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n. 20 - Settembre 2014

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n. 20 - Settembre 2014
n.3
n. 20 - Settembre 2014
Anno III
Digital Natives, Digital Immigrants
L’ostenteria (*)
Confessioni di un immigrato digitale
Valutare i valutatori:
Commissione per la
Cinematografia vs
Gruppo esperti BLS Alto Adige
Il mondo interconnesso e la nuova fatica di Ercole
Sono un immigrato digitale. Più precisamente
sono un ibrido fra una
macchina da scrivere
Olympia Traveller De
Luxe arancione degli
anni Settanta e un PC
IBM 5150 degli anni Ottanta, il primo che ho
Diego Cugia
avuto, quando la stragrande maggioranza di
colleghi giornalisti, autori radiotelevisivi e
scrittori, continuavano a bombardare i tasti
delle Olivetti Lettera 22 dei loro padri con i
polpastrelli incalliti come quelli dei chitarristi,
mentre noi pionieri digitali avevamo già imparato a posare le dita sulla tastiera come sui
seni di un’amante. Sono stato fra i primi ad
avere un sito Internet, nei miei programmi a
Radiorai invitavo gli ascoltatori a visitarlo e a
scrivermi e-mail. All’epoca doveva apparire
un’iniziativa velleitaria, narcisista o a dir poco
bizzarra, tant’è che dai microfoni dello studio
attiguo, Enrico Vaime mi prendeva per i fondelli nel suo storico varietà “Black Out”, chiamandomi diegocugiapuntocomtuttoattaccato. Oggi nessuno ci troverebbe più niente da
ridere. I miei figli, nati nei primi anni Novanta,
sono nativi digitali, per stare all’espressione
coniata da Marc Prensky nel suo Digital Natives, Digital Immigrants. Sono cresciuti in una
società multischermo e si “interfacciano” con
genitori ibridi (una sorta di ultimi Highlander
- ahimè non immortali - ma che hanno vissuto
in entrambe le ere, quella manuale della mia
tenera, vecchia Olympia arancione, quando si comunicava con la macchina da scrivere, ossia
lanciavamo parole con la fionda, e quella
segue a pag. successiva
“€lavoro, tempi moderni”
Pierfrancesco Uva
in
una
vignetta
di
Robin Williams
“Ho un segreto da confessarvi, avvicinatevi. Avvicinatevi. Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi
leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione.
Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia,
la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita” (il prof. John Keating Robin
Williams in “L’attimo fuggente” un film del 1989 di Peter Weir)
Un raffronto tra i criteri,
l’organizzazione e il
funzionamento della
Commissione per la
Cinematografia e, p. es.,
la BLS - Business Location
Südtirol
Quello che intendo fare
è un esperimento che
non mi risulta sia mai
stato fatto ma neanche
concepito: valutare coloro che esprimono i giudizi sull’assegnazione delle qualifiche e dei contributi
finanziari per la realizzaUgo Baistrocchi
zione di film. Ho collaborato spesso all’elaborazione e alla stesura dei decreti, dei criteri e
dei parametri della Commissione per la cinematografia (d’ora in poi la Commissione) del
Mibact e ancora oggi, grazie al “copia e incolla”, alcune dei parametri che ho ideato e scritto
vengono riportati nei criteri attuali. Mi sono
chiesto all’epoca se i criteri raggiungevano gli
obettivi previsti dalla legge e se erano applicabili. Ma ero il solo a porsi questi problemi.
Quello che non è stato fatto e non viene fatto
neanche oggi, proverò a farlo in questo breve
scritto con un raffronto tra la Commissione e il
Gruppo di esperti d’ora in poi il Gruppo) della
BLS Alto Adige. Cercherò di essere obiettivo e
imparziale smontando, per così dire le due organizzazioni e fornendo elementi pubblici di
valutazione che consentano a me e a chiunque
di giudicarle. Sono necessarie alcune premesse.
Il Ministero dei beni e delle attività culturali e
del turismo concede sostegni finanziari sotto
varie forme per la realizzazione di film. Il Mibact è un amministrazione pubblica e tali forme statali di sostegno del cinema esistono in
Italia dagli anni ’30. La BLS è una spa di proprietà pubblica che fornisce servizi alle aziende che lavorano o intendono lavorare in Alto
segue a pag. 17
[email protected]
n.
20
segue da pag. precedente
tecnologica e virtuale che i concetti li spara direttamente nell’universo globale). I loro nonni, invece, sono tardivi digitali, cresciuti senza tecnologie ma con libri e penne Waterman
o Bic, e prendono le distanze dalle nuove tecnologie con diffidenza, così come facevano
cavalli di razza del calibro di Indro Montanelli
e Giorgio Bocca che mai scrissero i loro articoli su un Mac. Era un vezzo un po’ snob e noi
autori da tutti i giorni non ce lo potevamo permettere. Quando rifiuti di confrontarti con le
invenzioni del tuo tempo sei fatalmente obsoleto e corri il rischio del ridicolo, quello di far
la fine dei divi della radio che all’avvento della
televisione se la ridevano come Ernesto Calindri nei caroselli della China Martini: «Non dura, dura minga, non può durare». Invece dura,
e dura ancora perché è un business colossale,
anche se a lucrarci forsennatamente sono solo cinque o sei squali bianchi, le multinazionali della conoscenza “social networkizzata”,
tanto per farci credere che il web sia libero e
che la Rete siamo noi. Ma è proprio così come
sostengono Grillo e Casaleggio? A mio modo
di vedere, Internet si è trasformato in una mitologica e velenosa Idra a nove teste, delle
quali quella centrale, il concetto stesso di
“mondo interconnesso”, è ormai immortale.
Per chi non si ricordasse la mitologia greca né
il quadro del Pollaiolo esposto alla Galleria degli Uffizi, uccidere l’Idra, una sorta di drago oggi diremmo Alien -, era la seconda delle fatiche imposte a Ercole. Per la cronaca, l’eroe ci
riuscì parzialmente con delle frecce infuocate, poiché ogni volta che le tagliava la testa, dal
moncherino ne nascevano altre due, un po’
come le App per gli smartphone, i “talent
show” per la Tv o l’offerta di nuovi canali Sky.
Una volta sconfitta l’Idra, Ercole bagnò le
frecce in quel sangue pestifero, così che le ferite provocate sugli umani fossero incurabili.
Ed è proprio su questi concetti di velenosità e
di incurabilità che io, immigrato digitale, continuo a interrogarmi con querula insistenza. I
libri di carta, il cinema da sala, il mio stesso
mestiere d’autore e scrittore e lo spossante
impegno che comporta, sono stati fatalmente
avvelenati dal pestifero sangue dell’Idra? E
quale Ercole potrà mai salvare i nostri figli nativi digitali dall’illusione effimera di tenere il
mondo intero sott’occhio minuto per minuto,
quando sappiamo bene che 5000 e passa amici su Facebook non ne fanno uno vero in carne
e ossa, e che, tanto per limitarci a un altro
esempio, la Rai che produceva show e programmi d’autore era di ben altra qualità rispetto a quella che ci propina format da buon
selvaggio del pensiero unico, imposti su scala
globale dalle multinazionali dell’intrattenimento? C’è della barbarie nell’era tecnologica,
ed è un ossimoro che un poco mi sgomenta.
Sono vecchio io o si è puerilizzato il mondo?
Bastano a fare un uomo dotato di pensiero libero e indipendente e di propria personalità,
milioni d’immagini che si affastellano su multischermi interconnessi? E tutta questa offerta multimediale, disimpegnata, invitante ma
sapientemente orchestrata da vecchi guitti
2
del business digitale, al pari degli spot pubblicitari, e cioè gratis solo per il tempo limitato a
farmi diventare un consumatore dipendente,
renderanno migliori i nostri figli? È vero progresso o è progresso virtuale? È autentica partecipazione cliccare un “I Like” che non mi costa la fatica di scendere in piazza? Avremo
ancora voglia di scrivere canzoni, romanzi o
sceneggiature gratis (come giullari al soldo
del Principe Microsoft) perché il nostro vicino
di casa se li spolvera piratescamente alla velocità della luce e un milione di scrittori che si
pubblicano e-book da soli non vuol dire affatto un milione di nuovi lettori, ma tutt’altro,
aver triturato gli zebedei al mercato? Infine a
chi giova tutto questo mediocre craccarsi reciproco di pezzi di privacy e di creatività? Sono domande che un morituro digitale ha il do-
“Un uomo solo che guarda il muro è un uomo solo.
Ma due uomini che guardano il muro è il principio di
un’evasione”.
Jack Folla
Jack Folla
Un DJ nel braccio della morte
“Ercole e l’idra” è un piccolo dipinto a tempera grassa
su tavola (17x12 cm) di Antonio del Pollaiolo, databile
al 1475 circa e conservato nella Galleria degli Uffizi a
Firenze.
Affascinante e misterioso personaggio ideato
da Diego Cugia e portato alla ribalta dalla straordinaria voce di Roberto Pedicini con la partecipazione di Francesca Neri. Un disperato,
un sognatore, un dj che si esprimeva tramite
aforismi e monologhi di rottura accompagnando i suoi appelli con musica rock e brani
italiani d’autore da un carcere di massima sicurezza. Un personaggio radiofonico cosi
complicato e seducente che spinse molti ascoltatori a credere che fosse reale e non il frutto
di un’intuizione di Cugia, noto autore e regista radiotelevisivo italiano. A distanza di tanti
anni, sappiamo che il nostro Dj è riuscito ad
evadere. Pare che Jackfolla sia vivo e guarda il
mondo. L’abbiamo saputo leggendo alcuni
vecchi articoli apparsi su l’Unità che lo davano
su una piattaforma petrolifera all’imbocco
dello stretto di Gibilterra.
Per saperne di più:
www.diegocugia.com/il-ritorno-di-jack-folla/
vere di rivolgersi tutte le volte che una
clessidra sul video sta scaricando qualche
nuovo contenuto. Non sarà proprio quel contenitore che ci sta contenendo tutti? Penso sia
questa la nuova fatica di Ercole: ancorarsi a
ognuna delle innumerevoli App che ci vengono offerte, con un’equivalente innumerevole
serie di ragionevoli dubbi, prima di navigare.
Diego Cugia
E’ un autore, sceneggiatore e scrittore italiano. Ha
ideato il “radiofilm” con fiction di grande successo
popolare come “Domino” e “Il mercante di fiori”. Ha
scritto show per la televisione come “Francamente
me ne infischio” e “Rockpolitick” con Adriano Celentano. È anche il papà del Jack Folla di “Alcatraz”. L’ultimo suo romanzo, edito da Mondadori,
s’intitola “Tango alla fine del mondo”. Attualmente
è autore per la Ballandi Entertainment.
Roberto Pedicini è un attore, doppiatore, insegnante
di recitazione e direttore del doppiaggio italiano.
Nato a Salerno, è la voce ufficiale di Kevin Spacey,
Jim Carrey, Javier Bardem. Tra gli attori doppiati vi
sono Vincent Cassel, Denzel Washington, Antonio
Banderas e molti altri.
[email protected]
L’impegno trasversale, da parte di tutte le forze politiche, per promuovere il ruolo della cultura nel nostro Paese e la sua rilevanza
economica e sociale. E’ questo, di consueto, il tema riservato da Diari di Cineclub ai politici . Ma questo numero la Redazione ha
deciso di dedicarlo alla Pace perché è inutile parlare di cultura e di cinema dimenticando quanto accade di drammatico nelle nostre
vicinanze. Per questo Diari di Cineclub lascia lo spazio per dare la parola ad uno dei Parlamentari per la pace in visita in Medio Oriente
in questi giorni.
La parola ai politici: Michele Piras
“Ci hanno detto: ascoltate, guardate, fotografate e quando tornate in Patria parlate e raccontate.
Lo faccio. Con ogni mezzo. Goodbye Palestine. Faremo il nostro dovere”
Michele Piras
Goodbye Palestine
Report sulla quotidianità di un conflitto
Nella via commerciale, stretta che attraversa la città vecchia l’aria pesa come il
piombo. I palestinesi hanno
montato una rete metallica
e dei teloni, un metro sopra
le nostre teste. Dalle palazMichele Piras
zine sul lato sinistro piovono rifiuti, escrementi, sassi grandi un pugno.
Sono occupate dai coloni israeliani. Se Gaza è
la guerra guerreggiata, il massacro, l’assedio,
Hebron è la quotidianità del conflitto. Shouada St, principale accesso al centro, un tempo
fiorente di commerci e vita, è chiusa ai palestinesi. I militari con la stella di Davide la controllano palmo a palmo. A protezione di un insediamento colonico di 400 persone. Apartheid.
Se sono i bambini ad odiare che speranza ci
può essere. Lo dice Don Mario, toscano di Betlemme. Lui pensa che il governo israeliano abbia bisogno del conflitto. Che questa ennesima aggressione abbia come obiettivo Abu
Mazen, non Hamas. L’Autorità palestinese nel
suo complesso. Bambini squartati dalle bombe israeliane all’ospedale francese. Curano i
pochi che riescono a passare. Rahid ha tre anni. Schegge di granata gli hanno sfigurato il
volto. Occhi chiusi. Espressione serena. Forse
sogna la mamma. È cerebralmente morto. La
“quattro corsie” che collega Tel Aviv alla capitale. Km di muri e filo spinato. Le strade qui
dividono. Insediamenti dei coloni si ergono
come ferite d’arma da fuoco sugli accordi di
Oslo. Gerusalemme non è tre città: Santa, di
una bellezza che lascia attoniti, sotto tutela
Onu. Est ai palestinesi. Ovest, con la Knesset
si erge come un mausoleo, agli israeliani. A
Ramallah incontriamo l’Autorità e i parlamentari palestinesi. La descrizione dell’orrore. Puntuale e dignitosa. Le condizioni di una
pace possibile: interposizione Onu, fine
dell’assedio a Gaza, ricollegare la Striscia alla
Cisgiordania, ritiro dalle colonie. Sembrerà
strano ma anche Meretz e il Labour, dall’altra
parte del confine, condividono queste proposte. A testimoniare che un filo di dialogo esisterebbe già e che tutto è più complesso di ciò
che in Occidente siamo in grado di immaginare. Betlemme: il conservatorio è diretto da
Michele, traduttore e musicista, italiano. La
società civile resiste e suona le corde della speranza anche qui. In Palestina. Dietro quel muro che inserra la Natività. Cento muri tengono
separate le parti in conflitto. Eppure oltre il
muro ci sarebbe la speranza. Sulle strade di
Hebron un colono inizia ad urlare, insulta, dice che siamo antigiudei e nazisti. Luisa Morgantini qui la conoscono tutti. Anche i bambi-
testimonia l’insediamento di una società civile e laica, una Palestina che non è solo estremismo o fanatismo religioso. Sarebbe compi-
La delegazione dei parlamentari per la Pace alla Spianata delle Moschee (foto Christian Nasi)
ni. Ha perso quasi totalmente l’udito sotto le
bombe-suono. Discute col colono. Ma lui non
molla, urla solo di più e ci segue per tutta la
strada. “Shut up man!” Gli urlo d’istinto. Se ne
va. Un bambino ci lancia contro una bottiglia
di Cola. Kippah. Avrà l’età di mio figlio. Ormai
è certo che a Gaza non ci faranno entrare. Ci si
ferma quattro km prima. La spianata delle
Moschee è un luogo incredibile al crocevia tra
il Muro del pianto e la via Crucis. Donne arabe
si sbracciano e urlano “Allah ‘u Akbar”. Difendono la grande Moschea dalla cupola dorata.
Nel 79 d.C. qui sorgeva il Tempio di Salomone.
Una corrente del pensiero ebreo ortodosso ritiene suo compito preparare l’avvento del
Messia distruggendo la Moschea, così che
Egli possa ricostruirvi il Tempio. Sembra un
recital per turisti. Non lo è. Poche ore dopo la
polizia israeliana interviene: manganelli, lacrimogeni e cariche. Inizio a detestare il dibattito di casa nostra. Siamo davvero ridicoli
nel nostro schierarci come tifoserie calcistiche, in maniera acritica su uno dei due fronti,
senza capacità alcuna di cogliere alcunché di
una realtà terribile e complessa. Israele è una
società in profonda trasformazione, che tende alla Democrazia. Tel Aviv, modernissima e
tollerante, ultramoderna e civile si erge a contraltare dell’oscurantismo ebreo ortodosso.
Così Riwaq che si batte per il recupero, la conservazione, la valorizzazione del patrimonio
culturale, architettonico e storico palestinese
to (ed anche interesse) dell’Europa ed anche
del nostro Paese, costruire il terreno dell’incontro e della relazione fra queste realtà tenute accuratamente separate da chi ha bisogno
del conflitto per riprodurre il suo potere. L’estremismo non si isola né sconfigge senza un
concreto processo di pace, senza una pace
giusta. Anzi, esso si nutre della spirale di odio
e violenza. Deperisce invece se si inizia a rimuovere l’ingiustizia profonda che segna la
quotidianità di questi popoli. Dov’è l’Europa?
Lo chiede Mikado, gli attivisti israeliani, lo
chiede Fatah e Barghouti, Meretz e l’ex vicepresidente laburista della Knesset. Lo chiedono tutti i democratici ed i progressisti di Palestina e Israele. Mentre saliamo sul volo AZ810
per Roma a Gaza il bollettino del massacro è
un pugno sui denti: 1900 morti, di cui 300
bambini, 10mila feriti. Goodbye Palestine.
Michele Piras
E’ Deputato di SEL, membro della Commissione Difesa e
dell’Assemblea parlamentare della Nato. Insieme a una
delegazione dei “parlamentari per la pace” ha partecipato
alla missione in Palestina, dove da 24 giorni ormai proseguivano i bombardamenti israeliani sulla Striscia di
Gaza.
3
n.
20
Documentazione fotografica di
Goodbye Palestine
Report sulla quotidianità di un conflitto
Gerusalemme. La Knesset (foto Michele Piras)
\Hebron Case occupate dai coloni israeliani (foto Christian Nasi)
Il muro che circonda Betlemme (foto Michele Piras)
Gerusalemme. La Knesset (foto Michele Piras)
4
[email protected]
Anniversari
Shakespeare e il cinema
Alcuni shakespearologi – inglesi, naturalmente - hanno stilato
l’elenco delle principali banalità che in giro
si dicono sul più grande drammaturgo di
tutti i tempi. Tra esse,
Stefano Beccastrini
c’è anche l’affermazione, di cui resto peraltro convinto, che se fosse
vissuto nel XX secolo sarebbe stato un eccellente sceneggiatore cinematografico. Narra
d’altronde Emanuela Martini nel bel libro
“Ombre che camminano. Shakespeare nel cinema” che negli anni 30 un produttore hollywoodiano, potente ma di poca cultura (o
forse di molta ironia), accoglieva i cineasti
emigrati dall’Europa dicendo loro: “Voi avete
la fortuna di possedere il più grande sceneggiatore del mondo, quel tale di nome Shakespeare”. Certo è che, a partire da quel lontano
1899 che vide portare per la prima volta un’opera shakespeariana sullo schermo del cinema– era “King John”, regia di William Kennedy e Laurie Dickson, attore principale il
celebre Herbert Beerbohm Tree – fino alle più
recenti produzioni sono centinaia e centinaia
i film che si ispirano più o meno direttamente
alle trame, ai personaggi, alle situazioni
drammatiche create dal genio di cui ricorre
quest’anno il 450° anniversario della nascita.
Essa avvenne infatti nel 1564 a Stratford-upon-Evon, qualche decina di miglia a nord di
Londra: anni fa mi ci sono recato in devoto
pellegrinaggio, visitando la sua casa natale, lo
Shakespeare Birthplace, e la sua tomba presso
la Holy Trinity Church. In quello stesso anno
nacque Galileo Galilei, l’altro padre filosofico
della Modernità. Di Galilei, e dei suoi rapporti
con il cinema, ho parlato in un numero precedente della nostra rivista. Analogamente,
questo mese, ho sentito la necessità di scrivere qualcosa a proposito dei rapporti tra Shakespeare e il cinema. Sarebbe pretenzioso
tentare, in un breve articolo, di dire cose innovative su un tema così vasto. Mi limiterò pertanto ad offrire ai lettori, basandomi logicamente sui miei gusti personali, qualche
consiglio su quali film andarsi a cercare per
allestire una propria, modesta videoteca casalinga sull’argomento. I due cineasti shakespeariani per eccellenza sono senza dubbio Orson Welles e Akira Kurosawa: essi restano tali
anche quando, apparentemente, i loro film
non hanno nulla a che fare con Shakespeare
(un solo esempio, intanto: il protagonista de
“L’infernale Quinlan”, 1958, personaggio totalmente inventato da Welles ma assolutamente “shakespeariano” almeno quanto Otello o Macbeth). Welles ha direttamente tratto
dal drammaturgo elisabettiano tre film:”
Macbeth”, 1948, cupa riflessione sul ruolo della violenza nel passaggio dell’umanità dalla
preistoria alla storia, “Othello”, 1952, opera visionaria e barocca, una meditazione sui rapporti
“Ran” è un film del 1985 scritto e diretto da Akira Kurosawa, basato sulla tragedia di Shakespeare “Re Lear”
tra natura e cultura, un capolavoro di montaggio e uso poetico del paesaggio, “Falstaff”,
1966, film che attinge a vari testi shakespeariani (“Enrico IV”, “Enrico V”,”Riccardo II”,
“Le allegre comari di Windsor”) risultando infine epico e malinconico, spietata analisi del
potere e della ragione di stato ma anche patetico ritratto del dolente invecchiare di un genio istrionico e smisurato di nome Falstaff/
Welles. Anche Kurosawa è autore fondamentalmente shakespeariano. Lo è quando realizza film, quali l’indimenticabile “I sette samurai” del 1954, che con Shakespeare sembrano
non avere nulla a che vedere. Lo è quando in
“Le canaglie dormono in pace”, 1960, si ispira
“Otello” è un film del 1952 diretto da Orson Welles e
tratto dall’omonimo dramma di William Shakespeare,
vincitore del Grand Prix du Festival come miglior film al
5º Festival di Cannes
ad “Amleto” per ambientare la vicenda di un
giovane uomo, ossessionato dal desiderio di
vendicare l’assassinio del proprio padre, nella
società giapponese, violenta e corrotta, del secondo dopoguerra. Lo è quando, ambientandoli nell’antico Giappone dei samurai
e facendoli dialogare con le tecniche del teatro Noh, si ispira direttamente a “Macbeth”
per realizzare “Il trono di sangue”, 1957 (film
dalla grande ricchezza visiva, quasi sperimentale nel proprio contaminare genialmente
l’immaginario occidentale con quello orientale) ed a “Re Lear” per realizzare “Ran”, 1985
(film immenso, bellissimo, la versione più ricca e sgargiante della celebre tragedia shakespeariana). Un’altra mirabile coppia di “cineasti shakespeariani” (ma non nel senso in cui lo
sono Welles e Kurosawa) è quella formata da
Lawrence Olivier e Kenneth Branagh. Entrambi inglesi, entrambi stimati e colti interpreti del teatro elisabettiano, a un certo punto
della loro carriera hanno deciso di misurarsi
con alcune trasposizioni cinematografiche
dell’opera drammaturgica del loro Bardo.
Lawrence Olivier, a cavallo tra gli anni 40 e 50
del 900, portò sul grande schermo “Enrico
V”,”Amleto”, “Riccardo III”, dimostrando così
di essere non soltanto un grande attore teatrale ma anche un grande regista cinematografico. “Enrico V” è del 1944 e sa riunire in un
medesimo film propaganda bellica (l’opera è
dedicata alle truppe inglesi in guerra contro il
nazismo), raffinata meditazione sui rapporti
tra teatro e cinema, ispirazione pittorica (Paolo Uccello, per esempio). “Amleto” – che con i
suoi 5 Oscar resta forse la più famosa versione
cinematografica di un’opera di Shakespeare
dell’intera storia del cinema - è del 1948 e sa
trasformare una lettura freudiana del pallido
principe danese in una straordinaria lezione
sull’utilizzo della macchina da presa. “Riccardo III”, infine, è del 1955: un grande cast, un
vero trionfo dell’incontro fra teatro e cinema.
Sono tutti e tre film splendidi: preferire l’uno
o l’altro – io tifo per “Amleto” - è questione di
gusto personale. Kenneth Branagh è il
Lawrence Olivier dei nostri tempi. Non tutti
lo amano, considerandolo troppo attento ai
gusti del grande pubblico. Finora sono state
segue a pag. successiva
5
n.
20
segue da pag. precedente
cinque le sue versioni filmiche da Shakespeare: “Enrico V”, 1989 (la cui battaglia somiglia,
quanto a fango e sangue, più a quelle di Welles che a quelle di Olivier), “Molto rumore per
nulla”, 1993 (ambientato in Toscana, è una versione particolarmente solare e carnale della
celebre commedia), “Amleto”, 1996 (prima versione completa – dura 4 ore – mai portata sullo schermo, è ambientato agli inizi del 900),
“Pene d’amore perdute”, 2000, e “Come vi piace”, 2006 (il primo è ambientato negli USA deAmleto, film danese del 1921 prodotto in Germania
dall’attrice di cinema muto Asta Nielsen, e co-diretto da
Svend Gade. Asta Nielsen ne è protagonista, recitando
il ruolo del titolo
“MACBETH” è un film del 2013 Regia: Rob Ashford
and Kenneth Branagh, Sceneggiatura: William
Shakespeare. con Kenneth Branagh (nella foto) e
Alex Kingston. Kenneth Branagh. Attore e regista
irlandese di Belfast, Branagh inizia la sua carriera in
teatro recitando molte opere di William Shakespeare.
Sul grande schermo dirige e interpreta molte di queste,
come “Amlet”, “Enrico V”, e “Molto rumore per nulla”
gli anni 30 e trasformato in un musical, il secondo nel Giappone del XIX secolo).
Shakespeare tradito? Non credo. Credo invece abbia ragione Emanuela Martini quando
scrive che Branagh va perseguendo, con successo, un ideale popolare e spettacolare di
Shakespeare che al Bardo non sarebbe spiaciuta affatto. E veniamo a parlare non di “cineasti shakespeariani” ma di uomini di cinema che, almeno una volta e con memorabili
risultati, si sono provati a portare un’opera
shakespeariana sullo schermo del cinema. Tra
le tante versioni cinematografiche di “Amleto”, per esempio, vale la pena di ricordare - a
parte quella tedesca del 1921, regia di Svand
Gand, in cui il pallido principe era in segreto
una donna, interpretata da una superba Asta
Nielsen (un’attrice cui dedicava poesie persino Apollinaire) - quella sovietica di Grigorij
Kozintsev, 1964, basata sulla traduzione di Boris Pasternak e orientata a una lettura più sociale e politica che psicanalitica del personaggio e quella di Tony Richardson, 1969, il cui
protagonista è un “giovane arrabbiato” stile
Free Cinema (peccato che nessuno abbia mai
fatto recitare Amleto a James Dean!) “Di Sogno di una notte di mezza estate” vale la pena
di ricordare la versione del 1935 realizzata da
Max Reinhardt e William Dieterle, due cineasti tedeschi da poco emigrati a Hollywood:
scenografie sontuose, cast galattico, sforzo
produttivo enorme. Un film indimenticabile,
6
frutto dell’incontro tra cultura europea e gusto americano, tra kitsch europeo (quello indagato da Broch) e denaro hollywoodiano. Di
“Othello” esistono innumerevoli versioni filmiche: ricorderò soltanto quella western di
Delmer Daves, cineasta umanisticamente etico che andrebbe riscoperto, intitolata “Vento
di terre lontane”, 1955, e quella, sublime, di
Pier Paolo Pasolini, un cortometraggio, “Che
cosa sono le nuvole?”, del 1967 (inserito nel
film a episodi “Capriccio all’italiana”): narra di
un burattinaio che fa recitare a due marionette, Totò e Ninetto Davoli, rispettivamente i
ruoli di Iago e di Otello (Desdemona è Laura
Betti). Finito tra i fischi lo spettacolo, le marionette sono gettate nell’immondizia: da lì,
prima che l’immondezzaio (Domenico Modugno) le porti via, vedono per la prima volta, restandone estasiate, le nuvole, bianche nell’azzurro del cielo. Potremmo, se avessimo spazio
e tempo sufficienti, dire di “Romeo e Giulietta” e di alcune sue belle versioni cinematografiche: di George Cukor, 1936, attenta nella sua
scenografia e nei costumi alla pittura del
Quattrocento toscano; di Renato Castellani,
1953, formalmente elegante ma cui non fu mai
perdonato il Leone d’Oro veneziano “rubato” a
Contributo di Pier Paolo Pasolini alla pellicola collettiva
“Capriccio all’italiana” 1967. Episodio “Cosa sono le
nuvole” con Totò e Ninetto Davoli
“Senso”, il capolavoro di Visconti; quella, 1961,
di “West Side Story”, uno straordinario musical di Leonard Bernstein/Robert Wise ambientato nella New York dei conflitti tra bande giovanili. Potremmo parlare del “Macbeth”,
1971 di Roman Polanski (versione particolarmente brutale e sanguinaria della brutale e
sanguinaria tragedia shakespeariana già portata sullo schermo sia da Welles che da Kurosawa: d’altra parte Polanski aveva da poco
tempo subito il brutale e sanguinario assassinio
della moglie, la giovane e bella Sharon Tate).
Potremmo dire delle versioni cinematografiche de “La bisbetica domata”, la cui più bella
resta senz’altro “Baciami Kate”, 1953, di quel
mago del musical, nonché del film di avventura, che fu George Sidney. Eppoi potremmo
parlare dei film tratti da “La tempesta” (praticamente, il testamento poetico di Shakepeare), citando il più bello di tutti ossia “Il pianeta
proibito”, 1956,: opera d’ambientazione fantascientifica, uno dei film di science-fiction più
memorabili, e poetici, della storia del cinema.
Potremmo dire del grandioso, da me amatissimo sin dall’infanzia, “Giulio Cesare”, 1953, di
Joseph Mankiewicz: il più celebre adattamento cinematograficio dell’omonima tragedia
shakespeariana, film di rara intelligenza, interpretato da attori eccezionali (primo tra tutti Marlon Brando, nelle vesti di Antonio). E
potremmo parlare del “Re Lear”, 1970, di Peter
Brook, “apocalittico e terribile”, e di quello,
1987, di Jean-Luc Godard (che certamente
non possiede più la carica innovativa dei tempi della Nouvelle Vague ma che pensa al, e fa,
cinema ancora). Un altro filone del cinema
ispirato a Shakespeare è quello, cui già si è fatto qualche accenno, i cui personaggi sono attori che mettono in scena le opere del Grande
Bardo. Cominciò il sommo Griffith, realizzando nel 1912 “Il vecchio attore”, storia di un
vecchio attore shakespeariano costretto a
mendicare. Poi fu l’altrettanto sommo Buster
Keaton a portare sullo schermo, nel 1922, “Day
Dreams” in cui un uomo qualunque sogna di
essere un grande interprete di Amleto. Poi,
dopo vari altri esempi di cui mi limiterò a
rammentare i due più belli (belli? Commoventi, sublimi!) ossia “Vogliamo vivere!”, 1942, di
Ernst Lubitsch e “Sfida infernale”, 1946, di
John Ford (il primo finge di essere un film comico in cui si recita “Amleto” e “Il mercante di
Venezia” mentre Hitler calpesta l’Europa e il
secondo fa finta di essere un western nel quale un medico alcolizzato recita in un saloon il
monologo di “Amleto”: in realtà, sono entrambi tragedie, strazianti e meravigliose), giungiamo sino a “Shakespeare Wallah”, 1965, il
film – mai uscito nelle sale italiane - che fece
conoscere al mondo James Ivory: narra la storia di un gruppo di attori che, nell’India postcoloniale, vaga di villaggio in villaggio per
recitare le opere shakespeariane davanti ad
un pubblico composto in buona parte da poveri indù che di Shakespeare non sanno nulla
ma si fanno spesso catturare dalle vicende da
lui narrate. Mi avvio a concludere, con due ultime annotazioni. La prima: se qualcuno si
stupisse – ma spero di no – del fatto che non
ho parlato mai di Franco Zeffirelli, che pure ha
realizzato vari film ispirati (si fa per dire) a
Shakespeare, gli risponderò: “Zeffirelli chi?”.
La seconda, per finire in bellezza: va ricordato
assolutamente “Riccardo III-Un uomo, un re”,
1996, di Al Pacino quale opera di rara intelligenza e cultura, sul senso, e sulla fatica e sulla
gioia intellettuali, di mettere in scena Shakespeare. Di capirlo. Di amarlo. Per sempre.
Stefano Beccastrini
[email protected]
Una riflessione del CineClub “Vittorio De Sica” (Basilicata) aderente al Cin.it
Poetiche
Marguerite Duras, cento anni dalla nascita
Itaca
Una vita condivisa nell’ar- e Steinbeck e persino da Pavese. Il tema ricorte, fra letteratura e cine- rente è l’amore: L’amante inglese (1967), L’ama: a cento anni dalla mour (1971), Storie d’amore estremo (1981) in
sua nascita (Saigon, 4 apri- un viluppo di situazioni che richiamano evenle del 1914), sono diverse ti e luoghi di straordinaria bellezza. L’amante
le iniziative che comme- (del 1984) merita il premio Goncourt, una stomorano Margherite Du- ria che susciterà un certo scandalo, a carattere
ras. Ristampe di suoi autobiografico, dove narra l’amore di una
romanzi ed una biogra- quindicenne nell’Indocina francese. E’ la pasfia romanzata di Sandra sione al centro delle attività umane: e di interPetrignani (edita da Ne- mittenza del cuore si può parlare per definire
Armando Lostaglio
ri Pozza), mentre una i sentimenti più che i fatti reali in una visione
sua pièce va in scena a Parigi, recitata da Fan- dell’esistenza in rivolta rispetto al senso cony Ardant. Estrosa nel suo impegno civile e di mune. Tuttavia, la Duras riannoda l’essenza
avanguardia letteraria, in una luce del tutto dell’uomo e della donna: lei sognante, smarrianticonformista, la Duras vive nella totale de- ta in un proprio universo, lui sfuggente ed imvozione verso la libertà, al punto di partecipa- percettibile quanto tormentato seppur dinare attivamente anche alla Resistenza. La scrittrice (il cui
vero nome era Marguerite
Germaine Marie Donnadieu)
attraversa il Novecento con
impeto e lungimiranza. Il suo
esordio è del 1942 con Gli Impudenti. Seguiranno Una diga sul Pacifico del 1950 (giudicato da Elio Vittorini “il più
bel romanzo francese del dopoguerra”) e che le diede il
primo riconoscimento di pubblico e di critica. Da esso fu
tratto l’omonimo film del regista René Clément, (del 1957)
recitato da una sublime Silvana Mangano insieme ad Anthony Perkins (prima ancora
che fosse meglio conosciuto
Marguerite Duras e Michelangelo Antonioni
in “Psyco” di Hitchcock). Seguiranno altri importanti romanzi Pioggia mico e vivo. Letteratura intrigante che divaga
d’estate, Il marinaio di Gibilterra e soprattutto nella cinematografia, ne adotta le immagini e
Moderato cantabile del ’58. Nel 1959 un altro ne condivide il linguaggio. La femminilità delgrande regista francese, Alain Resnais, (da po- la Duras si ammanta di anticonformismo che
co scomparso) porta sullo schermo Hiroshima adotta quasi come una rivalsa contro la condimon amour: il soggetto e la sceneggiatura so- scendenza consueta nella moltitudine delle
no di Margherite Duras; il film viene candida- donne. Sarà pure protagonista delle lotte gioto all’Oscar per la migliore sceneggiatura nel vanili del maggio francese, nel 1968. Impegno
1961. L’opera di Resnais, presentata al 12° Fe- interiore e impegno politico: rientrata diciotstival di Cannes, rimane nella storia del cine- tenne dall’Indocina in Francia nel ’32, si sposa
ma come una delle prime della corrente della con lo scrittore Robert Antelme, aderisce al
Nouvelle Vague, per un uso moderno del fla- partito comunista francese (ma sarà espulsa
shback. Apprezzabili i soggetti per film e lun- da dissidente nel 1950), partecipa alla resigometraggi che lei compose come “Diario di stenza nei gruppi organizzati da Mitterand.
Roma” del 1982 e Les enfants”dell’84 co-diretto Robert viene catturato e, pur non essendo
con il compagno Jean Mascolo. Ma furono gli ebreo, viene deportato a Dachau, mentre lei si
anni ‘70 quelli più fertili per la Duras regista: adopera fino allo spasimo per farlo liberare.
Jaune le soleil (’71), La femme du Gange (‘73), Da questa dura esperienza nasce il libro Il doIndia song (1974), due anni dopo Vera Baxter. lore, 1985, che, peraltro, è l’ultimo lavoro reciLa sua scrittura è volta a ravvivare i temi tato a teatro da Mariangela Melato. Quasi un
dell’attesa, dell’alienazione, della incomunica- testamento di una vita vissuta nel segno della
bilità (temi cari ad Antonioni) adottando uno libertà e della creatività. Marguerite Duras si è
stile caratterizzato dalla brevità e dalla sintesi, spenta a Parigi il 3 marzo del 1996.
tipico del linguaggio cinematografico. La sua
prosa sembra influenzata da Heminguay
Armando Lostaglio
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
nè nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti
avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza
addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
Costantino Kavafis
7
n.
20
Animata
Nasce il sito internet “Animata – Rete di divulgazione e ricerca sul cinema d’animazione”
per raccogliere articoli, presentazioni di convegni e pubblicazioni, risorse bibliografiche
L’annuncio , in chiusura del convegno di Padova , i cui atti saranno stampati sulla rivista
Cabiria – Studi di Cinema
Il convegno di studi “Il
cinema d’animazione e
l’Italia: autori, teorie e
stato dell’arte”, dopo due
giornate di lavori (29-30
maggio), tenutesi presso
l’Università degli studi di
Padova, si è concluso con
bilancio molto positivo.
L’iniziativa, nata da un’iAlessandro Cuk
dea di Marco Bellano e
organizzata con Alberto Zotti, è stata resa
possibile grazie all’impegno congiunto del Dipartimento dei Beni Culturali e del Corso di
Laurea DAMS dell’Università degli Studi di
Padova, con il partenariato, e collaborazione
del Cinit - Cineforum Italiano e della S.A.S. Society for Animation Studies. Il convegno si
è sviluppato lungo sette panel tematici. Il primo, “Tra omaggi e citazioni”, ha inaugurato i
lavori, nella Sala delle Edicole presso il Palazzo del Capitanio, con la relazione di Marco
Vanelli “Fellini e l’animazione: un rapporto
biunivoco”, e l’intervento di Marco Bellano
“«Oh… Musica moderna!» Hollywood, satira e
‘modernismo’ nella musica di Giuseppe Piazzi
per I fratelli Dinamite (1949)”. Il 2° panel ha
dato la parola a due nomi illustri della ricerca
sul cinema d’animazione: Giannalberto Bendazzi, in collegamento telematico da Cracovia, ha parlato di una autrice che figura tra i
pionieri dell’animazione nel nostro paese,
“Un’italiana a Parigi. Leontina “Mimma” Indelli”; mentre Carlo Montanaro ha offerto una
ricchissima ricapitolazione sulla storia e lo
stato del patrimonio filmico animato in Italia.
Si è dunque proseguito con “L’Italia nell’animazione internazionale: a Oriente”. Marco
Pellitteri, in videoconferenza, ha descritto
l’impatto dell’animazione giapponese sulla
programmazione televisiva italiana tra anni
’80 e ’90, poi Roberta Novielli ha esaminato la
presenza di fonti narrative italiane nel cinema di animazione giapponese. Nel pomeriggio, il convegno si è concentrato su “Animazione in Italia, l’Italia nell’animazione”
mettendo a confronto le competenze didattiche di Chiara Magri con l’analisi delle strategie di promozione dei lungometraggi animati
italiani nell’ultimo quindicennio, esposta da
Emiliano Fasano. A conclusione del panel, un
intervento “a due voci”: Anna Antonini e Chiara Tognolotti si sono occupate di “Burattini
animati. Le avventure di Pinocchio nel cinema animato italiano”. La prima giornata di lavori si è chiusa con un panel monografico, dedicato alla figura di un decano dell’animazione
italiana: Francesco Maurizio Guido, ovvero
Gibba, che ha assistito in videoconferenza
8
agli interventi di Mauro Giori (“Quando l’animazione italiana tentò la via del porno. Intorno a Il nano e la strega (1975) di Gibba e Libratti”) e Cristina Formenti (“Dal neorealismo al
documentario animato scientifico: le animazioni “realiste” di Gibba”). Il regista, novantenne, ha poi interagito vivacemente con il
pubblico, rispondendo a domande e introducendo la proiezione de L’ultimo sciuscià (Gibba, 1947). Il convegno ha ripreso l’indomani il
suo itinerario con Priscilla Mancini su “Fonti
artistiche per l’animazione italiana”, occupandosi di quegli autori italiani orientatisi
contemporaneamente, ma indipendentemente, verso l’uso di un’immagine “pittorica”
dispersi, di un autore raffinato ma non ancora
sufficientemente studiato. Il convegno ha offerto al suo pubblico delle proiezioni, grazie al
contributo dell’archivio Carlo Montanaro: La
storia di Lulù (Arrigo Frusta, 1908) e Anacleto
e la Faina (Roberto Sgrilli, 1941), Nel paese dei
ranocchi (Antonio Rubino, 1942); Lulù (Segundo De Chomón, 1908); La piccola fiammiferaia (Romano Scarpa, 1953). Una tavola rotonda finale ha visto un nuovo intervento di
Gibba e la presentazione di un progetto mirato a proseguire quanto iniziato dal convegno,
ovvero la creazione di rapporti più stretti tra
studiosi del cinema d’animazione in Italia. È
stata allora annunciata la nascita del sito in-
da sinistra a destra (per chi guarda) Carlo Alberto Minici Zotti, Marco Bellano
e Marco Vanelli (foto di Massimo Caminiti)
nell’animazione. Il giornalista e saggista Luca
Raffaelli ha invece esplorato una rete di influenze tematiche e stilistiche tesa fra Italia,
Canada e Jugoslavia, in “I sentieri nascosti di
Bruno Bozzetto: tra Konrad Lorenz, Disney, il
Canada e la Scuola di Zagabria”. Il panel conclusivo ha puntato sul la propaganda nelle due
grandi guerre: Denis Lotti ha presentato alcuni tra i primissimi film italiani in cui si sono
adoperate tecniche d’animazione, soffermandosi sul fortunoso recente ritrovamento di
una pellicola creduta da tempo perduta, Il sogno del bimbo d’Italia (Riccardo Cassano,
1915). E Raffaella Scrimitore ha presentato
“Luigi Liberio Pensuti, film d’animazione oltre la propaganda”, annunciando inoltre il
probabile ritrovamento di nuovi film, ritenuti
ternet “Animata – Rete di divulgazione e ricerca sul cinema d’animazione” inteso a raccogliere articoli, annunci di convegni e
pubblicazioni nonché risorse bibliografiche,
per favorire il dibattito e combattere l’eccessivo “individualismo” in un ambito del sapere
dove oggi, come ha affermato Bendazzi, «l’Italia non è seconda a nessuno». Gli atti del
convegno saranno pubblicati sulla rivista “Cabiria” grazie all’impegno assunto dal presidente del Cinit Massimo Caminiti, presente
ai lavori, che ha dimostrato apprezzamento
per l’elevata qualità dei contributi presentati.
Alessandro Cuk
E’ Vice Presidente del Cin.it, critico cinematografico,
scrittore ed editore.
[email protected]
Hella W.
Breve biografia in forma cinematografica di Hella Wuolijoki - Finlandia-Estonia (2011).
Regia di Juha Wuolijoki
La rassegna fiorentina 50 giorni di cinema attiva da qualche
anno, accorpa in due
mesi festival e rassegne cinematografiche della città. Siano
essi noti e consolidaGiulia Zoppi
ti come il Festival dei
Popoli, il sempre meno interessante ma assai
celebrato France Odeon, passando per la vetrina indiana di River to river, fino allo storico
Festival Internazionale Cinema e Donne. In
mezzo si trovano brevi eventi, quasi epifanie,
che in forma più o meno clandestina aprono
le porte di cinematografie minori, meno distribuite e assai meno conosciute, ma che proprio per questo loro essere invisibili, meriterebbero maggior sostegno da parte degli enti
che li promuovono. Nella vasta proposta cinematografica passata sugli schermi del cinema
Odeon il suo pubblico di cinefili quest’anno ha
potuto conoscere anche uno spaccato proveniente dai Paesi del Nord (dove compare
quest’anno per la prima volta l’Ungheria), con
la quinta edizione della kermesse Una finestra sul nord, dialoghi nel cinema ugrofinnico. Il pubblico pomeridiano è scarso, ma è risaputo che senza titoli di grande richiamo o
eventi spettacolari di forte attrazione, il cinema fuori dal circuito distributivo risente del
numero di presenze, ma non per questo deve
essere trascurato, anzi, ed è un bene che si insista. L’offerta culturale dovrebbe includere le
tracce meno visibili e il cinema è una delle testimonianze ancora forti del tempo in cui viviamo, una delle reali possibilità che abbiamo
per intercettare cambiamenti e istanze. La
proiezione del film Hella W. per la regia di
Juha Wuolijoki è preceduta da una breve ma
opportuna presentazione e ci informa che nel
cinema finlandese è il primo film mai prodotto ispirato alla biografia di una donna. Sembra una notizia curiosa, ma a conti fatti in Italia non è mai stato fatto di meglio finora, salvo
annoverare tra le produzioni in materia, le
brutte fiction che la nostra televisione ha dedicato a figure di donne importanti. Hella
Wuolijoki nasce in Estonia nel 1886 e ancora
giovane si trasferisce a Helsinki dove presto
intraprende una carriera di imprenditrice che
la porta con rapidità al successo e al denaro. E’
sposata con un uomo debole e dedito all’alcool
da cui si separa presto, mentre l’amante è
chiamato a gestire parte del suo patrimonio di
cui non può occuparsi in quanto impegnata
in molteplici attività. Hella ha una sola figlia
Vappu, infelice sin dall’infanzia per la solitudine patita nella grande casa materna e due
passioni sopra le altre, la drammaturgia a cui
si dedica con grande successo in Finlandia
(ma anche in America dove è co sceneggiatrice del film The farmer’s daughter prodotto nel
1947 e girato da H.C. Potter, che firma con lo
pseudonimo di Juurakon Hulda) e la politica.
Hella infatti, oltre ad essere impegnata nella
stesura di drammi e sceneggiature per il cinema, per cui ancora è oggi celebrata in patria, è
attiva nel tessere rapporti di mediazione con
la Russia durante la guerra di Continuazione
(1941-1944) e per questo sospettata ed incarcerata dal governo finlandese per attività spionistica con l’accusa di alto tradimento per ideali filo comunisti. La detenzione dura anni di
figura ieratica, antipatica e con un atteggiamento sprezzante che l’accompagna sin dall’inizio della storia. La figlia Vappu soffre della
presenza materna potente e distaccata per
l’intero svolgersi della vicenda, ma saprà come vendicarsi: durante la prigionia della madre troverà infatti un modo per farla soffrire
ulteriormente per le ingiustizie subìte; resta
indubbio comunque, che ogni aspetto degno
di considerazione e di interesse venga qui solo accennato, appena sfiorato, senza scavi, né
Tiina Weckström in “Hella W.” film ambientato in Finlandia tra il 1920 e il 1940, racconta la vita e le opera di Hella
Wuolijoki.
rigida prigionia che inaspettatamente però si
interrompono fino all’anno della scomparsa
nel 1954, a soli 67 anni. Dalla scarcerazione fino alla fine della sua vita, la Wuolijoki è impegnata su vari fronti, ma viene ricordata soprattutto per aver diretto con grande lustro la
radio nazionale finlandese, voce limpida e
forte del programma culturale di una nazione
indipendente di cui è stata una delle protagoniste e non, come a lungo sospettata, cospiratrice (ad un certo momento non si sapeva se
prestasse attività spionistica per i russi o i britannici). Firma la regia di questo biopic il nipote Juha, noto in Finlandia per altre pellicole
dedicate a Babbo Natale e altre commedie. La
fotografia del film è sontuosa, la regia spericolata nei piani obliqui che si offrono allo
spettatore attonito per l’incongruità tra le immagini e il racconto: ovunque è un profluvio
di fumi bianchi a sottolineare la gravità del
momento e la suspense che sembra preannunciare imminenti disastri che invece non
arrivano mai. Gli attori però sono tutti abbastanza bravi e riescono a dare sufficiente credibilità ad un primo tempo confuso per il
troppo dire e la mancanza di chiarezza del come dirlo, e ad un secondo tempo meno vorticoso ma non meno intricato. Hella è una
approfondimenti narrativi. Ad un certo punto
della vicenda e prima dell’esperienza in carcere, appare velocissima e sulla sedia a rotelle la
già bella e oramai sfiorita Alexandra Kollontaj, intellettuale e attivista della componente a
sinistra del Soviet, la teorica dell’amore libero
e dell’”eros alato” (Largo all’eros alato, è uno
dei suoi scritti più celebri), sodale di Rosa Luxemburg e nemica dell’ortodossia. E’ una presenza fugace e troppo superficiale per avere
un peso e un senso. Altre figure femminili come Kertu Nuorteva agente sovietico e figlia di
Santeri Nuorteva a capo del movimento socialista di liberazione della Carelia, hanno un
trattamento simile, seppur congeniali allo
svolgimento dei fatti e alla comprensione degli stessi. Viene il dubbio che il film possa essere compreso solo dai finlandesi a conoscenza della loro Storia, ma anche a queste
condizioni, seppure con falle narrative inconsapevoli, resta la traccia di una donna importante per posizione sociale e autorevolezza, di
cui sarebbe bello approfondire qualcosa di
più. Un nuovo elemento di indagine su cui lavorare, nell’estesa cartografia delle donne che
hanno esercitato un potere e a cui è stato chiesto di pagarne caro il prezzo.
Giulia Zoppi
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n.
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Strange times
Quando il cinema diventa streaming...
Cos’è successo al cinema, negli ultimi dieci anni? Perchè gli ingressi in sala sono diminuiti
notevolmente? Perchè centinaia di multisala vuoti durante la settimana? Dov’è andato a
finire il pubblico? Già...dov’è andato a finire il pubblico?
Se il culto della condivisione del film in sala
era già tramontato a
partire dalla prima
parte degli anni ottanta, oggi è, salvo sporadici eventi, quasi del
tutto scomparso. Dove sarà mai il pubblico? Forse preferisce al
Renato Scatà
cinema altri interessi
o forse il cinema è
un’arte superata, un vecchio ricordo per malati di nostalgia inadatto alla contemporaneità.
Eppure, se fosse davvero cosi, non si spiegherebbero tutti i commenti del pubblico sul nuovo cinema, tutte le critiche sui social network
riferite a film mai distribuiti o addirittura introvabili in home video. Qual’è il mistero legato a questa invisibile forma di distribuzione?
Credo che la risposta più sicura sia lo streaming, con quei suoi server un po introvabili
(dalle isole hawaii a Istanbul, da Bora Bora
all’Alaska) ricchi di archivi meravigliosi e arcani, con materiali impossibili da trovare (lo
streaming è anche e soprattutto ricerca, basti
“invocare” spiriti virtuali potenti come Cineblog01
o il circuito del “film completo” su youtube per
trovarsi di fronte all’indicibile). Ecco dove ripescare nuovamente quella condivisione perduta al cinema, tra i commenti, alla fine delle
pagine online, in quegli spazi dedicati ai pareri degli spettatori, ai gusti, alle mode momentanee; certo una condivisione virtuale, eppure
sincera e schietta come mai accadrebbe nella
realtà (con atteggiamenti oltre la sfera del trash). Credo che la “porta” temporale tra le diverse generazioni che hanno conosciuto il cinema, si stia velocemente aprendo a nuovi
modi di concepire l’arte cinematografica e
non solo. Le critiche a questo pensiero potrebbero essere parecchie, oltre ad una accusa base di adesione alla pirateria online, sicuramente la prima potrebbe essere l’invogliare
gli spettatori verso una consapevole e malsana solitudine. L’immagine dell’uomo a casa,
isolato dal mondo, con la sola luce dello schermo del computer ad illuminarlo, credo sia entrata ormai nel nostro mondo archetipico. Ma
cosa possiamo contro la solitudine a cui ci
hanno costretto i mezzi di comunicazione? Se
cosi è stato scelto, come possiamo contrastare
la realtà? Tornare al cinema (quello vero, di
qualità) è ormai un sogno, le sale chiudono velocemente e le opere che vengono distribuite,
sempre più scadenti. Una delle ultime speranze rimaste per gli “incontri” sono i festival, le
rassegne tematiche, gli incontri creati da svariate associazioni culturali. Ma il futuro rimane da un’altra parte, una parte che non può
più chiamarsi pirateria online ma condivisione gratuita ad un altro livello, verso altre mete, con obiettivi ancora difficili da decifrare.
D’altra parte, il cinema, ci ha sempre fatto
paura.
Renato Scatà
La via della cultura in Puglia si chiama E. Showcard
La tecnologia irrompe nel mondo del Cinema: le Sale e i Festival a
portata di click, con la carta «E.Showcard» ideata dall’Agis
Non solo sconti ma colloquio costante tra chi si nutre di cultura e chi la produce. Una rete
Hi- Tch
Le idee innovative e le
strategie di promozione degli eventi cinematografici (come i
festival e le rassegne)
possono estendere i
Adriano Silvestri
confini della fruizione
culturale, e passano
anche attraverso la creazione di sistemi digitali intelligenti. Nel mondo del cinema la tecnologia irrompe a tutti i livelli: nasce così «E.
Showcard», la prima card elettronica veramente
interattiva, nel senso che, al momento dell’utilizzo da parte dello spettatore che la possiede, un lettore tipo “Pos” (collocato accanto alla
biglietteria del cinema) “registra” automaticamente il suo passaggio, all’ingresso nella sala.
Costituisce un sistema capace di integrare
servizi e comunicazione, in grado di diversificare
10
e modificare le proposte di accesso alle sale,
dirette al pubblico più giovane che - proprio
per via di (altre) soluzioni elettroniche - tende, invece, ad allontanarsi. In questo ambito
nasce «E.Showcard»: in cosa consiste? È una
unica carta, che contiene tante opportunità di
agevolazione e di servizio; si basa su un sistema in grado di registrare, diversificare e modificare le proposte di accesso e di attrazione
ai servizi legati al mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo. Il progetto è stato ideato
a Bari. Intorno allo stesso tavolo lo hanno condiviso tante strutture pubbliche e private, che
difficilmente riescono ad interconnettersi:
enti di ricerca, associazioni, assessorati, esercenti. Hanno anche contribuito, partecipando ad alcuni workshop, tutti gli attori interessati. La carta è collaudata e costituisce la
naturale evoluzione di una prima card, in
distribuzione dal 1999, che ha già favorito l’accesso degli universitari al cinema: ora si trasforma nella versione tecnologica e consente
di poter assistere a prezzo ridotto alle performance di cinema, teatro, danza, musica. Ha
voluto il progetto Francesca Rossini, responsegue a pag. successiva
[email protected]
segue da pag. precedente
sabile Agis di Puglia e Basilicata, che precisa:
«Il sistema è unico nel suo genere a livello Nazionale. Non vogliamo semplicemente una
card, ma un sistema che ci consenta di unire il
pubblico. A settembre presentiamo al mondo
della cultura Italiana questo sistema, grazie
alle convenzioni con i primi partner, Adisu,
Politecnico e Università di Bari, che fanno da
apripista per altre opportunità, in modo da
abbassare il costo al pubblico della card, che si
aggira sui tre Euro.» Ha presentato il nuovo
portale al presidente Nazionale Agis, Carlo
Fontana, il quale ha dichiarato: «Si apre un
nuovo percorso per la nostra associazione. La
cultura deve essere considerata elemento di
sviluppo del nostro Paese ed intesa come momento qualificante, non solo per la crescita
sociale, ma anche sotto il profilo più strettamente economico.» Ne è entusiasta Silvia Godelli, Assessore della Regione Puglia: «Sono
lieta quando, sotto il titolo innovazione, troviamo iniziative culturali. Il progetto va al di
là del panorama Regionale ed abbraccia tutte
le realtà che hanno particolare bisogno di entrare in contatto con la cultura, soprattutto i
giovani delle località più periferiche. Il pubblico universitario rappresenta la massa più ingente di partecipazione ai festival: si pensi al
Bif&st e al Medimex.». Per completare il progetto
Francesca Rossini. Bari. Direttore presso Agis Puglia
e Basilicata
si è sviluppata una riflessione sulla accessibilità, grazie ad un confronto con i responsabili
della comunicazione e della programmazione
dei luoghi culturali, musei, teatri, cinema e laboratori urbani. Una serie di workshop porta
a idee di promozione e di valorizzazione, attraverso l’uso di sistemi tecnologici intelligenti. Gruppi di lavoro hanno tracciato proposte, strategie e prospettive, legate alla
fidelizzazione del pubblico, anche mediante
l’accumulo dei punti. Emerge un quadro di
idee, per creare in Italia una «audience development». Anche un incontro tra amministratori locali si è tenuto sui principi e sulle azioni
concrete per superare l’enunciazione delle
iniziative e confrontarsi sulla programmazione, sul rapporto tra imprese e associazionismo,
su comunicazione e scelte artistiche. Hanno
offerto il contribuito, in particolare: Sergio
Povia, Sindaco di Gioia del Colle, Pino Marchionna, Vicesindaco di Brindisi; Giusy Caroppo, Assessore alla cultura di Barletta;
Gianni Sportelli, Assessore di Santeramo in
Colle, Rocco Mangini, Assessore di Bitonto. Si
è infine concluso il laboratorio “Il Cinema è il
tuo Film”, nell’ambito del progetto Agiscuola
per la formazione di giovani esperti nello sviluppo e nella promozione delle sale cinematografiche, intese come luoghi di cultura e di intrattenimento educativo. Al sud le reti tra gli
operatori dello spettacolo sono quasi del tutto
assenti. Si pensa che “fare rete” possa sottrarre pubblico: invece è il contrario, un’azione di
rete produce una più generale crescita degli
spettatori. Fare rete, tra imprese che fanno attività culturali diverse ma affini, può produrre
economie di spesa e creare sviluppo per tutti.
A ciò può contribuire concretamente il sistema E.Showcard, che ha superato l’ultimo test
di funzionamento del database interattivo sui
servizi collegati ed è ora a disposizione del
mondo del Cinema, come strumento interattivo per la promozione dello spettacolo, “a
portata di click”.
Adriano Silvestri
I dimenticati
Inizia con questo numero una rubrica dedicata ad alcune figure della storia del cinema (soprattutto, ma non esclusivamente, attori) la
cui fama, per i motivi più vari, è caduta immeritamente nell’oblìo.
Renato Cialente
L’anno scorso è passato sotto silenzio il 70°
anniversario della morte di uno dei più preparati, colti e sensibili
attori italiani di teatro
e del cinema della prima metà del Novecento: Renato Cialente.
Era nato a Treviglio, il
Virgilio Zanolla
2 febbraio 1897; esordì
in palcoscenico quindicenne, in Svizzera, e
sottoposto al vaglio del grande Ermete Zacconi fu accolto nella sua compagnia: ma la prima guerra mondiale lo strappò al teatro per
portarlo al fronte. Tornò a recitare nel 1921,
come primo attor giovane nella compagnia di
Annibale Betrone, passando nel ’24 in quella
di Tatiana Pavlova, dove apprese come una religione il metodo Stanislavskij e interpretò
con successo personaggi di Molnár, Arcybašev, Rosso di San Secondo, Dostoevskij,
Gogol e Pirandello (che lo riteneva il miglior
interprete maschile delle sue opere). Intanto,
nel ’20 aveva esordito nel cinema, in “Cenerentola” di Ugo Falena e Giorgio Ricci; l’anno
dopo fu protagonista in tre film: “Come due
navi che s’incontrano nella notte” di regista
non identificato, “Piccola amica” di Andrea
Felice Oxilia, entrambi accanto a Maria Caserini, “La lampada alla finestra” di Oxilia con
Ines Alvares, Luciana D’Oro ed Amedeo Ciaffi;
la sua carriera nel muto si concluse nel ’26,
quando affiancò Italia Almirante Manzini nel
ruolo del conte Reni ne “La bellezza del mondo” di Mario Almirante, film girato sul transatlantico “Principessa Mafalda” in navigazione (vi ebbe una parte anche De Sica). Il suo
primo film sonoro fu la versione italiana di
“Paprika” di Carl Boese, nel ’32; sul set del quale conobbe l’attrice Elsa Merlini, che divenne
la compagna della sua vita e con cui mise il nome in ditta, fondando nel ’34 una compagnia,
dove per sfruttare il talento comico-brillante
di lei fu costretto a ripetute concessioni al repertorio leggero, ma allestendo qualche spettacolo impegnativo come “Il gabbiano” di Čechov (’34), “Marionette che passione” di Rosso
di San Secondo e “La signora Morli uno e due”
di Pirandello (’38), “Piccola città” di Thornton
Wilder (’40), quest’ultimo accolto con enorme
successo. La nuova guerra limitò fortemente
l’attività delle compagnie teatrali, e nei primi
anni Quaranta la coppia intensificò gli impegni cinematografici. Cialente, che aveva affiancato la Pagnani, la De Giorgi e la Merlini
in commediole come “La maestrina” di Guido
Brignone (’33), “L’impiegata di papà” di Blasetti (’34) e “L’albero di Adamo” di Mario Bonnard (’36), occupandosi anche di doppiaggio
(fu il primo a prestare la voce ad Humphrey
Bogart), ottenne ruoli di maggior spessore
Renato Cialente è stato un attore e doppiatore italiano
psicologico, ma in film di scarso peso, come
quelli dell’ingegner Ravardo ne “La fuggitiva”
di Piero Ballerini (‘41) e di Pietro Bontay in
“Gioco pericoloso” di Giorgio Bianchi (‘42),
mentre in classici del periodo come “Piccolo
mondo antico” di Mario Soldati (‘41) e “Un colsegue a pag. successiva
11
n.
20
segue da pag. precedente
po di pistola” di Renato Castellani (‘42) non
spuntò che parti di fianco. L’ultimo ruolo cinematografico dei 39 da lui interpretato fu quello
del diplomatico Costantino Nigra ne “La contessa di Castiglione” di Flavio Calzavara (’43),
accanto a Doris Duranti e Andrea Checchi.
Quell’anno, con l’impresario Remigio Paone
egli formò una nuova compagnia, radunando
ottimi attori come Betrone, Elena Zareschi, Tina Lattanzi, Sandro Ruffini, Mario Gallina e
Aldo Silvani, coi quali intendeva proporre un
repertorio di qualità: “L’albergo dei poveri” di
Gorkij e “l’Amleto” di Shakespeare espressamente tradotto da Eugenio Montale; riuscì solo ad allestire il primo dei due: perché la sera
della prima, il 25 novembre ’43, uscendo dal teatro Argentina di Roma, dove il dramma di
Gorkij era stato accolto con grandissimo esito,
investito dal carro di un’autocolonna tedesca
perse la vita. Si trattò di un incidente o di un
deliberato omicidio? Il caso è rimasto irrisolto.
Ma si sa che Cialente non aveva mai nascosto i
suoi sentimenti antinazisti, e che sua sorella
Fausta, la nota scrittrice, che viveva in Egitto,
in quel periodo conduceva da Radio Cairo un
acceso programma di propaganda contro le
forze dell’Asse.
Virgilio Zanolla
Genovese, classe 1953, pubblicista, saggista e traduttore
dal portoghese e dallo spagnolo; si occupa anche d’arte,
musica e cinema; collabora col Cineclub Fotovideo Genova.n
Capitale europea
della cultura 2019
Sfida a sei: Cagliari, Lecce,
Matera, Perugia-Assisi,
Ravenna, Siena
La Capitale europea della cultura è una città
designata dall’Unione europea, che per il periodo di un anno ha la possibilità di mettere in
mostra la sua vita e il suo sviluppo culturale.
Diverse città europee hanno sfruttato questo
periodo per trasformare completamente la loro base culturale, e facendo ciò, la loro visibilità internazionale. La sola nomination può portare alle città interessate importanti benefici a
livello culturale, economico e sociale a condizione che la loro offerta sia inserita in una
strategia di sviluppo a lungo termine basata
sulla cultura.
La giuria europea tornerà a riunirsi nell’ultimo
quadrimestre del 2014.
Le capitali per il 2014 sono Umeå (Svezia) - Riga (Lettonia), mentre per i prossimi anni sono
state designate:
2015: Mons (Belgio) - Plzeň (Repubblica Ceca);
2016: San Sebastián (Spagna) - Breslavia (Polonia); 2017: Aarhus (Danimarca) - Pafo (Cipro);
2018: Leeuwarden[18] (Paesi Bassi) - La Valletta (Malta).
Per il 2019 oltre ad una città della Bulgaria, l’Italia con una delle 6 nominate.
12
Associazionismo Nazionale di Cultura Cinematografica
XXVIII Assemblea Generale della FICC
I Circoli del Cinema in movimento per preparare le loro
assemblee
In attesa di conoscere
in quali termini la
Commissione per la Cinematografia – Sezione per la promozione
del MiBACT Direzione
Generale Cinema delibererà sui finanziamenti alle Associazioni Nazionali di Cultura
Marco Asunis
Cinematografica, previsti in base all’art. 18 della vigente legge sul cinema, la FICC sta mettendo a punto il programma per l’importante appuntamento della
sua XXVIII Assemblea Generale, in cui sarà
rinnovato il quadro dirigente e dove si tracceranno le proposte di attività e di politica culturale per i prossimi tre anni. Politica culturale
oggi sempre meno distinta e distante da quella delle altre otto Associazioni nazionali, sempre più omogenea invece rispetto a una idea
comune di impegno nella difesa dei diritti del
pubblico. La speranza generale da parte di
tutti è che le decisioni della Commissione segnino un nettissimo cambio di rotta rispetto
ai fortissimi tagli del recente passato, affinché
si possano realizzare compiutamente i programmi e i progetti in cantiere. E’ del tutto
evidente che le due cose, finanziamento pubblico alle Associazioni e impegni programmatici quali può essere un’Assemblea congressuale, non sono tra loro distaccate. Anche per
questa ragione, abbiamo appreso con soddisfazione la notizia di un invito da parte della
stessa Commissione per un incontro con le
Associazioni nazionali agli inizi di Settembre,
finalizzato a conoscerne il lavoro e gli impegni
generali. Tutto ciò con il preciso intento di
procedere immediatamente dopo con la delibera dei finanziamenti. Va da sé che un incontro di questo genere andrebbe fatto quanto
meno agli inizi dell’anno; ancor meglio sarebbe se l’assegnazione dei finanziamenti previsti per legge non fossero limitati all’anno in
corso ma comprendessero almeno un biennio, così da dare maggiori certezze e garanzie
a tutti i soggetti pubblici o privati impegnati
nelle attività culturali. Ma certo è che l’attuale
Commissione, appena eletta e nominata agli
inizi di Agosto, poveretta, di questo nessuna
colpa abbia. Ma l’idea che a metà settembre
dell’anno in corso si sia costretti a prendere
atto dell’entità del finanziamento su cui le Associazioni potranno contare (ma in generale
ciò riguarda tutto il sistema della promozione
cinematografica in Italia e all’estero), resta un
fatto completamente negativo che va quanto
prima rimosso. Pur in una situazione ancora
così ibrida, da par nostro alcune linee organizzative per questo importantissimo appuntamento, che saranno vagliate in ultima istanza
dal Direttivo nazionale, si stanno delineando.
Intanto, in base allo Statuto della FICC, già i
Centri Regionali si stanno mobilitando per
svolgere le loro assemblee, per rinnovare la segreteria ed eleggere i propri delegati; alcuni di
essi, ad oggi, questo compito lo hanno già
svolto. Dopo aver ipotizzato e valutato in un
primo momento l’organizzazione dell’Assemblea nazionale in Piemonte e successivamente
nella città di Roma, si sta concretizzando ora
l’ipotesi che essa possa svolgersi in un altro
luogo. In Sardegna, a Cagliari, esattamente in
una delle sei città italiane selezionate a concorrere per diventare nel 2019 capitale europea della cultura. In questo quadro, in concomitanza dell’appuntamento congressuale,
stanno maturando alcune iniziative culturali
cinematografiche di carattere nazionale ed
internazionale. Il periodo ipotizzato è quello
racchiuso tra l’ultima settimana di ottobre e i
primissimi giorni di novembre. Organizzare
per la prima volta il Congresso FICC in Sardegna significherebbe dare un riconoscimento
alla regione in Italia che comprende il più alto
numero di circoli del cinema, primi elementi
attivi e decisivi di una Associazione che ha le
Massimo Zedda sindaco di Cagliari, è il più giovane
sindaco di un capoluogo regionale
sue origini nell’immediato secondo dopoguerra (nata nel 1947, la FICC è la più antica
delle nove Associazioni nazionali di cultura cinematografica) e che da quasi settant’anni è
caparbiamente impegnata nella divulgazione
del cinema nella società, sia come espressione
culturale e artistica che come strumento unico e formidabile per la formazione critica del
nuovo pubblico. La scelta del Congresso FICC
nell’isola si collocherebbe, inoltre, come valorizzazione diretta di una propensione della
segue a pag. 14
[email protected]
Associazionismo nazionale di cultura cinematografica
FIC (Federazione Italiana Cineforum) LXII Consiglio Federale
(Bergamo, 19-20-21 settembre 2014)
Lettera di convocazione per tutti i cineforum
Care amiche, cari amici,
dal 19 al 21 settembre
2014 è convocato a Bergamo il LXII Consiglio Federale della FIC. Si tratta
di un appuntamento non
rituale, importante per
svariati motivi, non ultiGian Luigi Bozza
mo il rinnovo del Comitato Centrale e degli altri
organi della Federazione in una stagione densa di incertezze e di problematicità anche per
le nostre attività associative, sia a livello nazionale che a livello territoriale per i circoli.
Come ripetuto nei nostri incontri dell’ultimo
quinquennio, l’esigenza di un deciso cambiamento negli assetti organizzativi, e nella progettualità culturale della Federazione, e costituisce una scelta necessaria di fronte agli esiti
di quel lungo processo di trasformazione del
sistema cinema che ha condotto alla «crisi
dell’associazionismo, che negli ultimi anni è
stata ulteriormente aggravata dalla chiusura
delle sale, dall’avvento del digitale e dal venir
meno del sostegno del pubblico, soprattutto
locale»; crisi che richiede (come è stato evidenziato nel recente documento della FIC
proposto alle Associazioni nazionali di cultura cinematografica riguardo le relazioni con il
Ministero) «anche una profonda revisione del
rapporto tra associazione nazionale e singoli
cineforum e circoli, che continuano a sopravvivere nonostante tutto e che cercano in un
certo senso di “cambiare pelle”, cercando di
superare la fisionomia tradizionale dell’associazione come luogo di proiezione di film».
Esigenza di cambiamento divenuta ineludibile a causa del progressivo ridimensionamento
della consistenza del finanziamento nazionale per sostenere le attività dell’associazionismo culturale cinematografico. È in questo
contesto che, spinti da forti motivi di razionalità organizzativa ed economica, abbiamo cercato di ripensare e rimodulare l’operatività
dei servizi federali riunificando le loro diverse
componenti a Bergamo. Gli esiti in termini di
efficienza operativa e dei costi sono senza
dubbio da valutarsi positivamente. Risultata
sufficiente nel breve periodo, questa scelta vede stemperare i suoi effetti di anno in anno
proprio a causa della riduzione dei finanziamenti statali. Finora abbiamo cercato di adottare un atteggiamento di razionalità disincantata, muovendoci sulle questioni del
presente senza lasciarci accecare dalla prefigurazione delle difficoltà future, continuando
a pensare che la condizione della precarietà
quotidiana non debba ineluttabilmente significare assenza di futuro e incapacità di ogni
istanza progettuale. In questo scenario il LXII
Consiglio Federale costituisce un momento
più che importante, (ripetiamo) non rituale,
di riflessione, di elaborazione e valutazione di
proposte, di indicazioni sulle scelte da adottare da parte del nuovo Comitato Centrale che
verrà eletto dai delegati dei circoli. Un momento a cui tutti i cineforum sono chiamati a
partecipare con le loro idee, le loro proposte e
la loro creatività. Il Consiglio Federale, come
consuetudine, si apre con il XXV appuntamento di “Vedere e studiare Cinema”, l’importante incontro annuale di arricchimento
delle nostre conoscenze e di riflessione su
aspetti significativi del cinema, con il secondo
momento del percorso triennale “A spasso tra
divi e divine, 1960-1990” avviatosi lo scorso anno con il divismo classico (Dietrich, Bergman,
Cooper, Brando, Monroe e il divo per tutte le
stagioni James Bond). Al centro della due
giorni di lavoro: il fenomeno attoriale e divistico nel cinema italiano e internazionale,
prendendo in esame il periodo compreso tra il
1960 e il 1990. Una sessione speciale direttamente curata dal Centro Ricerca Attore e Divo
(CRAD) del DAMS dell’Università di Torino è
dedicata alla figura e al lavoro di Marcello Mastroianni, nell’ambito di un più vasto progetto
nazionale di studio sul grande attore, che
prende le mosse proprio dall’occasione bergamasca. Una seconda sessione particolare, curata dalla Sezione Spettacolo dell’Università
di Pavia, è centrata sulle grandi “maschere”
del periodo d’oro della commedia all’italiana.
La terza sessione inquadra infine alcune figure chiave dello scenario filmico internazionale
di quel trentennio: da Jeanne Moreau a Orson
Welles, da Audrey Hepburn a Clint Eastwood
e a Dirk Bogarde. Antologie visive anche appositamente definite, e proiezioni di film
completi, integrano e nutrono i lavori del convegno, come accaduto nella precedente tornata del 2014 dedicata al periodo 1930-‘60, e come previsto anche per la prossima edizione
2015, che si occuperà conclusivamente dei decenni intercorsi tra il 1990 e i giorni nostri.
Gian Luigi Bozza
Presidente FIC
XXV Vedere e
Studiare Cinema –
Convegno di studi in
collaborazione con
Università di Torino
– DAMS – Centro
Ricerche Attore e
Divismo (CRAD),
Università di Pavia –
Dipartimento Studi
Umanistici Sezione
Spettacolo, Lab 80
Programma
Venerdì 19 settembre
ore 15.00: Attori e divi nel cinema internazionale di fine millennio. Tre continuità esemplari: Hepburn, Moreau, Welles. Mariagrazia
Fanchi, Francesco Pitassio, Francesca Brignoli; introduce e coordina Nuccio Lodato
ore 18.00: proiezione del film Gli occhi della
notte (Wait Until Dark, 1967) di Terence Young,
USA, 108’
ore 21.30: proiezione del film Falstaff (Campanadas a medianoche, 1965) di Orson Welles,
Francia/Spagna/Svizzera, 113’
Sabato 20 settembre
ore 10.00: Studiare Mastroianni
Marcello e il cinema italiano. L’attore e divo internazionale. Il personaggio e l’immagine di
genere. Ricezione e definizione del mito. Lo
stile.
Workshop a cura del Centro Ricerche Attore e
Divismo (CRAD) – DAMS dell’ Università di
Torino
Emiliano Morreale, Mariapaola Pierini, Matteo Pollone, Franco Prono, Gabriele Rigola; introduce e coordina Giulia Carluccio
segue a pag. 15
13
n.
20
segue da pag. 12
città di Cagliari a sostenere il cinema in tutte
le sue potenzialità produttive, conclamata dal
recentissimo accordo tra l’amministrazione
comunale cagliaritana guidata dal giovane
Fabio Masala è tra i fondatori della Cineteca Sarda e tra
i relatori della Carta dei Diritti del Pubblico, approvata
nel 1987 durante il Congresso della International
Federation of Film Societies (IFFS) a Tabor nella
Repubblica ceca
sindaco Massimo Zedda e la Film Commission Sarda. Tutto ciò fa risaltare il ruolo dinamico che in Sardegna e particolarmente nel
capoluogo sardo (in cui è presente in forma
pubblica e gratuita la Società Umanitaria - Cineteca Sarda fondata da Fabio Masala, che risulta fondamentale nella sua originale pratica
nel rapporto formativo tra pubblico e audiovisivo in Italia) starebbero svolgendo i circoli
del cinema della FICC, che sostengono in modo attivo le produzioni del giovane ‘cinema
sardo’, attraverso un impegno per una visione
ampia e diffusa sul versante propriamente
“culturale” in Sardegna e non solo. Il Congresso a Cagliari, dunque, oltre agli adempimenti istituzionali tutti interni che dovrà assolvere, indirizzati all’approvazione del
Bilancio, alla elezione del nuovo direttivo, del
presidente e delle altre cariche, darebbe la
possibilità di coinvolgere e far confrontare la
città e i delegati FICC in momenti di formazione e dibattito sui diversi temi che il progetto complessivo propone, legandoli a problematiche socio-culturali nelle sue variabili
nazionali e identitarie, a partire da quelle specifiche presenti e che riguardano i Paesi che si
affacciano nell’area del Mediterraneo. Si intreccerebbero così nel Congresso giornate di
proiezioni e discussioni su film che avrebbero
come tema le città del/nel Mediterraneo,
mondo complesso e dinamico di novità socio
politiche instabili a noi così vicine, che diventerebbero approccio per un confronto profondo sul ruolo dell’Italia, della Sardegna e di
Cagliari nello scenario culturale dell’area mediterranea. Non sottacendo sulle problematiche attuali riferite alle tragiche condizioni di
guerra a Gaza, in Medio Oriente e in Africa,
oltre che sulle drammatiche migrazioni del
nord Africa e sulle sue tragedie che investono
appieno il nostro Paese. Per tale specifica iniziativa, in cui anche gli Enti locali darebbero il
loro apporto in termini di servizi e sostegno,
parteciperebbero sia registi italiani che di altri Paesi del mediterraneo, oltre che rappresentanti della International Federation of
Film Societies (IFFS), a cui la FICC è affiliata.
Ospite d’onore sarebbe la Presidente onoraria
IFFS Luce Vigo, figlia del noto cineasta francese Jane Vigo. A lei e a tutti gli altri ospiti,
elementi conduttori di un incontro con forti
14
caratteristiche di scambio culturale interna- Mostre
zionale, si affiancherebbe la presenza del regista iraniano Kamran Shirdel, a cui sarebbe dedicata una breve retrospettiva. Kamran
Shirdel è una figura di grande rilievo nella interessante cinematografia contemporanea Trento. Il linguaggio
iraniana, tra le più innovative a livello formale cinematografico durante
in questo particolare momento storico. Il regista iraniano, che parla correntemente l’ita- la Grande Guerra. Un
liano in quanto ha vissuto a lungo nel nostro approfondimento sul tema
paese negli anni degli studi al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, attraver- del rapporto tra la guerra
so la sua opera e i suoi interventi proporrebbe e la sua raffigurazione dal
alcune tematiche particolarmente importanti: per un verso rivolte alla evoluzione cinema- punto di vista del cinema
tografica sviluppatasi dagli anni sessanta ai
nostri giorni (profondamente influenzata dal
Ha da poco inaugurato
neorealismo, ma anche dalla nouvelle vague),
la mostra “La Grande
per un altro verso rivolte all’influenza cinemaGuerra sul grande
tografica reciproca che può svilupparsi tra il
schermo”, allestita a
mondo occidentale e quello orientale, in funTrento nei suggestivi
zione di una prospettiva armoniosa, sorretta
tunnel delle Gallerie di
da uno scambio fruttuoso di esperienze cultuPiedicastello fino al 14
rali che siano sintesi di estetiche e di riflessiogiugno 2015. All’interni politiche e sociali rivolte alla pace. Al Conno di una galleria di olMatteo Zadra
gresso nazionale e alle iniziative ad esso
tre 300 metri, avvolta
nella semioscurità di una sala cinematografica, il visitatore ripercorre lo sfaccettato rapporto che il cinema ha intrattenuto con la Prima guerra mondiale, dall’ uccisione dell’arciduca
Francesco Ferdinando fino ai giorni nostri. Al
termine della prima sezione del percorso, interamente dedicata ai materiali girati durante
la guerra, troviamo la sezione “Sala di comando”, curata da Micol Cossali e Valentina Miorandi del Collettivo Azioni Multimediali, un
collettivo che da anni cura e progetta installazioni e percorsi museali caratterizzati da un
Kamran Shirdel nato a Tehran 70 anni fa e padre di
uso interattivo e dinamico della multimedialiuna parte del cinema iraniano moderno impegnato
tà. “Sala di comando” si apre con una citazione
socialmente, ha tracciato la strada per un genere
Sala di comando
di documentario critico e sociale; i suoi film sono
stati proiettati a molti festival in tutto il mondo e ha
ricevuto numerosi premi internazionali.Tra le sue
opere si ricordano invece “Morning of the 4th Day”,
“Mirror”, “The Night It Rained” e “Simin”. Sua anche la
fondazione del Festival dei Film – documentari di Kish,
noto con l’acronimo KIDFF e rampa di lancio di molti
registi emergenti
collegate, si prevede la partecipazione di un
centinaio di delegati provenienti dalle diverse
realtà FICC di tutta Italia. Alla fine di Settembre, subito dopo l’atto di deliberazione della
Commissione per la Cinematografia, saremo
nella condizione di far partire in modo compiuto e concreto la macchina organizzativa
del Congresso, avendo a disposizione (ce lo
auguriamo) tutti gli elementi necessari per
determinarne la sua consistenza e praticabilità. Con questa speranza vi è l’auspicio di rinnovare e perpetuare il lavoro culturale cinematografico della FICC e di tutto l’Associazionismo,
verso un impegno rivolto anzitutto al valore
supremo della pace, oggi quanto mai messo in
pericolo da una condizione internazionale
fortemente destabilizzata.
Presidente FICC
Manifesto della Mostra “la grande guerra sul grande
schermo”
da Tacito: “In ogni battaglia i primi ad essere
Marco Asunis soggiogati sono gli occhi”. Questa osservazione
segue a pag. successiva
[email protected]
segue da pag. precedente
invita subito a riflettere su due aspetti: da un
lato il carattere spettacolare che ha sempre
contraddistinto ogni battaglia, dall’altro la
sottomissione dello sguardo davanti alla scena di guerra. Allo scoppio della Prima guerra
mondiale, questa sottomissione si traduce
immediatamente nella consapevolezza degli
Stati maggiori che la guerra non dovesse venire mostrata nei suoi aspetti più immediati,
estremi e disumani, ma soprattutto che fosse
necessario trasformare la guerra reale in uno
spettacolo, capace di soggiogare lo sguardo
degli spettatori, conquistando la loro adesione e la loro fascinazione. “Sala di comando”
propone così una serie di esperienze interattive, che invitano a operare uno spostamento
critico rispetto a quanto osservato fino a quel
momento e in particolare a un’analisi strutturale di ogni ripresa per mostrare le metamorfosi che ogni immagine può subire. La prima
sezione della sala, “Punti di vista”, prende in
esame l’inquadratura come cornice arbitraria
di ogni immagine e l’accosta a una citazione
da “Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta” di Jean-Louis Comolli (Donzelli, 2006): “Prima di mostrare,
per mostrare meglio, l’inquadratura inizia col
sottrarre alla visione normale una parte importante del visibile. Lo sguardo dello spettatore è inquadrato proprio come la realtà rappresentata”. L’inquadratura è innanzitutto
l’inquadramento dello sguardo degli spettatori stessi: operazione militare di inserimento
all’interno di una struttura che può ammettere solamente alcuni punti di vista (le analogie
tra cinema e mondo militare, come vedremo,
non finiscono qui). È in questa installazione
che l’interattività della sezione raggiunge il
La Grande Guerra sul grande schermo, Gallerie di
Piedicastello, Trento (foto di CAMstudio, 2014)
suo grado più alto e attuale, grazie a due touch-screen collocati al posto del viso in una sagoma di soldato intento a osservare attraverso
la cornice delle proprie mani. Il visitatore,
spostando le dita sullo schermo, può muoversi
a proprio piacimento all’interno delle immagini di parate militari ed esplorare le porzioni
che rimangono fuori dall’inquadratura. Questo gesto di inclusione/esclusione riesce a mostrare quanto sia semplice modificare l’immagine del reale e simultaneamente mette in
discussione la continuità tra immagine e
mondo che persiste nella mente degli spettatori. Le analogie congenite tra cinema e guerra emergono con chiarezza nella sezione
successiva, “Filmare è sparare”: un gioco di
parole che acquista pieno significato nella versione inglese (Filming=Shooting) e che si concretizza nel fucile fotografico di Marey. Questi richiami vengono sintetizzati in un
pannello che presenta una serie di silhouette
che non permettono di distinguere quali siano i fucili e quali i fucili fotografici, quali i caricatori per munizioni e quali quelli per pellicole, facendo sorgere il sospetto che fin dalla
sua nascita il cinema abbia avuto una particolare attrazione per la guerra. La sezione “Ca-
La sezione “Sala di comando”, Gallerie di Piedicastello,
Trento di CAMstudio, 2014
leidoscopio” e quella immediatamente successiva, “I colori del bianco e nero”, analizzano
invece quella che potremmo chiamare
post-produzione, ossia le possibilità di intervento su una sequenza grazie alla sovrapposizione di una colonna sonora o di un filtro colorato. “Caleidoscopio” ci offre infatti la
possibilità di osservare una medesima sequenza scegliendo tra quattro differenti tracce audio: una ricostruzione dell’audio originale, una colonna sonora sinfonica e due
differenti discorsi: la recitazione di un brano
dal diario di un soldato e la registrazione di un
discorso del generale Diaz. Ogni traccia si sovrappone in modo differente alla sequenza e
la trasforma sottolineandone una particolare
angolatura: realistica, istituzionale o elegiaca.
È un’esperienza che rende immediatamente
comprensibile – per riprendere la citazione di
Tacito – quanto la vista sia tendenzialmente
sottomessa anche all’udito, evitando così di riflettere sulle implicazioni che ogni colonna
sonora riversa su un’immagine. “I colori del
bianco e nero” ci consente infine di sovrapporre alla medesima sequenza un’ampia gamma di filtri monocromatici per osservare le
connotazioni suggerite dai differenti filtri. Rispetto all’esperienza passiva dello spettatore,
“Sala di comando” ribalta –giocosamente – i
ruoli tra chi mostra e chi osserva, aiutando il
visitatore a considerarsi parte attiva e a liberare il proprio sguardo dal soggiogamento della
battaglia.
segue da pag. 13
ore 13.00: Buffet (presso l’atrio dell’Auditorium)
ore 15.00: Maschere e tipi sociali del tragicomico italiano.
Metafisica e visionarietà del cinema di fabbrica. Volonté e il corpo biomeccanico. Il personaggio come stereotipo narrativo: analisi di
un caso. La letteratura industriale dal boom
economico alla contestazione. Sordi e il crepuscolo della maschera. Workshop a cura della
Sezione Spettacolo – Dipartimento Studi
Umanistici dell’ Università di Pavia. Lorenzo
Donghi, Luca Piacentini, Giuseppe Polimeni,
Deborah Toschi; introduce e coordina Federica Villa
ore 18.00: Proiezione del film Break Up (1965)
di Marco Ferreri, It/Fr, 85’
ore 20.00: Buffet (presso l’atrio dell’Auditorium)
ore 21.30: Proiezione del film Les amants (id.,
1958) di Louis Malle, Francia, 90’
Domenica 21 settembre
ore 9.30: La FIC e i nuovi scenari.
Relazione del Presidente, Gianluigi Bozza;
presentazione del programma di lavoro per il
2015, relazione sulle attività sociali della Federazione e prima verifica dei servizi dedicati ai
circoli (a cura di Daniela Vincenzi); aggiornamento attività di distribuzione (a cura di Angelo Signorelli); presentazione dell’attività
editoriale (a cura di Adriano Piccardi); relazione del Tesoriere (Cristina Lilli) e del Segretario
(Enrico Zaninetti) sul Bilancio Consuntivo e
Preventivo; relazione dei Revisori dei Conti
sulla gestione finanziaria; votazione per l’approvazione dei bilanci Consuntivo e Preventivo. Dibattito sulle relazioni.
a seguire
Votazione per il rinnovo delle cariche sociali
per il triennio 2014-2017
ore 12.00: Termine dei lavori
La quota di adesione per i delegati dei singoli
circoli è di € 50,00.
Ospitalità
Il servizio di ospitalità a Bergamo comprende
due notti in trattamento di pernottamento e
prima colazione presso due strutture convenzionate (Bergamo Central Hostel e B&B Prenditempo) e i due buffet di sabato 20 settembre
presso l’atrio dell’Auditorium. I lavori del convegno e le giornate di studio si terranno presso
l’Auditorium di Piazza Libertà. Gli incontri saranno aperti alla partecipazione del pubblico.
Tutte le indicazioni dettagliate e la mappa dei
luoghi saranno fornite al vostro arrivo.
Per approfondimenti
www.cineforum-fic.com/2014/05/a-spassoMatteo Zadra tra-divi-e-divine-1960-1990/
E’ membro dell’associazione Nuovo Cineforum Rovereto.
A partire dal 2010 è nel comitato selezionatore del Trento
Film Festival.
ww.camstudio.it
15
n.
20
Location indimenticabili
Firenze, racconti di celluloide
Una città che offre tanti luoghi di seduzione dove girare film
“Per me il cinema è
un’arte della prosa”,
diceva François Truffaut, grande lettore di
romanzi, racconti e
tanto altro. Ed è quasi
sempre attraverso la
prosa che Firenze si
guadagna un buon
Lucia Bruni
posto per la scelta di
location di fascino
adatti ai più disparati set scelti da registi italiani e stranieri. Senza contare che nel 1899
sotto i portici di piazza Vittorio Emanuele
(oggi piazza della Repubblica), Filoteo Alberini, impiegato presso l’Istituto Geografico Militare di Firenze e appassionato di ottica, apre
la prima sala cinematografica della città, il Reale Cinema Lumière. Qui piazze, piazzette,
stradine, vicoli, volte, chiassi, e chiese, monumenti, ville, tutto appare come disegnato appositamente per fare da sfondo alle trame di
infiniti sapori: comiche, drammatiche, leggiadre, cupe, divertenti, allegre e così via; in
ogni tempo e in ogni età. “Camera con vista”,
del 1986, diretto da James Ivory, tratto dall’omonimo romanzo di E. M. Forster, ci porta
nella Firenze del 1907, nella pensione Bertolini, sull’Arno, e con la protagonista si attraversa non solo la città (strade e vicoli attorno a
piazza della Signoria) ma si fanno anche
escursioni nella campagna delle immediate
vicinanze. Così accade per i film tratti dai libri
di Pratolini come il drammatico “Metello” del
1970 diretto da Mauro Bolognini: siamo nel
1902 e la storia muove i passi attorno al quartiere di Santa Croce, al mercato di Sant’Ambrogio, sulle sponde del Mugnone. Ancora
con Vasco Pratolini e sempre per il genere
drammatico, ecco “Cronache di poveri amanti” del 1953, diretto da Carlo Lizzani, che ci
porta in via del Corno, alle spalle di Palazzo
Vecchio, (in realtà via Vinegia per motivi di
“Camera con vista” è un film del 1986 ambientato a
Firenze e diretto da James Ivory,
spazio logistico) per assistere a una Firenze in
epoca fascista. E sempre con Pratolini, sui
lungarni, per il genere commedia, ci troviamo
in compagnia di Giovanna Ralli e Antonio Cifariello nel film “Le ragazze di San Frediano”,
film del 1954 diretto da Valerio Zurlini. Se sostiamo in piazza Duomo, ecco, sempre nel genere commedia, “Ricomincio da tre” , del 1981,
diretto da Massimo Troisi, primo film dietro
la macchina da presa dell’attore napoletano.
Per rimanere nell’ambito della commedia, via
del Parioncino, una stradina stretta e buia
vicino a via Tornabuoni, vede alcune scene del
film “I laureati”, del 1995, con un’altra prima
regia, quella di Leonardo Pieraccioni. E sempre nella stessa via del Parioncino, Pieraccioni
ha girato anche alcune scene dell’ultimo film
(2013) “Un fantastico via vai”. E andiamo ancora in piazza della Signoria per un genere romantico con il film “Luci nella piazza” del 1961
per la regia di Guy Green, con il nostro Rossano Brazzi assieme a Olivia de Havilland. E
sempre in piazza della Signoria indulgiamo al
comico con “A spasso nel tempo”, un film del
1996 diretto da Carlo Vanzina con due “vitelloni”: Massimo Boldi e Cristian De Sica. Se ci
spostiamo in piazza Santa Maria Novella ecco
apparire alcune scene di “Un tè con Mussolini”, del 1999, diretto da Franco Zeffirelli, un
film drammatico con lo sfondo storico dell’ultima guerra. Sul Ponte Vecchio le scene del
dramma erotico “Così come sei”, del 1978, di
Alberto Lattuada con una giovanissima Nastassja Kinski e un meno giovane Marcello
Mastroianni. E infine il diladdarno, la zona
della città che si stende lungo la riva sinistra
del fiume. Ecco il drammatico “La viaccia”,
film del 1961, diretto da Mauro Bolognini, tratto dal romanzo “L’eredità” di Mario Pratesi,
ma anche la famosa esilarante commedia
“Amici miei” del 1975, per la regia di Mario
Monicelli, il film che incarna in tutto lo spirito
ameno, arguto, ironico, malizioso e un tantino irriverente del fiorentino.
Lucia Bruni
Fiorenzo Serra. Documentarista
Fiorenzo Serra (19212005) è stato un grande
documentarista sardo,
che si concentrò prevalentemente a raccontare la sua isola in un
momento storico particolare, nello stesso tempo, di rivolgimenti, regressioni, cambiamenti
Elisabetta Randaccio
antropologici e sociali,
destinati a mutare ambienti fisici e strutture
economiche della Sardegna. Dal secondo dopoguerra alla fine degli anni sessanta nei suoi
cortometraggi (la forma meglio adeguata
all’espressione della sua estetica), Serra ha
narrato i lavori tradizionali, le feste popolari
intrise di elementi di inquietudine etnica, la
pastorizia come paradigma della cultura del
suo popolo, i piccoli paesi esposti ai traumi di
una presunta modernizzazione, le città, rifiorite dopo i drammi dei bombardamenti devastanti del secondo conflitto mondiale. Non
era un antropologo visuale dichiarato, ma il
suo sguardo cinematografico ci ha lasciato
16
testimonianza di un mondo, per certi versi,
totalmente perduto con una accuratezza e
sensibilità preziose per chi si approccia, dopo
tanto tempo, ai suoi lavori. Il suo progetto
maggiormente ambizioso è stato “L’ultimo
pugno di terra”, che, in una delle sue versioni,
vinse il premio “Agis” al Festival dei Popoli di
Firenze del 1966. Questo suo lungometraggio
segnerà l’esistenza e la carriera di Serra,
Fiorenzo Serra
diventando, per la complessità della realizzazione, per le vicissitudini distributive e per i
tagli e i rimaneggiamenti, un vero e proprio
film “maledetto”. La Società Umanitaria-Cineteca Sarda, con la collaborazione dell’Università di Sassari ha portato, a questo proposito, a termine un progetto veramente
interessante con la pubblicazione, nell’edizione “Il Maestrale”, di un doppio DVD e di un libro curato da Giuseppe Pilleri e Paola Ugo.
Questo straordinario lavoro di ricerca, ci aiuta a capire come “L’ultimo pugno di terra” rimanga un bellissimo documentario e uno dei
tanti esempi dell’industria cinematografica
italiana destinato a un tormento produttivo e
distributivo infinito. Finanziato dalla Regione Sarda, che voleva celebrare il “Piano di Rinascita”, dopo anni di vicissitudini nell’ambito del soggetto, della sceneggiatura, dei
collaboratori, delle riprese, quando fu presentato nel 1964 alla Giunta Regionale, fu considerato inadeguato a raccontare l’isola e le sue
sorti “magnifiche e progressive”. La classe politica si rivelò senza senso estetico e non capì,
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comunque, la passione con cui Serra aveva ritratto la sua terra, col suo afflato melanconico,
pessimistico, ma anche lasciando un piccolo
spazio ai mutamenti positivi che, forse, si sarebbero potuti portare avanti. A questo punto,
“L’ultimo pugno di terra” comincia a mutare,
arrivando ad avere almeno quattro versioni di
lungometraggio e uno smembramento in vari
corti. Ora, grazie all’impegno della Cineteca
Sarda, si può fruire del DVD con la versione restaurata e gli extra (curati da Micol Raimondi),
in maniera tale da comprendere chiaramente
la forma del film. I testi del libro allegato sono
altrettanto interessanti e ben curati, aiutano a
raccontare Fiorenzo Serra, il suo spirito, la sua
estetica e la passione per un’opera, su cui, anche negli anni precedenti alla sua morte,
avrebbe voluto dedicarsi ancora una volta.
Così, si leggono come il “romanzo di un film”
oltre i saggi dei curatori Giuseppe Pilleri e Paola Ugo, quelli dei docenti universitari Antioco
Floris e Maria Margherita Satta, del critico cinematografico, fine esperto del regista sassarese, Gianni Olla, di Laura Pavone, responsabi-
“L’ultimo pugno di terra” 1965, capolavoro del regista
e antropologo visuale sassarese Fiorenzo Serra. Nella
foto di scena gli operai di Carbonia
le del restauro, della figlia di Serra, Simonetta,
la quale evoca un toccante ritratto del padre,
mentre in appendice si trova una interessante
intervista che Gianni Olla e Antonello Zanda
hanno fatto a Giuseppe Pisanu. Quest’ultimo
fu autore di una parte del commento del film,
insieme al meglio degli intellettuali sardi
dell’epoca (tra gli altri Antonio Pigliaru, Luca
Pinna, Michelangelo Pira) che ne curarono la
sceneggiatura, avendo creduto al progetto del
lungometraggio, al suo sguardo fermo e, per
certi versi, critico, intriso, però, di poesia e di
attenzione per la forma cinematografica. Nei
titoli di testa vediamo, inoltre, citato Cesare
Zavattini, a cui Serra si era rivolto per una collaborazione, come “consulente artistico”. Per
capire l’innamoramento del grande Zavattini
per il film, si leggano le pagine di “Straparole”,
dove viene descritta con emozione la scena
splendida dedicata alla pastorizia: “ Ho visto
nascere una pecora nel lungo documentario
che Fiorenzo Serra sta girando, è sgorgata fuori come una bolla di sapone....si va avanti: centinaia di pecorelle candide su un prato ondulato, che avranno avuto appena una settimana di
vita, si spostano tutte insieme da un punto del
prato a un altro, leggere, leggerissime come se
avessero aria sotto i piedi...”
Elisabetta Randaccio
segue da pag. 1
Adige e dal 2010 sostiene con contributi imprese cinematografiche e audiovisive che girano
in Alto Adige o ne diffondono l’immagine o la
cultura. Il Mibact si avvale della Commissione
per valutare i progetti di film che gli vengono
presentati. La BLS utilizza il Gruppo. E’ necessario chiarire subito un equivoco sia la Commissione che il Gruppo forniscono soltanto
un parere consultivo. La decisione effettiva
spetta al Direttore Generale Cinema - Mibact
e alla Giunta provinciale per la BLS Alto Adige.
Per valutare la commissione e il gruppo intendo procedere all’esame dei seguenti aspetti:
1. La chiarezza e innovatività degli obiettivi
perseguiti e delle risorse e contributi disponibili;
2. La qualità dei componenti;
3. La qualità dei criteri e del processo decisionale;
4. La qualità dei giudizi;
5. L’influenza dell’amministrazione sulle decisioni;
5. La trasparenza complessiva.
Per valutare gli aspetti evidenziati sono stati
utilizzati i siti della DGC (www.cinema.beniculturali.it) e della BLS (www.bls.info) e la documentazione pubblicata negli stessi siti,
nonchè le mie esperienze professionali presso
la DGC e una serie di domande rivolte ai responsabili del BLS e, infine, alcune fonti giornalistiche. Per consentire un confronto omogeneo si valuterà unicamente la sottosezione
della Commissione che si occupa di riconoscimento dell’interesse culturale e dell’attribuzione di contributi ai film e non di quella che
si occupa delle opere prime e dei cortometraggi o della promozione dei film. Farò riferimento in particolare alla seduta della Commissione del 9 dicembre 2013 e alla prima
Sessione 2014 del Gruppo.
1. Chiarezza e innovatività degli obiettivi perseguiti e delle risorse e contributi disponibili.
BLS: Gli obiettivi strategici della BLS e quelli
specifici nel campo del cinema ma anche
dell’audiovisivo sono esposti con una chiarezza impressionante e sono il punto di riferimento per il lavoro della BLS e del Gruppo. Le
risorse finanziarie sono di cinque milioni annui da assegnare in tre sessioni. I contributi
sono a fondo perduto se si rispetta il contratto
di finanziamento che l’impresa deve sottoscrivere.
Mibact-DGC: Nel sito si fa riferimento agli
obiettivi piuttosto generici (sostenere, promuovere, riconoscere, autorizzare, ecc.) del
Ministero nel campo del solo cinema. Non c’è
traccia degli obiettivi che vengono assegnati
annualmente alla DGC e che potrebbero servire da riferimento concreto per le decisioni
della Commissione. Non sono pubblicate le risorse finanziarie disponibili per le varie tipologie (lungometraggi, opere prime, corti e sviluppo), il cui importo varia annualmente ma
non è più noto a priori da quando non viene
più pubblicata la ripartizione del FUS Cinema. Le risorse sono tutte pubbliche (FUS ma
anche fondi gestiti dall’Artigiancassa). I contributi, teoricamente, non sono a fondo per-
duto ma devono essere rimborsati.
2. La qualità dei componenti.
BLS: le foto e i curriculum di tutti i componenti sono pubblicati sul sito e possono essere valutati da chiunque. Colpisce favorevolmente
che sono in maggioranza donne (3/4) per lo
più di produttori e che gli esperti sono europei, cioè non solo italiani ma anche tedeschi,
austriaci, svizzeri. Gli esperti non hanno una
scadenza, data la natura realmente operativa
del gruppo e hanno un gettone di presenza come rimborso spese.
Mibact-DGC: E’ il punto debole della Commissione. Un tempo ne facevano parte Vincenzo
Cerami, Claudio G. Fava, Giampiero Brunetta,
Dacia Maraini, Mario Verdone. L’ultima commissione invece era chiamata la commissione
delle tre mogli perché ne facevano parte la
moglie di un ex-ministro, la moglie di un ex
deputato e la moglie di un senatore. Esperte di
cinema ? i curriculum dei componenti non sono pubblicati nè diffusi all’interno della DGC,
quindi, è difficile dare una risposta oggettiva
a questa domanda. Si può dire che si applica il
principio che non si fa parte della Commissione perché si è esperti ma si è esperti perché si
fa parte della Commissione. Alla base di tutto
c’è il potere magico che è riconosciuto ai politici italiani di nominare praticamente chi gli
pare come revisore dei conti, consigliere
d’amministrazione o membro di commissione e, quindi, potenzialmente trasformare dei
perfetti incompetenti in esperti, dando l’avvio
a fulgide carriere con conseguenze spesso
perniciose non solo per le vittime delle loro
decisioni. Per fornire ulteriori elementi di valutazione ricordo l’intervista pubblicata su
Repubblica all’inizio del 2014 nella quale una
delle tre mogli dichiarava candidamente che il
lavoro di componente della Commissione era
un hobby. Un’altra delle tre mogli, durante
un’audizione, dopo aver premesso di aver letto tutta la documentazione, lasciò esterrefatto
un produttore straniero chiedendogli informazioni sulla qualità grafica del film d’animazione che intendeva fare. Aveva, infatti, letto
sulla scheda di sintesi preparata dagli uffici
per il direttore e che viene distribuita ai componenti come “sussidio”, che il film era d’animazione ma era un clamoroso errore. E si potrebbe continuare con molte altre prove di
impreparazione da parte degli esperti della
Commissione. Altro punto debole è che il decisore principale, il direttore della DGC, non
solo fa parte ma addirittura presiede la commissione e anche il direttore non è detto
che sia un esperto di cinema. I componenti
segue a pag. successiva
17
n.
20
segue da pag. precedente
dovrebbero durare in carica due anni, rinnovabili una sola volta, secondo il principio, introdotto dalla legge Urbani del ricambio continuo che dovrebbe favorire la diversità
culturale e prevenire la corruzione. In realtà
con trucchi giuridici, che hanno tradito lo spirito della legge, alcuni componenti sono rimasti in carica anche per sette anni. I componenti dallo scorso anno non ricevono più alcun
compenso.
3. La qualità dei criteri e del processo decisionale.
BLS: I criteri sono contenuti nella legge provinciale n. 1/2011, che si può scaricare dal sito,
e sono di semplice comprensione e applicazione. Prima di presentare la domanda un’impresa deve fare un’autovalutazione obbligatoria utilizzando il questionario automatico
presente nel sito e potrà presentare domanda
solo se ha almeno un punteggio di 4 su 16. Deve avere un colloquio obbligatorio con i funzionari della BLS che possono anche sconsigliare la presentazione della domanda. La BLS
istruisce le domande e mette tutta la documentazione a disposizione online degli esperti fornendo loro alcune valutazioni ricavate
dai dati desunti dalle domande. Gli esperti
leggono la documentazione e per ogni progetto compilano un questionario online esprimendo una valutazione da 1 a 10 sui seguenti
aspetti del progetto presentato: 1. sceneggiatura; 2. eco mediatico; 3. valore di mercato; 4.
potenziale nei festival; 5. probabilità di realizzazione; 6. Valutazione riassuntiva (da sconsigliare a pieno appoggio). Le valutazioni della BLS, quelle dei singoli esperti vengono
elaborate da un software che tiene conto anche delle esigenze degli stakeholders e messe
a disposizione degli esperti nel corso della riunione che si svolge 4-5 (sic!) settimane dopo
la presentazione delle domande. In tale riunione gli esperti dispongono quindi di un
quadro completo di tutte le istanze e delle loro
stesse opinioni e discutono di ogni progetto
disponendo di questo quadro complessivo. Al
termine della riunione viene elaborata una
graduatoria come strumento di lavoro e individuati i progetti da finanziare o da rinviare
ad altra riunione. Entro 6-7 settimane dalla
presentazione delle istanze la Giunta provinciale delibera formalmente e approva o modifica le proposte che gli sono state inviate dalla
BLS. Viene data notizia dei progetti selezionati pubblicando sul sito un dossier che illustra tutti i progetti finanziati e l’importo dei
finanziamenti. Non viene data nessuna informazione sui progetti non finanziati. Tutto il
processo si conclude in al massimo tre mesi.
Successivamente l’impresa beneficiaria firmerà un contratto di finanziamento con la
stessa BLS e riceverà a rate l’erogazione del finanziamento e tutta l’operazione si concluderà al massimo entro due anni.
Mibact-DGC:
La Commissione deve contribuire al riconoscimento dell’interesse culturale del progetto
filmico che è il prerequisito per accedere ai finanziamenti. I criteri per il riconoscimento e
18
“La trattativa” è un film di Sabina Guzzanti, che la
Commissione citata nell’articolo, nella seduta del
9 dicembre 2013, non ha riconosciuto di interesse
culturale (nella stessa seduta ha dato il riconoscimento
a “Sapore di te” dei fratelli Vanzina e a “E fuori nevica” di
Salemme). “Pur essendo favorevole al finanziamento
pubblico ministeriale e avendolo chiesto, non l’ho
mai ricevuto con profonda gioia dei miei detrattori.
Non mi hanno nemmeno concesso il non oneroso
‘riconoscimento di interesse culturale” ha dichiarato la
Guzzanti che porterà il film Fuori Concorso al prossimo
Festival del Cinema di Venezia.
il metodo sono contenuti sia nella legge (dlgs
28/04) che definisce l’interesse culturale (art.
8) sia nei decreti attuativi, che individuano i
punteggi assegnati automaticamente ai film
di lungometraggio non opere prime sulla base
dei premi vinti dal regista, degli incassi conseguiti dai film del regista, dei premi vinti dagli interpreti principali e dagli sceneggiatori e
tenendo conto se si tratta di progetti tratti da
opere letterarie e/o sviluppati con il sostegno
del Mibact. Questo punteggio vale 30/100. I
restanti punti sono assegnati dalla Commissione che - sto sintetizzando molto - assegna
70/100 alla qualità artistica, alla qualità tecnica e alla realizzabilità di ogni progetto. I criteri di attribuzione dei punteggi della Commissione sono approvati annualmente nella
prima seduta d’insediamento di ogni esercizio finanziario. I criteri, che sono predisposti
dagli uffici, e poi approvati dalla Commissione con il tempo sono divenuti una normazione di terzo o quarto livello che oltre a contenere gli elementi concreti di valutazione in base
ai quali i commissari dovrebbero attribuire i
punteggi di qualità artistica, tecnica e realizzabilità, si dilunga per decine di pagine sulle
modalità di presentazione delle domande, le
indicazioni da mettere nei titoli di coda o su
altre norme che dovrebbero essere oggetto di
circolari della DGC. Il sistema complessivo
dei criteri in sostanza è complesso e piuttosto
farraginoso. Tutti i progetti vengono messi a
disposizione online della Commissione. Vengono predisposte da lettori, che non sempre
sono funzionari del Mibact, delle schede di
lettura e di sintesi per il direttore e la segreteria del direttore predispone dei prospetti sintetici complessivi sempre per il direttore. Le
schede di lettura, in genere vengono stampate
e messe a disposizione della Commissione
prima delle audizioni. Le audizioni sono obbligatorie per le imprese e ad esse non sempre
partecipano tutti i commissari. Dopo le audizioni, le imprese possono entro pochi giorni
modificare o integrare il progetto. Infine la
Commissione si riunisce ed esprime il proprio parere che viene pubblicato su internet in
genere dopo alcune settimane dalla seduta.
Nel documento pubblicato e chiamato impropriamente delibera (la delibera vera è quella
del direttore) viene pubblicata la graduatoria
con l’indicazione del punteggio del riconoscimento dell’interesse culturale e del contributo
concesso. Le graduatorie riportano anche i
progetti che hanno avuto un punteggio positivo ma non sufficiente per avere l’interesse culturale e/o un contributo. Vengono indicati
anche i progetti bocciati senza l’indicazione
del punteggio e quelli rinviati ad altra seduta.
Tra la data di presentazione dell’istanza e la
decisione dovrebbero passare tre-quattro mesi ma negli ultimi anni i mesi possono essere
anche dodici (come nella seduta in esame). La
delibera del direttore viene comunicata al Gestore dei fondi della DGC che è attualmente
l’Artigiancassa, con la quale l’impresa firmerà
un contratto che prevede il rimborso del contributo. In genere l’operazione si conclude in
un numero di anni in media superiore ai
quattro dalla prima istanza ma in genere superiore a cinque.
4. La qualità dei giudizi.
BLS: Il Gruppo di esperti esprime il proprio
parere su tutti i progetti secondo un metodo
standard per cui in occasione della riunione
per discutere si dispone già di un quadro generale e completo delle opinioni di tutti gli
esperti su tutti i progetti e delle valutazioni
della BLS incrociate con gli interessi degli stakeholders. La discussione avviene quindi su
una base molto concreta e operativa. La seduta della prima sessione 2014 ha esaminato 25
progetti ne ha approvati 9 ed è durata circa 8
ore cioè circa 20’ per progetto.
Mibact-DGC: Il lavoro di esame dei progetti
viene fatto dagli uffici e dalla segreteria del direttore. Non c’è un metodo che garantisca che
i parametri contenuti nei criteri vengano applicati a tutti i progetti. Non tutti i commissari partecipano alle audizioni che non vengono
registrate. Non tutti i progetti hanno quindi
la stessa visibilità. E’ possibile che il giudizio
di alcuni commissari si limiti ai contenuti sintetici delle schede e non all’esame di tutta la
documentazione. Le riunioni, in particolare
quella del 9 dicembre 2013, sono state di una
tale efficienza da far dubitare della efficacia
dei risultati. La seduta si è svolta dalle 10 alle
13 e sono stati esaminate le domande presentate nella seconda sessione di maggio (36),
nella terza di settembre (37) e quelle di sviluppo (126) della sessione unica di giugno. In totale quindi sono stati esaminati 36+37+126 =
199 progetti in 180’, dedicando cioè meno di
un minuto a progetto. I risultati della commissione, che un tempo venivano pubblicati il
giorno dopo la riunione, sono stati pubblicati
il 17 dicembre per quanto riguarda i film e il 23
dicembre per i progetti di sviluppo. Se ne deduce che molto probabilmente la Commissione ha individuato nel breve lasso di tempo
della seduta i progetti “vincitori” e poi ha rimesso agli uffici e alla segreteria del direttore
il compito di sistemare le graduatorie e i punteggi. Tra l’altro nello sviluppo non ci sono
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progetti bocciati. Le motivazioni positive
sono comunque scritte dagli uffici e poi fatte
proprie dalla Commissione ma sono ben poco
significative e da alcuni anni non sono più
pubblicate.
5. L’influenza dell’amministrazione sulle decisioni.
BLS: la BLS è una società di servizi che deve
spendere cinque milioni ogni anno per incrementare il numero di produzioni cinematografiche e televisive nel territorio e migliorare
l’immagine culturale anche a fini turistici
dell’Alto Adige. Né la società né i suoi funzionari nascondono il fatto che, rappresentando
gli interessi del territorio, hanno un interesse
sulle decisioni e si avvalgono degli esperti, i
cui curriculum sono pubblici, per valutare i
progetti anche dal punto di vista del mercato
e della qualità artistica e culturale.
Mibact-DGC: Il Mibact e la DGC tende a utilizzare la Commissione come paravento per le
sue decisioni, sopravvalutandone il ruolo. In
realtà gran parte della decisione è imputabile
in misura di gran lunga superiore al 50%
all’Amministrazione che controlla tutto: decreti, criteri, documentazione e ha tutto il
tempo che vuole per valutare ogni progetto. Il
parere della Commissione appare più come
un orpello formale e burocratico privo di reale
influenza sulle decisioni del Mibact che sarebbero le stesse nel 90% dei casi anche senza
Commissione.
5. La trasparenza complessiva.
BLS: Tutto il procedimento è molto chiaro
(esemplare il grafico in una paginetta che
descrive i sei passi “dalla domanda al pagamento”. Come si svolge il procedimento, compreso il lavoro del Gruppo è chiarissimo, e la
BLS è disponibile a fornire ogni informazione
in merito Non fornisce, però, informazioni
sulle graduatorie, sui risultati negativi (per
tutelare le imprese bocciate) sulle motivazioni
ma può in qualità di società di consulenza fornire suggerimenti e spiegazioni alle società
non finanziate.
Mibact-DGC: I curriculum dei Commissari
non sono mai stati pubblicati. Vengono pubblicati gli elenchi dei progetti presentati, le
date delle audizioni e dopo le sedute le graduatorie con i punteggi (solo positivi) assegnati. Non vengono più pubblicate da diversi
anni le motivazioni. Sono sconosciuti i nomi
dei lettori. Le attività successive alla concessione del contributo e di pertinenza del Gestore dei fondi non sono pubbliche.
Conclusioni. Conclusioni alla prossima puntata.
Ugo Baistrocchi
(*) L’Ostenteria
Che cos’è un’ostenteria, e perché voglio dare questo nome a
questa mia rubrica ? Per spiegarlo è necessario fare una
premessa. Come è noto, gli uffici pubblici dovrebbero essere tutti trasparenti e accessibili. Gli uffici che sono direttamente al servizio dei cittadini dovrebbero essere, addirittura, i più importanti e, invece, quando ci sono, o non
contano niente o si chiamano “URP” (Uffici Relazioni con
il Pubblico), con un acronimo invogliante quanto un rutto. Si pensi che a Roma i “nemici” del sindaco Marino, che
lui stesso ha nominato “consulenti per la comunicazione”,
sono riusciti a perfezionare l’acronimo in “URC” (ufficio
Relazioni con il Cittadino), che - secondo me - evoca immediatamente le conseguenze di una bella capocciata. Nel
Bel paese, dove ogni anno si approvano leggi sulla trasparenza, per l’accesso totale, sugli open data, e contro la corruzione, pullulano, invece, le segreterie e ogni ministro,
direttore, dirigente, e, persino, semplici funzionari, ne
hanno una. Come può essere credibile la trasparenza della
pubblica amministrazione, se gli uffici più importanti
evocano il contrario, se i segretari “particolari” (la cui particolarità ancora - salvo pensar male - non ho mai capita)
contano più dei funzionari e dirigenti assunti per concorso, se gli uffici che si occupano di interessi privati sono più
noti e importanti di quelli al servizio del cittadino? Siccome in Italia non contano i fatti ma le parole ho pensato
che fosse necessario trovare un termine nuovo che indicasse un ufficio che fosse l’opposto di una segreteria, che fosse
destinato a rendere accessibile ogni dato e informazione
pubblici, a contrastare ogni tentativo di “segretare” ciò che
deve essere pubblico, a chiarire ogni dubbio sull’interpretazione dei dati, delle leggi, delle attività, dei soggetti e dei
risultati di una pubblica amministrazione. Ho provato,
quindi, a cercare un nome parlandone con tutti coloro che
conoscevo e con i quali mi capitava di affrontare l’argomento. Sono state fatte diverse proposte interessanti ma la
migliore è stata quella di “Chiamala ostenteria”. Per questo, in attesa di una legge che proibisca per sempre le segreterie (e i segretari particolari) e istituisca le ostenterie,
voglio chiamare “ L’ostenteria” la mia rubrica, nella quale proverò a raccontare quel poco che so e ho capito del Cinema pubblico (e dei suoi annessi e connessi), senza mai
violare segreti privati ma utilizzando dati e informazioni
che sono pubblici o dovrebbero esserlo.
Ugo Baistrocchi
Associazionismo internazionale di cultura cinematografica
Il cinema e l’audiovisivo sono strumenti potenti per affermare
l’egemonia di una nazione
Incontro sulla gioventù e l’occupazione nell’Africa Occidentale svoltosi a Bamako (Mali)
nella Primavera 2014. Casimir Yameogo, membro della Federazione dei Cineclub del Burkina
Faso e della IFFS International Federation of Film Societies, ha inviato a Diari di Cineclub
il suo intervento al Forum delle organizzazioni della società civile dell’Africa occidentale
(FOSCAO)
Per evitare di navigare a
vista sulla questione
dello sviluppo, ma soprattutto nel trattare il
problema generale della
gioventù africana e della sua possibile capacità
di impiego, mi viene suL. Casimir Yameogo
bito da esprimere un
concetto abbastanza semplice: se la gioventù ha la forza di assumersi
oggi l’intera responsabilità del suo futuro,
consegnerà alla storia la prova che essa è il
soggetto ed il garante unico del proprio successo. Nessun dubbio dunque a lavorare per
sostenere tale obiettivo. Però, come è possibile agire in un contesto socio politico che non
favorisce l’emergere del valore intellettuale o
politico della nostra gioventù? Voi mi direte:
quest’interrogativo può trovare risposta nelle
capacità singole di ogni individuo. Certo, ma
uno dei freni allo sviluppo dell’Africa che contribuisce all’affievolirsi della passione in numerosi giovani, in questo caso quelli del mio
paese del Burkina Faso, è proprio questa tendenza al disimpegno. Appare in tutta evidenza oggi una incapacità delle giovani generazioni a impegnarsi dinanzi ai fatti che gli
succedono attorno, tardano a prendere decisioni che toccano nel profondo le loro vite
senza che ne vengano influenzati. Credo che
un esame di tipo psicologico dovrebbe essere
fatto sulla gioventù di oggi, affinché essa possa svegliarsi e accorgersi dell’enorme potenziale che ha dentro di sé, per agire verso un
futuro più luminoso, che è il suo e quello del
proprio Paese. Sono d’accordo con il pensiero
di Cheick Anta Diop* quando asserì che: “in
ogni giovane africano dorme un costruttore
della nazione che solo una buona istruzione
può risvegliare”. Non possiamo non essere
d’accordo sul principio base che la gioventù
abbia capacità in abbondanza e che rappresenti “la punta di diamante delle nostre nazioni”. Allora è necessario rompere le catene che
la tengono legata, rompere con lo stato di disoccupazione a cui è soggetta, apprendistato
alla delinquenza e a un comportamento antisociale, che porta alla droga e all’alcool, solo
per citare alcune piaghe. Per questo è fondamentale impostare una politica educativa:
formare e ancora formare. Purtroppo la formazione scolastica nei nostri paesi africani, e
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19
n.
20
segue da pag. precedente
in particolare in quelli dell’Africa Occidentale,
presenta notevoli limiti e criticità: quando gli
istituti sono pubblici (scuole e università) l’insegnamento è accessibile a tutti, ma l’incuria
e l’indifferenza regnano sovrani. Questo accade spesso quando facciamo affidamento sulla
possibilità di frequentare solo per due anni lo
stesso Ateneo (Università di Ouagadougou è
un caso esemplificativo). Gli studenti accettano senza mezzi termini queste situazioni limite e lì si fermano nel proprio percorso di
studio e di formazione, con tutte le conseguenze che possiamo vedere e immaginare.
Eppure è proprio in quel momento che “la dove si abbatte lo scoraggiamento, lì deve elevarsi la vittoria del perseverante”, come asseriva
Thomas Sankara**. Ecco perché prima di affrontare le responsabilità politiche dei governanti, è necessario sollevare la voce per scuotere la gioventù da questa apatia, affinché
capisca che una persona fisica e riconosciuta
giuridicamente ha il dovere di imparare a essere padrona del suo futuro e il diritto di godere dei frutti del suo lavoro. Tutto questo è
indubbio che si sviluppa attraverso uno sforzo individuale, che però va incoraggiato e accompagnato da una cultura politica collettiva.
In particolare, deve essere combattuta l’assuefazione alla subalternità verso quanti sono
riusciti ad acquisire conoscenza e potere. Ricordiamocelo il proverbio popolare: “Le verdure sono verdi man mano che crescono, ma
cominciano a marcire non appena diventano
mature”. Attraverso la conquista di questa consapevolezza critica verso la realtà che ci circonda, Zig Ziglar*** ha attratto la nostra attenzione sul pericolo che incorriamo, se per
qualche ragione siamo proprio noi giovani a
rinunciare alla formazione e all’apprendimento in tutti i campi. Il cammino sarà certo
lungo, e chi oggi ci governa sviluppa delle insidie; la corruzione e il favoritismo imperversano e le politiche a favore dell’istruzione non
rappresentano gli obiettivi prioritari e non sono in linea con le prospettive di sviluppo del
continente. Per questo è fondamentale che la
gioventù sia formata molto più di oggi, se
vuole cambiare i propri governanti. E’ questo
il passaggio che bisogna fare per cambiare le
cose. In questo c’è disaccordo con il
pensiero di Zig
Ziglar, che nel
suo libro intitolato “Ci vediamo sulla
Federazione dei Cineclub del cima” sottoBurkina Faso
valuta il valore dell’impegno formativo collettivo. Il Forum di Bamako deve fissare le basi per un
autentico sviluppo, che deve incoraggiare la
gioventù contemporanea. Questo è il motivo
per cui dobbiamo evidenziare, senza remore
nel corso degli workshop, la nostra parte di responsabilità politica e culturale e trarne le dovute conclusioni. Bisogna senza indugi accettare di investire oggi per la formazione dei
giovani, cercando di dar loro il gusto del rischio affinché solo loro si sentano gratificati e
pronti a raccogliere i frutti di questo impegno. Tuttavia, resta il fatto che i governi devono assumersi anche loro la loro parte di responsabilità, sapendo indicare e valutare le
priorità. A questo si aggiunge la necessità per
i nostri capi di Stato di accelerare la revisione
dei programmi per un progetto che porti a
sviluppare l’ istruzione e l’occupazione dei giovani. Come possiamo ignorare il compito politico decisivo di indicare queste decisioni? Non
diciamo niente circa il monitoraggio e la valutazione dei progetti, affinché si applichino
sanzioni drastiche contro coloro che si arricchiscono illegalmente? Inoltre come intervenire nella politica clientelare tra la gestione
degli affari di stato e l’assunzione di giovani
disoccupati, in un gioco politico che non sempre rivela gli interessi veri che si celano. Questa situazione non ha fatto che alimentare crisi e conflitti interni che, a volte, si sono
trasformati in autentici genocidi. Consapevoli perciò dell’importanza del ruolo che i giovani hanno in questo processo di sviluppo ed
emancipazione, ma anche del possibile ruolo
violento e destabilizzante che essi possono
causare se indottrinati, risulta imperativo sostenere da parte nostra le università della vita,
che sono le organizzazioni della società civile
e le diverse associazioni culturali che hanno
come obiettivo della propria azione il futuro
dei giovani e per loro si dedicano anima e cuore. Questa politica di “dare ai giovani una ragione di esistere e farli partecipare al processo di sviluppo” può e deve essere attuata. Ciò
può avvenire attraverso una struttura che con
passione promuova un lavoro per cambiamento positivo verso i giovani. Possiamo organizzarci attraverso la FOSCAO che ci riuni
sce, con il CEDEAO, con la Federazione burkinabé di Film Clubs FBCC e tutte le altre strutture qui presenti. Una cosa è certa, il cinema e
l’audiovisivo sono strumenti potenti per far
affermare l’egemonia di una nazione. Può essere però anche il contrario, come la brace
che affumica, soffoca, avvinghia e brucia. E’
necessario dunque che il cinema sia utilizzato
nel modo giusto, come nel caso dei dibattiti
cinematografici con il pubblico organizzati
dalla FBCC per educare e formare i giovani a
una cultura della critica e dell’autoconsapevolezza. E’ così che si impara a partecipare alla
gestione della cosa pubblica e soprattutto a
mettere in gioco i propri pensieri e la propria
parte di responsabilità nella costruzione e l’edificazione di un paese forte e democratico. E
così che i giovani possono essere in grado di
dare la giusta direzione anche in una notte
profondamente oscura.
L. Casimir Yameogo
Professore di Letteratura Francese, Segretario generale
della Federazione dei Cineclub FBCC del Burkina Faso,
Segretario Generale aggiunto del gruppo Africa/ Federazione Internazionale dei Cineclub FBCC
*Cheikh Anta Diop (Diourbel, 29 dicembre 1923 – Dakar,
7 febbraio 1986) è stato uno storico, antropologo e fisico
senegalese; **Thomas Isidore Noël Sankara (Yako, Alto
Volta, 21 dicembre 1949 – Ouagadougou, Burkina Faso, 15
ottobre 1987) è stato un militare e politico burkinabè, ex
presidente del Burkina Faso, diventato simbolo di integrità e coscienza storica della inalienabile lotta contro ogni
oppressione
*** Hilary Hinton Ziglar più conosciuto come Zig Ziglar
(Coffee County, 6 novembre 1926 – Plano, 28 novembre
2012) è stato uno scrittore e speaker motivazionale statunitense.
Traduzione dal francese a cura di
Patrizia Masala
E’ uscito nelle sale a fine Luglio l’opera live
David Lynch e i Duran Duran: il concerto diretto dal regista del
surreale
La band simbolo del pop anni Ottanta è approdata nei cinema per un evento speciale che
vede il ritorno del maestro americano dietro la telecamera
Giulia Marras
20
Era da un po’ di tempo
che il nome di David
Lynch non compariva
sulle locandine dei film
nelle sale. L’ultimo lavoro da regista risale al
2006, “Inland Empire,
l’impero della mente”
ultimo (per ora) capitolo
di una filmografia che ha riscritto le basi per
una nuova estetica e una nuova teoria cinematografica. Nonostante l’assenza dai cinema, Lynch però non è scomparso, anzi, forse
non è mai stato così attivo e visibile come negli ultimi anni: ha prodotto film di altri autori
(per esempio “My son, My Son What Have Ye
Done” di Werner Herzog nel 2009); nel 2007
ha ideato la mostra “Art is on Fire” ospitata
alla Fondation Cartier a Parigi, mentre nel
2012 ha esposto gran parte della sua produzione pittorica alla Tilton Gallery di New York;
nel 2011 è uscito il suo primo disco da cantante e musicista solista, “Crazy Clown Town”; ha
avviato una collaborazione artistica con la casa di moda Christian Louboutin e infine va
tutt’ora in giro per il mondo per promuovere
segue a pag. successiva
[email protected]
segue da pag. precedente
la pratica della meditazione trascendale, che egli stesso esercita
da oltre trent’anni. A fine Luglio
invece David Lynch è tornato in
sala per una settimana di proiezioni eccezionali del concerto di
Duran Duran da lui diretto, in
collaborazione con la American
Express per il progetto Unstaged, una serie di live delle band
più affermate del momento girati da alcuni dei più grandi registi
contemporanei (Terry Gilliam
per gli Arcade Fire, Anton Corbijn per i Coldplay, Werner Herzog
per The Killers). Non si tratta
quindi di un vero e proprio film,
né di un documentario sulla
band inglese che fece la sua fortuna negli Ottanta, decennio che
consacrò anche il maestro tra gli
autori maggiori del cinema americano con “The elephant man”,
“Dune”, “Velluto blu” e “Cuore
Selvaggio” prima del successo
mondiale della serie televisiva
“Twin Peaks” e i successivi capolavori tra cui anche “Strade perdute” e “Mulholland Drive”. “Duran Duran Unstaged” è invece la
ripresa diretta della tappa del
tour americano di Simon Le Bon
e compagnia a Los Angeles: due
ore del repertorio di maggior
successo e brani del nuovo album, “All you need is now”, con
ospiti speciali e un pubblico entusiasta. Il tocco lynchiano c’è e
si vede: il concerto rimane sullo
sfondo quasi sempre in bianco e
nero mentre davanti si sovrappongono e alternano immagini e
giochi di colore dal gusto surrealista ed enigmatico tipico dello
sguardo del regista. Come annuncia lo stesso Lynch all’inizio
dello spettacolo, il film è “un
esperimento di immagini musicali spontanee”; così, mentre i David Lynch, genio multimediale nella caricatura di Luigi Zara
Duran Duran suonano le hit del
palco o dal pubblico
periodo del New Romantic, dell’invasione dei
sintetizzatori nonché del thatcherismo e del si colora. Le immagini quindi si trasformano
disagio sociale delle classi operaie, sullo scher- e trasformano la superficie, ma qua l’operamo sfilano immagini di ingranaggi meccani- zione non può spostare troppo il significato
ci, orologi, lampadine, rimandi al mondo con- del visibile: quella dell’American Express risumistico degli anni Ottanta (la Barbie mane in fondo una mossa puramente comdurante “Reach up for the Sunrise”), richiami merciale, scegliendo di portare al cinema il recinematografici (la spirale hitchcockiana in gista più famoso e quindi più “vendibile” tra
“Notorious”) e naturalmente all’universo arti- gli altri nomi del progetto Unstaged. E nonostico lynchiano, tra marionette deformi, gal- stante i segni del lavoro di Lynch siano ben rilerie e strade (non più perdute), animali im- conoscibili, non bastano a dichiararne la compagliati, pupazzi animati. Si aggiungono poi pleta riuscita; sicuramente i fan dei Duran
serie di mash-up visivi che richiamano le tec- Duran rimarranno molto più soddisfatti di
niche sperimentali dei dadaisti (le rayografie) quelli del regista. “Unstaged” è un incontro
e dei surrealisti con la ricontestualizzazione tra musica e cinema in cui le due arti rimandi oggetti di uso quotidiano come chiodi e for- gono distaccate, si sfiorano e si osservano l’un
chette in un campo estraneo mentre ogni tan- l’altra, senza mai pienamente salutarsi, né
to qualche dettaglio, qualche personaggio sul dialogare per uno scambio reciproco di idee.
Peraltro le sperimentazioni qua
osate sono ricorrenti, manicali
nell’opera lynchiana e per questo
qui forse quasi scontate: è noto,
guardare un film di David Lynch
è un’esperienza perturbante,
mai di facile e unica interpretazione. Se nei primi lavori la trama era ancora individuabile e
classica (“The elephant man”,”
Twin Peaks”,” Cuore selvaggio”)
per quanto già angosciante, già
da “Velluto blu” e poi definitivamente con “Strade perdute” lascia il sentiero della narrazione
convenzionale per trattare il materiale filmico come rielaborazione del materiale inconscio e
onirico. Pur continuando ad affrontare registicamente altri testi, scritti da terzi (“Una storia
vera”), i film da lui sceneggiati
diventano labirinti di stanze –
letterali e non – simulacri di spazi mentali sommersi dalla coscienza quotidiana, forse mai
esplorati, in cui compaiono personaggi ed elementi estranianti,
provenienti da mondi diversi.
Evidentemente collegati anche
con la meditazione trascendentale, lungometraggi come
“Velluto blu”, “Mulholland Drive” e “Inland Empire” riflettono,
proprio tramite l’indagine dei diversi livelli di realtà soggettiva, la
relazione fondante dello spettacolo tra lo spettatore e il cinema
stesso. La duplicazione dei personaggi, dello sguardo voyeuristico all’interno dell’immagine
filmica costruisce un discorso
simbolico sull’immaginario hollywoodiano e sulla rappresentazione immaginifica del reale
attraverso il linguaggio meta-cinematografico. “Il fatto moderno è che noi non crediamo più a
questo mondo” (Gilles Deleuze,”
L’Immagine tempo”), non crediamo più neanche nella nostra
coscienza, crediamo più al cinema: questa è
l’operazione lynchiana per eccellenza, mostrare al cinema ciò che non vediamo più di
noi stessi, l’inconscio e si suoi fantasmi. Non
possiamo quindi annoverare il concerto dei
Duran Duran tra le vere opere di Lynch: è un
gioco di colui che può permettersi di giocare
con le immagini e la musica di quello che dichiara essere il suo gruppo preferito, in attesa
che quei giochi divengano di nuovo arte, cinema, a modo suo, senza intermediari. Come
grida anche Simon Le Bon alla fine del concerto Unstage: “David Lynch si è teletrasportato
in un universo parallelo a questo, ma migliore”.
Giulia Marras
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n.
20
La visione dci classici nel teatro
Le proposte del 67° Ciclo dei Classici al Teatro Olimpico di Vicenza
di Emma Dante
Dal 17 settembre al 26 ottobre in scena lavori firmati da Babilonia Teatri, Romeo
Castellucci, Mimmo Cuticchio, Andrei Konchalovsky, Simon Abkarian e la stessa Emma
Dante
“Il viaggio al di qua del
confine”. È questo il
tema scelto da Emma
Dante per il suo primo
anno come direttore
artistico del Ciclo dei
Classici al Teatro Olimpico, il 67° nella storia
del teatro coperto più
antico del mondo, in
Giuseppe Barbanti
programma sul palcoscenico vicentino dal 17 settembre al 26 ottobre prossimi. ”. La rivisitazione dei testi classici, e dei valori culturali di cui essi si fanno
portatori anche nel mondo contemporaneo, è
un cardine del teatro di Emma Dante che in
molti suoi spettacoli, spesso in dialetto siciliano, inserisce elementi, situazioni e personaggi archetipici. Sette gli allestimenti in cartellone. Ad aprire il ciclo sarà la stessa Dante,
autrice, regista e (cosa assai poco frequente)
anche interprete della prima assoluta, dal 17 al
20 settembre, di “Io, Nessuno e Polifemo”, lavoro ispirato all’omonima intervista impossibile pubblicata dalla regista siciliana, alcuni
anni fa, nella raccolta “Corpo a Corpo” per i tipi di Einaudi. Odisseo sbarca nella terra dei
Ciclopi: la stessa Emma Dante, sulla scena,
tremante, incontra Polifemo. Ironico e loquace le racconta del suo nemico. Con lei gli attori
Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, tre
danzatrici e le musiche composte ed eseguite
dal vivo da Serena Ganci. Si tratta una produzione del Biondo Stabile di Palermo, di cui
Emma è da quest’anno artista residente: lo
spettacolo andrà, poi, in scena dal 25 al 30 settembre al Teatro Franco Parenti di Milano. E
legato al tema dell’Odissea sarà anche il laboratorio che dal 18 al 24 settembre la Dante terrà con un gruppo di attori dal titolo “Verso
Itaca”: al centro del lavoro dei partecipanti
sarà l’analisi degli incontri di Odisseo con le
figure femminili di Calipso, Nausicaa, Circe,
Scilla e Cariddi, Atena, Penelope. Il cartellone
proseguirà il 26 e 27 settembre con “Ménélas
Emma Dante
22
rebétiko rapsodie” di e con Simon Abkarian,
concerto poetico dedicato alla figura di Menelao, marito di Elena, la bellissima giovane rapita da (o fuggita con, a seconda dei punti di
vista) Paride, causa scatenante della guerra di
Troia. L’artista, armeno di nascita ma protagonista di un grande successo in Francia, si
esibirà in francese accompagnato da Giannis
Evangelou alla chitarra e Grigoris Vasilas alla
17 e il 18 ottobre approdo all’Olimpico per Andrei Konchalovsky, che per lo spazio palladiano firmerà un’originale rivisitazione abbreviata dell’Edipo a Colono. “Un detto dice che
per chi pensa, la vita è una commedia, e per
chi sente, la vita è una tragedia. – scrive nelle
note di regia l’uomo di teatro russo - Io vorrei
cercare di capire tramite la risata in quale momento la vita diventa una tragedia”.Il 22 e 23
Il Teatro Olimpico è un teatro progettato dall’architetto rinascimentale Andrea Palladio nel 1580 e sito in Vicenza.
È il primo e più antico teatro stabile coperto dell’epoca moderna
voce e al bouzouki, insieme per ridare vita alla
poesia rebetica, simbolo di libertà per tanta
parte dell’area mediterranea e balcanica. Il 3 e
4 ottobre “Giulio Cesare. Pezzi staccati”, lavoro che riprende uno storico allestimento del
1997 della Societas Raffaello Sanzio, “Giulio
Cesare” Si tratta di un intervento drammatico
tratto da quest’ultimo spettacolo e intitolato
“Pezzi staccati”: da un lato il personaggio di
“…vskij”, allusione a uno dei padri fondatori
del teatro occidentale, inserisce una telecamera endoscopica nella propria cavità nasale
fino alla glottide, proiettandone l’immagine
su uno schermo circolare che visualizza il
viaggio a ritroso della voce fino alla soglia delle corde vocali. Dall’altro, un attore laringectomizzato pronuncia l’orazione funebre di
Marco Antonio per Giulio Cesare. Due monologhi speculari firmati da Romeo Castellucci,
uno dei maggiori registi che operano in Europa nel campo della ricerca e sperimentazione
teatrale. Dal 10 al 12 ottobre appuntamento on
l’Opera dei Pupi, grazie a “La pazzia di Orlando”, firmata da Mimmo Cuticchio. A seguire il
ottobre ritorno di Emma Dante con “Verso
Medea”, ripresa dello spettacolo proposto due
anni fa, quando la regista fu ospite della prima stagione olimpica firmata da Eimuntas
Nekrosius. E infine, il 25 e il 26 ottobre, appuntamento con Babilonia Teatri e la sua originale visione del teatro: la formazione veneta
proporrà la sua nuova produzione “Jesus”,
racconto intorno a Gesù liberamente tratto
dai Vangeli, scritto da Valeria Raimondi ed
Enrico Castellani. Un viaggio all’origine della
nostra religione per capire dove nasce il bisogno di credere. Per confrontarci con l’inquietudine che c’è in ognuno di noi. “Gesù mi ha
consolato, mi ha coccolato, mi ha tenuto calma e serena; anche lui ha sofferto, ha vissuto,
ha lottato e poi alla fine anche lui è morto. Ma
con happy end. Morto e risorto.- dice Valeria
Raimondi, autrice dello spettacolo insieme a
Enrico Castellani- Non mi devo preoccupare,
non devo aver paura, tutto si sistemerà, saremo di nuovo tutti insieme un giorno. Per una
vita vera. Al di là delle nuvole”.
Giuseppe Barbanti
[email protected]
Quei bravi ragazzi. Il cinema dei Rolling Stones
(I parte: gli anni ‘60)
“La classe operaia va in
Paradiso”, recita il titolo di un film di Elio Petri. Dubito che ciò possa valere, anche solo
come auspicio, per “quei
bravi ragazzi” dei Rolling Stones: figli della
Vincenzo Esposito
working class inglese
(non propriamente operaia), nati e cresciuti nei sobborghi a sud di
Londra, dove, nei difficili anni del secondo dopoguerra, era assai più probabile che la classe
lavoratrice incontrasse il diavolo tentatore anziché Dio. Lì, da qualche parte, a un ipotetico
incrocio tra i manicomi di Dartford, gli arsenali
di Woolwich e le ciminiere di Gravesend, i giovani “Glimmer twins” Mick Jagger e Keith Richards, con i sodali compagni di strada, devono aver siglato un patto diabolico che consente
loro di fregiarsi, ancora oggi, del doppio titolo
di “più grande e longeva rock’n’roll band di tutti i tempi”. Di certo c’è che, nella seconda metà
degli anni ‘50, sulla sponda meridionale del Tamigi, incontrarono Elvis. Non quello vero, in
carne e ossa - il quale, com’è noto, non si esibì
mai oltre i confini nordamericani -, ma la sua
“riproduzione tecnica”; quello di celluloide, il
“delinquente del rock and roll” che, dal 1956,
cominciò ad apparire sugli schermi di tutto il
mondo (compresi quelli delle periferie proletarie di Sua Maestà) in qualità di attore-cantante,
diffondendo il verbo della nuova musica con
l’ausilio luciferino delle immagini in movimento. La rivelazione per Jagger e Richards avvenne più precisamente nel 1957, allo State Cinema di Dartford, dove il fascio di luce del
proiettore materializzò, per la prima volta, davanti ai loro occhi, il Re che cantava e ballava
sul grande schermo uno scatenato rock “carcerario” in “Jailhouse Rock” (Il delinquente del
rock and roll, 1957). Del resto, contemporaneamente, qualche centinaio di chilometri più a
nord, sulle rive del fiume Mersey, altri figli della
classe operaia vivevano un’esperienza analoga
nelle sale cinematografiche di Liverpool. Mi pare non sia stato compreso ancora pienamente
che il rock‘n’roll della prima generazione, quello di Elvis Presley, Chuck Berry, Little Richard,
ecc., ebbe sui giovani inglesi dell’epoca un impatto devastante perché, attraverso il mezzo
del cinema, arrivò già corredato del suo affascinante, abbagliante apparato iconografico, e
apparve subito come una rivoluzione audiovisiva totale, non soltanto musicale. Il cinema, soprattutto quello americano, insegnò a Mick,
Keith, e a tanti altri, che non bastava “essere”
per diventare qualcuno e scappare dalle periferiche paludi del regno: bisognava anche “apparire”. Era necessario costruirsi un’immagine
forte e originale, che parlasse a tutti e sfondasse le barriere idiomatiche. Basterebbe leggere
le loro dichiarazioni per averne conferma. Sono
loro ad aver dichiarato più volte, nelle vecchie
interviste o nelle recenti autobiografie, che fu il
cinema e non la radio o il giradischi a portare
nella vecchia Albione il nuovo vento del cambiamento. D’altra parte, nella seconda metà
degli anni ‘50, in Gran Bretagna, la radio trasmetteva popular music non più di un paio d’ore a settimana, e dischi e giradischi non erano
facilmente accessibili a chi era stato costretto
a crescere con la tessera annonaria. Nella sua
autobiografia “Life”, Keith Richards ha ricordato: «Dovettero passare nove anni perché potessi entrare in un negozio e dire, se avevo i
soldi: “Posso avere quelle caramelle?”. Sennò,
il ritornello era: “Hai la tessera annonaria?”». Il
cinema americano e la nuova musica arrivarono a braccetto nel Regno Unito e… niente fu
più come prima! Per almeno uno dei bravi ragazzi, l’incontro con le immagini in movimento
avvenne proprio nel 1957, non sul grande ma
sul piccolo schermo di una rete televisiva commerciale, l’ATV. All’epoca, Joe Jagger, il padre di
Mick, lavorava per un’associazione culturale il
cui scopo era di incoraggiare gli adolescenti a
praticare sport, e a lui fu affidato un ruolo di
collegamento con questa emergente emittente televisiva. Quando i vertici dell’azienda fecero sapere che avrebbero avuto bisogno di ragazzini per un programma intitolato “Seeing
Sport” (sugli effetti benefici dell’attività fisica),
Joe propose suo figlio. Nell’unico frammento rimasto, il quattordicenne Mick mostra (un po’
seccato, per la verità) al conduttore-istruttore
le sue scarpe da ginnastica adatte a scalare
montagne. Intorno alla metà degli anni ‘50,
L’adolescente Mick Jagger nel programma televisivo
Seeing Sport, 1956
l’Inghilterra stava sposando l’immagine dell’America: sognava una vita privata con meno privazioni e una pubblica meno rigorosamente
classista. “Classless” (aclassista), appunto, era
un termine molto diffuso tra gli artisti appartenenti all’Independent Group londinese che si
era imposto all’opinione pubblica internazionale con una mostra, tenutasi nel 1956, dal titolo
efficace, “This Is Tomorrow”. Il gruppo capì, prima e meglio di altri, l’importanza delle nuove
tecnologie dell’immagine, dell’interdisciplinarietà dell’arte, dei mass media, della cultura popolare. Una cultura che fosse capace di offrire
non soltanto un nuovo modo di fruire l’arte,
ma anche di “viverla” in maniera libera e creativa. Un’arte composta di ritmi, iterazioni,
corrispondenze, contrappunti. Un’arte pop,
che non fosse solo linguaggio ma stile di vita.
L’Inghilterra, insomma, si preparava per la rivoluzione della Swinging London degli anni Sessanta, la cui colonna sonora sarebbe stata
composta principalmente dai Beatles e dai Rolling Stones. Proprio nel solco dell’interdisciplinarietà indicato dall’Independent Group, entrambe le band collocarono subito la loro
musica al centro di un universo d’immagini in
movimento, alla ricerca di un nuovo cronotopo. Nel vecchio continente, i primi a darsi al cinema erano stati i Beatles, tra il 1964 e il 1965:
prima con un documentario dei fratelli Maysles
(maestri del Direct cinema americano),
“What’s Happening. The Beatles in the Usa”; e
poi con due lungometraggi di finzione diretti
da Richard Lester - un americano trapiantato in
Gran Bretagna e ben inserito nel movimento
del Free Cinema -, “A Hard Day’s Night” (Tutti
per uno, 1964) e “Help!” (Aiuto!, 1965). Gli
Stones ci arrivarono dopo, ma a modo loro, seguendo percorsi cinematografici inusuali, obliqui, underground. I film pop prodotti sia negli
Stati Uniti (Elvis) sia in Inghilterra (Beatles),
non sembravano sposarsi bene con l’immagine
di “brutti, sporchi e cattivi” che il gruppo voleva trasmettere. Bisognava cercare nuove strade. Nell’estate del 1965 Keith Richards annunciò al New Musical Express un progetto
cinematografico tratto da “Arancia Meccanica” di Burgess, con Jagger nel ruolo di Alex;
com’è noto quel film riuscì a realizzarlo solo
Kubrick, molti anni dopo. Non si realizzarono
mai neanche i «cinque lungometraggi nei prossimi tre anni» strombazzati dalla Decca sul finire dello stesso anno, il primo dei quali avrebbe
visto un paio di Stones coinvolti in una trasposizione del romanzo di Dave Wallis “Only Lovers Left Alive”, nel quale lo scrittore immagina
un mondo distopico abitato solo da giovani
selvaggi e dissoluti. Ambizione, approssimazione, e probabilmente molta invidia per quello
che stavano facendo i Beatles, non aiutarono
musicisti e produttori a eseguire con lucidità la
quadratura del cerchio. E così, alla fine, si ripiegò su un film meno velleitario. A dirigerlo fu
chiamato Peter Whitehead, che poco sapeva
di musica pop, pur provenendo dalla città dei
Beatles. Sulla carta sarebbe dovuto essere un
semplice reportage del tour in Irlanda dei Rolling Stones, ma il regista riuscì a tirar fuori
un’opera indipendente, perfettamente in linea
con lo stile del cinéma vérité francese: un ritratto in bianco e nero, poco incline a esaltare
il nascente mito degli Stones, e più preoccupato, invece, di cogliere la natura fenomenologica della nuova realtà pop. L’aspetto paradossale di quest’opera nonfiction, a tratti persino
sperimentale, è che i veri protagonisti non sono Mick e Keith, bensì Brian Jones e soprattutto il batterista Charlie Watts. A quest’ultimo,
infatti, si ispira il titolo del film, “Charlie Is My
Darling” (1966): «Charlie si dimostrò il più
segue a pag. successiva
23
n.
20
segue da pag. precedente
originale e fotogenico del gruppo, una specie
di Oliver Reed del rock», dirà il regista in seguito, quasi a giustificarsi. Whitehead si fa portatore di una grande nemesi pop: colui che soli-
I Rolling Stones nel film documentario diretto da Paul
Whitehead, “Charlie Is My Darling”
tamente occupa un posto in seconda fila sul
palco durante i concerti, cioè il batterista, assurge a ruolo di frontman nella nuova dimensione audiovisiva. I “Glimmer twins” vengono
anche oscurati dal serioso Brian Jones, che con
la sua aria da filosofo, a un certo punto, arriva
finanche a prefigurare la sua tragica fine: «Diciamolo chiaramente, il mio futuro come Rolling Stones è molto incerto», mentre i due
compari Mick e Keith se la ridono cinicamente
alle sue spalle, comportandosi come certi brutti ceffi dei film di Scorsese. Il “cinema della verità” del filmmaker di Liverpool, in buona sostanza, riesce a cogliere con naturalezza i
segnali d’incomprensione esistenti all’interno
del gruppo. Nella sua autobiografia, con l’abituale schiettezza che lo contraddistingue, Richards non lascia dubbi in proposito: «Il lato
comico di Brian era la sua illusione di grandeur,
ancora prima che fosse famoso, per qualche arcano motivo pensava che fossimo la sua
band». Non mancano i momenti volutamente
ilari: Jagger che si lancia in un’esilarante imitazione di Elvis, e un inaspettato e ironico fuori
campo sonoro che, per un attimo, lascia filtrare
la musica dei rivali Beatles. Dal punto di vista
cinematografico, il 1968 fu un anno importante per i Rolling Stones. Ben tre pellicole, infatti,
li videro coinvolti a vario titolo. Secondo l’ordine cronologico delle riprese: “One Plus One/
Sympathy for the Devil” di Jean-Luc Godard;
“Performance” di Donald Cammell e Nicolas
Jean-Luc Godard sul set del suo film “Sympathy for the
Devil”
Roeg; e “The Rolling Stones Rock and Roll Circus” di Michael Lindsay-Hogg. “One Plus One/
Sympathy for the Devil” (esistono due versioni
del film, ma non è questa la sede per un’analisi
24
filologica) fu l’unico dei tre film a ottenere una
regolare distribuzione subito dopo le riprese. Il
grande regista francese ebbe l’intuizione di filmare gli Stones in studio durante le sedute di
registrazione di un unico brano, “Sympathy for
the Devil”. Come se avesse capito che quella
canzone in particolare sarebbe diventata un inno generazionale, un turning point da immortalare nel momento della sua annunciazione.
Le sequenze girate in studio sono essenziali e
allo stesso tempo raffinate. La Mdp segue
spesso la narrazione musicale con fluidi movimenti in piano sequenza; alternando, però, la
prospettiva storica disegnata dalle liriche di
Jagger (scritte ispirandosi a “Il maestro e Margherita” di Bulgakov) con frammenti audiovisivi di tutt’altra natura (apparentemente): un dibattito intorno al pensiero di Marx; l’attrice
godardiana Wiazemsky che scrive slogan sui
muri di Londra; un’analisi semiseria sullo stato
dell’editoria pornografica; militanti afroamericani che leggono testi sui diritti civili dei neri.
Insomma, un film pop, che, attraverso un nuovo linguaggio contaminato dalla musica rock,
si libera agilmente delle convenzioni borghesi
e auspica nuovi stili di vita. “Performance” (Sadismo, 1968/1970) è, invece, il primo lungometraggio che vede Jagger in veste di attore
protagonista. La presenza degli altri Stones
non era prevista, neanche per la colonna sono-
droga, alle perversioni sessuali, e al travestitismo. In “Sadismo”, scrive con ragione Corrado
Morra, «Turner (è) un eroe à la Des Esseintes,
insieme maschio e femmina, fuori dal sistema
produttivo delle merci. […]. È il prototipo del
nuovo corpo della rock star ai tempi della fine
delle illusioni». Alla fine di quello stesso anno,
sempre alla rincorsa dei rivali di Liverpool, l’agente cinematografico e televisivo Sandy Lieberson propose al gruppo di fare qualcosa per
la Tv, come avevano fatto i Beatles il Natale
precedente (anche in veste di registi) con “Magical Mystery Tour”. Il surreale mediometraggio dei Beatles per la BBC si era rivelato un fiasco, ma proprio per questo, ora, gli Stones
avrebbero avuto l’opportunità di fare meglio.
Così, presi dall’entusiasmo, Mick e soci, tirarono fuori, di tasca propria, 50mila sterline per finanziare un film televisivo completamente indipendente, senza dover cedere ai ricatti della
BBC. Chiamarono Michael Lindsay-Hogg, col
quale avevano già girato il video promozionale
di “Jumpin’ Jack Flash”, e insieme trovarono nel
circo il tema portante dell’opera. “The Rolling
Stones Rock and Roll Circus” (1968/1996) non
John Lennon e Mick Jagger in “The Rolling Stones
Rock and Roll Circus”
Mick Jagger nel film “Sadismo”
ra. Girato nello stesso anno del “Circus”, “Sadismo” fu distribuito solo due anni dopo, e fu un
disastro: scene ai limiti della pornografia, il dialetto cockney quasi incomprensibile parlato
dai protagonisti, e il linguaggio filmico provocatorio, relegarono l’opera nei bassifondi invisibili del cinema underground. Dopo il debutto
americano, il Time lo definì «Il film più inutile
mai realizzato». Anche se la prestigiosa rivista
americana Film Comment, qualche decennio
dopo, definirà la prestazione di Jagger come
«La migliore interpretazione cinematografica
mai realizzata da un musicista». Dal punto di
vista musicale, il contributo offerto dal leader
dei Rolling Stones fu esiguo: solo una canzone,
quella principale, “Memo from Turner”, e un’esecuzione (diegetica), chitarra e voce, di “Come on in My Kitchen” di Robert Johnson. “Sadismo” è un film sulla dissoluzione, e racconta la
storia di un giovane gangster in fuga, Chas (James Fox), che trova rifugio presso Turner (Mick
Jagger), una rockstar solitaria che vive in un appartamento assai bizzarro. Insieme alle sue due
ragazze conviventi, Turner inizia il malvivente alla
era un’opera pretenziosa come “Magical”, ma
nascondeva, a far da collante, una metafora
shakespeariana forte: la tenda del circo come
grande palcoscenico popular, popstar come
saltimbanchi. In un’atmosfera apparentemente hippie riuscirono a coinvolgere anche altri
loro colleghi: dai Jethro Tull agli Who, perfino
Yoko Ono e John Lennon. Sotto una grande
tenda ricostruita in studio, le esibizioni dei musicisti si alternano a spettacoli circensi veri e
propri. Gli Stones presentano i numeri, in attesa di una sfavillante esibizione finale. Mick è
l’unico a ritagliarsi qualche battuta di dialogo
extra. Il contributo di Brian Jones, alla fine, venne bruscamente tagliato. Gli Stones, evidentemente, non erano tagliati per la filosofia Peace
& Love: la vendetta nei confronti di Jones era
cominciata. Mick e Keith erano in pieno flirt
con Satana, e di fatti, è proprio “Sympathy for
the Devil” a chiudere le danze, con un’esibizione di Jagger «da vero sciamano», per usare le
parole del regista. Per motivi ancora oscuri,
però, il film non fu mai trasmesso in Tv, e scomparve fino al 1996. L’anno seguente, il 2 luglio
1969, Brian Jones, membro fondatore dei Rolling Stones, fu trovato morto annegato nella
piscina di casa sua, nel Sussex. Il decesso era
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stato provocato da un cocktail di droghe e alcol. Fu solo il primo di una lunga serie di eroi
musicali moderni sacrificati giovanissimi sull’altare del pop. Due giorni dopo la sua morte, i
Rolling Stones trasformarono un concerto a
Hyde Park in un commovente tributo all’amico
scomparso. Jagger lesse versi dell’ ”Adonais” di
Shelley, migliaia di farfalle furono liberate in segno di romantico commiato; ma asfissiate dalla lunga permanenza in scatole di cartone,
queste caddero tramortite sulle teste degli
spettatori. Il concerto venne ripreso da Jo Durden-Smith e Leslie Woodhead per la Granada
Televison (The Stones in the Park). Qualche
mese dopo, partirono per un nuovo lungo tour
negli States, destinato a diventare tristemente
famoso. La tragedia consumatasi allo Speedway di Altamont (California) il 6 dicembre
1969, durante il megaraduno voluto dai Rolling Stones per chiudere in bellezza la loro
tournée statunitense, in fondo, sembra proprio
uno dei rivoli diabolici del romanzo “Il maestro
e Margherita”. Il documentario che David e Albert Maysles ne trassero, rimane ancora oggi
uno dei più interessanti esempi di cinema rock,
e, più in generale, uno dei migliori documentari
mai realizzati. Jean-Luc Godard considerava i
fratelli Maysles i più bravi cameramen americani, e fu lui stesso a raccomandarli agli Stones.
“Gimme Shelter” (1970), questo il titolo dell’opera, documenta gli ultimi dieci giorni del viaggio in America: dall’esibizione al Madison Square Garden fino al megaraduno di Altamont, al
Poster originale del film “Gimme Shelter” dei fratelli
Maysles
quale presero parte anche i Jefferson Airplane,
Santana, Ike & Tina Turner, e un pubblico quasi
pari a quello di Woodstock. Il servizio d’ordine,
per ragioni incomprensibili, fu affidato agli
Hell’s Angels, una squadra di motociclisti violenti e alcolizzati, che trasformò un pacifico
happening hippie in un bagno di sangue. Il film
non racconta gli eventi seguendo un ordine
cronologico. I piani narrativi sono sostanzialmente due, con altrettante dimensioni spazio-temporali: il primo è quello rappresentato
dal girato realizzato dai registi al seguito della
band; il secondo, invece, è dato dalle reazioni
degli Stones di fronte a quelle stesse immagini
che scorrono sul monitor del banco di montaggio Steenbeck, e che evidentemente sono ancora in fase di post-produzione. Un vero e proprio esercizio di montaggio funambolico,
insomma, che, col pretesto della “musica del
diavolo”, esibisce una delle più intelligenti riflessioni sull’ambiguità del gioco cinematografico. La narrazione corre veloce verso le immagini della violenza e dei disordini scatenati
dagli Hell’s Angels, e cristallizza per sempre “la
morte in diretta” di un giovane diciottenne di
colore, accoltellato da un angelo dell’inferno
davanti al doppio sguardo di Mick Jagger: quello ametropico lanciato dal palco e quello emmetropico incollato davanti all’implacabile moviola. La musica passa in secondo piano,
“Gimme Shelter” documenta qualcosa di più:
la fine di un’epoca. Da quel momento in poi,
sarà difficile far passare l’idea che la musica
rock fosse un’ondata di pace e amore. Si aprivano i tormentati anni ’70…
Vincenzo Esposito
“Quei bravi ragazzi. Il cinema dei Rolling Stones” (II parte: dai ‘70 a oggi) sarà pubblicato sul prossimo numero.
Esperienza Cinematografica (magari vi viene voglia di ri/vedere un film)
Capitolo II
L’angelo sterminatore
Titolo originale: El angel exterminador; Regia: Luis Buñuel; Anno: 1962; durata: 95 minuti
Daniele: Tore!
Tore: Si?
Massi: ti decidi? è abbastanza tardi, non c’è il
benzinaio, c’è il self service.
Tore: Hai ragione, dovrei rifornire ma...
Daniele: Ma?
Tore: magari con il carSalvatore Lobina
burante che abbiamo
nel serbatoio arriviamo a casa di Alessà
Stefano: Che senso ha? Siamo a fianco alla
pompa di carburante, scendo io?
Tore: no, tranquillo, faccio io.
Daniele: siamo in ritardo, decidi: scendi o
parti, inizio ad avere fame.
Massi: forse Tore ha ragione, ci mancano poche miglia, riforniremo al rientro.
Stefano: Luis Buñuel
Massi: cosa?
Stefano: il film che ho visto ieri sera è di
Buñuel.
Daniele: il surrealista...
Stefano: Enedina voleva uscire fuori a cena, ci
siamo preparati poi ad un tratto col cappotto
addosso, davanti alla porta ci siamo guardati
negli occhi e insieme, senza neppure parlare
abbiamo cambiato idea. Ci siamo sdraiati sulla poltrona e ci siamo rilassati guardando
“L’Angelo Sterminatore”.
Massi: il solito film americano dove un tizio fa
fuori tutti con una mitragliatrice?
Tore: scherzi? Stiamo parlando di uno dei più
grandi registi del XX secolo, il più famoso
esponente del cinema surrealista.
Daniele: l’ho visto: delle persone sono ad una
cena molto elegante, e alla fine della cena
quando cercano di lasciare la stanza non ci riescono.
Massi: aspetta un momento questo è Midnight in Paris di Woody Allen!
Tore: No! Cioè si, ma in Midnight in Paris del
2011, il protagonista Gil si ritrova trasportato
di novant’anni indietro nel tempo, nella mitica Parigi degli anni venti dove incontra gli
scrittori e gli artisti che a quell’epoca soggiornavano in città: Francis Scott Fitzgerald con
la moglie Zelda, Hemingway, Salvador Dalí,
Picasso, Luis Buñuel. E proprio a quest’ultimo
Gil suggerisce la trama de “L’Angelo Sterminatore”.
Daniele: ahahahha, e il giovane Buñuel non
capisce perché queste persone non riescano
più ad uscire dalla casa, Woody si è proprio divertito scrivendo questa sceneggiatura, e questa citazione.
Massi: Woody? Lo chiami Woody? Avete fatto
il militare assieme? Comunque fatemi capire:
delle persone dopo aver cenato non riescono
più ad andare via dalla casa? Hanno mangiato
calabrese?
Stefano: il regista racconta la storia in stile
surreale e onirico, quando questi benestanti
sono costretti a convivere insieme per molti
giorni, perdono la loro maschera e si rivelano
per quello che sono: lussuriosi, ipocriti, violenti, pervertiti, insomma si trasformano in
animali!
Daniele: è ovvio che trattandosi di Luis Buñuel
la trama è molto più complessa di come te la
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25
n.
20
segue da pag. precedente
stiamo presentando noi.
Stefano: ricapitoliamo, circa venti persone
dell’alta società si ritrovano invitati a cena in
questa lussuosa villa, mentre tutti gli invitati
arrivano, la servitù, al contrario va via con delle scuse varie, spinta da una stranissima inquietudine vanno via tutti tranne il maggiordomo.
Massi: si, ma por qué?
Daniele: riuniti nel salone gli ospiti ascoltano
musica, discutono sino a tarda notte, sino a
quando decidono di rincasare. A quel punto
però nessuno riesce a varcare la soglia del salone.
Massi: si, ma por qué?
Tore: tra gli ospiti vi sono un medico, un architetto, dei massoni, un direttore d’orchestra, un soprano, un colonnello, insomma tutti gli invitati appartengono all’alta borghesia.
E tutti vengono bloccati da questa barriera invisibile...
Stefano: rimarranno bloccati per diversi giorni all’interno del salone, la cosa incredibile è
che non solo gli ospiti non riescono ad uscire,
ma anche dall’esterno nessuno può entrare
nella villa.
Massi: si, ma por qué? No entiendo!
Daniele: una curiosità: il titolo della pellicola è
ispirato ad un’idea di José Bergamin, il titolo
inizialmente sarebbe dovuto essere: Los naufragos de la Calle Providencia. Un giorno Bergamin confidò a Buñuel che avrebbe voluto
intitolare una sua opera L’Angelo Sterminatore, entusiasta Buñuel gli chiese di “prestarle” il
titolo, Bergamin rispose che non era una invenzione bensì apparteneva ad un’opera molto più antica, l’Apocalisse della Bibbia.
Stefano: ecco perché il film inizia con un’inquadratura al nome della via dove è ubicata la
Luis Buñuel: “È sufficiente che la palpebra bianca dello
schermo possa riflettere la luce che le è propria per far
saltare l’universo”.
villa: Calle de la Providencia.
Tore: un’ altra curiosità: in un’intervista a
Buñuel, riportata sul libro Buñuel por Buñuel,
gli venne chiesto se L’angelo sterminatore
26
poteva essere una parabola della condizione Il SardiniaFilmFestival e le sue
umana, e lui rispose: “Sulla condizione bor- sezioni
ghese, meglio. Fra operai non sarebbe la stessa cosa, sicuramente ci sarebbe una soluzione
all’essere rinchiusi. Per esempio, in un quartiere operaio un uomo battezza sua figlia, riceve cinquanta amici per una festa e alla fine
non possono uscire... Io credo che in qualche
modo troverebbero l’uscita”
Il SardiniaFilmFestival di Sassari e la sua capacità di coinvolgere altri comuni, come Martis e Villanova Monteleone nella realizzazione
di progetti importanti per tutto il territorio. In
questa ottica ad agosto si sono tenute le sezioni del Sardinia Film Festival “Life after oil”
(Martis 1 - 3 Agosto) e il “Premio per il documentario Villanova Monteleone” dal 21 al 23
agosto. Partnership d’eccezione è la Regione
Sardegna, che ha inserito l’evento tra i quattro
progetti pilota per la valorizzazione del territorio.
www.sardiniafilmfestival.it
Massi: si, ma por qué?
Buñuel: Perché? Perché un operaio è più abituato alle difficoltà concrete della vita.
Massi: quindi mi sembra di capire che i protagonisti del film rimangono per sempre chiusi
in casa?
Ste: aspetta, dunque succede che ...
Tore: altolà! Non puoi raccontare questo dettaglio, rovineresti il film...
Daniele: è noto a tutti quanto Buñuel fosse anticlericale e soprattutto antiborghese, ma lui
ci teneva a precisare che quando girava un
nuovo film il suo intento non era fare un film
contro qualcuno.
Ste: ecco, siamo arrivati, la casa di Alessà è
quella, puoi parcheggiare a fianco alla sua
Uno Bianca.
Daniele: e delle pecore e dell’orso che girano
per la casa vogliamo parlarne?
Massi: pecore? Orsi? Cosa c’entrano con la trama?
Tore: un’altra volta, ora ho fame e...
Massi: ragazzi! non riesco ad aprire la portiera, siamo chiusi dentro, come facciamo ad
uscire?
Ste: vuol dire che rimarremmo bloccati qui
per giorni e giorni?
Tore: calma, quella portiera è difettosa, apre
solo dall’esterno, ci penso io.
Alessà: ragazzi, finalmente, non ci speravo
più! Dai che oggi si mangia e si beve bene...
Daniele: cosa ci ha preparato il cuoco?
Alessà: spero vi piaccia la cucina Messicana!
www.lifeafteroil.org
1st Life After Oil - La
vita dopo il petrolio
Martis (SS)
Il Premio cinematografico internazionale Sardinia Film Festival, brevettato a Sassari nel
2006,
continua
ad
espandersi
nell’Isola.
Dall’anno scorso Villanova Monteleone ne
ospita una sezione riservata ai documentari italiani e quest’anno si è
fatta coinvolgere anche
Martis, con il Premio Life After Oil per i film di
tematica ambientale. L’
Grazia Brundu
“esperimento Martis” è
riuscito benissimo e ha
trasformato il piccolo centro dell’Anglona in
un laboratorio dove, dall’1 al 3 agosto, registi e
spettatori si sono confrontati su alternative
“verdi” al petrolio, nuove tecnologie energetiche e scenari geopolitici. La mente e l’anima
Salvatore Lobina
segue a pag. successiva
[email protected]
segue da pag. precedente
della nuova sezione del Sardinia Film Festival
è quella di Massimiliano Mazzotta, regista pugliese residente a Sassari, autore della docu-inchiesta “Oil” sui danni alla salute umana
e all’ambiente provocati dalla raffineria Saras
nel territorio di Sarroch. È stato lui a suggerire un’unione di forze: da una parte, un festival
conosciuto internazionalmente; dall’altra, l’esperienza nel campo delle tematiche ambientali e civili. Life After Oil è stato fortemente
voluto anche dallo stesso paese di Martis e dal
nostro territorio». Molto meglio «rendere autosufficienti, quanto prima, tutte le case di
Martis con pannelli fotovoltaici». Insomma,
Life After Oil è stato il festival giusto nel posto
giusto. L’ha dimostrato l’entusiasmo degli
abitanti, insieme a quello delle centinaia di
persone arrivate in paese per tutti e tre i giorni della manifestazione. Del resto, i 19 film in
concorso non potevano lasciare indifferenti.
Tra i più apprezzati, in anteprima italiana
“The litium revolution” di Andreas Pichler
(Miglior Documentario), un’istantanea di un
Foto di gruppo di alcuni registi partecipanti al 1st Life After Oil (foto di Carlo Dessì)
suo sindaco Tiziano Lasia. Il comune, infatti,
con altri paesi dell’Anglona (e diverse località
sarde) è al centro di un progetto per la produ-
Massimiliano Mazzotta
zione di energia geotermica, che ha suscitato
legittime preoccupazioni per i possibili effetti
nocivi sulla salute e sul territorio. Territorio
che comprende, per inciso, una foresta pietrificata risalente a 20 milioni di anni fa. Perciò,
ha spiegato il sindaco «l’Anglona ha elaborato
un protocollo d’intesa contro progetti che non
l asci ano n e s s u n t i p o di r ic c hezz a n el
mondo dove si fabbricano sempre più automobili, destinate soprattutto alla Cina e ai Paesi emergenti, e dove il litio potrebbe essere la
risposta pulita alla non lontana fine del petrolio. Lo sfruttamento delle materie prime, e dei
popoli nei cui territori si trovano, da parte di
multinazionali avide e incuranti dei diritti
umani è stato raccontato da “Terra nera” di Simone Ciani e Danilo Licciardello (premio
Isde, Medici per l’ambiente), mentre il pericolo legato all’uso dell’energia atomica era al
centro di “Il signore di Fukushima” di Alessandro Tesei (Miglior Cortometraggio). Gli altri film premiati sono stati: “The Human Horses” (Miglior Regia a Marco Landini e Rosario
Simanella); “Supra Natura” di Seth Morley &
Dem (Miglior Fotografia); “Hometown Mutonia” di ZimmerFrei (Miglior Colonna Sonora);
“Piccola storia di mare” (Miglior Attore Teodosio Barresi); “Ladiri di Andrea Mura” (Premio
Consulta Giovanile di Martis); “Introspection”
del giovanissimo, appena sedicenne, Francesco Stefanizzi (Menzione Speciale). A proposito di premi, è un merito di Life After Oil il
fatto che, diversamente da altri festival, sempre più penalizzati dalla scarsità dei finanziamenti, qui siano stati assegnati, oltre alla targhe, anche riconoscimenti in denaro, sempre
utili per i registi al debutto o comunque agli
inizi della carriera.
Grazia Brundu
Intervista
all’Assessore alla
cultura del comune
di Elmas (CA) partner
ufficiale del Life
After Oil
Assessore Fadda, da pochi
giorni le è stata consegnata
la delega alla cultura per il
comune di Elmas. E’ significativo che tra i suoi primi
impegni di spesa vi sia la
concessione di un contributo al Life After Oil - Sezione
Patrizia Masala
del Sardinia Film Festival,
in corso di svolgimento a Martis. Ha voluto sottolineare con la firma dell’atto amministrativo l’alta
valenza culturale dell’iniziativa?
“Life after oil” è un progetto culturale che ci riguarda tutti da vicino, avendo preso la piena
consapevolezza che il petrolio è una risorsa
non rinnovabile e dunque presto esauribile, è
obbligatorio da parte della collettività ingegnarsi con alternative ecologiche-sostenibili.
L’iniziativa inoltre ci aiuta a valutare le valide
vie d’uscita da questa crisi ambientale e sociale che stiamo vivendo. Certo che può rappresentare anche un’opportunità per capire le varie prospettive di una visione nuova del nostro
modello di vita e di crescita. E’ sorprendente
rilevare che le logiche con cui affrontiamo le
Luca Fadda, Assessore alla cultura comune di Elmas
nostre attività economiche siano ben lontane
da quelle naturali. Inoltre conosciamo l’alta
professionalità degli organizzatori dell’evento
e sono sicuro che sapranno ben raccontare cosa ci sta capitando attorno, spesso senza rendercene conto, con un buon senso critico che
in noi non deve mai mancare.
I film presenti in concorso mostrano modelli di vita
e di città alternative al petrolio. Ritiene come amministratore che nei processi di riorganizzazione delle
funzioni delle città si debbano necessariamente stabilire nuovi rapporti tra ambiente naturale e artificiale al fine di garantire una migliore qualità della
vita delle collettività?
Assolutamente sì. Credo sia il momento di riIl SardiniaFilmFestival è un festival di eccellenza ed è dare a tutte le nostre città, ai nostri territori
sostenuto da Diari di Cineclub
segue a pag. successiva
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n.320
Diari di Cineclub
Periodico indipendente di cultura e informazione
cinematografica
Responsabile Angelo Tantaro
Via dei Fulvi 47 – 00174 Roma [email protected]
Comitato di Consulenza e Rappresentanza
Cecilia Mangini, Giulia Zoppi, Luciana
Castellina, Enzo Natta, Citto Maselli, Marco
n.Asunis
20 - Settembre 2014
Anno III
a questo numero ha collaborato
in redazione Maria Caprasecca
la pagina di facebook è curata da Patrizia Masala
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La testata è stata realizzata da Alessandro Scillitani
Grafica e impaginazione Angelo Tantaro
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segue da pag. precedente
quell’attenzione ambientale naturale che a volte è stata accantonata per dare spazio al processo economico, non sempre rispettoso. A Elmas a settembre, come in tanti altri comuni,
dedicheremo una settimana alla sostenibilità
ambientale con particolare attenzione alla mobilità sostenibile. E’ arrivato il momento in cui
si debba lavorare per un’economia di sostenibilità accantonando per un po’ la sola idea di
economia di profitto. Una sostenibilità legata
alla terra per riacquistare il pieno rispetto che
merita il territorio in cui viviamo per un equilibrio ambientale di lungo respiro, mirato a
mantenere il più inalterato possibile il nostro
sistema non solo per noi ma anche per le generazioni che verranno, a partire dai nostri figli.
Concludo augurandomi che quest’iniziativa
che abbiamo voluto fortemente sostenere trovi seguito in altre importanti inziative, magari
proprio a Elmas.
La 71esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica sarà seguita per noi da Giulia
Patrizia Masala Zoppi
Appuntamento al
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