisprudenza della Corte: vedi,
ad esempio, per tale sottolineatura ancora la sentenza della
Grand Chambre, 29 marzo 2010, caso 34078/02, Brosset-Triboulet c. Francia, che ribadisce il principio, largamente attestato, ai sensi del quale tutti gli “intérêts constituant des actifs
peuvent aussi passer pour des ‘droits patrimoniaux’ et donc des
‘biens’ ‘aux fins de cette disposition’”.
(18) Ma in questo senso si veda già F. d’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione dell’impresa e diritti privati sul
patrimonio dell’imprenditore, in Giur. comm., 1984, I, 53 ss., in
specie 58 che - proprio in relazione al problema del se sia legittimo imporre il costo del risanamento dell’impresa a carico dei
creditori piuttosto che della collettività - invitava a misurarsi innanzitutto con l’art. 42, inteso quale “sommo statuto generale
dei diritti dei privati a contenuto patrimoniale e pertanto metro
universale sul quale misurare ogni norma formalmente o anche solo sostanzialmente ablativa di tali diritti”.
(19) Si tratta di un aspetto rilevato con particolare chiarezza
soprattutto da G. Ferri jr, Situazioni giuridiche soggettive e disciplina societaria, in Riv. dir. comm., 2011, II, 393 ss. Per la sottolineatura che nel quadro della disciplina dei mercati finanziari i
rapporti contrattuali assumono rilevanza innanzitutto come
res, ossia come beni oggetto della negoziazione, sia permesso
rinviare a G. Guizzi, Mercato finanziario, in Enc. dir. (Aggiornamento V), Milano, 2001, 744 ss.
(20) Il principio è ricorrente nella giurisprudenza della Cedu:
in tempi recenti è riaffermato nella sent. del 10 luglio 2012, caso 34940/10, Grainger e altri c. Regno Unito, dove si poneva il
problema della legittimità di una misura di nazionalizzazione di
un istituto bancario in crisi senza corresponsione di alcun indennizzo agli azionisti. Per un’analisi dei problemi posti da tale
decisione - che si può leggere in RdS, 2013, II, 715 ss., - sotto
alcuni aspetti assai simili alle questioni che pone ora la trasposizione della BRRD, cfr., oltre alla nota di T. Ariani - L. Giani, La
tutela degli azionisti nelle crisi bancarie, ivi, 721 ss., anche M.
Marini, Il caso Northern Rock: il consolidarsi del nuovo paradigma proprietario nel diritto privato europeo, in Riv. dir. comm.,
2014, II, 493 ss., ove ampi riferimenti all’evoluzione degli orientamenti interpretativi della Corte.
(21) Nel senso che il bail-in costituisca - almeno nella filosofia alla base della direttiva - uno strumento di ultima istanza,
destinato ad operare in presenza di situazioni di eccezionale
gravità, e segnatamente per gestire le insolvenze delle banche
di maggiori dimensioni, il cui dissesto sarebbe destinato a produrre effetti sistematicamente rilevanti sul mercato bancario
nel suo complesso, cfr. ancora A. Capizzi - S. Cappiello, Prime
considerazioni sullo strumento del bail-in, cit., 6. Il principio viene positivamente sancito, nel D.Lgs. n. 180/2015, sia in generale (i) dall’art. 21, che stabilisce che la Banca d’Italia esercita i
poteri in materia di risoluzione avendo riguardo, inter alia, alle
esigenze di stabilità finanziaria e al contenimento degli oneri
delle finanze pubbliche, contemperandole con l’esigenza “di
evitare, per quanto possibile, distruzione di valore”, sia, più specificamente, (ii) dall’art. 50, che nel definire il requisito minimo
di passività soggette a bail-in stabilisce che esso è determinato
su base individuale, per ciascun intermediario, dalla Banca di
Italia avendo riguardo, tra le altre cose, oltre alla “necessità
che la banca in caso di applicazione del bail-in, abbia passività
sufficienti per assorbire le perdite e per assicurare il rispetto
del requisito di capitale primario di classe 1 previsto per l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria, nonché per ingenerare nel mercato una fiducia sufficiente in essa”, anche alle
“ripercussioni negative sulla stabilità finanziaria che deriverebbero dal dissesto della banca, anche per effetto del contagio di altri
enti”.
(22) Si tratta di un’impostazione orami corrente nella lette-
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lore intrinseco, sia esso di uso o piuttosto di scambio, che si possa sempre esprimere in forma monetaria e in termini positivi. Un paradigma che, allora, mal si adatta quando ci si confronta con i beni
di secondo grado, come appunto gli strumenti finanziari, siano essi quelli rappresentativi della partecipazione al capitale di rischio o piuttosto della
partecipazione a un’operazione di credito, il cui valore costituisce sempre una grandezza derivata (23),
che dipende cioè da quello del patrimonio dell’impresa cui rispettivamente si partecipa o nei confronti del quale si vanta pretesa, e che allora può
risultare anche pari a zero quando quel patrimonio
si riveli privo di consistenza. Insomma, quel che
intendo dire è che in fattispecie come quelle descritte la mancata corresponsione dell’indennizzo,
più che essere espressione di una disapplicazione
della regola per motivate ragioni di interesse generale, potrebbe essere considerata più semplicemente il riflesso del fatto che l’indennizzo dovuto è
eguale a zero, appunto perché è il valore del bene
espropriato che si esprime, in termini monetari, in
quella medesima misura (24).
Ebbene, è proprio se si muove da quest’ordine di
idee che mi sembra che si possa allora già spiegare
perché il bail-in - che, come detto, investe i vari tipi di pretese secondo un ben definito ordine gerarchico, partendo da quelle che, secondo l’articolazione della struttura finanziaria dell’impresa, sono
maggiormente esposte al rischio delle perdite, ovvero quelle degli azionisti quali residual claimants,
per poi progressivamente passare alle altre diverse
classi di finanziatori (titolari di strumenti finanziari
partecipativi ai sensi dell’art. 2346, ultimo comma,
c.c., possessori di obbligazioni subordinate, titolari
di obbligazioni etc.), fino ad arrivare, in ultimissima analisi, ai depositanti i cui depositi non rientrino tra quelli c.d. protetti (ossia quelli sino alla soglia di € 100.000), e dove il passaggio dall’una all’altra classe avviene solo sulla premessa che la riduzione delle passività precedenti non sia sufficiente per coprire le perdite, e comunque per assicurare
la realizzazione dell’obiettivo perseguito dall’atto di
risoluzione - possa sottrarsi ai paventati dubbi di legittimità. Gli è, infatti, che gli azionisti e i creditori in tanto possono essere privati, progressivamente, dei loro diritti, appunto senza indennizzo, in
quanto è il valore di tali diritti che risulta essersi
ormai azzerato, sicché per ciò che vale zero, zero
sarà dovuto.
In questa prospettiva si comprende, pertanto, perché gli unici vincoli che è necessario rispettare,
per assicurare la legittimità di tali interventi ablatori, siano quelli espressamente sanciti dalla direttiva, e fedelmente recepiti dal comma 2 dell’art. 52
del decreto delegato, che allora già contiene, per
così dire in sé, gli appropriati correttivi per sottrarsi a censure di incostituzionalità. Si comprende,
cioè, perché ai fini della loro legittimità occorrerà
soltanto, per un verso, (i) che l’applicazione delle
misure di bail-in avvenga nel rispetto del principio
di uguaglianza (25), e dunque che gli interventi in
questione siano disposti “in modo uniforme nei
confronti di tutti gli azionisti e i creditori dell’ente
appartenenti alla stessa categoria, proporzionalmente al valore nominale dei rispettivi strumenti
ratura civilistica: cfr., per tutti, M. Marini, Il caso Northern
Rock, cit., 505 ss.
(23) Nel senso che ogni processo di valutazione che interessa beni di secondo grado assume carattere inevitabilmente
relazionale “implicando un necessario confronto con parametri
esterni all’entità valutata”, cfr. - con specifico riferimento al
problema della determinazione del valore degli strumenti rappresentativi della partecipazione al capitale di rischio di un’impresa (ma con considerazioni che mi sembrano estensibili anche rispetto al problema della stima del valore degli strumenti
rappresentativi del capitale di credito) - M. Maugeri, Partecipazione sociale, quotazione di borsa e valutazione delle azioni, in
Riv. dir. comm., 2014, 93 ss.
(24) La regola, insomma, non sarebbe tanto quella “dell’esproprio senza indennizzo” bensì quella “dell’esproprio con indennizzo zero”, perché zero è il valore del bene. Si supererebbe
così il genere di obiezioni marcatamente critiche già a suo
tempo avanzate, contro i modelli di soluzione della crisi di impresa che pongono gli oneri della riorganizzazione della stessa
a carico dei creditori, da F. d’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione, cit., p. 60, per il quale lo strumento espropriativo di cui all’art. 42 Cost. sarebbe residuale ed eccezionale,
essendovi dato ricorrere solo quando la necessità pubblica
non possa essere soddisfatta con denaro, e dunque con il prelievo tributario: “ossia solo quando la necessità pubblica si in-
dirizzi verso un bene specifico, considerato come mezzo infungibile alla soddisfazione di quel bisogno”. Gli è, infatti, che a
tale ordine di idee - che se trasposto rispetto alla disciplina di
attuazione della BRRD potrebbe far dubitare della legittimità
degli interventi di bail-in, in quanto “essi mirano sostanzialmente a devolvere, a fini di interesse pubblico, non già beni
specificamente individuati come indispensabili, ma genericamente denaro privato” (così sempre F. D’Alessandro, Interesse
pubblico alla conservazione, cit., 61) - mi sembra si possa replicare, come appunto meglio chiarito più avanti nel testo, che
qui la legittimità dell’intervento è assicurata dal fatto che al
creditore non viene tolto nulla di più, in termini di valore, di
quanto risulterebbe già comunque perduto nella prospettiva
non della risoluzione della crisi, bensì dell’apertura della liquidazione coatta o di altra procedura di insolvenza. In senso assai vicino a quello qui espresso cfr. A. Gardella, Il bail-in e il finanziamento delle risoluzioni, cit., in specie 610.
(25) Nel senso che il principio di eguaglianza entra, in tale
materia, in gioco solo in una prospettiva successiva, appunto
perché esso “non è in grado di dirci se sia legittimo imporre
sacrifici ai creditori” ma “può solo, una volta che questo primo
problema sia stato risolto positivamente sulla base di altre norme costituzionali, segnare taluni limiti e vincoli circa il modo in
cui quei sacrifici possono essere imposti e/o distribuiti”, F.
d’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione, cit., 57.
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finanziari o crediti, secondo la gerarchia applicabile in sede concorsuale” (il che è, appunto ciò che
era mancato nel caso della normativa austriaca per
la risoluzione della crisi di HETA, e che la ha inevitabilmente condannata alla censura del Verfassungsgerichtshof ), e, per altro verso, (ii) che “nessun
titolare degli strumenti, degli elementi o delle passività ammissibili di cui al comma 1 riceva un trattamento peggiore rispetto a quello che riceverebbe
se l’ente sottoposto a risoluzione fosse liquidato, secondo la liquidazione coatta amministrativa disciplinata dal Testo Unico Bancario o altra analoga
procedura concorsuale applicabile” (26).
Un principio, quest’ultimo, che, come intuito già
dalla Corte austriaca, mi sembra rappresentare, allora, il decisivo e definitivo punto di equilibrio - in
un sistema che come ci ha ricordato ancora di recente la nostra Corte costituzionale “richiede un
continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi
e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza
per nessuno di essi” (27) - tra le esigenze di salvaguardia e protezione dei diritti dei ceditori e le
eventuali esigenze di interesse pubblico alla funzionalità del mercato bancario, e dunque costituire,
in termini di ponderazione tra valori tutti dotati di
un ancoraggio costituzionale, il ragionevole momento di composizione tra la necessità di assicurare
la protezione della proprietà ex art. 42 e l’esigenza
di accordare tutela al risparmio ex art. 47 (28).
(26) In questo contesto un ruolo centrale e decisivo, al fine
di assicurare la complessiva legittimità costituzionale della disciplina, sono allora destinate ad assumere le disposizioni dettate dagli artt. 88 e 89, non a caso collocate nel titolo VI sotto
la rubrica “salvaguardie e tutela giurisdizionale”. La prima prevede, infatti, che a seguito dell’avvio della “risoluzione”- che
peraltro già deve essere preceduta da una prima valutazione
“equa, prudente e realistica delle attività e passività della banca”, (così l’art. 23), e tra le cui finalità è anche, nelle ipotesi di
bail-in, una stima del trattamento che le pretese incise da tali
misure potrebbero avere in sede concorsuale (art. 24, comma
5) - la Banca d’Italia proceda alla nomina di un esperto indipendente affinché provveda “senza indugio alla valutazione
del trattamento che gli azionisti e i creditori (….) avrebbero ricevuto se, nel momento in cui è stata accertata la sussistenza
dei presupposti per l’avvio della risoluzione, l’ente sottoposto a
risoluzione fosse stato liquidato secondo la liquidazione coatta
amministrativa disciplinata dal Testo Unico Bancario o altra
analoga procedura concorsuale applicabile e le azioni di risoluzione non fossero state poste in essere” nonché “l’eventuale
differenza rispetto al trattamento ricevuto da costoro in concreto per effetto delle azioni di risoluzione”; la seconda stabilisce, invece, che qualora tale valutazione riveli l’esistenza di un
trattamento deteriore, l’azionista e/o il creditore pregiudicato
“ha diritto di ricevere, a titolo di indennizzo, una somma equivalente alla differenza determinata ai sensi dell’articolo 88”,
con oneri posti a carico del “fondo di risoluzione” che dovrà
essere costituito ai sensi degli artt. 78 ss. (il fondo costituisce
un patrimonio separato alimentato da contributi posti a carico
dell’intero sistema bancario e la cui funzione è appunto quella
di garantire l’efficace attuazione delle misure di risoluzione in
concreto adottate). Il quadro normativo così complessivamente delineato sembrerebbe, insomma, strutturarsi secondo un
sistema sufficientemente articolato di pesi e contrappesi, ancorché forse con il limite - evidentemente non secondario - di
una non chiarissima individuazione dei meccanismi di controllo giurisdizionale della correttezza di tali valutazioni. Sotto questo specifico aspetto merita, infatti, di essere sottolineato che
mentre per la valutazione iniziale ai sensi degli artt. 23 e 24 è
testualmente prevista la possibilità di un controllo giurisdizionale da parte del giudice amministrativo (ancorché non in via
autonoma, ma solo contestualmente all’impugnazione dell’atto che adotta le misure di risoluzione: così l’art. 26, ultimo
comma), un’analoga espressa previsione non è ripetuta rispet-
to alla valutazione di cui all’art. 88, ossia proprio quella che entra in gioco ai fini dell’applicazione del bail-in. Atteso che, evidentemente, una forma di tutela giurisdizionale non solo deve
essere necessariamente ipotizzata, pena altrimenti la violazione dell’art. 24 Cost., ma deve essere altresì ispirata a un principio di effettività, pena altrimenti la violazione dell’art. 13 della
Cedu, ci si deve allora chiedere se, in questo caso, siffatta tutela si esperisca: (i) pur sempre davanti al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 95, e con contestuale impugnazione dell’atto autoritativo che dispone tali misure, oppure sia possibile
immaginare un’azione davanti al giudice ordinario che, senza
mettere in discussione la loro adozione, contesti solo la valutazione, al fine di ottenere il pagamento dell’indennizzo a carico
del fondo; (ii) se tale contestazione sia ammessa senza limiti
oppure - come a me sembrerebbe più corretto, anche in forza
dell’adesione a quell’indirizzo interpretativo che sottolinea il
carattere “eminentemente giuridico di ogni problema estimativo” e come il risultato scaturito da un determinato processo di
valutazione di “entità” come gli strumenti di partecipazione al
capitale di rischio (e di credito) di un’impresa possa definirsi
corretto “non in quanto “esatto”, cioè espressivo di una (preesistente) qualità intrinseca [dell’entità valutata] bensì soltanto
ove risponda allo scopo perseguito dall’enunciato normativo
che ne prevede l’individuazione” (così espressamente M. Maugeri, Partecipazioni sociali, quotazione di borsa, cit., 95 s) - solo
per manifesta erroneità ed iniquità della valutazione, ad instar
di quanto previsto dall’art. 1349 c.c.
(27) Il brano si legge in Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85.
(28) Norma, questa, che del resto nella sua elasticità ben si
presta a ricomprendere, in virtù dello stretto collegamento funzionale stabilito tra risparmio ed esercizio del credito, quale valore oggetto di tutela anche la funzionalità del sistema e del
mercato bancario. Nel senso che il valore tutelato dall’art. 47
sarebbe anzi, almeno nella prospettiva storica seguita dai Costituenti, “non il risparmio in sé - perché di definitiva la ricchezza accantonata, quale che sia la forma giuridica attraverso cui
essa si presenta individualmente attribuita, già gode della tutela apprestata dallo statuto costituzionale della proprietà - ma
solo quello che rifluisce, attraverso l’attività bancaria, nel circuito della liquidità monetaria” si veda - riprendendo le tesi di
F. Merusi, Rapporti economici, III, in G. Branca (a cura di),
Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1980, 153 ss F. Guizzi, La tutela del risparmio nella costituzione, in Il Filangieri, 2005, 171 ss.
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Qualche tema di diritto transitorio
Il sistema del bail-in delineato dalla direttiva, per
come il nostro legislatore si accinge a recepirlo,
sembrerebbe, dunque, potersi sottrarre, almeno in
prospettiva, a censure di legittimità costituzionale.
Resta semmai da chiedersi se a un esito del pari
tranquillizzante possa pervenirsi anche in sede di
prima applicazione di tale disciplina, e ciò specie
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in considerazione del fatto che i possessori di strumenti finanziari che siano già in circolazione alla
data di entrata in vigore della nuova disciplina, diversamente da quelli che verranno emessi in futuro, si vedono sottoposti ad un rischio non previsto
all’atto della sottoscrizione del contratto, e che allora non hanno potuto consapevolmente valutare.
Orbene, a me sembra che all’interrogativo attinente a una possibile illegittimità della sottoposizione
a tali misure anche degli strumenti finanziari già in
circolazione debba rispondersi negativamente. Gli
è, infatti, che se il dubbio che si intende prospettare è che la sottoposizione al meccanismo di riduzione autoritativa delle passività già esistenti, e poi in
particolare delle obbligazioni, si risolve in una modifica retroattiva della disciplina applicabile al rapporto contrattuale (29) e quindi anche in una violazione del principio del legittimo affidamento (30), credo che esso possa essere comunque superato rammentando quanto più volte oramai sta-
tuito dalla nostra giurisprudenza costituzionale (31)
in relazione al fatto che il divieto di irretroattività
della legge, pur costituendo un valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve - al di fuori della
materia penale - una protezione assoluta, sicché è
pur sempre possibile l’emanazione di norme aventi
efficacia retroattiva, qualora la retroattività trovi
adeguata giustificazione in motivi di interesse generale, segnatamente rappresentati nella necessità
di tutelare altri beni di rilievo costituzionale.
Il che è, allora, quanto mi sembra possa dirsi ragionevolmente essere nel caso di specie, attesa appunto la ricordata logica di strumentalità delle misure
di bail-in per evitare gli effetti sistemici potenzialmente derivanti dall’apertura della procedura di insolvenza, e quindi, sotto questo profilo, la loro strumentalità per garantire tutela a quel valore, che
rientra anch’esso come detto nel perimetro di quelli protetti dall’art. 47, rappresentato dalla stabilità
del mercato bancario.
(29) E questa sembrerebbe essere la perplessità espressa
da L. Stanghellini, La disciplina delle crisi, cit., 175, nt. 60.
(30) Un valore, quello del legittimo affidamento, che trova
copertura costituzionale - secondo gli orientamenti interpretativi del Giudice delle leggi - attraverso l’art. 3. Cfr., in questo
senso, per una recentissima applicazione del principio, Corte
cost. 5 novembre 2015, n. 216 resa tra l’altro in una fattispecie
che presenta anche qualche possibile punto di contatto con le
vicende che ci occupano: in tale decisione la Corte ha, infatti,
ritenuto costituzionalmente illegittima la previsione dell’art. 26
del D.L. n. 201/2011 con cui il legislatore ha anticipato la scadenza del termine per l’esercizio del diritto di conversione delle
lire in euro, così sostanzialmente operando un atto espropriativo del relativo credito (e non a caso l’ordinanza di rimessione
del Tribunale di Milano aveva individuato come ulteriore profilo
di possibile illegittimità costituzionale anche la violazione del-
l’art. 42, comma 3, Cost.; censura, questa, tuttavia non esaminata dalla Corte in quanto ritenuta assorbita).
(31) Il principio è consolidato: in questo senso si veda, ad
esempio, Corte cost. 26 gennaio 2012, n. 15; Corte cost. 5
aprile 2012 n. 78; Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236. Analoga è
del resto anche la posizione espressa con riferimento al tema
della tutela costituzionale del principio del legittimo affidamento: nel senso che “il valore del legittimo affidamento riposto
nella sicurezza giuridica trova sì copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., ma non già in termini assoluti e inderogabili” dal
momento che “interessi pubblici sopravvenuti possono esigere
interventi normativi diretti a incidere peggiorativamente anche
su posizioni consolidate, con l’unico limite della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti” cfr. Corte cost. 31 marzo 2015, n. 56.
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Legislazione
Novità in sintesi
Novità normative
a cura di Alessandro Pagano
Affido familiare
Legge 19 ottobre 2015, n. 173
«Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido
familiare» (G.U. 29 ottobre 2015, n. 252)
Si novella la L. n. 184/1983 modificando innanzitutto l’art. 4 inserendo alcuni commi (5 bis, ter, quater) secondo
cui qualora, durante un prolungato periodo di affidamento, il minore sia dichiarato adottabile ai sensi delle disposizioni del capo II del titolo II e qualora, sussistendo i requisiti previsti dall’art. 6, la famiglia affidataria chieda di
poterlo adottare, il tribunale per i minorenni, nel decidere sull’adozione, tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria. (c. 5 bis)
Qualora, a seguito di un periodo di affidamento, il minore faccia ritorno nella famiglia di origine o sia dato in affidamento ad altra famiglia o sia adottato da altra famiglia, è comunque tutelata, se rispondente all’interesse del
minore, la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento. (c. 5 ter)
Si prevede in ultimo che il giudice, ai fini delle decisioni di cui ai commi 5 bis e 5 ter, tenga conto anche delle valutazioni documentate dei servizi sociali, ascoltato il minore che ha compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore se capace di discernimento.
Parimenti modificato (art. 2) è l’art. 5 che sostituisce (in senso espansivo del relativo ruolo) l’affidatario o l’eventuale famiglia collocataria che devono essere convocati, a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato ed hanno facoltà di presentare
memorie scritte nell’interesse del minore.
L’ultima modifica riguarda l’art. 25 con l’inserimento di un comma 1 bis: “Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche nell’ipotesi di prolungato periodo di affidamento ai sensi dell’articolo 4, comma 5-bis” e l’art. 44,
comma 1, lett. a) dopo le parole: “stabile e duraturo”, sono inserite le seguenti: “anche maturato nell’ambito di
un prolungato periodo di affidamento”.
Partiti politici
Legge 27 ottobre 2015, n. 175
«Modifiche all’articolo 9 della legge 6 luglio 2012, n. 96, concernenti la Commissione di garanzia degli statuti e per
la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici» (G.U. 31 ottobre 2015, n. 254)
Trattasi di disposizioni concernenti la funzionalità della Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza
e il controllo dei rendiconti dei partiti politici.
All’art. 9, comma 3, L. 6 luglio 2012, n. 96, sono apportate modificazioni. In particolare, si prevede che per lo
svolgimento dei compiti ad essa affidati dalla legge la Commissione può altresì avvalersi di cinque unità di personale, dipendenti della Corte dei conti, addette alle attività di revisione, e di due unità di personale, dipendenti da
altre amministrazioni pubbliche, esperte nell’attività di controllo contabile.
Ufficio del processo
Decreto del Ministero della Giustizia 1° ottobre 2015
«Misure per l’attuazione dell’ufficio per il processo, a norma dell’articolo 16-octies del decreto-legge 18 ottobre
2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221» (G.U. 2 novembre 2015, n. 255)
Il decreto stabilisce (art. 1) le misure organizzative necessarie per il funzionamento dell’ufficio per il processo.
L’inserimento dei giudici ausiliari e dei giudici onorari di tribunale nell’ufficio per il processo non potrà comportare lo svolgimento di attività diverse da quelle previste dalle disposizioni vigenti; parimenti, l’inserimento del personale di cancelleria nell’ufficio per il processo non potrà comportare modifiche dei compiti e delle mansioni previsti dalle disposizioni normative e contrattuali vigenti. (art. 1, c. 3)
L’art. 2 regola poi la costituzione dell’ufficio per il processo. Il presidente della Corte d’Appello o del tribunale articola le strutture organizzative denominate ufficio per il processo, tenuto conto del numero effettivo di giudici ausiliari o di giudici onorari di tribunale, nonché del personale di cancelleria, di coloro che svolgono lo stage di cui all’art. 73 del D.L. n. 69/2013, convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, o la formazione professionale dei laureati a
norma dell’art. 37, comma 5, D.L. n. 98/2011, convertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111.
Il dirigente amministrativo adotta le misure di gestione del personale di cancelleria coerenti con le determinazioni
del capo dell’ufficio. (c. 1)
Al fine di svolgere il periodo di perfezionamento di cui al comma 1 bis dell’art. 50 del D.L. n. 90/2014, convertito
dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, possono altresì far parte dell’ufficio per il processo i soggetti in possesso dei cri-
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teri stabiliti dal decreto previsto dal predetto comma. Tali soggetti svolgono, di regola, nell’ufficio per il processo
attività di supporto al personale di cancelleria.
Il presidente della Corte d’Appello o del tribunale assegna le strutture organizzative di cui al comma 1 a supporto
di uno o più giudici professionali, tenuto conto in via prioritaria del numero delle sopravvenienze e delle pendenze, nonché, per il settore civile, della natura dei procedimenti e del programma di gestione di cui all’art. 37, comma 1, D.L. n. 98 del 2011. Il coordinamento e il controllo delle strutture organizzative di cui al comma 1 sono
esercitati dai presidenti di sezione, o dai giudici delegati allo svolgimento dei predetti compiti. Il presidente della
Corte d’Appello o del tribunale può accentrare in capo ad una o più delle strutture organizzative di cui al comma
1 anche lo svolgimento di attività di cancelleria che sarebbero di competenza di più sezioni, ivi incluse le rilevazioni statistiche e la risoluzione delle problematiche derivanti dall’impiego delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione e dalla adozione di nuovi modelli organizzativi.
L’art. 3 pertiene alla dotazione degli applicativi informatici: la direzione generale dei sistemi informativi automatizzati sviluppa gli applicativi informatici per il funzionamento, il coordinamento e il controllo delle strutture organizzative denominate ufficio per il processo.
Con l’art. 4 si regola l’ammissione allo stage e attestazione del relativo esito.
Quando la domanda di ammissione allo stage è accolta, il presidente della Corte d’Appello o del tribunale fissa la
data in cui il periodo di formazione teorico-pratica deve avere inizio. (c. 5)
Il magistrato formatore redige la relazione di cui all’art. 73, (c. 6), comma 11, del D.L. n. 69/2013, cit., entro quindici giorni dal termine dello stage; il presidente della Corte d’Appello o del tribunale appone il proprio visto sull’attestazione medesima. L’attestazione prevista dall’art. 73, comma 11, D.L. n. 69, cit., è rilasciata anche a coloro
che hanno completato con esito positivo lo stage, pur avendolo iniziato prima dell’entrata in vigore dell’art. 16 octies, comma 2, D.L. n. 17/2012, convertito dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221.
Il provvedimento e la relazione di cui ai commi 1 e 2 sono redatti in conformità alle linee guida stabilite dalla direzione generale dei magistrati del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del Ministero della Giustizia.
Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano, in quanto compatibili, anche ai soggetti di cui all’art. 37,
comma 5, D.L. n. 98 del 2011.
Con l’art. 5 si regola l’attestazione del completamento del periodo di perfezionamento e del relativo esito.
Il capo dell’ufficio o un giudice da lui delegato attesta il completamento, con esito positivo, del periodo di perfezionamento presso l’ufficio per il processo da parte dei soggetti di cui all’art. 2, comma 2, anche ai fini di cui all’art. 21 ter, comma 1 quater, D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito dalla L. 6 agosto 2015, n. 132. (Il testo del
comma 1 quater cit., prevede che il completamento del periodo di perfezionamento presso l’ufficio per il processo costituisce titolo di preferenza a parità di merito, ai sensi dell’art. 5 del regolamento di cui al d.P.R. 9 maggio
1994, n. 487 nei concorsi indetti dalla pubblica amministrazione. Stabilisce altresì che nelle procedure concorsuali indette dall’amministrazione della Giustizia sono introdotti meccanismi finalizzati a valorizzare l’esperienza formativa acquisita mediante il completamento del periodo di perfezionamento presso l’ufficio per il processo).
L’art. 6 prevede il censimento ed il monitoraggio. Il dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e
dei servizi provvede, avvalendosi, nell’ambito delle rispettive competenze, della direzione generale dei sistemi informativi ed automatizzati e della direzione generale di statistica, alla predisposizione di un sistema informatico
volto alla rilevazione dei dati inerenti le strutture organizzative denominate ufficio per il processo, al fine di constatare, in particolare, le corti di appello e i tribunali presso i quali le stesse sono presenti, il numero delle strutture
articolate presso ciascun tribunale e Corte d’Appello, le categorie dei soggetti che fanno parte delle medesime
strutture organizzative, l’assegnazione di esse a supporto di uno o più magistrati, nonché l’eventuale articolazione
di strutture organizzative accentrate a norma dell’art. 2, comma 4. I dati sono elaborati dalla direzione generale di
statistica al fine della rilevazione dell’incidenza della presenza dell’ufficio per il processo e del modello organizzativo concretamente adottato sulla produttività dell’ufficio e sulla durata dei procedimenti. Il sistema informatico è
reso pienamente operativo entro il 31 dicembre 2017. (c. 1)
Il dipartimento di cui al comma 1, con le modalità previste dal predetto comma, provvede altresì alla rilevazione
dei dati relativi ai soggetti ammessi al periodo di formazione teorico-pratica di cui all’art. 73 del D.L. n. 69 del
2013, al fine di constatare, in particolare, il numero dei predetti soggetti, la suddivisione degli stessi per fasce di
età, per voto di laurea riportato, per media dei voti riportati negli esami di cui al comma 1 del predetto articolo, le
università presso le quali hanno conseguito la laurea, nonché le materie per le quali hanno espresso preferenza ai
fini dell’assegnazione, il numero di magistrati che hanno espresso la disponibilità a norma del comma 4 del predetto articolo, il numero degli ammessi allo stage a cui è stata fornita la dotazione strumentale prevista dal predetto comma, il numero di coloro che ricevono la borsa di studio prevista dal comma 8-bis del predetto articolo
precisandone l’ammontare annuo, il numero dei corsi organizzati a norma del comma 5 del predetto articolo, il
numero di coloro che non hanno terminato lo stage con esito positivo, il numero di coloro che si sono avvalsi del
titolo di cui al comma 11-bis del predetto articolo ai fini della presentazione della domanda di partecipazione al
concorso per magistrato ordinario e il numero di coloro che sono stati dichiarati idonei, il numero di uffici che
hanno concluso le convenzioni ai sensi del comma 17 del predetto articolo, nonché l’incidenza dell’ausilio degli
ammessi allo stage sulla produttività dell’ufficio e dei magistrati formatori. (c. 2).
Le disposizioni di cui al comma 2 si applicano, in quanto compatibili, anche ai soggetti di cui all’art. 37, comma
5, D.L. n. 98 del 2011. (Il comma citato così dispone: 5. Coloro che sono ammessi alla formazione professionale
negli uffici giudiziari assistono e coadiuvano i magistrati che ne fanno richiesta nel compimento delle loro ordinarie attività, anche con compiti di studio, e ad essi si applica l’articolo 15 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio
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1957, n. 3. Lo svolgimento delle attività previste dal presente comma sostituisce ogni altra attività del corso del
dottorato di ricerca, del corso di specializzazione per le professioni legali o della pratica forense per l’ammissione
all’esame di avvocato. Al termine del periodo di formazione il magistrato designato dal capo dell’ufficio giudiziario redige una relazione sull’attività e sulla formazione professionale acquisita, che viene trasmessa agli enti di cui
al comma 4. Ai soggetti previsti dal presente comma non compete alcuna forma di compenso, di indennità, di
rimborso spese o di trattamento previdenziale da parte della pubblica amministrazione. Il rapporto non costituisce ad alcun titolo pubblico impiego. È in ogni caso consentita la partecipazione alle convenzioni previste dal
comma 4 di terzi finanziatori).
L’art. 7 è in tema di Banca dati della giurisprudenza di merito. La direzione generale dei sistemi informativi ed
automatizzati svolge tutte le attività necessarie per assicurare, a decorrere dal 31 dicembre 2016, l’avvio della
banca dati della giurisprudenza di merito e la fruibilità dei dati in essa contenuti su base nazionale. La direzione
generale di cui sopra svolge tutte le attività necessarie per consentire l’inserimento dei metadati di classificazione
nella banca dati indicata ed agevolare il reperimento dei provvedimenti giurisdizionali ivi contenuti, anche potenziando l’efficacia dei sistemi informatici di ricerca. Per i primi dodici mesi successivi alla data di cui al periodo
precedente la banca dati opera in forma sperimentale. (c. 1)
Il presidente della Corte d’Appello o del tribunale con cadenza annuale a decorrere dalla pubblicazione del decreto a norma dell’art. 11, i criteri per la selezione dei provvedimenti da inserire nella banca di cui al comma 1, avvalendosi per l’espletamento di tali compiti dell’attività di coloro che svolgono il tirocinio formativo a norma dell’art.
73 del D.L. n. 69/2013 o la formazione professionale dei laureati a noma dell’art. 37, comma 5, D.L. n. 98/2011,
convertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, nonché di coloro che fanno parte dell’ufficio per il processo a norma
dell’art. 50, comma 1 bis, D.L. 24 giugno 2014, n. 90 convertito dalla L. 11 agosto 2014, n. 114.
Con l’art. 8 si dispone l’Organizzazione dei servizi di cancelleria.
L’art. 9 assicura infine la copertura assicurativa e previdenziale degli ammessi allo stage.
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Giurisprudenza
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Diritto civile e processuale civile
Gestione di affari altrui e giurisdizione internazionale
Cassazione Civile, Sez. III, 26 giugno 2015, n. 13203 - Pres. Russo - Rel. Vincenti - P.M. Velardi
(conf.) - A.D.P.M. (avv.ti Vaccarella, Tavormina) - G.S.F. (avv. Irti) - C.M. (avv.ti Giovannetti,
Weigmann, Montalenti) - G.G. (avv.ti Giovannetti, Pavesio) - M.S. (avv.ti Giovannetti, Canale,
Carbone)
In tema di gestione d’affari la presenza del dominus e la sua scientia non escludono automaticamente il presupposto di fatto della gestione, in quanto la concreta impossibilità del dominus di provvedere rende pienamente ammissibile l’intervento del gestore, sempre che l’inerzia dell’interessato non abbia il senso della prohibitio, atteso che l’esistenza di una opposizione dell’interessato, anche implicita o tacita, alla gestione altrui
è fattore da solo sufficiente ad escludere la fattispecie di cui all’art. 2028 c.c. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto
sussistente non il difetto del requisito della absentia domini, bensì la presenza di una vera e propria prohibitio, nella “rumorosa opposizione”- giacché manifestata in sede societaria, nonché facendo precedere l’assunzione di iniziative giudiziarie dalla comunicazione delle stesse ad organi di informazione - esercitata dalla coerede di uno dei maggiori imprenditori nazionali, in relazione alla gestione che del patrimonio del de cuius
avrebbero fatto i pretesi gestori).
La verifica della giurisdizione del giudice italiano si concentra sulla domanda principale, non potendosi tener
conto della domanda subordinata o alternativa.
La pronuncia sulla giurisdizione italiana resa all’esito di regolamento preventivo di giurisdizione preclude all’attore di sciogliere il nesso di subordinazione originario tra le sue domande in corso di giudizio.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
In tema di gestione di affari Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11135; Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11136; Cass. 7
giugno 2011, n. 12304; Cass. 9 aprile 2008, n. 9269; Cass. 25 maggio 2007, n. 12280; Cass. 23 maggio 1984, n.
3143; Cass. 13 maggio 1964, n. 550; Cass. 3 marzo 1954, n. 607.
Sul rispetto dei nessi di subordinazione tra domande ai fini della verifica della giurisdizione italiana: Cass., SS.UU.,
n. 6331/1981; Cass., SS.UU., n. 3841/2007; Cass., SS.UU., n. 2926/2012; Cass., SS.UU., n. 19675/2014; sul vincolo
del giudice di merito al giudicato sulla giurisdizione: Cass. n. 15721/2005; Cass. n. 6850/2010.
Difforme
In tema di gestione di affari nessun precedente rinvenuto.
Ritenuto in fatto
1. - Nel maggio 2007 A.D.P.M. - erede, unitamente alla
madre C.M., di A.G., deceduto il 24 gennaio 2003 senza disporre in via generale testamentaria, ma soltanto a
titolo particolare - convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Torino, quest’ultima coerede, nonché il Dr.
G.G., l’avv. G.S.F. e il sig. M.S.
1.1.- L’attrice dedusse: che il defunto senatore Agnelli
si avvalse per la gestione dei propri affari dell’opera del
G. e del G.S., suoi professionisti di fiducia, assistiti dal
M., ai quali conferì “mandato di durata per la gestione
anche del proprio patrimonio mobiliare”; che tale attività fu svolta sia prima, che dopo la morte del senatore
e ciò, nonostante l’estinzione del mandato, con animus
aliena negotia gerendi, ai sensi dell’art. 2028 c.c.; che il
G.S. svolse attività anche oltre i limiti del mandato,
perseguendo gli interessi della coerede ed essendo destinatario della nomina di esecutore testamentario, incarico che non accettò; che il G. fu consulente per la gestione degli interessi del defunto “in società, fondazioni,
trusts ed enti” al medesimo riferibili; che il M. fu preposto al “family office”, costituito dalla SADCO di Zurigo
e dalla SACOFINT di Ginevra, “per la gestione del patrimonio mobiliare internazionale”; che, pertanto, gli
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anzidetti mandatari avrebbero dovuto “rendere il conto
a parte attrice” (che, invece, ebbe ad ottenere “solo in
parte” documenti ed informazioni), comprensivo dell’elenco di tutti i beni e della “evoluzione dell’intero patrimonio riferibile, direttamente o indirettamente, al senatore Agnelli”; che tanto era necessario per la ricostruzione del patrimonio ereditario, al fine di procedere alla
“petizione di eredità” ex art. 533 c.c., nonché alla valutazione delle modalità di gestione del patrimonio stesso
e, quindi, dell’eventuale responsabilità dei “gestori”;
che, peraltro, le operazioni divisorie già effettuate non
esaurivano l’intero asse ereditario e, inoltre, erano nulle, in quanto contrarie a norme imperative, le rinunce
derivanti dall’accordo tra le eredi del 18 febbraio 2004
e dal successivo “Patto Successorio” del 2 marzo 2004.
1.2. - L’ A., dunque, chiese: a) in via preliminare, che
fosse ordinato, ex art. 263 c.p.c., disgiuntamente all’avv.
G.S. F., al dott. G.G. e al signor M.S. il rendimento del
conto; b) in via pregiudiziale, “ove occorra”, che fosse
dichiarata la nullità, l’annullabilità, l’inefficacia degli
accordi intercorsi in Svizzera tra essa A.M. e Donna
C.M. successivamente all’apertura della successione del
senatore A.G.; c) in via principale, che fosse accertata
e dichiarata la qualità di erede del senatore Agnelli di
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Giurisprudenza
Diritto civile e processuale civile
essa attrice in relazione a tutti i beni oggetto di rendiconto; d) in via principale eventuale, che fossero solidalmente condannati il G.S., il G. ed il M. al risarcimento dei danni eventualmente provocati dalla violazione degli obblighi di mandatari e/o gestori di affari altrui in relazione all’asse ereditario; e) in via principale,
che fosse dichiarato lo scioglimento della comunione
ereditaria mediante assegnazione in proprietà esclusiva
dei beni; f) in via subordinata, in caso di ravvisata non
materiale divisibilità dei singoli beni oggetto di comunione ereditaria, che fosse disposta la vendita degli stessi beni, con liquidazione pro quota a ciascun erede del
ricavato.
1.3. - Si costituirono in giudizio tutti i convenuti, contestando la fondatezza delle domande, delle quali chiesero il rigetto.
1.4. - La C. ed il M. - la prima sul presupposto della formulata eccezione di transazione in base agli accordi intervenuti in Svizzera con la figlia M. per la definizione
di ogni controversia successoria sui beni del defunto senatore; il secondo in quanto cittadino svizzero - proposero regolamento preventivo di giurisdizione, deducendo il difetto di giurisdizione del giudice italiano e indicando conte competente a decidere la causa il giudice
svizzero.
A seguito di ordinanza di sospensione del giudizio, l’attrice propose regolamento di competenza avverso tale
provvedimento.
Con ordinanza n. 25875 del 27 ottobre 2008, le Sezioni
Unite di questa Corte dichiararono la giurisdizione del
giudice italiano e l’inammissibilità del regolamento di
competenza.
1.5. - Riassunto il processo, dichiarati inammissibili
(con ordinanza istruttoria del 21 luglio 2009) i capitoli
di prova orale articolati dall’attrice e respinte le istanze
di esibizione dalla medesima avanzate, l’adito Tribunale, con sentenza del 17 marzo 2010: rigettò la domanda
di rendiconto per difetto di prova sui dedotti rapporti di
mandato e di gestione di affari; ritenne non esaminabile
la domanda di nullità, annullabilità ed inefficacia degli
accordi stipulati in Svizzera tra le coeredi, per esser la
stessa condizionata dall’eccezione di res transacta, oggetto di rinuncia sia da parte della C., che del M.; rigettò
le domande di petizione di eredità e di divisione in relazione ai beni collegati all’azione di rendiconto, mentre
le dichiarò inammissibili in riferimento ai restanti beni;
dichiarò non esaminabile la domanda risarcitoria in ragione del rigetto della domanda di rendiconto alla quale
era connessa.
2. - Avverso tale decisione proponeva gravame A.D.P.
M., che la Corte di appello di Torino - nel contraddittorio con gli appellati C.M., G.G., G. S.F. e M.S. - rigettava con sentenza resa pubblica il 10 aprile 2012.
2.1. - La Corte territoriale - affermato preliminarmente
che l’appellante non era affatto “terza, sul piano sostanziale e processuale”, rispetto al dedotto contratto di
mandato che sarebbe intercorso tra il proprio dante
causa e i convenuti appellati G., G.S. e M. - riteneva
essersi formato giudicato interno sulla qualificazione del
contratto come di “mandato verbale di generale ammi-
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nistrazione dei beni costituenti il patrimonio personale
del defunto A.G.”. A tal fine, la Corte di appello osservava che l’appellante non aveva censurato “in modo
specifico” la distinzione tra mandato verbale e mandato
tacito operata dal Tribunale, né aveva criticato “in
qualche modo l’esclusione della ricorrenza nel caso della possibilità giuridica di un mandato tacito, ritenuta
dal primo giudice”, limitandosi a sostenere, infondatamente (stante le diverse conseguenze in termini di oneri di prova), l’indifferenza “per la qualificazione nell’uno
o nell’altro senso”.
2.2. - Il giudice di secondo grado escludeva, poi, che
l’attrice avesse fornito prova di tale invocata fonte negoziale, ribadendo, anzitutto, il rigetto delle istanze di
ammissione della prova orale, anche in forza di una
considerazione non solo analitica e frazionata dei capitoli articolati, bensì “alla stregua di un canone di valutazione complessiva”. In tale prospettiva, nonché premesso che non era ravvisabile nella specie un abuso del
diritto nell’utilizzo, in forza del mandato conferito dal
de cuius, delle “forme societarie dei vari soggetti volta a
volta coinvolti nelle diverse attività”, la Corte di merito
reputava irrilevanti anche le prove documentali prodotte dalla A. (concernenti, tra l’altro: la posizione del G.
come presidente della Exor, socio accomandatario della
Giovanni Agnelli & C. s.a.p.a. e socio della Dicembre
s.s.; la posizione del G.S. come socio della Dicembre s.s.
e la sua nomina ad esecutore testamentario; la posizione
del M. come esecutore di deliberazioni delle predette
società; la posizione dei tre menzionati quali “protectors” della Fondazione Alkyone).
2.3. - La Corte piemontese riteneva, inoltre, “già solo
sulla base della prospettazione di parte appellante”, che
non potesse ravvisarsi, dopo la morte del senatore
Agnelli, una negotiorum gestio da parte del G., del G.S.
e del M., ciò per l’insussistenza del requisito della absentia domini, in ragione “dell’attivismo dispiegato” dalla
stessa A.M. “per una gestione diretta ed immediata, ad
esclusione di qualsiasi gestori, nell’eredità paterna sin
dal 26 febbraio 2003, cioè due giorni dopo la pubblicazione degli olografi”.
2.4. - In forza del rigetto del gravame in ordine alla asserita esistenza di obblighi di rendiconto in capo ai predetti appellati, il giudice di secondo grado reputava
conseguentemente travolte le doglianze che investivano
la reiezione delle domande di petizione di eredità, di
scioglimento della comunione e di risarcimento dei
danni.
2.5. - Quanto alla questione della exceptio rei transactae,
la Corte di appello, pregiudizialmente, dichiarava l’inammissibilità della domanda dell’appellante di accertamento in via principale della nullità, annullabilità ed
inefficacia degli accordi intercorsi in Svizzera tra le coeredi, in quanto nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c., posto
che in precedenza essa era stata formulata come “controeccezione di accertamento incidentale subordinato”.
La stessa Corte la esaminava, comunque, come tale e,
tuttavia, la riteneva non scrutinabile nel merito per difetto di interesse ex art. 100 c.p.c., giacché reso inconsistente dalla rinuncia sull’eccezione di avvenuta transa-
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zione, rispetto alla quale la “controeccezione preventiva” della A. era da ritenersi condizionata.
3. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre A.D.P. M.
sulla base di cinque articolati motivi: due investenti il
profilo del contratto di mandato; due la negotiorum gestio; ed uno la questione, processuale, della domanda
sulla invalidità degli accordi “Svizzeri” siccome ritenuta
paralizzata dalla rinuncia avversaria alla exceptio rei transacta.
Omissis.
Motivi della decisione
Omissis.
3. - Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art.
360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2028 c.c.
La Corte di appello avrebbe errato nell’escludere l’applicabilità nella fattispecie della negotiorum gestio per l’insussistenza del requisito dell’absentia domini, desunto
dalla “opposizione della (co)interessata alla gestione dei
propri affari”, con ciò mancando di considerare che, alla
luce della stessa giurisprudenza di legittimità invocata
(Cass. n. 9269 del 2008), il presupposto idoneo e sufficiente a consentire l’operatività dell’istituto è soltanto
l’impossibilità materiale, da parte del dominus, di provvedere da s alla gestione.
Dunque, nella specie, il giudice di gravame, prima ancora di valutare la circostanza della “rumorosa opposizione” dell’appellante alla gestione, avrebbe dovuto porsi il
problema della impossibilità della medesima A. “di
provvedere da sé alla gestione, per l’ignoranza del complessivo quadro dell’asse che notoriamente l’affliggeva”.
3.1. - Il motivo non può trovare accoglimento, sebbene
la motivazione della sentenza debba essere in parte corretta ai sensi dell’art. 384, comma 4, c.p.c.
3.1.1. - Nella ricostruzione dell’istituto della negotiorum
gestio, disciplinato dall’art. 2028 c.c. ss., la nozione che
la consolidata giurisprudenza di questa Corte ha accolto
del requisito della absentia domini, secondo una direttrice condivisa dalla prevalente dottrina, è quella per cui,
a tal fine, non rileva che vi sia una condizione di assoluto impedimento dell’interessato alla gestione dei propri affari ovvero che sussista una impossibilità materiale
rispetto alla cura di questi, ritenendosi soddisfatto l’anzidetto requisito là dove il dominus non abbia manifestato, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri
si ingerisca nella cura dei propri affari (tra le tante,
Cass., 3 marzo 1954, n. 607; Cass., 13 maggio 1964, n.
550; Cass., 23 maggio 1984, n. 3143; Cass., 25 maggio
2007, n. 12280; Cass., 9 aprile 2008, n. 9269; Cass., 7
giugno 2011, n. 12304).
Si tratta di una concezione relativistica e scevra da rigidità, che tende, in effetti, ad estendere l’ambito applicativo dell’istituto al di là degli angusti limiti tradizionalmente configurati soprattutto nella considerazione, più
risalente, che faceva capo al previgente codice civile
del 1865, per cui la stessa giurisprudenza aveva allora ritenuto necessario che l’utile gestione dovesse essere intrapresa absente et inscio domino, alla stregua di una ac-
1500
cezione, rispettivamente, di impossibilità oggettiva e di
evidente mancanza di consapevolezza dell’intrusione del
terzo.
L’odierno approdo giurisprudenziale può, quindi, essere
compendiato nel principio per cui, nella gestione utile
di affare altrui, la absentia domini deve intendersi “non
come impossibilità oggettiva e soggettiva di curare i
propri interessi, ma come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad
intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione o divieto
del dominus” (Cass. n. 12280 del 2007 e Cass. n. 12304
del 2011, citate).
Sicché, il requisito in esame è rinvenibile “non solo
quando l’interessato sia nella materiale impossibilità di
provvedere alla cura dei propri affari ma anche quando
lo stesso non rifiuti, espressamente o tacitamente, tale
ingerenza da parte del negotiorum gestor” (Cass. n. 9269
del 2008, cit.).
Un siffatto consolidato orientamento in tema di configurazione dell’elemento dell’absentia domini, tributario
delle istanze solidaristiche di cui all’art. 2 Cost., operanti in senso conformativo dell’istituto secondo un bilanciato contemperamento con le esigenze dell’autonomia
privata, porta a ritenere, in consonanza anche con una
parte della dottrina, non impredicabile una sorta di
equiparazione implicita tra il dominus prohibens e il dominus non absens, con ciò assistendosi ad un sostanziale
assorbimento del requisito dell’assenza nel rilievo della
mancanza di una manifestazione dell’amministrato di
preclusione all’intervento gestorio del terzo, che dell’art.
2031 c.c., comma 2, contempla come impedimento genetico degli obblighi scaturenti dalla gestione stessa.
Dunque, come già rilevato in passato da questa Corte
(Cass., 7 gennaio 1970, n. 35), ma con affermazione
che ha trovato continuità, la considerazione non rigorosa del requisito dell’absentia domini non può tuttavia
prescindere dalla verifica che l’interessato “non si sia
opposto all’intromissione del gestore, che cioè non vi
sia stata la prohibitio domini espressamente prevista dall’art. 2031 c.c., comma 2”.
In altri termini, la presenza del dominus e la sua scientia
“non escludono automaticamente che sussista il presupposto di fatto della gestione, in quanto, se in concreto il
dominus non è in grado di provvedere, l’intervento di
un gestore e pienamente ammissibile, a meno che l’inerzia dell’interessato abbia il senso della prohibitio, seppure implicita, per fatti, anche omissivi, concludenti”
(Cass., 15 ottobre 1963, n. 2757).
Sicché, l’impossibilità anche relativa del dominus, intesa come difficoltà dello stesso di gestire i propri interessi, potrebbe certamente concretarsi nell’ignoranza sull’esistenza dell’affare, ma la stessa perde di rilevanza di
fronte ad una manifestazione di volontà, anche implicita, del medesimo interessato di opporsi all’ingerenza di
terzi.
E, difatti, se, per un verso, la mancata opposizione (così
come l’ignoranza dell’affare) può ravvisarsi come elemento sufficiente ad integrare l’absentia domini, per altro
verso, la verifica dell’esistenza di una opposizione (an-
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che implicita o tacita) dell’interessato alla gestione altrui - quale apprezzamento, anch’esso, riservato al giudice del merito -, è fattore da solo sufficiente ad escludere
la fattispecie di cui all’art. 2028 c.c. ss.
3.1.2. - Nella specie, la Corte di appello piemontese
(pp. 108/110) ha posto in evidenza, sulla base di emergenze istruttorie in sé non contestate (segnatamente:
lettera dell’attrice sull’attività svolta già prima della
pubblicazione degli olografi; intervento, “in termini decisionali”, all’assemblea societaria della Dicembre s.s.
nel febbraio 2003, “ad un solo mese ... dall’apertura della successione”; proposizione del giudizio contro i tre
pretesi gestori, annunciato “dapprima sui giornali”),
l’“attivismo dispiegato” dalla A.D.P. “per una gestione
diretta ed immediata, ad esclusione di qualsiasi gestor,
nell’eredità paterna sin dal febbraio 2003, cioè due giorni dopo la pubblicazione degli olografi”, così da ritenere
dimostrata “la rumorosa opposizione della (co)interessata alla gestione dei propri affari da parte dei tre pretesi
gestori”.
Pertanto, il giudice del merito, nell’escludere la sussistenza della fattispecie della negotiorum gestio, ha, invero, attribuito, in modo espresso e chiaro, rilievo eminente alla opposizione (altresì definita “rumorosa”), da
parte della coerede A., alla gestione altrui del patrimonio paterno e in termini palesi ed evidenti nei confronti
degli stessi presunti gestori.
3.1.3. - Una siffatta “rumorosa opposizione” della
(co)interessata, personalmente attivatasi nella gestione
del patrimonio paterno poco dopo la morte del de cuius
con “esclusione di qualsiasi gestore”, viene a configurare, piuttosto che l’inesistenza del requisito della absentia
domini, l’esistenza dell’elemento, in negativo dirimente,
della prohibitio domini, riconoscibile dai terzi in modo
certo e, in ogni caso, tale da non poter ingenerare negli
stessi quel legittimo affidamento - che l’inerzia dell’interessato suscita nell’estraneo, il quale intenda intromettersi spontaneamente nell’affare di altri - sulla possibilità di intraprendere la gestione del patrimonio altrui, anche se soltanto per la parte di cui l’interessata non aveva piena cognizione.
Ed invero, dato il presupposto, su cui si impernia l’azione di rendiconto promossa dall’attrice, per cui l’affare
da gestire era unitario, ossia l’intero patrimonio ereditario, anche la dedotta condizione soggettiva dell’interessata, di non completa conoscenza di tutti gli interessi
coinvolti, non assume, comunque, il ruolo di fattore destrutturante la ricostruzione operata dalla Corte territoriale, giacché si palesa del tutto plausibile che, rispetto
ad un unico asse ereditario, non si apprezzi una scissione
tra interessi suscettibili e non di gestione.
3.1.4. - Dunque, la motivazione della sentenza impugnata da conto, di per sé, dell’elemento su cui la Corte
di appello ha ritenuto di escludere, in radice, la configurabilità di una negotiorum gestio da parte dei convenuti
G.S., G. e M., individuato, per l’appunto, nell’opposizione della A.D. P. a che i predetti si interessassero della gestione del patrimonio ereditario, quale elemento da
reputarsi integrante la prohibitio domini, di per sé idoneo
ad escludere il sorgere di un valido atto gestorio e tale
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da confinare nell’irrilevanza il profilo della impossibilità
anche relativa del dominus di provvedere ai propri affari.
In siffatti termini, la motivazione, che non viene fatta
oggetto di alcuna censura nel suo complessivo apprezzamento di merito, deve essere corretta in iure, giacché i
fatti accertati dalla Corte territoriale sono tali da essere
sussunti, alla stregua delle coordinate morfologiche della fattispecie gestoria di cui all’art. 2028 c.c. e segg., nel
requisito della prohibitio domini, piuttosto che in quello
dell’absentia domini; il che non sposta la statuizione di
rigetto assunta dal giudice del merito.
Omissis.
5. - Con il quinto mezzo è prospettata, ai sensi dell’art.
360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità del procedimento e
della sentenza per violazione degli artt. 99, 100, 112 e
345 c.p.c.
La Corte territoriale avrebbe erroneamente omesso l’esame del merito della domanda di nullità, annullamento
ed inefficacia degli accordi stipulati in Svizzera tra
A.M. e C.M. nel febbraio-marzo 2004 (domanda sub
“B” in primo grado; domanda sub “B” e sub H” in grado
di appello).
La ricorrente assume che detta domanda - come evidenziato anche nell’ordinanza delle Sezioni Unite sul regolamento di giurisdizione - era di “accertamento incidentale condizionato” rispetto alla eccezione di res transacta
della C., sicché ove costei “non avesse proposto l’eccezione, la domanda avrebbe dovuto essere considerata
come non proposta; se viceversa M. avesse proposto
l’eccezione, la domanda avrebbe dovuto esser considerata come proposta ad ogni effetto”. Tale ultima ipotesi si
era verificata, avendo la C., sin dalla comparsa di risposta del 18 dicembre 2007, formulato l’eccezione di res
transacta.
Peraltro, soggiunge la ricorrente, la formulazione della
domanda contenuta nella memoria del 9 maggio 2009
(“B) in via preliminare eventuale, per l’ipotesi di ammissibilità e accoglibilità della eccezione di Donna
C.M. fondata sull’accordo di divisione del 18 febbraio
2004 ..., dichiarare la nullità, annullabilità o comunque
l’inefficacia del suddetto accordo di divisione ...”) non
integrava “un nuovo e diverso condizionamento della
domanda”, bensì un semplice chiarimento sul fatto che
la stessa era stata proposta “solo per l’eventualità di
un’eccezione della convenuta”. Parimenti era da intendersi la domanda, “poco diversa”, formulata in sede di
precisazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado, nel cui corso la C. rinunciava all’eccezione di res
transacta; rinuncia alla quale contestualmente si opponeva il difensore di essa A.
Pertanto, seppure proposta in via condizionata, la Corte
territoriale avrebbe dovuto pronunciare nel merito della
domanda di accertamento della invalidità/inefficacia
degli accordi “svizzeri”, posto che la condizione si era
ormai avverata con la proposizione dell’eccezione di res
transacta, con conseguente irrilevanza della successiva
rinuncia all’eccezione.
Invero, sostiene la parte ricorrente, opinare che la rinuncia all’eccezione assuma nella specie rilevanza, si-
1501
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gnificherebbe esporre “il sistema del condizionamento
ad esiti assurdi”, facendo del convenuto l’“esclusivo signore della pendenza della domanda a tempo indeterminato”.
Peraltro, ove si ritenesse di seguire la tesi contraria (ossia del mancato avveramento della condizione, in presenza della rinuncia all’eccezione condizionante), dovrebbe aversi riguardo al fatto che l’appellante aveva, in
ogni caso, manifestato (con l’opposizione alla rinuncia;
in comparsa conclusionale di primo grado; con l’atto di
appello) “chiaramente la volontà che la sua domanda,
ab initio condizionata, fosse comunque decisa, indipendentemente dalla (rinuncia, e quindi dal supposto mancato avveramento della) condizione”.
Sicché, alla stregua di orientamento espresso da autorevole dottrina, non era impedito all’attrice/appellante ritornare sulla propria “scelta iniziale di articolare in modo condizionale” la domanda, in base ad un “proprio interesse di self-restraint”, “senz’altro ricusabile” se la scelta
non sia più “ritenuta congrua e soddisfacente”, e così
“liberamente sciogliersi da codesto condizionamento”.
Un tale ripensamento non sarebbe, poi, di pregiudizio
per la controparte, giacché l’attore avrebbe fin dall’inizio potuto proporre la domanda priva di condizionamento e, in ogni caso, la proposizione di domanda condizionata non impedisce al convenuto stesso di “contraddire ad essa e difendersene”.
Da ciò discenderebbe, quindi, che la domanda proposta
in appello non sarebbe domanda nuova ai sensi dell’art.
345 c.p.c., ma “sempre la stessa domanda di nullità, annullamento ed inefficacia degli accordi stipulati in Svizzera, alla quale l’attrice ha poi legittimamente tolto il
condizionamento iniziale”.
Ed ancora, la Corte di appello avrebbe comunque errato
a non esaminare la domanda di invalidità degli accordi
“svizzeri” per mancanza di interesse ad agire, ex art. 100
c.p.c., di cui “nessuno dei convenuti ha mai pensato di
lamentarne il difetto”.
Del resto, trattandosi di “domanda di accertamento di
nullità condizionato”, l’interesse avrebbe dovuto misurarsi soltanto sulla “obiettiva incertezza della situazione
giuridica” che ne formava oggetto, la quale era, nella
specie, sussistente, giacché la C. ha mostrato sempre di
ritenere gli accordi “svizzeri” validi e vincolanti, mentre
di contrario avviso è sempre stata l’attrice, attuale ricorrente, là dove la rinuncia all’eccezione di res transacta
non verrebbe ad incidere su tale obiettiva incertezza,
posto che alla rinuncia non si è accompagnato “il riconoscimento espresso della nullità del contratto”.
Né potrebbe sostenersi, inoltre, che l’interesse ad agire
farebbe difetto perché non vi sarebbe più contestazione
di nullità degli accordi nel giudizio in cui l’eccezione è
stata rinunciata, giacché in tal modo si giungerebbe ad
affermare la “tesi assurda” che al convenuto, per sottrarsi alla domanda di nullità contrattuale dell’attore, basterebbe “non contestare la domanda in giudizio”.
Infine, l’affermazione del giudice di appello sulla assenza
di vantaggi per la A. in conseguenza della dichiarazione
di nullità dei predetti accordi sarebbe incongrua, posto
che, tra l’altro, a radicare l’interesse ad agire sarebbe
1502
sufficiente “ogni utilità sperata” e che, in forza della
predetta declaratoria, anche la C. sarebbe costretta alla
restituzione dei beni ereditari e verrebbe meno ogni
questione sul diritto di legittimaria rispetto all’eredità di
quest’ultima.
5.1. - Il motivo, in tutta la sua articolazione, è infondato.
5.1.1. - Occorre muovere dalla ordinanza n. 25875 del
2008, emessa dalle Sezioni Unite civili di questa Corte,
nel corso del giudizio di primo grado della presente controversia, sui ricorsi per regolamento preventivo di giurisdizione proposti (e successivamente riuniti) sia da
C.M., che da M.S.
La declaratoria di giurisdizione del giudice italiano (rispetto a quello svizzero), recata dall’ord. n. 25875 del
2008, trova ragione d’essere sulla scorta dell’esegesi dell’atto di citazione di A. M. e come esito della individuazione dei “rapporti tra le diverse domande in esso contenute”.
Un siffatto giudizio è, dunque, il precipitato della “irrefutabile conclusione” per cui “domanda principale è
senz’altro a dirsi quella avente ad oggetto la petitio haereditatis formulata dall’attrice, nonché quella, ad essa
conseguente, di scioglimento della comunione ereditaria”; mentre, la “richiesta di dichiarare la nullità, annullabilità, inefficacia degli accordi intercorsi in Svizzera
tra la sig.ra A.M. e donna C.M., di cui al punto b) dell’atto di citazione” - su cui trovava fondamento la carenza di giurisdizione del giudice italiano postulata dalla
C. con il ricorso per regolamento di giurisdizione - “si
pone, difatti, oltre che in un rapporto di pregiudizialità
soltanto eventuale rispetto alla domanda successoria
svolta in via principale, anche e soprattutto sul piano
del merito della causa (atteso che, in via di ipotesi
astratta, l’eccezione di transazione sì come paventata
dall’attrice sarebbe ben potuta non essere opposta dalla
convenuta) e, come tale, irredimibilmente sottratta alla
cognizione e all’esame di questa Corte quoad iurisdictionis”.
Le Sezioni Unite hanno, quindi, qualificato detta domanda come di “accertamento incidentale condizionato
quanto alla (eventuale) inefficacia lato sensu da attribuirsi all’atto transattivo stipulato in Svizzera tra le stesse parti della controversia successoria”.
Donde, la ribadita affermazione della “natura ereditaria
dell’odierna controversia”, non suscettibile di “subire alcuna mutazione, né genetica né funzionale, sul piano
del petitum e della causa, petendi, per il solo fatto che
l’attore, in previsione di una possibile eccezione di res litis transacta, ne chieda, in limine, un accertamento pregiudiziale a sé favorevole”, poiché, come detto, “tale
questione attiene evidentemente al merito della controversia, e non alla giurisdizione”.
Sicché, in forza del combinato operare (in senso, rispettivamente, escludente ed inclusivo) dell’art. 1 della
Convenzione di Lugano e dell’ art. 50, L. n. 218 del
1995, la successione del senatore Agnelli Giovanni
apertasi in Italia ha radicato davanti al giudice italiano
la cognizione della presente causa ereditaria.
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Peraltro, la natura ereditaria della controversia, in forza
del carattere principale rivestito dalla domanda di petitio
haereditatis, ha consentito alle Sezioni Unite di ravvisare, rispetto a detta domanda, un “evidente rapporto di
connessione da pregiudizialità della causa di rendiconto”; per cui l’attrazione di quest’ultima nell’orbita della
prima, “con conseguente individuazione, anche sotto
tale profilo, della competenza giurisdizionale del giudice
italiano”.
5.1.2. - Dunque, a seguito dell’ord. n. 25875 del 2008, il
radicamento della presente controversia dinanzi al giudice italiano si è reso possibile in ragione della natura
principale della domanda di petizione ereditaria proposta dalla A. con l’atto di citazione e della natura di “accertamento incidentale condizionato” della domanda
volta alla declaratoria di invalidità/inefficacia degli accordi transattivi svizzeri, in quanto connotata da pregiudizialità solo eventuale rispetto alla domanda principale, siccome proposta “in previsione di una possibile eccezione di res litis transacta”.
In tal senso, l’orbita intorno alla quale ha gravitato la
decisione in punto di giurisdizione è stata quella della
domanda (per l’appunto, la petizione di eredità) il cui
precipuo contenuto si è ritenuto idoneo a costituire la
vis actractiva del potere cognitorio del giudice italiano,
in ragione dei criteri di collegamento che essa stessa ha
attivato. Con la conseguenza che la domanda di “accertamento incidentale condizionato”, da esaminarsi in via
pregiudiziale solo nell’eventualità di una eccezione di
transazione, si è venuta a collocare al di fuori del perimetro della cognizione delle Sezioni Unite come organo
regolatore della giurisdizione, per attestarsi sul piano del
merito della causa.
5.1.3. - In questi termini la pronuncia recata dall’ord. n.
25875 del 2008 costituisce giudicato, sicuramente endoprocessuale (quello panprocessuale è profilo che non riveste immediato interesse ai fini della presente decisione), precludente, nel prosieguo del medesimo giudizio,
un diverso atteggiarsi del rapporto originario (rectius: su
quello in base al quale è stato definito il regolamento di
giurisdizione) tra le domande cumulativamente proposte
dall’attrice.
5.1.4. - Difatti, ai fini della delibazione sulla sussistenza,
o meno, della giurisdizione italiana nei confronti dello
straniero, la complessiva prospettazione attorea, che dimensiona il contenuto e l’interazione tra le varie domande cumulate nello stesso giudizio, non soltanto è il
presupposto da cui muove una tale verifica (Cass., sez.
un., 2 aprile 2007, n. 8095), ma rappresenta pure il suo
perno di orientamento, nel senso che anche un diverso
modo di (ri)formulare i nessi che reciprocamente legano le pretese svolte può condurre a differenti esiti in
punto di individuazione del giudice munito di giurisdizione, data l’incidenza che riveste il modularsi del rapporto di connessione tra domande sull’operare dei criteri di collegamento che conducono alla selezione del giudice.
Dunque, al modificarsi dei criteri di collegamento può
corrispondere una diversa decisione in punto di giurisdizione e tale modificazione è la risultante del mutamento
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della domanda inizialmente dedotta in giudizio o dell’ordinarsi tra loro delle domande cumulativamente proposte, là dove proprio quest’ultimo aspetto (piuttosto
che quello dell’oggetto della domanda stessa, che viene
maggiormente in rilievo sotto il profilo della litispendenza) assume specifica importanza ai fini dell’individuazione del criterio di collegamento che verrà a radicare la giurisdizione nei confronti dello straniero.
Del resto, in ottica non dissimile può leggersi anche il
principio (che, tuttavia, coglie solo in parte quanto appena evidenziato), consolidato nella giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., 28 novembre 1981, n. 6331; Cass., sez. un., 20 febbraio 2007,
n. 3841; Cass., sez. un., 27 febbraio 2012, n. 2926), per
cui è sulla domanda individuata come “principale” che
si concentra la verifica della giurisdizione del giudice
italiano, non dovendosi tener conto della domanda subordinata (ovvero di quella proposta in termini, se analoghi, di alternatività).
Sicché, anche il mutamento del quomodo della prospettazione attorea, in un diverso combinarsi dei rapporti
tra più domande originariamente proposte cumulativamente (per cui, ad es., la domanda che era stata inizialmente dedotta con il vincolo di subordinazione o di alternatività alla domanda avanzata in via principale venga, successivamente, sciolta da detto vincolo, per essere
prospettata anch’essa come principale), è operazione direttamente incidente sulla verifica della giurisdizione
nei confronti dello straniero. Con corollario che, ove
una tale verifica si sia ormai cristallizzata in una statuizione non più reversibile (come è il caso, che interessa,
della pronuncia delle Sezioni Unite sul regolamento
preventivo di giurisdizione), il mutamento della prospettazione delle domande che hanno formato oggetto
della decisione in punto di giurisdizione non sarà più
possibile nel corso del medesimo giudizio.
È in questa particolare prospettiva, del tutto peculiare
rispetto allo specifico ambito qui considerato, che opera, quindi, il principio di estensione del giudicato sulla
giurisdizione ai fondamenti che la giustificano (per il riferimento alla qualificazione del rapporto dedotto in
giudizio ed ai correlati e pertinenti presupposti di fatto,
cfr. Cass., 27 luglio 2005, n. 15721 e Cass., 22 marzo
2010, n. 6850), divenendo detto giudicato ormai inscindibile da essi e, quindi, vincolante per il giudice di merito, rimettendosi altrimenti in discussione la giurisdizione stessa. Nel caso della giurisdizione nei confronti
dello straniero, ove rilevi, come nella specie, un cumulo
di domande ordinato in un certo modo, tale da determinare esso stesso la rappresentazione dei nessi di collegamento utili ad individuare il giudice munito di giurisdizione, il fondamento della decisione, da cui la stessa si
lega inscindibilmente, è proprio il quomodo della proposizione delle domande, il peculiare ordinarsi tra loro,
che, dunque, non potrà essere più rimesso in discussione.
Trattasi, ovviamente, di rilievo - quello del giudicato
interno sulla giurisdizione, anche nei termini appena
delineati - cui questa Corte è tenuta pure d’ufficio, con
1503
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poteri cognitori tipici del “giudice del fatto processuale”
(tra le tante, Cass., 20 gennaio 2006, n. 1099).
5.1.5. - In sede di precisazione delle conclusioni di primo grado, successivamente alla pronuncia delle Sezioni
Unite più volte citata, l’attrice ha riproposto anche la
domanda volta alla declaratoria di invalidità/inefficacia
degli accordi transattivi conclusi in Svizzera con la coerede e lo ha fatto “in via preliminare eventuale, per l’ipotesi di ammissibilità ed accoglibilità dell’eccezione di
Donna C.M. fondata sull’accordo di divisione del 18
febbraio 2004”.
La sostituzione della locuzione “in via pregiudiziale, ove
occorra” con quella “in via preliminare eventuale, per
l’ipotesi di ammissibilità ed accoglibilità ...” ha lasciato
immutati i termini della delibazione del giudice italiano
sul thema decidendum siccome devoluto alla sua giurisdizione, là dove in entrambi i casi (e, anzi, nel secondo
con maggiore evidenza) il cumulo delle domande attoree si delinea alla stregua di quell’“accertamento incidentale condizionato” all’eventualità della exceptio rei
transacta che l’ord. n. 25785 del 2008 aveva ritenuto essere domanda recessiva rispetto a quella principale di
petitio haereditatis, determinativa della giurisdizione in
base al criterio di collegamento della materia ereditaria.
5.1.6. - Non altrettanto può ritenersi, invece, quanto al
giudizio di appello, in cui l’A. ha concluso per la declaratoria “in via principale” della invalidità/inefficacia dei
più volte richiamati “accordi svizzeri”, in tal modo spezzando quel vincolo, originario (e ribadito nelle stesse
conclusioni di primo grado), di condizionamento della
domanda anzidetta con l’eccezione di transazione, tanto
da ridefinire il cumulo delle domande e così da collocare sul piano di “principalità” anche la domanda di invalidità/inefficacia negoziale al pari di quella di petizione
ereditaria.
Con ciò l’appellante ha, però, infranto la preclusione
del giudicato sulla giurisdizione rappresentato dalla pronuncia delle Sezioni Unite, rimettendo in discussione
(in modo non consentito) gli stessi termini fondativi
del potere cognitorio del giudice italiano, non più ancorati ai medesimi presupposti (ossia le originarie domande attoree) che avevano consentito alla Corte regolatrice di selezionare il criterio di collegamento della materia successoria, ai sensi del combinato disposto degli
artt. 1 della Convenzione di Lugano e dell’art. 50 L. n.
218 del 1995, e di escludere la rilevanza di altri criteri
di collegamento, i quali (ad es., la materia contrattuale,
l’esistenza di una clausola attributiva di competenza o,
comunque, il differente atteggiarsi della connessione tra
cause) avrebbero anche potuto, in via di mera ipotesi,
orientare diversamente l’esito del giudizio sulla giurisdizione.
Dunque, il rilievo della preclusione del giudicato interno determinato dalla decisione delle Sezioni Unite sulla
giurisdizione (ord. n. 25875 del 2008) consente di superare, in ogni caso, la doglianza della ricorrente che lamenta la violazione dell’art. 345 c.p.c., per aver la Corte piemontese ritenuto nuova (e, come tale, inammissibile) la domanda di invalidità/inefficacia negoziale giacché proposta “in via principale” soltanto in appello.
1504
Con la precisazione (seppur ultronea rispetto all’esito
anzidetto dello scrutinio) che la “novità” della domanda
di invalidità/inefficacia degli “accordi svizzeri”, sebbene
non possa certo essere apprezzata sotto il profilo del suo
oggetto (immutato nel corso del giudizio), trova, nel caso di specie, un suo peculiare atteggiarsi proprio nella
mutata - e, dunque, nuova - formulazione della stessa
sotto il profilo del nesso che la legava originariamente
alle altre domande proposte (e, segnatamente, a quella
principale di petizione ereditaria), venendo ad innovare
rispetto ad una situazione (il quomodo della iniziale - o,
comunque, precedente alla decisione delle Sezioni Unite - proposizione del cumulo delle domande stesse) ormai cristallizzata dal giudicato sulla giurisdizione.
E con l’ulteriore puntualizzazione che il rilievo, da parte
del giudice di secondo grado, della inammissibilità, ex
art. 345 c.p.c., della domanda di invalidità/inefficacia
degli accordi transattivi siccome proposta in appello come domanda principale, coniugato, però, all’esame della
stessa domanda nei termini di come era stata formulata
in primo grado (ossia come accertamento incidentale
condizionato dall’eccezione di transazione della controparte), giacché ritenuta includente, “come un quod minus, la correlativa eccezione”, risponde armonicamente
al principio - enunciato da questa Corte a Sezioni Unite (cfr. sentenza n. 26243 del 12 dicembre 2014) - secondo cui “la domanda di accertamento della nullità di
un negozio proposta, per la prima volta, in appello è
inammissibile ex art. 345, comma 1, c.p.c. salva la possibilità per il giudice del gravame - obbligato comunque
a rilevare di ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma
la sua necessaria indicazione alle parti ai sensi dell’art.
101, comma 2, c.p.c. - di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall’appellante, giusta del citato art. 345, comma 2”.
5.1.6.1. - Sicché, alla luce della rilevata preclusione da
giudicato, perde consistenza anche la tesi difensiva
(che, attingendo sostrato da autorevole dottrina, corrobora la censura) circa la facoltà della parte di “liberamente sciogliersi” dalla “scelta iniziale di articolare in
modo condizionale” la domanda, giacché l’esercizio della postulata facoltà è, nello specificum, inibito dalla ricorrenza, per l’appunto, di un previo giudicato sulla giurisdizione nei confronti dello straniero, che - come detto - impedisce una diversa conformazione dell’originario
combinarsi delle domande inizialmente proposte dall’attrice.
In forza degli stessi argomenti sinora esposti cade anche
l’obiezione - svolta dalla ricorrente nella memoria difensiva (cfr. pp. 27 e 28), là dove l’obiezione stessa si ritenga, in via di mera ipotesi, estensibile anche al tema
innanzi affrontato, invece che, come in effetti è da reputarsi, riferibile unicamente ad altro profilo (su cui immediatamente oltre) - fondata sul rilievo (dunque, non
conferente) per cui la giurisdizione deve essere verificata al momento di proposizione della domanda, non rilevando a tal fine i successivi mutamenti dello stato di
fatto e di diritto (art. 5 c.p.c.).
Dovendosi, per altro verso, precisare - condividendo
questa volta l’effettivo bersaglio dell’accennata obiezio-
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ne evidenziata nella memoria ex art. 378 c.p.c. - che la
decisione sulla giurisdizione di cui alla ord. n. 25875 del
2008 non ha, invece, preso posizione, con effetti di giudicato, sul punto dell’“avveramento della condizione
successivamente alla proposizione della domanda”, in
quanto tale profilo è stato ritenuto pertinente al merito
della causa e, quindi, come tale da ritenersi estraneo ai
fondamenti (o presupposti) della decisione anzidetta.
Il che, tuttavia, non sposta affatto i termini, sopra delineati, del giudicato formatosi sull’ordine delle domande
attoree.
Si tratta, invero, di profilo, quello dell’“avveramento
della condizione”, che attiene al diverso ambito delle
censure che, di seguito, verranno subito esaminate.
5.1.7. - Le ulteriori doglianze investono la statuizione
della Corte territoriale sul difetto di interesse della A.,
ex art. 100 c.p.c., a conseguire una decisione nel merito
della domanda di “accertamento incidentale condizionato” della invalidità/inefficacia degli “accordi svizzeri”
e ciò a seguito della rinuncia alla condizionante eccezione di transazione effettuata, in sede di precisazione
delle conclusioni del giudizio di primo grado, dalla C.
5.1.7.1. - Parte delle censure sono incentrate su una
prospettiva che può definirsi “sostanzialistica”, giacché
allude, seppur indirettamente, alla disciplina della condizione dettata dal codice civile, in quanto si predica
l’avveramento non più risolvibile della condizione in
forza della mera proposizione dell’eccezione di transazione. È un’ottica, questa, che non può trovare seguito, dovendosi valutare la questione in funzione eminentemente “processualistica” e in base ai poteri esercitabili
dalle parti nel corso del giudizio.
Non occorre, infatti, indugiare sulla diversità di ratio,
funzione ed effetti giuridici che si frappone alla omologazione tra l’avveramento della condizione elemento accidentale del contratto e gli effetti del condizionamento
tra una domanda giudiziale e l’eccezione riservata alla
parte, spiegate nella medesima sede processuale.
A tal fine è sufficiente mettere in evidenza a quale paradossale conclusione si giungerebbe, ove si intendesse
praticare una siffatta sovrapposizione e la conseguente
osmosi di principi disciplinatori (mutuandoli da quelli
che regolano l’istituto in base alla trama normativa di
cui all’art. 1353 c.c. ss.), giacché il predetto condizionamento domanda/eccezione sarebbe esso stesso affetto da
nullità ai sensi dell’art. 1355 c.c., considerato che il suo
oggetto verrebbe a cadere proprio sulla proposizione dell’eccezione, ossia su un evento rimesso alla mera volontà della parte, avendo la parte medesima il diritto, pieno e incondizionato, di scegliere, liberamente, se esercitare, o meno, tramite l’eccezione ad essa riservata, il
proprio diritto alla difesa.
Ciò posto, non dubitando la stessa ricorrente della facoltà di una parte di condizionare (rimanendo nell’ambito della fattispecie che ci occupa) una propria domanda alla proposizione di una eccezione della controparte,
occorre altresì rilevare che, alla stregua di un orientamento consolidato, la restrizione del thema decidendum,
in forza della rinuncia a qualche capo di domanda o ad
eccezione in precedenza formulate, è nella piena dispo-
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nibilità del soggetto processuale non solo fino al momento della precisazione delle conclusioni (Cass., 5 luglio 2013, n. 16840; Cass., 10 luglio 2014, n. 15860),
ma anche in sede di comparsa conclusionale (Cass., 25
agosto 1997, n. 1971; Cass., 15 aprile 2014, n. 8737).
Né assume consistenza l’obiezione secondo cui la possibilità di rinunciare all’eccezione già proposta comporterebbe una signoria illimitata della parte rinunciante sul
condizionamento della domanda avversaria e ciò non
soltanto perché tale obiezione è in parte tributaria della
prospettiva sostanzialistica di cui si è detto in precedenza, ma anche in considerazione del fatto che la scelta
processuale di conformare il condizionamento secondo
un determinato assetto (nella specie, all’eventualità che
la convenuta proponesse l’eccezione di transazione) proviene proprio dalla stessa parte attrice, che, in tal modo,
ha espressamente e liberamente manifestato un interesse alla pronuncia “condizionato” dall’esistenza di una
eccezione contraria.
5.1.7.2. - Sebbene la ricorrente deduca, poi, che la Corte di appello abbia errato a disconoscere la sussistenza
stessa dell’interesse ad agire, poiché, invece, vi sarebbe
stata una situazione di “obiettiva incertezza della situazione giuridica”, tuttavia ella omette di considerare che
l’interesse ad agire deve essere apprezzabile anche al
momento della decisione (tra le altre, Cass., 13 luglio
2009, n. 16341); sicché, una volta intervenuta la rinuncia all’eccezione di transazione, avrebbe dovuto dare
contezza effettiva dell’attualità concreta del pericolo di
lesione del bene giuridico che intendeva preservare e
quale utilità avrebbe potuto rivestire il provvedimento
giudiziale richiesto a tal fine e ciò per non incorrere
nella inconcludente postulazione di un ipotetico pregiudizio solo futuro e meramente potenziale.
La decisione del giudice di appello è, quindi, armonica
rispetto alle coordinate giuridiche che segnano l’ambito
entro cui è dato ravvisare l’interesse ad agire, quale possibilità di ottenere, con il giudizio, un concreto risultato
utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile
senza l’intervento del giudice, giacché il processo non
può essere attivato soltanto in previsione dei possibili
effetti futuri pregiudizievoli per la parte (tra le tante,
Cass., 23 dicembre 2009, n. 27151; Cass., 28 giugno
2010, n. 15355; Cass., 27 gennaio 2011, n. 2051; Cass.,
4 maggio 2012, n. 6749).
Peraltro, neppure l’ulteriore rilievo - con il quale si pone in risalto che il giudice di appello avrebbe dovuto
apprezzare l’esistenza di una obiettiva incertezza della situazione giuridica in forza della formulazione stessa di
una “domanda di accertamento di nullità condizionato”
coglie nel segno, posto che una tale incertezza conseguiva, invero, proprio dalla proposizione e, soprattutto,
dalla persistenza, come tale, dell’eccezione di transazione, giacché, altrimenti, la questione di validità degli
“accordi svizzeri”, addotta in via condizionata ed eventuale, non avrebbe avuto motivo di essere discussa nell’ambito dell’instaurato giudizio, ben potendo l’attrice
conseguire il risultato utile sperato, con l’accoglimento
delle proprie domande - quella pregiudiziale di rendiconto e quella principale di petizione ereditaria -, senza
1505
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che il giudice del merito si dovesse comunque impegnare nell’accertamento dell’invalidità di accordi transattivi sull’asse ereditario.
6. - Il ricorso va, pertanto, rigettato.
(omissis).
Quando non dovrebbe essere applicato,
e quando invece è prezioso, l’istituto
della gestione di affari altrui
di Daniele Maffeis
Nella ricostruzione dell'istituto della negotiorum gestio, disciplinato dall’art. 2028 c.c. ss., la nozione che la consolidata giurisprudenza della Cassazione ha accolto del requisito della absentia
domini, secondo una direttrice condivisa dalla prevalente dottrina, è quella per cui, a tal fine,
non rileva che vi sia una condizione di assoluto impedimento dell’interessato alla gestione dei
propri affari ovvero che sussista una impossibilità materiale rispetto alla cura di questi, ritenendosi soddisfatto l’anzidetto requisito là dove il dominus non abbia manifestato, espressamente o
tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nella cura dei propri affari.
Il presupposto della absentia domini
nella cura di interessi patrimoniali altrui
La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, torna a statuire, e ricordare, che “Nella ricostruzione dell’istituto della negotiorum gestio, disciplinato dall’art. 2028 c.c. segg., la nozione che
la consolidata giurisprudenza di questa Corte ha
accolto del requisito della absentia domini, secondo
una direttrice condivisa dalla prevalente dottrina,
è quella per cui, a tal fine, non rileva che vi sia
una condizione di assoluto impedimento dell’interessato alla gestione dei propri affari ovvero che
sussista una impossibilità materiale rispetto alla cura di questi, ritenendosi soddisfatto l’anzidetto requisito là dove il dominus non abbia manifestato,
espressamente o tacitamente, il divieto a che altri
si ingerisca nella cura dei propri affari”.
Così statuendo, la Corte si pone nel solco di
Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11135 e di Cass.,
SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11136 - e di altre sen(1) Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11135, in www.ilcaso.it
e Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11136, in Rep. Foro it., 2012,
Locazione, n. 98. Così già Cass. 7 giugno 2011, n. 12304, in
Rep. Foro it., 2011, Gestione d’affari, n. 3. Cass. 9 aprile 2008,
n. 9269, in Riv. not., 2009, 623. Il requisito della absentia domini è sostanzialmente svalutato anche dalla giurisprudenza risalente: Cass. 3 marzo 1954, n. 607, in Giust. civ., 1954, I, 460;
Cass. 27 ottobre 1965, n. 2262, in Mass. Giust. civ., 1965. Contra Cass. 13 marzo 1964, n. 550, in Foro it., 1965, I, 866.
(2) G. Gabrielli - F. Padovini, La locazione di immobili urbani,
Padova, 2005, 110. Intende, a ragione, la absentia domini in
senso rigoroso, S. Ferrari, Gestione di affari altrui (dir. civ.), in
Enc. dir., s.d. ma Milano, 1969, 647. Nella manualistica si trova ribadito l’insegnamento secondo cui costituisce presuppo-
1506
tenze a sezione semplice ricordate in motivazione
(Cass. 3 marzo 1954, n. 607; Cass. 13 maggio
1964, n. 550; Cass. 23 maggio 1984, n. 3143; Cass.
25 maggio 2007, n. 12280; Cass. 9 aprile 2008, n.
9269; Cass. 7 giugno 2011, n. 12304) - secondo
cui “l’absentia domini (sarebbe) da intendersi non
già come impossibilità oggettiva e soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il
gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione e/o divieto del dominus” (1).
Si tratta di un orientamento criticabile, ispirato
ad una visione marcatamente funzionale dell’autonomia privata, perché, se è condivisibile l’assunto
secondo cui, ai fini della ricorrenza della gestione
di affari altrui, non si richiede una rigorosa impossibilità oggettiva del dominus di curare il proprio affare, ed è certamente accettabile che neppure debba ricorrere una vera impossibilità soggettiva (2),
sto della gestione di affari altrui che il dominus non possa curare personalmente il proprio affare (tra gli altri G. Alpa, Manuale di diritto privato, Padova, 2013, 679; F. Galgano, Trattato
di diritto civile, III, III ed., Padova, 2015, 330) ma si trova anche
affermato, secondo la più recente tendenza, criticata nel testo,
che in via generale alla absentia domini equivarrebbe l’assenza
di prohibitio (A. Torrente - P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2013, 455). Nella giurisprudenza di merito, la necessità della absentia domini è statuita da Trib. Roma 20 dicembre 2001, in Giur. mer., 2002, I, 1223 ed è invece negata sul presupposto che alla absentia domini equivalga l’assenza
di prohibitio - da App. Roma 9 dicembre 1991, in Nuova giur.
comm., 1992, I, 805.
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suscita, invece, più di una perplessità l’idea che
chi, come - nel caso a suo tempo deciso dalle Sezioni Unite - il comproprietario di un immobile,
che non è evidentemente il titolare dell’interesse
degli altri comproprietari, ma si raffigura un modo
di curarne gli interessi, disponendo egli solo dell’intero, nel modo - si capisce - che per lui è quello
conveniente, pur essendo nella condizione materiale di contattare gli altri comproprietari per condividere ex ante il programma, sia invece incentivato a disporre senz’altro dell’intero e lo sia sulla
scorta di una raffigurazione, non già dell’interesse
soggettivo del dominus, bensì di una sua - supposta
- utilità oggettiva.
E del pari, non convincente è l’idea, già propugnata in motivazione dalle ricordate sentenze del
2012 delle Sezioni Unite, secondo cui, al postutto,
per ciò che attiene alla posizione del dominus, l’absentia debba ormai coincidere con la pura assenza
di una prohibitio (3).
Non a caso l’esito applicativo, al quale giungevano le Sezioni Unite nel 2012, allorché statuivano
che ricorre la gestione di affari quando “chi sia nella disponibilità di un bene in parte di altri ne disponga concedendolo in locazione, essendo siffatta
iniziativa contrattuale, in assenza di opposizioni da
parte degli altri comproprietari, chiaramente riferibile anche all’interesse di questi ultimi”, è chiaramente errato (4), perché, oltre al requisito dell’absentia domini, presuppone inesistente anche il requisito della cura dell’interesse, oggettivamente inteso, degli altri comproprietari. Non solo non si
comprende quale sia la massima di esperienza in
base alla quale, se il comproprietario Tizio ha piacere o necessità di locare la cosa comune, un identico piacere o bisogno avrebbe anche il comproprietario Caio (5), ma, soprattutto, la vera questione in gioco è lo svilimento del mandato, che si finisce così per fingere esistente, quando non c’è (6).
E tale ricostruzione appare ancor più inaccettabile,
fuori dal caso, che in fondo è peculiare, della comproprietà (7).
Ora, secondo la sentenza in commento, invece,
quella oggi ribadita e già fatta propria dalle Sezioni
Unite è “una concezione relativistica e scevra da rigidità, che tende, in effetti, ad estendere l’ambito
applicativo dell’istituto al di là degli angusti limiti
tradizionalmente configurati soprattutto nella considerazione, più risalente, che faceva capo al previgente codice civile del 1865, per cui la stessa giurisprudenza aveva allora ritenuto necessario che l’utile gestione dovesse essere intrapresa absente et inscio domino, alla stregua di una accezione, rispettivamente, di
impossibilità oggettiva e di evidente mancanza di
consapevolezza dell’intrusione del terzo. L’odierno
approdo giurisprudenziale può, quindi, essere compendiato nel principio per cui, nella gestione utile di
affare altrui, la absentia domini deve intendersi “non
come impossibilità oggettiva e soggettiva di curare i
propri interessi, ma come semplice mancanza di un
rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione o divieto del dominus. Sicché, il requisito in
esame è rinvenibile “non solo quando l’interessato
sia nella materiale impossibilità di provvedere alla
cura dei propri affari ma anche quando lo stesso non
rifiuti, espressamente o tacitamente, tale ingerenza
da parte del negotiorum gestor”.
L’applicazione, ora, del principio, da parte della
sentenza in commento, suscita ulteriori riserve e
perplessità, non tanto per l’esito al quale la sentenza perviene - che, a differenza delle sentenze delle
Sezioni Unite del 2012, è quello di escludere la ricorrenza della gestione di affari altrui così rigettando la richiesta di rendiconto -, ma per il percorso,
che conduce la Corte Suprema ad escludere la ricorrenza della gestione di affari altrui.
Difatti, la coerede del de cuius, che, secondo
quanto emerge dalla sentenza, aveva adottato plu-
(3) D. Maffeis, Forma ad substantiam, gestione di affari e divieto di venire contro il fatto proprio, in Giust. civ., 2005, I, 1942.
(4) Una critica attenta della sentenza delle Sezioni Unite richiamata nel testo si trova in L. Cordopatri, Atto dispositivo del
comunista e rappresentanza implicita, in Riv. dir. civ., 2014,
863.
(5) È il caso deciso da Trib. Roma 13 luglio 2004, in Giust.
civ., 2005, I, 1937 ss.
(6) P. Sirena, La gestione di affari altrui come fonte quasi
contrattuale dell’obbligazione, in Riv. dir. civ., 1997, 269 al richiamo della nota 96 e nella nota stessa.
(7) Caso peculiare sul quale si intrattiene V. Carbone, Le sezioni unite sulla disciplina applicabile alla locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari, in questa Rivista,
2012, 12, 1449 ss. In tema anche F. Toschi Vespasiani, La responsabilità del comproprietario che da solo stipuli un prelimina-
re di compravendita del bene in comunione, in Resp. civ., 2008,
49. Criticabile anche la statuizione di Cass. 23 maggio 1984, n.
3143, in Rep. Foro it., 1984, Gestione d’affari, n. 1 - che a sua
volta ravvisa una gestione di affari altrui negli atti di disposizione della cosa comune posti in essere dal comproprietario, pur
senza che ricorra il presupposto dell’assenza dell’altro comproprietario interessato - nonché quella di Cass. 26 settembre
1997, n. 9465, citata in P. Cendon, Commentario al codice civile. Artt. 1987-2042, Milano, 2009, 865, che riconosce al conduttore il diritto al rimborso delle spese sostenute per il mantenimento della cosa locata motivando che ciò integrerebbe la
cura di un interesse del proprietario rilevante come gestione di
affari altrui nonostante che il proprietario fosse per certo nelle
condizioni di essere informato e di decidere se e come intervenire con spese di manutenzione secondo i diritti e gli obblighi
propri di una locazione.
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rime iniziative di opposizione a qualsiasi forma di
gestione non autorizzata del suo affare - rappresentato dalla quota di eredità ad essa pertinente -,
non è stata considerata, dalla sentenza in commento, come un dominus presente (donde la mancanza
del presupposto della absentia domini), bensì è stata
considerata, per il fatto di avere rifiutato l’ingerenza, come un dominus assente (absentia domini) che,
tuttavia, si oppone alla gestione non autorizzata.
Secondo la Corte di cassazione, “Un siffatto consolidato orientamento in tema di configurazione
dell’elemento dell’absentia domini, tributario delle
istanze solidaristiche di cui all’art. 2 Cost., operanti
in senso conformativo dell’istituto secondo un bilanciato contemperamento con le esigenze dell’autonomia privata, porta a ritenere, in consonanza anche con una parte della dottrina, non impredicabile
una sorta di equiparazione implicita tra il dominus
prohibens e il dominus non absens, con ciò assistendosi ad un sostanziale assorbimento del requisito
dell’assenza nel rilievo della mancanza di una manifestazione dell’amministrato di preclusione all’intervento gestorio del terzo, che dell’art. 2031, comma
2, c.c., , contempla come impedimento genetico degli obblighi scaturenti dalla gestione stessa”.
È importante notare che la Corte di cassazione,
nella sentenza in commento, corregge, ai sensi dell’art. 384, comma 4, c.p.c., la motivazione della
sentenza di secondo grado, con la quale la Corte
d’Appello di Torino, condivisibilmente, aveva statuito l’inesistenza del requisito della absentia domini, per statuire, invece, in omaggio al principio
confermato dalle Sezioni Unite nel 2012, l’esistenza dell’elemento, “in negativo dirimente, della prohibitio domini, riconoscibile dai terzi in modo certo
e, in ogni caso, tale da non poter ingenerare negli
stessi quel legittimo affidamento”.
In breve: mentre, stando ai principi affermati
dalla Corte d’Appello di Torino, il presente che tace non è assente, invece, stando ai principi affermati dalla Corte di cassazione, il presente che tace
acconsente alla gestione.
È un principio di diritto non condivisibile: perché non è vero che chi tace acconsente (e deve subire una lecita ingerenza altrui), vero essendo più
semplicemente che chi tace tace (e ha il diritto
che nessuno si ingerisca nei suoi affari soltanto perché taceva).
L’utilità oggettiva del dominus, quando
è assente, e l’interesse patrimoniale
soggettivo del dominus, quando non
è assente
La ragione per la quale il silenzio, o l’inerzia, del
dominus, non debbono equivalere a una forma implicita di autorizzazione, all’ingerenza nella propria
sfera, è agevolmente intuibile se solo si riflette che
il silenzio, e più in generale l’inerzia, solo apparentemente sottendono un disinteresse per i propri affari, e più verosimilmente, e più spesso, sottendono, tutto al contrario, una poderosa raffigurazione,
da parte del titolare, del proprio soggettivo interesse. Un interesse che il titolare cura, tacendo, o restando inerte. L’idea che qui è sottoposta a critica
è che un terzo possa efficacemente sovrapporre, a
questa raffigurazione dell’interesse da parte del titolare, una supposta utilità oggettiva del dominus.
In particolare, se si assume, come appare corretto, che la gestione di un affare altrui sia, innanzitutto, una forma di cooperazione non richiesta, occorre ricordare come si atteggia, nella gestione di
affari altrui, la cura dell’interesse del dominus.
L’assunto di partenza è che, quando il dominus
non ha conferito un incarico, l’interesse coincide
con l’utilità oggettiva del dominus (8). La ragione di
ciò risiede nella circostanza che la gestione di “affari” altrui, in ambito patrimoniale, è, a ben vedere, una gestione di interessi altrui, e la gestione di
un interesse - qualsiasi gestione di interessi - presuppone, innanzitutto, la raffigurazione dell’interesse, la quale, se non è operata dal suo titolare, presuppone un mandato (espresso, tacito) o, se l’atto
del cui compimento si tratta è materiale, una locazione d’opera.
In questa prospettiva, va quindi precisato che
l’utilità oggettiva iniziale, in cui consiste l’utiliter
coeptum, presuppone che il dominus sia assente, e
non è invece ravvisabile, se il dominus è presente,
anche se tace.
Difatti, se il dominus è presente, e sta inerte, il significato della sua inerzia, giova ribadire, può essere
assai diverso dal significato che il gestore può essere
indotto ad attribuire ad essa. In particolare, mentre,
agli occhi del gestore, l’inerzia del dominus può apparire come una mancata raffigurazione del proprio
interesse (io non taglio l’erba del mio giardino di
montagna, perché semplicemente non mi pongo il
problema), invece essa può accompagnarsi ad una
(8) G. Minervini, Il conflitto d’interessi fra rappresentante e
rappresentato nella recente codificazione, in Arch. giur. Filippo
Serafini, 1946, II, 137, 138.
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posti dell’ingerenza nella sfera altrui debbono intendersi, secondo la tradizione, in maniera rigorosa (9),
e ciò in ossequio ad un principio di diritto, sul punto, opposto a quello fatto proprio dalla Corte di cassazione e ribadito dalla sentenza in commento.
raffigurazione molto precisa, che il dominus può fare
del suo proprio interesse (non taglio l’erba del mio
giardino di montagna perché mi piace l’erba alta).
Poiché, quando non ricorrono ragioni di protezione di interessi terzi, di ordine pubblico, di prevenzione di c.d. esternalità negative, il diritto non ha
motivo per non assecondare il dato secondo cui il
giudice dei propri affari è il suo titolare, il principio
sponsorizzato tuttora dalla Corte di cassazione, secondo cui chi tace non tace ma acconsente, è criticabile, e meriterebbe di essere abbandonato. Difatti,
se si ammette che un estraneo, in assenza di un incarico o di altro titolo legale, possa curare efficacemente l’interesse di un dominus, bensì presente, ma
inerte, fino all’opposizione di questi, si favorisce la
cura di una utilità oggettiva del dominus, in luogo
della cura dell’interesse soggettivo dello stesso, quale
si manifesta se il dominus cura personalmente i propri interessi (anche restando inerte e silenzioso), o
se conferisce ad altri l’incarico di farlo.
Probabilmente, il principio che la sentenza in
commento torna a statuire, ricorrendo alla correzione della motivazione, in un caso in cui l’esito applicativo cui era giunta la Corte d’Appello di Torino
poteva semplicemente essere confermato con il rigetto del ricorso sul punto, può essere sponsorizzato
perché, a parte il caso molto particolare in cui la gestione, come nel caso deciso dalla sentenza in commento, è allegata al fine di ottenere un rendiconto,
i casi di intervento spontaneo nella gestione di patrimoni altrui sono, al postutto, rari.
Se essi fossero frequenti, e se fossero sempre ispirati al principio secondo cui chi tace non tace, ma
acconsente, risulterebbe svilito il ruolo, che invece
è essenziale, del mandato - espresso o tacito, ma esistente - mercè il ricorso a una finzione, qual è quella
per cui, per l’appunto, chi tace conferisce un tacito
mandato, e ad un errore, qual è quello di pensare
che oggetto di un mandato, ancorché tacito, possa
essere, non già la cura dell’interesse soggettivo del
mandante, ma di una sua utilità oggettiva.
In conclusione, in ambito patrimoniale, poiché
non è una buona regola che qualcuno gestisca gli
interessi di un altro, se non ha ricevuto l’incarico di
farlo, e poiché non è utile che chi non è mandatario si assoggetti tuttavia al regime della responsabilità da mandato (art. 2030, comma 1, c.c.), i presup-
Quanto osservato fino a qui non significa che l’istituto della gestione di affari altrui debba relegarsi
fra quelli destinati a solo sporadiche applicazioni.
La sentenza può offrire l’occasione per osservare
che, se in ambito patrimoniale, nei rapporti d’affari, non è condivisibile la tendenza ad estendere
l’ambito di applicazione dell’istituto della gestione
di affari altrui, mercè l’eliminazione dell’antico
presupposto dell’absentia domini, testualmente ribadito all’art. 2028, comma 1, c.c., ed invece sostanzialmente ricondotto alla mera prohibitio, con il
conseguente svilimento dei limiti del mandato, invece, l’applicazione della disciplina della gestione
di affari altrui appare condivisibile, e convincente,
quando l’affare della cui cura si tratta riguarda la
sfera, e dunque la protezione, della persona, come
accade se la gestione consiste nel sostenimento da
parte degli affidatari delle spese di mantenimento
di un minore (10) o più in generale nella cura di
un diritto della persona (11).
E ciò, sia che l’intento che sorregge l’azione del
gestore, finalizzata alla cura della persona sia puramente altruistico, come accade se il gestore non si
ripromette di conseguire alcun compenso dalla sua
condotta, sia quando l’intento sia altresì, se si vuol
dire così, egoistico, come accade se il gestore presta
un’attività che andrà remunerata, dall’interessato,
secondo il suo valore di mercato.
Soprattutto, l’estensione della disciplina della
gestione di affari altrui appare condivisibile allorché si tratta della cura degli interessi di persone bisognose e quando, dunque, l’incentivo appare uno
strumento preziosissimo della convivenza civile (12), come accade per le obbligazioni alimentari
adempiute da un soggetto che non vi sia tenuto ad
altro titolo (13) o di altre obbligazioni di assistenza
(9) R. Sacco, Il fatto, l’atto, il negozio, Torino, 2005, 164 scrive che “il potenziale gestore, ovviamente, potrà girare al largo,
e non effettuare atti di gestione”.
(10) Cass. 20 dicembre 2011, n. 27653, in Rep. Foro it.,
2011, Gestione d’affari, n. 4.
(11) C. Gozzi, Spunti ricostruttivi per l’inquadramento del
soccorso privato nell’ambito della gestione d’affari altrui, in Eur.
dir. priv., 2009, 153.
(12) A. Greco, La gestione di affari altrui, in Le obbligazioni, a
cura di Franzoni, III, Torino, 2005, 573.
(13) P. Morozzo Della Rocca, Doveri di solidarietà e prestazioni di pubblica assistenza, Napoli, 2013, 92.
il Corriere giuridico 12/2015
L’istituto della gestione di affari altrui
al servizio del soccorso privato:
il presupposto della absentia domini
nella cura di bisogni personali altrui
1509
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materiale (14). Si pensi al dovere del figlio di assistere il genitore bisognoso nell’inerzia degli altri figli (15) o al caso del soccorso ad una persona in
pericolo di vita o di lesione dell’integrità fisica (16). Si pensi ancora ai casi in cui l’inerzia consapevole dell’interessato integri un’omissione contraria - per adoperare la formula dell’art. 2031,
comma 2, c.c. - alla legge, all’ordine pubblico o al
buon costume.
In questi casi, trattandosi di curare, non già un
interesse patrimoniale, ma un bisogno della persona, appare socialmente utile ed apprezzabile che,
anche in assenza di un incarico o di altro titolo legale, si favorisca un intervento calibrato sulla cura
di un bisogno oggettivo. Quando si tratta dei bisogni primari, e non patrimoniali, di una persona,
non c’è, o è secondario, il problema di distinguere
tra interesse soggettivo e utilità oggettiva e non
esiste una ragione per disincentivare la cura di un
bisogno personale oggettivamente inteso: si pensi,
riprendendo gli esempi giurisprudenziali appena ricordati, al mantenimento di un minore, all’obbligazione alimentare, alla cura del genitore anziano,
al soccorso ad una persona in pericolo di vita, al
pagamento delle spese funerarie. Qui è assai difficile pensare che l’inerzia di chi trascura i bisogni altrui vada premiata come una intangibile manifestazione di libertà.
Essenziale è chiarire che la gestione di affari altrui è bensì un istituto funzionale all’espressione di
manifestazioni di solidarietà tra privati, ma la solidarietà non va intesa nel senso che il gestore non
possa avere un interesse proprio alla cura del bisogno altrui.
È importante al riguardo la delimitazione dei
confini di applicazione della disciplina della gestione di affari e della disciplina dell’adempimento del
dovere morale o sociale di cui all’art. 2034
c.c. (17). L’intervento nella sfera altrui, che consiste in atti giuridici, o materiali, può ben integrare
l’esecuzione di una prestazione (di dare; di fare) sospinta da un dovere morale o sociale. Se è così, occorre distinguere tra le due fattispecie - gestione di
affari; adempimento di obbligazione morale o sociale - perché la spontaneità della prima è antinomica rispetto alla doverosità, ancorché su di un
piano diverso da quello giuridico, della seconda (18), sicché, se v’è adempimento di un dovere
morale o sociale, si applica la disciplina dell’irripetibitilità della prestazione, e non vi è margine per
un’applicazione della disciplina della gestione di affari altrui (le due discipline sono diverse nei presupposti, e nel contenuto: si pensi al tratto caratterizzante della negotiorum gestio, che è il dovere di
condurre a termine la gestione, ed al tratto, opposto, che caratterizza l’adempimento del dovere morale, cioè la sicura libertà di interrompere ad nutum
l’attività solidale).
Diverse sentenze applicano la disciplina della gestione di affari altrui al compimento degli atti necessari per organizzare il funerale e la sepoltura,
nell’inerzia dei famigliari del defunto (19). Si tratta
di una regola opportuna, ma occorre valutare bene
se la gestione supplisca all’inerzia, o all’impossibilità dei famigliari di provvedere. Nel secondo caso,
l’intervento può essere dettato da un dovere morale, sicché la disciplina applicabile è quella dell’art.
2034 c.c., e colui che è intervenuto non ha diritto
di ripetere alcuna somma (20). In senso contrario
si è espressa una giurisprudenza, secondo cui integrano gestione di affari altrui i pagamento fatti da
un parente del disabile a far data dal momento della richiesta di riconoscimento in via amministrativa del diritto all’assistenza da parte della pubblica
amministrazione (21).
In questa prospettiva, solleva riserve la motivazione di una sentenza di merito (22), che, per motivare il rigetto della pretesa del figlio, di ottenere
dal padre il rimborso del prezzo pagato ai sequestratori per il riscatto, ha statuito che la gestione di affari altrui, per essere utilmente iniziata, deve comportare un iniziale arricchimento patrimoniale o
un risparmio di spesa, e quindi non è configurabile
se l’utilità iniziale è rappresentata dal rimanere in
(14) P. Sirena, L’adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza materiale, in Familia, 2002, 65.
(15) Trib. Vallo Lucania 8 luglio 1991, in Dir. fam., 1991, 4.
(16) P. D’Amico, Il soccorso privato, Napoli, 1981, 69.
(17) Le figure contigue dell’adempimento del dovere morale o sociale e delle altre fattispecie caratterizzate dal perseguimento di scopi di solidarietà sociale sono indagate da P. Morozzo Della Rocca, Gratuità, liberalità e solidarietà. Contributo
allo studio della prestazione non onerosa, Milano, 1998, 121 s.
(18) P. Morozzo Della Rocca, Obbligazioni naturali e dona-
zione remuneratoria, in di Palazzo (a cura), I contratti di donazione, Torino, 2009, 227.
(19) Trib. Castrovillari 9 aprile 2004, in Rep. Foro it., 2005,
Gestione d’affari, n. 3.
(20) In senso diverso D. Carusi, Le obbligazioni nascenti dalla legge, Napoli, 2004, 119.
(21) Cass. 8 giugno 2010, n. 18378, in www.plurisdata.it.
(22) Trib. Torino, (decr.) 1° dicembre 1986, in Foro pad.,
1987, I, 397, in Giur. mer., 1987, 1187 ed in Giur. piem., 1987,
162.
Prestazioni solidali e dovere morale
o sociale
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vita, invece che essere uccisi dai sequestratori. Ma
il caso era peculiare, come si intuisce, e il rigetto
della pretesa del figlio sembra fondato sull’art.
2034 c.c. e così sul fatto che il giudice presumesse
che il figlio aveva pagato il riscatto per un dovere
morale.
Per la Cassazione, il giudicato sulla giurisdizione internazionale
impedisce sempre e comunque lo scioglimento
del cumulo condizionale tra domande
(note critiche a margine del “caso Agnelli”)
di Marcello Stella (*)
In un celebre caso successorio, dopo la divisione consensuale dei beni ereditari tra successibili,
la figlia del de cuius agisce nei confronti della madre per vedersi assegnare pro quota ulteriori
beni ereditari di cui sospetta l’esistenza all’estero. L’azione di petitio hereditatis è proposta in Italia. Ad ostacolarne la ammissibilità è la clausola di proroga della giurisdizione a favore del giudice svizzero apposta al patto divisorio. La figlia decide allora di non impugnare direttamente tale
contratto, ma chiede accertarsene l’invalidità incidenter tantum per il caso in cui la convenuta
sollevi una eccezione di transazione. In grado di appello, la figlia, soccombente in primo grado,
cambia strategia e propone una domanda di accertamento con efficacia di giudicato della nullità del patto divisorio. La Cassazione (forse ultroneamente, dato lo svolgimento processuale) si è
misurata con il seguente quesito: può l’attore sciogliere il cumulo condizionale tra le sue domande, dopo che sulla questione di giurisdizione italiana (sulla domanda principale di petitio hereditatis) si siano pronunciate le Sezioni Unite in sede di regolamento preventivo di giurisdizione?
L’azione italiana: domanda di petitio
hereditatis ed eccezione-replica preventiva
di invalidità del patto divisorio
1.-Del tormentato contenzioso ereditario interessa mettere a fuoco qui il segmento processualcivilistico, restituito nella sua complessità dalle due pronunce di cassazione, prima a sezioni unite (ord. n.
25875 del 2008), su regolamento preventivo di
giurisdizione, infine a sezione semplice, che con la
sentenza in epigrafe parrebbe aver posto fine alla
annosa lite tra eredi. È noto che il processo civile
si era evoluto in parallelo a (e quasi al traino di)
indagini penali, che avevano fatto emergere l’esistenza di una consistente porzione dell’asse custodita “offshore”, lontano a quanto pare anche dagli occhi del fisco italiano. Ad un lustro dall’apertura
della successione, la figlia del senatore si era dunque risolta a convenire in giudizio, davanti al tribunale di Torino, la madre e tre “storici” consulen-
ti del de cuius, prospettati come gestores fiduciari
del patrimonio paterno ed in thesi obbligati a rendere conto all’erede della loro gestione. Chiedeva
l’attrice lo scioglimento della comunione e l’assegnazione in proprietà esclusiva della quota dei beni
ereditari, previa appunto esatta ricostruzione di valore, natura e localizzazione nel mondo di tali beni (1).
Nella citazione la figlia narrava altresì di avere,
anni prima, stipulato con la madre un accordo per
la definizione di ogni controversia successoria. Tale
precedente accordo tra coeredi, stipulato in Svizzera, all’indomani dell’apertura della successione,
non avrebbe tuttavia “esaurito” l’intero asse, gran
parte del quale era tuttora ignota all’attrice. Donde
l’interesse al rendimento del conto e alla petizione
d’eredità. Non è dato conoscere, peraltro, quale
natura avesse l’accordo stipulato tra madre e figlia,
e così se si trattasse di una divisione transattiva,
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Di recente Cass., Sez. VI, 14 maggio 2014, n. 10397, in
juscivile.it, 2015, 10, con nota di Lindiner, ha riconosciuto la
validità e la liceità di un contratto atipico mediante il quale un
intermediario si impegni a ricercare professionalmente per
conto degli eredi informazioni sulla collocazione e sulla entità
della massa dei beni ereditari. Nel caso risolto dalla sentenza
in epigrafe, tuttavia, non questo era il fondamento dell’obbligo
di rendiconto che l’attrice affermava sussistere in capo agli ex
avvocati e consulenti del padre, tutti titolari di cariche apicali
presso società appartenenti alla galassia Agnelli.
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2.- Attribuito a tale conclusione della figlia valore di autonoma domanda di impugnativa negoziale, la madre convenuta proponeva regolamento
preventivo di giurisdizione, concepito all’incirca in
questi termini: vertendo la domanda “pregiudiziale” su un accordo divisorio munito di una clausola
di proroga della giurisdizione a favore del giudice
svizzero, il giudice italiano avrebbe dovuto declinare la propria giurisdizione su tale domanda; “specularmente” tale giudice si sarebbe però dovuto spogliare anche di tutte le altre domande di rendiconto, di scioglimento della comunione e di assegnazione della quota, dato che per espressa volontà di
parte attrice l’esame nel merito di tali domande sarebbe stato subordinato all’accoglimento della azione di impugnativa negoziale.
Le sezioni unite, con ordinanza n. 25875 del 27
ottobre 2008 (Pres. Carbone, rel. Travaglino), ricostruivano diversamente la volontà dell’attrice.
La corte regolatrice, in particolare, individuava
nella petitio hereditatis la domanda principale, su cui
la giurisdizione italiana veniva senz’altro e definitivamente affermata in base all’art. 50, l. 218/1995,
per essersi la successione aperta in Italia.
Quanto alla “richiesta” di parte attrice (le sez.
un. non usano il termine “domanda”) di “dichiarare” (tra virgolette nell’ordinanza) la nullità, an-
nullabilità, inefficacia dell’accordo divisorio, quest’ultima porzione del complessivo petitum attoreo
veniva qualificata dalla cassazione in termini di
“accertamento incidentale condizionato” che si sarebbe posto “oltre che in un rapporto di pregiudizialità soltanto eventuale rispetto alla domanda
successoria svolta in via principale, anche e soprattutto sul piano del merito della causa (atteso
che, in via di ipotesi astratta, l’eccezione di transazione siccome paventata dall’attrice sarebbe
ben potuta non essere opposta dalla convenuta)
e, come tale, irredimibilmente sottratta alla cognizione e all’esame di questa corte quoad iurisdictionis”.
Formule espressive, queste, certo un poco sfuggenti rispetto allo stile consueto del relatore dell’ordinanza, ma che secondo noi stavano nella sostanza a significare che, nella specie, non ricorreva
affatto un cumulo condizionale di domande: ben lungi
dal dedurre ad oggetto del giudizio l’accordo stipulato con la madre per sentirne dichiarare l’invalidità con efficacia di giudicato, la “richiesta” attorea
era volta a sollecitare un accertamento incidenter
tantum della invalidità negoziale dell’accordo, per
il caso in cui la convenuta lo avesse invocato come
fatto estintivo del diritto dell’attrice a concorrere
pro quota su eventuali beni indivisi rivenienti da
una rendicontazione più puntuale ed esaustiva del
patrimonio del de cuius. Non altrimenti ci sembra
possa interpretarsi il passaggio, poco oltre nella
motivazione sempre dell’ordinanza del 2008, in cui
la Corte tornava a sottolineare che “la natura ereditaria della presente controversia non può, pertanto, subire alcuna mutazione, né genetica né funzionale, sul piano del petitum e della causa petendi,
per il solo fatto che l’attore, in previsione di una
possibile eccezione di res litis transacta, ne chieda,
in limine, un accertamento pregiudiziale a sé favorevole, poiché, va ribadito, tale questione attiene
evidentemente al merito della controversia e non
alla giurisdizione”.
(2) V., da ult., Cass., Sez. II, 30 aprile 2015, n. 8808: “l'elemento distintivo è da individuare nella circostanza per cui nella
transazione divisoria l'accordo transattivo, regolando ogni controversia, anche potenziale, in ordine alla determinazione delle
porzioni corrispondenti alle quote ereditarie, ha ad oggetto
proprio le questioni costituenti presupposto ed oggetto dell'azione di rescissione (cfr. Cass. 3 settembre 1997, n. 8848) ovvero nella circostanza per cui l'attribuzione compiuta da uno o
da taluni dei condividenti a favore dell'altro o degli altri di beni
avente valore superiore a quello della quota a quest'ultimo, a
quest'ultimi spettante ha da esser pienamente consapevole
(cfr. Cass. 10 marzo 1976, n. 836). In tal ultima evenienza il
consapevole squilibrio tra porzioni attribuite e quote astrattamente spettanti non vale a far trasmodare l'operazione oltre
l'ambito della transazione, sì da connotarla in guisa di un'operazione liberale (il negozio con cui si scioglie una comunione
incidentale ereditaria, ove posto in essere senza tener conto
della proporzionalità tra valore dell'asse e quota attribuita (elemento essenziale del negozio divisorio)per dirimere o prevenire
controversie insorgenti dallo stato di comunione, integra una
transazione in senso proprio, la quale, sebbene attuata in occasione della divisione, si pone come fonte autonoma regolatrice del rapporto in luogo del titolo preesistente e produce effetti novativi”.
oppure di una transazione divisoria, quest’ultima
non impugnabile per lesione, almeno in base al diritto italiano (2).
Quel che consta è che la figlia, in previsione di
una possibile exceptio litis transactae, eccezione poi
puntualmente sollevata dalla madre convenuta, si
premurava di inserire tra le sue conclusioni anche
la seguente: “in via pregiudiziale, ove occorra, dichiarare la nullità, annullabilità, inefficacia degli accordi
intercorsi successivamente all’apertura della successione”.
L’individuazione del petitum sostanziale
operata dalle Sezioni Unite in sede di
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La prima osservazione da compiersi, allora, è
che per qualificare in modo tecnicamente più acconcio tale segmento del petitum attoreo, le sezioni unite avrebbero potuto convenientemente far
ricorso alla figura della c.d. “eccezione-replica” (3): qui preventivamente schierata dall’attrice
per pararsi contro una prevedibile e prevista eccezione di transazione.
La seconda osservazione, quasi una prova del nove relativa ai contorni della res in iudicium deducta,
è che, se la corte avesse ritenuto di trovarsi al cospetto di una autentica domanda di impugnativa
negoziale, il vaglio sulla giurisdizione avrebbe dovuto prendere le mosse da quest’ultima domanda.
Pregiudiziale rispetto alla ri-determinazione della
quota ereditaria sarebbe apparso infatti - per
schiette ragioni di diritto sostanziale, prevalenti su
ogni ipotetico condizionamento processuale impartito dall’attore alle sue domande (4) - l’accertamento della (in)validità del negozio con cui l’attrice aveva in precedenza disposto dei suoi diritti ereditari.
3.- Veniamo alle vicende del processo di merito.
In primo grado il tribunale torinese rigettava la domanda di rendiconto per mancata prova dell’esistenza di un rapporto di mandato o gestione d’affari
tra il de cuius e i convenuti tale da far sorgere un
obbligo di rendiconto in capo a questi ultimi. Conseguentemente, il tribunale rigettava nel merito
pure la domanda di petizione ereditaria in relazione
ai beni collegati all’azione di rendiconto. Il tribunale riteneva invece non esaminabile la “domanda” (così la chiama la sentenza in epigrafe) di nullità dell’accordo tra coeredi, dato che la stessa fosse vera domanda o recte una mera eccezione-replica di invalidità negoziale - era condizionata alla
proposizione di una eccezione di res transacta e che
la convenuta aveva rinunciato alla sua eccezione
in corso di causa.
La figlia appellava la sentenza e chiedeva alla
corte torinese, inter alia, di accertare, questa volta
però “in via principale”, la nullità, annullabilità ed
inefficacia dell’accordo divisorio stipulato con la
madre. La corte d’appello confermava la statuizione di inesistenza di obblighi di rendiconto in capo
ai convenuti. Quanto alla domanda di accertamento dell’invalidità dell’accordo divisorio, questa veniva dichiarata inammissibile perché nuova, in
violazione del divieto ex art. 345 c.p.c., rilevato
che in primo grado l’attrice si era limitata a proporre una “controeccezione di accertamento incidentale subordinato”.
Ad abundantiam, la corte d’appello rilevava che
una simile domanda sarebbe stata comunque carente di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. dal momento che la convenuta aveva rinunciato alla propria eccezione di transazione.
4.- Impugnata per cassazione la sentenza d’appello per violazione degli artt. 99, 100, 112, 345
c.p.c., la figlia sosteneva di avere sin dal primo
grado proposto una domanda vera e propria di accertamento della invalidità dell’accordo divisorio
e di essersi limitata, nel passaggio da un grado di
giudizio all’altro, a togliere il condizionamento
originariamente impartito a tale domanda, per
sollecitare senz’altro una decisione di merito in
via principale sulla (in)validità dell’accordo divisorio. La figlia soggiungeva che, in ogni caso, allorché nel corso del giudizio di primo grado la
madre aveva dichiarato di rinunciare alla eccezione di transazione, essa attrice si era “opposta alla
rinuncia” denotando già allora una inequivoca
volontà di ottenere una pronuncia meritale incondizionata di invalidità dell’accordo (si badi,
per incidens, che così argomentando la ricorrente
si esponeva al rischio che la S.C. rilevasse un giudicato interno: non consta infatti che la figlia
avesse appellato la sentenza di primo grado per
omessa pronuncia sulla supposta domanda di nullità dell’accordo divisorio; a tacere della astratta
configurabilità di un interesse dell’attore ad “opporsi” al ritiro di una eccezione da parte del convenuto).
Le ragioni di un tale mutamento di strategia processuale sono probabilmente da ricercare nel fatto
che la figlia, temendo una doppia conforme negativa sulla sua azione di rendiconto, puntasse almeno
a far invalidare l’accordo transattivo a suo tempo
stipulato con la madre. La rimozione del negozio
spartitorio, è da credere, avrebbe consentito di ripristinare la comunione ereditaria, prodromica a
una nuova e più congrua divisione dell’asse.
(3) V. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. I. Le
tutele (di merito, sommarie ed esecutive) e il rapporto giuridico
processuale, Torino, 2015, 151, dove si rileva che “sebbene sia
consueta la congiunzione tra l’eccezione e la sfera del convenuto, ben può darsi la figura dell’eccezione dell’attore, sia in
funzione difensiva rispetto a una domanda del convenuto (domanda riconvenzionale), sia in funzione di replica ad un’eccezione della controparte (c.d. eccezione-replica)”.
(4) Consolo, Il cumulo condizionale di domande. I. Struttura
e funzione, Padova, 1985, 321, nt. 84.
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5.- La Cassazione, come prevedibile, non ha accolto le tesi della figlia ricorrente. Merita tuttavia
passare attentamente in rassegna l’intero iter argomentativo, che non appare in toto condivisibile. La
ratio decidendi della S.C. è intonata al principio in
base a cui, dopo la pronuncia a sezioni unite sul regolamento di giurisdizione “il mutamento della
prospettazione delle domande che hanno formato
oggetto della decisione in punto di giurisdizione
non sarà più possibile nel corso del medesimo giudizio”.
La S.C. ha parlato di “estensione del giudicato sulla
giurisdizione ai fondamenti che la giustificano” per
concludere che all’attrice sarebbe stato precluso, in
corso di causa, alterare l’ordine delle sue domande,
in modo tale da sollecitare il giudice del merito a
pronunciarsi prioritariamente su una domanda diversa da quella che aveva orientato l’esito del giudizio sulla giurisdizione. Con l’esercizio di un simile
potere, avverte la Sezione III, l’attrice avrebbe rimesso inammissibilmente in discussione “gli stessi
termini fondativi del potere cognitorio del giudice
italiano, non più ancorati ai medesimi presupposti
(ossia le originarie domande attoree) che avevano
consentito alla Corte regolatrice di selezionare il
criterio di collegamento della materia successoria
ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 della
Convenzione di Lugano e 50 della legge n. 218 del
1995 e di escludere la rilevanza di altri criteri di
collegamento, i quali (ad es. la materia contrattuale, l’esistenza di una clausola attributiva della competenza o, comunque, il differente atteggiarsi della
connessione tra causa) avrebbero anche potuto, in
via di mera ipotesi, orientare diversamente l’ambito del giudizio sulla giurisdizione”.
6.- Questa soluzione non convince. Esatta è senz’altro la premessa in base a cui il giudice italiano,
investito di più domande nei confronti di un convenuto straniero, tra cui ricorra un nesso di condizionalità processuale impartito dall’attore, dovrà limitarsi a verificare la giurisdizione sulla domanda
principale, senza poter estendere il vaglio ai presupposti processuali delle domande subordinate,
ché un simile scrutinio sarebbe prematuro, fino a
quando il dovere decisorio su tali domande non
venga attualizzato dall’accoglimento (in caso di cumulo “successivo” o condizionale in senso stretto)
o dal rigetto (in caso di cumulo “eventuale” o subordinato) della domanda principale, così come ribadito più volte dalla Cassazione (5). Non ne consegue però che il “giudicato” sulla questione di giurisdizione precluda “un diverso modo di (ri)formulare
i nessi che reciprocamente legano le pretese svolte” dall’attore (fermo restando che, nel caso concreto, come si è veduto supra, non pare affatto che l’attrice
avesse, almeno con l’atto di citazione in primo grado, proposto una domanda di impugnativa negoziale, essendosi limitata a formulare una preventiva
eccezione-replica).
A sostegno di tale assunto la Sezione III ha richiamato due precedenti di legittimità: Cass., 27
luglio 2005, n. 15721 (6) e Cass., 22 marzo 2010,
n. 6850 (7). Entrambi, in motivazione, affermano
(5) V., da ult., tra i precedenti citati dalla sentenza in commento, Cass., sez. un., 27 febbraio 2012, n. 2926, in Int’l Lis,
2012, 5 ss., nt. Stella, Responsabilità precontrattuale da violazione dei doveri di correttezza e trasparenza degli intermediari finanziari e forum commissi delicti: le Sezioni Unite affermano la
giurisdizione italiana nel caso dei contratti derivati sottoscritti dal
Comune di Milano; e Cass., SS.UU., 18 settembre 2014, n.
19675, ivi, 2015, 8 ss., nt. Penasa, La giurisdizione in materia di
responsabilità (contrattuale e aquiliana) da derivati.
(6) Una società di assicurazioni e i suoi soci avevano convenuto davanti all’a.g.o. il Ministero delle attività produttive e l’Isvap per sentirli condannare al risarcimento del danno, previo
accertamento dell’inesistenza del provvedimento di revoca dell’autorizzazione allo svolgimento dell’attività di assicurazione e
del provvedimento di messa in liquidazione coatta amministrativa, in quanto tali atti erano stati entrambi adottati successivamente alla spontanea rinuncia privatistica della società allo
svolgimento della attività riservata mediante mutamento dell’oggetto sociale deliberato dalla assemblea dei soci. Le Sezioni Unite in sede di regolamento preventivo affermavano la giurisdizione del g.o., rilevato che la domanda degli attori aveva
ad oggetto un diritto soggettivo. In seguito, la domanda veniva
rigettata nel merito con sentenza confermata in appello. In
cassazione, le amministrazioni resistenti, con ricorso incidenta-
le condizionato, lamentavano che la corretta ricostruzione della sequenza cronologica, quale emersa in corso di causa, tra la
rinuncia della società allo svolgimento dell’attività riservata e i
provvedimenti amministrativi di revoca della autorizzazione e
di messa in liquidazione, adottati per primi, avrebbe dovuto
portare alla affermazione della giurisdizione del g.a. e al rigetto
in rito della domanda da parte del giudice ordinario. La Cassazione dichiarava inammissibile tale motivo di ricorso incidentale affermando che “la sussistenza materiale della delibera contenente l'atto di rinuncia della società, nonché l'anteriorità di
questa rispetto al provvedimento di revoca 29 luglio 1997, non
possono essere più esaminate e rimesse in discussione dal
giudice di merito non certamente porche già delibate dalla
Cassazione, adita in sede di regolamento di giurisdizione, ovvero per un'asserita preclusione al loro autonomo accertamento da parte del giudica di merito, ma perché entrambe le circostanze hanno costituito il momento genetico della qualifica attribuita dalle Sezioni Unite all'atto compiuto dalla società ("rinuncia"-"antecedente"): a sua volta condizione indispensabile
della dichiarata giurisdizione del giudice ordinario pur in presenza di un provvedimento di revoca delle autorizzazioni, perché alla stregua di detti accertamenti qualificato "successivo"
alla rinuncia”.
(7) Un medico assegnatario di incarico a titolo provvisorio
Il giudicato sulla giurisdizione estingue
il potere dell’attore di sciogliere il
condizionamento tra domande cumulate:
critica
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che “la decisione emessa in sede di regolamento
preventivo di giurisdizione vincola il giudice, davanti al quale la causa sia riassunta, soltanto per
quanto riguarda l’individuazione del giudice avente
giurisdizione in ordine al rapporto controverso;
mentre l’esame di una questione di merito, come
quella attinente alla natura e ai soggetti del rapporto dedotto in giudizio, eventualmente compiuto
dalle Sezioni Unite ai fini della risoluzione della
questione di giurisdizione, non dà luogo, per il suo
carattere meramente delibatorio e incidentale, ad
una pronuncia di merito costituente giudicato, che
possa precludere una ulteriore indagine ed una
autonoma, eventualmente difforme, statuizione in
sede di decisione di merito”.
In base a questa giurisprudenza, dunque, il solo
effetto endoprocessuale scaturente dal regolamento
preventivo di giurisdizione è di impedire al giudice
del merito di spogliarsi della domanda in rito, per
difetto di giurisdizione, quand’anche all’esito della
trattazione tale giudice addivenga a una qualificazione del diritto o del rapporto giuridico dedotto in
giudizio difforme da quella assunta dalla Cassazione
a fondamento della pronuncia regolatrice (8). Così,
presso un istituto correzionale di detenzione e pena adiva il
pretore in funzione di giudice del lavoro per sentire accertare
la natura a tempo indeterminato del rapporto. Il pretore accoglieva la domanda. Su appello del ministero, il tribunale rigettava la domanda per difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Le Sezioni Unite, accolto il motivo di ricorso del medico
sulla giurisdizione, cassavano con rinvio. All’esito del giudizio
di rinvio, la corte d’appello rigettava nel merito la domanda del
medico rilevando che la regola dell’assunzione per concorso
pubblico dettata dalla L. n. 740 del 1970, art. 4, era inderogabile per il pubblico impiego e che nessun concorso aveva preceduto la assunzione dell’attore. Il medico impugnava tale
sentenza per violazione di legge, ex art. 360, comma I, n. 3,
c.p.c., lamentando la falsa applicazione alla fattispecie della
normativa sul pubblico impiego, in ragione della natura privata
del rapporto. La Cassazione richiamava sì il proprio dictum a
sezioni unite, che aveva affermato la giurisdizione del giudice
ordinario in materia di impiego di medici incaricati presso istituti di detenzione, e la massima tralatizia (riportata supra nel
testo), in base alla quale il giudicato sulla giurisdizione precluderebbe una diversa qualificazione del rapporto dedotto in giudizio, per affermare che “il rilievo d'ufficio del giudicato interno
sulla qualificazione del rapporto toglie qualsiasi rilevanza alle
considerazioni svolte sul punto dalla sentenza impugnata ed alle
relative censure mosse dal ricorrente”. Ma non questa è la ratio
decidendi che ha portato al rigetto del ricorso del ricorrente. Il
motivo di ricorso del medico veniva infatti respinto nel merito,
per insussistenza dell’error iuris in iudicando, in quanto la legge
sull’impiego dei medici presso le carceri prevede che le assunzioni a tempo indeterminato debbano inderogabilmente essere
precedute da concorso, ferma la natura privata del rapporto,
esattamente al pari di quanto previsto dalla normativa sul pubblico impiego. La statuizione con cui la corte d’appello aveva
qualificato il rapporto di lavoro in termini di pubblico impiego è
apparsa dunque ininfluente ai fini del rigetto nel merito della
domanda del ricorrente.
(8) In dottrina si riscontrano molteplici tentativi di descrivere il fenomeno in questione. Per Redenti-Vellani, Diritto processuale civile, Milano, 2011, 418, il giudicato conseguente alla
pronuncia a sezioni unite sulla giurisdizione si formerebbe
“precisamente e soltanto sul quid decisum e cioè sulla proponibilità legale (in linea di diritto) dell’azione pretesa, così e come prospettata”. Per Gioia, La decisione sulla questione di giurisdizione, Torino, 2009, 176-177, “di fronte alla decisione sulla
giurisdizione proveniente dalle Sezioni Unite … la posizione
del giudice di merito rispetto alla lite non cambia: comunque
né può negare la giurisdizione assegnatagli, né può procedere
a una diversa qualificazione degli stessi fatti posti a base del
giudicato sulla giurisdizione, ma solo oltre i limiti in cui potrebbe contraddire la pronuncia sulla giurisdizione. Ecco delimitato
l’ambito in cui la pronuncia della Cassazione produce effetti
anche sul merito”. Una faēon d’expliquer più stringente del fenomeno, senza pericolosi accostamenti agli effetti negativopreclusivi del giudicato sul c.d. motivo portante, la si potrà a
nostro avviso ricavare dalla teorica sul doppio oggetto del processo, e tenendo così ben presente l’oggetto su cui cala la statuizione regolatrice delle Sezioni Unite. Questo non potrà che
identificarsi nel dovere di tutti i giudici appartenenti al medesimo ordine di decidere nel merito la causa. Se questo solo è
l’oggetto processuale di giudizio su cui cala il “giudicato” sulla
giurisdizione conseguente alla pronuncia delle Sezioni Unite,
interamente impregiudicata sarà la direzione verso la quale il
giudice competente potrà indirizzare la decisione di merito all’esito della trattazione. Senza che il “motivo portante” che
fonda la giurisdizione possa spiegare alcuna efficacia pregiudicante o conformativa rispetto alla soluzione delle questioni
preliminari o anche pregiudiziali c.d. bivalenti (rilevanti sia in rito sia nel merito) che tale giudice dovrà risolvere autonomamente per decidere sull’oggetto sostanziale di giudizio. Per
Consolo, Il cumulo, cit., 231 ss., spec. 251-252, in via generale,
sarebbe fuori luogo discutere “se la questione processuale riguardante un dato presupposto processuale possa riprodursi
tale e quale, od in termini di sostanziale equivalenza, in un successivo processo; non elevandosi tale questione a diretto oggetto di accertamento e di decisione, rimanendo essa piuttosto confinata nel campo delle cognizioni pregiudiziali, non sussiste la eadem res iudicanda, idonea ad originare il vincolo conformativo proprio del giudicato”. Nella nota 200 di p. 251, l’A.
rileva come “sulle singole questioni della competenza e della
giurisdizione verte invece direttamente l’accertamento reso
dalla Corte di Cassazione, con funzione strumentale non già
unicamente in vista della decisione sul dovere decisorio di merito da parte del giudice adito; ma, più in generale (con efficacia definita da Redenti “pan-processuale”), con riguardo alla
posizione di tutti i giudici sotto i profilo (del presupposto processuale) considerato”. Anche Vaccarella, Inattività delle parti
ed estinzione del processo di cognizione, Camerino, 1975, 345
ss., 356, nel ribadire l’impossibilità di concepire un giudicato
sostanziale su questioni processuali, rileva la eccezionalità del
conferimento, “in armonia con la storia e con la ratio della disposizione dell’art. 386 c.p.c.”, di una efficacia vincolante alle
sentenze delle Sezioni Unite limitatamente al riconoscimento o
alla negazione della giurisdizione del giudice adito. V. anche
Ferri, In tema di giudicato sulla giurisdizione, in Riv. dir. proc.,
1964, 350 ss., 356, secondo cui “l’efficacia vincolante delle
sentenze della Cassazione che regolano la competenza (e la
giurisdizione, se si ritiene che la disposizione dell’art. 310 sia
interpretabile estensivamente) potrebbe spiegarsi riferendosi
alla natura propria di dette statuizioni, in quanto decisioni dell’autorità sovrastante a tutti gli organi della giurisdizione,
emesse nell’esercizio del potere regolatore della competenza
dei giudici conferito esclusivamente alla Suprema Corte”. Né
convince l’assunto, che gode di qualche seguito in dottrina,
secondo cui il giudice, se all’esito della trattazione accerta che
il rapporto sussistente tra le parti non è quello affermato dall’attore, ma un diverso rapporto, rispetto al quale il giudice adito è incompetente, “rigetterà la domanda nel merito per il profilo di sua competenza … e si dichiarerà incompetente per l’al-
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se la Cassazione, in sede di regolamento preventivo, in aderenza alla prospettazione della domanda
e al petitum sostanziale, reputi che una certa domanda ricada nella giurisdizione del g.o. (ad es.
perché diretta a far valere un diritto nascente da
un rapporto con un datore di lavoro privato), il
giudice ordinario, se anche all’esito della trattazione si persuada che il datore di lavoro è un ente
pubblico, non potrà rimettere in discussione il proprio dovere di decidere nel merito la causa rilevando che essa rientrerebbe nella giurisdizione del g.a.
(a meno che, beninteso, non accerti il difetto di
presupposti processuali diversi dalla giurisdizione o
la carenza delle condizioni di decidibilità della causa nel merito), ma dovrà statuire sull’esistenza o
sulla inesistenza del diritto azionato avanti a lui.
Questa giurisprudenza non appare allora conferente, dicevamo, giacché, nel caso concreto, non si
poneva alcun problema di estensione del giudicato
sulla giurisdizione ai motivi che la determinano, né
era controversa la qualificazione del diritto o del
rapporto sostanziale compiuta dalla Cassazione per
risolvere la questione di giurisdizione.
Conclusioni
Si tratta piuttosto di stabilire come debba procedere il giudice allorché, nel corso del processo, l’attore (o il convenuto o un terzo interveniente) introduca una domanda nuova, ovvero rimuova il
condizionamento inizialmente posto al dovere decisorio su una determinata domanda, sollecitando
una pronuncia meritale non più in via gradata ma
principaliter. In questi casi (cui adde il caso in cui il
giudice decida con sentenza parziale la domanda
principale e passi all’esame della domanda subordinata) il giudice adito ben potrà e dovrà valutare
tro profilo”: così, Luiso, sub art. 38, in Consolo-Luiso-Sassani,
Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 27,
che sintetizza l’opinione, tra gli altri, di Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 285 ss. e Buoncristiani,
Giurisdizione, competenza, rito e merito (problemi attuali e possibili soluzioni), in Riv. dir. proc., 1994, 151 ss., ma spec. 203
ss. Secondo quest’ultimo A., in particolare, se un lavoratore
agisca per la condanna al pagamento della retribuzione davanti al giudice del lavoro e tale giudice, al termine del giudizio
svoltosi secondo il rito del lavoro, accerti che, in realtà, il rapporto tra attore e convenuto è un rapporto di lavoro societario,
quel giudice dovrebbe emettere “una sentenza di rigetto nel
merito della domanda sotto il profilo del lavoro subordinato” e,
alternativamente, dichiararsi incompetente sotto il profilo del
rapporto societario e rimettere le parti al giudice competente
ovvero, se lo stesso giudice sia competente anche sotto il profilo societario, mutare il rito e decidere nel merito anche su tale
rapporto. Questa ed altre ricostruzioni affini sembrano tutte
più o meno risentire della concezione “logicistica” della giurisdizione, tale per cui dal processo si attenderebbe solo la solu-
1516
autonomamente la sussistenza del presupposto processuale della giurisdizione rispetto a ciascuna domanda su cui non sia calato ancora un dictum regolatore definitivo da parte delle Sezioni Unite. Più
in generale, a fronte di ogni allargamento dell’oggetto del giudizio e del giudicato per effetto della
proposizione di domande nuove, se ciò avvenga in
primo grado, e finché il giudice non abbia pronunciato nel merito su ciascuna domanda (9), le parti
potranno proporre un nuovo regolamento preventivo, per sollecitare una pronuncia regolatrice della
giurisdizione. La ratio dell’orientamento di legittimità summenzionato, del “vincolo al motivo portante del giudicato sulla giurisdizione”, non è quella deflattiva di evitare la riproposizione del regolamento preventivo di giurisdizione su domande
nuove o anche sulle stesse domande diversamente
schierate dall’attore nel corso del giudizio di primo
grado.
Bisognoso di spiegazioni, passando ad altra questione, è infine il passaggio in cui la Cassazione afferma che la attrice-appellante, a fronte della rinuncia della convenuta alla eccezione di transazione, “avrebbe dovuto dare contezza effettiva dell’attualità concreta del pericolo di lesione del bene
giuridico che intendeva preservare e quale utilità
avrebbe potuto rivestire il provvedimento giudiziale richiesto a tal fine e ciò per non incorrere nella
inconcludente postulazione di un ipotetico pregiudizio solo futuro e meramente potenziale”.
Correttamente la Cassazione ha distinto tra l’interesse dell’attore a sciogliere il condizionamento
tra domande, e l’interesse ad agire. Sotto il primo
profilo, è valido il richiamo al pensiero di quella
dottrina, evocata dalla figlia ricorrente, in base a
cui l’attore ben potrebbe “purificare” il cumulo
condizionale, facendo venir meno il nesso di suborzione di quesiti tecnici e il giudicato si diversificherebbe in relazione al motivo portante della decisione. Invece, se si muove
dall’idea che l’esito del processo non può che consistere nell’attribuzione o meno del “bene della vita”, è inevitabile concludere che la pronuncia di merito sull’unico diritto azionato,
ove sia divenuta definitiva, “consuma tutte le difese delle parti
ed impedisce un reiterato esercizio della funzione giurisdizionale, con la sola e generale riserva per i fatti sopravvenuti”: così, Cerino Canova, La domanda giudiziale ed il suo contenuto,
in Comm. Allorio, Torino, 1980, 107 ss., 233.
(9) Non rileverà in senso ostativo alla proposizione di un
nuovo regolamento di giurisdizione sulla causa cumulata, l’orientamento restrittivo della Cassazione, che interpreta il combinato disposto degli artt. 41 e 367 c.p.c. (Cass., sez. un., 23
marzo 1996, n. 2466 e succ.) nel senso che qualsiasi decisione
sulla causa, non solo se attinente al merito, ma anche se inerente ai presupposti processuali, impedirebbe la proposizione
del regolamento di giurisdizione in relazione a quella medesima causa.
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dinazione impresso alle sue domande, nel periodo
che precede la decisione sulla domanda principale,
ove la scelta inizialmente compiuta sia ritenuta
“non più congrua e soddisfacente” (10): l’attore
agirà nei limiti del principio dispositivo, e non dovrà soggiacere ad alcun onere di allegazione e prova delle ragioni al fondo della sua scelta insindacabile. Il giudice, naturalmente, dovrà invece sempre
sincerarsi, venuto meno il condizionamento iniziale, della sussistenza (dei presupposti processuali e)
di tutte le consuete condizioni di decidibilità della
domanda nel merito. La corte torinese, dunque,
aveva fatto bene a chiedersi se la domanda di impugnativa dell’accordo divisorio fosse sorretta da
un idoneo interesse ad agire.
Corte d’appello e Cassazione hanno però negato
coralmente la sussistenza di un interesse ad impugnare l’accordo, ritenendo che ciò che l’attrice mirava a vedersi attribuire - il “risultato utile sperato”
- fossero tutt’altri beni ereditari rispetto a quelli
contemplati dalla spartizione consensuale. L’assunto non persuade. L’interesse dei contraenti alla rimozione dell’apparenza giuridica del contratto nullo, infatti, è in re ipsa (11). Nel caso concreto, inoltre, la rimozione del contratto divisorio avrebbe
determinato il ripristino della comunione e ricostituito le premesse per addivenire a una nuova divisione, previe collazioni e rideterminazione dell’effettivo valore dell’asse. Fermo che una simile domanda non avrebbe potuto essere accolta nel merito dal giudice italiano, in ragione della clausola di
proroga della giurisdizione a favore del giudice svizzero.
Il contenzioso tra madre e figlia non è affatto
escluso possa in futuro riaccendersi - l’impugnativa
negoziale è rimasta impregiudicata nel merito - ma
davanti alla giurisdizione elvetica.
(10) Sono le parole di Consolo, Il cumulo, cit., 402-403, il
quale rileva altresì come nessuna obiezione alla “purificazione”
del cumulo potrebbe poi venire tratta dalla considerazione che
il convenuto “avrebbe una sorta di aspettativa quesita a che
l’oggetto del giudizio rimanga delimitato nell’ambito (per vero,
come si notò, qualitativo piuttosto che quantitativo) espresso
dal modello della trattabilità nel merito condizionata (o da
quello tedesco della litispendenza risolubile)”.
(11) V. Consolo, Spiegazioni, cit., 581, che ravvisa un caso
tipico di incertezza pregiudizievole tale da determinare l’interesse ad agire pur in assenza di una contestazione o di un vanto da parte del convenuto, proprio in quello dato da un’apparenza giuridica, quale si avrà a fronte di un contratto nullo o
anche di un contratto simulato.
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Inadempimento anticipato ad un contratto preliminare
Cassazione Civile, Sez. III, 22 maggio 2015, n. 10546 - Pres. Russo - Rel. Stalla - P.M. Velardi
(diff.) - B.A. e altri (avv.ti Gentili, De Cristofaro, Mamoli, Consolo) c. B.M.G. e altri (avv.ti Cappabianca, Giardini)
Il comportamento del debitore incompatibile con l’esecuzione della prestazione dovuta configura un inadempimento prima ancora della scadenza del termine pattuito tra le parti (nella specie, stipulato un contratto preliminare di vendita immobiliare, il promittente venditore, prima della scadenza del termine, aveva instaurato
concrete trattative di vendita con terzi).
In ipotesi di inesigibilità della prestazione dovuta dalla parte promissaria acquirente (il cui termine di esecuzione non risulti ancora scaduto al momento dell’introduzione di un giudizio ai sensi dell’art. 2932 c.c., promosso prima della data fissata per la stipula del contratto definitivo sul presupposto dell’inadempimento anticipato della controparte), deve ritenersi necessaria e sufficiente un’offerta di adempimento anche non formale, purché espressa in modo da escludere ragionevoli dubbi sulla concreta intenzione della parte di adempiere e, dunque, a tal punto seria e concludente da far ritenere effettiva e puntuale la volontà di adempiere a
fronte del trasferimento del bene.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Sulla prima massima v. in senso conforme Cass. 21 dicembre 2012, n. 23823; sulla seconda massima non constano precedenti negli
esatti termini; la motivazione classifica tuttavia come coerenti alla soluzione in concreto accolta Cass. 27 settembre 1991, n. 10139;
Cass. 28 maggio 1988, n. 3660 e Cass. 11 luglio 2000, n. 9176; invece, il principio affermato da Cass. 13 dicembre 2007, n. 26226, è
stato ritenuto non del tutto calzante con la fattispecie oggetto di giudizio.
La Corte (omissis).
Motivi della decisione
p. 1.1 Ragioni logiche e giuridiche inducono a trattare
dapprima il ricorso incidentale di S. e B., in quanto incentrato sul presupposto stesso dell’azione costitutiva di
trasferimento, insito nella mancanza di consenso da parte dei promittenti venditori.
Con l’unico motivo di ricorso incidentale essi lamentano, in particolare, violazione o falsa applicazione dell’art. 2932 c.c., per avere la corte di appello erroneamente affermato l’interesse degli attori ad agire ex art.
2932 c.c., nonostante che, al momento dell’introduzione del giudizio, il termine di adempimento posto a loro
carico (perfezionamento del rogito entro il 31 ottobre
2001) non fosse ancora maturato; così da non potersi
configurare alcun inadempimento di parte promittente
venditrice.
p. 1.2 La doglianza è infondata.
La corte di appello (sent. pp. 4 e 5) ha affermato l’interesse ad agire dei promissari acquirenti ex art. 2932 cit.
poiché l’istruttoria compiuta aveva confermato che il
S., nell’estate 2001 e dopo la stipula del preliminare dedotto in giudizio, aveva (anche con l’intervento di mediatori e dispiego di planimetrie) trattative di vendita a
terzi dello stesso compendio immobiliare; sottacendo,
allo scopo, la circostanza che quest’ultimo fosse già stato
promesso agli attori. La valutazione del quadro probatorio (basato essenzialmente su convergenti e qualificate
dichiarazioni testimoniali) deponeva dunque per ritenere dimostrato “il comportamento del S. il quale, in violazione del principio di buona fede contrattuale, nonostante l’impegno assunto con gli attori, intavolava trat-
1518
tative con terze persone per la vendita dell’immobile
già promesso agli attori. Tale comportamento legittima
la proposizione dell’azione ex art. 2932 c.c., l’unico
mezzo che poteva assicurare ai promissari acquirenti l’effettiva acquisizione dell’immobile” (sent. p. 6).
Ora, l’accertamento in fatto così compiuto dal giudice
di merito deve costituire un punto fermo ed intangibile
nell’affermazione dell’inadempimento dei convenuti, il
cui comportamento, in contrasto con l’obbligo di buona
fede nell’esecuzione del contratto, denotava, a giudizio
della corte di appello, univoca volontà di non dare corso al preliminare, così come stipulato con gli attori; dai
quali avevano d’altra parte già ricevuto acconti per 200
milioni di lire.
Questo convincimento - tanto più a fronte di una censura incidentale basata esclusivamente sulla violazione
o falsa applicazione di legge, non già su carenze motivazionali - non può trovare qui smentita, costituendo
espressione di una tipica valutazione di merito; a sua
volta derivante da una determinata e concorde ricostruzione, da parte dei giudici di primo e secondo grado,
della fattispecie concreta sulla base delle prove conseguite. Significativo è che, in proposito, i ricorrenti incidentali sollecitino espressamente la cassazione della sentenza su questo punto in esito ad una diversa e più esauriente “analisi delle risultanze istruttorie” da parte del
giudice di appello; con ciò palesando di voler (inammissibilmente) invalidare il giudizio della corte territoriale
proprio sotto il profilo dell’accertamento in fatto del loro inadempimento agli obblighi derivanti dal preliminare e, segnatamente, attraverso una diversa e più gradita
valutazione probatoria.
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Quanto allo stretto profilo della conformità normativa
della decisione impugnata, rileva che correttamente la
corte di appello ha individuato il presupposto dell’azione ex art. 2932 c.c. nell’inadempimento al preliminare
da parte dei promittenti venditori.
Inadempimento colto sia nella sua attualità, di violazione dell’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto (obbligo che avrebbe dovuto indurre i promittenti venditori ad astenersi dal dedurre gli immobili in
concrete trattative di vendita a favore di terzi); sia nella
sua inequivoca proiezione futura, di evidente volontà di
sottrarsi all’adempimento del preliminare.
Anche quest’ultimo profilo deve reputarsi in linea con
il presupposto normativo dell’azione ex art. 2932 c.c.,
posto che l’inadempimento contrattuale può concretarsi
anche prima della scadenza prevista per l’adempimento,
qualora il debitore - in violazione dell’obbligo di buona
fede - tenga una condotta incompatibile con la volontà
di adempiere alla scadenza (Cass. n. 23823 del 21 dicembre 2012).
Va d’altra parte considerato come sia stata proprio l’anticipata manifestazione della volontà di non eseguire il
preliminare da parte dei promittenti venditori a determinare nei promissari acquirenti l’interesse concreto ed
attuale a proporre, anche prima della data fissata per il
rogito di trasferimento, la domanda ex art. 2932 c.c.; la
cui trascrizione, ex art. 2652, n. 2, c.c.), li tutelava nell’ipotesi di alienazione dell’immobile a terzi.
Nemmeno in ciò, in definitiva, si ravvisa un profilo di
violazione normativa; posto che l’azione ex art. 2932
c.c., può essere proposta anche prima della scadenza del
termine di adempimento, qualora risulti già conclamata
la volontà di non adempiere dell’altra parte.
p. 2.1 Venendo con ciò al ricorso principale, B.A. e
D.Q.C. lamentano, con il primo motivo, violazione o
falsa applicazione dell’art. 2932, comma 2, c.c. Ciò perché la corte di appello avrebbe erroneamente affermato
il loro inadempimento all’obbligo di corrispondere l’ulteriore acconto pattuito, ovvero di farne offerta formale,
nonostante che tale acconto (scadente nell’ottobre
2001), non fosse ancora esigibile al momento dell’atto
introduttivo del giudizio; con conseguente sufficienza di
un’offerta non formale, attestante la loro seria volontà
di adempiere (tra l’altro, nella specie dedotta in un’offerta “a borsa aperta” non del solo acconto, ma dell’intero saldo-prezzo).
p. 2.2 La censura è fondata.
La corte di appello - ritenendo di fare con ciò applicazione di quanto stabilito dalla S.C. con sentenza n.
26226 del 13 dicembre 2007 - ha ravvisato l’inadempimento dei promissari compratori nel non aver corrisposto il prezzo, né formulato offerta formale del medesimo;
offerta formale asseritamente resa qui indispensabile, ai
sensi dell’art. 2932, comma 2, c.c. dalla circostanza che
il pagamento di un acconto (1,4 miliardi di lire) fosse
stato dalle parti pattuito per il giorno prima della data
fissata per il rogito (al più tardi, il 31 ottobre 2001).
In effetti, la sentenza di legittimità citata dalla corte di
appello ha affermato che: “in tema di contratto preliminare, ai fini dell’accoglimento della domanda di esecu-
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zione in forma specifica ex art. 2932. c.c. è sufficiente la
semplice offerta non formale di esecuzione della prestazione in qualsiasi forma idonea a manifestare la relativa
volontà soltanto se le parti abbiano previsto il pagamento del prezzo, o del residuo prezzo, contestualmente
alla stipula del contratto definitivo. Se, invece, il pagamento del prezzo o di una parte di esso deve precedere
la stipulazione del contratto definitivo, la parte è obbligata, alla scadenza del previsto termine, anche se non
coincidente con quella prevista per la stipulazione del
contratto definitivo, al pagamento, da eseguirsi nel domicilio del creditore o da offrirsi formalmente nei modi
previsti dalla legge, non sussistendo in tale ipotesi nessuna ragione che giustifichi la sufficienza dell’offerta informale; in caso contrario, colui che è tenuto al pagamento è da considerarsi inadempiente e non può ottenere il trasferimento del diritto, ove la controparte sollevi l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c.”.
La presente fattispecie è tuttavia connotata da una peculiarità che non rende del tutto calzante il principio di
diritto testè riportato; riferito alle ipotesi (che sono
quelle normalmente ricorrenti) in cui la domanda ex
art. 2932 c.c. venga proposta successivamente alla scadenza dei termini fissati dalle parti per il pagamento del
prezzo e la stipula del definitivo (v. Cass. 10469/01;
Cass. 4365/02; Cass. 20867/04; Cass. 25144/14).
Nel caso in esame, invece, il giudizio ex art. 2932 c.c. è
stato introdotto (settembre 2001) prima, tanto della data fissata per la corresponsione di un’ulteriore rata di acconto (30 ottobre 2001); quanto della data fissata per il
rogito (31 ottobre 2001); quanto, ancora, della data fissata per il saldo-prezzo (novembre 2001, dopo il rogito).
Ne deriva che il pagamento del prezzo, in base agli accordi del preliminare, doveva qui avvenire in parte prima del rogito (il giorno precedente) ed in parte dopo
(nel mese successivo) ma, in ogni caso, né l’ulteriore rata di acconto né il saldo erano per contratto già esigibili
nel momento in cui i promissari acquirenti agirono ex
art. 2932 c.c.; sicché in tale momento questi ultimi non
potevano ritenersi inadempienti, poiché i convenuti
non avevano diritto di esigere la loro prestazione.
In tale situazione doveva dunque farsi integrale applicazione del disposto dell’art. 2932, comma 2, c.c. secondo
cui la parte che agisca in via costitutiva non è tenuta
ad eseguire la sua prestazione, né a farne offerta formale,
qualora tale prestazione “non sia ancora esigibile” al
momento della domanda.
Va del resto considerato che la ratio legis sottesa al secondo comma della norma in esame riposa sulla inesistenza dei presupposti di corrispettività per disporre il
trasferimento del bene in esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre, ogniqualvolta la parte che domandi tale
trasferimento risulti essa stessa inadempiente, per non
aver eseguito (ovvero offerto nei modi di legge) la propria prestazione già scaduta al momento della domanda.
Si tratta, all’evidenza, di una ratio legis che non ha modo di operare allorquando la parte chieda il trasferimento del bene ex art. 2932 c.c. in un momento in cui la
prestazione a suo carico non sia ancora scaduta (nella
specie: né per il saldo-prezzo, da corrispondersi addirit-
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tura dopo il definitivo, né per l’ulteriore rata di acconto).
In definitiva - in ipotesi di inesigibilità per mancata venuta a scadenza della prestazione della parte attrice al
momento dell’introduzione del giudizio ex art. 2932 c.c.
- deve ritenersi necessaria e sufficiente un’offerta di
adempimento anche non formale o per intimazione ai
sensi degli artt. 1208 e 1209 c.c.; purché espressa in
qualsiasi modo che escluda ragionevoli dubbi sulla concreta intenzione della parte di adempiere e, dunque, a
tal punto seria e concludente da far ritenere un’effettiva
e puntuale volontà di adempimento a fronte del trasferimento del bene, comunque a tale adempimento con-
dizionato (Cass. n. 10139 del 27 settembre 1991; Cass.
n. 3660 del 28 maggio 1988; Cass. n. 9176 del 11 luglio
2000). Ed in effetti integra i presupposti di concludenza
e serietà l’offerta della prestazione formulata in giudizio
dalla parte, personalmente o per mezzo del suo procuratore, prima della pronuncia ed in funzione di questa;
ovvero la manifestazione di volontà di corrispondere il
residuo prezzo di vendita, come rappresentata nell’atto
di citazione del promissario acquirente, sottoscritto dal
procuratore (Cass. n. 5151 del 3 aprile 2003; Cass. n.
26011 del 23 dicembre 2010).
(omissis).
Anticipatory breach e termini di pagamento della parte
non inadempiente, tra clausole generali
e interpretazione letterale del contratto
di Francesco Astone
La Corte di cassazione - con una apprezzabile sentenza che conferma una sensibilità sempre
più marcata - torna a valorizzare la buona fede come clausola generale dalla quale dedurre regole di contenuto specifico: nella specie, in presenza di un comportamento contrario a buona
fede, classificato come “inadempimento anticipato” (figura analoga all’anticipatory breach, nota
nei sistemi di common law), è stata ritenuta ammissibile l’instaurazione di un’azione di esecuzione forzata in forma specifica prima della scadenza del termine a carico della parte venditrice. È
un orientamento che merita di essere approvato e che potrà trovare utile applicazione in fattispecie analoghe.
Le questioni oggetto di giudizio e le diverse
tecniche utilizzate per risolverle
La pronuncia in esame merita di essere segnalata
all’attenzione del lettore per avere deciso - con attenzione sicuramente apprezzabile - due diverse
questioni di diritto in tema di inadempimento anticipato ad un contratto preliminare di compravendita immobiliare e termine di pagamento a carico
della parte non inadempiente. L’interesse che la
decisione presenta dipende tuttavia non solo dalle
soluzioni concretamente accolte, ma anche dalle
diverse tecniche utilizzate per giustificarle: la prima
massima sembrerebbe urtare contro le strettoie dello stretto diritto, che il richiamo alla clausola generale di buona fede - utilizzata in funzione di
‘controregola’ rispetto allo ius positum - consente di
superare felicemente; la seconda massima, invece,
si giustifica in ragione di un’interpretazione letterale del contratto, che tuttavia conduce ad una soluzione finale coerente con l’iniziale richiamo alla
buona fede. Clausole generali e interpretazione letterale vengono dunque a confronto in un caso la
1520
cui singolarità dimostra come, nella mani di un
giudice sapiente, si tratti solo di tecniche diverse,
utilizzabili all’occorrenza in modo convergente, in
funzione dell’esito della lite; e segnala altresì che
l’interpretazione letterale conduce normalmente ad
un risultato conforme alla buona fede (pur non potendosi in senso assoluto escludere che l’interpretazione letterale possa condurre a risultati incompatibili con la buona fede e che, per superare il conflitto, si renda necessario ricorrere alle clausole generali).
Inadempimento anticipato nel contratto
preliminare, decadenza dal termine e offerta
del prezzo della parte non inadempiente
All’origine della vicenda, si poneva un’azione
proposta ai sensi dell’art. 2932 c.c. dai promissari
acquirenti di un immobile in pendenza del termine
fissato per la stipula del contratto definitivo. L’instaurazione del giudizio, prima ancora della scadenza del termine, veniva giustificata in ragione del
comportamento dei promittenti venditori, i quali
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avevano operato, conferendo tra l’altro un incarico
di mediazione, per instaurare concrete trattative di
vendita con terzi.
Si trattava pertanto di stabilire - e questa era la
prima questione di diritto da affrontare - se il comportamento dei promittenti venditori dovesse considerarsi un inadempimento dell’obbligo di concludere il contratto, al punto da giustificare, prima ancora della scadenza del termine fissato per la stipula del contratto definitivo, l’immediata proposizione dell’azione di esecuzione forzata in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto (e quindi, con chiare finalità cautelari, la trascrizione della
domanda prevista dall’art. 2652, comma 1, n. 2,
c.c.) (1).
La risposta della Corte di legittimità è stata nel
senso che i promittenti venditori, obbligati alla
conclusione del contratto, non potessero operare
con la finalità di vendere a terzi l’immobile (fatto,
questo, capace di rendere prospetticamente impossibile l’adempimento dell’obbligazione) e che il loro comportamento si ponesse anzi in chiara violazione del dovere generale di buona fede, con conseguente loro inadempimento a prescindere dalla
scadenza del termine, sì da far ritenere giustificata
l’immediata proposizione dell’azione da parte dei
promissari acquirenti.
Ma questo primo chiarimento ancora non chiudeva il caso: nell’esercitare l’azione volta al trasferimento della proprietà, i promissari acquirenti tenuti al versamento del prezzo, per una parte, il
giorno prima della data fissata per la stipula del
contratto definitivo e, per altra parte, dopo il trasferimento della proprietà - avevano offerto non
formalmente la somma dovuta e dunque si trattava
di stabilire se, in relazione all’art. 2932, comma 2,
c.c. (che richiede il pagamento o l’offerta formale
del prezzo all’atto della proposizione del giudizio,
salvo il caso in cui la prestazione non sia esigibile) (2), la rata in scadenza il giorno prima del momento fissato per il trasferimento della proprietà
dovesse o meno ritenersi esigibile, con conseguente
necessità del pagamento ovvero dell’offerta formale
al momento della proposizione della domanda.
Come si diceva, la risposta è stata elaborata seguendo un ragionamento fondato sulla lettera del
contratto ed in particolare sulla precisa data fissata
per il pagamento: l’inadempimento anticipato aveva consentito al promissario acquirente di agire
prima di quella scadenza (nel mese di settembre),
ma ciò non valeva ad anticipare anche la rata in
scadenza il giorno prima (il 30 ottobre) della data
originariamente fissata per il trasferimento della
proprietà (il 31 ottobre). Dunque, l’offerta di pagamento, benché non formale, doveva ritenersi sufficiente e, conseguentemente, l’azione dei promissari
acquirenti meritevole di accoglimento anche se
non accompagnata dall’offerta reale del prezzo, appunto in quanto non ancora esigibile al dì della
notifica dell’atto introduttivo.
(1) È noto che il sistema della trascrizione delle domande
giudiziali previsto dall’art. 2652 c.c. consente di far retroagire
al momento della trascrizione della domanda l’effetto della
successiva trascrizione della sentenza di accoglimento della
domanda: si parla, a questo proposito, di effetto “prenotativo”
della trascrizione (v., ad es., 24 novembre 2014, n. 24960) ed è
chiaro che - come si legge nella Relazione al Re, n. 1077 - il sistema è volto a proteggere il promissario acquirente contro il
promittente venditore ed i terzi, che in buona fede o meno, potrebbero interferire con l’esecuzione del contratto preliminare.
Sotto questo profilo, sembra corretto qualificare come ‘sostanzialmente’ cautelare la funzione assolta dalla trascrizione delle
domande giudiziali, appunto in quanto diretta ad assicurare gli
effetti della futura sentenza di merito, rendendoli opponibili a
coloro i quali abbiano acquistato azioni o ragioni successivamente all’introduzione del giudizio. Il discorso risulta particolarmente evidente ove si consideri la fattispecie in esame, rispetto alla quale era evidente il pericolo di vendita a terzi dell’immobile.
(2) È noto che l’art. 2932, comma 2, c.c., con riguardo al
contratto preliminare, impone alla parte che propone la domanda di esecuzione in forma specifica - e che chieda pertanto il trasferimento della proprietà in suo favore - il pagamento
o l’offerta formale del prezzo e cioè un’offerta nelle forme previste dall’art. 1209 c.c., salvo solo il caso in cui la prestazione
non risulti esigibile. Posto che, nella comune prassi del commercio immobiliare, il pagamento del prezzo è dovuto in genere contestualmente al trasferimento della proprietà, la giuri-
sprudenza consente l’offerta anche non formale della prestazione, nelle forme d’uso (art. 1214 c.c.), ma condiziona sospensivamente l’effettivo trasferimento della proprietà al pagamento del prezzo. Nel caso di specie, tuttavia, il pagamento
del prezzo era stato previsto - non contestualmente, bensì - il
giorno prima della data fissata per il contratto definitivo e questo avrebbe reso necessaria un’offerta formale, così come ritenuto da Cass. 13 dicembre 2007, n. 26226, richiamata in motivazione e tuttavia, per le ragioni che poi meglio si vedranno, ritenuta non pertinente rispetto al caso di specie, nella cui massima si legge: “[i]n tema di contratto preliminare, ai fini dell’accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ex
art. 2932 c.c. è sufficiente la semplice offerta non formale di
esecuzione della prestazione in qualsiasi forma idonea a manifestare la relativa volontà soltanto se le parti abbiano previsto
il pagamento del prezzo, o del residuo prezzo, contestualmente alla stipula del contratto definitivo. Se, invece, il pagamento
del prezzo o di una parte di esso deve precedere la stipulazione del contratto definitivo, la parte è obbligata, alla scadenza
del previsto termine, anche se non coincidente con quella prevista per la stipulazione del contratto definitivo, al pagamento,
da eseguirsi nel domicilio del creditore o da offrirsi formalmente nei modi previsti dalla legge, non sussistendo in tale ipotesi
nessuna ragione che giustifichi la sufficienza dell’offerta informale; in caso contrario, colui che è tenuto al pagamento è da
considerarsi inadempiente e non può ottenere il trasferimento
del diritto, ove la controparte sollevi l’eccezione di cui all’art.
1460 c.c.”.
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Generalizzando la regola affermata a proposito
della prima delle due questioni, chi - obbligato ad
un determinato comportamento - operi in modo incompatibile con l’obbligazione già assunta, ponendo
le premesse per un futuro inadempimento o anche
per l’impossibilità della prestazione, deve ritenersi
immediatamente inadempiente ai doveri di buona
fede gravanti sulle parti del contratto e, di conseguenza, il creditore ha titolo per l’immediato esercizio di tutti gli strumenti di tutela a sua disposizione.
L’essenzialità del richiamo alla clausola generale
appare evidente (3): stando allo stretto diritto, non
sarebbe stato agevole argomentare l’immediata esigibilità della prestazione dovuta dal promittente venditore prima del termine fissato per la stipula del
contratto definitivo, non ricorrendo nessuna delle
situazioni espressamente considerate a questi fini
dall’art. 1186 c.c. (4), né i presupposti di operatività
di una dichiarazione di non voler adempiere riconducibile al modello dettato dall’art. 1219, comma 2,
n.2, c.c. in tema di mora del debitore (5).
Dunque, rimanendo alle precise indicazioni di
questi dati normativi ed al loro stretto ambito ap-
(3) Su questo aspetto - e in particolare sull’uso delle clausole
generali in funzione ‘correttiva’ del diritto scritto - si avrà modo
di tornare nel paragrafo che segue. Per il momento si può segnalare che la nostra giurisprudenza continua a mostrarsi prudente, anche se, in tempi relativamente recenti, possono ricordarsi alcune aperture particolarmente significative: intanto, è da
ricordare la recente Corte cost., Ord., 21 ottobre 2013, n. 248, in
Giur. cost., 2013, 3767 ed ivi, 3770, un commento di F. Astone,
in punto di possibile impiego della clausola generale di buona
fede in funzione correttiva dell’equilibrio economico pattuito tra
le parti (nel caso di specie, il ricorso alla clausola generale di
buona fede è stato considerato possibile in materia di riduzione
della caparra confirmatoria utilizzata in funzione sanzionatoria
dell’inadempimento); v. altresì Cass. 24 settembre 1999, n.
10511, in tema di riduzione della penale contrattuale, poi confermata da Cass., SS.UU., 13 settembre 2005, n. 18128, in Foro it.,
2006, I, 432; v. altresì, in tema di violazione dei doveri di correttezza e buona fede in ambito processuale, una serie di pronunce, tra cui la recentissima, praticamente coeva alla pronuncia
qui in esame, Cass., SS.UU., 15 maggio 2015, n. 9935, in tema
di concordato preventivo, inammissibile quando contrario a doveri di correttezza e buona fede in quanto volto unicamente a
procrastinare la dichiarazione di fallimento; Cass. 24 aprile
2015, n. 8381, e Cass. 24 aprile 2015, n. 8381, in tema di eccessiva durata del processo, buona fede e spese processuali; un’ulteriore serie di pronunce espressione del noto orientamento relativo al c.d. “frazionamento” della pretesa giudiziale avente ad
oggetto un unico credito, su cui da ultimo Cass. 9 marzo 2015,
n. 4702, e, in precedenza, Cass., SS.UU., 15 novembre 2007, n.
23726; e ancora una serie di importanti pronunce della giustizia
amministrativa, tra cui, da ultimo, Cons. Stato, Sez. III., 13 aprile
2015, n. 1855, in tema di violazione dei doveri di buona fede nel
corso del processo e divieto di venire contra factum proprium in
punto di giurisdizione; ancora sulla buona fede ed il divieto di
venire contra factum proprium, Cass. 16 marzo 1999, n. 2315, in
questa Rivista, 1999, 4, 429 ed ivi, 401 ss., un commento di P.
Schlesinger, nonché in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, 1 ss.,
ove i commenti di L. Balestra - S. Chiessi - G. Ferrando - S. Patti
- M. Sesta, in tema di inammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità da parte del marito della madre che aveva
in precedenza assentito alla fecondazione eterologa di lei; Cass.
18 settembre 2009, n. 20106, apparsa in molteplici periodici, su
cui i saggi raccolti in S. Pagliantini (cur.), Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Torino, 2010, in tema di abuso del diritto di
recesso dal contratto di concessione di vendita; Cass. 28 aprile
2009, n. 9924, in tema di verwirkung e rapporti di lavoro; Cass.
6 agosto 2008, n. 21250, in tema di abuso del diritto di recesso
nei rapporti finanziari, e, all’origine dell’orientamento, Cass. 21
maggio 1997, n. 4538, in Foro it., 1997, I, 2479 (su cui le sempre attuali osservazioni di F. Galgano, Abuso del diritto: l’arbitrario recesso ad nutum della banca, in Contr. e impr., 1998, 18 ss.,
ove il richiamo ad altri orientamenti significativi degli anni no-
vanta, tra cui quelli relativi all’exceptio doli in tema di contratto
autonomo di garanzia). Al tema delle clausole generali deve peraltro ricondursi anche il noto orientamento giurisprudenziale in
tema di abuso del diritto in ambito tributario (su cui, oltre a Corte di Giustizia 21 febbraio 2006, n. C/255-02, Alifax, si può ricordare Cass., SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30055, seguita poi da
numerose altre pronunce conformi), che ha formato oggetto di
un recente intervento legislativo in attuazione della c.d. “delega
fiscale”.
(4) Con riguardo alla decadenza dal termine, l’opinione più
tradizionale considera - essenzialmente a garanzia del debitore
- tassativo l’elenco delle cause, che dunque s’identificano unicamente in quelle espressamente considerate dalla legge (U.
Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Tratt. CicuMessineo, oggi diretto da P. Schlesinger, Milano, 1984, 136
ss.); in giurisprudenza, nel senso della tassatività dei presupposti della decadenza dal termine, v., ad es., Cass. 18 novembre 2011, n. 24330 e, in tempi ancora più recenti, nella giurisprudenza di merito, Trib. Napoli 11 ottobre 2013, n. 17580.
Tuttavia, altra opinione - e questa è appunto l’opinione che qui
si ritiene preferibile e che si prenderà in considerazione nel testo - considera che all’elenco delle cause di decadenza vada
aggiunta quantomeno la dichiarazione di non voler adempiere
resa prima del termine di scadenza dell’obbligazione (così, ad
esempio, C.M. Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano,
1990, 223 e, in giurisprudenza, Cass. 17 marzo 1982, n. 1721).
(5) L’art. 1219, comma 2, n. 2, c.c., riguarda, in linea di principio, dichiarazioni scritte intervenute dopo la scadenza del termine. Tuttavia, come si è segnalato alla nota che precede, un
orientamento dottrinale autorevole ritiene che la dichiarazione di
non voler adempiere, resa prima della scadenza del termine,
comporti l’immediata esigibilità della prestazione (e ciò in quanto la dichiarazione di non voler adempiere comporterebbe un
‘attuale’ inadempimento della prestazione principale ovvero in
quanto la dichiarazione di non voler adempiere comporterebbe
un inadempimento dei doveri accessori di correttezza e buona
fede): per una compiuta e recente disamina delle opinioni sul tema, A. Venturelli, Il rifiuto anticipato dell’adempimento, Milano,
2013, 7 ss. (peraltro critico rispetto alla possibile utilità di un richiamo alla decadenza del termine). Rispetto al caso di esame,
si deve peraltro sottolineare che, ai fini dell’operatività dell’art.
1219, comma 2, n. 2, c.c., la dottrina assolutamente prevalente
è nel senso di ritenere essenziale la forma scritta e quindi di
escludere la rilevanza dei comportamenti concludenti: v., ad es.,
C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm.
Scialoja-Branca, Roma-Bologna, 1979, 210; L. Cabella Pisu, Inadempimento e mora del debitore, in N. Lipari - P. Rescigno, Diritto civile, Il rapporto obbligatorio, III, I, 12, Milano, 2009, 682; da
ultimo ha scritto sul tema, confermando l’opinione della dottrina
tradizionale, G. Sicchiero, sub art. 1219, in V. Cuffaro (cur.), Delle
obbligazioni, artt. 1218-1276, nel Commentario del Codice Civile,
diretto da E. Gabrielli, Torino, 2013, 89 ss., spec. 91-92. È da se-
Inadempimento anticipato e doveri
di buona fede
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plicativo, la soluzione del caso sarebbe risultata difficile. E infatti, nessuna di queste due disposizioni
si trova richiamata nella motivazione, appunto in
quanto non sarebbero risultate di utilità.
La scelta è stata pertanto di fondare l’intero ragionamento sul richiamo al ‘principio’ di buona fede, senza necessità di riferimenti normativi specifici appunto in ragione del suo carattere generale, riferibile a qualsiasi rapporto di natura contrattuale (6). La centralità della buona fede in ambito
contrattuale è, in effetti, indiscutibile (7) e nel caso di specie, secondo l’operatività tipica delle clausole generali, ha rappresentato lo strumento utile a
costruire una nozione - quella di “inadempimento
anticipato” - e la regola ad essa relativa, destinata
a riferirsi a tutti i casi in cui nessuna precisa disposizione di legge sarebbe utile a giustificare l’immediato esercizio degli strumenti di tutela concessi
dall’ordinamento al creditore della prestazione, prima ancora della scadenza del termine pattuito in
favore della controparte.
La buona fede è stata dunque utilizzata per coniare una figura utile ad arricchire il catalogo delle
ipotesi di inadempimento del debitore già espressamente previste dalla legge e concretizzare ulteriori
ipotesi rilevanti. Si tratta di un utilizzo corretto: la
funzione storicamente più consolidata delle clausole generali è appunto quella di espandere il sistema, consentendone l’adattamento a casi non
espressamente considerati, rispetto ai quali anche
il ricorso all’analogia potrebbe comportare difficoltà (8). La giurisprudenza ha così la possibilità di
creare nuove regole, destinate ad affiancare quelle
del codice - con le quali pure spesso si trovano in
latente o dichiarato contrasto - e, nel tempo, ad essere in esso recepite (9).
gnalare - ma il tema non può qui essere approfondito - che la dichiarazione anche non scritta di non voler adempiere è presa in
considerazione l’art. 71 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di cose mobili (CISG), su cui si avrà modo di
tornare nella nt. 12 che segue.
(6) Come si dirà poi anche nel testo, avrebbe forse potuto
trovare specifica considerazione - a prescindere dalle molteplici disposizioni che fanno riferimento alla buona fede nei rapporti contrattuali (artt. 1175, 1337, 1366, 1375, 1358 c.c.) e ne
consentono l’agevole richiamo in qualsiasi situazione di carattere più specifico - l’art. 1358 c.c., in tema di pendenza della
condizione, che impone ad entrambi i contraenti di tenere un
comportamento utile a conservare integre le ragioni dell’altra
parte e che può verosimilmente ritenersi applicabile anche al
termine, per il quale manca una disposizione di contenuto corrispondente. Tuttavia, la dottrina che si occupa del termine e
della pendenza del termine tende a non trattare la questione
relativa all’applicabilità dell’art. 1358 c.c., ma ciò probabilmente in quanto la questione è assorbita dalla sicura applicabilità
dell’art. 1175 c.c., alle situazioni di pendenza del termine. Come osserva M. Costanza, La condizione e gli elementi accidentali, in E. Gabrielli (cur.), I contratti in generale, in Trattato dei
Contratti, a cura di P. Rescigno, Torino, 1999, 885, “[l]’irretroattività degli effetti del verificarsi del termine, sia esso finale che
iniziale, non esclude invece il profilarsi di situazioni di pendenza del tutto analoghe a quelle che si realizzano nell’ipotesi di
contratto sottoposto a condizione. Le attese e le aspettative di
un contraente che ha stipulato un contratto con termine iniziale di efficacia sono, anzi, più intense di quelle di colui che ha
negoziato sotto condizione sospensiva” e dunque l’esistenza
di doveri di buona fede di particolare intensità a carico delle
parti - in ragione sia dell’art. 1175 c.c., sia dell’art. 1358 c.c. deve considerarsi sicura.
(7) La buona fede è con frequenza - e così anche nella sentenza in esame - classificata come “principio generale” dei rapporti contrattuali, anche se è forse più proprio classificarla come
“clausola generale”, trattandosi di una formula contenuta in disposizioni normative caratterizzate dall’assenza di una fattispecie di riferimento e che pertanto lasciano al giudice un certo
grado di discrezionalità - maggiore o minore a seconda della formula concretamente prescelta e della sua capacità di rinviare a
valori socialmente definiti (si pensi, ad es., alla clausola del
“buon costume”, che lascia verosimilmente una discrezionalità
minore rispetto ad altre, quali la “correttezza”) - nel selezionare i
casi che alla formula possano effettivamente ricondursi e quelli
che invece vadano esclusi. Tuttavia, attesa la varietà di significati
attribuiti alla formula “principio generale” (su cui, tra gli altri, è
possibile ricordare il classico contributo di N. Bobbio, voce Principi generali di diritto, in Noviss. Dig. it., XIII, Torino 887 ss., spec.
893 ss.), l’aspetto prettamente terminologico è il meno significativo, anche se la contrapposizione tra norme generali (norme di
principio o principi generali) e le clausole generali, nasconde
molti aspetti problematici, su cui, v., ad es., L. Mengoni, I principi generali del diritto e la scienza giuridica, in AA.VV., I principi
generali del diritto (Atti dei convegni lincei), Roma, 1992, 319 ss.,
spec. 323 ss.; v. altresì, del medesimo A., Spunti per una teoria
delle clausole generali, in AA.VV., Il principio di buona fede (giornata di studio - Pisa 14 giugno 1985), Milano, 1987, 5 ss., spec.
9-10, e ancora, sul pensiero di lui, L. Nivarra, Clausole generali e
principi generali del diritto nel pensiero di Luigi Mengoni, in Europa e dir. priv., 2007, 411 ss.
(8) È impossibile fornire indicazioni sintetiche su questo tema
senza peccare di larghissima approssimazione. In questa sede
si può appena ricordare che - forse come riflesso alla tragica
esperienza consumata dalla giurisprudenza tedesca degli anni
trenta - la nostra dottrina guardava inizialmente con sospetto alle clausole generali e così pure la giurisprudenza, che tendeva a
non utilizzarle affatto (R. Nicolò, voce Codice civile, in Enc. dir.,
VII, Milano, 1960, 246; D. Corradini, Il criterio della buona fede e
la scienza del diritto privato, Milano, 1970, 317 ss.). Solo a partire
dagli anni sessanta e poi in modo deciso negli anni settanta, il
ricorso alle clausole generali ha conosciuto una progressiva
espansione, favorita dalla necessità di veicolare nel codice i principi della Costituzione repubblicana, favorendone la diretta e immediata applicazione anche nei rapporti tra privati: si possono
ricordare, come esemplari di questa fase, P. Rescigno, L’abuso
del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205 ss.; N. Lipari, Il diritto civile
tra sociologia e dogmatica (riflessioni sul metodo), in Riv. dir. civ.,
1968, I, 314; S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1967, I, 483 ss., e Id., Le fonti di integrazione del contratto, Milano 1969, 112 ss. e, retrospettivamente, L. Nivarra (cur.), Gli anni settanta del diritto privato, Milano, 2008, 1 ss., spec. 13 ss. Quella fase, mai del tutto interrotta,
ha conosciuto un nuovo capitolo con l’avvento del diritto privato
europeo - che peraltro, alle clausole generali, tende a fare largo
ricorso - e, di recente, momenti di centrale importanza anche in
altri settori del diritto, quale, da ultimo, il diritto tributario, a proposito dell’abuso del diritto (cui si è brevemente accennato, retro, nota 3).
(9) Anche su questo punto è difficile fornire un quadro
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Con riguardo alle situazioni di pendenza del termine e di comportamenti del creditore incompatibili con l’adempimento, riconoscere un ruolo attivo alla buona fede è del resto assolutamente giustificato. Ferma la possibilità di riferire al termine
l’indicazione dettata per la condizione (l’art. 1358
c.c.), l’intero sistema della decadenza dal termine essenziale a configurare l’inadempimento anticipato di lui - è fondato sulla buona fede: pretendere
dal creditore un’inutile attesa della scadenza è di
per sé contrario a buona fede ed a questa logica rispondono sia l’art. 1186 c.c., sia l’art. 1219, comma
2, n. 2, c.c. (10).
Dunque, deve considerarsi corretta la generalizzazione della regola secondo cui il debitore non
possa pretendere un’inutile attesa del termine e
questo sia nelle situazioni espressamente previste
a livello legislativo (mancanza dei mezzi per
adempiere per via di una sopravvenuta situazione
di insolvenza o comunque di una diminuzione
delle garanzie: art. 1186 c.c.; dichiarazione scritta
di non voler adempiere: art. 1219, comma 2, n. 2,
c.c.) sia in quelle non espressamente previste e
tuttavia caratterizzate da un comportamento incompatibile con l’adempimento (11). Tanto che
in alcuni sistemi di regole - quali la Convenzione
sintetico e conviene senz’altro rinviare alla letteratura in argomento, richiamata alla nota che precede. Con riguardo al
caso di specie, un almeno latente conflitto può vedersi sia
con l’art. 1186, che con l’art. 1219, comma 2, n. 2, c.c., posto che, come si è visto alle precedenti note 4 e 5, i presupposti applicativi della prima disposizione sono ritenuti tassativi (e dunque il valore della norma consiste anche nell’escludere che la decadenza dal termine possa verificarsi in
casi diversi da quelli espressamente previsti dalle legge),
mentre la seconda opera in relazione alle dichiarazioni di
non voler adempiere rese dopo la scadenza del termine (post
diem) e richiede comunque la forma scritta, sicché anch’essa tende ad escludere la rilevanza della dichiarazione di non
voler adempiere resa prima della scadenza del termine (ante
diem) attraverso comportamenti concludenti. Ma il ricorso
alla clausola generale supera il problema, affiancando alle
ipotesi considerate in via legislativa un caso ulteriore. Creazioni giurisprudenziali di questa natura si sono a volte talmente sedimentate al punto da essere recepite nei codici:
nella nostra esperienza, si consideri l’attuale disciplina dell’interpretazione del contratto, dove si trovano codificate
una serie di regole che la dottrina aveva - prima della redazione del codice - identificato come ‘concretizzazioni’ del dovere di interpretare il contratto in buona fede: si veda, per
un’idea più precisa del fenomeno, C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico (con particolare riguardo ai contratti), Padova, 1937, 189 ss. che ricollegava alla buona fede
interpretativa alcuni orientamenti della giurisprudenza italiana o straniera (ad esempio, quello, proprio della giurisprudenza italiana, secondo cui le clausole manoscritte prevalevano su quelle a stampa ovvero quello proprio principalmente dalla dottrina francese, ma recepito sul piano normativo
dall’art. 1282 c.c. del codice spagnolo, a norma del quale,
per “giudicare dell’intenzione dei contraenti, si dovrà attenersi principalmente ai loro atti contemporanei e posteriori
al contratto”). Questa funzione della buona fede, spesso trascurata, è opportunamente sottolineata da Sacco, L’interpretazione, in Sacco, De Nova, Il contratto, II, in Tratt. Sacco,
Torino, 2004, 407, che, muovendo da una posizione scettica
in merito alla possibilità di decifrare il significato dell’art.
1366 c.c., spiega che l’interpretazione di buona fede ha generato, prima del 1942, regole importanti (artt. 1362, comma 2, 1370), poi tradotte in regole legali specifiche e perciò
“autonome rispetto alla matrice che le ha prodotte. Con il
tempo, peraltro, potranno affacciarsi applicazioni nuove”.
Un dibattito relativo all’opportunità di recepire o meno una
serie di regole di origine giurisprudenziale, spesso coniate in
applicazione della clausola generale dettata dal § 242
B.G.B., si è svolto in Germania negli anni in cui si discuteva
della “modernizzazione” del codice civile tedesco, quando la
dottrina si divise tra voci favorevoli e contrarie (v., per riferimenti a quel dibattito, P. Rescigno, Relazione introduttiva alla
terza sessione, in AA.VV., I cento anni del codice tedesco, Pa-
dova, 2002, 255 ss., 266-267, dove peraltro l’A. mostra di
condividere l’opinione contraria al recepimento degli istituti
di creazione giurisprudenziale nel contesto del codice; per
un resoconto degli istituti di creazione giurisprudenziale recepiti dal codice tedesco in occasione della Modernisierung,
C.W. Canaris, Contenuti fondamentali e profili sistematici del
Gesetz zur Modernisierung des Schuldrechts, in Riv. dir. civ.,
Quaderni, n. 3, 7 ss., spec. 26).
(10) Con riguardo alla prima delle due norme, viene in
considerazione la scorrettezza del debitore che pretenda
un’inutile attesa di un adempimento che non potrà comunque verificarsi; nel secondo caso, viene in considerazione la
scorrettezza del debitore che dichiari per iscritto di non voler
adempiere e pretenda poi di non essere in mora, onerando
così il creditore dell’atto di costituzione, evidentemente del
tutto inutile. Più in generale, sembra potersi ritenere che la
dichiarazione espressa o tacita di non voler adempiere rappresenti, di per sé, un atto contrario ai doveri di correttezza
derivanti dal rapporto e - questo è forse l’aspetto più rilevante - giustifichi la decadenza del debitore dal termine o quantomeno precluda al debitore di eccepire in suo favore l’inesigibilità della prestazione anche in ragione della contraddittorietà del comportamento di chi, da un lato, dichiari di non
voler adempiere, dall’altro intenda tuttavia avvalersi del termine in suo favore (sul divieto di comportamenti contraddittori, sia consentito rinviare a F. Astone, Venire contra factum
proprium, Napoli, 2006, 80 ss.). Per un’analisi recente e molto accurata, dei problemi relativi alla dichiarazione anticipata
di non voler adempiere, v. ancora A. Venturelli, Il rifiuto anticipato dell’adempimento, cit., 7 ss. (l’A., incline a ritenere
che la dichiarazione ante diem di non voler adempiere comporti immediatamente la mora e quindi l’inadempimento del
debitore, ritiene tuttavia il richiamo all’art. 1186 c.c. ed alla
decadenza dal termine sia superfluo).
(11) Di norma, le situazioni di questo tipo sono finalizzate
a valutare l’opportunità di un inadempimento efficiente: l’inadempimento anticipato dipende normalmente da un ripensamento del venditore, che considera l’inadempimento
(e quindi la vendita del bene ad un terzo) più vantaggioso
dell’adempimento, il che accade quando il prezzo ottenuto
dal terzo consente un utile differenziale superiore al costo
del presumibile risarcimento: nella specie, probabilmente, i
promissari volevano quantomeno verificare, sollecitando di
nuovo il mercato, la concreta possibilità di un loro inadempimento efficiente. Nella dottrina nordamericana, si parla di
efficient breach, appunto per sottolineare l’efficienza economica che l’inadempimento può assicurare: v., oltre al classico contributo di R.A. Posner, Economic Analisys of Law, Boston Toronto Londra, 1992, 117, per una trattazione istituzionale e le indicazioni bibliografiche di base, R. Cooter e altri,
Il mercato delle regole (analisi economica del diritto civile),
Bologna, 1999, 335 ss.).
1524
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Giurisprudenza
Diritto civile
di Vienna sulla vendita internazionale di beni
mobili (artt. 71 e 72), la Dir. 99/44/CE (e quindi
gli artt. 128 ss. c. cons.), i Principi Unidroit (art.
7.3.3) i Principi di Diritto Europeo dei Contratti (12) - l’Anticipatory Breach si trova, sia pure
con qualche variante non del tutto marginale,
espressamente codificato e il dato conferma l’attitudine delle clausole generali a produrre regole
che, sebbene possano apparire inizialmente eversive del sistema, sono destinate ad essere riassorbite, armonizzate e poi anche formalmente recepite, diventando così diritto positivo.
Dunque, l’inadempimento anticipato - e cioè,
meno ellitticamente, la possibilità di contestare l’inadempimento prima ancora della scadenza del
termine fissato per l’esecuzione della prestazione,
ogni qual volta l’attesa del termine sia inutile, a
prescindere da una decadenza dal termine espressamente prevista dalla legge o comunque da una formale dichiarazione di non voler adempiere - rappresenta una costruzione coerente con molteplici
dati del sistema e la stessa giurisprudenza di legittimità aveva già fatto ricorso ad essa in un recente
precedente, ugualmente fondato sui doveri di buona fede, violati ogni qual volta comportamenti posti in essere nella pendenza del termine valessero a
pregiudicare la stessa possibilità del futuro adempimento (13).
Quest’ultima decisione merita di essere ricordata
anche in quanto, nella motivazione, richiama l’anticipatory breach (14) come figura corrispondente all’inadempimento anticipato, nota anche negli ordinamenti di common law: l’universalità della costruzione vale, da un lato, a ribadire la sua conformità
(12) Conviene ricordare anzitutto gli artt. 71 e 72 della Convenzione di Vienna, che hanno rappresentato il modello cui varie altre regole sono state ispirate. In particolare, l’art. 71 dispone che: “1. Una parte può sospendere l’adempimento delle
sue obbligazioni se, dopo la conclusione del contratto, risulta
manifesto che l’altro contraente non adempirà una parte essenziale delle sue obbligazioni in conseguenza di: (a) una grave insufficienza nella sua capacità di adempiere o nella sua
solvibilità; o (b) del modo in cui si prepara a dare esecuzione o
esegue il contratto. 2. Se il venditore ha già spedito i beni prima che si manifestino le condizioni previste nel paragrafo precedente, egli può opporsi alla consegna dei beni al compratore, anche se questi è in possesso di un documento che lo legittima a riceverli. Il presente paragrafo riguarda solo i diritti
sui beni nei rapporti tra il venditore e il compratore. 3. La parte
che sospende l’esecuzione, sia prima che dopo la spedizione
dei beni, deve immediatamente dare notizia della sospensione
all’altra parte e deve procedere nell’adempimento se l’altra
parte presta idonea garanzia dell’adempimento delle sue obbligazioni”; l’art. 72 dispone che: “[s]e prima della data di esecuzione del contratto è certo che una delle parti commetterà un
inadempimento essenziale, l’altra parte può dichiarare il contratto risolto. 2. Se vi è tempo sufficiente, la parte che intende
dichiarare il contratto risolto deve darne notizia all’altra parte
in modo tale da permetterle di provvedere ad un’idonea garanzia dell’adempimento delle sue obbligazioni. 3. Le disposizioni
del paragrafo precedente non si applicano se l’altra parte ha
dichiarato che non adempirà le sue obbligazioni”. Come si diceva nel testo, le altre fonti prima ricordate - alla cui precisa
formulazione si rinvia - recepiscono, sia pure introducendo varianti più o meno significative, l’impostazione di cui si è appena dato conto. Peraltro, come subito si vedrà, l’anticipatory
breach è un rimedio noto nei sistemi di common law, dai quali
la stessa Convenzione di Vienna ha tratto spunto. Si noti infine
che, sia nei sistemi di Common Law, sia nelle due disposizioni
in esame, l’anticipatory breach è visto essenzialmente nell’ottica della risoluzione del contratto ed è da questo punto di vista
che viene normalmente trattato dalla nostra dottrina: v., al riguardo, i contributi richiamati nella nota 13.
(13) Il riferimento a Cass. 21 dicembre 2012, n. 23823, che
pure, a proposito di una fattispecie relativamente simile (realizzazione di un appartamento da costruire in modo incompatibile rispetto al progetto), si era pronunciata su un inadempimento ‘anticipato’ rispetto al termine contrattualmente pattuito,
sempre richiamando la violazione dei doveri di buona fede e
l’inadempimento che immediatamente essa consuma. In Italia,
un contributo notevole sull’anticipatory breach si deve a G.
Conte, L’uniformazione della disciplina giuridica della risoluzione
per inadempimento e, in particolare, dell’anticipatory breach dei
contratti, in Eur. dir. priv., 1998, 663 ss.; sono poi sopravvenuti
vari altri studi, tra cui si devono ricordare quantomeno V. Putortì, Inadempimento e risoluzione anticipata del contratto, Milano, 2008, ove, con particolare riguardo all’anticipatory breach,
97 ss., e A. Venturelli, Il rifiuto anticipato dell’adempimento, cit.,
57 ss. Si noti tuttavia sin da adesso che - a differenza del caso
di specie - sia la pronuncia di legittimità appena richiamata,
sia i contributi della nostra dottrina, si riferiscono a casi in cui,
in seguito all’inadempimento anticipato era stata esercitata l’azione di risoluzione e non, come nel caso di specie, un’azione
di adempimento: questa differenza, come si proverà a sottolineare anche nel testo, ha particolare rilevanza, perché l’anticipatory breach ha implicazioni diverse a seconda che si associ
ad un’azione di risoluzione ovvero ad un’azione di adempimento.
(14) Si legge, nella motivazione, che “[v]a qui osservato
che l’inadempimento contrattuale, può essere attuale oppure,
per così dire, anticipato - come dicono gli inglesi anticipatory
breach cioè attuato prima della scadenza temporale prevista
per l’adempimento. L’inadempimento anticipato dipende dalla
violazione dell’obbligo di buona fede e di lealtà nell’esecuzione
del contratto ed è attuato da comportamenti del debitore che
rendono antieconomica o impossibile la prosecuzione del rapporto. Ora, nel caso in esame, la Corte genovese ha accertato
con giudizio di merito, che essendo privo di vizi logici è, insindacabile in cassazione, che il V. aveva mantenuto comportamenti incompatibili con l’obbligazione assunta con la promessa di vendita, cioè, di fare acquistare alla M. un’unità abitativa
autonoma, quantomeno perché i comportamenti mantenuti
dallo stesso (in particolare, l’apertura di una porta di comunicazione con l’unità abitativa adiacente) non consentivano di
identificare l’unità immobiliare promessa in vendita nella sua
specifica oggettività”. Il richiamo all’anticipatory breach - e, in
genere, ad istituti di diritto straniero, utili a denotare la generalità o l’utilità di un principio - è sicuramente da apprezzare: nella nostra giurisprudenza, è, ad es., esemplare Cass. 16 ottobre
2007, n. 21748, che esamina con attenzione le soluzioni offerte dalla giurisprudenza straniera in punto di fine-vita e accanimento terapeutico; in dottrina, trattano tra gli altri il tema, A.
Somma, L’uso giurisprudenziale della comparazione nel diritto
interno e comunitario, Milano, 2001, ed i saggi raccolti in
AA.VV., L’uso giurisprudenziale della giurisprudenza straniera,
Milano, 2004; B. Markesinis - J. Fedtke, Giudici e diritto straniero. La pratica del diritto comparato, traduzione di A. Taruffo, Bologna, 2009, 27 ss.
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Diritto civile
Un’ulteriore motivo di interesse della pronuncia
è dato, come si diceva, dalla seconda questione relativa alla necessità di un’offerta reale o meno - e
dall’averla affrontata e risolta con metodo diverso
rispetto alla prima. Mentre nella costruzione dell’inadempimento anticipato la buona fede è risultata
fondamentale, nella decisione in punto di esigibilità della rata del prezzo in scadenza il giorno precedente rispetto alla stipula, la soluzione è stata nel
senso di ritenere decisivo l’elemento letterale e
cioè la precisa data indicata nel testo contrattuale:
posto che, al momento dell’introduzione dell’azione (nel mese di settembre), il termine fissato per il
pagamento della rata (il 30 ottobre, mentre per il
successivo 31 ottobre era fissata la stipula del contratto definitivo) non era scaduto, la conclusione è
stata nel senso che, in quel momento, il pagamen-
to non fosse ancora esigibile e dunque, a norma
dell’art. 2932, comma 2, c.c. un’offerta seria, benché non formale, fosse sufficiente.
La soluzione - fondata, si diceva, sulla precisa
data indicata nel testo, attribuendo ad essa significato a prescindere dal fatto che si trattasse del giorno prima di quello fissato per il trasferimento della
proprietà - è sicuramente conforme alla regola di
base dell’interpretazione del contratto, dettata dall’art. 1362, comma 1, c.c. ed al constante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, che considera il senso letterale delle parole come elemento
prioritario di ricerca della comune intenzione delle
parti, la concreta soluzione raggiunta dalla pronuncia in esame deve ritenersi corretta (17).
Il dato letterale ha del resto consentito di distinguere il caso in esame (caratterizzato da un termine
di pagamento non scaduto al momento della proposizione dell’azione) rispetto ad un diverso precedente di legittimità, opportunamente considerato,
ma ritenuto non pertinente proprio in quanto, sebbene anche in quel caso il termine di pagamento
del prezzo fosse stato fissato in un momento precedente rispetto al trasferimento della proprietà, non
era stato contestato un anticipatory breach e l’azione
era stata esercitata solo dopo l’inutile scadenza del
termine fissato per la stipula del contratto definitivo e cioè in un momento in cui anche il termine
di pagamento era scaduto.
Di conseguenza, in quel caso, ai sensi dell’art.
2932, comma 2, c.c., il pagamento o almeno l’offerta formale di esso doveva ritenersi senz’altro necessaria (18). Al contrario, il dato peculiare della
vicenda ora in esame era rappresentato proprio dal-
(15) Il leading case britannico in punto di anticipatory breach
è Hochster v De La Tour (1853), 2 El & BI, 678, spec. 689-690;
M. Mustill, The Golden Victory: Some Reflections (2008), 124,
Law Quarterly Review 503, e, più in generale, del medesimo
Autore, Anticipatory breach, Butterwoth Lectures 1989-1990
(1990); v. altresì, anche per la connessione con il tema della
buona fede, v. J. Beatson - D. Friedmann, Good Faith and fault
in Contract Law, Oxford, 497 ss. Sull’anticipatory breach, nel diritto nordamericano, J.D. Calamari e J.M. Perillo, Contracts, III
ed., St. Paul, Minn., 1987, 521 ss., che a fondamento dell’istituto, richiamano, al pari della pronuncia qui in esame, i doveri
di cooperazione, osservando che “it could be argued that a repudiation may constitute a breach of a duty of cooperation
even before any performance in due”. Ancora con riguardo al
diritto nordamericano, rispetto al caso di specie, è peraltro interessante ricordare che il primo Restatement of Contracts, §
318, qualificava in termini di “anticipatory repudiation” sia la
dichiarazione di non voler adempiere, sia il comportamento
consistente nel “transferring or contracting to transfer to a
third person an interest in specific land, goods or in any other
thing essential for the substantial performance of his contractual duties”, che è appunto il caso di specie. Similmente, oggi,
nel secondo Restatement, dispone il § 250.
(16) In questo senso, v. ancora J.D. Calamari - J.M. Perillo,
Contracts, III ed., St. Paul, Minn., 1987, 521 ss., dove si insiste,
tra l’altro, sulla razionalità economica della figura.
(17) Il tema dell’interpretazione del contratto è stato di recente trattato da A. Gentili, Senso e consenso (Storia, teoria e
tecnica dell’interpretazione dei contratti), I e II, Torino, 2015, al
quale si rinvia anche per la - sconfinata - bibliografia in argomento ed i necessari riferimenti di giurisprudenza.
(18) Il riferimento è a Cass. 13 dicembre 2007, n. 26226, in
Contratti, 2008, 665, con nota di A. Barba, che afferma il seguente principio di diritto: “[i] n tema di contratto preliminare,
ai fini dell’accoglimento della domanda di esecuzione in forma
specifica ex art. 2932 c.c. è sufficiente la semplice offerta non
formale di esecuzione della prestazione in qualsiasi forma idonea a manifestare la relativa volontà soltanto se le parti abbiano previsto il pagamento del prezzo, o del residuo prezzo, contestualmente alla stipula del contratto definitivo. Se, invece, il
pagamento del prezzo o di una parte di esso deve precedere la
stipulazione del contratto definitivo, la parte è obbligata, alla
scadenza del previsto termine, anche se non coincidente con
quella prevista per la stipulazione del contratto definitivo, al
pagamento, da eseguirsi nel domicilio del creditore o da offrirsi formalmente nei modi previsti dalla legge, non sussistendo
a criteri di comune buon senso, dall’altro, a sdrammatizzare la differenza dei sistemi latini rispetto ad
altri che hanno minore familiarità con la buona fede, ma che conoscono rimedi - i c.d. “equivalenti
funzionali” - comunque idonei a giustificare il raggiungimento delle medesime soluzioni (15). Dalla
cultura anglosassone viene peraltro opportunamente valorizzata la razionalità economica dell’istituto,
che normalmente consente al creditore di limitare
i danni e quindi rifluisce in favore dello stesso debitore, che quel danno sarebbe costretto a risarcire (16), a conferma della pluralità di ragioni che
giustificano il ricorso alla figura.
Termine del pagamento, interpretazione
letterale del contratto e interpretazione
di buona fede
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Giurisprudenza
Diritto civile
l’esercizio “anticipato” dell’azione volta all’esecuzione forzata in forma specifica del contratto preliminare, tale per cui anche il termine di pagamento
della prima rata, benché fissato ad una scadenza
anteriore rispetto al trasferimento della proprietà,
non era scaduto e la soluzione più rigorosa non poteva accogliersi, appunto in quanto, ai sensi dell’art. 2932, comma 2, c.c. il pagamento non poteva
ritenersi esigibile.
Le implicazioni della soluzione accolta sono evidenti: l’inadempimento ‘anticipato’ ha operato nel
senso di rendere immediatamente esigibile la prestazione a carico della parte inadempiente e questo
spiega perché, alla parte non inadempiente, sia stato possibile promuovere, prima della scadenza, l’azione di esecuzione forzata in forma specifica, trascrivendo la relativa domanda. Tuttavia - e questo
è l’aspetto che ora interessa sottolineare - l’immediata esigibilità di una delle due prestazioni sinallagmatiche (quella a carico della parte inadempiente) non è valsa a rendere immediatamente esigibile anche l’altra (quella a carico della parte
adempiente) ed è per questo che un’offerta seria,
ma non formale, è stata ritenuta sufficiente a giustificare l’accoglimento della domanda in relazione
all’art. 2932, comma 2, c.c. In altri termini, l’inadempimento anticipato ha comportato l’immediata
esigibilità della sola prestazione a carico della parte
inadempiente, fermo il termine originario di adempimento per l’altra. Si è prodotta così, inevitabilmente, un’alterazione dell’originario sinallagma a
danno della parte inadempiente, in favore di quella
adempiente: mentre quest’ultima avrebbe dovuto
versare una rata del prezzo prima del trasferimento
della proprietà, l’inadempimento anticipato ha
consentito di esercitare l’azione di esecuzione forzata in forma specifica prima del termine e quindi
senza che l’obbligazione di pagamento fosse esigibile.
Rispetto alle norme prima richiamate, il fenomeno più simile è quello disciplinato dall’art. 1186
c.c.: la norma consente al creditore di beneficiare
di una modifica migliorativa rispetto alla disciplina
originaria del rapporto, finalizzata a riequilibrare la
situazione di oggettivo svantaggio nel quale l’insolvenza del debitore o la diminuzione delle garanzie
lo ha posto. Quest’ultima disposizione, tuttavia, è
tratta dalla disciplina dell’obbligazione in generale
e dunque prescinde dalla natura eventualmente sinallagmatica del rapporto, ma è chiaro che - nel
contesto di un rapporto a prestazioni corrispettive
ed in presenza di un’azione di adempimento (19) qualsiasi meccanismo di decadenza dal termine a
carico di una sola parte comporta l’alterazione dell’originario sinallagma in punto di esigibilità delle
rispettive prestazioni di cui si diceva.
Dell’intero discorso relativo all’inadempimento
anticipato e all’operatività che esso può trovare in
relazione all’azione disciplinata dall’art. 2932 c.c.,
questo è forse l’aspetto più critico: il sistema della
tutela del creditore tende ad evitare che l’inadempimento comporti conseguenze negative a suo carico, prevenendo il danno o ripristinando, in forma
specifica o per equivalente, la situazione originaria;
mentre la decadenza dal termine di una sola parte,
nel contesto di un rapporto sinallagmatico, sembra
andare oltre, assicurando al creditore un vantaggio
differenziale, rappresentato appunto dalla possibilità di esonerarsi dalla necessità di un’offerta reale
per la quota del prezzo che avrebbe dovuto essere
versata prima del trasferimento della proprietà (20).
Tuttavia, se è vero che, in ipotesi di azione di
adempimento esercitata prima della scadenza, l’inadempimento anticipato può operare comportando uno squilibrio dell’originario sinallagma in punto di esigibilità delle rispettive prestazioni, non è
vero che l’inadempimento anticipato debba necessariamente operare determinando questo effetto:
in tale ipotesi nessuna ragione che giustifichi la sufficienza dell’offerta informale; in caso contrario, colui che è tenuto al pagamento è da considerarsi inadempiente e non può ottenere il
trasferimento del diritto, ove la controparte sollevi l’eccezione
di cui all’art. 1460 c.c.”.
(19) Il problema, invece, non si avverte nell’ipotesi in cui all’inadempimento anticipato consegua l’azione di risoluzione:
l’immediato esercizio dell’azione di risoluzione consente senz’altro alla parte attrice di non adempiere la propria prestazione e di attivare tutti i rimedi utili alle restituzioni ed al risarcimento del danno; ma non implica un’alterazione dei rispettivi
termini di adempimento delle prestazioni originariamente fissati a carico delle due parti. È questa l’ottica in cui l’inadempimento anticipato è stato esaminato dalla nostra dottrina: v., ad
esempio, V. Putortì, Inadempimento e risoluzione anticipata del
contratto, cit., 16 ss., 241 ss. Si noti che anche Cass. 21 dicembre 2012, n. 23823, e cioè il precedente che si era occupato di un caso di anticipatory breach, si era trovato alla prese
con un’azione di risoluzione e non con un’azione di adempimento.
(20) Sembra in effetti discutibile - e probabilmente inopportuno - che l’inadempimento possa arrecare, al creditore, un
vantaggio: se è vero che quest’ultimo non deve in nessun caso
risultare danneggiato, riconoscergli un qualche vantaggio può
incoraggiarlo ad abbandonare l’originario programma contrattuale ed agire in modo eventualmente strumentale. È questo,
probabilmente, uno dei motivi per cui la dottrina e la giurisprudenza italiana sono tradizionalmente caute sull’anticipatory
breach.
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almeno in astratto, il giudice ha la possibilità di ricorrere all’inadempimento anticipato e tuttavia rimediare al vantaggio differenziale acquisito dalla
parte non inadempiente; altro è se, in concreto,
nel caso ora in esame, fosse o meno necessario farlo nel contesto di un decisione improntata alla
buona fede. Come subito si vedrà, ferma l’astratta
possibilità di rimediare al vantaggio differenziale,
la Corte di legittimità ha preferito non farlo, ritenendo che il caso di specie giustificasse la concreta
soluzione accolta.
Quanto al primo aspetto, una soluzione utile a
correggere il vantaggio differenziale acquisito dalla
parte non inadempiente, avrebbe potuto essere raggiunta ricorrendo nuovamente alla buona fede e
interpretando il contratto ai sensi dell’art. 1366
c.c., in modo da valorizzare la previsione contrattuale che disponeva il pagamento prima del trasferimento della proprietà (e che pertanto avrebbe
comportato la necessità del pagamento o dell’offerta reale prima della notifica dell’atto introduttivo e
della sua relativa trascrizione). In altre parole, il
termine del 30 ottobre avrebbe potuto essere inteso
non come rilevante in sé e per sé, alla stregua di
un termine ‘fisso’, bensì alla stregua di un termine
‘mobile’, come momento immediatamente precedente alla data stabilita per il trasferimento della
proprietà, indicata nel successivo 31 ottobre (21).
Il ricorso all’art. 1366 c.c. poteva consentire un
risultato di questo tipo appunto in quanto, tra le
sue funzioni, è la correzione degli squilibri tra i diritti e gli obblighi delle parti, che nel caso di specie
attenevano al momento di esigibilità di prestazioni
sinallagmatiche: l’esigibilità era stata programmata
in momenti diversi, di modo che l’esecuzione di
una delle due prestazioni fosse anticipata rispetto
all’altra e questo rapporto tra i due diversi momenti di esigibilità poteva comunque essere salvaguardato, qualificando come esigibile una prestazione
che, in base alla lettera del contratto, non lo era
ancora, ma poteva essere considerata tale in ragione dell’originaria pattuizione secondo cui quel pagamento andava eseguito prima del trasferimento
della proprietà (e dunque, in relazione all’art.
2932, comma 2, c.c., prima del momento in cui l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c. venisse instaurata e
la relativa domanda trascritta).
Per meglio convincersi della concreta possibilità
di intervenire su questo aspetto, conviene tornare
all’operazione compiuta dalla Corte nella prima
parte della decisione, laddove, in assenza di una
norma positiva adeguata al caso, si è dato spazio alla buona fede, ritenendo che il richiamo ad essa
consentisse di aggiungere un’ipotesi di decadenza
dal termine all’art. 1186 c.c. ovvero di prescindere
dai presupposti applicativi dell’art. 1219, comma 2,
n. 2, c.c. Su questa premessa - sulla premessa, cioè,
che il richiamo alla clausola generale valga a integrare o in una certa misura a correggere il dato legislativo positivo (ritenendo, ad esempio, sufficiente il comportamento materiale laddove sia invece
richiesta una dichiarazione scritta) - è tuttavia difficile ritenere che un’uguale possibilità non sussista
anche rispetto alle singole clausole di un contratto:
a parte la possibilità di un generalissimo richiamo
all’art. 1175 c.c., vale, e l’interprete è chiamato a
considerare, il richiamo alla buona fede operato
dall’art. 1366 c.c.
Quest’ultima disposizione continua tuttavia a rimanere sostanzialmente disapplicata anche in una
fase in cui la giurisprudenza di legittimità tende ad
un più frequente ricorso alle clausole generali (22),
(21) La contrapposizione tra rinvio “fisso” e “mobile”, è nota segnatamente nel caso in cui le parti richiamino il disposto
di una norma di legge, poi abrogata e sostituita da una norma
diversa: si tratta in quel caso di stabilire se le parti abbiano inteso far riferimento al primo testo, nel suo preciso contenuto
(rinvio “fisso”) ovvero al contenuto della legge e quindi ad un
contenuto capace di variare al variare della legge (rinvio “mobile”). Nella nostra giurisprudenza, su questa contrapposizione, v., ad es., Cass. 8 febbraio 2012, n. 1762; Cass. 4 febbraio
2004, n. 2111. La medesima contrapposizione è invece meno
nota quando le parti, come è accaduto nel caso di specie, richiamino una data o un termine e si tratti di comprendere se
la precisa fissazione della data o del termine abbia un valore in
quanto tale ovvero si giustifichi in ragione della complessiva
pianificazione dell’affare e quindi possa eventualmente variare
al variare di altre circostanze: per un caso di questa natura, v.
Cass. 7 agosto 2003, n. 11921 (in un caso relativo ad un contratto di lavoro a termine, in cui il termine del rapporto era stato indicato per relationem, secondo un criterio ‘mobile’); tra gli
altri casi di giurisprudenza in cui l’interpretazione del contratto
si incentra sul termine di esecuzione di determinate prestazio-
ni, si veda Cass. 7 agosto 2006, n. 11921, con riguardo all’interpretazione di una convenzione urbanistica ed al termine di
esecuzione delle opere di urbanizzazione (da intendere non in
modo letterale, ma in relazione al complessivo sviluppo del
programma edilizio); Cass. 4 novembre 2005, n. 21396, con riguardo al termine di efficacia della fideiussione (da intendere
non in modo letterale, ma in relazione alle vicende delle obbligazioni garantite); Cass. 9 giugno 2004, n. 10968, con riguardo ad un contratto di assicurazione (nella specie, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito avesse fatto corretta applicazione dei criteri di ermeneutica in un contratto di assicurazione
relativo a merce da spedirsi, interpretando la clausola da “magazzino a magazzino”, indicata nei capitolari inglesi come transit clause, nel senso che le parti con essa avessero voluto ampliare il periodo assicurativo, facendone decorrere l’inizio dal
momento in cui la merce veniva prelevata dal deposito e stabilendone il termine finale nel momento del deposito nel luogo
di arrivo).
(22) Sulla scarsa considerazione dell’art. 1366 c.c. da parte
della nostra giurisprudenza, v., di recente, A. Gentili, Senso e
consenso, cit., II, 441, secondo cui la buona fede “resta nell’u-
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quasi che l’integrazione o la correzione del dato legislativo comporti minore difficoltà o imbarazzo rispetto all’integrazione o alla correzione del testo
del contratto (23). Tuttavia, nel caso della pronuncia in esame, che ha fatto un’applicazione della
buona fede sicuramente felice nella soluzione della
prima questione oggetto del giudizio, non devono
essere stati questi pregiudizi a comportare la preferenza per l’interpretazione letterale. Devono invece
essere risultate decisive le peculiarità del caso di
specie, in cui - attesa l’infungibilità del bene oggetto del contratto - l’immediato esperimento dell’azione era indispensabile ad assicurare l’utile esercizio di essa e tuttavia dalla parte adempiente non
poteva pretendersi l’immediata disponibilità di un
importo di denaro il cui esborso era stato programmato in un momento temporale diverso.
La soluzione finale ha dunque il pregio di sottolineare che l’interpretazione maggiormente legata
alla lettera del contratto può risultare maggiormente conforme alla buona fede rispetto a quella orientata invece a correggerne il dato letterale. E ciò
conferma che - nel contesto di un rapporto sinallagmatico - il ricorso alla figura dell’inadempimento anticipato può implicare anche uno squilibrio
dell’originario sinallagma in punto di esigibilità
delle rispettive prestazioni, quando le circostanze
del caso, e le concrete dinamiche dell’operazione
economica programmata dalle parti, giustifichino
una soluzione di questa natura. Nel caso di specie,
l’inadempimento anticipato doveva necessariamente comportare, secondo buona fede, l’anticipo del
solo termine a carico del venditore, non potendosi
pretendere in anticipo una prestazione non preventivamente programmata. Non è escluso, tuttavia,
so giurisprudenziale fino ad epoca recente un criterio trascurato e comunque sussidiario. La giurisprudenza dei primi decenni dalla promulgazione ne usava poca e con cautela spinta al
sospetto” e lo stesso A. sottolinea che ancora oggi le sentenze
che risolvono un caso direttamente attraverso l’applicazione
dell’art. 1366 c.c. sono effettivamente pochissime. È vero, peraltro, che il criterio dell’interpretazione secondo buona fede
ha trovato scarsa fortuna anche in Germania, dove pure la giurisprudenza ha costruito un mirabile sistema di regole intorno
alla clausola generale di buona fede dettata dal § 242 B.G.B.,
che rappresenta una norma sostanzialmente corrispondente al
nostro art. 1375 c.c., in punto di esecuzione del contratto secondo buona fede, ma ha trascurato il § 157 B.G.B., che dell’art. 1366 c.c. rappresenta il modello, trattandosi della prima
disposizione che estende l’operatività della buona fede dal momento dell’esecuzione (in questo senso l’art. 1134, comma 2
del codice napoleonico e, poi, l’art. 1124 del codice italiano
del 1865) a quello dell’interpretazione. Come si diceva, anche
in Germania i casi risolti attraverso l’interpretazione del contratto secondo buona fede sono relativamente scarsi (v., su
questo aspetto, F. Astone, sub art. 1366, in Commentario del
Codice Civile, diretto da E. Gabrielli, Dei contratti in generale, a
cura di E. Navarretta - A. Orestano, artt. 1350-1386, **, Torino,
2011, 521, nt. 49) e, sulle ragioni per cui la giurisprudenza non
sarebbe riuscita a ricavare dall’art. 1366 c.c. sviluppi particolarmente interessanti, R. Sacco, L’interpretazione, in R. Sacco G. De Nova, Il contratto, in R. Sacco (dir.), Tratt. dir. civ., 408
(dove si spiega che il legislatore avrebbe già recepito in norme
di legge, quali l’art. 1362, comma 2, e l’art. 1370 c.c., le applicazioni generate dalla buona fede a livello interpretativo e non
ne avrebbe ancora individuate altre).
(23) Probabilmente, l’interpretazione del contratto è ancora
dominata da un’esigenza di rispetto della privata volontà che
spesso tende a ridursi al pedissequo rispetto della lettera o del
numero, sul presupposto della sacralità del testo contrattuale,
mentre è possibile che proprio il rispetto della volontà richieda
la correzione della lettera o del numero. Sia ancora consentito
rinviare a F. Astone, sub art. 1366, in Commentario, cit., 502
ss., dove si osserva che, sotto questo profilo, l’assoluta priorità
riconosciuta all’interpretazione letterale e la pratica irrilevanza
della buona fede trovano una giustificazione unitaria nell’idea
secondo cui, laddove la volontà delle parti sia comunque ricostruibile dalle parole utilizzate, il ricorso a qualsiasi diverso criterio finirebbe per sovrapporre l’opinione del giudice a quanto
liberamente stabilito dalle parti: è per questo che le parole - in
quanto espressione della volontà delle parti - sono di norma ri-
tenute “chiare”, anche quando è “chiaro” (sia consentito il gioco di parole) che non lo sono, mentre la buona fede - in quanto veicolo dell’intervento giudiziale - trova limitatissima applicazione. Come efficacemente scrive V. Calderai, La teoria classica dell’interpretazione dei contratti. Origini, fortuna e crisi di un
paradigma dogmatico, in Diritto privato, 2001-2002, 343 ss.,
spec. 352, la chiarezza del testo contrattuale è una nozione vaga, affidata al prudente apprezzamento del giudice: “la giurisprudenza approfitta di questa libertà e nove volte su dieci giudica l’esame della dichiarazione elemento necessario e sufficiente a far presumere la comune intenzione”. In giurisprudenza, la giustificazione della priorità del criterio dell’interpretazione letterale in ragione del pericolo di una possibile sovrapposizione della volontà dell’interprete alla volontà delle parti, si trova per esempio affermato in Cass. 13 dicembre 1986, n. 7496,
dove si precisa che: “[n]ella ricerca della comune intenzione
delle parti contraenti, il primo e principale strumento dell’operazione interpretativa è costituito dalle parole ed espressioni
del contratto e, qualora queste siano chiare e dimostrino una
loro intima ratio, il giudice non può ricercarne una diversa, venendo così a sovrapporre la propria soggettiva opinione all’effettiva volontà dei contraenti”. In altre parole, finché le parti rimangono nei limiti dell’autonomia loro riconosciuta dal sistema, e il loro consenso non sia in qualsiasi modo viziato o invalido, l’ordinamento non autorizza alcun intervento sulla composizione d’interessi da loro stessi realizzata. Affermazioni d’identico o simile contenuto si leggono in Cass. 9 aprile 1987,
n. 3480; Cass. 18 aprile 1984, n. 2525; Cass. 15 ottobre 1975,
n. 3346, in Giur. agr. it., 1978, 360; Cass. 11 maggio 1971, n.
1341; Cass. 14 febbraio 1956, n. 419; Cass. 17 novembre
1954, n. 4249. In dottrina, si può ancora ricordare la posizione
di F. Carresi, Dell’interpretazione del contratto, art. 1362-1371,
in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1992, 109, secondo
cui i criteri d’interpretazione oggettiva, e l’art. 1366 in particolare, possono trovare applicazione solo se e qualora appaia verosimile che la comune intenzione delle parti fosse proprio
quella che risulterebbe dalla loro applicazione al caso controverso: l’ordinamento non potrà infatti “mai imporre (o attribuire al giudice il potere di imporre) alle parti una volontà che esse non hanno manifestato o che non sarebbe comunque ragionevole imputare loro”. Il medesimo aspetto del problema si
ritrova anche in R. Sacco, L’interpretazione, cit., 410: “bisogna
resistere alla tentazione di vedere il criterio ermeneutico intitolato alla buona fede come una norma dirompente, in collisione
potenziale con l’autonomia delle parti, cui esso sovrapporrebbe un’etica desunta dall’economia prediletta dall’interprete”.
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che in situazioni diverse possano essere raggiunte
soluzioni diverse.
Conclusioni
La critica alle clausole generali si è spesso incentrata sui rischi ricollegabili ad un loro utilizzo eccessivamente disinvolto, poco rispettoso della volontà delle parti e dello stesso equilibrio economico tra loro pattuito: sono questi gli inconvenienti
prodotti - per ripetere qui celebri formule - dalla
fuga ‘nelle’ clausole generali, cui la fuga ‘dalle’
clausole generali ha cercato di ovviare. Le clausole
generali sono in effetti uno strumento di grande
forza nelle mani del giudice che, ricorrendo ad esse, può integrare o correggere il diritto positivo, capovolgendo la soluzione delle liti che quest’ultimo
parrebbe suggerire e ponendosi alla stregua di una
contro-regola di matrice giurisprudenziale.
La pronuncia in esame conferma tuttavia, insieme alla forza delle clausole generali, quanto utile
possa essere il ricorso ad esse: l’anticipatory breach è
una costruzione che il diritto positivo non giustifica e sembra anzi escludere, tendendo inevitabilmente a fondarsi su elenchi di ipotesi definite (art
1186 c.c.) ed a prescrizioni di forma assolutamente
ragionevoli nella larga maggioranza di casi (art.
1219, comma 2, c.c.); la buona fede invece ne consente la configurazione ed essa si dimostra di sicura
utilità ed anche di sicura razionalità economica,
capace com’è di assicurare di regola un risparmio
di costi allo stesso debitore. Affidate a giudici ragionevoli ed equilibrati, le clausole generali sono
dunque uno strumento irrinunciabile e di questo si
mostra del resto consapevole anche la contemporanea esperienza del diritto privato europeo, che in
esse ripone ampia fiducia (24).
Si è però cercato di sottolineare che, nonostante
il sicuro interesse di questo aspetto, esso non sia
(24) Sulla centralità della clausola generale di buona fede
nel contesto europeo si rinvengono valutazioni unanimi e non
sembra necessario insistere: basti considerare il trattamento
che la buona fede riceve nei progetti di codificazione, che inevitabilmente rispecchiano le convenzioni dei redattori (ad
esempio, sulla necessaria centralità della buona fede in un futuro codice europeo, O. Lando, Optional or Mandatory Europeanisation of Contract Law, in Eur. Rev. Priv. Law, 2000, 59
ss., 66-67); in dottrina, sottolineano il ruolo della buona fede in
questi progetti e nel diritto privato europeo in generale, tra gli
altri, F. Ranieri, Il principio generale di buona fede, in C. Castronovo - S. Mazzamuto (a cura di), Manuale di diritto privato europeo, II, Milano, 2007, 495; S. Grundmann, D. Mazeaud, Pre-
1530
forse quello principale: maggiore rilievo ancora
presenta - proprio da parte di giudici propensi a ricorrere alle clausole generali - la difesa dell’interpretazione letterale, funzionale in realtà a riequilibrare la situazione di svantaggio in cui la parte
adempiente era venuta a trovarsi, consentendogli
di trarre dall’anticipatory breach il vantaggio dell’immediato esercizio dell’azione, senza tuttavia onerarla dell’immediata offerta formale della parte del
prezzo che avrebbe dovuto essere versata prima del
trasferimento della proprietà.
Si dimostra, così, che - al pari della scelta di ricorrere alle clausole generali - anche la scelta di
non ricorrere alle clausole generali ha implicazioni
estremamente rilevanti nella definizione dell’assetto di interessi imposto alle parti. E se è vero che il
ricorso alle clausole generali può mascherare il tentativo di incidere sull’assetto di interessi programmato dalle parti, anche non ricorrere alle clausole
generali, fermandosi al dato meramente letterale,
può incidere sull’equilibrio del rapporto allo stesso
modo. In altri termini, nessuna tecnica interpretativa è neutrale e certamente non lo è l’interpretazione letterale, anch’essa funzionale a raggiungere
il risultato ritenuto ottimale dal giudice chiamato
a decidere.
Dunque, l’interprete ha sempre un ruolo: ha un
ruolo quando ricorre alle clausole generali ed è sicuro che, storicamente, le clausole generali abbiano rappresentato uno strumento privilegiato per
esercitarlo; ma è illusorio pensare che quando non
si ricorra ad esse, e tutto si affidi al dato letterale,
l’interprete si limiti a dichiarare la pura e semplice
volontà delle parti: la rilevanza della fattispecie e
le ragioni equitative che ad essa possono risultare
sottese risultano sempre e comunque decisive.
face, in Grundmann-Mazeaud (a cura di), General Clauses and
Standards in European Contract Law, The Hague, 2007, XI; C.
Castronovo, Un contratto per l’Europa (Prefazione all’edizione
italiana dei Principi di Diritto Europeo dei Contratti), Milano,
2001, XIII ss., spec. XXI ss. e XXX ss.; Zimmermann, Whittaker
(editors), Good faith in European Contract Law, Cambridge,
2003, 8 ss.; una posizione più problematica sull’opportunità di
recepire la buona fede nel diritto scritto, ferma la sua operatività nel diritto non scritto, si legge in Hesselink M.W., The concept of good faith, in Hartlamp, Hondius, Hesselink, du Peron
C.E. & Veldman (editors), Towards a European Civil code, Boston & London, 2004, 285.
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Giurisprudenza
Diritto civile
Legittimazione del condominio ad agire per l’equa riparazione
Cassazione Civile, SS.UU., 18 settembre 2014, n. 19663 - Pres. Rovelli - Rel. San Giorgio P.M. Piccolo (conf.) - M.A., M.M., M.B. (avv. Scancarello) c. Ministro della giustizia (Avvocatura generale dello Stato)
In caso di violazione del termine ragionevole del processo, qualora il giudizio sia stato promosso dal condominio, sebbene a tutela di diritti connessi alla partecipazione di singoli condomini, ma senza che costoro siano stati parte in causa, la legittimazione ad agire per l’equa riparazione spetta esclusivamente al condominio, quale
autonomo soggetto giuridico, in persona dell’amministratore, autorizzato dall’assemblea dei condomini.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., I Sez., 11 dicembre 2009, n. 25981; Cass., Sez. I, 1° dicembre 2011, n. 25730; Cass., Sez. VI, 4 giugno 2013,
n. 13986.
Difforme
Cass., Sez. I, 23 ottobre 2009, n. 22558; Cass., Sez. I, 14 ottobre 2011, n. 21322 e Cass., Sez. I, 17 ottobre 2011, n.
21461.
La Corte (omissis).
Considerato in diritto
1. - Il ricorso pone la questione relativa alla legittimazione dei singoli condomini ad agire in giudizio per far
valere il diritto alla equa riparazione per la durata irragionevole del processo presupposto intentato dal Condominio, in persona dell’amministratore, del quale i
condomini stessi non siano stati parti.
1.1. - Al riguardo, l’ordinanza interlocutoria n.
21062/2012 rileva che questa Corte, con sentenze della
I sezione civile n. 22558 del 23 ottobre 2009, n. 21322
del 14 ottobre 2011 e n. 21461 del 17 ottobre 2011,
nell’affermare il difetto di potere rappresentativo in capo all’amministratore del condominio in ordine al diritto fatto valere in giudizio concernente l’equo indennizzo ai sensi della L. n. 89 del 2001, ha osservato, anzitutto, che il condominio è privo di personalità giuridica in
quanto unicamente ente di gestione delle cose comuni
e l’amministratore può agire in virtù della sola delibera
assembleare anche non totalitaria a tutela della gestione
delle stesse mentre, per quanto concerne i diritti che i
condomini vantano unicamente uti singuli, è necessario
lo specifico mandato da parte di tutti i condomini
(mandato che, nella fattispecie oggetto dell’allora cognizione, è risultato essere insussistente).
In base a siffatta premessa si è quindi ritenuto non esservi dubbio sul fatto che il diritto all’equo indennizzo
per la irragionevole durata di un processo non spetti all’ente condominiale, che è preposto unicamente alla gestione della cosa comune, in quanto l’eventuale patema
d’animo conseguente alla pendenza del processo incide
unicamente sui condomini che quindi sono titolari uti
singuli del diritto a risarcimento.
1.2. - Si tratta di indirizzo che, al fondo, è permeato dei
contenuti di quella giurisprudenza che ha avuto modo
di affermare che nel condominio di edifici, che costituisce un ente di gestione sfornito di personalità distinta
da quella dei suoi partecipanti, l’esistenza dell’organo
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rappresentativo unitario non priva i singoli condomini
del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro
partecipazione, né, quindi, del potere di intervenire nel
giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza
pronunciata nei confronti del condominio (v., tra le altre, Cass., 4 luglio 2001, n. 9033; si veda anche Cass.,
16 maggio 2002, n. 7119, per cui il singolo condomino
deve sempre considerarsi parte nella controversia tra il
Condominio e altri soggetti, anche se rappresentato ex
mandato dell’amministratore: principio, codesto, enunciato, significativamente, in una controversia tra un
Condominio ed un soggetto che asseriva di aver svolto
attività di portiere, essendosi riconosciuto, ai fini della
competenza territoriale ex art. 30-bis c.p.c., come “parte” nel processo un giudice condomino del suddetto
Condominio).
Tuttavia, precisa la predetta ordinanza interlocutoria,
detto orientamento trova specificazione nella posizione,
anch’essa fatta propria da una consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass., 4 maggio 2005, n. 9213;
Cass., 19 ottobre 2010, n. 21444; Cass., 21 settembre
2011, n. 19223), secondo cui il principio di diritto anzidetto non trova applicazione relativamente alle controversie che, avendo ad oggetto non diritti su un servizio
comune ma la sua gestione, sono intese a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale
o l’esazione delle somme dovute in relazione a tale gestione da ciascun condomino; pertanto, poiché in tali
controversie non vi è correlazione immediata con l’interesse esclusivo di uno o più partecipanti, bensì con un
interesse direttamente collettivo e solo mediatamente
individuale a funzionamento e al finanziamento corretti
dei servizi stessi, la legittimazione ad agire e ad impugnare spetta esclusivamente all’amministratore, sicché
la mancata impugnazione della sentenza da parte di
quest’ultimo esclude la possibilità per il condomino di
impugnarla.
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1.3. - L’enunciato principio di esclusività della titolarità
del diritto all’equa riparazione in capo ai condomini uti
singoli è contrastato da altro indirizzo, che invece ammette la legittimazione del Condominio ad agire in base
alla L. n. 89 del 2001. Di siffatto ultimo indirizzo (in relazione alla fattispecie propria del Condominio) sono
espressione, segnatamente, Cass., 18 febbraio 2005, n.
3396, Cass., 24 novembre 2005, n. 24841 e Cass., 17
aprile 2008, n. 10084, le quali adducono a sostegno della propria tesi la posizione assunta dalla giurisprudenza
della Corte EDU (si veda, in particolare, sebbene in
dette pronunce non sia esplicitamente citata, la sentenza Comingersoll SA c. Portugal, del 6 aprile 2000, secondo cui “anche per le persone giuridiche (e, più in generale, per i soggetti collettivi) il danno non patrimoniale,
inteso come danno morale soggettivo, è ..., e non diversamente da quanto avviene per gli individui persone fisiche, conseguenza normale, ancorché non automatica
e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole
durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti
di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione
dell’ente o ai suoi membri”. La richiamata ordinanza interlocutoria precisa, peraltro, che la citata Cass. n.
10084 del 2008 (seguita poi da Cass., 11 dicembre
2009, n. 25981) esclude che in capo all’amministratore
del Condominio, in difetto di mandato assembleare,
sussista il potere di intraprendere azioni non conservative quale quella relativa al diritto all’equa riparazione di
cui alla L. n. 89 del 2001, il quale è “ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6 della Convenzione
CEDU, e cioè di un evento autonomo e diverso da
quello oggetto del giudizio presupposto, ex se lesivo di
un diritto della persona alla definizione di detti procedimenti in una durata ragionevole, ed avente per oggetto
un indennizzo per il pregiudizio sofferto dal soggetto per
il periodo eccedente tale durata”.
1.4. - Il principio della spettanza ai soggetti collettivi
del danno non patrimoniale da durata irragionevole del
giudizio si è andato consolidando nella giurisprudenza
di questa Corte con specifico riferimento alle società,
sia di capitali (Cass., 22 dicembre 2004, n. 23789;
Cass., 23 agosto 2005, n. 17111; Cass., 12 luglio 2011,
n. 15250; Cass., 8 maggio 2012, n. 7024), che di persone (Cass., 10 aprile 2003, n. 5664; Cass. 30 settembre
2004, n. 19647; Cass., 16 febbraio 2005, n. 3118; Cass.,
2 febbraio 2007, n. 2246; Cass., 14 maggio 2010, n.
11761). La medesima giurisprudenza appena richiamata
ha, peraltro, puntualizzato che il diritto alla trattazione
delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto
dall’art. 6, p. 1, della Convenzione, specificamente richiamato dall’art. 2 L. n. 89 del 2001, solo con riferimento alle cause “proprie” e, quindi, esclusivamente in
favore delle “parti” della causa nel cui ambito si assume
avvenuta la violazione e non anche di soggetti che siano ad essa rimasti estranei, essendo irrilevante, ai fini
della legittimazione, che questi ultimi possano aver patito indirettamente dei danni dal protrarsi del processo;
1532
ciò al fine di escludere detto diritto in capo ai soci che
non siano stati parti del giudizio al quale abbia partecipato soltanto la società (di capitali o di persone).
1.5. - Analoga affermazione di principio ha regolato fattispecie diverse dalle anzidette, ma che presentavano la
comune peculiarità della richiesta del danno non patrimoniale da parte di soggetto non altrimenti partecipe al
giudizio presupposto; trattasi, segnatamente, del caso
dell’erede che voglia far valere iure proprio il diritto all’indennizzo per irragionevole durata del giudizio presupposto intentato dal dante causa, che può conseguire
“soltanto per il superamento della predetta durata verificatosi con decorrenza dal momento in cui, con la costituzione in giudizio, ha assunto a sua volta la qualità di
parte; non assume, infatti, alcun rilievo, a tal fine, la
continuità della sua posizione processuale rispetto a
quella del dante causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., in
quanto il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e
tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001 non
si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparazione a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto
danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito,
il quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione” (Cass., 23 giugno
2011, n. 13803; Cass., 4 novembre 2009, n. 23416;
Cass., 7 febbraio 2008, n. 2983; Cass., 13 dicembre
2006, n. 26686). Analogamente è da dirsi quanto alla
posizione della persona offesa dal reato, che “al fine di
conseguire il risarcimento del danno, si sia costituita
parte civile nel processo penale, ha diritto alla ragionevole durata del processo, con le connesse conseguenze
indennitarie in caso di violazione, soltanto dal momento di detta costituzione, mentre non rileva la precedente durata del procedimento” (Cass., 3 aprile 2012, n.
5294; Cass., 29 aprile 2010, n. 10303; Cass., 10 febbraio
2006, n. 2969; Cass., 29 settembre 2005, n. 19032).
Nella stessa ottica si colloca anche la posizione del minorenne, al quale spetta il danno non patrimoniale ex
lege per la sua partecipazione al processo presupposto
debitamente rappresentato, fino al momento della maggiore età, al raggiungimento della quale, avendo acquistato il libero esercizio dei propri diritti ed avendo la facoltà di costituirsi nel processo quale parte autonoma,
lo stesso soggetto perde da tale momento detto diritto,
ove a ciò non abbia provveduto (Cass., 23 maggio
2011, n. 11338).
2.1. - Secondo la concezione tradizionale, per condominio negli edifici dovrebbe intendersi sic et simpliciter la
“proprietà comune” di alcune parti dell’edificio, poste a
servizio di altre parti dell’edificio (i piani o le porzioni
di piano: ossia, normalmente, gli appartamenti) e a queste ultime legate da un rapporto necessario e perpetuo
di accessorietà e di complementarietà a senso unico.
Così configurato, il condominio si risolve in una comunione meramente strumentale rispetto all’esercizio dei
singoli diritti di proprietà esclusiva sui diversi appartamenti: i quali, dal canto loro, seguirebbero “un proprio
destino individuale e autonomo”, al di fuori della disci-
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plina speciale del condominio e in armonia con la definizione generale della proprietà come diritto di godere e
disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo (art. 832
c.c.).
In dottrina però si è delineata anche un’altra definizione, più ampia, di condominio negli edifici come “situazione mista, di comproprietà e di concorso di proprietà
solitarie”: l’una legata alle altre da un intimo nesso di
reciproca complementarietà e funzionalità. Con lo
straordinario diffondersi del fenomeno, è emerso sempre
più chiaramente che, se la comproprietà delle parti comuni dell’edificio è funzionale alle proprietà solitarie
degli appartamenti, queste ultime a loro volta vanno incontro, nel loro esercizio da parte dei singoli condomini, a una serie di limiti diversi da quelli ricordati in termini generali dall’art. 832 c.c. e desumibili, direttamente o indirettamente, dai principi espressi dalla normativa speciale sul condominio: limiti che, così come sono
stati enucleati in concreto dalla giurisprudenza, rispondono all’esigenza di rendere funzionale l’esercizio della
proprietà sui singoli appartamenti con la destinazione
delle parti comuni dell’edificio a una utilizzazione collettiva e conforme alle caratteristiche naturali dell’edificio stesso. Pertanto, secondo una parte della dottrina, il
condominio si configura come una struttura organizzativa che riproduce, sia pure in embrione, il modello tipico delle associazioni, provvedendo a un’attività di gestione che, in quanto affidata a organi dotati ex lege di
poteri essenzialmente inderogabili (art. 1138 c.c., comma 4), tende ad attribuire all’interesse del condominio
una rilevanza oggettiva, distinguendolo dagli interessi
soggettivi dei singoli condomini.
2.2. - Per evidenziare la tendenziale “oggettivizzazione”
di un interesse proprio del condominio, la giurisprudenza suole definire quest’ultimo come “ente di gestione”,
sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei
singoli partecipanti. La definizione, pur efficace, rischia
però di ingenerare equivoci circa la possibilità di attribuire al condominio una soggettività paragonabile a
quella correttamente ricollegata agli enti collettivi non
riconosciuti come persone giuridiche. Un indirizzo minoritario della dottrina riconosce al condominio la personalità giuridica riconducendo il rapporto anzidetto
nell’ambito del rapporto organico, e qualificando l’amministratore come un organo della collettività, munito
di un potere di rappresentanza che discende dalla specifica funzione della quale è investito. Alla stregua di tale
concezione l’ufficio dell’amministratore avrebbe carattere necessario con estensione della rappresentanza anche
ai condomini dissenzienti e con facoltà di agire contro
il mandante.
Tale indirizzo ha ricevuto nuova linfa dalla legge di riforma del condominio (L. 11 dicembre 2012, n. 220, recante “Modifiche alla disciplina del condominio negli
edifici”). Infatti, se è pur vero che nel corso dei lavori
preparatori di tale legge si era tentato senza successo di
introdurre la previsione espressa del riconoscimento della personalità giuridica del condominio, e che l’art.
1139 c.c. rinvia, per quanto non espressamente previsto, alle norme in tema di comunione, per contro, è da
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sottolineare l’obbligo dell’amministratore, posto dall’art.
1129, comma 12, n. 4, nella formulazione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 9 della citata L. n. 220
del 2012, di tenere distinta la gestione del patrimonio
del condominio e il patrimonio personale suo o di altri
condomini, così come la costituzione di un fondo speciale, prevista dall’art. 1135 c.c., n. 4, come sostituito
dall’art. 13 della stessa legge, e, soprattutto, la previsione, di cui all’art. 2659 c.c., comma 1 come riformulato
dall’art. 17 della legge stessa, in tema di note di trascrizione, secondo la quale, per i condomini è necessario
indicare l’eventuale denominazione, l’ubicazione e il codice fiscale.
Ebbene, se pure non è sufficiente che una pluralità di
persone sia contitolare di beni destinati ad uno scopo
perché sia configurabile la personalità giuridica (si pensi
al patrimonio familiare o alla comunione tra coniugi), e
se dalle altre disposizioni in tema di condominio non è
desumibile il riconoscimento della personalità giuridica
in favore dello stesso, riconoscimento dapprima voluto
ma poi escluso in sede di stesura finale della L. n. 220
del 2012, tuttavia non possono ignorarsi gli elementi
sopra indicati, che vanno nella direzione della progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pure
attenuata personalità giuridica, e comunque sicuramente, in atto, di una soggettività giuridica autonoma.
3. - Dalla concezione del condominio come ente sprovvisto di personalità giuridica, discende la qualificazione
dell’amministratore come mandatario, con conseguente
configurabilità nel rapporto tra lo stesso ed i condomini
di una rappresentanza volontaria conseguente ad un
mandato collettivo. Nei limiti di tali attribuzioni, o dei
maggiori poteri eventualmente conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, egli ha la “rappresentanza” dei condomini e può stare in giudizio sia
per essi contro terzi sia contro alcuno di essi per tutti
gli altri (art. 1131, commi 1 e 2).
3.1. - Ma la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto
che il singolo condomino debba sempre considerarsi
parte nella controversia tra il condominio e altri soggetti, anche se rappresentato ex mandato dell’amministratore: ciò proprio nella prospettazione della mancanza di
soggettività del condominio. Così, in una controversia
tra un condominio ed un soggetto che asseriva di aver
svolto attività di portiere, la Corte ha ritenuto, ai fini
della competenza territoriale ex art. 30-bis c.p.c. “parte”
nel processo un giudice condomino del suddetto condominio (Cass., sent. n. 7119 del o 2002).
Si legge nella motivazione di Cass. sent. n. 9213 del
2005 che, essendo il condominio un ente di gestione
sfornito di personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario
non priva i singoli condomini del potere di agire a difesa dei diritti connessi alla detta partecipazione, né,
quindi, del potere di intervenire nel giudizio per il quale
tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore del condominio e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti dell’amministratore
stesso che non l’abbia impugnata.
1533
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Tale principio, affermato in materia di controversie
aventi ad oggetto azioni reali, incidenti sul diritto pro
quota di ciascun condomino in ordine alle parti comuni, o lato sensu tali, od esclusivo sulla singola unità immobiliare, o anche personali, ove incidenti in maniera
immediata e diretti sui loro diritti, non trova applicazione relativamente alle controversie aventi ad oggetto
non i diritti su di un servizio comune, bensì la gestione
di esso, ed intese, dunque, a soddisfare esigenze soltanto
collettive della comunità condominiale, o l’esazione
delle somme dovute in relazione a tale gestione da ciascun condomino, nelle quali non vi è correlazione immediata con l’interesse esclusivo d’uno o più partecipanti, bensì con un interesse direttamente collettivo e
solo mediamente individuale al funzionamento ed al finanziamento corretti dei servizi stessi, onde in tali controversie la legittimazione ad agire e, quindi, anche ad
impugnare, spetta in via esclusiva all’amministratore, la
mancata impugnazione della sentenza da parte del quale
esclude la possibilità d’impugnazione da parte del singolo condomino (cfr. Cass. civ., Sez. II, n. 6480 del 3 luglio 1998; n. 8257 del 29 agosto 1997).
3.2. - La predetta impostazione, che considera il condomino sempre parte nella controversia tra il condominio
e gli altri soggetti entra in crisi ove ci soffermi sulla
autonomia del condominio come centro di imputazione
di interessi, di diritti e doveri, cui corrisponde una piena capacità processuale. In tal caso, infatti, se il condominio - e cioè l’amministratore sulla base della delibera
autorizzativa dell’assemblea salvo che si tratti di azione
collegata al potere del primo di esercitare gli atti conservativi sui beni di proprietà comune del condominio il singolo condomino può essere considerato “parte” in
quel processo solo se vi intervenga.
4. - Per quanto concerne, poi, specificamente le controversie ex art. 2 L. n. 89 del 2001, deve aggiungersi che
il diritto alla trattazione delle cause entro un termine
ragionevole è riconosciuto dall’art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, specificatamente richiamato dall’art. 2 L. n. 89 del 2001, solo in relazione
alle cause proprie e quindi esclusivamente in favore delle parti della causa nel cui ambito si assume avvenuta la
violazione e non anche in favore dei soggetti che siano
ad essa rimasti estranei (v. Cass., sent. n. 23173 del
2012). Al riguardo, si è sottolineato che il pregiudizio
risarcibile si ricollega non alla situazione soggettiva che
costituisce l’oggetto del processo presupposto, ma alle
sofferenze correlate alla protrazione ingiustificata dello
stesso; in tale ambito appare imprenscindibile la partecipazione a tale causa, che, per altro, soprattutto nel
giudizio civile, è sempre sorretta da un interesse non di
mero fatto, ma giuridico, che sussiste anche in relazione
al c.d. intervento adesivo o dipendente (Cass., sent. n.
23173, cit.).
Secondo la dottrina la risarcibilità del danno morale resta ancorata saldamente alla qualità di parte processuale,
pena la possibile duplicazione dei risarcimenti, come ritenuto da quella giurisprudenza che giudica irrilevante il
disagio patito dai soci o dall’amministratore della società,
1534
anche se ai limitati effetti dell’accoglimento della ulteriore pretesa di indennizzo da questi azionata in proprio. Il
che deve naturalmente valere anche per i soci delle società di persone le quali, pur essendo prive di personalità
giuridica, costituiscono un autonomo centro di imputazione soggettiva di rapporti giuridici, anche agli effetti
della Legge Pinto (v. Cass., sent. n. 3118 del 2005).
4.1.- Ne consegue che il singolo condominio non può
essere ritenuto parte qualora sia rappresentato dall’amministratore. Sicché, posto che comunque, in tema di
equa riparazione per irragionevole durata del processo ai
sensi dell’art. 2 L. n. 89 del 2001, anche per le persone
giuridiche e i soggetti collettivi il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è, non diversamente da quanto avviene per gli individui persone
fisiche, conseguenza normale, ancorché non automatica
e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole
durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione
Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti
di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione
dell’ente o ai suoi membri (v., ex plurimis, Cass., sent. n.
13986 del 2013), deve, perciò, da un lato, ammettersi la
legittimazione del condominio ad agire in base alla legge, sia pure solo in presenza di mandato assembleare,
non sussistendo in capo all’amministratore il potere di
intraprendere azioni non conservative quale quella relativa al diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del
2001.
4.2. - Per altro verso, ed in particolare per ciò che maggiormente rileva ai fini della soluzione della presente
controversia, deve escludersi che il singolo condominio
che non sia stato parte in senso formale nei processo
presupposto sia legittimato ad agire per la equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo ex
L. n. 89 del 2001.
Siffatta soluzione è, del resto, coerente - come segnalato
anche nella ordinanza interlocutoria n. 21062 del 2012
- con gli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità con riferimento al caso dell’erede che voglia
far valere iure proprio il diritto all’indennizzo, in relazione al quale si è affermato che ciò può avvenire solo
per il superamento della predetta durata verificatosi con
decorrenza dal momento in cui, con la costituzione in
giudizio, quegli abbia assunto a sua volta la qualità di
parte, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la continuità della stessa posizione processuale rispetto a quella
del dante causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., in quanto il
sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto
in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001 non si fonda
sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello
Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie
a beneficio di chi dal ritardo ha ricevuto danni patrimoniali e non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione in relazione al concreto patema subito,
che presuppone la conoscenza del processo e l’interesse
alla sua rapida conclusione (v. Cass., sent. n. 13803 del
2011). Analogo discorso deve farsi anche con riferimento alla posizione della persona offesa dal reato, che, al
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fine di conseguire il risarcimento del danno, si sia costituita parte civile nel processo penale, e che ha diritto
alla equa riparazione soltanto dal momento di detta costituzione, mentre non rileva la precedente durata del
procedimento (Cass., sent. n. 5294 del 2012).
Parimenti, al minorenne spetta il danno non patrimoniale ex lege per la sua partecipazione al processo presupposto “debitamente rappresentato, fino al momento della
maggiore età, al raggiungimento della quale, avendo acquistato il libero esercizio dei propri diritti ed avendo la
facoltà di costituirsi nel processo quale parte autonoma,
lo stesso soggetto perde detto diritto, ove a ciò non abbia
provveduto” (Cass., sent. n. 11338 del 2011).
4.3. - Mette conto, infine, richiamare sul punto, ad ulteriore suffragio della tesi qui accolta, la sentenza di
queste Sezioni Unite n. 6072 del 2013, con la quale è
stata risolta in senso negativo la questione della legittimazione degli ex soci di società che, parte in un giudizio
di durata irragionevole, volontariamente si sia cancellata dal registro delle imprese senza aver agito per l’accertamento e la liquidazione del diritto all’equo indennizzo, a succedere alla società estinta nella titolarità del
credito indennitario. In tale pronuncia si è rilevato che
il credito oggetto del processo presupposto, sorto originariamente in capo alla società, che era parte di detto
giudizio lungamente protrattosi, risultava controverso e
perciò richiedeva l’accertamento e la liquidazione nel
momento in cui la società aveva deciso di farsi cancellare dal registro delle imprese: siffatta scelta aveva implicato la tacita rinuncia della società al credito in questione, manifestandosi incompatibile con la volontà di
pervenire al concreto accertamento ed alla liquidazione
del credito stesso, per poter poi provvedere all’eventuale
ripartizione del ricavato tra i soci.
5. - Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato,
alla luce del seguente principio di diritto: “Nel caso di
giudizio intentato dal Condominio e del quale, pur trattandosi di diritti connessi alla partecipazione di singoli
condomini al condominio, costoro non siano stati partì,
spetta esclusivamente al Condominio, in persona del
suo amministratore, a ciò autorizzato da delibera assembleare, far valere il diritto alla equa riparazione per la
durata irragionevole di detto giudizio”.
(omissis).
Legge Pinto e legittimazione del condominio:
il dictum delle Sezioni Unite
di Aldo Carrato (*)
Con la sentenza in rassegna le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto relativamente alla questione sul se, nel caso di giudizio presupposto intentato dal condominio e del quale non sono
stati parti i singoli condomini, spetti solo al condominio, in persona del suo amministratore, ovvero esclusivamente ai singoli condomini agire in giudizio per far valere il diritto all’equa riparazione in ordine alla durata irragionevole dell’anzidetto giudizio presupposto. La risposta data al
quesito è stata affermativa nel primo senso, sul presupposto che il danno non patrimoniale conseguente alla durata irragionevole del processo spetta anche in favore dei soggetti collettivi a
condizione che essi abbiano assunto la qualità di parte in senso proprio nell’ambito del giudizio
presupposto.
La fattispecie esaminata dalle S.U.
La vicenda sottoposta all’esame delle Sezioni
unite aveva avuto origine dall’esperimento dell’azione per il riconoscimento dell’equo indennizzo,
promossa ai sensi dell’art. 2 della L. n. 89 del 2001,
da tre condomini appartenenti ad un condominio
che, tuttavia, non avevano partecipato al giudizio
presupposto, il quale era stato intentato direttamente dal condominio, in persona del suo amministratore pro-tempore. Avendo impugnato i ricorrenti in sede di legittimità il decreto di rigetto della loro pretesa adottato dalla competente Corte di
appello, in base all’unico motivo di doglianza ricondotto alla deduzione della loro qualità di parti
sostanziali del giudizio durato irragionevolmente
(sul presupposto che non potesse riconoscersi al
condominio alcuna soggettività giuridica), l’adìta
Sezione della Corte di cassazione rimetteva, con
apposita ordinanza interlocutoria, la questione di
cui in epigrafe (intorno alla quale era insorto contrasto nell’ambito della stessa giurisprudenza di legittimità), alla decisione delle Sezioni unite, alla
quale esse rispondevano affermando il principio riportato in massima.
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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Le ragioni fondanti del diritto all’equa
riparazione secondo la L. n. 89 del 2001 ed
il riconoscimento della sua spettanza anche
in favore degli enti collettivi
Prima di affrontare funditus la problematica questione risolta dalle Sezioni Unite con la sent. n.
19663 del 2014, appare opportuno preliminarmente chiarire la ratio e la funzione che sono sottese alla disciplina introdotta con la L. n. 89 del 2001
(nel gergo forense conosciuta come “legge Pinto”,
dal cognome del senatore relatore) sulla previsione
relativa al riconoscimento di un’equa riparazione
nell’eventualità della violazione del termine ragionevole del processo (i cui termini sono stati ora
“normativizzati” nei commi 2 bis e 2 ter, come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lett. a), n. 2, del D.L.
22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., dalla L.
7 agosto 2012, n. 134), che, di regola, si considera
rispettato se il giudizio - nella sua complessiva interezza - viene definito in modo irrevocabile in un
tempo non superiore a sei anni.
Con la menzionata L. 24 marzo 2001, n. 89, il
legislatore ha inteso prevedere uno strumento procedimentale specificamente rivolto alla tutela del
diritto all’ottenimento di un indennizzo ristoratore
dei danni subiti a causa dell’eccessiva durata dei
processi giurisdizionali. L’art. 2 di detta legge pone,
in effetti, riferimento alle conseguenze derivanti
dalle violazioni dell’art. 6 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (stipulata a Roma il 4 novembre
1950 e ratificata in Italia con L. 4 agosto 1955, n.
848), il quale - come è noto - riconosce ad ogni
persona il diritto ad un equo processo, ovvero ad
un giudizio da svolgersi “entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale
costituito per legge”. Il successivo e correlato art. 13
della stessa Convenzione internazionale enuncia il
principio di effettività, in virtù del quale gli Stati
firmatari devono munirsi di dispositivi di tutela capaci di assicurare il ripristino dei diritti fondamentali violati e riconosciuti dalla stessa Convenzione,
con la previsione di meccanismi di tutela giurisdizionale ad hoc, volti al riconoscimento di un indennizzo da parte dei giudici nazionali.
(1) E, tra le stesse, anche quelle rimaste contumaci avendo
le SS.UU., con la sent. n. 585 del 2014 (in questa Rivista,
2014, 5, 685 con nota di C. Consolo - M. Negri), statuito che,
in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, hanno diritto all’indennizzo tutte le parti coinvolte nel
procedimento giurisdizionale, ivi compresa la parte rimasta
contumace, nei cui confronti - non assumendo rilievo né l’esito
della causa, né le ragioni della scelta di non costituirsi - la deci-
1536
Lo Stato italiano ha dato attuazione al menzionato art. 13 della Cedu proprio con la L. n. 89 del
2001 (poi incisivamente integrata dalle disposizioni contenute nel già richiamato art. 55 del D.L. n.
83 del 2012, come convertito, con modif., dalla L.
n. 134 del 2012, peraltro applicabili ai soli ricorsi
depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge da ultimo riportata). Del resto lo stesso art. 111, comma
2, Cost. (come inserito dall’art. 1 della L. cost. 23
novembre 1999, n. 2), garantisce a tutte le parti (1) il diritto alla ragionevole durata del processo.
In questa ottica, dunque, la L. n. 89 del 2001 prevede - a questo scopo - la realizzazione del diritto
ad un giudizio equo ed imparziale in modi diversi,
purché ragionevolmente idonei, componendo l’interesse a garantire l’imparzialità del giudizio con i
concomitanti interessi ad assicurare la speditezza
dei processi, la cui ragionevole durata è oggetto, oltre che di un interesse collettivo, di un diritto di
tutte le parti, costituzionalmente tutelato non meno di quello ad un giudizio equo e imparziale (come oggi espressamente risultante dal dettato del citato art. 111, comma 2, Cost.).
L’indicato art. 2 della c.d. “legge Pinto”, nel garantire il riconoscimento del diritto all’equa riparazione per effetto della durata (ingiustificata) del
giudizio oltre il limite della ragionevolezza, non individua espressamente i soggetti che possono agire
per l’ottenimento dell’indennizzo, limitandosi ad
affermare che “chi ha subito un danno patrimoniale o
non patrimoniale (…) ha diritto ad una equa riparazione”. Si è, perciò, posto il problema se sussista o
meno una limitazione soggettiva in ordine all’individuazione dei titolari del diritto all’indennizzo in
discorso.
Prima di incentrare l’attenzione su quest’ultimo
aspetto è importante, però, sottolineare che la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere
che l’equa riparazione come delineata dal sistema
introdotto con la L. n. 89 del 2001:
a) non costituisce una mera sanzione pecuniaria,
multa o pena privata, dovuta dallo Stato per il solo
fatto del danno conseguente alla durata irragionevole del processo, ma attribuisce, piuttosto, un
sione è comunque destinata ad esplicare i suoi effetti e a cagionare, nel caso di ritardo eccessivo nella definizione del giudizio, un disagio psicologico, fermo restando che la contumacia costituisce comportamento idoneo ad influire - implicando
od escludendo specifiche attività processuali - sui tempi del
procedimento e, pertanto, è valutabile agli effetti dell’art. 2,
comma 2, L. 24 marzo 2001, n. 89.
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equo indennizzo, riconducibile, in base all’art.
1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico, corrispondente all’equitable satisfaction richiamata dalla Convenzione EDU e dalla
relativa giurisprudenza dalla Corte di Strasburgo,
in favore del “soggetto che, per effetto dalla eccessiva durata del giudizio (lesiva del riconosciuto suo
diritto ad una ragionevole durata dello stesso)” abbia subito un danno patrimoniale e/o non patrimoniale;
b) non rientra fra i diritti fondamentali della
persona, come quello alla salute, la cui inviolabilità
è garantita da norme costituzionali immediatamente precettive e la cui lesione comporta la sanzione
risarcitoria per il fatto in sé della violazione indipendentemente dalla ricaduta patrimoniale che la
stessa possa implicare (c.d. danno conseguenza).
Tale ricostruzione, tuttavia, non esclude che il
danno non patrimoniale costituisca una conseguenza della detta violazione, la quale, a differenza
del danno patrimoniale, si verifica normalmente, e
cioè di regola per effetto della violazione stessa, essendo fisiologico che l’anomala lunghezza della
pendenza di un processo (e, quindi, dell’attesa della
sua definizione) produce nella parte che vi è coinvolta un patema d’animo o, comunque, una sofferenza psicologica, che non occorre provare, sia pure attraverso elementi presuntivi. Trattasi, in altri
termini, di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti nella normalità dei casi secondo il requisito dell’id quod plerumque accidit, ossia senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo alla singola fattispecie.
Pertanto, ancorché non possa discorrersi di danno automaticamente insito nella violazione dell’art. 2 della L. n. 89/2001, deve per converso considerarsi, di regola, in re ipsa la prova del relativo
pregiudizio nel senso che, provata la sussistenza
della violazione, ciò comporta nella normalità dei
casi anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale, precisandosi, però, che tale consequenzialità, proprio perché normale e non necessaria o
automatica, può trovare nel singolo caso concreto
una positiva smentita qualora risultino circostanze
che dimostrino che quelle conseguenze non si sono
verificate (come, esemplificativamente, accade nell’ipotesi di piena consapevolezza della parte della
inammissibilità o infondatezza delle proprie istanze
e, comunque, tutte le volte in cui la protrazione
del giudizio risponda ad un suo specifico interesse
o è destinata a produrre conseguenze cha detta parte percepisca come a sé favorevoli) (2).
Riprendendo il discorso sulla legittimazione attiva per la proposizione della domanda di equo indennizzo è necessario ricordare (e di tanto viene
dato atto anche nella sentenza qui commentata)
che la dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono che, conformemente alla giurisprudenza della
Cedu, il danno di carattere non patrimoniale è
configurabile anche per le persone giuridiche nella
misura in cui il ritardo del processo abbia compromesso valori quali l’esistenza, il nome, l’immagine,
la reputazione dell’ente. Ne consegue che risultano, così, legittimate, oltre alle persone fisiche, anche le persone giuridiche e le società in genere. Si
è, quindi, in generale ritenuto (3) che anche per le
persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, costituisce conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole
durata del processo, di cui all’art. 6 della CEDU, a
causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o
ai suoi membri, e ciò non diversamente da quanto
avviene per il danno morale da lunghezza eccessiva
del processo subito dagli individui persone fisiche;
sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di
un danno “in re ipsa” - ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione -, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere tale
danno esistente, sempre che non risulti la sussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari
(2) Cfr. Cass., SS.UU., n. 1338 del 2004; Cass. n. 19666 del
2006 e Cass. n. 24696 del 2011. È interessante, peraltro, evidenziare che la giurisprudenza di legittimità (v., da ultimo,
Cass. n. 14775 del 2013 e Cass. n. 18239 del 2013) ha, comunque, inteso chiarire che, in tema di equa riparazione per la
non ragionevole durata del processo, la natura indennitaria
dell’obbligazione esclude la necessità dell’accertamento dell’elemento soggettivo della violazione, ma non l’onere del ricorrente di provare la lesione della sua sfera patrimoniale quale
conseguenza diretta e immediata della violazione, esulando il
pregiudizio dalla fattispecie del “ danno evento”, con la conseguenza che sono risarcibili non tutti i danni che si pretendono
relazionati al ritardo nella definizione del processo, ma solo
quelli per i quali si dimostra il nesso causale tra ritardo medesimo e pregiudizio sofferto.
(3) Cfr., ad es., Cass. n. 3395 del 2005; Cass. n. 17500 del
2005, in Danno e resp., 2006, 153-159, con nota di M.V. De
Giorgi, Risarcimento del danno morale ex legge Pinto alle persone giuridiche per le sofferenze patite dai componenti; Cass. n.
25730 del 2011 e, da ultimo, Cass. n. 13986 del 2013.
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Ciò posto, è arrivato il momento di soffermarci
sul nucleo centrale della sentenza in esame, ovvero
sull’attribuibilità o meno della legittimazione ad
agire per conseguire l’equo indennizzo ai sensi dell’art. 2 della L. n. 89 del 2001 in capo al condominio e sulla riconoscibilità o meno dello stesso diritto in favore dei singoli condomini che, pur partecipando alla collettività dei condomini appartenenti
al condominio rivestente il ruolo di attore o convenuto nel giudizio presupposto, non abbiano assunto, in quest’ultimo, la qualità di parte in proprio.
Nella sentenza in discorso le Sezioni Unite non
potevano prescindere, quale profilo da approfondire preliminarmente, dall’esaminare la natura giuridica del condominio, anche perché, proprio in rapporto all’individuazione di tale aspetto, si era determinato il contrasto - in seno alle sezioni semplici - sul riconoscimento o meno della legittimazione, in capo al condominio stesso, a proporre la do-
manda di equa riparazione ai sensi della c.d. “legge
Pinto”.
Infatti, per un verso, si era affermato (5) che il
diritto all’equo indennizzo per irragionevole durata
di un processo non può essere conferito all’ente
condominiale, il quale è preposto unicamente alla
gestione della cosa comune, in quanto l’eventuale
patema d’animo conseguente alla pendenza del
processo incide unicamente sui condomini che
quindi sono titolari uti singuli del diritto al risarcimento.
Questo indirizzo giurisprudenziale era sostenuto
anche da quella parte della dottrina, la quale evidenziava che la legittimazione attiva dell’amministratore del condominio (come precisato dall’art.
1131 c.c.), trova il proprio limite nelle attribuzioni
previste dall’art. 1130 c.c., specificandosi, in ogni
caso, che nel condominio di edifici, costituente un
ente di gestione sfornito di personalità distinta da
quella dei suoi partecipanti, l’esistenza dell’organo
rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, ne’, quindi, del potere
di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore e di
avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli
effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei
confronti del condominio.
Il richiamato indirizzo giurisprudenziale si poneva, tuttavia, in contrasto con altro orientamento
sostenuto dalla S.C. che, al contrario, ammetteva alla stregua di quanto precedentemente evidenziato
- la legittimazione del condominio ad agire in base
alla L. n. 89 del 2001, sulla scorta del risolutivo
presupposto in virtù del quale la giurisprudenza
della CEDU riconosceva il risarcimento del danno
non patrimoniale a favore delle persone giuridiche,
e, più in generale, a vantaggio dei soggetti collettivi.
Come è noto, nemmeno la più recente riforma
apportata in materia di condominio con la L. n.
220 del 2012 si è premurata di risolvere - per via
normativa - la questione definitoria della natura
giuridica del condominio né ha, peraltro, inteso
porre mano alla perdurante problematica della distinta ed autonoma soggettività giuridica del condominio edilizio rispetto ai singoli partecipanti che
lo compongono. Si è, perciò, asserito (6) che l’istituto del condominio “continua ad essere un ibri-
(4) Cfr., in tal senso, di recente, Cass. n. 1007 del 2013 e
Cass. n. 4008 del 2014.
(5) V., ad es., Cass. n. 22258 del 2009; Cass. n. 21322 del
2011.
(6) V., da ultimo, A. Cirla e M. Monegat, Compravendita,
condominio, locazioni, Milano, 2014, 4 ss.
che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente.
È importante, tuttavia, sottolineare (4) che, ai fini della determinazione dei soggetti aventi diritto
al relativo indennizzo, il disposto contenuto nell’art. 2, comma 1, L. 24 marzo 2001, n. 89 deve essere interpretato restrittivamente, alla luce del tenore dell’art. 34 della CEDU, che inequivocabilmente esclude, dal novero degli aventi diritto, gli
enti pubblici o le loro articolazioni amministrative,
prevedendo quali “vittime della violazione” esclusivamente “le persone fisiche, i gruppi d’individui e
le organizzazioni non governative”, né una tale interpretazione, in applicazione della richiamata regola di conformazione, risulta in contrasto con il
testo della norma stessa ovvero con i principi fondamentali dell’ordinamento interno, limitando invece l’ambito di applicazione delle garanzie assicurate dalla citata Convenzione europea, e quindi l’area di operatività della L. n. 89 del 2001, ai rapporti tra le persone, individualmente considerate o
nelle formazioni collettive da esse costituite secondo legge, con i poteri statali o pubblici e con esclusione dei rapporti tra pubblici poteri.
La peculiarità della struttura del
condominio di edifici e la sua rilevanza ai
fini dell’applicabilità della c.d. “legge Pinto”
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do”, assurgendo ad una forma particolare di comunione caratterizzata dall’esistenza di parti comuni
ai proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari site in un edificio. In tal senso, ancorché in
modo non pienamente soddisfacente, il condominio viene ancora inquadrato come “ente di gestione”, che, pur non essendo soggetto di diritto, distinto ed in contrapposizione con i singoli partecipanti, rimane qualificabile come ente di fatto (fondato su un’organizzazione pluralistica), idoneo ad
assumere obbligazioni e a divenire titolare di diritti, così assumendo una certa autonomia ed una limitata capacità, mutuando, peraltro, ai fini dell’esercizio della sua attività, alcuni strumenti tipici
delle persone giuridiche (quali l’assemblea e l’amministratore) (7).
Inquadrato in tale dimensione, può dirsi che nel
condominio, avuto riguardo ai beni ed agli interessi coinvolti dalla gestione comune, le situazioni
singole si combinano in una situazione soggettivamente collettiva, che deve conservare una sua rilevanza esterna. Il fenomeno del condominio, quindi, non si esaurisce nella contitolarità delle parti
comuni, poiché esso risulta regolato da un principio di organizzazione e di unificazione dell’insieme,
che si fonda su organi aventi competenze esclusive,
tali da giustificare un proprio meccanismo d’imputazione. Esiste (come rilevato dalla dottrina specialistica (8)), in ultima analisi, un interesse istituzionale del condominio stesso, distinto dagli interessi
individuali dei singoli partecipanti, basato sull’individuazione di un autonomo centro di riferimento
giuridico e sulla funzionalizzazione dei meccanismi
deliberativi (dell’assemblea) ed esecutivi (dell’amministratore) al perseguimento di uno scopo comune (per l’appunto, collettivo), con il quale risulta
incompatibile ogni speciale vantaggio personale
(dei singoli condomini). Si è, del resto, posto in risalto (9) che di una tale soggettività (pur se attenuata) il condominio presenta, sintomaticamente,
alcuni indici di evidenza normativa: è sufficiente,
in proposito, por mente alla capacità processuale
attiva e passiva dell’amministratore, alle modalità
attraverso le quali il condominio assume obbligazioni sempre per mezzo dell’attività dell’amministratore (che lo rappresenta in qualità di mandatario) o, ancora, alla incisiva rilevanza che, in àmbito condominiale, ricopre il c.d. principio della
maggioranza, il quale è, di per sé, espressione di
autonomia della struttura organizzata. La conseguenza derivante da tale ricostruzione sarebbe, perciò, quella dell’imputabilità del rapporti giuridici
con i terzi all’organismo collettivo, tanto sotto il
profilo sostanziale quanto nella loro gestione processuale.
(7) In dottrina U. Natoli, La proprietà. Appunti delle lezioni, Milano, 1976, 271, sostiene che la dizione “ente di gestione”, pur non priva di ambiguità, possiede un’indubbia valenza
descrittiva dell’istituto ed evoca l’“oggettivizzazione dell’interesse del gruppo”, che, senza assurgere al rango di personalità
giuridica, pone una base necessaria e sufficiente per lo sviluppo di un’organizzazione di gestione che trova il suo fulcro nell’ufficio (da intendersi in senso tecnico) dell’amministratore.
(8) V., per tutti, A. Scarpa, Le obbligazioni del condominio,
Milano, 2007, spec. 14-16.
(9) Cfr., ancora, A. Scarpa, ibidem.
(10) Si ricorderà che le Sezioni unite - con la importante
sent. n. 18331 del 2010 (in questa Rivista, 2012, 2, 189 con nota di G. Vidiri) - ebbero a stabilire il principio per cui l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi
relativi alle parti comuni ma essendo tenuto a dare senza indugio notizia all’assemblea della citazione e del provvedimento
che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131, commi 2 e
3, c.c., può costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ma
deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea stessa, per evitare la pronuncia di
inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione.
(11) Si è, infatti, precisato (v., ad es., Cass. n. 10717 del
2011) che, configurandosi - per l’appunto - il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta
da quella dei singoli condomini, l’esistenza di un organo rappresentativo unitario, quale l’amministratore, non priva i singoli partecipanti della facoltà di agire a difesa dei diritti esclusivi
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Conclusioni
Il contrasto originatosi all’interno della giurisprudenza di legittimità è stato ampiamente influenzato dalla qualificazione giuridica che si riconosce al condominio e, conseguentemente, ai poteri che spettano all’amministratore.
Come si è detto, l’indirizzo prevalente della dottrina e della giurisprudenza di legittimità ricostruiscono il condominio come ente di gestione che,
ancorché sia privo di personalità giuridica (distinta
da quella di coloro che ne fanno parte), ha una sua
soggettività quale formazione collettiva suscettibile
di essere titolare di rapporti giuridici attivi e passivi, tanto è vero che allo stesso si riconosce la legittimazione ad agire e/o a resistere in giudizio a mezzo dell’amministratore, a tanto autorizzato dall’assemblea (10), anche se ciò non risulta di ostacolo a
che i singoli condomini siano, a loro volta, legittimati ad agire per la tutela, oltre dei propri personali diritti, anche di quelli comuni (ovvero relativi
alla salvaguardia dei beni appartenenti alla comproprietà indivisa condominiale) (11).
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Partendo da questa impostazione (condivisa anche nella sentenza in commento) si impone, però,
la necessità di considerare che, ai fini della legittimazione a proporre la domanda di equa riparazione
ai sensi dell’art. 2 della L. n. 89 del 2001, non può
prescindersi dal dato che chi vuole ottenere il ristoro indennitario per la durata irragionevole del
processo deve essere stato parte in senso proprio
nel giudizio presupposto.
Infatti, il diritto alla trattazione delle cause entro
un termine ragionevole è riconosciuto dall’art. 6,
par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, specificatamente richiamato dall’art. 2, L. n.
89/2001, solo in relazione alle cause proprie e,
quindi, esclusivamente in favore delle parti della
causa nel cui ambito si assume avvenuta la violazione e non anche in favore dei soggetti che - ancorché (in ipotesi) legittimati a promuoverla o ad
intervenirvi - siano ad essa rimasti estranei. Pertanto, ove i singoli condomini - ancorché muniti
di una legittimazione concorrente ad instaurare la
controversia a tutela di beni comuni (ovvero a costituirsi per resistervi) - non si siano avvalsi di tale
diritto e non abbiano, perciò, inteso partecipare - a
titolo autonomo - ad una causa intrapresa legittimamente dal condominio (mediante apposita inve-
stitura del suo amministratore) (12), non possono
qualificarsi come titolari di un proprio interesse a
vedersi riconosciuto l’equo indennizzo per la violazione del termine ragionevole del processo al quale
abbia partecipato il solo condominio, a cui favore
è, invece, spettante tale diritto per effetto del generale riconoscimento della relativa legittimazione,
affermata dall’univoca giurisprudenza, a vantaggio
(anche) dei soggetti collettivi (non pubblici), oltre
che delle persone fisiche e delle organizzazioni non
governative (13).
In definitiva (ed in consonanza con la soluzione
predicata dalle Sezioni unite nella sentenza in rassegna), bisogna ribadire il principio (14) per il quale, in tema di equa riparazione, sono legittimati a
far valere il diritto alla ragionevole durata del processo a norma della L. 29 marzo 2001, n. 89, solo i
soggetti che siano stati parti nel giudizio in cui si
assume essere avvenuta la violazione, e non anche
i soggetti a questo rimasti estranei (nel senso che
non vi abbiano partecipato, perché non convenuti
nello stesso, non intervenutivi o perché non abbiano esercitato la relativa azione, ove muniti della
relativa, concorrente, legittimazione), non assumendo rilievo, a tal fine, il danno che i medesimi
possano avere indirettamente subito dall’illegittima
protrazione del processo (15).
e comuni inerenti all’edificio condominiale, onde non sussistono impedimenti a che i singoli condomini, non solo intervengano nel giudizio in cui tale difesa sia stata assunta dall’amministratore, ma anche si avvalgano, in via autonoma, dei mezzi
di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti del condominio rappresentato
dall’amministratore, non spiegando influenza alcuna, in contrario, la circostanza della mancata impugnazione di tale sentenza da parte dell’amministratore. È stato anche puntualizzato (cfr., da ultimo, Cass. n. 12911 del 2012) che il giudicato formatosi all’esito di un processo in cui sia stato parte l’amministratore di un condominio, fa stato anche nei confronti dei singoli condomini, pure se non intervenuti nel giudizio, atteso che
il condominio è ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini.
(12) A tal riguardo la sentenza delle SS.UU. n. 19663 del
2014 richiama la pregressa giurisprudenza di legittimità riguardante situazioni processuali analoghe e, in particolare, Cass. n.
13803 del 2011 (ma, nello stesso senso, v. già Cass. n. 23416
del 2009), secondo cui, in tema di equa riparazione ai sensi
della L. 24 marzo 2001, n. 89, qualora la parte costituita in giudizio sia deceduta nel corso di un processo avente una durata
irragionevole, l’erede ha diritto al riconoscimento dell’indennizzo “iure proprio” soltanto per il superamento della predetta durata verificatosi con decorrenza dal momento in cui, con la costituzione in giudizio, ha assunto a sua volta la qualità di parte;
non assume, infatti, alcun rilievo, a tal fine, la continuità della
sua posizione processuale rispetto a quella del dante causa,
prevista dall’art. 110 c.p.c., in quanto il sistema sanzionatorio
delineato dalla Cedu e tradotto in norme nazionali dalla L. n.
89 del 2001 non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di san-
zioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto
danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito, il quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida
conclusione (in senso conforme v., da ultimo, Cass. n. 4003
del 2014). Del resto, in termini analoghi circa l’essenzialità della costituzione dell’erede come condizione per far valere la sofferenza morale dipendente dalla ingiustificata durata del processo, si è espressa anche la II Sez. della Cedu con la sentenza
- di irricevibilità - del 18 giugno 2013 (in causa Fazio e altri c.
Italia), in cui si è statuito che la qualità di erede di una parte
nel procedimento presupposto non conferisce, di per sé, il diritto a considerarsi vittima della, eventualmente maturata, durata eccessiva del medesimo e che l’interesse dell’erede alla
rapida conclusione della causa è difficilmente conciliabile con
la sua mancata costituzione nello stesso, dato che solo attraverso l’intervento nel procedimento l’avente diritto ha l’opportunità di partecipare e di influire sul suo esito.
(13) V., da ultimo, in senso conforme alla sentenza oggetto
di commento, Cass. n. 6186 del 2015.
(14) Già fatto proprio, ad es., da Cass. n. 17111 del 2005 e
da Cass. n. 7024 del 2012.
(15) Sotto un’altra angolazione, le medesime Sezioni Unite
- con la sent. n. 19977 del 2014 - hanno stabilito che, sempre
ai fini dell’applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, il termine
ragionevole di durata del processo penale decorre per gli eredi
della persona offesa dal reato deceduta, costituitasi parte civile, da quando gli stessi hanno avuto conoscenza del procedimento, in quanto solo da tale momento insorgono per essi il
patema e l’interesse ad una rapida soluzione della controversia, sicché, in mancanza di prova di detta circostanza, il computo ha inizio dalla data del loro intervento in giudizio.
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Accesso al pubblico impiego dello straniero extracomunitario
Cassazione Civile, Sez. lav., 2 settembre 2014, n. 18523 - Pres. Macioce - Rel. Ghinoy - P.M.
Servello (conf.) - T.A. (avv. Consoli) c. Ministero dell’Economia e delle finanze (Avvocatura generale dello Stato)
Va esclusa l’esistenza di un principio generale di ammissione dello straniero extracomunitario al lavoro pubblico (e deve perciò ritenersi tuttora validamente richiesto il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso
al pubblico impiego) e tale esclusione non determina una pratica discriminatoria, realizzando una mera restrizione dell’accesso all’occupazione, né si pone in contrasto con la normativa costituzionale, che fissa al legislatore ampio margine di discrezionalità per contemperare, in tema di accesso al lavoro, opposte esigenze tutte
costituzionalmente rilevanti.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. 13 novembre 2006, n. 24170.
Difforme
Ex multis Trib. Firenze 23 gennaio 2014.
Svolgimento del processo
T.A., cittadina albanese regolarmente soggiornante in
Italia, invalida con totale e permanente inabilità lavorativa iscritta nell’elenco degli invalidi civili di cui all’art. 8, comma 2 L. n. 68 del 1999, dal 3 maggio 2005,
proponeva ricorso al Tribunale di Firenze ai sensi dell’art. 44 del D.Lgs. n. 286 del 1998, dell’art. 4 del
D.Lgs. n. 215 del 2003, e dell’art. 702 bis c.p.c., chiedendo che fosse accertata la natura discriminatoria del
comportamento tenuto dal Ministero dell’Economia e
delle Finanze che aveva indetto un concorso con avviso
del 30 novembre 2011 per l’assunzione a tempo indeterminato di cinque lavoratori disabili per la copertura dei
posti vacanti presso gli uffici dell’Amministrazione
autonoma Monopoli di Stato, riservando la partecipazione ai soli cittadini italiani e comunitari.
Chiedeva pertanto di ordinare al Ministero di cessare il
comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti, modificando l’avviso in oggetto nella parte in cui
non consentiva la sua partecipazione alla selezione in
condizioni di parità con i cittadini italiani e di fissare
nuovo termine per la presentazione delle domande di
ammissione.
Omissis.
Motivi della decisione
Omissis.
II. Esame dei motivi di ricorso
1. La questione se il requisito della cittadinanza per gli
impieghi pubblici debba ritenersi abrogato, fatta eccezione per gli impieghi costituiti per lo svolgimento di
funzioni pubbliche essenziali, oggetto di causa, è stata
già affrontata e risolta in senso negativo nella sentenza
di questa Corte Sez. Lav., n. 24170 del 2006. In quella
sede, la Corte ha affermato che il diritto positivo esprime la regola dell’esclusione dello straniero extracomunitario dal lavoro pubblico, con salvezza delle eccezioni
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previste dalla legge, regola non sospettabile di illegittimità costituzionale.
A tale conclusione occorre dare continuità, pur nella
consapevolezza dell’evoluzione sociale che porta alla
tendenziale omogeneizzazione a fini giuridici delle etnie
e cittadinanze ed alla progressiva attenuazione della rilevanza dell’appartenenza nazionale a scapito di organismi sovranazionali, dovendosi prendere atto che essa è
frutto di una scelta politica tutt’ora espressa nella legislazione vigente, che non contrasta con la normativa
nazionale ed i principi sovranazionali richiamati dalla
parte ricorrente.
2. La norma da cui occorre prendere le mosse è l’art.
38, D.Lgs. n. 165 del 2001, che nel testo originario ai
primi due commi prevedeva quanto segue: “1. I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di
pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale. 2. Con decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 17 L. 23 agosto
1988, n. 400, e successive modificazioni ed integrazioni,
sono individuati i posti e le funzioni per i quali non può
prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana,
nonché i requisiti indispensabili all’accesso dei cittadini
di cui al comma 1”.
La disposizione estendeva quindi l’accesso agli impieghi
presso le pubbliche amministrazioni ai cittadini comunitari, salvo, per questi ultimi, le eccezioni che sono state previste dall’art. 2 D.P.C.M. n. 174 del 1994.
3. La disposizione si coordina con il successivo art. 70,
comma 13 a mente del quale “In materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina
prevista dal D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, e successive
modificazioni ed integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli artt. 35 e 36, salvo che
la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi
previsti, nell’ambito dei rispettivi ordinamenti”. Tale
D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 - Regolamento recante
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norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi,
dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei
pubblici impieghi - all’art. 2, comma 1, n. 1 prevede poi
che possono accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni i cittadini italiani, specificando poi
che “tale requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve le eccezioni di
cui al D.P.C.M. 7 febbraio 1994, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 1994, serie generale n.
61”.
Le norme fin qui indicate si applicano anche ai cittadini extracomunitari e agli apolidi che abbiano ottenuto
in Italia il riconoscimento dello status di rifugiato: l’art.
25, comma 2, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, consente infatti al titolare dello status di rifugiato l’accesso
al pubblico impiego, con le modalità e le limitazioni
previste per i cittadini dell’Unione europea.
Il coordinato disposto dalle disposizioni richiamate supera, a seguito dei vincoli imposti dalla normativa comunitaria, la più restrittiva previsione contenuta nel
D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello
Stato, che all’art. 2 pone la cittadinanza italiana come
requisito generale per l’accesso agli impieghi civili dello
Stato, senza riferimento ai cittadini dell’UE, ma mantiene l’esclusione per gli stranieri extracomunitari, che
non vengono contemplati tra i legittimati.
4. Sull’art. 38 sopra riportato è intervenuta la L. 6 agosto 2013, n. 97, recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia
all’Unione Europea - Legge Europea 2013”, che con
l’art. 7, comma 1, lett. a), ne ha modificato il comma 1
nei termini che seguono: “I cittadini degli Stati membri
dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del
diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto
o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. La stessa legge ha aggiunto il comma 3 bis, che prevede che le disposizioni
di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano ai cittadini di Paesi
terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per
soggiornanti di lungo periodo (così ulteriormente modificata la dizione “permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo” dall’art. 3, comma 1 D.Lgs. 13
febbraio 2014, n. 12) o che siano titolari dello status di
rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria.
Analoga modifica è stata apportata al citato art. 25 del
D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251.
Il legislatore con il recente intervento ha quindi ampliato l’accesso ai pubblici impieghi solo a determinate
categorie di cittadini extracomunitari, allo scopo di ricomprendervi i soggetti direttamente garantiti dalle direttive comunitarie (v. le direttive nn. 2004/38,
2004/83, 2003/109). Il riferimento solo ad alcune categorie di stranieri ammessi al pubblico impiego, a parità
con il cittadino dell’Unione Europea, manifesta la persistente volontà del legislatore di escludere le ulteriori ca-
1542
tegorie di cittadini extracomunitari non espressamente
contemplati.
5. La limitatezza dell’intervento normativo è stata stigmatizzata da alcuni ordini del giorno presentati in occasione della nuova formulazione dell’art. 38 D.Lgs. n.
165: l’o.d.g. presentato dai deputati G., M., Gu. ed altri
n. 9/1327/7, accolto dal Governo, si concludeva con
l’impegno del Governo “a valutare la possibilità di fornire, in sede di applicazione delle disposizioni contenute
nel disegno di legge in esame, un’interpretazione costituzionalmente orientata di tali disposizioni che espliciti
definitivamente la parificazione, ai fini dell’accesso al
pubblico impiego, tra il cittadino straniero legalmente
soggiornante in Italia per motivi che consentono lo
svolgimento di attività lavorativa e il cittadino dell’Unione europea” e quello presentato dai deputati U.,
D.P., B. ed altri n. G7.100, non posto in votazione ma
accolto dal Governo come raccomandazione, impegnava l’esecutivo “a fare chiarezza, con estrema urgenza, su
tale materia, anche intervenendo con un’interpretazione autentica che espliciti che, ai lavoratori dei paesi
terzi, regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale
e titolari di permesso di soggiorno, occorre garantire parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto
ai lavoratori italiani, secondo le norme espressamente
previste ai sensi deli commi 2 e 3 D.Lgs. n. 286 del
1998 “; gli intenti non si sono tuttavia tradotti allo stato in un intervento sostanzialmente modificativo di carattere normativo.
6. La restrizione sopra rilevata non è in contrasto con la
normativa nazionale in tema di accesso al lavoro dei lavoratori extracomunitari, che trova la sua essenziale disciplina nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.
Detto Testo unico infatti all’art. 2, comma 3 prevede
che “La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell’OIL n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata
con L. 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena
uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani”, ma
la disposizione espressamente ha ad oggetto la condizione del “lavoratore” ovvero della persona già occupata, senza preoccuparsi delle condizioni di accesso al lavoro.
Di tali situazioni invece si occupa l’art. 27 che, nell’ambito del titolo III che raccoglie la disciplina del lavoro
dei cittadini stranieri extracomunitari, al terzo comma,
nell’elencare le attività che possono essere svolte in Italia e che non rientrano nel cosiddetto decreto-flussi afferma, quale norma di chiusura, che rimangono ferme le
disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza
italiana per lo svolgimento di determinate attività.
Lo stesso Testo Unico manifesta peraltro e legittima
l’esistenza di limitazioni per l’accesso a determinate categorie di impieghi. L’art. 26 liberalizza infatti l’accesso
al lavoro autonomo, ma a condizione che l’esercizio di
tali attività non sia riservato dalla legge ai cittadini
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italiani o a cittadini di uno degli Stati membri dell’UE. L’art. 27 rinvia al regolamento di attuazione la
disciplina di particolari modalità per il rilascio delle
autorizzazioni al lavoro, dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato per alcune
categorie di lavoratori stranieri specificamente individuate, tra cui i lettori universitari di madre lingua, che
appunto vengono assunti prescindendo dal requisito
della cittadinanza e al comma 1, lett. r-bis, inserita
dall’art. 22, comma 1, lett. a), L. 30 luglio 2002, n.
189, ha aggiunto alle tipologie di lavoratori già previste la categoria degli infermieri professionali, da assumersi con contratto di lavoro subordinato presso strutture sanitarie pubbliche e private. L’art. 37, poi, che
consente l’iscrizione agli Ordini o Collegi professionali
o negli elenchi speciali agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia in possesso dei titoli riconosciuti,
sottolinea esplicitamente che ciò avviene in deroga al
requisito della cittadinanza.
Ne discende che tale normativa non può sorreggere la
tesi dell’esistenza di un principio generale di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico.
Inoltre, l’art. 43, in tema di “Discriminazione per motivi
razziali, etnici, nazionali o religiosi”, al comma 2, lett.
c) prevede che compie un atto di discriminazione
“chiunque illegittimamente imponga condizioni più
svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi
sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente
soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità”, in tal modo
qualificando discriminante non la restrizione dell’accesso all’occupazione tout court, ma solo quella che si configuri come illegittima, e quindi contraria alla normativa di legge.
7. Deve altresì dissentirsi dall’assunto secondo cui la
norma sulla cittadinanza, vigente formalmente, sarebbe
contrastante con un principio generale ormai acquisito
dall’ordinamento nella parte in cui accorda la tutela antidiscriminatoria. Il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e
dall’origine etnica, dispone in effetti all’art. 3 che “Il
principio di parità di trattamento senza distinzione di
razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia
nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale, secondo le forme previste dall’art. 4,
con specifico riferimento, tra l’altro (lett. a)) all’accesso
all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione. La disposizione però al comma 4 aggiunge che
“Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione
ai sensi dell’art. 2 quelle differenze di trattamento che,
pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite
attraverso mezzi appropriati e necessari”, ed all’art. 2,
comma 2 richiama espressamente il disposto dell’art.
43, commi 1 e 2, T.U. n. 286 del 1998, sopra esamina-
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to, che vieta le discriminazioni in tema di accesso al lavoro se ed in quanto illegittime.
La disciplina richiamata conferma quindi in sostanza
che la discriminazione è comportamento illecito, non
configurabile se tenuto in esecuzione di disposizioni
normative.
8. Il sistema desumibile dal complesso normativo sopra
delineato non si pone neppure in contrasto con la normativa costituzionale.
Come già affermato nella sentenza n. 24170 del 2006
sopra richiamata, non vi è dubbio che, tra gli aspetti
giuridici dell’immigrazione extracomunitaria, la materia dell’accesso al lavoro si colloca nel quadro di regole
di convivenza fra immigrati e cittadini, ovvero in quel
complesso di norme che afferiscono al godimento dei
diritti fondamentali. In questo ambito il diritto al lavoro (sancito dall’art. 4 Cost.) è esso stesso diritto soggettivo, e comprende tanto la facoltà di scelta ed esercizio dell’attività professionale (offerta della forza-lavoro), quanto la possibilità di soddisfare il bisogno di
accesso alle occasioni di lavoro (domanda della forzalavoro).
Il diritto al lavoro garantito dall’art. 4 Cost. costituisce
tuttavia garanzia che la legislazione ordinaria, in modo
non arbitrario e rispettoso dei valori costituzionali, ha
il potere di precisare, richiedendo per talune attività
lavorative particolari condizioni e requisiti per la tutela di altri interessi parimenti meritevoli di considerazione (cfr., tra le numerose, Corte cost. 441/2000). Ed
in effetti, il lavoro pubblico subordinato, anche quello
reso “contrattuale” dalla informa attuata dalle norme
ora raccolte nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (che implica, al pari di quello in regime di diritto pubblico, la
possibilità del conferimento della titolarità di funzioni
pubbliche), costituisce una species del lavoro subordinato contrassegnato da elementi di peculiarità, di cui i
principali sono posti dagli artt. 97 e 98 Cost. e che sono la necessità del concorso pubblico (salvo le deroghe
previste dalla legge) ed il principio secondo cui gli impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione (in tema di perdurante specialità del lavoro pubblico, pur
dopo la cd. contrattualizzazione, si vedano, in particolare, Corte cost. 313/1996; 309/1997,
89/2003,199/2003).
Vi è poi da considerare l’art. 51 Cost., secondo cui tutti
i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Si ritiene generalmente che
l’intento dei costituenti fu di garantire che i fini pubblici fossero perseguiti e tutelati nel migliore dei modi, e
di puntare per questo sui cittadini, nei quali si riteneva
esistente una naturale compenetrazione dei fini personali in quelli pubblici; nondimeno, la formulazione della norma sembra offrire spunti per una lettura restrittiva
del riferimento agli “uffici pubblici”, limitata cioè all’esercizio di attività autoritative. Ma, anche ad accettare
questa lettura riduttiva, sono le altre norme costituzionali sopra richiamate ad offrire sufficiente copertura alla
disciplina ordinaria preclusiva dell’accesso al lavoro
pubblico dei cittadini extracomunitari, nell’ambito di
1543
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una scelta che qualifica speciale il lavoro pubblico e lo
assoggetta a regolamentazione particolare.
Nell’ordinanza n. 139 del 2011 richiamata dalla ricorrente la Corte Costituzionale non ha peraltro imposto
l’interpretazione favorevole all’accesso al pubblico impiego dei lavoratori extracomunitari regolarmente soggiornanti, ma ha provveduto a dichiarare la questione
prospettata dal giudice a quo manifestamente inammissibile in quanto diretta del tutto impropriamente ad ottenere dalla Corte un avallo dell’interpretazione già ritenuta dal rimettente come preferibile e costituzionalmente adeguata.
La precedente sentenza n. 454 del 1998 inoltre non si è
occupata dell’impiego dei lavoratori extracomunitari alle dipendenze della Pubblica amministrazione, ma ha affermato che dalle disposizioni legislative in vigore si
trae la conclusione, costituzionalmente corretta, della
spettanza ai lavoratori extracomunitari, aventi titolo
per accedere al lavoro subordinato stabile in Italia in
condizioni di parità con i cittadini, e che ne abbiano i
requisiti, del diritto ad iscriversi negli elenchi di cui alla
L. n. 482 del 1968, art. 19 ai fini dell’assunzione obbligatoria. Da tale iscrizione però - di cui è titolare la signora T. - non discende automaticamente, alla stregua
delle esposte considerazioni, il possesso dei requisiti per
l’accesso a qualunque impiego, e quindi anche a quello
offerto dalle pubbliche amministrazioni.
Deve quindi concludersi che, diversamente da quanto
avviene in tema di provvidenze assistenziali (in ordine
alle quali la Corte Costituzionale con numerose sentenze - n. 306 del 2008, n. 11 del 2009, n. 187 del 2010, n.
329 del 2011 - ha rimosso significativi ostacoli che ne
impedivano la fruizione da parte degli extracomunitari
legalmente soggiornanti nel territorio nazionale), in tema di accesso al lavoro è lasciata al legislatore una più
ampia possibilità di contemperare opposte esigenze tutte
costituzionalmente rilevanti. Se, quindi, nel lavoro privato opera pienamente la parità di trattamento tra cittadini italiani, comunitari ed extracomunitari, con riguardo agli impieghi pubblici trova spazio la valutazione
della particolarità e delicatezza della funzione svolta alle
dipendenze dello Stato (ed in particolare, nel caso in
esame, del Ministero dell’Economia e delle Finanze che
gestisce uno degli aspetti peculiari ed individualizzanti
della politica nazionale), differenze che tutt’ora giustificano la preferenza per i cittadini italiani e, in virtù del
particolare legame internazionale che lega l’Italia agli
altri paesi della UE, per quelli comunitari e ad essi equiparati.
9. Neppure dalla richiamata normativa sovranazionale,
sia nella sua diretta precetti vita che nella sua funzione
di vincolo interpretativo di quella nazionale, può desumersi un vincolo per la totale assimilazione dei cittadini
extracomunitari a quelli nazionali e comunitari per l’assunzione nell’impiego pubblico.
La Convenzione OIL sui lavoratori migranti n. 143 del
1975 del 1975, che all’art. 10 prevede che “Ogni
Membro per il quale la convenzione sia in vigore s’impegna a formulare e ad attuare una politica nazionale
diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti al-
1544
le circostanze ed agli usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di
professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e
culturali, nonché di libertà individuali e collettive per
le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio”, costituisce norma programmatica che deve, per
trovare attuazione, essere trasfusa nella legislazione nazionale. Peraltro, il successivo art. 14, lett. e) consente
agli Stati aderenti alla convenzione di respingere l’accesso a limitate categorie di occupazione e di funzioni
qualora tale restrizione sia necessaria nell’interesse dello Stato.
10. La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, poi, prevede
all’art. 14 sotto la rubrica “Divieto di discriminazione”,
che dev’essere assicurato senza nessuna discriminazione
il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella
Convenzione stessa, ma non nomina tra tali diritti quello all’accesso al lavoro.
11. Occorre poi rilevare che anche la normativa comunitaria, pur con le limitazioni che pone per gli stati
membri, riconosce la peculiarità dell’impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione, tanto che l’art.
45 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea
(art. 45 TFUE, già art. 39 TCE) nel sancire il principio
della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione europea, prevede al suo quarto comma un’eccezione relativamente “agli impieghi nella pubblica amministrazione”.
Analogamente, l’art. 51, comma 1, TFUE (ex art. 45,
comma 1, Trattato CE) dispone che le norme in materia di diritto di stabilimento non trovano applicazione
alle “attività che in tale Stato partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri”.
12. Né, ancora, impone una diversa soluzione la Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che all’art. 15 sotto la rubrica “libertà professionale e diritto
di lavorare” fa riferimento ai cittadini dei paesi terzi, dicendo che quelli che “sono autorizzati a lavorare nel
territorio degli stati membri hanno diritto a condizioni
di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini
dell’unione”, senza però pronunciarsi sulle condizioni
del loro accesso al lavoro ed all’art. 21, pur vietando
qualsiasi forma di discriminazione, al comma 2 fa riferimento al divieto di discriminazione basato sulla nazionalità, precisando che esso opera “Nell’ambito d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche
in essa contenute”.
13. Quanto infine alla lamentata violazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, si
rileva che la censura non è pertinente alla ratio decidendi adottata dalla Corte d’appello, considerato che nel
caso di specie non viene in discussione il diritto delle
persone disabili ad essere impiegate nel settore pubblico, e che anzi il concorso cui la signora T. chiedeva
l’ammissione era proprio diretto ad assumere cinque lavoratori disabili. L’esclusione non è quindi avvenuta in
ragione della disabilità, che anzi costituiva condizione
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di ammissione, ma della mancanza del prescritto requisito della cittadinanza.
3. Conclusioni.
In definitiva, in assenza di alcun riscontro normativo
della tesi che sostiene l’esistenza di un principio genera-
le di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico, il ricorso dev’essere rigettato.
(omissis).
Stranieri extracomunitari e inserimento
presso le Pubbliche amministrazioni
di Anna Montanari
La Corte di cassazione fissa un punto di approdo dirimente i contrasti interpretativi in materia di
accesso all’impiego pubblico dello straniero extracomunitario, affermando, in continuità con la
pronuncia n. 24170 del 2006, l’inesistenza nell’ordinamento di un generale principio di ammissione al lavoro presso le pubbliche amministrazioni dei cittadini di Paesi terzi.
Premessa
La pronuncia qui pubblicata offre l’occasione per
fare il punto sulla questione della possibilità di accesso agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni degli stranieri regolarmente soggiornanti nel
nostro paese. La tematica non è di poco conto, sia
per la sempre più consistente presenza di immigrati
nel nostro Paese, sia per l’incertezza e la frammentarietà che connotano il relativo quadro normativo, amministrativo e giurisprudenziale (1).
Il quadro normativo
L’art. 2 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (T.U.
delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), recependo il principio di
cui all’art. 51 Cost., indica fra i requisiti generali
per l’ammissione ai pubblici uffici, quello del possesso della cittadinanza italiana.
Tale regola fu temperata per i cittadini degli Stati
membri dell’UE, ai quali l’art. 37 del D.Lgs. n. 29
del 1993, corrispondente all’attuale art. 38, D.Lgs. n
165/2001, riconobbe il diritto ad accedere ai posti
di lavoro nella pubblica amministrazione, limitata(1) Sulla questione v. il saggio di E. Signorini, L’accesso al
pubblico impiego dei cittadini extracomunitari, in Lav. giur.,
2007, 7, 656 ss.
(2) Si tratta del Regolamento recante norme sull’accesso dei
cittadini degli Stati membri dell’UE ai posti di lavoro presso le
amministrazioni pubbliche. I posti delle amministrazioni pubbliche per l’accesso alle quali non si può prescindere dal possesso
della cittadinanza italiani sono: a) i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell’art. 6, D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29,
nonché i posti dei corrispondenti livelli delle altre pubbliche amministrazioni; b) i posti con funzioni di vertice amministrativo
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mente però alle sole posizioni non implicanti esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non
attinenti alla tutela dell’interesse nazionale. Le posizioni destinate esclusivamente ai cittadini italiani
furono individuate con D.P.C.M. 7 febbraio 1994,
n. 174 (2). Sempre negli anni novanta fu emanato
un Regolamento sulle norme per l’accesso al lavoro
pubblico e sulle modalità di svolgimento dei concorsi (d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487), che all’art. 2
annoverava la “cittadinanza italiana” tra i requisiti
generali per accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni, requisito non richiesto per i
cittadini comunitari, per i quali rimanevano comunque valide le limitazioni imposte dal D.P.C.M. n.
174. Alle disposizioni di rango regolamentare si riferisce attualmente l’art. 70, comma 13, D.Lgs. n. 165
del 2001, quando recita che “In materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la
disciplina prevista dal decreto del Presidente della
Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, e successive modificazioni ed integrazioni […]”.
Ad una prima lettura, il quadro normativo fin
qui prospettato sembrerebbe univoco verso il riconoscimento di una limitazione all’accesso all’impiego pubblico per il soggetto sprovvisto di cittadidelle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello
Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non
economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e
della Banca d’Italia; c) i posti dei magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, nonché i posti degli avvocati e procuratori dello Stato; d) i posti dei ruoli civili e militari della Presidenza
del Consiglio dei Ministri, del Ministero degli affari esteri, del Ministero dell’interno, del Ministero di grazia e giustizia, del Ministero della difesa, del Ministero delle finanze e del Corpo forestale dello Stato, eccettuati i posti a cui si accede in applicazione dell’art. 16 della L. 28 febbraio 1987, n. 56.
1545
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nanza italiana o europea (3). È opportuno, tuttavia,
considerare che nel nostro ordinamento giuridico,
vige un generale principio di parità di trattamento
e piena uguaglianza di diritti tra tutti i lavoratori
stranieri regolarmente soggiornanti (e le loro famiglie) e i lavoratori italiani, sancito, in attuazione
della Convezione OIL n. 143 del 1975, dall’art. 2,
comma 3, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (c.d. Testo
unico delle disposizioni sull’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero - T.U. sull’immigrazione). Nel Testo unico si provvede, altresì a
definire, all’art. 43, comma 1, la nozione di discriminazione, individuandola in “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti
una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza
basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine
nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo
politico, economico, sociale e culturale e in ogni
altro settore della vita pubblica”.
Sulla base di queste due previsioni sembrerebbe
possibile affermare l’esistenza di un obbligo di pari
trattamento tra straniero ed autoctono anche per
quanto concerne l’ammissione al lavoro, compreso
quello presso le pubbliche amministrazioni. Sennonché, in altra parte dello stesso provvedimento
del 1998, precisamente nel Tit. III dove è dettata
la disciplina specifica dell’ingresso e soggiorno per
lavoro dei cittadini extracomunitari, si precisa che,
in caso di ingresso per lavoro in casi particolari (si
tratta degli ingressi di stranieri extracomunitari
autorizzati al di fuori del sistema delle quote annualmente fissate), rimangono valide le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività
(art. 27, comma 3).
In tale confuso contesto normativo due sono le
correnti interpretative che si sono formate: l’una
favorevole ad un allargamento ai cittadini extracomunitari del mercato del lavoro pubblico, l’altra
contraria.
Lo spartiacque è identificabile nella diversa considerazione ed importanza del ruolo del principio
di parità di trattamento (4) sancito dall’art. 2, comma 3, T.U. sull’immigrazione, così come interpretato dalla Corte cost. nella sent. n. 454 del
1998 (5). In tale pronuncia la Corte, nel riconoscere agli stranieri il diritto all’iscrizione al collocamento obbligatorio, individua nella parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti dei cittadini
extracomunitari e apolidi rispetto ai lavoratori italiani e comunitari, il cardine di tutta la normativa
in materia di immigrazione, precisando, altresì che
la parità trova automatica applicazione non solo
nella fase di svolgimento del rapporto, ma anche
nei canali di accesso al lavoro e nelle relative forme di sostegno. La Corte enuncia altresì la regola
di diritto per cui, per introdurre una restrizione a
tale principio sarebbe necessario ritrovare una norma che «esplicitamente o implicitamente, neghi ai
lavoratori extracomunitari, in deroga alla “piena
uguaglianza”, il diritto in questione».
La tesi che ammette gli extracomunitari agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni viene
avvalorata per lo più dalla giurisprudenza di merito (6), che si esprime uniformemente in favore della piena parità di trattamento, ritenendo che dell’art. 70, comma 13, D.Lgs. n. 165/2001 - che, come visto sopra, fa esplicito rinvio alla fonte regolamentare che richiede il requisito della cittadinanza
italiana - si debba dare una interpretazione costituzionalmente conforme con la prescrizione paritaria
dell’art. 2, D.Lgs. n. 286/1998.
(3) Si precisa che l’art. 38, D.Lgs. n. 165/2001, nella versione attualmente in vigore, estende l’accesso agli impieghi pubblici anche ai familiari dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea non aventi la cittadinanza di uno Stato membro
che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, nonché ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo
periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello
status di protezione sussidiaria.
(4) Sul principio di parità di trattamento ex art. 2, D.Lgs. n.
286/1998 v. L. Castelvetri, Parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti dello straniero, in G. Dondi (a cura di), Il lavoro
degli immigrati, Milano, 2003, 73 ss.
(5) Corte cost. 30 dicembre 1998, n. 454, in Dir. merc. lav.,
1999, 362 ss., con nota di A. Trojsi, Lavoratori extracomunitari,
parità di trattamento e diritto all’avviamento obbligatorio; in Riv.
crit. dir. lav., 1999, 277 ss., con nota di A. Guariso, Sul principio
di parità di trattamento tra lavoratori italiani ed extracomunitari; in Giur. cost., 1999, 381 ss., con nota di G. Bascherini, Verso
una cittadinanza sociale?
(6) V. Trib. Firenze 23 gennaio 2014, in Riv. giur. lav., 2015,
III, con nota di C. Spinelli, L’accesso degli stranieri al pubblico
impiego e al servizio civile nazionale tra norme e giurisprudenza;
Trib. Milano 11 gennaio 2010, in Dir. imm. citt., 2009, n. 4,
1102; App. Firenze 28 novembre 2008, in Dir. imm. citt., 2009,
311 con nota di C. Giovannelli, Discriminazione per nazionalità
ed accesso ai pubblici impieghi di natura flessibile; Trib. Bologna
25 ottobre 2007; Trib. Perugia 29 settembre 2006, in Lav. giur.,
2007, 7, 656; Trib. Genova, ord. 21 aprile 2004, in Dir. imm.
citt., 2004, 172 ss., con nota di M. Paggi, Discriminazione e accesso al pubblico impiego; vedi anche T.A.R. Liguria, Sez. II, 13
aprile 2001, n. 3999, in Riv. crit. lav., 2001, 643 ss., con nota di
A. Guariso, Un passo (forse) decisivo verso la parità tra europei
ed extracomunitari nell’accesso al pubblico impiego.
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Il quadro giurisprudenziale
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Diversamente altra parte della giurisprudenza,
prevalentemente amministrativa (7), ha sostenuto
la supremazia delle disposizioni che impongono il
requisito della cittadinanza italiana (o di uno Stato
membro dell’UE) per l’accesso al pubblico impiego,
sul principio di parità di trattamento (8). Alcuni
giudici amministrativi fondano il proprio ragionamento sull’art. 38 del D.Lgs. n. 165 del 2001, ritenendo che esso configuri quella norma che esplicitamente o implicitamente, nega ai lavoratori extracomunitari, in deroga alla “piena uguaglianza”, il
diritto in questione e che, nel ragionamento della
Corte costituzionale (v. sent. 30 dicembre 1998, n.
454) rappresenterebbe il limite all’estensione del
principio di parità (9).
Questa impostazione ha trovato riscontro anche
in una significativa pronuncia della Corte di Cassazione. La S.C., con sent. n. 24170 del 2006 (10)
ha, infatti, affermato che i cittadini extracomunitari residenti in Italia non hanno diritto ad essere assunti dalla pubblica amministrazione, anche se sono disabili.
Due le principali argomentazioni svolte dai giudici di legittimità: da un lato la perdurante vigenza
del requisito della cittadinanza italiana, fissato dall’art. 2 T.U. del 1957 (11) - il cui fondamento si
rinviene nell’art. 51 Cost. -, che trova solo alcune
sporadiche deroghe (12); dall’altro la prevalenza,
sull’art. 2, D.Lgs. n. 286 del 1998, delle disposizioni
di rango regolamentare del d.P.R. n. 487/1994, dal
momento che esse sono state “legificate”, ossia richiamate all’interno di un testo normativo successivo al D.Lgs. n. 286 (in particolare nell’art. 70,
comma 13, D.Lgs. n. 165 del 2001).
La sentenza della Cass. n. 18523 del 2014
La sentenza in commento si pone in assoluta
continuità con la precedente decisione n. 24170
(7) T.A.R. Toscana, Sez. II, 14 ottobre 2005, n. 4689, in Foro
Amm. TAR, 2005, 3147; T.A.R. Veneto 25 marzo 2004, n. 782;
T.A.R. Toscana, Sez. II, 24 gennaio 2003, n. 38.
(8) T.A.R. Toscana, Sez. II, 24 gennaio 2003, n. 38, cit.
(9) T.A.R. Toscana, Sez. II, 14 ottobre 2005, n. 4689, cit.
(10) V. Cass., Sez. lav., 13 novembre 2006, n. 24170, in Riv.
it. dir. lav., 2007, II, 302 con nota di F. Agostini, Il cittadino straniero extracomunitario non può accedere all’impiego pubblico;
in Lav. giur., 2007, 2, 135, con nota di F. Di Pietro, Stranieri ed
accesso al pubblico impiego. Oggetto della controversia era il
ricorso di un cittadino albanese, che aveva ritenuto discriminatorio, in quanto fondato sulla cittadinanza del richiedente, il rifiuto opposto da un’amministrazione provinciale, di procedere
all’iscrizione nelle liste riservate ai disabili per l’accesso anche
al lavoro presso le pubbliche amministrazioni, ai sensi della L.
n. 68 del 1999.
(11) In tal senso si è espresso anche il Dipartimento della
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del 2006 della Corte di cassazione, nel riconoscere
la persistente presenza, nel diritto positivo, della
regola dell’esclusione dello straniero extracomunitario dal lavoro pubblico, nonostante l’evoluzione
sociale conduca alla “tendenziale omogeneizzazione
a fini giuridici delle etnie e cittadinanze ed alla
progressiva attenuazione della rilevanza dell’appartenenza nazionale a scapito di organismi sovranazionali”.
La decisione prende le mosse dall’art. 38 del
D.Lgs. n. 165/2001, il quale è stato recentemente
modificato ad opera della L. 6 agosto 2013, n. 97
(Legge europea 2013) che ha provveduto ad estendere ai familiari extracomunitari dei cittadini comunitari, titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, nonché ai cittadini
di Paesi terzi che godono dello status di soggiornanti di lungo periodo (13) o che siano titolari dello
status di rifugiato ovvero dello status di protezione
sussidiaria, la possibilità di “accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non
implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici
poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. Con tale intervento, secondo la
Corte, il legislatore italiano ha inteso ampliare il
novero di coloro che, pur privi della cittadinanza
italiana ed europea, sono ammessi al pubblico impiego (includendo, in particolare, quelli che sono
tutelati dalle direttive comunitarie: familiari, rifugiati, cittadini titolari di permesso di soggiorno di
lungo periodo) ma, nello stesso tempo, riferendosi
solo ad alcune categorie, ha manifestato la costante volontà di escludere altre tipologie di cittadini
di Paesi terzi non espressamente contemplati.
Questa restrizione, continua il Supremo Collegio, è legittima, non risultando in contrasto con la
normativa vigente.
I limiti di accesso, infatti, risultano conformi alla
disciplina del D.Lgs. n. 286 del 1998, dal momento
funzione pubblica nel parere n. 196 del 2004.
(12) Si pensi a quella ricavabile dall’art. 27, comma 1, lett. r
bis), T.U. sull’immigrazione, il quale ha espressamente previsto
la possibilità di assunzione, a tempo determinato, degli infermieri professionali da parte di strutture anche pubbliche.
(13) Questa condizione si acquisisce a seguito della stipula
del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo (ex carta di
soggiorno). Si tratta di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato che viene rilasciato allo straniero in possesso di
un permesso di soggiorno in corso di validità da almeno cinque anni e che può dimostrare la disponibilità di un reddito minimo non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e
che non è pericoloso per l’ordine pubblico o la sicurezza dello
Stato; il rilascio è altresì subordinato al superamento, da parte
del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana
(v. art. 9, D.Lgs. n. 286 del 1998).
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che il principio paritario in esso stabilito, ad opinione dei giudici, non dovrebbe attivarsi nel momento dell’accesso al lavoro dello straniero (che, si
rammenta, è strettamente connesso all’ingresso regolare nel territorio dello Stato), ma nei confronti
di chi è già lavoratore, ossia di colui già occupato.
Con riferimento specifico all’accesso al lavoro, poi,
l’art. 27 T.U. immigrazione fa salve le disposizioni
che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività.
Né è rilevabile un contrasto tra la norma sulla
cittadinanza e i principi generali in materia di tutela antidiscriminatoria: l’art. 3 del D.Lgs. n.
215/2003 (14), infatti, dopo aver affermato il principio di parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica,
ammette (al comma 4) che quelle differenze di
trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, sono giustificate oggettivamente da
finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari, non costituiscono atti di discriminazione; in sostanza pur essendo la discriminazione un comportamento illecito, essa non è riscontrabile se tenuta in esecuzione di disposizioni
normative.
Parimenti il sistema delle limitazioni per gli stranieri extracomunitari non è in contrasto con la disciplina costituzionale. Sul punto, i giudici optano
per chiamare in causa il diritto al lavoro, previsto
dall’art. 4 Cost., e rammentano che esso garantisce
alla legislazione ordinaria il potere di precisare la
materia, richiedendo per talune attività lavorative
particolari condizioni e requisiti per la tutela di altri interessi meritevoli di considerazione (15). In
particolare il lavoro pubblico subordinato, anche
dopo la contrattualizzazione, attuata da ultimo con
il D.Lgs. n. 165 del 2001, risulta essere una species
del genus lavoro subordinato, contrassegnata da
elementi di peculiarità, quali il principio della necessità del concorso pubblico per l’accesso al lavoro
(art. 97 Cost.) e quello per cui gli impiegati sono
al servizio della Nazione (art. 98 Cost.).
Anche la Corte costituzionale non ha mai imposto una interpretazione favorevole all’estensione
dell’accesso al pubblico impiego dei cittadini non
comunitari: non lo ha fatto nell’ordinanza n. 139
del 2011, con la quale è stata respinta, per manifesta inammissibilità, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 1, D.Lgs. n.
165/2001 nella parte in cui, contrariamente a
quanto previsto per i cittadini comunitari, “non
consente di estendere l’accesso ai posti di lavoro
presso le amministrazioni pubbliche anche ai cittadini extracomunitari” (16); né nella già citata sent.
n. 454 del 1998, che tratta dell’assunzione di uno
straniero disabile.
In conclusione, la Cassazione non manca di sottolineare che, diversamente da quanto è avvenuto
in materia di provvidenze assistenziali, che sono
state progressivamente estese agli extracomunitari
legalmente soggiornanti in Italia attraverso l’operato della Consulta (17), in tema di accesso al lavoro
è stata lasciata al legislatore una più ampia possibilità di contemperare opposte esigenze, tutte costituzionalmente rilevanti. Ciò posto, mentre nell’impiego privato opera pienamente il principio di parità di trattamento tra cittadini italiani, comunitari
ed extracomunitari, nel lavoro pubblico rilevano i
profili della particolarità e specificità delle funzioni
svolte alle dipendenze dello Stato, che giustificano
una preferenza per i cittadini italiani e comunitari.
Ad avviso di scrive, tuttavia, quest’ultimo argomento non è completamente persuasivo. Se, infatti, nell’ambito della Pubblica amministrazione si ritrovano attività e funzioni di particolare rilevanza
sotto il profilo della sicurezza e della tutela dell’ordinamento interno, quali, per esempio, quelle poste in essere da personale militare, di polizia e magistrati, che giustificherebbero l’affidamento a cittadini italiani (e forse anche europei), ciò non significa, tuttavia, che l’intero settore sia precluso al
lavoratore straniero, non essendo tutti i compiti
“nevralgici” per l’ordinamento, né il requisito della
cittadinanza indispensabile per certe mansioni.
(14) Attuazione della Dir. 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica
(15) V. Corte cost. 26 ottobre 2000, n. 441, in Foro it., 2001,
I, 794.
(16) Corte cost. 15 aprile 2011, n. 139, in Giur. cost., 2011,
1797; i giudici costituzionali hanno rimproverato al giudice rimettente di non aver neppure tentato una lettura costituzionalmente orientata della norma censurata.
(17) V. Corte cost. 29-30 luglio 2008, n. 306, in Foro it.,
2008, I, 2711, relativa all’indennità di accompagnamento agli
invalidi civili; Corte cost. 14 gennaio 2009, n. 11, in Foro it.,
2009, I, 973, in riferimento alla pensione di inabilità; Corte
cost. 28 maggio 2010, n. 187, in Foro it., 2012, I, 1, sull’assegno mensile di invalidità; Corte cost. 16 dicembre 2011, n.
329, in Foro it., 2012, I, 1, sull’indennità di frequenza per i minori. Da ultimo v. Corte cost. 27 febbraio 2015, n. 22, con riguardo alla pensione di invalidità e alla speciale indennità in
favore dei ciechi parziali e Corte cost. 11 novembre 2015, n.
230, in riferimento all’indennità di comunicazione e alla pensione di invalidità civile per sordi.
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Giurisprudenza
Diritto civile
Coppia di fatto (omosessuale) e figli minorenni
Tribunale di Palermo, Sez. I, decr., 13 aprile 2015 - Pres. Grimaldi di Terresena - Est. Ruvolo
Nel caso in cui vi sia stato un nucleo familiare nel quale uno dei due conviventi abbia svolto de facto il ruolo
di genitore, pur in assenza di un vincolo biologico, nei confronti dei figli dell’altro, deve essere riconosciuto,
sulla base di una interpretazione evolutiva e convenzionalmente orientata dell’art. 337 ter c.c., il diritto di detti minorenni a mantenere un rapporto duraturo e significativo con il primo, indipendentemente dal venir meno del vincolo affettivo tra i due. Competente a decidere sulla regolamentazione della frequentazione tra i minorenni ed il genitore “sociale” è il Tribunale ordinario, sulla base della clausola residuale di cui all’art. 38
disp. att. c.c.; legittimato attivo: il P.M. interveniente ai sensi dell’art. 70, comma 3, c.p.c., che abbia fatto proprie le conclusioni della ricorrente.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Non esistono precedenti sul punto
Difforme
Trib. Ivrea, 12 febbraio 2014
Il Tribunale (omissis).
Motivi della decisione
(omissis)
4. Sulla legittimazione ad agire della ricorrente omissis e sulla partecipazione del P.M. al procedimento e sull’assunzione
in proprio e nell’interesse pubblico del petitum della ricorrente.
Ulteriore aspetto da esaminare in via preliminare concerne la legittimazione ad agire dell’odierna ricorrente,
il cui difetto determinerebbe la c.d. carenza di azione,
rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio.
Come è noto, la legitimatio ad causam costituisce, unitamente all’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) ed all’esistenza del diritto (c.d. possibilità giuridica), una delle
condizioni dell’azione che il giudice ha l’onere di accertare prima di procedere all’esame del merito.
Essa si risolve nella titolarità del potere e del dovere, rispettivamente per la legittimazione attiva e per quella
passiva, di promuovere o di subire un giudizio in ordine
al rapporto dedotto in causa, indipendentemente dalla
questione sull’effettiva titolarità dal lato attivo o passivo
del rapporto controverso, che è invece questione di merito della cui prova è onerata la parte attrice, pena il rigetto della domanda (cfr. in generale sulla legittimazione ad
agire, tra le altre, Cass. n. 13756 del 14/06/2006, Rv.
592155; Cass. n. 2326 del 06/02/2004, Rv. 569951).
Nel caso in esame la ricorrente non è titolare del diritto
potestativo di ottenere una decisione nel merito, non potendo ella (che non è né genitore biologico né genitore
adottivo) fare valere diritti dei minori (tra cui quello azionato nel presente giudizio del diritto dei minori ad incontrare persone con cui esistono relazioni affettive stabili).
Va al riguardo considerato che il vigente sistema legislativo non detta alcuna disciplina con riferimento ai diritti
che l’ex convivente (etero o omosessuale che sia) del genitore biologico di figli minori potrebbe vantare nei confronti di questi ultimi né conferisce alcuna legittimazione
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ad agire per conto e nell’interesse di soggetti minori con
cui appunto non sussiste un rapporto genitoriale.
Infatti, non v’è allo stato attuale nel nostro ordinamento alcuna previsione che riconosca potestà e responsabilità genitoriali al c.d. “genitore sociale”.
È indubbio che l’evoluzione della società ha fatto emergere modelli familiari e sociali differenti da quelli tradizionali (si pensi in via esemplificativa al fenomeno delle
c.d. famiglie ricomposte, etero e omosessuali, alle famiglie mogenitoriali, alle famiglie composte da persone
dello stesso sesso e dai figli nati da precedenti relazioni
o attraverso tecniche di fecondazione assistita, etc.).
Ancora, è oltremodo verosimile che il legislatore italiano dovrà necessariamente confrontarsi con l’evoluzione
della fenomenologia delle relazioni interpersonali in atto e che delle aperture in tal senso sono già state mostrate (il riferimento è al disegno di legge 1320 - XVII
Leg. - presentato nel febbraio 2014 dai senatori Manconi, Palermo e Lo Giudice e non ancora esaminato - che
intende introdurre l’istituto della delega dell’esercizio
della responsabilità genitoriale, così consentendo di dare sicurezza e validi punti di riferimento ai bambini che
crescono all’interno di nuclei familiari atipici).
Tutto ciò considerato, è tuttavia altrettanto indubbio
che allo stato attuale non è prevista alcuna responsabilità genitoriale in capo all’ex convivente (omosessuale
o eterosessuale) del genitore nei confronti dei figli del
precedente compagno.
Va quindi dichiarato il difetto di legittimazione attiva
della ricorrente con riferimento alle domande formulate
nel ricorso.
Ciò nonostante, deve proseguirsi nell’esame del merito
della questione sulla scorta della partecipazione al presente procedimento del PM quale interveniente necessario in base al disposto dell’art. 70 nel testo risultante
all’esito della sentenza della Corte Costituzionale n.
214 del 1996 (che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale “nella parte in cui non prescrive l’intervento
obbligatorio del pubblico ministero nei giudizi tra geni-
1549
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tori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai
figli”, nei sensi di cui agli artt. 9 della legge n.898 del
1970 e 710 del codice di procedura civile come risulta a
seguito della sentenza n. 416 del 1992”). Peraltro, è noto che il P.M. può intervenire in ogni causa in cui ravvisa un pubblico interesse ex art. 70, comma tre, c.p.c.
Il Pubblico Ministero, con atto depositato il 17 novembre 2014, nel superiore interesse dei minori, ha fatto
propria la domanda della ricorrente, chiedendo, quale
mezzo al fine dell’accoglimento della pretesa spiegata
con il ricorso, di disporsi una consulenza tecnica d’ufficio al fine di accertare se, nell’esclusivo interesse morale
e materiale dei minori, fosse o meno opportuno riconoscere alla omissis la possibilità di frequentare i bambini,
omissis e omissis..
5. Sulla questione di legittimità costituzionale proposta dalla
ricorrente.
La ricorrente ha sollevato, con l’atto introduttivo del
presente procedimento, questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter in relazione agli artt. 2 e 30
Cost., e in combinato disposto con gli artt. 317, 317
bis, 336, 337 bis c.c., nella parte in cui non prevede il
diritto al mantenimento di un rapporto equilibrato,
continuativo e significativo del minore con il genitore
sociale nel caso di separazione della coppia omosessuale.
Come è noto, in ragione del carattere incidentale del
giudizio di legittimità costituzionale, il giudice a quo deve in primo luogo verificare che il giudizio alla sua attenzione non possa essere definito indipendentemente
dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale (c.d. “rilevanza”), vale a dire che la disposizione
della cui costituzionalità si dubita dovrà essere applicata
nel giudizio in corso e quindi che quel medesimo giudizio non potrà essere definito se prima non viene risolto
il dubbio di legittimità costituzionale che ha investito
la relativa disposizione.
Inoltre, per la Corte costituzionale va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente quando questi trascuri di sperimentare la possibilità di dare alla disposizione censurata
un’interpretazione costituzionalmente orientata e di
spiegare le ragioni che impediscono di pervenire ad un
risultato idoneo a superare i dubbi di costituzionalità
(cfr. per tutte Corte cost. 230/2010; 192/2010;
190/2010; 189/2010; 154/2010; 110/2010).
Orbene, nella fattispecie concreta sottoposta all’attenzione del Collegio difetta il carattere della rilevanza della
questione sollevata e della necessaria strumentalità rispetto alla decisione da adottare per quanto concerne
l’art. 317 bis. c.c., e ciò considerato che, come già osservato, nel presente giudizio è stato fatto valere il diritto
dei minori ad incontrare persone con cui essi hanno una
relazione affettiva stabile e non è stata invece chiesta la
tutela del diritto di visita dell’ex convivente del genitore.
E per quanto concerne l’art. 337 ter c.c. la questione è
inammissibile alla luce dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata che viene
adottata con il presente provvedimento (v. infra).
(omissis)
Deve quindi ora procedersi all’esame del merito.
1550
6. L’esame del merito della questione: necessità di salvaguardare il superiore interesse dei minori.
Venendo al merito della controversia, si deve in primo
luogo osservare in punto di fatto che, diversamente da
quanto sostenuto dalla resistente in comparsa di risposta
e ribadito nelle note conclusive, questo Tribunale ritiene idoneamente provato, alla luce degli elementi acquisiti nel corso del procedimento, il dato - rilevante ai fini
della decisione - della pregressa sussistenza di un nucleo
familiare di fatto tra le odierne parti, omissis e omissis e i
di lei figli, omissis e omissis.
Al riguardo è sufficiente osservare che, tra gli atti allegati al presente procedimento, si rinviene copia del ricorso presentato congiuntamente dalle odierne parti al
Tribunale per i Minorenni di Palermo nel 2011 (momento in cui era ancora in atto la relazione amorosa tra
le due donne) al fine di ottenere il riconoscimento in
capo alla omissis di poteri e doveri corrispondenti alla
potestà genitoriale nei confronti dei minori omissis e
omissis.
In tale atto, sottoscritto - è bene ribadirlo - non solo dalla omissis ma anche dalla omissis, le ricorrenti danno atto
di essere unite dal 2004 da una stabile relazione affettiva,
di avere deciso nel 2007 di attuare un comune progetto
genitoriale consapevole e di avere abitualmente vissuto
insieme con la prole “condividendo ogni decisione inerente la vita, la salute e l’educazione dei bambini dando
vita ad un nucleo familiare che ha scelto quale dimora
abituale l’abitazione di omissis” (cfr. ricorso al Tribunale
per i Minorenni, pag. 2 allegato in atti).
Nel ricorso le donne lamentavano che, malgrado la
omissis di fatto svolgesse il ruolo di genitore e avesse a
carico l’intero nucleo familiare, provvedendo a gran
parte dei bisogni familiari, in concreto non aveva alcun
riconoscimento giuridico da parte dell’ordinamento come figura genitoriale e, in ragione di ciò, chiedevano al
Tribunale per i minorenni l’attribuzione della potestà
genitoriale in capo alla stessa.
Ora, è evidente che la sottoscrizione da parte della omissis di tale atto giudiziario volto al riconoscimento legale
della genitorialità della omissis e, a fronte del decreto di
rigetto del Tribunale per i Minorenni, il successivo insistere in tale richiesta col reclamo proposto alla Corte di
Appello, fornisce adeguata prova della sussistenza di una
stabile unione affettiva e, per quel che qui rileva, di un
reale nucleo familiare costituito dalle due donne e dai
bambini, omissis e omissis, oltre che dell’esercizio di fatto
da parte della omissis del ruolo di genitore.
Peraltro, nel corso del presente procedimento, fase in
cui la convivenza era già ampiamente cessata, le parti
hanno inizialmente raggiunto (su impulso del giudice)
degli accordi (poi non rispettati in ragione dell’inasprirsi della conflittualità tra le stesse) con riguardo alle frequentazioni tra i minori e la omissis, il che testimonia
ancora una volta l’esistenza di uno schema tipicamente
familiare (cfr. verbale udienza dell’11 luglio 2014).
Lo stato di fatto appena delineato ha ricevuto altresì
conferma da quanto è emerso nel corso delle operazioni
peritali svolte dai consulenti d’ufficio, i quali hanno attestato che “non vi è dubbio alcuno che, al di là degli
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eventi concreti, ad entrambi i bambini deve essere stata
prospettata una visione di identità familiare e una storia
della loro generatività che deve aver compreso in qualche modo sia la signora omissis che la signora omissis. È
prova evidente di ciò che i bambini nel rappresentare la
loro costellazione affettiva di riferimento hanno disegnato quattro personaggi: loro stessi, mamma D. e P.
(…) In questa direzione risulta ancora più significativo
l’inizio della prima osservazione fatta con i bambini,
quando omissis per presentarsi propone ai consulenti un
indovinello - “indovinate se abbiamo due mamme o
due papà oppure una mamma e un papà? “ (cfr. consulenza tecnica d’ufficio, pag. 57 allegata in atti).
Ed ancora, osservano che “il percorso peritale ha permesso di evidenziare come i piccoli omissis e omissis si
riconoscono nel sistema familiare composto da loro due
e da mamma omissis, omissis e le loro famiglie d’origine
(…)” (cfr. CTU pag. 59).
Viene poi precisato che “la significatività di una relazione affettiva con un bambino va ricondotta, secondo la
prospettiva del minore, al suo vissuto, alla possibilità che
egli abbia costruito una immagine di quell’adulto e del
legame che ad esso lo unisce, tale che lo renda significativo, continuativo, fondante nel suo processo di crescita.
Orbene perché ciò si realizzi quell’adulto deve aver
espresso nei confronti del bambino una fase di accudimento in qualche modo significativa, una pregnanza di
ruolo educativo, una sintonizzazione sull’ascolto dei suoi
bisogni e sulla possibilità di rispondere ad essi con modalità adeguate, una capacità di incidere nella costruzione
del suo sistema di attribuzione dei significati esperienziali,
la possibilità di sostenere il bambino anche solo in alcune delle sue fasi di sviluppo”(cfr. CTU p. 59).
Nel rispondere ai quesiti formulati da questo Tribunale,
i consulenti d’ufficio evidenziano, per quanto qui di interesse, che “è apparsa evidente una profonda significatività affettiva tra omissis, omissis e la signora omissis, tale che, benché i bambini non la identifichino specificamente in una funzione genitoriale de facto, la riconoscono però come appartenente al loro sistema familiare nucleare in una posizione di seconda mamma.
In considerazione di quanto sopra espresso si considera significativamente pericoloso per i bambini una interruzione o una discontinuità del legame tra loro e la signora
omissis. Tale decisione per altro non incontra il volere
dei bambini. Si considera, altresì, pericoloso una evoluzione che possa stravolgere la storia familiare e di generatività che questi bambini hanno introiettato. Tale interruzione potrebbe avere effetti nefasti sulla loro continuità
affettiva e narrativa determinando profonde ripercussioni
sulla evoluzione della loro identità psichica. Non risponderebbe, quindi, all’interesse superiore dei minori. Si ritiene altresì che la signora omissis possa costituire con la
sua affettività una risorsa positiva per i bambini”.
Assodata l’esistenza di una famiglia di fatto all’epoca in
cui la relazione tra le due ricorrenti era ancora in atto e
di un permanente rapporto affettivo significativo tra la
omissis e i due bambini, in adesione a quanto ritenuto
dai consulenti d’ufficio - da cui non v’è motivo per discostarsi - circa la necessità di mantenere tale rapporto,
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pena la produzione sui bambini di effetti gravemente
pregiudizievoli e “nefasti sulla loro continuità affettiva e
narrativa” con “profonde ripercussioni sulla evoluzione
della loro identità psichica”, questo Tribunale ritiene
che vada assolutamente preservato - in funzione del
preminente interesse dei minori - il solido rapporto esistente tra loro e la persona che, sin dalla loro nascita,
ha svolto il ruolo sostanziale di genitore (c.d. genitore
sociale).
Privare omissis e omissis di un simile legame significherebbe - come ben sottolineano i consulenti d’ufficio - precludere loro di poter fare affidamento su una figura positiva fondamentale e di riferimento per la loro esistenza.
Occorre, dunque, porsi in una dimensione sostanziale
che salvaguardi il superiore interesse dei minori e valorizzi il rapporto che in concreto si è instaurato negli anni tra la omissis e i bambini.
Nel caso in esame, non si può, infatti, ignorare l’esistenza di situazioni consolidate e cristallizzate da tempo: i
bambini hanno convissuto con entrambe le ricorrenti
dal momento della loro nascita (24 maggio 2008) sino
alla rottura della relazione sentimentale tra le due donne, avvenuta definitivamente nei primi mesi del 2014.
Nel corso di questi sei anni i bambini hanno instaurato
- come sopra evidenziato - un legame forte e significativo con la omissis che, a prescindere dall’inquadramento
giuridico, nulla ha di diverso rispetto ad un vero e proprio vincolo genitoriale.
Sul punto va precisato che, sebbene l’elaborato peritale
- rispondendo al quesito posto dal Tribunale relativamente alla considerazione che i minori hanno della ricorrente e del ruolo della stessa nella loro vita quotidiana - affermino che i bambini “non la identifichino specificamente in una funzione genitoriale de facto”, tuttavia subito dopo precisano che gli stessi comunque “la riconoscono però come appartenente al loro sistema familiare nucleare in una posizione di seconda mamma”.
Ne deriva, pertanto, che al di là delle espressioni adoperate dai consulenti per inquadrare il ruolo svolto dalla
omissis
nei confronti dei bambini, è indubbio che questi ultimi
la percepiscono sostanzialmente come una figura significativa appartenente al loro sistema familiare, alla stregua di una seconda madre.
Ed ancora, va al riguardo ulteriormente sottolineato che
l’esclusione, da parte dei periti, della possibilità di una
condivisione con la omissis della funzione genitoriale,
esercitata oggi in via esclusiva dalla omissis, viene motivata non tanto sulla base di un’inidoneità della prima a
svolgere tale funzione ovvero inopportunità che le venga attribuito tale ruolo, quanto per la forte conflittualità
allo stato esistente tra le due donne, che non renderebbe possibile tale condivisione (cfr. pp. 60-61 C.T.U. in
cui si afferma che “la signora omissis esercita in atto una
piena funzione genitoriale nei confronti dei minori, non
vi sono in atto elementi per poter ipotizzare che tale
funzione vada condivisa con la signora omissis stante la
relazione interpersonale tra le due; …i contatti tra i minori e la signora omissis sono apparsi discontinui e co-
1551
Giurisprudenza
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Diritto civile
munque regolati dalla esclusiva decisione della signora
omissis . Di questo i bambini si sono lamentati).
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, negare ai
bambini i diritti ed i vantaggi che derivano dal loro rapporto con la omissis costituirebbe di certo una scelta
non corrispondente all’interesse dei minori, principio
fondante in ambito di provvedimenti concernenti minori e indicato, quale parametro di riferimento, anche
in ambito europeo.
Deve infatti a questo punto svolgersi qualche considerazione in punto di diritto prendendo le mosse dalle norme esistenti in materia in ambito sovranazionale, cui il
nostro ordinamento si conforma ai sensi degli artt. 11 e
117 comma 1 della Costituzione, e dalla relativa evoluzione giurisprudenziale che, proprio in ambito sovranazionale, ha portato alla compiuta elaborazione del principio noto come “best interest of the child”.
Tale principio viene per la prima volta sancito nella Dichiarazione Universale dei diritti del fanciullo del 1959,
ove si dice che “il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di una particolare
protezione e di cure speciali, compresa una adeguata
protezione giuridica sia prima che dopo la nascita”, ponendo “il superiore interesse del fanciullo” come criterio guida da applicare ad ogni decisione che lo possa riguardare direttamente o indirettamente.
Più di recente, il principio in esame ha trovato riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) ove l’art. 24, in materia di “Diritti del bambino”, stabilisce, per quanto qui di
interesse, che “ …in tutti gli atti relativi ai bambini,
siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere
considerato preminente” ed aggiunge che “ogni bambino ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora
ciò sia contrario al suo interesse”.
In una recente pronuncia la Corte di Giustizia, nell’esaminare il quadro dei diritti fondamentali riferibili ai minori, ha precisato che l’art. 7 della Carta di Nizza, che
contiene diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’art.
8, paragrafo 1 della Cedu (id est il diritto di ogni individuo al rispetto della vita privata e familiare) va letto in
combinato disposto con l’obbligo di prendere in considerazione l’interesse superiore del bambino, sancito dal
sopra citato art. 24, paragrafo 2, tenendo conto del pari
della necessità per il bambino di intrattenere regolarmente rapporti personali con i due genitori (Corte
giust. 6 dicembre 2012, causa C-356/11 e C-357/11).
Al contrario, il concetto di superiore interesse del minore è estraneo all’esperienza normativa della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’art. 8, nel garantire ad ogni individuo il “rispetto della propria vita
familiare e personale”, non ne fa alcun cenno.
Tuttavia, tale lacuna è stata via via colmata dalla giurisprudenza della Corte EDU che ha lodevolmente recuperato il principio in questione facendo diretto riferimento agli strumenti internazionali di protezione dell’infanzia che, come visto, al loro interno contengono
1552
un esplicito riferimento al concetto di interesse superiore del minore.
Per quel che rileva ai nostri fini, va infatti evidenziato
che la Corte di Strasburgo ha, in più occasioni, affermato che il rispetto della propria vita familiare e personale
contempla anche il diritto dei genitori e dei figli - ma
anche di altri soggetti uniti da relazioni familiari de facto - a mantenere stabili relazioni, soprattutto in caso di
crisi della coppia, precisando al riguardo che occorre assicurare prevalenza al superiore interesse dei minori, anche a rischio di pregiudicare il diritto di uno dei genitori (cfr. sul punto Corte eur. dir.uomo 13 giugno 1979,
caso Marckx c. Belgium, in cui la Corte ha esteso la nozione di vita familiare di cui all’art. 8 anche alla famiglia non legittima che, nel caso di specie, era costituita
da una madre e dalla figlia nata fuori dal matrimonio;
Corte eur. dir. uomo, 26 maggio 1994, caso Keegan c.
Irlanda, in cui ha affermato che la nozione di famiglia di
cui all’art. 8 non è limitata alle relazioni fondate sul
matrimonio e può oltrepassare di fatto i legami familiari
quando le parti convivono fuori dal matrimonio).
E ancora, preminente interesse ai fini del caso che ci
occupa, riveste una decisione della Corte di Strasburgo
in cui è stato ribadito che la nozione di vita familiare
non è limitata alle coppie sposate, sottolineando che i
criteri rilevanti per la definizione sono la convivenza
della coppia, la lunghezza della relazione, la presenza di
figli: occorre, dunque, accertare l’esistenza di una relazione effettiva.
Nel caso di specie, la Corte ha riconosciuto valore giuridico a rapporti familiari di fatto, in particolare tra un
partner e i figli dell’altro, valorizzando argomenti a favore
dell’esistenza degli aspetti tipici di un regime familiare in
presenza di un’effettiva cura e assistenza dei minori da
parte degli adulti con essi conviventi (Corte eur. dir.uomo 22 aprile 1997, X., Y. e Z. c. Regno Unito).
Del pari nel caso Moretti e Benedetti c. Italia, la Corte,
con sentenza del 27 aprile 2010, ha ancora una volta ribadito che l’art. 8 trova applicazione anche rispetto a relazioni familiari di fatto, basate su rapporti affettivi significativi. Nella specie, i ricorrenti si erano visti rigettare la
domanda di adozione di un neonato che, subito dopo la
nascita, era stato collocato provvisoriamente presso di loro, in quanto la madre aveva rifiutato di riconoscerlo. La
Corte europea ha sancito l’applicabilità dell’art. 8 CEDU
anche nei confronti dei ricorrenti, benché gli stessi non
avessero potestà genitoriale sul bambino, statuendo il
principio secondo cui tale disposizione va applicata anche ai legami familiari di fatto, in presenza di vincoli di
natura affettiva. La Corte, valorizzando il dato della condivisione dei ricorrenti di tappe importanti nella vita del
bambino (in particolare, tutti gli stadi di sviluppo nei
primi 19 mesi) e che questo appariva ben integrato nella
famiglia, ha ravvisato una violazione dell’art. 8 nel rigetto della domanda di adozione e nel collocamento del minore presso un altro nucleo familiare.
È quindi possibile affermare che, nell’ottica della giurisprudenza della Corte EDU, l’art. 8 della Convenzione
non assegna un diritto a costituire una famiglia ma è
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Diritto civile
volto a tutelare una famiglia, lato sensu intesa, già esistente.
L’esistenza di una “vita familiare” ex articolo 8 CEDU è
una questione che va vagliata ed accertata in fatto, in
quanto essa non si limita ai rapporti fondati sul matrimonio e sulla filiazione legittima ma può comprendere altre
relazioni familiari de facto, purché - oltre all’affetto generico - sussistano altri indici di stabilità, attuale o potenziale, quale potrebbe essere quello di una filiazione naturale o di una convivenza avutasi per un tempo significativo e poi cessata. Invero, in questa prospettiva, la determinazione del carattere familiare delle relazioni di fatto
deve tener conto di un certo numero di elementi, quali
il tempo vissuto insieme, la qualità delle relazioni, così
come il ruolo assunto dall’adulto nei confronti del bambino e la percezione che quest’ultimo ha dell’adulto.
Proprio in considerazione del forte legame stabilitosi, la
Corte è giunta a statuire - nelle pronunce sopra citate che, nonostante l’assenza di un rapporto giuridico di parentela, esso potesse rientrare nella nozione di vita familiare ai sensi dell’art. 8 CEDU.
Orbene, è proprio alla luce degli articoli sinora citati
(art. 8 Cedu, artt. 7 e 24 Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea) e dell’interpretazione che di essi
ne hanno dato le Corti sovranazionali di riferimento,
che vanno interpretate ed applicate al caso che ci occupa le norme dell’ordinamento interno rilevanti in subiecta materia.
È appena il caso di rammentare che, con riferimento alle norme della CEDU, è noto che, secondo il costante
orientamento della Corte Costituzionale, per i giudici
nazionali vige il dovere di interpretare la norma interna
in modo conforme alle norme convenzionali, nell’esegesi offertane dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo e
solo in caso di impossibilità di interpretazione conforme
hanno l’onere di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con la norma convenzionale interposta, per violazione dell’art.
117 comma 1 Cost.; con l’ulteriore conseguenza che
l’interpretazione data dalla Corte Europea vincola, anche se non in modo incondizionato, detti giudici e costituisce il diritto vivente della Convenzione (cfr. Corte
cost. n. 348 e 349/ 2007; n. 80/2011; n. 15/2012). Per
contro, quando si tratta di norme derivanti dall’Unione
Europea direttamente applicabili nel nostro ordinamento (quali, tra l’altro, possono ritenersi le disposizioni
della Carta di Nizza, stante il disposto dell’art. 6 del
Trattato sull’UE che ha attribuito alla Carta dei diritti
lo stesso valore giuridico dei trattati), in caso di insanabile contrasto tra esse e la norma interna, il giudice nazionale ricorre allo strumento della disapplicazione.
Ciò posto, la cornice giuridica interna - da interpretare
alla luce delle norme sovranazionali sopra richiamate,
nell’interpretazione datane dai giudici di Strasburgo - è
costituita dagli artt. 337 bis e 337 ter c.c., introdotti dall’art. 55 comma 1 del D.Lgs. 154/2013, che costituiscono oggi il riferimento normativo comune per i rapporti
fra genitori e i figli in modo da diventare il solo riferimento per le controversie genitoriali, di separazione, di-
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vorzio o interruzione di convivenza tra persone anche
non sposate.
Più precisamente, dal combinato disposto degli artt.
337 bis e 337 ter si desume, per quel che qui rileva, che
“nei procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio” (art. 337 bis c.c.) “il figlio minore ha il diritto
di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo
con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione,
istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (art. 337 ter c.c.).
Stabilisce poi il secondo comma dell’art. 337 ter c.c.
che “per realizzare la finalità indicata dal primo comma,
nei procedimenti di cui all’art. 337 bis, il giudice adotta
i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa” ed è altresì legittimato ad adottare, sempre nell’ottica di salvaguardia del superiore interesse dei minori, “ogni altro
provvedimento relativo alla prole”.
Tali disposizioni si ispirano, dunque, al principio, di derivazione sovranazionale, della prevalenza dell’interesse
del figlio, specie se minore, su ogni altro interesse giuridicamente rilevante che vi si ponga in contrasto.
La ratio della norma di cui all’art. 337 ter è, invero,
quella di dare preminenza all’interesse morale e materiale della prole, anche attraverso una restrizione, se ritenuto necessario, dei diritti e libertà degli altri soggetti
coinvolti e in tale ottica attribuisce al giudice l’ampio
potere di adottare provvedimenti idonei, senza ricorrere
a tipizzazioni, al fine di assicurare flessibilità e capacità
di conformazione alle esigenze di volta in volta concretamente da soddisfare.
Ora, è oltremodo evidente che la norma limita expressis
verbis il suo ambito di operatività al diritto del minore a
mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con
ciascuno dei genitori, indipendentemente dall’esistenza
di un rapporto di coniugio tra questi ultimi.
Tuttavia, la necessità di garantire il superiore interesse
dei minori, posto alla base della norma di cui all’art. 337
ter e di interpretare la norma in conformità all’elaborazione giurisprudenziale che di tale principio ha fornito la
Corte Europea nell’applicazione dell’art. 8 della CEDU
sopra riportata, impone di procedere ad un’interpretazione
certamente evolutiva ma costituzionalmente e convenzionalmente conforme dell’art. 337 ter c.c. volta ad estendere l’ambito applicativo della stessa sino a delineare un
concetto allargato di bigenitorialità e di famiglia, ricomprendendo per tale via anche la figura del genitore sociale, ossia di quel soggetto che ha instaurato con il minore
un legame familiare de facto significativo e duraturo.
Come già sopra visto, la Corte Europea nelle sue pronunce è pervenuta ad inquadrare nell’ambito dell’art. 8
della CEDU anche il diritto di soggetti, diversi dal genitore biologico o legale, uniti da relazioni familiari effettive, a mantenere uno stabile rapporto, soprattutto in
ipotesi di separazione della coppia, precisando al riguardo che occorre assicurare prevalenza al superiore interesse dei minori.
Ed è proprio in questa prospettiva che si impone una
lettura dell’art. 337 ter conforme a tali parametri, che
1553
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possa cioè assicurare il preminente interesse dei minori
omissis e omissis di frequentare stabilmente l’odierna ricorrente, come riconosciuto dalla consulenza tecnica
espletata.
Valorizzando il criterio guida del superiore interesse della prole minorile alla luce di quanto appena enunciato,
è possibile ritenere che il profilo della discendenza genetica non va più considerato determinante ai fini dell’attribuzione al minore del diritto di mantenere stabili
relazioni con chi ha comunque rivestito nel tempo il
ruolo sostanziale di genitore, pur non essendo legato da
rapporti di appartenenza genetica o di adozione con il
minore stesso.
Per contro, ciò che assume rilievo determinante è la circostanza che un nucleo familiare esiste con riguardo alla
posizione del figlio e della sua tutela, non dovendosi invece dare risalto alla circostanza che sia venuto meno il
vincolo affettivo che legava il genitore sociale a quello
biologico.
Quando il rapporto instauratosi tra il minore e il genitore sociale è tale da fondare l’identità personale e familiare del bambino stesso, questo rapporto deve essere
salvaguardato, alla pari di quanto riconosce oggi l’art.
337 ter ai figli nei confronti dei genitori biologici.
Una lettura della norma che escludesse dal suo ambito
di operatività rapporti genitoriali di fatto sarebbe violativa delle disposizioni della Carta di Nizza e della Cedu:
significherebbe, in altri termini, privare di qualsiasi tutela i minori, il cui interesse, invece, va sempre perseguito nelle ipotesi di separazione, compresa quella tra il
genitore biologico e il partner con cui di fatto è stata
condivisa la responsabilità genitoriale.
Tale interpretazione evolutiva, ad avviso di questo Tribunale, si impone proprio nell’ipotesi sottoposta al nostro esame, ossia il caso della separazione personale della coppia omosessuale che ha convissuto con i figli minori di uno dei due, instaurando un rapporto di genitorialità sociale con l’altro. Invero, in tali circostanze l’unico rapporto riconosciuto e tutelato dalla legge è quello con il genitore biologico, mentre il rapporto con il
genitore sociale - sebbene avvertito e vissuto dal minore
alla stregua dell’“altra figura genitoriale” - non riceve
alcun riconoscimento o tutela, con conseguente privazione del minore della doppia figura genitoriale, in spregio al principio fondante in ambito di crisi coniugale o
della coppia di fatto del mantenimento di rapporti costanti con ambedue le figure genitoriali (concetto che,
ad avviso di questo Collegio, va accolto nella sua accezione “allargata”, comprendente sia i genitori biologici
che sociali).
Né coglierebbe nel segno un’eventuale obiezione circa
l’inidoneità di un individuo omosessuale allo svolgimento di compiti genitoriali. Le acquisizioni delle
scienze di settore, principalmente la neuropsichiatria infantile e la psicologia dell’età evolutiva, hanno evidenziato che la qualità dell’attaccamento dei figli e del loro
sviluppo cognitivo e relazionale non dipende dalla compresenza di genitori di sesso diverso ma dalla pregnanza
della relazione affettivo-genitoriale.
1554
Anche la S.C. di Cassazione nella motivazione della
sentenza n. 601 del 2013 ha chiarito che in assenza di
certezze scientifiche o dati di esperienza costituisce un
mero pregiudizio l’asserzione che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale, poiché in
tal modo si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per
la crescita e lo sviluppo dei figli.
Ed in tal senso si pongono pure diverse pronunce dei giudici di Strasburgo, i quali, non solo hanno ricondotto le
coppie di fatto omosessuali nell’alveo della nozione di
“vita familiare” da tutelare ai sensi dell’art. 8 della CEDU, ma hanno altresì ricompreso in tale nozione anche
il legame verticale che si stabilisce tra i conviventi omosessuali e la prole di uno di essi, pronunciandosi da ultimo in favore della c.d. second-parent adoption, ossia l’adozione, da parte del partner omosessuale, dei figli dell’altro
partner, così da aprire direttamente la strada al riconoscimento delle funzioni genitoriali svolte dall’adulto non
genitore omosessuale nella famiglia ricomposta.
Ciò posto, alla luce delle considerazioni sin qui enunciate e in applicazione del combinato disposto degli
artt. 337 bis e 337 ter c.c. nell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme agli artt. 7 e
24 della Carta di Nizza ed all’art. 8 della Cedu (come
interpretato dalla Corte di Strasburgo), ritiene questo
Tribunale che vada garantito il diritto dei minori, omissis e omissis, di mantenere un rapporto stabile e significativo con la omissis.
Essendo possibile un’interpretazione costituzionalmente
e convenzionalmente orientata nel senso sopra descritto
della normativa interna, non occorre quindi neppure
procedere ad un’applicazione diretta dell’art. 7 della
Carta di Nizza (che, come detto, ha, per effetto del
Trattato di Lisbona, lo stesso valore giuridico dei Trattati - art. 6 TUE) o, non ravvisandosi alcuna lacuna
normativa in forza dell’interpretazione sopra indicata,
dell’art. 8 della CEDU (che non può essere applicato
direttamente in caso di contrasto insanabile in via interpretativa con una norma interna - essendo invece
necessario in questo caso sollevare questione di legittimità costituzionale - ma può trovare applicazione diretta in caso di lacuna normativa, essendo stata tale convenzione internazionale recepita da legge ordinaria). E
peraltro, anche qualora si volesse ricorrere a tale percorso giuridico, pur astrattamente ipotizzabile, si perverrebbe di fatto, seppure sulla base di parametri normativi in
parte diversi, al medesimo risultato del riconoscimento
del diritto dei minori al mantenimento dei rapporti significativi con la ricorrente.
Va ora precisato che non si tratta di riconoscere un diritto ex novo in capo ai minori ma solo garantire una tutela giuridica ad uno stato di fatto già esistente da anni,
nel superiore interesse dei bambini, i quali hanno trascorso i primi anni della loro vita all’interno di un contesto familiare che vedeva insieme la madre biologica
con la omissis, figura che essi percepiscono come riferimento affettivo primario al punto tale da rivolgersi
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spesso a lei con il termine “mamma” (come già ampiamente detto sopra).
Ne deriva che, in accoglimento a quanto suggerito dai
consulenti d’ufficio, il Tribunale ritiene opportuno pre-
vedere un calendario di incontri tra la omissis e i bambini (omissis)
Corte d’Appello di Palermo, Sez. I, ord., 17 luglio 2015 - Pres. Librino - Est. Hmeljak
In caso di cessazione della convivenza tra due persone, nello specifico dello stesso sesso, durante la quale
una delle due abbia svolto de facto il ruolo di genitore nei confronti dei figli dell’altra, l’assenza di legittimazione attiva in capo al “genitore sociale” non può trovare rimedio nell’intervento del P.M. ai sensi dell’art. 70
c.p.c., né la norma di cui all’art. 337 ter c.c., può essere interpretata in modo da ricomprendere, tra i soggetti
legittimati a conservare rapporti significativi con i minori, gli adulti di riferimento privi di rapporti di parentela
con essi, in considerazione della struttura “rigida” di tale norma. Poiché, ciononostante, mantenere rapporti
significativi con l’ex partner del genitore biologico corrisponde al best interest del minore, deve essere sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter c.c., nella parte in cui non consente all’autorità
giudiziaria, di effettuare tale valutazione nel caso concreto, in violazione degli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, comma
1, Cost. (quest’ultimo con riferimento all’art. 8, CEDU, quale norma interposta).
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Parzialmente conforme: Trib. Palermo, Sez. I, decr., 6 aprile 2015.
Difforme
Trib. Ivrea, 12 febbraio 2014
La Corte (omissis).
Osserva
Occorre in primo luogo rilevare che correttamente il
primo giudica ha respinto l’eccezione di incompetenza
per materia del Tribunale ordinario in favore del Tribunale per i Minorenni di Palermo, in quanto formulata
dalla parte resistente solo in sede di note conclusive nel
giudizio di primo grado, e quindi tardivamente (cfr. sull’estensione ai procedimenti di tipo camerale delle norme previste per il rito ordinario, in quanto compatibili,
Cass. S.U. n. 5629/1996 o Cass. sez. I n. 15100/2005) e
che è infondata quella di incompetenza territoriale del
Tribunale ordinario di Palermo in favore del Tribunale
di Termini Imerese, in quanto l’effettiva dimora abituale dei minori al momento dell’introduzione del giudizio
(da intendersi quale luogo in cui il minore svolge in
modo continuativo la propria vita personale e familiare), aldilà del formale cambio di residenza nel comune
di omissis è stata individuata, sulla base della documentazione prodotta, a Palermo, dove gli stessi vivevano
stabilmente presso l’abitazione della nonna, frequentavano quotidianamente la scuola (l’istituto omissis) o dove continua a vivere la omissis con i figli dal mese di
settembre 2014, nell’abitazione di via omissis
Va parimenti respinta l’ulteriore questione preliminare,
riproposta dalla omissis in sede di reclamo, relativa all’asserita violazione del principio del ne bis in idem, che, ove
fondata, determinerebbe l’improcedibilità dell’azione.
Non sussiste, invero, identità di domande tra quanto
chiesto dalla reclamante con il ricorso introduttivo del
presente giudizio e quanto congiuntamente chiesto dalla
omissis dalla omissis con il ricorso depositato in data 5 luglio 2011 al Tribunale per i Minorenni di Palermo o de-
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ciso dal predetto Tribunale con decreto del 25/28 ottobre
2011, confermato dalla Corte dì Appello di Palermo (cfr.
doc. n. 4 della produzione di omissis nel giudizio di primo
grado), in quanto le rispettive azioni risultano diverse in
tutti gli elementi identificativi (soggetti attivi e passivi
del rapporto sostanziale dedotto nel processo, petitum e
causa petendi). Ed invero, il ricorso del 2011 è stato presentato congiuntamente da entrambe le donne all’epoca
conviventi, ed era volto ad ottenere il riconoscimento in
capo alla omissis nei confronti dei minori di doveri e poteri analoghi a quelli inerenti la potestà genitoriale, mentre il ricorso introduttivo del presente giudizio è stato
presentato dalla sola omissis nei confronti della omissis
al fine di ottenere il riconoscimento di un diritto dei minori e l’adozione del “provvedimenti ritenuti più idonei
ad assicurare il superiore interesse di omissis e di omissis
e per l’effetto stabilire tempi e modalità di frequentazione
con la sig.ra omissis”.
Sempre in via preliminare va affrontato l’argomento
della legittimazione ad agire di omissis oggetto del reclamo incidentale dalla stessa proposto.
Ed invero, pur avendo il Tribunale dichiarato il difetto
di legittimazione attiva della ricorrente (non essendo la
stessa genitore biologico né adottivo dei minori, ma solo ex convivente del genitore biologico), non ha dichiarato inammissibile il ricorso, ma ha proseguito nell’esame del merito della domanda dalla ricorrente, fatta propria dal P.M., intervenuto nel giudizio ai sensi dell’art.
70 c.p.c., come risultante all’esito della sentenza della
Corte costituzionale n. 214/1996, e comunque ai sensi
del comma 3 dell’art. 70 c.p.c. (intervento facoltativo
nelle cause in cui il P.M. ravvisa un pubblico interesse).
In particolare, il primo giudice ha ritenuto sul punto di
non sollevare l’eccezione di legittimità costituzionale,
1555
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sollecitato dalla ricorrente, sul presupposto che, per
quanto concerno l’art. 337 bis c.c., difettasse nel caso
concreto il carattere della rilevanza della questione o
della necessaria strumentalità rispetto alla decisione da
adottare, poiché “nel presente giudizio è stato fatto valere il diritto dei minori ad incontrare persone con cui
essi hanno una relazione affettiva stabile e non è state
invece chiesta la tutela del diritto di visita dell’ex convivente del genitore”.
Il Tribunale ha invece ritenuto inammissibile la questione di illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 337 ter c.c., in quanto la necessità di garantire il
superiore interesse dei minori, posto alla base di tale
norma, e di interpretare la stessa in conformità agli artt.
7 e 24 della Carta di Nizza e all’elaborazione giurisprudenziale che del predetto principio ha fornito la Corte
Europea nell’applicazione dell’art. 8 a della CEDU, “impone di procedere ad un’interpretazione certamente
evolutiva ma costituzionalmente o convenzionalmente
conforme dell’art. 337 ter c.c. volta ad estendere l’ambito applicativo della stessa sino a delineare un concetto
allargato di bigenitorialità e di famiglia, ricomprendendo per tale via anche la figura del genitore sociale, ossia
di quel soggetto che ha instaurato con il minore un legame familiare de facto significativo e duraturo”.
Pertanto, sempre secondo il primo giudice, una lettura
della norma introdotta dall’art. 337 ter c.c. “che escludesse dal suo ambito di operatività rapporti genitoriali
di fatto sarebbe violativa delle disposizioni della Corta
di Nizza o della Cedu”, in quando priverebbe di qualsiasi tutela i minori, il cui interesse, invece, va sempre perseguito, nelle ipotesi di separazione, anche quella tra il
genitore biologico e il partner (ivi compreso il caso della coppia omosessuale) con cui di fatto è stata condivisa
la responsabilità genitoriale.
Orbene, noi caso in esame risulta assodato in punto di
fatto:
- che la omissis aveva avuto una relazione sentimentale
con la omissis (non contestata da quest’ultima) con la
quale ha convissuto stabilmente dal 2004;
- che la omissis in accordo con la omissis al fine di completare il loro progetto di vita, si era sottoposta a procreazione assistita di tipo eterologo, conclusasi con la
gravidanza e la nascita nel 2008 dei due gemelli, omissis
e omissis e che la omissis, contribuendo alla cura e all’assistenza del figli della sua convivente, aveva assunto di
fatto il ruolo di genitore sociale degli stessi, tanto da
chiederne noi 2001, insieme alla omissis, un formale riconoscimento, poi rigettato, come si evince dal citato
provvedimento del Tribunale per i Minorenni di Palermo del 25 ottobre 2011;
- che il riconoscimento di tale ruolo emerge anche dal
contenuto della CTU espletata nel giudizio di primo
grado (sulla cui regolarità va condivisa la decisione del
Tribunale, non ravvisandosi in concreto alcuna violazione del diritto delle parti a partecipare all’indagine
peritale e non essendo stata sollevata in proposito alcuna specifica censura da parte della reclamante principale), secondo la quale i bambini riconoscono la omissis
1556
“come appartenente al loro sistema familiare nucleare
in una posizione di seconda mamma”.
Ciò premesso, la questione preliminare e fondamentale
da risolvere a questo punto, visto l’appello incidentale
proposto dalla omissis è se a quest’ultima possa essere riconosciuta, alla stregua della legislazione vigente, la legittimazione ad egire nel presente procedimento, in
quanto ex partner del genitore biologico dei minori.
Il Tribunale ha dichiarato il difetto della legittimazione
attiva di omissis salvo poi proseguire nell’esame del merito della domanda della ricorrente, fatta propria dal
P.M., intervenuto nel giudizio ai sensi dell’art. 70 c.p.c.
I dubbi sollevati dalla difesa di omissis in ordine alla
sussistenza di un potere di azione del P.M. nella materia
oggetto del presente procedimento - attesa la decisione
adottata dal Tribunale che, pur negando la sussistenza
della legitimatio ad causam dell’odierna reclamante incidentate, avrebbe riconosciuto sostanzialmente alla
omissis il ruolo di genitore sociale attribuendole implicitamente un diritto che non giustifica più l’intervento
del P.M., data l’assenza in concreto di un pubblico interesse - verrebbero comunque superati, in termini di rilevanza della questione, ove fosse riconosciuta la legittimazione od agire della omissis.
Occorre in effetti evidenziare che erroneamente il Tribunale, dopo avere dichiarato il difetto di legittimazione ad agire della omissis ha ritenuto procedibile il ricorso sul presupposto che il P.M., intervenuto ai sensi dell’art. 70 c.p.c ha fatto propria la domanda della ricorrente, posto che nei casi in cui è previsto l’intervento
obbligatorio del P.M. (fra i quali rientrano anche le
cause proposte ex art. 337 bis ss. c.c., quale quella in
esame), quest’ultimo non può a sua volta proporre autonomamente i relativi giudizi, se non espressamente previsto dalla legge, essendo peraltro ridotta anche la sua
legittimazione ad impugnare (cfr. Cass. n. 3502 del 13
febbraio 2013 e n. 27145 del 13 novembre 2008), e ciò
a maggior ragione nei casi di intervento facoltativo ai
sensi dell’art. 70, ult. comma c.p.c.
Peraltro, per affermare la sussistenza di un preminente
interesse dei minori, che giustificherebbe la decisione
adottata, il Tribunale ha finito per riconoscere di fatto
alla omissis una responsabilità genitoriale che, inizialmente, aveva escluso dichiarando la carenza della legittimazione ad agire della medesima.
Orbene, questa Corte condivide pienamente l’individuazione dei parametri costituzionali e convenzionali operata dai primo giudice - che sanciscono il principio
del cd. best interest del minore (quali la Dichiarazione
Universale dei diritti del fanciullo dei 1959, gli artt., 7
e 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea o cd. Carta di Nizza, l’art. 8 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, nell’interpretazione loro
attribuita dalla Corte EDU, quali “norme interposte” ai
fini della verifica del rispetto dell’art. 117, primo comma, Cost.).
Contrariamente a quanto stabilito dai Tribunale, tuttavia, si ritiene che per affermare il diritto dei minori a
mantenere il rapporto instauratosi con l’ex partner del
loro genitore biologico, è quindi, di conseguenza, anche
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per affermare la sussistenza della legittimazione attiva
della omissis, seppure funzionale all’interesse del minore, non sia possibile compiere l’operazione ermeneutica
effettuata dal primo giudico in relazione all’art. 337 ter
c.c. (che al primo comma stabilisce che “il figlio minore
ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di
conservare rapporti significativi con gli ascendenti o
con i parenti di ciascun ramo genitoriale” e al secondo
comma prevede che “per realizzare la finalità indicata al
primo comma, nei provvedimenti di cui all’art. 337 bis,
il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con
esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di
essa...”), stante il carattere “rigido” dì tale disposizione
che non si presta ad una differente opzione interpretativa, in considerazione del suo significato non equivoco e
non suscettibile di diversa valutazione.
In sostanza, non si ritiene possibile interpretare la norma prevista dall’art. 337 ter c.c., applicabile nel caso di
specie, in senso conforme alia Convenzione, a causa
dell’univocità del dato testuale, a fronte del quale, fra i
soggetti con i quali il minore ha diritto a mantenere un
rapporto stabile e significativo, non rientra anche l’ex
partner dei genitore biologico.
Di conseguenza, ravvisandosi un contrasto non componibile in via interpretativa, è necessario sottoporre la
norma interna a scrutinio di costituzionalità.
Ritiene invero questa Corte che la disposizione di cui
all’art. 337 ter c.c. introdotta dall’art. 55 D.Lgs. n.
154/2013, in materia di regolamentazione dei rapporti
tra genitori a figli, sembra presentare diversi profili di
censura sul piano costituzionale.
La predetta norma viola innanzitutto l’art. 2 Cost. - che
ricomprende tra le “formazioni sociali” anche le famiglie di fatto, incluse quelle riguardanti coppie formate
da persone dello stesso sesso - sotto il profilo della mancata tutela del rapporto tra il minore e l’ex partner del
genitore biologico del minore.
In secondo luogo, la mancata inclusione di quest’ultimo
fra i soggetti con i quali il minore ha diritto a mantenere un rapporto stabile e significativo, anche dopo la disgregazione della coppia, appare in conflitto con l’interesse dei minore violando, di conseguenza, gli artt. 2, 30
e 31 Cost., e il parametro interposto di cui all’art. 8 della Convenzione europea del diritti dell’uomo. Ed invero, la struttura “rigida” della disposizione di cui all’art.
337 ter c.c., caratterizzata da un automatismo che preclude al giudice di vagliare l’affettivo preminente interesse del minore (cfr. sul punto Corte cost. n. 31/2012),
vanifica i principi di origine internazionale ed europea
ponendosi altresì in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) o con il diritto del minore ad
una famiglia (artt. 2, 30 e 31 Cost.), ed in particolare a
mantenere rapporti significativi con l’ex partner del genitore biologico, compresi i casi di famiglia omo - genitoriali.
Infine, la disposizione in parola si pone in contrasto
con l’art. 117, comma 1 Cost., che obbliga il legislatore
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italiano a rispettare i vincoli giuridici impostigli dal diritto dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali
(quali la Convenzione sul diritti del fanciullo adottata a
New York il 20 novembre 1989 e ratificata in Italia con
L n. 176/1991, la Convenzione europea sull’esercizio
dei diritti del fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa
a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con l. n.
77/2003, la Carta del diritti fondamentali dell’Unione
Europa del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre
2007 a Strasburgo o cd. Carta di Nizza), nonché con
l’art. 8 Cedu, quale norma interposta, come viene interpretata in modo costante dalla Corte EDU in materia
di riconoscimento del diritto dei genitori e dei figli,
nonché di altri soggetti uniti da relazioni familiari di
fatto, a mantenere stabili relazioni, anche nell’ipotesi di
crisi della coppia, avuto riguardo sempre al preminente
interesse dei minore (cfr. sul punto Corte EDU del 13
giugno 1979, caso Marckx e. Belgium, Corte EDU del 26
maggio 1994, caso Koogan e. Irlanda, Corte EDU del 22
aprile 1997, X.Y. e Z. c. Regno Unito, Moretti e Benedetti
c. Italia del 27 aprile 2010).
Per tutti i profili sopra esposti, la Corte di Appello di
Palermo ritiene necessario sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter c.c., nella parte in
cui non consente al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore mantenere
rapporti significativi con l’ex partner del genitore biologico.
Nel caso di specie è evidente la rilevanza della questione, posto che, in assenza della pronuncia di incostituzionalità, alla Corte adita verrebbe precluso il dovere di
valutare la sussistenza dei superiore interesse del minore
a mantenere rapporti stabili con la ex compagna della
madre, in quanto, in accoglimento dei reclamo, in mancanza del potere di iniziativa del P.M., la domanda della
omissis dovrebbe essere rigettata, perché attualmente la
norma impugnata preclude alla Corte di riconoscere tra
i soggetti legittimati a conservare rapporti significativi
con il minore anche l’ex partner del genitore biologico.
Quanto all’ammissibilità della questione, già si è detto
dell’impossibilità di esperire un’interpretazione adeguatrice della norma in oggetto, stante il significato univoco della stessa.
omissis
P.Q.M.
Visti gli artt. 134 Cost. e 23 della legge 11 marzo 1953.
n. 87;
Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter
c.c., introdotto dall’art. 55 D.Lgs. n. 154/2013, nella
parte in cui - in violazione degli artt. 2, 3, 30, 31 e 117,
comma primo (sub specie in violazione dell’art. 8 CEDU, quale norma interposta), Cost. - non consente al
giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore conservare rapporti significativi con
l’ex partner del genitore biologico.
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Diritto civile
Genitore “sociale” e relazioni di fatto: riconosciuta la rilevanza
dell’interesse del minore a mantenere un rapporto stabile
e significativo con il convivente del genitore biologico
di Silvia Veronesi (*)
Le due decisioni che si commentano affrontano, per la prima volta, la questione del riconoscimento, da parte del nostro ordinamento, della figura del “genitore sociale” - ossia di quella persona che, pur non avendo vincoli biologici con i soggetti minorenni facenti parte del nucleo familiare, svolge un ruolo che con quello del genitore si identifica - e della rilevanza giuridica della
relazione che tra il primo ed i secondi si crea e merita di essere preservata, in relazione al preminente interesse degli stessi minori al mantenimento delle relazioni affettive, significative e durature. Non è stata considerata ostativa, nel caso concreto, al riconoscimento del diritto dei minorenni al mantenimento della relazione con l’adulto di riferimento, la circostanza che tale adulto
fosse la compagna della madre biologica, con la quale i bambini inizialmente convivevano.
In considerazione tuttavia dell’assenza, nel diritto positivo interno, di una norma che riconosca
espressamente il diritto dei soggetti minorenni, nel momento della disgregazione familiare, a
mantenere i rapporti significativi con gli adulti facenti parte del nucleo familiare di fatto, la Corte
d’Appello di Palermo ha, in modo convincente, evidenziato la contraddizione e l’irragionevolezza
della disparità di trattamento e sollevato l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter
c.c., introdotto dall’art. 55, D.Lgs. n. 154/2013, nella parte in cui - in violazione degli artt. 2, 3,
30, 31 e 117, comma primo (sub specie in violazione dell’art. 8 CEDU, quale norma interposta),
Cost. - non consente al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore conservare rapporti significativi con l’ex partner del genitore biologico.
I fatti e lo svolgimento del procedimento
di primo grado
Con ricorso ai sensi dell’art. 737 c.p.c. la ricorrente ha convenuto la ex-compagna innanzi al Tribunale di Palermo affinché lo stesso regolamentasse tempi e modi di frequentazione tra la stessa ricorrente e i due figli minori della ex convivente.
La ricorrente, a fondamento della propria domanda, ha dedotto:
- di aver intrattenuto una relazione sentimentale
per la durata di circa otto anni con la resistente,
con cui aveva anche condiviso, sostenendone oneri e responsabilità, un progetto di genitorialità, poi
realizzatosi grazie al ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo;
- di aver accudito ed accompagnato nella crescita,
sin dalla nascita, i figli della ex compagna, predisponendo una organizzazione di vita comune tale da garantire alla prole un contesto di sviluppo armonioso
e sereno, oltre che economicamente solido;
- di aver adito, assieme alla madre biologica dei
bambini, le autorità giudiziarie ritenute competenti
affinché le fossero riconosciuti diritti e responsabi-
lità analoghi a quelli della madre biologica nei
confronti dei bambini; azioni che non avevano
avuto tuttavia esito positivo;
- che, a causa dell’insorgere di contrasti e dissensi con la resistente per motivi sia economici sia riguardanti le scelte educative dei bambini, la relazione affettiva tra le due si era incrinata fino a
rompersi definitivamente nel febbraio 2014;
- che la madre biologica aveva reso difficoltosa
la frequentazione tra la ex compagna e i due figli.
Nel costituirsi in giudizio, la resistente ha sollevato una serie di eccezioni di natura processuale
chiedendo, nel merito, il rigetto delle domande avversarie, in considerazione dell’inesistenza, nell’ordinamento italiano, di un diritto soggettivo, in capo all’ex convivente del genitore, a mantenere rapporti con i figli del secondo a seguito della cessazione della convivenza tra i due.
Il Pubblico Ministero, intervenuto nel procedimento, ha assunto in proprio e nell’interesse pubblico, le richieste formulate dalla ricorrente. È stata
dunque espletata consulenza tecnica d’ufficio volta
ad accertare: i) l’esistenza di una relazione affettiva
tra i minori e la ricorrente; ii) la percezione, da
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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tre, con riguardo all’art. 337 ter c.c., la questione è
stata dichiarata inammissibile alla luce dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata che è stata poi adottata con la decisione assunta in via definitiva.
parte dei primi del ruolo della seconda e iii) le
eventuali conseguenze della interruzione dei rapporti tra i bambini e la convivente della madre.
Esaurita la consulenza tecnica, depositate le note
conclusive di entrambe le parti, il Pubblico Ministero ha concluso per l’accoglimento del ricorso,
facendo proprie le conclusioni cui erano pervenuti
i consulenti tecnici.
La decisione di merito è stata assunta dopo che
le diverse eccezioni preliminari sollevate dalla resistente sono state superate dal Tribunale positivamente (1) ad esclusione di quella relativa al difetto
di legittimazione attiva della ricorrente.
Tale ultima eccezione, infatti, non poteva che
essere accolta, stante la pacifica assenza nel nostro
ordinamento di una previsione che riconosca la responsabilità genitoriale in capo al genitore cd. “sociale”. Ancor meno, secondo il Collegio, la ricorrente poteva far valere diritti dei minori, in nome
e per conto dei medesimi, posto che la stessa non
era genitore biologico né adottivo dei medesimi.
Il Tribunale tuttavia, nonostante la carenza di
legittimazione attiva in capo alla ricorrente, ha
proseguito l’esame nel merito delle domande formulate nel ricorso introduttivo, a quel punto fatte
proprie dal Pubblico Ministero, interveniente necessario nel procedimento (2).
Il Tribunale ha infine affrontato la questione,
proposta dalla stessa ricorrente, di illegittimità costituzionale dell’art. 337 ter in relazione agli artt. 2 e
30 Cost., e in combinato disposto con gli artt. 317,
317 bis, 336 e 337 bis c.c. laddove tale normativa
non prevedeva il diritto del minore a mantenere un
rapporto equilibrato, continuativo e significativo
dello stesso minore con il genitore sociale nel caso
della separazione della coppia omosessuale.
Anche tale ultima questione è stata risolta dal
Tribunale con una dichiarazione di irrilevanza in
considerazione della mancanza del requisito della
strumentalità rispetto alla decisione da adottare
per quanto concerneva l’art. 317 bis (3) c.c., men-
Il Tribunale di Palermo, previa dichiarazione del
difetto di legittimazione attiva della ricorrente e in
accoglimento delle domande formulate dal Pubblico Ministero nell’esclusivo interesse dei minori, ha
disposto, sulla base di una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata degli
artt. 337 bis e 337 ter c.c., la regolamentazione della frequentazione tra i minori e la madre “sociale”,
ex convivente della madre biologica, secondo i
tempi e le modalità suggerite dai consulenti tecnici
incaricati dallo stesso Tribunale.
Con la decisione in esame il tribunale di Palermo ha affrontato la questione del mantenimento
dei rapporti affettivi significativi tra soggetti minori di età e l’eventuale adulto di riferimento facente
parte del nucleo familiare, indipendentemente dall’esistenza di vincoli biologici tra i primi ed il secondo, a seguito della disgregazione familiare.
Nello specifico la questione riguardava un nucleo familiare formato da due persone dello stesso
sesso e dai figli biologici di una delle due, ma la
questione e le argomentazioni svolte valgono, a parere di chi scrive, per tutti i legami familiari, significativi e duraturi, che si creino all’interno di un sistema familiare, tra chi svolge un ruolo genitoriale
(cd. genitore sociale) ed i soggetti minori.
Sotto il profilo fattuale, il Tribunale di Palermo,
grazie ai documenti depositati ed all’approfondita
ed attenta consulenza tecnica d’ufficio svolta, ha
ritenuto accertata l’esistenza di un pregresso nucleo
familiare di fatto formato dalla ricorrente e dalla
(1) In particolare: 1) incompetenza funzionale del Tribunale
ordinario di Palermo, a favore del Tribunale per i minorenni,
asseritamente competente ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.p.c.;
2) incompetenza territoriale del Tribunale di Palermo; 3) violazione del principio del ne bis in idem; 4) difetto di legittimazione della ricorrente; 5) irregolarità nelle modalità di svolgimento
della consulenza tecnica d’ufficio con particolare riferimento al
mancato rispetto del contraddittorio.
(2) Il Tribunale di Palermo assume che il P.M. sia da considerarsi interveniente necessario e come tale legittimato a far
proprie le conclusioni della ricorrente, sulla base dell’art. 70, n.
2, c.p.c., che prevede che lo stesso debba intervenire nelle
cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale
tra i coniugi, e, in virtù dell’intervento della Corte Costituziona-
le, con sentenza in data 25 giugno 1996, n. 214, “nei giudizi
tra genitori naturali che comportino l’adozione di provvedimenti relativi ai figli” (ai sensi di cui all’art. 9, L. n. 898/1970 e
dell’art. 710 c.p.c., nella formulazione risultante dall’intervento
della Corte costituzionale, con sentenza in data 9 novembre
1992, n. 416).
(3) Mentre infatti l’art. 317 bis c.c., fa riferimento al diritto
degli ascendenti “a mantenere rapporti significativi con i nipoti”, la domanda contenuta nelle conclusioni della ricorrente mirava all’“assunzione dei provvedimenti ritenuti più idonei ad
assicurare il superiore interesse dei due minori e, per l’effetto,
a stabilire i tempi e le modalità di frequentazione” degli stessi
con la ricorrente. Si trattava quindi di due posizioni differenti
da tutelare.
il Corriere giuridico 12/2015
La decisione del Tribunale di Palermo:
la centralità della questione
della salvaguardia dell’interesse del minore
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resistente, e dai due figli biologici della seconda; figli che riconoscevano anche la ricorrente come
soggetto appartenente al proprio sistema familiare,
nella posizione di “seconda” mamma.
Secondo lo stesso Tribunale, era indubbio che
una interruzione dei rapporti tra i bambini e la ricorrente - con la quale avevano convissuto stabilmente per oltre sei anni e che essi consideravano
come un secondo genitore - si sarebbe risolta in un
pregiudizio dei primi, in considerazione degli “effetti nefasti sulla loro continuità affettiva e narrativa” e quindi sulla evoluzione della loro identità
psichica che tale interruzione avrebbe provocato
(tali erano state le considerazioni conclusive dei
consulenti tecnici d’ufficio).
Il Tribunale ha individuato la fondatezza giuridica della propria decisione nella giurisprudenza della
Corte di Strasburgo createsi sull’interpretazione ed
applicazione dell’art. 8 della CEDU (che sancisce
il diritto del rispetto alla vita privata e familiare),
sia in relazione al principio di prevalenza dell’interesse del minore sia in relazione alla nozione di “vita familiare”, unitamente alla giurisprudenza della
Corte di Giustizia, in relazione all’interpretazione
degli artt. 7 e 24 della c.d. Carta di Nizza.
In particolare il Tribunale ha fatto presente che:
- l’affermazione del principio della “preminenza”
del “superiore interesse del fanciullo” risaliva alla Dichiarazione Universale dei diritti del Fanciullo del
1959 (4) ed aveva trovato espresso riconoscimento
nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, laddove l’art. 24 disponeva che in tutti gli atti
relativi ai bambini l’interesse superiore degli stessi
doveva essere considerato preminente (5);
- La Corte di Giustizia aveva precisato che l’art.
7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea, il cui contenuto corrispondeva a quello di
cui all’art. 8 CEDU, andava letto in combinato disposto con l’obbligo di prendere in considerazione
l’interesse superiore del minore, sancito dall’art. 24
della stessa Carta, tenendo conto della necessità
dello stesso minore di intrattenere rapporti personali con i due genitori (6);
- Il principio della prevalenza del superiore interesse del minore, pur non essendo sancito espressamente dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo del 1950, era stato fatto proprio dalla Corte di Strasburgo, nell’interpretazione dell’art. 8 della stessa Carta, fin da tempi risalenti;
- La nozione “di vita familiare” di cui all’art. 8
della CEDU, era stata progressivamente estesa dalla Corte di Strasburgo prima nei confronti delle
coppie non coniugate, e poi ai legami familiari di
fatto, in presenza di vincoli di natura affettiva anche se non corrispondenti a vincoli biologici (7).
La stessa norma, peraltro, seppur non sancisse un
diritto a costituire una famiglia, sanciva comunque
il diritto a vedere tutelata una famiglia - intesa in
senso ampio - già esistente;
- Ai sensi dell’art. 337 ter c.c., applicabile anche
ai figli nati fuori del matrimonio, “il figlio minore
ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e
continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere
cura, educazione, istruzione e assistenza morale da
entrambi e di mantenere rapporti significativi con
gli scendenti, e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”;
- Per il giudice nazionale vigeva l’obbligo di interpretare le norme interne in modo conforme alle
norme convenzionali, secondo l’esegesi che di esse
veniva data dalle Corti internazionali, ricorrendo
all’eccezione di incostituzionalità delle norme inter-
(4) Principi secondo e settimo della Dichiarazione Universale dei diritti del Fanciullo proclamata il 20 novembre 1959 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite;
(5) La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, è
stata proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (c.d. Carta di Nizza), è stata modificata il 14 dicembre 2007 (c.d. Carta di Strasburgo, proclamata il 12 dicembre 2007), ed è entrata in vigore, nel testo consolidato, unitamente al Trattato di Lisbona, a
seguito della pubblicazione sulla G.U.U.E. il 30 marzo 2010.
(6) Nella sentenza con cui sono stati decisi due procedimenti
riuniti (C-356/11 e C-357/11), la Corte di Giustizia Europea, ha affermato, in materia di ricongiungimento familiare, che, nel corso
dell’esame delle domande di ingresso, e quindi nello stabilire, segnatamente, se i requisiti di cui all’art. 7, paragrafo 1, Dir.
2003/86 vengono soddisfatti, le disposizioni di detta direttiva devono essere interpretate e applicate alla luce degli artt. 7 e 24,
paragrafi 2 e 3, della Carta, come risulta del resto dal tenore letterale del considerando 2 e dall’art. 5, paragrafo 5, di tale direttiva, i quali impongono agli Stati membri di esaminare le domande di ricongiungimento in questione nell’interesse dei minori di
cui trattasi e nell’ottica di favorire la vita familiare. Di conseguen-
za, spetta alle autorità nazionali competenti, in sede di attuazione
della Dir. 2003/86 e dell’esame delle domande di ricongiungimento familiare, procedere a una valutazione equilibrata e ragionevole di tutti gli interessi in gioco, tenendo conto in particolare
di quelli dei minori interessati.
(7) Il Tribunale di Palermo, con riguardo all’affermazione del
principio della prevalenza del superiore interesse del minore e
della nozione di vita familiare, ha menzionato le seguenti decisioni della Corte Europea dei diritti dell’Uomo: sent. 13 giugno
1979, Marckx v. Belgium; sent. 26 maggio 1994, Keegan c. Irlanda; sent. 22 aprile 1997, X., Y. E Z. c. Regno Unito nonché la sentenza del 27 aprile 2010 (divenuta definitiva il 22 novembre
2010), Moretti e Benedetti v. Italia (Ricorso n. 16318/07); caso,
quest’ultimo, in cui una coppia aveva accolto in affido, ad un
mese dalla nascita, una infante, trattandola come una figlia per i
diciannove mesi successivi e, avendo proposto domanda di adozione, si era vista negare tale possibilità; la Corte di Strasburgo,
ritenendo rilevante il legame che si era instaurato tra la coppia
affidataria e la bambina affidata, ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 Cedu, per la mancanza del rispetto della vita familiare.
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ne solo qualora non fosse possibile fornire di esse
una interpretazione convenzionalmente orientata,
nonché l’obbligo di fare applicazione diretta della
normativa europea che, qualora contrastante con la
norma interna, doveva prevalere sulla seconda (8).
Tutto ciò argomentato, il Tribunale di Palermo,
fornendo una interpretazione evolutiva e convenzionalmente orientata dell’art. 337 ter c.c., ha esteso l’ambito di applicazione di tale norma al genitore “sociale”, ossia a quel soggetto che abbia instaurato con il minore un legale familiare de facto significativo e duraturo. Il Collegio dunque, nel preminente interesse dei due minori a non veder interrotti od affievoliti i rapporti tra essi e la “madre sociale” con la quale avevano vissuto prima della disgregazione del nucleo familiare, ha accolto le domande del Pubblico Ministero volte ad ottenere
una regolamentazione della frequentazione tra i
bambini e la ricorrente.
Non è stata considerata ostativa a detta decisione la circostanza che, compagna della madre biolo-
gica fosse parimenti una donna, in considerazione
della pacifica constatazione, da parte dei giudici
nazionali e delle Corti sovranazionali, che, allo stato, in assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza significativi in senso contrario, i legami familiari che nascevano da una coppia dello stesso
sesso meritavano tutela come quelli nati nel contesto di una famiglia “tradizionale” (9).
Assorbente è stata poi considerata la constatazione conclusiva secondo cui non si discuteva di
un diritto “alla filiazione” da attribuire ex novo ad
una coppia omosessuale quanto del diritto dei minori, membri di un nucleo familiare di fatto, a
mantenere una relazione già esistente.
(8) Il Tribunale di Palermo, cita il principio sancito dalle sentenze della Corte cost. nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007, vertenti su identica questione di illegittimità costituzionale, secondo cui il nuovo testo dell’art. 117, comma 1, Cost. (“la potestà
legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto
della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”), seppur non attribuisca rango costituzionale alle norme contenute in accordi
internazionali, come è il caso delle norme Cedu, obbliga il legislatore ordinario a rispettare tali norme, con la conseguenza
che la norma nazionale incompatibile con la norma Cedu e
dunque con gli obblighi internazionali di cui all’art. 117, comma 1, Cost., viola per ciò stesso tale parametro costituzionale.
“Ne consegue che, al giudice comune spetta interpretare la
norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale
‘interposta’, egli deve investire questa Corte (Costituzionale,
ndr) della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma [omissis]” (Corte
cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349; conformi: Corte cost. 11
marzo 2011, n. 80; Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236 e Corte
cost. 26 gennaio 2012, n. 15). Nel senso che il giudice debba
conformarsi alla sola giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente in modo da rispettarne la sostanza e fermo restando il margine di apprezzamento che compete allo
Stato membro, Corte Cost. 26 marzo 2015, n. 49; conformi:
Corte cost. 11 novembre 2011, n. 303; Corte cost. 22 luglio
2011, n. 236; Corte cost. 4 dicembre 2009, n. 317 e Corte
cost. 26 novembre 2009, n. 311.
Correttamente peraltro il Tribunale di Palermo ha evidenziato che, nel caso di specie, si poteva ritenere che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo interpretativa dell’art. 8 Cedu,
dovesse ritenersi diritto direttamente applicabile all’interno del
nostro ordinamento, in considerazione della corrispondenza
del contenuto di tale norma a quello dell’art. 7, della Carta dei
Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che, parimenti, recita: “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata
e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni”. Infatti, in virtù del combinato disposto dell’art. 53, comma
3, Carta Europea Diritti Fondamentali dell’UE, che dispone che
laddove detta Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione Europea del 1950, “il significato e la
portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta
Convenzione”, e dell’art. 6, comma 1, T.U.E., che sancisce che
l’Unione riconosce alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE lo
stesso valore giuridico dei Trattati, e dell’art. 6, comma 3,
T.U.E., i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU corrispondenti a quelli previsti da tale ultima Carta avrebbero dovuto essere considerati incorporati nei principi generali dell’Unione e
come tali direttamente applicabili all’interno degli Stati Membri. Per una compiuta ed esaustiva analisi dei ‘rapporti’ tra la
Corte Europea dei diritti dell’Uomo, la Corte di Giustizia e i giudici comuni nazionali, si veda Pierpaolo Gori, Il ruolo del giudice ordinario dopo il parere della Corte di Giustizia C-2/13 del
18.12.2014, tra efficacia ed esecuzione delle sentenze CEDU, in
Persona e danno (http://www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=47386&catid=211) e Europeanrights (http://www.europeanrights.eu/index.php?funzione=S&op=5&id=1093).
(9) In tal senso Trib. Minorenni di Roma 30 luglio 2014, n.
299, in Fam. e dir., 2015, 574, con nota di M. G. Ruo, A proposito di omogenitorialità adottiva ed interesse del minore. Nello
stesso senso, di assenza di motivi ostativi alla cura ed all’accudimento di minorenni da parte di una coppia omogenitoriale:
Cass. 11 gennaio 2013, n. 601, in Dir. fam. pers., 2013, 2, 515,
Giust. civ., 2013, 11-12, I, 2508 e Foro it., 2013, 4, I, 1193; Trib.
Palermo 9 dicembre 2013, in Foro it., 2014, 4, I, 1132, con nota di Casaburi, Cass. 8 novembre 2013, n. 25213, in Foro it.,
2014, 1, 59, Trib. minorenni Bologna, 31 ottobre 2013, in Foro
it., 1, I, 59. Rispetto alla Giurisprudenza della Corte Europea, si
veda recentemente, X e altri c. Austria, 19 febbraio 2013 (ricorso n. 19010/2007). Si ricorda infine, seppur non riguardante
specificamente l’idoneità educativa e genitoriale delle coppie
dello stesso sesso, la recente sentenza della Corte Europea dei
diritti dell’Uomo di condanna dell’Italia per violazione dell’art.
8 Cedu, a causa del mancato adempimento da parte dello Stato degli obblighi positivi volti ad assicurare alle coppie dello
stesso sesso la disponibilità di uno specifico istituto legale che
garantisca il riconoscimento e la tutela della loro unione (Cedu,
Oliari and Others v. Italy, 21 luglio 2015, ricorso n. 18766/11 e
36030/11).
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La decisione della Corte d’Appello di Palermo
A seguito di reclamo presentato dalla resistente
- che ha riproposto le questioni preliminari già sollevate nel procedimento di primo grado - la Corte
d’Appello di Palermo, pur dando atto della condi-
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Le due decisioni che si commentano affrontano
la questione del riconoscimento, da parte dell’ordi-
namento, della figura del “genitore sociale”, ossia
di quella persona che, pur non avendo vincoli biologici con i soggetti minorenni facenti parte del
nucleo familiare, svolge un ruolo che con quello
del genitore si identifica.
Non esiste infatti nel nostro ordinamento una
disciplina, generale ed organica, che regolamenti i
rapporti tra il genitore “sociale”, coinvolto nell’educazione e nell’istruzione del figlio minore del coniuge o del partner in virtù della convivenza, e
detto minore. Tale, a volte importante, figura di riferimento per il soggetto minore, non trova alcun
riconoscimento e sfugge agli schemi attraverso cui
il nostro legislatore ha, fino ad ora, disegnato le relazioni parentali.
I pochi istituti esistenti che vengono in rilievo,
come l’inserimento del figlio del coniuge nel nuovo
nucleo familiare ai sensi dell’art. 252 c.p.c., l’adozione del maggiore di età ai sensi degli artt. 291 ss., e
l’adozione in casi particolari ai sensi dell’art. 44,
comma 1, lett. b), L. n. 184/1983, presuppongono
l’esistenza di un vincolo di coniugio tra i due soggetti conviventi (dei quali uno solo genitore biologico o adottivo dei soggetti minori appartenenti al
medesimo nucleo). Vincolo che caratterizza le famiglie “tradizionali” e non quelle, ad esempio, costituite da una coppia omosessuale o da una coppia di
fatto rispetto a figli non comuni ad entrambi (10).
La dottrina più attenta, a fronte della veloce e
significativa trasformazione dell’istituto familiare
propria degli ultimi decenni, si è così dedicata a
studiare le nuove relazioni familiari e ad individuare possibili strumenti di tutela, soprattutto dei soggetti minori, che sopperissero al vuoto normativo
sul punto (11). In particolare l’attenzione si è
orientata sui seguenti interrogativi: se ed in che
termini il genitore “sociale” sia tenuto, od abbia facoltà, di provvedere alle esigenze di mantenimento
(10) Per una analisi degli istituti giuridici e delle posizioni
dottrinali che vengono in rilievo con riguardo alla posizione del
“genitore sociale”, si vd. Silvia Veronesi, Le ‘nuove famiglie’ e
la posizione del genitore ‘sociale’ rispetto ai figli del coniuge o
del nuovo partner, in La famiglia si trasforma, a cura di G.O. Cesaro - P. Lovati - G. Mastrangelo, Milano, 2014. Con riguardo
al rapporto tra gli istituti positivi dell’adozione del figlio del coniuge ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. b), L. n. 184/1983 e
dell’adozione del maggiore di età e la tutela della famiglia ricostituita, si veda G. Corapi, l’adozione di maggiorenne nel caso
particolare di famiglia ricostituita, in Fam. pers. succ., 2007, 3.
(11) Si vedano, in proposito, tra gli altri: T. Auletta, La famiglia rinnovata: problemi e prospettive, a cura di Bianca - Togliatti - Micci, Interventi di sostegno alla genitorialità nelle famiglie ricomposte, Milano, 2005; G. Bilò, I problemi della famiglia ricostituita e le soluzioni dell’ordinamento inglese, in Familia, 2004,
834; Bruscuglia, Famiglie ricomposte e rapporti patrimoniali, in
Interventi di sostegno alla genitorialità nelle famiglie ricomposte,
Milano, 2005; D. Buzzelli, la famiglia ‘composita’, Napoli, 2012;
E. Carbone, Della famiglia, sub art. 252, a cura di Gabrielli,
Commentario del Codice civile, Torino, 2010; A. De Mauro, Le
famiglie ricomposte, in Familia, 2005; M. Dell’Utri, Famiglie ricomposte e genitori ‘di fatto’, in Familia, 2005; G. Ferrando, Famiglie ricomposte e nuovi genitori, in Bilanci e prospettive del diritto di famiglia a trent’anni dalla riforma, a cura di T. Auletta,
Milano, 2007; Id., Famiglie ricomposte e nuovi genitori, in Giur.
it., 2007, 12; Id., Genitori e figli nella giurisprudenza della Corte
Europea dei diritti dell’Uomo, in Fam. e dir., 2011. 1049; G.
Oberto, Famiglia ricomposta e obbligazione naturale, in Famiglie
ricostituite: aspetti patrimoniali, diritti e responsabilità del genitore sociale (traccia per una relazione), in www.giacomooberto.com; P. Rescigno, Le famiglie ricomposte: nuove prospettive
giuridiche, in Familia, 2002; M.G. Scacchetti, La famiglia ricomposta, in Giur. merito, Speciale riforma diritto di famiglia, 2006;
M. Sesta, Verso nuove trasformazioni del diritto di famiglia italiano, in Familia, 2003.; M. Sesta, l’unicità dello stato di filiazione e
visibilità delle conclusioni del giudice di prime cure con riguardo alle prime tre questioni preliminari, nonché della valutazione di detto giudice con
riguardo alla rispondenza al migliore interesse dei
minorenni coinvolti del mantenimento dei rapporti con colei che essi consideravano come seconda
“madre”, ha concluso diversamente rispetto alla
possibilità per il Pubblico Ministero di far propria
l’azione in oggetto, in assenza di legittimazione d’agire in capo alla ricorrente nel primo giudizio, e alla interpretabilità della norma di cui all’art. 337 ter
c.c., in senso convenzionalmente e costituzionalmente orientato.
La Corte, infatti, in considerazione della struttura “rigida” della norma di cui all’art. 337 ter c.c.,
ha ritenuto che essa non fosse suscettibile di essere
interpretata in modo da ricomprendere, tra i soggetti legittimati a conservare rapporti significativi
con i minori, gli adulti di riferimento privi di rapporti di parentela con essi. Pertanto, in considerazione dell’insanabile contrasto in via interpretativa
tra l’interesse del minore a mantenere rapporti significativi con il “genitore sociale” (nel caso specifico l’ex partner del genitore biologico) ed il diritto
interno, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter c.c., nella parte in cui
non consente all’autorità giudiziaria, di effettuare
la valutazione nel caso concreto del migliore interesse del minore, in violazione degli artt. 2, 3, 30,
31 e 117, comma 1, Cost. (quest’ultimo con riferimento all’art. 8 Cedu, quale norma interposta).
L’irrilevanza giuridica dei rapporti affettivi
tra genitore ‘sociale’ e figli del convivente
secondo il diritto positivo interno
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dei figli dell’altro; se ed in che modo lo stesso possa
o debba provvedere alle cure quotidiane ed alla
educazione dei figli non propri, benché conviventi,
ed, infine, quale sia la sorte della relazione, stabile
e duratura, tra di essi, in caso di cessazione della
convivenza tra il primo ed il genitore biologico.
Secondo un primo orientamento dottrinale, che
presuppone però l’esistenza di un vincolo matrimoniale tra i due soggetti conviventi, la regolamentazione dei rapporti tra i vari membri all’interno della nuova famiglia dovrebbe avvenire con metodo
pattizio. In particolare, i coniugi potrebbero stabilire, ai sensi dell’art. 144 c.c. e con mera rilevanza
interna, obblighi di mantenimento del minore a
carico del coniuge del genitore, oppure riconoscere
al medesimo la facoltà di esercitare poteri educativi
nei suoi riguardi (12).
Infatti, mentre sarebbe da escludersi la possibilità
di una delega integrale delle funzioni educative ad
un terzo, in presenza di genitori idonei, dovrebbe ritenersi ammissibile, in linea teorica, una delega parziale di tali funzioni (13); delega che potrebbe avvenire solo in virtù di un accordo tra i coniugi ai sensi
dell’art. 144 c.c., non necessariamente nelle forme
di un negozio scritto (14), o di un accordo di convivenza. In tal modo, i coniugi potrebbero concordare
che il non - genitore collabori nelle cure e nell’educazione del minore, con delega anche soltanto tacita all’esercizio della responsabilità (15).
Tale menzionata regolamentazione pattizia, tuttavia, configurabile come “indirizzo della vita familiare”, oltre a riguardare solo coppie coniugate, è stata
considerata non idonea a risolvere eventuali problemi successori, in caso di decesso, inaspettato, del genitore sociale e quindi in assenza di testamento, così
come a dare indicazioni sulla sorte della relazione
socio-affettiva tra genitore sociale e figlio non suo
in caso di rottura del secondo matrimonio o cessazione della convivenza tra i due partner (16).
Per la regolamentazione dello svolgimento della
vita in comune, autorevole dottrina si è anche appellata al principio partecipativo (nel senso della
considerazione della volontà di tutti i soggetti affluiti nella famiglia ricomposta, o almeno di tutti i
soggetti dotati di un sufficiente grado di consapevolezza), alle regole sui gruppi associativi, a quelle
sull’impresa familiare ed all’ingiustificato arricchimento (17).
Con riguardo agli oneri di mantenimento è stato
poi osservato come, anche in assenza di un vincolo
adottivo o di un accordo tra i coniugi ai sensi dell’art. 144 c.c. o di un accordo di convivenza, il genitore sociale possa provvedere di fatto al sostentamento della prole del proprio coniuge o partner, alleviando così il peso economico dei genitori di sangue. In questo caso, la prestazione del genitore sociale configurerebbe, secondo una parte della dottrina,
l’adempimento di una obbligazione naturale, nascente dalla comunione di vita e di affetti caratterizzante
la convivenza familiare (18). Conseguenza di tale
qualificazione è che l’obbligazione avrebbe le caratteristiche dell’irripetibilità ed incoercibilità (19).
Altro istituto che è stato ritenuto applicabile al
diritto di famiglia ed in particolare alla famiglia ricomposta è quello della negotiorum gestio, secondo
il quale chi, senza esservi obbligato, assume scientemente la gestione di un affare altrui, è tenuto a
continuarla ed a condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso
(art. 2028 c.c. ss.) (20).
Secondo altro orientamento dottrinale, invece,
l’obbligo del genitore c.d. “sociale” di prendersi cura e provvedere alle esigenze, anche materiali, del
figlio dell’altro coniuge o convivente, si fondereb-
i nuovi assetti delle relazioni familiari, in Fam. e dir., 2013; I. Thery, Le costellazioni familiari ricomposte: una questione sociale e
culturale, a cura di S. Mazzoni, Nuove costellazioni familiari, Milano, 2002; F. Uccella, Dalla famiglia pluriematica alla famiglia
putativa come soggetto giuridico: prime considerazioni, in Familia, 2005.
(12) M. Sesta, Verso nuove trasformazioni del diritto di famiglia italiano, cit., 159.
(13) D. Buzzelli, op. cit., 237, ed ivi Giorgianni, Note introduttive agli artt. 315-318 c.c., in Cian - Oppo - Trabucchi (a cura di), Commentario al diritto italiano della famiglia, Padova,
1992, 305.
(14) Villa, Gli effetti del matrimonio, in Bonilini - Cattaneo (a
cura di), Il Diritto di famiglia, I, Famiglia e matrimonio, in Tratt.,
Torino, 1997, 336.
(15) Da tale ricostruzione, vengono fatti derivare i seguenti
corollari: i) la delega parziale della responsabilità genitoriale
avrà rilevanza solo interna nei rapporti tra il genitore di sangue
ed il genitore sociale; ii) gli atti di cura e le funzioni educative
delegate saranno riferibili sempre al genitore delegante; iii) la
delega sarà revocabile in qualsiasi momento. Si veda diffusamente, D. Buzzelli, op. cit., 245 ss.
(16) M. Sesta, op. ult. cit., 159.
(17) P. Rescigno, op. cit., 8.
(18) T. Auletta, op. cit., 65, 66. Sul punto si veda anche G.
Oberto, Famiglia ricomposta e obbligazione naturale, in Famiglie
ricostituite: aspetti patrimoniali, diritti e responsabilità del genitore sociale (traccia per una relazione) in www.giacomooberto.com/oberto_famiglie_ricostituite_traccia_relazione_milano_2012.htm.
(19) Bruscuglia, Famiglie ricomposte e rapporti patrimoniali,
in Interventi di sostegno alla genitorialità nelle famiglie ricomposte, Milano, 2005, 36.
(20) G. Oberto, Famiglia ricomposta e negotiorum gestio, in
Famiglie ricostituite: aspetti patrimoniali, diritti e responsabilità
del genitore sociale (traccia per una relazione), cit., ed ivi Marzario, in www.diritto.it/docs/28988#.
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be sul fatto stesso dell’accoglimento del minore
presso di sé e quindi sulla base del principio generale per il quale chi convive con una persona che
non è in grado di provvedere a sé stessa è tenuto a
prendersene cura. Principio considerato tanto più
corretto in quanto la convivenza si realizzi nell’ambito della comunità familiare, ove i principi di collaborazione e contribuzione oltre a quello della solidarietà devono ispirare i comportamenti di tutti i
componenti del relativo nucleo (21).
L’aspetto, venuto in rilievo nel caso che si commenta, che è stato pure indagato dalla dottrina, è
se il minore avesse diritto a mantenere rapporti significativi con il coniuge o partner del proprio genitore in caso di disgregazione della nuova famiglia
e soprattutto se, passaggio non automatico, l’adulto
non genitore avesse speculare diritto nei confronti
di detto minore.
Secondo un orientamento dottrinale, dal disposto dell’art. 155, comma 1, c.c. (22), trasfuso in virtù della riforma sulla filiazione, nell’art. 337 ter,
comma 1, c.c., correttamente interpretato, emergerebbe il diritto del minore non tanto ad intrattenere sempre e comunque rapporti con ascendenti e
parenti quanto a vedere conservati rapporti significativi con soggetti diversi dai genitori; soggetti che
la norma individuerebbe, in un elenco non tassativo, negli ascendenti e nei parenti di ciascun ramo
genitoriale (23). La norma, infatti, così come for-
La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha recentemente riaffermato e sviluppato, fino alle
estreme conseguenze, il principio della prevalenza
dell’interesse del minore di età in tutte le decisioni
che lo riguardano; principio che deve essere considerato vincolante per lo Stato aderente alla Con-
(21) In tal senso, testualmente, D. Buzzelli, op. cit., 252.
Conseguenza di tale ricostruzione dell’obbligazione di mantenimento in capo al genitore sociale è che tale obbligo si configurerebbe, stante l’obbligo primario ed inderogabile in capo ai
genitori biologici, solo quando le esigenze materiali del minore
restino insoddisfatte. Quello che si delineerebbe in capo all’adulto non genitore sarebbe quindi un obbligo con funzioni sussidiarie ma pur sempre un vero e proprio obbligo giuridico e,
in quanto tale, coercibile.
(22) Ai sensi dell’art. 155, comma 1, c.c. (ora art. 337 ter,
comma 1, c.c.) “anche in caso di separazione personale dei
genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto
equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun
ramo genitoriale”.
(23) Si veda diffusamente D. Buzzelli, op. cit., 253 ss.
(24) G. Ferrando, Famiglie ricomposte e nuovi genitori, in T.
Auletta (a cura di), Bilanci e prospettive del diritto di famiglia a
trent’anni dalla riforma, Milano, 2007, 301 ss., ed ancora G.
Ferrando, Genitori e figli nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, in Fam. e dir., 2009, 1052, si domanda
se, rispetto a quanto espressamente formulato nell’art. 155,
comma 1, c.c., (ora art. 337 ter, comma 1, c.c.) “non si potrebbe fare un passo ulteriore e cominciare a chiedersi se oltre al
diritto ad intrattenere rapporti con i parenti non si possa in
qualche caso intravvedere il diritto alla protezione dei legami
di fatto instaurati nell’ambito delle cd. famiglia moltiplicate dove non è il vincolo di sangue, ma il rapporto di convivenza e di
protezione ad acquistare importanza nell’esperienza della vita
dei bambini”. D. Buzzelli, op. cit., 259 ss., inoltre, a conforto
del risultato raggiunto, rammenta il conforme indirizzo adottato da ordinamenti a noi vicini come quello francese e quello tedesco. L’Autore fa presente in particolare che l’art. 371 - 4 del
code civil fa espresso riferimento all’interesse del figlio di intrattenere anche relazioni con soggetti non aventi con lo stesso vincoli di parentela, nonché che l’art. 1626 del BGB prevede
che “per il benessere del figlio è richiesta di regola la frequentazione non solo di entrambi i genitori, ma anche di altre persone, con le quali il figlio ha legami, se la loro conservazione
giovi al suo sviluppo”, mentre l’art. 1685 contempla espressamente il diritto di frequentazione del minore “per il coniuge o il
precedente coniuge di un genitore nonché per il convivente registrato o il precedente convivente registrato di un genitore,
che ha convissuto con il figlio a lungo sotto lo stesso tetto”.
(25) D. Buzzelli, op. cit., 259 ss., il quale, a conforto del risultato raggiunto, rammenta il conforme indirizzo adottato da
ordinamenti a noi vicini come quello francese e quello tedesco. L’Autore fa presente in particolare che l’art. 371 - 4 del
code civil fa espresso riferimento all’interesse del figlio di intrattenere anche relazioni con soggetti non aventi con lo stesso vincoli di parentela, nonché che l’art. 1626 del BGB prevede
che “per il benessere del figlio è richiesta di regola la frequentazione non solo di entrambi i genitori, ma anche di altre persone, con le quali il figlio ha legami, se la loro conservazione
giovi al suo sviluppo”, mentre l’art. 1685 contempla espressamente il diritto di frequentazione del minore “per il coniuge o il
precedente coniuge di un genitore nonché per il convivente registrato o il precedente convivente registrato di un genitore,
che ha convissuto con il figlio a lungo sotto lo stesso tetto”.
1564
mulata è stata considerata troppo limitata, in
quanto si baserebbe su vincoli formali, mentre trascurerebbe rapporti sviluppatesi nella consuetudine
di vita e potenzialmente idonei ad avere un profondo significato affettivo (24).
Tale interpretazione dell’art. 337 ter, comma 1,
c.c., consentirebbe dunque di affermare che la relazione affettiva significativa tra il minore e il coniuge o convivente del genitore sia rilevante sul piano
giuridico e rientri tra quei rapporti che il minore
ha diritto a conservare anche in caso di disgregazione della nuova famiglia (25).
Proprio tale ultima norma, interpretata in modo
conforme al diritto sovranazionale, è stata utilizzata
dal Tribunale di Palermo per riconoscere ai figli
minori coinvolti nella vicenda che si commenta il
diritto a mantenere rapporti significativi con la figura adulta di riferimento.
La rinnovata rilevanza del dato ‘sociale’
rispetto al vincolo biologico nella più
recente giurisprudenza della Corte Europea
dei diritti dell’Uomo e nel diritto interno
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venzione, anche se considerato in contrapposizione
con il limite di ordine pubblico, e che prescinde
dalla natura del legame - parentale, genetico o “sociale” - da preservare, tra lo stesso minore ed il
componente del nucleo familiare di fatto.
In un recente caso di filiazione formata all’estero (26), la Corte Europea dei diritti dell’uomo, in
assenza di qualsiasi vincolo parentale tra i pretesi
genitori ed il minore, ed anzi proprio nell’ottica
della protezione della famiglia di fatto e del superiore interesse del minore, ha ritenuto applicabile
l’art. 8 Cedu ed ha considerato il rifiuto, da parte
delle autorità giudiziarie italiane, di riconoscere la
filiazione stabilita all’estero e le misure che ne erano coerentemente seguite in applicazione della
normativa interna (allontanamento del minore dal
contesto familiare, con la presa in carico del bambino da parte dell’ente; suo collocamento presso
una comunità e successivamente presso una famiglia affidataria) come misure non “necessarie” all’interno di una “società democratica”, ai sensi dell’art.
8 della Convenzione. La Corte ha così concluso
che la stretta applicazione delle disposizioni legislative nazionali da parte delle autorità Italiane non
aveva rappresentato il giusto bilanciamento tra gli
interessi pubblici e gli interessi privati in gioco, in
considerazione del principio secondo il quale, ogni
volta che una controversia coinvolge un minore di
età, l’interesse di quest’ultimo deve prevalere. L’Italia è stata quindi condannata dalla Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 8 della Convenzione
Europea dei diritti dell’Uomo (27).
Non vi è dubbio che la fermezza ed il vigore con
le quali la Corte di Strasburgo protegge le relazioni
familiari intrattenute dal minore di età, indipendentemente dalla natura di tali relazioni, non possano
rimanere privi di considerazione da parte del Giudice nazionale. È altrettanto indubbio che, nel momento in cui l’Unione Europea, dovesse aderire alla
Convenzione dei diritti dell’Uomo e delle libertà
fondamentali, le norme di detta Convenzione, così
come interpretate dalla Corte di Strasburgo, potranno essere considerate di diretta applicazione all’interno degli Stati membri, così eliminando ogni margine di discrezionalità in proposito (28).
Non si deve poi trascurare che, anche nel diritto
positivo interno, il rapporto di filiazione si sta sempre più “sganciando” dall’appartenenza genetica: a
partire dalla centralità attribuita all’interesse morale
e materiale del minore di età dalla L. 4 maggio
1983, n. 184, e successive modifiche, in tema di
adozione ed affidamento dei minori, alla ultima riforma sulla filiazione di cui al D.Lgs. n. 154/2013,
che, nel prevedere un termine di cinque anni dalla
nascita per l’esercizio delle azioni di disconoscimento di paternità e di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, ha dato prevalenza alla
stabilità del rapporto di filiazione e dunque ai legami ed agli affetti createsi tra il minore e gli adulti di
riferimento (parte integrante dell’identità dello stesso minore) piuttosto che al vincolo biologico (29).
Con la stessa legge di riforma della filiazione n.
219/2012 peraltro è stata estesa la nozione di parentela, contenuta nell’art. 74 c.c., quale vincolo
tra persone che discendono da uno stesso stipite, ai
casi in cui la filiazione sia avvenuta al di fuori del
matrimonio e ai casi di filiazione adottiva, con l’unica esclusione dell’adozione dei maggiore di età. Il
rapporto di parentela viene dunque esteso anche
alle relazioni tra i membri dello stesso gruppo familiare pur in assenza di un vincolo di sangue e, secondo la dottrina più attenta, ai rapporti derivanti
(26) Corte Europea dei diritti dell’Uomo 27 gennaio 2015,
Affaire Paradiso et Campanelli c. Italie (ricorso n. 25358/12).
Nel caso di specie i ricorrenti erano due coniugi di cittadinanza
italiana che avevano concluso un accordo di maternità surrogata con una società avente sede in Russia, secondo il diritto
nazionale russo. A seguito della fecondazione in vitro avvenuta
in una clinica di Mosca, il bambino è stato registrato come figlio dei ricorrenti, senza la menzione della gestazione altrui.
Rientrati in Italia con l’infante, contestualmente alla richiesta
della pretesa madre di registrare l’atto di nascita, il consolato
italiano a Mosca ha inviato i documenti relativi alla nascita del
bambino al Tribunale per i minorenni competente in Italia, allertandolo del fatto che tali documenti, verificati al momento
del rilascio dell’autorizzazione all’espatrio del bambino, contenevano dati, a loro parere, falsi. I ricorrenti sono stati quindi
imputati dei reati di alterazione di stato e di falsità oltre che incriminati ai sensi dell’art. 72, legge n. 184/1983. Il P.M. ha avviato di conseguenza una procedura di adottabilità del bambino, nell’ambito della quale i ricorrenti ed il bambino sono stati
soggetti al test del DNA dal quale è risultato che il bambino
era effettivamente estraneo, sotto il profilo genetico, ad en-
trambi i pretesi genitori. A seguito di questa constatazione, il
certificato di nascita non è stato trascritto ed il Pubblico Ministero ha chiesto che il bambino venisse collocato in Comunità
e che allo stesso venisse attribuita una nuova identità (che però è sopraggiunta dopo una attesa di due anni, durante i quali
il bambino non ne aveva una propria).
(27) Si segnala che la causa in questione, Paradiso e Campanelli c. Italia, è stata sottoposta, il 1° giugno 2015, all’esame
della Grande Camera.
(28) Si veda la nt. 8 che precede.
(29) Sulla base dei principi di autoresponsabilità nel rapporto di filiazione e di prevalente interesse del minore, il Tribunale
di Roma, con ordinanza in data 8 agosto 2014, in Foro it.,
2014, 10, I, 2934, nota di Casaburi, ha rigettato il ricorso ai
sensi dell’art. 700 c.p.c. presentato da due genitori “genetici”
volto ad impedire, in via cautelare, la formazione del rapporto
di filiazione tra la madre gestante che, per errore umano, aveva portato in grembo e partorito due gemelli formatesi da embrioni geneticamente appartenenti ai ricorrenti (sottoposti alle
stesse tecniche di procreazione medicalmente assistita nell’istituto di cura) e gli stessi gemelli.
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da adozione speciale, ossia anche a quei casi in cui
non vi sia un rapporto di filiazione derivante da
adozione legittimante (30).
La creazione di rapporti di parentela a prescindere
dal matrimonio tra i genitori, unitamente all’abbandono dell’idea che la condivisione della responsabilità genitoriale sulla prole si fondi sulla convivenza
dei genitori, consente di valorizzare il passaggio pure
effettuato dalla stessa riforma della filiazione da potestà a responsabilità genitoriale. Come è stato
autorevolmente osservato, tale passaggio può essere
visto come il corollario di un nuovo assetto dei rapporti familiari che il legislatore ha delineato prendendo atto della pluralità dei modelli familiari che
caratterizzano l’unione dei genitori e perseguendo
l’obiettivo di garantire al figlio la maggiore coesione
possibile della rete familiare che lo circonda (31).
La sempre maggiore considerazione dell’importanza delle relazioni socio-affettive tra i soggetti
minori di età e gli adulti di riferimento trova conferma inoltre nella recente promulgazione della L.
n. 173/2015 che, modificando la legge sull’adozione n. 184/1983, ha introdotto il diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare. Così, secondo la nuova normativa, il
minorenne affidato temporaneamente ad una fami-
glia non solo avrà possibilità, una volta dichiarato
adottabile e sussistendone i requisiti, di essere
adottato dalla stessa famiglia, ma anche - qualora
lo stesso faccia rientro nella famiglia biologica o
venga dato in affidamento o in adozione ad altra
famiglia - di vedere comunque tutelata la “continuità” delle “positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento” (32).
Sempre nella direzione volta a creare strumenti di
tutela del rapporto tra il genitore “sociale” e i minorenni conviventi, era stato presentato al Senato della
Repubblica, il 19 febbraio 2014, un disegno di legge
che prevedeva la “delega dell’esercizio della responsabilità genitoriale”, su accordo del o dei genitori biologici e previo atto di autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria (33). Tale disegno di legge tuttavia non ha
proseguito, per il momento, nell’iter parlamentare.
È invece in corso di esame in Commissione giustizia, il testo unificato dei disegni di legge riguardanti la disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili, che prevede, tra le altre disposizioni che
“avvicinano” le coppie di fatto, anche omosessuali,
alle unioni fondate sul matrimonio, la possibilità
per il convivente di adottare i figli biologici dell’altro; in particolare la norma prevede che le parti dell’unione civile possono chiedere l’adozione o l’affi-
(30) Come argomenta M. Dossetti, in Dopo la riforma della
filiazione: i nuovi successibili, in Fam. e dir., 2015, 10, 941, la
formulazione dell’art. 74 c.c., che estende la parentela ai casi
di filiazione adottiva, non può significare altro che il principio
della parificazione riguardi anche i minori adottati con l’adozione in casi speciali ai sensi dell’art. 44, l. n. 184/1983. Infatti,
essendo l’adozione legittimante fonte di rapporti di parentela
secondo la legislazione vigente già da oltre trent’anni ed essendo esclusa dall’ambito di operatività della norma l’adozione
di maggiorenni, l’estensione del vincolo di parentela ai figli
adottivi, per non essere priva di significato, non può che riguardare i figli adottati con adozione speciale. D’altra parte
“non è solo, e non è soprattutto, l’argomento testuale che sorregge questa tesi. Infatti, l’estensione risponde alla funzione
‘familiare’ dell’adozione in casi particolari, ben diversa dalle
tradizionali finalità di tipo patrimoniale e di trasmissione del
cognome all’adozione dei maggiorenni. Questa forma di adozione viene incontro all’esigenza di assicurare ai minori, in situazione di difficoltà, una condizione familiare nella quale possano ricevere completa assistenza morale e materiale, senza
dover recidere i legami familiari originari, quando questi rappresentino un vissuto per essi ancora significativo’”.
(31) In tal senso E. Al Mureden, La responsabilità genitoriale
tra condizione unica del figlio e pluralità dei modelli familiari, in
Fam. e dir., 2014, 5, 466.
(32) Ai sensi dell’art. 1, della L. 19 ottobre 2015, n. 173, all’art. 4, L. n. 184 del 4 maggio 1983, sono aggiunti, tra gli altri,
i seguenti commi: “5 bis. Qualora, durante un prolungato periodo di affidamento, il minore sia dichiarato adottabile ai sensi
delle disposizioni del capo II del titolo II e qualora, sussistendo
i requisiti previsti dall’art. 6, la famiglia affidataria chieda di poterlo adottare, il tribunale per i minorenni, nel decidere sull’adozione, tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatesi tra il minore e la famiglia
affidataria”; 5 ter. Qualora, a seguito di un periodo di affidamento, il minore faccia ritorno nella famiglia di origine o sia
dato in affidamento ad altra famiglia, è comunque tutelata, se
rispondente all’interesse del minore, la continuità delle positive
relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento”.
(33) Il DDL n. 1320 del 2014, è stato così presentato al Senato da Manconi, Palermo e Lo Giudice il 19 febbraio 2014: “Il presente disegno di legge, mira a disciplinare nel nostro ordinamento - in analogia, anche, a quanto previsto in altri Stati - l’istituto
della delega all’esercizio della responsabilità genitoriale, di cui
tutti i minori dovrebbero godere. L’evoluzione della società italiana presenta ormai da tempo un novero sempre più variegato di
famiglie composte da un solo genitore, dai genitori separati e dai
rispettivi nuovi compagni, come pure da persone dello stesso
sesso e dai figli nati da precedenti relazioni o attraverso tecniche
di fecondazione assistita fruibili in altri Paesi.
I principali problemi di questo tipo di famiglie sono riconducibili al mancato riconoscimento giuridico del genitore non biologico, che rappresenta un perfetto estraneo, per il minore, agli effetti legali. Ad esempio, in caso di morte del genitore biologico,
i figli nati all’interno di una relazione omosessuale rischiano di
essere privati della continuità affettiva con il co-genitore; in caso
di separazione, i figli nati all’interno di una relazione omosessuale non hanno alcun diritto ad avere contatti con il co-genitore, il
quale non è del resto tenuto ad assolvere ad alcun dovere circa
il mantenimento dei figli. Ovviamente, per il bambino è negativo, sul piano psicologico, constatare il ‘disvalore sociale’ del genitore non biologico, cioè il fatto che il suo ruolo genitoriale non
venga riconosciuto nei contesti ufficiali.
A tal fine è necessario un intervento normativo che consenta al
compagno o alla compagna del genitore biologico di assumere rispetto al bambino alcuni diritti e doveri che gli siano espressamente ‘delegati’ dal/dai genitori naturali, in virtù di un atto autorizzato
dal tribunale, in quanto rispondente all’interesse del minore”.
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damento di minori ai sensi delle leggo vigenti, a parità di condizioni con le coppie di coniugi (34).
Non si può inoltre continuare ad ignorare che in
numerosi paesi europei viene riconosciuto e regolamentato il potere del partner o del coniuge, anche
dello stesso sesso, di prendersi cura della prole dell’altro, se non direttamente di adottarlo (35).
Conclusioni
Le decisioni dei giudici palermitani di prime e seconde cure, che si commentano, affrontano, per la
prima volta ed in modo diretto e concreto, la questione del diritto del minore a vedere riconosciuta
le figura adulta di riferimento e a mantenere rapporti significativi con essa, indipendentemente dalla
natura, genetica o sociale, della relazione tra i due.
Relazione che, in assenza di un vincolo biologico,
non trova riconoscimento nel nostro ordinamento e
che non può essere ulteriormente ignorata, in considerazione della pluralità delle varie forme di convivenza ormai esistenti nella nostra società e della necessità di tutelare gli interessi dei soggetti minori di
età, che in tali contesti nascono e crescono.
Come si è visto, l’orientamento della Corte Europea dei diritti dell’Uomo è ormai nel senso del
riconoscimento dei legami familiari significativi e
duraturi e della tutela di essi, mediante la garanzia
della loro continuità, indipendentemente dall’esistenza di vincoli di sangue, così come è in tale senso l’evoluzione del diritto positivo interno, con riguardo a specifici contesti rispetto ai quali è intervenuto il legislatore.
(34) Art. 14, DDL 14, presentato il 13 marzo 2013, di iniziativa dei Senatori Manconi e Corsini.
(35) Così accade in Germania, laddove, a seguito dell’introduzione, nel 2001, della formalizzazione delle unioni civili, anche tra
partner dello stesso sesso, è stato introdotto dapprima il cd. piccolo potere di cura del partner nei confronti dei figli dell’altro, e poi,
nel 2004, la possibilità per lo stesso di adottare il figlio biologico
del convivente (allo stesso legato da unione registrata); possibilità
di adozione che, in virtù della decisione del 19 febbraio 2013 della
Corte Costituzionale Tedesca, è stata estesa anche al figlio adottivo del partner. In proposito si veda F. B. d’Usseaux, in adozione
del figlio adottivo: un nuovo tassello nell’equiparazione tra coppie
etero e coppie dello stesso sesso in Germania, in Nuova giur. civ.
comm., 2013, 7-8, 10639. In Svizzera, l’art. 299 c.c. prevede che il
nuovo “coniuge sia tenuto ad assistere l’altro coniuge in maniera
appropriata nell’esercizio della potestà genitoriale verso il figlio dell’altro”, derivando da questo diritto di assistenza anche un diritto a
rappresentarlo “quando le circostanze lo richiedano”. Nell’ordinamento francese, invece, è contemplata la possibilità per i genitori
di delegare a terzi, e dunque anche al coniuge o convivente del
genitore, taluni doveri parentali. Così, per effetto della entrata in vigore della L. 4 marzo 2002, accanto alla delega della potestà prevista per i casi di carenze dei genitori nell’esercizio della potestà,
l’art. 377 c.c. dispone che i genitori, insieme o separatamente,
possano qualora le circostanze lo esigano, demandare in tutto o in
parte l’esercizio dell’autorità parentale a un terzo, membro della fa-
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Non si comprende dunque, né si può ragionevolmente accettare, che la continuità delle relazioni
affettive instaurate tra il minore di età e gli adulti
di riferimento possa trovare riconoscimento in
contesti specifici, come ad esempio, nelle situazioni
di affido e di adozione in casi particolari, e non, in
modo generalizzato, in tutti i casi di disgregazione
di nuclei familiari, anche non fondati sul vincolo
biologico o adottivo.
L’assenza del riconoscimento, nel nostro ordinamento, del diritto del minore di età a vedere riconosciuta la figura del c.d. genitore “sociale” così come
il diritto alla continuità delle relazioni affettive che
con esso il minore ha creato ed intrattenuto non
può dunque protrarsi ulteriormente. Colmare la lacuna normativa è diventata una necessità improrogabile sia per evitare il sorgere di trattamenti differenziati in situazioni simili all’interno dello stesso ordinamento sia per la necessità dell’Italia di conformarsi agli orientamenti delle Corti sovranazionali oltre che, infine, per l’opportunità di rendere la nostra
normativa maggiormente omogenea a quella vigente
negli Stati europei aventi lo stesso livello di attenzione per i diritti e le libertà fondamentali (36).
Si auspica pertanto che la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di
Palermo, con riferimento all’art. 337 ter c.c., sia
l’occasione per indurre il legislatore ad intervenire
in modo generale e organico nei riguardi del delicato ma rilevante tema di cui si è trattato nella
presente nota.
miglia o persona degna di fiducia. Tale delega di potestà, tuttavia,
deve essere concessa dall’autorità giudiziaria e non è un effetto
del mero accordo tra i genitori o della legge. In Inghilterra poi il
Children Act 1989, così come modificato ed integrato dalla legislazione successiva, prevede che lo ‘step-parent’ possa diventare titolare della responsabilità genitoriale su accordo, trilaterale, dello
stesso con i due genitori biologici, o, in alternativa, per ordine della
Corte, su sua stessa istanza (Children Act 1989, Parte I, Sezione 4).
In Olanda, invece, quando la convivenza assuma particolare caratteristiche, al genitore sociale spetta l’obbligo di mantenere il figlio
dell’altro convivente (in M. Sesta, Verso nuove trasformazioni del diritto di famiglia italiano, in Familia, I, 2003, 160). Si segnala inoltre
che in 28 Stati della Comunità internazionale, coppie dello stesso
sesso possono adottare un bambino, o come adozione piena su
domanda di entrambi o come adozione da parte di un partner nei
confronti del figlio dell’altro.
(36) Come evidenziato nel commento a App. Torino 4 dicembre 2014, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 5, 20241, da G. Palmeri, “in un contesto, quale quello italiano, ove la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali è sempre più affidata a un sistema
‘multilivello’ in cui si intersecano ordinamenti nazionali e comunitario, in continua interazione col sistema di regole e principi
elaborato al livello internazionale, negare protezione e visibilità
alla relazione che unisce i membri di una comunità affettiva significa dare vita ad una discriminazione irragionevole”.
1567
Giurisprudenza
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Diritto commerciale
Responsabilità degli amministratori
Cassazione Civile, SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100 - Pres. Rovelli - Rel. Rordorf - P.M. Salvato
(conf.) - M.G. (avv.ti Amato, Sarno) c. Curatela del fallimento Utens S.r.l. (avv. Nuzzolo)
Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146, comma 2, l.fall., la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il
danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per
una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle
circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento
dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla
condotta dell’amministratore medesimo.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032; Cass., 4 luglio 2012, n. 11155; Cass., 11 luglio
2013, n. 17198.
Difforme
Cass., 11 marzo 2011, n. 5876; Cass., 4 aprile 2011, n. 7606.
La Corte (omissis).
Ragioni della decisione
(omissis).
3.1. La questione, come già accennato, riguarda l’individuazione del danno risarcibile ed il relativo criterio di
liquidazione nelle azioni di responsabilità promosse dai
competenti organi di una procedura concorsuale nei
confronti di amministratori di società di capitali dichiarate insolventi, ai quali sia imputato di aver tenuto un
comportamento contrario ai doveri loro imposti dalla
legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto sociale.
Nel caso di specie si tratta, appunto, di un’azione esperita dal curatore del fallimento nei confronti dell’ex amministratore unico di una società a responsabilità limitata, poi dichiarata fallita. Si farà perciò sempre d’ora in
avanti soltanto riferimento a questo tipo di fattispecie,
ma è intuitivo che le considerazioni che seguiranno sono estensibili anche ad azioni di responsabilità proposte
nei confronti degli organi di vigilanza e dei direttori generali delle società dichiarate insolventi, se a costoro il
curatore rimproveri di aver mancato ai propri doveri cagionando danno al patrimonio sociale ed ai creditori.
Sempre in via preliminare, è appena il caso di precisare
che, nell’assumere l’iniziativa giudiziale di cui trattasi, a
norma dell’art. 146, comma 2, l.fall., il curatore del fallimento della società ha esercitato cumulativamente sia
l’azione sociale di responsabilità che sarebbe stata esperibile dalla medesima società, se ancora in bonis, nei
confronti del proprio amministratore ai sensi dell’art.
2393 c.c., sia l’azione che, ai sensi del successivo art.
2394, sarebbe spettata ai creditori sociali danneggiati
dall’incapienza del patrimonio della società debitrice
(con l’avvertenza che, trattandosi di vicenda anteriore
alla riforma del diritto societario, attuata dal D.Lgs. n. 6
del 2003, le suindicate norme del codice civile, dettate
1568
per la società azionaria, risultano integralmente applicabili anche alla società a responsabilità limitata in virtù
del richiamo operato dal secondo comma del successivo
art. 2487).
3.2. L’ordinanza di rimessione focalizza l’attenzione sulla
“utilizzabilità, ai fini dell’accertamento e liquidazione
del danno nelle azioni di responsabilità, quale quella in
questione, del dato costituito dalla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare”, ed aggiunge che, qualora si
reputi utilizzabile questo criterio, “occorre stabilire quali
siano le condizioni ed i limiti entro i quali tale dato sia
utilizzabile, in connessione con le ragioni che lo giustificano”.
Come ben evidenziato anche nella citata ordinanza, vi
sono già state in passato molte pronunce di questa corte
in argomento, delle quali è necessario dare qui brevemente conto.
La possibilità che il danno risarcibile venga identificato
nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede
fallimentare è stata affermata, in epoca risalente, da
Cass. n. 1281 del 1977, in un caso nel quale all’amministratore era stato addebitato di aver violato il divieto di
compiere nuove operazioni dopo il verificarsi di una
causa di scioglimento della società, consistita nella perdita di oltre un terzo del capitale sociale e nella riduzione di questo al di sotto del minimo legale (divieto che,
com’è noto, era espressamente previsto dall’art. 2449,
comma 1, c.c. nella versione antecedente la già ricordata riforma del diritto societario del 2003).
A brevissima distanza di tempo l’utilizzo del suindicato
criterio differenziale è stato avvallato anche da Cass. n.
2671 del 1977, ma in un caso in cui si era ritenuto che
il dissesto dell’impresa fosse dipeso proprio dall’illecito
comportamento degli organi sociali. Anni dopo Cass. n.
6493 del 1985 è tornata ad approvare l’utilizzo dei predetto criterio, in una fattispecie nella quale l’addebito
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mosso agli amministratori consisteva nel non aver tenuto la contabilità sociale o nell’averla tenuta in modo
sommario e non intellegibile.
Nel decennio successivo le critiche che gran parte della
dottrina era andata formulando all’adozione di quel criterio, sottolineandone l’inadeguatezza a dar conto del
rapporto di causalità che deve sussistere tra il comportamento illegittimo addebitato agli organi sociali ed il
danno risarcibile, ha indotto anche la giurisprudenza ad
interrogarsi più approfonditamente in proposito. Perciò
Cass. n. 9252 del 1997 ha affermato che il danno che
gli amministratori ed i sindaci sono tenuti a risarcire,
quando abbiano, rispettivamente, violato o non vigilato
sul dovere di non intraprendere nuove operazioni in
presenza di una causa di scioglimento della società, non
s’identifica automaticamente nella differenza tra passivo
ed attivo accertati in sede di fallimento, ma può essere
commisurato a tale differenza, in mancanza di prova di
un maggior pregiudizio, solo se da detta violazione sia
dipeso il dissesto economico ed il conseguente fallimento della società. E Cass. n. 10488 del 1998 è prevenuta
alla conclusione che, in azioni di tal genere, il danno
non dev’essere liquidato alla stregua del suddetto criterio differenziale, ma va invece determinato in relazione
alle conseguenze immediate e dirette delle violazioni
contestate.
Quest’ultimo orientamento è stato poi confermato anche da Cass. n. 1375 del 2000, la quale ha precisato come, in simili casi, il danno può essere identificato nella
differenza tra passivo ed attivo patrimoniale della società solo qualora il dissesto economico ed il conseguente
fallimento si siano verificati per fatto imputabile agli
amministratori, liquidatori o sindaci convenuti in giudizio; e che quindi non basta a configurare la responsabilità di costoro che vi sia stato un disavanzo fallimentare,
ma occorre dimostrare la specifica violazione dei doveri
loro imposti dalla legge, in quanto la prova della violazione di tali obblighi non giustifica la condanna al risarcimento del danno se non si dimostri, da parte del curatore, che quelle violazioni hanno cagionato un pregiudizio alla società.
Nel nuovo secolo la giurisprudenza sembrava essersi stabilizzata nel senso da ultimo indicato, come attestano
Cass. n. 2538 del 2005 e n. 3032 del 2005, che hanno
insistito nell’affermare che il danno in questione non
può essere commisurato alla differenza tra passivo ed attivo accertati in sede concorsuale: sia in quanto lo sbilancio patrimoniale della società insolvente potrebbe
avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima degli organi sociali, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare l’esistenza del nesso di
causalità tra la condotta illegittima ed il danno, con
l’ulteriore precisazione, tuttavia, che il suaccennato criterio differenziale può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa,
qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i
dati con l’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento degli
organi sociali; ma, in tal caso, il giudice del merito deve
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indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili
alla condotta dei convenuti, nonché, soprattutto qualora tale condotta non sia temporalmente vicina all’apertura della procedura concorsuale, la plausibilità logica
del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto.
Sostanzialmente nella stessa linea si sono collocate le
successive pronunce di Cass. n. 16211 del 2007, n.
17033 del 2008 e n. 16050 del 2009; la quale ultima,
dopo aver ribadito che il criterio della differenza tra
passivo ed attivo fallimentare è in astratto inadeguato,
ha nuovamente puntualizzato che quel criterio, tuttavia,
può in concreto essere apprezzato, con una valutazione
in fatto demandata esclusivamente al giudice di merito
e congruamente motivata, ove esso costituisca parametro di riferimento per la liquidazione equitativa del danno nel caso in cui sia impossibile ricostruire i dati contabili ed individuare sulla loro scorta le conseguenze
dannose riconducibili agli amministratori.
In questo quadro giurisprudenziale, che negli ultimi decenni sembrava dunque essersi delineato in maniera sufficientemente coerente, un elemento distonico - a giudizio dell’ordinanza di rimessione - è stato introdotto da
due sentenze intervenute nel corso dell’anno 2011, le
quali, pur muovendo anch’esse dalla premessa secondo
cui nell’azione di responsabilità promossa dal curatore
fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della
società fallita compete all’attore dare la prova dell’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito dei convenuti, hanno reputato che si verifichi un’inversione
dell’onere della prova quando l’assoluta mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la dimostrazione del predetto
nesso di causalità; in questo caso - si è aggiunto - la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, risulterebbe
di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale (Cass. n. 5876 del 2011 e n. 7606 del
2011).
3.3. La sommaria ricapitolazione degli sviluppi della
giurisprudenza di questa corte negli ultimi decenni, riguardo al tema in esame, induce subito ad osservare che
la questione non può essere affrontata in termini generici, quasi che gli illeciti eventualmente ascrivibili all’amministratore di società, idonei a generare l’obbligo
di risarcire il danno, si traducano sempre in un’unica e
ben determinata tipologia di comportamenti, rispetto
alla quale si possa affermare o negare l’utilizzabilità del
criterio d’individuazione e liquidazione del danno consistente nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati
in sede fallimentare.
I doveri imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dello
statuto agli amministratori di società sono assai variegati. In parte risultano puntualmente specificati e s’identificano in ben determinati comportamenti: quali, ad
esempio, la tenuta delle scritture contabili, la predisposizione dei bilanci e i prescritti adempimenti fiscali e
previdenziali, il divieto di concorrenza, e via elencando.
1569
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Ma, per il resto, si tratta di doveri il cui preciso contenuto non è sempre facile da specificare a priori, in quanto essi derivano dall’essere l’amministratore preposto all’impresa societaria e dal suo conseguente obbligo di
compiere con la necessaria diligenza tutto ciò che occorre per la corretta gestione di essa. Ne discende che
anche le conseguenze dannose - per la società e per i
suoi creditori - che possano eventualmente scaturire
dalla violazione dei suddetti doveri, dovendo essere in
rapporto di causalità con quelle violazioni, non sono suscettibili di una considerazione unitaria, ma appaiono
destinate a variare a seconda di quale sia stato l’obbligo
di volta in volta violato dall’amministratore.
In tanto, allora, ha senso parlare dell’individuazione del
danno, del nesso di causalità che deve sussistere tra il
danno medesimo e la condotta illegittima ascritta all’amministratore, della liquidazione del quantum debeatur e degli oneri di prova che gravano in proposito sulle
parti del processo, in quanto si sia prima ben chiarito
quale è il comportamento che si imputa all’amministratore di aver tenuto e quale violazione, tra i molteplici
doveri gravanti sul medesimo amministratore, quel
comportamento ha integrato.
Questa premessa - forse ovvia, ma indispensabile - pone
le basi per rispondere al quesito rivolto alle sezioni unite, che concerne sì una questione di onere della prova
del danno e del nesso di causalità, ma prima ancora richiede sia messo bene a fuoco il profilo dell’allegazione,
che della prova costituisce l’antecedente logico.
Giova allora partire dal fondamentale insegnamento di
Sez. Un. n. 13533 del 2001, a mente del quale il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del
contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del
danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della
dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento. Ne viene confermata, per il profilo che qui interessa, la necessità che l’inadempimento del convenuto,
pur non dovendo esser provato dall’attore, sia nondimeno da costui allegato.
Questo principio è stato successivamente confermato da
Sez. Un. n. 15781 del 2005 non solo in presenza di
un’obbligazione di risultato ma anche qualora venga dedotto l’inadempimento di un’obbligazione di mezzi, onde non sembra si possa seriamente dubitare della sua applicabilità all’azione sociale di responsabilità di cui qui
si sta parlando; a proposito della quale - tenuto conto di
quanto prima osservato in ordine alla varietà dei doveri
gravanti sull’amministratore - si rivela particolarmente
calzante quanto (sia pure in relazione ad altra tipologia
contrattuale) affermato da Sez. Un. n. 577 del 2008:
cioè che “l’inadempimento rilevante nell’ambito delle
azioni di responsabilità da risarcimento dei danno nelle
obbligazioni cosiddette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisca
causa (o concausa) efficiente del danno”, sicché “l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento
per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente
1570
alla produzione del danno”. Naturalmente sull’attore
grava l’onere di allegare, e poi di provare, gli altri elementi indispensabili per aversi responsabilità civile, che
sono perciò al tempo stesso elementi costitutivi della
domanda risarcitoria: danno e nesso di causalità.
È appena il caso di aggiungere che i suaccennati principi sono stati elaborati e si sono ormai ben consolidati in
particolare con riguardo alla figura della responsabilità
contrattuale. La loro applicazione non desta quindi problemi quando si discuta dell’azione sociale di responsabilità proposta nei confronti degli amministratori di società, giacché ne è pacifica la natura contrattuale. Per i
profili che qui interessano, tuttavia, le considerazioni
che si andranno a fare, e che da quei principi si dipanano, possono agevolmente applicarsi anche all’azione di
responsabilità spettante ai creditori sociali (la quale, come già s’è detto, in caso di fallimento della società è di
regola esercitata dal curatore cumulativamente all’altra), sia che si voglia assegnare anche ad essa natura
contrattuale sia che, come per lo più si è propensi a ritenere, la si voglia invece qualificare come aquiliana.
Con riferimento ai temi di cui si sta parlando, infatti, la
differenza tra le due tipologie di responsabilità si coglie
soprattutto in ciò: che solo il creditore di una prestazione contrattualmente dovuta non è tenuto a provare
l’imputabilità dell’inadempimento al debitore, sul quale
grava l’onere della prova liberatoria, consistente nella
dimostrazione che l’inadempimento è dipeso da una
causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). Ma - come
s’è visto - compete pur sempre al creditore l’onere di allegare l’altrui comportamento non conforme al contratto o alla legge, oltre che di allegare e provare il danno
ed il nesso di causalità. Ed a maggior ragione tali oneri
gravano su chi agisce per far valere un’altrui responsabilità extracontrattuale, dovendo egli in aggiunta farsi carico (non solo di allegare, ma altresì) di provare il comportamento del convenuto in violazione del dovere del
neminem laedere.
Ci si deve allora anzitutto chiedere se e quale tra gli
inadempimenti (“qualificati”) in cui può incorrere l’amministratore di società, e che l’attore deve aver allegato
quale ragione della sua domanda risarcitoria, sia astrattamente efficiente a produrre un danno che si assuma
corrispondente all’intero deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita ed accertato nell’ambito della
procedura concorsuale. È evidente che lo potrebbero essere, in ipotesi, soltanto quelle violazioni del dovere di
diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate
da far pensare che proprio a cagione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite
registrate dal curatore, o comunque quei comportamenti
che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza (ma, se avessero soltanto aggravato il dissesto, unicamente tale aggravamento potrebbe essere ricollegato a quelle violazioni).
Qualora, viceversa, una tale ampiezza di effetti dell’inadempimento allegato non sia neppure teoricamente
concepibile, la pretesa d’individuare il danno risarcibile
nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale, accertati in sede fallimentare, risulta fatalmente priva di
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ogni base logica: non fosse altro perché l’attività d’impresa è intrinsecamente connotata dal rischio di possibili perdite, il cui verificarsi non può quindi mai esser
considerato per sé solo un sintomo significativo della
violazione dei doveri gravanti sull’amministratore, neppure quando a costui venga addebitato di esser venuto
meno al suo dovere di diligenza nella gestione, appunto
in quanto non basta la gestione diligente dell’impresa a
garantirne i risultati positivi. Né potrebbe ragionevolmente sostenersi che il deficit patrimoniale accertato
nella procedura fallimentare - in quanto tale e nella sua
interezza - sia di regola la naturale conseguenza dell’essersi protratta la gestione dell’impresa in assenza delle
condizioni economiche e giuridiche che giustificano la
continuità aziendale: per l’ovvia considerazione che anche in questo caso non sarebbe logicamente corretto né
imputare all’amministratore quella quota delle perdite
patrimoniali che ben potrebbero già essersi verificate in
un momento anteriore al manifestarsi della situazione
di crisi in tutta la sua portata, né, soprattutto, far gravare su di lui, a titolo di responsabilità, anche le ulteriori
passività che quasi sempre inevitabilmente un’impresa
in crisi comunque accumula pur nella fase di liquidazione, giacché questa ovviamente non comporta l’immediata ed automatica cessazione di ogni genere di costo
legato all’esistenza stessa della società in liquidazione e
può ben darsi che ulteriori perdite di valore aziendale
vengano generate proprio dalla cessazione dell’attività
d’impresa.
Se dunque, per le ragioni appena esposte, non pare predicabile che, in difetto di specifiche ragioni che lo giustifichino, il deficit patrimoniale fatto registrare dalla
società in fallimento venga automaticamente posto a
carico dell’amministratore come conseguenza della violazione da parte sua del generale obbligo di diligenza
nella gestione dell’impresa sociale, tanto meno una simile conclusione sarebbe giustificabile quando l’inadempimento addebitato al medesimo amministratore si
riferisca alla violazione di doveri specifici, cui corrispondono comportamenti potenzialmente idonei a determinare, a carico del patrimonio sociale, soltanto effetti altrettanto specifici e ben delimitati.
3.4. Proprio questa è la situazione che si riscontra nella
fattispecie in esame, in cui, come già s’è detto, gli inadempimenti ascritti all’amministratore della società fallita si riferiscono unicamente alla distrazione di alcuni
beni mobili custoditi in un magazzino della società, alla
mancata redazione di due bilanci d’esercizio e delle dichiarazioni fiscali concernenti i medesimi esercizi ed,
infine, all’omessa tenuta della contabilità sociale.
Né dalla motivazione dell’impugnata sentenza, né dal
ricorso, né dal controricorso emerge che altri inadempimenti siano stati allegati dal curatore.
È del tutto ovvio che la distrazione di alcuni beni mobili di proprietà sociale sia suscettibile di riflettersi negativamente sul patrimonio della società, ma è altrettanto
evidente che la relativa perdita è commisurata al valore
di quei beni, o al vantaggio che da essi l’impresa avrebbe potuto ricavare; ma nulla autorizza a pensare che tale
perdita s’identifichi con la differenza tra il passivo e l’at-
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tivo accertati in sede fallimentare; né la sentenza impugnata si spinge ad affermarlo.
Neppure la mancata redazione di due bilanci e di dichiarazioni fiscali possono ambire, sul piano logico, a
porsi come causa potenziale dell’intero deficit patrimoniale emerso nell’ambito della procedura concorsuale,
potendosi soltanto presumere che le omissioni fiscali
abbiano provocato un aggravamento del passivo per l’onere degli interessi e delle sanzioni conseguenti.
In realtà ciò che ha indotto la corte territoriale ad addossare all’amministratore, a titolo di risarcimento dei
danno, l’intero deficit patrimoniale della società fallita
è il mancato rinvenimento delle scritture contabili dell’impresa. Ed è questo, a ben vedere, anche il punto nevralgico del contrasto giurisprudenza che l’ordinanza di
rimessione ha inteso porre in luce.
Che la tenuta delle scritture contabili sia uno dei doveri
gravanti sugli amministratori di società è fuori discussione, ed è quindi ugualmente indiscutibile che il mancato
rinvenimento di tali scritture da parte del curatore del
fallimento giustifichi l’allegazione dell’inadempimento
di quel dovere da parte dell’amministratore convenuto
nell’azione di responsabilità.
Ma, in coerenza con i principi generali sopra richiamati,
occorre domandarsi se e quale pregiudizio sia potenzialmente ricollegabile a tale specifica violazione, in termini di danno emergente o di lucro cessante a carico del
patrimonio sociale.
La circostanza che il mancato rinvenimento delle scritture contabili (ma lo stesso potrebbe dirsi per la loro irregolare tenuta) non consenta al curatore del fallimento
di ricostruire con sufficiente certezza le vicende che
hanno condotto all’insolvenza dell’impresa può esser
forse addotta, essa stessa, come una causa di danno, almeno nella misura in cui ciò comporti un maggiore
onere nell’espletamento dei compiti del curatore ed,
eventualmente, un aggravio dei costi della procedura
destinato ad incidere negativamente sull’attivo disponibile. Né può in assoluto escludersi l’eventualità di altri
effetti dannosi ricollegabili alla mancanza di dette scritture; ma neppure in questo caso appare logicamente
plausibile il farne discendere la conseguenza dell’insolvenza o dello sbilancio patrimoniale della società divenuta insolvente. La contabilità registra gli accadimenti
economici che interessano l’attività dell’impresa, non li
determina; ed è da quegli accadimenti che deriva il deficit patrimoniale, non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità.
Può dunque condividersi l’affermazione di Cass.
5876/11 e 7606/11, citt., secondo cui l’omessa tenuta
della contabilità integra la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, ed è vero che
tale violazione risulta di per sé (almeno potenzialmente) idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio
sociale. Non può tuttavia farsene in alcun modo derivare la conseguenza che quel pregiudizio si identifichi nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare.
3.5. Una simile conseguenza non può esser fatta discendere nemmeno dalla considerazione che la mancanza (o
1571
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l’irregolarità) delle scritture contabili impedirebbe al curatore che agisce in responsabilità contro l’amministratore della società fallita di ricostruire, e perciò di provare con sufficiente precisione, il danno sofferto dal patrimonio della medesima società (e dai suoi creditori), onde si giustificherebbe che l’onere della prova del danno
e del nesso di causalità venga spostato a carico dell’amministratore convenuto, giacché è proprio l’illegittimo
comportamento di costui ad impedire all’attore di assolvere quell’onere.
Tale argomentazione, come l’ordinanza di rimessione
non manca di rilevare, in qualche misura si riallaccia al
principio - di origine prevalentemente giurisprudenziale
- della cosiddetta prossimità o vicinanza (o anche disponibilità o riferibilità) della prova, adombrato già da Sez.
Un. 13533/01, cit., e che si trova affermato in molteplici sentenze di questa corte (prevalentemente, ma non
soltanto, in materia di responsabilità medica); principio
secondo il quale l’onere della prova di circostanze ricadenti nella sfera d’azione di una sola delle parti in causa
dev’essere assolto da quella medesima parte, rischiando
altrimenti di rimanere irragionevolmente menomato il
diritto costituzionale di azione o di difesa in giudizio
dell’altra.
Questi enunciati giurisprudenziali non hanno mancato
di sollevare obiezioni di parte della dottrina ed occorrerebbe forse meglio chiarire se quel che, di volta in volta, giustifica l’inversione dell’onere della prova, come
disegnato dall’art. 2697 c.c., sia la disponibilità in capo
all’altra parte della materialità della prova stessa (per lo
più documentale) o piuttosto la paternità storica dei
fatti da provare. Ma non è necessario approfondire qui
tali aspetti (ancorché appaia evidente che sarebbe difficile parlare di disponibilità del materiale probatorio da
parte dell’amministratore di una società fallita, per ciò
stesso ormai spossessato dell’azienda e dei relativi documenti), giacché comunque il principio della prossimità
o disponibilità della prova non sembra invocabile nella
fattispecie in esame.
La sua applicazione, infatti, postula pur sempre che, come già prima ampiamente sottolineato, l’attore abbia allegato un inadempimento del convenuto almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui
pretende il risarcimento. Solo a tale condizione si potrà
ipotizzare il suo esonero dalla dimostrazione del nesso di
causalità che (soprattutto in senso giuridico) deve esistere tra l’inadempimento ed il danno, se la prova dipenda da fatti o circostanze di cui egli non è in grado di
disporre e che sono invece nella disponibilità del convenuto. Ma la mancanza o l’irregolarità della contabilità
sociale - anche questo già lo si è detto - non sono legate
da alcun potenziale nesso eziologico con il danno costituito dal deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare.
Ed allora il fatto che l’amministratore sia venuto meno
ai suoi doveri di corretta redazione e di conservazione
della contabilità non giustifica che venga posto a suo
carico l’onere di provare la non dipendenza di quel deficit patrimoniale dall’inadempimento, da parte sua, di
ulteriori ma non meglio specificati obblighi.
1572
Né varrebbe obiettare che il mancato rinvenimento
della contabilità potrebbe impedire al curatore la stessa
individuazione di altri eventuali inadempimenti ascrivibili all’amministratore, potenzialmente idonei - quelli sì
- a porsi come causa del deficit patrimoniale fatto registrare dalla società fallita. A parte il rilievo che è davvero assai improbabile (ed andrebbe comunque adeguatamente ed argomentata mente dedotto dall’attore) che
la mancanza delle scritture sociali basti ad impedire al
curatore di ricostruire, attraverso altre fonti, le principali vicende della società fallita, e quindi almeno di ipotizzare ed allegare in causa l’esistenza di eventuali comportamenti illegittimi addebitabili agli organi sociali
che siano potenzialmente in grado di avere un’incidenza
negativa sul patrimonio della società, appare evidente
che l’eventuale impossibilità di stabilire ciò di cui gli
organi della società fallita potrebbero essersi resi responsabili non giustificherebbe comunque la proposizione alla cieca di un’azione di responsabilità, e tanto meno il
conseguente addebito agli amministratori di un deficit
patrimoniale che nulla in tal caso consentirebbe di porre in rapporto di causa ad effetto con comportamenti
dell’amministratore impossibili persino da individuare.
Postulare che l’amministratore debba rispondere dello
sbilancio patrimoniale della società sol perché non ha
correttamente adempiuto l’obbligo di conservazione delle scritture contabili ed ha reso perciò più arduo il compito ricostruttivo del curatore fallimentare equivale, in
tale situazione, ad attribuire al risarcimento del danno
così identificato una funzione palesemente sanzionatoria
(che, in ipotesi di condotta dolosa, rischierebbe almeno
in parte di sovrapporsi alle sanzioni penali già contemplate dalla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 2, e art. 223).
Ciò potrebbe oggi forse non apparire più così incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento,
come una volta si riteneva, giacché negli ultimi decenni
sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare
un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento (si
pensi, ad esempio, all’art. 96 c.p.c., u.c., in materia di
responsabilità processuale aggravata), ma non lo si può
ammettere al di fuori dei casi nei quali una qualche
norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il
principio desumibile dall’art. 25, comma 2, Cost. nonché dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.
Naturalmente, resta fermo che, se la mancanza delle
scritture contabili rende difficile per il curatore una
quantificazione ed una prova precisa del danno che sia
di volta in volta riconducibile ad un ben determinato
inadempimento imputabile all’amministratore della società fallita, lo stesso curatore potrà invocare a proprio
vantaggio la disposizione dell’art. 1226 c.c., e perciò
chiedere al giudice di provvedere alla liquidazione del
danno in via equitativa.
Né può escludersi che, proprio avvalendosi di tale facoltà di liquidazione equitativa, il giudice tenga conto in
tutto o in parte dello sbilancio patrimoniale della società, quale registrato nell’ambito della procedura concorsuale. Ma, come condivisibilmente già osservato da
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Cass. 2538/2005 e 3032/2005, citt., per evitare che ciò
si traduca nell’applicazione di un criterio affatto arbitrario, sarà pur sempre necessario indicare le ragioni che
non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducigli alla condotta del convenuto, nonché la plausibilità logica del
ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto.
4. Alla stregua delle considerazioni che precedono, appare evidente che l’impugnata sentenza, avendo individuato il danno da risarcire nella differenza tra il passivo
e l’attivo patrimoniale accertati in sede fallimentare sul
mero presupposto della mancata tenuta delle scritture
contabili da parte dell’amministratore della società fallita, deve essere cassata, con rinvio della causa alla corte
d’appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto:
“Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del
fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo
riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere
verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali
inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento.
Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili
della società, pur se addebitabile all’amministratore
convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da
risarcire sta individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in
ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad
una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla
condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto
criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.
(omissis).
La pronuncia delle Sezioni Unite sul danno nelle azioni
di responsabilità contro gli amministratori di società fallite
di Pietro Paolo Ferraro (*)
La decisione delle Sezioni Unite della Cassazione, intervenendo sulla questione della determinazione del danno nei giudizi di responsabilità relativi agli amministratori di società fallite, si allinea
al più recente orientamento giurisprudenziale che ha riaffermato, in ambito fallimentare, i principi generali sulla responsabilità civile, rispetto al quale sviluppa argomentazioni giuridiche in parte nuove, di carattere essenzialmente processuale, richiedendo anzitutto che vi sia una certa
coerenza logica tra l’illecito allegato dall’attore e il danno risarcibile, così riconoscendo soltanto
in via residuale la possibilità di ricorrere al c.d. criterio del deficit fallimentare. Nonostante lo
sforzo sistematico, restano alcuni elementi di incertezza, che fanno dubitare dell’idoneità della
sentenza in questione ad orientare in modo univoco e razionale il complesso contenzioso in materia.
La questione rimessa alle Sezioni Unite
della Cassazione
Con la sent. 6 maggio 2015, n. 9100, la Corte di
cassazione ritorna, con tutta l’autorevolezza delle
Sezioni Unite, sulla tormentata questione della determinazione del danno risarcibile nelle azioni di
responsabilità promosse dai curatori fallimentari
nei confronti degli amministratori (e degli altri
esponenti degli organi) di società fallite (1), con
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Per una sintesi del relativo dibattito si veda A. Jorio, La
determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. comm., 2011, I, 149 ss.; sia consentito, altresì, rin-
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una decisione che, ad una prima impressione, sembra voler mandare in soffitta il criterio giurisprudenziale di quantificazione del danno basato sulla
differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede
fallimentare, che era molto diffuso in passato, per
essere poi progressivamente relegato entro margini
sempre più stringenti.
Se così fosse, una simile pronuncia finirebbe per
“chiudere il cerchio”, segnando il passaggio da un
sistema sostanzialmente sanzionatorio, il quale riviare a P.P. Ferraro, Responsabilità degli amministratori di società e quantificazione dei danni in sede fallimentare, in N.
Abriani - J.M. Embid Irujo (diretto da), Crisis económica y responsabilidad en la empresa, Granada, 2013, 343 ss.
1573
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conosceva l’applicazione pressoché generalizzata
del criterio del c.d. deficit fallimentare, che oggi
possiamo, a ragione, considerare eccessivamente
garantista per i creditori, ad una soluzione diametralmente opposta, che rischia di essere sin troppo
benevola, se non impropriamente protettiva, nei
confronti dei protagonisti delle vicende gestionali,
anche illecite, che riguardano la “fase crepuscolare” delle società destinate a fallire.
Prima di ogni valutazione, tuttavia, occorre esaminare attentamente il contenuto della sentenza,
al fine di verificare se abbia effettivamente una
portata dirompente rispetto al passato o se, piuttosto, si ponga in linea di continuità con più recenti
orientamenti giurisprudenziali.
Per comprendere, allora, la rilevanza sistematica
della decisione in esame, occorre preliminarmente
individuare con precisione il suo perimetro di applicazione, partendo dalla questione di diritto devoluta alle Sezioni Unite.
Orbene, il caso sottoposto all’attenzione della
Suprema Corte riguarda un’azione di responsabilità
promossa nei confronti dell’amministratore di una
S.r.l. fallita da parte del curatore, il quale gli contestava, da un lato, la distrazione di determinati beni
della società, dall’altro, l’omessa tenuta della contabilità sociale e la mancata redazione di alcuni bilanci d’esercizio, oltre alla violazione di prescrizioni
di natura fiscale.
Così delimitata la causa petendi, il Tribunale,
con una decisione condivisa dalla Corte d’Appello
in sede di gravame, aveva considerato accertato l’inadempimento dell’amministratore ai doveri inerenti la carica ricoperta e, conseguentemente, nel
condannarlo al risarcimento, aveva liquidato il
danno sulla base del criterio dello sbilancio fallimentare, ritenendo che fosse impossibile ricostruire
la reale situazione patrimoniale della società fallita
a causa della mancanza delle scritture contabili,
addebitabile allo stesso amministratore.
Proposto ricorso per cassazione, la I Sezione della Suprema Corte, ravvisando un’oscillazione della
giurisprudenza di legittimità, rimetteva la questione alle Sezioni Unite per chiarire “se, nei giudizi di
responsabilità promossi da una curatela fallimentare nei confronti di amministratori di società di capitali fallite, sia o meno corretto liquidare il danno
utilizzando il criterio della differenza tra l’attivo ed
il passivo accertati nell’ambito della procedura
concorsuale, quando la mancanza di scritture contabili, addebitabile allo stesso amministratore, impedisca di ricostruire quale è stato l’effettivo andamento dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento” (2).
Già da questa formulazione del quesito è possibile delimitare l’ambito di incidenza della decisione,
che riguarda l’individuazione e la liquidazione del
danno nelle azioni di responsabilità ex art. 146,
comma 2, l.fall. in relazione all’ipotesi specifica
della mancanza delle scritture contabili per fatto
imputabile all’amministratore della società fallita (3). Cionondimeno, la Suprema Corte sembra
volere utilizzare l’occasione per delineare un quadro teorico più ampio in materia di responsabilità
dei soggetti preposti alla governance di società fallite entro cui collocare la questione specifica.
Seguendo il percorso logico-argomentativo contenuto nella parte motiva della sentenza, passiamo
ad esaminare più analiticamente le problematiche
affrontate dalle Sezioni Unite, alla luce delle posizioni assunte dalla giurisprudenza e dalla dottrina.
(2) Cass. 3 giugno 2014, n. 12366, in www.giustiziacivile.com.
(3) Ovviamente, come si legge nella stessa sentenza (ma è
quasi superfluo precisarlo), il discorso, che riguarda in generale le società di capitali (e cooperative), non è rivolto solo agli
amministratori, ma può essere esteso anche ai componenti
degli organi di controllo e ai direttori generali.
Occorre, altresì, evidenziare che la decisione in esame, sebbene intervenga su una vicenda regolata dalla disciplina anteriore alle riforme organiche del diritto societario e della legge
fallimentare, va, tuttavia, riferita anche alle fattispecie rientranti nel regime vigente, sia pur tenendo presente che con il nuovo assetto normativo, da un lato, le azioni di responsabilità sono, in parte, diversamente disciplinate per le società azionarie
e la S.r.l., per la quale non è più prevista l’azione dei creditori
sociali, dall’altro, l’art. 146 l.fall., come modificato, riconosce
espressamente in capo al curatore fallimentare un’autonoma
legittimazione ad esperire, nell’interesse della massa dei creditori, le azioni di responsabilità contro gli esponenti degli organi
di società fallite, così consentendo di superare buona parte
delle incertezze che si ponevano in passato in relazione alle
azioni risarcitorie relative alle società in bonis contemplate dal
codice civile. Per una disamina degli aspetti problematici che
si ponevano in passato, si veda, in luogo di molti, A. Nigro, Le
società per azioni nelle procedure concorsuali, in G.E. Colombo
- G.B. Portale (diretto da), Trattato delle società per azioni, 9**,
Torino, 1993, 370 ss.; con riguardo alla disciplina riformata, si
consulti, fra gli altri, V. Caridi, Commento ad art. 146, in A. Nigro - M. Sandulli - V. Santoro (a cura di), La legge fallimentare
dopo la riforma, II, Torino, 2010, 1899 ss., anche per ulteriori riferimenti bibliografici.
1574
L’evoluzione giurisprudenziale
La Suprema Corte anzitutto ripercorre gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sul tema
della determinazione del danno nelle azioni di responsabilità promosse in sede fallimentare, a volte
con un’eccessiva sintesi che sacrifica taluni passaggi, comunque significativi, e senza considerare le
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decisioni dei giudici di merito (il che è comprensibile atteso il tipo di sindacato attivato dal ricorso
per cassazione), che pure sono state determinanti
nell’evoluzione del “diritto vivente”. Invero, in
passato, proprio nei tribunali (4) si è sviluppata,
con una certa disinvoltura, la tendenza, poi avallata dalla Cassazione, a quantificare il danno derivante da mala gestio in misura corrispondente alla
differenza negativa tra l’attivo acquisito ed il passivo accertato nell’ambito della procedura concorsuale, sia nel caso in cui la mancanza delle scritture
contabili, addebitabile all’amministratore, avesse
impedito di ricostruire l’effettivo andamento dell’impresa sociale prima della dichiarazione di fallimento (5), sia qualora gli amministratori ed i sindaci avessero, rispettivamente, violato o non vigilato sul dovere di non intraprendere nuove operazioni dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società (secondo quanto stabilito dal previgente art. 2449 c.c.), sia, ancora, nell’ipotesi in cui
l’illecito comportamento degli organi sociali avesse
determinato il dissesto economico e il conseguente
fallimento della società (6).
L’applicazione, pressoché generalizzata, del criterio del deficit fallimentare, sebbene giustificata da
apprezzabili esigenze di giustizia sostanziale, ha incontrato, da subito, le aspre critiche della più qualificata dottrina (7), che ne segnalava la distonia
rispetto ai principi generali operanti nel nostro ordinamento in materia di responsabilità civile. Appariva evidente, infatti, la forzatura da parte dei
giudici nel ricostruire il rapporto di causalità, in
quanto, commisurando la responsabilità alla differenza negativa tra attivo e passivo fallimentare, si
finiva di fatto per invertire l’onere probatorio, così
costringendo gli amministratori a fornire la prova,
spesso notevolmente difficoltosa, dell’inesistenza
del nesso di causalità tra condotta ed evento dannoso: in sostanza ciò si traduceva in una vera e
propria probatio diabolica.
Dopo qualche timida deviazione dall’indirizzo
dominante da parte di alcuni giudici di merito (8),
la Cassazione ha progressivamente ridimensionato
l’orientamento tradizionale, statuendo che il danno
cui deve essere condannato l’amministratore responsabile deve essere puntualmente quantificato
in relazione alle conseguenze dirette e immediate
delle singole violazioni riscontrate, e cioè deve essere individuato con riferimento al concreto pregiudizio che ciascun atto di gestione ha comportato (9).
In questa direzione, una svolta importante è segnata da due sentenze del 2005 (10) (il cui relatore
è il medesimo della sentenza in commento), le
quali hanno fermamente (ri)affermato, anche nel
contesto concorsuale, i principi civilistici in materia di responsabilità, stabilendo che il criterio della
differenza tra attivo e passivo fallimentare rimane
utilizzabile, quale criterio presuntivo, e salva la
prova contraria del minor danno, solo nel caso in
cui il curatore si trovi nell’assoluta impossibilità di
procedere alla ricostruzione delle vicende societarie
per la sostanziale mancanza delle scritture contabili, sempre che sia logicamente plausibile che il
(4) Si vedano, tra le pronunce di merito, App. Milano 11
marzo 1986, in Società, 1986, 1098; App. Bologna 5 febbraio
1997, in Foro it., 1997, I, 2284; Trib. Catania 30 agosto 1986,
in Giur. comm., 1988, II, 228; Trib. Torino 14 maggio 1991, in
Fall., 1991, 867.
(5) Cass. 4 aprile 1977, n. 1281, in Giur. comm., 1977, II,
449; Cass. 19 dicembre 1985, n. 6493, in Società, 1986, 505.
(6) Cass. 17 settembre 1997, n. 9252, in Dir. fall., 1998, II,
878, con nota di G. Ragusa Maggiore, Ancora su nuove operazioni e responsabilità degli organi sociali in sede fallimentare;
Cass. 8 febbraio 2000, n. 1375.
(7) Si vedano, fra gli altri, A. Bonsignori, Il fallimento delle
società, in F. Galgano (diretto da), Trattato dir. comm. e dir.
pubbl. econ., X, Padova, 1986, 262 s.; P.G. Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle procedure concorsuali: una valutazione critica, in Giur. comm., 1988, I, 548
ss.; L. Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di
causalità fra atti di mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Fall., 1989, 973 ss.; più di recente, E. Gabrielli, La
quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, in Riv. dir. priv., 2004,
7 ss.; S. Ambrosini, in S. Ambrosini - G. Cavalli - A. Jorio (a cura di), Il fallimento, in G. Cottino (diretto da), Trattato di diritto
commerciale, XI, Padova, 2009, 757 ss.; nonché, M. Spiotta,
Luci e ombre sul fallimento della società e dei soci, in A. Jorio M. Fabiani (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed
esperienze normative a cinque anni dalla riforma, Bologna,
2010, 858; in termini meno critici, G. Guizzi, L’art. 146 l. fall.
nel sistema delle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di società. Un falso problema?, in Riv. dir. comm.,
1999, 944; N. Rondinone, La responsabilità per l’incauta gestione dell’impresa in crisi tra vecchio e nuovo diritto societario, in
Fall., 2005, 59.
(8) Cfr. Trib. Genova 6 aprile 1993, in Fall., 1993, 1263; Trib.
Torino 24 dicembre 1994, in Dir. fall., 1995, II, 361; Trib. Milano 18 maggio 1995, in Società, 1995, 1597; App. Bologna 5
febbraio 1997, in Foro it., 1997, I, 2284.
(9) Fra le altre, Cass. 17 settembre 1997, n. 9252, in Dir.
fall., 1998, II, 878, con nota di G. Ragusa Maggiore, Ancora su
nuove operazioni e responsabilità degli organi sociali in sede fallimentare; Cass. 2 novembre 1998, n. 10937; Cass. 22 ottobre
1998, n. 10488, in Giust. civ., 1999, I, 75, con nota di V. Salafia, Considerazioni in tema di responsabilità degli amministratori
verso la società e verso i creditori sociali; Cass. 4 aprile 1998, n.
3483, in Dir. fall., II, 1999, 1032; App. Bologna 12 gennaio
2004, in Fall., 2005, 37; Trib. Napoli 4 aprile 2000, in Società,
2000, 1243; Trib. Catania 1° settembre 2000, in Fall., 2001,
1127; Trib. Milano 10 maggio 2001, in Giur. it., 2001, I, 2,
1898; Trib. Como 16 giugno 2001, ivi, 2002, I, 2, 568; Trib. Napoli 22 gennaio 2002, in Giur. napoletana, 2002, 191; Trib. Milano 20 febbraio 2003, in Fall., 2003, 268; Trib. Milano 30 ottobre 2003, ivi, 2005, 45.
(10) Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032, in Foro it., I, 2006,
1898; Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538, in Giur. it., 2005, 1637.
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comportamento illegittimo degli amministratori, in
relazione alle circostanze del singolo caso, abbia
potuto provocare un danno corrispondente all’intero sbilancio patrimoniale della società, quale accertato in sede concorsuale.
A queste sentenze si è tendenzialmente uniformata la gran parte delle decisioni dei giudici di merito e della Suprema Corte (11), sia pure adottando
soluzioni non sempre del tutto omogenee tra loro e
talvolta sin anche contraddittorie.
Si è, in ogni caso, consolidato un nuovo indirizzo giurisprudenziale volto ad escludere la possibilità
di impiegare in modo diffuso il criterio dello sbilancio fallimentare, che può, invece, trovare applicazione soltanto in via eccezionale, o meglio in
termini residuali, allorché non sia possibile addivenire alla prova effettiva del danno arrecato dalla
condotta illecita dei soggetti preposti alla gestione
ed al controllo di società (poi) fallite. In questa
prospettiva, il naturale ambito applicativo del criterio in questione ha finito per essere costituito
dalla mancanza delle scritture contabili, imputabile
agli esponenti degli organi sociali, tale da non consentire una precisa ricostruzione delle vicende societarie e dei fatti di gestione.
Al tempo stesso, è andata maturando tra i giudici una maggiore sensibilità nell’individuare le tecniche di determinazione del danno risarcibile nelle
azioni ex art. 146 l.fall., che ha portato ad affermare criteri di calcolo alternativi, come quello dei
netti patrimoniali di periodo (12), che è apparso
più appropriato per quelle ipotesi in cui la condotta gestionale illecita rileva, piuttosto che nella causazione diretta del fallimento, nell’aggravamento
del dissesto, allorché gli amministratori sono chia-
mati a rispondere per avere proseguito l’ordinario
esercizio dell’attività produttiva, invece di assumere tempestivamente le iniziative previste dalla legge nel momento in cui si verifica una causa di scioglimento prevista dall’art. 2484 c.c., di solito rappresentata dalla perdita del capitale sociale rilevante ex artt. 2447 e 2482 ter c.c., oppure in presenza
dello stato di insolvenza della società.
Secondo questa impostazione, in caso di inerzia
colpevole, nel dare impulso alla liquidazione, da
parte dell’amministratore, il quale non si è limitato
ad una gestione meramente conservativa del patrimonio sociale ai sensi dell’art. 2486 c.c., e maggiormente, in presenza di una situazione di insolvenza, non si è attivato per richiedere il fallimento
della società, il danno può essere quantificato nella
misura differenziale tra il saldo del patrimonio netto risultante dal bilancio nel momento in cui l’amministratore acquisisce o avrebbe dovuto acquisire
consapevolezza del dissesto e quello all’atto della
dichiarazione di fallimento, rettificando il primo in
modo da fare emergere la perdita allora già maturata e tenendo conto della diminuzione di valore che
il patrimonio, presumibilmente, avrebbe comunque
subito qualora fossero stati assolti senza indugio gli
obblighi di legge (13).
Un ulteriore affinamento dell’elaborazione teorico-pratica è rappresentato dalla tendenza, rinvenibile in talune sentenze più recenti (14), a ricondurre le metodologie di quantificazione approssimativa
del danno da mala gestio nell’ambito del paradigma
della liquidazione equitativa di cui all’art. 1226
c.c., così da consentirne un unitario inquadramento sistematico.
(11) Così, ex multis, Cass. 23 luglio 2007, n. 16211, in Società, 2008, 1364; Cass. 22 aprile 2009, n. 9616; Cass. 8 luglio
2009, n. 16050, in Società, 2010, 407; Cass. 4 luglio 2012, n.
11155, in Giur. it., 2013, 1105; Cass. 11 luglio 2013, n. 17198;
App. Torino 31 dicembre 2012, in Fall., 2013, 372; Trib. Torino
15 aprile 2005, in Giur. it., 2005, 1859; Trib. Marsala 2 maggio
2005, in Fall., 2006, 461; Trib. Torino, 6 maggio 2005, in Giur.
it., 2005, 1858; Trib. Milano 29 marzo 2006, in Corr. mer.,
2007, 1, 42; Trib. Salerno 25 ottobre 2006, ibidem, 74; Trib.
Milano 14 novembre 2006, in Società, 2007, 864; Trib. Torino
12 gennaio 2009, in Fall., 2010, 35; Trib. Milano 27 aprile
2009, in Giur. it., 2009, 2466; Trib. Milano 14 ottobre 2009;
Trib. Milano 24 novembre 2009, in Giur. it., 2010, 1329; Trib.
Milano 10 marzo 2010, in Società, 2010, 774; Trib. Milano 31
gennaio 2014, in Fall., 2014, 597.
(12) Si vedano, ad esempio, Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538,
in Dir. prat. soc., 2005, 71; App., Torino, 12 gennaio 2009, in
Fall., 2009, 1003; Trib. Marsala 2 maggio 2005, ivi, 2006, 461;
Trib. Torino 12 gennaio 2009, ivi, 2010, 35; Trib. Padova 24
giugno 2009, ibidem, 729; Trib. Milano 3 febbraio 2010; Trib.
Milano, 18 gennaio 2011, in Giur. comm., 2012, II, 391; Trib.
Catania, 22 gennaio 2015, in www.ilcaso.it; in dottrina, fra gli
altri, A. Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, cit., 155 ss.; D. Galletti, Brevi note sull’uso
del criterio dei “netti patrimoniali di periodo” nelle azioni di responsabilità, in www.ilcaso.it, doc. n. 215/2010, 1 ss.; P.P. Ferraro, Responsabilità degli amministratori di società e quantificazione dei danni in sede fallimentare, cit., 350 ss.
(13) In questo modo il danno viene quantificato più precisamente in base alla somma algebrica delle conseguenze economiche di vicende positive e negative che trova riscontro nei
saldi di periodo, i quali indicano l’evoluzione in peius del patrimonio netto della società nell’arco di tempo considerato, il cui
peggioramento deriva dall’illegittima prosecuzione dell’attività
d’impresa.
(14) Cfr. Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538, cit.; Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032, cit.; Cass. 4 luglio 2012, n. 11155, cit.;
Cass. 11 luglio 2013, n. 17198, cit.; App. Roma 14 marzo
2000, in Gius., 2000, 1879; Trib. Roma 10 febbraio 1987, in
Dir. fall., 1988, II, 338; Trib. Genova 24 novembre 1997, cit.;
Trib. Catania 29 settembre 2000, cit.; Trib. Milano 30 ottobre
2003, cit.; Trib. Milano 29 marzo 2006, cit.; Trib. Bologna 22
maggio 2007, in Guida dir., 2007, 82; Trib. Milano, 6 marzo
2013, in Società, 2014, 219; Trib. Milano 31 gennaio 2014, cit.
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Rispetto a questo quadro giurisprudenziale, che
sembra essersi delineato in maniera alquanto definita, un elemento diacronico - a giudizio dell’ordinanza di rimessione - è stato introdotto da due recenti sentenze del 2011 (15), le quali, pur riconoscendo che nelle azioni in questione competa all’attore fornire la prova dell’esistenza del danno,
del suo ammontare e del fatto che esso sia stato
causato dal comportamento illecito del convenuto,
hanno ritenuto che, quando la mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili renda impossibile al curatore dimostrare il predetto nesso di
causalità, si verifichi un’inversione dell’onere della
prova: in questo caso, la condotta dell’amministratore, integrando la violazione di specifici obblighi
di legge, sarebbe di per sé idonea a tradursi in un
pregiudizio per il patrimonio sociale. Proprio in relazione a queste ultime pronunce va apprezzato
principalmente il contributo chiarificatore della
sentenza in commento.
Il principio di diritto enunciato
dalla Suprema Corte
Pronunciandosi sulla specifica questione sollevata, le Sezioni Unite, nell’esercizio della funzione
nomofilattica sancita dall’art. 363 c.p.c., hanno affermato un principio di diritto solo in parte innovativo rispetto alla più recente giurisprudenza di legittimità, che - da un punto di vista concettuale si articola in tre parti, le quali possono essere considerate autonomamente l’una dall’altra.
Con la prima affermazione di principio, la Suprema Corte ha preliminarmente chiarito che “nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del
fallimento di una società di capitali nei confronti
dell’amministratore della stessa l’individuazione e
la liquidazione del danno risarcibile devono essere
operate avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere
di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza
di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti
ed il danno di cui si pretende il risarcimento”.
Sulla base di questa puntualizzazione inerente
l’onere di allegazione che incombe sulla curatela
attrice, la seconda parte del principio enunciato
dalla Cassazione statuisce che “nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società,
pur se addebitabile all’amministratore convenuto,
(15) Cass. 11 marzo 2011, n. 5876; Cass. 4 aprile 2011, n.
7606, in Danno e resp., 2012, 48.
(16) Cfr. P.P. Ferraro, Responsabilità degli amministratori di
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di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare”.
“Tale criterio” - arrivando al passaggio di chiusura dell’enunciato di diritto - può “essere utilizzato
soltanto al fine della liquidazione equitativa del
danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente
riconducibili alla condotta dell’amministratore e
purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del
caso concreto”.
Su queste premesse, le Sezioni Unite intervengono su quello che ha finora rappresentato pacificamente il principale ambito di applicazione del criterio del deficit fallimentare, ossia la violazione da
parte dell’amministratore degli obblighi relativi alla tenuta della contabilità sociale, circoscrivendo
in maniera così rigorosa la sua operatività, al punto
da farne dubitare l’effettiva fruibilità.
I vari profili dell’enunciato di diritto vanno esaminanti separatamente, sebbene il primo, che riguarda l’onere di allegazione, si ponga in rapporto
di strumentalità rispetto al secondo, relativo al criterio di liquidazione del danno, che allora - a ben
vedere - costituisce il vero enunciato di principio
della sentenza.
Per comprendere compiutamente la portata del
principio giuridico affermato dal Supremo Collegio, è necessario considerare gli argomenti tecnici
posti a fondamento della decisione, la quale, per
un verso, ribadisce i principi civilistici in materia
di responsabilità, che l’autorevole Relatore aveva
già affermato nelle due precedenti sentenze del
2005, per altro verso, sviluppa argomentazioni giuridiche, in parte nuove, di carattere essenzialmente
processuale.
Focalizzando l’attenzione sui passaggi salienti
della sentenza, occorre segnalare che la Corte ha
opportunamente evidenziato che la questione relativa alla quantificazione dei danni nelle azioni di
responsabilità non può essere affrontata in termini
generali, il che val quanto dire che non sono ammissibili automatismi, come del resto già acquisito
a livello dottrinale e giurisprudenziale (16), occorrendo piuttosto considerare i diversi illeciti contesocietà e quantificazione dei danni in sede fallimentare, cit., 356
ss., anche per ulteriori riferimenti dottrinali e giurisprudenziali.
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stati all’amministratore, riferibili all’inadempimento di obblighi specifici imposti dalla legge o dall’atto costitutivo e dallo statuto oppure riconducibili
alla violazione del dovere di gestire diligentemente
la società.
In questa prospettiva, la Suprema Corte precisa
che il quesito concerne non solo una questione di
onere della prova del danno e del nesso di causalità, ma anche, e ancor prima, il profilo dell’allegazione, che della prova costituisce l’antecedente logico, secondo un’impostazione metodologica (che
quasi possiamo dare per scontata) riassumibile nel
noto brocardo latino “iudex iuxta alligata et probata
iudicare debet” (17). Seguendo tale premessa, la
Cassazione arriva ad escludere, in via di principio,
l’applicazione del criterio dello sbilancio fallimentare in caso di mancanza delle scritture contabili,
così da ridimensionare l’orientamento che si era
diffuso tra giudici di legittimità e di merito, da un
lato, valorizzando l’onere di allegazione che grava
sull’attore, dall’altro, sminuendo il principio giurisprudenziale di vicinanza o prossimità della prova,
che pure è stato invocato in alcune più recenti
sentenze in materia. La Corte, poi, nella parte finale della pronuncia giunge ad un certo temperamento di quanto nella stessa precedentemente affermato, là dove riconosce che, nell’ambito della liquidazione equitativa del danno, qualora ne ricorrano le
condizioni, possa essere presa in considerazione
(anche solo in parte) la differenza negativa tra attivo e passivo fallimentari, purché siano indicate
dall’attore le ragioni che non hanno consentito la
precisa indicazione del danno (si pensi, ad esempio, alla distruzione dei documenti contabili da
parte dell’amministratore) e l’applicazione di siffatto criterio sia coerente rispetto al caso concreto,
così riconoscendo che, in determinate ipotesi, siano più pertinenti diverse metodologie di quantificazione del danno.
La sentenza in esame, quindi, collocandosi nel
solco tracciato dalle più recenti pronunce della
Cassazione in materia di responsabilità degli ammi-
L’argomento giuridico davvero innovativo offerto dal Supremo Collegio è quello, di natura strettamente processuale, relativo all’onere di allegazione
che incombe sull’attore (18), al quale sembra ricorrere per contrastare la tendenza diffusa nelle aule
dei tribunali a semplificare oltremodo l’articolazione della causa petendi da parte delle curatele attrici.
In tal senso, la Corte, nel ricordare il pacifico
convincimento secondo il quale il creditore che
agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del
danno, deve provare la fonte negoziale o legale del
suo diritto, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte (19), sostiene che ciò valga
anche per le obbligazioni di mezzi (20), tra cui
quelle di comportamento che riguardano l’amministratore di società e, quindi, acquista rilevanza centrale rispetto al relativo giudizio di responsabilità,
senza distinzione tra l’azione sociale e quella dei
creditori.
In questa prospettiva, l’attore, pur non dovendo
provare l’inadempimento del convenuto, deve
nondimeno individuarlo puntualmente e allegarlo,
oltre ovviamente a dover provare il danno che ne
consegue e il nesso di causalità (21).
Sebbene, in linea teorica, quanto affermato in
sentenza sia condivisibile, occorre chiedersi quale
tra gli inadempimenti dell’amministratore di società, che la curatela attrice deve allegare, sia astrattamente efficiente a produrre un danno che si assuma corrispondente all’intero deficit fallimentare.
Una simile portata - sostiene la Suprema Corte può essere riconosciuta soltanto a violazioni del
(17) Sulla distinzione tra allegazione e prova, che vincolano
il giudice sulla base di un diverso fondamento logico, si vedano, tra gli altri, B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo
civile, Padova, 1991, 3 ss. e 289 ss.; M. Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, Milano, 1962, 305 ss.
(18) In generale sull’allegazione, si consulti, fra gli altri, L.P.
Comoglio, Allegazione, in Dig. disc. priv., sez. civ., I, Torino,
1987, 272 ss.; D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti nel processo civile, Torino, 2001.
(19) Così Cass., SS.UU., 30 ottobre 2001, n. 13533, in
Giust. civ., 2002, I, 1934.
(20) Si veda Cass., SS.UU., 28 luglio 2005, n. 15781, in Eu-
ropa e dir. priv., 2006, 781, con nota di A. Nicolussi, Il commiato della giurisprudenza dalla distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi; con specifico riferimento alla responsabilità medica, Cass., SS.UU., 11 gennaio 2008, n. 577,
in Giur. It., 2008, 1653, con nota di A. Citti, Crepuscolo della distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato.
(21) Specie con riguardo al nesso di causalità, si rinvia, fra i
molti, a G. Visintini, Risarcimento del danno, in P. Rescigno (diretto da), Trattato di diritto privato, II ed., IX, Torino, 1999, 252;
F. Realmonte, Il rapporto di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967; G. Gorla, Sulla cosiddetta causalità giuridica:
“fatto dannoso e conseguenze”, in Riv. dir. comm., 1951, I, 405.
1578
nistratori di società, conferisce un sigillo di autorevolezza (quello che è proprio delle statuizioni delle
Sezioni Unite) ad un rigoroso indirizzo, che già da
tempo si è andato affermando anche tra i giudici di
merito, al quale cerca di offrire, secondo una visione sistematica, una più solida base teorica, non immune da qualche forzatura.
La valorizzazione dell’onere di allegazione
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dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così
generalizzate da far pensare che proprio a cagione
di esse si sia eroso l’intero patrimonio e siano scaturite le perdite registrate dal curatore o, comunque, a quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza; ma già se queste violazioni abbiano soltanto aggravato il dissesto, unicamente tale aggravamento potrebbe essere ricollegato a quelle violazioni e rilevare sul piano risarcitorio.
Qualora, invece, come si legge sempre nella sentenza in esame, una tale ampiezza di effetti dell’inadempimento allegato non sia neppure teoricamente concepibile, la pretesa d’individuare il danno risarcibile nella differenza tra passivo e attivo
patrimoniale, accertati in sede fallimentare, risulta
priva di ogni base logica e giuridica.
D’altra parte, come opportunamente ricordato
dalla Corte, occorre tenere presente che le perdite
non possono mai essere considerate un sintomo o
una conseguenza delle violazioni contestate all’amministratore, il quale non deve certo garantire risultati positivi nell’esercizio dell’impresa, così come
- è opportuno aggiungere - le sue scelte imprenditoriali non sono sindacabili nel merito, secondo
quanto postulato dalla business judgment rule (22).
Ciò porta, quindi, la Cassazione, in piena coerenza con le premesse, ad escludere che il deficit
fallimentare venga automaticamente posto a carico
dell’amministratore, tanto come conseguenza della
violazione del generale obbligo di diligenza nella
gestione dell’impresa sociale, quanto come conseguenza della violazione di doveri specifici potenzialmente idonei a determinare soltanto effetti altrettanto specifici e ben delimitati.
Pertanto, in presenza della distrazione di alcuni
beni della società, come avvenuto nel caso di specie, il danno non può che essere commisurato al
valore di quei beni o al vantaggio che l’impresa
avrebbe potuto ricavarne.
Invece, la mancata redazione delle scritture contabili (così come dei bilanci d’esercizio) di per sé
non è fonte di danno risarcibile, in quanto la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività d’impresa, non li determina; ed
è da quegli accadimenti che deriva il deficit patrimoniale, non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione contabile.
Di conseguenza, secondo la Corte, qualora l’attore non alleghi un inadempimento del convenuto
almeno astrattamente idoneo a porsi come causa
del danno di cui pretende il risarcimento (23), si finirebbe per attribuire impropriamente a quest’ultimo una funzione essenzialmente sanzionatoria, non
consentita da alcuna norma di legge (cfr. art. 25
Cost.) (24) e addirittura in contrasto con principi
di valenza internazionale (25).
In sostanza, le Sezioni Unite richiamano la basilare regola processuale, secondo cui iudex secundum
alligata iudicare debet, per conferire un più solido
fondamento giuridico ad un orientamento ormai
consolidato, pretendendo dall’attore un più coerente e rigoroso comportamento processuale.
(22) Si vedano, ad esempio, Cass., 16 gennaio 1982, n.
280, in Dir. fall., 1982, II, 664; Cass., 28 aprile 1997, n. 3652, in
Giust. civ., 1997, I, 2780; Cass., 28 agosto 2004, n. 16707, in
Giur. comm., 2005, II, 246; Cass., 12 febbraio 2013, n. 3409.
Per approfondimenti, si consulti C. Angelici, Diligentia quam in
suis e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, 675
ss.; L. Enriques, Il nuovo diritto societario nelle mani dei giudici:
una ricognizione empirica, in Stato e mercato, 2001, 75 ss.; R.
Weigmann, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Torino, 1974, 186 ss. e 297 ss.; più di recente, C. Gamba,
Diritto societario e ruolo del giudice, Padova, 2008; C. Amatucci
(a cura di), Responsabilità degli amministratori di società e ruolo
del giudice. Un’analisi comparatistica della business judgment
rule, Milano, 2014.
(23) Cfr. Cass., SS.UU., 11 gennaio 2008, n. 577, cit.
(24) Si vedano, fra gli altri, R. Rordorf, Il risarcimento del
danno nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, sindaci, liquidatori e direttori generali di società fallite, in Società,
1993, 617; S. Di Amato, L’azione di responsabilità ex art. 146
legge fallimentare alle soglie della riforma del diritto societario,
in Dir. fall., 2003, I, 66 s.
(25) Il riferimento è all’art. 7 della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.
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Mancanza delle scritture contabili e danno
risarcibile
L’impostazione della sentenza, in via teorica,
non può che essere condivisa, ma induce a domandarsi cosa, in concreto, debba costituire oggetto di
allegazione, ossia quale sia l’inadempimento che,
come causa efficiente del danno, deve allegare la
curatela fallimentare allorché agisca in responsabilità contro l’amministratore della società fallita.
Sul punto richiamato, la tesi sostenuta dalla
Corte non appare del tutto esplicita. Non vi è dubbio che non sia sufficiente il generico riferimento
alla violazione del dovere di diligenza professionale
a cui è tenuto l’amministratore di società, occorrendo indicare specifiche violazioni, che siano coerentemente ricollegabili al danno subito dalla società e dai relativi creditori. In tal senso, il riferimento all’imputabilità di singole condotte illecite,
intorno alle quali costruire gli oneri di allegazione
e di prova, risponde ai principi generali di diritto
1579
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arbitrari) e l’inventario redatto dal curatore, nonché la condotta complessiva dell’amministratore,
specie relativa all’ultimo periodo di gestione prefallimentare.
D’altra parte, appare incontestabile che di solito
la sottrazione o distruzione delle scritture contabili,
così come talvolta anche l’omessa redazione delle
stesse, non è fine a se stessa, ma è quasi sempre
funzionale a non consentire ai terzi l’individuazione di atti dannosi di mala gestio (28).
Occorre, dunque, evitare un’eccessiva enfatizzazione dell’onere di allegazione, che porti a pretendere dall’attore una vera e propria alligatio diabolica,
richiedendogli di rappresentare in giudizio avvenimenti gestionali di cui non ha, né può avere, conoscenza a causa di un’attività di occultamento posta in essere dall’amministratore (29).
Ciò risponde, anzitutto, a un elementare principio di buon senso, che assume puntuale rilevanza
sul piano giuridico, secondo cui nessuno può trarre
vantaggio dal proprio fatto illecito. È proprio questa, invece, la conseguenza paradossale alla quale si
arriverebbe qualora si aggravasse l’onere di allegazione della curatela attrice, finendo in sostanza per
riconoscere, quale esimente, l’assenza delle scritture contabili imputabile all’amministratore, il quale
abbia in tal modo reciso volontariamente la sequenza causale tra comportamento illecito e danno.
civile che regolano la responsabilità contrattuale e
da inadempimento.
Tuttavia, quando si tratta di gestione (societaria) occorre distinguere tra atto e attività: l’inadempimento può senz’altro avere ad oggetto un atto illecito specifico che sia fonte immediata e diretta di un danno risarcibile, ma può riguardare anche lo svolgimento dell’attività gestionale o di parte di essa, ossia ben può riferirsi ad una serie coordinata di atti legati da una funzione unitaria (secondo la nozione tecnica di attività (26)). Pertanto, anche la violazione del dovere di tenere la contabilità, in determinate circostanze, non può essere
considerata avulsa da altri comportamenti illeciti, i
quali, appunto, hanno materialmente prodotto l’evento dannoso; anzi, la violazione inerente la contabilità sociale può talvolta assumere una connotazione strumentale rispetto ad atti illeciti pregiudizievoli, nel senso che può essere finalizzata ad occultarli. In questi termini, quindi, si è in presenza
di una complessiva sequenza di atti illeciti, che,
considerata unitariamente, può ritenersi fonte di
danno, in quanto il successivo illecito, relativo alla
contabilità, è strumentale rispetto a quello precedente che ha direttamente determinato il danno (27).
In tal caso, allora, non sembra sia da escludere
che il contenuto dell’onere di allegazione possa essere riferito anche soltanto alla mancanza delle
scritture contabili imputabile all’amministratore
qualora vi siano elementi che consentano di considerare gli illeciti teleologicamente connessi.
E a tal proposito il collegamento funzionale tra i
diversi illeciti può essere desunto da una serie di
elementi indiziari e presuntivi: ad esempio, considerando soprattutto il contesto temporale delle
violazioni relative alla contabilità, rileva l’approssimarsi di una situazione di dissesto e la vicinanza alla dichiarazione di fallimento, ma anche l’ingiustificato depauperamento patrimoniale che può emergere da un confronto tra i dati di bilancio (da cui
risultano, ad esempio, ammortamenti e svalutazioni
Costituisce un dato acquisito che l’attore, oltre a
dover allegare l’inadempimento (specifico) del
convenuto, ossia la condotta illecita che idealmente ha cagionato il danno risarcibile, deve fornire la
prova del danno e del nesso di causalità tra la condotta e l’evento dannoso, mentre il convenuto deve provare di avere regolarmente adempiuto le proprie obbligazioni.
(26) Sulla nozione giuridica di attività, si veda, per tutti, G.
Auletta, voce Attività (diritto privato), in Enc. dir., III, Milano,
1958, 981 ss. La rilevanza che, nel diritto dell’impresa, riveste
il concetto dinamico di attività, in contrapposizione ad una
considerazione atomistica del singolo atto, è autorevolmente
rimarcata da P. Ferro-Luzzi, I contratti associativi, Milano, 1971,
188 ss.; C. Angelici, La riforma delle società di capitali, Padova,
2006, 189 ss.
(27) Cfr. A. Patti, La determinazione del danno risarcibile nell’azione di responsabilità per la perdita del capitale sociale, in
Fall., 2013, 173; M. Vitiello, Il danno risarcibile nelle azioni di responsabilità della curatela, in Giur. comm., 2013, I, 163.
(28) È pacifico che le violazioni che riguardano le scritture
contabili, sebbene abbiano una rilevanza penale, non sono di
per sé fonte di danno risarcibile, a meno che non siano connesse ad altri inadempimenti dannosi: cfr. Cass. 20 giugno
2000, n. 8368, in Fall., 2001, 745; Cass. 8 marzo 2000, n.
2624, in Foro it., 2001, I, 627; Trib. Milano 7 giugno 2001, in
Giur. milanese, 2001, 63; Trib. Ivrea 29 gennaio 2004, in Società, 2004, 1564.
(29) In caso di fallimento della società, il curatore che agisce in responsabilità contro l’amministratore non è parte contrattuale, ma è terzo, per cui spesso non solo non dispone di
adeguati elementi probatori, ma neppure è a conoscenza dei
fatti di gestione, che si sono svolti prima della sua designazione come organo della procedura concorsuale.
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La svalutazione del principio di vicinanza
della prova
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La dove, tuttavia, il curatore che esercita l’azione di responsabilità contro l’amministratore della
società fallita sia in grado soltanto di allegare l’illecito relativo alla tenuta della contabilità sociale,
non potendo diversamente ricostruire ciascun atto
dannoso di mala gestio, anche per quanto riguarda
la prova del danno e del nesso eziologico, occorre
ricorrere a procedure che sottendono l’impossibilità
di una loro precisa individuazione, quale è il sistema delle presunzioni.
In questa direzione muovono quelle sentenze più
recenti della Cassazione, le quali, pur non discostandosi dall’orientamento prevalente, in caso di
mancanza delle scritture contabili, presumendo l’esistenza del danno e del nesso di causalità, sostengono un’inversione dell’onere della prova a carico
dell’amministratore convenuto in giudizio.
In tal senso, il ricorso alle presunzioni (che devono essere gravi, precise e concordanti ai sensi
dell’art. 2729 c.c.), circa la sussistenza del nesso
eziologico, si giustifica allorché la prova non possa
essere data per un comportamento ascrivibile alla
stessa parte contro la quale il fatto da provare
avrebbe potuto essere invocato, tenuto conto del
rilievo che assume, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova, la “vicinanza della prova” stessa, cioè l’effettiva possibilità per l’una o l’altra parte di offrirla, secondo
quanto affermato in giurisprudenza a partire dalla
nota pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione del 2001 (30), la quale ha chiarito che è il debitore che deve provare di avere correttamente
adempiuto le sue obbligazioni e non, viceversa, il
creditore a dover provare l’inadempimento.
Una volta posto il problema nei termini indicati,
non sembra pienamente da condividere la presa di
posizione delle Sezioni Unite, che tendono ad
escludere la rilevanza del principio di prossimità
della prova, ritenendo che vi sarebbe un disallineamento delle suddette pronunce, le quali, con riguardo a vicende analoghe a quella trattata in questa sede, sono arrivate ad affermare un’inversione
dell’onere della prova.
In realtà, tali decisioni, in una logica di maggiore affinamento dell’elaborazione teorica, hanno re-
cepito il principio di vicinanza della prova, per addivenire ad un sostanziale aggravamento dell’onere
probatorio a carico del convenuto.
Non sembra neppure che queste pronunce siano
inconciliabili con l’indirizzo dominante, volto ad
applicare come extrema ratio il criterio del deficit
fallimentare.
Invero, queste sentenze, in modo spesso condivisibile, hanno ritenuto che la mancanza (o l’irregolarità) delle scritture contabili impedirebbe al curatore che agisce in responsabilità contro l’amministratore della società fallita di ricostruire, e perciò
di provare con sufficiente precisione, il danno sofferto dal patrimonio della medesima società (e dai
suoi creditori), onde si giustifica lo spostamento
dell’onere della prova del danno e del nesso di causalità in capo al convenuto, giacché è proprio l’illegittimo comportamento di costui ad impedire all’attore di assolvere a quell’onere.
In questa prospettiva, il nesso eziologico può essere ricondotto, in via presuntiva, alla mancata tenuta delle scritture contabili, attraverso cui l’amministratore abbia reso non conoscibili gli atti di
gestione e, in particolare, quelli illeciti e pregiudizievoli.
A ciò si aggiunga che il ricorso al principio di
vicinanza della prova è tanto più pertinente con riguardo al curatore fallimentare che agisce ex art.
146 l.fall., il quale è terzo rispetto al rapporto gestorio intercorso tra amministratore e società (poi)
fallita, subentrando soltanto in un secondo momento nell’amministrazione del patrimonio sociale.
Ovviamente, però, come si legge nella sentenza,
pur in mancanza delle scritture contabili, il curatore deve comunque attivarsi per verificare aliunde la
condotta illecita fonte di danno imputabile all’amministratore (31).
(30) Cass., SS.UU., 30 ottobre 2001, n. 13533, cit. A questa
sentenza si è uniformata la giurisprudenza unanime della Suprema Corte: si vedano, in particolare, Cass. 28 gennaio 2002,
n. 982, in Giust. civ., 2002, I, 978; Cass. 21 febbraio 2003, n.
2647; Cass. 1° aprile 2004, n. 6395, in Giust. civ., I, 448; Cass.
13 giugno 2006, n. 13674; Cass. 26 gennaio 2007, n. 1743, in
Giust. civ., 2007, I, 2121; Cass. 11 novembre 2008, n. 26953;
Cass. 3 luglio 2009, n. 15677; Cass. 20 gennaio 2010, n. 936,
in Riv. dir. proc., 2011, I, 186; Cass. 15 luglio 2011, n. 15659.
(31) Così, ad esempio, se il collegio sindacale ha puntualmente riportato nel libro relativo alle sue riunioni tutti gli aspetti di criticità della gestione sociale, nonostante sia sparita la
documentazione contabile, il curatore può essere comunque
in grado di ricostruire la condotta illecita imputabile agli amministratori, in modo da poterla allegare in sede processuale.
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Il paradigma della liquidazione equitativa
del danno
Nonostante il rigore preteso dalle Sezioni Unite,
resta il fatto che la mancanza delle scritture contabili rende in molti casi oggettivamente difficile, se
non addirittura impossibile, per il curatore falli-
1581
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mentare la quantificazione del danno, che sia di
volta in volta riconducibile ad un determinato inadempimento imputabile all’amministratore della
società fallita.
Di ciò sembra rendersi conto la stessa Cassazione, nel momento in cui, nella parte finale della
sentenza in commento, non senza una qualche
contraddizione rispetto a quanto precedentemente
sostenuto, recupera il criterio del deficit fallimentare, riconducendolo nell’ambito della liquidazione
equitativa del danno (32).
In tal senso la Corte, ridimensionando in parte
il proprio enunciato, riconosce che “lo stesso curatore potrà invocare a proprio vantaggio la disposizione dell’art. 1226 c.c. e perciò chiedere al giudice
di provvedere alla liquidazione del danno in via
equitativa”, e prosegue ritenendo che “né può
escludersi che, proprio avvalendosi di tale facoltà
di liquidazione equitativa, il giudice tenga conto in
tutto o in parte dello sbilancio patrimoniale della
società, quale registrato nell’ambito della procedura concorsuale”. Tuttavia, richiamando i propri
precedenti del 2005, precisa che “per evitare che
ciò si traduca nell’applicazione di un criterio affatto arbitrario, sarà pur sempre necessario indicare le
ragioni che non hanno permesso l’accertamento
degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente
riconducibili alla condotta del convenuto, nonché
la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto”.
Pertanto, la Corte riconosce al curatore la possibilità di richiedere una liquidazione del danno ex
art. 1226 c.c., eventualmente - temperando così
quanto aveva prima statuito - anche tenuto conto,
in tutto o in parte, dello sbilancio patrimoniale
della società, come registrato nell’ambito della procedura concorsuale, sia pur affermando - ed ecco
che torna di nuovo una impostazione rigorosa - la
necessità di precisare le ragioni che non hanno
permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta del convenuto, nonché la plausibilità logica
del ricorso a detto criterio, considerando le circostanze del caso concreto.
L’aspetto di grande rilievo che emerge dalla decisione in commento è l’inquadramento del criterio dello sbilancio fallimentare nell’ambito del paradigma della liquidazione equitativa, al quale sono
riconducibili anche altre metodologie di calcolo,
come evidenziato di recente anche in dottrina (33).
Attraverso tale collocazione sistematica, la Corte riconosce che sia possibile utilizzare anche soltanto in parte il dato della differenza tra passivo e
attivo fallimentare, cosicché quell’importo differenziale rappresenta il tetto massimo a cui può arrivare il risarcimento, lasciando dunque ampi margini valutativi al giudice, il quale può decidere di
condannare l’amministratore al pagamento di un
importo più contenuto, a seconda del caso concreto.
Inoltre, la Cassazione invita a dare conto delle
ragioni ostative che non hanno consentito la prova
puntuale dell’inadempimento, come appunto si deve ritenere possano essere l’occultamento, la distruzione o la mancata redazione delle scritture
contabili in prossimità della dichiarazione di fallimento.
Infine, la Corte, richiedendo di considerare la
plausibilità logica del ricorso al criterio dello sbilancio fallimentare, tenuto conto delle circostanze
del caso concreto, sottintende che in determinati
casi sia più coerente adottare tecniche di calcolo
differenti, come quella dei netti patrimoniali di periodo, comunque riconducibile nell’ambito del sistema di liquidazione equitativa del danno (34), allorché l’amministratore abbia proseguito nel normale svolgimento dell’attività produttiva pur in
presenza di una causa di scioglimento, invece di limitarsi ad una gestione meramente conservativa e
di dare impulso alla liquidazione della società, oppure, in caso di insolvenza irreversibile, qualora
non si sia attivato per tempo al fine di far dichiarare il fallimento della società.
Proprio l’invito ad una maggiore coerenza logica
consente di affermare che se in bilancio sono
iscritte immobilizzazioni materiali per un dato ammontare e dall’inventario redatto dal curatore non
risultano beni di pari valore, per quantificare il
(32) In questi termini, già Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538,
cit.; Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032, cit.; Cass. 4 luglio 2012,
n. 11155, cit.; Cass. 11 luglio 2013, n. 17198, cit.
(33) Sul punto sia consentito rinviare a P.P. Ferraro, Responsabilità degli amministratori di società e quantificazione dei
danni in sede fallimentare, cit., 360 ss., ove ulteriori riferimenti
bibliografici.
(34) Ciò consentirebbe di superare, almeno in parte, le
obiezioni sollevate da Cass., 23 giugno 2008, n. 17033, in
Giust. civ., 2009, I, 2437, con nota di F. Brizzi, La mala gestio
degli amministratori in prossimità dello stato di insolvenza e la
quantificazione del danno risarcibile, che ha tendenzialmente
escluso la possibilità di liquidare il danno in misura pari alla
perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell’attività
in presenza di una causa di scioglimento della società.
1582
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Giurisprudenza
Diritto commerciale
danno, piuttosto che utilizzare il criterio del deficit
fallimentare, basta semplicemente considerare la
differenza tra le due poste indicate, come emerge
dalla casistica giurisprudenziale (35).
Pertanto, i giudici di merito che si erano occupati del caso sottoposto poi all’attenzione della Suprema Corte avevano indubbiamente adottato una
soluzione semplicistica, non corretta alla luce dei
risultati acquisti sul piano teorico-pratico, perché,
rispetto alla distrazione di attività patrimoniali della società contestata e allegata dal curatore fallimentare, hanno applicato automaticamente il criterio dello sbilancio fallimentare, dando rilievo alla
mancanza delle scritture contabili, nonostante nell’ipotesi considerata il danno fosse determinato.
La portata sistematica della sentenza
In conclusione, ci si trova in presenza di una
sentenza di carattere prevalentemente procedurale
o procedimentale, che definisce l’iter logico-argomentativo che occorre seguire nei giudizi di responsabilità contro gli amministratori di società
fallite, con specifico riferimento alla determinazione del danno risarcibile. A questo proposito, la
pronuncia esprime un’opzione decisamente favorevole ad un’articolazione tipologica dei vari illeciti
che sono fonte di responsabilità e ad una puntuale
e rigorosa allegazione e prova del corrispondente
danno provocato, per poi esaminare la fattispecie
più problematica che riguarda le violazioni degli
obblighi relativi alla contabilità sociale.
Su questa ipotesi, l’apporto nomofilattico della
Corte è più incisivo nella parte in cui esclude che
la mancanza delle scritture contabili possa automaticamente comportare una liquidazione del danno
corrispondente alla differenza attivo-passivo fallimentare, per l’ovvia considerazione che le scritture
contabili registrano gli accadimenti economici, ma
non li determinano, per cui “il fatto che l’amministrazione sia venuta meno ai suoi doveri di corretta
redazione e di conservazione della contabilità non
giustifica che venga posto a suo carico l’onere di
provare la non dipendenza di quel deficit patrimoniale da inadempimento, da parte sua, di ulteriori
ma non meglio specificati obblighi”.
(35) Si veda, ad esempio, la soluzione adottata da Trib. Napoli 24 gennaio 2007, in Fall., 2007, 946, secondo cui l’amministratore della società fallita che abbia distrutto, distratto, sottratto, dissipato, abbandonato od occultato una cospicua parte dei beni materiali della società è tenuto al risarcimento, in
favore del fallimento, nella misura pari alla differenza tra il valore delle immobilizzazioni materiali da lui iscritte in bilancio e
quello delle immobilizzazioni materiali inventariate dal curato-
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Un tale criterio di quantificazione, per così dire
radicale e semplificativo, può essere utilizzato soltanto come extrema ratio, ma non in via immediata
e diretta, bensì attraverso il filtro della valutazione
equitativa di cui all’art. 1226 c.c. Eppure anche in
tal caso occorre fissare i “paletti” imprescindibili
per un corretto giudizio, che resta pur sempre di diritto, sebbene sia caratterizzato da equità suppletiva
e integrativa (36).
Nei termini ricostruiti, la sentenza è sostanzialmente da apprezzare, essendo del resto in linea con
gli orientamenti orami da tempo prevalenti, anche
se potrebbe rilevarsi, per un verso, una certa tendenza a ridimensionare le responsabilità degli esponenti degli organi sociali persino in situazioni
estreme in cui traspare una diretta responsabilità
nella scomparsa delle scritture contabili, per altro
verso, una intrinseca genericità nel definire il percorso di una liquidazione equitativa che non contraddica le premesse precedentemente denunciate.
Le rilevate ambiguità sono del resto il frutto di
una qualche sovrapposizione tra due profili di indagine teoricamente distinti e cioè l’accertamento
della responsabilità e la quantificazione del danno.
I due aspetti sono evidentemente correlati ma rilevano in termini differenti sul piano degli oneri di
allegazione e di prova. L’individuazione della responsabilità contrattuale compete agli organi fallimentari, ma sono poi gli amministratori a dovere
dimostrare il rispetto dei relativi obblighi e che l’inadempimento è stato dovuto a cause ad essi non
imputabili. Diversamente, nella quantificazione del
danno l’onere della prova è tutto a carico del curatore fallimentare e va ricostruito analiticamente in
ragione delle singole trasgressioni, non essendo
consentito percorrere “scorciatoie”, se non in casi
estremi di gravi e conclamate responsabilità.
Come emerge da quanto riferito il percorso logico da seguire resta alterno e variegato al punto da
far sorgere consistenti dubbi sulla idoneità della
sentenza a orientare definitivamente, e occorrerebbe dire razionalmente, il complesso contenzioso in
materia.
re; in termini analoghi Trib. Milano 18 maggio 1995, in Società,
1995, 1597.
(36) In tal senso, Cass. 12 ottobre 2011, n. 20990; Cass. 30
aprile 2010, n. 10607; Cass. 7 giugno 2007, n. 13288; Cass. 18
novembre 2002, n. 16202, in Giur. it., 2003, 1342; in dottrina,
G. Visintini, La valutazione equitativa del danno, in G. Visintini
(diretto da), Trattato della responsabilità contrattuale, III, Padova, 2009, 450.
1583
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Diritto processuale civile
Difetto del potere rappresentativo
Cassazione Civile, SS.UU., 3 giugno 2015, n. 11377 - Pres. Rovelli - Rel. Giusti- P.M. Apice
(conf.)- R.J (avv.ti Manferoce, Consolo, Malossini) c. Hypo vorarlberg leasing S.p.a., (avv.ti
Sassani, Senoner, Mazzeo)
In tema di contratto stipulato da “falsus procurator”, la deduzione del difetto o del superamento del potere
rappresentativo e della conseguente inefficacia del contratto, da parte dello pseudo rappresentato, integra
una mera difesa, atteso che la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è
un elemento costitutivo della pretesa del terzo nei confronti del rappresentato, sicché il giudice deve tener
conto della sua assenza, risultante dagli atti, anche in mancanza di una specifica richiesta di parte.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Non si rinvengono precedenti in termini.
Difforme
Cass. 8 luglio 1983, n. 4601; Cass. 14 maggio 1997, n. 4258; Cass. 29 ottobre 1999, n. 12144; Cass. 15 gennaio
2000, n. 410; Cass. 7 febbraio 2000, n. 1320; Cass. 2 agosto 2003, n. 11772; Cass. 26 febbraio 2004, n. 3872;
Cass. 30 marzo 2005, n. 6711; Cass. 7 febbraio 2008, n. 2860; Cass. 17 giugno 2010, n. 14618; Cass. 26 luglio
2011, n. 16317; Cass. 24 ottobre 2013, n. 24133; Cass. 23 maggio 2014, n. 11582; Cass. 19 novembre 2014, n.
24643.
La Corte (omissis).
Considerato in diritto
1. - La questione di massima di particolare importanza
rimessa all’esame delle Sezioni Unite è se la deduzione
della inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator costituisca materia di eccezione in senso stretto,
che come tale può essere sollevata solo dal falsamente
rappresentato ed esclusivamente nella fase iniziale del
processo di primo grado, o sia una eccezione in senso lato, dunque non solo rilevabile d’ufficio ma proponibile
dalle parti per tutto il corso del giudizio di primo grado
e finanche per la prima volta in appello.
2. - Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’inefficacia del contratto concluso dal rappresentante senza
poteri o eccedendo i limiti dei poteri conferitigli non
può rilevarsi d’ufficio ma solo su eccezione di parte, ed
essendo volta a tutelare il falso rappresentato può essere
fatta valere solo da quest’ultimo (o dai suoi eredi), mentre non è invocabile dal terzo contraente, il quale, ai
sensi dell’art. 1398 c.c., può unicamente chiedere al falsus procurator il risarcimento dei danni sofferti per avere
confidato senza propria colpa nell’operatività del contratto.
Questo principio di diritto ha dato vita ad un orientamento uniforme e consolidato nel tempo (Sez. II, 23
gennaio 1980, n. 570; Sez. II, 8 luglio 1983, n. 4601;
Sez. I, 29 marzo 1991, n. 3435; Sez. III, 8 luglio 1993,
n. 7501; Sez. I, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. II, 10
maggio 1999, n. 11396; Sez. II, 29 ottobre 1999, n.
12144; Sez. I, 13 dicembre 1999, n. 13954; Sez. II, 15
gennaio 2000, n. 410; Sez. III, 9 febbraio 2000, n. 1443;
Sez. III, 26 febbraio 2004, n. 3872; Sez. I, 30 marzo
2005, n. 6711; Sez. II, 7 febbraio 2008, n. 2860; Sez. II,
17 giugno 2010, n. 14618; Sez. III, 20 giugno 2011, n.
13480; Sez. II, 26 luglio 2011, n. 16317; Sez. II, 24 ot-
1584
tobre 2013, n. 24133; Sez. lav., 23 maggio 2014, n.
11582).
La conseguenza di tale indirizzo giurisprudenziale è che
dell’inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator il giudice non può tenere conto se, pur emergendo
dagli atti di causa il difetto del potere rappresentativo e
la mancanza della intervenuta ratifica, lo pseudo rappresentato non solleva questa eccezione, o la solleva in ritardo rispetto al momento in cui avrebbe dovuto farlo.
Il fondamento dell’inquadramento dell’eccezione di
inefficacia del contratto tra le eccezioni in senso stretto
viene fatto risiedere:
(a) nella circostanza che, non vertendosi in ipotesi di
nullità, non soccorre la regola dettata dall’art. 1421 c.c.;
(b) nel rilievo che si è di fronte ad una inefficacia asimmetrica (il terzo contraente è vincolato, mentre il falsamente rappresentato non lo è), e che l’improduttività
di effetti è rivolta alla protezione della sfera giuridica
della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito.
3. - La dottrina generalmente approva la soluzione della
giurisprudenza.
Talora si sottolinea che l’inefficacia del contratto tutela
il falso rappresentato: per questo può farsi valere solo da
lui; non può rilevarsi d’ufficio; tanto meno può invocarsi dal terzo contraente, il quale è vincolato dal contratto.
Talaltra si rileva che, nella prospettiva normativa, il dominus si pone come arbitro delle sorti della fattispecie,
in positivo e in negativo, potendo sia ratificare il negozio o farne al contrario dichiarare la definitiva inidoneità operativa: a differenza dell’eccezione di nullità, che si
colloca in una dimensione statica, l’eccezione dello
pseudo rappresentato si inserisce in una vicenda instabile e fluida, perché l’assenza del vincolo è recuperabile
ad libitum dell’interessato.
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Diritto processuale civile
Ancora, si associa la natura in senso stretto dell’eccezione al fatto che la legittimazione ad agire per far valere
l’inefficacia del contratto spetta soltanto allo pseudo
rappresentato.
3.1. - Questo indirizzo interpretativo, che riconduce l’inefficacia del contratto nei confronti della persona in
nome della quale il falso rappresentante ha agito nel
novero delle eccezioni riservate alla disponibilità dell’interessato, è stato messo, di recente, in discussione da
alcune voci dottrinali, che ne hanno evidenziato la non
coerenza con il criterio generale in tema di distinzione
fra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato
nel frattempo elaborato, con riguardo alle fattispecie
estintive, modificative o impeditive, dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite, a partire dalla sentenza 3
febbraio 1998, n. 1099, fino alla ordinanza 7 maggio
2013, n. 10531, passando per la sentenza 27 luglio
2005, n. 15661.
In base a tale criterio distintivo, di norma, tutti i fatti
estintivi, modificativi od impeditivi, siano essi fatti
semplici oppure fatti-diritti che potrebbero essere oggetto di accertamento in un autonomo giudizio, sono rilevabili d’ufficio, e dunque rappresentano eccezioni in
senso lato; l’ambito della rilevabilità a istanza di parte
(eccezioni in senso stretto) è confinato ai casi specificamente previsti dalla legge o a quelli in cui l’effetto
estintivo, impeditivo o modificativo si ricollega all’esercizio di un diritto potestativo oppure si coordina con
una fattispecie che potrebbe dar luogo all’esercizio di
un’autonoma azione costitutiva.
Muovendosi in questa prospettiva - e premesso che per
far valere il fatto impeditivo costituito dalla non operatività, per la sfera giuridica dello pseudo rappresentato,
del contratto concluso dal rappresentante in carenza o
in eccesso di potere rappresentativo, la legge non prevede espressamente l’indispensabile iniziativa della parte una parte della dottrina ha appunto contestato che l’eccezione di inefficacia corrisponda all’esercizio di un potere costitutivo dello pseudo rappresentato.
Al riguardo si è rilevato che:
- (a) il codice civile non ha costruito la figura del contratto concluso dal rappresentante senza procura o travalicando i limiti della procura come una fattispecie
temporaneamente vincolante anche per lo pseudo rappresentato, dotata quindi di un’efficacia precaria che
questi possa rimuovere soltanto attraverso un recesso o
un rifiuto eliminativo ovvero mediante l’esercizio, nel
processo, con la proposizione dell’eccezione ad esso riservata, di un potere conformativo di scioglimento;
- (b) si è invece di fronte ad una non vincolatività che
consegue automaticamente al difetto di legittimazione
rappresentativa dello stipulante, secondo lo schema
norma-fatto-effetto, e che non abbisogna, per dispiegarsi, dell’intermediazione necessaria dell’esercizio di un
potere sostanziale rimesso al falsus dominus;
- (c) affinché lo stato originario di inefficacia resti immutato, e sia riscontrabile dal giudice, non è richiesta
allo pseudo rappresentato alcuna iniziativa: egli non deve esercitare alcun diritto potestativo per liberarsi da un
contratto che è già, per lui, privo di ogni effetto;
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- (d) il legislatore ha sì previsto, in capo al falsamente
rappresentato, la titolarità, esclusiva e riservata, di un
diritto potestativo: ma questo diritto è quello di imputarsi il contratto realizzando, attraverso la ratifica, la
condizione esterna di efficacia dello stesso, non quello
di sciogliersi dal vincolo.
Si è inoltre evidenziato che se l’eccezione di inefficacia
del contratto è sottratta al rilievo officioso, pur quando
la carenza o l’eccesso di potere di chi ha agito come
rappresentante emerga ex actis, e la parte interessata, in
ragione di una preclusione processuale, non possa più
sollevarla in appello, il risultato che si otterrebbe è la
ratifica tacita retta dal principio dell’imputet sibi, indipendentemente dall’effettiva ravvisabilità di comportamenti o atti, da parte dello pseudo rappresentato, che
implichino necessariamente la volontà di ritenere per
sé efficace quel contratto o che, comunque, siano incompatibili con il suo rifiuto.
Ma si tratterebbe - si è fatto notare - di un risultato
contrario al diritto sostanziale. Se si attribuisse valore di
una ratifica al silenzio mantenuto, rispetto alla domanda giudiziale, dall’interessato che sia rimasto contumace
o abbia adottato una strategia processuale che non necessariamente sottende la volontà di fare proprio il contratto rappresentativo, ciò significherebbe, per un verso,
far discendere da un comportamento processuale un effetto diametralmente opposto a quello che si sarebbe
avuto con l’interpello ai sensi dell’art. 1399, comma 4,
c.c. e, per l’altro verso, ricollegare un effetto appropriativo del negozio, con la conseguente instaurazione di
una situazione nuova, alla mancata risposta all’invito a
difendersi, quando sul piano sostanziale il silenzio del
dominus rispetto all’invito proveniente dal terzo contraente ha valore di negazione della ratifica dell’operato
del falso rappresentante.
4. - La necessità di interrogarsi se, nella dinamica del
processo, la inefficacia, nei confronti del dominus, del
contratto concluso dal falsus procurator, costituisca una
eccezione in senso lato o una eccezione in senso stretto,
sorge ove si muova dalla premessa che la mancanza del
potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome
altrui rappresenti un fatto impeditivo della pretesa azionata in giudizio dal terzo contraente.
Solo in tale prospettiva, infatti, si pone il problema se
basti, al fine di far scattare la possibilità, per il giudice,
di porlo a base della decisione, il presupposto minimo
che detto fatto impeditivo risulti dagli atti legittimamente acquisiti in causa; o se occorra anche l’espressa e
tempestiva istanza dello pseudo rappresentato affinché
gli effetti sostanziali del fatto impeditivo, ove riscontrato esistente sul piano sostanziale, possano essere utilizzati dal giudice come motivo di rigetto della domanda
dell’attore.
5. - Ad avviso del Collegio, in tema di rappresentanza
volontaria, la sussistenza del potere rappresentativo,
con l’osservanza dei suoi limiti, costituisce una circostanza che ha la funzione specifica di rendere possibile
che il contratto concluso dal rappresentante in nome
del rappresentato produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato: come tale, essa è ricompresa
1585
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nel nucleo della fattispecie posta a base della pretesa e
integra un elemento costitutivo della domanda che il
terzo contraente intenda esercitare nei confronti del
rappresentato.
Quando si tratta di stabilire, non già semplicemente se
il contratto si sia perfezionato, ma se esso produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato, la situazione fenomenica assunta nello schema astratto della
disciplina legale pone la legittimazione rappresentativa,
accanto allo scambio dei consensi e alla spendita del
nome altrui, come elemento strutturale e come ragione
dell’operatività, per la sfera giuridica del rappresentato,
del vincolo e degli effetti che da esso derivano.
È noto che il fatto impeditivo si identifica con la mancanza di un presupposto di efficacia, che interrompe il
normale ciclo del fenomeno giuridico: collocandosi in
una posizione diaframmatica tra il momento della rilevanza e quello della efficacia, il fatto impeditivo, in
quanto portatore di un interesse antitetico e prevalente
rispetto a quello rappresentato dal fatto inibito, neutralizza, con la propria azione, l’operatività di una fattispecie già completa, impedendole, così, di liberare gli effetti cui avrebbe dato altrimenti luogo.
Ad avviso del Collegio, il terzo contraente che deduce
in giudizio un contratto stipulato con il rappresentante
per ottenere il riconoscimento e la tutela, nei confronti
del rappresentato, di diritti che da quel contratto derivano, pone a fondamento della propria pretesa, non solo (a) gli elementi che l’art. 1325 c.c., richiede per il
perfezionamento del contratto, ma anche (b) che detto
contratto è stato concluso da un soggetto, il rappresentante, autorizzato dal rappresentato a stipulare in suo
nome, o (b1) che lo pseudo rappresentato, attraverso la
ratifica, ha attribuito ex post al falso rappresentante
quella legittimazione a contrarre per lui, che gli mancava al tempo del contratto.
Dunque, la presenza di quel potere rappresentativo (o la
ratifica da parte dell’interessato) si pone come fatto costitutivo rilevante, come nucleo centrale del fenomeno
giuridico di investitura specificamente considerato, in
quanto coelemento di struttura previsto in funzione della regola di dispiegamento degli effetti negoziali diretti
nei confronti del rappresentato.
5.1. - È il contesto di diritto sostanziale di riferimento,
per come ricostruito dalla dottrina e declinato nelle regole applicative dagli orientamenti giurisprudenziali,
che induce a questa soluzione.
Ai sensi dell’art. 1388 c.c., infatti, il contratto concluso
dal rappresentante in nome del rappresentato produce
direttamente effetto nei confronti del rappresentato solo
se concluso nei limiti delle facoltà conferite al rappresentante. La legge condiziona dunque la verificazione
dell’effetto negoziale diretto nei confronti del rappresentato alla sussistenza della legittimazione rappresentativa in capo al rappresentante. Il contratto, già perfezionato nei suoi elementi essenziali, è pertinente al rappresentato soltanto se questi ha autorizzato che lo si stipulasse in suo nome.
Invece il negozio concluso da chi agisce come rappresentante senza essere tale oppure da chi, pur essendo ti-
1586
tolare del potere rappresentativo, ne abbia ecceduto i limiti, non impegna la sfera giuridica del preteso rappresentato, cioè della persona il cui nome è stato illegittimamente speso.
Il contratto stipulato in difetto o in eccesso di rappresentanza non vincola il falsamente rappresentato verso
il terzo, perché chi ha agito non aveva il potere di farlo.
Si tratta di un contratto - non nullo e neppure annullabile - ma inefficace in assenza di ratifica (Sez. II, 15 dicembre 1984, n. 6584; Sez. I, 14 maggio 1997, n. 4258;
Sez. II, 11 ottobre 1999, n. 11396; Sez. II, 7 febbraio
2008, n. 2860): il negozio stipulato, in rappresentanza
di altri, da chi non aveva il relativo potere, è privo di
ogni efficacia come tale, potendo acquistarla soltanto in
seguito all’eventuale ratifica da parte dell’interessato
(Sez. II, 26 novembre 2001, n. 14944). Il terzo contraente, pertanto, non ha titolo per esercitare nei confronti dello pseudo rappresentato l’azione di inadempimento (Sez. I, 29 agosto 1995, n. 9061) né quella per
l’esecuzione del contratto (Sez. III, 23 marzo 1998, n.
3076). Talvolta si afferma anche che l’inefficacia (temporanea) discende dal fatto che il contratto concluso
dal falsus procurator costituisce una fattispecie soggettivamente complessa o a formazione progressiva, un negozio in itinere o in stato di pendenza, destinato a perfezionarsi con la ratifica del dominus (Sez. II, 8 luglio
1983, n. 4601; Sez. II, 17 giugno 2010, n. 14618). Ove
la spendita del nome non trovi giustificazione nel potere di rappresentanza (si legge in Sez. I, 9 dicembre
1976, n. 4581) “il negozio non si può ritenere concluso
né dal sostituto né dal sostituito ed è perciò improduttivo degli effetti suoi propri, configurando ... una fattispecie negoziale in itinere, al cui perfezionamento è necessario, ai sensi dell’art. 1399 c.c., l’ulteriore elemento
della ratifica, solo in conseguenza della quale il regolamento diventa retroattivamente impegnativo anche per
il dominus”; “il contratto - medio tempore, cioè tra il
momento della conclusione e quello della ratifica - è in
stato di quiescenza” (Sez. I, 24 giugno 1969, n. 2267).
5.1.1. - D’altra parte, quando si pone sul terreno dell’applicazione della regola dell’onere della prova, la giurisprudenza di questa Corte non esita a collocare il potere
rappresentativo tra gli elementi della fattispecie costitutiva.
Si afferma, infatti, che, poiché il contratto concluso dal
rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato produce, a norma dell’art. 1388 c.c., direttamente i
suoi effetti nei confronti di quest’ultimo solo in quanto
il rappresentante abbia agito nei limiti delle facoltà
conferitegli, ove il rappresentato neghi di avere rilasciato l’invocata procura, spetta al terzo che ha contrattato
con il rappresentante l’onere di provare l’esistenza e i limiti della procura (Sez. III, 10 ottobre 1963, n. 2694;
Sez. III, 7 gennaio 1964, n. 13; Sez. I, 13 dicembre
1966, n. 2898; Sez. III, 26 ottobre 1968, n. 3598; Sez.
III, 30 maggio 1969, n. 1935; Sez. III, 8 febbraio 1974,
n. 372; Sez. III, 25 novembre 1976, n. 4460; Sez. lav.,
29 luglio 1978, n. 3788).
6. - La deduzione della inefficacia del contratto stipulato in suo nome da un rappresentante senza poteri rap-
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presenta, pertanto, non una eccezione, ma mera difesa,
con la quale il convenuto non estende l’oggetto del processo al di là del diritto fatto valere dall’attore, né allarga l’insieme dei fatti rilevanti allegati al giudizio.
6.1. - Trattandosi di mera difesa, varranno le seguenti
regole processuali:
- (a) in linea di principio, per la formulazione di tale
deduzione difensiva il codice di procedura civile non
prevede alcuna specifica limitazione temporale (cfr. Sez.
III, 16 luglio 2002, n. 10280; Sez. lav., 9 ottobre 2007,
n. 21073; Sez. III, 17 maggio 2011, n. 10811; Sez. lav.,
16 novembre 2012, n. 20157; Sez. III, 12 novembre
2013, n. 25415);
- (b) peraltro, la circostanza che l’interessato, costituito
nel processo, ometta di prendere posizione circa la sussistenza del potere rappresentativo allegato dall’avversario
a sostegno della propria domanda, o comunque ometta
di contestare specificamente tale fatto, costituisce un
comportamento processuale significativo e rilevante sul
piano della prova del fatto medesimo, determinando, in
applicazione del principio di non contestazione (per cui
v., ora, l’art. 115 c.p.c., comma 1), una relevatio ab onere
probandi;
- (b1) poiché la non contestazione è un comportamento
processualmente significativo se riferito a un fatto da
accertare nel processo e non alla determinazione della
sua dimensione giuridica (cfr. Sez. Un., 23 gennaio
2002, n. 761), il difetto di specifica contestazione non
spiega alcuna rilevanza quando la mancanza del potere
rappresentativo dipenda, ad esempio, dalla nullità della
procura, per difetto di forma prescritta per la sua validità;
- (b2) il mero difetto di contestazione specifica, ove rilevante, non impone in ogni caso al giudice un vincolo
assoluto (per così dire, di piena conformazione), obbligandolo a considerare definitivamente come provata (e
quindi come positivamente accertata in giudizio) la legittimazione rappresentativa non contestata, in quanto
il giudice può sempre rilevare l’inesistenza del fatto allegato da una parte anche se non contestato dall’altra,
ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (cfr. Sez. lav., 6 dicembre
2004, n. 22829; Sez. lav., 8 agosto 2006, n. 17947; Sez.
lav., 10 luglio 2009, n. 16201; Sez. lav., 4 aprile 2012,
n. 5363);
- (c) allorché la mancanza del potere rappresentativo
sia acquisita agli atti, di essa il giudice può tenere conto
anche in assenza di una specifica deduzione della parte
interessata, giacché la sussistenza dei fatti costitutivi
della domanda deve essere esaminata e verificata dal
giudice anche d’ufficio (cfr. Sez. I, 5 agosto 1948, n.
1390; Sez. II, 15 febbraio 2002, n. 2214; Sez. III, 28 giugno 2010, n. 15375);
7. - Se poi sia lo pseudo rappresentato ad agire in giudizio con una domanda che presuppone l’efficacia del
contratto concluso in suo nome dal rappresentante senza poteri (ad esempio, al fine di ottenere la condanna
del terzo ad adempiere o la risoluzione del contratto per
inadempimento della controparte), certamente né il
terzo potrà difendersi opponendo la carenza del potere
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di rappresentanza, né vi sarà spazio per un rilievo officioso di quella carenza di legittimazione. Lo stesso superamento delle ragioni per una rilevabilità da parte del
giudice si avrà se lo stesso pseudo rappresentato, questa
volta convenuto in giudizio, si difenda nel merito tenendo un comportamento da cui risulti in maniera
chiara e univoca la volontà di fare proprio il contratto
concluso in suo nome e conto dal falsus procurator (cfr.
Sez. II, 15 novembre 1994, n. 9638; Sez. I, 8 aprile
2004, n. 6937).
Nell’uno e nell’altro caso, questo dipende dal fatto che
il comportamento tenuto nel processo dal dominus opera anche sul terreno del diritto sostanziale, facendo venir meno, con la ratifica (pur se tacita), l’originaria carenza dei poteri di rappresentanza e, con essa, la non
vincolatività, per la sfera giuridica della persona il cui
nome è stato speso, del contratto stipulato dal falsus
procurator.
8. - Conclusivamente, deve essere affermato il seguente
principio di diritto: “Poiché la sussistenza del potere
rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è
elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base di detto negozio, non costituisce eccezione, e pertanto non ricade
nelle preclusioni previste dagli artt. 167 e 345 c.p.c., la
deduzione della inefficacia per lo pseudo rappresentato
del contratto concluso dal falsus procurator; ne consegue
che, ove il difetto di rappresentanza risulti dagli atti, di
esso il giudice deve tener conto anche in mancanza di
specifica richiesta della parte interessata, alla quale, a
maggior ragione, non è preclusa la possibilità di far valere la mancanza del potere rappresentativo come mera
difesa”.
(omissis).
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La rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto ed i rapporti
con il potere (non già di eccezione ma) di eventuale ratifica
del falsamente rappresentato
di Giulia Gargiulo (*)
Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite, superando il tradizionale orientamento della giurisprudenza di legittimità che qualificava l’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator
come eccezione in senso stretto, ne affermano la rilevabilità d’ufficio qualificando la relativa deduzione in termini non già di eccezione ma di mera difesa. Il presente lavoro si propone di indagare, attraverso l’analisi delle ragioni che imponevano un simile revirement ed alla luce della soluzione accolta dal Collegio, i rapporti che intercorrono tra il negozio rappresentativo, il rilievo
della sua inefficacia ed il potere di ratifica del falsamente rappresentato, anche avendo riguardo
alla posizione del terzo contraente.
Le Sezioni Unite con sent. n. 11377 del 3 giugno 2015, n. 11377 si sono pronunciate sulla questione di massima di particolare importanza se la
deduzione dell’inefficacia del contratto stipulato
dal falsus procurator costituisca eccezione in senso
stretto oppure eccezione in senso lato.
L’ordinanza di rimessione della Seconda Sezione
civile del 27 giugno 2014, n. 14688 aveva posto
per la prima volta in discussione il consolidato
orientamento della giurisprudenza di legittimità
che riteneva tale inefficacia rilevabile unicamente
su eccezione dello pseudo rappresentato, quindi
non d’ufficio ed improponibile per la prima volta
nel giudizio d’appello, ex art. 345 c.p.c. (1).
La qualificazione della deduzione dell’inefficacia
come eccezione riservata al falsamente rappresentato non è mai stata adeguatamente motivata.
Un debole argomento a sostegno dell’esclusione
della rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto per mancanza del potere rappresentativo si
rinveniva nella circostanza che, non essendo nullo
il contratto stipulato dal falsus procurator, non trova applicazione l’art. 1421 c.c.
Privo di pregio risultava essere anche il rilievo,
pure invocato a giustificazione dell’inquadramento
della deduzione tra le eccezioni riservate alla parte,
che essendo tale inefficacia posta a tutela del solo
pseudo rappresentato, la stessa poteva essere fatta
valere solo da quest’ultimo. Se da un lato, infatti, è
indubbio che l’inefficacia del contratto tutela
esclusivamente il falso rappresentato rispetto al
quale il negozio stipulato illegittimamente in suo
nome, in ossequio al principio dell’intangibilità
della sfera giuridica altrui e della relatività del contratto, non può produrre effetti, dall’altro è evidente come tale circostanza non escluda di per sé la rilevabilità d’ufficio.
Non vi è infatti logica incompatibilità tra potere
di rilevazione officiosa del giudice e la legittimazione esclusiva ad agire per far valere l’inefficacia del
contratto riconosciuta al falsus dominus e ai suoi
eredi (2). Nonostante il rilievo officioso, lo pseudo
rappresentato resterebbe arbitro della sorte del
contratto. Il giudice dovrebbe infatti provocare il
contraddittorio sulla questione rilevata d’ufficio ed
il falsamente rappresentato conserverebbe il diritto
di ratificare il contratto ovvero di rifiutare la ratifica, difendendosi eccependo l’inefficacia o domandandone l’accertamento, anche eventualmente
previa rimessione in termini.
D’altro canto, la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia non implicherebbe la possibilità per il terzo
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Tra le altre Cass. 8 luglio 1983, n. 4601; Cass. 14 maggio 1997, n. 4258; Cass. 11 ottobre 1999, n. 11396; Cass. 29
ottobre 1999, n. 12144; Cass. 15 gennaio 2000, n. 410; Cass.
7 febbraio 2000, n. 1320; Cass. 17 settembre 2002, n. 13571;
Cass. 2 agosto 2003, n. 11772; Cass. 26 febbraio 2004, n.
3872; Cass. 30 marzo 2005, n. 6711; Cass. 7 febbraio 2008, n.
2860; Cass. 17 giugno 2010, n. 14618; Cass. 26 luglio 2011, n.
16317; Cass. 24 ottobre 2013, n. 24133; Cass. 23 maggio
2014, n. 11582; Cass. 19 novembre 2014, n. 24643.
(2) Che non vi sia incompatibilità tra legittimazione riservata
alla parte e potere di rilevazione d’ufficio si evince chiaramente
dal regime delle nullità di protezione di cui al codice del consumo. Tali nullità operano solo a vantaggio del consumatore
mentre il professionista non può né eccepire la nullità della
clausola abusiva, né farla valere in via d’azione. La nullità di
protezione è comunque rilevabile d’ufficio in tutte le azioni di
impugnativa negoziale, come precisato dalle SS.UU. 12 dicembre 2014, n. 26242 e n. 26243, che sul punto si sono poste in linea di continuità con l’orientamento della giurisprudenza della Corte di Giustizia.
L’irragionevolezza della qualificazione
dell’inefficacia del contratto stipulato
dal rappresentante senza potere come
eccezione in senso stretto
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contraente e per i suoi aventi causa di eccepire tale
inefficacia o di agire per il suo accertamento (3).
Pertanto, anche sotto tale profilo, la rilevabilità
d’ufficio dell’inefficacia del contratto non si porrebbe in contrasto con la ratio di tutela esclusiva
della sfera giuridica dello pseudo rappresentato sottesa alla disciplina di cui agli artt. 1388, 1398 e
1399 c.c.
Al contrario, proprio la tesi tradizionalmente accolta dalla giurisprudenza di legittimità si poneva
in contrasto con la disciplina sostanziale del contratto stipulato dal falsus procurator.
L’esclusione della rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del negozio, anche nei casi in cui la carenza
di legittimazione a stipulare in nome del falsamente rappresentato risultava dagli atti di causa, e l’impossibilità per l’interessato di dedurre tale inefficacia oltre la fase iniziale del giudizio di primo grado,
imponevano al giudice di decidere considerando
efficace nei confronti dello pseudo rappresentato
un contratto che, com’è noto, essendo stato stipulato dal rappresentante privo di potere o in violazione dei limiti delle facoltà conferitegli, non lo
vincola e non produce alcun effetto nei suoi confronti, sino all’eventuale ratifica.
Il che aveva come effetto quello di “consolidare
per sentenza un contratto non voluto” (4), riconoscendo a comportamenti quali la mancata tempestiva deduzione dell’inefficacia e la contumacia
dello pseudo rappresentato, che di per sé non sottendono necessariamente la volontà di fare proprio
il negozio, valore di ratifica tacita del contratto.
Al riguardo, va osservato che, perché il negozio
possa dirsi ratificato, occorre che la volontà appropriativa dell’interessato, ancorché implicitamente,
risulti in modo chiaro, certo e non equivoco. Inoltre, ove la ratifica acceda ad un contratto formale,
tale volontà deve essere documentata per iscritto.
In tale prospettiva, è stato riconosciuto valore di
ratifica tacita del contratto rappresentativo a domande giudiziali proposte dallo pseudo rappresentato per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento dei danni da inadempimento del contratto
stesso, posto che dalla proposizione di tali domande risulta in modo univoco la volontà del dominus
di fare proprio il contratto concluso dal falso rappresentate (5).
Non si potrebbe, invece, riconoscere un simile
valore a domande giudiziali dirette alla caducazione del contratto - ed in particolare, alla domanda
di annullamento del contratto o di accertamento
della nullità dello stesso - poiché in tal caso, lungi
dal manifestare una volontà ratificante, l’interessato esprime una volontà incompatibile con quella
di fare propri gli effetti del contratto.
Allo stesso modo, si ritiene non si possa riconoscere valore di ratifica, ancorché tacita, del contratto rappresentativo a contegni processuali quali
la contumacia, la mancata eccezione di inefficacia
del contratto nella fase iniziale del giudizio o l’aver
agito facendo valere non il difetto o l’eccesso del
potere di rappresentanza ma l’abuso dello stesso (6), posto che tali comportamenti non implicano necessariamente la volontà dello pseudo rappresentato di fare proprio il contratto rappresentativo
e comunque non sono incompatibili con il rifiuto
del contratto stesso.
La sostanziale attribuzione del valore di ratifica
alla contumacia o alla scelta processuale (consapevole o dovuta ad un errore di strategia difensiva) di non dedurre tempestivamente l’inefficacia
del contratto, oltre a porsi in contrasto con il
principio secondo cui la ratifica tacita deve risultare da atti o comportamenti da cui possa desumersi univocamente la volontà dell’interessato di
far proprio il contratto concluso in suo nome e
(3) Pagliantini, L’eccezione di inefficacia ex art. 1398 nella
fattispecie complessa della falsa rappresentanza, in Riv. dir. civ.,
2014, 6, 1442-1443, evidenzia come la rilevabilità officiosa dell’inefficacia del contratto sia di per sé una vicenda neutra sia
per lo pseudo rappresentato, che per terzo contraente. Con
particolare riferimento alla posizione del terzo, l’autore precisa
che se da un lato la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia non attribuirebbe al terzo la possibilità di giovarsene, dall’altro nemmeno lo pregiudicherebbe, infatti, anticipando endoprocessualmente il momento dell’interpello stragiudiziale di cui all’art. 1399, comma 4, c.c., la rilevazione d’ufficio dell’inefficacia eviterebbe “il procrastinarsi di uno stato di pregiudizievole
incertezza” in ordine alla sorte del contratto.
(4) In questi termini Pagliantini, L’eccezione di inefficacia ex
art. 1398 nella fattispecie complessa della falsa rappresentanza,
cit., 1435. L’autore evidenzia, in particolare, come il ritenere
che l’eccezione dell’inefficacia ex art. 1398 c.c. sia un’eccezione in senso lato determina il paradossale risultato di rendere
“la scelta consapevole - del falsamente rappresentato - di non
costituirsi, perché il contratto stipulato in suo nome non gli interessa minimamente, […]indice qualificato del suo contrario”.
(5) Tra le altre Cass. 6 gennaio 1981, n. 61; Cass. 27 febbraio 1986, n. 1275; Cass. 1° giugno 1988, n. 3714; Cass. 5
maggio 1989, n. 2127; Cass. 17 maggio 1999, n. 4794; Cass.
11 ottobre 1999, n. 11396. Va osservato che, in tali ipotesi, la
volontà ratificante risulta da un atto processuale che è imputabile al falso rappresentato perché sottoscritto dallo stesso interessato o dal difensore cui egli ha rilasciato procura. Inoltre,
trattandosi di un atto scritto, risulta altresì soddisfatta l’esigenza di forma scritta richiesta quando la ratifica accede ad un
contratto formale.
(6) Pagliantini, L’eccezione di inefficacia ex art. 1398 nella
fattispecie complessa della falsa rappresentanza, cit., 1436, evidenzia come la difficoltà di individuare in concreto i confini tra
l’abuso e l’eccesso di potere rappresentativo renda ancor più
evidente come una diversa strategia processuale, volta ad ottenere l’annullamento del contratto rappresentativo per l’abuso ex art. 1394 c.c. piuttosto che l’accertamento dell’inefficacia dello stesso per carenza di legittimazione a contrarre, non
possa considerarsi espressiva di una chiara ed univoca volontà
ratificante del dominus.
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per suo conto (7), contraddiceva la disciplina sostanziale del negozio stipulato dal falso rappresentante anche sotto un altro profilo. Infatti, come
evidenziato dalle Sezioni Unite, si faceva derivare
da un comportamento processuale omissivo dello
pseudo rappresentato un effetto del tutto opposto
a quello che il quarto comma dell’art. 1399 c.c.
ricollega al silenzio serbato dall’interessato a fronte dell’interpello del terzo contraente. Tale silenzio infatti non produce un effetto appropriativo
del negozio ma ha valore di negazione della ratifica.
La qualificazione della deduzione dell’inefficacia
come eccezione riservata alla parte, oltre a determinare tale distonia tra la realtà processuale e la
disciplina sostanziale, appariva altresì non coerente
con il criterio distintivo tra eccezioni in senso
stretto ed eccezioni in senso lato elaborato dalle
Sezioni Unite della Corte di cassazione.
In base a tale criterio, le eccezioni di regola sono
in senso lato, salvo che la legge non le qualifichi
espressamente come eccezioni in senso stretto, oppure che attengano alla titolarità di azioni costitutive (8). In altri termini, sono eccezioni in senso
stretto solo quelle riservate espressamente dalla
legge alle parti ovvero quelle integrate da fatti che
corrispondono all’esercizio di un diritto potestativo
riservato in via d’azione alla parte; ogni altra eccezione è rilevabile d’ufficio dal giudice purché risulti
ex actis.
Come evidenziato dall’ordinanza di rimessione,
il rilievo dell’inefficacia del contratto stipulato dal
falsus procurator non è espressamente riservato dalla legge alla parte, né corrisponde all’esercizio di
un diritto potestativo dello pseudo rappresentato
per effetto del quale lo stesso di scioglie dal vincolo
contrattuale, dal momento che tale vincolo non
esiste. Un’inesistenza confermata dalla stessa possibilità riconosciuta dalla legge all’interessato di ratificare il contratto.
(7) Cfr. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, II ed., Milano,
2001. In giurisprudenza, tra le altre: Cass. 25 luglio 1980, n.
4821; Cass. 23 febbraio 1983, n. 1397; Cass. 23 aprile 1990, n.
3358; Cass. 13 agosto 1996, n. 7553; Cass. 23 aprile 1998, n.
3071; Cass. 12 gennaio 2006, n. 408; Cass. 9 maggio 2008, n.
11509; Cass. 25 ottobre 2010, n. 21844; Cass. 7 giugno 2011,
n. 12308.
(8) Il criterio distintivo delle eccezioni è stato così individuato dalla Suprema Corte di cassazione a Sezioni Unite per la prima volta con la sentenza del 3 febbraio 1998, n. 1099, con nota di Giacalone, in Giust. civ., 1998, I, 645; con nota di Negri, in
questa Rivista, 1998, 8, 1007, relativamente all’eccezione
aliunde perceptum. Il principio è stato successivamente ribadito in: SS.UU. 25 maggio 2001, n. 226, sull’eccezione di giudicato; SS.UU. 27 luglio 2005, n. 15661, relativa all’eccezione di
interruzione della prescrizione e SS.UU. 7 maggio 2013, n.
10531, relativamente all’eccezione di accettazione dell’eredità
1590
A ben vedere infatti, lo pseudo rappresentato è
sì titolare di un diritto potestativo idoneo a produrre effetti costitutivi ma tale diritto è quello di ratificare, rendendo produttivo di effetti giuridici, un
contratto che in assenza di ratifica è inefficace.
L’eccezione potrebbe, invece, dirsi in senso stretto
solo ove, in contraddizione con quanto affermato
dalla dottrina e dalla giurisprudenza assolutamente
prevalenti ed in contrasto con il dato normativo, si
affermasse che il falsus dominus sia vincolato al
contratto, potendosi liberare dal vincolo solo facendone valere l’inefficacia (9).
L’esigenza di tutelare la libertà negoziale del falso rappresentato, non privando d’effettività il potere che la legge riconosce a tale soggetto di decidere
della sorte del contratto stipulato illegittimamente
in suo nome, e la non coerenza dell’inquadramento
della deduzione dell’inefficacia del contratto tra le
eccezioni riservate alla parte con il criterio di distinzione tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni
in senso lato hanno imposto una rimeditazione del
tradizionale indirizzo interpretativo della giurisprudenza. In particolare, l’ordinanza di rimessione ha
ritenuto opportuno un riesame di tale orientamento risultando lo stesso privo di una giustificazione
logico-giuridica alla luce dell’inesistenza del vincolo giuridico, anche in considerazione del fatto che
il giudice può rilevare d’ufficio, in base alle prove
esistenti nel processo, l’inesistenza di un elemento
di diritto dedotto in giudizio (10).
La difesa del falsamente rappresentato e la
rilevabilità d’ufficio della carenza di potere
rappresentativo
Le Sezioni Unite, pur dando atto delle critiche
che opportunamente erano state avanzate alla tesi
dell’irrilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator, giungono ad
affermare la rilevabilità officiosa della carenza dei
poteri di rappresentanza qualificando la deduzione
con beneficio d’inventario.
(9) Bruscuglia - Giusti Ratifica (diritto privato) in Enc. dir.,
XXXVIII, Milano, 1987; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II ed., I, Torino, 2014, 153; Pagliantini, L’eccezione
di inefficacia ex art. 1398 nella fattispecie complessa della falsa
rappresentanza, cit.; Caporusso, Eccezione in senso lato, giustizia della decisione e contratto del falsus procurator: profili processuali, in questa Rivista, 2014, 11, 1393.
(10) A tal riguardo, l’ordinanza di rimessione cita la sent. n.
1141 del 2 marzo 1997 con la quale la Cassazione ha affermato che, ove risulti dalle prove esistenti nel processo, il giudice
di merito può rilevare d’ufficio la mancata conclusione del
contratto per difetto di incontro dei reciproci consensi, trattandosi della verifica l’inesistenza di un elemento di diritto dedotto
in giudizio e non dell’accertamento di un contro-diritto, materia invece di eccezione in senso proprio.
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dell’inefficacia del contratto in termini non di eccezione ma di mera difesa.
Premessa da cui muove il ragionamento del Collegio è che la carenza di potere rappresentativo
non costituisce fatto impeditivo della pretesa azionata in giudizio dal terzo contraente per far valere
nei confronti del rappresentato il contratto stipulato da chi ha speso il suo nome.
La disciplina sostanziale del contratto rappresentativo imporrebbe infatti di ritenere che è la sussistenza del potere di rappresentanza ad integrare un
elemento costitutivo della domanda del terzo contraente.
Ciò in quanto, nel disporre che il contratto stipulato da un soggetto in nome e per conto d’altri
produce i suoi effetti direttamente nella sfera giuridica del rappresentato, se stipulato dal rappresentante dotato del potere di agire in nome altrui che
non abbia ecceduto i limiti delle facoltà conferitegli, l’art. 1388 c.c. esclude che in difetto di potere
il negozio produca effetti nei confronti di colui il
cui nome sia stato speso illegittimamente.
Da tale disposizione il Collegio ritiene possa dedursi che la legge non condiziona l’inefficacia del
negozio rappresentativo alla carenza di potere ma
subordina l’efficacia del negozio stesso alla sussistenza del potere di rappresentanza ed all’osservanza dei suoi limiti.
Il contratto stipulato dal falso rappresentante è
infatti automaticamente improduttivo di effetti nei
confronti dello pseudo rappresentato, a prescindere
da un suo contegno volto a farne valere l’inefficacia.
Ponendosi come circostanze necessarie - insieme
allo scambio dei consensi e alla contemplatio domini
- a rendere il contratto stipulato dal rappresentante
direttamente efficace nei confronti del dominus, la
sussistenza del potere rappresentativo e l’osservanza
dei suoi limiti sono considerati dalle Sezioni Unite
elementi costitutivi della pretesa del terzo contraente a far valere quel contratto nei confronti
del rappresentato.
Ne consegue che il terzo contraente, che agisce
in giudizio per far valere diritti nascenti da un contratto stipulato con il rappresentante, pone a fondamento della sua pretesa, oltre agli elementi necessari per il perfezionamento del contratto di cui
all’art. 1325 c.c., anche la legittimazione a contrarre del rappresentante ovvero l’eventuale ratifica
successiva del contratto da parte del rappresentato
o dei suoi eredi. La ratifica è infatti atto con il qua-
le lo pseudo rappresentato fa propri gli effetti degli
atti compiuti in suo nome da chi non ne aveva il
potere o da chi ha esorbitato dai poteri di rappresentanza concessi.
Essendo la legittimazione a stipulare in nome e
per conto del rappresentato elemento costitutivo
del diritto fatto valere in giudizio dal terzo contraente, l’onere della relativa prova grava, ai sensi
dell’art. 2697 c.c., su quest’ultimo. Pertanto, ove il
rappresentato contesti la sussistenza del potere rappresentativo, sarà onere del terzo contraente che
ha stipulato con il rappresentante dare prova dell’esistenza della procura e dell’osservanza dei suoi
limiti ovvero dell’intervenuta ratifica del contratto.
L’esclusione della mancanza del potere rappresentativo dal novero dei fatti impeditivi della pretesa del terzo contraente ha come effetto quello di
considerare la deduzione dell’inefficacia del contratto non oggetto di un’eccezione ma di una mera
difesa, in relazione alla quale non operano le preclusioni processuali proprie delle eccezioni, di cui
agli artt. 167 e 345 c.p.c.
È, dunque, alla luce della considerazione che la
legittimazione a contrarre del rappresentato è elemento costitutivo della domanda del terzo contraente e l’inefficacia del contratto semplice difesa
dello pseudo rappresentato che le Sezioni Unite indagano l’ammissibilità di un rilievo d’ufficio della
carenza di potere rappresentativo. Ed è alla stregua
di tale conclusione che occorre individuare le conseguenze della contumacia del falsus dominus o della mancata contestazione della sussistenza di tale
potere.
A tal riguardo, le Sezioni Unite hanno chiarito
che, pur non determinando una preclusione processuale, il mancato rilievo da parte dello pseudo
rappresentato del difetto o dell’eccesso di potere
rappresentativo è comportamento processualmente
rilevante sul piano della prova del fatto medesimo.
In virtù del principio di non contestazione, il giudice potrà infatti porre a fondamento della decisione il fatto non specificamente contestato dalla parte costituita (11).
Ciò consente di affermare altresì che la contumacia dello pseudo rappresentato, lungi dall’avere
valore di ratifica tacita del contratto, non dispensa
nemmeno il terzo contraente dall’onere di dare
prova dei fatti costitutivi posti a fondamento della
propria domanda.
(11) Sul punto, le Sezioni Unite precisano che la non contestazione costituisce un comportamento processualmente significativo se riferito ad un fatto da accertare nel processo e
non alla determinazione della sua dimensione giuridica pertan-
to, la mancata contestazione della mancanza del potere rappresentativo, non spiega alcuna rilevanza, quando la stessa dipenda, ad esempio, dalla nullità della procura.
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Quanto all’ammissibilità del rilievo d’ufficio della carenza di potere rappresentativo, il Collegio ha
precisato che il difetto di contestazione specifica
non impone al giudice di ritenere automaticamente provata la legittimazione a contrarre del rappresentato e quindi definitivamente efficace il contratto nei confronti del falsamente rappresentato.
Il giudice deve infatti verificare anche d’ufficio
la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda.
Pertanto, ove il difetto o l’eccesso di potere rappresentativo risulti ex actis, il giudice deve rilevare
d’ufficio l’inesistenza del fatto costitutivo della pretesa del terzo contraente, anche se non contestato
dallo pseudo rappresentato (12).
Le Sezioni Unite hanno altresì precisato che
qualora il falsus dominus non si limiti a non contestare il difetto di legittimazione a contrarre del rappresentante ma si difenda assumendo un contegno
da cui risulti in modo chiaro e non equivoco la volontà di fare proprio suddetto contratto, ovvero
agisca egli stesso in giudizio con una domanda che
presuppone l’efficacia del contratto rappresentativo
- ad esempio, proponendo domanda di adempimento o di risoluzione del contratto -, costituendo
tali comportamenti processuali ipotesi di ratifica
tacita del contratto, non sarà rilevabile d’ufficio il
difetto di potere rappresentativo, poiché la ratifica,
ancorché tacita, fa venir meno l’originaria carenza
di legittimazione del falsus procurator rendendo
vincolante per lo pseudo rappresentato il contratto
stipulato in suo nome.
Al riguardo, occorre precisare che, posto che legittimati a ratificare il contratto rappresentativo, ai
sensi dell’art. 1399, primo e ultimo comma, c.c.,
sono esclusivamente il falsamente rappresentato ed
i suoi eredi, affinché sussista una ratifica implicita,
gli atti, i fatti o i comportamenti da cui si ritenga
possibile dedurre una inequivoca volontà ratificante devono essere imputabili a tali soggetti. Sulla
scorta di tale osservazione, le Sezioni Unite escludono che possa riconoscersi valore di ratifica tacita
del contratto rappresentativo al contegno processuale di un soggetto terzo che, come nel caso di
specie, agisca in giudizio, non quale falso rappre(12) Le Sezioni Unite accolgono la tesi, sostenuta da parte
della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, il giudice
può esercitare un controllo probatorio accertando la sussistenza dei fatti allegati da una parte, anche se non contestati dall’altra. Tra le altre Cass. 10 luglio 2009, n. 16201; Cass. 28 giugno 2010, n. 15375; Cass. 4 aprile 2012, n. 5363.
Contra tra le altre Cass. 27 febbraio 2008, n. 5191; Cass. 5
marzo 2009, n. 5356; Cass. 9 marzo 2012, n. 3727; Cass. 21
giugno 2013, n. 15658. In tali pronunce, la Corte di Cassazione
ha al contrario ritenuto che in caso di non contestazione il giudice debba astenersi da qualsiasi controllo probatorio del fatto
non contestato, dovendolo ritenere sussistente.
1592
sentato, ma quale acquirente a titolo particolare
del dominus.
Il rilievo d’ufficio della carenza di legittimazione
a contrarre è invece precluso in tutti i casi in cui il
contratto stipulato dal falso rappresentante sia stato successivamente ratificato, in modo espresso o
tacito, dall’interessato o dai suoi eredi e dunque
anche in caso di silenzio serbato oltre la scadenza
del termine assegnato dal terzo contraente, ai sensi
del comma 4 dell’art. 1399 c.c.
Il contratto inefficace e la sua ratifica
La sentenza delle Sezioni Unite offre alcuni
spunti di riflessione in ordine alla qualificazione
giuridica del contratto stipulato dal rappresentante
senza poteri ed al rapporto che intercorre tra tale
contratto e la sua eventuale ratifica.
Benché giurisprudenza e dottrina siano concordi
nel ritenere che il contratto stipulato dal falsus procurator sia valido ma inefficace, si contrappongono
due diverse ricostruzioni di tale fenomeno negoziale.
Secondo un primo orientamento, il contratto
stipulato dal rappresentante senza poteri è un negozio in itinere o a formazione progressiva che si
perfeziona con l’eventuale ratifica. In tale prospettiva, la ratifica opererebbe quale fattore esterno integrante la struttura del negozio e quindi come atto
che perfeziona la fattispecie complessa (13).
Secondo altra tesi, invece, il negozio stipulato
dal falsus procurator è perfetto e completo ancorché
improduttivo dei suoi effetti. La ratifica, lungi dal
costituire elemento perfezionativo della fattispecie
negoziale, è concepita come evento dedotto in una
condicio iuris sospensiva dell’efficacia del negozio.
La stessa opererebbe quindi quale elemento esterno
alla fattispecie negoziale, che ne condiziona l’efficacia e non il perfezionamento. Tale impostazione
sembrerebbe giustificata dall’efficacia retroattiva
della ratifica di cui al comma 2 dell’art. 1399 c.c. e
dalla possibilità dello scioglimento del contratto
per mutuo dissenso prevista dal comma 3 della medesima disposizione (14).
(13) Questa tesi è stata accolta dalla giurisprudenza prevalente, tra le altre Cass. 24 aprile 1965, n. 719; Cass. 28 ottobre
1967, n. 2668; Cass. 6 aprile 1971, n. 1001; Cass. 8 luglio
1983, n. 4601; Cass. 5 maggio 1989, n. 2127; Cass. 16 febbraio 1993, n. 1929; Cass. 29 agosto 1995, n. 9061; Cass. 16
febbraio 2000, n. 1708; Cass. 28 dicembre 2009, n. 27399;
Cass. 17 giugno 2010, n. 14618.
(14) Cfr. Natoli, Rappresentanza (diritto civ.) in Enc. dir.,
XXXVIII, Milano, 1987; Bruscuglia - Giusti Ratifica (diritto privato) in Enc. dir., cit.; Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, II ed.,
Milano, 2001.
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Giurisprudenza
Diritto processuale civile
Tale secondo orientamento, allo stato minoritario in giurisprudenza, sembra essere il più corretto
alla luce della disciplina della rappresentanza volontaria.
La validità del negozio rappresentativo non dipende dalla dichiarazione di volontà del rappresentato ma dalla dichiarazione negoziale del rappresentante. Pur non essendo partecipe del regolamento di interessi che dal contratto discende, parte in senso formale del negozio è infatti il rappresentante e non il rappresentato. Pertanto, ove la
volontà del rappresentante si sia formata correttamente, il negozio è valido a prescindere dalla mancanza di una dichiarazione di volontà di appropriazione del negozio rappresentativo del soggetto il
cui nome sia stato speso.
L’assenza di una dichiarazione di volontà del
rappresentato influisce invece sul diverso piano degli effetti giuridici del negozio.
Il contratto stipulato da chi ha agito come rappresentante senza averne i poteri o eccedendo i limiti delle facoltà conferite non è in alcun modo
impegnativo per colui nel cui nome è stato compiuto. Mancando una preventiva dichiarazione di
volontà dello pseudo rappresentato, il negozio non
produce effetti nella sfera giuridica di tale soggetto
e non lo vincola. Ne consegue che, se il contratto
non riveste alcuna utilità per il falsus dominus, questi non è tenuto ad attivarsi per farne valere l’inefficacia, ben potendo restare inerte.
Sulla scorta di tali precisazioni può affermarsi
che il negozio stipulato dal rappresentante senza
potere, ove ricorrano gli altri elementi di cui all’art. 1325 c.c., è completo e perfetto, non difettando un elemento essenziale del contratto ma solo
la legittimazione a compiere l’atto (15), che è elemento esterno alla struttura della fattispecie negoziale.
Tale ricostruzione sembra trovare conferma in
alcuni passaggi della sentenza delle Sezioni Unite.
In particolare, al § 5, nel precisare quali siano
gli elementi costitutivi della pretesa del terzo contraente, il Collegio distingue il perfezionamento
del contratto - che si ricollega alla sussistenza degli
elementi di cui all’art. 1325 c.c. - dall’autorizzazione del rappresentato a stipulare in suo nome e dalla ratifica.
Nel successivo § 5.1, a riprova del fatto che le
Sezioni Unite non ritengono che il potere di rappresentanza e, alternativamente, la ratifica costituiscano elementi di perfezionamento di una fattispe-
cie negoziale in itinere, si legge altresì che “il contratto, già perfezionato nei suoi elementi essenziali,
è pertinente al rappresentato soltanto se questi ha
autorizzato che lo si stipulasse in suo nome”.
In tale prospettiva, la ratifica opera, al pari della
procura, come negozio di legittimazione. Con la ratifica, infatti, l’interessato esprime la volontà di legittimare l’azione del terzo e dunque attribuisce “ex
post al falso rappresentante quella legittimazione a
contrarre per lui, che gli mancava al tempo della
stipulazione del contratto” (16).
A tal riguardo, occorre precisare che, pur avendo
procura e ratifica la medesima funzione, consentendo entrambe all’interessato di rendere efficace
nei propri confronti il negozio posto in essere da
altri, tali atti hanno una struttura differente che
impedisce una loro totale assimilazione.
La procura infatti presuppone la sussistenza di
un rapporto di gestione mentre la ratifica postula,
viceversa, l’insussistenza di tale rapporto. Ciò consente di escludere che la ratifica abbia natura di
procura successiva.
La qualifica di rappresentante si individua ex ante, derivando esclusivamente dalla procura rilasciata prima ed in vista del compimento dell’attività
negoziale. Ne consegue che, anche a seguito della
ratifica del contratto rappresentativo, chi ha agito
in nome altrui senza averne i poteri, resta un non
rappresentante (17).
La precisazione non è priva di rilievo pratico.
Benché la ratifica, rendendo efficace il contratto,
esclude che il terzo contraente possa agire nei confronti del rappresentante per il risarcimento dei
danni da stipulazione inutile, lo stesso, ove abbia
subito un pregiudizio per il ritardo nella definizione
dell’affare imputabile alla condotta precontrattuale
scorretta del falso rappresentante, potrà agire nei
confronti di quest’ultimo per il risarcimento dei
danni commisurati al c.d. interesse positivo differenziale.
Sulla scorta di tali premesse può affermarsi che
la relazione che intercorre tra negozio rappresentativo e ratifica è di dipendenza funzionale e non
strutturale. I due atti, pur mantenendo la loro
autonomia strutturale, sono tra loro connessi al fine di realizzare un scopo unitario ovvero l’efficacia
diretta del primo negozio nella sfera giuridica dello
pseudo rappresentato (18).
(15) Bruscuglia - Giusti Ratifica (diritto privato) in Enc. dir.,
cit., 692.
(16) In questi termini si esprimono le stesse SS.UU. n.
11377 del 2015 al §5.
(17) Bruscuglia - Giusti Ratifica (diritto privato) in Enc. dir.,
cit., 697.
(18) Ritengono si tratti di un collegamento negoziale necessario, unilaterale e funzionale Bruscuglia - Giusti Ratifica (diritto
privato) in Enc. dir., cit., 696.
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1593
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La posizione del terzo contraente
La soluzione accolta dalle Sezioni Unite è da salutare con favore nella misura in cui, ammettendo
la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto, supera quelle distonie tra diritto processuale e
diritto sostanziale cui l’orientamento precedente
dava luogo.
Come evidenziato, l’esclusione della rilevabilità
d’ufficio della carenza di potere rappresentativo pur
risultante dagli atti di causa e l’impossibilità per
l’interessato di dedurre la consequenziale inefficacia nel negozio oltre la fase iniziale del giudizio di
primo grado avevano come effetto quello di attribuire valore di ratifica tacita di un contratto, non
autorizzato e non voluto, a comportamenti processuali del falsamente rappresentato non univoci e
che, in taluni casi, erano viceversa espressione di
una volontà del tutto incompatibile con quella di
fare propri gli effetti del contratto.
Un simile svuotamento del potere di ratifica che
la legge attribuisce al falsamente rappresentato e la
surrettizia violazione del principio della intangibilità della sfera giuridica altrui erano probabilmente
ispirati dal desiderio di garantire una maggior tutela al terzo contraente che, pur avendo confidando
nella sussistenza del potere rappresentativo e quindi nell’efficacia del negozio, sarebbe vincolato ad
un contratto che, essendo frutto della sola volontà
del rappresentante, non produce gli effetti che egli
si riprometteva di conseguire e che pertanto non
gli attribuisce alcuna utilità.
Si afferma, a tal proposito, che il terzo contraente è vincolato al contratto nella misura in cui non
può recedere unilateralmente dallo stesso, potendo
ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale
solo di comune accordo con il falso rappresentante
e sempre che il dominus non lo abbia già ratificato (19).
Una simile affermazione non è del tutto condivisibile. Ritenere il contratto vincolante per una parte e non vincolante ed inefficace per l’altra significherebbe attribuire al negozio una natura claudicante, un’inefficacia asimmetrica.
A ben vedere, più che essere vincolato al contratto rappresentativo, il terzo è soggetto al diritto
potestativo di ratifica dell’interessato. La giurisprudenza ha infatti opportunamente precisato che il
vincolo che il mutuo dissenso degli originari contraenti scioglie, non è un rapporto contrattuale
(19) Il potere di sciogliere per mutuo dissenso il contratto è
sancito già nell’art. 1372 c.c. Pertanto, onde evitare un’interpretazione che renda inutile la norma si ritiene che l’art. 1399,
comma 2, c.c. non si limiti a ribadire che il terzo e il falsus procurator possono d’accordo sciogliere ma implicitamente escluda il potere di recesso unilaterale del terzo contraente al fine di
evitare che l’esercizio del potere di ratifica dello pseudo rap-
1594
che possa essere sorto fra loro, bensì la situazione
di soggezione in cui versa il terzo a fronte del potere di ratifica che compete all’interessato (20).
Ma anche sotto tale profilo non si ravvisa l’esigenza di offrire una maggiore tutela al terzo mediante l’esclusione della rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del negozio e la limitazione del potere di
eccezione del falsamente rappresentato.
Gli interessi del terzo contraente sono infatti
adeguatamente tutelati attraverso il riconoscimento del potere d’interpello di cui al comma 4 dell’art. 1399 c.c. Il terzo non versa senza limiti di
tempo in uno stato di incertezza circa la sorte del
contratto e di soggezione al potere di ratifica del
dominus, ma può invitare quest’ultimo a ratificare
il contratto assegnandogli un termine, anche molto
breve, scaduto il quale, in caso di inerzia, la ratifica
si intende negata. La norma, è bene precisarlo,
non fissa un termine minimo che il terzo è tenuto
a rispettare, con ciò differenziandosi da altre disposizioni che, nell’attribuire ad un soggetto il potere
di assegnare all’altro un termine per l’esercizio di
un diritto di cui quest’ultimo è titolare, garantiscono un periodo di durata minima o richiedono che
il termine assegnato sia congruo o ragionevole; né
d’altra parte, a differenza di altre azioni interrogatorie come quelle di cui agli artt. 481 e 650 c.c., è
richiesta l’intermediazione dell’autorità giudiziaria,
al fine di garantire che il termine assegnato risulti
essere adeguato alle concrete esigenze dell’interpellato. Tale peculiarità si giustifica in ragione del fatto che il potere di ratifica, se da un lato consente
al falsamente rappresentato di risolvere a proprio
vantaggio l’indebita spendita del suo nome, dall’altro soddisfa soprattutto l’interesse del terzo contraente a conservare l’attività giuridica compiuta,
lasciando aperta la possibilità che il negozio produca gli effetti cui egli aspirava. Essendo posto anche
a tutela del terzo, il riconoscimento del potere di
ratificare il negozio non può risolversi in uno svantaggio o in un pregiudizio per lo stesso. Ne consegue che, ove il terzo contraente abbia interesse alla
più sollecita definizione della situazione, anche
nell’ottica di procurarsi in altro modo l’utilità che
dal contratto intendeva conseguire, ben potrà assegnare al falsamente rappresentato un termine anche brevissimo per la ratifica.
Tali precisazioni consentono di ritenere insussistente quell’esigenza di giustizia sostanziale che
presentato sia ostacolato da un pentimento tardivo del terzo
contraente, così De Nova, La rappresentanza, in Il contratto.
Dal contratto atipico al contratto alieno, Padova 2011; Pagliantini, L’eccezione di inefficacia ex art. 1398 nella fattispecie complessa della falsa rappresentanza, cit.
(20) Cass. 27 novembre 2011, n. 25126.
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Giurisprudenza
Diritto processuale civile
presumibilmente induceva a qualificare la deduzione dell’inefficacia del contratto come eccezione in
senso stretto. D’altra parte, com’è noto, tale qualificazione risultava essere oramai in contrasto con il
criterio distintivo tra eccezioni in senso stretto ed
eccezioni in senso lato, elaborato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite.
Se da un lato tali osservazioni non potevano che
deporre per il superamento del tradizionale orientamento della giurisprudenza che escludeva la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del negozio, dall’altro
occorre interrogarsi circa la correttezza della scelta
di addossare al terzo contraente l’onere della prova
della sussistenza del potere rappresentativo.
L’assunto su cui le Sezioni Unite fondano la
qualificazione della deduzione dell’inefficacia del
negozio come mera difesa del falsamente rappresentato è che la sussistenza del potere di rappresentanza o l’avvenuta ratifica siano elementi costitutivi della pretesa del terzo contraente. Il Collegio ha
invece escluso che abbia natura di fatto impeditivo
la mancanza di tale potere.
Com’è noto, complessa è la distinzione tra il fatto costitutivo e il fatto impeditivo. Mentre i fatti
modificativi ed estintivi operano sulla fattispecie
sostanziale in un momento cronologicamente successivo ai fatti costituivi, i fatti impeditivi operano
contestualmente a questi ultimi, rendendo più difficile distinguere gli uni dagli altri.
Pur operando contestualmente ai fatti costitutivi, i fatti impeditivi non appartengono alla fattispecie costitutiva. Tali fatti non sono, come pure
in passato è stato affermato, fatti costitutivi con il
segno invertito, ma integrano un’autonoma fattispecie impeditiva, che opera dall’esterno sulla fattispecie sostanziale già perfetta, impedendo alla stessa sin dall’origine di produrre i suoi effetti. Al pari
dei fatti modificativi ed estintivi, i fatti impeditivi
si collocano dunque al di fuori della fattispecie costitutiva.
Come evidenziato, nella sentenza in commento
in più punti si coglie la distinzione che il Collegio
opera tra il perfezionamento della fattispecie negoziale (che si ricollega alla sussistenza degli elementi
di cui all’art. 1325 c.c.) e l’efficacia della stessa nei
confronti del falsamente rappresentato, un’efficacia
condizionata dalla sussistenza del potere rappresentativo o della ratifica. Ed a parere di chi scrive, è
proprio questa distinzione che induce a ritenere
preferibile la tesi che considera il contratto stipulato dal rappresentante senza poteri, non una fatti-
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specie negoziale a formazione progressiva che si
perfeziona con l’eventuale ratifica, ma una fattispecie sostanziale completa e perfetta, difettando non
un elemento essenziale del contratto ma solo la legittimazione a compiere l’atto, che è un elemento
esterno alla struttura della fattispecie negoziale pur
se ne condiziona l’efficacia.
In tale prospettiva, più che considerare la legittimazione a stipulare in nome del rappresentato elemento costitutivo della pretesa del terzo, sembrerebbe più corretto ritenere che la mancanza del potere rappresentativo o la mancata ratifica integrino
dei fatti ulteriori che rendono inefficace la fattispecie costitutiva, e quindi dei fatti impeditivi.
Riconoscere alla carenza di potere del rappresentante natura impeditiva dell’efficacia della fattispecie costitutiva avrebbe comunque consentito la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto, in
ragione del fatto che, com’è stato osservato, la stessa sarebbe oggetto di un’eccezione in senso lato
perché non espressamente riservata alla parte, né
corrispondente ad un potere costitutivo della stessa.
D’altra parte però, va osservato che la scelta di
addossare al terzo contraente l’onere di provare la
sussistenza del potere rappresentativo, oltre a rispondere ad un principio di autoresponsabilità di
chi contratta con un rappresentante, risulta essere
la più razionale alla luce del noto principio negativa
non sunt probanda.
A ben vedere infatti, a ragionare diversamente si
graverebbe il falsamente rappresentato dell’onere
di provare un fatto negativo ovvero di non aver
conferito il potere o di non aver ratificato il negozio.
Un simile onere probatorio potrebbe essere assolto facilmente nei casi di eccesso di potere con la
produzione in giudizio della procura, dal cui esame
emergerebbe che il rappresentante ha stipulato il
contratto eccedendo i limiti del potere rappresentativo conferito. Assai difficoltosa risulterebbe invece la prova negativa della mancanza di potere
rappresentativo nei casi di difetto di potere, così
come la prova della mancata ratifica del negozio.
È quindi alla luce di un criterio di giustizia distributiva che si può condividere la scelta delle Sezioni Unite di onerare il terzo contraente della prova della sussistenza del potere di rappresentanza o,
eventualmente, dell’esercizio del potere di ratifica
dell’interessato.
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Giurisprudenza
Diritto processuale civile
Poteri del giudice amministrativo e domanda di parte
Consiglio di Stato, Ad. Plen., 13 aprile 2015, n. 2 - Pres. Giovannini - Est. De Felice - G. L. (avv.ti Camerini, Rossi) c. Comune de L’Aquila (avv. De Nardis)
Sulla base del principio della domanda che regola il processo amministrativo, il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’amministrazione al risarcimento dei
danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato
oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa
recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad
essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Sez. V, 28 dicembre 2012, n. 6703; Ap, 27 aprile 2015, n. 5.
Difforme
Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755.
Fatto
(omissis).
La Sezione riteneva di sottoporre alla Adunanza Plenaria la questione se il giudice amministrativo - in base ai
principi fondanti la giustizia amministrativa ovvero in
applicazione dell’art. 34, comma 3, c.p.a. - possa non disporre l’annullamento della graduatoria di un concorso,
risultata illegittima per un vizio non imputabile ad alcun candidato, e disporre che al ricorrente spetti un risarcimento del danno (malgrado questi abbia chiesto
soltanto l’annullamento degli atti risultati illegittimi),
quando la pronuncia giurisdizionale - in materia di concorsi per la instaurazione di rapporti di lavoro dipendente - sopraggiunga a distanza di moltissimi anni dalla
approvazione della graduatoria e dalla nomina dei vincitori (circa quindici anni sono trascorsi dalla assunzione in servizio dei vincitori incolpevoli e la rilevazione
dei vizi, con la pronuncia di remissione), e cioè quando
questi abbiano consolidato le scelte di vita e l’annullamento comporti un impatto devastante sulla vita loro e
delle loro famiglie.
L’ordinanza di rimessione ritiene che, pur avendo la
parte formalmente impugnato gli atti della procedura
concorsuale chiedendone l’annullamento, l’adito giudice amministrativo potrebbe, basandosi su una valutazione di tutte le circostanze, mutando d’ufficio la domanda, disporre unicamente il risarcimento del danno, senza il previo annullamento degli atti illegittimi; in tal
senso varrebbero i principi di giustizia richiamati dalla
sentenza del Consiglio di Stato sez. VI n. 2755 del 2011
che, pure in controversia in materia ambientale e in applicazione di principi del diritto europeo, ha statuito il
potere del giudice amministrativo di non disporre l’annullamento dell’atto illegittimo, quando nessun vantaggio arrechi al ricorrente né ne derivi alcun beneficio
agli interessi pubblici; in tale senso varrebbero anche i
principi di proporzionalità, equità e giustizia, che debbono permeare anche la giustizia amministrativa, oltre
che l’attività della pubblica amministrazione.
1596
L’ordinanza di rimessione aggiunge che, se l’appellante
avesse formulato espressa domanda di risarcimento derivante dalla illegittimità della procedura concorsuale
conclusasi nell’anno 1999, il giudizio avrebbe potuto
concludersi con l’accoglimento della domanda risarcitoria, senza necessità di provvedere all’annullamento degli
atti impugnati, potendo il giudice “modulare” la tutela,
in considerazione del danno sociale che deriverebbe da
un eventuale annullamento.
È vero, osserva l’ordinanza di rimessione, che il lungo
tempo trascorso non costituisce in sé una giusta ragione
per non disporre l’annullamento; tuttavia, ciò sarebbe
possibile su questioni che riguardano le persone fisiche
e le loro attività lavorative (si direbbe l’esistenza libera
e dignitosa di cui all’art. 36 Cost.), valutando che l’annullamento, mentre sottrarrebbe un bene della vita essenziale ad uno o più controinteressati incolpevoli, neppure attribuirebbe al ricorrente se non una chance o una
mera possibilità di rinnovazione procedimentale.
A tal fine menziona giurisprudenza che legge il comma
3 dell’art. 34 del c.p.a.- che prevede che “quando nel
corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento
impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse
a fini risarcitori” - nel senso che non debba esservi una
espressa richiesta dell’interessato (così Cons. Stato, sez.
V, 12 maggio 2011, n. 2817) perché vi è sempre un
quid di accertamento, perché il più comprende il meno,
perché la norma utilizza una espressione vincolante e
quindi la sussistenza dell’interesse può essere compiuta
d’ufficio anche in assenza di domanda, a fronte di contrari precedenti (così Cons. Stato, sez. V, 14 dicembre
2011, n. 6539 e 6 dicembre 2010, n. 8550) secondo i
quali incombe sempre sulla parte istante l’onere di allegare i presupposti per la successiva azione risarcitoria
(così, Cons. Stato, sez. V, 28 dicembre 2012, n. 6703) e
quindi di proporre espressamente, se pure non formalisticamente ma in sostanza, la domanda di accertamento
dell’illegittimità o di manifestare un interesse al solo accertamento, a successivi fini risarcitori.
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Diritto processuale civile
(omissis)
Diritto
1. La parte ha chiesto e continuato a chiedere l’annullamento degli atti della procedura concorsuale, comprensivi del giudizio negativo nei suoi confronti e della graduatoria pubblicata; nelle conclusioni dell’appello ha
espresso tale richiesta di annullamento (“che la sentenza appellata venga annullata o quantomeno riformata,
disponendosi in accoglimento del ricorso al Tar la rinnovazione degli atti della procedura concorsuale con
ogni consequenziale statuizione anche in ordine al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio”),
chiedendo, come visto, anche, nel petitum, la “rinnovazione” della procedura concorsuale; nella memoria depositata in data 8 gennaio 2014, la parte appellante afferma che il lungo tempo trascorso dalla proposizione
dell’appello non ha inciso negativamente sulla posizione, sussistendo ancora interesse alla decisione di merito
e all’annullamento dei provvedimenti impugnati.
Tale posizione è stata ribadita in sede di udienza di discussione.
A fronte di detta domanda, l’ordinanza di rimessione
pone la questione se, ritenuta la fondatezza del gravame,
sia dato al giudice amministrativo emettere ex officio
una pronuncia di risarcimento del danno anziché di annullamento, tenuto conto degli effetti particolarmente
pregiudizievoli di quest’ultimo nei confronti delle altre
parti interessate, anche in relazione al tempo trascorso
dalla emanazione degli atti impugnati.
2. L’Adunanza plenaria ritiene che la tesi contenuta
nell’ordinanza di rimessione non può essere condivisa e
ciò: a) sulla base del principio della domanda, che regola anche il processo amministrativo; b) sulla base della
natura della giustizia amministrativa quale giurisdizione
soggettiva, pur con talune peculiarità - di stretta interpretazione - di tipo oggettivo; c) per la non mutabilità
ex officio del giudizio di annullamento una volta azionato; d) per la non pertinenza degli argomenti e dei precedenti richiamati.
3.Con riguardo agli argomenti testuali, vale quanto previsto dal codice del processo amministrativo e, in virtù
del rinvio esterno ai sensi dell’art. 39 c.p.a, anche quanto prevede il codice di procedura civile.
L’art. 29 c.p.a., proseguendo nella tradizione delle precedenti leggi processuali (T.U. Consiglio di Stato e legge TAR), dispone che la sanzione per i vizi di violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza sia l’annullamento ad opera del giudice, la cui azione deve proporsi nel termine di sessanta giorni.
L’illegittimità determina l’annullabilità (in potenza);
l’azione di annullamento determina, su pronuncia del
giudice, l’annullamento (in atto) degli atti impugnati.
In caso di accoglimento del ricorso di annullamento
(art. 34, comma 1, c.p.a. lettera a) il giudice quindi annulla (necessariamente) in tutto o in parte il provvedimento impugnato.
A sua volta l’art. 34 esprime il principio dispositivo del
processo amministrativo in relazione all’ambito della
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domanda di parte; si tratta, nel caso della giurisdizione
amministrativa di legittimità, come noto, di una giurisdizione di tipo soggettivo, sia pure con aperture parziali
alla giurisdizione di tipo oggettivo (ma che si manifestano in precisi, limitati ambiti come, per esempio, nella
estensione della legittimazione ovvero nella valutazione
sostitutiva dell’interesse pubblico in sede di giudizio di
ottemperanza o in sede cautelare, ovvero ancora nella
esistenza di regole speciali, quali quelle contenute negli
artt. 121 e 122 c.p.a., che, riguardo alle controversie in
materia di contratti pubblici, consentono al giudice di
modulare gli effetti della inefficacia del contratto).
Del resto la regola secondo la quale nel processo amministrativo debba darsi al ricorrente vittorioso tutto quello e soltanto quello che abbia chiesto ed a cui abbia titolo, è stata ribadita dalle pronunce di questa stessa
Adunanza plenaria n. 4 del 7 aprile 2011 e n. 30 del 26
luglio 2012.
4. Ora, proprio in virtù di detto principio della domanda non può ammettersi che in presenza di un atto illegittimo (causa petendi) per il quale sia stata proposta
una domanda demolitoria (petitum), potrebbe non conseguirne l’effetto distruttivo dell’atto per valutazione o
iniziativa ex officio del giudice.
L’azione di annullamento si distingue, infatti, dalla domanda di risarcimento per gli elementi della domanda,
in quanto nella prima la causa petendi è l’illegittimità,
mentre nella seconda è l’illiceità del fatto; il petitum
nella prima azione è l’annullamento degli atti o provvedimenti impugnati, mentre nella seconda è la condanna
al risarcimento in forma generica o specifica.
Inoltre il risarcimento è disposto su “ordine” del giudice
ed è diretto a restaurare la legalità violata dell’ordinamento, costituendo una situazione quanto più possibile
pari o equivalente (monetariamente) o il più possibile
identica a quella che ci sarebbe stata in assenza del fatto
illecito; l’annullamento invece è una restaurazione dell’ordine violato “ad opera” del giudice.
Al massimo, il giudice può non già “modulare” la forma
di tutela sostituendola a quella richiesta, ma determinare, in relazione ai motivi sollevati e riscontrati e all’interesse del ricorrente, la portata dell’annullamento, con
formule ben note alla prassi giurisprudenziale, come
l’annullamento parziale, “nella parte in cui prevede” o
“non prevede”, oppure “nei limiti di interesse del ricorrente” e così via.
Se poi la domanda di annullamento, con il suo effetto
tipico di eliminazione dell’atto impugnato dal mondo
giuridico non dovesse soddisfare l’interesse del ricorrente e anzi dovesse lederlo (in realtà l’ordinanza di rimessione riconosce che non si verte in tale ipotesi), la pronuncia del giudice non potrebbe che essere di accertamento, ma nell’altro senso, cioè della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente che aveva proposto domanda di annullamento.
Cosa diversa dall’accertamento del sopravvenuto difetto
di interesse è, come proporrebbe invece l’ordinanza di
rimessione, che sia il giudice ex officio a preferire la forma di tutela, facendo recedere l’interesse, a suo dire, indebolito del ricorrente, sulla base di altre valutazioni di
1597
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interessi (gli interessi dei controinteressati, l’interesse
pubblico, il tempo, l’opportunità e così via).
È vero che la pronuncia di improcedibilità del ricorso
per sopravvenuta carenza di interesse è basata sull’accertamento della esistenza delle condizioni per l’adozione
della decisione giurisdizionale domandata dal ricorrente
a tutela di una concreta situazione giuridica di vantaggio, accertamento che deve essere compiuto dal giudice,
anche di ufficio, in ogni stato e grado del giudizio (tra
varie, Cons. Stato, sez. IV, 22 marzo 2007, n. 1407).
Non è però consentito al giudice, in presenza della acclarata, obiettiva esistenza dell’interesse all’annullamento richiesto, derogare, sulla base di invocate ragioni di
opportunità, giustizia, equità, proporzionalità, al principio della domanda (si tratterebbe di una omessa pronuncia, di una violazione della domanda previsto dall’art. 99 c.p.c. e del principio della corrispondenza previsto dall’art. 112 c.p.c. tra chiesto e pronunciato secondo cui “il giudice deve pronunciare su tutta ladomanda e non oltre i limiti di essa”, applicabili ai sensi
del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a. anche al processo amministrativo) e trasformarne il petitum o la causa petendi, incorrendo altrimenti nel vizio di extrapetizione.
Non può neppure valere il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione, al c.d. principio di continenza, in
quanto, se è vero che l’accertamento è compreso nell’annullamento (il più comprende il meno), l’accertamento a fini risarcitori è qualcosa di più o comunque di
diverso dalla domanda di annullamento.
5. Nella specie ad opinione del Collegio deve ritenersi
persistente tale interesse all’annullamento, nella forma
di interesse strumentale (su tale nozione Ad. Plen. n.
11 del 10 novembre 2008) ad ottenere la rinnovazione
della procedura concorsuale, sia perché tale persistenza
è stata manifestamente ribadita nella memoria del gennaio 2014 dell’appellante e in sede di discussione orale,
sia perché, in esito del motivo di appello ritenuto fondato e per incidenza degli effetti del suo accoglimento
sull’intero procedimento, per la ritenuta esigenza di predeterminazione dei criteri di valutazione degli esami,
non può non procedersi alla rinnovazione dell’attività
viziata (contemperando con il principio dell’utile per
inutile non vitiatur).
Non rileva, a tal fine, il tempo trascorso. Infatti la durata occorrente per il giudizio, a maggior ragione quando
essa sia prolungata e inaccettabile nelle sue dimensioni,
non può andare a danno del ricorrente che ha ragione e
pregiudicargli la sua pretesa, se non a costo di infliggergli un doppio danno (sul principio del diritto al giusto
processo in tempi ragionevoli, si veda l’art. 6 CEDU e,
in campo nazionale, la legge c.d. Pinto n. 89 del 24
marzo 2001, sulla durata ragionevole dei giudizi).
Non rileva, d’altro canto, neppure l’utilità più o meno
ampia, che l’appellante possa ricevere da un eventuale
annullamento, né possono avere rilievo le ragioni di
inopportunità, in tale sede e fase, per i disagi causati ai
controinteressati incolpevoli o la valutazione preminente dell’interesse pubblico, il quale coincide, in tale mo-
1598
mento, con l’annullamento degli atti illegittimi impugnati.
6. In sede di giurisdizione generale di legittimità e in caso di azione di annullamento, non appare utile il richiamo operato dall’ordinanza di rimessione ai poteri di cui
all’art. 21 nonies L. 241 del 1990, attenendo essi specificamente (ed esclusivamente, stante la loro natura eccezionale) all’attività amministrativa propriamente detta;
così come non appare utile il richiamo alle disposizioni
in materia di appalti (artt. 121 e 122 c.p.a.), in cui viene riconosciuta la possibilità al giudice di disporre un rimedio piuttosto che un altro, sulla base della inefficacia, con un potere valutativo che tenga conto del tempo trascorso, della effettiva possibilità di subentrare, delle situazioni contrapposte, dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e così via: trattasi, infatti,
di fattispecie esclusive la cui disciplina non è estensibile
in via analogica né tanto meno può essere assunta come
espressiva di principi generali.
7. Non sono d’altra parte di ausilio alla soluzione prospettata dall’ordinanza di rimessione i precedenti giurisprudenziali da essa menzionati.
Quanto alla sentenza della VI Sezione n. 2755 del
2011, essa ha riconosciuto la potestà del giudice amministrativo, in presenza di determinati presupposti attinenti all’interesse del ricorrente, di fissare una determinata posteriore decorrenza degli effetti della pronuncia
di annullamento. Si tratta, dunque, di una questione
ben diversa da quella posta nella presente fattispecie,
nella quale, come si è più volte rimarcato, si controverte sulla possibilità per il giudice di sostituire integralmente ex officio la domanda proposta in giudizio.
Ugualmente non convincente è il richiamo alle sentenze che fanno riferimento alla possibilità che il giudice,
di ufficio, ritenga che sussista un interesse al mero accertamento.
Al di là della considerazione che tale potere di ufficio
di accertare l’illegittimità a soli fini risarcitori non è del
tutto pacifico (l’ordinanza di rimessione cita anche giurisprudenza più rigorosa sul punto), esso va necessariamente coniugato, se viene spiegata azione risarcitoria in
quella sede (anche se in vero, essa potrebbe solo essere
annunciata e proposta in sede successiva), con il principio dispositivo in ordine alla proposizione della domanda di risarcimento, sicché la parte attrice deve sempre
provarne gli elementi costitutivi (artt. 2043 e 2697
c.c.).
Soprattutto, le pronunce richiamate riguardano una fattispecie ben diversa dalla invocata possibilità del giudice di modificare la domanda.
Esse ritengono che ope iudicis si possa accertare l’illegittimità di un atto impugnato anche quando la parte, che
non ha più interesse all’annullamento, non lo chieda
espressamente.
Tali pronunce si riferiscono alla situazione in cui, accertata in modo incontestabile, per mutamenti di fatto o
di diritto la sopravvenuta carenza di interesse, si debba
decidere se, per la pronuncia di mero accertamento, sia
necessaria oppure no una apposita istanza della parte.
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Tali pronunce, come visto, tuttavia non incidono né
sulla esigenza di previamente accertare se tale interesse
a ricorrere o bisogno di tutela giurisdizionale (Rechtsschutzbedürfnis) continui a persistere anche dopo molto
tempo, né sul potere, tipico del processo dispositivo,
della parte di decidere, essa soltanto, e non il giudice di
ufficio, se proseguire nella richiesta di annullamento di
atti illegittimi sia pure a distanza di tempo, vantando
ancora un meritevole bene della vita.
8. La modificazione degli effetti della domanda di annullamento non può essere neanche giustificata con il
richiamo alla disciplina del processo dinanzi alla Corte
di giustizia (l’art. 264 del Trattato).
L’art. 1 del c.p.a. afferma che la “giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i
principi della costituzione e del diritto europeo”, ma ciò
avviene sulla base della specifica disciplina del processo
amministrativo, non necessariamente dandosi applicazione alle regole processuali comunitarie.
Non si tratterebbe qui di recepire principi del diritto
comunitario sostanziale o processuale (la proporzionalità, l’affidamento, il mutuo riconoscimento, il giusto processo, il contraddittorio etc.), ma di applicare una disposizione dettata per il giudizio europeo al giudizio (di
tutt’altra natura) nazionale.
La problematica della limitazione degli effetti dell’annullamento, sorta e applicata in via eccezionale in quella sede soprattutto per i regolamenti, non è sufficiente a
portare ad un parallelo con la giustizia amministrativa
italiana, trattandosi di modelli giurisdizionali del tutto
differenti (basti pensare alla serie di atti scrutinati dalla
Corte di Giustizia, che possono essere atti del Parlamento piuttosto che della Commissione europea, della
BCE, del Consiglio).
Per completezza, si osserva che tale problematica, a prescindere dalle regole codicistiche, è stata affrontata in
quel sistema dal Conseil d’Etat francese (Conseil d’Etat,
11 maggio 2004, Association AC), che ha fatto riferimento alle conseguenze manifestamente eccessive, ma
limitando il potere officioso del giudice in casi del tutto
eccezionali “à titre exceptionnel” e solo nei casi di atti
di tale importanza da mettere in crisi il sistema di un
settore dell’ordinamento, quindi tenendo conto degli effetti della “securité juridique”.
9. Ai sensi dell’art. 99, comma 4 c.p.a., l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, investita della questione
sopra esposta, in omaggio al principio di economia processuale e per esigenze di celerità, di regola decide la
controversia anche nel merito, salva la presenza di ulteriori esigenze istruttorie, nel caso di specie insussistenti
(così Consiglio di Stato, ad. plen. 13 giugno 2012, n.
22).
D’altra parte, la questione sollevata dalla Sezione rimettente di eventualmente non annullare per le ragioni sopra esposte, pur non rappresentata alla udienza precedente alle parti ai sensi dell’art. 73 comma 3, ove ritenuta questione “rilevata d’ufficio” perché riguardante
gli eventuali poteri officiosi del giudice, è stata compiutamente rappresentata con l’ordinanza di deferimento e
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quindi adeguatamente trattata dalle varie parti in sede
di discussione dinanzi a questa Adunanza Plenaria.
Avendo la Sezione rimettente già accertato l’illegittimità degli atti impugnati pronunciandosi con sentenza
parziale ai sensi dell’art. 36 comma 2 c.p.a., sia respingendo il primo motivo sia esprimendosi anche sulla seconda “questione” (il motivo della violazione della regola della previa determinazione dei criteri delle prove),
non può che concludersi nel senso dell’accoglimento
dell’appello e, in conseguenza, in riforma dell’appellata
sentenza, per l’accoglimento del ricorso originario e
l’annullamento degli atti impugnati ai sensi e nei limiti
di cui in motivazione.
Ritenendo pertanto di decidere nel merito la controversia sottoposta all’esame, sulla base delle sopra esposte
considerazioni, va accolto l’appello proposto dall’appellante e, in riforma della sentenza appellata, va accolto il
ricorso originario, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, con la enunciazione del seguente principio di diritto: “Sulla base del principio della domanda che regola
il processo amministrativo, il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’amministrazione al risarcimento dei
danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché
procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale
persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il
lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa
debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della
procedura esperita”.
(omissis).
1599
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Il principio della domanda nel processo amministrativo
di Franco Gaetano Scoca
L’Adunanza plenaria riafferma in tutta la sua pregnanza il principio della domanda, per cui
esclude che, avendo la parte chiesto l’annulamento di un provvedimento, possa il giudice pronunciare, al posto dell’annullamento, il risarcimento del danno.
Riaffermazione del principio della domanda
La sentenza in commento costituisce una consapevole, meditata e solenne riaffermazione del principio della domanda vigente nella disciplina (anche) del processo amministrativo; e, in questo, si
allinea all’orientamento consolidato in giurisprudenza (1) e assolutamente prevalente in dottrina;
principio che discende dalla natura soggettiva della
giurisdizione amministrativa (2), e, quindi, dal carattere di processo di parti del processo amministrativo; in linea con gli artt. 24 e 113 Cost., ai
sensi dei quali la funzione giurisdizionale è finalizzata ad assicurare tutela alle situazioni soggettive,
e, in tale prospettiva ed a questo fine, ad affermare
ciò che è giusto, anzi, più esattamente, ciò che è
conforme al diritto positivo.
La Sezione rimettente, nella sua ordinanza, assumeva che potesse essere consentito al giudice amministrativo di intervenire sulla domanda di parte,
diretta all’annullamento, modificandola ex officio
in domanda di risarcimento del danno, in presenza
di determinate (ed eccezionali) circostanze, sulla
base di una valutazione sostanzialmente di equità;
ossia comparando il vantaggio (scarso), derivante
dall’annullamento al ricorrente, con lo svantaggio,
di gran lunga più pesante, per i controinteressati
“incolpevoli” (in quanto del tutto estranei al vizio
di legittimità, comportante l’annullamento, e imputabile alla sola amministrazione).
Per comprendere appieno la portata della sentenza in commento è utile riassumere la vicenda
che ne è stata l’oggetto; tuttavia fin d’ora si può dire che l’ordinanza di rimessione ha formulato i suoi
quesiti forzando consapevolmente la disciplina positiva del processo amministrativo, sia pure per no(1) Nello stesso senso si esprime con pari determinazione
Ad. Plen. 27 aprile 2015, n. 5, spec. punto 7 della motivazione.
(2) Si veda sul punto da ultimo, V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014, 341 ss., che pone
in rilievo che tale configurazione della giurisdizione amministrativa risale ai primordi, e che “le poche voci, peraltro assai
autorevoli, che si espressero in contrario, erano piuttosto condizionate dall’incerta natura degli ‘interessi’ di cui all’art. 24
1600
bili motivi di equità o di giustizia sostanziale, ritenendo compito del giudice la valutazione comparativa di vantaggi e svantaggi per le parti presenti in
giudizio. Viene in mente, mi si passi l’inusuale accostamento, il giudizio di Salomone nella contesa
tra due donne che si dicevano entrambe madri dello stesso bambino (3).
Motivi di ricorso e “misura”
dell’annullamento
Risulta dalla motivazione della sentenza in commento (4) che: a) il petitum consisteva nella richiesta di annullamento della graduatoria di un concorso; b) la causa petendi, a sua volta, era rappresentata da due diversi vizi di legittimità; c) il primo
vizio, attenendo alla composizione della commissione di valutazione, se accolto, avrebbe comportato l’annullamento totale della procedura concorsuale, con la necessità di ripetere le prove; d) il secondo vizio, attenendo alla mancata predeterminazione dei criteri di valutazione delle prove, se accolto, avrebbe comportato l’annullamento parziale,
limitato alla ricorrezione delle prove scritte e, di
conseguenza, alla rinnovazione del provvedimento
di ammissione dei candidati alle prove orali.
La Sezione rimettente ha ritenuto infondato il
primo motivo e fondato, invece, il secondo. Rendendosi conto che l’annullamento della graduatoria avrebbe comportato la perdita, dopo oltre quindici anni, del posto di lavoro da parte dei numerosi
controinteressati, e reputando, d’altro canto, che
tale misura processuale non assicurava affatto l’acquisizione di uno dei posti messi a concorso per il
ricorrente, il Collegio ha preso in considerazione il
problema di evitare, se possibile, l’annullamento,
della legge fondamentale” (355-356).
(3) Ove si metta al posto della madre falsa il ricorrente,
scarsamente avvantaggiato dall’annullamento, e al posto della
vera madre il gruppo dei controinteressati, gravemente danneggiati dallo stesso annullamento. L’Adunanza Plenaria non
ha condiviso l’idea di una giustizia “salomonica”.
(4) L’ordinanza di rimessione, Sez. V, 22 gennaio 2015, n.
284, merita di essere letta.
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attribuendo al ricorrente vittorioso il risarcimento
del danno, che però non era stato richiesto (5).
Il rigetto del primo motivo esclude l’annullamento totale della procedura. Se, in ipotesi, il motivo fosse stato accolto, si sarebbe posto un diverso
problema, dato che il petitum, come disegnato dal
ricorrente, non comprendeva l’annullamento totale della procedura concorsuale, bensì solo l’annullamento della graduatoria finale, quindi con salvezza delle prove scritte e necessità della loro ricorrezione (previa determinazione dei criteri di valutazione). Ci si chiede: avrebbe potuto il giudice pronunciare l’annullamento totale in presenza di una
domanda limitata all’annullamento parziale?
Avrebbe potuto pronunciare l’annullamento parziale sulla base dell’accoglimento di un motivo che
comporta l’annullamento totale?
Sono problemi diversi da quello esaminato dall’Adunanza Plenaria, ma attengono comunque alla
determinazione in concreto del principio della domanda. Se questo principio si assume in modo rigido, se ne deve dedurre che il giudice non possa seguire nessuna delle due strade: non la prima, per
difetto della domanda; non la seconda per la discrepanza tra ratio decidendi e decisione.
Si può tuttavia pensare che al giudice amministrativo sia consentito “qualificare”. o interpretare, la domanda “in base ai suoi elementi sostanziali” (6), senza tuttavia uscire dai confini del tipo
di azione proposto dal ricorrente; ossia, nel caso
in esame, mantenendo ferma l’azione di annullamento. In altri termini: possa determinare discrezionalmente la “misura” dell’annullamento, commisurandolo al motivo (dedotto ed) accolto, prescindendo dalla “misura” (dall’ampiezza del segmento procedurale da eliminare) richiesta dal ricorrente.
In questo senso si può ricavare argomento dalla
sentenza in commento, laddove l’Adunanza Plenaria afferma che il giudice può “determinare, in relazione ai motivi sollevati e riscontrati e all’interesse
del ricorrente, la portata dell’annullamento”.
L’Adunanza Plenaria ha esaminato un profilo diverso, e tutto sommato, più semplice: se al giudice
sia consentito modificare la domanda a tal punto
da sostituire, mediante la manipolazione del petitum, l’azione effettivamente proposta con una azione diversa; sostituire cioè l’azione di annullamento,
proposta e continuamente riconfermata dal ricorrente, con l’azione di risarcimento del danno,
estranea alla domanda.
La presa di posizione dell’Adunanza Plenaria è
stata netta, come si ricava dal principio di diritto
enunciato: “sulla base del principio della domanda
che regola il processo amministrativo, il giudice
amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso,
non può ex officio limitarsi a condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli
atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro
annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il
suo interesse, ancorché la pronuncia possa arrecare
gravi pregiudizi ai controinteressati (7), anche per
il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti (8), e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in
tutto o in parte, della procedura esperita”.
La Sezione rimettente aveva tentato di far leva
sul comma 3 dell’art. 34 c.p.a., ma l’argomento è
manifestamente privo di consistenza, dato che nel
caso di specie l’annullamento non risultava affatto
inutile, come invece è espressamente previsto da
tale disposizione (9).
Se, viceversa, l’annullamento (della procedura
concorsuale) fosse divenuto effettivamente inutile (10), probabilmente la disposizione suddetta
avrebbe potuto essere applicata. Ed avrebbe potuto
esserlo anche nel caso in cui, permanendo l’utilità
oggettiva dell’annullamento, ad esso il ricorrente
avesse rinunciato (11).
L’Adunanza Plenaria sembra non condividere
queste affermazioni: essa reputa che, nel caso in
cui l’annullamento “non dovesse soddisfare l’interesse del ricorrente (…), la pronuncia del giudice
(5) Non è mio compito e tuttavia ritengo di dover osservare
che il ricorrente, in una situazione del genere, avrebbe fatto
bene a richiedere il risarcimento del danno. Il problema sottoposto all’Adunanza Plenaria sarebbe comunque rimasto inalterato. Osservo altresì che, in un caso del genere, non sarebbe
stato facile quantificare e provare il danno subito.
(6) Art. 32, comma 2, c.p.a.
(7) La sentenza parla di “impatto devastante sulla vita loro
e delle loro famiglie”.
(8) A proposito del lungo tempo trascorso va messo in rilievo che appare nella specie incomprensibile la durata del pro-
cesso di appello, iniziato nel 2002 e terminato solo con la sentenza in commento: tredici anni!
(9) Art. 34, comma 3: “quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile
per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”.
(10) Ad esempio per la impossibilità del ricorrente a partecipare alla procedura rinnovata dall’amministrazione.
(11) Vedremo poi se, in questo caso, il ricorrente avrebbe
dovuto chiedere il risarcimento del danno o, almeno, manifestare il suo interesse a chiederlo.
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Sulla manipolazione della domanda
da parte del giudice
1601
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non potrebbe che essere di accertamento, ma nell’altro senso, cioè della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente che aveva proposto domanda
di annullamento”; senza possibilità di applicazione
della disposizione di cui al comma 3 dell’art. 34.
Sulla “modulabilità” della domanda
da parte del giudice
La Sezione rimettente aveva anche richiamato il
principio di continenza, sostenendo che l’accertamento della illegittimità dell’atto impugnato è
compreso nella domanda di annullamento, costituendo il presupposto per il suo accoglimento.
La risposta dell’Adunanza Plenaria è secca: “l’accertamento a fini risarcitori è qualcosa di più o comunque di diverso dalla domanda di annullamento”.
Siffatta affermazione lascia lievemente perplessi:
l’accertamento della (il)legittimità del provvedimento è identica a se stessa, sia che porti all’annullamento sia che cagioni la illiceità della condotta
(o del comportamento) dell’amministrazione, rilevante ai fini del risarcimento. Vero è invece che,
in mancanza di apposita domanda, l’accertamento
della illegittimità del provvedimento non può essere seguito dalla pronuncia risarcitoria; ed è anche
vero che l’accertamento della illegittimità del
provvedimento impugnato non costituisce affatto
l’unico presupposto per addivenire alla condanna
risarcitoria.
Va tuttavia osservato che il principio di continenza non è minimamente utile a risolvere il quesito, che attiene alla possibilità di evitare l’annullamento richiesto e non di pronunciarsi sulla (il)legittimità del provvedimento impugnato.
Nel tentativo di sostenere la tesi della “modulabilità” da parte del giudice della forma di tutela da
attribuire al ricorrente, la Sezione rimettente aveva
fatto leva anche sui principi di proporzionalità,
equità e giustizia, che devono permeare la giustizia
amministrativa; principi compromessi dalla sperequazione tra lo svantaggio “devastante” per i controinteressati e l’“indebolito” interesse del ricorrente.
Ancora una volta la risposta dell’Adunanza Plenaria è secca: né l’utilità più o meno ampia che il
(12) Art. 21 nonies della L. 7 agosto 1990, n. 241.
(13) Risulta d’altronde difficile comprendere come un potere di annullamento potesse giustificare una tesi concernente il
rifiuto di un annullamento espressamente richiesto.
(14) Si potrebbe aggiungere che riguardano la possibilità di
decidere d’ufficio, una volta accolta la domanda di annulla-
1602
ricorrente può ricevere dall’accoglimento della domanda da lui proposta, né il pregiudizio, grave che
sia, che ne deriva per i controinteressati, hanno rilevanza alcuna. Vi si oppone il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, articolazione del principio della domanda.
L’Adunanza Plenaria mostra con ciò di rispettare
per intero il carattere soggettivo della giurisdizione
amministrativa, per cui intende il processo come
strumento di tutela (del ricorrente, secondo la impostazione da lui concretamente scelta) e non come strumento di giustizia (se del caso, equitativa);
conformemente, d’altronde, alle disposizioni costituzionali in materia.
I pretesi fondamenti del potere del giudice
di modificare la domanda di parte
Nella articolata motivazione della ordinanza di
rimessione si rinvengono anche altre ragioni a favore della “modulabilità” della tutela da parte del
giudice, prescindendo dalla domanda di parte.
Una prima ragione è francamente assai debole:
alla ricerca di poteri di manipolazione della domanda, la Sezione rimettente richiama, da un lato,
la disposizione sulla annullabilità d’ufficio dei provvedimenti illegittimi (12) e, dall’altro, gli artt. 121
e 122 c.p.a.
Per l’Adunanza Plenaria è stato facile affermare
l’inconferenza di tali richiami: il primo, perché il
potere di annullamento d’ufficio è potere di autotutela e, pertanto, è proprio solo dell’amministrazione (13); il secondo, perché le disposizioni riguardanti il rito degli appalti, che conferiscono al giudice il potere di “ampliare” ex officio il petitum di
parte, sono con ogni evidenza di stretta interpretazione (14).
Un ulteriore argomento viene tratto da un interessante quanto discusso precedente giurisprudenziale: in materia ambientale, accertata la illegittimità di un piano faunistico-venatorio, una sentenza del Consiglio di Stato del 2011 aveva evitato di
annullarlo, disponendo soltanto, ai sensi dell’art.
34, comma 1, lett. e), c.p.a., misure conformative,
ossia stabilendo cosa l’amministrazione avrebbe dovuto fare, in futuro, per adeguarsi al giudicato (15).
mento dell’aggiudicazione di un appalto, sulla inefficacia o
meno del successivo contratto. Non si tratta comunque di eludere il petitum proposto dalla parte.
(15) Cons. Stato, Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755. È interessante riportare il ragionamento seguito dal giudice: “considerate le circostanze, ritiene la Sezione che la presente senten-
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L’Adunanza Plenaria si limita a rilevare che si
tratta di “questione ben diversa da quella posta
nella presente fattispecie, nella quale (…) si controverte sulla possibilità per il giudice di sostituire
integralmente ex officio la domanda proposta in
giudizio”.
Si ha l’impressione che l’Organo di nomofilachia
abbia voluto evitare di pronunciarsi, sia pure indirettamente, sulla correttezza, o accettabilità, della
limitazione alla (sola) determinazione degli effetti
conformativi, senza il previo (e richiesto) annullamento del provvedimento impugnato e riconosciuto illegittimo. Infatti, anche nel precedente richiamato dalla ordinanza di rimessione il giudice aveva
evitato di pronunciare l’annullamento dell’atto impugnato, espressamente richiesto dal ricorrente:
sotto questo profilo le questioni sembrano identiche, e, quindi, il problema poteva essere affrontato
dall’Adunanza Plenaria; soltanto sotto l’altro profilo, quello della possibilità di pronunciare sul risarcimento del danno, senza domanda di parte, le due
situazioni sono radicalmente diverse.
Processo amministrativo italiano
e processo europeo
L’Adunanza Plenaria esamina viceversa funditus
un altro argomento, che risulta appena sfiorato
nella ordinanza di rimessione, e che invece era stato adeguatamente trattato nel precedente giurisprudenziale da questa richiamato: l’applicabilità
nel processo amministrativo italiano della disciplina del processo dinanzi alla Corte di Giustizia UE,
in particolare del comma 2 dell’art. 264
TFUE (16).
L’Adunanza Plenaria avrebbe potuto limitarsi ad
osservare che la disposizione del Trattato consente
(al giudice comunitario) di graduare la portata dell’annullamento (o, secondo il linguaggio del Trattato, della dichiarazione di nullità) dell’atto impuza debba avere unicamente effetti conformativi del successivo
esercizio della funzione pubblica, e non anche i consueti effetti
ex tunc di annullamento, demolitori degli effetti degli atti impugnati, né quelli ex nunc”. Quando la eliminazione degli effetti
dell’atto riconosciuto illegittimo “risulterebbe incongrua e manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale, ad avviso del Collegio la regola dell’annullamento con effetti ex tunc dell’atto impugnato
a seconda delle circostanze deve trovare una deroga, o con la
limitazione parziale della retroattività degli effetti (Sez. VI, 9
marzo 2011, n. 1488), o con la loro decorrenza ex nunc ovvero
escludendo del tutto gli effetti dell’annullamento e disponendo
esclusivamente gli effetti conformativi” (dal punto 15 della motivazione). Tale indirizzo ha anche avuto qualche seguito: v., ad
esempio, T.A.R. Genova, Sez. II, 22 marzo 2013, n. 514, Id., 22
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gnato, ma non gli consente di modificare il tipo di
azione proposta dal ricorrente; consente cioè di
graduare la “misura”, e quindi gli effetti, dell’annullamento, ma non di sostituire il risarcimento del
danno all’annullamento.
L’Organo di nomofilachia prende, invece, l’occasione per affermare, sulla base della (ritenuta)
profonda differenza dei modelli processuali, l’inapplicabilità, in via generale, della disciplina vigente
per il processo europeo al processo amministrativo
italiano (17).
A me sembra che la questione vada più accuratamente vagliata.
Rimanendo sempre nei confini dell’azione di annullamento, il petitum non viene “tradito” se il giudice, ricercando il modo migliore di rendere effettiva la tutela del ricorrente vittorioso, circoscrive razionalmente la “misura” dell’annullamento stesso.
D’altronde l’annullamento parziale è comunemente
ammesso, anche a seguito di generico petitum di
annullamento; l’annullamento ex nunc, o a decorrere da una data successiva alla integrazione della
efficacia del provvedimento impugnato, non appare come modificazione, o sostituzione, del tipo di
azione proposta dal ricorrente.
L’art. 264 TFUE, in definitiva, non risulta eversivo del modello di processo amministrativo vigente in Italia, ove i confini, quantitativi o temporali,
dell’annullamento vengano determinati tenendo
conto dell’interesse processuale del ricorrente. Il
processo amministrativo, a mio avviso, non cessa,
per questo, di essere strumento di tutela per diventare strumento di giustizia equitativa (18).
Sulla corrispondenza tra chiesto
e pronunciato
Nella ordinanza di rimessione si rappresenta ancora un argomento, che va esaminato.
gennaio 2014, n. 102.
Sia la sentenza appena citata sia l’ordinanza di rimessione
all’Adunanza Plenaria relativa alla sentenza in commento sono
state decise da Collegi presieduti dallo stesso Presidente, magistrato aduso a proporre intelligenti innovazioni processuali.
(16) L’art. 264 TFUE recita, al comma 1: “se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dell’Unione europea dichiara nullo e
non avvenuto l’atto impugnato”; e, al comma 2: “tuttavia la
Corte, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti dell’atto annullato che devono essere considerati definitivi”.
(17) Viene opportunamente citata una decisione del Conseil
d’État francese sulla medesima questione.
(18) Non è privo di rilievo che l’art. 1 c.p.a., richiami “i principi (…) del diritto europeo”.
1603
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Si sostiene che, se il ricorrente “avesse formulato
una espressa domanda risarcitoria (…) il presente
giudizio si sarebbe potuto senz’altro concludere con
l’accoglimento di tale domanda, senza l’annullamento dei medesimi atti”, ossia degli atti impugnati.
L’argomento, a mio avviso, non è convincente:
da un lato, l’accertamento della illegittimità del
provvedimento impugnato non comporta affatto,
da sé solo, l’accoglimento della domanda risarcitoria, dato che occorrono anche (la prova del) la colpa, (la prova de) il danno e (la prova de) il nesso
di causalità; dall’altro lato, l’eventuale accoglimento della domanda risarcitoria non comporta, né
giustifica, la mancata decisione sulla contestuale
domanda di annullamento, se si applica, com’è indubbio, il principio di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato. In presenza di due domande, corrispondenti a due azioni connesse (19), il giudice
amministrativo non può decidere l’una e, a motivo
di ciò, trascurare l’altra.
Nel caso di specie, comunque la domanda risarcitoria non era stata proposta: l’argomento risulta
pertanto inutilmente dedotto dalla Sezione rimettente.
Colgo l’occasione per sottolineare, per maggiore
chiarezza, che il problema posto all’Adunanza Plenaria dall’ordinanza di rimessione si scinde in due
diversi profili: se sia consentito al giudice di non
decidere sulla domanda di annullamento (proposta); se sia consentito introdurre nel processo ex officio una domanda di risarcimento del danno (non
proposta dal ricorrente). Sotto nessuno dei due
profili l’argomento appena esaminato si mostra appropriato.
Occorre riprendere il discorso sull’art. 34, comma 3, c.p.a., anche se l’ordinanza di rimessione ritiene che esso, e la sua interpretazione, non riguardino “la problematica che si intende porre all’esame dell’Adunanza Plenaria”. L’opportunità di sottoporlo ad esame deriva dalla molteplicità e diversità degli orientamenti giurisprudenziali che si avvicendano sul modo di interpretare e applicare tale
disposizione.
Si va dalla verifica d’ufficio, senza alcun bisogno
di intervento del ricorrente, della sussistenza oggettiva dell’interesse al risarcimento (20), all’onere
per la parte di prospettare espressamente l’interesse
alla declaratoria di illegittimità del provvedimento
(di cui sia diventato inutile l’annullamento) (21),
alla necessità per la parte di formulare espressa riserva di chiedere successivamente il risarcimento (22), fino alla allegazione compiuta dei presupposti per la successiva proposizione dell’azione risarcitoria, a partire dalla prospettazione del danno
sofferto (23). Si assiste ad un crescendo di oneri a
carico del ricorrente, che si arresta giusto prima
della proposizione esplicita, nel giudizio di annullamento, della domanda risarcitoria.
La sentenza in commento sembra propendere
(ma non si esprime con sicurezza, o, meglio, in modo definitivo) per la tesi della necessità che la parte proponga espressamente, “se pure non formalisticamente ma in sostanza, la domanda di accertamento dell’illegittimità” o, quanto meno, manifesti
il suo “interesse al solo accertamento, a successivi
fini risarcitori”.
Si tratta di una tesi intermedia tra quelle presenti nella giurisprudenza recente, che appare condivisibile. Si devono rigettare le tesi che pretendono
che la parte alleghi i presupposti necessari per la
proposizione, anzi per l’accoglimento, dell’azione
risarcitoria, dato che questa allegazione non è richiesta affatto dalla disposizione in esame (24); la
quale prescrive soltanto che sussista “l’interesse a
fini risarcitori”.
Orbene tale interesse può essere rappresentato
dalla parte o anche rilevato d’ufficio: la disposizione stabilisce che la semplice, oggettiva, sussistenza
dell’interesse determina il dovere del giudice di accertare l’illegittimità dell’atto, il cui annullamento
non risulti più utile per il ricorrente.
Le tesi più restrittive partono dall’idea che occorra evitare che l’attività giurisdizionale sia resa
inutilmente. L’argomento è condivisibile, ma ogni
volta che sussiste l’interesse (manifestato o oggettivamente rilevato) al risarcimento, tale attività non
può essere ritenuta inutile.
La diversità delle tesi, tutte attualmente seguite,
rende necessario, tuttavia, che l’Adunanza Plenaria
(19) Il cumulo di domande connesse è espressamente consentito dall’art. 32, comma 1, c.p.a.
(20) Il quale è desumibile dal tipo di controversia e dagli atti
di causa: Cons. Stato, Sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817. Nello
stesso senso, T.A.R. Napoli, VII, 8 maggio 2015, n. 2571.
(21) T.A.R. Torino, Sez. II, 28 maggio 2015, n. 877.
(22) Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 2015, n. 1385; T.A.R. Roma, Sez. I, 1° aprile 2015, n. 4951.
(23) Cons. Stato, Sez. V, 28 dicembre 2012, n. 6703.
(24) In concreto questa tesi comporta che il ricorrente
enunci tutti gli elementi integranti la causa petendi dell’azione
risarcitoria, senza peraltro proporre tale azione.
Sul comma 3 dell’art. 34 c.p.a.
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prenda esplicitamente posizione, mettendo fine alla pluralità degli orientamenti.
Giudice amministrativo e azione risarcitoria
Le tesi che accollano al ricorrente oneri maggiori per ottenere che il giudice si pronunci ex art. 34,
comma 3, c.p.a., sono da porre in relazione con
l’atteggiamento di estrema chiusura della giurisprudenza amministrativa maggioritaria verso il riconoscimento al ricorrente, anche se vittorioso nel giudizio di annullamento, del risarcimento del danno.
È ben noto che si valorizzano oltre misura gli argomenti, dalla mancata allegazione alla mancata
prova del danno, dalla mancanza della colpa (che
comunitariamente sarebbe irrilevante) alla valutazione aggravata del comportamento del danneggiato, e così via, per escludere o per limitare il danno
risarcibile (25).
Il giudice amministrativo utilizza anche istituti
processuali per evitare condanne risarcitorie, ricorrendo “generosamente” a pronunce di improcedibilità della relativa azione. Ne è prova una recente
sentenza di appello, in cui si trattava di decidere,
una volta accertata l’inutilità dell’annullamento,
sulla domanda risarcitoria ritualmente formulata in
primo grado.
Osserva il Consiglio di Stato che la domanda
proposta in primo grado (era ed) è da respingere,
perché formulata in modo generico, e che la domanda riformulata in grado di appello, benché assistita dalla prova di tutti gli elementi per addivenire
alla condanna, doveva considerarsi improcedibile,
perché il thema decidendi deve essere “ineluttabilmente definito in primo grado e non può essere
esteso in grado di appello” (26).
Così è che una azione risarcitoria, alla fine pienamente istruita, non viene esaminata nel merito;
per cui, nonostante che il danno sia stato provato,
il ricorso viene ritenuto improcedibile.
(25) Sarebbe istruttivo porre a confronto l’orientamento del
giudice amministrativo in ordine al risarcimento del danno
causato dall’amministrazione con l’orientamento del giudice
contabile in ordine al risarcimento del danno causato all’amministrazione.
(26) Cons. Stato, Sez. V, 23 marzo 2015, n. 1548.
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Sulla inutilità dell’annullamento
Ci si può chiedere quand’è che l’annullamento,
nel corso del giudizio, divenga inutile. A mio avviso si tratta delle ipotesi di difetto sopravvenuto di
interesse alla decisione, che darebbe luogo alla dichiarazione di improcedibilità del ricorso (27); ed è
noto che la cessazione dell’interesse deriva sempre
(o quasi) dalla evoluzione della situazione di fatto
durante la pendenza del giudizio (28).
Mi chiedo tuttavia se l’art. 34, comma 3, possa
applicarsi anche allorché cessa (non l’interesse alla
decisione, ma) la materia del contendere, ossia
quando “nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta” (29).
La piena soddisfazione dovrebbe comprendere
non soltanto l’annullamento o la revoca, da parte
dell’amministrazione resistente, del provvedimento
impugnato, ma anche la cancellazione degli effetti
da questo nel frattempo prodotti e il risarcimento
dell’eventuale danno causato.
Se così fosse, non resterebbe margine per l’esperimento dell’azione risarcitoria, e quindi non sussisterebbe l’interesse all’accertamento della illegittimità del provvedimento impugnato dal ricorrente
e poi ritirato dall’amministrazione.
Se, viceversa, come normalmente accade, la cessazione della materia del contendere viene dichiarata sulla sola base del ritiro del provvedimento
impugnato, a me sembra che continui a sussistere
l’interesse del ricorrente ai fini risarcitori; con conseguente applicabilità della disposizione in esame.
Ritornando alla sentenza in commento, e concludendo il suo esame, bisogna riconoscere che,
con essa, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato continua nella sua benemerita azione di “manutenzione straordinaria” del processo amministrativo.
(27) Art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a.
(28) Per fare un esempio, l’avvenuto completamento dell’opera pubblica rispetto al giudizio diretto all’annullamento dell’aggiudicazione.
(29) Art. 34, comma 5, c.p.a.
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Sintesi
Osservatorio
della Corte di Giustizia UE
a cura di Roberto Conti
RETI E SERVIZI DI TELECOMUNICAZIONI
APPARECCHIATURE TERMINALI PER IL SERVIZIO
RADIOMOBILE TERRESTRE
Corte di Giustizia, Sez. VIII, 17 settembre 2015, n. C416/14 - Pres. Ó Caoimh - Avv. Gen. Kokott- Fratelli De
Pra spa eS AIV spa c. Agenzia Entrate - Direzione Provinciale Ufficio Controlli Belluno, Agenzia Entrate - Direzione Provinciale Ufficio Controlli Vicenza
1) Le direttive:
- 1999/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
9 marzo 1999, riguardante le apparecchiature radio e le
apparecchiature terminali di telecomunicazione e il reciproco riconoscimento della loro conformità, segnatamente il suo art. 8,
- 2002/19/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 7 marzo 2002, relativa all’accesso alle reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate, e all’interconnessione delle medesime (direttiva “accesso”),
- 2002/20/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 7 marzo 2002, relativa alle autorizzazioni per le reti
e i servizi di comunicazione elettronica (direttiva “autorizzazioni”), come modificata dalla Dir. 2009/140/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre
2009,
- 2002/21/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 7 marzo 2002, che istituisce un quadro normativo
comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (direttiva “quadro”), e
- 2002/22/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
7 marzo 2002, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione
elettronica (direttiva “servizio universale”), come modificata dalla Dir. 2009/136/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 25 novembre 2009 vanno interpretate nel
senso che non ostano a una normativa nazionale relativa
all’applicazione di una tassa, quale la tassa di concessione governativa, in forza della quale l’impiego di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre,
nel contesto di un contratto di abbonamento, è assoggettato a un’autorizzazione generale o a una licenza nonché al pagamento di detta tassa, in quanto il contratto di
abbonamento sostituisce di per sé la licenza o l’autorizzazione generale e, pertanto, non occorre alcun intervento dell’amministrazione al riguardo.
2) L’art. 20 della Dir. 2002/22, come modificata dalla Dir.
2009/136, e l’art. 8 della Dir. 1999/5 vanno interpretati
nel senso che non ostano, ai fini dell’applicazione di
una tassa quale la tassa di concessione governativa, all’equiparazione a un’autorizzazione generale o a una licenza di stazione radioelettrica di un contratto di abbonamento a un servizio di telefonia mobile, che deve pe-
1606
raltro precisare il tipo di apparato terminale di cui si
tratta e l’omologazione di cui è stato oggetto.
3) In un caso come quello oggetto dei procedimenti principali, il diritto dell’Unione, quale risulta dalle direttive
1999/5, 2002/19, 2002/20, come modificata dalla Dir.
2009/140, 2002/21 e 2002/22, come modificata dalla Dir.
2009/136, nonché dall’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dev’essere interpretato nel
senso che non osta a un trattamento differenziato degli
utenti di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre, a seconda che essi sottoscrivano un
contratto di abbonamento a servizi di telefonia mobile o
acquistino tali servizi in forma di carte prepagate eventualmente ricaricabili, in base al quale solo i primi sono
assoggettati a una normativa nazionale come quella che
istituisce la tassa di concessione governativa.
Il caso
La Commissione tributaria provinciale di Mestre-Venezia
chiamata a pronunziarsi, a seguito del ricorso proposto da
due società, sul diniego di rimborso della tassa di concessione governativa versata per l’impiego di apparecchi terminali per il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione in forza dell’art. 21 della tariffa allegata al
d.P.R. n. 641/1972 che nella versione applicabile alle controversie principali prevede, per ogni mese di utenza, l’assoggettamento alla TCG di ogni licenza o documento sostitutivo della stessa per l’impiego di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione, ha proposto i seguenti quesiti pregiudiziali alla
Corte di Giustizia:
“1) Se, con riferimento alle apparecchiature terminali per il
servizio radiomobile terrestre di comunicazione, sia compatibile con il diritto comunitario (direttiva 1999/5, nonché [direttive reti]) la normativa nazionale di cui al combinato disposto:-art. 2 comma 4, D.L. 4/2014, convertito successivamente in legge 50/2014; -art. 160 D.Lgs. 259/2003; -art. 21 [della
tariffa allegata, che, assimilando le apparecchiature terminali
alle stazioni radioelettriche, prevede per l’utente il conseguimento di un’autorizzazione generale, nonché il rilascio di apposita licenza di stazione radioelettrica, da far valere quale
presupposto impositivo. E pertanto se, con specifico riferimento all’utilizzo delle apparecchiature terminali, sia compatibile con il diritto comunitario la pretesa dello Stato italiano
di prevedere a carico dell’utente il conseguimento di un’autorizzazione generale e di una licenza di stazione radio,
quando l’immissione nel mercato, la libera circolazione e la
messa in servizio delle apparecchiature terminali sono disciplinate già compiutamente da fonti comunitarie (direttiva n.
1999/5), senza previsione alcuna di autorizzazione generale
e/o licenza. E l’autorizzazione generale e la licenza vengono
previste dalla normativa nazionale:
- nonostante l’autorizzazione generale sia un provvedimento che non interessa l’utilizzatore delle apparecchiature terminali, ma solamente le imprese interessate alla fornitura
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di reti e servizi di comunicazione elettronica (art. 1-2-3 della
direttiva autorizzazioni n. 2002/20);
- nonostante la concessione sia prevista per i diritti individuali di uso delle frequenze radio e per i diritti d’uso dei numeri, situazioni sicuramente non riferibili all’utilizzo delle
apparecchiature terminali;
- nonostante la normativa comunitaria non contempli alcun
obbligo di conseguire un’autorizzazione generale o il rilascio di licenza per le apparecchiature terminali;
- nonostante l’art. 8 della direttiva 1999/5 disponga che gli
Stati membri ‘non vietano, limitano o impediscono l’immissione sul mercato e la messa in servizio sul loro territorio di
apparecchi recanti la marca CE’;
- nonostante la diversità sostanziale e regolamentare, e la
non omogeneità tra una stazione radioelettrica e le apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre di
comunicazione.
2) Se sia compatibile con il diritto comunitario (direttiva
1999/5 e direttiva 2002/22, in particolare l’art. 20) la normativa nazionale di cui al combinato disposto:-art.2 comma 4,
D.L 4/2014, convertito successivamente in legge 50/2014;art. 160 D.Lgs. 259/2003;-Art. 21 tariffa allegata;-art.3 del
DM 33/1990, in base alla quale
- il contratto di cui all’art. 20 della direttiva 2002/22 - instaurato tra il gestore e l’utente, atto a regolare i rapporti
commerciali tra i consumatori e gli utenti finali con una o
più imprese che forniscono la connessione e servizi relativi
- possa valere “di per se stesso” anche quale documento
sostitutivo dell’autorizzazione generale e/o della licenza di
stazione radio, senza alcun intervento o attività o controllo
da parte della Pubblica Amministrazione.
- il contratto deve contenere anche gli estremi del tipo di
apparato terminale e la relativa omologazione (non prevista
sulla base dell’art. 8 [della direttiva 1999/5]).
3) Se siano compatibili con il diritto comunitario sopra richiamato le disposizioni di cui al combinato disposto dell’articolo 2, comma 4, D.L. 4/2014, convertito successivamente con L. 50/2014, nonché dell’art. 160 D.Lgs.
259/2003 e dell’art. 21 della tariffa allegata, che prevedono
l’obbligo di autorizzazione generale e conseguente licenza
di stazione radio radioelettrica nei confronti solo di una particolare categoria di utenti, titolari di contratto denominato
formalisticamente abbonamento, mentre nessuna autorizzazione generale o licenza viene prevista in capo agli utenti
di servizi di comunicazione elettronica sulla base del contratto solo perché denominato diversamente (= servizio
prepagato o di ricarica).
4) Se l’art. 8 della direttiva europea 1999/5 osti ad una normativa nazionale, come quella di cui [al combinato disposto degli artt. 2, comma 4 D.L 4/2014, convertito successivamente con L. 50/2014, nonché dell’art. 160 [del] D.Lgs.
259/2003, e dell’art. 21 della tariffa allegata, che prevede:un’attività amministrativa volta al rilascio dell’autorizzazione generale e della licenza di stazione radioelettrica,
- il pagamento di una tassa di concessione governativa a
fronte di tali attività, in quanto comportamenti che possono
costituire limitazione alla messa in servizio, utilizzo e libera
circolazione degli apparati terminali”.
La decisione
Esaminando congiuntamente la prima e la quarta questione pregiudiziale, la Corte ricorda di avere già affermato che
le due delle direttive reti, vale a dire le direttive 2002/20 e
2002/21, non ostavano a una tassa quale la TCG - Corte
giust., n. C-492/09, Agricola Esposito EU:C:2010:766 - ribadendo i risultati interpretativi ivi esposti con riguardo alla
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Dir. 2002/20, nell’ordinanza Umbra Packaging (C-355/13,
EU:C:2013:867).
La Corte ha quindi riaffermato che l’art.8 della Dir. 1999/5 e
le direttive reti vanno interpretate nel senso che non ostano
a una normativa nazionale relativa all’applicazione di una
tassa quale la TCG, in forza della quale l’impiego di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre, nel
contesto di un contratto di abbonamento, è assoggettato a
un’autorizzazione generale o a una licenza nonché al pagamento di detta tassa, in quanto il contratto di abbonamento
sostituisce di per sé la licenza o l’autorizzazione generale e,
pertanto, non occorre alcun intervento dell’amministrazione
al riguardo. Quanto al secondo quesito pregiudiziale la Corte
ha ritenuto che l’art. 20 della Dir. 2002/22 e l’art. 8 della Dir.
1999/5 vanno interpretati nel senso che non ostano, ai fini
dell’applicazione di una tassa quale la TCG, all’equiparazione
a un’autorizzazione generale o a una licenza di stazione radioelettrica di un contratto di abbonamento a un servizio di
telefonia mobile, che deve peraltro precisare il tipo di apparato terminale di cui si tratta e l’omologazione di cui è stato
oggetto. Rispetto al terzo quesito si è invece chiarito che il
diritto dell’Unione, quale risulta dalla Dir. 1999/5, dalle direttive reti e dall’art. 20 della Carta, va interpretato nel senso
che non osta a un trattamento differenziato degli utenti di
apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre, a seconda che essi sottoscrivano un contratto di abbonamento a servizi di telefonia mobile o acquistino tali servizi
in forma di carte prepagate eventualmente ricaricabili, in base al quale solo i primi sono assoggettati a una normativa
nazionale come quella che istituisce la TCG.
PROCESSO PENALE
REATI IN MATERIA DI IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO
E PRESCRIZIONE
Corte di Giustizia, Grande Camera, 8 settembre 2015,
n. C-105/14 - Pres. Skouris- Avv. gen. Kokott- Taricco e
altri
Una normativa nazionale in materia di prescrizione del
reato - normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti, che
l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti
penali riguardanti frodi gravi in materia di IVA comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale - è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’art. 325,
paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa
nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, o in cui
preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che
ledono gli interessi finanziari dell’Unione, circostanze
che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’art. 325, paragrafi
1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni
nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato
membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli
dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE.
1607
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Sintesi
Il caso
Il G.U.P. presso il Tribunale di Cuneo interroga la Corte di
Giustizia sulla compatibilità del sistema interno in tema di
prescrizione dei reati rimodulato dalla L. n.251/2005 - c.d.
legge Cirielli - con una serie di previsioni contemplate nell’ordinamento UE.
Nel procedimento penale pendente innanzi al giudice nazionale erano coinvolti taluni soggetti per i reati di frode fiscale IVA asseritamente commessi nell’ambito di un articolato meccanismo di frodi c.d. carosello.
Il rimettente, operando una prognosi circa la durata dei processi che sarebbe seguita in base alla richiesta di rinvio a
giudizio in relazione alla complessità di tali processi e ritenuto, dunque, che per molti dei soggetti coinvolti “…tutti i reati
si prescriveranno, al più tardi, in data 8 febbraio 2018…con
assoluta certezza” e che alcuni si erano già prescritti in forza
della disciplina interna, chiede alla Corte di verificare se la
normativa interna si pone in contrasto con diverse norme
comunitarie- concorrenza, aiuti di stato, tutela delle finanze
fiscali dell’UE, principio delle finanze sane-.
Il giudice rimettente, dopo essersi interrogato sul problema
della competenza della Corte di Giustizia a risolvere i quesiti pregiudiziali, muove dal presupposto che in ragione della
stretta rete di rapporti che ormai legano l’Italia agli altri
Paesi dell’Unione europea, i pregiudizi che la norma interna
arreca agli altri Stati pone la stessa in contrasto con diverse norme comunitarie. L’ordinanza del giudice del rinvio si
diffonde sul tema della prescrizione, evocando la Relazione
del Procuratore generale della Corte di cassazione relativa
all’anno 2013 ed operando una comparazione fra i diversi
sistemi penali europei in punto di prescrizione ipotizzava
che “…Disapplicando la norma qui impugnata si potrà garantire anche in Italia l’effettiva applicazione del diritto comunitario. Cesserà automaticamente la mitraglia delle eccezioni meramente dilatorie a cui i magistrati italiani sono
ormai tristemente rassegnati. Tali astute manovre, infatti,
non impediranno più di accertare le responsabilità degli imputati ed infliggere la meritata pena ai rei. La Corte di Giustizia gode di una grandissima opportunità: quella di attuare una svolta epocale in vista di un’applicazione sempre
più efficace del diritto dell’Unione. D’altro canto, trascurare
gli effetti di quel breve comma del codice penale equivarrebbe a trascurare la famigerata piccola crepa che fece
crollare la diga gigantesca…”.
Il remittente ha quindi chiesto alla Corte di chiarire se tali
norme consentano (ed in quali limiti) oppure no ad uno Stato di mantenere una norma che consenta di prosciogliere
dei rei nonostante l’azione penale sia stata tempestivamente
esercitata, formulando i seguenti quesiti pregiudiziali:
“1) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano - nella parte in cui
contempla un prolungamento del termine di prescrizione di
appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, consentendo la prescrizione dei reati nonostante il tempestivo
esercizio dell’azione penale, con conseguente impunità sia stata infranta la norma a tutela della concorrenza contenuta nell’art. 101 del TFUE;
2) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano - nella parte in cui
contempla un prolungamento del termine di prescrizione di
appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, privando di conseguenze penali i reati commessi da operatori
economici senza scrupoli - lo Stato italiano abbia introdotto
una forma di aiuto vietata dall’art. 107 del TFUE;
1608
3) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano - nella parte in cui
contempla un prolungamento del termine di prescrizione di
appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, creando un’ipotesi di impunità per coloro che strumentalizzano
la direttiva comunitaria - lo Stato italiano abbia indebitamente aggiunto un’esenzione ulteriore rispetto a quelle tassativamente contemplate dall’articolo 158 della direttiva
2006/112/CE;
4) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano - nella parte in cui
contempla un prolungamento del termine di prescrizione di
appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, rinunciando a punire condotte che privano lo Stato delle risorse
necessarie anche a far fronte agli obblighi verso l’Unione
europea, sia stato violato il principio di finanze sane fissato
dall’art. 119 del TFUE”.
La decisione
La Corte ritiene anzitutto ricevibile la domanda pregiudiziale in quanto le indicazioni contenute nell’ordinanza di rinvio
consentono alla Corte di formulare risposte utili per il giudice del rinvio. Peraltro, le questioni portate all’esame della
Corte vertevano sull’interpretazione di varie disposizioni del
diritto dell’Unione che il giudice del rinvio considera determinanti per la futura decisione concernente il rinvio a giudizio degli imputati.
Esaminando con priorità la terza questione la Corte ritiene
che la normativa nazionale indicata dal rimettente si risolva
in un ostacolo all’efficace lotta contro la frode in materia di
IVA nello Stato membro interessato, in modo incompatibile
con il diritto UE.
La Corte evidenzia la centralità del sistema volto al contrasto delle frodi fiscali in danno dell’UE, destinataria del gettito fiscale derivante dalla riscossione dell’IVA, esso mirando
a tutelare gli interessi finanziari dell’Unione conformemente alle disposizioni della Dir. 2006/112 e all’art. 325 TFUE.
Ferma l’autonomia dei singoli Stati nell’adozione delle misure concrete volte a salvaguardare tale interesse fondamentale, la Corte osserva però che gli Stati membri sono
tenuti ad adottare le misure necessarie affinché le condotte
che integrano una frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno nei casi di
frode grave, pene privative della libertà. Ne consegue che il
giudice nazionale è tenuto a verificare, alla luce di tutte le
circostanze di diritto e di fatto rilevanti, se le disposizioni
nazionali applicabili consentano di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo i casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Le disposizioni nazionali di cui
trattasi, introducendo una regola in base alla quale, in caso
di interruzione della prescrizione per una delle cause menzionate all’art. 160 c.p., il termine di prescrizione non può
essere in alcun caso prolungato di oltre un quarto della sua
durata iniziale, hanno per conseguenza, date la complessità e la lunghezza dei procedimenti penali che conducono
all’adozione di una sentenza definitiva, di neutralizzare l’effetto temporale di una causa di interruzione della prescrizione. Se il giudice a quo dovesse accertare che dall’applicazione delle disposizioni nazionali in materia di interruzione della prescrizione consegue, in un numero considerevole di casi, l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di
una frode grave, perché tali fatti risulteranno generalmente
prescritti prima che la sanzione penale prevista dalla legge
possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva, si
dovrebbe constatare che le misure previste dal diritto na-
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Giurisprudenza
Sintesi
zionale per combattere contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione non possono essere considerate effettive e dissuasive, vulnerando
gli artt. 325, par. 1, TFUE, 2, par. 1, della Convenzione PIF
nonché la Dir. 2006/112, in combinato disposto con l’art. 4,
par. 3, TUE. Secondo la Corte, inoltre, il giudice rimettente
dovrà verificare se le disposizioni nazionali si applichino ai
casi di frode in materia di IVA allo stesso modo che ai casi
di frode lesivi dei soli interessi finanziari della Repubblica
italiana, come richiesto dall’art. 325, par. 2, TFUE. Ciò non
avverrebbe, in particolare, se l’art. 161, secondo comma,
c.p. stabilisse termini di prescrizione più lunghi per fatti, di
natura e gravità comparabili, che ledano gli interessi finanziari della Repubblica italiana. Ove il rimettente dovesse
giungere alla conclusione che il quadro normativo interno
non soddisfa gli obblighi del diritto dell’Unione relativi al
carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro
le frodi all’IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la
piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, tali disposizioni senza necessità di attendere la
previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o
mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.
Quanto agli effetti della disapplicazione sulle posizioni processuali dei soggetti coinvolti nel procedimento penale, la
Corte osserva che in forza del principio del primato del diritto dell’Unione, le disposizioni dell’art. 325, paragrafi 1 e
2, TFUE hanno l’effetto, nei loro rapporti con il diritto interno degli Stati membri, di rendere ipso iure inapplicabile,
per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente. E poiché in caso di disapplicazione della normativa
interna detti soggetti potrebbero vedersi infliggere sanzioni
alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggiti in caso
di applicazione delle suddette disposizioni di diritto nazionale, il giudice nazionale dovrà assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati.
Secondo la Corte la disapplicazione delle disposizioni nazionali avrebbe soltanto per effetto di non abbreviare il termine
di prescrizione generale nell’ambito di un procedimento penale pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei
fatti incriminati nonché di assicurare, all’occorrenza, la parità
di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica
italiana. Una disapplicazione del diritto nazionale siffatta non
violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall’art. 49
della Carta dei diritti fondamentali. L’effetto di tale disapplicazione non sarebbe, dunque, una condanna degli imputati
per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata
commessa, non costituiva un reato punito dal diritto nazionale, né l’applicazione di una sanzione che, allo stesso momento, non era prevista da tale diritto. Al contrario, i fatti
contestati agli imputati integravano, alla data della loro commissione, gli stessi reati ed erano passibili delle stesse sanzioni penali attualmente previste. Ciò che sarebbe in linea
con la protezione offerta dalla Cedu, secondo la quale la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’art.
7 della suddetta Convenzione, dato che tale disposizione
non può essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati
non si siano ancora prescritti.
Quanto alle restanti questioni la Corte ha ritenuto che un
regime della prescrizione applicabile a reati commessi in
materia di imposta sul valore aggiunto, come quello previsto dal combinato disposto dell’art. 160, ultimo comma,
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c.p., come modificato dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, e
dell’art. 161 di tale codice, non può essere valutato alla luce degli artt. 101 TFUE, 107 TFUE e 119 TFUE.
I precedenti
Corte di Giustizia nn. C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e a EU:C:2005:270, punto 72 e giurisprudenza ivi citata, nonché Kücükdeveci, n. C-555/07, EU:C:2010:21, punto 51 e giurisprudenza ivi citata.
Corte di Giustizia n. C-606/10, ANAFE, EU:C:2012:34 e giurisprudenza ivi citata; Corte di Giustizia n. C-457/02, Niselli,
EU:C:2004:707.
AIUTI DI STATO
RESTITUZIONE DI AIUTI FISCALI INDEBITAMENTE
CORRISPOSTI
Corte di Giustizia, Sez. V, 3 settembre 2015, n. C-89/14
- Pres. Vajda - Avv. gen. Wathelet A2A S.p.a. c. Agenzia
delle Entrate
L’art. 14 del Reg. (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22
marzo 1999, recante modalità di applicazione dell’art. 93
del trattato CE, nonché gli artt. 11 e 13 del Reg. (CE) n.
794/2004 della Commissione, del 21 aprile 2004, recante
disposizioni di esecuzione del Reg. n. 659/1999, non
ostano a una normativa nazionale, come l’art. 24, comma 4, D.L. 29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e
imprese e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro
strategico nazionale, convertito, con modificazioni, nella
L. del 28 gennaio 2009, n. 2, che preveda, tramite un rinvio al Reg. n. 794/2004, l’applicazione di interessi composti al recupero di un aiuto di Stato, sebbene la decisione
che ha dichiarato detto aiuto incompatibile con il mercato comune e ne ha disposto il recupero sia stata adottata
e notificata allo Stato membro interessato anteriormente
all’entrata in vigore di detto regolamento.
Il caso
Due società che operavano nel settore della distribuzione
dell’acqua, dei trasporti e del gas ricevano alcune agevolazioni fiscali in tema di tassa sulle società dei prestiti contratti. La Commissione europea, con decisione assunta il 5
giugno 2002 (2003/193), dichiarava che le agevolazioni in
tema di tassa sulle società riconosciute per un triennio integravano degli aiuti di stato indebitamente concessi, ordinando all’Italia di recuperare le somme indebitamente corrisposte. In tale contesto veniva altresì precisato che l’aiuto
da recuperare comprendeva gli interessi decorrenti dalla
data in cui l’aiuto era divenuto disponibile per il beneficiario
fino alla data dell’effettivo recupero. Veniva altresì previsto
che gli interessi andavano calcolati sulla base del tasso di
riferimento utilizzato per il calcolo dell’equivalente sovvenzione nel quadro degli aiuti a finalità regionale.
Le società coinvolte impugnavano la decisione innanzi al
tribunale dell’Unione che, con decisioni assunta nell’anno
2009 - 11 giugno 2009, nelle cause Confservizi c. Commissione (T-292/02), ACEA c. Commissione (T-297/02), AMGA
c. Commissione (T-300/02), AEM c. Commissione (T301/02), Acegas c. Commissione (T-309/02), ASM Brescia c.
Commissione (T-189/03) e Italia c. Commissione (T-222/04)respingeva il ricorso. Successivamente (anno 2009), l’ufficio fiscale notificava alle società due avvisi di accertamen-
1609
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Sintesi
to relativi al recupero degli importi indebitamente corrisposti unitamente agli interessi, calcolati in modo composto.
Il contenzioso, promosso da una società che aveva assorbito due sodalizi operanti nel mercato dell’acqua e del gas
sul computo degli interessi pretesi dall’Agenzia delle entrate, approda innanzi alla Corte di Cassazione che solleva un
rinvio pregiudiziale proponendo al giudice europeo il seguente quesito: “Se l’articolo 14 del regolamento (n.
659/1999) e gli artt. 9, 11 e 13 del regolamento (n.
794/2004) devono essere interpretati nel senso che ostano
ad una legislazione nazionale che, in relazione ad un’azione
di recupero di un aiuto di Stato conseguente ad una decisione della Commissione notificata in data 7 giugno 2002,
stabilisca che gli interessi sono determinati in base alle disposizioni del capo V del citato regolamento n. 794/2004
(cioè, in particolare, agli articoli 9 e 11), e, quindi, con applicazione del tasso di interesse in base al regime degli interessi composti”.
La decisione
La Corte è stata chiamata a chiarire la disciplina normativa
applicabile alla fattispecie rispetto alla misura degli interessi pretesi dall’ufficio fiscale in tema di restituzione di aiuti
fiscali indebitamente corrisposti.
Il giudice europeo, per un verso, precisa che prima dell’adozione del Reg. n. 794/2004 della Commissione, del 21
aprile 2004, recante disposizioni di esecuzione del Reg. n.
659/1999, la disciplina in tema di interessi correlati alla restituzione di somme corrisposte in base ad aiuti di stato ritenuti illegittimi spettava ai singoli Stati. Ciò perché all’epoca in cui la Commissione ha ordinato il recupero degli aiuti
(2002), il diritto dell’Unione non conteneva alcuna disposizione relativa agli interessi sulle somme da restituire e sulla
natura semplice o composta degli stessi.
La Commissione, soltanto nella comunicazione sui tassi
d’interesse da applicarsi in caso di recupero di aiuti illegali,
pubblicata l’8 maggio 2003 - successiva alla decisione di
recupero 2003/193 dell’aiuto indebitamente ammesso dall’Italia - ebbe ad annunciare espressamente che in tutte le
decisioni future per disporre il recupero di aiuti illegittimi
avrebbe applicato un tasso d’interesse composto (sentenza, n. C-295/07 P, Commissione c. Département du Loiret
EU:C:2008:707, punto 46) e che si aspettava che gli Stati
membri avrebbero applicato interessi composti all’atto dell’esecuzione di ogni decisione di recupero.
Ora, nel caso concreto il giudice di Lussemburgo premette
che pur avendo il giudice rimettente indicato diverse norme
di diritto interno applicabili alla fattispecie - art. 24, comma
4, D.L. n. 185/2008, art. 1 del D.L. n. 10/2007 e art. 19 del
D.L. del 25 settembre 2009, n. 135 - dovrebbe ritenersi applicabile, salva verifica finale del giudice nazionale, l’art.
24, comma 4.
Ora, la Corte osserva che il Reg. CEE n. 794/2004, pur prevedendo il computo degli interessi su base composta - art.
11 del Reg. n. 794/2004, par. 2: “Il tasso di interesse è applicato secondo il regime dell’interesse composto fino alla
data di recupero dell’aiuto. Gli interessi maturati l’anno precedente producono interessi in ciascuno degli anni successivi” -, era applicabile solo alle decisioni di recupero notificate dopo la data di entrata in vigore di quest’ultimo, quindi dopo il 20 maggio 2004. La Corte prende atto, però, dell’interpretazione della disciplina interna offerta dal giudice
del rinvio, secondo la quale l’art. 24, comma 4, D.L. n.
185/2008, rinvia unicamente al Capo V del Reg. n.
794/2004, e non al Capo VI del medesimo - al cui interno si
colloca la disposizione transitoria dell’art. 13 (entrata in vi-
1610
gore venti giorni dopo la pubblicazione sulla GUCE della
normativa europea) -. Tale interpretazione non può essere
considerata contraria all’art. 13 del Reg. n. 794/2004. Se,
infatti, detta disposizione determina, al primo comma, la
data di entrata in vigore del citato regolamento e precisa,
al quinto comma, che l’art. 11, par. 2, di quest’ultimo, relativo al calcolo degli interessi su base composta, è unicamente applicabile alle decisioni di recupero notificate dopo
la data di entrata in vigore di questo stesso regolamento,
la stessa non può impedire ai singoli Stati di adottare, all’interno della propria discrezionalità- comunque soggetta
al rispetto dei principi generali nascenti dai Trattati- di legiferare in un senso anziché in un altro.
L’art. 13 del Reg. n. 794/2004 non introduce, dunque, una
norma di irretroattività applicabile alle normative nazionali
prima dell’entrata in vigore del Reg. n. 794/2004. Peraltro,
fra i ricordati principi generali del diritto UE, non risultano
vulnerati dalla disciplina nazionale né il principio di certezza
del diritto, né quello di tutela del legittimo affidamento.
Quanto al primo, infatti, il generale principio di irretroattività impone di applicare la nuova legge anche agli effetti futuri di situazioni sorte in vigenza della vecchia legge (v., in
tal senso, sent. 22 dicembre 2010, n. C-120/08, Bavaria,
EU:C:2010:798, punti 40 e 41 e giurisprudenza ivi citata).
Quanto al principio dell’affidamento, lo stesso non può essere esteso fino ad impedire che una nuova disciplina si
applichi agli effetti futuri di situazioni sorte sotto l’impero
della disciplina anteriore (sentenza, C-226/08, Stadt Papenburg EU:C:2010:10, punto 46 e giurisprudenza ivi citata).
Nel caso di specie, occorre ricordare che l’applicazione di
interessi composti è stata introdotta dalla normativa nazionale- adottata fra il 2007 ed il 2009 - e che prima di tali innovazioni vigeva l’art. 1282 c.c. in tema di interessi semplici.
Orbene, poiché l’applicazione di interessi composti al recupero di aiuti dichiarati incompatibili con il mercato comune
dalla decisione 2003/193 risale al D.L. n. 185/2008, la stessa secondo la Corte europea non ha alcun effetto retroattivo, limitandosi ad applicare una normativa nuova agli effetti futuri di situazioni sorte sotto l’impero della disciplina anteriore. Detto quadro normativo, efficace a far data dalla
pubblicazione sulla G.U.R.I. del 29 novembre 2008, non è
entrato in vigore anteriormente alla data della sua pubblicazione, posto che il recupero dell’aiuto si è avuto in epoca
successiva con l’adozione dell’avviso di rettifica adottato
successivamente(anno 2009).
La Corte non manca di spiegare, in relazione al notevole
scarto fra la decisione di recupero del 5 giugno 2002 e l’emissione, nel corso dell’anno 2009, di un avviso di imposta, che l’applicazione di interessi composti costituisce uno
strumento appropriato per neutralizzare il vantaggio concorrenziale conferito illegittimamente alle imprese beneficiarie di detto aiuto di Stato.
Quanto infine alla postulata contrarietà del D.L. n.
185/2008 con il principio della parità di trattamento, tale
questione non era stata oggetto di rinvio da parte del giudice nazionale, né la Corte disponeva di elementi idonei a verificare se la società contribuente tentava di avvalersi di
una prassi decisionale nazionale che potesse disattendere
il principio di legalità dovendosi, in linea generale, ritenere
che il principio di parità di trattamento deve conciliarsi con
il rispetto della legalità, secondo cui nessuno può invocare,
a proprio vantaggio, un illecito commesso a favore di altri
(sentenza C-259/10 e C-260/10, The Rank Group,
EU:C:2011:719, punto 62 e giurisprudenza ivi citata).
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Giurisprudenza
Sintesi
Osservatorio - Cassazione
Sezioni Unite
a cura di Vincenzo Carbone
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
DANNO ERARIALE
Cassazione Civile, SS.UU., 20 ottobre 2015, n. 21217 Pres, Rovelli - Rel. Spirito - P.M. Pratis (conf.) - T. M. e
altri c. Proc. Gen. Presso la Corte dei conti
È legittima l’azione per danno erariale richiesta dal P.M.
contabile nei confronti di amministratori comunali per
verificare il rapporto tra obbiettivi conseguiti e costi sostenuti e nel caso di specie sussiste la giurisdizione del
g.o. o del giudice contabile?
► Risposta affermativa al primo quesito. Sussiste poi
la giurisdizione del giudice contabile.
Il caso
La sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Lazio condannava Tizio e altri - quali sindaco e componenti della giunta di un Comune - al risarcimento dei danni
in favore del comune. Li riteneva responsabili della diseconomica attività di ricapitalizzazione del centro energetico
Viterbo-Cev, nonché dell’affidamento diretto, senza procedura di gara ad evidenza pubblica, dei servizi pubblici locali
e del conseguente danno consistente nella differenza tra il
compenso pattuito ed erogato dal comune e il prezzo più
basso che la società CEV aveva concordato, poi, con un
subappaltatore.
In accoglimento parziale dei gravami proposti dei ricorrenti,
la Corte dei conti riduceva l’ammontare del risarcimento,
motivando che la prospettazione della domanda, da parte
della Procura contabile, identificativa del petitum sostanziale, radicava la giurisdizione della Corte dei conti, dal momento che in essa era chiaramente allegato il danno direttamente subito dal Comune. Avverso la sentenza proponevano distinti ricorsi per cassazione, deducendo il difetto assoluto di giurisdizione della Corte dei conti in favore dell’autorità giudiziaria ordinaria.
La decisione
Si sostiene che la Corte dei conti, sul presupposto erroneo
che la CEV fosse una società in house, avrebbe applicato il
principio - più volte espresso nella giurisprudenza di legittimità - secondo cui spetta ad essa la giurisdizione sull’azione di responsabilità, esercitata dalla Procura contabile, volta al ristoro del danno arrecato dagli organi sociali al patrimonio di una società in house, tale dovendosi intendere
quella costituita per l’esercizio di pubblici servizi, esclusivamente da enti territoriali, che presti la propria attività prevalentemente in favore della P.A. e, con gestione soggetta ad
un controllo analogo a quello esercitato da quest’ultima sui
propri uffici.
I ricorrenti contestano che la CEV possa essere qualificata
come società in house providing, in carenza del requisito
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essenziale del controllo analogo esercitato dalla P.A. sulla
gestione societaria.
La sentenza impugnata, secondo la Cassazione, è chiarissima nello statuire che la prospettazione attrice del petitum
sostanziale in sede di edictio actionis, radicava la giurisdizione contabile, identificando come oggetto de risarcimento preteso il pregiudizio direttamente subito dal comune in
conseguenza dell’adozione di delibere di erogazione di
somme ingenti a titolo di conferimento in una società che
non era più in grado di garantire la continuità aziendale; e
non la loro utilizzazione successiva, da parte degli organi
sociali, distrattiva dallo scopo prefigurato di risanamento
delle perdite che avevano inciso il capitale: ciò che avrebbe
configurato, in ipotesi, solo un danno indiretto per la P.A.
La statuizione, sul punto, si conclude con il rilievo perentorio che la Procura contabile neppure si era posta il problema dell’eventuale danno alla società, restando aderente alla propria sfera di giurisdizione, mediante contestazione di
condotte poste in essere in danno del comune da soggetti
ad esso legati da rapporti di servizio.
Vengono quindi a cadere, come irrilevanti, tutte le allegazioni sull’inesistenza del controllo analogo, in forza di clausola statutaria che prevedeva la possibilità di cedere a terzi
le azioni della Cev.
La Corte dei conti, nella sua qualità di giudice contabile,
può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell’ente pubblico. Se, da un lato, l’esercizio in concreto del potere discrezionale dei pubblici amministratori costituisce espressione di una sfera di autonomia
che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato della Corte dei conti, dall’altro, l’art. 1, comma 1, L. 7 agosto
1990, n. 241 stabilisce che l’esercizio dell’attività amministrativa deve ispirarsi a criteri di economicità e di efficacia,
che costituiscono specificazione del più generale principio
sancito dall’art. 97 Cost. ed assumono rilevanza sul piano
della legittimità (e non della mera opportunità) dell’azione
amministrativa.
Pertanto, la verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra
gli obbiettivi conseguiti e i costi sostenuti.
I precedenti
Sulle società in house: Cass., SS.UU., 25 novembre 2013,
n. 26283; Cass., SS.UU., 10 marzo 2014, n. 5491; Cass.,
SS.UU., 26 marzo 2014, n. 7177. Sui poteri della Corte dei
conti di valutare la compatibilità tra scelte amministrative e
fini dell’ente pubblico: Cass., SS.UU., 9 luglio 2008, n.
18757; Cass., SS.UU., 28 marzo 2006, n. 7024; Cass.,
SS.UU., 29 settembre 2003, n. 14488.
La dottrina
D’Auria, Corte dei conti, controllo successivo sulla gestione e
conflitti di attribuzione fra poteri dello stato, in Foro it. 2001,
I, 436; Lupò Avagliano, Pieni poteri alla corte dei conti per il
controllo della spesa pubblica?, in Giur. cost., 1995, 1779.
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PROCESSO AMMINISTRATIVO
RICORSO STRAORDINARIO AL CAPO DELLO STATO
Cassazione Civile, SS.UU., 5 ottobre 2015, n. 19786 Pres. Cicala - Rel. Curzio - P.M. Apice (conf.) - R.S. c.
Ministero dell’Interno - Commissario straordinario del
Governo per il coordinamento delle iniziative Antiracket
ed Antiusura e altri
Contro le decisioni del Consiglio di Stato è ammissibile
il ricorso per Cassazione sia se è invasa la competenza
del legislatore o la discrezionalità amministrativa, sia se
è negata la giurisdizione sull’erroneo presupposto che
la domanda non è oggetto di funzione giurisdizionale?
► Risposta affermativa.
Il caso
Tizio e la Garaventa S.r.l. presentarono istanze al Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle
iniziative antiracket ed usura, volte ad ottenere la concessione di benefici ai sensi della L. n. 108 del 1996 (“Disposizioni in materia di usura”).
Il Commissario straordinario le respinse. Tizio e la società
proposero ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Il Consiglio di Stato espresse il suo parere nel senso che il
ricorso dovesse essere rigettato. Esaminata la normativa di
riferimento e udito il parere del Consiglio di Stato il Presidente della Repubblica respinse il ricorso.
La decisione
Secondo la Cassazione il corretto inquadramento della materia impone di distinguere due problemi: quello della ammissibilità in astratto di un ricorso per cassazione contro il
provvedimento con il quale il Presidente della Repubblica
decide in caso di ricorso straordinario e quello dei limiti di
tale impugnazione.
Il punto di orientamento per la soluzione del primo problema è costituito dall’art. 111 Cost., il quale statuisce che
“contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinali o speciali, è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge” (comma 7), mentre al comma 8, precisa:
“contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei
conti il ricorso per cassazione è ammesso per i soli motivi
inerenti alla giurisdizione”.
Per stabilire se sia ammissibile il ricorso per cassazione
contro il decreto del Presidente della Repubblica che decide sul ricorso straordinario al Capo dello Stato è necessario
accertare se quel decreto sia un atto amministrativo o un
atto giurisdizionale.
La questione, estremamente controversa, sino a pochi anni
fa veniva risolta affermando che si tratta di un provvedimento amministrativo.
Il quadro normativo di riferimento è cambiato all’inizio del
nuovo millennio e ciò ha determinato un ripensamento che
si è espresso nelle sentenze delle sezioni unite.
Le più rilevanti modifiche normative che hanno inciso sui
connotati dell’istituto possono essere così schematizzate.
L’ art. 3, comma 4, L. 21 luglio 2000, n. 205, ha previsto la
tutela cautelare per gravi ed irreparabili danni derivanti dall’esecuzione dell’atto impugnato con ricorso straordinario,
mediante sospensione disposta con atto motivato del mini-
1612
stero competente su parere conforme del Consiglio di Stato. La previsione è inserita in una legge sulla giustizia amministrativa (“Disposizioni in materia di giustizia amministrativa”) e specificamente in un articolo intitolato “disposizioni generali sul processo cautelare”, il che è chiaro indice
della scelta legislativa di considerare il ricorso straordinario
un’articolazione della giustizia amministrativa. Nella stessa
logica, l’art. 15, della medesima legge ha previsto che i pareri del Consiglio di Stato sono pubblici e recano l’indicazione del presidente del collegio e dell’estensore, avvicinando così i pareri alle sentenze.
L’ art. 69, L. 18 giugno 2009, n. 69, che ha riformato sotto
molteplici profili il sistema della giustizia civile, è specificamente dedicato al ricorso straordinario che, nel titolo dell’articolo, viene qualificato rimedio “giustiziale” contro la
Pubblica amministrazione.
Due sono i cambiamenti di rilievo sistematico introdotti
dalla normativa del 2009. Il parere del Consiglio di Stato diviene vincolante, perché il decreto del Presidente della Repubblica deve essere adottato su proposta del Ministro
competente “conforme” al parere del Consiglio di Stato,
mentre in precedenza era possibile una decisione in senso
difforme rispetto al parere, previa delibera del Consiglio dei
Ministri.
Inoltre, è stata espressamente prevista la possibilità per il
Consiglio di Stato di sollevare, in occasione dell’espressione del suo parere, questione di legittimità costituzionale
della normativa da applicare.
Secondo un giudizio ormai largamente condiviso e consolidato queste due modifiche hanno rimosso gli ostacoli più
consistenti all’affermazione della natura giurisdizionale dell’atto.
Il codice del processo amministrativo (D.Lgs. 2 luglio 2010,
n. 104) in più disposizioni si occupa del ricorso straordinario. L’art. 7 del c.p.a. definisce il perimetro delle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa ed, all’ultimo
comma, precisa che il ricorso straordinario è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa. In questo modo il codice riduce l’ambito di applicazione dell’istituto, escludendo ogni possibilità di intervento in sfere di competenza della giurisdizione ordinaria.
Sempre nella medesima logica restrittiva, l’art. 120, comma 1, c.p.a., esclude l’esperibilità avverso gli atti delle procedure di affidamento relative a pubblici lavori servizi o forniture, nonché i connessi provvedimenti dell’Autorità sulla
vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi, forniture; così come l’art. 128, ne esclude l’esperibilità in materia di
contenzioso delle operazioni elettorali.
L’inserimento della disciplina sull’ambito di applicazione
del ricorso straordinario all’interno di una norma intitolata
“giurisdizione amministrativa” è ulteriore indice dell’attrazione dell’istituto nell’area della giurisdizione. Il contenuto
della norma poi conferma che, nel nuovo assetto delineato
dal codice, i due procedimenti, ordinario e straordinario,
costituiscono articolazioni, diverse ed alternative, ma interne al sistema della giurisdizione amministrativa.
Un’ulteriore conferma della natura giurisdizionale si ha nell’art. 48 del c.p.a. in cui si stabilisce che “qualora la parte
nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario
proponga opposizione, il giudizio segue dinanzi al tribunale
amministrativo regionale”. In quel “il giudizio segue” vi è
un segno preciso della omogeneità dei due diversi procedimenti sotto il profilo della natura giurisdizionale del sistema
di cui costituiscono articolazione. Simmetrica riflessione
scaturisce dal comma 3, del medesimo articolo, per il qua-
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Giurisprudenza
Sintesi
le qualora l’opposizione sia inammissibile, il T.A.R. dispone
la restituzione del fascicolo “per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria”.
Acquista poi rilievo il nuovo assetto del giudizio di ottemperanza delineato dal codice del processo amministrativo
agli artt. 112 e 113. La ricostruzione più lineare del sistema
è nel senso che la decisione adottata in sede di ricorso
straordinario trova la sua collocazione sistematica nell’ambito dell’art. 112, comma 2, lett. b), c.p.a., e quindi il ricorso per l’ottemperanza si deve proporre, ai sensi dell’art.
113, comma 1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel
quale si identifica “il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta”. Nelle decisioni che
si sono espresse in tal senso si è sottolineato come “il petitum proposto in sede di ricorso straordinario sia perfettamente equiparabile (e produca lo stesso effetto) ad una domanda giudiziale”.
Su questa soluzione concorda l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen. n. 9 e n. 10 del 2013),
che, componendo un contrasto, ha scelto la tesi che afferma la natura “sostanzialmente giurisdizionale del rimedio e
dell’atto terminale della relativa procedura”, aggiungendo
che non ostano a tale riconoscimento le persistenti peculiarità che il rimedio presenta rispetto all’ordinario processo
amministrativo, con riferimento al perimetro delle azioni
esperibili, alle forme di esplicazione del contraddittorio, alle
modalità di svolgimento dell’istruttoria e al novero dei mezzi di prova acquisibili.
In conclusione, il ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica è “un procedimento di natura giurisdizionale,
con una marcata connotazione di specialità” (Cass.,
SS.UU., 10414 del 2014), connotazione che però, lungi dall’implicare il riconoscimento della natura amministrativa
della procedura e dell’atto che la definisce, risulta coerente
con la volontà di enucleare un rimedio giurisdizionale semplificato, in unico grado, imperniato su sostanziale assenso
delle parti.
I precedenti
Cass., SS.UU., 28 gennaio 2011, n. 2065, 19 dicembre
2012, n. 23464 e 14 maggio 2014, n. 10414.
La dottrina
Sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, Caringella-Protto, Codice del processo amministrativo, sub art.
7, IV ed., Roma, 2015; Morelli, Il ricorso straordinario al presidente della repubblica, Padova, 2010; Gotti, L’adunanza
plenaria si pronuncia sulla natura giuridica del ricorso straordinario al Capo dello Stato e sul giudice competente per l’ottemperanza alla decisione presidenziale di accoglimento, in
Foro amm., 2014, 11.
► Ne consegue il suo difetto di giurisdizione, avendo
denunciato una responsabilità da inadempimento ex lege quale la violazione del dovere di correttezza.
Il caso
Tizio e Caio, premesso di essere stati contattati dalla società NHS (oggi IMI investimenti S.p.a.) ai fine di procedere
ad investimenti in un fondo olandese, convennero la società e la S.p.a. Intesa S. Paolo dinanzi al Tribunale di Torino,
chiedendo la declaratoria di nullità del negozio di investimento e la condanna delle convenute alla restituzione delle
somme versate per violazione delle norme dettate in subiecta materia e per la violazione dell’obbligo di corretta informazione.
Il giudice di primo grado declinò la propria giurisdizione in
favore di quella olandese, con sentenza confermata dalla
Corte di appello, che rilevò, nella specie, l’esistenza di un
accordo originario (c.d. PIA) secondo il quale ogni controversia insorta tra le parti sarebbe stata devoluta alla giurisdizione esclusiva dei Paesi Bassi, e che tutti i successivi
atti di adesione sottoscritti singolarmente richiamavano
espressamente tale previsione quoad iurisdictionis.
La decisione
Secondo la Cassazione il motivo con il quale si lamenta la
erroneità della pronuncia impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il contenuto della clausola di proroga della giurisdizione fosse tale da ricomprendere anche la responsabilità extracontrattuale non ha giuridico fondamento.
Con apprezzamento di fatto scevro da vizi logico-giuridici,
la Corte torinese ha ritenuto, sul piano interpretativo, che
l’ampiezza della clausola di proroga della giurisdizione fosse tale da estendersi a qualsivoglia fattispecie di responsabilità, tanto contrattuale quanto precontrattuale, e cioè tanto nell’ipotesi in cui l’accordo negoziale avesse costituito,
in futuro, il fondamento dell’azione giudiziaria, quanto in
quella in cui l’accordo stesso fosse risultato la occasione
fattuale per l’esercizio di un’azione giudiziaria dovuta al
comportamenti di correttezza e buona fede.
I precedenti
Cass., Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636; Cass., SS.UU., 6
marzo 2015, n. 4628; Cass., Sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260;
Cass., Sez. III, 13 febbraio 2013, n. 3579.
La dottrina
Franzoni, La responsabilità precontrattuale è, dunque, ...
“contrattuale”?, in Contr. e impr., 2013, 283; F. Forte - M.S.
Forte, Regole di correttezza e buona fede durante le trattative: natura della responsabilità precontrattuale, in questa Rivista, 2013, suppl. al n. 11, gli Speciali, 5; Carbone, Obbligazioni ex lege e responsabilità da inadempimento, in questa Rivista, 2014, 2, 169.
GIURISDIZIONE
NULLITÀ DEL NEGOZIO DI INVESTIMENTO
Cassazione Civile, SS.UU., 5 ottobre 2015, n. 19783 Pres. Rovelli - Rel. Travaglino - P.M. Salvato (diff.) - V.G.
e Z.G. c. IMI investimenti S.p.a.
Quali sono le conseguenze se il giudice italiano ha ritenuto, con apprezzamento di fatto scevro da vizi logicogiuridici, che la clausola di proroga della giurisdizione
dei Paesi Bassi si estenda a qualsiasi tipo di responsabilità da inadempimento, sia ex contractu, sia ex lege?
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NOTIFICAZIONE
IMPUGNABILITÀ DELLA CARTELLA ESATTORIALE
Cassazione Civile, SS.UU., 2 ottobre 2015, n. 19704 Pres, Rovelli - Rel. Di Iasi - P.M. Apice (diff.) Rigante G.
S.a.s. c. Equitalia E.TR. S.p.a.
Il contribuente può, ai sensi dell’art. 19, comma 3,
D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, impugnare una cartella
di pagamento invalidamente notificata e conosciuta tra-
1613
Giurisprudenza
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Sintesi
mite l’estratto del ruolo rilasciato su sua richiesta dal
concessionario?
► Risposta affermativa.
Il caso
La società Rigante G. S.a.s. impugnò dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Bari la cartella di pagamento
emessa da Equitalia E.TR. S.p.a. per IVA, sanzioni e interessi in relazione all’anno 2003, deducendo che tale cartella le
era rimasta assolutamente sconosciuta ed assumendo di
essere venuta a conoscenza della relativa obbligazione tributaria soltanto dall’estratto di ruolo rilasciato, su sua richiesta, dalla competente concessionaria della riscossione.
La Commissione Tributaria provinciale di Bari, ritenuto che
solo formalmente l’atto opposto era la cartella, mentre in
realtà l’opposizione riguardava l’estratto di ruolo, ne dichiarò l’inammissibilità essendo l’estratto di ruolo “atto interno
dell’Agente della riscossione”, non rientrante tra quelli tassativamente indicati dall’art. 19, comma 1, D.Lgs. n. 546
del 1992, “. La Commissione Tributaria Regionale della Puglia ha confermato la decisione. In particolare i giudici
d’appello, premesso che nell’atto introduttivo era stata impugnata la cartella in questione per omessa notifica, escludevano che la richiesta al concessionario di copia dell’estratto di ruolo potesse comportare la riapertura dei termini
per impugnare una cartella non tempestivamente opposta,
ancorché per asserito difetto di notifica, e conseguentemente escludevano che potesse essere “oggetto di discussione” la suddetta cartella in quanto non ritualmente opposta. I giudici ribadivano inoltre l’inammissibilità della opposizione anche ove ritenuta diretta avverso l’estratto di ruolo, rilevando che esso, oltre ad essere atto non previsto nel
novero di quelli impugnabili ai sensi dell’art. 19, difetta del
requisito della “coattività della prestazione tributaria ivi
espressa” e quindi della idoneità a costituire provocatio ad
opponendum, senza che sia per ciò solo configurabile violazione del diritto di difesa del contribuente, restando salva
la possibilità di denunciare l’inesistenza della notifica della
cartella in sede di gravame avverso eventuali e specifici atti
realizzativi del credito fiscale.
La decisione
La Cassazione fa chiarezza sul significato da attribuire a
termini come “ruolo” ed “estratto di ruolo”. Il “ruolo” è l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute, formato
dall’ufficio ai fini della riscossione a mezzo del concessionario”.
Il “ruolo” è un atto amministrativo impositivo proprio ed
esclusivo dell’”ufficio competente” quindi “atto” che, siccome espressamente previsto e regolamentato da norme
legislative primarie, deve ritenersi tipico sia quanto alla forma che quanto al contenuto sostanziale.
In quanto titolo esecutivo, il ruolo sottoscritto dal capo dell’ufficio viene consegnato “al concessionario dell’ambito
territoriale cui esso si riferisce”; esso pertanto non solo è
atto proprio ed esclusivo dell’ente impositore ma, nella progressione tra imposizione e riscossione, precede ogni attività del concessionario, della quale costituisce presupposto
indefettibile.
Il concessionario della riscossione redige “in conformità al
modello approvato” “la cartella di pagamento” e provvede
alla “notificazione della cartella di pagamento” al debitore.
L’art. 19, D.Lgs. n. 546 del 1992, elenca tra gli “atti impugnabili” “il ruolo e la cartella di pagamento”, mentre l’art.
1614
21, comma 1, dispone che “la notificazione della cartella di
pagamento vale anche come notificazione del ruolo”.
L’“estratto di ruolo” non è invece specificamente previsto
da nessuna disposizione di legge vigente. Consegnato solo
su richiesta del debitore, costituisce un “elaborato informatico formato dall’esattore sostanzialmente contenente gli
elementi della cartella”, quindi anche gli “elementi” del
ruolo afferente quella cartella.
Emerge così la differenza sostanziale tra “ruolo” ed “estratto di ruolo”: il “ruolo” è un “provvedimento” proprio dell’ente impositore; l’”estratto di ruolo”, invece, è solo un
“documento” formato dai concessionario della riscossione,
che non contiene nessuna pretesa impositiva, diretta o indiretta.
Occorre affrontare la questione della ammissibilità della impugnazione della cartella invalidamente notificata e conosciuta attraverso l’estratto di ruolo. I giudici d’appello hanno escluso l’ammissibilità dell’impugnazione della cartella
di pagamento sul rilievo che la richiesta al concessionario
di copia dell’estratto di ruolo non può comportare la riapertura dei termini per impugnare una cartella non tempestivamente opposta. L’affermazione non è condivisibile perché il contribuente deve poter far valere l’invalidità della
notifica di una cartella della quale sia venuto a conoscenza
oltre i previsti termini di impugnazione.
La giurisprudenza ammettendo l’autonoma ed immediata
impugnabilità di qualsivoglia atto che porti comunque legittimamente a conoscenza del contribuente una pretesa tributaria supera la questione della natura recettizia dell’atto
amministrativo e della sua impugnabilità solo a seguito della notifica al contribuente. Tanto premesso, occorre rilevare
che dopo la riforma del 2005 (L. n. 15/2005) trova espressa
legittimazione il criterio c.d. “della qualità degli effetti”, secondo cui sono recettizi i provvedimenti “limitativi della
sfera giuridica dei privati”.
Gli atti tributari sono invece da sempre considerati atti recettizi. In tali atti pertanto le misure di partecipazione sono
elementi costitutivi dell’efficacia giuridica, per cui l’effetto
giuridico non decorre dalla data di adozione del provvedimento, ma dalla data di avvenuta comunicazione dello
stesso. E indubbiamente la natura recettizia degli atti tributari rende inapplicabile l’istituto della “piena conoscenza”
ai fini del decorso del termine di impugnazione, essendo l’inammissibilità dell’utilizzo di strumenti alternativi o surrogatori al fine di provocare aliunde l’effetto di conoscenza
una delle più rilevanti conseguenze connesse alla natura
recettizia dell’atto, onde l’omessa comunicazione, nei modi
di legge, del provvedimento recettizio, nella specie l’atto
tributario, comporta il mancato decorso dei termini di impugnativa e impedisce che l’atto diventi inoppugnabile,
con pregiudizio per la stabilità dei relativi effetti.
Una lettura costituzionalmente orientata dell’ultima parte
dell’art. 19, comma 3, D.Lgs. n. 546, impone pertanto di ritenere che l’impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato ivi prevista
non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità
della notifica di un atto del quale il destinatario sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non
escluda la facoltà del medesimo di far valere, appena avutane conoscenza, la suddetta invalidità che, impedendo la
conoscenza dell’atto e quindi la relativa impugnazione, ha
prodotto l’avanzamento del procedimento di imposizione e
riscossione, con relativo interesse del contribuente a contrastarlo il più tempestivamente possibile, specie nell’ipote-
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Giurisprudenza
Sintesi
si in cui il danno potrebbe divenire in certa misura non più
reversibile se non in termini risarcitori.
La possibilità per il contribuente di conoscere legittimamente attraverso il c.d. estratto di ruolo le iscrizioni a proprio carico e l’eventuale emissione e notificazione di cartelle potrebbe rappresentare un “correttivo” idoneo a bilanciare il rapporto sperequato tra amministrazione e contribuente soltanto se la conoscenza - attraverso l’estratto di
ruolo - di un atto che il contribuente avrebbe avuto il diritto
di impugnare ne consentisse l’immediata impugnazione,
non certo se al contribuente - che a causa dell’invalidità di
una notifica della quale era onerata l’amministrazione sia
stato espropriato del proprio diritto di accedere alla tutela
giurisdizionale - si continui a negare tale accesso, subordinandolo alla notifica di un ulteriore atto da parte dell’amministrazione, senza considerare che: in alcuni casi potrebbe
anche non esservi un ulteriore atto prima di procedere ad
esecuzione forzata sulla base del ruolo; la possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale da parte del contribuente
sarebbe ancora una volta rimessa alle determinazioni dell’amministrazione circa i modi e i tempi della notifica dell’eventuale atto successivo; nel frattempo aumenterebbe per
il contribuente il pregiudizio connesso alla iscrizione in un
registro di pubblici debitori nei confronti dei quali è stato
avviato un procedimento di esecuzione coatta; tale pregiudizio, nonché quello derivante da un eventuale completamento della esecuzione senza possibilità per il contribuente
di far valere le proprie ragioni dinanzi ad un giudice, potrebbero essere eventualmente fatti valere poi solo coi tempi e i modi di un’azione risarcitoria nei confronti dell’amministrazione.
Né può ritenersi che la riconosciuta impugnabilità del ruolo
e della cartella non (validamente) notificati dei quali il contribuente sia venuto a conoscenza tramite l’estratto di ruolo
espongano ai rischi di dilatazione del contenzioso e rallentamento dell’azione di prelievo, come da taluno paventato.
Quindi si può dire che l’impugnazione della cartella per
mancanza di (valida) notificazione proposta non unitamente alla impugnazione dell’atto successivo notificato non
comporta un aggravio del contenzioso se si considera che
l’impugnazione della cartella, ancorché “ritardata”, interverrebbe in ogni caso al momento della notifica dell’atto
successivo, mentre la proposizione “anticipata” di essa potrebbe evitare l’emissione e la notifica (quindi l’impugnazione) dell’atto successivo e perciò indurre un possibile effetto
deflativo. È però indubbio che anche un eventuale (modesto) incremento del contenzioso non potrebbe giustificare
una compressione del diritto alla tutela giurisdizionale consistente nel posticipare la possibilità di accesso ad essa ad
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un momento successivo al sorgere dell’interesse ad agire e
perciò ad un momento in cui è possibile che alcuni effetti
lesivi dell’atto si siano già prodotti. È infine da escludere
che dalla impugnabilità di un atto nel quale risulti esternata
una ben definita pretesa tributaria possa derivare un “rallentamento” dell’azione di prelievo, che non sia quello
strettamente (e legittimamente) derivante dall’interesse e
dal diritto costituzionalmente presidiato del contribuente di
contrastare la possibilità di un prelievo illegittimo, dovendo
rilevarsi che posticipare il momento in cui il contribuente
può far valere l’illegittimità della pretesa non serve a “sveltire” l’azione di prelievo ma solo ad aumentare il danno derivante da azioni esecutive in ipotesi portate avanti sulla
base di pretese illegittime.
Ne deriva il seguente principio di diritto: “È ammissibile
l’impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia
venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo rilasciato
su sua richiesta dal concessionario, senza che a ciò sia di
ostacolo il disposto dell’ultima parte dell’art. 19, comma 3,
D.Lgs. n. 546 del 1992, posto che una lettura costituzionalmente orientata di tale norma impone di ritenere che la ivi
prevista impugnabilità dell’atto precedente non notificato
unitamente all’atto successivo notificato non costituisca
l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un
atto del quale il contribuente sia comunque legittimamente
venuto a conoscenza e pertanto non escluda la possibilità
di far valere tale invalidità anche prima, nel doveroso rispetto del diritto del contribuente a non vedere senza motivo compresso, ritardato, reso più difficile ovvero più gravoso il proprio accesso alla tutela giurisdizionale quando ciò
non sia imposto dalla stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione”.
I precedenti
Cass., SS.UU., n. 16293 del 2007; Cass., SS.UU., n. 3773
del 2014. Sull’impugnabilità degli atti unilaterali Cass. n.
654 del 2014 e n. 8374 del 2015, ma già SS.UU., n. 19854
del 2004.
La dottrina
Suppa (a cura di), I vizi di notifica degli atti tributari, Milano,
2012; Nicotina, Irregolarità e inesistenza della notifica di atti
tributari sostanziali, in Riv. dir. trib., 2010, I, 847; Bruzzone,
Gli effetti della riforma al codice di rito sulle notifiche degli atti tributari, Corr. trib., 2009, 2672; Placido, Il d.l. n.
223/2006 introduce rilevanti novità in materia di notifica degli atti tributari, in Fisco 1, 2006, 5461.
1615
Giurisprudenza
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Sintesi
Osservatorio - Cassazione
Sezioni Semplici
a cura di Vincenzo Carbone
IMMISSIONI
I DECIBEL NON DETERMINANO L’INTOLLERABILITÀ
DELLE IMMISSIONI
Cassazione Civile, Sez. II, 29 ottobre 2015, n. 22105 Pres. Piccialli - Rel. Matera - P.M. Celeste (conf.) P.E. c.
N.F.
In materia di immissioni, il giudice di merito, nel valutare il superamento dei limiti di tollerabilità, ex art. 844
c.c., è necessariamente vincolato ai parametri fissati
dalle norme speciali a tutela dell’ambiente, come i decibel?
►
Risposta negativa: dette norme possono essere utilizzate solo come punti di riferimento, mentre il giudizio
di intollerabilità delle immissioni va rapportato alla situazione concreta, nel rispetto dei criteri fissati dalla
normativa civilistica.
Il caso
Tizio lamenta la sussistenza, anche nelle ore destinate al riposo, di rumori provenienti dall’abitazione di Caio, e in particolar modo dalla sua lavatrice, posizionata in una stanza
situata al piano superiore rispetto al proprio ed in corrispondenza della camera da letto. Egli chiedeva, pertanto,
che tali rumori fossero fatti cessare o quanto meno ricondotti entro la soglia di tollerabilità, nonché la condanna del
convenuto al risarcimento del danno biologico e morale subito da lui e dai suoi familiari.
La decisione
La Cassazione ha in più occasioni affermato che il limite di
tollerabilità delle immissioni, a norma dell’art. 844 c.c., non
ha carattere assoluto, ma relativo, nel senso che deve essere fissato con riguardo al caso concreto, tenendo conto
delle condizioni naturali e sociali dei luoghi e delle abitudini
della popolazione: il relativo apprezzamento, risolvendosi in
un’indagine di fatto, è demandato al giudice del merito e si
sottrae al sindacato di legittimità, se correttamente motivato ed immune da vizi logici.
È stato altresì puntualizzato che i parametri fissati dalle
norme speciali a tutela dell’ambiente (dirette alla protezione di esigenze della collettività, di rilevanza pubblicistica),
pur potendo essere considerati come criteri minimali di
partenza, al fine di stabilire l’intollerabilità delle emissioni
che li eccedano, non sono necessariamente vincolanti per
il giudice civile che, nello stabilire la tollerabilità o meno dei
relativi effetti nell’ambito privatistico, può anche discostarsene, pervenendo al giudizio di intollerabilità, ex art. 844
c.c., delle emissioni, ancorché contenute in quei limiti, sulla
scorta di un prudente apprezzamento che consideri la particolarità della situazione concreta e dei criteri fissati dalla
norma civilistica. La relativa valutazione, ove adeguata-
1616
mente motivata, nell’ambito dei criteri direttivi indicati dal
citato art. 844 c.c., con particolare riguardo a quello del
contemperamento delle esigenze della proprietà privata
con quelle della produzione, costituisce accertamento di
merito insindacabile in sede di legittimità.
In particolare, il decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri 1° marzo 1991, il quale, nel determinare le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti di tollerabilità in materia di immissioni rumorose, al pari dei regolamenti comunali limitativi dell’attività rumorosa, fissa, quale misura da
non superare per le zone non industriali, una differenza rispetto al rumore ambientale pari a 3 decibel in periodo notturno e in 5 decibel in periodo diurno, persegue finalità di
carattere pubblico ed opera nei rapporti fra i privati e la
P.A. Le disposizioni in esso contenute, perciò, non escludono l’applicabilità dell’art. 844 c.c., nei rapporti tra i privati
proprietari di fondi vicini.
Nella specie, la Corte d’Appello, sulla base della risultanze
della consulenza tecnica d’ufficio, ha accertato che la lavatrice, quando lavorava a pieno carico e nella fase di centrifuga, superava il rumore di fondo di 3,5 decibel nelle ore
diurne e di 4,5 nelle ore notturne, e ha dato atto che tali valori risultano superiori a quello di 3 decibel del rumore di
fondo, normalmente individuato dalla giurisprudenza quale
limite di tollerabilità delle immissioni rumorose. Essa, tuttavia, ha evidenziato che l’attore non ha provato una frequenza particolarmente intensa nell’uso dell’elettrodomestico né che i lavaggi avvenissero in orario notturno e di riposo pomeridiano; e, valutate tutte le circostanze del caso
concreto è pervenuta alla conclusione secondo cui un rumore superiore di 3,5 rispetto al rumore di fondo, che si
protrae per cinque - dieci minuti (il tempo della centrifuga)
al giorno in orari non destinati al riposo e, presumibilmente, non più di una volta al giorno, non può essere ritenuto
obiettivamente intollerabile.
Ciò posto e atteso che, avendo la Corte territoriale escluso
che la lavatrice sia stata usata in orari notturni, viene in
considerazione solo il rumore di 3,5 decibel rilevato in orario diurno, si osserva che, poiché tale valore non risulta superiore alla soglia massima di rumorosità fissata dalle norme speciali (5 decibel in orario diurno), il giudice di merito
ben poteva valutare, sulla base di un prudente apprezzamento che tenesse conto della peculiarità della specifica
fattispecie, se si fosse o meno in presenza di immissioni intollerabili.
Il giudizio espresso nella sentenza impugnata circa la non
intollerabilità delle immissioni in questione, pertanto, essendo sorretto da una motivazione immune da vizi logici e
giuridici, si sottrae alle censure mosse dal ricorrente.
I precedenti
Cass. 25 agosto 2005, n. 17281; Cass. 3 agosto 2001, n.
10735; Cass. 6 giugno 2000, n. 7545; Cass. 12 febbraio
2000, n. 1565; Cass. 11 novembre 1997, n. 11118. Sull’i-
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Giurisprudenza
Sintesi
napplicabilità del limite dei decibel, Cass. 1° febbraio 2011,
n. 2319; Cass. 3 agosto 2001, n. 10735.
La dottrina
Gerbi, Immissioni intollerabili: qualificazione e quantificazione
del danno risarcibile, in Danno e resp., 2014, 1177; Tammaro, Prova e danno nelle immissioni - Dalla fattispecie alla tutela giudiziaria, Padova, 2014; Muratori, Rumore autostradale e criterio della normale tollerabilità ex art. 844 c.c., in Ambiente, 2014, 697; Spina, Le immissioni intollerabili nella recente giurisprudenza di legittimità, in Ambiente, 2013, 732;
Rinaldi, Sul risarcimento del danno morale da immissioni
acustiche, in Riv. nel diritto, 2013, 1039: Muratori, Inquinamento acustico: meno decibel in discoteca, in Ambiente,
1997, 962.
SOCIETÀ
LIQUIDAZIONE DEI COMPENSI AGLI AMMINISTRATORI
Cassazione Civile, Sez. V, 28 ottobre 2015, n. 21953 Pres. Piccininni - Rel. Olivieri - P.M. Zeno (conf.) - Agenzia delle Entrate c. Veca S.r.l.
In materia societaria il vizio di invalidità della delibera
assembleare di approvazione del bilancio, assunta in
violazione dell’art. 2389 c.c., non riconducibile né alla
invalidità-annullabilità (art. 2377, comma 2, c.c.), né alla
invalidità-nullità (art. 2379 c.c.), va ricondotto alla nullità generale (art. 1418, comma 1, c.c.) per contrarietà a
norma imperativa, avendo, la disciplina di cui all’art.
2389 c.c., natura imperativa ed inderogabile?
► Risposta affermativa.
Il caso
VECA S.r.l., portava in deduzione nell’esercizio di competenza relativo all’anno 2003 i costi sostenuti per il pagamento dei compensi ad alcuni componenti del Consiglio di
amministrazione, fatturati da tre società del Gruppo di imprese per conto delle quali dette persone fisiche avevano
svolto l’incarico. L’Ufficio di Viareggio con avviso di accertamento recuperava a tassazione IRPEG ed IVA tali costi,
ritenuti indeducibili in quanto non determinati nello Statuto
né deliberati preventivamente dall’assemblea di VECA S.r.l.
in violazione dell’art. 2389 c.c., e dunque da considerarsi
“non certi nell’esistenza e neppure obiettivamente determinabili” come richiesto dall’art. 75 (attuale art. 109) TUIR e
dall’art. 19, d.P.R. n. 633 del 1972.
La Commissione tributaria provinciale di Lucca, adita con
ricorso proposto dalla società contribuente, annullava l’atto
impositivo. La Commissione tributaria della regione Toscana, confermava la decisione di primo grado, rigettando
l’appello principale dell’Agenzia delle Entrate e l’appello incidentale della società.
I giudici di secondo grado rilevavano che non vi erano impedimenti alla determinazione “ex post” del compenso degli amministratori disposta con la delibera assembleare di
approvazione del bilancio di chiusura dell’esercizio.
La decisione
Secondo la Cassazione, essendosi costituita la contribuente nella forma della società a responsabilità limitata, l’Ufficio finanziario, contestando la violazione dell’art. 2389 c.c.,
(nella interpretazione che di tale norma ha fornito la Cassa-
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zione con la sentenza SS.UU. 29 agosto 2008, n. 21933)
ha ritenuto applicabile alla fattispecie la disciplina normativa delle società vigente nell’anno 2003, cui si riferiva la
spesa sostenuta dalla contribuente, ed in relazione alla normativa previgente ha, infatti, svolto le proprie difese criticando la statuizione del giudice tributario, risultando pertanto irrilevante “ratione temporis” la sopravvenuta inapplicabilità dell’art. 2389 c.c., alle società a responsabilità limitata e dovendo, quindi, ritenersi assoggettata la delibera di
approvazione del bilancio di esercizio 2003 con contestuale
determinazione dei compensi degli amministratori esclusivamente alla “relativa disciplina statutaria e di legge vigente alla data del 31 dicembre 2003”, ai sensi dell’art. 223
bis, comma 3, disp. att. c.c.
La violazione dell’art. 2389 c.c., inficia invece in modo insanabile la validità della delibera assembleare di approvazione del bilancio nella parte in cui approva la determinazione
dei compensi degli amministratori, liquidati con fatture
emesse dalle società “designanti” nel corso dell’anno 2003
attesa la interpretazione che di tale norma ha fornito la
Cassazione nella sent. n. 21933/2008.
La esigenza di una espressa previsione statutaria o di una
specifica delibera assembleare avente ad oggetto la determinazione dei compensi degli amministratori, nel regime
normativo antevigente la riforma del D.Lgs. n. 6 del 2003,
è stata, infatti, ritenuta funzionale a garantire la piena trasparenza e la previa conoscenza di tutti i soci della relativa
voce di spesa, in quanto elemento essenziale del rapporto
fiduciario che presiede all’affidamento dell’incarico di amministrazione, esigenza che si ritiene soddisfatta soltanto
attraverso la previsione di una specifica manifestazione volitiva dell’assemblea dei soci diretta alla assunzione dell’onere patrimoniale connesso al funzionamento dell’organo
di direzione della società. Ne segue che debbono essere
sanzionati con la invalidità gli atti degli organi societari diversi dalla delibera della assemblea, così come la delibera
assembleare assunta in modo difforme dalla previsione
dell’art. 2389 c.c., in quanto avente ad oggetto questioni
estranee alla attribuzione dei compensi agli amministratori,
come nel caso di specie, in cui la liquidazione delle somme
da erogare agli amministratori sia meramente indicata in
una delle voci di spesa del bilancio di chiusura esercizio
presentato alla approvazione dell’assemblea.
Il vizio di invalidità (limitato alla determinazione dei compensi) della delibera assembleare di approvazione del bilancio assunta in violazione dell’art. 2389 c.c., non deve ricondursi nella categoria del vizio di invalidità - annullabilità ex
art. 2377, comma 2, c.c., (che può essere opposto soltanto
dai soggetti legittimati, ed è suscettibile di convalida), né in
quella del vizio di invalidità - nullità ex art. 2379 c.c., concernente la “impossibilità od illiceità dell’oggetto” (che può
essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile anche d’ufficio), ma nella nullità generale di cui all’art. 1418, comma 1, c.c., per contrarietà a norma imperativa, in quanto la disciplina di cui all’art. 2389 c.c., (dettata
in continuità con l’orientamento legislativo tradizionale, risalente all’art. 154, n. 4 del codice di commercio del 1882)
ha certamente natura imperativa e inderogabile, sia perché, in generale, la disciplina della struttura e del funzionamento delle società regolari sono dettate (anche) nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività commerciale e industriale del Paese, sia perché, in particolare,
la loro violazione, in particolare la percezione di compensi
non previamente deliberati dall’assemblea, era prevista dall’art. 2630, comma 2, c.c., n. 1, (abrogato dall’art. 1, D.Lgs.
1617
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Sintesi
11 aprile 2002, n. 61) come delitto che non poteva certo
essere scriminato dalla approvazione del bilancio successiva alla consumazione. È pertanto evidente che la violazione
dell’art. 2389 c.c., sul piano civilistico, dà luogo a nullità
degli atti di autodeterminazione dei compensi da parte degli amministratori per violazione di norma imperativa, nullità che, per il principio stabilito dall’art. 1423 c.c., non è suscettibile di convalida, in mancanza di una norma espressa
che disponga diversamente.
La oggettiva distinzione della delibera assembleare di determinazione dei compensi rispetto a quella di approvazione di bilancio trova, peraltro, diretto riscontro nell’art.
2364, comma 1, c.c., che contempla separatamente, rispettivamente al n. 1) ed al n. 3), le due distinte materie riservate alla competenza esclusiva della assemblea ordinaria dei soci.
La determinazione del compenso/corrispettivo per lo svolgimento di incarichi di amministrazione nella società di capitali, nel caso in cui non sia prestabilita nell’atto costitutivo ovvero in apposita delibera dell’assemblea, non può evidentemente essere compiuta unilateralmente dal creditore,
ma richiede necessariamente - in base a norma imperativa
- il consenso manifestato dalla società mediante una formale deliberazione dell’assemblea dei soci, essendo irrilevante al riguardo il “fatto compiuto” della appostazione in
bilancio degli importi fatturati, atteso il vizio di nullità insanabile del consenso sul quantum del compenso prestato
con la delibera assembleare di approvazione del bilancio,
non conforme alla prescrizione dell’art. 2389 c.c.
I precedenti
Cass., SS.UU., 29 agosto 2008, n. 21933, in Foro it., 2008,
I, 3544, in Dir. prat. soc., 2008, 20, 46, con nota di Romolotti; Cass., Sez. lav., 7 luglio 2011, n. 14963, in Giur. it.,
2012, 1074, in Giur. comm., 2013, II, 19, con nota di Tina.
La dottrina
Gobbo, Il compenso degli amministratori: delibere implicite
e approvazione del bilancio, in Giur. comm., 2010, II, 361;
Chiozzi, Delibere implicite e compenso degli amministratori,
in Vita not., 2009, 691; Petrazzini, Compenso degli amministratori e assemblea sociale: l’intervento delle sezioni unite,
in Giur. it., 2009, 1183; Asaro, La liquidazione del compenso
agli amministratori senza espressa deliberazione dell’organo
assembleare, in Riv. dott. commercialisti, 2008, 1219; Bei,
Sulle delibere implicite, con particolare riferimento al compenso degli amministratori, in Società, 2009, 28.
FAMIGLIA
ASSEGNO DI DIVORZIO
Cassazione Civile, Sez. VI-1, 23 ottobre 2015, n. 21670
– Pres. Dogliotti - Rel. Genovese - G.D. c. C.C.
Se in ordine all’assegno divorzile, l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sostentamento per ragioni
obiettive rappresenta ipotesi non già alternativa, ma
meramente esplicativa rispetto a quella della mancanza
assoluta di mezzi, ne deriva che l’accertamento della relativa capacità lavorativa deve essere compiuto non
nella sfera dell’ipoteticità o dell’astrattezza, bensì quella dell’effettività e della concretezza?
1618
► Risposta affermativa: si deve tenere conto di tutti gli
elementi soggettivi ed oggettivi del caso concreto in
rapporto ad ogni fattore economico-sociale, individuale,
ambientale, territoriale.
Il caso
La Corte d’Appello di Brescia ha parzialmente accolto l’impugnazione proposta dalla signora Caia contro la sentenza
del Tribunale di Mantova, disponendo che l’ex coniuge versi un assegno divorzile mensile di € 1.000.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello ha proposto ricorso il marito.
Il coniuge ha resistito con controricorso.
La decisione
La Cassazione si è già espressa sul punto sostenendo che
in tema di attribuzione dell’assegno di divorzio, di cui all’art. 5, L. 1° dicembre 1970, n. 898, modificato dall’art. 10,
L. 6 marzo 1987, n. 74, l’impossibilità di procurarsi mezzi
adeguati di sostentamento per ragioni obiettive costituisce
ipotesi non già alternativa, ma meramente esplicativa rispetto a quella della mancanza assoluta di tali mezzi.
Si deve, pertanto, trattare di impossibilità di ottenere mezzi
tali da consentire il raggiungimento non già della mera
autosufficienza economica, ma di un tenore di vita sostanzialmente non diverso rispetto a quello goduto in costanza
di matrimonio, onde l’accertamento della relativa capacità
lavorativa va compiuto non nella sfera della ipoteticità o
dell’astrattezza, bensì in quella dell’effettività e della concretezza, dovendosi, all’uopo, tenere conto di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi del caso di specie in rapporto
ad ogni fattore economico - sociale, individuale, ambientale, territoriale.
Il ricorrente nulla indica in ordine alle concrete capacità lavorative o di impiego che la moglie, già avanti con l’età e
già occupata, potrebbe ricavare per migliorare il suo attuale provento da lavoro, onde possano imputarsi ad essa le
conseguenze dell’altrimenti inesigibile prova negativa della
possibilità (così solo astratta ed ipotetica) di procurarsi
maggiori mezzi di sostentamento.
Secondo la Cassazione il ricorso del marito deve essere rigettato in quanto incombe al marito, in via di eccezione,
l’onere di provare che la moglie avrebbe la possibilità concreta di esercitare un’attività lavorativa a lei confacente ma
tale onere non è stato adempiuto (se non genericamente, e
perciò inefficacemente, oltre che inammissibilmente, nella
memoria conclusionale, allegando” una generica capacità
di “interpretariato” della ex moglie, che non si sa neppure
di che genere e con quali possibilità di incrementare quanto la stessa già percepisca con il suo attuale lavoro).
I precedenti
Corte cost. 11 febbraio 2015, n. 11; Cass., Sez. I, 20 marzo
2014, n. 6562, in Foro it., 2014, I, 1496; Cass., Sez. I, 10
febbraio 2014, n. 2948, Guida dir., 2014, 13, 78, con nota
di Fiorini.
La dottrina
Sull’assegno post-matrimoniale, Sesta, Manuale di diritto di
famiglia, VI ed., Milano, 2015, 183 ss.; Bonilini, in Basini Bonilini - Confortini, Codice di famiglia, minori, soggetti deboli, Milano, 2014, II, 4276 ss.; Ricci Palopoli, Presupposti e
determinazione dell’assegno divorzile, in Famiglia, persone e
successioni, 2010, 592.
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Giurisprudenza
Sintesi
DIRITTO DEL LAVORO
DIFFERENZE TRA RETRIBUZIONE E RIMBORSO SPESE
Cassazione Civile, Sez. lav., 20 ottobre 2015, n. 21249 Pres. Macioce - Rel. Buffa - P.M. Sanlorenzo (conf.) Fiat Auto S.p.a. c. C.F.
Se il rimborso spese è corrisposto in misura non predeterminata, fissa e continuativa, ma in modo variabile ed
in relazione alle spese sostenute dal dipendente, può
rientrare nella retribuzione?
► Risposta negativa della Sezione lavoro.
Il caso
Mevio evocava in giudizio innanzi al Tribunale di Torino la
Fiat Auto S.p.a. esponendo di essere stato formalmente assunto il 1° marzo 1992, ma di aver di fatto lavorato fin dal
1° giugno 1984 alle dipendenze della stessa, presso le sue
consociate estere, e di aver sempre prestato la propria attività lavorativa all’estero e di essere rientrato dalla Cina il 18
giugno 2004. Il rapporto di lavoro si era risolto per mutuo
consenso il 31 agosto 2004, ma non aveva percepito il
T.F.R. nel giusto importo e non aver percepito nella giusta
misura l’indennità di prima sistemazione. Pertanto, affermava di aver dir itto alla c omplessiva somma di €
702.177,42 e ne chiedeva la condanna della società convenuta.
Il Tribunale ha riconosciuto il diritto all’inclusione nella base
di calcolo del T.F.R. del trattamento estero, del rimborso
tasse cinese e benefit auto in Cina, Turchia e Brasile. Ha
quindi ritenuto l’imputabilità al T.F.R. complessivamente
dovuto dalla Fiat delle somme erogate al lavoratore al termine del periodo di distacco in Brasile dal Fundo de Garantia do Tempo de Servicio sulla base delle norme di diritto
brasiliano.
La Corte d’Appello di Torino ha riformato la sentenza di primo grado proprio su tale ultimo punto, negando l’imputazione in quanto il trattamento del Fundo trova fondamento
e causa nella cessazione di un rapporto di lavoro intercorso
con società brasiliana, e risponde a disciplina dettata con
carattere pubblicistico dal diritto brasiliano. La Corte ha
quindi condannato la Fiat a pagare al lavoratore la somma
di euro 98.103,51.
La decisione
La Fiat lamenta una indebita duplicazione della corresponsione del tfr e delle somme erogate dal Fundo: a fronte di
un rapporto lavorativo unico, le somme retributive percepite in Brasile hanno prima costituito base di calcolo per accantonamenti effettuati presso il Fundo dalla Fiat brasiliana
e successivamente per gli accantonamenti effettuati in Italia dalla Fiat italiana.
In realtà, il lavoratore si avvale di benefici derivanti da due
istituti - simili ma non identici - previsti da due ordinamenti
distinti.
La corte territoriale ha rilevato che il FGTS è istituto di diritto brasiliano di diritto pubblico che, sulla base della contribuzione obbligatoria dei datori, eroga ai lavoratore una
somma vincolata alla cessazione del rapporto e che le relative prestazioni vanno distinte da quelle proprie del TFR. Il
rilievo è pertinente, atteso che la prestazione corrisposta
dal Fundo ed il TFR disciplinato dalle norme italiane sono
istituti diversi, con aliquote contributive diverse e con im-
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porti di ammontare differente, e sono regolati da ordinamenti diversi e quindi disciplinati da fonti normative distinte e congiuntamente applicabili, sulla base del criterio territoriale.
Con riferimento all’emolumento corrisposto al lavoratore,
questo non è stato pagato dalla società estera dei gruppo
Fiat, ma da un soggetto pubblico qual è il Fundo, del tutto
estraneo alla compagine societaria del ricorrente.
Non si vede come la Fiat possa invocare una compensazione del proprio debito verso il lavoratore con quanto a quest’ultimo è stato erogato da un terzo in forza di un titolo
specifico di natura pubblicistica correlato al rapporto di lavoro con la società brasiliana.
Né il pagamento da soggetto diverso può riguardarsi come
adempimento parziale del terzo (la consociata brasiliana) di
obbligo altrui (relativo al pagamento del TFR), trattandosi
come detto di istituto straniero avente carattere pubblicistico sulla base del quale, sulla base dei contributi versati dalla consociata estera, un soggetto pubblico eroga un trattamento di fine rapporto a lavoratore che ha svolto per dato
periodo servizio all’estero, a prescindere dal titolo di tale
servizio.
Il trattamento economico aggiuntivo (cosiddetta indennità
estero) corrisposto al lavoratore che alle dipendenze di datore di lavoro italiano presti la sua opera all’estero può - in
base alle particolari pattuizioni che lo prevedono ed alla
stregua delle circostanze del caso concreto - avere sia natura riparatoria, assolvendo la funzione risarcitoria delle
maggiori spese connesse alla prestazione lavorativa all’estero, sia natura retributiva, assolvendo la funzione compensativa del disagio ovvero della professionalità propria di
detta prestazione lavorativa sia, infine, natura composita (o
mista).
Deve ritenersi che la corresponsione di una determinata
somma con continuità, quale rimborso di spese necessarie
incontrate dal lavoratore per svolgere la propria attività e
quindi, sia pur indirettamente, per adempiere agli obblighi
della prestazione lavorativa contrattuale, costituisce in genere elemento sufficiente a far ritenere il carattere retributivo di siffatta erogazione, in quanto corrispettivamente collegato con la prestazione lavorativa, svolgendo siffatta erogazione una funzione di salvaguardia della retribuzione, e
cioè di adeguamento di questa alle maggiori spese in considerazioni delle condizioni ambientali in cui il lavoratore,
dislocato all’estero, presta fa sua attività. Per contro, il rimborso spese ha natura riparatoria e costituisce una reintegrazione di una diminuzione patrimoniale, conseguente ad
una spesa che il lavoratore sopporta nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, tenuto perciò a riparare la lesione
subita, ed è normalmente collegato ad una modalità della
prestazione lavorativa, richiesta per esigenze straordinarie,
che trova fondamento in una causa autonoma rispetto a
quella della retribuzione: le erogazioni effettuate dal datore
di lavoro hanno la natura di rimborso di spesa precisamente quando, non rivestendo i suddetti caratteri della continuità e determinatezza (o determinabilità), consistono nella
reintegrazione di somme effettivamente spese dal dipendente medesimo nell’interesse dell’imprenditore e non attinenti, perciò, all’adempimento degli obblighi impliciti nella
prestazione lavorativa, cui egli è contrattualmente tenuto.
Nel caso, la corte territoriale ha evidenziato che l’elemento
in discorso è corrisposto in misura non predeterminata, fissa e continuativa, ma in modo variabile ed in relazione alle
spese sostenute dal dipendente: conseguentemente, la
corte territoriale ha ritenuto la natura di rimborso spese,
1619
Giurisprudenza
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Sintesi
come tale escluso dalla base di calcolo del TFR per espressa previsione.
La valutazione, secondo la Cassazione, è corretta, atteso
che nella specie non si trattava di erogazione determinata
in misura fissa e predeterminata, ma di un rimborso spese
quantitativamente determinato sulla scorta dei giustificativi
documentali dei costi effettivamente sostenuti, ed il lavoratore non ha provato il contrario.
I precedenti
Sulla territorialità dell’obbligo contributivo, Cass., Sez. lav.,
25 settembre 2012, n. 16244, in Orient. giur. lav., 2012, I,
693; Cass., Sez. lav., 1° settembre 2014, n. 18479.
Sul contributo alloggio, Cass., Sez. lav., 2 marzo 2005, n.
4341, in Not. giur. lav., 2005, 684, su altri contributi, Cass.,
Sez. lav., 19 novembre 2001, n. 14470, in Foro it., 2002, I,
399, in Mass. giur. lav., 2002, 5, con nota di Maretti, in
Arch. civ., 2002, 570.
La dottrina
Rausei, Rimborsi spese nel libro unico del lavoro: chiarimenti
ministeriali, in Dir. prat. lav., 2010, 1867; Petrucci, Natura
del rimborso forfetario di spese sostenute nell’interesse del
datore di lavoro, in Giur. piemontese, 2005, 51.
La decisione
Secondo la Cassazione la Corte d’Appello non ha violato i
principi in tema di responsabilità medica ed in particolare
in tema di ripartizione dell’onere della prova in caso venga
prospettata una ipotesi di responsabilità (contrattuale) medica: essa ha positivamente accertato l’esistenza del nesso
causale tra la vaccinazione e il danno riportato dalla paziente (sulla cui entità non si è svolto peraltro un approfondimento istruttorio) ma ha poi escluso, sulla base di un accertamento in fatto fondato motivatamente sulle risultanze
delle consulenze tecniche, in particolare della prima, che
alcuna responsabilità colposa gravasse sulla dottoressa
che ha eseguito la vaccinazione, la quale si è attenuta ai
protocolli nella localizzazione dell’iniezione e nelle modalità
della sua esecuzione, né era tenuta, trattandosi di una pratica ruotinaria ad eseguire altri e più complessi accertamenti preventivi
In difetto di colpa in capo all’autrice della vaccinazione
(neppure la ricorrente del resto ha allegato una manovra
errata, ascrivibile alla dottoressa, che avrebbe provocato il
dolore), il verificarsi dell’evento dannoso è stato ricondotto
dalla corte territoriale al caso fortuito, ovvero all’andamento variabile e talvolta imprevedibile del nervo circonflesso,
come accertato dalla consulenza, che ha ricondotto all’esterno della sfera di controllo e di prevedibilità della professionista che ha effettuato l’intervento routinario.
I precedenti
RESPONSABILITÀ MEDICA
Cass., Sez. III, 31 luglio 2013, n. 18341, in Contratti, 2014,
139, con nota di Putignano, in Gazzetta forense, 2013, 6,
21; Cass., Sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22222.
VACCINAZIONI E LESIONI PERMANENTI
La dottrina
Cassazione Civile, Sez. III, 20 ottobre 2015, n. 21177 –
Pres. Salmè - Rel. Barreca - P.M. Soldi (conf.) - P.F. c.
Allianza S.p.a. e Asl
Carbone, La responsabilità del medico pubblico dopo la legge Balduzzi, in Danno e resp., 2013, 367; Mariotti - Serpetti
- Caminiti - Ferrario, Responsabilità medica, Milano, 2014;
De Luca, La nuova responsabilità del medico dopo la legge
Balduzzi, Roma 2012, 26; Franzoni, Dalla colpa grave alla
responsabilità professionale, Torino, 2011, 55 ss.; Camera,
Legislazione sanitaria, Roma, 2013, 31 ss.
Se la vaccinazione è una pratica abitudinaria in ambito
sanitario, per cui il medico che la esegue non è tenuto a
svolgere ulteriori e più approfonditi accertamenti, risponde il medico ove sia accertato il nesso di causalità
tra la lesione permanente subita dal paziente e la somministrazione del vaccino?
► Va escluso il risarcimento se il medico ha eseguito
l’iniezione intramuscolare in conformità al protocollo,
sia per quanto concerne la localizzazione che per le modalità operative.
Il caso
Nel 1997 Mevia conveniva in giudizio dinanzi al Pretore di
Torre Annunziata la ASL per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti a seguito della cattiva esecuzione di
una iniezione intramuscolare finalizzata alla vaccinazione
obbligatoria antitifica, dalla quale assumeva di aver riportato postumi permanenti. La ASL chiamava in giudizio la sua
compagnia assicuratrice, Lavoro e Sicurtà S.p.a. e la dottoressa che aveva eseguito l’iniezione. Nel 2003 il Tribunale
di Torre Annunziata rigettava la domanda. Nel 2011 la Corte d’Appello di Napoli rigettava l’appello di Mevia, affermando che, benché potesse ritenersi provato che l’iniezione aveva toccato e danneggiato il nervo circonflesso, nessuna responsabilità fosse ascrivibile al medico vaccinatore
e per esso alla ASL avendo il medico somministrato il vaccino in maniera tecnicamente corretta e avendo il predetto
nervo un andamento variabile da individuo ad individuo.
1620
LOCAZIONI E CONDOMINIO
SPESE CONDOMINIALI PAGATE CON BONIFICO BANCARIO
Cassazione Civile, Sez. II, 14 ottobre 2015, n. 20786 Pres. Mazzacane - Rel. Falaschi - P.M. Celeste (diff.) Alcor investiment consulting S.r.l. c. Condominio via C.
A. Milano
Sono dovuti gli interessi di mora sulle quote condominiali pagate a mezzo bonifico bancario, qualora il pagamento sia avvenuto prima delle relativa data di scadenza ma l’accredito sia pervenuto successivamente alla
stessa?
► Risposta negativa in quanto l’esecuzione della pre-
stazione non va riferita all’accredito del versamento sul
conto corrente del condominio, che riguarda la disciplina del rapporto bancario, cui il condomino è estraneo.
Il caso
Con ricorso ex art. 1137 c.c. notificato il 17 ottobre 2001 la
condomina Alcor investiment consulting S.r.l. evocava, dinanzi al Tribunale di Milano, il Condominio, chiedendo -
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Giurisprudenza
Sintesi
previa sospensione dell’efficacia - l’annullamento della delibera assembleare del 27 giugno 2001 per erronea imputazione delle spese condominiali e per incompleta e carente
verbalizzazione della discussione avvenuta sulle questioni
poste all’ordine del giorno, ordinando all’amministratore
del Condominio di effettuare nuovamente i conteggi, dichiarando non dovuti gli interessi moratori applicati, con
conseguente restituzione delle somme indebitamente ricevute.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del Condominio, il Tribunale, respingeva le domande della ricorrente. La
Corte di appello di Milano, nella resistenza dell’appellato,
respingeva il gravame.
A sostegno della decisione la corte territoriale - premesso
che l’appellante era divenuta proprietaria di appartamento
nel 16 marzo 2001 ed aveva impugnato la delibera assembleare del 27 giugno 2001, cui la stessa non aveva
preso parte, lamentando l’addebito di spese ingiustificate
sia perché riferibili a periodo anteriore al suo subentro
nella proprietà del bene e sia perché già saldati dalla precedente proprietaria - evidenziava che per la regolarità del
verbale assembleare non erano necessarie particolari formalità, purché si tenesse conto di tutte le attività svolte,
tramite la verbalizzazione. Aggiungeva che nella specie
aveva trovato corretta applicazione l’art. 63, comma 2,
disp. att. c.p.c., giacché la natura solidale dell’obbligazione di pagamento fra il condomino acquirente ed il condomino precedente comportava che il Condominio avesse
titolo per rivalersi per l’intero nei confronti di uno solo dei
soggetti coobbligati. Quanto poi agli interessi di mora, il
ritardo nel pagamento dei quattro ratei risultava dall’estratto di conto corrente.
La decisione
La questione della debenza degli interessi di mora era stata
prospettata già al primo giudice ed è stata riproposta da-
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vanti alla corte distrettuale con l’impugnazione per erronea
valutazione della effettiva consistenza della posizione debitoria. La corte di merito, nel riconoscere detta voce di debito, ha argomentato il suo convincimento sul presupposto
che per il pagamento delle quote condominiali a mezzo di
bonifico bancario, la valuta di addebito, per l’ordinante,
corrisponde alla data di esecuzione del pagamento, mentre
per il beneficiario la valuta di accredito è in funzione del tipo di disposizione dei tempi di esecuzione concordati con
la banca del correntista creditore; ha poi concluso gravando il debitore delle ricadute connesse alla disciplina dei servizio di incasso crediti, noto come MAV, prescelto dallo
stesso Condominio.
Ne consegue che la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei principi a fondamento della responsabilità del debitore posto che, come osservato dalla ricorrente, dalle quietanze di pagamento i versamenti risultavano avvenuti prima delle rispettive date di scadenza. Infatti,
pur avendo dato atto analiticamente di tutti i presupposti
necessari ai fini del saldo dei ratei, la sentenza impugnata
nell’applicare il principio di esatto adempimento, ha erroneamente riferito la data di esecuzione della prestazione a
quella di accredito del versamento sul conto corrente intestato al Condominio, senza tenere conto che questo ulteriore aspetto attiene alla disciplina del rapporto bancario,
cui la debitrice è estranea.
La dottrina
Sul destinatario del pagamento, creditore, rappresentante
o banca, Damiani, Destinatari del pagamento, in Comm. al
cod. civ. diretto da Gabrielli, sub art. 1188, Milano, 2012,
449 ss. Sulla mora ex re, Sicchiero, Costituzione in mora, in
Comm. citato sub art. 1219, 49 ss., specie 95. Sugli interessi nelle obbligazioni pecuniarie, Colombo, Interessi nelle obbligazioni pecuniarie, in Comm. citato sub art. 1282, 29 ss.
1621
Giurisprudenza
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Sintesi
Osservatorio - Cassazione
Contrasti giurisprudenziali
a cura di Giacomo Travaglino
CONTRASTI TRA SEZIONI SEMPLICI
PRONUNZIA DELLA SENTENZA PRIMA DELLA SCADENZA
DEI TERMINI
La sentenza deliberata anteriormente alla scadenza dei
termini ex art. 190 c.p.c., è automaticamente affetta da
nullità?
L’orientamento negativo
La III Sez. civ., con la sent. n. 7086 del 9 aprile 2015
(Pres. Carleo, Est. Cirillo), ha ritenuto che la pronuncia la
cui deliberazione risulti anteriore alla scadenza dei termini
ex art. 190 c.p.c. (nella specie, i termini previsti per il deposito delle memorie di replica), non possa dirsi affetta, ipso
facto, da nullità insanabile, essendo viceversa necessario,
da parte dell’interessato, dimostrare la lesione concretamente subita in conseguenza della denunciata violazione
processuale, evidenziando, in particolare, le argomentazioni difensive - contenute nello scritto non esaminato dal giudice - la cui omessa considerazione avrebbe avuto ragionevoli probabilità di determinare una decisione diversa da
quella effettivamente assunta.
Il principio di diritto così affermato è sostanzialmente conforme a quello che si legge nella sent. n. 4020 del 23 febbraio 2006, a mente della quale la mancata assegnazione
alle parti del termine per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie, o la pronunzia della sentenza
prima della scadenza dei termini già assegnati, previsti dall’art. 190 c.p.c., non sono di per sé causa di nullità della
sentenza stessa, essendo indispensabile, perché possa dirsi violato il principio del contraddittorio, che la irrituale conduzione del processo abbia prodotto in concreto una lesione del diritto di difesa. A tal fine, la parte deve dimostrare
che l’impossibilità di assolvere all’onere del deposito delle
comparse conclusionali e delle memorie di replica ha impedito alla difesa di svolgere ulteriori e rilevanti aggiunte o
specificazioni a sostegno delle proprie domande e/o eccezioni rispetto a quanto già indicato nelle precedenti fasi del
giudizio.
L’orientamento positivo
Altro ed opposto indirizzo - rispetto al quale la decisione
segnalata si pone in consapevole contrasto, in ragione della affermata necessità di salvaguardare il principio costituzionale della durata ragionevole del processo - è invece seguito da altra parte della stessa giurisprudenza di legittimità, affermativa dello speculare principio secondo il quale il
mancato rispetto dei termini per deposito degli scritti conclusivi costituisce, di per sé, causa di nullità della sentenza:
secondo Cass., Ord., n. 7760 del 5 aprile 2011 difatti, ove
il giudice di appello abbia deciso la causa senza assegnare
alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ciò si traduce in nullità della
1622
sentenza, e tale nullità - comportando il mancato esercizio
del diritto di difesa e la violazione del contraddittorio, principio cardine del giusto processo - è deducibile nel giudizio
di cassazione ai sensi dell’art. 360 bis, n. 2), c.p.c. per le
cause alle quali è applicabile, ratione temporis, la novella legislativa di cui alla L. 18 giugno 2009, n. 69, né è necessario, al riguardo, che la parte indichi se e quali argomenti
avrebbe potuto svolgere ove le fosse stato concesso il termine per il deposito della comparsa conclusionale. In termini analoghi, con specifico riferimento al giudizio di primo
grado, si è più volte riaffermata la nullità della sentenza
emessa dal giudice prima della scadenza dei termini dal
medesimo fissati ai sensi dell’art. 190 c.p.c. per il deposito
delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, risultando in tal modo impedito ai difensori delle parti di
svolgere nella sua completezza il diritto di difesa, con conseguente violazione del principio del contraddittorio, il quale non è riferibile solo all’atto introduttivo del giudizio, ma
deve realizzarsi nella sua piena effettività durante tutto lo
svolgimento del processo (nella specie, la S.C. ha cassato
con rinvio l’impugnata sentenza, deliberata antecedentemente alla scadenza del termine di cui al citato art. 190
c.p.c., in relazione ad una causa da trattare con il rito ordinario ancorché fosse stata erroneamente assegnata alla
“sezione famiglia” e nella quale i difensori avevano chiesto
i termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle rispettive memorie di replica: così Cass. n. 7072
del 24 marzo 2010, e, negli stessi termini Cass. n. 14657
del 3 giugno 2008, e n. 6293 del 10 marzo 2008).
RISARCIMENTO DEL DANNO
In quali termini ed entro quali limiti trova applicazione
il principio della compensatio lucri cum damno?
Gli orientamenti sul punto
Con la sent. n. 20548 del 30 settembre 2014, la III Sez.
della Corte di legittimità (Pres. Russo - Est. Scarano - P.G.
Sgroi) ha (nuovamente) affermato il principio secondo il
quale, in tema di risarcimento del danno da illecito, il meccanismo della compensatio lucri cum damno trova applicazione unicamente quando sia il pregiudizio, sia l’incremento patrimoniale risultino conseguenza del medesimo fatto
illecito - sicché non può essere detratto dal risarcimento
quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione
di inabilità o di reversibilità, ovvero a titolo di assegni, di
equo indennizzo o di qualsiasi altra speciale erogazione
connessa alla morte o all’invalidità, trattandosi di attribuzioni che si fondano su un titolo diverso dall’atto illecito e
non hanno finalità risarcitorie.
Il principio di diritto, conforme a quello risultante da numerose altre pronunce della S.C. (ex aliis, Cass. 10 marzo
2014, n. 5504, 11 febbraio 2009, n. 3357, 25 agosto 2006,
n. 18490, 19 agosto 2003, n. 12124, 31 maggio 2003, n.
8828, 25 marzo 2002, n. 4205, 14 marzo 1996, n. 2117), si
il Corriere giuridico 12/2015
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Giurisprudenza
Sintesi
fonda sul rilievo secondo cui la compensatio lucri cum damno, non potendo il risarcimento costituire fonte di lucro per
il danneggiato, è suscettibile di applicazione soltanto nell’ipotesi in cui danno e lucro scaturiscano ambedue in modo
“immediato e diretto” dal fatto illecito: tale condizione, tuttavia, non si verifica nel caso di percezione di emolumenti
previdenziali o assicurativi da parte della vittima o dei suoi
prossimi congiunti, poiché, in tal caso, mentre il danno
scaturisce dal fatto illecito, il diritto agli emolumenti previdenziali od assicurativi sorge direttamente dalla legge.
A tale indirizzo si è di recente contrapposto, con dovizia di
argomentazioni, quello contenuto nella sent. 13 giugno
2014, n. 13537, ove si legge che, in tema di danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa
altrui, dall’ammontare del risarcimento deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita
dal superstite in conseguenza della morte del congiunto,
attesa la funzione indennitaria assolta da tale trattamento,
che è inteso a sollevare i familiari dallo stato di bisogno derivante dalla scomparsa del congiunto, con conseguente
esclusione, nei limiti del relativo valore, di un danno risarcibile.
Il contrasto, tempestivamente segnalato alla Prima Presidenza della S.C., è stato rimesso alle sezioni unite (e discusso all’udienza pubblica del 17 novembre 2015) con ordinanza interlocutoria n. 4447 del 2015, che evidenzia l’articolato iter motivazionale della sent. n. 13537/014, all’esito
del quale il collegio della III sezione (Pres. Berruti, est. Rossetti) perviene alla negazione della cumulabilità del risarcimento del danno con gli eventuali benefìci assistenziali o
previdenziali percepiti dai congiunti della persona defunta
in conseguenza del fatto illecito puntualizzando come la
sentenza “capostipite”, da cui ha preso corpo il consolidato ed opposto orientamento (Cass. 7 febbraio 1958, n. 370)
riguardasse in realtà un caso di “compensazione” non fra
danno da morte e benefici previdenziali, ma fra debito risarcitorio e vantaggio acquistato dal parente della vittima
per effetto dell’accettazione dell’eredità del defunto.
Si evidenzia, così, come la c.d. compensatio lucri cum damno non possa essere intesa come una vera e propria “compensazione” fra crediti e debiti: i concetti di “lucro” e di
“danno”, difatti, non andrebbero concepiti come un credito
e un debito geneticamente e contenutisticamente autonomi, rispetto ai quali si debba indagare soltanto se sussista
la identità della fonte, poiché, del “lucro” derivante dal fatto illecito, occorrerebbe, invece, stabilire unicamente se esso costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensi dell’art. 1223 c.c.
Appare opportuno osservare come la stessa sent. n. 20548
del 2014, nel ribadire l’orientamento tradizionale, abbia riconosciuto la correttezza dell’impostazione secondo la
quale l’ammontare corrisposto per contratto da compagnie
assicurative ovvero erogato per legge da un istituto previdenziale rilevi, in realtà, non già sotto il profilo della compensatio lucri cum damno, ma in ordine alla delimitazione
dell’ambito del danno patrimoniale da lucro cessante risarcibile, nel rispetto dei principi che governano il nesso di
causalità specifica e del carattere di integralità del risarcimento dovuto dal danneggiante (il quale “è tenuto a ristorare integralmente il pregiudizio, ma non oltre”).
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CONTRASTI RIMESSI ALLE SEZIONI UNITE
DOMANDA NUOVA E PRESCRIZIONE
Alla domanda asseritamente nuova introdotta con atto
di appello notificato non alla parte personalmente ma
al difensore della parte, può riconoscersi efficacia interruttiva della prescrizione?
Il caso e l’ordinanza di rimessione
La III Sez. della Corte di legittimità, con ordinanza interlocutoria 18 febbraio 2015, n. 3276, ha rimesso alle Sezioni
Unite la questione dell’efficacia interruttiva della prescrizione della domanda introdotta in sede di gravame e notificata al solo difensore dell’appellato, ritenendola di massima
importanza, in relazione ad un ricorso nel quale un professionista aveva ottenuto un decreto ingiuntivo nei confronti
del comune di Brindisi per circa € 300 mila a titolo di remunerazione della sua attività professionale, costituita dalla
valutazione dei danni subiti dagli agricoltori del territorio
per calamità naturali.
Il tribunale brindisino aveva accolto l’opposizione, e il professionista aveva proposto, in appello, la diversa domanda
di indebito arricchimento, dichiarata inammissibile dalla
Corte territoriale.
La medesima domanda di arricchimento, autonomamente
introdotta dinanzi al Tribunale, venne accolta.
Con sent. del 28 settembre 2012, la Corte d’Appello di Lecce - in accoglimento del gravame proposto dal Comune di
Brindisi - ritenne invece che la domanda dovesse essere respinta per decorsa prescrizione.
Avverso tale sentenza il professionista ha proposto ricorso
per cassazione, affidato ad unico motivo, con il quale egli
si duole che il giudice dell’appello abbia ritenuto ormai maturato il termine di prescrizione della domanda di arricchimento considerando erroneamente non interrotto il relativo
decorso dalla citazione in appello, in ragione della ravvisata
inidoneità ad integrare un valido atto di costituzione in mora, ex art. 2943 c.c., per essere stata essa notificata non al
Comune ma al suo difensore.
Rileva l’ordinanza di rimessione che, sulla specifica questione, non risultano precedenti in termini.
La dottrina
C. M. Barone, Prescrizione e decadenza, revocatoria ordinaria, notifica della domanda, in Foro it., 2015, I, 830, nota a
Cass. 26 gennaio 2015 n. 1392; N. Bertotto, Prescrizione e
danno lungo latente tra Roma e Strasburgo, in Quad. cost.,
2015, 1 ss.; S. Bini, I valori dell’efficienza del processo e della certezza del diritto, nel regime decadenziale retroattivo del
contratto a termine. Bilanciamento di interessi e ragionevolezza costituzionale, in Giur. cost., 2014, 2479, nota a Corte
cost. 4 giugno 2014, n. 155; M. Bona, Appunti sulla giurisprudenza comunitaria e cedu in materia di prescrizione e
decadenza: il parametro della “ragionevolezza”, in Resp. civ.
prev., 2007, 1709; E. Calzolaio, La riforma della prescrizione
in Francia e nella prospettiva del diritto privato europeo, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 1087; S. Patti, Certezza e giustizia nel diritto della prescrizione in Europa, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 2010, 21; G. Terlizzi, Il dies a quo della prescrizione tra tutela del danneggiato e certezza del diritto, in Giur.
it., 2008, 1695.
1623
Indici
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il Corriere giuridico
INDICE DEGLI AUTORI
18 settembre 2014, n. 19663, sez. un. ................
6 maggio 2015, n. 9100, sez. un. .......................
Astone Francesco
22 maggio 2015, n. 10546, sez. III......................
Anticipatory breach e termini di pagamento della
parte non inadempiente, tra clausole generali e interpretazione letterale del contratto ........................
3 giugno 2015, n. 11377, sez. un. ......................
1520
Carrato Aldo
Legge Pinto e legittimazione del condominio: il dictum delle Sezioni Unite ...................................
26 giugno 2015, n. 13203, sez. III.......................
2 ottobre 2015, n. 19704, sez. un. ......................
5 ottobre 2015, n. 19783, sez. un. ......................
1535
5 ottobre 2015, n. 19786, sez. un. ......................
14 ottobre 2015, n. 20786, sez. II.......................
Ferraro Pietro Paolo
20 ottobre 2015, n. 21177, sez. III ......................
La pronuncia delle Sezioni Unite sul danno nelle
azioni di responsabilità contro gli amministratori di
società fallite................................................
20 ottobre 2015, n. 21217, sez. un. ....................
1573
20 ottobre 2015, n. 21249, sez. lav. ....................
23 ottobre 2015, n. 21670, sez. VI-1 ...................
Gargiulo Giulia
28 ottobre 2015, n. 21953, sez. V.......................
La rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto
ed i rapporti con il potere (non già di eccezione ma)
di eventuale ratifica del falsamente rappresentato ...
29 ottobre 2015, n. 22105, sez. II.......................
1588
Il bail-in nel nuovo sistema di risoluzione delle crisi
bancarie. Quale lezione da Vienna? .....................
Corte d’appello
17 luglio 2015, Palermo...................................
Guizzi Giuseppe
13 aprile 2015, Palermo ..................................
Consiglio di Stato
Quando non dovrebbe essere applicato, e quando
invece è prezioso, l’istituto della gestione di affari altrui ............................................................
13 aprile 2015, n. 2, ad. plen. ............................
1506
Montanari Anna
1545
Crisi bancarie
Il bail-in nel nuovo sistema di risoluzione delle crisi
bancarie. Quale lezione da Vienna? di G. Guizzi ......
1600
Aiuti di Stato
Restituzione di aiuti fiscali indebitamente corrisposti
(Corte di Giustizia, Sez. V, 3 settembre 2015, n. C89/14) Osservatorio........................................
1511
Retribuzione
1558
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
1609
1607
1606
Corte di cassazione
1624
1619
Convivenza omosessuale
Corte di giustizia
2 settembre 2014, n. 18523, sez. lav. ..................
Se il rimborso spese è corrisposto in misura non
predeterminata, fissa e continuativa, ma in modo variabile ed in relazione alle spese sostenute dal dipendente, può rientrare nella retribuzione? (Cassazione
civile 20 ottobre 2015, n. 21249) Osservatorio .......
Famiglia
Giurisprudenza
17 settembre 2015, n. C-416/14, sez. VIII .............
1609
Diritto del lavoro
Veronesi Silvia
8 settembre 2015, n. C-105/14, Grande Camera .....
1485
Diritto comunitario
Per la Cassazione, il giudicato sulla giurisdizione internazionale impedisce sempre e comunque lo scioglimento del cumulo condizionale tra domande (note
critiche a margine del ‘‘caso Agnelli’’) ..................
3 settembre 2015, n. C-89/14, sez. V...................
1596
INDICE ANALITICO
Stella Marcello
Genitore ‘‘sociale’’ e relazioni di fatto: riconosciuta la
rilevanza dell’interesse del minore a mantenere un
rapporto stabile e significativo con il convivente del
genitore biologico ..........................................
1549
Banca
Scoca Franco Gaetano
Il principio della domanda nel processo amministrativo
1555
Tribunale
1485
Maffeis Daniele
Stranieri extracomunitari e inserimento presso le
Pubbliche amministrazioni ................................
1531
1568
1518
1584
1498
1613
1613
1612
1620
1620
1611
1619
1618
1617
1616
1541
Genitore ‘‘sociale’’ e relazioni di fatto: riconosciuta la
rilevanza dell’interesse del minore a mantenere un
rapporto stabile e significativo con il convivente del
genitore biologico (Tribunale di Palermo 13 aprile
2015; Corte d’appello di Palermo 17 luglio 2015) di
S. Veronesi..................................................
1549
Divorzio
Se in ordine all’assegno divorzile, l’impossibilità di
procurarsi mezzi adeguati di sostentamento per ragioni obiettive rappresenta ipotesi non già alternati-
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Indici
il Corriere giuridico
va, ma meramente esplicativa rispetto a quella della
mancanza assoluta di mezzi, ne deriva che l’accertamento della relativa capacità lavorativa deve essere
compiuto non nella sfera dell’ipoteticità o dell’astrattezza, bensı̀ quella dell’effettività e della concretezza? (Cassazione civile 23 ottobre 2015, n. 21670)
Osservatorio ................................................
zione giurisdizionale? (Cassazione civile 5 ottobre
2015, n. 19786) Osservatorio ............................
Processo civile
Deposito della sentenza
1618
Giurisdizione
Contrasti tra Sezioni Semplici (Cassazione civile 9
aprile 2015, n.7086; Cassazione civile 5 aprile 2011,
n. 7760) Osservatorio .....................................
Negozio di investimento
Domanda nuova
Quali sono le conseguenze se il giudice italiano ha ritenuto, con apprezzamento di fatto scevro da vizi logico-giuridici, che la clausola di proroga della giurisdizione dei Paesi Bassi si estenda a qualsiasi tipo di
responsabilità da inadempimento, sia ex contractu,
sia ex lege? (Cassazione civile 5 ottobre 2015, n.
19783) Osservatorio .......................................
Contrasti rimessi alle Sezioni Unite (Cassazione civile 18 febbraio 2015, n. 3276, ord. interloc.) Osservatorio ..........................................................
1613
Legittimazione del condominio
1531
1620
1518
1498
il Corriere giuridico 12/2015
Prescrizione del reato
1607
Immissioni
In materia di immissioni, il giudice di merito, nel valutare il superamento dei limiti di tollerabilità, ex art.
844 c.c., è necessariamente vincolato ai parametri
fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente,
come i decibel? (Cassazione civile 29 ottobre 2015,
n. 22105) Osservatorio....................................
1616
Danno erariale
È legittima l’azione per danno erariale richiesta dal
P.M. contabile nei confronti di amministratori comunali per verificare il rapporto tra obbiettivi conseguiti
e costi sostenuti e nel caso di specie sussiste la giurisdizione del g.o. o del giudice contabile? (Cassazione civile 20 ottobre 2015, n. 21217) Osservatorio ...
Principio della domanda
Contro le decisioni del Consiglio di Stato è ammissibile il ricorso per Cassazione sia se è invasa la competenza del legislatore o la discrezionalità amministrativa, sia se è negata la giurisdizione sull’erroneo
presupposto che la domanda non è oggetto di fun-
1613
Pubblica amministrazione
Processo amministrativo
Ricorso straordinario al Capo dello Stato
1584
Proprietà e possesso
Gestione di affari altrui e giurisdizione
Il principio della domanda nel processo amministrativo (Consigio di Stato, ad.plen., 13 aprile 2015, n. 2)
di F. G. Scoca ...............................................
Il contribuente può, ai sensi dell’art. 19, comma 3,
D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, impugnare una
cartella di pagamento invalidamente notificata e conosciuta tramite l’estratto del ruolo rilasciato su sua
richiesta dal concessionario? (Cassazione civile 2 ottobre 2015, n. 19704) Osservatorio.....................
Reati in materia di imposta sul valore aggiunto e prescrizione (Corte di Giustizia, Grande Camera, 8 settembre 2015, n. C-105/14) Osservatorio...............
Contratto preliminare
Quando non dovrebbe essere applicato, e quando
invece è prezioso, l’istituto della gestione di affari altrui, di D. Maffeis; Per la Cassazione, il giudicato sulla giurisdizione internazionale impedisce sempre e
comunque lo scioglimento del cumulo condizionale
tra domande (note critiche a margine del ‘‘caso
Agnelli’’) di M. Stella ( Cassazione civile 26 giugno
2015, n. 13203).............................................
La rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto
ed i rapporti con il potere (non già di eccezione ma)
di eventuale ratifica del falsamente rappresentato
(Cassazione civile 3 giugno 2015, n. 11377) di G.
Gargiulo......................................................
Processo penale
Obbligazioni e contratti
Anticipatory breach e termini di pagamento della
parte non inadempiente, tra clausole generali e interpretazione letterale del contratto (Cassazione civile
22 maggio 2015, n. 10546) di F. Astone ...............
1623
Notificazione
Spese condominiali
Sono dovuti gli interessi di mora sulle quote condominiali pagate a mezzo bonifico bancario, qualora il
pagamento sia avvenuto prima delle relativa data di
scadenza ma l’accredito sia pervenuto successivamente alla stessa? (Cassazione civile 14 ottobre
2015, n. 20786) Osservatorio ............................
1622
Falsus procurator
Locazioni e condominio
Legge Pinto e legittimazione del condominio: il dictum delle Sezioni Unite (Cassazione civile 18 settembre 2014, n. 19663) di A. Carrato...................
1612
1611
1596
Pubblico impiego
Lavoratori extracomunitari
Stranieri extracomunitari e inserimento presso le
Pubbliche amministrazioni (Cassazione civile 2 settembre 2014, n. 18523) di A. Montanari ...............
1541
1625
Indici
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Responsabilità civile
violazione dell’art. 2389 c.c., non riconducibile né alla invalidità-annullabilità (art. 2377, comma 2, c.c.),
né alla invalidità-nullità (art. 2379 c.c.), va ricondotto
alla nullità generale (art. 1418, comma 1, c.c.) per
contrarietà a norma imperativa, avendo, la disciplina
di cui all’art. 2389 c.c., natura imperativa ed inderogabile? (Cassazione civile 28 ottobre 2015, n.
21953) Osservatorio.......................................
Responsabilità del medico
Se la vaccinazione è una pratica abitudinaria in ambito sanitario, per cui il medico che la esegue non è
tenuto a svolgere ulteriori e più approfonditi accertamenti, risponde il medico ove sia accertato il nesso
di causalità tra la lesione permanente subita dal paziente e la somministrazione del vaccino? (Cassazione civile 20 ottobre 2015, n. 21177) Osservatorio....
1620
Contrasti tra Sezioni Semplici (Cassazione civile 30
settembre 2014, n. 20548; Cassazione civile 13 giugno 2014, n. 13537) Osservatorio.......................
Responsabilità degli amministratori
La pronuncia delle Sezioni Unite sul danno nelle
azioni di responsabilità contro gli amministratori di
società fallite (Cassazione civile 6 maggio 2015, n.
9100) di P. P. Ferraro......................................
Risarcimento del danno
1617
1568
1622
Telecomunicazioni
Società e impresa
Telefonia mobile
Compensi degli amministratori
In materia societaria il vizio di invalidità della delibera
assembleare di approvazione del bilancio, assunta in
Apparecchiature terminali per il servizio radiomobile
terrestre (Corte di giustizia, sez. VIII, 17 settembre
2015, n. C-416/14) Osservatorio ........................
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il Corriere giuridico 12/2015
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