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Edward Bunker EDUCAZIONE DI UNA CANAGLIA
Edward Bunker EDUCAZIONE DI UNA CANAGLIA Titolo originale "Education of a Felon" Traduzione di Emanuela Turchetti © 2000 by Edward Bunker © 2002 Giulio Einaudi Editore, Torino ISBN: 978-88-0619-1436 NOTA DI COPERTINA. Dopo il grande successo di "Come una bestia feroce" arriva in Italia il capolavoro di Edward Bunker, il libro in cui l'autore racconta la vera storia della sua vita. Un affresco potente, rude e antiromantico, dal primo ingresso nella prigione di San Quentin a diciassette anni alla Los Angeles di oggi. Salutato in America come un caso letterario senza precedenti. Le esperienze di Edward Bunker nelle prigioni peggiori della California, per le strade di Los Angeles e nel sottobosco di Hollywood lo hanno accreditato a scrivere alcuni dei più conturbanti ed efficaci romanzi moderni sul carcere. Basti pensare che Quentin Tarantino ha definito "Little Boy Blue" «il miglior romanzo del crimine in prima persona che io abbia mai letto», mentre il «New York Times» ha scritto, del suo romanzo "Cane mangia cane", che Bunker si è spinto più avanti di quanto Chandler e Hammett avessero mai sognato. Ora finalmente, con questo libro, i lettori possono entrare, senza alcuna finzione narrativa, nel mondo duro e non edulcorato di Bunker. Sia che fumi uno spinello seduto sulla sedia della camera a gas, o che prenda in mano un coltello usato da un serial killer, o che nuoti tra i marmi della sfarzosa piscina Nettuno a San Simeon, California, Bunker si limita a esporre la sua mercanzia, nuda e cruda. Il risultato è agghiacciante, eppure non privo di una sua orgogliosa morale, perché è la pura verità. «Avrei potuto giocare meglio le mie carte, senza dubbio, e ci sono cose di cui mi vergogno, ma quando mi guardo allo specchio, sono fiero di quello che sono. I tratti del mio carattere che mi hanno fatto combattere il mondo sono gli stessi che mi hanno permesso di farmi valere». Edward Bunker. «Bunker è uno scrittore americano autentico, assolutamente originale». James Ellroy. «Edward Bunker descrive l'altro mondo dei reietti con la passione e l'intensità di chi ha vissuto una vita sul margine». «Los Angeles Times». «Bunker è tra i pochi scrittori americani la cui opera esprime insieme integrità, abilità tecnica e passione morale». William Styron. Edward Bunker è l'autore di due libri di grande successo anche in Italia, "Dog Eat Dog" ("Cane mangia cane", Einaudi Stile libero 1999), "No Beast So Fierce" ("Come una bestia feroce" 2001), "Little Boy Blue" (2002) e "Animal Factory" (2003). Entrato nel penitenziario di San Quentin (per la prima volta) a diciassette anni, ne ha poi passati diciotto in carcere, in tre periodi successivi, ed è stato fuori per venticinque. Si può dire che quasi metà vita adulta l'abbia passata in carcere, e l'altra metà a scrivere del carcere, facendone la rappresentazione più potente del nostro tempo. Oggi, pacificato, vive a Los Angeles con la giovane moglie e un figlio, molto amato dal mondo del cinema. È famosa la sua parte di Mister Blue in "Reservoir Dogs", "Le iene", di Quentin Tarantino. EDUCAZIONE DI UNA CANAGLIA "Dedico questo libro a mio figlio. Ho aspettato tanti anni per potergli servire una mano migliore di quella che è toccata a me. Sono sicuro che giocherà le sue carte meglio di come io ho giocato le mie." CAPITOLO PRIMO. NÈ CIELO, NÈ INFERNO. Nel marzo del 1933, la California del Sud all'improvviso prese a ballare al ritmo di un rock and roll che risuonava dal ventre della terra. I soprammobili danzarono sulle mensole dei caminetti prima di schiantarsi a terra. Le finestre andarono in frantumi e precipitarono a cascata sui marciapiedi. Le case di canniccio intonacato scricchiolarono accartocciandosi, prima su un lato e poi sull'altro, come scatole di fiammiferi. Gli edifici di mattoni restarono in piedi finché non furono sopraffatti dalle vibrazioni, e poi rovinarono al suolo sparendo in cumuli di calcinacci e nuvole di polvere. Il Long Beach Civic Auditorium crollò, e in molti restarono uccisi. In seguito mi raccontarono che ero stato concepito nel momento preciso in cui la terra aveva tremato, e quando ero venuto al mondo, alla vigilia del Capodanno 1933, all'ospedale Cedars of Lebanon di Hollywood, Los Angeles era sommersa da un diluvio torrenziale, gli alberi di palme e le case fluttuanti nella fiumana dei canyon. All'età di cinque anni, sentii mia madre affermare che il terremoto e il nubifragio erano cattivi presagi, poiché fin dall'inizio avevo creato problemi, a cominciare dalle coliche. A due anni sparii durante un picnic di famiglia a Griffith Park. Duecento uomini setacciarono la boscaglia per metà della nottata. A tre anni, non so come, riuscii a demolire l'inceneritore di un vicino, piazzato nel cortile sul retro della sua casa, servendomi di un martello a granchio. A quattro anni svaligiai il furgone frigorifero Good Humor di un altro vicino di casa, e offrii il gelato a un branco di cani del quartiere. Una settimana dopo provai a essere di aiuto ripulendo il cortile della casa, e appiccai il fuoco a un mucchio di foglie di eucalipto ammassate accanto al garage del vicino. Ben presto l'incendio illuminò la notte, e le sirene dei pompieri lacerarono l'aria. Soltanto una parete del garage restò annerita dalle fiamme. Della marachella del gelato e dell'incendio mi ricordo, ma il resto me lo hanno raccontato. I miei primi ricordi distinti sono dei miei genitori che litigano, le loro urla, e la polizia che arriva per «mettere pace». Il giorno in cui mio padre se ne andò di casa, lo seguii nel vialetto. Piangevo, singhiozzavo e volevo andare con lui, ma mio padre mi allontanò con uno spintone, saltò sull'automobile e filò via sgommando. Abitavamo in Lexington Avenue, a est dei Paramount Studios. La prima parola che imparai a leggere fu Hollywoodland. Mia madre era ballerina di fila negli spettacoli di varietà e nei musical di Busby Berkeley. Mio padre lavorava come macchinista in teatro, e ogni tanto anche per il cinema. Non ricordo esattamente le dinamiche del divorzio, ma una delle sue conseguenze fu il mio internamento in collegio. Dalla sera alla mattina da figlio unico viziato diventai un moccioso tra una dozzina o più di bambini più grandi. È in collegio che appresi per la prima volta la realtà del furto. Qualcuno rubò i dolciumi che mi aveva portato mio padre. Fu dura per me, in quell'occasione, accettare l'idea del furto. La prima volta scappai dal collegio all'età di cinque anni. Era una domenica mattina, pioveva, e tutti gli ospiti della casa tiravano a dormire fino a tardi. Indossai un impermeabile e un paio di scarpe di gomma, e sgattaiolai per la porta di servizio. Percorsi due isolati e mi nascosi nell'intercapedine del solaio di una vecchia casa in legno, sopraelevata da terra e circondata dagli alberi. Ero all'asciutto e al riparo dalla pioggia, e da lì potevo spiare il mondo esterno. Il cane della famiglia mi trovò quasi subito, ma preferì accucciarsi accanto a me e farsi coccolare piuttosto che lanciare l'allarme. Restai lì finché non fece buio, smise di piovere e si alzò un vento freddo. Anche a Los Angeles, a dicembre, la sera può essere fredda per un bambino di cinque anni. Uscii fuori, e dopo aver camminato per mezzo isolato fui riconosciuto da uno di quelli che erano partiti alla mia ricerca. I miei genitori erano in pensiero, naturalmente, ma non in preda al panico. Che avessi un talento naturale a mettermi nei pasticci non era certo una novità. La coppia che gestiva il convitto chiese a mio padre di venire a riprendermi. Dopo aver tentato con un altro collegio, anche questo con esito fallimentare, mio padre provò con la scuola militare, la Mount Lowe di Altadena. Durò due mesi. Poi seguì un altro collegio, anche questo ad Altadena, una casa di quattrocentocinquanta metri quadri circondata da mezzo ettaro di terreno. Fu allora che incontrai per la prima volta Mistress Bosco, che ricordo con affetto. Tutto lasciava pensare che mi fossi messo a rigare dritto, anche se ricordo che mi nascondevo sotto il letto del dormitorio per poter leggere. Mio padre mi aveva costruito una piccola libreria. Poi mi comprò la serie in dieci volumi dei Junior Classics, versioni adattate per i bambini di storie famose quali "L'uomo senza paese", "Il vaso di Pandora" e "Damone e Pizia". Imparai a leggere su questi libri. Mistress Bosco chiuse il collegio appena qualche mese dopo il mio arrivo. La tappa successiva fu la Page Military School, tra Cochran Avenue e San Vicente Boulevard, a West Los Angeles. Ai genitori dei potenziali cadetti venivano mostrati dormitori luminosi ed eleganti suddivisi in scompartimenti separati, ma la maggioranza dei cadetti viveva in alloggi meno sontuosi. Alla Page beccai il morbillo e gli orecchioni, nonché il mio primo riconoscimento ufficiale di casinista destinato a finir male. Diventai un ladro. Un ragazzo il cui nome e la cui faccia ho dimenticato da tempo mi portava con sé, nelle ore piccole, a razziare negli altri dormitori, mentre frugava nei pantaloni appesi al muro o appoggiati sullo schienale delle seggiole. Quando qualcuno dei ragazzi che dormivano si girava su un fianco, ci accovacciavamo, immobili come statue, il cuore che batteva all'impazzata. Siccome i pannelli divisori degli scompartimenti arrivavano all'altezza delle spalle, bastava abbassare la testa per non essere visti. Una volta, quando un ragazzo si svegliò e ci affrontò con coraggio, dovemmo darcela a gambe. - Ehi, voi, che state facendo? - Mentre ce le battevamo di gran carriera, alle nostre spalle sentimmo urlare - Al ladro! Al ladro! - Una bella scarica di adrenalina, non c'è che dire. Una notte un gruppo di noi sgusciò dal dormitorio e, dopo aver raggiunto furtivamente la grande cucina, ci servimmo di una mannaia per la carne per tranciare il lucchetto di una cella frigorifera. Facemmo man bassa di tutti i dolcetti e i gelati. Ci beccarono poco dopo la sveglia. Venni ingiustamente accusato di essere il capo e fui punito in modo esemplare. Inoltre, fui designato per il trattamento speciale da parte degli ufficiali dei cadetti. I miei pochi amici erano altri emarginati e casinisti come me. Il mio unico, valido risultato alla Page fu scoprire che conoscevo l'ortografia più di chiunque altro. Pur dentro al caos della mia giovane esistenza, padroneggiavo sillabe e fonetica, e ricordavo gran parte delle eccezioni alle regole. È banale, ma proprio perché ero capace a pronunciare le parole, imparai a leggere in età precoce, e ben presto con voracità. Il venerdì pomeriggio quasi tutti i cadetti andavano a casa per il fine settimana. Quanto a me, un fine settimana andavo da mio padre, e quello successivo da mia madre. A quel tempo lei lavorava come cameriera in una caffetteria. La domenica mattina seguivo l'abitudine diffusa tra la gran parte dei bambini americani dell'epoca: andavo alla matinée del cinema di quartiere. Proiettavano due film. Una domenica, nell'intervallo tra i due film, raggiunsi il foyer, dove appresi che i giapponesi avevano appena bombardato Pearl Harbour. Qualche tempo prima mio padre aveva dichiarato: - Se quei bastardi con gli occhi a mandorla aprono il fuoco, manderemo la Marina americana che farà colare a picco quelle loro carabattole galleggianti che chiamano isole -. Papà era in sintonia con l'epoca, quando la parola «negro» compariva nella prosa di Ernest Hemingway, Thomas Wolfe e altri. Papà disprezzava i «negri», i «portoricani», i «guappi» e gli inglesi «con quel loro re dei miei coglioni». Amava la Francia e gli indiani americani, e sosteneva che i Bunker erano di sangue pellerossa. Io non ci ho mai creduto. Oggi, rivendicare sangue indiano, per certi versi, fa molto chic. La nostra famiglia aveva vissuto nella regione dei Grandi Laghi dalla metà del Settecento, e dopo che mio padre ebbe superato la soglia dei sessanta, la pelle grinzosa e coriacea della faccia e gli zigomi alti gli conferivano la fisionomia di un indiano. A dire il vero, man mano che invecchio, anche a me talvolta domandano se sono di sangue indiano. Davvero non lo so, né mi importa. Alla Page Military School le cose peggiorarono. Gli ufficiali dei cadetti resero la mia vita un calvario, e così una bella mattina come ce ne sono in California, io e un altro cadetto scavalcammo il recinto sul retro dell'edificio e puntammo verso le colline di Hollywood, distanti poco meno di cinque chilometri. Erano verdi, punteggiate di tetti rossi. Facemmo l'autostop per superare le colline e passammo la notte nella carcassa di un'automobile demolita accanto a un'autostrada a due corsie, guardando gli enormi autotreni che passavano rombando. Adesso quell'autostrada è diventata un'interstatale di scorrimento a dieci corsie. Dopo la notte trascorsa a tremare di freddo, e assalito dai morsi della fame al sorgere del sole, il mio compagno mi comunicò che intendeva tornare indietro. Lo salutai e presi per un sentiero lungo la ferrovia che separava l'autostrada dalla distesa sconfinata degli aranceti. Mi imbattei in un treno carico di autocarri verdi oliva dell'esercito in attesa su un binario di raccordo. L'avevo ormai raggiunto quando il treno si mise in moto con un rollio fragoroso. Mi aggrappai a una ringhiera e saltai su. Le centinaia di autocarri militari non erano chiusi a chiave, così salii a bordo di un veicolo e passai il tempo a rimirare il panorama che scorreva dinanzi a me mentre il treno viaggiava verso nord. Prima che facesse buio saltai giù nella periferia di Sacramento, a settecento chilometri dal punto in cui avevo iniziato il mio viaggio. Cominciavo ad aver fame, e le ombre si allungavano. Mi misi in cammino. Contavo di entrare in città e andare a vedere un film. Una volta uscito dal cinema, avrei trovato qualcosa da mangiare e un posto per dormire. Ancora fuori Sacramento, su una sponda rigogliosa di vegetazione dell'American River, sentii odore di cibo cucinato. Era un accampamento di vagabondi, una "Hooverville", come si chiamava, un agglomerato di baracche di latta ondulata e cartone. I vagabondi mi tennero con loro finché uno, preso dalla paura, fermò un'automobile dello sceriffo. I vicesceriffi fecero irruzione nell'accampamento e mi portarono via. La Page Military School si rifiutò di riprendermi. Mio padre aveva le lacrime agli occhi: che ne avrebbe fatto di me? Poi venimmo a sapere che Mistress Bosco aveva aperto un nuovo collegio per una ventina di ospiti, ragazzi di età tra i cinque anni fino alla scuola superiore. Aveva preso in affitto una residenza enorme di duemiladuecento metri quadri, circondata da due ettari di terreno su Orange Grove Avenue, a Pasadena. Si chiamava Mayfair. L'edificio esiste ancora come parte dell'Ambassador College. A quei tempi questi giganteschi palazzi erano invendibili come elefanti bianchi. Il nome MAYFAIR era affisso su un pilastro di ottone del cancello. La casa era degna di un arciduca, ma un bambino di nove anni non fa caso a queste cose. I ragazzi erano praticamente relegati in quattro stanze al secondo piano dell'ala nord, sopra la cucina. La classe, un tempo la stanza di musica, era vicino al vasto atrio dell'ingresso, da cui partiva una grande scalinata. Frequentavamo le lezioni cinque giorni la settimana, e le vacanze estive non erano previste. L'insegnante, una donna austera patita di vestiti col colletto ornato di pizzo e cammei al collo, aveva un debole per le punizioni. Ci prendeva per l'orecchio e lo torceva, oppure ci bacchettava le nocche con il righello. Io avevo già un problema con l'autorità. Una volta che mi afferrò per l'orecchio, scansai con un colpo la sua mano e scattai in piedi. Spaventata, la donna indietreggiò, incespicò su una seggiola e cadde sul sedere, gambe all'aria. Cominciò a strillare, come se fosse lì lì per essere assassinata. Mister Hawkins, il tuttofare nero, si precipitò dentro e, dopo avermi afferrato per la collottola, mi trascinò da Mistress Bosco. Costei mandò a chiamare mio padre. Quando mio padre arrivò, alla vista dei suoi occhi infiammati avrei voluto scappare via. Mistress Bosco liquidò l'accaduto con poche parole. In realtà voleva che mio padre leggesse la relazione sul test del mio quoziente di intelligenza, cui eravamo stati sottoposti la settimana prima. Lui esitava. Voleva proprio sapere se suo figlio era pazzo? Lo osservai mentre scorreva velocemente il rapporto; poi lo lesse con calma, e alla vampa rabbiosa subentrò un'espressione corrucciata di confusione. Alzò gli occhi e scrollò il capo. - Questo in gran parte spiega il motivo dei suoi problemi, - commentò Mistress Bosco. - È sicura che non ci sia un errore? - Sicurissima. Mio padre bofonchiò e accennò una risatina. - Chi l'avrebbe immaginato? Immaginato cosa? In seguito mi disse che la relazione equiparava la mia età mentale a quella di un ragazzo di diciotto anni, e il mio quoziente di intelligenza era 152. Fino ad allora avevo sempre pensato di essere nella media, forse un po' meno al di sotto della media, per le facoltà che erano dono di Dio. Di certo non ero mai stato il più brillante in nessuna disciplina, tranne che in ortografia, che pareva essere più un'astuzia che un indicatore di intelligenza. Da allora, pur nei limiti della mia esistenza caotica o nichilistica, cercai di affinare le capacità naturali che mi venivano attribuite. L'esito potrebbe essere la realizzazione di una profezia. Seguitai a tornare a casa nei fine settimana, anche se mia madre a quel tempo già viveva a San Pedro con un nuovo marito, per cui, anziché alternare ogni fine settimana, tre su quattro li passavo con mio padre. Che l'avessi trascorso con l'uno o con l'altra, la domenica pomeriggio li salutavo, facendo finta di tornare direttamente a Mayfair. In realtà non rientravo mai immediatamente in collegio. Giravo per la città. A volte noleggiavo una piccola barca a motore elettrico a Echo Park, altre andavo a vedere un film in uno dei cinema del centro di Los Angeles. Se andavo a trovare mia madre a San Pedro, deviavo verso Long Beach, dove, sul pontile, il luna park funzionava a pieno ritmo. Più tardi, in serata, salivo su uno dei grossi tram rossi della Pacific Electric che mi riportava a Pasadena, e da lì dovevo fare più di un chilometro e mezzo a piedi per raggiungere Orange Grove Avenue e Mayfair. Risalivo per il viale sul retro della residenza. Su un lato dell'edificio c'era un balcone che potevo raggiungere salendo su un alberello e poi arrampicandomi fino alla ringhiera. Davanti alla porta che si apriva sul balcone, a pochi passi, c'era la stanza che dividevo con altri due ragazzi. Nessuno notava mai la mia assenza o il mio rientro, purché fossi reperibile il lunedì mattina. Una domenica sera, dopo aver scavalcato il balcone, girato la maniglia, e spinto la porta di qualche centimetro per aprirla, questa s'inceppò. Qualcosa la bloccava dall'altra parte. Mi appoggiai contro la porta con tutte le forze, riuscendo a forzarne la parte superiore quel tanto che bastava per sgusciare dall'altra parte, e poi inciampai su ciò che sembrava essere un corpo. Mi accovacciai, e tastando nel buio toccai una faccia. Fui scosso da una fitta di paura. La faccia era fredda. La faccia della morte. Credo di aver lanciato un grido, ma nessuno mi sentì. Volendo evitare che qualcuno scoprisse il mio rientro dopo la mezzanotte, mi spogliai e saltai a letto. Una volta disteso, mi resi conto però che non riuscivo semplicemente a ignorare la situazione. Siccome volevo evitare di inciampare un'altra volta sul corpo nel buio, passai attraverso il bagno nell'altra stanza, dove dormivano quattro ragazzi, e da lì raggiunsi il corridoio. Svegliai Mistress Bosco e le dissi ciò che avevo scoperto. Indossata una vestaglia e presa una torcia, Mistress Bosco mi condusse nella mia stanza e mi ordinò di tornare a letto, richiudendo poi la porta a chiave. Tornai a stendermi e riuscii a prendere un sonno leggero, dal quale mi risvegliai sentendo un rumore di voci smorzate, e vidi la luce sotto la porta. Dopo qualche minuto sentii la chiave girare nella serratura della porta della stanza. Il mattino dopo il corpo era sparito. Era di Frankie Dell, un ragazzo esile e pallido che soffriva di una grave forma di emofilia e di reumatismi al cuore. Era caduto a terra ed era morto nel corridoio. Può anche darsi che andasse in cerca di aiuto. Quello di Mistress Bosco fu l'unico istituto a piacermi da bambino. Lei mi trattava più come un adolescente che come un bambino di nove anni. Di sera, durante la settimana, avevo il permesso di uscire da solo fino al centro di Pasadena. Naturalmente andavo al cinema. Imparai la geografia sulle due grandi carte geografiche appese alla parete della mia stanza: l'Europa, con il Mediterraneo e il Nord Africa erano su una carta, il Pacifico e l'Asia sull'altra. Avevo puntine di vari colori per segnare le battaglie, le truppe e le linee del fronte della guerra in corso. Cercando le isole Salomone per segnare Guadalcanal, mi cadde l'occhio sull'Australia e la Nuova Zelanda. La stella sulla carta mi indicò che Canberra era la capitale dell'Australia. Mister Hawkins, il nero tuttofare che viveva nell'appartamento sopra l'enorme garage, in passato era stato un pugile professionista, e mi insegnò a tirare di sinistro. Il sinistro che imparai a tirare fece scempio del naso di Buckley, il bulletto del convitto. Avevamo cominciato a fare a pugni nell'atrio del piano superiore. Io indietreggiavo, un passo alla volta, per tutta la lunghezza di quel lungo corridoio del secondo piano, assestandogli un sinistro sul naso ogni volta che Buckley provava a raggomitolarsi per caricare. Una delle figlie di Mistress Bosco, una graziosa studentessa della U.s.c., uscì dalla sua stanza e mise fine alla scazzottata. Gli occhi di Buckley si gonfiarono rapidamente, e il suo naso grondava sangue. Io non avevo beccato neanche un pugno. Più o meno nello stesso periodo, imparai il valore del «colpo della domenica», che consisteva semplicemente nel colpire per primo. Al riformatorio avrei osservato gli esperti nel colpo della domenica e perfezionato le mie capacità. Il pugilato è inutile nei consigli di amministrazione e negli incontri d'affari. Non ti aiuta nemmeno a conquistare una ragazza. La maggioranza dei bianchi delle classi medie e alte arrivano all'età adulta senza aver tirato nemmeno un pugno. Ma negli ambienti in cui ho trascorso la gioventù e i miei primi anni da adulto si è rivelata un'abilità utile, specie perché la natura non mi aveva dato né forza, né velocità, né capacità di resistenza. I miei riflessi erano mediocri. Eppure riuscivo a incassare un bel pugno senza crollare. Ho battuto uomini più grandi, più forti e più in forma di me, tra i quali un istruttore di karaté della Marina americana, semplicemente perché iniziavo a picchiare per primo e continuavo a colpire con tutte e due i pugni prima che i miei avversari avessero potuto cominciare. Ogni tanto qualcuno superava quel primo assalto e me le suonava, ma accadeva di rado. Maturando imparai a controllare il ritmo dei miei attacchi, in modo tale che, anziché la gragnuola di colpi disordinati di molto tempo prima, bastavano pochi pugni per avere la meglio. Un pugno al mento, e per lo più finiscono stesi e, una volta a terra, bisogna darsi da fare per impedire che si rimettano in piedi e seguitino a colpire. Ma ho divagato. Torniamo alla mia infanzia a Mayfair, in Orange Grove Avenue, nota come King's Row, per via delle numerose residenze signorili che vi si trovavano, compresa la famosa Wrigley Mansion. Una domenica di dicembre, a mezzanotte suonata, scesi dal tram all'altezza di Fair Oaks e Colorado, al centro di Pasadena, e cominciai la mia solita camminata. L'ultima strada era una via stretta delimitata da casette di legno dove alloggiavano i domestici, che correva parallela a Orange Grove, a un isolato di distanza. La via e le casette sono sparite da tempo, ma all'epoca, proprio di fronte, vi erano enormi alberi i cui rami sovrastavano la strada. Alla finestra di una casa c'era un albero di Natale acceso, a un'altra finestra una candela. Quelle luci placarono la mia paura, mentre camminavo tra le ombre sulle quali il vento e il chiarore della luna disegnavano forme animate spettrali. Era sufficiente perché un ragazzino di nove anni dall'immaginazione fertile avanzasse nell'oscurità fischiettando. Entrai dal cancello posteriore di Mayfair. Sul pendio appariva in lontananza la sagoma scura del grosso edificio immerso tra i pini. Gli alberi si addicevano all'architettura della costruzione, che ricordava un casino di caccia bavarese. Un tempo la casa era stata di proprietà di un generale americano che a quanto pareva aveva investito grosse somme di denaro in Germania dopo la Prima guerra mondiale. Avevo scoperto i documenti dietro un muro. Girai intorno alla grande casa, che ormai non aveva più segreti per me, in direzione dell'alberello accanto al balcone. In effetti l'albero si trovava a circa un metro di distanza dal balcone, ma quando mi arrampicavo si piegava sotto il mio peso, cosicché atterravo sul pavimento del terrazzo lanciando le braccia sopra la ringhiera prima di sganciare le gambe dall'albero. Come una molla, l'albero schioccava tornando in posizione eretta. Una volta sul balcone provavo sempre una fitta d'ansia; avevano chiuso a chiave la porta? Non era mai accaduto, anche se non avrei esitato a rompere il vetro per penetrare all'interno, se fosse stato necessario. Nessuno avrebbe mai saputo chi o perché l'avesse fatto; il vetro rotto, del resto, avrebbe potuto passare inosservato per giorni. Quella notte non se ne presentò la necessità. La porta era aperta come al solito. Il corridoio era immerso nel buio, anche questo come al solito. Sentii subito l'odore di qualcosa che non riuscivo a riconoscere. Era preciso, ma non soffocante. Cercai a tastoni la porta della stanza. Si aprì. Entrai dentro. La stanza era completamente al buio. A memoria attraversai il buio fino al mio letto nell'angolo. Era sparito. Dov'era finito il mio letto? Allungai la mano, in cerca del letto accanto al mio. Niente. Il mio cuore ebbe un soprassalto. Ero terrorizzato. Andai verso la porta e accesi l'interruttore della luce. Niente. Avanzai tastoni lungo la parete. Vuota. Stava succedendo qualcosa di strano. Avrei voluto urlare, ma così sarebbe stato scoperto il mio rientro dopo la mezzanotte. Palpando il muro con le dita, mi mossi verso la porta. Prima di raggiungerla, sentii vetro rotto sotto le scarpe. Il cuore batteva all'impazzata. Che succedeva? Mi sentivo quasi soffocare, perché non mi veniva in mente alcuna spiegazione razionale. Il buonsenso mi suggeriva che non si trattava di magia o di un evento soprannaturale, ma per un attimo non potei fare a meno di concepire quest'idea. Proprio allora, nel buio, qualcosa mi sfiorò il polpaccio, gettandomi nel panico. Reagii saltando sul posto, ricaddi, e mi precipitai fuori dalla porta. Non ricordo di aver attraversato il corridoio, ma una volta sul balcone, sempre nel buio, scavalcai la ringhiera e mi sporsi per raggiungere l'albero. Come ho detto, distava circa un metro. Mi aggrappai con entrambe le mani, e l'albero raddrizzandosi si staccò dal balcone trascinandomi via. I piedi erano ancora agganciati alla balaustra. Per un attimo mi trasformai in un ponte umano; poi i piedi si liberarono. Il ramo cui mi tenevo aggrappato si ruppe con un forte schiocco. Precipitai tra i rami che si schiantarono, mi ghermirono e mi graffiarono, prima di atterrare sulla schiena. Nell'impatto a terra i miei polmoni si svuotarono di tutta l'aria che contenevano. Pensai che ero lì lì per morire. Non riuscivo a respirare, tirai le gambe verso di me e mi rotolai su un fianco per rimettermi in piedi. Volevo scappare lontano dall'enorme casa. Avevo la testa vuota. Correvo come un automa in preda al panico. Quando il primo esile respiro mi irruppe in gola, mi trascinai zoppicando per l'area di parcheggio verso gli arbusti. In quel punto si apriva un'ampia distesa di verde, un mezzo ettaro di terreno in gran parte incolto, che conoscevo come le mie tasche. Affondai nella barriera di arbusti proteggendomi il viso con le mani. Mi aprii un varco tra i rami che mi laceravano i vestiti e la faccia. Piegai a destra, dietro il garage, e caddi al suolo ai piedi di un olmo gigantesco i cui rami coprivano la terra. Come fanno i ragazzi, vi avevamo sistemato una scatola di cartone appiattita. Lo sfinimento aveva trasformato la mia paura. Era una paura tremenda. Ero certo che i fantasmi non esistevano. (Anni dopo, mentre raccontavo questa storia, qualcuno disse: Scommetto che era la coda di un gatto che ti strusciava contro la gamba -. Forse aveva ragione. Mistress Bosco aveva un micio nero che girava per la casa e si strusciava contro le gambe. Cos'altro poteva essere stato?) Passai la notte nello spiazzo sotto l'albero, tremando dal freddo, e appisolandomi soltanto per qualche minuto. Alle prime luci del giorno mi ritrovai con il corpo tutto indolenzito. La schiena mi faceva un male cane, e presto vi sarebbe comparso un livido bluastro, il più grosso che abbia mai visto in vita mia. Mi assopii per un poco, ma fui risvegliato dal rumore metallico dei bidoni della spazzatura. Mister Hawkins li stava issando sul cassone di un camioncino. Lavorava nello spazio accanto al garage, dove erano sistemati i bidoni. «Mister Hawkins! - chiamai. Interruppe il suo lavoro e scrutò dalla mia parte, chiudendo un occhio per mettere a fuoco l'altro. - Sei tu? - domandò. Mi conosceva meglio degli altri ragazzi. Oltre al pugilato mi aveva insegnato anche ad annodare la cravatta. Un grosso nodo Windsor. Magari non era ricco, ma il suo giorno libero si vestiva di tutto punto. Uscii dagli arbusti, ma tenendomi al riparo del garage per non essere visto. - Che succede, Mister Hawkins? - Non hai ancora visto Mistress Bosco? - No. - Ha telefonato a tuo padre, domenica pomeriggio. E lui le ha detto che saresti stato qui per le sei di sera. S'è preoccupata da morire. - Che è successo? Dove sono tutti gli altri? - C'è stato un incendio nella soffitta, tra sabato notte e domenica presto, prima di giorno. Guarda là -. Indicò il tetto. Com'è vero Iddio, c'era uno squarcio di oltre un metro, i cui bordi erano anneriti e bruciacchiati. - Colpa dell'impianto elettrico, - precisò. - Hanno trasferito i letti laggiù, nell'auditorium della scuola. Lei ha deciso così, almeno finché non verranno a riprendersi tutti i ragazzi. In quel momento comparve una Lincoln Continental 1940 marrone rossiccio. Ci oltrepassò proseguendo per il viale circolare e accostò davanti al portone d'ingresso della residenza. L'automobile si fermò, e Mistress Bosco scese il vialetto per salutare la coppia appena arrivata. - Sono i genitori di Billy Palmer, - disse Mister Hawkins. - Devo andare a prendere quei bagagli -. Si sfilò i guanti da lavoro e abbandonò i bidoni della spazzatura, incamminandosi verso la casa. Io mi rintanai tra i cespugli. Alcuni minuti dopo comparvero Mistress Bosco e Mister Hawkins. Puntarono dritti in direzione del mio nascondiglio. Indietreggiai ancora tra i cespugli, strisciando sul sedere. Vedendoli avanzare, entrai in fibrillazione. Mi alzai in piedi e mi diedi alla fuga in direzione opposta. Mister Hawkins mi chiamò per nome. Credeva fossi ancora lì. Ma io mi stavo allontanando di gran carriera. Scavalcai la recinzione di ferro battuto dell'ingresso principale e attraversai di corsa il largo viale alberato, prima di superare un prato e prendere per una strada privata che conduceva a un cortile grande come un campo di baseball. Parecchie persone in abito bianco - anni dopo, quando lessi F. Scott Fitzgerald, avrei ripensato a questa scena giocavano a croquet. Senza smettere di correre, e tenendomi alla larga da loro, li superai. Un paio di giocatori alzarono lo sguardo; gli altri non si accorsero di nulla. Era mezzogiorno quando scesi da un grosso tram rosso al Pacific Electric Terminal tra Sixth e Main Street al centro di Los Angeles. I marciapiedi erano gremiti di gente. Pullulavano uniformi di tutte le forze armate. C'era una lunga coda di persone in attesa davanti al Burbank Theatre, il teatro di varietà su Main Street. A due isolati di distanza c'era Broadway, dove ogni blocco di edifici ospitava tantissimi cinema, le scritte luminose che balenavano nella luce grigia di dicembre. Sarei anche andato a vedere un film, perché i film mi facevano dimenticare i miei guai per qualche ora, ma quello era un giorno di scuola e sapevo che gli agenti perlustravano abitualmente le sale dei cinema del centro per pizzicare i ragazzi che marinavano la scuola. Su Hill Street, nei pressi di Fifth, c'era il capolinea della metropolitana Pacific Electric. I tram partivano in direzione degli insediamenti tentacolari a ovest della città e della San Fernando Valley, verso nordovest passando per una lunga galleria scavata sul fianco della collina, e riuscivano a Glendale Boulevard. Salii su un tram diretto a Hollywood, dove mio padre lavorava dietro le quinte di "Blackouts" di Ken Murray, uno spettacolo di varietà con ballerine di fila e attori comici allestito in un teatro su una strada laterale di Hollywood Boulevard. Conoscevo bene la zona. Volevo ritrovarmi in un posto dove era facile orientarmi. Hollywood Boulevard era nuovo, luccicante, e straripava di gente. Trent'anni prima era un campo di fagioli. Adesso pullulava di uomini in divisa. Venivano dai campi di addestramento e dalle basi militari di tutta la California del Sud. Erano attirati da Hollywood e Vine, e soprattutto da Hollywood Canteen, dove avevano la possibilità di ballare con Hedy Lamarr o Joan Leslie, o passeggiare per il Boulevard e provare a vedere se i loro piedi entravano nelle impronte di Douglas Fairbanks o Charlie Chaplin davanti al Chinese Theater di Grauman. Sid Grauman aveva costruito tre enormi sale di proiezione per rendere omaggio al cinema. Per primo aveva fatto edificare il Million Dollar Theater del centro, ma poi aveva capito che la ricchezza della città si stava spostando a ovest, e così aveva fatto costruire altre due sale su Hollywood Boulevard, il Chinese e l'Egyptian. Quest'ultimo comprendeva un lungo passaggio tra la biglietteria e l'atrio sul quale si allineavano immagini dell'antico Egitto e gigantesche statue kitsch di Ramesse Secondo e Nefertiti o altre creature con teste di animale. Quella prima sera da fuggitivo, andai allo Hawaiian, un cinema lussuoso più lontano, in direzione est sul Boulevard, che aveva in programma la prima versione di "La mummia", con Boris Karloff, e il nuovo seguito, "Il ritorno della mummia". Per qualche ora fugò le mie ansie. Quando uscii dal cinema, si era levato un vento freddo. Non pioveva, ma il marciapiede e la strada erano immersi nel buio che era calato mentre ero all'interno. Svoltai su Gower. Le Hollywood Hills iniziavano un isolato a nord del cinema. Oltre Franklin Avenue c'era Whitley Heights. Era la «vecchia» Hollywood e si aveva l'impressione di trovarsi in una zona di Napoli o a Capri. Un tempo era stata abbastanza elegante per incontrare i gusti di Gloria Swanson, Ben Turpin e Ramon Novarro. Negli anni della guerra doveva essere ancora bella, benché da allora avesse perso prestigio e attrattiva, poiché le strade intorno a Hollywood erano state invase dalla povertà e dalle ancelle della povertà: delinquenza, droga e prostituzione. Cominciò a piovere. Provai a cercarmi un riparo. Avrei potuto proteggermi dalla pioggia, ma non dal vento. Era tempo di raggiungere il posto di lavoro di mio padre. M'incamminai per Franklin Avenue e svoltai per Ivar. L'insegna luminosa era stata spenta e la biglietteria era chiusa. Ad ogni modo non era lì che dovevo andare. Proseguii per il viale accanto all'edificio verso l'ingresso riservato agli attori. Non conoscevo il vecchio sulla porta, ma lui conosceva mio padre e si ricordava di me da una visita precedente. Lavoravamo in centro, al Mayan. Lo spettacolo era "Abie's Irish Rose…" o forse "Song of Norway". Mi ricordavo di "Abie's Irish Rose" al Mayan, ma non del vecchio. Era irrilevante; mi fece cenno di entrare. Rifiutai scuotendo la testa. - Quando finisce? - Dieci e cinquantadue… tra circa mezz'ora. - Torno più tardi. - Ecco tuo padre. Ehi, Ed! Mio padre, con indosso la tuta bianca dei macchinisti teatrali, stava attraversando il retroscena. Girò la testa, e non appena mi vide la sua espressione s'indurì. Mentre veniva verso di me, i muscoli della mascella gli pulsavano. Avevo voglia di fare dietro front e correre via. Ero sicuro che la sua rabbia non sarebbe esplosa lì per lì, ma conoscevo bene il furore della sua esasperazione. Non era mai feroce, ma la frustrazione talvolta lo mandava fuori di sé. Mi guardò. - Ci risiamo. Come una palla al piede, - disse. Che cosa voleva dire? Palla al piede? Non avevo mai sentito quell'espressione e non avevo idea di cosa significasse. Eppure la tensione della situazione me la impresse nella memoria, cosicché anni dopo mi ricordai di questo momento ogni volta che sentii pronunciare quelle parole. Mio padre estrasse le chiavi dalla tasca. - Vai ad aspettarmi in macchina, - intimò. - È parcheggiata dietro l'angolo su Franklin. Presi le chiavi e uscii. Fu facile ritrovare l'automobile, una Plymouth del '37 con la prima nave aerodinamica come ornamento del cofano. Il bianco della carrozzeria dava nell'occhio in un'epoca in cui i colori scuri, specie il nero di Henry Ford, erano ancora dominanti. Sul parabrezza c'era la decalcomania di una «A», che stava a significare che l'automobile poteva usufruire della razione di base di quattro galloni di benzina alla settimana. I tagliandi della benzina venivano distribuiti e consegnati alle stazioni di servizio. Il furto e la rivendita dei tagliandi della benzina divenne il mio primo reato pecuniario. Aprii la portiera e salii in automobile ad aspettare, ascoltando la pioggia che picchiava sul tetto, osservando le gocce rimbalzare sull'asfalto. Era ipnotico, calmante, e probabilmente mi appisolai. La notte prima, di fatto, non avevo dormito. Chiusi gli occhi in mezzo alle altre automobili parcheggiate. Quando li riaprii le altre automobili erano sparite, e mio padre bussava al finestrino. Aprii la sicura della portiera e scivolai più in là per fargli posto. Ero guardingo, perché nonostante fosse benevolo e affettuoso, mio padre un paio di volte aveva perso le staffe e mi aveva preso a scapaccioni, urlando la sua frustrazione. - Si può sapere, in nome di Dio, cos'hai? Non puoi comportarti così. Prima o poi finirai… - L'angoscia gli aveva strozzato le parole in gola. Sentivo la sua pena. Mai una volta che fosse sconfinata nella violenza fisica, ma sconvolgerlo a tal punto mi faceva sentire un infame, e puntualmente promettevo di correggermi. Stavolta evitò di guardarmi mentre si metteva in strada in direzione del Cahuenga Pass. (La Hollywood Freeway fu costruita soltanto un decennio più tardi). Mentre guidava borbottava e scuoteva la testa, reagendo così al tumulto che aveva in testa. Immaginavo che ci saremmo diretti all'albergo residence dove abitava, ma lui superò l'incrocio e puntò verso le colline. Le nubi si diradavano lasciando filtrare un po' di chiaro di luna. Ben presto ci ritrovammo sulla cima sovrastante Lake Hollywood, che in realtà era un bacino idrico. La vista dominava la parte occidentale della City of Angels, una distesa irregolare di luci scintillanti inframezzata da pezzature di buio. Nel giro dei dieci anni successivi le luci avrebbero riempito tutto il bacino di L. A. fino al mare penetrando nel deserto in direzione opposta. Mio padre spense il motore e trasse un sospiro lungo e angoscioso. Poi s'incurvò, come cedendo sotto un peso. - Che farò adesso? Mistress Bosco l'hanno fatta chiudere. Non aveva l'autorizzazione per quei due spostati che teneva al piano di sopra. Mistress Bosco aveva ospitato nel convitto due ragazzi o giovani psicopatici conclamati. Senza dubbio era stata pagata profumatamente per tenerli al riparo da occhi indiscreti. Uno, ricordo, era mingherlino e lentigginoso. L'altro si chiamava Max. Aveva folti capelli neri e un'abbondante peluria nera in faccia. Pareva che avesse la barba, ma in realtà lasciava passare un mese e più senza radersi. Max di solito scendeva per scaricare la giardinetta quando Mistress Bosco tornava dalla spesa con le provviste. Era forte. Aveva un'ossessione: lacerarsi i vestiti. Gli ricadevano a brandelli sul tronco e a strisce sulle gambe. Avrebbe fatto a pezzi un paio di Levi's nuovi, se l'avessero provocato. Bastava fissarlo e dirgli «Max è un discolo! Max è un discolo!», e quello attaccava a stracciarsi i vestiti con tutta la furia di cui era capace. Mistress Bosco non aveva l'autorizzazione per quei due. E l'incendio aveva svelato la loro presenza alle autorità. Anche se fosse riuscita a mettere insieme i soldi per riparare il tetto, c'era comunque l'ordine di chiusura. Era l'unico posto in cui ero riuscito a trovarmi bene, per quanto fossi rimasto un emarginato. A mio padre avrei voluto dire «Fammi restare con te», ma quelle parole le ricacciai in gola. Ciò che volevo era impossibile, e finivo per farlo arrabbiare ogni volta che sollevavo la questione. Regolarmente rispondeva che di sera doveva lavorare, che non c'era nessuno a guardarmi, e che ero troppo piccolo per badare a me stesso. Si girò verso di me, puntandomi gli occhi addosso. - Sei pazzo? - Credo di no. - Certo però che qualche volta ti comporti da pazzo. Pensavo che tutto andasse benone da Mistress Bosco… - Va benone, papà. - No, non è vero… no, quando scopro che passi le notti andando a zonzo per la città. Hai nove anni, per Dio! - Mi spiace, papà -. Era vero; il mio dolore per il suo tormento era penoso. - Dici così, ma… va sempre peggio… Qualche volta sarei tentato di andare in garage e accendere il motore della macchina con la porta chiusa. Capivo ciò che intendeva dire, e da qualche parte dentro di me, non saprei dire quale, scaturì il precetto cattolico: - Se lo farai, andrai all'inferno… Anche in preda alla disperazione, mio padre ribatté tronfio e sprezzante: - No, non ci andrò. Non c'è nessun inferno… e neanche il paradiso. La vita è qui. La ricompensa è qui. Il dolore è qui. Non so gran che… ma di quel poco che so sono sicuro -. Dopo una pausa, aggiunse: - Te ne ricorderai, promesso? Mi teneva per il braccio, senza staccarmi gli occhi di dosso. Annuii. - Promesso, papà. L'ho ricordato, e sebbene abbia cercato ovunque una smentita, i fatti della vita confermano l'amara verità di quella sua dichiarazione. L'unico modo per confutarla è superare il caos della realtà con il grande salto della fede. E io non ne sono capace. Qualsiasi altra cosa abbia fatto, apertamente e ripetutamente senza mai cercare scuse e giustificazioni, violando ogni regola che si frapponeva tra me e l'oggetto dei miei desideri, qualunque fosse, ho cercato di separare qualche grano di verità dalle tonnellate di stronzate. La verità è il distillato del significato dei fatti, poiché ogni verità confutata da un fatto è pura illusione. Sono un apostolo di Francis Bacon, il messia dell'oggettività scientifica, che conduce inesorabilmente all'umanesimo laico e al relativismo, e rigetta ogni idea di genuflettersi per adorare un totem o un altro, sia esso una croce, un vitello d'oro, un palo totemico, o un dio africano della fertilità dal fallo gigantesco. CAPITOLO SECONDO. CRESCIUTO DALLO STATO DELLA CALIFORNIA. Eva Schwartz, nata Bunker, era tutta la famiglia di mio padre. Due anni più grande del fratello, si era sposata con Charles Shwartz che, contrariamente al nome, non era ebreo. Era stato proprietario di una piccola sala cinematografica a Toledo, accanto a Lake Erie, dove nel Settecento si erano insediati i miei antenati mercanti di pellicce. Bunker è la forma anglicizzata del nome di origine francese "Bon Couer, «Buon Cuore». Senza figli, zia Eva aveva cresciuto la figlia di un cugino. Alla morte del marito si era trasferita a ovest per prendersi cura del figlio del fratello. Per la prima volta in vita mia, da quel che potevo ricordare, avevo una casa. Era un villino a un solo piano che avevano preso in affitto a Atwater Village, tra Glendale e il L. A. River. Avevo un cagnetta, una bastarda col pelo di tre colori, e una fidanzata, una biondina di nome Dorothy che abitava alla porta accanto. Io le mostrai le mie parti intime, e lei mi mostrò le sue. Il padre era proprietario di una sala da cocktail in Fletcher Drive, nei pressi della gigantesca panetteria Van de Kamp. La cagnetta, che si chiamava Babe, era il mio migliore amico e fedele compagno. Nella torrida estate del '43, ogni giorno scarpinavamo per più di un chilometro e mezzo sul cemento dell'argine del fiume per poi attraversare una passerella e raggiungere Griffith Park, dove c'era un'enorme piscina pubblica. Nelle vicinanze c'erano parecchie scuderie dove era possibile prendere a noleggio un cavallo e andare in passeggiata per i chilometri di sentieri del parco. In prossimità di Riverside Drive c'era il grande ristorante di proprietà di Victor McLaglen, l'unico attore capace di vincere un premio Oscar (come migliore attore in "Il traditore") e sfidare sul ring Jack Dempsey. All'epoca avevo già l'abitudine di vagabondare. Ero sempre curioso di vedere cosa c'era al di là della collina successiva o nella strada dietro l'angolo. A volte puntavo a nord costeggiando il fiume per raggiungere Burbank, talvolta a sud, lungo i binari della ferrovia. A Burbank scavalcavo il recinto dell'area posteriore del teatro di posa della Warner Brothers, e giocavo tra gli scenari permanenti delle lagune e dei villaggi della giungla. La mia cagnetta mi aspettava sempre fuori del recinto per ore e ore finché io non tornavo indietro. Altra meta delle nostre esplorazioni era Lockheed, dove aggiravamo facilmente il perimetro delle postazioni antiaeree. Una volta l'esercito fece bivaccare parecchie migliaia di soldati in una parte di Griffith Park. File di tende, code di camion militari verde oliva. Scomparvero magicamente come erano apparsi. I binari della ferrovia correvano tra le fabbriche, i negozi e Van de Kamp, l'enorme panetteria industriale. Una fabbrica di terraglie in seguito venne dichiarata a grande rischio ambientale e recintata con divieto di accesso per anni. Tante di quelle volte scavalcai quella recinzione cedevole in cerca di qualche avventura dall'altra parte. Giocai in un cumulo di polvere bianca che poteva essere amianto. A quanto pare non mi ha mai dato alcun disturbo; ci volle qualche decennio prima che l'amianto venisse dichiarato pericoloso. Lungo la strada più vicina ai binari della ferrovia c'erano delle casette. A quasi due chilometri da lì il binario unico entrava nello scalo merci principale e si diramava in dozzine di binari. In termini di status sociale, questo quartiere veniva considerato «dall'altra parte del binario» e chi vi viveva conduceva uno stile di vita bohémien. Lì abitava una ragazzina irlandese maliziosa, vivace e precoce di nome Dorothy, insieme alla madre, bevitrice e fumatrice accanita. A qualsiasi ora arrivassi, la madre di Dorothy aveva una sigaretta in bocca e un bicchiere di birra accanto. Per lo meno non beveva dalla bottiglia. Era ben lungi dalla condotta e dalle pretese austere e calviniste di mia zia. Un giorno la madre di Dorothy si lamentò di quanto fosse difficile rifornirsi di benzina per via del razionamento. A quelle parole mi tornò in mente una scatola di sigari piena di tagliandi di benzina staccati dai blocchetti che avevo notato in una stazione di servizio Texaco nei pressi del Gateway Theater di San Fernando Road. Il Gateway era il cinema dove avevo visto "Quarto potere". Il pomeriggio del sabato successivo, tornando a casa, mi fermai alla stazione di servizio per prendere una Coca. Osservai l'addetto strappare i tagliandi del razionamento dal blocchetto di un cliente; mi passò davanti e li ripose in una scatola di sigari su una scrivania dell'ufficio. La madre della ragazzina irlandese avrebbe pagato un dollaro per ogni tagliando di benzina. Con un dollaro si comprava un cheesburger, un frappé e un biglietto a un cinema di prima visione del centro. Il sabato pomeriggio successivo consegnai alla madre di Dorothy più tagliandi di quanti ne potesse acquistare. Mi diede dieci dollari, e nei giorni successivi vendette i rimanenti ai suoi amici. Incassai quaranta dollari, che è quanto un macchinista teatrale iscritto al sindacato guadagnava in una settimana. Fu il mio primo reato di tipo pecuniario coronato dal successo. Quello fu un periodo felice della mia vita. Ahimè, per mia zia fu deludente. Si rivelò totalmente incapace di tenermi testa. Ero lo scapestrato del quartiere, ma parlavo come un libro stampato. In rapida successione fui beccato a rubare nei magazzini Woolworth della zona, sorpreso nell'atto di lanciare un sasso contro una finestra (per far colpo su Dorothy, e anche se scappammo via, quelli presero il mio cane e risalirono a me tramite il collare), e infine beccato da un addetto della stazione di servizio con la mano nella scatola di sigari dei tagliandi di razionamento della benzina. Fui preso a sculacciate e spedito a letto; promisi a mio padre e a Dio che avrei cambiato strada e sarei diventato un bravo ragazzo. Ero sincero. Naturalmente ogni volta mi veniva di agire diversamente, oppure dimenticavo la mia promessa il giorno dopo. Tutte le mattine mi svegliavo in un mondo nuovo. Finita l'estate, per la prima volta andai alla scuola pubblica, la scuola elementare di Atwater Avenue. Poiché non avevo pagelle ed ero passato per tre scuole militari e sei o sette collegi in cinque anni, mi fecero sostenere un esame di verifica. Nonostante la mia infanzia caotica, risultai due anni interi più avanti del gruppo dei miei coetanei in lettura, anche se ero sotto la media in matematica. Oggi, cinquant'anni dopo, non ne so niente di più di quanto ne sapessi allora, di matematica. Immagino che la mia carenza in matematica sia dovuta al fatto che vada insegnata in una sequenza sistematica: ogni lezione getta le basi per la successiva. La mia vita di scolaro nomade non aveva certo favorito questa condizione ideale di apprendimento. Il direttore dimezzò la differenza e mi inserì due semestri più avanti della mia classe di età. Sarei passato alla scuola media il semestre successivo, un paio di settimane dopo il mio undicesimo compleanno. A un mese dall'inizio della scuola, però, la zia e mio padre mi fecero sedere e mi comunicarono solennemente che la casa in cui vivevamo in affitto era stata messa in vendita. Dovevamo traslocare, ma per via della guerra non riuscivano a trovare nulla. Sarei dovuto andare in un altro istituto o un'altra scuola militare. Ero sconvolto, ma acconsentii ad andare a patto che mio padre mi promettesse di ritirarmi dall'istituto in caso mi fossi trovato male. La mia avversione per la scuola prescelta era una certezza, e la mia decisione era chiara ancor prima che mio padre mi depositasse alla Southern California Military Academy di Signal Hill, a Long Beach. Il regolamento proibiva le visite per il primo mese. Il comandante voleva che i nuovi arrivati superassero la nostalgia della famiglia prima di tornare a casa per i fine settimana. Mio padre mi promise che sarebbe venuto a trovarmi allo scadere del mese. Contavo i giorni. Il fatidico venerdì trascorse senza che mio padre si facesse vivo. Al secondo appello i ranghi erano ridotti perché la maggioranza dei ragazzi tornava a casa per il fine settimana. Anziché dirigermi nel refettorio dei cadetti, uscii per la porta di servizio del dormitorio e scavalcai il recinto sul retro dell'edificio. Era il richiamo dell'avventura, di nuove esperienze e, più importante di tutto, della libertà. La mia fuga avrebbe inoltre punito mio padre, che mi aveva mentito. Mi aveva fatto la promessa di venire dando la sua parola d'onore, e non l'aveva mantenuta. A Long Beach saltai su un tram rosso diretto al centro di Los Angeles. Il tragitto durò più o meno quaranta di minuti. Avevo in mente di prendere un tram giallo n. 5 o un «W» per raggiungere il quartiere di Lincoln Heights, dove era andata a vivere mia zia, in un piccolo appartamento in una palazzina quadrifamiliare. Il centro, però, scintillava delle scritte luminose dei cinema. Mi fermai per vedere un film tratto da "Dieci piccoli indiani", il libro di Agatha Christie, con interpreti d'eccezione, tra cui Barry Fitzgerald nella parte dell'assassino. Era riuscito a fregare anche me, simulando la sua morte per stornare i sospetti dalla sua persona. Quando uscii dal cinema era tardi. Il vecchio tram giallo era quasi vuoto. I pochi passeggeri si erano sistemati nella parte centrale con i vetri ai finestrini. Io preferivo mettermi in fondo, dove i finestrini erano aperti. Mi piaceva l'aria fresca. Mi rinvigoriva, e anche adesso mi fa lo stesso effetto. Da zia Eva le luci erano accese, e l'automobile di mio padre era parcheggiata davanti a casa. Ci passai a fianco e proseguii diritto. Poiché avevo indosso l'uniforme della scuola militare e i miei vestiti normali erano nell'appartamento di mia zia, decisi di tornare l'indomani quando lei era al lavoro. A parecchi isolati di distanza, vicino a un ponte ferroviario che attraversava la Arroyo Seco Parkway (oggi Pasadena Freeway), c'era la Lavanderia Industriale Welch. Presi una bracciata di lenzuola e tute di scarto strappate che erano state gettate in un bidone accanto alla piattaforma di carico e li portai in un deposito di rottamazione dove si arrugginivano le macchine in disuso. Su un lato trovai un'enorme macchina centrifuga, e dopo aver cacciato gli stracci all'interno, mi arrampicai e mi ci infilai dentro. Lo spazio era piccolo, e se provavo a stendermi non riuscivo ad allungare del tutto le gambe. Per lo meno mi sarei riparato dal gelido vento notturno. Qualche ora dopo sentii la terra che ronzava, un suono che via via si trasformava in un terrificante crescendo di vibrazioni. Stava arrivando un treno, e avevo l'impressione che passasse sopra il mio nascondiglio, il guizzo accecante dei fari che penetravano in ogni fessura. Passò a circa sei metri da me. Quando il sole mattutino intiepidì la terra, saltai fuori dal mio nascondiglio. Ero tutto indolenzito. Dopo una notte trascorsa per strada, la mia uniforme cachi con la striscia sulla gamba era ormai abbastanza sporca, e la gente si voltava a guardarmi. M'incamminai verso un Thrifty Drug Store, con l'idea di fare colazione al bancone, provvisto di un distributore d'acqua. Nei pressi dell'ingresso vidi un chiosco di giornali. I quotidiani erano listati a lutto e titolavano a lettere cubitali: ROOSEVELT È MORTO. La notizia mi fece restare di sasso. Roosevelt era presidente da quando ero nato. Aveva salvato l'America durante la depressione. - Ha salvato il capitalismo da se stesso, - aveva detto una volta mio padre, e per quanto all'epoca non riuscissi a capire cosa volesse dire, ero rimasto impressionato dall'impresa grandiosa di Roosevelt. Era comandante in capo delle forze armate nella guerra che era ancora in corso, anche se gli eserciti alleati ormai avanzavano in Germania. La sua voce era nota per i suoi «Discorsi del caminetto». La signora Roosevelt era la madre dell'America, e Fala, per quanto fosse di puro sangue scozzese, era il cane dell'America. Avevo le lacrime agli occhi. Mi passò la voglia di far colazione. Un'ora dopo suonai alla porta di zia Eva per essere sicuro che non fosse in casa. Poi feci il giro della palazzina fino a una porta che dava in un vano destinato al bidone della spazzatura. Dietro il bidone, un'altra porta conduceva in cucina. Doveva passare ancora qualche decennio prima che si diffondessero le sbarre alla finestre delle case dei poveri e i sistemi di allarme in quelle dei ricchi. Aprii la porta esterna, spalancai la porta interna e mi infilai all'interno. Chiamai ad alta voce - Zia Eva! - caso mai non fosse ancora uscita. Nessuna risposta. Allora mi misi all'opera. La scatola con i miei vestiti era in un armadio. Conteneva un paio di Levi's e una camicia. Cominciai a riempire la vasca da bagno. Mentre l'acqua scorreva, tornai in cucina per trovare qualcosa da mangiare. Il frigorifero offriva un litro di latte e una pagnotta. Andai fino al tostapane appoggiato sul piano di lavoro accanto al lavandino. Dalla finestra guardai fuori la casa accanto. In quel momento un poliziotto attraversò velocemente il mio campo visivo e si riparò dietro un albero. "Crash"! Il bicchiere mi cadde di mano. Feci il corridoio di volata verso il bagno. Ero in mutande e maglietta. Mi infilai in fretta e furia i jeans e le scarpe, senza curarmi dei bottoni e dei lacci. Sopra la vasca da bagno c'era una finestra. La aprii e spinsi in fuori la zanzariera. Da un'altezza di quasi quattro metri, la finestrella si affacciava su un passaggio che separava la palazzina dai garage. Mentre mi arrampicavo sulla finestra, sopraggiunse un poliziotto che svoltò l'angolo sotto di me. Con un salto lo sorvolai, ricadendo sul tetto del garage, e presi a correre dall'altra parte. Il garage terminava sopra un terrapieno di oltre dodici metri coperto di cespugli. Saltai giù dal tetto e mi lasciai rotolare fino in fondo tra le erbacce e i cespugli. Sopra di me comparve un poliziotto. Mi teneva lo sguardo puntato addosso. Con un balzo mi rimisi in piedi e scavalcai un recinto vicino all'argine di calcestruzzo di un canale di scolo delle acque. Il canale diventava un torrente al sopraggiungere delle piogge, ma quel giorno era un ruscello largo meno di un metro e profondo dieci centimetri. Sguazzai nel torrente e lo attraversai. Il muro di cemento dall'altra parte aveva una pendenza molto più ripida, ed era sovrastato da un recinto che fiancheggiava l'autostrada. Qualche decina di centimetri sotto il recinto si apriva lo sbocco di un canale di scolo, quel giorno asciutto. Altre volte, in passato, avevo provato a salire in corsa su per il muro in pendenza fino al buco dello sbocco, ma non ce l'avevo mai fatta. Quel giorno però lo scalai come una capra di montagna, scomparendo nel canale di scolo sotto l'autostrada, in direzione della città. Mezz'ora dopo avevo già percorso più di tre chilometri, e mi trovavo su Mount Washington, raggomitolato in una grotta poco profonda. La pioggia aveva iniziato a oscurare la terra. Mi sentii veramente solo, in quel momento della mia giovane vita. Più tardi, quella notte, trovai un pacco di quotidiani dell'indomani fuori dei portoni dei supermercati di tutto il quartiere. Quando iniziò l'andirivieni della mattina, mi appostai all'angolo tra North Broadway e Daly, a piazzare giornali, un nickel a copia. Venticinque centesimi bastavano per mangiare e pagarmi un cinema. A notte fonda rifeci la strada fino alla Lavanderia Industriale Welch e mi accoccolai tra gli stracci accanto al binario. Il terzo giorno ero così sudicio che tutti si voltarono a guardarmi quando entrai nel supermercato dove avevo rubato i giornali per due notti di seguito. La terza notte i giornali non c'erano. Con i soldi riuscii a comprarmi del latte e una barretta di cioccolato, e parecchie altre cose le feci scivolare furtivamente nella camicia. Quando riprese a piovere, salii per il pendio dietro la palazzina in cui abitava mia zia. La pioggia aveva vuotato la strada. Stavolta nessuno guardava dalla finestra mentre m'infilavo per la piccola porta che conduceva in cucina. Gridai: - Zia Eva! Zia Eva! Silenzio. L'appartamento era vuoto. Volevo entrare e riuscire in fretta. Anche stavolta feci correre l'acqua per il bagno e tirai fuori dei vestiti puliti dalla scatola. Mi sbrigai a fare il bagno, l'acqua diventava grigia per il sudiciume che avevo dappertutto, dai capelli alle caviglie, sulle mani e sulla faccia. Indossai gli abiti senza asciugarmi. Una volta vestito, mi sentii un po' più sicuro, e mi venne fame. Trovai del tonno in scatola in un piatto, e misi a tostare due fette di pane per prepararmi un sandwich. Mentre lo mangiavo, mi feci un giro per la casa per vedere se mia zia avesse lasciato qualche spicciolo in giro. Nella sua camera da letto notai delle buste sulla toeletta. Alcune erano bollette; su una c'era l'intestazione della Società per la Protezione degli Animali. Era stata aperta. Estrassi la lettera. Era una ricevuta: la mia cagnetta era stata soppressa. Quando mi resi conto di ciò che avevano fatto, credo che mi misi a urlare. Mi sono successe tante cose in vita mia, ma penso che questo sia stato il dolore più terribile che abbia mai provato. Un dolore che si gonfiò dentro di me. Mi sentii soffocare e restai senza fiato; avevo l'impressione di un peso schiacciante sul petto. Vacillai e sfogai in un pianto convulso il mio tormento estremo e assoluto. A ripensarci, dopo più di mezzo secolo da allora, mi vengono ancora le lacrime agli occhi. Mia zia e mio padre mi avevano detto che Babe aveva trovato una nuova casa a Pomona. E invece se ne erano sbarazzati facendola uccidere, perché per loro era un fastidio. Credo che questo fu il momento preciso in cui il mondo mi perse, perché la sofferenza si tramutò presto in rabbia. Come avevano potuto fare una cosa del genere? Lei li aveva amati e loro l'avevano ammazzata. Se avessi potuto ucciderli entrambi, l'avrei fatto, e anche se i ricordi di un bambino sono presto sommersi dal corso delle cose, io non li perdonerò mai. Tre giorni dopo, un venerdì mattina, ritornai un'altra volta per fare il bagno, e prendere i vestiti e il cibo. Stavolta mio padre era lì ad aspettarmi nell'oscurità. Bloccò la porta per impedirmi di scappare. Doveva chiamare quelli del Tribunale dei Minori. - Non ti prenderà nessun altro. Per Dio, non so che altro fare. - Perché non mi ammazzi come hai ammazzato il mio cane? - Cosa? - Lo sai bene. Ti odio! Sono contento di averti fatto venire i capelli bianchi. Tirò fuori un biglietto da visita e cominciò a comporre un numero di telefono. Io mi avviai verso il bagno, con l'intenzione di scappare un'altra volta dalla finestra. Lui ripose il ricevitore. - Sta' qui e non ti muovere. - Devo andare al bagno. Forse intuendo il mio piano, mise giù il telefono e mi accompagnò. Mentre ero al gabinetto, notai un grosso flacone di Listerine sulla mensola di fronte. Lo afferrai, lo feci volteggiare, e lo scagliai contro la testa di mio padre. Riuscì a schivarla. La bottiglia intaccò l'intonaco della parete. Venti minuti dopo sopraggiunsero due ispettori di polizia inviati dal Tribunale dei Minori e mi portarono via. In serata mi ritrovai internato nel carcere minorile di Henry Street, all'ombra dell'ospedale. Finirono l'iter burocratico della pratica di ingresso che era passata l'ora dello spegnimento delle luci. Un funzionario di colore allampanato dall'andatura dinoccolata mi fece strada tra le porte chiuse a chiave e per un lungo corridoio fino all'Accettazione. Il pavimento del corridoio era lucidato a cera. In fondo al corridoio, che era tagliato a T da un altro corridoio, c'era un funzionario seduto a una scrivania illuminata soltanto da una piccola lampada. Il funzionario di colore porse i miei documenti all'uomo seduto alla scrivania. Lui li esaminò, mi diede un'occhiata, poi prese la sua torcia elettrica e mi condusse per un altro corridoio fino a una doppia porta che si apriva su un dormitorio di dieci letti. Usò la torcia per illuminare la brandina vuota che mi era stata assegnata. Le lenzuola pulite erano lisce e fresche. Nonostante la stanchezza, stentai a prendere sonno. I riflettori all'esterno illuminavano le maglie della grossa rete alle finestre. Ero in gabbia per la prima volta. Quando alla fine il sonno ebbe il sopravvento, piansi, in sogno, per il mio cane e per me stesso. Mi risvegliai tra ragazzi in un mondo che in qualche modo faceva venire in mente "Flies" di John Barth. Ragazzi che venivano da Jordan Downs, Aliso Village, Ramona Gardens e altri quartieri di case popolari. Alcuni provenivano dalle squallide strade di Watts, Santa Barbara Avenue, East Los Angeles, Hicks Camp e altre zone dell'infinita espansione urbana di Los Angeles. Per lo più venivano da famiglie senza un padre in casa, le «famiglie spezzate», come le chiamavano all'epoca. Se in casa un uomo c'era, il suo lavoro probabilmente consisteva nell'andare a comprare l'eroina coi soldi che la madre metteva insieme vendendo il suo corpo. Se si fosse mossa lei per concludere l'acquisto, poteva aspettarsi che le vendessero lattosio al posto dell'eroina oppure, se gli spacciatori non l'avevano, che l'alleggerissero dei suoi soldi e poi, per soprammercato, le tagliassero la gola. Era un rapporto "quid pro quo" tra due tossici. Per loro andava bene, ma non era certo la condizione ideale per tirare su un tredicenne che aveva già il corpo segnato dai tatuaggi blu e i valori dei "vatos loco", un misto di testosterone giovanile, machismo distorto e culto dell'eroe per un fratello più grande già caduto nella "pinta". Fino a quel momento, qualunque fosse stata la natura dei miei problemi, avevo sempre goduto dei privilegi del bambino borghese. Adesso nuotavo nell'elemento più sordido della nostra società: il sistema giudiziario della delinquenza minorile. Da quel momento sarei stato affidato alle cure del servizio pubblico, «allevato dallo Stato». I suoi valori sarebbero diventati i miei valori, soprattutto il valore che la ragione è del più forte, un codice che ammette l'omicidio ma proibisce la delazione. Dapprima quel mondo mi trattò come un intruso, il bambino bianco precoce e istruito con la sua grammatica impeccabile. Fui tormentato e restai vittima dei soprusi dei bulli, ma la cosa durò poco, perché reagii battendomi, anche se ero più lento e meno robusto. Arrivai a colpire con un mattone un ragazzo nerboruto, prendendolo di sorpresa mentre dormiva, o a ferirlo all'occhio con una forchetta nel refettorio. La mia grammatica perfetta e il mio parlare forbito ben presto si tramutarono nell'idioma dei diseredati. Per un periodo, all'età di quattordici anni, il mio inglese assunse un marcato accento messicano. Avevo una certa affinità con i messicani, o meglio, con i chicanos, e il loro stoico fatalismo. Anziché i jeans Levi's, che erano "de rigueur" tra i ragazzi bianchi delle periferie, io preferivo vestirmi secondo lo stile chicano: mimetica dei marine, taglia extra large, con enormi tasche sborsate sui fianchi. Spesso tinta di nero, veniva portata scesa sui fianchi e arrotolata alle caviglie. In questo modo le gambe apparivano molto corte e il tronco esageratamente lungo. Avevo un taglio con una specie di codino, i capelli tirati e appiattiti ai lati del viso, così intrisi di brillantina "Three Flowers" che quando li pettinavo colavano gocce dense di grasso. Siccome la brillantina non era permessa in riformatorio, rubavamo la margarina. Puzzava di rancido, ma era ottima per tenere a posto il taglio di capelli. Non mi negai nulla. Indossavo scarpe con la suola spessa, salvatacchi a ferro di cavallo e altri rinforzi sui lati e sulle punte. Correre era difficile, ma pestare qualcuno a suon di calci era una passeggiata. I miei pantaloni erano «semi», il che voleva dire moderatamente sborsati rispetto allo stile "zoot–suit". Lo "zoot–suit" regolare prevedeva pantaloni molto ampi sulla gamba con risvolti stretti, indossati con una giacca lunga al ginocchio, ma erano già passati di moda prima che io cominciassi a interessarmi di moda. La musica che preferivo non figurava nella hit–parade. Non erano certo Perry Como o Dinah Shore a darmi il palpito, ma la musica e i ritmi funk che risuonavano in Central Avenue e a Watts: Lonnie Johnson, Bull Mose Jackson, Dinah Washington, Billy Eckstine, Ella, Sarah e Billie, Illinois Jacquet e Big J. McNeeley al sax, con "Bird" come l'icona di chiunque si voleva al passo coi tempi. Nei quattro anni successivi al mio ingresso nel carcere minorile, attraversai velocemente e inesorabilmente il sistema giudiziario della delinquenza giovanile. Per otto volte tornai nel carcere minorile, e per due volte fui ricoverato all'ospedale di Stato sotto osservazione. Parlavo da persona sana, ma il mio comportamento era quello di un malato di mente. I medici dell'ospedale erano perplessi sul mio caso. Ero scappato un sei, sette volte, vivendo per le strade la vita del fuggitivo. Ero capace di far partire un'automobile senza la chiave in meno di un minuto. Una volta, dopo essere fuggito dalla Fred C. Nelles School for Boys di Whittier, rubai un'automobile. A metà strada sulla via di Los Angeles, mi fermai per urinare dietro un cartello della Pacific Outdoor. Quando mi rimisi in marcia, mi dimenticai di accendere i fari. A San Gabriel un'automobile della polizia parcheggiata su un angolo mi lampeggiò. Sapevo che non era un'intimazione ad accostarmi, ma non avevo idea di che significasse. I poliziotti si misero al mio inseguimento. Io li osservavo dallo specchietto retrovisore. Quando le luci rosse iniziarono a lampeggiare, schiacciai l'acceleratore. Durante l'inseguimento, esplosero un paio di colpi. Sentii le grosse pallottole colpire l'automobile. Una traversò l'abitacolo da parte a parte, trasformando il vetro del parabrezza in una tela di ragno. Mi abbassai per schivare i colpi, la testa sotto il cruscotto. Aprii la portiera della parte del guidatore, seguendo la linea bianca al centro della strada, sicuro che quelli che mi precedevano, vedendo le luci lampeggianti e sentendo l'urlo della sirena, si sarebbero fatti da parte. Poi guardai al di sopra del cruscotto, per vedere la strada. Oh, merda! Mi trovavo in prossimità di un incrocio a T. Non avevo scelta, dovevo svoltare a destra o a sinistra. Schiacciai il pedale del freno e cercai di girare. L'automobile saltò sul bordo del marciapiede finendo sul prato bagnato all'ingresso di una casa. Avrebbe potuto anche essere ghiacciato, perché l'automobile slittò lateralmente e andò a schiantarsi contro una finestra piombando nel salotto dell'abitazione. Mi ritrovai con le pistole puntate addosso prima ancora di riuscire a trascinarmi fuori dai rottami dell'auto. Riportato a Nelles, mi destinarono al padiglione di rigore. Era retto con il pugno duro: la disciplina in vigore era degna di una caserma dei marine. Il Capo mi prese subito in antipatia. Una mattina, convinto che stessi battendo la fiacca al lavoro, mi lanciò una zolla di terra colpendomi alla nuca. Con l'urto la zolla si sgretolò senza procurarmi ferite, ma ferì il mio ego. Io lo guardai, la rabbia mi si leggeva in faccia. - Non hai gradito, Bunker? mi domandò con aria di sfida. Insieme a lui c'erano altri due sorveglianti e tre «capogruppo», ragazzi utilizzati come scagnozzi contro i loro pari. Io mantenni il mio sangue freddo, ma dentro bollivo di rabbia. Quando rientrammo per il pranzo (parte della punizione inflitta era servire sempre lo stesso menu, e per sette giorni su sette, a pranzo, c'era sempre stato lo stufato), il Capo passò accanto al mio tavolo. Lo chiamai per nome. Si voltò e io gli lanciai il piatto dello stufato. I «capogruppo» mi saltarono addosso. Poco tempo prima avevo avuto la peggio in una scazzottata proprio con uno di loro. Contro tre, più il Capo, non ci fu neppure colluttazione vera e propria. Dal refettorio mi trascinarono giù per tre rampe di scale e poi per un corridoio fino a una cella di isolamento sul retro, mollandomi calci e pugni per tutto il tragitto. Una volta che fui rinchiuso in cella, il Capo mi puntò addosso il tubo della pompa antincendio. Le sbarre smorzarono un po' della forza del getto d'acqua che comunque si abbatté sulle mie gambe, tanto che persi l'equilibrio e andai a sbattere contro un muro. Un'ora dopo il Capo tornò per godersi lo spettacolo della mia faccia tumefatta e del mio corpo inzuppato fino al midollo. - Sembri un gatto tutto fradicio, - commentò, il labbro arricciato in un ghigno beffardo. - Almeno per un po' ti passerà la voglia di lanciare le cose per aria. Poggiato a terra, nascosto dal mio corpo, tenevo un rotolo di carta igienica bagnata con un mucchio di merda sopra. Quelle parole beffarde risuonavano ancora nell'aria quando scagliai il rotolo di carta igienica e la merda attraverso le sbarre. Il missile si sfaldò spiaccicandosi sui vestiti e sulla faccia del Capo, e sul muro alle sue spalle. Impazzì dalla rabbia, tant'è che nessuno volle aprire il cancello. Quella sera mi prelevarono e mi portarono via dalla porta di servizio, mi caricarono in automobile e mi spedirono al Pacific Colony State Hospital, vicino Pomona. Il Pacific Colony era un ospedale specializzato per ritardati mentali, ma accoglieva alcuni casi di competenza del Tribunale dei Minori, trattenendo i soggetti per un periodo di osservazione di novanta giorni. Il suo unico reparto di sicurezza era il posto più brutale che mi sia mai capitato di conoscere. Anche di quei tempi, se le condizioni bestiali di quel luogo fossero diventate di dominio pubblico, sarebbe scoppiato uno scandalo. Trascorrevo gran parte della giornata nella stanza comune, seduto su una delle panche allineate alle tre pareti del locale. Su ogni panca figuravano quattro nomi scritti su una striscia di nastro adesivo. Sedevamo lì, in silenzio, a braccia conserte. Bastava sussurrare una parola e un sorvegliante si accostava a passi felpati dietro le panche e con un pugno ti buttava a terra. Sulla quarta parete della stanza c'erano delle seggiole di vimini imbottite. Quattro erano sistemate su una pedana, ed erano riservate ai sorveglianti. I loro scagnozzi avevano diritto di sedersi sulle seggiole al livello del pavimento. Tanto per divertirsi, i sorveglianti organizzavano dei combattimenti tra i pazienti. Le controversie venivano regolate in quel modo, oppure erano proprio i sorveglianti a combinare gli incontri. Il vincitore aveva in premio un pacchetto di sigarette. Una delle punizioni inflitte più frequentemente era il «traino del blocco». Il «blocco» era una piastra di calcestruzzo che pesava una cinquantina di chili. Avvolta in parecchi strati di vecchie coperte di lana, era munita di due ganci a occhiello cui era assicurata una cinghia di tela larga e piatta, lunga circa tre metri e mezzo. Sul pavimento piastrellato di un lungo corridoio laterale era stato cosparso uno spesso strato di paraffina. Il blocco avvolto di coperte veniva trascinato su e giù per il corridoio per dodici ore al giorno. Un chicano di La Colonia, a Watts, restò «al blocco» per trenta giorni per essersi imbottito di fenobarbital. La punizione più brutale era venire appesi per le mani dall'alto dei condotti dell'aerazione. Il mascalzone che si era meritato la punizione in realtà non era sollevato completamente dal suolo, ma doveva sostenersi sugli alluci, oppure far reggere tutto il peso del corpo dalle braccia e dai polsi. Dopo dieci minuti era una tortura. Dopo un quarto d'ora, la vittima di solito urlava. Ma i sorveglianti preferivano il pestaggio vecchio stile. Forse perché apprezzavano il fatto che col pestaggio potevano fare esercizio fisico. Vista la situazione, e considerato che mi trovavo lì solo per un periodo di osservazione di novanta giorni, cercai di non dare nell'occhio. Una notte, circa due mesi dopo il mio ingresso in ospedale, me ne stavo alla finestra guardando giù nel cortile. A un centinaio di metri c'era un reparto femminile. Un ragazzo di nome Pee–Wee, alloggiato nella stanza accanto alla mia, stava strillando fuori della finestra per comunicare con la sua ragazza. Il guardiano del turno di notte si chiamava Hunter, ma era conosciuto col soprannome di Picchiatore. Lo ignoravo, purtroppo, ma il Picchiatore si era messo a correre di porta in porta, sbirciando dallo spioncino per cogliere sul fatto chi osava schiamazzare di notte nel cortile del manicomio. Mi allontanai dalla finestra non appena sentii il rumore della porta che veniva aperta alle mie spalle. Il Picchiatore entrò con l'impeto fremente di un tasso. Senza dire una parola, mi mollò due pugni in faccia, i diretti corti di chi è abituato a usare le mani per tirare di boxe. Entrambi mi arrivarono in pieno viso, uno alla bocca, l'altro alla mandibola. Sentii in bocca il sapore del sangue che sgorgava dal labbro tagliato dai denti, e una fitta di dolore alla mandibola annunciò che si era slogata. Il Picchiatore, dondolandosi sulla punta dei piedi, le mani alzate, la voce perfida, mi minacciò: - Ti insegno io a strillare, moccioso di merda. Avanzò saltellando per colpire ancora. Lo schivai e ricaddi sul letto, chinandomi per schivare i colpi. Era difficile per lui centrarmi con i pugni, e così prese a picchiarmi e a calciarmi sui polpacci e sulle cosce, vomitando improperi rabbiosi. Sapevo che se avessi reagito mi avrebbe ammazzato di botte. Riuscivano a farla franca, in quel posto. Avevo visto brutalità tali che non sarebbero mai accadute in un riformatorio, e neppure in prigione, se è per questo, dove vigeva il diritto di ricorrere al tribunale. Questo era un "ospedale". E noi eravamo i pazienti ricoverati in cura. Il Picchiatore, una volta finito il suo lavoro, se ne andò. Sentivo l'occhio pesto chiudersi tanto era gonfio. Durante il pestaggio il letto si era sfatto, e lenzuola e coperte erano tutte sottosopra. Scostai la branda dal muro e cominciai a rassettare le coperte. La porta si riaprì. Il Picchiatore era di nuovo lì, dondolando avanti e indietro sulla punta dei piedi, una copia perfetta di Jimmy Cagney. Roteava la catena delle chiavi come l'elica di un aeroplano. Alle sue spalle c'erano un grosso sorvegliante dai capelli rossi e un paziente che godeva di un trattamento speciale perché svolgeva parte del loro sporco lavoro. Il Picchiatore si accostò al mio letto e ricominciò a martellarmi di pugni. Fino a quel momento avevo soffocato la mia collera. Adesso lo avevo di fronte, faccia a faccia, gli occhiali luccicanti, il ghigno beffardo. Tese i muscoli per colpire ancora. Stavolta fui io a colpire per primo. Il mio pugno gli fracassò gli occhiali. Il vetro lo tagliò sopra un occhio e sul dorso del naso. Il sangue colò sulla sua camicia bianca inamidata con la farfallina nera al collo. Poiché teneva le ginocchia puntate contro il letto, la forza del pugno lo scaraventò a sedere. Cercai di colpirlo ancora. Il sorvegliante con i capelli rossi sopraggiunse alle mie spalle e, stringendomi un braccio intorno al collo, mi tirò indietro. Io non mollai la presa della camicia del Picchiatore, che si strappò. Gli restarono addosso soltanto il colletto e la farfallina. Mentre il rosso mi strangolava da dietro, lo scagnozzo mi sollevò da terra per un piede. Qualcuno balzò sul letto e mi saltò sullo stomaco. Un altro mi scazzottò in faccia per sei o sette volte. Erano pugni sferrati da un adulto, con tutta la forza. Dopo che tutti e tre se ne furono andati, facevo fatica a respirare. Mandavo giù solo piccole boccate d'aria, altrimenti fitte di dolore mi trafiggevano il petto. Il mio occhio destro era completamente chiuso. Sputavo il sangue che mi usciva dal labbro spaccato. A mezzanotte, al cambio del turno di vigilanza, la mia porta si aprì per la terza volta ed entrarono i due sorveglianti in servizio. Uno si chiamava Fields, un nome che dopo cinquant'anni ricordo ancora. Aveva giocato nella squadra di football di una piccola università locale. Il fiato gli puzzava di alcol. Il regolamento prescriveva che mi alzassi in piedi ogni volta che si apriva la porta. Riuscii a farcela. Allora quello mi atterrò con un pugno e seguitò a tirarmi calci finché non riuscii a rintanarmi sotto il letto. Lui cercò di spostare il letto per stanarmi. In preda a quella furia ubriaca, avrebbe seguitato a massacrami di calci fino ad ammazzarmi, se l'altro sorvegliante alla fine non lo avesse trattenuto. - Smettila, Fields. Così lo ammazzerai. È solo un bambino. L'indomani mattina venne da me il medico del reparto, un ometto con un accento dialettale, e tastò la mia faccia gonfia e sfigurata chiocciando come una gallina. Ero malconcio da fare paura. L'occhio chiuso sporgeva grosso come un uovo. - Non credo proprio che picchierai un altro sorvegliante, dico bene? - domandò. Scrollai il capo, e pensai: «No, se non mi riesce di ammazzarlo». Fui tenuto segregato in camera mia per tutto il resto del periodo di osservazione. Dopo avermi dichiarato sano di mente, mi rispedirono al riformatorio. Tre settimane più tardi, dopo il mio ritorno in riformatorio, scappai con un ragazzo nero di nome Watkins, originario di Watts. Andammo a stare con sua madre e sua sorella tra Hundred–and-third e Avalon. Il padre era in marina. La famiglia viveva in un piccolo bungalow di legno giallo con un pollaio in cortile. Gli agenti mandati dall'autorità giudiziaria minorile arrivarono di notte, con l'intenzione di sorprenderci nel sonno. Noi l'avevamo previsto, e dormivamo in un casotto tra i binari della ferrovia e le Simon Rodia's Watts Towers. Quei grattacieli mi ricordavano vagamente le fotografie che avevo visto di Angkor Wat in Cambogia. Se si saliva sul tram rosso che si fermava alla stazione di Watts, si vedevano sempre quei grattacieli svettare contro il cielo. Dopo aver trascorso un paio di mesi di vita vagabondando per le strade, Watkins fu catturato. Io scappai e trascorsi parecchi mesi nel barrio di Temple. Dormivo in un cortile, dentro una vecchia automobile Cord sistemata su dei blocchi di cemento, e andavo in giro con i "vatos loco". Fui catturato per colpa del mio primo amore, una ragazza italiana. L'avevo conosciuta tramite suo fratello, che avevo incontrato al carcere minorile. Sua sorellina confessò ai genitori che io dormivo nel casotto sul retro. I genitori chiamarono la polizia, che arrivò una mattina di buon'ora. Mi svegliai con una pistola puntata in faccia. Anziché essere rispedito al riformatorio di Whittier, fui mandato alla Preston School of Industry, non lontano da Stockton, nella California del Nord. Era un istituto destinato a ragazzi di sedici, diciassette anni; alcuni internati erano diciottenni. Io avevo appena compiuto quattordici anni. Non appena arrivai alla Preston School of Industry, fui chiamato da parte e ammonito come sempre: - Bene, Bunker, prova a combinare una sola delle tue solite bravate qui, e te ne faremo pentire amaramente. Questo non è un posto per mocciosi. Sappiamo trattare i teppistelli come te. Dopo quattordici mesi venni rilasciato e rimesso in libertà. Avevano provato ad applicare la disciplina del carcere minorile e di Whittier, più qualche altra trovata, tipo spararmi del gas lacrimogeno in faccia e, una volta, imprigionarmi in una camicia di forza per ventiquattrore. Bisogna riconoscere che non arrivarono a commettere le brutalità che mi avevano inflitto all'ospedale di Stato. Avessero usato gli stessi metodi, avrei finito per uccidere qualcuno o suicidarmi. Preston adottava una pratica tuttora in vigore dopo cinquant'anni. I ragazzi nerboruti e maneschi venivano nominati «ufficiali dei cadetti». Godevano privilegi speciali e fiducia concessa sulla parola, e in cambio dovevano dispensare pugni e calci per mantenere l'ordine con la forza e la paura. Ogni compagnia ne contava tre, uno bianco, uno nero, e un chicano. Dovevano essere al tempo stesso duri e flessibili. Uno degli ufficiali era Eddi Machen, che qualche anno dopo sarebbe diventato un pugile peso massimo e arrivò a gareggiare nella categoria superiore. Uno qualsiasi di loro, da solo, poteva mettermi fuori combattimento. Dopo essere stato preso a calci da uno degli ufficiali dei cadetti perché ero fuori passo mentre marciavamo verso il refettorio, aspettai il momento che si fu messo a sedere per mangiare; poi gli arrivai alle spalle e lo colpii all'occhio con una forchetta. Lo trasportarono d'urgenza a Sacramento, dove riuscirono a salvargli l'occhio, ma la sua vista non fu più la stessa. Fui assegnato permanentemente alla Compagnia G, una unità con un blocco di celle su tre livelli. Era buio e tetro, una copia carbone di una sezione carceraria. Per sei mattine la settimana mangiavamo in cella, poi marciavamo all'aperto con picconi e pale in spalla. Ripulivamo i fossati di irrigazione dalle erbacce, oppure spalavamo la merda dei maiali, il cui fetore è il peggiore sulla faccia della terra. Qualche volta gettavamo il cemento per l'impianto delle nuove porcilaie. A mezzogiorno rientravamo, pranzavamo nel nostro piccolo refettorio, facevamo la doccia e poi tornavamo in cella, dove restavamo fino al mattino seguente. La maggioranza dei miei compagni soffriva e smaniava per tutto quel tempo in cui dovevamo restare reclusi in cella, ma io preferivo di gran lunga la cella, perché così, almeno, potevo leggere. Un benefattore anonimo aveva donato alla Preston la sua biblioteca personale costituita da parecchie centinaia di libri. In maggioranza i volumi dovevano essere stati acquistati dal Book of the Month Club, ma molti il benefattore li aveva ricevuti in regalo, così almeno indicavano le dediche sui frontespizi. Dopo aver tolto le copertine rigide, li avevano sistemati alla rinfusa in uno stanzino. Facevamo la doccia in tre alla volta, ed è allora che potevamo rimediare due o tre libri. Il Capo accendeva la luce dello stanzino e ci lasciava rovistare tra i libri finché non avevamo tutti finito di fare la doccia. Io ero sempre il primo a uscire dall'acqua e ad asciugarmi, così da avere quel paio di minuti in più per trovare il libro che mi piaceva più di altri. Non avevo capacità di giudizio critico. Un libro era un libro, una varco possibile verso luoghi lontani e meravigliose avventure. Avevo manifestato una preferenza precoce per il romanzo storico, che aveva avuto molto successo negli anni quaranta. Cercai per autori, e presto riconobbi alcuni dei nomi degli scrittori più venduti, come Frank Yerby, Rafael Sabatini, Thomas Costain, Taylor Caldwell e Mika Waltari. Ricordo ancora Per chi suona la campana di Hemingway, Ragazzo negro di Richard Wright e un unico volume con parecchi racconti di Jack London, "Il lupo di mare", "Il richiamo della foresta" e "Il tallone di ferro". Un romanzo era scritto in forma autobiografica e parlava di una rivoluzione in America. Per parecchi capitoli pensai che stavo leggendo una storia vera, ma quando raccontò di una guerra civile nel 1920, mi resi conto che non si trattava di vicende realmente accadute. Eppure buona parte di ciò che l'autore scriveva sulla società suona vero ancora oggi. Risale all'epoca della Compagnia G la mia consapevolezza che i romanzi, più delle storie vere, possono avvincere e divertire. E che la saggezza e la forza visionaria di quei libri riescono anche a penetrare i recessi più intimi del comportamento umano. In base al codice penale, a un regolamento amministrativo o a qualche altra clausola, non era consentito tenere un ragazzo non ancora sedicenne in una cella di reclusione per più di ventinove giorni di fila. A loro garbava molto il fatto che io fossi confinato nella Compagnia G; non combinavo guai di sorta, niente risse, niente aggressioni al personale. Non sputavo in faccia a nessuno, non turavo i gabinetti, non allagavo le celle, non fomentavo rivolte, né progettavo la fuga. Così, la trentesima mattina, dopo la colazione, mi fecero uscire dalla Compagnia G. Dopo essere stato reintegrato tra la popolazione dei regolari, andai a pranzo. Dopo pranzo mi riportarono nella Compagnia G. Quanto a me, ero ben contento di tornare al libro che non avevo ancora finito di leggere, "La settima croce" di Anna Seghers. Dopo aver trascorso in carcere tre anni su quattro - un anno l'avevo trascorso in fuga, a seguito di diverse evasioni - venni rilasciato sulla parola e affidato a mia zia dal giudice minorile. Lei avrebbe preferito che andassi a stare altrove, ma non c'era alcun altrove, oltre casa sua. Mia madre, che non vedevo dall'epoca del mio primo internamento nel carcere minorile, si era risposata e aveva una figlia. Né lei né suo marito mi volevano tra i piedi, e la cosa era reciproca. Mio padre, ormai sessantaduenne e malato di cuore, era invecchiato precocemente e viveva in una casa di riposo per anziani. Neppure mi riconobbe, quando andai a trovarlo. Mia zia mi accolse con affetto, ma lei ed io vedevamo il mondo in modo diverso. Da una parte, lei mi considerava un ragazzino di quindici anni che si era messo nei guai, ma che ormai doveva aver imparato la lezione. Pensava che avrei dovuto comportarmi come si conviene a un quindicenne. Io, dall'altra, mi consideravo un uomo cresciuto, o per lo meno con tutti i diritti di un giovane diciottenne. Vivevo per le strade, sapendo badare a me stesso, dall'età di tredici anni. Non avevo alcuna intenzione di rientrare a casa alle dieci di sera, se non mi andava, e neppure a mezzanotte, se è per questo. Riguardo alla scuola, quando andai a iscrivermi saltò fuori il mio fascicolo personale. La segretaria, dopo averlo esaminato, mi disse di tornare il lunedì successivo. Il lunedì, la donna dietro il banco mi consegnò la lettera. Scritta sulla carta intestata dell'Unified School District di Los Angeles, e firmata dal sovrintendente e dallo psichiatra capo, notificava che, viste le circostanze, Edward Bunker era esonerato dall'obbligo di frequentare la scuola. C'era indicato un numero di telefono, in caso qualcuno desiderasse chiarimenti in proposito. Sulla lettera era stato apposto un timbro incomprensibile. Da quel che mi risulta, un caso del genere non si è mai verificato nella città di Los Angeles. Era magnifico, perché, per quanto amassi lo studio, non potevo soffrire la scuola. All'epoca avevo già capito che la vera cultura dipende dall'individuo e si può attingere dai libri. Le strade di notte erano un invito allettante. Gli amici che mi ero fatto in riformatorio, in maggioranza più grandi di me, vivevano per le strade e avevano le mani in pasta. Era esaltante imbucarsi nei locali aperti fino al mattino sulla Quarantaduesima e la Central, dove ti vendevano gli alcolici sottobanco, in tazze da tè, servivano prosciutto, uova e cereali eccellenti, si ascoltava buona musica e nessuno ti chiedeva i documenti di identità. Del resto io li avevo, in caso di necessità. Certo, c'erano dei rischi ma, al diavolo, chi se ne importava? Mia zia disapprovava i miei orari e mi ammoniva, prevedendo che mi sarei nuovamente messo nei guai. Aveva ragione. Avrei voluto smentirla. Ma, d'altra parte, vivevo assolutamente alla giornata. Non sapevo mai ciò che avrei fatto per più di quarantotto ore. Ogni mattina mi risvegliavo in un mondo nuovo. Le divergenze tra mia zia e me, e il nostro modo diverso di vedere il mondo, cominciarono ad avvelenare il nostro rapporto. Mi guadagnai quasi duemila dollari aiutando un chicano di Hazard, tale Black Sugar, a raccogliere alcune piante di marijuana cresciute ad altezza d'uomo: le avevano coltivate tra le file del granoturco, su a Happy Valley. Fu un bel colpo. Nessuno se ne accorse. Nessuno andò alla polizia. Mi sganciai da mia zia e dal funzionario della libertà sulla parola. Per tre mesi me la spassai alla grande. Affittai una stanza e comprai una Ford '40 coupé per 300 dollari. Tirai avanti da solo. Poi mi arrestarono mentre mi trovavo a casa di due ragazzi conosciuti in riformatorio che avevano rapinato empori. Diciottenni, abitavano in una casa nella zona orientale di Alvardo, appena a sud di Temple Street. La casa era di proprietà della madre di uno dei ragazzi, ma la stanza sotto la veranda sul retro era il posto dove «succedeva tutto». Era un circolo per galeotti potenziali. Il posto ideale dove stazionare aspettando che succedesse qualcosa, qualcuno passasse, qualcuno telefonasse, qualcuno si facesse venire un'idea. Ed era anche il posto ideale per un'irruzione degli sbirri. Cosa che puntualmente accadde. Trovarono un certo numero di pistole, un po' di pasticche illegali e un certo quantitativo d'erba. Quanto bastava per schedarci tutti quanti finché la faccenda non si fosse chiarita. Il loro obiettivo vero era portarci dinanzi ai testimoni delle rapine per il confronto di riconoscimento. Nessuno dei testimoni mi riconobbe, ma le mie impronte digitali tornarono indietro con un mandato di arresto straordinario per violazione della libertà vigilata emesso dall'autorità giudiziaria competente per i minori. CAPITOLO TERZO. TRA I CONDANNATI. Il direttore della Preston School of Industry minacciò di dimettersi qualora fossi tornato nel suo istituto, o per lo meno questo fu quanto appresi dall'uomo che mi trasferì in automobile dalla prigione della Contea di L. A. al carcere minorile di Lancaster. Il carcere minorile si trovava ai margini del vasto Mojave Desert, ma ancora sotto la giurisdizione della Contea di Los Angeles. Costruito durante la Seconda guerra mondiale come base di addestramento per gli aviatori canadesi, era passato sotto la gestione dell'Amministrazione Penitenziaria della California. Un doppio recinto sovrastato da una spirale di filo spinato circondava gli edifici. Ogni cento metri si ergeva una torre di osservazione con una guardia armata, costruita su pali. Voilà! Una vera prigione. Ad eccezione di una ventina di detenuti con qualifiche specifiche venuti da San Quentin o Folsom (l'infermiere di pronto soccorso, lo stenodattilografo per il direttore aggiunto, e così via), gli internati di Lancaster avevano tra i diciotto e i venticinque anni. Il novanta per cento di loro aveva tra i diciotto e i ventun anni. Quando l'agente addetto alla traduzione dei detenuti mi tolse le catene nell'Ufficio Accettazione e Rilascio, avevo quindici anni. Stavo svolgendo la pratica di ingresso, quando arrivò un sergente con l'incarico di condurmi dal capitano. Indossata una tuta bianca, provai un senso di imbarazzo attraversando la prigione scortato dal sergente. Teste si voltavano a scrutare il nuovo arrivato. Un paio di detenuti, che avevo incontrato in altri posti, mi riconobbero e mi chiamarono a voce alta. - Ehi, Bunker! Come va la vita? Dentro l'Ufficio di Custodia, che per certi versi faceva venire in mente la redazione della cronaca locale di un giornale di città, c'era una porta con il vetro smerigliato su cui era stampigliata la scritta L. S. NELSON, CAPITANO. Il capitano era al comando di tutto il personale in uniforme. Era sulla trentina e aveva i capelli rossi. In seguito, quando quel rosso si mescolò al biondo sabbia, e lui era ormai diventato direttore di San Quentin, tutti lo chiamarono Red Nelson. Era un direttore carcerario leggendario, noto per essere ferreo ma leale. Di mascella forte, aveva la faccia imbrunita dal sole. Gli occhi erano nascosti dietro un paio di occhiali scuri in stile aviatore. Li portava per l'impressione da duro che conferivano. Si allungò all'indietro sulla seggiola girevole, le dita intrecciate dietro al collo, e mi parlò con un'inflessione vagamente beffarda nella voce. - Cazzo! Non direi proprio che incuti un terrore sacro. Sei troppo scarso di chiappe, per essere quel duro che mi dicono. Sei fortunato se qualcuno, qui dentro, non ti concia per le feste. - Non me ne preoccupo. - Neanch'io. Ma pensavo di dirti come stanno le cose. Ti sei fatto un nome in quei posti per mocciosi dove sei capitato. Ma questo non è un posto per mocciosi. Questa è una prigione. Prova soltanto a fare qualche cazzata qui, e ti cadrà il mondo addosso, ci puoi scommettere. Ti farò scoppiare il cervello a suon di calci. Capito? - Sì, signore, - dissi. - Voglio scontare la mia pena e uscire di qui prima possibile -. Le mie parole erano vere, ma ero risentito per quella sua minaccia. Ovunque ero finito - scuola militare, carcere minorile, riformatorio, manicomio - tutti mi avevano promesso di spezzarmi le ossa. Tutti mi avevano inflitto dure sofferenze fisiche ed emotive, ma io ero ancora in piedi. Se il fatto di finire tra il grosso della popolazione carceraria fosse stato meno importante per me, gli avrei scaraventato addosso la scrivania e avrei accettato il pestaggio che avrei subito di conseguenza, così avrebbe visto subito che non ero affatto intimidito dalle sue parole. - Va bene, Bunker… vai nel cortile. Al minimo guaio, ti seppellisco sottoterra in una cella di rigore così profonda che dovranno pomparti l'aria per farti respirare -. Mi congedò con uno cenno del pollice. Girai i tacchi e il sergente rimasto in attesa aprì la porta. Dopo essere stato assegnato al Dormitorio N. 3, mi stavo preparando la branda, quando i miei compagni del riformatorio e del carcere minorile cominciarono ad accostarsi, dandomi il benvenuto con grandi sorrisi e pacche sulle spalle. Qualcuno mi saltò addosso e io andai a urtare contro una branda che slittò rumorosamente sul pavimento. - Andate a scatenarvi fuori, - gridò la guardia del dormitorio dalla sua scrivania. Uscimmo fuori e prendemmo la strada che portava ai campi di pallamano. Di fronte a noi c'era un capannello di detenuti. Ci accostammo. Al centro del gruppo c'erano due giovani chicanos, ossuti come due sparvieri: ciascuno impugnava un grosso coltello. Ne riconobbi uno che avevo conosciuto al riformatorio, senza tuttavia ricordarne il nome. A distanza, di lato, c'era l'oggetto della loro contesa, una piccola checca di razza bianca di nome Forever Amber, che si stropicciava le mani. Il chicano che avevo riconosciuto fece segno all'avversario, invitandolo apertamente a farsi sotto. Aveva arrotolato la giacca jeans intorno all'avambraccio. Entrambi indossavano una T–shirt bianca. Quel che accadde subito dopo non somigliò affatto al tipico scontro all'arma bianca che si vede nei film. Si accapigliarono come due galli da combattimento, balzando in aria, colpendo ripetutamente e accoltellandosi l'un l'altro. Quello col braccio scoperto ricevette una coltellata che gli aprì uno squarcio profondo fino all'osso. Poi fu lui a colpire. Il lungo coltello penetrò nella maglietta bianca dell'altro e affondò fino al manico. Entrambi rantolavano, ma nessuno dei due voleva gettare la spugna. Nel giro di pochi secondi, erano entrambi dilaniati per le ferite ricevute. Quello con la giacca arrotolata sul braccio all'improvviso farfugliò: - Sporco figlio di puttana… - poi si piegò sulle ginocchia e si abbatté a terra a faccia in giù, il coltello che gli scivolava dalle dita stremate mentre il sangue si spandeva in una pozza inzuppando la terra dura e asciutta. L'altro chicano girò i tacchi e si allontanò a passi lenti, il sangue che gli schizzava dalla bocca. Mi fece venire in mente una balena che sfiata. Forever Amber gli corse dietro, tutta moine e vezzi da femminuccia. Percorsi circa cinquanta metri, il «vincitore» si fermò di colpo, tossì scatarrando un grosso grumo di sangue, e piombò a terra. Provò a rimettersi in piedi, ma restò sulle ginocchia, la testa reclina. Accorsero parecchi detenuti e lo trasportarono all'ospedale, ma quando tornarono mostrarono pollice verso. Anche lui era morto. Dopo lo spegnimento delle luci, trascorse un certo tempo prima che il dormitorio si acquietasse per la notte. Sagome si muovevano tra le ombre verso i bagni e le latrine, gli spazzolini sui denti o in mano, gli asciugamani arrotolati intorno al collo. In fondo al dormitorio, due figure sedute su brande adiacenti accostarono le teste per parlarsi sottovoce. Uno scoppio di risa. La guardia grugnì: - Piantatela, laggiù -. Silenzio. Ero disteso supino, senza scarpe ma con tutti i vestiti indosso, gli occhi coperti da un asciugamano. Non avevo nemici, né motivo di stare in guardia. Colpi di tosse. Cigolii delle molle del letto, scalpiccio di ciabatte che scivolavano nei passaggi tra le brande. Le finestre del dormitorio erano telai vuoti, in realtà buchi sulla parete a forma di finestre. La recinzione doppia con il rotolo di filo spinato, le luci, e le torrette con le guardie armate rendevano superflue le finestre di sicurezza. Il vento del deserto che si levava ogni giorno all'imbrunire era caldo e forte quella sera. Faceva vibrare il filo spinato e rullare la recinzione di rete metallica in tutta la sua lunghezza, come l'onda dell'oceano quando si riversa sulla spiaggia. Senza posa mi tornava in mente l'immagine del coltello veloce e mortale, ogni momento del combattimento quasi fermato nel tempo. Adesso sapevo riconoscere la morte. Era stata inflitta dalla mano destra, un po' di sghembo e un po' verso l'alto, in un movimento che pareva difensivo piuttosto che offensivo. L'altro ragazzo era mancino, o per lo meno impugnava il coltello con la sinistra. Lo brandiva col braccio teso, e vibrava colpi tagliando l'aria all'altezza della faccia dell'avversario. Quando aveva allungato il braccio sinistro, il punto molle appena sotto le costole era rimasto scoperto. È lì che il coltello dell'avversario era affondato sino al manico. La lama doveva aver reciso una valvola cardiaca. "Zac"! Uno schiocco delle dita, ed era morto! Era ormai passato alla storia. Quella notte, dopo lo spegnimento delle luci, restai disteso sulla mia branda, ascoltando i rumori della notte, il cigolio delle molle, i sussurri senza parole, le risa soffocate, pensando a quei due giovani chicanos morti. Si erano ammazzati combattendo per una checca, per puro machismo. A giudizio di molti, a guidare il mio comportamento era un'attrazione per il caos per il piacere puro e semplice del caos. Forse c'era da scommettere che difficilmente avrei raggiunto i sessant'anni, men che meno i settanta. Avevo appena assistito a un duplice omicidio, ed ero profondamente sconvolto. Anche se coscientemente non espressi alcun proposito, e il mio comportamento seguitò ad essere sconsiderato e imprevedibile, da quel momento in poi c'è sempre stato un qualcosa che mi ha trattenuto sull'orlo del precipizio. Mai e poi mai sarei finito "mano a mano" con i coltelli. E così è stato. Desideravo una vittoria vera e propria, non una vittoria di Pirro. Per tre mesi riuscii ad evitare la cella di rigore, e feci a pugni solo un paio di volte. Prima con un indiano di nome Andy Lowe, che conoscevo dai tempi del carcere minorile. Ci battevamo corpo a corpo nel dormitorio. Il pugilato corpo a corpo è un combattimento a mani nude, senza guantoni, da cui sono esclusi i colpi alla testa. Andy poteva battermi quando eravamo più piccoli, ma ormai non più. Quando si tese per sferrare il suo colpo, io gli piantai un sinistro sul petto così da bloccarlo e mi scansai ruotando su me stesso. Ogni volta che sferrava un pugno, il colpo andava a vuoto. Non dava l'impressione di essere arrabbiato, così quando uno dei suoi cazzotti mi arrivò in testa, pensai che non l'avesse fatto di proposito. Cose che capitano. Poi, però, sferrò due altri pugni con le nocche che mi rintronarono in faccia, e all'accaduto non seguì alcuna parola di scusa. Quando ci riprovò, anziché piantargli il pugno sul petto, glielo mollai sul naso. La scazzottata era iniziata. Qualcuno gridò: - Il Capo! - Ci separammo immediatamente e gli spettatori si dispersero per raggiungere le loro brande. La guardia percepì che c'era qualcosa fuori posto, ma non riuscì a capire esattamente cosa. L'altra scazzottata fu con un chicano, Ghost de Fresno. Una volta mi ero battuto con suo fratello più piccolo a Preston. Ghost si difese strenuamente. I villini dove un tempo risiedevano gli ufficiali scapoli arruolati nell'Aeronautica canadese erano stati trasformati in alloggi destinati ai detenuti che godevano un trattamento di favore, tre in ogni villino, e fu quello il luogo scelto per il combattimento. Stavo avendo la meglio, ma sentivo le forze rapidamente venir meno. Il mio solito punto debole. Fortunatamente, anche stavolta qualcuno gridò: - Il Capo! - Io mi tuffai sotto una branda, ma Ghost tentò di scappare. I villini erano al di fuori dei limiti dell'area consentita per coloro cui non erano assegnati. Fu tradotto nella cella degli inquisiti per essere interrogato. Non riuscirono mai a scoprire l'identità del suo avversario. Poiché si erano verificati parecchi accoltellamenti tra i detenuti dall'epoca del duplice omicidio, non vollero correre rischi rimettendo Ghost tra la popolazione carceraria. A ventun anni, era più grande della media dei suoi compagni, per di più era stato rinviato a giudizio dalla Corte Suprema perché scontasse una detenzione vera e propria. Pertanto poteva essere trasferito a San Quentin. E così fu. Lo caricarono su un autobus e lo spedirono al nord, e per me andò benone così. Poiché non avevo nessuno che mi mandasse i dodici dollari al mese, la cifra allora consentita per le sigarette e gli altri sfizi, dovetti cercarmi una forma di introito. Mi misi nella produzione casalinga della birra. Per ogni gallone di birra ci volevano mezzo chilo di zucchero, una presa di lievito, e uno qualsiasi di certi ingredienti per far fermentare il preparato: passata di pomodoro, arance da spremere o succo d'arancia, uvette e prugne secche, persino patate tagliate a pezzi. Mescolati, cominciano a fermentare immediatamente. Si ottiene una bevanda che ha il sapore della birra e del vino mischiati insieme e che ha un tasso alcolico del 20 per cento. Lo zucchero e il lievito si compravano da uno che lavorava nelle cucine e li rubacchiava, nonostante i cuochi non detenuti tenessero una stretta sorveglianza e il pane veniva fuori schiacciato. La parte difficile di tutto il procedimento era trovare il posto dove nascondere la miscela mentre fermentava. Aveva bisogno di un certo volume e mandava un odore. Non poteva essere messa in un recipiente a tenuta stagna perché il processo di fermentazione la faceva gonfiare. Trovai un nascondiglio cui sarei ricorso ancora: gli estintori. Ogni estintore era munito di un tubo di gomma cucito a una camera d'aria da un detenuto che lavorava nella sartoria del carcere, e poteva tenere quasi quindici litri. Un litro di birra costava cinque pacchetti di Camel, e i clienti la ordinavano in anticipo. In circa un mese riuscii a riempire cinque estintori che fermentavano in continuazione, e fui ricco, secondo i parametri della prigione. Di fatto, quanto guadagnavo era una grossa quantità di tabacco, anche se mi permetteva di comprare tutto ciò che era in vendita all'interno del carcere. Trascorsero tre mesi. Dal primo giorno in cui ero entrato nel carcere minorile non era mai passato un mese senza che finissi in isolamento. I miei estintori in continua ebollizione erano dappertutto: uno alla parete della baracca della palestra, due nel dormitorio, uno in biblioteca, uno nel corridoio dell'ospedale. Passavo il tempo a procurarmi gli ingredienti, mescolare l'intruglio, metterlo su o tirarlo giù, e vendere la birra un tanto al litro. Così il tempo passava più in fretta. Poi, un giorno, un cestino della carta straccia della biblioteca andò a fuoco. Il bibliotecario prese l'estintore e trovò la mistura puzzolente della birra fatta in casa. Il capitano Nelson andò su tutte le furie. Minacciò gli addetti alla biblioteca: o risalivano al colpevole, oppure sarebbero stati caricati sull'autobus e spediti a San Quentin. Uno di loro riuscì ad avere la soffiata e mi denunciò. Dopo l'appello, ma prima dell'apertura per la cena, due agenti di custodia si presentarono alla porta del dormitorio, parlarono con la guardia, e poi risalirono per il passaggio centrale tra le brandine. Mi resi conto che era me che cercavano nel momento stesso in cui entrarono, anche se attesi il cenno del dito ricurvo per averne la conferma. Presi la giacca, un pacchetto di sigarette, i fiammiferi, e il libro che stavo leggendo, "Via col vento". Sapevo che sarei finito nella cella degli inquisiti. Non era la cella di rigore. Si finiva nella cella degli inquisiti fino al momento dell'udienza per il provvedimento disciplinare. Erano le cinque del pomeriggio. Le luci sarebbero rimaste accese fino alle dieci e mezzo, undici. Cosa avrei dovuto fare tutta la sera? Leggere "Via col vento", è ovvio. L'indomani mattina, alle dieci, mi vennero a prendere per l'udienza. Il capitano Nelson era il funzionario incaricato dell'udienza. Avevo sperato che a presiedere fosse il direttore aggiunto, che con lui divideva quelle funzioni. Altri sei giovani detenuti erano in fila, in piedi, anch'essi in attesa di comparire dinanzi alla commissione disciplinare. La guardia di scorta prima mi fece passare davanti a loro, poi bussò alla porta e la aprì di pochi centimetri per sbirciare all'interno. Gli fu fatto cenno che potevo entrare, perché spalancò la porta e io andai dentro. Il Cap. L.S. «Red» Nelson era seduto alla scrivania. Era la nostra prima conversazione dal giorno del mio arrivo. L'avevo intravisto in cortile un paio di volte, e avevo cambiato direzione per evitarlo. - Eccoci qua, Bunker. Sapevo che ci saremmo rivisti. Ho saputo che ti sei messo a fare la birra. Restai in silenzio. Che c'era da dire? Del resto non mi andava di chiacchierare con il capitano Nelson neppure nella migliore delle situazioni. -…Dunque sei un duro, - aveva seguitato. - Non faresti il foruncolo sul culo di quelli là -. Parlava di Alcatraz, dove aveva lavorato prima di passare all'Amministrazione Penitenziaria della California. Mi raccontò di essere stato rinchiuso in una cella insieme ad altri sei agenti di custodia mentre tre bastardi, tre rapinatori originari dell'Oklahoma e del Kentucky, scaricavano una calibro.45 dentro la cella. Nelson era sopravvissuto senza un graffio. Da quel momento non aveva avuto più paura di niente. - A ogni modo, - riprese, dopo aver concluso le sue reminescenze, - sei accusato di aver violato l'articolo D 1215 del regolamento carcerario. Il ventitre settembre, giorno più giorno meno, hai messo quindici litri di bevanda alcolica di fabbricazione artigianale nell'estintore della biblioteca. Come ti dichiari? - Non colpevole. Nessuno mi ha sorpreso a trafficare con la birra. - Non è necessario. Gli impiegati della biblioteca hanno entrambi dichiarato che era di tua proprietà. Quindi ti dichiaro colpevole. Sei condannato a dieci giorni di isolamento; per di più dispongo per il tuo caso la sorveglianza speciale e lo stato di segregazione amministrativa. Rivedrò la tua posizione tra sei mesi. Sei mesi di segregazione! Significava essere richiuso in cella per ventitre ore al giorno. La differenza tra l'isolamento e la segregazione era che la segregazione comportava qualche privilegio: i libri, la mensa e altre banalità che diventano importanti quando non c'è niente altro. Ce l'avrei fatta, ma sei mesi erano un'esagerazione rispetto all'entità della mia trasgressione. Fabbricare la birra artigianale era un reato minore nel contesto generale delle cose. La segregazione era una reclusione a lungo termine prevista per i casi di accoltellamento o i tentativi di fuga. Nelson mi guardava con un'espressione beffarda, come per dire: - Non ti piace, teppistello? - Frenai l'impulso di rovesciargli la scrivania addosso. Mi congedò con un cenno di saluto. L'agente di custodia mi aprì la porta. - Uno in isolamento, - ordinò Nelson all'agente nel corridoio. L'agente nel corridoio mi fece sedere mentre preparavano l'ordine di segregazione. Il cicalino elettrico suonò, e la guardia fece cenno al detenuto successivo di seguirlo. Quando uscì, l'agente di custodia dentro la stanza annunciò: - Trenta giorni di annullamento dei privilegi. Il cicalino suonò ancora. L'agente nel corridoio si voltò per aprire la porta al detenuto numero tre. Nel momento preciso in cui era girato di spalle, io mi alzai in piedi, mi allontanai e, raggiunto l'angolo, svoltai. Mi sarei aspettato che una voce mi intimasse: Fermati, Bunker! - Nessuno disse niente. Una volta uscito dall'Ufficio di Custodia, mi incamminai verso la baracca della palestra, dove avrei trovato un coltello nascosto. In realtà era poco più di un temperino. La lama era lunga soltanto cinque centimetri, e aveva la punta arrotondata. Avrebbe potuto procurare una ferita, ma non penetrare in profondità. Dopo aver preso il coltello, mi diressi verso la biblioteca, con l'intenzione di aggredire almeno uno dei due che mi avevano incastrato. Vidi cinque agenti con i manganelli svoltare l'angolo, quando gli altoparlanti dell'interfono annunciarono che c'erano visite per me. Era assurdo. Nessuno veniva mai a trovarmi. Non sarei mai arrivato alla biblioteca, ma avrei rischiato il tutto per tutto. Svoltai l'angolo tra i dormitori e mi incamminai verso il cortile. Alle mie spalle, a distanza ravvicinata, sentii uno scricchiolio di passi sul ghiaietto. Presi a correre, ma fui immediatamente bloccato con un placcaggio degno di un difensore della National Football League. Ero con la schiena a terra, e l'uomo era sopra di me. Nel tentativo di strapparmi il coltello, afferrò la lama. Io fui pronto a sfilarglielo di mano, squarciandogli il palmo. Qualcosa mi colpì alla testa, un colpo secco. Lì per lì pensai a un sasso. Ma quando mi colpi ancora, vidi che era il manganello del sergente grasso. Gli agenti mi piombarono tutti addosso, e giù botte, pugni, calci. Intorno si era formato un capannello di detenuti. Qualcuno gridò: - Lasciatelo stare, vigliacchi… - Non qui! Non qui! - ordinò una voce autoritaria. Non volevano testimoni. Mi trascinarono per le gambe, la schiena che raschiava sul ghiaietto e sull'asfalto, per tutta la distanza che separava la prigione al «blocco», una piccola costruzione di dieci celle usate per l'isolamento. Una volta dentro, si scatenarono. Fui fortunato che erano in dieci perché si intralciarono a vicenda aizzandosi l'un l'altro mentre ciascuno scaricava calci e pugni su di me. Dal loro punto di vista sarebbe stato meglio se fossero stati solo in tre. Io ripiegai le gambe sul petto, proteggendomi la faccia con gli avambracci. Mi coprirono di insulti e mi massacrarono di botte. Aggredire uno di loro significava aggredire tutti. Quando si ammazzava un detenuto, nessuno protestava, ma assalire una guardia era sacrilegio. Una guardia commise un errore. Quando si curvò, per trovare il punto esatto per mollarmi il suo cazzotto in faccia, si accostò troppo. Gli sferrai un calcio con entrambi i piedi, allungando il corpo per metterci tutta la forza, e lo presi in faccia scaraventandolo a terra. Mi afferrarono per le gambe, una guardia per gamba, altri due mi afferrarono per il tronco, mi sollevarono in alto e poi mi scagliarono sul pavimento di cemento. Lanciai un urlo di dolore. - Ancora, - suggerì qualcuno. Lo fecero un'infinità di volte. Infine mi strapparono i vestiti di dosso prima di buttarmi in una cella vuota. Uno di loro si trattenne per commentare: - Scommetto che questa è l'ultima volta che aggredisci un agente. La mia replica fu silenziosa, ma vera: - Questo non è che l'inizio della mia lotta. In mancanza di uno specchio, dovetti verificare a tastoni le lesioni sul mio corpo, con la punta delle dita. Sulla nuca, dove avevo sbattuto contro il pavimento, si era formato un grosso bernoccolo. La manganellata mi aveva squarciato il cuoio capelluto. Le spalle e il petto erano incrostati di sangue, che colava sulle guance e sul collo. Era stato un pestaggio feroce, ma non così brutale come quello alla Pacific Colony. Tutto considerato, mi sentivo in forma, e tutt'altro che pronto alla resa. Circa un'ora dopo, un detenuto iniziò a passare lo straccio sul passaggio esterno alle celle. Lo convinsi a darmi lo spazzolone. Passai il bastone del manico tra le sbarre e lo spezzai nel mezzo, staccai lo straccio, e piegai i denti cui era agganciato, così da ricavare un attrezzo che somigliava vagamente a un piccone o a una zappa. Poi, allungando la mano tra le sbarre, riempii la grossa serratura di schegge di legno. Poco dopo una guardia sbirciò da dietro l'angolo. - Non ti arrendi, eh? - Non ancora. L'agente fece uno sbuffo di commiserazione e scosse il capo. Poi lo sentii chiamare al telefono, ma non riuscii a capire ciò che diceva. Mezz'ora più tardi, la sua testa ricomparve all'angolo del cancello. - È in arrivo il capitano, e ha una certa cosa per te. Sentii il rumore della porta esterna che si apriva e la voce del capitano Nelson. Svoltò l'angolo accompagnato da un sergente di corporatura piccola di nome Sparling. Entrambi avevano una maschera antigas intorno al collo. Il capitano Nelson aveva una bombola assicurata con una cinghia alla schiena e teneva uno spruzzatore in mano. Pareva che dovesse andare a spruzzare le piante di antiparassitario. - Dammelo, Bunker. - Vieni a prendertelo. - Come vuoi -. Sorrise e si sistemò la maschera antigas sulla faccia. Il sergente Sparling fece altrettanto. Il capitano sollevò lo spruzzatore e sparò un getto di liquido. Che c… Quando il liquido mi arrivò sulla pelle nuda, ebbi l'impressione di andare a fuoco, come se fosse benzina infiammata. In seguito venni a sapere che era gas lacrimogeno liquido. In quel momento pensai che non ne sarei uscito vivo. Gettai via il manico dello spazzolone, mi rotolai sul pavimento e cercai di correre su per la parete. Il mio comportamento era quello di una mosca investita da una spruzzata di insetticida. I miei occhi bruciavano e lacrimavano. Era terribile. I detenuti delle celle vicine lanciavano urla strazianti. Nessuno poteva resistere per più di pochi minuti in quella concentrazione di gas lacrimogeno. Fecero per aprire la cella, senza riuscirci per via delle schegge di legno che avevo infilate nella serratura. Non riuscivano a vedere bene con la maschera antigas. Quando finalmente riuscirono ad aprire la porta, il grosso del gas si era dissolto. Bruciava ancora, ma molto meno. - Alza le mani e vieni fuori a marcia indietro, - intimò il capitano Nelson. Si teneva su un lato del cancello, e il sergente sull'altro. Feci come mi aveva ordinato. Non appena ebbi superato la soglia del cancello, allungai la mano destra, strappai la maschera del sergente e lo colpii col pugno sinistro. Crollò a terra. Il capitano Nelson mi saltò sulla schiena e provò a strangolarmi, ma io riuscii a svincolarmi con un movimento veloce, prima di voltarmi e scaraventarlo contro le sbarre. Il sergente, pur annaspando, si rimise in piedi e corse all'esterno dove attendeva una squadra di agenti senza maschere antigas. Nel frattempo il capitano Nelson e io stavamo facendo a pugni nel corridoio fuori delle celle, entrambi col naso che colava e gli occhi lacrimanti. La maschera gli era andata di traverso, e il capitano aveva un'aria ridicola. Arrivò una frotta di agenti, infuriati per il gas lacrimogeno che bruciava agli occhi, e mi trascinarono fuori imprecando contro di me. Alle nostre spalle gli altri detenuti urlavano perché li facessero uscire di lì. Ero nudo sotto il sole rovente del deserto. Mi trovavo sotto una torretta di osservazione, e le guardie presero posizione circondandomi a una distanza di circa tre metri. L'asfalto era così infocato che dovevo saltare da un piede all'altro. Doveva essere uno spettacolo grottesco: un ragazzo quindicenne che ballava di fronte a quelle guardie con le lacrime agli occhi. Prima di andarsene, il capitano Nelson mi fece portare un asciugamano perché lo mettessi sotto i piedi. Ero già abbronzato in quasi tutto il corpo, così non mi bruciai, ma il sedere non l'avevo mai esposto al sole, men che meno al sole pomeridiano del deserto. Circa un'ora dopo arrivò un'automobile giardinetta. Ne scese un tenente e mi consegnò un completo cachi. Una volta che mi fui vestito, mi ammanettarono, mi caricarono sul sedile posteriore separato dallo schermo divisorio, e mi portarono via passando dal cancello posteriore. Domandai dove eravamo diretti. Non mi risposero, ma quando svoltarono a destra, anziché a sinistra, capii subito che la nostra destinazione era la prigione della Contea di L. A. La Prigione della Contea di Los Angeles era tra il decimo e il quattordicesimo piano del Palazzo di Giustizia all'angolo tra Broadway e Temple Street. Quando il tenente della polizia penitenziaria mi consegnò al funzionario dell'accettazione, gli porse anche un foglio di carta. Sul rapporto c'era scritto che ero stato arrestato per violazione dell'articolo 4500 del Codice Penale della California. L'articolo 4500 stabilisce che ogni detenuto condannato all'ergastolo che si rende responsabile di un'aggressione suscettibile di provocare lesioni gravi sul corpo della vittima è punibile con la camera a gas. Non c'era alternativa. L'ergastolo, secondo la legislazione della Suprema Corte della California comprende anche le pene di durata indeterminata, vale a dire da un anno all'ergastolo o da cinque anni all'ergastolo. In effetti io ero punibile secondo l'articolo 4500, comma B. Il comma non era specificato nel documento. Il funzionario mi domandò quanti anni avevo. Gli risposi che avevo diciannove anni. Con un'alzata di spalle mi assegnò al «10-A-1», noto anche come «sezione di massima sicurezza». Era il braccio di sorveglianza speciale destinato agli uomini che rischiavano la camera a gas, condannati per omicidio di un poliziotto o famigerati assassini. In genere, i prigionieri vengono trasferiti in gruppi o talvolta possono anche muoversi da soli da un posto all'altro all'interno della prigione, ma i detenuti sorvegliati speciali vengono tradotti uno alla volta sotto scorta. Essere stati assegnati alla sorveglianza speciale conferisce un certo prestigio nel mondo alla rovescia dei valori della malavita. Di solito ci vogliono dalle otto alle dodici ore per espletare le pratiche di ingresso. In gruppo, ogni detenuto doveva aspettare che tutti gli altri terminassero ciascuna fase della procedura prima di passare alla successiva. Mi fecero passare avanti a tutti gli altri. Prima l'Ufficio Accettazione e Rilascio, a fianco della Bertillion Room, dove mi scattarono le foto segnaletiche e mi presero parecchie serie di impronte digitali. Ne furono spedite delle copie a Sacramento e all'F.b.i. di Washington. Mi fecero fare la doccia, mi spruzzarono con il D.d.t. (che veniva usato prima dell'introduzione del Silent Spring), e mi fu consegnata la divisa da carcerato. Un ausiliare medico mi ordinò di «scappucciarlo e poi strizzarlo» per controllare se avevo la gonorrea. Poi esaminò alla svelta i miei lividi, e mi dichiarò idoneo. Dopo aver preso una coperta e la fodera del materasso, dentro la quale c'era una tazza e un cucchiaio di alluminio, un incaricato mi scortò attraverso il labirinto della prigione fino al decimo piano, accanto alla Stanza del Procuratore, dove si trovava, separata dalle altre, la sezione di massima sicurezza. Il tragitto si snodava tra pareti di sbarre, di là dalle quali c'erano passaggi che fiancheggiavano le celle. La prigione era affollata. Gran parte delle celle ospitava quattro o cinque detenuti. Anche nel camerone dei carcerati che godevano di buona condotta e avevano un regime privilegiato ce n'erano tre. I cancelli delle celle erano aperti, e gli uomini erano fuori nel corridoio, dove passeggiavano o giocavano a carte. Mentre passavo accanto a una cella, uno disse: Chi ha ammazzato? È ancora un bambino. Per lo più i cameroni rispettavano la segregazione razziale. Con una eccezione: il camerone delle «checche». Gli asciugamani avvolti in testa come turbanti, la camicia della divisa carceraria con le falde legate a mo' di blusa, il trucco ingegnosamente ricavato da Dio sa cosa, i jeans attillatissimi arrotolati sul fondo, erano tutti sgargianti parodie di donne. Vedendomi mentre passavo con la guardia davanti alla loro cella, si assieparono subito vicino a noi: - Mettilo qui con noi, signor aggiunto! Non gli faremo male! L'aggiunto sbuffò e rispose con una battuta spiritosa. - Come no! Giusto i lacci delle scarpe, ritroveremmo di lui. - Come ti chiami, tesoro? Non risposi. - Chi hai ammazzato, moccioso? - Se finisci in prigione, sarò io la tua donna, e ammazzerò chiunque ti romperà i coglioni. Non dissi nulla. Ci si rimetteva soltanto, a fare gli spiritosi con le checche: avevano la lingua lunga e un umorismo sarcastico. Manco a dirlo, il pensiero che qualcuno potesse scoparmi non mi preoccupava affatto. Non ero certo il tipo del signorino bianco perbene. Se qualcuno avesse detto una parola fuori posto, o mi avesse guardato in modo strano, avrei reagito immediatamente, e se non fossero seguite subito le scuse che pretendevo, gli sarei saltato addosso senza spendere una parola di più. Oltrepassato il camerone delle checche, proseguimmo nel labirinto di scale di ferro e sbarre, lungo una parete di mattonelle verde chiaro, lasciandoci alle spalle il settore dei bianchi, quello dei neri, quello dei messicani. Giungemmo a una serie di celle con un corridoio quasi vuoto. Sul pavimento era in corso una partita di bridge, una coperta ripiegata faceva da tavolo da gioco. L'agente di scorta consegnò alla guardia addetta alla sorveglianza delle celle i miei documenti di ingresso e un'etichetta col mio nome che fu infilata nella fessura di una bacheca. - Sei nella Cella 6, - disse, facendomi cenno di seguirlo verso il cancello del camerone. Prima dovette aprire lo sportello di acciaio di un pannello di controllo accanto al cancello. - Un pesciolino nella rete! - gridò. - Cella 6. Dopo che ebbe aperto e spalancato il cancello del camerone, entrai. I detenuti che giocavano a bridge alzarono la testa per guardarmi; dalle porte aperte di altre celle si affacciarono altre teste per esaminarmi. Una era nera. Nella prigione tutti erano segregati, tranne i finocchi e gli assassini. Ironico, no? Mi incamminai per il ballatoio. Era stretto, e dovetti scavalcare il gruppo dei giocatori di bridge, scusandomi con loro. Raggiunsi la Cella 6. Sulle brandine c'erano già due uomini. Sapevo che la prigione era affollata, ma mi ero immaginato che un uomo che rischiava la condanna a morte avrebbe avuto una cella tutta per sé. Esitai. - Vieni, entra, - disse l'uomo sulla brandina superiore. Prossimo alla quarantina, basette grigie, era piccolo e muscoloso. L'uomo seduto sulla brandina sotto indossava una canottiera che gli fasciava la pancia prominente. Dall'aspetto avrebbe potuto essere un italiano. Il secondino azionò una leva che fece vibrare rumorosamente tutti i cancelli delle celle. - Tutti dentro! A uno a uno in cella! La partita a carte si interruppe. I giocatori si alzarono in piedi. Gli altri due o tre detenuti ancora fuori nel corridoio si mossero verso le loro celle. Il ballatoio cominciò a svuotarsi. Entrai dentro. Ero un po' impaurito. Mi trovavo rinchiuso in cella insieme a due adulti rinviati a giudizio per i più gravi reati immaginabili. Dall'ingresso della sezione, il secondino gridò: - Attenti ai cancelli! Si chiude! - Tutti i cancelli delle celle si chiusero con un orrendo schianto, acciaio contro acciaio. In tutta la prigione i cancelli vibravano e si chiudevano sbattendo fragorosamente. Era l'ora della chiusura generale. L'uomo tarchiato sulla branda in basso mi fece posto. Mettiti a sedere. Quanti anni hai? - Diciannove, - mentii. Scrollò la testa e grugnì. Il suo nome, avrei saputo in seguito, era Johnny Cicerone, ed era un vero «uomo d'onore», uno della mafia, o perlomeno della sua versione a L. A. La mafia, avrei appreso in seguito, aveva piccole "enclaves" sparse nella California del Sud, ma non deteneva lo stesso potere che esercitava nell'Est. Johnny controllava una rete di allibratori operanti in parecchie fabbriche e all'ospedale generale; in più era il braccio destro dei fratelli Sica, Joe e Freddy, di Jimmy «the Weasel» Fratianno e Dominic Brooklier, il "capo de regime" sulla West Coast. Leggenda voleva che si fossero fatti le ossa eliminando Bugsy Siegel. - Com'è che ti ritrovi alla massima sicurezza? - domandò l'uomo più piccolo, il cui nome era Gordon D'Arcy. - Chi ti accusano di aver ammazzato? - (In carcere o in prigione, avrei imparato in seguito, non si chiede mai a qualcuno quel che ha fatto, ma quello che l'autorità giudiziaria ti imputa di aver fatto. Così sei nella condizione di rispondere, senza peraltro ammettere nulla). - Nessuno. Ho accoltellato un secondino a Lancaster -. Non precisai che si trattava di una ferita superficiale. - Accoltellato un secondino! Cazzo! - La sua sorpresa era evidente. Con un cenno indicò la mia faccia ammaccata e malconcia. - A quanto pare ci hanno dato sotto. - Sì, si sono fatti un giro di valzer sulla mia schiena. Non è gran che grave -. Lo stoicismo, così apprezzato tra la malavita, era già parte del mio codice. Mai frignare. Qualunque cosa ti succeda, sforzarti di ridere. D'Arcy sogghignò. Nei giorni seguenti appresi che era un professionista della rapina a mano armata, e che rischiava l'ergastolo per sequestro di persona e rapina. Si trattava di un sequestro di persona di tipo tecnico: aveva costretto il direttore di un supermercato dal reparto frutta e verdura a raggiungere l'ufficio sul retro per aprire la cassaforte. Costringere qualcuno a spostarsi faceva scattare l'applicazione della cosiddetta legge «Little Lindbergh». Se la vittima avesse riportato qualche lesione, D'Arcy sarebbe finito diritto nella camera a gas. Per come andò, avrebbe rischiato soltanto l'ergastolo, se dichiarato colpevole. La vittima affermò che avrebbe potuto identificare D'Arcy soltanto dagli occhi. Il malvivente indossava un passamontagna che gli copriva tutta la faccia, così l'avvocato della difesa fece sfilare cinque uomini che indossavano abiti e passamontagna identici ai suoi davanti al testimone e ai giurati. Il testimone senza un attimo di esitazione aveva indicato D'Arcy. Aveva cacciato un urlo, e poi era svenuto. La giuria emise il verdetto di colpevolezza in meno di tre ore. A quel tempo era in attesa del processo di appello. Cicerone prese in mano un mazzo di carte. - Forza, Gordon, fammi ricuperare i miei soldi. - Metti qua le chiappe che ti suono io. Cicerone prese una matita e un taccuino su cui erano già segnati i punteggi delle partite precedenti. - Vai pure a stenderti sulla mia branda, - disse rivolgendosi a me. - Non si mangia, prima di una mezzoretta. - Grazie. Di' un po', dov'è che dormo? - C'è un materasso, lì sotto -. Indicò la branda in basso. - Lo tiriamo fuori di notte. Sei fortunato a non essere in qualche altro braccio dove sono cinque in una cella. Tirai fuori il materasso. Più che un materasso era uno stuoino, ricoperto da una patina lucente, traccia del sudore di centinaia di corpi. Ero troppo stanco per mettere il coprimaterasso pulito che mi avevano consegnato. Spinsi il materasso al suo posto e mi stesi sulla branda. Avevo l'impressione di trovarmi in una piccola grotta. Che giornata… e non era ancora finita. Che sarebbe successo? Certamente tra qualche giorno mi avrebbero portato davanti al giudice e il tribunale si sarebbe dichiarato incompetente a giudicarmi, perché ero minorenne. Poi sarebbe iniziato il procedimento giudiziario alla Corte Suprema. Avevo personalmente conosciuto un giovane, Bob Pate, che aveva cercato di fuggire da Lancaster. In forza di un mandato di carcerazione del Tribunale dei Minori, era qui che era stato spedito. Avrà avuto diciotto, diciannove anni, e gli avevano dato sei mesi. Io avrei compiuto sedici anni tra quattro mesi. Mi avrebbero mandato a San Quentin? Ad ogni modo, perlomeno agli occhi della legge, sarei stato un adulto. Ero preso dai miei pensieri, quando sentii cigolare il cancello all'ingresso del camerone insieme al rumore metallico delle ciotole e delle brocche del caffè e delle altre cose che venivano spinte su un carrello. Qualche istante dopo, uno dei detenuti addetti ai servizi comparve davanti alla cella. Contò nove fette di pane e le passò attraverso le sbarre. Dietro di lui ne veniva un altro che teneva un enorme recipiente d'acqua con un lungo beccuccio. D'Arcy saltò giù dal letto e, dopo aver preso parecchie tazze, le dispose sul pavimento all'esterno della cella. L'uomo esitò finché D'Arcy non gli allungò un quarto di dollaro. Allora quello riempì tutte le tazze e poi proseguì lungo il ballatoio. Tutto costava di meno, a quei tempi. I miei compagni di cella interruppero la partita per bere la bevanda calda. Un tè dolce con un gusto che non dimenticherò mai, veniva servito tutte le sere. - A mangiare! - urlò una voce all'ingresso della sezione. Sentii il "clic clac" di un cancello che veniva aperto sul retro. Un asiatico obeso passò davanti alla nostra cella strascicando le ciabatte. - Chi è? - domandai. - Yama coso, o qualcosa del genere, - rispose Cicerone. - È qui dal quarantacinque… o quarantasei, forse. Condannato a morte, per tradimento. - Tradimento? Com'è successo? - Raccontaglielo tu, - disse Cicerone facendo segno a D'Arcy. - È cittadino americano. È passato all'esercito giapponese, o in Giappone o nelle Filippine. Ha partecipato alla Marcia della Morte di Bataan. Non credo che lo giustizieranno. Otterrà un annullamento o una commutazione della pena, o qualcosa di simile. - Che bastardo! Se qualcuno si merita la camera a gas, questo è lui, - disse Cicerone. Quando il grasso nippoamericano tornò indietro, si aprì un altro cancello e sopraggiunse un altro uomo. Era Lloyd Sampsell, e passando fece un cenno di saluto a D'Arcy. Si conoscevano dai tempi del Grande Cortile di San Quentin. Sampsell era uno dei «Banditi degli Yachs», chiamati così perché dopo un colpo fruttato un bel po' di soldi, prendevano il largo su uno yacht e si facevano una crociera lungo la costa della California. Era scappato dalla prigione e aveva fatto fuori una guardia di sicurezza o un agente durante una rapina, ed era stato condannato a morte. Era stato trasferito dal Braccio della Morte per comparire a un'udienza davanti al tribunale. Anche l'uomo che comparve dopo era destinato al Braccio della Morte. Era grosso, con un naso aquilino che era stato rotto più di una volta. Era Caryl Chessman, il Bandito della Luce Rossa. Avevo sentito parlare di lui. Dicevano che fosse un tipo in gamba. Una volta un investigatore mi paragonò a lui. Passò e fece ritorno alla sua cella. Poi comparve un piccoletto con la faccia aguzza da furetto e una cicatrice che gli tirava la pelle intorno all'occhio destro. Io ero in piedi accanto alle sbarre. Guardò per due volte, si fermò quando mi vide. - Caspita! E tu chi sei? Capii al volo il messaggio sottinteso. La faccia mi andò in fiamme. - Muoviti, Cook! - gridò la guardia all'ingresso. Cook mi strizzò l'occhio e proseguì verso l'ingresso per prendersi il suo rancio. Quando tornò sui suoi passi, io mi trovavo in fondo alla cella, seduto sul gabinetto. Cercava me. Quando mi vide, mi mandò un bacio. Non sapevo chi era. Non mi importava chi era. Saltai in piedi. - Vaffanculo! Fottuto bastardo! - Ehi, piccolo, non fare il cattivo. - Torna in cella, Cook! - strillò ancora il secondino. - Dentro! Dopo che Cook se ne fu andato, mi rivolsi ai miei compagni di cella: - Chi è quel bastardo? - Billy Cook, - rispose D'Arcy. - Ha accoppato una famiglia intera, e poi ha fatto sparire i corpi gettandoli in un pozzo. Poi fatto fuori un altro po' di gente mentre stava venendo a ovest. L'hanno preso in Messico e l'hanno ributtato di qua dalla frontiera. Ha ammazzato un tale che l'aveva beccato qui, in California. È stato condannato a morte ieri. Mi ricordavo vagamente di aver sentito parlare di questo caso. - Ha un occhio che non si chiude, giusto? - Sì. Quando le ha freddate, per via di quell'occhio, le vittime non riuscivano a capire se era sveglio o dormiva. - Sezione avanti… apertura! - strillò il secondino. - Attenzione ai cancelli! I cancelli di tutte le altre celle incominciarono a vibrare; poi si aprirono. - Su, vieni, - fece D'Arcy. Seguii lui e Cicerone sul corridoio dove una ventina di uomini erano allineati all'ingresso della sezione, mentre i detenuti in divise cachi addetti al servizio scodellavano spaghetti al ragù in un piatto combinato con una scodella. Era largo come un piatto, con i bordi di una ciotola. - Com'è che noi usciamo insieme e gli altri uno alla volta? - Loro sono mostri al cento per cento. Noi soltanto mezzi mostri. - Quelli già condannati a morte, oppure i tipi che pensano possano fare casino, li tengono separati. Mentre mangiavamo le celle restarono aperte; poi venimmo richiusi in cella mentre i detenuti addetti ai servizi spazzavano e lavavano il corridoio. Quando il pavimento fu asciutto, i cancelli della sezione centrale furono riaperti. D'Arcy prese una coperta ripiegata e, dopo averla stesa per terra davanti all'entrata della cella, vi lasciò cadere due mazzi di carte Bee. Altri prigionieri si raccolsero intorno alla coperta sedendo sul pavimento. - Giochi? - D'Arcy domandò a Cicerone. - No. Stasera viene il mio avvocato. Bisogna che scriva qualche stronzata da consegnargli. Era una partita di poker alla rovescia, dove vince la mano chi ha il punto più basso, e la mano migliore è asso, 2, 3, 4, 5. È la variante del poker, come avrei imparato col tempo, che richiede la massima abilità, se si vuole giocare bene. Disteso sulla branda inferiore, osservavo la partita senza importunare nessuno. Dopo cena, la prigione era più tranquilla, sebbene mai del tutto immersa nel silenzio. Sul passaggio all'esterno del camerone tintinnavano campanellini e lampeggiavano piccole luci rosse. Erano segnali per i «predatori», gli agenti di custodia che passeggiavano a passi felpati lungo i cameroni. Cicerone fu mandato a chiamare. Dopo che se ne fu andato, la partita si interruppe perché arrivò l'ora dell'appello. Dovemmo allinearci sul corridoio in file di tre, in modo che i secondini camminando dall'esterno potessero contarci per tre. Appello finito! - gridò un aggiunto quando arrivò in fondo. - Vuoi un po' di tè? - domandò D'Arcy. - Sì. Ma preferirei una sigaretta. - Non hai sigarette? Tieni -. Estrasse alcune sigarette da un pacchetto di Camel e me le tese. Lì per lì esitai, perché non volevo obblighi con nessuno. Era una delle fondamentali regole non scritte del penitenziario e della prigione: non essere in obbligo. - Forza, - insistette, e così presi le sigarette. - Soldi ce n'hai? - domandò. Scossi il capo. - Famiglia? Scossi il capo. Scosse il capo lui. - È una vita dura se non hai nessuno. Prese un rotolo di carta igienica, ne strappò una striscia che poi riarrotolò alla meglio, ne rimboccò il fondo attraverso il buco nel mezzo, poggiò il cartoccio sul bordo del gabinetto e diede fuoco. Bruciò a cono, come un fornello, e durò quanto bastava per riscaldare una tazza metallica di tè. Ne versò metà in un'altra tazza e me la porse. Era buono, specialmente con una sigaretta. Mi raccontò di Johnny Cicerone. La cosiddetta squadra anticrimine del Lapd, il Polke Department di Los Angeles, gli stava alle costole. Lui doveva riscuotere un debito di duemila dollari da un padroncino alle prime armi che lo aveva fregato. Nel corso della «esazione», aveva schiaffeggiato il tizio e lo aveva portato nella sala bar del bowling di proprietà del debitore, su Vermont. I soldi erano lì. Cicerone era riuscito a farsi pagare, ma il Lapd lo voleva seppellire vivo. Poiché Cicerone aveva schiaffeggiato il furbacchione con una pistola, lo avevano accusato di sequestro di persona a scopo di rapina con l'aggravante della violenza premeditata. Era la stessa imputazione che aveva spedito Caryl Chessman nel Braccio della Morte. Anche se era improbabile che venisse condannato alla pena capitale, l'ergastolo non glielo toglieva nessuno… - Che gli succederà? - domandai. D'Arcy rispose che non ne aveva la minima idea. (Un paio di anni dopo, scoprii che Cicerone aveva patteggiato per ottenere una riduzione della pena nel merito di un altro caso e aveva scontato tre anni di detenzione a Soledad). Il cancello dell'ingresso si aprì e Cicerone passò dentro e rientrò in cella. - C'è rimasto un po' di tè? - Sì. Te ne ho lasciato una tazza. Bisogna scaldarlo. Da qualche altra parte della prigione, attraverso le pareti, giunse la vibrazione di cancelli che si chiudevano di colpo. Un minuto dopo, l'aggiunto responsabile del nostro camerone gridò: - Dentro! A–Uno! Gli uomini nel corridoio si diressero verso le celle. Uno di loro si arrestò davanti al nostro cancello. - Tieni, - disse porgendomi un biglietto ripiegato. - Te lo manda Cook. Aprii il biglietto e lessi soltanto poche parole prima di buttarlo nel cesso. Voleva vedermi quando i detenuti del mio camerone sarebbero usciti per andare alle docce. D'Arcy e Cicerone mi guardavano con un'espressione di solidarietà. - E un mentecatto, - commentò D'Arcy. - Già -. Avevo una mezza speranza che i miei compagni di cella mi avrebbero aiutato, anche se sapevo che non dovevo contarci. Ci eravamo appena conosciuti, e loro avevano le proprie rogne da risolvere. La solidarietà finiva lì, non significava che sarebbero intervenuti in mio favore. E poi, in galera chi non ce la fa a cavarsela da solo è destinato a soccombere. - 'Fanculo a lui, - dissi. - Come farai? - Non lascerò che mi fotta… e non ho neanche intenzione di rivolgermi al Capo. Quand'è che si va a fare la doccia? - Domani. - Vuole vedermi nelle docce. - Signore! - Avete qualche lametta usata e uno spazzolino? - Nel cartone del latte -. Cicerone voltò la testa verso un cartone del latte sulla mensola in fondo alla cella. Su un lato era aperto, e così serviva anche come scatola per cianfrusaglie varie. Lamette arrugginite, mozziconi di matita, uno spazzolino le cui setole erano state usate per pulire qualcos'altro che i denti. Usando la fiamma di una mezza scatola di fiammiferi, misi lo spazzolino sul fuoco. Quando si fu ammorbidito strappai via le setole e accesi altri fiammiferi, e mentre bruciava e la plastica era diventata duttile, spensi i fiammiferi e vi infilai metà della lametta da barba, poi schiacciai la plastica intorno per fissarla. Avevo visto un chicano al carcere minorile squarciare la schiena di un tizio, dalla spalla al fianco, con un solo colpo. Centoventicinque punti di sutura. Come arma micidiale non era un gran che, ma era la migliore che potessi fabbricarmi, in quelle circostanze. I miei compagni di cella mi guardavano, impassibili. Soltanto quando Cicerone mi diede una pacca sulla spalla dicendo: - Hai le palle, ragazzo mio -. Compresi senza alcun dubbio che erano dalla mia parte. Nonostante l'estrema stanchezza, mi fu difficile prendere sonno nella prigione della contea quella prima notte. La massima sicurezza era una sezione esterna. Aveva le pareti di sbarre, di là dalle quali c'era il passaggio del secondino, ma allora vi erano delle piccole finestre, dalle quali giungevano i rumori notturni della città, delle automobili e dei tram su Broadway, dieci piani sotto. I tram facevano due scampanellate prima di ripartire da ogni fermata. Quel suono suscitava in me gli stessi sentimenti indistinti del fischio di un treno nella notte. Perché ero così diverso? Ero pazzo? Pensavo di no, nonostante il mio comportamento talvolta apparentemente dissennato. Pareva ci fosse una concatenazione prestabilita di cause ed effetti. In mattinata avevo in mente di assalire un folle che aveva ammazzato per lo meno sette volte. Che altro potevo fare? Invocare la tutela di una guardia? Sì, per questa volta mi avrebbero protetto, ma il marchio d'infamia della viltà e il fatto di essere uno spione, perché tale i miei pari mi avrebbero considerato, mi avrebbero perseguitato per sempre. Avrei aperto la stagione della caccia contro di me. Avevo un vantaggio, però, sul mio avversario. Lui non si sarebbe mai aspettato che io, il ragazzino smilzo che aveva visto, lo attaccassi di sorpresa. Magari pensava che la scia di cadaveri che aveva lasciato dietro di sé mi avrebbe paralizzato. Nonostante il turbinio dei pensieri, la stanchezza ebbe il sopravvento e ben presto mi addormentai. La mattina, prima di andare alle docce, dovemmo disfare i letti, ripiegare fodere e coperte, e allineare tutti i nostri oggetti personali sul pavimento all'esterno della cella contro la parete. Ci era permesso indossare soltanto la biancheria e le scarpe, e portare con noi un asciugamano. Mentre eravamo sotto la doccia, una dozzina di guardie avrebbe perquisito il camerone alla ricerca di merci e oggetti illeciti. Io ripiegai l'asciugamano intorno al manico dello spazzolino, sicuro che sarebbe passato inosservato quando avrei varcato il cancello insieme al gruppo degli altri. Parecchi agenti passarono davanti alla nostra cella. I cancelli della sezione posteriore si aprirono con un rumore metallico. Gli uomini già condannati a morte furono i primi ad andare. Billy Cook mi lanciò uno sguardo strizzando l'occhio mentre passava. Restai impassibile, nonostante il vuoto che avevo allo stomaco. Dopo qualche attimo, il secondino chiamò: - Bunker, cartellino personale e blusotto! - In quegli anni, prima dell'introduzione dei braccialetti chiodati, portavamo dei cartellini personali come segno di identificazione e poiché i prigionieri tenevano le camicie da civili, quando si usciva dal camerone era obbligatorio indossare un blusotto denim con la scritta PRIGIONE DELLA CONTEA DI LA. Indossai pantaloni e blusotto. Impossibile portare lo spazzolino con me. - Dallo a me, - disse D'Arcy. Glielo passai. - Cella 6! Apertura! Attenti al cancello! - gridò il secondino. Il cancello vibrò e si aprì con un rumore metallico. Percorsi il ballatoio, lungo le sbarre e i volti che si affacciavano tra le sbarre. Dove stavo andando? E se qualcuno avesse fatto la soffiata e già si sapeva che ci sarebbe stato casino? Un agente di scorta aspettava. - Dove devo andare? - domandai. - Sala Bertillion. Sala Bertillion? Era la stanza in cui mi avevano scattato le fotografie e preso le impronte digitali. Bertillion era lo scienziato dell'Ottocento che aveva impiegato le misure del cranio e delle ossa per identificare i criminali, un procedimento inutile che era stato sostituito dalle impronte digitali. Il nome era rimasto. Perché mi convocavano lì? Dovevano prendermi l'impronta del pollice, per un procedimento di competenza delle autorità del Tribunale dei Minori. Ci misero soltanto un minuto; poi l'agente mi riaccompagnò indietro attraverso i corridoi della prigione. Avevo in mente Billy Cook. Se i turni delle docce erano finiti, sarebbe passata una settimana prima di incontraci faccia a faccia. In quella settimana qualcosa poteva succedere. Magari sarebbe stato trasferito nel Braccio della Morte di San Quentin. Del resto la sua sentenza di condanna era stata già emessa. Arrivammo all'altezza di un angolo. Davanti a noi c'era il corridoio che conduceva al mio camerone. L'agente svoltò: ci dirigevamo verso la stanza delle docce. La doccia era ancora in corso. La sorte mi diceva male. Mi sentii sprofondare. Per un attimo mi venne la voglia di spifferare tutto. - Mi sono inguaiato con Billy Cook -. Non potevo. Accadesse… quel che doveva accadere. Svoltammo un altro angolo. Una ventina di agenti gremivano il corridoio all'esterno di un cancello aperto, oltre il quale c'era un piccolo vestibolo e una stanza piena di panche e di vapore. Le docce erano più in là. - Ecco Bunker, - disse l'agente di scorta alla guardia di custodia del camerone. - Viene dalla Bertillion. - Forza, mettiti sotto l'acqua, - ingiunse il secondino, sottolineando l'ordine con un cenno. La stanza delle docce era quasi vuota. Poche indistinte figure emergevano dal vapore, uomini che avevano già finito di lavarsi e si stavano asciugando. Le panche erano piene di biancheria e di scarpe. Tutti erano sotto le docce, dove il vapore era più denso. Comparve D'Arcy. - Tieni. Mi porse un asciugamano. Sentii lo spazzolino dentro le pieghe. - È in fondo alla prima fila. Afferrai la ridicola arma attraverso il tessuto. La paura provava a fiaccarmi le forze. La soffocai e predisposi la mente a uno stato di concitazione. Senza togliermi i vestiti, mi avviai verso il vano a volta da cui si riversava il vapore. Dentro c'erano parecchi tramezzi che arrivavano all'altezza della cintola. Ogni scomparto era provvisto di una mezza dozzina di soffioni. Un paio di uomini divideva ogni scomparto, alcuni si insaponavano, altri si sciacquavano. Mentre scivolavo lungo la parete, cercando di evitare i corpi nudi, scrutavo tra il vapore denso, la mano serrata sullo spazzolino, indifferente all'acqua che mi bagnava le gambe dei pantaloni. Solo, nell'ultima doccia, Billy Cook si stava lavando i capelli, la faccia rivolta verso il getto d'acqua. Il corpo pallido e smilzo era punteggiato di acne, le braccia coperte dai tatuaggi blu dei detenuti. Era a due passi di distanza, e per un attimo esitai. Quando girò la testa, la schiuma bianca dello shampoo che gli colava sul corpo, aveva gli occhi aperti, e mi vide. Spalancò gli occhi e abbozzò un sorriso; poi vide l'arma, o colse qualcosa sul mio viso. Si voltò per prendere un asciugamano appoggiato sul tramezzo che separava le file di docce. Ero sicuro che nascondeva un'arma. E sarebbe riuscito a prenderla se non fosse scivolato sul pavimento bagnato. Gli partì un piede in avanti, e cadde su un ginocchio. Prima che riuscisse a riaversi, gli piombai addosso brandendo lo spazzolino con la lametta sporgente. Lo raggiunse sulla parte alta della spalla, vicino all'attaccatura del collo e gli produsse uno squarcio di una quindicina di centimetri prima che con un movimento riuscisse a sottrarsi alla traiettoria della lama. Lo colpii ancora, stavolta con tanta di quella forza che la lametta si spezzò e volò via. Il suo tentativo di scansarsi e la potenza del colpo lo fecero cadere in ginocchio, la schiena verso di me. Era nudo. Io avevo ancora i vestiti addosso. Assassino o no, in quel momento Billy Cook era alla mia mercé e urlava supplicando aiuto. I prigionieri nudi si precipitarono verso l'uscita. Gli saltai sulla schiena, lo afferrai per i capelli e gli mollai un pugno su un lato della testa. Il dolore mi esplose lungo il braccio, ma il suo grido mi ripagò ampiamente. Ero bagnato fradicio, di acqua e sangue. Qualcuno arrivò alle mie spalle. Dita affondarono nelle mie guance e nei miei occhi e mi sganciarono dal mio avversario, scavando nella carne per tirarmi via. Intravidi il verde oliva dei pantaloni dell'uniforme. Gli agenti mi trascinarono fuori della sala docce e mi obbligarono a camminare nel labirinto della prigione sotto gli sguardi curiosi dietro le sbarre. Dopo aver aperto una porta di acciaio, mi spinsero dentro una stanza con tre porte più piccole di acciaio massiccio verniciato di verde. - Togliti i vestiti, - fu l'ordine. Ero circondato da una mezza dozzina di guardie, giovani e robusti ex marine. Fremevano dal desiderio di pestarmi. Obbedii. Una volta nudo, qualcuno mi lanciò un paio di brache lunghe e io le indossai. Un'altra guardia mi consegnò un recipiente di cartone rotondo, e un litro d'acqua. Una delle tre porte era aperta. Era una stanza di neanche tre metri quadri, senza finestre, con le pareti di acciaio e il pavimento in cemento. In un angolo c'era una buca per i bisogni. La stanza era completamente spoglia. Qualcuno disse: - Cinque giorni, - e io capii che era il tempo che avrei dovuto restare segregato lì dentro. Cinque giorni. Dopo che fui entrato, la porta si richiuse alle mie spalle con uno schianto, acciaio contro acciaio. Ero nell'oscurità della tomba. Dall'esterno una chiave sbatté sull'acciaio. - Quando senti questo, rispondi. Se non rispondi, e siamo costretti ad aprire la porta, meglio sarà per te essere morto, perché se non sei morto, o lì lì per morire, rimpiangerai di non esserlo. Capito? Sentii risate smorzate, poi il rumore di un'altra porta che si richiudeva. Restai solo. Sarei diventato pazzo? Che differenza avrebbe fatto? Sarei semplicemente impazzito, da solo nel buio. A nessuno sarebbe importato niente. Immaginate il buio di un cieco in una gabbia di tre metri quadri con le pareti di acciaio. Che fareste? Mediti su tutto quello che sai. Canti tutte le canzoni che ti tornano in mente, dall'inizio alla fine o in parte. Ti masturbi, sesso bruto sul pavimento di cemento. Ti metti a pensare a Dio, se è uno o se ce ne sono molti, e ti domandi perché permette che ci sia tanto dolore e ingiustizia se lui è davvero colui che dice di essere. Mia madre diceva che Dio esisteva; tutti lo accettavano senza farsi domande. Anch'io avevo creduto che Dio esistesse, finché non avevo cominciato a pensare sul serio ai fatti che provavano o confutavano la sua esistenza. Forse c'era qualcosa di spirituale nell'universo, ma sembrava che Dio avesse smesso di prestarvi attenzione da qualche secolo. Sentivo rumori attraverso le pareti e i pavimenti, molti cancelli che si chiudevano con un tonfo. Il suono dei campanelli segnalava i «predatori». Non avevo idea del significato preciso dei vari segnali. Una volta al giorno aprivano la porta per sostituire il cartone di acqua e lasciare sei fette di pane bianco. Pane e acqua. Il terzo giorno fecero scivolare all'interno un piatto di plastica ricolmo di maccheroni. Il mio stomaco si era raggrinzito e l'appetito era scemato. Era una grossa porzione, così ne mangiai circa un terzo e misi il resto dentro le sei fette di pane. Feci dei grossi panini imbottiti. Li avvolsi nella carta igienica. Uno per la sera, due per il giorno dopo. Allora immaginavo che mi restava soltanto un giorno. Poco dopo sentii il rumore di qualcosa che grattava. Quando allungai la mano per prendere i panini, toccai il corpo viscido di un ratto. Ahhhh! Saltai in piedi e fui lì per svenire sentendomi raggelare il sangue. Quei ratti schifosi erano saliti su dalla latrina. Non c'è da stupirsi che sopravvivessero. Alcuni gonzi in India li consideravano animali sacri. L'avevo letto in un numero del «National Geographic» che mi era capitato in mano. Trovai i panini. Il ratto aveva strappato la carta igienica e aveva mordicchiato un bel pezzo di un panino. Scartai la parte che aveva rosicchiato e la buttai nella latrina. Poi mangiai il resto. Fottuto di un topo. Gli era andata bene una volta. Non avrebbe avuto un'altra possibilità. I graffi delle unghie che la guardia mi aveva lasciato in faccia si cicatrizzarono. Lo stesso le ferite sul cuoio capelluto. Devo dire una cosa: ero riuscito a sopravvivere a uno dei pestaggi peggiori. Pensavo a Billy Cook che guaiva come una cagna mentre lo prendevo a calci nel culo. - Gli sarebbe passata la voglia di fottermi, scommettiamo? - mi dissi e poi scoppiai a ridere, ragliando come un asino nel buio. Era ora di fare le flessioni. Parecchie volte al giorno, ne facevo quattro serie da venticinque. Passavo molto tempo a masturbarmi. Dio mio, quante dee dello schermo ho fottuto nell'intimità della mia mente. In altri momenti giocavo con un bottone strappato dalle mutande. Lo lanciavo contro il muro, in diagonale, per farlo rimbalzare. Poi iniziavo il rito della ricerca, tastando con un dito pochi centimetri per volta, piuttosto che passare una mano aperta sul pavimento. Così sarebbe stato troppo facile. Sei o sette volte al giorno la porta esterna si apriva, e dopo pochi secondi una chiave pesante veniva sbattuta contro la porta. Tutto a posto qui! - rispondevo, e la porta esterna si richiudeva, lasciandomi solo. I cinque giorni mi erano parsi un'eternità prima di affrontarli, ma una volta trascorsi mi parvero un nulla. Quando la porta si aprì per lasciarmi uscire, la luce agli occhi mi fece voltare la testa. Ero stordito e caddi contro la parete quando provai a infilarmi i pantaloni. - Sbrigati, - intimò una guardia. - A meno che non preferisci tornare dentro finché non sei pronto… - No, signore, sono pronto. Quando rientrammo nella sezione di massima sicurezza, fui assegnato a una delle celle sul fondo. Era stata la cella di Billy Cook. Era stato trasferito al Braccio della Morte di San Quentin la sera prima. Non l'avrei più rivisto, ma un paio di anni dopo avrei parlato con lui attraverso i ventilatori tra il braccio dei condannati e la cella di isolamento due sere prima della sua esecuzione. Le celle erano addossate e separate da un passaggio di servizio con tubi e condotti. La sera prima dell'esecuzione l'avrebbero portato via e lo avrebbero fatto scendere nella cella del condannato, dove avrebbe passato la notte. Gli gridai: - Ehi, Cook, bastardo infanticida! Quanto tempo ce la farai a trattenere il respiro? Ah, ah, ah… - Da giovane, avevo il cuore indurito contro i miei nemici. Billy Cook era uno di loro, lo ritenevo spregevole, indipendentemente dal rancore che provavo per lui. Aveva massacrato una famiglia di cinque persone, compresi i bambini, e li aveva buttati in un pozzo. Quando il secondino mi disse che mi mettevano sul fondo della sezione «a scopo di protezione», protestai con violenza: - Non mi serve nessuna protezione. - È per proteggere loro da te, - ribatté. Era una menzogna, ma calmò la mia collera. Mentre percorrevo il ballatoio verso la sezione sul fondo, riconobbi tra i volti affacciati alle sbarre quella di D'Arcy. - Ehi, aspetta un momento, - fece. Mi fermai, ignorando la guardia che urlava mentre D'Arcy andava verso la federa appesa a un gancio, dove teneva le cose comprate allo spaccio. Infilò tra le sbarre qualche barretta di cioccolato e due pacchetti di Camel. - Bunker! Muoviti! - urlava la guardia dal cancello, battendo la chiave sulle sbarre per farmi sbrigare. Alzai una mano per fargli capire che non lo stavo ignorando. - Un secondo, Capo. D'Arcy mi tese le sigarette e le barrette. - L'hai fottuto, quel bastardo. - Bunker! Muoviti! - Meglio che vai. - Che farà mai? Mi sbatterà in galera? Spacconata a parte, mi incamminai verso la cella che, stando al rumore, la guardia mi stava aprendo. Passando davanti alle altre celle, notai che le facce erano cordiali ed esprimevano approvazione. Prima di entrare dentro, mi accorsi che la cella accanto alla mia era occupata da Lloyd Sampsell. Mi salutò con un cenno del capo, ma la sua faccia era imperscrutabile. Entrai. - Attenti al cancello! - gridò la guardia. Cominciò a vibrare. - Chiusura! - La porta si richiuse con uno schianto. - Ehi, Loyd! - chiamò D'Arcy. - Sì, che c'è? - Dà un occhio al mio compagno laggiù! - Sicuro! Chiunque ha messo a posto quel pezzo di merda va benone con me! - Sampsell gli gridò di rimando; poi, rivolgendosi a me in tono colloquiale, soggiunse: - Ehi, Bunker, hai una sigaretta con te? - Sì, me ne date un po' D'Arcy. - Se hai bisogno di qualcosa, dimmelo. Va bene? - Voglio qualcosa da leggere. - Che ti piace? - Non lo so. Qualsiasi cosa va bene. - Ne ho un mucchio. "I bassifondi di San Francisco" potrebbe piacerti. Mi ricordavo del film con Humphrey Bogart. Se un libro era diventato un film, probabilmente era abbastanza bello, per lo meno così mi suggeriva la logica. - Passamelo, dissi. Sampsell mi allungò il tascabile grosso e logoro attraverso le sbarre. Prima che potessi immergermi nella lettura, le pulizie della mattina finirono e le celle sul davanti della sezione vennero aperte. I detenuti accusati di rapimento e omicidio e altri famigerati criminali (ma evidentemente meno famigerati di Sampsell e me) poterono passeggiare liberamente sul ballatoio esterno alle celle. D'abitudine, ogni giorno, D'Arcy portava fuori la sua coperta grigia e la stendeva sul pavimento davanti alla cella di Sampsell per riprendere l'interminabile partita di poker dal punto in cui si era interrotta. Il mercoledì, il giorno in cui l'addetto al denaro distribuiva la dotazione di contanti che potevano essere ritirati dal conto di un prigioniero, c'erano più giocatori che spazio per giocare, ma man mano che passava la settimana i perdenti scomparivano e la partita si restringeva ai quattro o cinque giocatori migliori: D'Arcy, Sampsell e Cicerone arrivavano sempre alla fine. D'Arcy non aveva soldi nel conto, né riceveva visite. Viveva del poker. Sampsell giocava allungando le mani tra le sbarre. Gli altri sedevano sul pavimento a gambe incrociate oppure si appoggiavano sui gomiti e sul sedere. Giocavano a poker alla rovescia, ovviamente. Il poker non è come gli scacchi, in cui il giocatore mediocre inesperto non vince mai una partita. A breve termine il neofita può trovarsi in mano carte imbattibili e portarsi via tutto, ma nel giro di ore o giorni si ristabilisce una forma di equilibrio. Il giocatore esperto minimizzerà le perdite nelle mani in cui perde e massimizzerà le mani vincenti. Si potrebbe affermare che chi rilancia è un vincente, e quello che paga per vedere è un perdente. Un giorno dopo l'altro, per dieci ore al giorno, seguivo la partita attraverso le sbarre. D'Arcy sedeva alla sinistra di Sampsell, proprio all'angolo della mia cella, e incominciò a mostrarmi le carte. Mi faceva vedere se bluffava (non spesso) e come riusciva a farla franca. Il bluff, mi diceva, in realtà era uno specchietto per le allodole che serviva a far invogliare l'avversario in modo che chiedesse di «vedere» anche quando aveva una mano imbattibile da giocare. Era bello bluffare e avere successo, ma era anche utile essere scoperti. Se non bluffavi mai, era difficile che l'avversario ti chiedesse di vedere, quando avevi una buona mano. Nel poker alla rovescia, più che in qualsiasi altra variante del poker, il modo di giocare una mano dipende dalla tua posizione rispetto a chi distribuisce le carte. I lanci e i rilanci sono frequenti prima di riprendere le carte, e sebbene si possa puntare dopo aver ripreso le carte, e talvolta anche rilanciare, un assioma del poker alla rovescia è che tutta l'azione si svolga prima di riprendere le carte. D'Arcy mi insegnò un altro assioma del poker: bluffa pure quando ti pare, perché costa meno fare un errore e mollare il gioco che «restare onesti» e chiedere di vedere. Un pomeriggio convocarono D'Arcy nella Stanza degli Avvocati. Gli altri giocatori protestarono perché stava vincendo alla grande e non avrebbero ricuperato i soldi persi se lui si fosse ritirato dal gioco. D'impulso, e anche perché vincere trenta o quaranta dollari ha poca importanza per un uomo che ha dinanzi a sé la prospettiva di restare a San Quentin vita natural durante, D'Arcy mi consegnò una manciata di soldi chiedendomi di seguitare a giocare al posto suo. Col cuore in gola allungai le mani tra le sbarre e raccolsi le cinque carte che erano scivolate sulla coperta verso di me. Ero al tempo stesso eccitato e spaventato. Volevo vincere. E soprattutto non volevo perdere i soldi di D'Arcy. D'Arcy restò via circa una mezz'ora. Io avevo giocato tre o quattro mani piccole, vincendone una, e mi ero quasi rifatto quando varcò il cancello: il piatto era alto, e io me lo stavo giocando con un vecchio di nome Sol, in attesa di processo per l'omicidio del suo socio in affari. La prova principale a suo carico era il movente: il socio rubava i soldi della società e andava a letto con la moglie di Sol. La mano iniziò e io venni servito con un otto, un cinque, un asso, un due, un tre. È una buona mano, specie perché non avevo figure. Dovendo giocare prima di Sol, feci la mia puntata. Sol rilanciò, e io accettai. Il mazziere chiese quante carte volevo. Se fossi rimasto servito senza accettare il rilancio di Sol, lui avrebbe capito che avevo un otto o un nove. Con un sette o qualcosa di meglio, avrei sicuramente rilanciato ancora prima di riprendere le carte. Il fatto che lui avesse rilanciato dopo che io avevo aumentato il piatto indicava che probabilmente era stato servito forse con un otto, forse anche con un nove, ma molto verosimilmente un sette o meglio. Dovevo scartare l'otto e sperare in un sette, un sei, un quattro, o anche in un jolly? Se avessi saputo che avrebbe cambiato una carta, sarei sicuramente restato sull'otto. Ma non lo sapevo. Una, - dissi, sollevando un dito. La carta mi arrivò sulla coperta. La coprii senza guardarla. - Una carta, - disse Sol, scoprendo la regina che aveva scartato. "Cazzo", imprecai tra me; aveva giocato meglio di me, mi aveva fatto spezzare la mano e giocare d'azzardo. Guardai la carta che avevo cambiato. Un cinque. Ce ne avevo già uno. Adesso ne avevo due e una mano schifosa. - Vedo, - dissi. A quel punto D'Arcy era arrivato e stava in piedi accanto alla mia cella. - Dieci dollari, - disse Sol. Era una grossa puntata in una partita di poker in prigione, dove il massimo che un detenuto poteva ritirare dal conto erano dodici dollari la settimana. Ma intuitivamente, o forse grazie a qualche potere paranormale (in seguito, da un test al quale mi sottoposi, risultò che ne ero in possesso, secondo i parametri fissati della Duke University in seguito ai famosi esperimenti li condotti), capii che Sol stava bluffando. Del resto bluffava sempre. Sebbene fossi certo che stava bluffando, non potevo accettare per vedere. Avevo una coppia, una grossa coppia. Avrei potuto farlo con un fante, o anche una regina, ma con una "coppia" soltanto… Non potevo rilanciare con una coppia. Non poteva avere una coppia più importante. Poi mi ricordai una cosa che D'Arcy aveva fatto una volta. - Rilancio, - dissi. - Tutto quello che ho -. Cominciai a contare i soldi che D'Arcy mi aveva lasciato. Erano all'incirca trenta dollari. Quando arrivai a contare diciotto dollari, Sol gettò via le carte come se gli bruciassero in mano. - Questo bastardo di un moccioso mi ha fregato! Prima passa e poi rilancia! Passare, poi aspettare che qualcuno accetti il gioco, e successivamente rilanciare è la trappola più subdola a poker. Alcune sale da gioco non consentono questa mossa. Se qualcuno passa e poi rilancia, getto via le carte senza neanche pensarci, a meno che non abbia una mano fenomenale. - Posso vedere? - domandò D'Arcy. Ci mancherebbe altro. I soldi erano suoi. Gli passai le mie carte, mentre rastrellavo il piatto sostanzioso. Dentro ero raggiante. D'Arcy esaminò le carte senza cambiare espressione. - Anch'io voglio vedere, - disse Sol. - No, no, - disse D'Arcy. - Devi pagare, per vedere -. Mi strizzò l'occhio e gettò le carte sulla coperta. Sol allungò la mano per prendere le carte. D'Arcy, che era rimasto in piedi, schiacciò il piede sulla mano di Sol, inchiodandola insieme alle carte sulla coperta. - Ehi… che cazzo, - imprecò Sol, riuscendo a liberarsi la mano ma lasciando le carte coperte. - Che cazzo pensi di fare? - Sol, una trentina di chili più grosso di D'Arcy, si raggomitolò per mettersi in piedi. - Se ti alzi, ti faccio saltare la testa, - disse D'Arcy. Alle sue solite maniere amabili e gentili era subentrato il rumore sordo di un missile aria–aria. Sol ricadde sul sedere e sollevò entrambe le mani in segno di resa. Era intimidito e aveva deciso di fare buon viso a cattiva sorte. - Scommetto che aveva un sei, - disse. - Mi sbaglio? D'Arcy ammiccò, come a confermare la supposizione di Sol, poi si tolse il blusotto jeans per sedersi e tornare a giocare. La conversazione riprese. - Chi era? Matthews? - Al Matthews era il grande avvocato penalista. Era stato a capo della sezione degli avvocati d'ufficio e, recentemente, aveva aperto un suo ufficio privato. Matthews era molto ammanicato con quelli che sapevano scegliere un avvocato per un processo criminale. A questo punto della sua carriera, nessuno dei suoi clienti si era mai ritrovato nella camera a gas, ed era riuscito a rappresentare parecchi imputati indigenti di Los Angeles che rischiavano la pena di morte. - Sì, Matthews, - confermò D'Arcy prima di grugnire e girare il pollice in basso nel gesto tipico degli imperatori romani. Nel frattempo le carte seguitavano a scivolare sulla coperta. - Che significa? - domandò Sampsell. - Hanno revocato il mio soggiorno. - Allora ti trasferiranno. - Ci vorrà qualche giorno per i documenti; poi salirò sul treno. Chi se ne fotte… si mangia meglio laggiù -. Raccolse le carte e diede una rapida occhiata alla mano. Fu un altro ad aprire. D'Arcy gettò via le carte. Poi voltò la testa e lanciò un'occhiata dalla mia parte, dietro le sbarre. - Ti farà convocare tra qualche giorno. Di' all'aggiunto che vuoi vederlo. Prima che Al Matthews mi mandasse a chiamare nella Stanza degli Avvocati, il responsabile di queste questioni mi aveva condotto al Tribunale dei Minori, presieduto dal giudice A. A. Scott. Poco più di tre anni prima, Scott mi aveva affidato all'autorità giudiziaria competente per i minori. Il pubblico ministero presentò un ricorso al tribunale perché venissi giudicato come adulto. Non ci fu contestazione alcuna. Io ero senza avvocato e, da quel che ricordo, nessuno mi domandò di dichiarare nulla. Avrei anche potuto essere un passeggero su un treno. Il viaggio durò dieci minuti, al termine dei quali, mi condussero in un ufficio del Tribunale Municipale per inoltrare una querela a mio carico, con un capo di accusa relativo non alla Sezione 4500 ma all'articolo 245 del Codice Penale, aggressione con l'intento di provocare gravi lesioni fisiche. Venne fissata una data per l'udienza preliminare. L'ammontare della cauzione era ventimila dollari. Naturalmente mi era impossibile ottenere la libertà su cauzione, poiché le autorità competenti per i minori avevano emanato un ordine di carcerazione contro di me. Io sapevo bene come si sarebbero svolte le cose, perché avevo appreso qualche nozione di procedura giudiziaria dagli uomini che mi stavano intorno. Mi domandavo se il cambiamento del capo di accusa avrebbe significato un mio trasferimento in un'altra sezione, ma pareva che ci fosse una comunicazione praticamente insussistente tra l'Ufficio dello Sceriffo, da cui dipendeva la prigione, e i tribunali. Esistevano procedure ordinarie per casi ordinari, rilasci e convocazioni davanti al tribunale, ma nessuno avrebbe notificato alla prigione queste differenze. Il tribunale non aveva alcun motivo di sapere che io mi trovavo nella sezione di massima sicurezza. Stavo imparando anche altre cose. Quando il poker si interrompeva per i pasti, l'appello o lo spegnimento delle luci, c'era sempre un gran parlare tra una cella e l'altra. D'Arcy era troppo distante, ma Sampsell era nella cella accanto. Mi raccontò della rapina ordita ai danni della Lockheed, per impadronirsi dei soldi degli stipendi, negli anni trenta o quaranta. Sampsell aveva una mente analitica e una lieve pronuncia nasale, da campagnolo. Si entusiasmò rievocando le sue mirabolanti imprese criminali. Raccontò le storie leggendarie di San Quentin, compresa la sua fuga dal penitenziario di Folsom. Sentii anche altri racconti, di quel pazzo di Bugsy Siegel, che non amava farsi chiamare Bugsy, anche se poi si lasciava chiamare così da alcuni perché ignoravano quanto fosse pazzoide. Imparai che dietro le sbarre andava bene avere la reputazione di essere anche il più violento in circolazione, ma non di essere pazzo, o imprevedibile. Nessuno voleva avere a che fare con la paura, perché la paura può rendere pericoloso anche un codardo. In un mondo senza processo civile e senza ricorso all'autorità costituita, ciascuno aveva bisogno degli altri per convincersi di avere la capacità di proteggere se stesso e i propri interessi. Al Matthews venne a farmi visita. Io ero senza soldi, ma lui assicurò che si sarebbe occupato della mia udienza preliminare e in tempi brevi avrebbe inoltrato il mio caso alla Corte Suprema. A quel punto avrebbe cercato di farsi nominare dal giudice al posto del difensore d'ufficio. Aggiunse che poteva tentare di evitare un processo con la giuria e che il caso venisse esaminato di fronte al giudice, senza i giurati. Andò secondo le previsioni di Matthews. Non fece alcun tentativo di confutare i capi di accusa, anche se la vittima dichiarò di avere soltanto qualche punto di sutura, e di non aver perso neanche un giorno di lavoro. Matthews agì in modo da ribaltare le cose e istruire un processo sul torto da me subito. Mostrò la foto segnaletica che mi avevano scattato al momento del mio ingresso nella prigione della contea. Poi una guardia che si era dimessa dall'Amministrazione Penitenziaria rese la sua testimonianza scritta illustrando le modalità del mio pestaggio. Il giudice mi dichiarò colpevole, ma quanto mi avevano fatto gli s'impresse bene in mente. Fu fissata la data per l'udienza di concessione della libertà vigilata e per l'emissione della sentenza. Al Matthews suggerì al giudice di nominare il dottor Marcel Frym della Hacker Clinic perché conducesse una perizia sulla mia persona e stendesse una relazione. Il giudice accolse l'istanza. Il dottor Frym, ebreo austriaco dalla mandibola tremante e con un accento che trasudava intelligenza, venne a farmi visita. A Vienna aveva lavorato come avvocato della difesa e aveva studiato come allievo di Freud. Frym era un esperto famoso di psicologia criminale. A Vienna, in cui era in vigore il sistema inquisitorio basato sul Codice Napoleonico, anziché il sistema accusatorio adottato dai Paesi di ascendenza anglosassone, la condizione mentale dell'accusato era di estrema importanza. Compito del pubblico ministero era non di sostenere la colpevolezza dell'imputato, ma di scoprire e presentare al giudice la verità. Il fondamento filosofico è scoprire la verità, non sconfiggere un avversario. A tutte le domande va data una risposta. Non c'è nessun Quinto Emendamento. L'imputato è obbligato a rispondere a tutte le domande che gli vengono poste. Anche le storture della mente umana sono parte integrante della ricerca della verità. La legge americana è una conseguenza del processo come forma di combattimento, in cui i legali di parte sono i campioni che scendono in lizza e i giudici si rendono garanti del rispetto delle regole del combattimento. Ciascun sistema ha i suoi pregi e i suoi difetti, ma io ritengo che il Codice Napoleonico sia più efficace e più equo, e che di conseguenza garantisca maggiormente il raggiungimento della verità. Quanto alla giustizia, chissà cos'è? Io ho violato molte leggi, ma se ci fosse un dio della giustizia, non so che accadrebbe se mettesse ciò che ho fatto su un piatto della bilancia, e ciò che ho subito sull'altro. Al momento di emettere il verdetto, il giudice sospese il procedimento giudiziario contro di me e mi condannò a cinque anni di libertà vigilata; avrei dovuto scontare i primi novanta giorni della pena nel carcere della contea. La concessione della libertà vigilata era vincolata alla condizione che mi sottoponessi a trattamento psichiatrico sotto la cura del dottor Frym, alla Hacker Clinic di Beverly Hills. Urrà! A primavera sarei uscito dal Palazzo di Giustizia e avrei fatto una passeggiata su Broadway. Nuovamente libero, e avremmo visto ciò che era scritto nella prossima pagina della mia vita. Non era tempo di rovellarsi il cervello, figurandosi difficoltà, reali o immaginarie, sociali o psicologiche. Vivevo nell'impulso del momento. Un paio di giorni dopo la sentenza, mentre ero in attesa della registrazione dell'esito del mio procedimento nell'Ufficio dello Sceriffo, giunse un annuncio dall'Ufficio Accettazione e Rilascio: «Chessman convocato in sala visite». La notizia eccitò gli avanzi di galera e i criminali di professione detenuti nella sezione. La sua battaglia donchisciottesca nei tribunali, che era appena cominciata, amplificava la sua leggenda già radicata nel mondo della malavita. Il suo libro, "Cella 2455, Braccio della Morte", non era ancora stato pubblicato, ma il suo nome era già famoso, o famigerato, a San Quentin e Folsom e su tutti i giornali della California del Sud. Un'ora dopo, un aggiunto sopraggiunse sul ballatoio, spingendo un carrello carico di scatole di cartone, contenenti i fascicoli di Chessman. Era giunta un'ordinanza del tribunale, e l'Ufficio dello Sceriffo era sotto pressione quando da un tribunale arrivava l'ingiunzione di fare qualcosa. Chessman era stato condannato alla camera a gas per una serie di reati minori, rapine e aggressioni sessuali perpetrati in Mulholland Drive. Era stato soprannominato il Bandito dalla Luce Rossa, perché aveva agganciato le sue vittime costringendole ad accostare al marciapiede con una luce rossa, simile a quelle in dotazione alla polizia. Probabilmente si trattava soltanto dell'effetto prodotto da un foglio di cellophane rosso sopra il riflettore di cui molte vetture, all'epoca, erano provviste. Lui sosteneva, e la maggioranza dei criminali gli credeva, che il Lapd lo avesse incastrato o per lo meno che avesse ordito una montatura contro di lui per provarne la colpevolezza, ben sapendo che era innocente. Da molti anni era una spina nel fianco della polizia. Una tempo aveva rapinato dei casinò e dei bordelli illegali sulle colline sopra Sunset Strip, sulla cui attività l'Ufficio dello Sceriffo chiudeva un occhio. Pareva poco credibile che uno capace di tanto passasse poi a rapine di pochi spiccioli e stupri da pervertito. Io credevo nella sua innocenza. Se avessi pensato il contrario, non gli avrei neppure rivolto la parola. Il mio codice morale mi impediva di fraternizzare con stupratori e rei di abusi sessuali su minori. Chessman era stato convocato per un'udienza nel merito della veridicità del verbale del processo, il documento utilizzato dal Tribunale della California, e da tutti i tribunali successivi per determinare esattamente, momento per momento, le fasi di svolgimento del lungo processo in cui Chessman aveva scelto di rinunciare all'avvocato di parte e difendersi da solo. Al Matthews era stato nominato in qualità di consigliere. L'impiegato del tribunale addetto alla verbalizzazione aveva usato la stenografia, anziché una macchina, fatto di nessuna importanza nella misura in cui lo stenografo provvedeva alla trascrizione esatta del dibattimento. Ahimè! L'uomo era deceduto prima di riuscire a completare il lavoro, e Chessman contestò che il nuovo stenografo incaricato di ultimare la trascrizione aveva commesso errori tali da inficiare il ricorso in appello. Questa controversia garantì a Chessman altri dodici anni di vita, ma non portò alla celebrazione di un altro processo. All'epoca, nei casi di ricorso in appello diretto alla Corte Suprema passavano da un anno a diciotto mesi tra la sentenza di condanna e la pasticca di cianuro, talvolta meno. Con i due anni già trascorsi, il caso di Chessman stava già superando la media. I reati che presumibilmente aveva commesso erano i seguenti: un'automobile munita di luce rossa si era accostata al veicolo di una coppia che aveva parcheggiato per godersi la vista dell'ammasso di luci della conca della San Fernando Valley. Una figura era scesa dall'automobile e si era avvicinata alla coppia. Impugnava una pistola. Li aveva rapinati, costringendoli poi a prestazioni sessuali. Figurandomi la situazione, non riuscivo a immaginare come mi si potesse drizzare, sia nel ruolo della vittima che del delinquente. Quando rapinavo una banca, il mio pene di solito si raggrinziva fin quasi a scomparire. Mi riferirono (non lessi mai personalmente la trascrizione) che Chessman si condannò con le proprie mani al Braccio della Morte quando rivolse a una donna di Camarillo, una delle sue vittime, una domanda talmente dissennata che aveva aperto la strada a una testimonianza incriminante. Se si fosse fatto assistere da un buon avvocato, sarebbe stato condannato all'ergastolo, che a quei tempi, trascorsi sette anni, dava diritto alla concessione della libertà vigilata. Non ho mai sentito dire che un condannato per omicidio di primo grado abbia scontato meno di quattordici anni di detenzione, ma Chessman non aveva omicidi a suo carico e molti altri condannati per reati paragonabili ai suoi fecero soltanto dieci anni di galera. A quei tempi, e in molti Paesi del mondo, dieci anni di detenzione erano parecchi, ma oggi, almeno qui in America, dieci anni sono la pena che viene comminata per gli illeciti minori, o quelli che dovrebbero essere considerati tali. Ero convinto che Chessman fosse rimasto vittima di una montatura costruita scientemente a tavolino contro di lui. Col tempo la mia idea è cambiata. Era colpevole. Fece ciò di cui fu accusato, anche se pareva destituito di qualsiasi logica. Il titolo di «avvocato galeotto» che gli fu attribuito è il suo lascito al sistema giudiziario. Prima di Chessman, un detenuto che si aggirasse nel cortile della prigione con le carte legali in mano era considerato o un coglione o uno che spacciava un mucchio di fandonie. Una volta alcuni detenuti falsificarono un pronunciamento della Corte Suprema e si misero a venderne delle copie nel cortile della prigione in cambio di una stecca di sigarette per ogni copia, ma questo episodio risale al dopo–Chessman. La verità è che sarebbero molto meno numerosi i detenuti e/o i giustiziati se tutti gli imputati disponessero anche di un quarto delle risorse dell'accusa. Noi diciamo che il nostro sistema è il migliore, ma in base a quale criterio? Forse concediamo la libertà all'innocente e puniamo il colpevole meglio degli altri? Tutto va bene finché i colpevoli non sono i ricchi, perché nessuno riesce a punire veramente i ricchi. Grazie a Dio i poveri commettono molti più reati. Chessman dava l'impressione di camminare con passo spavaldo, ma in realtà la sua andatura era il frutto di una ferita che risaliva all'infanzia. Il suo naso da falco era stato fratturato: adesso aveva un becco ricurvo. Aveva un'aria da duro, ma non minacciosa. Lo sentii aprire le scatole dei suoi documenti. - Chess, c'è la tua macchina per scrivere? - domandò Sampsell. - Ce l'hanno loro. Devono ispezionarla. Sai com'è, no? - Come no. - Intendo quello della cella accanto, - disse Chessman. Quello ero io. - Che succede? - Di che ti accusano? - Dicono che ho accoltellato una guardia a Lancaster. - Ah, già. Ne avevo sentito parlare. L'hai sistemato tu, quel fottuto di Billy Cook, vero? - Ho fatto del mio meglio. - Se lo meritava… maledetto stronzo… Sentii il colpo sordo del palmo di una mano sulla parete della mia cella, e la voce di Sampsell, più gentile del solito, dire: - Ehi, Bunk. -Sì? Vidi comparire la sua mano, allungata tra le sbarre e di fronte all'angolo della mia cella. Teneva un biglietto, uno di quei tipici messaggi clandestini che circolano in carcere, ripiegato stretto. Allungai la mano e lo presi. - Per Chess, - disse. Bussai sulla parete di Chessman. - Ehi! - Sì? - Prendilo. Passai il biglietto a Chessman. Non sapevo cosa c'era scritto, ma dopo un minuto Chessman si fece sentire, - Sì, Lloyd, è una buona idea! Glielo dirò quando lo vedo! Ce l'hai qualche sigaretta? - Certo. Ehi, Bunk. - Sì? - Prendine due pacchetti e passa il resto. Era una stecca di Camel da cui mancava un pacchetto. Ne presi due e passai il resto a Chessman. Essere accettato da due uomini condannati alla pena capitale era curiosamente gratificante. In questo mondo oscuro, non c'è nulla di più prometeico che aggredire una guardia. Il potere che conta si adombra e non è sufficiente punire il trasgressore, facendogli divorare il fegato da un'aquila. Quando affermai di avere accoltellato una guardia, l'immagine che se ne fecero quelli che mi ascoltavano era molto diversa dalla realtà. - Ti piace leggere? - mi domandò una volta Chessman. - Oh, sì. Più che mangiare. - Forse per un po'. A ogni modo… tieni. Passali a qualcun altro, se non ti interessano. Infilò tra le sbarre due tascabili, "Il lupo di mare" di Jack London e "L'ultimo puritano" di George Santayana. Ricordai di aver letto "Il tallone di ferro" di Jack London quando ero alla Preston School of Industry. Mi era rimasto impresso. Incominciai subito a leggere la storia di Wolf Larsen, che viveva picchiando, pestando e prendendo a mazzate chiunque gli mettesse i bastoni tra le ruote, tranne il fratello, che era più pavido, e più temibile, di lui. Le loro navi si lanciavano sulle rotte dell'Oceano Pacifico. Quando le luci della cella si spensero, esclamai: - Che libro maledettamente bello! - "Il lupo di mare"? - Già. - Jack London era un grande. È molto amato in Russia. - In Russia! - Sì. Era comunista… o per lo meno, socialista, in qualche modo. Ed era anche un razzista, a suo modo. Pare quasi un paradosso… un comunista razzista. Strano, eh? - Chi è il tuo scrittore preferito? - domandai. - Questa settimana, vuoi dire. Cambia così, di settimana in settimana. Leggerai tanti di quei libri, in galera. - Non finirò in galera -. Per un attimo pensai avesse dimenticato quanto gli avevo detto sul mio conto, della libertà vigilata e della sentenza. - Ah, stavolta no, ma sei finito in carcere minorile a dieci anni, in riformatorio a tredici, e a sedici sei stato condannato come un adulto. Prima o poi finirai in galera. Spero soltanto che non capiterai nella cella accanto alla mia. - Ci sono adesso. - Voglio dire nella cella accanto nel Braccio della Morte. Il Braccio della Morte. Vidi l'ombra di Cagney che piagnucolava mentre lo trascinavano alla sedia elettrica. All'epoca le esecuzioni erano così comuni che nessuno teneva il conto, ma pareva tutto troppo possibile per me, molto più a quei tempi che adesso. L'omicidio è forse il reato grave più facile con cui si riesce a passarla liscia. Solo i più stupidi e i più impulsivi si fanno catturare e condannare. Soltanto una parte dei più poveri e dei più ignoranti tra gli assassini finisce nel Braccio della Morte. La paura della condanna a morte non mi farebbe esitare un secondo adesso che sono vecchio e inoffensivo, e i miei intimi furori sono ormai smorzati. Ma allora, quando la rabbia e lo spirito ribelle mi ardevano dentro fino quasi a scoppiare, ero terrorizzato dalla camera a gas. - Mi fa paura, - confessai a Chessman. - Merda, fa paura anche a me. E a te, Lloyd? - Sì, - rispose Sampsell laconico. - Ma è troppo tardi, ormai. - Hai la possibilità che venga sospesa? - domandò Chessman. Sampsell scoppiò in una risata. - Io, un tentativo, penso di poterlo ancora fare. Come faccio ad avere un giudizio in appello equo senza la trascrizione giusta? Hanno incaricato questo stenografo, dopo che quell'altro era morto… e questo, nei punti in cui non riusciva a decifrare il verbale stenografico, chiedeva a quel fottuto pubblico ministero di chiarire quello che c'era scritto. - Il pubblico ministero! Com'è possibile? - Perché il giudice l'ha autorizzato a farlo. - Fricke? - Lui, già, il solo e unico. - È mai capitato che le sue sentenze siano state annullate? - Che io sappia, no. Il suo libro, "California Criminal Law", è il testo di studio "numero– uno". Come fanno ad annullare le sentenze di quello che ha scritto il libro su cui hanno studiato? Restavo ad ascoltarli, una notte di seguito all'altra: quei due uomini che sarebbero stati entrambi giustiziati nella stanzetta verde di forma ottagonale dove le pastiglie di cianuro cadevano nel bacile dell'acido sotto la seggiola. Riandavano al passato, rievocando le leggende di San Quentin. Mi raccontarono di Bob Wells, un nero che era finito nel Braccio della Morte per aver aggredito una guardia carceraria di Folsom: gli aveva fatto saltare un occhio con una sputacchiera. Wells aveva incominciato con un furto d'auto e aveva rilanciato strada facendo, per poi finire nel Braccio della Morte. Chessman mi raccontò: In galera, la cosa migliore è evitare di mettersi nei guai, se possibile… ma se ti pestano i piedi e devi proprio far fuori qualcuno, se vuoi evitare la camera a gas o l'ergastolo, sta' attento a colpirlo davanti, non alle spalle. Se lo colpisci davanti, puoi sempre invocare la legittima difesa. Un'altra cosa: non andare mai a pescarlo nella sua cella o nel posto dove lavora. Nel qual caso avresti varcato i limiti consentiti… e ti troveresti dove non dovresti essere. Per il 1950, i loro consigli erano buoni. Vent'anni dopo era impossibile essere condannato per un omicidio commesso in carcere senza una guardia almeno come testimone oculare. Negli anni cinquanta, i detenuti in maggioranza si sentivano così impotenti e sconfitti che solitamente confessavano dopo qualche giorno, settimana, o persino alcuni mesi, nel cosiddetto «sotterraneo», una fila particolare di celle dell'Edificio N. 5 del Penitenziario di Folsom. Neppure si pensava che un galeotto avesse diritto a un avvocato. Bob Wells vide il suo avvocato soltanto nell'aula del tribunale. Un altro consiglio di Sampsell che mi è restato in mente: - Due è il numero perfetto per una banda di criminali. Se sei solo, sei sicuro che nessuno farà la spia… ma uno solo non può tenere d'occhio che una sola persona mentre si impadronisce dei soldi. In due, uno tiene d'occhio il posto e l'altro intasca i soldi. Uno può tenere sotto tiro un mucchio di gente. E se c'è una spiata, si fa presto a risalire a chi è stato… Ascoltai e ricordai, ma senza commentare. Non ero portato alla rapina a mano armata. In realtà, non avevo alcuna intenzione di diventare un criminale. Non feci neppure una promessa al Padreterno, o a qualcun altro, che non lo sarei diventato. Non avrei avuto un soldo in tasca, quando il cancello si sarebbe aperto davanti a me. Tutte le mie amicizie erano nate in una gabbia o in un'altra: carcere minorile, riformatorio, prigione. Qualunque cosa fosse accaduta, avrei tirato avanti. I galeotti «seri» dicevano sempre: - Quando il gioco diventa troppo duro per tutti gli altri, è proprio allora che comincia a piacermi. È una frase che ho usato spesso, in vita mia. Più o meno una settimana dopo l'emissione della mia sentenza, la burocrazia carceraria mi trasferì al Wayside Honor Rancho, dove dormivo in un dormitorio e durante il giorno lavoravo spingendo un carretto pieno di escrementi di maiale. Niente, sulla faccia della Terra, puzza più degli escrementi di maiale. Ogni sera e nei fine settimana giocavo a poker alla rovescia. Un vecchio, truffatore e tossico, mi insegnò come dare le carte «sporche» (le carte di palmo) e come distribuirle dal fondo del mazzo. Con gli anni ho scoperto che quando avrei potuto barare non ce n'era bisogno, perché ero così bravo a giocare a poker che potevo farne a meno. Quando gli altri giocatori erano così bravi che barare avrebbe anche potuto servire, erano anche talmente bravi da conoscere, anche loro, tutte le mosse possibili. Non si vedeva mai niente di illecito, ma c'erano dei gesti o degli atteggiamenti che tradivano l'eventuale baro, il modo di tenere le carte o di condurre il gioco. La cosa essenziale era essere bravi a individuare il manipolatore in una partita. Quando ci riuscivo, gli davo il segnale riconosciuto dai truffatori di tutto il mondo, un pugno sul tavolo. Significa che il gioco deve svolgersi in modo pulito, secondo le regole. Il palmo piatto significa «procedi e fai il tuo lavoro». Ci sono anche tipi di segnali per i carcerati che giocano al "Match" (Fiammifero) o allo "Strap" (Cintura) e per i taccheggiatori e i borseggiatori e gli altri appartenenti alla razza in via di estinzione dei ladri professionisti, le cui origini risalgono per lo meno all'Inghilterra elisabettiana. Al Wayside Honor Rancho, che era la colonia penale agricola della contea, dormivo accanto a un giovane magnaccia che si chiamava J. Manes. Portava lenti molto spesse ed era un tipo sveglio. Ogni domenica una delle sue puttane gli portava dell'erba per farsi qualche spinello. Dopo l'appello della sera, ci mettevamo a sedere fuori del dormitorio e ci facevamo una canna. La mia partita a poker ne risentiva, quando mi facevo di erba. J.M. scontava trenta giorni di pena per guida in stato di ubriachezza e una sfilza di biglietti del parcheggio non pagati. Entrò dopo e uscì prima di me. Mentre faceva fagotto, preparandosi a salire sull'autobus che l'avrebbe portato al centro di Los Angeles, dove i prigionieri venivano rimessi in libertà, scrisse un numero di telefono e mi disse di farmi vivo una volta che fossi uscito. Anche un allibratore ebreo di nome Hymie Miller, socio di un boss di punta di Los Angeles in quel periodo, Mickey Cohen, mi prese in simpatia. Miller avrei potuto contattarlo tramite un bar di Burbank di proprietà dei fratelli Sica, entrambi famigerati gangster di quei tempi. Durante il mio soggiorno nella colonia agricola, finii coinvolto in una scazzottata. Successe durante la partita di poker, anche se non riesco a ricordare ciò che fece precipitare le cose. Il mio avversario era un omone, per di più grasso. Un tipo turbolento e arrogante, due tratti caratteriali che mi hanno sempre dato sui nervi. Stavamo giocando su una branda come tavolo di gioco, in sei: quattro seduti sulla lunghezza del lettino e due alle estremità. Lui mi stava proprio di fronte. Non ricordo perché, ma a un certo punto quel tale sbatté violentemente le carte sul letto, disse qualcosa sul genere «'fanculo moccioso», e fece per alzarsi. Avrà pesato per lo meno una cinquantina di chili più di me, ma doveva avere cinquant'anni. Prima che riuscisse a mettersi in piedi, io mi tuffai di traverso sulla branda e gli piombai addosso, e con una mano cercai di strizzargli i testicoli da sopra i pantaloni, mentre con i denti provavo a mordergli il naso o un orecchio. Entrambi i tentativi si rivelarono superflui, perché l'impatto del mio corpo lo fece traventare sulla schiena e ricadere sulla sponda metallica laterale della branda contigua. Si ritrovò addosso tutti i miei settanta chili. Urlò. Gli altri mi tirarono via. Gli avevo rotto la spalla. Lo portarono all'ospedale generale, e io non lo vidi più. A ogni modo, si chiamava Jack Whalen, e quelli che conoscono l'epoca d'oro dei gangster a Los Angeles, di Bugsy Siegel, Mickey Cohen, dei fratelli Shannon (nati Shaman) e degli altri, sanno che Jack Whalen era il più temuto rapinatore e criminale della malavita di L. A. Venni a saperlo soltanto dopo che gli avevo spezzato la spalla. Manco a dirlo, nessun altro osò darmi noie durante il resto del mio periodo al Wayside Honor Rancho. I giorni diventavano sempre meno: otto, sette, sei, cinque. Presto sarei stato un uomo libero. CAPITOLO QUARTO. PUTTANE, HEARST, E L'ANGELO DI HOLLYWOOD. Libertà! Mentre mi toglievo di dosso la tenuta in tela della prigione della contea e aspettavo che mi consegnassero i miei abiti civili, le dita mi si intrecciavano e la testa mi girava. Il detenuto addetto al servizio uscì dalle rastrelliere degli abiti appesi e spinse i miei sul bancone: calzoni larghi di gabardine e pelle di daino e una giacca con grosse imbottiture alle spalle e il davanti di pelle scamosciata marrone. L'insieme dava un'aria alla moda. Quando mi avevano portato da Lancaster avevo indosso una divisa cachi dell'esercito americano che mi stava troppo grande, ma una mattina, al ritorno dal tribunale, l'uomo prima di me si era tolto i pantaloni di pelle di daino e la giacca col davanti scamosciato. Io avevo scambiato le targhette, e adesso quei vestiti erano miei. Mi stavano come se me li avessero confezionati su misura. A parte gli scarponi alti da galeotto, me ne sarei uscito di lì vestito alla moda del 1950. Dal bagno della prigione, dove si vestivano i detenuti rimessi in libertà, mi fecero salire su una scala a chiocciola di acciaio che portava a una gabbia. Lungo una parete c'era una panca vuota, mentre la parete di fronte era simile allo sportello di un cassiere protetto da un'inferriata. Sul lato opposto della scala c'era un cancello comandato elettricamente. Un vicesceriffo comparve allo sportello. - Chi sei? - Bunker. Scartabellò una pila di rilasci, e dopo aver trovato quello giusto con i documenti allegati, mi fece cenno di accostarmi. - Qual è il nome da nubile di tua madre? - Sarah Johnston. - Luogo di nascita? - Vancouver, British Columbia. - Dammi il pollice. Prese l'impronta, e mentre mi ripulivo l'inchiostro con uno straccio appeso lì, la raffrontò con l'impronta che mi avevano preso al momento del mio ingresso nella prigione. Soddisfatto, gridò in direzione dell'angolo della gabbia, all'addetto all'ascensore: - Uno che esce! - Premette un pulsante, e il cancello emise il ronzio dell'apertura elettrica. Lo spalancai, uscii, e lo lasciai richiudere con uno schianto alle mie spalle. All'angolo c'era un vecchio, l'addetto all'ascensore, che mi aspettava tenendo la porta aperta. Entrai, le porte scorrevoli si richiusero, e scendemmo velocemente per dieci piani. Le porte si aprirono sul corridoio principale dell'atrio del Palazzo di Giustizia brulicante di gente. Avvocati, sbirri, testimoni, parti avverse, imputati, garanti della libertà vigilata, e pubblico delle udienze andavano e venivano di gran fretta. Mi ritrovai davanti a una grande porta a vetri. Di là, c'era Broadway. La spinsi e uscii fuori. Una volta sul marciapiedi, mi fermai. E adesso? I passanti erano un vortice intorno a me. Era una tiepida mattinata di sole. Una giovane graziosa in vivace abito fantasia e tacchi alti mi superò. Per un attimo sentii il suo profumo. Aveva le gambe abbronzate, e i capelli le rimbalzavano sul collo a ogni passo. Procedeva in direzione sud, verso gli edifici più alti e le innumerevoli pensiline all'ingresso dei cinema di Broadway. L'ufficio di Al Matthews era nel vecchio Law Building, anche questo nella zona meridionale. Seguii la giovane, lo sguardo incollato alle sue gambe, provando a immaginarmele sopra l'orlo dell'abito. Si muoveva con brio. Ancora perso nelle mie fantasticherie seguitavo a starle dietro, e insieme attraversammo Temple Street. Svoltò entrando nel primo edificio, il vecchio edificio dell'Archivio. Addio, graziosa signora, addio. Potresti essere Laura che passa nella luce brumosa? Bene. Il Law Building era sull'altro lato della via. MATTHEWS & BOWLER, 11esimo PIANO. Il Law Building era sì scalcinato, ma conservava ancora qualche pretesa di distinzione. Un paio dei migliori avvocati penalisti avevano ancora lì lo studio. Joe Frano aveva un ufficio eccentrico, come del resto Gladys Towles Root, quella che si presentava in tribunale con i capelli color porpora, o verdi, o blu, o di un'altra tinta che s'intonasse al vestito che aveva indosso. I suoi cappelli di marca, tutto uno svolazzo di penne, facevano inchinare i presenti. Nel mondo conservatore dei tribunali, era la personificazione della stravaganza. Era un avvocato in gamba, quando ci si metteva d'impegno. Alcuni ladri avevano una fiducia cieca in lei. Al pari di molti avvocati sovraccarichi di lavoro, non rifiutava alcun caso, che potesse seguirlo con la dovuta attenzione o meno. Girava la battuta che a Folsom avesse una sezione di assistiti tutta sua. L'ascensore cigolò, e quando misi piede nello studio legale Matthews & Bowler, notai che la moquette era logora. Il posto emanava una certa aria di cupa rispettabilità, con i volumi di diritto rilegati in pelle nelle librerie allineate lungo le pareti e la pesante mobilia di cuoio dell'ufficio di ingresso. Una donna, lesta e minuta come un uccello, Emily Matthews, moglie di Al, era seduta dietro al banco della ricezione. Uscì da dietro il banco accogliendomi con un largo sorriso, mi strinse la mano e si presentò. Al le aveva parlato di me. - Al è in tribunale, - disse. - Ma, prego, mi permetta di presentarle qualcuno dello studio. Un uomo stava scrivendo a caratteri dorati MANLEY BOWLER su una porta. Bowler era il nuovo socio di Al. Emily bussò, annunciando il nostro ingresso. Era un tipo smilzo, dall'aria signorile; mi strinse la mano e mi squadrò con occhio critico. - Stavolta ti terrai alla larga dai guai, eh? Risposi sinceramente: - Spero di farcela, ma… - finendo con un'alzata di spalle. Per quanto riuscivo a ricordare, vivevo da sempre in mezzo ai guai, e allora come facevo a dichiarare categoricamente che non sarei mai più finito nei guai? Era un affronto alla legge delle probabilità. - Bene, speriamo che tu ce la faccia -. Era cordiale, ma nei suoi occhi vedevo uno sguardo diverso da quello di Al. L'associazione di Bowler con Al Matthews ebbe vita breve, anche se restarono sempre amici. Manley aveva l'ottica del pubblico ministero, e ben presto tornò a sedere da quella parte del tavolo, dove fece una bella carriera. Il telefono dell'ufficio all'ingresso squillò. Emily si precipitò a rispondere, e Manley si scusò; aveva lavoro da sbrigare. Tornato nella zona della ricezione, stavo per dire a Emily che sarei tornato l'indomani. Senza smettere di parlare al telefono, la donna scosse il capo e mi fece cenno di aspettare. Dopo aver riattaccato, disse: - Resta qui. Al vuole incontrarti. Va' a sederti nel suo ufficio. Leggi qualcosa. Io devo rispondere al telefono. L'ufficio di Al era spazioso, il rivestimento di legno vecchio e scuro. Scaffali di libri protetti dal vetro ricoprivano le pareti dal pavimento al soffitto. File di volumi numerati, "51 Cal App Rpts", e "52, 53, 54" eccetera. Due grossi volumi blu: "Corpus Juris Secundum". Un paio di libretti logori: "California Criminal Law", di Fricke e "California Criminal Evidence", di Fricke. Fricke era il tale di cui parlavano Sampsell e Chessman. Il "Law Dictionary" di Black. Mi pare di aver creduto che questi libri possedessero qualche incantesimo, quasi una magia. Se ne avessi conosciuto il contenuto, sarei diventato un mago della legge. Girai intorno alla scrivania e mi sedetti sulla seggiola di Al. La scrivania era sgombra, a parte una foto di Emily e di un ragazzo sui dodici anni. Sotto il bordo del tampone della carta assorbente verde sulla scrivania era infilato un biglietto scritto a mano. C'era scritto: EDDIE… MISTRESS WALLIS???? Si riferiva a me? In caso affermativo, l'avrei scoperto a tempo debito. Cominciai a sfogliare qualche libro. Il primo che tirai giù conteneva una strisciolina di carta che serviva da segnapagina. Lo aprii proprio in quel punto, trovai un pronunciamento della Corte Suprema che confermava una condanna alla pena capitale. Entrò Emily. - Puoi anche andare. Al non rientrerà prima del tardo pomeriggio. - A che ora? - Difficile dirlo… Quando il giudice che presiede il processo decide che la giornata è finita. Alcuni tirano per le lunghe. Mentre mi accingevo ad andarmene, Emily aggiunse: - L'ora migliore per trovarlo è la mattina… tra le nove e le nove e mezzo… prima che esca per andare in tribunale. A me andava bene. Volevo essere libero di farmi i miei giri. Passammo dall'ufficio alla stanza di ingresso. - Dove pensi di alloggiare? - Pensavo di affittare una stanza ammobiliata -. All'epoca una stanza ammobiliata costava nove, dieci dollari alla settimana. Conosciute come stanze «piscia–nel-lavandino», solitamente erano provviste di lavandino e rubinetto, mentre il bagno era nel corridoio. - E i soldi, ce li hai? Esitai una frazione di secondo prima di annuire. In realtà avevo una quarantina di dollari, in banconote da uno e cinque dollari. Il regolamento carcerario stabiliva che il taglio da cinque dollari era il più grande che un detenuto poteva avere in suo possesso. Durante la mia ultima settimana in prigione avevo giocato a poker come un forsennato. Notando la mia esitazione, Emily prese il portafoglio. Ne estrasse tre carte da venti dollari e me le infilò nel taschino. - A proposito, bel completo, - disse. Uscii da lì con cento dollari in tasca. Mi sentivo bene. Più o meno era l'equivalente del salario di due settimane di un operaio. Ero pieno di soldi. Di nuovo su Broadway, proseguii verso sud. I marciapiedi brulicavano di gente vestita elegantemente, in giro a far compere. I tram gialli sferragliavano in su e in giù al centro della via, lasciando sulla destra uno spazio appena sufficiente per il passaggio di un'automobile. All'ombra dei canyon formato dagli edifici, scintillavano le pensiline all'ingresso dei cinema. Vedevo da Second a Ninth Street. E qui che si trovavano i grandi magazzini di Los Angeles - Broadway, May Company, Eastern Columbia, J. J. Newberry, Trifty Drug Stores - e i negozi del quartiere, tra cui il Victor Clothing, il più rinomato. Guardavo nelle vetrine dei negozi di abbigliamento maschile. La moda del momento erano gli abiti a doppio petto con spalle larghe, risvolti ampi, pantaloni con le pieghe profonde, allentati al ginocchio e affusolati sui risvolti. Era una variazione del vestito con giacca lunga e pantaloni a tubo, ed era la prima volta che lo stile del sottoproletariato era stato adottato dalla gente elegante. Lo stile di base era in voga da quando avevo cominciato a interessarmi di abbigliamento. Pensavo, a quei tempi, che quello stesso stile sarebbe stato alla moda per tutta la mia vita. Le vetrine riflettevano anche la mia immagine. Non tanto alto, esile, né bello né brutto, e coperto di lentiggini. Gli anni in cui avevo frequentato i ragazzi precoci di East Los Angeles e Watts avevano foggiato il mio stile. Camminavo come un moderno chicano di East Los Angeles. Seguitando la mia passeggiata per Broadway, pensavo alle cose che avrei dovuto fare. Innanzitutto, andare a trovare mio padre alla casa di riposo per anziani. Aveva da poco superato i sessant'anni, che allora significava essere molto più vecchi di quanto non lo sia oggi. Aveva già avuto una crisi cardiaca piuttosto grave, e mia zia Eva mi aveva scritto che cominciava a dar segno di una certa "dementia" - la parola usata dal dottore, mi aveva detto. Pensando a lui, provai un doloroso vuoto allo stomaco. Aveva fatto tutto il possibile per me, il figlio che non era mai riuscito a capire. È pur vero che tra le cose che aveva fatto non era mai figurato un vero focolare e che aveva soppresso la mia amata cagnetta, ma anche senza darmi un focolare, aveva fatto dei sacrifici per me, pagando le rette di buoni collegi e costose scuole militari. Mi sentivo responsabile del suo invecchiamento precoce. Non sopportavo l'idea che fosse finito in un ospizio, ma non avevo il potere di fare nulla per cambiare le cose. Forse, se in futuro avessi fatto abbastanza soldi… Dovevo andare a trovare anche zia Eva, ma speravo di non doverle chiedere ospitalità. L'ultima volta era stato penoso per entrambi. Magari avrei potuto passare a casa sua quella sera stessa, quando fosse rientrata dal lavoro, ma per questo dovevano passare ancora molte ore. Cosa fare nel frattempo? Forse prendere il tram n. 5 che passava per Chinatown attraversando il ponte e arrivava fino a Lincoln Heights. Lorraine, la mia prima ragazza, viveva lì con il fratello più grande e le due sorelline. Un clacson mugolò. - Bunker! Mi guardai intorno. Una decappottabile color smeraldo, il tetto abbassato, si era accostata al marciapiede. La bionda platino sul sedile del passeggero mi salutava con una mano. Non la conoscevo, ma mi avvicinai per vedere cosa voleva. Al volante c'era J. Manes, il pappa cui portavano l'erba il giorno delle visite. La bionda aprì la portiera e scivolò sul sedile. Le automobili dietro di noi strombazzavano. La bionda sorrise e, mostrando il dito medio, mandò tutti a quel paese. Montai in macchina e ci allontanammo. - Ehi, Bunker, sono proprio contento di vederti. Lei è Flip. - Salve, Flip. - Lui è il tipo di cui ti ho parlato… quello che ha fottuto Billy Cook. Flip si voltò, avvicinando il volto. - Complimenti. Qua la mano -, Aveva dita esili, carne liscia, e occhi verdi felini. Con i capelli di quel colore, il trucco, e gli abiti alla moda, era la più bella donna che avessi mai visto fuori dallo schermo di un cinema. - Ti va di farti? - Secondo te, un orso caca nel bosco o no? - risposi. Il Park Wilshire Hotel era davanti al Mac Arthur Park, sull'altro lato della strada. Costruito coi fondi di un sindacato sul finire degli anni venti, originariamente l'albergo era stato progettato per essere una casa da gioco di prim'ordine. L'architettura era suggestiva, e nell'atrio c'era una scala maestosa degna di un palazzo russo. Purtroppo la sua posizione era troppo a ovest del centro di Los Angeles per attirare chi viaggiava per affari, e troppo a est per catturare il giro degli studi cinematografici. Cose che ignoravo, mentre insieme agli altri aspettavo l'ascensore. A me pareva splendido e grandioso come lo Waldorf–Astoria. Flip premette il pulsante dell'ascensore parecchie volte. Nessuno ha più fretta di un tossico a due passi dal buco. All'ascensore c'era un addetto. Mentre salivamo al piano, mi squadrò in un modo tale che i miei compagni interpretarono come una domanda silenziosa. - È uno a posto, - fu la risposta di J. Manes. Che c'è? - Un mio amico ha una ragazza che vuole lavorare, - fece l'addetto all'ascensore. - Ha mai lavorato? - No, ma è una che sa quel che vuole. - Accompagnala da me domattina. - Domattina tardi, - precisò Flip. - Dopo le undici. - Sì, in mattinata tardi, - confermò Manes. - Ma non ti meravigliare se poi cambia idea. Tante pollastrelle pensano di voler fare le marchette. Possono mettere insieme un sacco di soldi facendo una cosa tutto sommato naturale - essere la prima a mettersi a letto e l'ultima ad alzarsi -, ma quando si tocca da vicino la realtà di quel che è, magari con un vecchio trippone che è ubriaco e schifoso, allora non ce la fanno a reggere. - È per questo che in tante prendono a bucarsi. Copre il tormento. - E quello che non toglie, finisce che non te ne frega più niente, - concluse Flip. - Ho capito. Allora l'accompagno io. Mentre percorrevamo il corridoio, mi arrivò il profumo di Flip. Era intenso, dopo i vari odori della prigione: sudore, piscio, disinfettante. Sapeva certamente come camminare, la ragazza, passi lunghi col culo che le ondeggiava sulle anche. Somigliava a una spogliarellista che ostentava la sua merce senza togliersi i vestiti. Manes le passò possessivamente un braccio intorno al fianco e le sussurrò qualcosa che non riuscii a sentire. Entrambi scoppiarono in una risata. Che aveva lui di speciale, per cui lei vendeva il suo corpo e passava a lui i soldi? Non certo l'aspetto fisico. Era sfatto, emaciato, e un po' effeminato. L'avevo visto nella doccia della colonia penale agricola. Aveva la pelle piena di foruncoli e butterata dalle cicatrici dell'acne. Come faceva ad avere quella fata che pareva uscita da un calendario? Era una sorta di fenomeno del sesso? No. Ero sicuro che il suo controllo su di lei non aveva nulla a che fare col sesso. Manes stava girando la chiave della porta della nostra stanza quando un'altra porta si spalancò più in giù nel corridoio. Ne uscì un uomo grasso in mutande e calzini lunghi. Era paonazzo in faccia, il corpo, al contrario, bianchiccio come la carne di un pesce. Teneva un piede incastrato nello stipite, in modo da impedire che la porta si chiudesse e lui restasse fuori. Era insieme comico e patetico. - Dov'è? Dov'è andata a finire? - Dove è andata a finire chi? - domandò Manes. - Quella puttana… Brandi - Non abbiamo visto nessuno, - intervenne Flip. - Vero, ragazzi? Io scrollai il capo. - Stronzate! Deve essere uscita di qui. Ho sentito il rumore di una porta -. Teneva gli occhi puntati su di noi. - Dovete averla vista per forza. - Calma, signore, - fece Manes, alzando le mani in segno di pacificazione. Frattanto io feci un passo indietro. Se quel tizio avesse seguitato a fare casino e fosse diventato troppo aggressivo, gli avrei mollato un gancio sinistro allo stomaco. Così si sarebbe dato una calmata. Ne ero certo. Flip notò la mia mossa, e con un'occhiata mi fece segno di non colpirlo. All'improvviso gli occhi dell'uomo si riempirono di lacrime. Sapeva che stava facendo la figura dello stupido. - Che è successo? - domandò Manes. - Mi ha rubato il portafoglio… e i calzoni. Ero al cesso, quando l'ho vista scappare. È successo così… - Schioccò le dita per far capire che le cose erano accadute in un baleno. - E adesso che racconto a mia moglie? Chiamo la polizia. Non sapevo se ridere o compatirlo. - Calma, signore, - ripeté Manes. Si avvicinò all'uomo e aprì la porta della sua stanza. Entri dentro e aspetti. Vedo se posso fare qualcosa per lei. Le labbra dell'uomo tremavano; ci guardò, uno dopo l'altro, la faccia segnata dall'incertezza. - Su, via, - disse Flip. - Non vorrà mica mettersi a correre di qua e di là in maglietta e mutande? Vedrà che si aggiusterà tutto. Il cliente della prostituta ci guardò di traverso, poi fece come gli era stato detto. Manes richiuse la porta e poi tornò sui suoi passi, lì dove noi ci eravamo fermati ad aspettarlo. Mentre girava la chiave nella serratura imprecava sottovoce. Brandi, la puttana scomparsa, stava aspettando dentro la stanza. Aveva ascoltato tutto dietro la porta. - Ecco qua, - disse mostrando un bel mazzetto di banconote. - Otto bigliettoni e qualche spicciolo -. Pareva nervosa, e ne aveva motivo. Manes cercò di mollarle un manrovescio. Lei schivò il colpo, e lui le rifilò un calcio. Lei riuscì a deviarlo in parte con la mano, e incassò il resto sulla coscia. Flip fu pronta a frapporsi tra i due. - Calma. Non farle i segni, sennò non potrà lavorare. Manes si ricompose, e poi agguantò i soldi. - Dove sono finiti il portafoglio e i calzoni? - Li ho buttati via. - Via dove? - Nel condotto della ventilazione. Flip andò a guardare nel condotto della ventilazione al centro dell'edificio. - Sì, sono laggiù. - Alza le chiappe e va' a prenderli, - Manes intimò a Brandi. - Devo proprio? - Devo proprio? - ripeté lui facendole il verso. - Perdio, certo che devi. Quello lì potrebbe ancora andare dagli sbirri e farci finire dentro. - Lo pagherai il ruffiano, no? - E questo che c'entra? - Pensavo che coprisse questo genere di cose. - Sì, è così, ma non quando ci sono troppe lamentele. Ve l'ho detto a tutte, baldracche oche senza cervello che non siete altro, di non rubare ai clienti. Ve l'ho detto, sì o no? Brandi annuì a denti stretti. - E te lo dico io perché sei una mignotta… perché sei una fottuta imbecille -. Si voltò verso Flip e le consegnò i soldi. -Torna da quello e cerca di calmarlo. - Vuoi che gli restituisca i soldi? - Sì. E digli anche che gli faremo riavere i calzoni e il portafoglio. Flip uscì dalla stanza. Manes prese il telefono e chiamò la reception, dicendo che accidentalmente i suoi pantaloni erano finiti nel condotto della ventilazione e che una ragazza stava scendendo giù per ricuperarli. Nel frattempo, fece cenno a Brandi di uscire. Mentre la ragazza si avviava verso la porta, depose il ricevitore e le assestò un ultimo calcio sul sedere col lato della scarpa. Il calcio la fece sollevare sulla punta dei piedi per un attimo. - Stupida puttana, - borbottò quando la porta si richiuse. Scrollò la testa e ridacchiò, ovviamente soddisfatto di quella dimostrazione del suo potere, un potere che per me era un enigma. Perché delle donne così belle arrivavano a farsi umiliare fino a quel punto? Flip e Brandi potevano servirsi dei loro corpi per soggiogare molti uomini. Siediti. Mettiti a tuo agio -. Dopo che mi fui seduto, lui incominciò a frugare nei cassetti, poi andò in bagno. Attraverso la porta aperta, vidi che stava armeggiando sotto il lavandino. Che cosa cercava? Poco dopo tornò Flip. - Si è messo buono, - disse. - Dov'è Brandi? - È andata a ricuperare i pantaloni del tizio. Di' un po', dov'è finita tutta l'attrezzatura? - Fuori nel corridoio, dentro l'idrante. Vado a prenderla -. Uscì lasciando la porta socchiusa, e tornò quasi subito con un fazzoletto sporco dentro al quale erano avvolti un cucchiaio storto e annerito, un contagocce con un succhiotto per bambini all'estremità del bulbo e un ago ipodermico sull'altra. Era l'attrezzatura del tossico, anni cinquanta. A quei tempi i tossicodipendenti non usavano ancora le siringhe. Appoggiò il fazzoletto aperto e il suo contenuto sopra una cassettiera. Manes uscì dal bagno con un bicchiere d'acqua. - Ci serve un po' di cotone, - disse Flip. - Ce l'ho -. Manes si sedette sul letto, si tolse una scarpa, ed estrasse una pallina di cotone da sotto la linguetta della scarpa. La depose sul palmo di Flip e si rimise la scarpa. La ragazza la aggiunse agli altri oggetti allineati sul fazzoletto sporco. - Da' un'occhiata all'apertura del condotto della ventilazione, - mi disse, - e vedi se quella ha trovato i calzoni e il portafoglio. Aprii il finestrino che dava sul condotto di ventilazione e guardai giù. Brandi, i pantaloni in mano, stava tornando verso la finestra che aveva scavalcato per raggiungere il fondo del condotto della ventilazione. - Li ha presi e sta tornando. - Basta con questa stronzata, - sbottò Flip. - Forza con questo buco. Non vedo l'ora -. Allungò la mano in direzione di Manes schioccando le dita. Manes tirò fuori due capsule di polvere bianca. Mi sembravano piccole. La ragazza ne aprì una e vuotò la polvere dentro il cucchiaio. Servendosi del contagocce aspirò l'acqua dal bicchiere, e poi ne stillò parecchie gocce nel cucchiaio in modo da coprire la polvere, che subito cominciò a dissolversi, anche se non del tutto. Diede fuoco a un mazzetto di fiammiferi e poi li passò più volte sotto il cucchiaio. Il liquido si schiarì. Poi raffreddò velocemente il fondo del cucchiaio accostandolo al filo dell'acqua nel bicchiere, arrotolò il pezzetto di cotone tra i pollice e l'indice e lo lasciò cadere nel liquido. Aspirò il liquido attraverso il cotone e l'ago del contagocce e poi ne riversò attentamente una parte nel cucchiaio. La mia presenza era stata dimenticata. Manes si arrotolò la manica e si annodò una vecchia cravatta sulla parte superiore del braccio; poi, aprendo e chiudendo il pugno, pompò sangue nella vena. Flip, in piedi accanto a lui, serrando il contagocce tra il pollice e l'indice, infilò l'ago nella vena. Un filamento di sangue penetrò nel contagocce. L'ago era nella vena. La ragazza premette il succhiotto del contagocce iniettando una dose di liquido e si fermò. Lui aspettò, poi annuì. Flip iniettò il resto. Mentre Manes si schiariva la gola gustando la vampata dell'eroina che si diffondeva nel suo corpo, una sensazione unica al mondo, Flip sciacquò l'interno del contagocce con l'acqua e aspirò un'altra dose di liquido nel cucchiaio fino ad asciugare la pallina di cotone, prima di farne schizzare tre piccole gocce mentre mi strizzava l'occhio. Appoggiò il marchingegno con cura e si legò la cravatta intorno al suo bicipite, tenendone un capo tra i denti. Sull'incavo del gomito notai cicatrici bluastre e minuscole croste. Erano camuffate col fondotinta, ma si vedevano lo stesso. Le cicatrici segnavano il tracciato delle vene e ricordavano vagamente le impronte di un uccello. Non c'era da stupirsi, perché le ci vollero parecchi tentativi prima di veder comparire il sangue, segno che aveva preso la vena. - Le pollastre ci mettono sempre un bel po', - osservò Manes, - specie quando ci sono ormai dentro fino al collo. A un certo punto hanno un calo di pressione, o qualcosa del genere. La ragazza si iniettò l'eroina. Le sue pupille dilatate diventarono due punte di spillo. Era la prima volta che vedevo una cosa del genere, ma mi bastò per imparare a riconoscere, in un posto pieno di gente, se qualcuno si era fatto di eroina soltanto guardandolo, o guardandola, negli occhi. - Ahhhh… la medicina di Dio, - mugolò la ragazza. - O del diavolo, - corresse Manes. Flip aspirò acqua dall'ago per pulire il contagocce, poi tirò su le ultime gocce rimaste. Questo è per te, - disse. La sua voce aveva la tonalità roca, come avrei imparato in seguito, tipica degli eroinomani. Ero spaventato. La mia paura era frammista a una forma di fascinazione ipnotica. Non mi avrebbe mica ammazzato. Avrei fatto la figura dell'idiota se non avessi accettato. Charlie Parker ne andava matto. Che diavolo… Arrotolai la manica e presi la cravatta. - Fammelo tu, il buco, - dissi a Flip. Con aria ebete la ragazza si grattò la punta del naso e annuì, prima di avvicinarsi con il suo marchingegno in mano. I nostri corpi si sfiorarono. Sentivo il calore e l'odore dolce del suo fiato. Quasi non mi accorsi della puntura dell'ago. Il sangue comparve subito nel contagocce. - La pressione ce l'hai buona, - osservò lei, fermandosi un momento per grattarsi ancora la punta del naso. Poi spremette il succhiotto e il liquido sparì nel mio corpo. Aspettai, sentendo distintamente le pulsazioni del cuore. Poi quell'indescrivibile sensazione di calore si diffuse in tutto il mio corpo, cancellando ogni dolore. Buon Dio! Era… meraviglioso. Poi, all'improvviso, la nausea mi salì alla gola. Mi precipitati in bagno, una mano sulla bocca. Il torrente di vomito schizzò nel gabinetto. Grazie a Dio non avevo rimesso sul pavimento. Mi sarei sentito un idiota. Rimasi piegato sul gabinetto, scosso dai conati di vomito senza tuttavia rigettare niente. Avevo la camicia intrisa di sudore, che mi rigava la fronte e mi entrava negli occhi. Mi asciugai la faccia con un asciugamano e uscii dal bagno. L'attrezzatura era sparita. Brandi era tornata, e stava consegnando a Manes dei soldi. Quando entrai guardò dalla mia parte. - Che è successo? - domandai. - L'ha messo nel sacco, - rispose Flip, scoppiando a ridere. - Un uomo col cazzo duro è il più grande imbecille sulla faccia della terra. Feci due passi. Quel movimento mi fece tornare la nausea. Flip se ne accorse dalla mia faccia. - Stenditi, - disse. - Non muoverti e ti passerà. Seguii il suo consiglio, e scoprii che aveva ragione. Se stavo calmo, anche il mio stomaco si calmava. Fui invaso dalla beatitudine, una specie di euforia estrema e completo distacco da ogni pena, mentale e fisica. Mi sentii meravigliosamente bene quando chiusi gli occhi assaporando quel dolce calore che s'irradiava nel mio corpo. Non me lo sarei mai immaginato. Era diverso dallo sballo della marijuana che distorce le percezioni, o dalla scarica di energia quasi elettrica delle anfetamine. Mi assopiva, ma non stordiva il cervello come il Seconal o il Nembutal. Semplicemente, mi sentivo "bene". Avevo l'impressione che fossero trascorsi soltanto pochi minuti, ma quando guardai alla finestra mi resi conto che il cielo era buio e le luci della città brillavano nell'oscurità. L'ultimo piano dell'albergo era un bordello. Manes si era messo d'accordo con il direttore di notte, e con tassisti e barman. I magnaccia ci portavano le loro puttane. Arrivò una ragazza in cerca di un tampone; era quasi arrivata alla fine del ciclo, e il tampone avrebbe assorbito le ultime tracce di sangue, così avrebbe potuto lavorare. Poi arrivò un pappone, un tizio di colore che voleva sapere se Manes poteva fornirgli un po' di eroina. La sua vecchia era in crisi di astinenza e non ce la faceva a lavorare. Manes si rivolse a Flip, occupata a provarsi un paio di orecchini allo specchio. - Lo spacciatore lo conosci tu, no? - Mi stai dicendo di andarci io, a Temple Street? - parlò con un tono di sfida; il messaggio era ovvio. Temple Street era un posto da evitare. Era cosa risaputa, a quei tempi; una sala da biliardo e il Traveler's Café di Temple Street erano i luoghi d'incontro di trafficanti e ladri. Un giorno, dopo la mia evasione da Whittier, avevo dormito per una settimana dentro la carcassa di una Cord del '37 abbandonata in Beaudry Street, che incrocia Temple Street a mezzo isolato dalla sala da biliardo. - Vengo io con te, bambola, - propose il pappone di colore. - Ci passerai una dose per l'incomodo, d'accordo? - domandò Manes. - Certo, amico. Che cazzo… lo sai bene. Mentre s'infilava il soprabito, Flip si voltò a guardarmi mentre ero ancora steso sul letto. Con la testa e le spalle appoggiate alla testiera del letto, potevo osservare tutto l'andirivieni nella stanza. - Come ti senti? - domandò. - Cazzo, da dio! - La mia voce aveva assunto un tono stridulo, e io mi sentivo davvero da dio. L'unico problema era che non appena mi muovevo, lo stomaco mi andava sottosopra e mi tornava la nausea. All'inferno, non dovevo andare da nessuna parte. Stupendo. Vedevo ogni sorta di cose, scoprivo ogni sorta di persone. Uscirono tutti. Flip e il protettore per la loro spedizione, e Manes per pagare il ruffiano. Il ruffiano era una specie di esattore. Tutti gli scippatori, i magnaccia, i truffatori, le puttane, i giocatori d'azzardo e i taccheggiatori, che compravano il silenzio della squadra della buoncostume o antitruffa passavano il pizzo a un intermediario, e lui poi trattava col poliziotto corrotto. In questo caso l'intermediario era un barman che lavorava in un locale di West Eight Street. Non m'importava di essere stato lasciato solo. Nel gergo dei tossici, «facevo la discesa in folle». La porta si aprì. Brandi entrò con una ragazza di colore "café–au-lait". - Ehi, bello, - disse, dov'è Flip? - È andata a fare rifornimento. - Oh, merda! Senti, c'è un cliente da cento dollari, e ci serve una stanza. - E allora? - Be', questa è l'unica. Ti diamo venti dollari. Saltai su piantando i piedi sul pavimento. - Non se ne parla neanche. E io dove vado? - Di là. Nel vano del guardaroba. - Nel guardaroba? Che stronzata stai dicendo? - Sss! È qui fuori, nel corridoio. Entrai nel vano del guardaroba. Era spazioso, illuminato dall'alto, e vuoto, a parte qualche indumento di biancheria intima appeso a un gancio. Prima che potessi spiccicare parola, Brandi spense la luce e chiuse la porta. Immediatamente vidi la luce penetrare attraverso la parete. C'era uno spioncino. Non era la prima volta che succedeva. Sentii delle voci oltre la porta. Accettai l'invito a fare il guardone, e mi misi a spiare dal buco. La stanza d'albergo adesso era immersa in una luce verde, un catalizzatore di fantasie erotiche, immagino. Appiattisce le rughe e fa apparire soda la pelle flaccida. Brandi, in giarrettiere, calze a rete, e tacchi alti, era in piedi nel mezzo della stanza. La ragazza nera indossava stivali alla coscia con tacchi metallici alti, e un reggiseno di gomma dura che lasciava i seni nudi. Teneva in mano un regolo da disegno lungo una trentina di centimetri che batteva ritmicamente sul palmo dell'altra mano. Il rumore era più violento di quanto si potesse immaginare. Mamma mia… che mi toccava vedere… Le due puttane giocavano col cliente al gatto e al topo preso in trappola. Un giochetto che il topo in trappola pareva gradire molto. Il cliente si tolse la giacca costosa, sganciò i gemelli d'oro, e si sfilò la camicia. Mentre se ne stava lì in piedi, insaccato dentro le mutande, le gambe flaccide e bianchicce, le ginocchia nodose e i reggicalzini, dal capitano di industria che era si tramutò in un cliente qualsiasi nello spazio veloce di un'erezione. Pensavo che quella scena mi avrebbe eccitato, e invece mi ritrovai a mordermi la mano per non scoppiare a ridere, specie quando l'uomo si mise a gattonare sul pavimento. La ragazza nera gli stava sopra, la passera a pochi centimetri dalla sua faccia, e gli dava ordini. Lui, di nascosto, lanciò un'occhiata alla sua passera. Per punizione, lei gli schiaffò il regolo sul sedere. - Ah! Ohhh… che beeello! In prigione, avevo sentito raccontare tante storie di puttane, protettori e clienti, ma questa era qualcosa di completamente diverso. In seguito, quando sarei diventato amico delle ragazze squillo, avrei appreso che molti uomini si comprano il sesso perché sono un po' pervertiti e un po' bacchettoni, e così pagano per soddisfare delle fantasie che si vergognerebbero di condividere con le loro mogli. Brandi accese la luce e mi rise in faccia. - Be', che te ne pare? - Strano. La ragazza "café–au-lait" stava male. Si vedeva. Si lasciò cadere sulla seggiola e tirò sul col naso. - Dove cazzo è quella? Quasi rispondendo a un segnale, la porta si aprì. Flip, Manes e il pappone di colore entrarono nella stanza. - Spicciami per primo, amico, - disse il nero. - La mia signora deve andare a lavorare. - Certo. Hai pagato, no? Restai sul fondo della stanza, a osservare la scena. Non c'è da stupirsi che li chiamassero tossici. Aspettavano il loro turno con una febbre negli occhi vitrei. Era una specie di sacramento. Contarono attentamente le gocce e le suddivisero tra i cucchiai. Il nero s'infilò l'ago, e il contagocce diventò rosso di sangue. Premette un poco, poi si fermò. - Merda! È tappato -. Lo estrasse, staccò l'ago dal contagocce, e versò il resto del liquido nel cucchiaio. - Oddio. Me n'ero scordato. L'epa… - Che hai fatto?! - esclamò Manes - Tu che ne dici, Flip? Questo qui ha avuto l'epatite e ha rimesso il sangue nel cucchiaio. - Che vuoi che sia. L'epatite mi piace. A te, no? - Oh, sì -. Manes riinfilò l'ago nel contagocce e aspirò acqua prima di schizzare il liquido. L'ago non era otturato. Aspirò il liquido che era nel cucchiaio e tese l'attrezzo a Flip. Vedendo quella scena, pensai che erano tutti pazzi. A Preston avevo conosciuto un tale che si era beccato un'epatite acuta. Quando la pelle gli era diventata gialla, gli era diventato giallo anche il bianco degli occhi, e la sua urina era nera come il caffè. Era morto nel giro di pochi giorni. Fu allora però che mi resi conto che il nero aveva detto di avere l'epatite solo per finta, e che loro l'avevano capito. In effetti l'aveva confessato con un'alzata di spalle. Aveva sperato che si sarebbero messi paura e gli avrebbero lasciato il resto della roba. - Dammi quell'epatite, - fece Flip. - Il flash verrà anche meglio. Tutta l'attività rallentava dopo le due del mattino, quando chiudevano i bar e i taxi riportavano a casa l'ultimo cliente. Alle tre e venti dall'uscita del Park Wilshire passarono cinque puttane, tre protettori e un giovane delinquente di pelle bianca. Per me, era stata tutta un'avventura. Per tutti gli altri, soltanto un'altra nottata di lavoro. Adesso si poteva finalmente andare a mangiare. Ci ammucchiammo in un taxi e nell'automobile di Manes. Io ero seduto tra Manes e Flip, e i movimenti della vettura mi sballottavano contro il suo corpo. Eravamo diretti al centro, a The Pantry, un ristorante di carne alla buona. Era aperto ventiquattro ore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni all'anno. La porta era senza serratura. Non poteva chiudere. Quando la nostra comitiva di puttane sgargianti e protettori piuttosto appariscenti fece il suo ingresso nel locale, le teste dei presenti, comprese quelle di due poliziotti in uniforme seduti al banco, si voltarono a guardarci. Io mi misi subito paura, perché tecnicamente ero ancora tenuto a rispettare il coprifuoco. Se non fossi stato in testa al gruppo, avrei girato i tacchi e me ne sarei andato. Ma, così com'ero messo, avrei dato nell'occhio, perciò seguitai a camminare dietro al cameriere. Lui ci scortò fino a due grossi tavoli che avevano unito insieme sul fondo del locale. Mi stavo sedendo all'angolo del tavolo, quando si sentì una voce: - Guarda, guarda, Sambo con la puttana bianca… Uno dei protettori neri si voltò e disse a gran voce: - Alla bestia che ha parlato voglio dire che sua madre succhia i cazzi dei somari e lui lo prende in culo dai neri che ce l'hanno bello grosso. - Oh, merda, - bofonchiò Manes, tirando il protettore per la manica. Il protettore si liberò la mano di dosso, e in quel momento un uomo grande e grosso, il razzista che aveva parlato, si alzò il piedi. I poliziotti seduti al banco agirono in fretta. Si trovavano alle spalle del razzista che non si accorse di loro finché un poliziotto lo afferrò per un braccio. - Fuori di qui, - ordinò il piedipiatti. - Non ho ancora finito il mio caffè. - Senti, è meglio… a meno che non te lo vuoi portare a Lincoln Heights. - Va bene, ho capito -. Il razzista sogghignò guardando il protettore nero sopra la spalla del poliziotto. Il protettore avanzò, ma l'altro sbirro gli bloccò il passo col manganello. Calma, ragazzo. - Ragazzo? Io non sono il tuo ragazzo, amico. - Va bene. E neach'io sono amico tuo. Vedi solo di darti una calmata. Accanto a me Flip borbottò: - Che coglione. - Allora, te ne vai o no? - Sì -. Dopo aver buttato qualche moneta sul tavolo, l'uomo se ne andò borbottando qualcosa sui «bastardi che se la fanno coi negri». I due poliziotti affrontarono il protettore nero. - Adesso tocca a te; è meglio per te se non fai il passo più lungo della gamba. La puttana "café–au-lait" si alzò in piedi e strattonò il braccio dell'uomo. - Dai, cocco; mettiti a sedere. Mollala qui. A malincuore il pappone nero si mise a sedere borbottando, - 'Fanculo. I due poliziotti tornarono al banco. Arrivò il cameriere per prendere l'ordine. Anche se una bistecca «New York» costava soltanto settanta centesimi, quasi tutti ordinarono uova e pancetta. Passò qualche minuto prima che calasse la tensione. Alla fine il protettore disse: Quel coglione è stato fortunato che non l'ho preso a calci in culo -. Tutti scoppiarono a ridere. Stavamo mangiando quando si aprì la porta. Entrarono altri due agenti in divisa e due detective. Si avvicinarono ai poliziotti seduti al banco, poi lanciarono un'occhiata al nostro tavolo sul fondo del locale. Io ero accanto alla parete. - Prendi questa, - fece Flip. - Falla sparire -. Dalla borsetta che teneva in grembo tirò fuori una calibro.38 canna mozza avvolta in un fazzoletto. La presi in mano, allungai il braccio verso terra e piegai obliquamente la gamba in diagonale, in modo che la caviglia bloccò l'arma quando la lasciai cadere, smorzando così il rumore; in più, feci un forte colpo di tosse. Col piede, poi, spinsi la.38 dietro la gamba del tavolo. In quel momento i detective e gli agenti in divisa si avvicinarono passando per il passaggio tra i tavoli. - In piedi… tutti. - Perché? - domandò una ragazza. - Perché lo dico io, Miss Cadillac Coupé de Ville. "Coupé de Ville"! Che nomignolo. - Fuori… fuori, - tagliò corto un agente. Mi affrettai verso la porta, il più lontano possibile dalla pistola. Un poliziotto notò che cercavo di svicolare dietro gli altri facendomi scudo dei loro corpi. - Tu, quanti anni hai? domandò chiamandomi col dito. - Ventidue. - Hai un documento d'identità? La patente? - Non ho la patente. Ho solo questi, - risposi consegnandogli due biglietti da visita graffettati insieme, uno del mio garante della libertà vigilata su cui erano indicati il giorno e l'ora dell'appuntamento che avevo con lui, e l'altro di Al Matthews. - Matthews è il tuo avvocato, eh? - Sì, signore. - Muoviti. - Che? - Comincia a camminare. Per la strada. Al di sopra della sua spalla, attraverso il vetro dell'entrata, vidi un agente in divisa accanto al nostro tavolo. Si stava chinando. Non aspettai di vedere quello che aveva raccolto da terra. - Grazie, - dissi, prima di girare sui tacchi e scappare via. A una quindicina di metri dall'ingresso del ristorante c'era un vicolo. Non appena lo raggiunsi e vi svoltai, il mio passo tranquillo scattò in una volata. Raggiunsi un'altra strada e svoltai ancora. L'attuale Harbor Freeway all'epoca era una fila di vecchie case di legno. Percorsi metà di un vialetto e poi mi tuffai tra i cespugli. Se si erano messi sulle mie tracce per via della pistola, mi avrebbero individuato sicuramente, se mi fossi messo a vagare a piedi per le vie del centro alle quattro del mattino. Era primavera avanzata e si fece giorno presto. Quando si spensero i lampioni, comparvero le prime automobili e le prime luci del giorno spuntarono sulla linea dell'orizzonte, all'epoca ancora bassa, di Los Angeles, uscii dai cespugli e m'incamminai verso nordest. Mi trovavo a un paio di chilometri dallo studio di Matthews. Strada facendo, mi chiedevo se la polizia mi stava cercando. Ne dubitavo. Gli sbirri non avevano alcuna prova per dimostrare che la pistola era mia. Grazie al fazzoletto, non vi avevo lasciato nemmeno le impronte digitali. Mentre camminavo guardando le stelle impallidire e svanire, mi domandai se per caso mi mancava qualche rotella. I sociologi dell'epoca ritenevano che il crimine fosse una prova "prima facie" di turbe psichiche. Ma non era invece soltanto un altro nome per indicare una forma di possessione diabolica? Da una parte, io sicuramente mi ero reso responsabile di azioni che, com'è vero Iddio, potevano sembrare quelle di un pazzo. Dall'altra, non avevo mai sentito voci o avuto apparizioni di sorta. Secondo il dottor Frym, presentavo dei tratti paranoidi. Come potevo non avere dei tratti paranoidi, con la vita che avevo condotto? Col passare degli anni, la mia miniparanoia mi salvò la pelle più di una volta. Quando Al e Emily Matthews arrivarono in ufficio, io li aspettavo nell'ingresso al pianterreno. Dal loro sguardo, più che dalle parole, capii che il mio aspetto li preoccupava. Non ero pulito e in ordine come il giorno precedente. Mi domandai se avessi ancora le pupille come punte di spillo. Dissi che avevo passato la notte all'ostello della Ymca. Emily chiamò Al in disparte. Quando la donna tornò, mi chiese se mi andava di fare un lavoro per quel giorno, ovvero dipingere il recinto di casa loro. Accettai con entusiasmo. Tanta era la voglia di intascare quei soldi, che ignorai la stanchezza che avevo addosso. La mia gioventù mi sostenne per tutta la mattinata, durante la quale seguitai a imbiancare i paletti del recinto, ma dopo pranzo mi sedetti nella veranda. Dalla cucina giungeva il suono della musica alla radio. Chiusi gli occhi ascoltando la voce di Billy Holiday che cantava "Crazy He Calls Me", e mi addormentai. Il mio ricordo successivo: Emily che mi scuoteva per svegliarmi. Era ormai il tramonto, e dovevamo tornare in città per andare a prendere Al. Quando giungemmo allo studio, Al chiese di parlarmi da solo. Non appena si richiuse la porta, mi chiese a bruciapelo: - Perché hai mentito? - Su cosa? - Su dove hai passato la notte. - Non ho mentito. - Verso le quattro di stamattina eri in compagnia di un gruppo di puttane e di protettori. Ho ricevuto una telefonata del sergente O'Grady. Hanno trovato una pistola. - Io non c'entro con la pistola. - Se il giudice Ambrose sapesse quello che è successo, pistola o no, finiresti dentro per violazione della condizionale. Risposi con un'alzata di spalle. Il mio risentimento verso l'autorità, specie se rappresentava una minaccia, mi fece subito infiammare. Se quel tono accusatorio l'avesse usato qualcun altro, gli avrei detto che non me ne fregava un cazzo… e che andasse pure a farsi fottere, lui e il giudice. Con Al, però, mi controllai, anche se lui si accorse della mia reazione contrariata. Cambiò atteggiamento: - Per favore, non metterti nei guai -. Aprì la porta e fece un cenno a Emily. - Ha chiamato Mistress Wallis, - fece, - e mi ha detto che vorrebbe vedere Eddie. - Una bella notizia, - commentò Emily, e poi, rivolgendosi a me: - Eddie, conosciamo una signora. Era un'attrice nel cinema muto. Suo marito è uno dei pezzi grossi del cinema. Vuole incontrarti domani mattina. - Vuole offrirti un lavoro, - seguitò Al. - Emily, Geffy può portarlo da lei dopo aver accompagnato noi -. Geffy era alle dipendenze di Al, e gli faceva da autista, investigatore e guardia del corpo. Negli anni trenta era stato un pugile di peso welter che andava alla grande. - Fatti trovare qui, domattina verso le nove. - Ci sarò. - Che fai stasera? - Vado a trovare una vecchia amica. Al sogghignò. - Impossibile. Non puoi avere vecchie amiche. Emily, lo hai pagato per il lavoro che ha fatto oggi? - Non ancora. - Prendi questi -. Al estrasse dal portafoglio un biglietto da venti dollari e me lo mise in mano. A quei tempi, la paga oraria minima era cinquanta centesimi. Fui molto contento di intascare quei venti dollari. Uscendo dallo studio, pensavo a Mistress Wallis. Al cinema non leggevo mai i titoli di coda, ma il nome di Hall B. Wallis lo conoscevo bene. L'avevo visto troppe volte per dimenticarmene, specie perché compariva nei miei film preferiti, quelli in bianco e nero, prodotti della Warner Brothers, sui gangsters e i tempi duri, con Bogart, Cagney, Edward G. Robinson, e George Raft. Non erano solo attori, per me; i loro personaggi erano modelli di vita. Al Matthews aveva una Cadillac verde acqua decappottabile. Era il primo modello con le spettacolari pinne posteriori. Quella Cadillac era stupenda, ed era la prima sulla quale salivo. L'unica casa automobilistica che poteva rivaleggiare con la Cadillac era la Packard; la Mercedes, in seguito ai bombardamenti, era ancora un cumulo di rovine; la Mitsubishi era solo la marca di quelle carrette volanti che i nostri Corsair abbattevano a sciami. Nel 1950, gli Stati Uniti sfornavano l'ottanta per cento di tutte le automobili in circolazione a livello mondiale, e la Cadillac regnava sovrana. La Hollywood Freeway era ancora un lungo fossato con le barre di acciaio allo scoperto che aspettavano di essere ricoperte di cemento. Alla San Fernando Valley ci si arrivava percorrendo Riverside Drive e costeggiando Griffith Park, oppure passando per Cahuenga Pass a Hollywood. Geffy prese Second Street. La città già mi evocava ricordi. Passammo davanti a un cinema dove mi infilavo di nascosto e dormivo, quando vivevo per la strada dopo essere scappato dal riformatorio. Il gabinetto degli uomini era dietro lo schermo, accanto all'uscita di emergenza che dava sul vicolo. Quando Joe Gambos e io bussavamo alla porta del vicolo, uno degli ubriaconi abituali frequentatori del cinema ci faceva entrare. Una sera, però, dopo aver bussato, la porta si aprì e ci ritrovammo di fronte un poliziotto armato di manganello. Joe era alle mie spalle, così che quando mi voltai per scappare andai a sbattere contro di lui. Lo sbirro mi colpì col manganello sulla spina dorsale. Caddi steso, urlando per il dolore. Mentre mi torcevo per terra, il poliziotto mi prese a calci e poi mi ordinò di andarmene. Obbedii. L'indomani mattina avevo la schiena coperta di ecchimosi bluastre. Restò indolenzita per settimane. Non avevo mai odiato gli sbirri, ma quella volta imparai sulla mia pelle che spesso erano molto diversi da come Norman Rockwell li raffigurava sulle copertine del «Saturday Evening Post». Geffy imboccò Cahuenga Boulevard, passando davanti all'Hollywood Bowl. Dall'altra parte della strada si trovava un teatro all'aperto dove ogni estate mettevano in scena la vita di Cristo. Mio padre ci aveva lavorato per parecchi anni. Gli aranceti della San Fernando Valley stavano sparendo sotto i bulldozer della speculazione edilizia. Grossi agglomerati urbani stavano sorgendo per ospitare la più grande immigrazione di tutti i tempi, che all'epoca era in pieno svolgimento. Mai prima di allora tanta gente si era spostata in un posto in un lasso di tempo così breve. Geffy sapeva ben poco di Mistress Wallis, tranne che era stata un'attrice del cinema muto, e in particolare aveva lavorato nelle commedie di Mack Sennett prodotte dalla Keystone. Si chiamava Louise Fazenda. L'avevo vista da piccolo. Come segno caratteristico, portava le treccine. Era buffa. Non sentivo parlare di lei da… vent'anni almeno. Da Riverside Drive svoltammo su Woodman. La zona era ancora tutta aranceti ed erba medica. Meno di un chilometro a nord di Riverside, a Magnolia, si ergeva un muro alto quasi tre metri, dipinto in modo da rassomigliare a un muro di mattoni. Era lungo. Geffy svoltò all'imbocco di un viale d'accesso protetto da un massiccio cancello verde. C'era un citofono con un pulsante. L'indirizzo era 5100 Woodman. Geffy premette il pulsante e il citofono gracchiò. - Chi è? - Siamo dello studio di Al Matthews. Il cancello si spalancò, azionato automaticamente dall'interno. Entrammo, e il cancello si richiuse alle nostre spalle. La strada era bordata da piante di fiori, agapanti e rose a spalliera sulla destra, e un vasto prato sulla sinistra. Il prato digradava dalla Monterey Colonial House, circondata dagli alberi, fino alla piscina e agli spogliatoi. Dietro gli spogliatoi c'era un campo da tennis. La casa propriamente detta era più piccola della villa di Orange Grove Avenue, a Pasadena, ma il terreno circostante era molto più curato. Irradiava la serenità di un chiostro. La strada seguitava sul retro della casa, ma un vialetto circolare intorno a una fontana conduceva all'ingresso principale. Al nostro arrivo si aprì. Mistress Hal Wallis era sulla cinquantina ed era tutta vestita di bianco. Ci venne incontro per darci il benvenuto. Aveva capelli biondissimi e una grossa bocca dal largo sorriso, ed era una di quelle persone che ti danno una sensazione di calore fin dal primo momento che ne fai la conoscenza. Ci invitò ad entrare, ma Geffy rispose che doveva tornare in città per accompagnare Al tribunale di Pomona quel pomeriggio. - Mi saluti lui ed Emily, - disse Mistress Wallis, e rivolgendosi a me: - Vieni. Seguimi -. Mi prese per mano e mi condusse all'interno. Il corridoio era immerso nella penombra, che contrastava con la forte luce del giorno. Passammo per un salotto molto formale, poi per un'altra stanza con seggiole rivestite di chintz azzurro e un corridoio con mobili Chippendale e ottoni lucenti, e quindi arrivammo in una cucina tutta soleggiata. Li mi presentò a una donna dai capelli candidi di nome Minnie, al servizio dei Wallis da molti anni. Mistress Wallis mi squadrò da capo a piedi. Ero vestito troppo elegante per il lavoro che aveva in mente di affidarmi. Domandò a Minnie se Brent aveva un paio di vecchi jeans da darmi. Minnie si asciugò le mani e andò a guardare. Mentre Minnie era via, Mistress Wallis mi spiegò che la sua proprietà si estendeva fino a una strada secondaria sulla quale si ergeva una vecchia casa disabitata. Con gli anni si era accumulata una montagna di immondizia. Voleva che venisse rimossa e scaricata in una grossa buca. Mi domandò se ero capace di guidare un camion. - Dipende da quanto è grande. Minnie tornò con un paio di Levi's e una T–shirt. Mistress Wallis mi accostò i pantaloni alla cintola. - È un po' più robusto di te, ma forse possono andare. Gli indumenti erano adatti allo scopo, anche se non li avrei indossati in pubblico. La mia vanità era molto più spiccata a sedici anni di oggi, che ne ho sessanta. In effetti, tutta la società dava molto più peso all'immagine, nel 1950. - Vieni con me, - disse la donna, scortandomi verso la porta di servizio che conduceva sul retro della proprietà. Sotto una tettoia consunta dal tempo c'era una vecchia diligenza. Nei pressi, una scuderia, ma senza cavalli nei box. C'erano anche un paio di casette, una delle quali utilizzata dal giardiniere, che sbucò dietro l'angolo, ci vide, e subito sparì dalla vista. - Chi è? - domandai. - Non ti conosce. È il giardiniere, pover'uomo. E rimasto coinvolto in un incidente stradale dove hanno perso la vita la moglie e la figlia. È uscito fuori di senno. Era a Camarillo. Aveva bisogno di un ambiente particolare, di un luogo appartato… di starsene da solo. Sono stata ben contenta di potergli offrire un lavoro. Raggiungemmo una parte della proprietà che faceva pensare al magazzino di una fattoria. Avevo notato un grosso campo dietro le casette. Mistress Wallis mi disse che era stato un noceto, fino a qualche anno prima. Se ricordo bene, un'alluvione aveva abbattuto gli alberi. La proprietà si chiamava ancora Wallis Farms, come era scritto sui numerosi assegni che via via ricevetti da lei nei mesi successivi. In una costruzione che pareva un incrocio tra una stalla e un garage aperto, era parcheggiato un vecchio camion in legno. Era più grosso di tutti i veicoli che avevo guidato fino ad allora, che in realtà si limitavano a poche automobili rubate. - Pensi di farcela? - Certo -. Perché no? Mica dovevo andarci a Oklahoma City guidando sulla Statale 66. Salimmo tutti e due sul camion, e io avviai il motore. Mistress Wallis mi avrebbe indicato la strada. Partimmo, rimbalzando su una strada sterrata in direzione della via asfaltata. Era Magnolia Avenue, che incrociava Woodman ad angolo retto. - Gira qui, - disse. Lei voleva dire la strada, ma io capii che intendeva lo spazio tra le file di alberi di arancio. Il camion girò, ma nel rimbalzo, i fianchi del camion cominciarono a rompere i rami degli alberi. - Mio Dio! - esclamò la donna, e poi scoppiò in una risata quando il camion si abbatté contro un albero e si fermò. - Nessuno è perfetto, - commentai. - Penso esattamente la stessa cosa. Fa' marcia indietro e riprovaci. Mi riportai su Magnolia Avenue, e girai intorno all'isolato. Tutta la proprietà che stava nel mezzo, compresi parecchi edifici più nuovi con appartamenti e giardino, erano dei Wallis. Svoltammo in un viale accanto a una casa piuttosto vecchiotta, secondo i parametri della California del Sud. Il cortile sul retro della casa invaso dalle erbacce era occupato da un cumulo del pattume mediamente prevedibile di una società del benessere: un materasso e una rete del letto, scatole di immondizia, un frigorifero senza porta, altre scatole di vestiti smessi, e altri rottami. Mistress Wallis mi indicò dove scaricare. - Torno a casa a piedi, - disse tagliando attraverso la proprietà invece di uscire sulla strada e girare intorno all'isolato. Incominciai a lanciare le cose sul camion. Era mattina tardi, e lo strato di nubi marittime tipico della California del Sud bruciava dissolvendosi rapidamente alla luce ardente del sole. Dai giorni del riformatorio e della colonia penale agricola della contea covavo risentimento contro la fatica bruta. Era un lavoro sporco, e scoppiavo dal caldo. Il sudore mi inondava gli occhi. Una scheggia mi penetrò sotto un'unghia. Finito di riempire il primo carico, dissi a me stesso che non mi sarei ripresentato il giorno seguente. Tanti vanno fieri di lavorare sodo, maneggiare un piccone o a cimentarsi con un martello pneumatico. Questo atteggiamento viene inculcato nell'adolescenza dalla famiglia e dalla cultura, e si chiama con un'infinità di nomi: l'etica protestante del lavoro, il mito della virilità macho delle società di lingua spagnola, il codice del samurai giapponese tradotto nel mondo delle merci. Mi ricordavo ancora di Whittier, quando ero stato costretto al lavoro duro, e io lo odiavo. Non ero l'unico a reagire così. Era un atteggiamento di gruppo, forse abbastanza simile al sentimento che provano gli schiavi. Questa visione della sottocultura si esprimeva in certe battute che si sentivano in giro: «Il lavoro manuale mi sa di messicano». Il lavoro è per i somari e gli imbecilli e, fino a prova contraria, ho tutto meno le orecchie da asino. Portai il camion fino alla buca e scaricai l'immondizia sollevando una nuvola di polvere. Mentre tornavo per caricare un altro viaggio, trovai Minnie sulla strada. - Mistress Wallis dice di entrare per pranzare. Riporta il camion in garage. In cucina, mi aspettavano una tovaglietta, posate d'argento, e un tovagliolo col suo portatovagliolo. Minnie mi aveva preparato una zuppa di mais e un panino prosciutto e formaggio con un mucchio di maionese. Strano come ricordo esattamente questi particolari dopo tanti anni. Avevo appena terminato il pranzo, quando entrò Mistress Wallis. In quelle ore della giornata, la San Fernando Valley, che sarebbe stata un deserto senza l'acqua della California del Nord (che storia incredibile di imbrogli e cavilli legali è quella), era praticamente un altoforno a pieno regime. - Fa troppo caldo per lavorare, - disse. - Perché non ti fai un bagno in piscina? Ci sono parecchi costumi nello spogliatoio. - Magnifico! - esclamai. - Sapevo che non avresti detto di no. Una cosa, però. Se vedi comparire degli uomini con la tunica, non farci caso. Ho autorizzato io i fratelli della Notre Dame High School a usare la nostra piscina. In genere, fino al tardo pomeriggio non vengono mai, ma… - Va bene. Uscito dalla porta della cucina, girai sul retro della casa, oltrepassando un grande roseto in piena fioritura primaverile. In seguito Mistress Wallis mi disse che Hal aveva un vero debole per le rose. Mentre attraversavo il vasto prato punteggiato di aceri ombrosi e da un grosso pino isolato, gli uccelli cinguettavano. Non c'era da stupirsi che i fratelli cattolici venissero lì. Era un posto bucolico e tranquillo come il giardino di un seminario. Un po' a distanza, lo schizzatore rotante dell'impianto di irrigazione spruzzò una pioggerella attraverso la luce del sole. Girai intorno alla piscina per raggiungere gli spogliatoi, dove trovai un costume da bagno della mia misura. Uscii e mi tuffai in acqua. Era la prima volta che facevo il bagno in una piscina privata, anzi in una piscina in cui nuotavo da solo, ed era meraviglioso. Seguitai a tuffarmi e nuotare finché non sentii la stanchezza, e allora mi stesi sul cemento caldo per asciugarmi al sole. Ho sempre pensato che distendersi sul cemento scaldato dal sole del bordo di una piscina è una delle sensazioni più piacevoli che abbia mai provato. Poco dopo vidi Mistress Wallis attraversare il prato e dirigersi verso di me. Si era cambiata d'abito, ma era sempre in bianco. Vestiva sempre di bianco, non ho mai capito perché. Camminava pavoneggiandosi, facendo la parodia dell'elegantone, spalle indietro, esagerando il movimento delle braccia, un'espressione altezzosa sul viso. Aveva in mano un vassoio con due bicchieri riempiti di ghiaccio e una caraffa. - Limonata? - domandò. - Buona idea. Depose i bicchieri su un tavolo di ferro battuto e versò la limonata. Mentre me la porgeva, disse: - Hai una bella abbronzatura… per lo meno dalla cintola in su. Immaginavo che chi sta in prigione avesse la pelle bianchiccia… a parte, ovviamente, quelli di colore e i chicanos. - Ci permettono di lavorare a dorso nudo, a Wayside. - Una volta ero membro della commissione per la libertà vigilata della contea. - Non sapevo nemmeno che ne esistesse una. - Sì… almeno c'era… un bel po' di tempo fa. Era una donna molto amabile, che sprigionava una loquacità benevola e positiva. Era curiosa di me, e mi rivolse un'infinità di domande. Io rispondevo soppesando le parole, attento a non lasciarmi sfuggire qualche ingenuità. Per quale motivo doveva interessarsi di me? Era palese che la sua ricchezza superava i sogni di ogni cittadino medio. Che voleva da me? Se voleva un gigolò, avrebbe potuto sicuramente trovarne meglio di me. Nonostante la mia diffidenza, non potei fare a meno di sorridere e ridere. Mistress Wallis era cordiale e spiritosa. A un certo punto sul prato comparve una giovane donna in pantaloncini corti e un enorme cappello di paglia, con due bambini che le camminavano pigramente al fianco. Mentre erano ancora a una certa distanza, Mistress Wallis mi informò che era una vicina di casa, e: -…è stata la fidanzata di mio figlio, anche se aveva quattro anni più di lui… Strano, no? Col passare del tempo avrei imparato che Mistress Wallis spesso faceva domande del genere, con l'atteggiamento consapevole di una cospiratrice. Non c'era niente di malizioso. Era il suo modo di avvicinarti più a lei. - Suo marito sta girando un film con la Warner Brothers. Se "quelli" sapessero che viene qui… "ahimè", non sarebbero certo contenti. "Quelli"! A "chi" alludeva? Mentre i due bambini prendevano la rincorsa piombando in acqua come due piccole bombe, la giovane donna tese la mano mentre Mistress Wallis faceva le presentazioni. Non ricordo neppure chi fosse o come si chiamasse; ricordo soltanto che avrà avuto sui venticinque anni ed era molto carina, una bella corona di denti incorniciata da labbra carnose mentre mi sorrideva al momento delle presentazioni. Il suo arrivo fu un grosso vantaggio per me, in quanto mi risparmiò le domande affabili di Mistress Wallis. Si mise a sedere, e le due donne iniziarono a parlare. Io scesi in acqua per giocare con i bambini, un maschio e una femmina, di un'età compresa tra i sei e i dieci anni. Non ero (e tuttora non sono) bravo a determinare l'età dei bambini, tranne quella di mio figlio, che non è tanto più grande. Ci lanciavamo un pallone leggero nell'acqua. I due ragazzini nuotavano come pesci. Sarebbe potuto essere altrimenti? Erano due rampolli dell'alta borghesia della California del Sud. Il nuoto ce lo avevano nei geni. Minnie uscì per annunciare che c'era «Miss Wallis» al telefono. Miss Wallis era la sorella di Hal Minna Wallis della Famous Artists, e agente di Clark Gable e di altri attori. Col tempo avrei imparato che era una patita del poker e una spietata arpia negli affari. Louise Wallis si era allontanata da qualche minuto, quando decisi che era ora di andare. Il sole bianco di mezzogiorno si era tinto di arancione mentre formava un angolo più basso attraverso i tanti alberi che cominciavano a ondeggiare alla musica della brezza serale. La giovane donna chiamò i bambini. - Sta rinfrescando, - disse. La salutai con un cenno della mano, mentre uscivo dalla piscina aggrappandomi al bordo più lontano, in prossimità degli spogliatoi. Quando ebbi finito di asciugarmi e rivestirmi, la donna se n'era andata. Per raggiungere la casa dallo spogliatoio dovevo girare intorno alla piscina. Mentre camminavo lungo il lato più corto della vasca, non feci caso allo scalino che portava in acqua. Feci un passo, e prima finii con un piede per aria e dopo in un palmo d'acqua. Poi scivolai di fianco nella piscina. Chaplin non avrebbe potuto atterrare sul di dietro meglio di me. Raggiunsi l'entrata di servizio sgocciolante e mortificato. Minnie chiamò Mistress Wallis, che trovò la cosa comica. Dopo aver lasciato i miei abiti zuppi nella veranda e indossato uno degli accappatoi di spugna col monogramma di Hal, seguii Mistress Wallis al piano di sopra, nella stanza di suo figlio. All'epoca frequentava uno dei Claremont Colleges, e tornava a casa solo nel fine settimana. Nella stanza c'era una parete di libri, e le fotografie, le bandiere e l'equipaggiamento sportivo tipico del giovane americano dell'epoca. La chitarra acustica era un po' in anticipo sui tempi. La mania del momento era il sassofono. Dopo aver cercato nei cassetti e nell'armadio guardaroba, Mistress Wallis mi allungò un paio di Levi's (quelli che oggi chiamiamo i 501, erano gli unici che venivano prodotti nel 1950), una maglietta polo, e una giacca a vento corta di pelle scamosciata. Nel frattempo mi disse che il figlio aveva più roba del necessario, e mi fece un pacco dono. Poi trovò una borsa dove mise il tutto. - Adesso, regoliamo il tuo compenso, - disse, scortandomi in camera sua, che in realtà era una suite, con spogliatoio e una stanza da bagno separati. Si trovava sull'angolo della casa, le finestre che si affacciavano su due lati, a nord e a ovest, la luce obliqua del sole attenuata dagli alberi. Le ombre danzavano nella brezza. La stanza era grande, per metà camera da letto vera e propria, mentre un divano e un paravento creavano un altro spazio, occupato da un elegante scrittoio antico e dei mobiletti per i documenti. Un'enorme libreria ricopriva una parete. Riuscii a sbirciare qualche titolo. Molti volumi erano di psicologia, alcuni di religione. Per la prima volta vidi il nome di Pierre Tielhard de Chardin. Era un nome cosi mellifluo che mi ricordai di quella volta, quando mi ricapitò di vederlo. Tra i libri c'era anche "La personalità nevrotica del nostro tempo" di Karen Horney. Il libretto degli assegni di Mistress Wallis era grosso, sei assegni perforati su ogni pagina. La signora scrisse un assegno da ventitre dollari. Venti erano per il lavoro, tre per il trasporto del carico. - Percorri un isolato verso nord. Il tram ferma a Chandler e Woodman. Ti porterà direttamente alla stazione della metropolitana. - È lì che voglio andare. - Sai guidare l'automobile meglio di un camion? - domandò ridendo. Arrossii. - Oh, sì, volevo dire… era soltanto… - È stata colpa mia. Ti ho detto io di girare. Domani voglio che mi accompagni in giro per le mie commissioni. Ho l'artrite alle mani… - Me le mostrò. Le giunture erano gonfie, sintomo tipico della malattia. - Puoi essere qui per le dieci? - Ci sarò -. Portare a spasso una ricca signora per la città era cosa ben diversa dallo sgobbare sotto il sole, e venti dollari erano il doppio della paga di un operaio della General Motors addetto alla catena di montaggio. Mi incamminai verso il cancello e lo aprii da solo premendo il pulsante interno. Risalendo lungo i due grandi isolati di Woodman in direzione della fermata dei tram della Pacific Electric su Chandler Boulevard, vidi che stavano costruendo una zona residenziale di ville in stile ranch californiano. Alcune erano ancora soltanto degli scheletri in legno, altre erano state già intonacate, e da qualche parte, portato dalla brezza pomeridiana, mi giunse il tonfo ritmico di un martello. Ben presto arrivò uno dei tram rossi della Pacific Electric, in realtà due carrozze collegate, e si arrestò alla fermata. Sferragliando per una larga corsia nel mezzo dei due sensi della carreggiata, passò per North Hollywood, poi costeggiò Glendale e oltrepassò il tempio costruito da Aimee Semple McPherson e l'Echo Park con le sue barche elettriche, prima di entrare in un tunnel lungo più di un chilometro e mezzo in fondo a Glendale Boulevard. I binari finivano parecchio più in là della stazione della metropolitana, mezzo isolato a nord di Fifth Street su Hill. Affittai una stanza ammobiliata vicino a McArthur Park. Costava sette dollari alla settimana. Il bagno era nel corridoio, ma nella stanza c'era un lavandino. Mi andava bene. Sul pavimento c'era la moquette, ed era comoda. Era la mia. Chiusi la porta a chiave e schiacciai un sonnellino. Quando mi svegliai, era ormai ora di uscire nella notte di Los Angeles. Tutti sanno che il clima della California del Sud è mite d'inverno. Molti di meno sanno che nella City of Angels la notte è il momento migliore. Anche se di giorno si scoppia dal caldo, l'ora in cui il sole tramonta, la città si rinfresca e la temperatura è perfetta. M'incamminai verso il centro, a poco più di tre chilometri dalla stanza che avevo affittato, e andai a vedere "Cielo giallo" un ottimo western, recitato alla grande, con Gregory Peck e Anne Baxter. L'indomani mattina iniziò la giornata che si sarebbe ripetuta sempre uguale per parecchie volte la settimana nei mesi seguenti. Arrivavo alle 9. Talvolta Mistress Wallis era pronta per le nove e mezza, altre non prima delle undici. Mentre l'aspettavo, Minnie mi preparava una gigantesca colazione. Presto o tardi partivamo per le «commissioni» di Mistress Wallis. Imboccavamo Riverside Drive, se la meta era la Paramount, a Hollywood. Lei veniva sempre trattata con molto riguardo, anche se era vero che l'epoca in cui era stata una star del cinema era passata da un pezzo. - Io sono "ancora" Mistress Wallis, - diceva, e ammiccava in segno di intesa, come una cospiratrice. Hal Wallis, a dire di tutti, era un pezzo grosso del cinema. Mi pareva strano che non fosse mai negli studi quando capitavamo lì in visita. C'era sotto qualcosa? Possibile che Mistress Wallis volesse che lo facessi fuori? Magari era questo il motivo per cui s'interessava tanto a me e voleva sapere come la pensassi in proposito. A Mistress Wallis piaceva parlare, e io sono da sempre uno che ascolta volentieri. Un po' alla volta, a pezzi e bocconi, appresi la sua storia. Veniva da una famiglia povera, non alla miseria, ma da una modesta famiglia di operai. Nei primi dieci anni del secolo aveva abitato all'angolo tra Sixth e Kholer, e aveva lavorato alla Bishop Candy Company, tra Seventh e Central. L'avevano licenziata (anni dopo mi confidò che era stato per via di un aborto), perché era troppo cagionevole di salute per lavorare. Era in cerca di un altro lavoro. Una donna di nome Bertha Griffith, se non erro, le diede un passaggio e, scoprendo che aveva bisogno di un lavoro, la portò alla Keystone, dove Mack Sennett produceva le sue commedie. Fu assunta come attrice nella casa di produzione di Sennett perché sapeva guidare l'automobile, cosa rara tra le donne nel primo decennio del ventesimo secolo. Con le sue caratteristiche treccine, diventò una star del cinema muto. Non proprio una grande star, - precisò, - ma il successo durò per un bel po' -. In effetti, seguitò a lavorare di tanto in tanto anche dopo l'avvento del sonoro, anche se oramai era diventata la moglie di Hal B. Wallis, e non aveva alcun bisogno di guadagnarsi da vivere lavorando nel cinema. Quando una volta, a casa loro, vidi la statuetta degli Oscar assegnata a "Casablanca" come miglior film, Louise mi raccontò questa storia. Per un certo periodo Hal era stato a capo degli studi della Warner Brothers, e i fratelli Warner «lo amavano come un figlio», più o meno così affermò Mistress Wallis. Una decina d'anni dopo, anno più anno meno, i fratelli Warner e Hal Wallis divorziarono in malo modo, con tanto di astio e risentimenti reciproci. Alla cerimonia di premiazione degli Oscar del '42 o del '43, allorché venne annunciato il «Miglior Film», i tirapiedi di Harry Warner impedirono a Hal di lasciare il suo posto a sedere e salire sul palcoscenico. Si precipitarono su a ritirare l'Oscar. - Sostennero che il premio spettava di diritto agli studi… o qualcosa del genere. - E allora, come andò a finire? - domandai. - Oh, lo vedi bene dov'è, no? - Non so neppure perché l'ho chiesto. - Lo odiano. Non pronunciare il nome di Hal Wallis alla Warner. Gli ultimi anni in cui aveva lavorato lì, aveva arruolato giovani di talento, attori, cineoperatori, registi, e parecchi di un certo calibro, sulla base di contratti personali, non per conto degli studi. Quando se ne andò e fondò una casa di produzione indipendente alla Paramount, poco ci mancò che Harry Warner ci restasse secco. Mi venga un colpo se non è vero -. Era proprio divertente essere messo a parte dei pettegolezzi di Hollywood. Mi faceva sentire uno di loro, ecco. Spesso il nostro tragitto ci portava sulle colline e poi a Beverly Hills. Louise conosceva tanta gente famosa. Jack Dempsey era suo amico dal tempo in cui si era trovata all'apice della carriera negli anni ruggenti, quando, disse «Provavo di tutto, e quello che mi piaceva lo facevo due volte». Avendo saputo che avevo in mente di fare il pugile professionista, mi accompagnò negli uffici della sua agenzia immobiliare, in Santa Monica Boulevard, se ben ricordo. Lui mi fece tirare un colpo diretto, parandolo con la sua mano enorme. Il pugno risultò terribilmente fiacco, e io provai un po' d'imbarazzo. Doveva avere per lo meno una sessantina d'anni, e dava l'impressione che avrebbe potuto mettere fuori combattimento un mulo. Un'altra volta Mistress Wallis mi portò a trovare Ayn Rand, che lei conosceva perché Hal aveva prodotto il film tratto dal suo romanzo "La sorgente", che ancora non avevo letto. Andammo anche a casa di Aldous Huxley, un uomo alto e macilento. Tutto quello che ricordo è che la sua casa sapeva del pane che la moglie aveva appena cotto al forno. La visita più memorabile fu quella che facemmo mentre eravamo in viaggio sul Benedict Canyon, per una strada tutta curve strette e tornanti che scendeva a Beverly Hills. Le case erano poche, ed erano tutte sprazzi di tetti rossi dietro mura di cinta coperte di "bouganville". - Sai chi è William Randolph Hearst? - domandò. Più volte avevo sentito mio padre imprecare contro i giornali di Hearst, che per lui erano «fottuta propaganda fascista». E da qualche parte avevo saputo che il film "Quarto potere" si basava sulla vita di Hearst. - E ancora vivo? - Oh, sì… più o meno. - Il film lo diceva morto. - Oh, no, W.R. è ancora vivo. Meglio sarebbe, forse, se non lo fosse. Ha avuto un paio di infarti. Sono tre anni che non mette piede fuori dalla casa di Marion. È lì che siamo diretti -. Pochi minuti dopo, quasi parlando tra sé, soggiunse: - Dio, quanto ha odiato quel film, Marion. Anche lui, certo, ma lei… avrebbe ammazzato Welles… e Marion è una donna amabile e gentile… e buffa. In giro si dice che è diventata una diva solo grazie ai soldi di W.R., ma è stata una brava attrice di commedie leggere -. Mistress Wallis tacque, raccogliendo le idee. - Ci siamo divertiti, - proseguì. - Era quasi una vergogna, negli anni della depressione. W.R. faceva partire un piccolo treno privato che andava da Glendale a San Luis Obispo; Hollywood Train, lo chiamavano. Poi tutti si accalcavano nel corteo di limousine verso il "ranch". Ma come si faceva a chiamare San Simeon il "ranch"? Tutti volevano essere invitati. Chaplin era ospite fisso. Era bravo a giocare a tennis. Greta Garbo, John Gilbert. Li vedo ancora tutti quanti, a nuotare in piscina al chiaro di luna -. Fece altri nomi che sicuramente tanto tempo fa risplendevano nel firmamento della celebrità, ma non trovavano eco nei miei ricordi. Mi ricordai di Ken Murray, perché mio padre aveva lavorato dietro le quinte di "Blackouts", lo spettacolo di Ken Murray che aveva tenuto il cartellone a Hollywood per anni. Un giorno o l'altro mi avrebbe portato a vedere San Simeon, promise Louise. Da quel che mi ricordo, la casa dei Davies era su Beverly Drive, a nord di Sunset Boulevard, dove la Beverly incrocia Franklin Canyon, anche se qualcuno mi ha detto che la casa in cui vivevano era a Whitley Heights, sopra la zona più vecchia del centro di Hollywood. Scrivo basandomi sui miei ricordi, non dopo aver fatto delle ricerche, e nei punti in cui mi sbaglio, è perché la memoria mi fa difetto. Mai avrei pensato di raccontare tutto ciò, certamente non all'epoca cui risalgono questi avvenimenti. Marion Davies aprì la porta. Aveva cinquant'anni suonati, anche se alla luce soffusa dell'ingresso pareva più giovane. Era ancora evidente il motivo per cui Hearst, allora cinquantenne, si fosse invaghito di quella ventiduenne ballerina di fila. Dopo aver abbracciato Louise, si rivolse a me: - È Brent? Non lo vedo da quando… - Stese la mano all'altezza della cintola per misurare la statura di un ragazzina - No, no, questo è Eddie. È il mio figlio infrasettimanale, dal lunedì al venerdì. Brent torna a casa soltanto per il fine settimana. Marion sorrise affettuosamente e mi tese la mano. - Hai una madre infrasettimanale molto in gamba. Siamo amiche da tanto, tanto tempo. Marion Davies ci condusse in un salotto, dove le due donne presero a parlare di Zasu Pitts, un'amica comune malata di cancro che aveva appena subito un intervento chirurgico. Marion disse che Zasu stava bene. Il cancro era stato asportato. Mentre parlavano, chiesi permesso di andare in bagno. Marion mi condusse nell'ingresso e mi spiegò come raggiungerlo. Quando tornai, erano sparite. C'era una portafinestra che si apriva su un terrazzo; vidi uno sprazzo di bianco e mi avviai da quella parte. I mattoni del terrazzo, screziati dalla luce del sole che filtrava attraverso un olmo gigantesco, erano macchiati dalle bacche rosse schiacciate di un cespuglio che aveva ricoperto la balaustra in muratura. Un paio di scoiattoli squittivano scorrazzando sui rami di un albero. C'era una distesa di piante selvatiche sul declivio davanti all'ampio terrazzo. Lo sprazzo di bianco era l'uniforme di un'infermiera. La donna aveva in mano un vassoio ed era passata da un'altra porta. Dietro di lei, al tepore di un quadrato di luce, c'era un uomo seduto in carrozzella. Mi accostai, con l'intenzione di domandare se avesse visto Marion e Louise, ma quando gli fui più vicino cambiai idea. La sua faccia mi era familiare. Dovevo averla vista in qualche cinegiornale o sulla rivista «Life», o da qualche altra parte, o magari m'immaginai soltanto di riconoscerla. Ciò che sapevo di quell'uomo si basava sul film di Orson Welles e sull'avversione di mio padre per lui, ma per qualche ragione sentivo che quell'uomo rappresentava la ricchezza e il potere oltre la misura stessa della mia immaginazione. Vidi soltanto una grande mandibola e un enorme cranio rotondo con qualche ciuffo di capelli grigi. Voltò il tronco per guardarmi con quei suoi occhi acquosi. Mi trovai in preda al panico perché costui era un uomo che aveva parlato a tutta l'America tutte le volte che ne aveva avuto voglia. I presidenti degli Stati Uniti lo avevano interpellato, e Churchill era andato a trovarlo nella casa sul mare di Marion, a Santa Monica, per lo meno in base a ciò che mi aveva riferito Louise Fazenda Wallis. Ma quando si voltò e storse la bocca per parlare, vidi la fragilità di un vecchio decrepito e malato. Per la prima volta in vita mia compresi in modo viscerale la verità che tutti gli uomini sono mortali. Disse qualcosa che suonò all'incirca «Mam», spruzzando saliva all'angolo della bocca. - Cosa? - domandai, sporgendomi in avanti. - Marion, - disse, o così mi parve. - Vado a cercarla, - dissi, girando rapidamente sui tacchi. Stava arrivando l'infermiera. - Dove posso trovare Miss Davies e Mistress Wallis? - Erano dirette in cucina. Quando le trovai stavano uscendo dalla cucina. Riferii a Marion Davies di Mister Hearst, e lei arrossì, ma non fece commenti. Eravamo nell'ingresso. Mistress Wallis annunciò che era ora di andare e promise a Marion che si sarebbero riviste presto. Ci salutammo molto cordialmente, ma Miss Davies era palesemente turbata, quando ci accompagnò alla porta. Mentre scendevamo in automobile verso la valle passando per la zona di Hollywood Hills denominata Beverly Hills Post Office, non riuscivo a scacciare dalla mente l'immagine di William Randolph Hearst e seguitavo a pensare a quanto avevo visto in "Quarto potere". Non riuscivo a tenere separati ciò che avevo saputo fino a quel momento da ciò che avevo appena appreso, ma, senza pensarci, avevo ritenuto che i giganti non diventassero mai vecchi e indifesi. Questo segnò veramente il mio ingresso nella consapevolezza dell'egalitarismo finale della fragilità e della mortalità degli uomini. Non ho mai desiderato diventare tanto vecchio da ritrovarmi in questo stato di impotenza. Dio, però, che vita aveva vissuto fino a quel momento! Qualche volta le "commissioni" di Mistress Wallis erano proprio tali, salti al supermercato o al vivaio, oppure visite ad amici non particolarmente benestanti. Alcuni li conosceva dai tempi della sua attività cinematografica, come la donna che le faceva i capelli e li tingeva color platino, senza mai ottenere mai esattamente lo stesso colore per due volte di seguito. La sua compagnia era divertente. Una volta, in Riverside Drive, fortuitamente passai col rosso. Mistress Wallis esclamò - "Trucha… la jura"! - Era autentico idioma del barrio per dire «fermati, gli sbirri», e mi parve molto buffo, detto da una signora. Un'altra volta Mistress Wallis si era dimenticata la chiave che si girava sotto il citofono per aprire il cancello. Erano circa le undici di notte. Anziché svegliare la servitù, si tolse le scarpe, le gettò dall'altra parte, mi fece intrecciare le dita e sollevarla finché riuscì a salirmi sulle spalle e scavalcare il cancello. I suoi modi di fare così immediati e alla mano suscitavano in me ondate di affetto. Ormai mi ero convinto che non voleva né un gigolò, né un sicario; voleva semplicemente aiutarmi, anche se io non riuscivo a immaginarne il motivo. Neppure Al ed Emily Matthews riuscirono a darmi una risposta in merito, quando glielo domandai. - Aiuta la gente, tutto qui, - risposero. - A caval donato non si guarda in bocca. Soltanto parecchi anni dopo Mistress Wallis mi raccontò la storia della sue attività filantropiche, che erano state sempre personali e individuali, svincolate da una qualsiasi organizzazione. Non comparve mai nelle fotografie di quello o di quell'altro comitato di dame dedite alla beneficenza. Faceva le sue opere di bene da sola e senza fare rumore, anche se il suo necrologio fu intitolato "L'Angelo di Hollywood". Negli anni venti aveva ballato il "charleston" e il "black bottom", conosciuto Al Capone e i «ragazzi di Chicago…» Una volta stava con un ragazzo, un pugile professionista, che lasciò una valigia a casa sua. Poco tempo dopo arrivarono gli agenti della squadra narcotici e venne fuori che la valigia era piena di morfina. Ci godeva a raccontare quelle storie piccanti, ma era anche capace di essere seria, e assunse un tono serio quando mi raccontò il motivo per cui si era dedicata alla beneficenza. - Volevo un bambino, e non riuscivo a restare incinta. I dottori diagnosticarono che l'aborto cui mi ero sottoposta mi aveva provocato delle lesioni interne. Ad ogni modo, andai in vacanza in Francia, sul "Normandie". Incontrai gente di Hollywood, e un giorno andammo a Lourdes. Sai di Lourdes, no? - Be', ho visto il film con Jennifer Jones. - Esatto. Naturalmente era dall'ora di pranzo che non facevamo che bere, ed era ormai sera quando andammo a vedere. Fu molto commovente, centinaia di persone in fila con le candele che procedevano su per la collina che conduceva alla grotta dove avevano visto apparire la Vergine. Senza pensarci, mi misi in fila, e quando arrivai alla grotta promisi che se avessi avuto un bambino, avrei passato il resto della mia vita ad aiutare gli altri. - Tre mesi dopo ero incinta. Da allora, nei diciotto anni che seguirono, aveva mantenuto il voto. Durante la Seconda guerra mondiale, aveva ospitato a casa sua due bambini usciti indenni dal bombardamento di Londra. Aveva aiutato parecchie ragazze madri. All'epoca era ancora una vergogna senza pari avere un bambino al di fuori del matrimonio, e l'aborto era illegale. Dopo aver accolto una ragazza, provveduto ai suoi bisogni, pagato per il parto, e fatto in modo che il bambino fosse adottato da un regista (che lei definì «ben noto», senza tuttavia farne il nome), nel mondo del cinema si diffuse la notizia, così le vennero raccomandate altre ragazze. Mi raccontò che una volta si era data da fare per mandare una ragazza ad abortire a Tijunana. - Ma non lo farò più, - aggiunse. Uno dei suoi maggiori impegni era la Casa di Accoglienza per Ragazzi McKinley. Occupava una superficie di oltre sedici ettari tra Riverside Drive e Woodman dai tempi di William McKinley. Ospitava un centinaio di ragazzi tra i cinque e i diciassette anni, per lo più di famiglie sfasciate, molti figli di alcolisti. Alcuni venivano inviati li dal Tribunale dei Minori. Era la principale benefattrice della McKinley. Offrì il suo sostegno finanziario per un ragazzo cresciuto lì che voleva studiare alla University of Chicago. Quel ragazzo poi sarebbe diventato il direttore della McKinley. Aiutava anche la Notre Dame High School. Per anni cercò di aiutare anche Edward G. Robinson junior, un ragazzo bello ma molto tormentato, incline a mettersi nei pasticci, destinato a morire precocemente, per troppa ricchezza e scarso senso di responsabilità. Mistress Wallis mi confessò anche che pensare alle difficoltà degli altri era una medicina per le sue. In quel momento mi chiesi quali difficoltà potesse avere. Più o meno una settimana dopo lessi in un giornale un articolo scandalistico sul «regista delle dive» Hal Wallis e sulla sua ultima "protégée", la cantante Lizabeth Scott, celebre per la voce rauca, e mi tornarono in mente certe allusioni e insinuazioni. In seguito, dissi a Louise Wallis che si diceva in giro che Lizabeth Scott fosse lesbica. - Anch'io l'ho sentito dire, - confermò. - Se è vero che è lesbica mi chiedo cosa si possa dire di Hal. Come quasi tutti quelli che erano passati per il riformatorio, anch'io mi ero fatto dei tatuaggi grossolani con l'inchiostro di china. Nella striscia di pelle tra il pollice e l'indice, dove per lo più gli altri si facevano tatuare una croce di "pachuco", io mi ero fatto fare un diamante. Stava a significare la mia fedeltà a La Diamond, l'unica banda giovanile interrazziale dell'epoca. Sulla parte alta del braccio avevo tatuato W.S.S. e P.S.I., la S centrale comune ad entrambe le scritte, una che si leggeva in orizzontale, e l'altra in verticale: Whittier State School, Preston School of Industry. Nel mio universo notturno, che seguì quando lasciai Mistress Wallis per battere le strade dei bassifondi, essere stato al riformatorio non era affatto una vergogna. Anzi, era una sorta di crisma. In occasione di una delle mie visite allo studio di Al Matthews, Emily mi chiamò in disparte e annunciò che Mistress Wallis era disposta a pagare perché mi facessi cancellare i tatuaggi. La cosa mi andava e, grazie al cielo, la mia deturpazione era limitata. Molti miei compagni erano illustrazioni ambulanti. Una settimana dopo un chirurgo plastico di Beverly Hills cancellò i tatuaggi dal mio corpo. Quel che mi restava tatuato nel cervello era tutt'altra faccenda. Le notti e i fine settimana li passavo tra la malavita. Avevo affittato una stanza ammobiliata in un residence nei pressi di MacArthur Park, meno di un chilometro a ovest del centro di Los Angeles. Con tutto che ero appena sedicenne, e non sembravo più grande della mia età, frequentavo abitualmente il Robin's Club su Eighth Street. Era letteralmente un covo di ladri, per lo più specializzati nella truffa «mordi e fuggi». Il Fiammifero, la Cintura, il Trucco della Banconota (una variante del «gioco delle tre carte») erano i trucchi più comuni. I giorni delle truffe «a lungo termine» erano finiti. In una truffa «mordi e fuggi», ci si limita a sgraffignare quanto il malcapitato ha indosso. La truffa a lungo termine, il nome stesso lo dice, e un buon esempio di truffa «a lungo termine» è l'imbroglio della sala di allibratori del film "La stangata". C'erano anche specialisti dei registratori di cassa e qualche scassinatore. Erano ladri che rifiutavano per principio le rapine a mano armata e l'uso della violenza. Una sera Sully, il barman del Robin's che faceva anche l'esattore (raccoglieva le tangenti e le passava ai piedipiatti dell'antitruffa) informò i truffatori che Los Angeles non era più agibile. I truffatori non potevano più lavorare all'aperto, sotto le pensiline delle stazioni ferroviarie e degli autobus, in cui si perpetrava il novanta per cento del giro di imbrogli «mordi e fuggi». La gente che si mette in viaggio in genere si porta un bel po' di quattrini addosso. Quando i truffatori erano in giro a «spremere i merli», i piedipiatti li lasciavano ripulire chiunque era in viaggio e sparivano dalla circolazione per evitare di dover intervenire. Dall'oggi al domani, però, i truffatori si ritrovarono banditi dal loro territorio. Non potevano girare per le stazioni perché gli investigatori dell'antitruffa li conoscevano di vista. Ciò nonostante, dovevano tirar su soldi. Molti erano tossici, i più vecchi si facevano di morfina, i più giovani di eroina. Charley Baker e Piz the Whiz, che avevo conosciuto alla prigione della contea, mi chiesero se conoscevo il trucco del Fiammifero o della Cintura. Anche se me l'avevano spiegato, illustrandomelo anche con una dimostrazione pratica, non mi ero mai prestato a fare il truffatore, che è abbastanza simile al lavoro dell'attore che memorizza un copione prima di interpretarlo. In effetti, tutta la bravura del truffatore sta nella parlantina, nella capacità di seguire alla lettera un dato copione. Scossi il capo. - Non importa. Non ti chiediamo di agire in prima persona. Ci basta che ci rimedi il pollo -. Sarei dovuto andare nelle stazioni, trovare i merli da spennare, e poi attirarli nella trappola rigirandoli con le chiacchiere che mi avrebbero insegnato loro. Dovevo convincerli a uscire fuori, sui marciapiedi del centro, dove si sarebbe perpetrata la truffa vera e propria. Di solito l'adescatore si appostava all'interno, ma Charley e Piz si sarebbero occupati, uno alla volta, del bamboccio dopo che io l'avessi convinto ad uscire. Mi avrebbero dato un terzo dei soldi. Mi interessava? Mi interessava molto. Ero curioso di assistere allo svolgimento di queste truffe, perché l'intera faccenda mi sembrava fare acqua da tutte le parti. Ero curioso di vedere qualcuno cadere nella trappola. E poi, era una nuova avventura, e io ero sempre pronto per le nuove avventure. Presi a girare tra la folla alla stazione dei Greyhound del centro, alla ricerca di giovanotti coi capelli corti, i vestiti alla bell'e meglio. Probabilmente chiunque rispondesse a questa descrizione poteva essere un militare in trasferta da una base all'altra, il che significava che aveva qualche centinaio di dollari in contanti, e qualche centinaio di dollari nel 1950 corrispondeva a qualche migliaio di dollari mezzo secolo più tardi. - Salve, amico, a che distaccamento sei assegnato? - Se la risposta era fredda o ostile, prendevo subito il largo, come uno squalo a caccia di una preda più facile. Se rispondeva «Saint Louis» o «Oklahoma City» o un'altra città qualsiasi, domandavo: - Con quale autobus vai? Qualunque fosse la sua risposta, io esclamavo: - Anch'io! Comunque non si parte prima di un'ora - (o fino all'ora di partenza di quell'autobus). Poi gli raccontavo di certe cameriere che avevo conosciuto. - Certe curve… mmmm, mmmm, mmm. Forza, andiamo a fare un salto da loro. Ti offro da bere. Se accettava di venire con me, una volta in strada, prima prendevamo in una direzione, poi io cambiavo idea: - No non da questa parte. Vieni -. L'idea era di esercitare un potere su di lui, agire da «capo». A distanza di mezzo isolato, compariva Charley Baker. - Ehi, amico, - mi faceva. - Ti stavo proprio cercando. Le pollastrelle stanno aspettando. Andiamo -. E così tutti e tre ci incamminavamo per il marciapiede affollato. Al successivo isolato, interveniva Piz the Whiz, di solito simulando un accento irlandese o australiano, oppure l'inflessione di un campagnolo. Faceva finta di essersi perso. Poi ci confidava che si trovava a Los Angeles per conto di sua sorella, per sbrigare una faccenda di successione del cognato: - Anche a me è andata piuttosto bene. Ci ho alzato un extra di ottomila dollari di cui lei non sa niente -. Faceva una lunga strizzatina d'occhio, e l'altro che gli teneva bordone mormorava al gonzo: - Questo qui ha appena fregato ottomila dollari alla sorella. La conversazione che seguiva rispettava essenzialmente un copione tra il secondo truffatore e il compare che gli teneva bordone, con quest'ultimo che di tanto in tanto dava un colpetto di gomito o sussurrava qualcosa al fessacchiotto. Il secondo truffatore parlava a voce alta, usando modi grossolani, e spesso faceva finta di essere mezzo sbronzo. A un certo punto diceva che aveva voglia di giocare d'azzardo. - Testa o croce. Testa vince contro due croce. Croce vince contro due testa. Il primo truffatore mormora al fessacchiotto: - Proviamo a fregare questo figlio di puttana che ha rubato alla sorella. Tu fa testa. Io faccio croce. Uno di noi due deve vincere. Faremo a mezzo della vincita. Mentre ci si prepara a gettare le monete, il primo truffatore dice: - Questa vale trecento dollari -. Tutti lanciano le monete. - Ho vinto io! Il secondo compare dice: - Perdio… è proprio vero -. Tira fuori un grosso rotolo di banconote, solitamente un rotolo di biglietti da un dollaro, oppure semplici pezzi di carta, avvolti in un biglietto da venti dollari. - Ecco, tieni, - e paga il primo compare, che tira fuori un portafoglio con una cerniera sui tre lati. Lo apre e ripone i soldi all'interno. Forza, andiamo, - dice al fessacchiotto. - Abbiamo appena fatto centocinquanta a testa. Dopo aver fatto una ventina di metri, vengono rincorsi da Piz the Whiz. - Ehi, aspettate un momento. Come faccio a sapere che mi avreste pagato in caso avessi vinto io? Ce li hai i trecento dollari, no? - Sì, come no. Lo sai che ce li ho. - Non so se lui ce li ha. - Tu ce li hai, no? Il merlo annuisce. - Questo lo dici tu, ma io non ti ho visto cacciare i soldi. Che, vi siete messi in combutta contro di me? È meglio che chiamo un poliziotto -. E Piz incomincia a guardarsi intorno, cercando una macchina della polizia. - Faglieli vedere, - dice Charley, facendo l'amicone, e bisbigliando - Cristo, i piedipiatti meglio tenerli alla larga. Mentre il merlo tira fuori i soldi, Piz chiede che paghi. Se il fessacchiotto li tiene nel portafoglio, è costretto ad aprirlo con entrambe le mani per cercare nel compartimento dei soldi. Nel mentre quello procede, il primo truffatore gli strappa il portafoglio di mano. Quanto c'è dentro? Se il merlo dichiara una somma inferiore all'importo della scommessa, il primo truffatore puntualizza: - Gli devo la differenza, - e fa per dargli i soldi. A quel punto Piz incomincia a strillare: - Voi due siete in combutta! Polizia! - No, no. Non siamo in combutta. - Tu gli stavi ridando i soldi. - No, non è vero -. Tira fuori il portafoglio con la cerniera, lo apre, e ci mette dentro i soldi. (In realtà ha due portafogli identici, uno dei quali con una cerniera difettosa che non si apre). - Forza, andiamo -. Fa per andarsene insieme al merlo. - Amico, stavamo per metterci nei guai con i piedipiatti. Non preoccuparti. I tuoi soldi ce li ho io. Divideremo a metà. Piz nuovamente si dà all'inseguimento dei due, stavolta strillando che lui è sicuro che andranno a dividersi i soldi. - Fermatevi! Polizia! Charley, il primo compare, seguita a fomentare la paura nel merlo: - Cristo, se chiama un piedipiatti siamo nei guai. Fermati! - Si rivolge a Piz: - Lasciaci in pace. Vattene. Non siamo insieme. - Allora tu vai da una parte… e tu dall'altra. L'ultima mossa è che i due si separano. Meglio se succede all'angolo di una strada. Il primo truffatore bisbiglia al merlo, - Ci vediamo alla stazione degli autobus -. Poi si avvia in una direzione, il merlo prende l'altra, e Piz resta all'angolo, a guardare da entrambe le parti. Se il merlo si allontana, dà il segnale convenuto che tutto va liscio: si strofina lo stomaco. In effetti, durante lo svolgimento della truffa è prevista tutta una serie di motti per segnalare quando è ora di passare alla mossa successiva che figura nel copione. Può capitare che all'ultimo momento il merlo recalcitri, non volendo perdere di vista i suoi soldi. Se non si riesce a sganciarlo, Charley fa: - Ecco, prendi tu i soldi e aspettami alla stazione degli autobus -. A questo punto consegna il portafoglio con la cerniera difettosa al merlo, che non riuscirà ad aprirlo. Questo però è un espediente che si usa soltanto nei casi estremi. La truffa si svolge in modo tale che la vittima non ha sentore del pericolo finché non scatta la trappola. Fino a quel momento, in effetti, non ha rischiato nulla, ed è convinto di aver carpito centocinquanta dollari a uno sporco figlio di puttana che ha fregato la sorella. La Cintura è sostanzialmente uguale alla truffa del Testa o Croce, solo che lo stratagemma non si basa sul lancio delle monete, ma su una particolare abilità: ficcare una matita al centro di una cintura arrotolata. Il Trucco della Banconota è un imbroglio sul resto dei soldi: al momento di comprare qualcosa si dà una banconota, poi si decide di pagare con un altro biglietto, e quindi il raggiro è nel calcolo del resto. Conosco dei truffatori che praticamente ci provano con tutti i cassieri. Non funziona con i cassieri di una certa esperienza, ma le novelline addette alle casse sono facile preda di questi artisti della truffa. Tutti questi trucchi li avevo imparati alla prigione della contea e alla colonia agricola penale, oltre ai vari segnali utilizzati da truffatori, taccheggiatori e bari. In effetti, chi sa usare bene un trucco, li sa usare tutti. Strofinarsi la pancia significa «O.k., va tutto liscio». Tirarsi l'orecchio significa «Filiamocela». Tirarsi la manica vuoi dire «Tirami fuori di qui». Grattarsi il naso significa «Passiamo alla mossa successiva». Sedersi nel bel mezzo di una partita di carte col pugno chiuso sul tavolo indica «Sono un baro e voglio giocare». In risposta, distendere il palmo della mano sul tavolo informa il baro che può procedere, il pugno chiuso blocca l'azione. Assorbivo tutto, indiscriminatamente. Anche il gergo in rima, "la lingua franca" tramandata dalla Londra del diciassettesimo secolo. La chiave del senso era la rima. «"Botlle and stopper on the hammer and tack"» significa «"there's a copper on your back"», ovvero «hai un poliziotto alle calcagna». «"Oscar hocks"» diventa «"socks"», i calzini. «"Roses and reds"» significa «"bed"», il letto. «"Plates of meat"» significa «"feet"», i piedi. Si associa questa lingua rimata con l'idioma circense, e certe frasi assolutamente oscure quali «"Beazottle steazopper iazon the heazammer"», sono chiare come il giorno tra la malavita. Solo chi aveva familiarità con i ladri poteva padroneggiare questo gergo facilmente. Una sera mi trovavo al Traveler's Café di Temple Street, tra Figueroa e Beaudry. Un passaggio a volta separava il caffè dalla sala biliardo adiacente. Gran parte dei frequentatori abituali del locale erano chicanos o filippini, con un loro andirivieni di puttane dai capelli biondi tinti. Mi dissero che a loro piacevano i clienti filippini, perché non erano troppo dotati. Lo facevano alla svelta e per di più apprezzavano i pompini, che per una puttana è il modo più veloce e più facile. Mi piaceva fare lo spettatore, in locali come questo, e non sapevo mai che avventura mi sarebbe accaduta dopo. Wedo Gambos, che in seguito, al penitenziario, sarebbe stato chiamato Wedo Karaté, quella sera capitò al Traveler's Café. Aveva gli occhi dilatati. Era già un tossico, e ogni tanto spacciava. Cercava ansiosamente qualcuno. Vedendomi seduto al banco, si avvicinò. Immaginavo che non mi avrebbe mollato finché non gli avessi sganciato i soldi per farsi un buco, ma aveva altro per la testa. Fuori, dietro l'angolo, lo aspettavano due messicani immigrati clandestini con due sacchi di iuta pieni di erba. - Cazzo, più di quaranta chili, dichiarò. - Chiedono cento dollari per tutti e due i sacchi. Io ne ho solo trenta, amico. Se tu ci metti il resto, li compriamo in società. Valeva la pena dare un'occhiata, così uscii fuori e andai fino all'angolo della strada. Come aveva detto, a bordo della macchina abbozzata di Wedo (la portiera posteriore sinistra era tenuta chiusa con del filo di ferro) c'erano due messicani, due cappelli di paglia in testa, che non parlavano una parola d'inglese. Sul pavimento dell'automobile, ai loro piedi, due grossi sacchi di iuta imbottiti come due enormi salsicce. Odore di erba, senza dubbio. - Dove possiamo andare per controllare? - domandò Wedo. - A casa tua, - risposi. - No, no. C'è la mia vecchia e il bambino. Andrebbe in bestia. Andiamo in camera tua. Cosi facemmo. Parcheggiammo nel viale e salimmo per la scala posteriore, seguiti dai messicani col carico dei due grossi sacchi sulle spalle. Una volta in camera mia, tolsi il lenzuolo dal letto e lo distesi sul pavimento. I messicani rovesciarono uno dei sacchi sul lenzuolo. Era un bel mucchio di marijuana. Non erano i germogli multicolori senza semi ad alto potenziale che producevano gli orticultori molto in voga della Humboldt County. Era «erba» nel vero senso della parola, piena di gambi e semi, ma era la marijuana dell'epoca, quella che tutti compravano a un dollaro per ogni spinello, due dollari per tre spinelli, e dieci dollari la scatola (una scatola di tabacco Prince Albert, ad essere precisi), e ce n'era tanta. Era stata pressata in blocchetti, che però si stavano sgretolando, lasciando fuoriuscire i semi. Forse erano quaranta chili, forse una trentina o poco più, ma erano perlomeno duecento scatole da dieci dollari l'uno. Non potevo sbagliarmi. Solitamente Mistress Wallis mi dava venti dollari al giorno, ma ogni venerdì mi allungava sessanta dollari per il fine settimana, e io ne avevo altri dieci da parte. Wedo era mezzo chicano e parlava spagnolo. Quelli chiedevano cento dollari americani. Lui ne offrì ottanta e promise che gli altri venti li avrebbero avuti in seguito. Accettarono. Ero entrato nel traffico dell'erba. Durante la settimana accompagnavo Mistress Wallis nei suoi giri, e di notte e nel fine settimana vendevo l'erba. Ed era roba anche piuttosto buona, almeno per quei tempi. Nel giro di poche settimane avrei potuto comprarmi ciò che desideravo di più: un'automobile. Io e Wedo le rimiravamo sempre nelle aree di parcheggio con la brama struggente dei poveri. - Devo risalire la costa fino a San Francisco, - annunciò un giorno Mistress Wallis. - Devo fare un sopralluogo per gli esterni di un film di Hal. Vuoi venire tu, oppure devo trovarmi qualcun altro alla McKinley? - Oh, no, sarei ben felice di accompagnarla. Non ho mai visto San Francisco. - Sarà un bel viaggio. Stiamo bene insieme noi due, non è vero? Era vero. Mi piaceva la sua compagnia al pari, se non più, di quella di una qualsiasi sedicenne nubile di mia conoscenza. Alcune avevano il seno alto e il culo tondo, e potevano suscitare un desiderio quasi accecante, per quanto era feroce, ma ignoravano puntualmente qualunque cosa trascendesse il mondo mutilato della strada. Non riesco a ricordarmi nessuna che avesse mai letto un libro. Fiorivano nelle crepe delle strade dei bassifondi, piene di petto e vuote di zucca, e non erano altro che il semplice riflesso del mondo in cui erano cresciute. Non avevo mai conosciuto figlie di medici o di avvocati. Louise Fazenda Wallis era spiritosa, saggia, e coltivava tanti interessi. Aveva storie formidabili da raccontare: Capone che mandava i suoi emissari a prenderla alla stazione quando lei arrivava a Chicago, Hollywood all'epoca d'oro del cinema muto. Era stata amica intima di Mabel Normand, Desmond Taylor, e Louise Brooks. Mi fece conoscere un mondo che non avrei mai immaginato di vedere con i miei occhi. La mia idea del successo era diventare proprietario di un locale, indossare abiti di Hickey–Freeman, guidare una Cadillac, e farmi vedere in giro con una bionda con la stola di visone. Mistress Wallis piantò in me il germe di sogni più grandiosi. All'epoca non c'era un'autostrada per San Francisco. Ventura Boulevard era la Us 101. Oltre Sepulveda Boulevard si apriva un territorio per lo più deserto, punteggiato da qualche agrumeto. Le città di Encino, Woodland Hills e Tarzana erano piccoli villaggi. Superammo un gruppo di bambini a cavallo senza sella e a piedi nudi sul bordo dell'autostrada, che era fatta soltanto di due corsie che si snodavano lungo il fondo valle delle Santa Monica Mountains. Tra Tarzana (così chiamata perché vi abitava il creatore di Tarzan) e Thousand Oaks ci fermammo nei pressi di un recinto di animali selvatici, nel mezzo di un boschetto di eucalipti. È qui che gli studi cinematografici venivano a noleggiare i leoni, le tigri e gli elefanti. Mistress Wallis conosceva un tale a Tarzana dai «vecchi tempi». La grossa e pesante station wagon sulla quale viaggiavamo divorava la strada. Dopo aver superato un valico di mezza montagna, discendemmo in un'ampia vallata e nella Ventura County; il paesaggio era una rigogliosa distesa di terra coltivata. Il sole bruciava, e i campi pullulavano di raccoglitori ricurvi sul loro lavoro. - Fragole, - commentò Mistress Wallis. Quasi a conferma di quanto aveva appena detto, un camion bancarella sul bordo della strada mostrava una scritta: fragole fresche. Più avanti si estendevano campi di erba medica: cresceva rigogliosa sotto gli spruzzatori roteanti che schizzavano goccioline scintillanti nell'aria. Poi incontrammo filari di alberi che non riconobbi. - Che sono quelli? - Alberi di noce. - Cresce tutto in California. - Proprio così. Passata la città di Ventura, l'autostrada seguiva la costa. La grossa station wagon pareva gareggiare con la spuma rombante dei frangenti per chilometri e chilometri. Il traffico era scarso, e stavo procedendo a velocità sostenuta, quando vidi la mia prima automobile sportiva, una spider Jaguar X.K. 120. Era color argento e procedeva a velocità sostenuta; dapprima mi apparve nello specchietto retrovisore, poi mi superò sfrecciando. - Mi compri una di queste, - dissi. La feci ridere. - Ti piace, eh? - Oh, sì -. In quel momento non sapevo neppure che automobile fosse, sapevo solo che era uno schianto e che correva come un razzo. - Non so se comprartela… ma potrebbe essere tua… Potresti avere tutto ciò che desideri, se lo vuoi con tutta l'anima -, Fece una risata. - Sono una che crede nella perseveranza. È il requisito numero uno del successo. Dopo aver pranzato a Santa Barbara, raggiungemmo Pismo Beach, dove Mistress Wallis fu ricevuta da un amministratore municipale. Era al corrente delle esigenze di Mistress Wallis, e poteva offrirle un ventaglio di possibilità. Mistress Wallis aveva con sé una macchina fotografica, e scattò qualche istantanea. Era ormai metà del pomeriggio, quando finimmo a Pismo Beach. - Credo che oggi non ce la faremo ad arrivare a Monterey, - annunciò dopo che ci fummo rimessi in viaggio. - Fermati e dammi il tempo di fare una telefonata. Al Madonna Inn, poco più a sud della piccola San Luis Obispo, aspettai in macchina mentre Mistress Wallis entrava per fare la sua telefonata. Tornò con un largo sorriso. - Ho chiamato Marion. Trascorreremo la notte a San Simeon -. Era visibilmente eccitata, ma io ne ignoravo il motivo, per cui mi limitai a prenderne atto senza reagire. - In "Quarto potere", - soggiunse, - ti ricordi di Xanadu… «il maestoso palazzo di delizia», o qualcosa del genere. Di Xanadu mi ricordavo, ma vagamente, perché quel film di fantasia mi era parso un'esagerazione, e l'avevo rimosso. Non era assolutamente verosimile. Mi sbagliavo, naturalmente. Sopra San Luis Obispo lasciammo la Us 101 per immetterci nella California Highway I. Da Morro Bay verso nord, la stretta autostrada costeggiava le scogliere sopra l'Oceano Pacifico che si frangeva sulle rocce frastagliate. Gli alberi erano piegati da un vento perpetuo; le radici parevano penetrare dentro le stesse rocce. I gabbiani si libravano in aria e stridevano. Non c'era praticamente traffico di sorta. Sotto, le foche si crogiolavano al sole. - La prima volta che sono venuta qui, - disse Mistress Wallis, - questa strada in gran parte non era ancora stata asfaltata. Fammi pensare, Hal e io eravamo in macchina con Marie Dressler. Ti ricordi di lei? Scrollai il capo. - Ah, quanto è effimera la fama, - esclamò Louise. - Era una grande diva negli anni trenta. - Forse l'ho vista, solo che non me ne ricordo il nome. - Tutti chiamano San Simeon il Castello Hearst. Lui lo chiamava il "ranch". Dai retta a me, è più un castello che un "ranch"… anche se ha un terreno tra gli ottanta e i centomila ettari… -… "Centomila ettari"? - All'incirca. Gran parte di quella terra è praticamente senza valore. La cosa bella erano le lunghe passeggiate a cavallo, il sabato. C'erano giraffe e branchi di zebre allo stato brado. Ci ritrovavamo in mezzo al nulla, quand'ecco che, all'ora del pranzo, comparivano i domestici con i tavoli ricoperti di tovaglie di lino sotto gli alberi di quercia selvatici, con gli gnu o qualche altro animale fermi lì a guardare. Avevi l'impressione di trovarti nel Serengeti National Park -. Esplose nella sua risata sonora che faceva sempre sorridere la gente. Era visibilmente compiaciuta quando mi raccontò che W.R. aveva trasportato i soffitti di un'abbazia del decimo secolo e poi li aveva utilizzati come copertura di un alloggio per gli ospiti. - Ci sono due piscine. La piscina coperta costa due milioni di dollari, e nessuno l'ha mai usata ad eccezione dei domestici. Figurati. Difficile figurarselo. Due milioni di dollari per una piscina! Quando attraversammo il piccolo villaggio di Cambria, Mistress Wallis mi raccontava con brio e trasporto un aneddoto dietro l'altro. Avvicinandoci, la prossimità al posto le rinfrescava la memoria. - Non dimenticherò mai la ragazza che Chaplin una volta portò con sé a San Simeon. Avrà avuto… sedici anni, forse… e con questo gli concedo il beneficio del dubbio. Ragazzo mio, a lui piacevano giovani. La ragazza non capiva se era lei una tentatrice, oppure se era stata circuita da un pedofilo. - I domestici ispezionavano il bagaglio degli ospiti, sia all'arrivo sia alla partenza. - Vuoi dire che frugavano nelle valigie? - Non te lo facevano sotto gli occhi, ma quando portavi il tuo bagaglio personale in uno degli alloggi per gli ospiti… oppure lo caricavi in automobile prima di ripartire. - E perché frugavano nelle valigie al momento dell'arrivo? - Alcol. W.R. consentiva una bevanda alcolica prima di cena. Era l'ora ammessa per sbronzarsi, e molti degli amici di Marion alzavano volentieri il gomito… tranne alcuni che preferivano la droga. Una volta ci stavamo preparando per la cena, ed eravamo in attesa che W.R. e Marion scendessero al pianterreno. Mabel Normand comparve sulla porta strillando come una pazza furiosa: - Un figlio di puttana mi ha rubato la morfina! - Penso che Marion gliela fece restituire, ma dubito molto che Mabel abbia mai rimesso piede a San Simeon. - Ti ho mai detto che il mio modo di apparecchiare la tavola, con la mostarda, il ketchup e tutti i condimenti nei loro vasetti al centro della tavola, è una copia esatta della tavola di San Simeon? Un paio di minuti dopo esclamò: - Guarda, guarda, laggiù sulla destra… in alto… in alto… In lontananza, sulla sommità delle colline, a parecchi chilometri di distanza dalla costa, balenarono delle torri bianche. La vista fu di colpo ostruita da una fila di eucalipti sul bordo della strada. - Stai attento, l'ingresso dovrebbe essere sulla destra -. Fece una pausa. - L'ultima volta che sono venuta qui è stato nel trentasei. Buon Dio, come vola il tempo! Mi ricordo che l'argomento all'ordine del giorno, quel fine settimana, era la Guerra Civile in Spagna. W.R. stava ricevendo dei messaggi al piano superiore. Ci domandavamo l'un l'altro da che parte stesse W.R. Noi, gente del cinema, eravamo tutti per i repubblicani, ma non volevamo fare gaffe, semmai W.R. avesse parteggiato per Franco. - E da che parte stava lui? - Che vuoi che ti dica… Non ricordo. Il castello distava parecchi chilometri dall'autostrada. La strada privata di accesso zigzagava attraverso le colline. Il castello appariva e scompariva, diventando via via più grande ogni volta che lo vedevamo. I pinnacoli gemelli mi fecero venire in mente un'antica cattedrale messicana che avevo visto sul «National Geographic». A me dava più l'idea di un palazzo, piuttosto che di un castello. Giù sull'autostrada, per via dell'oceano, l'aria si era mantenuta fresca, ma a distanza di due o tre chilometri dalla brezza marina, l'aria era surriscaldata dal sole che picchiava sulle montagne del deserto. Finalmente giungemmo in vista di un paesaggio di verde. Gli edifici principali erano ancora a una certa distanza. - Va' avanti, - mi indicò Louise allorché arrivammo a Casa Grande, così si chiamava. Mi fece girare intorno alla costruzione finché raggiungemmo una scalinata. I gradini erano pochi, ma molto larghi. Svettante sopra di noi, e sembrando più grande perché si ergeva sulla cima di Enchanted Hill, la Collina Incantata, come la chiamava Hearst, c'era Casa Grande. Per vedere la sommità dell'edificio, dovetti allungare il collo. - Chiudi la bocca, - fece Louise, - o ci finirà dentro una mosca. Era vero. Ero rimasto lì in piedi, a bocca aperta. La governante scese le scale. Alle sue spalle, i domestici. Avevo già visto e provato molte cose nei miei sedici anni di vita, ma non certo che avrei avuto un domestico al mio servizio, come dispose Louise Wallis. Aprii la portiera posteriore della station wagon, con l'intenzione di tirar fuori le nostre due valigie. Mistress Wallis stava parlando con la governante, ma quando notò ciò che stavo facendo mi fece cenno di fermarmi. - Lascia stare. Se ne occuperanno loro. La governante ci fece strada su per la scalinata. Mi guardavo intorno in preda alla soggezione, così non mi accorsi dell'insoddisfazione di Mistress Wallis finché non la sentii borbottare: - Merda -. Era la sua parolaccia preferita, mi disse una volta. - C'è qualcosa che non va? - domandai. - Non possiamo stare nella casa principale. Qualcuno della famiglia è qui. Esplorai con lo sguardo l'immenso edificio; sembrava grande come Notre Dame. - Hanno bisogno di "tutta quanta" la casa? Mistress Wallis scoppiò a ridere. - No… ma noi siamo qui grazie a Marion… e gli Hearst detestano Marion Davies. Sai, la moglie di Mister Hearst è ancora viva. - No, non lo sapevo. Non sapevo che era sposato. Anziché condurci dentro Casa Grande, la governante ci scortò per una immensa veranda o terrazza intorno alla casa. C'erano fiori ovunque, e tra i fiori c'era la statua in alabastro di una fanciulla accovacciata accanto a una capra. Pareva il set fantastico di un film muto. Riccamente decorato. Colonne scanalate coronate da sfere bianche: illuminazione notturna. La governante ci condusse verso una porta preziosamente intagliata che avrebbe potuto degnamente ornare un palazzo veneziano del quindicesimo secolo. La aprì e ci fece passare all'interno. Un alloggio per gli ospiti? Balle! Era un museo, piuttosto. Col tempo avrei imparato ad apprezzare l'arte e i manufatti collezionati da tutto il mondo che decoravano quella stanza, ma all'epoca la mia impressione fu che erano semplicemente antiquati. A quei tempi la ricchezza per me s'identificava con lo scintillante stile liberty bianco e nero. O magari a provocare la mia reazione fu il caldo soffocante della stanza. I raggi del sole penetravano in diagonale da una enorme finestra che dava sul mare, giù in lontananza. L'alloggio per gli ospiti non era provvisto di impianto di areazione. A dire il vero, era questo il motivo che aveva fatto irritare Mistress Wallis, perché nella Casa Grande, al contrario, c'era l'impianto di areazione. Il suo disappunto, comunque, durò poco. Dopo qualche minuto tornò di buonumore. Lei si gustava la vita, incondizionatamente. Mi fece visitare l'alloggio per gli ospiti. Le camere da letto erano numerose, ma non c'era cucina. - La cucina è nella Casa Grande. Forza, sdraiati sul letto del Cardinale Richelieu. - Quello dei "Tre moschettieri"? - Credo. - Sono pronto per schiacciare un sonnellino sul letto di Richelieu. - Fai pure. Io ho delle lettere da scrivere. Il letto aveva un'enorme testiera scura ed era così rialzato dal pavimento che dovetti montare su una seggiola per salirci. Mistress Wallis mi disse che i letti erano così alti per tenersi alla larga dai ratti che scorazzavano anche sui pavimenti dei palazzi. Il letto era morbido, ma bitorzoluto. Essendo abituato alle brande e ai pavimenti di cemento della prigione, riuscii a dormire per un'ora. Al mio risveglio, il sole era arancione e stava iniziando a tuffarsi nel Pacifico. Avevo fame. Quando entrai Mistress Wallis stava leggendo un libro. - Va meglio? - Meravigliosamente bene. Quand'è che si mangia? - Ci ho riflettuto. Non so chi della famiglia è qui… e non mi va proprio di imbattermi in loro nella sala da pranzo. Ma voglio mostrartela. Se la tavola fosse rotonda, ti immagineresti di vedervi Re Artù e i suoi Cavalieri. Faremo così. Tu vai a farti un bagno in piscina, mentre io andrò a dare un'occhiata in cucina, per vedere che aria tira. Vai alla Piscina Nettuno, quella all'aperto. Notò la mia esitazione. - Non preoccuparti, - mi rassicurò. - Nessuno dirà nulla, ed è una cosa che non dimenticherai mai. - Non mi sono portato il costume da bagno. - Hai un paio di Levi's di ricambio, no? - Mmm. - Usa quelli. - Dov'è? - Appena dietro la scalinata. Non puoi sbagliarti. Scalzo, a torso nudo, e con un asciugamano, uscii fuori. Era un'ora magica, quella in cui la luce del tramonto attutisce tutte le rughe e le magagne del mondo. Tutto pareva immerso nel silenzio, e si aveva l'impressione di un incantesimo. Svaniti la calura opprimente e il bagliore accecante. La luce più morbida faceva risaltare la lucentezza del marmo. Si stava levando una brezza serale che faceva danzare le rose rosse e gialle. Il gelsomino già pervadeva l'aria del suo profumo. Da quel giorno la fragranza di gelsomino mi ha sempre rievocato il ricordo di San Simeon. I gradini che conducevano alla Piscina Nettuno erano larghi due passi, così li scesi lentamente. Fontane di sofisticata bellezza digradavano a cascata nella piscina. Qualche decennio dopo, a Roma, mi ricordai delle fontane di San Simeon, quando vidi quelle del Bernini. Erano tutte di marmo, come la piscina. Mi fermai in preda a un timore reverenziale. Era davvero un momento incantato in un posto incantato. Di fronte alle fontane a cascata, lungo le quali discendevo, si innalzavano delle colonne che reggevano una statua di Nettuno. Il pendio più in là digradava verso il mare lontano, nel quale s'inabissava inesorabilmente il gigantesco sole rossoarancione. I suoi raggi s'insinuavano tra le colonne e inondavano il mondo di una tonalità dorata. Era così meraviglioso che provai una fitta di dolore, una sensazione diffusa e indistinta, mentre ero assorto a guardare. Mi voltai verso la facciata di Casa Grande, alle mie spalle e sopra di me. I pinnacoli gemelli si stagliavano contro le nuvole rosate che avanzavano lentamente nel cielo. I preziosi rilievi e le decorazioni raffinate si fondevano nei due pinnacoli. La brezza increspava l'acqua, e i disegni geometrici sul fondo della vasca scintillavano di luce tremula. Mi fermai sul bordo della piscina. Mi tornò in mente il momento in cui mi ero trovato con William Randolph Hearst, vecchio e macilento, malato e prossimo alla morte. Non avesse fatto nient'altro in vita sua, anche soltanto questo era un monumento che sarebbe sopravvissuto a lungo nel futuro. Mi immersi nella piscina. L'impatto dell'acqua fredda mi fece pensare ad altro. Nuotai energicamente per riscaldarmi, e alla fine, nuotando sul dorso, ebbi una vista ancora migliore di Casa Grande. Ciò che Mistress Wallis mi aveva detto era vero: San Simeon era stata il Monte Olimpo per gli dei e le dee del ventesimo secolo, le star del cinema. Mi raccontò che Chaplin aveva amato questa piscina e che Greta Garbo e John Gilbert vi avevano fatto l'amore. George Bernard Shaw vi aveva nuotato per un paio di vasche; Winston Churchill aveva galleggiato su quell'acqua. Il bagliore arancione del crepuscolo penetrava tra le colonne scanalate di Nettuno. Nuotai tra l'oro fuso verso il fuoco del tramonto. Ero certamente in un mondo distante dalla folla degli umani. Mi tornò in mente la piscina pubblica di Griffith Park, dove i bambini della città nuotavano pigiati come un banco di tonni. Di gran lunga preferivo questa. Sentii la voce di Louise che mi chiamava: - Eddie! Eddie! - Stava scendendo gli scalini che portavano alla piscina. Attraversai la piscina a nuoto e mi aggrappai al bordo. Aveva un'espressione cupa. - Ha appena chiamato Marion. Mister Hearst è morto un'ora dopo che lei aveva parlato con me. Penso che faremmo meglio ad andarcene. Uscii dall'acqua, e risalimmo gli scalini che conducevano al piazzale. - Mi ha riferito che la famiglia ha portato via il corpo in fretta e furia, così, - disse Louise schioccando le dita per sottolineare le sue parole. - Odiano Marion, e senza W.R. lei non conta nulla qui. Forse non direbbero nulla, ma forse sì. Non voglio trovarmi in imbarazzo. Potevo capire, ma mi pareva anche strano. Pensavo che fosse troppo ricca e potente per considerare cose come questa. Scendendo per la strada lunga e tortuosa, mi voltai indietro a guardare. I canyons erano viola scuro e neri, ma in cima a Enchanted Hill, Casa Grande luccicava sotto gli ultimi raggi di sole. I pinnacoli scintillavano, gettando guizzi di luce. Il vecchio sulla seggiola a rotelle aveva certamente lasciato un monumento grandioso. Io cosa avrei lasciato? Ne avrei avuto il desiderio? Ero capace di nutrire un desiderio del genere? Quando raggiungemmo l'autostrada, Louise disse: - Siamo stati gli ultimi ospiti del gran signore e della sua dama. A Big Sur ci fermammo per cenare. Louise chiamò Hal, che era in Missouri, dove si giravano gli esterni di un film. Lui chiamò il Fairmont Hotel di San Francisco e prenotò per noi. Al nostro arrivo, ci alloggiarono nella suite presidenziale. C'erano due camere da letto. L'indomani mattina, tutti i giornali uscirono con la fotografia di William Randolph Hearst in prima pagina. L'ultimo magnate dell'Era dei Magnati era morto. CAPITOLO QUINTO. TRENO NOTTURNO PER SAN QUENTIN. Scambiai due partite di erba con una Plymouth berlina quattro porte del '36 con l'emblema di una nave sul cofano. Il tizio con cui conclusi l'affare era il fratello maggiore di un mio compagno del riformatorio. L'auto aveva le targhe della Fulton County, nel Kentucky. Mi raccontò una storia sui documenti di circolazione che erano stati spediti a Sacramento per immatricolare l'automobile in California. Gli credetti. Per circa un mese guidai senza carta di circolazione e senza patente. Adesso la cosa mi dà i brividi, ma all'epoca non me ne curavo. Quando andavo da Mistress Wallis parcheggiavo a un paio di isolati di distanza da casa sua, e non le dissi che avevo un'automobile. Il nostro rapporto era arrivato al punto che lei aveva pagato di tasca sua per farmi cancellare i miei tatuaggi, e insieme ad Al Matthews stavano discutendo la possibilità che entrassi al college e poi alla facoltà di legge. Tutto ciò era stupendo, ma molto remoto. Se c'è qualcosa di autentico nella mente di un criminale, è il bisogno di soddisfazione immediata. Quel che conta davvero è il qui e l'ora. La gratificazione differita nel tempo è contraria alla sua natura. Perciò, nonostante la facoltà di legge fosse stupenda in un lontano avvenire, per il momento seguitavo a vendere i miei sacchi di tela pieni di erba. Il giro s'incrementava alla svelta via via che aumentava il numero dei nuovi clienti che compravano gli spinelli e le scatole. Era un periodo in cui la marijuana veniva considerata una vera e propria «erba del diavolo». Una ragazza di Pasadena aveva soffiato fumo di marijuana in una busta, che poi aveva infilato sulla testa del suo gatto: finì sulla prima pagina dei giornali e sulla rivista «Time». Fu additata come una sorta di mostro di crudeltà. Secondo le leggi della California, la marijuana era alla stessa stregua dell'eroina o della cocaina; la detenzione o la vendita di una qualsiasi quantità di erba prevedeva una condanna indeterminata da sei mesi a sei anni di reclusione. Un giovane finì a San Quentin per tre semi di marijuana che erano stati rinvenuti sui tappetini della sua automobile. Un tale, arrestato dalla polizia, offrì, come conciliazione, di incastrare uno spacciatore; mi chiamò dicendo di volere un «coperchio», ovvero una scatola di tabacco Prince Albert da trenta grammi. Dieci dollari era il prezzo corrente. Misi la scatola in tasca, uscii di casa e salii sulla Plymouth. Quando mi fermai al semaforo rosso tra Beverly Boulevard e Saint Andrew's Place, un'automobile si accostò alla mia sinistra. Dentro c'erano Hill e O'Grady, una famosa coppia di agenti della squadra narcotici di Hollywood operante all'epoca. - Accosta al marciapiede, - mi intimò uno dei due. Un'automobile stava svoltando a destra. Il semaforo era rosso, ma non c'era traffico. Premetti il pedale dell'acceleratore, piombai a tutta birra sull'incrocio, e poi svoltai a sinistra in Beverly Boulevard, sotto il naso dei due poliziotti. Loro schiacciarono il pedale del freno, e io seguitai per la mia strada. L'inseguimento era al via. L'automobile dei due detective era sprovvista di sirena, e questo giocò a mio favore. In prossimità dell'incrocio tra Beverly Boulevard e Rossmore Avenue, il semaforo era rosso. Le automobili erano allineate su tutte le corsie nel mio senso di marcia. Sterzai a sinistra sulle corsie in senso contrario, dove il traffico era fermo all'incrocio sempre per via del rosso. Senza esitare premetti l'acceleratore. Se ce l'avessi fatta ad attraversare l'incrocio, avrei potuto dirmi in salvo. Una vecchia coupé sopraggiunse sulla mia sinistra e, come se mi trovassi in un videogame, entrò nel mio campo visivo. Schiacciai il freno, e per un momento pensai che sarei riuscito ad evitarla. Ahimè, il mio paraurti anteriore destro colpì il dietro dell'altra automobile, facendola roteare mentre io andavo a sbandare sulla sinistra. Al semaforo, in testa alla fila dei veicoli fermi, c'era un grosso furgone dei servizi postali. Lo colpii in diagonale, sulla ruota anteriore sinistra. La collisione fece saltare l'asse del furgone postale dall'altra parte e, quanto a me, andai a sbattere violentemente sul volante, tanto che i denti mi tagliarono il labbro. Tentai di aprire la portiera, ma era bloccata. Provai a uscire dal finestrino, ma nel momento stesso in cui mi mossi, avvertii un dolore lancinante all'altezza del ginocchio. Quando finalmente riuscii a estrarre testa e spalle fuori dal finestrino, mi ritrovai faccia a faccia con una calibro.38 Polke Special. Non ho mai saputo cosa successe, ma grazie a Mistress Wallis da una parte e a Al Matthews dall'altra, il sostituto procuratore distrettuale si convinse a non rinviarmi a giudizio. Invece fui condotto dinanzi al giudice Ambrose per violazione della libertà vigilata. Il giudice mi condannò a un anno di detenzione da scontare nella prigione della contea e prorogò la libertà vigilata. Ritenne che fossi ancora troppo giovane per San Quentin. L'Ufficio dello Sceriffo ancora una volta mi assegnò alla colonia penale agricola, la Wayside Honor Rancho. Parecchi mesi più tardi, un vicesceriffo fiutò l'odore di uno spinello che mi stavo fumano dietro le baracche. Non entrò in possesso dello spinello, ma mi condusse nell'edificio dell'amministrazione. Accadde di sera. Il comandante degli agenti di custodia mi spedì in «Siberia», la nuova unità di massima sicurezza. L'indomani fui convocato dall'aggiunto incaricato dell'indagine. Gli dissi che se mi avesse lasciato andare avrei scoperto l'identità di chi introduceva la droga in prigione. L'aggiunto mi rispedì nelle baracche. Non appena scese il buio, scavalcai il recinto. Percorsi a piedi una quindicina di chilometri verso ovest, quindi feci l'autostop fino alla Coast Highway, e tornai a Los Angeles. Mesi dopo, quando mi beccarono prima dell'alba in un'automobile tra Eleventh e Union Avenue, a Pico–Union, davanti alla casa dove Wedo abitava insieme alla madre, la polizia abbatté la porta dell'appartamento e trovò quasi mezzo chilo della marijuana rimasta nei sacchi di tela, oltre a qualche centinaio di dollari. Li intascarono, per lasciarmi dichiarare che la marijuana era mia. Wedo così fu rilasciato, e io finii comunque a San Quentin. Era un destino ovvio, ammesso che ce ne fosse uno. Va da sé che il giudice Ambrose revocò la libertà vigilata e mi pose sotto la giurisdizione all'Amministrazione Penitenziaria, condannandomi alla pena prescritta dalla legge per violazione della Sezione 245 del Codice Penale, «aggressione a mano armata» con l'intenzione di provocare gravi ingiurie fisiche alle persone. Era una sentenza di condanna indeterminata, di una durata da sei a dieci anni, anche se molti ex detenuti della sezione, considerati i casi di cui erano a conoscenza, mi dissero che avrei scontato da due anni e mezzo a tre anni. Un detenuto anziano riteneva che la pena sarebbe stata inferiore, forse diciotto mesi, ma i più prudenti sostennero che il periodo sarebbe stato più lungo, perché l'autorità giudiziaria dei tribunali ordinari era severa nei casi di «aggressione a mano armata». Al Matthews aveva mollato, ma Mistress Wallis volle che la mettessi nella mia lista delle persone autorizzate a scrivermi e a farmi visita. Ero cosi "blasé" quando il giudice pronunciò la sentenza, che mi pulivo le unghie e strizzavo l'occhio alle due avvenenti sorelle italiane che Wedo aveva portato con sé in tribunale. Finì per sposarne una, ed ebbe due figli da lei, prima di finire anche lui a San Quentin. In quel periodo io ero in libertà vigilata. Poiché nel verbale di arresto figurava la detenzione di un po' di marijuana, l'aggiunto dello sceriffo in servizio all'accettazione mi assegnò al camerone dei drogati di pelle bianca, designato 11-B-1. L'undicesimo piano era un camerone esterno che dava su Chinatown, con la Hollywood Freeway ancora in via di completamento che si estendeva sulla sinistra. Riuscivo a godermi il panorama della città notturna mettendomi in piedi sulla prima sbarra trasversale e sbirciando attraverso la piccola apertura delle sbarre esterne. All'epoca, tutti coloro che facevano uso di sostanze stupefacenti, compresi gli amanti dello spinello, venivano detenuti in camere di sicurezza speciali. C'era una sezione di tredici celle, la 11-B-1, per tossicodipendenti bianchi, una sezione di ventidue celle per i tossicodipendenti di colore, e due camere di sicurezza, una di ventidue celle e una più piccola, per i chicanos. C'era cameratismo tra i tossici bianchi, molti dei quali si conoscevano dai tempi della strada. Di loro si diceva che erano i truffatori e i ladri migliori, perché avevano assolutamente bisogno di riuscire. - Il messicano che spaccia non fa credito. Ciascuna delle tredici celle conteneva due brande assicurate da catene alla parete di acciaio. Sotto la branda inferiore c'erano altri tre materassi, tranne che nelle prime tre celle. Quelle erano occupate dai detenuti di fiducia che godevano del trattamento di favore per buona condotta. La cella n. 1 aveva due brande e due occupanti, a meno che costoro non invitassero un amico a dividerla con loro. Le celle n. 2 e n. 3 avevano tre occupanti, uno dei quali dormiva sul pavimento. Gli uomini di queste celle avevano in mano la gestione della sezione. Somministravano il vitto, assegnavano le celle, tenevano la lista dei detenuti più vecchi di ogni cella, e garantivano che tutti i detenuti si allineassero in righe di tre quando gli aggiunti passavano davanti alle celle al momento dell'appello. In presenza di episodi di insubordinazione, se ad esempio qualcuno manifestava la propria insoddisfazione dinanzi a ciò che dalla marmitta gli veniva servito nel piatto, gli otto detenuti di fiducia agivano all'unisono. Neppure King Kong avrebbe potuto sperare di spuntarla da solo, e se qualcuno incominciava a cercarsi alleati per la rivolta, i detenuti di fiducia ne venivano subito informati. Avrebbe potuto essere diversamente in un mondo fatto di tredici celle e largo quanto un marciapiede? I detenuti di fiducia si presentavano al cancello del ribelle, con le guardie su ciascun lato della sezione e i loro amici pronti a gridare e a sbattere le tazze per coprire il rumore della controrivoluzione che a suon di botte riconduceva a ragione il detenuto potenzialmente ribelle. La «colonna» per San Quentin partiva il venerdì pomeriggio. Tutti i condannati sotto la giurisdizione dell'Amministrazione Penitenziaria partivano il primo venerdì, dieci giorni dopo la sentenza di internamento. L'attesa di dieci giorni era prevista dal regolamento per consentire alla difesa di inoltrare l'istanza di ricorso in appello. In attesa del treno, mi misi a giocare a poker. La partita di poker durava finché i cancelli delle celle restavano aperti, ovvero per tutto il tempo tranne prima della somministrazione del vitto. I cancelli erano chiusi durante i preparativi. Venivano chiusi anche dopo la distribuzione del vitto, quando facevano le pulizie e lavavano i pavimenti della sezione. La partita era sospesa di sera, con lo spegnimento delle luci. L'uomo dei soldi veniva di mercoledì. I prigionieri che disponevano di un conto personale potevano prelevare dieci dollari ogni mercoledì. I dieci dollari, più i tre dollari che il prigioniero poteva ricevere due volte la settimana da una persona ammessa al colloquio era tutto quanto era consentito a ciascuno. Con pochi dollari si poteva fare molto nel '51, quando un pacchetto di Camel costava venti centesimi, un'affrancatura per lettera cinque centesimi, un tubetto di Colgate quindici centesimi, e un libro tascabile un quarto di dollaro. Ci era consentito comprare barrette di cioccolato (cinque centesimi), un litro di latte (sedici centesimi), e crostatine (venti centesimi). Il cognato dello sceriffo aveva in concessione lo spaccio interno. All'epoca ero un bravo giocatore di poker da prigione, e il poker da prigione è duro come il poker ovunque e per una posta alta quanto si vuole. Il Giorno dei Soldi, di giocatori ce n'erano in abbondanza, ma nel fine settimana restavano soltanto i quattro o cinque migliori. Io ero uno di loro. Anch'io gestivo uno spaccio. Il venerdì facevo provvista di sigarette, barrette dolci, latte e crostatine. Gli «spesini» non venivano nel fine settimana, ma i nuovi detenuti affluivano in gran numero. Le sigarette in loro possesso venivano confiscate durante la procedura di ingresso al piano terra. A mezzogiorno della domenica avevo già venduto tutte le mie scorte e raddoppiato il mio investimento. Nessuno veniva a farmi visita, né versava denaro sul mio fondo personale. Dovevo sopravvivere contando sul mio ingegno, se volevo beneficiare dei piccoli vantaggi ammessi nel carcere di custodia del tribunale giudiziario nel novembre e dicembre del '51. Stavo anche tentando di mettere da parte un centinaio di dollari da portarmi a San Quentin. Mi ricordo ancora di quella sera: le carte di marca Bee, sporche di sudore e leggermente ricurve, che scivolavano sulla coperta grigia stesa sul pavimento del corridoio. Nelle sezioni più lontane era in corso l'appello per il rientro in cella: - Raccogliete le vostre cose! Venivano pronunciati parecchi nomi seguiti da: - Raccogliete le vostre cose! Le mie carte quella sera erano un asso, un due, un tre, e un cinque, con una figura. Quattro carte per una scala. Se avessi pescato un quattro, avrei avuto la mano migliore a poker alla rovescia. Con un sei avrei avuto la terza mano migliore. Con un sette, avrei avuto una mano quasi vincente, e anche con un otto avrei avuto una buona mano. Ero in vena, e le carte mi erano favorevoli. Io rilanciavo ogni volta che mi trovavo una buona carta di mano. Se avessi rilanciato soltanto quando ero servito, nessuno dei giocatori mi avrebbe seguito con un cambio di due carte. Dal decimo piano, su una tromba delle scale aperta, giunse una voce: - Jones, Black, Lincoln… Raccogliete le vostre cose! - Era una sezione di detenuti di colore. Il prossimo era l'undicesimo piano, i reparti A e B. - Tocca a te aprire, Bunk, - disse qualcuno. - Sì, certo, ero distratto dall'appello. Gioco -. Estrassi i soldi dalla tasca della camicia e li gettai sulla coperta. Era dalla mattina che mi venivano mani buone. Un giocatore alle mie spalle accettò il gioco. Meritava che lo tenessi d'occhio. Aveva accettato freddamente, senza aspettare, dopo un rilancio. Un altro giocatore che era già nella mano dopo il suo primo rilancio, fece lo stesso. Un terzo giocatore gettò via le carte. Sei troppo in vena, oggi, - disse. - Carte? - disse il cartaro. Il giocatore che mi precedeva alzò due dita. Il cartaro eliminò la carta superiore del mazzo e ne depose due sulla coperta. Il giocatore gettò via le sue carte scartate e prese le due nuove. Io scartai la mia carta alta. - Dammene una. Niente re. La carta mi arrivò sulla coperta. - Servito, - disse il giocatore dopo di me. Mi voltai per guardarlo bene. Suonarono i campanelli di allarme. Aveva accettato freddamente dopo di me, sul mio rilancio, aveva accettato la puntata senza rilanciare e adesso si dichiarava servito. Era stupido? Si era mostrato debole a non controrilanciare la mia puntata, oppure aveva una mano così forte che voleva farsi tutti i giocatori della partita? Non avevo alcun modo di sapere se uno di loro sarebbe passato sul mio rilancio. Se avesse controrilanciato, avrebbe perso tutti i giocatori che si apprestavano a cambiare due carte. Era il modo normale di giocare con un otto o un nove serviti. Non voleva troppe carte da cambiare. Una grossa chiave di acciaio sbatté contro il cancello dell'ingresso. - Undici–B-Uno… Bunker, Ebersold, Mahi, raccogliete le vostre cose… pronti per il treno notturno diretto a nord! - Tocca a te, Bunk, - disse il cartaro. - Non partiranno senza di me -. Aprii le carte, vidi un tratto curvilineo, e capii che avevo un sei. - A te, - feci al giocatore che mi precedeva. - Vedo. Era il momento di tendere il tranello. - Vedo, - dissi, accennando anche il gesto di gettare via le carte senza aggiungere nulla. Il giocatore che si era dichiarato servito lo notò, percepì la mia posizione di debolezza, e cadde nella trappola. - Dieci dollari, - disse. Il primo giocatore gettò via le carte. - Dove sono quelli in partenza? - gridò la guardia dal cancello di ingresso. Guardava giù per il corridoio di fronte alle celle. Vide la partita di poker in corso, e sapeva come mi chiamavo. - Bunker, rientra e raduna le tue cose, dannazione! Ignorando l'aggiunto, gettai tre banconote da dieci dollari sul piatto. - Rilancio. Il giocatore servito si fece rosso come un peperone sentendo la trappola richiudersi su di lui. Come giocatore di poker, di solito preferisco giocare con la mia mano piuttosto che passare e poi rilanciare. Ogni tanto conviene farlo, perché fa capire agli altri giocatori che un «vedo» non equivale a una resa. Il giocatore guardò le sue carte. Non riusciva a decidersi. - Bunker! "Raccogli le tue cose"! - urlò l'aggiunto. Sollevai la mano e gli feci un cenno. Passa, vedi o rilancia, - dissi, accovacciandomi. - Comunque sia, io devo andare. - Non mettermi fretta, amico, - rispose. Il detenuto di fiducia uscì dalla prima cella e si avviò per il corridoio. - Ehi, Bunk, è meglio se te ne vai. - Quel secondino è uno stronzo. - Mi muovo non appena l'amico qui si decide, se cacarsi in mano o squagliarsela col piatto. Dell Ebersold e Sam Mahi erano già sul ballatoio con gli effetti personali in mano. Il mio avversario voleva sfruttare la situazione. Strinse le carte, come per guardarle. - Bunker! - gridò l'aggiunto giù per il ballatoio. - È meglio per te se alzi il culo, altrimenti non ci saranno più partite a poker all'Undici–B-Uno. Mi alzai in piedi e mi chinai sull'altro giocatore. - O butti giù le carte, oppure chiedi di vedere… subito… oppure… ti mollo un calcio in quella tua testa di figlio di puttana nel giro di due secondi. Non provare ad alzarti. Gettò via le carte. Arraffai i soldi del piatto e mi precipitati in cella. I miei compagni di cella avevano messo insieme lo scarno bagaglio che avrei portato con me. Feci un rotolo stretto dei soldi, lo spalmai di vaselina, e me lo infilai nel culo. Il contante è utile a San Quentin. Ebersold e Sam Mahi stavano aspettando al cancello della sezione. Conoscevo il fratello più piccolo di Ebie dai tempi del riformatorio, ma avevo incontrato Ebie e Sam Mahi qui, nella prigione della contea. Sarei rimasto in contatto con loro per i decenni a venire. L'aggiunto aprì il cancello. - Comincia l'avventura, - disse Ebie. Lui e i suoi fratelli erano già una leggenda nella San Fernando Valley. Malgrado Ebie fosse di fatto un analfabeta, era uno dei più grandi affabulatori in circolazione. Il ritmo dei suoi racconti era affascinante. Mi strizzò l'occhio e mi mostrò il pollice alto. Saremmo rimasti amici per molti anni, senza il benché minimo screzio tra noi. Anche con Sam Mahi sarei rimasto amico per vent'anni, ma siccome lui era amico di chiunque avesse una qualche influenza, la profondità e la forza della sua lealtà mi restarono sempre sospette. Non aveva nemici, e un uomo senza nemici di solito non ha neppure veri amici. Tutti e tre ci unimmo al flusso di prigionieri proveniente dal Palazzo di Giustizia, circa due dozzine che viaggiavano sul treno della prigione, il gruppo settimanale di nuovi detenuti in transito verso le tre prigioni della California. Tutti andarono in bagno per indossare gli abiti civili che portavano al momento dell'arresto, con cui avevano dormito per parecchi giorni alla stazione di polizia, e che avevano indosso quando si erano presentati alle varie udienze in tribunale. Per lo più erano sporchi e sgualciti al momento in cui avevano fatto il loro ingresso nella prigione della contea. Gli abiti civili erano stati sistemati nel deposito del carcere, appesi alle stampelle e pigiati tutti insieme, senza circolazione d'aria. Così che adesso sapevano di muffa. Solo un uomo era in ordine; indossava un doppiopetto di zigrino grigio. Era Walter «Dog» Collins, un detenuto tossicodipendente, nero di pelle chiara, alto e di bell'aspetto, cui fui presentato da Ebie. Avrei conosciuto meglio Collins al penitenziario. Era ben vestito perché era stato a piede libero su cauzione fino al pronunciamento della condanna. Dopo che ci fummo vestiti, gli aggiunti spuntarono i nostri nomi nella lista prima di incatenarci a gruppi di sei. Fummo caricati, due gruppi alla volta, sull'enorme ascensore di servizio per le merci che ci fece scendere nel tunnel del seminterrato dove dei cartelli indirizzavano all'ufficio del coroner e all'obitorio della contea. Un autobus dell'Ufficio dello Sceriffo ci portò a Union Station, a poco più di un chilometro di distanza, dove una sezione di separé della Harvey House era stata recintata con delle corde. Hamburger e patatine fritte erano stati ordinati in anticipo. Potevamo scegliere tra caffè e Coca–Cola, che ci furono serviti da una giovane donna pallida visibilmente nervosa. Nessuno disse una parola, ma gli occhi le perforavano i vestiti, le narici divampavano, le fantasie dilagavano. Sarebbero passati anni prima che qualcuno di quegli uomini avesse sentito di nuovo l'odore di una donna. La tradotta era in realtà un vagone ferroviario singolo con lastre di metallo saldate sui finestrini e una gabbia con una rete metallica su un lato, presidiato da una guardia armata. Era dicembre, e faceva buio presto. Quando salimmo sul treno scendeva una pioggerella brumosa. Una guardia assicurò dei ferri alle caviglie della maggioranza dei prigionieri prima di liberarli dalla catena che li teneva uniti a gruppi di sei. In tal modo avrebbero potuto perlomeno andare in bagno da soli percorrendo il corridoio per raggiungere il gabinetto sul lato opposto alla gabbia con la rete metallica. Nessuno veniva mai perso di vista. Tre detenuti, me incluso, avevano sia le catene ai piedi sia le manette. Le autorità avevano ordinato per noi un trattamento di maggior sicurezza, col risultato che gli altri prigionieri ci guardavano con cauto rispetto. Il rotolio fragoroso dei giunti di acciaio del vagone precedette lo scossone della partenza: avevamo iniziato il nostro viaggio nella notte. In pochi secondi la carrozza si riempì di nuvole di fumo, poiché quasi tutti accesero la sigaretta, anche se in seguito si fumò con più moderazione. Durante la notte il treno si fermò per raccogliere altri uomini condannati a scontare la pena a San Quentin. A Santa Barbara se ne aggiunsero due; a San Luis Obispo, quattro. Io fui fatto sedere di fronte alla guardia armata nella sua gabbia, così che poteva tenermi sott'occhio. Accanto a me c'era un uomo di nome Ramsey, che era già stato in carcere per scontare una pena. Sembrava felice di tornarci. Gli piaceva parlare della vita lì dentro e di ciò che avrebbe fatto una volta arrivato. Per un po' gli detti corda, facendogli anche delle domande, ma ben presto decisi che raccontava un sacco di balle, e troncai la conversazione. La lastra di metallo fuori del finestrino lasciava uno spazio di sette centimetri. Premendo la faccia contro il vetro interno, riuscivo a intravedere una strisciolina di panorama. Per lo più era buio pesto, interrotto all'improvviso da qualche sprazzo di luce mentre il treno sfrecciava attraverso un paese, annunciato dal fischio del treno. "Clic clac, clic clac, clic clac", le ruote di acciaio salmodiavano incessantemente. Per un certo tratto i binari corsero paralleli a un'autostrada. Mi resi conto che era lo stesso tragitto che avevo fatto sul vagone merci all'età di sette anni. La gabbia della guardia armata era proprio alle mie spalle. Potevo appoggiare la testa contro le maglie della rete metallica. Di fronte alla gabbia, al di sopra della mia spalla sinistra, c'era il gabinetto. Un tramezzo lo separava dai sedili, ma sul lato era aperto, così da consentire agli agenti di guardia di sorvegliarlo attraverso il plexiglas. Forse temevano che qualcuno sarebbe scappato lanciandosi dal treno sull'autostrada. Una bella evasione, non c'è che dire. Una cosa che sicuramente non scappava era il tanfo. - Dannazione! - risuonò una voce da una fila distante. - Qualcuno è crepato e sta andando in putrefazione. Mio Dio! Il tono in cui fu detto suscitò un risolino ilare. Nell'atmosfera di paura dell'ignoto cui andavamo incontro si era diffuso un brio conviviale. Il buio regnava ancora sulla baia quando la tradotta fu sganciata dal treno e imbarcata sul traghetto che collegava lo stretto tra Richmond e San Rafael. Una volta sull'altra sponda, percorremmo l'ultimo chilometro e mezzo che ci separava dalla prigione a bordo di un autobus. Aveva smesso di piovere, anche se le nuvole promettevano altra acqua e per terra era bagnato al nostro arrivo di fronte al cancello esterno. Ottocento metri più avanti c'era la prigione vera e propria. Un gigantesco complesso penitenziario si estendeva a sinistra su una delle costiere della penisola. La sagoma di un'enorme torre in mare aperto mi fece pensare a una costruzione medievale. Era la Torretta di Guardia N. 1, l'arsenale della prigione. Un anziano detenuto di colore con un impermeabile giallo e un cappello da pioggia ci aspettava accanto al primo cancello, che consisteva in una serie di catene, montato su rotelle. La guardia all'interno di una piccola garitta ci invitò ad entrare, poi ordinò al detenuto nero di aprire. Al nostro passaggio costui sogghignò e scosse il capo con un'espressione di commiserazione beffarda. Guardandolo meglio in faccia dedussi che doveva avere perlomeno settant'anni. Anche il cancello successivo era fatto di rete metallica, ma era sormontato da rotoli di filo spinato di colore marrone per via della ruggine. La Torretta di Guardia N. 1 teneva sotto controllo l'autobus che, dopo aver percorso un mezzo cerchio, si arrestò a poca distanza da un vecchio edificio. Parecchie guardie erano in attesa. Il tratto dall'autobus a terra era troppo alto per i prigionieri con le catene ai piedi, così ogni nuovo arrivato, prima di scendere, doveva aspettare che un aggiunto gli togliesse le catene, che così piombavano fragorosamente a terra. I nuovi arrivati avanzarono verso il portello dell'ingresso sfilando tra gli agenti di custodia. Mi tolsero le catene ai piedi; le manette restarono. All'ingresso, una guardia diceva a ogni uomo: - Attento allo scalino -. Dovevamo varcare un cancello pedonale ricavato in un portale previsto per i veicoli. Il cancello più piccolo aveva una traversa in basso alta un palmo. Nonostante l'avvertimento, l'uomo davanti a me inciampò e quasi cadde per terra. Ero avvertito. Oltre il cancello c'era un tunnel lungo una ventina di metri. Sull'altra estremità c'era una grossa porta di acciaio sulla quale si apriva un'altra porta di acciaio più piccola munita di uno spioncino. Era presidiata da una guardia che era addetta allo spioncino e apriva la porta alle persone autorizzate. I due cancelli non erano mai aperti contemporaneamente. Lungo le pareti laterali era fissata una panca. Vicino all'altro capo della stanza c'era una porta aperta sulla sinistra. Su un cartello c'era scritto: accettazione e rilascio. I nuovi arrivati venivano avviati da quella parte. All'interno c'erano tre file di panche, già occupate, a eccezione di uno spazio. Alle mie spalle il sergente fermò i nuovi arrivati. Svolgeremo la procedura in due gruppi. Gli altri aspettino seduti laggiù. - Spogliatevi, a chiappe scoperte. Se volete spedire i vestiti a casa, c'è da pagare. Se volete donarli all'Esercito della Salvezza, gettateli nella cesta della lavanderia laggiù. Praticamente tutti i prigionieri, me incluso, gettarono i vestiti nella cesta. Tornammo a sederci sulle panche, nudi come vermi: alcuni erano bianchi, altri color nocciola, alcuni grassi, altri mingherlini, alcuni flaccidi, altri muscolosi come pantere. Il sergente si piazzò di fronte a noi. - Zitti e aprite le orecchie! - ordinò. La maggioranza fece silenzio, ma qualcuno seduto dietro seguitò a mormorare qualcosa al compagno. Zitti laggiù. Imparerete qualcosa, se ascoltate. - Ehi, sergente, questo discorso te l'ho sentito fare cinque anni fa. - Allora ascoltalo un'altra volta -. Aspettò finché nella stanza si fece silenzio, e poi incominciò: - Ciascuno di voi ha già pensato di scappare. Non appena siete arrivati, vi siete domandati se sareste riusciti a trovare un modo per fuggire. - Potreste farcela. Ogni due o tre anni qualcuno riesce a evadere. Sono sedici anni che sono qui, e ce l'hanno fatta in tre. Al di là del muro, è facile. - Ovunque vanno, noi li riprendiamo e li riportiamo indietro tutti. Uno solo è riuscito a farla franca. Uno dell'Ecuador. È fuggito circa undici anni fa. - Ma lasciatemi dire una cosa: nessuno esce di qui con un ostaggio. Potete prendere me; potete prendere il direttore. Cazzo, potete anche prendere la figlia del direttore… - Non ha nessuna figlia, - disse qualcuno. - Se avesse una figlia… se prendeste la moglie… nessuno aprirà il cancello. Comunque sia, nessuno esce di qui con un ostaggio. È contro la legge aprire il cancello in caso di evasione con un ostaggio. Anche se il governatore "ordinasse" di aprire il cancello, nessuno obbedirebbe. In fondo alla stanza, si aprì una porta di acciaio. Il discorso si interruppe e le teste dei presenti si voltarono da quella parte. Entrò un tenente magrolino, la faccia segnata da profonde cicatrici di acne, accompagnato da due guardie penitenziarie. Le guardie restarono in attesa mentre il tenente si avvicinò al sergente per parlare con lui. - Bunker è in questo gruppo? - domandò il tenente. Alzai la mano. - Sì, signore -. Da un bel po' di tempo avevo imparato a dire «signore». - Vieni qua. Nudo e imbarazzato, sfilai goffamente tra due ali di altri corpi nudi. Il tenente era sconcertato. - Sei tu Bunker? - domandò, una nota di incredulità nella voce. - Sissignore. - Conosci il capitano Nelson? - Sì, certo. L'ho conosciuto a Lancaster. - Bene. Il capitano adesso è qui -. Il tenente mi squadrò da capo a piedi. Ero un diciassettenne gracile e lentigginoso, alto un metro e settantotto e pesavo sui sessantacinque chili. - Non hai l'aria di un duro, - osservò, quasi riflettendo ad alta voce. - Non sono un duro. I tipi duri sono sotto terra -. Erano parole che avevo sentito dire da un detenuto nel carcere della contea, e le avrei sentite pronunciare spesso al penitenziario, col passare degli anni. - Non hai intenzione di metterti nei guai, vero? - No, signore. - Questa non è una scuola per mocciosi. Questa è San Quentin. - Lo so, signore -. L'addestramento ricevuto alla scuola militare, ogni tanto, mi tornava utile. - Vai a sedere. Sta' alla larga dai guai. Tornando a posto, le mie guance, ancora solo ricoperte di peluria, erano rosse. Mi sforzai di assumere un'aria impassibile. Atteggiai uno sguardo da cattivo verso gli uomini nudi che mi guardavano, evitando tuttavia di fissarmi. Se qualcuno avesse incrociato il mio sguardo, gli avrei immediatamente chiesto che cosa aveva da guardare. Se la sua risposta non mi fosse andata a genio, gli avrei domandato se per caso andava in cerca di rogne. Se neppure la sua replica mi fosse andata a genio, gli avrei mollato un pugno micidiale. Forse sarebbe atterrato, forse no, ma ad ogni modo il mio arrivo nel penitenziario non sarebbe passato inosservato. Avevo seguito corsi di sopravvivenza in prigione fin dal mio primo soggiorno nel carcere minorile all'età di dieci anni. Anche se gli uomini in prigione hanno rispetto per lo spirito e l'intelligenza, era il violento a prevalere. Se cercare aiuto da parte delle autorità era da tutti i punti di vista peccato mortale, ne conseguiva che ciascun uomo - spesso con l'aiuto degli amici - doveva proteggere se stesso e ricavarsi un suo spazio nel mondo hobbesiano dietro le sbarre. Qui cadevano tutte le facciate legate alla classe sociale, alla famiglia, al denaro, ai vestiti. Senza alcuna riparazione legale dei torti o degli insulti subiti. Quando il tenente se ne fu andato, un detenuto trascinò una cesta della lavanderia al centro della stanza. Era piena di tute bianche arrotolate, in taglia unica e con le tasche cucite, in modo che non potessero contenere alcunché; nella cesta, anche calzini e ciabatte di pezza. Mentre eravamo ancora occupati a vestirci, i detenuti assegnati al lavoro di ufficio iniziarono a prenderci le impronte digitali, facendo rotolare ogni dito su un cartoncino, e poi premendo il pollice e le quattro dita. Ogni nuovo internato aveva quattro schede destinate ad altrettanti archivi: F.b.i., Sacramento, Amministrazione Penitenziaria, e il penitenziario propriamente detto. La procedura prese un bel po' di tempo. Quando l'operazione delle impronte digitali fu terminata, fummo fotografati di fronte e di profilo, con un cartello sul quale era scritto: CALIF. AMM. PENITENZIARIA, con la data, il nome e il numero di matricola. Il mio, da quel momento in poi, sarebbe stato A20284. L'uomo che mi precedeva aveva il numero A20283 e quello successivo il A20285. Era un marchio lasciato puramente al caso. Ogni annotazione riguardante la mia vita carceraria sarebbe stata registrata come «A20284 Bunker». Alla fine quel marchio sarebbe finito su una copertina di «Harper's», ma sarebbero passati parecchi decenni da quella piovosa mattina in cui l'20284 divenne il mio primo nome. Avevo appena finito con la foto segnaletica quando sopraggiunse il tenente di poco prima, accompagnato dalle stesse guardie. Aveva in mano un foglio di carta, che doveva essere un modulo. In seguito lo avrei riconosciuto come un ordine di isolamento. Lessi nelle sue intenzioni, perciò non mi sorpresi quando mi individuò tra gli altri detenuti e disse qualcosa alle tre guardie, che si diressero verso di me. Mentre ci avviavamo verso l'uscita, il tenente usò un tono quasi apologetico: - Non era mia intenzione metterti sotto chiave. A dare l'ordine è stato il capitano in persona. Vuole che resti in cella di isolamento finché non ha parlato con te. Mi fecero uscire dall'Ufficio Accettazione e Rilascio passando per il tunnel e poi per la porta interna che si apriva sull'universo di San Quentin. La prima cosa che vidi mi lasciò di stucco. Ai miei piedi si estendeva un giardino classico tenuto con cura, grande all'incirca un mezzo ettaro. Era attraversato da vialetti che si incrociavano tra loro. Era suggestivo, anche in quella giornata desolata di dicembre. Benché in parte spoglio per via dell'inverno, in certe zone vi erano crisantemi rossi e un'aiuola di viole del pensiero gialle e nere. Ricordai di averne sentito parlare: Il Giardino delle Delizie, lo chiamavano. Di fronte al giardino, sulla destra, c'era un'imponente costruzione vittoriana. Un tempo doveva essere la residenza del direttore del carcere, adesso era l'Ufficio di Custodia. Sotto il porticato, che correva sulla facciata della costruzione, c'erano due porte e uno sportello vetrato dove venivano emessi i lasciapassare. Non attraversammo il giardino. Prendemmo a sinistra, costeggiando l'edificio da cui eravamo appena usciti. Serviva da muro d'appoggio di una passerella che correva lungo la facciata. Sopra di noi, un agente con la carabina camminava guardando in basso, pronto a dare la sua copertura in caso di necessità. La passerella conduceva ad altre passerelle che si diramavano su tutta la superficie del penitenziario. Il sistema delle passerelle era stato progettato per consentire agli uomini armati di sparpagliarsi ovunque all'interno del carcere senza scendere a terra. Dall'altra parte del giardino, a una certa distanza dall'edificio vittoriano, c'era un blocco di celle costruito un centinaio di anni prima. Il tetto era di lamiera ondulata. Il secondo e il terzo piano erano provvisti di ballatoi con il pavimento di legno a griglia, ogni assicella separata dalla vicina da un piccolo spazio. Le massicce porte di acciaio erano provviste di spioncini all'altezza degli occhi. Le porte delle celle venivano bloccate da enormi piastre di acciaio montate su cardini che si richiudevano su ferri a staffa cui erano assicurati enormi lucchetti sospesi a un catena. Per raggiungere i ballatoi bisognava girare intorno al blocco di celle. Si chiamava il Vecchio Blocco Spagnolo. C'era un recinto provvisto di una copertura di filo spinato. Un sergente brizzolato aprì il cancello e prese in consegna il foglio dal tenente. - E stato perquisito? - Sì. E appena arrivato col treno. - Cominci presto, ragazzo, - fece il sergente, scrutandomi dall'alto di un sigaro che serrava tra i denti. - Muoviti. Aprì un cancello che dava accesso a una scala che conduceva ai ballatoi che correvano tutt'intorno all'edificio. Faceva strada, subito dietro venivo io, e per ultimo seguiva il tenente. I due agenti aspettarono di sotto. Sul secondo ballatoio il sergente avanzò verso il muro di fronte al giardino e all'edificio vittoriano situato più in là. Le massicce porte di acciaio avevano feritoie all'altezza degli occhi. Dall'interno, al massimo si potevano infilare fuori quattro dita, nient'altro. Occhi sbirciarono da un paio di feritoie. Al nostro passaggio, si levò una voce: - Ehi, sergente, posso vederla per un minuto? - Quando torno, - rispose il sergente. Giunto dinanzi all'ultima cella, il sergente estrasse una grossa chiave che girò in un grosso lucchetto. Poi rimosse il lucchetto e aprì la piastra d'acciaio sulla sua cerniera. Servendosi di un'altra chiave, aprì la porta d'acciaio. Si accedeva all'interno attraverso una volta ad arco di mattoni, spessa quasi un metro. In seguito avrei saputo che i mattoni e la malta marcivano. Un detenuto diligente, aiutandosi con un cucchiaio, avrebbe potuto scavarsi una via di uscita fuori, o perlomeno nella cella adiacente, che è quanto avrebbero fatto due amanti. - Entra dentro, - ordinò il sergente. Obbedii, la porta di acciaio si richiuse sbattendo sul telaio, e la cella piombò nel buio, a eccezione della lama di luce che penetrava attraverso la feritoia. Gli occhi del tenente, che si affacciò per guardare all'interno, soppressero anche quella. - Ci sono due secchi per te, lì dentro, - disse. - In uno c'è acqua potabile; l'altro è per cacare e pisciare. Non penso proprio che li confonderai. Dopo l'appello ti porteranno lenzuola e coperte. Prenditela con calma. Il rumore dei loro passi risuonò mentre si allontanavano. Restai in piedi accanto alla porta, gli occhi che si abituavano al buio quasi totale. Riuscivo a distinguere la sagoma della branda affossata sul mezzo dell'esercito americano, anno di fabbricazione 1917 circa, con un materasso sottile, anch'esso affossato al centro. Il blocco di celle era stato costruito prima dell'avvento dell'elettricità, così il filo del misero impianto elettrico passava attraverso un tubo sul soffitto. I fili penzolanti reggevano una lampadina nuda di quaranta watt. Si accese quando la avvitai più stretta. Faceva un bagliore fioco; del resto, c'era poco da vedere. Su un lato della vecchia branda, le molle mancavano, così quando mi distesi, cedette da quella parte. Tirai giù il materasso per terra. Mi avrebbero visto abbastanza facilmente, quando avessero guardato dalla feritoia. Dormire sulla cuccetta era fuori discussione. Contro la parete sul fondo c'era un secchio coperto da un giornale ripiegato. Sollevai il giornale, e subito lo rimisi sul secchio. L'altro recipiente doveva essere quello dell'acqua potabile. Era un bidone di quattro litri, e sopra c'era appoggiato un libro con la copertina strappata. Conteneva un litro d'acqua, e il libro era "La sorgente" di Ayn Rand. Per il resto la cella era vuota. Avendo sentito un rumore all'esterno, mi accostai alla feritoia per sbirciare. Il contingente di nuovi arrivati di cui facevo parte attraversava in gruppo il giardino. Poi scomparve alla vista. Dall'altra parte riuscii a vedere i detenuti nelle loro tute blu avviarsi verso il portico della residenza, fino allo sportello che mi faceva pensare a quello di una banca. Era, avrei saputo in seguito, lo Sportello dei Lasciapassare. Se un detenuto riceveva una visita, otteneva il lasciapassare a quello sportello. Se aveva un consulto medico che prevedeva un'uscita, l'autorizzazione veniva rilasciata dallo Sportello dei Lasciapassare. Per accedervi, bisognava fare il giro del giardino. Solo il personale dei non internati e i carcerati sotto scorta avevano il diritto di usare i viali per attraversare il giardino. Alcuni dei detenuti, una volta passati per lo sportello, si mossero verso il cancello pedonale, mentre altri tornarono indietro e scomparvero dal mio campo visivo. Alcuni indossavano impermeabili gialli lucidi di gomma; altri portavano cappelli da detenuto con una visiera lunga, il bavero rialzato. Altri ancora, passandomi vicino, gridarono qualcosa a qualcuno che alloggiava in una cella situata in prossimità della mia. Se provavano a fermarsi un momento, la guardia armata appostata sulla passerella sopra il cancello pedonale li cacciava via. Il fischio di una sirena a vapore lacerò l'aria. A quel segnale detenuti e agenti affrettarono il passo. La sirena annunciava l'appello principale della giornata. In un paio di minuti, tutti i detenuti sparirono dalla circolazione. Era ora di stendersi sul materasso e mettersi a leggere. Grazie a Dio qualcuno aveva lasciato un libro, un libro di cui avevo sentito parlare nella prigione della contea. La prima pagina mancava, ma questo era l'ostacolo minore. Dopo un minuto ero già avvinto dalla storia di Howard Roark, architetto geniale e onesto che resisteva inflessibile e solitario alla schiera di mediocri che lo mordicchiavano alle calcagna come cagnolini ringhiosi, e lo odiavano perché non voleva venir meno ai suoi ideali. Ancor più che da Howard Roark, ero incantato dall'editore del giornale che aveva lottato per raggiungere ricchezza e potere, che gli avevano permesso di abitare in un attico con il tetto e le pareti a vetrata, cosicché quando tirava le tende poteva fare l'amore sotto le stelle e sopra la metropoli. Mi resi subito conto che questo libro era diverso da qualsiasi altro libro che avevo mai letto: ero affascinato, ipnotizzato, spinto a leggere una pagina dietro l'altra. Mi resi conto da solo, senza aver letto alcuna critica letteraria, che i personaggi non dovevano essere persone reali. Ciascuno di loro rappresentava un'idea particolare: l'idealista individualista, l'altruista che desiderava distruggere l'individuo che osava resistere da solo senza sottomettersi alla massa. Il rumore di una chiave che girava nella serratura mi indusse a infilare il libro sotto il materasso. Magari leggere era proibito, pensai. Un agente tenne la porta aperta, e comparve un detenuto con un vassoio di acciaio in mano. Si fermò sulla soglia, e io presi in consegna, il vitto standard che passava l'istituzione, consistente in: spaghetti brodosi, fagiolini stracotti, tre pezzi di pane con margarina bianca (la legge proibiva ai produttori di margarina di usare coloranti gialli per farla somigliare al burro), un dolce di «tapioca de San Quentin», più un caffè lungo in una tazza di acciaio inossidabile, per altro reso ancora più leggero dai detenuti addetti alle cucine che rubavano la polvere di caffè e la vendevano. Il cibo era mangiabile, ma tutt'altro che appetitoso. - Comunque, - come dicevano certi ex detenuti, - mi trattavano meglio di come io avrei trattato loro -. Mangiai tutto tranne i fagiolini. Erano fagiolini in scatola spappolati dalla cottura. Fuori, sul ballatoio, una chiave pesante batté su una tubatura e una voce urlò: - Ora dell'Appello in Due! Era tempo di mettersi in piedi per rendersi facilmente visibile. Comparve un'ombra. - Fa' vedere una mano, - ordinò una voce. Infilai la mano attraverso la feritoia fino al polso. Passarono due guardie, ciascuna contando per conto proprio. Alla fine confrontarono i numeri. Se i numeri risultavano gli stessi, il conteggio veniva comunicato per telefono al Controllo. Le telefonate giungevano dal blocco di celle, dal braccio dei condannati, dall'ospedale, e dalla colonia agricola. Quando ogni unità corrispondeva, e il totale risultava esatto, la sirena annunciava che tutto era regolare. Sbirciai fuori attraverso la feritoia. A meno di un minuto dal segnale, un torrente di agenti incominciò a rovesciarsi per il Giardino delle Delizie, in direzione della porta di uscita riservata ai pedoni. Era il turno di giorno che smontava dal servizio. Tornai alla "Sorgente", all'eroico architetto, all'editore cinico, alla giornalista che aveva sposato l'editore e amava l'architetto. Gran parte della mia infanzia e della mia giovinezza l'avevo trascorsa così, chiuso in una cella con un libro. Diversamente dalla maggioranza delle persone, ciò che pensavo del mondo era l'impronta di ciò che leggevo, che riempiva lo spazio vuoto solitamente riservato alla famiglia e alla comunità. Una chiave girò nella serratura. Due agenti mi consegnarono due coperte grigie e una federa contenente la «fornitura del detenuto». Comprendeva parecchi articoli: uno spazzolino, una piccola busta di carta piena di polvere dentifricia, un rasoio di sicurezza costituito da tre pezzi, e due sottili lame Gillette. C'era un mozzicone di matita appuntita (in effetti era una matita tagliata a metà), due fogli di carta a righe, e due buste affrancate. C'era anche un opuscolo: "Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Normativa e Regolamenti". C'era un modulo: "Corrispondenza e Colloqui. Modulo di richiesta". Ci erano concessi dieci nomi, esclusi i legali. Chi avrei inserito nella lista? Mistress Hal Wallis di sicuro. Non Al Matthews. Mi aveva mollato. Sì al Dottor Frym. Conosceva il primario psichiatra di San Quentin, e ovunque andassi volevano relazioni psichiatriche. Zia Eva, sì. Era il mio unico contatto con mio padre, e mi avrebbe informato su come se la passava. Al pensiero di mio padre ospite di una tetra casa di riposo, mi vennero le lacrime agli occhi. Per lo meno non avrebbe saputo dove mi trovavo. E mia madre? Avrei dovuto inserirla nella lista? Avrebbe potuto mandarmi del denaro, il che avrebbe reso più facile la mia vita a San Quentin, ma la triste, semplice verità era che io non le portavo alcun affetto. Lo Stato della California mi aveva allevato. Aveva un altro marito e un altro figlio, aveva una vita, per quanto insignificante, tuttavia decente. Io ero un residuo della sua gioventù. Alla fin fine ero incapace di perdonarla per aver detto al giudice del Tribunale dei Minori che non poteva assumersi la responsabilità della mia persona. Ciò aveva cancellato l'ultima traccia di affetto. A malapena la conoscevo, ed era tempo di finirla con la farsa della madre e del figlio. Anche per lei sarebbe stato meglio uscirne fuori. Non inclusi il suo nome nel modulo. Alcuni mesi dopo, il cappellano del penitenziario mi convocò per dirmi che mia madre aveva scritto al direttore, il quale gli aveva riferito la faccenda. Io risposi che non volevo avere niente a che fare con lei. Quando il cappellano provò a convincermi diversamente, gli dissi di farsi i fatti suoi. C'era qualcun altro? No. Alcune voci mi richiamarono alla feritoia. Giù di sotto, le gocce di pioggia brumosa erano catturate nel potente fascio di luce dei riflettori. Alcuni prigionieri, bavero rialzato e libri sotto il braccio, arrancavano in fila a capo chino per proteggersi dal vento, certamente di ritorno dalla scuola serale. L'ultima volta che ero andato a scuola, avevo dieci anni. In riformatorio avremmo dovuto andare a scuola per metà della giornata, ma per un motivo o per un altro, per essermi picchiato con un altro ragazzino o con il Capo, io ero sempre in cella di rigore. Lì, a San Quentin, non avrei potuto permettermelo. Quei muri avevano divorato uomini ben più duri di me. Nessuno mi avrebbe mandato a Broadway, perché ero troppo casinista. "Nessuno" era duro fino a questo punto. Senza che me lo dicesse nessuno, sapevo che un individuo troppo duro sarebbe semplicemente finito ammazzato, in un modo o in un altro. Quello non era un giardino d'infanzia come gli altri posti in cui ero stato in precedenza. Quello era San Quentin. La domanda era: come potevo essere diverso? In realtà, noi non scegliamo ciò che siamo, se non entro certi limiti. Pure, guardando attraverso la stretta feritoia la pioggia che cadeva nel fascio di luce sulla prigione, un voto lo feci: avrei nutrito la mia fame di conoscenza. Avrei fatto in modo di riprendermi il tempo che mi sottraevano, volgendolo a mio vantaggio. Stavo ancora leggendo quando mi giunse il lamento di una tromba che suonava il silenzio, non lontano dalla mia cella. Per un momento pensai che si trattasse di un sogno o il frutto della mia fantasia, ma erano reali, quelle note lunghe e tristi che risuonavano per il penitenziario di San Quentin. Un minuto dopo la luce della cella fu spenta a distanza. Più tardi mi svegliai quando un fascio di luce mi colpì gli occhi. Una guardia faceva il conteggio. Quando se ne fu andato, restai disteso sul pavimento, lo sguardo verso la stretta feritoia. Riuscivo a scorgere qualche centimetro di cielo notturno e un'unica stella splendente. Era ipnotico. Ricordai un libro che avevo letto ai tempi del riformatorio, "Il vagabondo delle stelle" di Jack London, la storia di un uomo in una cella di San Quentin come la mia, forse la stessa cella che occupavo io. Quest'uomo terrificante, con un'inflessibile forza di volontà, fu costretto in una camicia di forza. Fissava la sua mente su una stella e in qualche modo si proiettava nello spazio e nel tempo, e viveva altre vite. Era reale, o avveniva soltanto nella sua mente? Non riuscivo a ricordare quale fosse la risposta, ammesso che fosse stata data una risposta. Non sembrava rilevante per il tema del racconto, la capacità di quest'uomo di sfuggire al suo tormento in virtù della sua mente. Il pensiero del "Vagabondo delle stelle" mi entusiasmava. La conoscenza della storia permette a ciascuno una maggiore percezione della vita. Come potevamo capire dove eravamo se non sapevamo dove eravamo stati prima? Io adesso mi trovavo nella Big House, come la chiamavano nei film. Quanto tempo ci sarei rimasto? Fino a dieci anni, da sei mesi a dieci anni, secondo la legge: una vera e propria sentenza di durata indeterminata. L'idea del massimo era inaccettabile, ma la differenza fra tre, quattro, cinque, o anche sei anni era un sacco di tempo indeterminato. I detenuti sapevano che la media dei carcerati scontava la pena prima della libertà vigilata, ma io non rientravo mai nella media nel giudizio delle autorità. E poi, sarei sopravvissuto? Gli uomini morivano in prigione, specie quelli che erano calamite di guai. Se il passato è il prologo, io appartenevo alla categoria delle calamite. La paura che avevo nelle viscere si sciolse nel cuore quando alla fine mi addormentai in quella prima notte piovosa a San Quentin, A20284 BUNKER, E. H. Il tonfo assordante della chiave che girava nella serratura mi svegliò di colpo e al tempo stesso mi fece scattare in piedi. Un internato riempì il vano della porta aperta. - Il vassoio, disse, allungando la mano. Presi il vassoio della cena della sera prima e glielo tesi. Lui indietreggiò, e un altro detenuto mi consegnò un altro vassoio. La colazione consisteva in polenta integrale fredda e un uovo fritto, anche questo freddo. In realtà, era tutto bruciacchiato sul fondo mentre sopra era crudo, per cui dire che era cotto suonava improprio. Mescolai la parte liquida con la polenta e ripiegai la parte bruciata su un pezzo di pane innaffiando quella schifezza col caffè lungo tiepido. Era ancora troppo presto per le molte attività che si svolgevano intorno al Giardino delle Delizie e il Portico del Capitano nella vecchia residenza. Tornai a Ayn Rand. Howard Roark aveva fatto saltare in aria i propri palazzi perché i suoi progetti erano stati modificati. Sebbene fossi dalla sua parte, mi dissi che la sua reazione era stata un po' eccessiva. Frattanto le porte venivano aperte lungo il ballatoio, e il rumore si faceva più forte man mano che l'operazione si approssimava alla mia cella. Anche la mia finalmente si aprì. Una guardia si appostò all'ingresso. - Vuoi vuotare il secchio della merda e avere un po' d'acqua? - Certo, capo -. Esperti del mestiere mi avevano insegnato a «fare la ruota» per il Capo. Dopo aver preso il recipiente dell'acqua con una mano e il secchio della merda con l'altra, la testa girata dalla parte opposta, uscii dalla cella nel corridoio. Dopo la pioggia, il mattino splendeva sotto il sole; la luce mi fece distogliere lo sguardo. Sotto di me, più in là sulla sinistra, vidi parecchi detenuti bighellonare cercando di non attirare l'attenzione. Avanzavano per cinque o sei metri in una direzione, poi facevano dietro front e tornavano in senso inverso, tentando di confondersi nel flusso del viavai dei detenuti. Restare fermi avrebbe attirato più rapidamente l'occhio della sentinella armata sulla passerella sopra l'uscita pedonale. I detenuti cercavano furtivamente di scambiare una parola con qualcuno che si trovava sulla mia destra. Da ogni cella usciva una figura, ciascuna reggendo il recipiente dell'acqua e il secchio della merda. Dovetti fermarmi mentre un detenuto scopava sul corridoio la spazzatura della sua cella che, penetrando tra le assicelle di legno del pavimento del ballatoio, cadeva al piano inferiore. L'uomo era a torso nudo, il corpo muscoloso segnato da tatuaggi blu. Quando si voltò dalla mia parte, vidi che aveva le sopracciglia depilate, l'ombretto sulle palpebre, e le labbra rosse. Indossava jeans attillati come una seconda pelle. Era una checca clamorosa col fisico di uno stopper di football. Rientrò in cella per farmi passare. Sorrisi tra me e me. Da un'altra cella uscì un chicano in un corpo di donna minuta e aggraziata, gli occhi da cerbiatta e l'andatura ondeggiante di una modella. Poi vidi due altre parodie di donna, i lembi della camicia annodati alla cintola. Per un momento mi sentii vacillare, come se avessi ricevuto un pugno allo stomaco. Il capitano L. S. «Red» Nelson si era vendicato perché gli avevo strappato la maschera antigas e gli avevo mollato un pugno sul muso. Mi aveva sistemato nella Sezione dei Finocchi. Al lieve capogiro subentrò un furore cieco. - Che stronzata! - urlai, scaraventando il mio secchio di merda in un ampio cerchio. Andò a schiantarsi contro il muro schizzando di piscio e merda parecchi travestiti, che presero a strillare precipitandosi sul ballatoio verso il fondo del piano. Uno o due di loro si rifugiarono all'interno delle loro celle e richiusero la porta. I detenuti che gironzolavano di sotto interruppero il loro viavai, ben contenti di assistere allo spettacolo. - Non sono un frocio! - urlai. Lasciarsi affibbiare quella etichetta equivaleva a rinunciare a ogni posizione. Nient'altro che un oggetto privo di virilità. Solo chi aveva abusato dei bambini e gli informatori della polizia occupavano una posizione inferiore nella gerarchia della galera. Era terribile! Non era vero! Sentii il clicchettio di una cartuccia che veniva caricata nella camera di scoppio di un fucile. La guardia armata sulla passerella, lunga una cinquantina di metri, si era mossa in avanti. Al pianterreno, accanto al giardino, si stava formando una folla di detenuti. A parte me, il ballatoio del piano era vuoto, anche se poco distante una checca sbirciava da dietro l'angolo della sua porta. Una guardia comparve all'estremità del ballatoio. Si tenne a distanza di sicurezza. - Che succede? - Ehi, che cazzo, io non sono un frocio, amico! - Chi ha detto che sei un frocio? Una seconda guardia armata comparve dietro il parapetto della passerella sovrastante. - Spara! Perdio! Forza, spara! Io qui non ci resto. Un sergente comparve all'angolo del ballatoio. Sfoggiava grandi baffi bianchi, la faccia dell'uomo temprato dall'esperienza. Avanzò verso di me, lentamente, stando attento a mantenere una distanza sufficiente a evitare un colpo del secchio. Prima che potessi guadagnare terreno, le due guardie armate sulla passerella avrebbero aggiunto un po' di piombo al mio peso. - Calma, ragazzo. Nessuno dice che sei frocio. - Sono qui… con i froci. Io qui non ci resto. Dovete ammazzarmi, prima. - Possiamo farlo, - disse un'altra voce. Un tenente in uniforme sgualcita era comparso sull'altra estremità del ballatoio. Era più vicino, ma davanti a una porta aperta, pronto a mettersi al riparo qualora avessi lanciato il mio secchio. Aveva in mano un manganello a gas. - E adesso metti giù quel secchio e rientra in cella. - Sì, certo, così mi salterete tutti addosso. - Nessuno farà niente del genere. Dal piano inferiore, voci gridarono: - Non farlo! Non ci credere! - E così via. - Non sono un finocchio… una checca… un frocio, e qui non ci resto, cazzo! Me ne fotto di quello che volete fare. - Calma, calma. Ti stai sbagliando. Le prime due celle, quelle non sono della Sezione dei Finocchi. Sono celle di rigore. Anche il sergente si era accostato dall'altro lato, pur tenendosi a una certa distanza. - Sei in isolamento finché non vedrai il capitano. Mentre ero voltato verso il sergente, il tenente si avvicinò rapidamente in punta di piedi. Sta' attento! - gridarono i detenuti al piano inferiore. Mi voltai per affrontare il tenente nel momento preciso in cui quello allungò il braccio e mi spruzzò il gas direttamente in faccia. La carica esplosiva era una cartuccia di fucile, con gas lacrimogeno al posto del piombo. Mi accecò all'istante. L'impatto del colpo mi scagliò con la testa contro il muro. Mi furono immediatamente addosso, un pugno al ventre, un asciugamano intorno al collo. L'asciugamano mi serrò il collo, bloccando il flusso di sangue al cervello, e in pochi secondi piombai nel buio dell'incoscienza. Una presa del genere può uccidere molto rapidamente, se si mantiene la pressione, ma se si allenta, il sangue torna a fluire e si riprende conoscenza. Non appena ripresi i sensi, la porta della cella si richiuse alle mie spalle. Volevo piangere, ma i miei occhi erano già infuocati. Avevo già ingoiato gas lacrimogeno in passato, ma questo non rendeva la cosa più facile. Per lo meno era successo fuori della cella. Se il colpo fosse stato esploso all'interno, nei giorni successivi le particelle di gas si sarebbero sollevate ogni qualvolta mi fossi mosso. Per esperienza sapevo che la cosa migliore era restare stesi e lasciar depositare tutto, ed è esattamente quanto feci. Il gas bruciava, ma era sopportabile un'ora dopo quando una chiave girò nella serratura e occhi comparvero alla fessura sulla porta. - Il capitano vuole vederti. Non crearci problemi quando apriamo la porta. La chiave girò, la porta si aprì, e io mi alzai, gli occhi ricominciarono a bruciarmi non appena i miei movimenti sollevarono in aria le particelle di gas lacrimogeno. In gruppo serrato, i tre agenti ed io scendemmo per la scala sul retro della sezione, attraversammo il cancello e il giardino fino alla veranda. Su una porta si leggeva: ufficio del capitano, e la scritta accanto indicava: direttore aggiunto, detenzione. Il tenente mi fece cenno di attendere mentre lui entrava dentro. Il suo nome, avrei appreso in seguito, era Carl Hocker. Lo chiamavano il Falco, ed era già una leggenda a San Quentin. In quanto responsabile del cortile, aveva più potere degli altri tenenti. Più tardi diventò direttore del Penitenziario di Stato del Nevada a Carson City, l'unico carcere americano in cui erano ammessi i giochi d'azzardo. Una delle guardie che mi sorvegliavano disse all'altra: - Arriva il direttore. Aveva visto giusto. Dal viale che conduceva alla veranda stava arrivando un uomo in abito completo. La guardia armata sulla passerella lo seguiva sorvegliandolo dall'alto. Salutò le guardie con un cenno del capo, e loro dissero: - Buon giorno, signor direttore. Lui mi lanciò un'occhiata e varcò la porta dell'Ufficio del Capitano. - È la prima volta che lo vedo dentro le mura, - osservò una guardia. - Era qui un mese fa. - Già… il giorno della visita del governatore. Era vero, come appresi in seguito, che i direttori non entrano quasi mai all'interno delle mura del carcere di cui sono responsabili. A governare il mondo dentro le mura sono il direttore aggiunto, il capitano e i suoi tenenti. Il direttore di San Quentin tratta con la burocrazia di Sacramento e il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Un minuto dopo il tenente Hocker aprì la porta e mi fece cenno di entrare. Il capitano Nelson era dietro la sua scrivania. Il direttore Harley O. Teets era seduto al suo fianco, mentre il tenente Hocker restò un po' dietro di me, di lato, pronto a saltarmi addosso qualora avessi tentato qualche azione. - Eccolo qua, - disse Red Nelson al direttore Teets. - È passato un giorno… neanche un giorno intero… e ci ha piantato una grana. - Per… perché mi avete messo con i travestiti? Ho pensato che volevate incollarmi addosso il marchio del finocchio. - Puah! - esclamò Nelson scrollando il capo. - Sei esploso prima di sapere di che si trattava. Ti ho fatto mettere lì in attesa di avere un colloquio con te. - Questo non me lo avevate detto. - Non sono tenuto a dirti un cavolo di niente… galeotto! - È giusto. Non siete tenuto. Ma se non me lo dite, come faccio a sapere che fate? Come vi sentireste al mio posto? Alle mie spalle Hocker scoppiò a ridere, e anche il direttore Teets si coprì la bocca con una mano per nascondere il sorriso che aveva sulle labbra. Il capitano Nelson si preoccupava sempre della sua immagine. Voleva che tutti sapessero che era un duro - un duro, ma al tempo stesso un uomo giusto. - Smettila di parlare a vanvera, - disse. - Ascolta solo un minuto. Annuii. - Stando alla legge, sarei autorizzato a metterti in isolamento per uno o due anni, in seguito a questo incidente. Siamo obbligati a inviare dei rapporti a Sacramento sull'uso dei gas lacrimogeni. È quasi stato un incidente grave. Con i tuoi precedenti, nessuno troverebbe niente da ridire. Non intendo procedere… per questa volta. Il direttore Teets e io ne abbiamo discusso insieme. Vogliamo darti un'altra possibilità. Adesso ti rimetto nel cortile, tra gli altri detenuti, senza contestarti alcun rilievo disciplinare. Alla prima che combini, finisci in cella di isolamento. Ci siamo intesi? - Sì, - dissi con un cenno del capo. Mi sentivo bene. Avrei raggiunto il resto della popolazione carceraria. Al tempo stesso avevo paura, perché la popolazione carceraria di San Quentin - "il cortile", così si chiamava - era un territorio sconosciuto pieno di uomini pericolosi. Red Nelson si rivolse al direttore Teets. - Per il momento assegnamolo al regime di massima sorveglianza. - Mi pare giusto, - disse il direttore. Poi si voltò verso di me. - Sei soltanto un ragazzo. Puoi ancora rimetterti sulla retta via, se lo desideri. Diversamente, se ci crei problemi, noi saremo in grado di rimetterti in riga, te lo garantisco. Nessuno è troppo duro per San Quentin… - In base alla nostra esperienza, - soggiunse il tenente Hocker. Red Nelson scrisse qualcosa su un modulo e lo firmò. Lo porse al tenente Hocker, che lo prese in consegna. Lo lascerò fuori dopo l'appello per il lavoro. - Molto benedisse, Red Nelson. Il tenente Hocker mi chiamò con un cenno del dito. - Andiamo. Lo seguii sulla veranda sovrastante il Giardino delle Delizie. Da lì a un'ora, mi sarei trovato nel Grande Cortile. Così feci il mio ingresso a San Quentin, all'epoca il più giovane detenuto del penitenziario. CAPITOLO SESTO. L'OROLOGIO FA TIC TAC, '52, '53, '54, '55. Sopravvissi ai miei ultimi anni di adolescenza a San Quentin. Joseph Welch schiacciò Joe McCarthy (queste vicende passavano inosservate nell'universo carcerario), e Willie Mays realizzò una presa di palla miracolosa su un rinvio aereo di Vic Wertz fino al fondo del Polo Grounds (cosa che, al contrario, fece colpo, perché le scommesse sul baseball andavano alla grande, di quei tempi), e quando attraversai il Grande Cortile, parecchi furono i detenuti che mi salutarono o mi fecero un cenno del capo o mi accolsero con un gesto di riconoscimento. Vivevo due vite, la prima in cella, dalle quattro e mezza del pomeriggio alle otto del mattino, la seconda nel Grande Cortile o da qualche altra parte all'interno delle mura della prigione. All'epoca i detenuti avevano in carico la gestione della vita interna del penitenziario. Ogni mattina, quando si apriva il cancello della cella, partivo all'avventura. Poco prima del mio arrivo, la filanda di iuta era andata completamente distrutta in un incendio, lasciando la prigione a corto di lavori. Io ero tra i trecento che non erano stati assegnati ad alcuna mansione. Il fatto di essere senza lavoro intramurale era teoricamente un motivo sufficiente per non considerare la concessione della libertà vigilata, ma io avevo comunque dei trascorsi troppo turbolenti per ottenere la condizionale, anche se avessi lavorato sette giorni alle settimana svolgendo tre diverse attività. La commissione per la libertà vigilata si atteneva a una normativa scritta secondo la quale la concessione di misure alternative alla detenzione non era neppure da prendere in considerazione se l'internato avesse commesso anche una minima infrazione alla disciplina nel corso degli ultimi sei mesi scontati. Nel '54, avevo appena terminato un periodo di isolamento per via di una rissa dalla quale ero uscito con un taglio sulla guancia, dalla tempia al labbro (perdio, quanto aveva sanguinato!), e dunque non avevo alcuna possibilità imminente di essere scarcerato in regime di libertà vigilata. Scommettevo su tutti gli avvenimenti sportivi, tranne le corse. Il gioco con il totalizzatore è troppo difficile, e chi sa quel che farà un cavallo o quel che il suo allenatore vuole che faccia in una certa corsa? No, no, niente cavalli. Scommettevo sugli incontri di pugilato (la cosa più facile, tranne quando a combattere erano due pesi massimi di colore), gli incontri di football, professionali e universitari, il baseball di prima categoria (la più difficile), e talvolta una partita della Pacific Coast League se era trasmessa in radiodiffusione e avevo voglia di ascoltare qualcosa nell'auricolare in dotazione in ogni cella. Nel '54 avevo smesso di giocare al bullo e al duro. I bulli e i duri totalizzano tassi di mortalità elevata: talvolta capita che facciano paura alla persona sbagliata. I miei amici erano numerosi, suddivisi in una varietà di cricche, come si chiamavano allora. Oggi si chiamerebbero ambienti. La maggioranza dei rissosi e dei duri erano amici miei, ma nel '54 mi ero già allontanato da loro orientandomi verso i veri ladri professionisti e i truffatori. Loro erano rispettati, ma si tenevano alla larga dai guai per lo più standosene per conto loro e facendo gruppo a sé. Ottenevano i migliori lavori nel penitenziario e godevano dei vari benefici accessori che ne traevano. Paul Allen, per esempio, era assegnato alla cucina, ma era il cuoco del Braccio della Morte. Ai condannati alla pena capitale, che erano molto meno numerosi e venivano giustiziati in tempi brevi, spettava un vitto di gran lunga migliore della massa dei detenuti, o per lo meno i cibi erano preparati con molta più cura. Il cuoco del Braccio della Morte, come beneficio accessorio, era autorizzato a preparare panini di carne di manzo e uova che passava agli amici o vendeva. Un altro dei nostri amici lavorava in lavanderia, e ci riforniva di vestiti di buon taglio, jeans e camicie inamidate e stirate. Il massimo era il Gabinetto Dentistico. All'epoca, i detenuti provvedevano alla pulizia dei denti e alle otturazioni semplici. Le estrazioni erano di competenza del dentista. Jimmy Posten, scassinatore di casseforti con la faccia da bambino, era l'assistente capo del dentista. Jimmy gestiva il proprio gabinetto dentistico all'ora di pranzo. Servendosi dell'oro ricuperato dai denti estratti, prendeva le impronte per ponti e corone, trattamenti non assicurati dall'istituzione. Accumulava centinaia di stecche di sigarette e un sostanzioso gruzzolo di dollari americani, cosa che era illegale. Io andavo a trovarlo nel suo studio un paio di volte la settimana. Una volta, al mio arrivo, stava spartendo una partita di marijuana. Verso la fine degli anni sessanta quasi tutte le prigioni erano inondate da ogni tipo di droga, ed era persino possibile mantenere la «dipendenza» mentre si scontava la pena, ma all'inizio degli anni cinquanta le vere droghe erano rare. Ci si poteva sballare solo con alcol casalingo, noce moscata (lo sballo ti iniziava circa tre ore dopo averne ingerito un cucchiaio), e inalatori Wyamine, che contenevano una certo miscuglio di anfetamine, articoli che una guardia poteva acquistare fuori e portare dentro il carcere nella gavetta del pranzo. Un inalatore Wyamine costava cinquantanove centesimi all'emporio e si rivendeva nel cortile per cinque dollari. Procurarsi una partita di mezzo chilo d'erba era un colpo formidabile. Mi sentii membro di una élite quando Jimmy ne mise da parte una bustina per me. Nel '54, mi ero già ritirato dalla mia breve carriera di pugile, tre vittorie e tre sconfitte in sei combattimenti disputati verso la fine del '52 e nel '53. Tenevo una cassetta chiusa a chiave dove riponevo con cura le bende per le mani, il paradenti e le scarpe da pugile, e spesso andavo in palestra durante il giorno per allenarmi o per far visita agli amici assegnati lì. La palestra occupava tutta la lunghezza dell'ultimo piano del Vecchio Stabilimento Industriale ed era divisa in sezioni: pugilato, sollevamento pesi, lotta libera, più uno spazio di gioco per la pallamano e una stanza con un paio di tavoli da ping–pong e televisori. Ogni sezione disponeva di un ufficio privato, e uno stanzino, come lo chiamavano, per i due o tre detenuti responsabili. La sala della boxe aveva l'aspetto e l'odore di tutte le palestre di pugilato, un misto di sangue, sudore, e cuoio. Alle pareti erano appesi manifesti degli incontri che si disputavano nella zona della baia e grandi specchi per l'allenamento con l'ombra. L'attività era regolata dal ritmo ciclico del pugilato, tre minuti di allenamento, uno di riposo. Un cronometro faceva automaticamente suonare un gong secondo questa sequenza. Quando iniziava l'allenamento, i punching ball producevano un rumore simile alle sventagliate di un mitra e i pesanti sacchi di cuoio emettevano colpi sordi rimbalzando sulle catene cui erano appesi. I pugili grugnivano e sbuffavano quando sferravano un pugno, cosa che faceva automaticamente contrarre i muscoli addominali nel momento in cui erano più vulnerabili, ossia quando il braccio era disteso e distanziato dal corpo. C'erano due spazi destinati al pugilato: uno per l'insegnamento e la pratica dell'allenamento con l'ombra davanti allo specchio, l'altro riservato ai combattimenti veri e propri, o per esercitarsi con un altro pugile. Al suono del gong, si fermava tutto. I pugili riprendevano fiato, e gli allenatori dispensavano ammonimenti e istruzioni. Un detenuto dirigeva il settore del pugilato, e aveva l'incarico di fornire l'equipaggiamento per l'allenamento e decidere i nomi di coloro che avrebbero disputato i vari incontri organizzati nel corso dell'anno. Era un compito che comportava al tempo stesso diplomazia e fermezza. Se alla palestra mi annoiavo, potevo sempre fare un salto dal barbiere, all'epoca situato sul Viale del Coltello. Il locale disponeva di venticinque poltroncine, cinque delle quali erano riservate ai neri. Due dei miei amici, Don «Saso» Anderson e «Ma» Barker, avevano diritto a una poltroncina sull'angolo. Una volta usciti dal carcere, rapinarono una banca di Reno, e Saso accidentalmente ferì. Ma con una pallottola al petto. Per ore e ore girarono per i boschi a bordo dell'automobile. Ma si rifiutò di farsi vedere da un dottore e morì. Alle quattro del pomeriggio, il Grande Cortile si riempiva man mano che i detenuti salivano a passi stanchi per gli scalini di cemento consunti sciamando dai vari laboratori, dalla fabbrica di mobili, e dalla Navy Cleaning Plant, la lavanderia della Marina. Quando quelle quattromila voci restavano catturate nel canyon delimitato dagli immensi blocchi di celle, producevano un ruggito simile a quello di un mare in tempesta. Al suono dei fischietti, i detenuti si disponevano in fila davanti a ogni blocco. Per indicare che qualcuno era o era stato un amico per la pelle, l'espressione in uso era: - Mi metto in fila con lui -. Per i neri vigeva il regime di segregazione, sia al momento dell'allineamento in riga che del consumo dei pasti in refettorio. Io avevo molte amicizie ed ero il benvenuto in parecchie cricche, compresa quella di Joe Morgan, che era stato trasferito da Folsom in attesa della concessione della libertà vigilata. Vent'anni dopo sarebbe diventato il "caudillo" della mafia messicana, ma anche nel '54 era già una leggenda. La mia posizione fu rafforzata dal fatto che quelli della sua cerchia mi riservarono un posto nella fila. Tra tutti gli uomini che avrei incontrato nei due decenni a venire, Joe era sicuramente il più duro. Con questo non intendo necessariamente dire che era capace di battersi con chicchessia in una rissa. Joe si reggeva su una gamba. L'altra gli era stata fatta fuori da una mitragliata degli sbirri di East Los Angeles quando aveva diciotto anni. Ciò nonostante ci sapeva ancora fare con i pugni, ma la sua vera durezza risiedeva dentro di lui, nel cuore e nella testa. Qualsiasi cosa succedesse, Joe reagiva senza battere ciglio, e spesso riusciva per sino a riderci su. Tornerò a parlare di lui in seguito. Quando tutte le righe erano rientrate in buon ordine, il Grande Cortile era vuoto, e i ballatoi dei blocchi di celle erano gremiti di detenuti, suonava la campanella del rientro e della chiusura in cella. Si alzavano le sbarre di sicurezza, e tutti i detenuti aprivano la porta della cella, entravano, e la richiudevano. In un attimo i ballatoi si svuotavano e le sbarre di sicurezza si riabbassavano. Lungo ogni ballatoio avanzavano due agenti, ciascuno fornito di un contatore manuale "clic clic, clic clic, clic, clic clic" - e alla fine confrontavano i risultati del loro conteggio e lo comunicavano a un sergente servendosi del telefono del blocco: - Sezione D, primo ballatoio, quarantasei; secondo ballatoio, quarantanove; terzo ballatoio, cinquantuno… Il sergente trasmetteva l'esito del conteggio al sergente della stanza di controllo, che disponeva di un tabellone a muro con piastrine inserite in fessure per ogni cella, ogni letto di ospedale, e anche ogni posto dell'obitorio, perché, se qualcuno moriva, il cadavere veniva contabilizzato finché non veniva portato via. Il conteggio era ritrasmesso per telefono a Sacramento, che teneva le registrazioni finali del numero degli uomini detenuti a San Quentin. Salvo inconvenienti, tutta la procedura, dalla chiusura delle celle al «tutto è regolare», richiedeva da dodici a quindici minuti. Il problema più frequente era l'assenza di un detenuto in un blocco di celle, mentre in un altro blocco di celle ce n'era uno di troppo. La campanella che annunciava «tutto è regolare» non suonava finché la faccenda non era stata risolta. Se mancava effettivamente qualcuno, passava qualche ora prima dell'apertura per il vitto. Accadeva raramente, anche se nel tempo sono stato testimone di parecchie evasioni o tentativi di evasione dall'interno delle mura. Più frequente che un tentativo di evasione vero e proprio, accadeva che un detenuto si eclissasse perché aveva paura di qualcuno, oppure perché aveva dei debiti in giro. Venivano sempre ritrovati e chiusi in cella di rigore; era un modo per essere messi in isolamento senza andare dalla guardia per chiedere protezione, che equivaleva a un marchio di infamia permanente alla virilità del detenuto. Dopo il pasto della sera, solitamente qualche minuto dopo le sei del pomeriggio, coloro che erano autorizzati a uscire erano controllati e spuntati sulle liste: la palestra serale, la scuola, il coro. Gli altri venivano chiusi in cella per la notte. Io preferivo la cella. Anche se non possedevo i poteri mentali del "Vagabondo delle stelle", la pagina stampata mi guidava attraverso miriadi di epoche e innumerevoli esistenze. Muovevo alla conquista dell'Europa Orientale con Gengis Khan e lottavo a fianco degli Spartani contro i Persiani in un posto chiamato Termopili e, grazie a Emil Ludwig, capivo come la superbia di Napoleone avesse distrutto la Grande Armata nelle nevi della Russia. Bruce Catton mi condusse attraverso la Guerra Civile Americana. Nonostante fossi un lettore vorace dall'età di sette anni, non avevo alcun discernimento o senso del valore letterario. Un libro era un libro, finché Louise Wallis mi abbonò all'edizione domenicale del «New York Times». Arrivava sempre il giovedì successivo, ed era così spesso che a malapena passava tra le sbarre. Ci mettevo due sere per leggerlo, anche se in gran parte mi limitavo a sfogliarlo. Erano le recensioni dei libri ad attirare la mia attenzione, e sebbene le novità recensite non fossero disponibili, le recensioni e gli articoli parlavano di altri scrittori e di altri libri: Thomas Wolfe, John Dos Passos, F. Scott Fitzgerald, Faulkner, Hemingway. Gli scaffali della biblioteca in effetti offrivano i libri di Theodore Dreiser, "Il titano", "Il genio" e "Una tragedia americana". Di Thomas Wolfe, lessi prima "Non puoi tornare a casa" e le sue parole furono per me una sinfonia in prosa che non aveva nulla a che vedere con quello che avevo letto prima. Le descrizioni che Wolfe faceva dell'America, della vecchia Penn Station che «catturava il tempo», e il poema in prosa in cui descrive il Paese da una cima delle Montagne Rocciose mi commosse fino alle lacrime. Il mio giorno di biblioteca era il sabato. Eravamo autorizzati a prendere in prestito cinque libri ogni volta. Io cercavo di leggerli tutti in sette notti, così da poterne avere cinque nuovi. Non ero affatto un lettore veloce, ma avevo a mia disposizione sei ore ogni notte e mezz'ora al mattino. Talvolta, se ero avvinto dalla lettura, come nel caso del "Lupo di mare", rientravo in cella dopo colazione. Leggevo sia romanzi sia saggistica. I libri di psicologia erano molto richiesti. Era l'epoca in cui un atto criminale era, "prima facie", la prova di un'anomalia psicologica. Cominciava a diffondersi la terapia di gruppo. Gli psicologi criminali di punta vedevano il carcere ideale come un vero ospedale e auspicavano che le pene detentive andassero da un anno all'ergastolo, a seconda del momento in cui l'individuo poteva essere dichiarato «guarito». In alcuni casi, e io ero uno di questi, la commissione della libertà condizionata indicava espressamente la necessità di una psicoterapia. L'idea che la povertà fosse un terreno fecondo per il crimine non veniva mai dibattuta. Mi convinsi che non la raccontavano giusta. Immaginate cosa significa avere appena compiuto vent'anni e ritrovarsi in un penitenziario di pietra grigia dopo un'infanzia trascorsa in istituzioni scolastiche per criminali. Soltanto un vero cretino non se ne sarebbe domandato la ragione. Ero semplicemente cattivo? Senza meno avevo commesso dei reati, alcuni dei quali mi facevano stare malissimo, a ripensarci, e Dio sa le cose terribili che mi avevano fatto subire, nel nome della società o di qualcuno. Avevo sopportato percosse e torture nell'ospedale di Stato. Mi avevano sparato acqua addosso attraverso le sbarre, avevo trascorso la notte sul cemento bagnato, e così mi ero buscato una polmonite. Era inaudito il numero dei pugni e dei calci che avevo ricevuto dai rappresentanti dell'autorità nel corso della mia breve esistenza. Ero stato io che avevo dichiarato guerra alla società, o era la società che mi aveva dichiarato la guerra? Le autorità si domandavano se ero pazzo, e anch'io. Non in senso letterale: non soffrivo né di deliri, né di allucinazioni. Io soddisfacevo i criteri classici di quello che allora veniva chiamato lo psicopatico criminale (oggi viene definito sociopatico): un individuo che a parole si esprimeva come una persona sana, ma si comportava come un pazzo furioso. Era di un folle prendersela col mondo intero, anche se era il mondo che aveva cominciato. Nell'idioma degli strizzacervelli, io avevo un «io» saturato dall'«es», e un «super–io» ritardato nello sviluppo, che è qualcosa di simile alla coscienza, o un regolatore su un'automobile che impedisce alla vettura di andare troppo forte. La letteratura in materia diceva che non esistevano trattamenti, anche se si sapeva che questa patologia si spegne sui quarant'anni. La mia speranza era di usare l'intelligenza per governare i miei impulsi. Sapevo che certi sociopatici hanno molto successo nella vita, e sapevo che le persone intelligenti non commettono crimini da poco. Nessuno abitava in una villa a Beverly Hills per aver scassinato casseforti. Promisi a me stesso che avrei sfruttato al massimo la mia intelligenza una volta che fossi uscito da San Quentin. Avrei assimilato tutto il sapere disponibile. Mi misi in mente di non commettere mai più un atto delittuoso, ma quando Goose Goslow mi disse come si faceva a forzare una cassaforte o come costruire un apparecchio che mi avrebbe consentito di forare una cassaforte fissata al pavimento, la più difficile da scassinare, io ho assorbito anche quel sapere, proprio come trascrivevo le parole che non conoscevo per poi andare a cercare il loro significato nel "Webster's Collegiate Dictionary" che Louise Wallis mi aveva mandato. Mistress Wallis mi scriveva, non tutte le settimane e neppure tutti i mesi, e quando scriveva, avevo la netta impressione che fossero parecchie lettere parziali che aveva incominciato senza terminare. Le infilava in una busta e me le inviava tutte insieme. Scriveva bene, e la sua saggezza mi commuoveva profondamente. Possiamo dimenticare le nostre disgrazie preoccupandoci per qualcun altro. Mi scriveva dal "Queen Mary" o da Saint–Tropez, descrivendomi il blu così unico del Mediterraneo. A quel tempo cominciavo le lettere che le indirizzavo con «Cara mamma», e provavo un forte vincolo filiale. Lei mi diceva che ero destinato a un'esistenza meravigliosa e che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per aiutarmi ad aiutare me stesso. Io non avevo nessuna idea di ciò che volevo, tranne che sentivo in me la rabbia di attraversare le esperienze della vita e un desiderio altrettanto potente e urgente di conoscenza. Il patto di Faust mi aveva tentato: dammi la conoscenza e prendi la mia anima, perché, ad ogni modo, la conoscenza è Dio. In un'occasione avevo evitato di accoltellare un tizio che lo meritava perché nutrivo il sogno di una vita fuori del carcere, il sogno che Louise Wallis mi aveva dato. Una sera del '53, la rete del mio letto si ruppe come era accaduto nella cella di isolamento, e anche quella volta stesi il materasso per terra. Dal momento che le celle di San Quentin misuravano soltanto un metro e trentacinque di larghezza per tre metri e mezzo di lunghezza, il fatto di essermi disteso sul materasso contro la porta della cella certamente mi rendeva visibile alle guardie di passaggio. In effetti, il mio cuscino era appoggiato contro le sbarre. Avevo gli auricolari e ascoltavo un programma di musica leggera sponsorizzato dall'American Airlines. Attutiva i rumori dei colpi di tosse, delle imprecazioni, e degli scarichi dell'acqua, i rumori brutali del blocco di celle immerso nel buio. Di lì a poco, un secondino, così si chiamavano le guardie, mi strattonò attraverso le sbarre. Fasci di luce guizzarono sul mio corpo. Sul ballatoio c'erano due guardie, una con un portablocco, il che significava che il conteggio era verificato cella per cella, che avevano contato e ricontato e adesso cercavano dove era finito il detenuto che mancava all'appello. Erano furiosi e mi accusarono di sabotare il conteggio. Cercai di mostrar loro il letto rotto, senza risultato. Alla fine dissi che non volevo sentire «né dialoghi socratici, né le orazioni di Cicerone». Se ne andarono, e io tornai a dormire. L'indomani mattina, fissato con la molletta per la biancheria attaccata alle sbarre, com'era in uso per questo tipo di cose, c'era un lasciapassare dattilografato in rosso: commissione disciplinare, ore 8.00. Dopo colazione mi presentai all'Ufficio di Custodia, dove altri carcerati erano già in attesa di presentarsi alla commissione disciplinare. Di solito la presiedeva il capitano o il direttore aggiunto, ma quella mattina c'era il tenente del secondo servizio di guardia, A. J. Campbell. Aveva la faccia rossastra gonfia e il naso violaceo dell'alcolista, ed era conosciuto sia per il suo temperamento al vetriolo che per la sua paura dei detenuti. Non si era mai visto nel cortile. Campbell era davvero di pessimo umore quella mattina. Ero stato accusato di aver deliberatamente falsato il conteggio e insultato l'agente che mi aveva ammonito. Mi dichiarai non colpevole, spiegai il problema della rete della branda, e ripetei la mia espressione con i riferimenti a Socrate e Cicerone. Ero sorpreso che mi avessero fatto rapporto. Al peggio, pensavo di ricevere una sanzione, tipo che sarei stato privato dei privilegi per trenta giorni. Macché. Campbell mi annunciò che avrebbe trasmesso la faccenda alla commissione disciplinare riunita al completo e che sarei stato messo in isolamento. In isolamento! Segregato in cella di rigore! Sentii montare l'indignazione, e mentre alzavo gli occhi ridendo a denti stretti e dicevo qualcosa su Cicerone, l'indignazione prese il sopravvento sul buon senso. Afferrai il bordo della scrivania e lo sollevai. Il tavolo cominciò a inclinarsi; i cassetti scivolarono fuori e caddero sul pavimento. Campbell si mise a urlare chiedendo aiuto. Ancora uno sforzo, e la scrivania si ribaltò. Lui riuscì a scivolare indietro e poi balzò in piedi, ma strillava in preda al terrore. - Aiuto! Aiuto! L'agente della scorta mi saltò sulla schiena e mi soffocò con una presa al collo. Altre guardie arrivarono da ogni parte. Oh Dio! Che avevo fatto? Per raggiungere la cella di isolamento bisognava attraversare il Grande Cortile, poi si passavano le porte d'acciaio della rotonda del Blocco Nord, poi un altro cancello di pesante rete metallica, e infine una porta d'acciaio che dava accesso a un'altra rotonda. Sulla destra si trovava una porta d'acciaio verde che conduceva alle celle dell'ultima notte dei condannati, dove venivano portati la sera della vigilia coloro che dovevano essere giustiziati l'indomani mattina. Sulla sinistra c'era l'ascensore che saliva all'isolamento e al Braccio della Morte. Mi aspettavo che l'ascensore si fermasse tra i due piani e che sarei stato pestato. Era la procedura normale dopo un'aggressione a una guardia. Niente di tutto ciò. Le tre guardie che mi accompagnavano avevano trovato spassoso ciò che avevo fatto. Quando l'ascensore si fermò, uscimmo su un pianerottolo all'esterno di un altro cancello di rete metallica e di una porta d'acciaio. Il cancello si poteva aprire soltanto dall'esterno, la porta d'acciaio solo dall'interno. Una faccia comparve a uno spioncino, e la porta si aprì. Ah, Bunker, rieccoti qua. Non ci vedevamo da qualche mese, - disse l'ufficiale Zeke Zekonis, sopprannominato lo Scrollamestolo per il modo in cui pareggiava il ramaiolo quando distribuiva il vitto. Le guardie della scorta attesero mentre mi producevo nel balletto di routine: spogliarsi e perquisizione. Ci trovavamo nella zona di servizio anteriore. Attraverso una fila di sbarre ricoperte di rete metallica, scorsi il Braccio della Morte. Alcuni dei condannati, obesi per l'eccesso di cibo, pallidi per la mancanza di sole, erano fuori delle loro celle. Ne riconobbi due: Caryl Chessman e Bob Wells. Nessuno dei due era stato condannato a morte per omicidio, sebbene Bob Wells avesse accoltellato e ucciso un uomo in prigione durante una rissa. Ben prima che finissi nel carcere minorile, era già una leggenda. «The San Francisco Chronicle» era uscito con un grosso articolo in cui si diceva che era il detenuto più duro di tutto San Quentin. Fu condannato a morte per aver picchiato a sangue una guardia con una sputacchiera. Gli aveva fatto saltare un occhio. Wells era stato condannato ai sensi della Sezione 4500 del Codice Penale della California. La giuria non era al corrente che con il verdetto di colpevolezza scattava automaticamente la condanna a morte. Bob era nel Braccio della Morte da parecchi anni. Walter Winchell, dall'altra parte dell'America, aveva fatto l'impossibile per venire in suo aiuto. Chessman lo conoscevo vagamente dal mio precedente soggiorno in isolamento. I due uomini misuravano a grandi passi lo spazio all'esterno delle loro celle. Quando si avvicinarono all'estremità sul davanti, Chessman mi riconobbe e si fermò. - Ehi, Bunker, ti hanno beccato un'altra volta. - Pare proprio così. - Eh, sì, - fece eco Zekonis. - Ha sollevato la scrivania di Campbell e gliel'ha rovesciata addosso. Bob Wells intervenne: - Cosa ha fatto? A. J. Campbell! - Scoppiò a ridere, scoprendo un buco in bocca dove mancavano parecchi denti, che erano stati spaccati rasente le gengive con una manganellata. Chessman: - È stata una "cattiva idea". - Non avevo le idee molto chiare, in effetti. - Credo proprio di no. - Basta così, Bunker, - mi ammonì una guardia della scorta. Agli uomini dietro il divisorio di rete metallica e sbarre non disse nulla. Che poteva dire a degli uomini in partenza per la camera a gas? Mutande bianche indosso, fui scortato fino al ballatoio inferiore, passando davanti a una fila di celle i cui occupanti mi guardavano; alcuni mi salutarono con un cenno del capo. Allineati sul pavimento contro la parete esterna di sbarre c'erano i materassi ripiegati. Venivano ritirati alle otto del mattino e restituiti alle otto di sera. Un paio d'anni prima del mio arrivo, il direttore Clinton Duffy aveva messo fine alla pratica consistente nell'obbligo per i detenuti in isolamento di restare in piedi sul circolo, un cerchio di quarantacinque centimetri di diametro, dalle otto del mattino fino all'ora dell'appello pomeridiano. Parlare era proibito, e lo è tuttora. Zekonis si fermò davanti a una cella vuota e girò la chiave prima di fare cenno al secondino all'entrata di togliere la sbarra di sicurezza. Dopo aver trascinato il materasso sul ballatoio, il cancello si richiuse e la sbarra di sicurezza si riabbassò. Eccomi qui un'altra volta. Maledizione! Mi figuravo che la commissione disciplinare, abitualmente presieduta dal capitano o dal direttore aggiunto, mi condannasse a ventinove giorni di isolamento (il massimo che si poteva comminare) e mi destinasse alla segregazione per sei mesi o più. Il capitano Nelson e il direttore aggiunto Walter Dunbar si trovavano a Sacramento quel giorno, quindi a presiedere la commissione fu il direttore amministrativo. Mi condannarono a dieci giorni di isolamento, il che significava che il lunedì successivo mi sarei ritrovato nel cortile insieme agli altri detenuti. Mi pregustavo quel rilascio come una vera e propria rimessa in libertà, la mia restituzione alla società civile, tranne che non avevo idea del giorno in cui avrebbe avuto luogo. Tutto ciò che ci era concesso in isolamento era un pettine, uno spazzolino da denti e la "Gideon Bible", che io studiavo ogni volta che mi ritrovavo in cella di rigore, non per trovare Dio, ma per scoprire la saggezza secolare tramandata in quelle pagine. «Non rivolgere la parola agli sciocchi, perché costoro disprezzano la conoscenza», ad esempio. E «È meglio vivere nel piccolo angolo di una soffitta che in una grande casa in compagnia di una donna bisbetica. Il giovedì mattina, il capitano Nelson e il direttore aggiunto fecero la loro comparsa sul ballatoio. Venivano a modificare le sanzioni inflitte ai condannati all'isolamento. Quel pomeriggio furono rilasciati tutti, tranne un detenuto di colore che era stato beccato con un coltello, e me. Domandai a Zekonis cosa stava succedendo. Spiegò: - Santo, Perkins e Barbara Graham saranno giustiziati domani. Vogliono sistemare Barbara in una delle celle del pianterreno, per la sua ultima notte. Santo e Perkins verranno qui… all'ingresso della sezione. La legge dello Stato della California prescriveva che i condannati alla sentenza capitale mediante asfissia da gas cianuro dovessero essere allontanati dagli altri prigionieri condannati la sera precedente l'esecuzione. Al piano terra c'erano due celle riservate all'ultima notte del condannato, una accanto all'altra. Il cosiddetto «ultimo miglio» si riduceva di fatto a soli cinque scalini. Accanto alla prima cella c'era una porta in acciaio dipinta di verde, il verde ubiquo di San Quentin. Un metro più in là si trovava la porta che conduceva alla camera a gas ottagonale, anche questa verde. Barbara Graham, la prostituta tossica che doveva essere giustiziata insieme a Jack Santo e Emmett Perkins, era stata trasferita dall'unico carcere femminile della California otto o nove mesi prima. Durante quei nove mesi era stata tenuta nell'ospedale del penitenziario, dove eccitava i detenuti facendo lo spogliarello da una finestra. All'ora dell'appello, quando tutti gli internati della prigione erano rientrati e chiusi nelle loro celle, la donna fu trasferita in una delle celle del piano terra. Dai rumori provenienti dall'entrata della sezione, capii che Santo e Perkins venivano spostati nelle prime due celle: la barra di sicurezza che si alzava, l'eco dell'acciaio che sbatteva contro l'acciaio all'apertura e alla chiusura del cancello del ballatoio, il forte "clic clac" della grossa chiave che girava nella serratura della cella. Voci, una parola o un'espressione, qua e là: «…Telefono disponibile», «tutta la notte», «avvocato», «governatore…» La sbarra di sicurezza si riabbassò, il cancello esterno si richiuse con fragore, e le voci si fecero più lontane. Riuscii a distinguere vagamente il rumore dell'ascensore in movimento, e allora fui praticamente sicuro che le guardie non mi avrebbero sentito. - Ehi, Santo! Jack Santo! - chiamai. - Emmett Perkins! - Sì? Chi è? - Un detenuto che pensa che siete dei bastardi, pezzi di merda tutt'e due! - Vai a farti fottere, stronzo! - urlò uno dei due, e l'altro rincarò: - Frocio fottuto! - Ditemelo domani pomeriggio… ah, ah, ah… - Li disprezzavo profondamente. Oltre all'omicidio di una donna anziana di Burbank, che presumibilmente teneva nascosto del denaro proveniente dal figlio allibratore, per il quale i tre criminali erano stati condannati alla pena capitale, Santo e Perkins avevano assassinato il droghiere di una cittadina e i suoi cinque figli, e poi avevano ficcato i cadaveri nel bagagliaio. Il droghiere, partito da Nevada City e diretto a Stokton o Sacramento, portava i soldi con sé. Il massacro dei bambini innocenti mi dava il voltastomaco. Conoscevo rapinatori a mano armata che uccidevano quando si ritrovavano una pistola puntata addosso o stavano per subire un'aggressione a sorpresa, e anche se la società li giudicava, io non me la sentivo di condannarli. Era la prima legge della vita, sopravvivere. Correvano i loro rischi, e pagavano di persona. In questo caso si trattava di un massacro di innocenti, cinque bambini e un droghiere, per un bottino di forse duemila dollari. Gesù! - Bastardi fottuti, vi meritate di morire! - urlai, e in pochi secondi sentii il tintinnio delle chiavi e il cigolio delle suole di para sul cemento cerato. Ero disteso supino sul pavimento con la "Gideon Bible", quando la guardia armata sulla passerella lanciò un'occhiata nella mia cella e proseguì oltre. Doveva aver pensato che quelle urla erano di Santo e Perkins, all'entrata della sezione. Avevano più motivi di me, per gridare. L'altro prigioniero, l'accoltellatore, occupava una delle ultime tre celle, munite di porte con l'isolamento acustico e situate a un metro di distanza dalle sbarre della cella. Per qualche ragione, mi avevano piazzato a dieci o dodici celle dall'entrata della sezione. Il secondino armato tornò indietro e sparì dietro l'angolo in fondo. Sorvegliava anche il Braccio della Morte. - Ehi, galeotto! - chiamò Santo con un tono più morbido. Era me che voleva. - Sì? Che vuoi? - Sei un galeotto, no? - Non sono un ospite, ci puoi scommettere. - E allora, perché non ti fai gli affari tuoi? Guardai fuori e vidi il secondino di fronte alla mia cella. Non osai rispondere. Se avessi parlato, mi sarei beccato altri cinque giorni di cella di rigore. Come per ammonirmi sul rischio che correvo, la guardia scrollò il capo con l'aria di saperla lunga, e mi diffidò con un cenno del dito. 'Fanculo a Jack Santo! Dirgli quel che pensavo non valeva altri cinque giorni di isolamento. Ad ogni modo riflettei su quanto mi aveva detto: che avrei fatto meglio a «farmi gli affari miei». Era la regola numero uno di ogni detenuto che sconta la pena. Era da prendere alla lettera: Pensa per te, bada al tuo delitto, alla durata della tua pena, al tuo castigo. Non vedere nulla, non ascoltare nulla e, soprattutto, non dire nulla. Se Gesù Cristo non riuscì a trovare un solo uomo tra una folla di cittadini medi in grado di scagliare la sua pietra contro la peccatrice, com'era possibile trovarne uno nell'universo dei criminali? Che quei tre morissero in solitudine. Nondimeno, infangavano il nome dei ladri. Una scampanellata annunciò l'arrivo dell'ascensore, seguita, poco dopo, dal trillo del carrello del vitto. Nonostante fossimo soltanto in due, Zekonis scrollò il suo mestolo per pareggiarlo e rise quando io scossi il capo. Le altre guardie raccoglievano tutto quanto il mestolo poteva contenere e ne versavano il contenuto nel piatto di plastica. Perché diavolo preoccuparsi della razione di spaghetti che riceveva un detenuto? Sapevo bene che era meglio non lamentarsi. Porgendomi il piatto, Zekonis mi disse: Ti saluta Chessman. - Grazie, Zeke -. Avevo imparato che era meglio avere anche un vecchio cane rognoso per amico, piuttosto che averlo come nemico. Un proverbio dei galeotti che aveva i suoi riscontri. Tenni da parte una tazza di spaghetti e una fetta di pane. Il cibo aveva più gusto freddo, e la sera tardi. Quando avevo diritto alla socialità del cortile, mangiavo poco, ma qui, senza far niente e i pasti che scandivano il passare del tempo, avevo sempre fame. L'isolamento è sempre silenzioso e cupo, la luce bassa proveniente dall'esterno delle celle, le ombre oblique spezzate dalle sbarre verticali e trasversali e dalle maglie della rete metallica. Quando faceva buio, premendo la guancia sinistra contro le sbarre, avevo nel mio campo visivo la parte davanti del ballatoio. Era visibile un secondino della Guardia della Morte, seduto a un tavolino da gioco appoggiato contro le sbarre della passerella della guardia armata. Disponeva di un telefono e di una radio, e aveva del caffè e delle Camel. Si diceva che poco prima della partenza per l'esecuzione, il medico della prigione desse la possibilità di scegliere tra un'iniezione di morfina e una doppia dose di bourbon. Non sapevo se era proprio vero, ma un giorno in cui l'armadietto delle medicine era aperto all'ospedale, avevo visto una bottiglia sigillata di I. W. Harper's. Dopo che l'ascensore fu risalito, il cancello esterno venne aperto e un carrello fu spinto all'interno. Portava i pasti dei due condannati a morte. Sentii i rumori delle pentole, ben presto seguito dagli odori penetranti della carne arrosto, delle cipolle, e del buon caffè forte. La loro rarità li rendeva più intensi. Perdio, che avrei dato per un piatto di carne di manzo e cipolle, e del caffè macinato fresco. D'altra parte, non avrei voluto i loro pasti. Loro potevano mangiarli, ma non avrebbero avuto il tempo di digerirli e di cacarli prima di essere loro stessi carne fredda. Come ci si sentiva ad essere legati a una seggiola e messi a morte? Nessuno era in grado di rispondere a questa domanda. Conoscevo due giovani che erano scappati da un campo di prigionia per minori e che erano stati catturati al nord, forse a Portland, e quando due aggiunti di una contea di campagna li stavano riportando indietro, in qualche modo i due giovani erano riusciti a prendere il sopravvento e avevano ammazzato i due poliziotti. Condannati a morte, erano rimasti nel Braccio della Morte per circa due anni prima che la Corte Suprema della California confermasse la condanna, ma commutando la sentenza. Piuttosto che riesaminare l'intero caso in un nuovo processo, il sostituto procuratore della piccola contea aveva lasciato che il giudice li condannasse all'ergastolo. Una volta che avevano avuto il permesso di stare in cortile, avevo domandato a uno dei due quello che si provava e quello che si pensava. All'epoca le condanne a morte venivano eseguite regolarmente. Bobby mi rispose: - Ogni volta che portano qualcuno al piano terra, e chiudono il conto con lui, tu muori con lui in quel momento esatto, e tutte le sere successive. Ero arrivato a questo punto: ero così pronto ad accettarlo che desideravo essere ucciso, piuttosto che seguitare a giocare a questo gioco -. Riuscivo a sentire visceralmente quello che diceva. E in quel giorno ero lì, seduto ad aspettare che passasse la notte, in compagnia di due uomini che erano in attesa della loro esecuzione. L'ascensore andava e veniva; le porte esterne sul ballatoio sbattevano aprendosi e chiudendosi. Si scambiavano parole. Arrivò il prete, e fu cacciato via. La lancetta dei secondi girava lentamente ma inesorabilmente, e le altre lancette procedevano con lo stesso ritmo implacabile. Arrivò mezzanotte, e passò. Barbara Graham era al piano terra. Al Matthews aveva accettato di difenderla qualche settimana prima. L'avrebbe salvata? Forse. Pochissime donne venivano giustiziate, nessuna dal mio ingresso a San Quentin, anche se facevano passare un uomo a miglior vita ogni venerdì alla dieci di mattina, ogni settimana, a quanto pareva. Quanto al potere deterrente della pena capitale, i detenuti del cortile conoscevano raramente l'identità dei condannati a morte o i crimini da loro commessi, a meno che il caso non fosse finito sulla prima pagina dei giornali. Di Jack Santo, Emmett Perkins e Barbara Graham erano al corrente. Gli ex galeotti pluriomicidi e la prostituta sexy, loro avevano fatto colpo. L'idiota che era venuto prima di loro era stato giustiziato per aver preso a pugni e fatto fuori un tale, condannato per aver abusato sessualmente di bambini, che avevano messo in cella con lui nella prigione della Contea di Fresno. La testa della vittima aveva sbattuto contro il bordo della branda. I suoi parenti avevano urlato a più non posso, ma il povero Red non aveva un soldo. L'avvocato che gli avevano assegnato d'ufficio era noto col soprannome di Slim la Morte, che la diceva lunga su quel che i suoi clienti pensavano di lui. Anche se i detenuti ignoravano il nome del condannato all'esecuzione capitale o il crimine che aveva commesso, tuttavia sapevano che qualcuno era in partenza per il viaggio senza ritorno. Era sempre fissato per il venerdì, alle dieci di mattina. Il giorno della camera a gas. La luce rossa si accendeva sul tetto del Blocco di celle Nord. Quando tutto era rientrato nella normalità, una luce verde si stagliava contro il cielo. Ci restituirono i materassi in ritardo. Erano quasi le dieci di sera, quando due guardie e un sergente tirarono la sbarra di sicurezza e aprirono le celle di isolamento, una alla volta, in modo da lasciarci uscire fuori e riprendere i nostri materassi. Passando davanti al sergente, gli dissi che avevo bisogno di carta igienica. - Te la porteremo all'ora dell'appello. L'appello avrebbe avuto luogo di lì a un'ora. Potevo aspettare. Il materasso era senza dubbio una comodità, dopo quattordici ore passate sul cemento. Provai a leggere la Bibbia, ma l'inglese arcaico dell'epoca di King James richiedeva più attenzione di quanta ne fossi capace quella sera. Non mi restava che ascoltare i suoni attutiti della radio fuori delle celle dei condannati e i rumori dell'andirivieni dei rappresentanti della legge. Ancora una volta mi ritrovai solo con i miei pensieri, una situazione che mi capitava più spesso che ai comuni mortali. Verosimilmente avevo trascorso una parte eccessiva della mia vita a meditare in una segreta. Praticamente tutti quelli che conoscevo avevano trascorso, o ancora trascorrevano, un periodo di tempo dietro le sbarre, mentre il cittadino medio non solo non era mai stato arrestato, ma non conosceva nessuno che era stato in galera, tanto meno in un penitenziario di stato. Il fatto di aver accompagnato Mistress Hal Wallis in giro per Beverly Hills, quando faceva visita ai suoi amici e curava i suoi affari, mi aveva fatto intravedere un mondo di cui non avevo mai immaginato l'esistenza prima. Lei era originaria della zona compresa tra Sixth Avenue e Central Avenue, uno dei quartieri più miserabili di Los Angeles. Avevo sperimentato di persona la differenza tra l'essere ricco e l'essere povero. Mi tornava alla memoria l'immagine della piscina Nettuno a San Simeon immersa nell'incendio del crepuscolo. A quel tempo avevo letto "The Age of Moguls" e "Citizen Hearst", e sapevo che "Quarto potere" non era riuscito a rappresentare la verità di William Randolph Hearst in tutto il suo splendore. Buon Dio, perché non avevo ricevuto carte come le sue in mano? Eppure, partendo dal punto di vista che tutto era relativo, ed è vero, le mie carte erano migliori di quelle della maggioranza delle persone. Mi mancava il vantaggio di essere ricco di famiglia, è vero, ma per lo meno avevo il vantaggio di essere bianco. Ero americano, non ero cittadino di una qualche repubblica delle banane ridotta alla fame. Quando sarebbe finita? Non ne avevo idea. Forse sarei finito ad aspettare la chiamata del boia. Se qualcuno mi incuteva paura e lo ritenevo pericoloso, avrei cercato di colpire per primo. Potevo perdere la testa e freddare qualcuno più o meno per caso, come era accaduto a Red. E se uno dei miei complici in un colpo fosse impazzito e avesse ammazzato qualcuno durante l'azione? Tutte queste stronzate erano possibili… Il rumore dell'ascensore lacerò il silenzio. Sembrava più forte perché i rumori di fondo si erano attenuati. La porta esterna si aprì. Voci. Parole indecifrabili. Il tonfo del cancello sul ballatoio. Alzai lo sguardo. Non mi sbagliavo. La sbarra di sicurezza si alzò, seguita dopo un attimo da una chiave che girava nella porta di una cella all'ingresso della sezione. Uno dei due condannati andava da qualche parte. Cosa che richiedeva l'autorizzazione del direttore. Si udirono lo stesso schianto, lo stesso botto, lo stesso ronzio, ma in sequenza inversa. Chi dei due era in partenza? Per dove? - Non credo proprio che vada a farsi vaccinare, - sussurrai tra me, prima di scoppiare a ridere del mio umorismo macabro. La mia risata risuonò come il raglio di un asino, o di un pazzo. Nel corso degli anni, avrei udito soltanto un'altra risata come la mia: quella di Joe Morgan. Il secondino armato passò come un'ombra dietro le due file di sbarre e la rete metallica. Che c'è da ridere, Bunker? - La vita… Chi dei due portano via? - Santo. Va a vedere il suo avvocato. - Spero che gli porti brutte notizie. - Non fai il tifo per la tua squadra? - Merda, lui non è della mia fottuta squadra. Gliela farei io stesso la festa, a quei due. - E Barbara? - Non ne so nulla. Non è niente male. - È da un pezzo che sei dentro. - Mica tanto. Poco più di due anni. - Io darei fuori di testa, passare due anni senza la passera. Non te la spassi con quei frocetti? Scrollai il capo. - Che cazzo, no! - Era vero, ma era anche una bugia. Un paio di quei giovani omosessuali effeminati somigliavano davvero a ragazze carine, con bei culi nei loro jeans attillati. Agli occhi di tutti erano delle «lei». Per quel che ne sapevo, erano davvero donne. Ma quel paio che avrebbero potuto eccitarmi erano proprietà di terribili assassini. Fino a quando l'appartenenza razziale diventò il primo movente degli omicidi commessi in carcere, il modo più facile di farsi ammazzare a San Quentin era spassarsela con la checca di qualcun altro. In meno di un'ora Santo fece ritorno. Quando il cancello del ballatoio si aprì e si levò la sbarra di sicurezza, sentii la voce di Emmett Perkins. - Che è successo? La risposta fu soffocata dal rumore della porta della cella che veniva richiusa con un tonfo. La sbarra di sicurezza si riabbassò. Poi sentii qualcosa di cui dubitai per un attimo: respiri affannosi, singhiozzi. Poi la voce di Emmett risuonò ancora, fredda come l'acciaio: - Razza di fifone bastardo! È meglio per te se muori da uomo, altrimenti ti sputerò in faccia dalla seggiola accanto alla tua! Wow! Poi sentii una terza voce, ma le parole erano troppo sussurrate per poterle distinguere. Era il secondino della Guardia della Morte. L'ascensore tornò un'altra volta, e le porte e i cancelli si aprirono. Sentendo delle voci nei paraggi delle prime celle, mi incollai alle sbarre della mia e provai a vedere ciò che accadeva sul ballatoio. Scorsi le ombre di figure che fendevano il potente fascio di luce dei riflettori che inondava le due gabbie. Avevo lasciato perdere e stavo urinando quando percepii qualcuno alle mie spalle. Mi voltai. Era il direttore Teets. Maledizione. - Come va? - domandò. Dietro di lui c'era uno del suo seguito. I direttori hanno sempre persone al seguito. Non appaiono mai da soli. -…Bunker, - disse uno di loro, informando il direttore della mia identità. Si accostò alle sbarre. Quanto a me, mi ero liberato dell'ultimo goccio d'acqua con una bella scrollata, e avevo abbottonato i pantaloni. - Ho ricevuto una lettera di Mistress Wallis, - disse. - Sarà a San Francisco il prossimo mese. Vuole venire a trovarti, ma avrà da fare durante l'orario delle visite. Forse alzai le spalle in un certo modo o grugnii in segno di sconfitta. Se Mistress Wallis aveva da fare durante l'orario delle visite, la faccenda era chiusa. Il direttore disse: - Non disperare. Forse troveremo un modo. - Sarebbe veramente meraviglioso. - Calma. Andò fino alla cella silenziosa in fondo, e una guardia aprì la porta esterna. La domanda fu la stessa. - Come va? Non riuscii a sentire la risposta. Il direttore Teets disse: - Calma. Un momento dopo ripassarono davanti alla mia cella. Teets mi salutò con un piccolo cenno della mano. Non li sentii uscire dal cancello. Cominciai a sospettare che ci fosse sotto qualcosa. Che aveva voluto dire con «Forse troveremo un modo»? Forse intendeva che lui e io avremmo trovato un modo? Era una richiesta ambigua di diventare informatore? Sembrava poco verosimile. Evidentemente intendeva «troveremo un modo» con Mistress Hal B. Wallis. Il fabbricante di dive di Hollywood, così chiamavano Hal Wallis. Senza dubbio gli piaceva molto fabbricare quelle belle rose di serra bionde e algide stile "American Beauty". E se a tal fine bisognava metterle in un film con Burt o Kirk, lo faceva sicuramente. Ero profondamente eccitato dalla possibilità di una visita e misuravo a grandi passi la mia cella, avanti e indietro, e così mi dimenticai dei due uomini nella prima e terza cella, avendo tuttavia coscienza del fatto che stavano parlando. Persi la concentrazione quando sentii la musica alla radio di fronte alle loro celle. Era una musica sdolcinata, sponsorizzata dall'American Airlines. Veniva diffusa negli auricolari delle celle perché conciliava il sonno. L'ascoltavo perché mi rasserenava. Ma perché diavolo l'ascoltavano loro? Se amavano la musica, il loro genere doveva essere Patsy Cline o Hank Williams. Entrambi erano "country" fino al midollo. Era un'enigma cui non trovai soluzione, perché mi addormentai. Ripensandoci in seguito, conclusi che con ogni probabilità stavano aspettando il notiziario che veniva trasmesso ogni mezzora. Una richiesta di "habeas corpus" era stata depositata presso un tribunale distrettuale. Era congiunta a una richiesta di sospensione dell'esecuzione della condanna, mentre il tribunale decideva nel merito della validità della petizione. Poiché l'opinione pubblica si aspettava che i due morissero, la decisione del giudice sarebbe pervenuta prima annunciata dalla radio, piuttosto che dal direttore che l'avrebbe comunicata ai due arrivando dal suo ufficio. Fui bruscamente svegliato da Jack Santo che gridava: - Fatemi parlare col governatore! Gli dirò ciò che so di certi omicidi irrisolti, omicidi che non abbiamo commesso. Io so chi ha freddato i due Tony! E Bugsy! Ho un sacco di cose che voglio raccontare a qualcuno! Io so chi ha ammazzato i due bambini di Urbana nel '46. Sullo sfondo delle sue grida, in contrappunto, sentivo le imprecazioni ignobili lanciate con disprezzo da Emmett al suo complice. I ladri non sono più quelli di un tempo. Stavolta era proprio vero. Fui travolto da un'improvvisa vertigine. Mi sentivo come l'idiota nel bel mezzo di un carnevale sfrenato. Presi a urlare con tutto il fiato che avevo in corpo. - Carta igienica! Devo pulirmi il culo! Aiuto! Carta igienica! Il sergente del primo turno di guardia comparve davanti alla mia cella. - Bunker, che hai da strillare così? Mi sentivo colpevole. Era il Sergente Blair, uno degli esseri umani più gentili che abbia mai conosciuto in vita mia. Lavorava a San Quentin da vent'anni e ci sarebbe rimasto per altri venti, e in tutti quegli anni, scrisse soltanto un rapporto disciplinare. Non era mellifluo; tutt'altro che un religioso fanatico. Era soltanto una brava persona da giovane, e tale restò quando diventò vecchio. - Mi scusi, sergente… ho proprio bisogno di carta igienica. Che volete, che strappi un pezzo di camicia e mi ci pulisca il culo? - No. Te la vado a prendere. Resisti, va bene? - Certo, sergente. Ce la farò -. Che altro avrei potuto fare? Ero l'unico detenuto sul ballatoio. Il minimo scompiglio non poteva che essere provocato da me, e la maggioranza delle guardie sarebbero state meno indulgenti del Sergente Blair. Durante la lunga notte di attesa, restai a sedere, appoggiato contro le sbarre. Mi appisolai un paio di volte, per essere svegliato di soprassalto da un rumore proveniente dal ballatoio: una chiave ficcata in una serratura e la voce del cappellano, che riconobbi anche se non riuscii a comprendere ciò che diceva. Ma colsi chiaramente gli insulti di Perkins: Levati dai coglioni, razza di figlio di puttana cantasalmi! - Sebbene avessi volentieri spedito all'inferno Santo e Perkins di persona, provavo, ancorché a malincuore, una sorta di rispetto per Perkins, che affrontava la morte imminente con coraggio (più di quello che avrei mostrato io), mentre Santo non era altro che un vigliacco spregevole e frignone. Sentivo ogni tanto i suoi singhiozzi. Ben presto arrivò il momento in cui l'alta finestra all'esterno della passerella si fece lentamente grigia e il sole nascente proiettò le ombre delle sbarre sul pavimento di cemento cerato. L'ascensore si fermò frequentemente al piano, scaricando gli ufficiali che venivano a comunicare gli ultimi rifiuti della grazia da parte dei tribunali. La mattina era luminosa quando l'ascensore si fermò al piano per l'ultima volta. Sentii numerose guardie sul ballatoio. I condannati a morte sarebbero stati ammanettati e incatenati. Le guardie li avrebbero scortati, serrandosi ben stretti intorno a ciascuno dei due, che in tal modo non avrebbero potuto fare altro che seguire il percorso. Con l'ascensore fino al piano terra, poi attraverso la porta verde d'acciaio della rotonda, quindi attraversando un'altra porta d'acciaio, sarebbero passati davanti alla cella di Barbara Graham. La donna era nella cella riservata all'ultima notte dei condannati. Quel mattino non ci sarebbe stato un cortese «prego, prima le signore…» Addio, compagni, schifosi infanticidi… Ammazzare di fronte a una minaccia, per vendetta e per sete di guadagno, questo perlomeno era comprensibile. Ma uccidere cinque bambini per nessun altro motivo che malvagità gratuita… addio, e andate all'inferno, e magari neppure Lucifero, il Grande Satana, vorrà saperne di voi. Il raggio di sole sul pavimento si era spostato sulla rete metallica. La guardia armata di sorveglianza sul ballatoio gettò la sua ombra attraverso lo schermo di rete metallica sul cemento fuori della mia cella. Alzai gli occhi dalla sontuosa poesia del "Canto di Salomone". - Sono andati. Lei ha ottenuto una sospensione, - disse. - Che tipo di sospensione? - Non lo so. Una sospensione dell'esecuzione -. Si voltò e scomparve. Normalmente, avrebbe proseguito, misurando con le sue suole di para tutta la lunghezza del percorso fino all'ingresso della sezione, ma quel mattino ero l'unico detenuto ancora in isolamento. Bene, all'inferno tutto quanto… torniamo all'"Ecclesiaste". Contiene una sapienza fuori del tempo. - Le parole della bocca del savio sono piene di grazia; ma le labbra dello stolto son causa della sua rovina… - Se non si impara a seguire questa saggezza, si è davvero imbecilli. Un paio di giorni dopo, mentre trascorrevo la mia ora d'aria quotidiana misurando a grandi passi il ballatoio in lungo e in largo, una chiave risuonò al cancello dell'ingresso. Immaginai che si trattasse del segnale che mi indicava di rientrare in cella, ma poi vidi che il cancello si apriva e il secondino, Zeke Zekonis, il cappello di traverso sulla testa, mi fece cenno di accostarmi. Io indicai con un dito la mia persona con aria incredula. Zekonis confermò con un cenno del capo. Pur con qualche diffidenza, mi mossi verso di lui. Forse erano dietro l'angolo, pronti a pestarmi di santa ragione per aver rovesciato la scrivania addosso al tenente. Mentre mi avvicinavo al cancello, Zekonis mi allungò una rivista piegata. Me ne domandai il motivo. Il primo pensiero non fu che la stava dando a me. A eccezione della buona, vecchia "Gideon", la lettura era "verboten" nella cella di rigore. - Tieni, - disse, fugando i miei dubbi. È Chess che te la manda. Intendeva Caryl Chessman. Farfugliai parole di ringraziamento, tuttora sorpreso. Era risaputo che Zeke non faceva favori ai detenuti, ma era evidente che a me aveva fatto quel favore. Non si stava certo prestando a fare da tramite nel traffico illecito di un'arma o di una quantità di droga, ma era proibito dal regolamento e poteva costargli una sospensione. Aspettai che i vassoi dei pasti fossero ritirati e i materassi restituiti; poi tirai fuori il numero della rivista «Argosy». Una rivista per uomini, che contava milioni di lettori. L'articolo di apertura era annunciato in copertina. Caryl Chessman, il famoso «Bandito della Luce Rossa» di Los Angeles, aveva scritto un libro: "Cella 2455, Braccio della Morte", la cui uscita era prevista tra pochi mesi. «Argosy» ne pubblicava in anteprima il primo capitolo. Sfogliai velocemente le pagine. Anche se il libro completo, che avrei presto letto, narrava la vita di Caryl Chessman, il primo capitolo raccontava come un galeotto di nome Red stava per essere messo a morte nella camera a gas. Il racconto iniziava con l'appello della sera della vigilia. Tutti i detenuti della prigione erano rientrati ed erano stati rinchiusi nelle loro celle; era il momento in cui il condannato a morte veniva spostato nella cella riservata all'ultima notte. Prima gli consegnavano abiti nuovi, biancheria intima compresa. Lo ammanettavano, prima di aprire il cancello. Circondato da un drappello di quattro o cinque guardie e da un tenente, Red, che era autorizzato a dire addio agli altri prigionieri in attesa di essere giustiziati, cominciava dal fondo del Braccio della Morte fino all'entrata. I suoi effetti personali erano stati già dati via o impacchettati per essere spediti alla famiglia. Lo facevano scendere con l'ascensore e passare per la porta verde per raggiungere la stanza dove avrebbe trascorso la notte. Le parole scritte da Chessman mi guidarono passo dopo passo fino alla morte di Red, avvenuta alle dieci del mattino. Red aveva una fotografia del Presidente Eisenhower. Quando varcò la soglia della camera a gas, la porse a una guardia, dicendo: - Lui non ha nulla a che vedere con questo posto -. Le capsule di cianuro caddero nell'acido solforico, e il mortale gas di cianuro si levò intorno a lui. Non ero in grado di valutare la qualità della scrittura, ma la narrazione era così realistica che il mio cuore prese a battere all'impazzata. Naturalmente, come lettore, avevo il vantaggio di trovarmi lì dov'ero, non lontano dalla realtà. Rilessi il capitolo, e sebbene non avessi la preparazione adeguata per esprimere un giudizio critico, era impossibile essere più sbalorditi di come ero io. L'aveva scritto un detenuto, un detenuto che conoscevo, ed era riuscito a farlo pubblicare su una rivista nazionale ad alta tiratura, e non sul «San Quentin News». Prossimamente sarebbe uscito il libro. Per scrivere un libro bisognava essere un mago, o uno stregone, o un alchimista, per impadronirsi di un'esperienza, reale o immaginaria, e servirsi delle parole per ricrearla sulla pagina scritta. Io avevo un mucchio di difetti, ma l'invidia non era nel mucchio. Eppure fui roso dall'invidia, quel tardo pomeriggio nella cella di isolamento di San Quentin. Il crepuscolo si tramutò in oscurità. Le luci divennero più intense. Zekonis tornò a ricuperare la rivista prima di staccare il turno di guardia. Se avessi occupato una cella più sul fondo del ballatoio, avrei potuto parlare con Chessman attraverso il ventilatore. Ad ogni modo potevo sentirlo, per lo meno potevo sentire la sua macchina per scrivere. Picchiettava tutta la notte. L'unica volta in cui si era ammutolita era stata quando Santo e Perkins erano stati trasferiti alla vigilia della loro esecuzione. Dei rumori provenienti dai piani inferiori segnarono il passaggio della sera: passi e voci risuonavano negli spazi stretti e profondi delimitati dagli edifici. I detenuti rientravano in fila nelle loro celle per trascorrervi la notte. Ben presto lo squillo che annunciava lo spegnimento delle luci si sarebbe diffuso in tutto il penitenziario. L'ombra della guardia armata passò all'esterno della rete metallica e delle sbarre d'acciaio. La macchina per scrivere di Chessman tacque. Perché era lui ad aver scritto quel libro? Era nel Braccio della Morte. Il libro non avrebbe cambiato il corso delle cose. Se a scriverlo fossi stato io, forse la mia vita sarebbe cambiata. All'improvviso, con tutta la forza di una vera e propria rivelazione, esclamai: - Perché non io? L'idea fu così improvvisa, e di un'intensità tale, che saltai su dal materasso. Ebbi un capogiro e mi afferrai alle sbarre per non cadere. Tanto rapidamente come quell'idea mi era venuta, presi a ridacchiare della mia stessa superbia. Come avrei potuto scrivere qualcosa degno di essere pubblicato? L'ultima volta che avevo frequentato la scuola, era una classe di seconda media. Essere un lettore vorace non aveva niente a che vedere con la scrittura. Gli scrittori andavano a Harvard, o Yale o Princeton. Ma Chessman non era andato a Harvard. Era stato alla Preston School of Industry, come me. Se lui era capace di scrivere un libro, perché non potevo esserne capace io? Alcuni ispettori di polizia mi avevano detto che ero come Chessman. Per lo meno sulla mia testa non pendeva il peso di una condanna a morte. Avevo il tempo, dalla mia parte, e il desiderio. Avrei preferito diventare uno scrittore, piuttosto che una star del cinema, un presidente o un giudice della Corte Suprema, tutte prospettive che, ad ogni modo, mi erano precluse. Presi sonno con questo pensiero. Mi svegliai al mattino, e fu il primo pensiero che mi tornò in mente. Quando uscii dalla cella di isolamento, scrissi a Louise. All'epoca, non solo iniziavo le mie lettere con «Cara mamma», ma lei rispondeva firmandole allo stesso modo. Le comunicai che volevo diventare uno scrittore. Voleva, le chiesi gentilmente, inviarmi una macchina per scrivere? Certo che voleva. La macchina per scrivere era una Royal Aristocrat di seconda mano. La custodia era ricoperta da uno spesso strato impermeabile, e la tastiera era di un tipo che non avevo mai visto prima. Pareva nuova di zecca. Un detenuto impiegato nell'ufficio delle attività educative mi portò un manuale di dattilografia "20th Century". Ogni pagina conteneva una lezione. Dapprima poggiai una tavoletta di legno sul water della cella e sistemai la macchina per scrivere su uno sgabello. Imparai la disposizione delle lettere sulla tastiera. Dopo aver assimilato questa parte, buttai via il libro. Tutto quello che mi serviva era la pratica. Quando la tazza del gabinetto e lo sgabello cominciarono a farmi troppo male alla schiena, un detenuto che lavorava nel laboratorio di falegnameria mi fabbricò un tavolo adatto, abbastanza largo da sostenere la mia macchina. Meno di sessanta centimetri separavano la parte laterale della mia branda e l'altra parete, considerando che la larghezza totale della cella era di un metro e trentacinque. Perciò era meglio sedermi sul bordo del letto per battere a macchina, piuttosto che stare ripiegato in due sulla tazza del gabinetto. Anziché iniziare semplicemente con «C'era una volta», vendetti il mio sangue per pagarmi un corso per corrispondenza dell'Università della California. Ciò avveniva in quel periodo, peraltro breve, in cui la società riteneva che l'istruzione fosse una via maestra verso la riabilitazione. Le prime lezioni affrontavano la grammatica e l'analisi logica, che io non riuscii mai a capire, cosa che risultava chiaramente dai miei voti. Ma quando le lezioni entrarono nel vivo della scrittura vera e propria, ottenni il massimo dei voti, e il mio insegnante supervisore, probabilmente uno studente impegnato nella tesi di dottorato, mi sommerse di note encomiastiche. Finito il corso, feci vela da solo per il mare delle parole scritte: - Un giorno due adolescenti andarono a svaligiare un negozio di alcolici… Non seguivo alcun corso di scrittura creativa, e nessun insegnante supervisionava i miei scritti. L'unico scrittore che avevo incontrato fino a quel momento, ad eccezione di Chessman, era un giornalista alcolizzato degente all'ospedale di Stato di Camarillo. Stava scrivendo un libro nella stanza della biancheria, dove lavorava. Per avere un'idea di quello che facevo, mi abbonai al «Writer's Digest». Forse imparai qualcosa leggendo i numerosi articoli dedicati al «Come si fa a…» Comprai molti dei libri che vi erano pubblicizzati. Il più utile si rivelò quello di Jack Woodruff (mi pare si chiamasse così), in cui l'autore consigliava di visualizzare la scena con la mente e poi descrivere semplicemente cosa si vedeva. In biblioteca trovai antologie e opere di critica letteraria, da cui appresi qualche nozione un po' qua e un po' là. "Il taccuino di uno scrittore" di W. Somerset Maugham mi fornì qualche consiglio. Per lo meno, questo ricordo. Se riuscivo a ricavare almeno un piccolo suggerimento di cui potevo servirmi, un libro valeva la pena di essere letto. Dapprima mi cimentai con i racconti, ma il censore era il bibliotecario, e l'Amministrazione Penitenziaria aveva il suo regolamento in materia, e proibiva che si scrivesse di fatti criminali, sia propri sia altrui. Non potevo offendere la razza o la religione, né criticare le autorità carcerarie o la polizia, né scrivere volgarità, fra le altre cose. Inoltre, dovetti vendere un bel po' del mio sangue per pagarmi i francobolli. Avevo da parte un bel gruzzolo che mi ero fatto in prigione (le sigarette), oltre a dei contanti, ma tutto doveva essere depositato nel mio conto di detenuto. Decisi di imparare i trucchi del mestiere scrivendo romanzi. Così avrei dovuto affrontare il censore soltanto una volta all'anno o poco più, e avrei deciso la strada da intraprendere una volta finito. Mi ci vollero circa diciotto mesi per finire il libro. Ebbi l'impressione di aver scalato l'Everest quando scrissi la parola fine. Anziché passare per il censore, che avrebbe respinto e forse anche confiscato il manoscritto, uno dei mie amici lo fece uscire dal penitenziario tramite il suo capo, il dentista. Far uscire di nascosto un manoscritto dalla prigione non è immorale. Il dentista lo spedì per posta a Louise Wallis. Lei lo trasmise a certi suoi amici che sapevano il fatto loro ed erano in grado di esprimere un giudizio in merito. Dissero tutti che avevo del talento. Nonostante certi momenti di irragionevole speranza, sapevo che non sarebbe mai stato pubblicato. L'avevo scritto per apprendere l'arte della scrittura. Lo conservo tuttora, quel mio primo libro. Mia moglie dice che se l'avesse letto lei, mi avrebbe consigliato di lasciar perdere. Ma è risaputo che gli imbecilli vanno allo sbaraglio, e allora iniziai il mio secondo romanzo. Non avrei immaginato che ci sarebbero voluti diciassette anni e sei romanzi inediti, prima che il settimo fosse pubblicato. Perseverai, perché avevo compreso che la scrittura rappresentava la mia sola e unica possibilità di creare qualcosa, di risalire dal pozzo delle tenebre, realizzare il sogno, e riposare al sole. E leggendo quanto ho finora scritto, dovreste aver capito che la perseveranza è un dono fondamentale della mia natura. Io mi rialzo da ogni sconfitta schiacciante nella misura in cui il mio corpo accetta di obbedire alla mia volontà. Ho vinto molte battaglie perché non ho mollato, e ho anche incassato qualche sonora batosta per non aver capito quando era il momento di mollare. CAPITOLO SETTIMO. IN ATTESA DELLA LIBERTA' VIGILATA. Dopo aver scontato quattro anni di pena a San Quentin, Louise Wallis affidò il mio caso a un avvocato raccomandato da Jesse Unruh, noto come Big Daddy negli ambienti della politica californiana. L'avvocato contattò le autorità di Sacramento nel merito del mio rilascio in regime di libertà vigilata. Durante quei quattro anni ero stato in isolamento un sei, sette volte e avevo collezionato una quarantina di rapporti disciplinari. Il mio fascicolo era di gran lunga peggiore di quello della maggioranza dei detenuti, ma molto migliore di quanto ci si poteva aspettare conoscendo la mia storia. Ero stato coinvolto in parecchie risse, ma soltanto un paio di episodi erano venuti a conoscenza delle autorità penitenziarie. Oltre allo sfregio in faccia, un taglio dalla tempia al labbro per il quale dovevo ringraziare un compagno di cella stanco delle mie prepotenze, fui accoltellato al polmone sinistro da una checca che voleva proteggere il suo bello. Mi colpì alla sprovvista. In un'altra occasione, fui sospettato di aver accoltellato un altro detenuto. La vittima si era rifiutata di identificarmi, per cui il capitano mi fece uscire dalla cella di isolamento. Mi avvisò che mi teneva sott'occhio, e un solo passo falso mi sarebbe costato un anno intero in cella di rigore e, in seguito, il trasferimento a Folsom. Niente di ciò che avevo fatto era così grave, se si considera la mia impulsività e il mio carattere esplosivo all'età di diciotto anni, quando avevo cominciato, uno tra gli altri detenuti, a calcare il Grande Cortile. Se non ci fosse stata Louise Wallis che mi scriveva dal "Queen Mary" e da Saint–Tropez, descrivendomi il blu straordinario del mare e la bella vita che avrebbe potuto essere mia, la mia guerra contro l'autorità si sarebbe senza meno inasprita, questa guerra che il mondo mi aveva dichiarato quando avevo quattro anni. Ovunque andassi a finire, l'autorità mi diceva: - Qui ti spezzeremo le ossa. Me lo avevano detto al carcere minorile, nei vari istituti di rieducazione e nel riformatorio di Lancaster. Ho perso il conto dei pestaggi che mi furono inflitti; almeno una ventina, tre dei quali furono veramente selvaggi. Mi avevano sparato gas lacrimogeno dritto negli occhi attraverso le sbarre; ero scivolato a terra prima di essere sbattuto contro le pareti, quando mi investirono con un getto d'acqua della pompa antincendio. Avevo trascorso una settimana, completamente nudo e immerso nel buio totale, a regime di pane e acqua, quando avevo soltanto quindici anni. Alla Pacific Colony, all'età di tredici anni, ero stato legato con una lunga imbracatura di tela a un blocco di cemento di cinquanta chili avvolto in una coperta. Quel blocco di cemento lo avevo trascinato avanti e indietro per un corridoio coperto di paraffina, per dodici ore al giorno. Non mi ero piegato, mi ero ribellato, e loro mi avevano preso a pugni, mi avevano pestato fino a conciare la mia faccia come un hamburger, e il medico con l'accento straniero non aveva fatto nulla. All'ospedale avevano detto che non ero pazzo, e mi avevano rispedito all'istituto di rieducazione. Potevano farmi urlare e implorare pietà tra le lacrime, ma non appena ricuperavo, mi ribellavo di nuovo. Sempre. Dal riformatorio ero stato espulso: ero un elemento troppo «turbolento». A San Quentin però mi dissero che mi avrebbero ammazzato se avessi accoltellato una guardia, che mi avrebbero fatto schizzare il cervello a suon di calci, se avessi soltanto osato colpirne una. Sapevo anche che da lì non mi avrebbero espulso. Senza Louise Wallis, senza le speranze e i sogni che lei rappresentava, avrei forse ignorato quelle minacce ed esasperato il mio spirito di rivolta. Prima me ne ero fregato. Adesso era diverso. Volevo uscire. Avevo più carte vincenti in mano di qualsiasi altro detenuto di mia conoscenza. Ero persino riuscito a resistere sei mesi, sei mesi di condotta irreprensibile, il giorno della mia comparizione davanti alla commissione per la libertà vigilata. Anche se per anni non ne seppi nulla, lo psichiatra del penitenziario espresse parere sfavorevole alla concessione della condizionale nel mio caso. Ma Mistress Wallis contava più di lui. A febbraio, l'autorità giudiziaria competente per i rei adulti fissò la mia pena a sette anni, di cui ventisette mesi da scontare in libertà condizionale. Il che significava che mi restavano sei mesi da passare dentro, sempre ammesso che fossi riuscito a tenermi alla larga dai guai. Memorial Day. Come tutti gli altri giorni, fu annunciato ben prima dell'alba dal baccano degli uccelli, piccioni e passeri, sotto le grondaie del blocco di celle. Nessun gallo cantò mai più presto o più forte, anche se questo non avrebbe guastato il sonno dei detenuti. Poi venne l'ora della prima apertura delle celle: le guardie lasciavano uscire gli uomini che andavano al lavoro prima della maggioranza dei prigionieri. Nei giorni della settimana, io facevo parte del primo gruppo. Quegli ultimi diciotto mesi, lavoravo nel primo gruppo della lavanderia, ma non quel giorno. Era festa. Mi svegliai quando i detenuti addetti all'operazione incominciarono ad aprire le celle. Servendosi di enormi chiavi a punta, riuscivano ad aprire ogni serratura camminando in fretta - "clac, clac, clac" -, e il rumore si faceva sempre più forte man mano che l'uomo con le chiavi si avvicinava a un altro ballatoio, poi si perdeva in lontananza dopo il suo passaggio, e tornava a risuonare fragorosamente quando un altro uomo con le chiavi si avvicinava sull'altro ballatoio. Il detenuto addetto alla mansione passava poi a versare acqua calda attraverso le sbarre delle celle nei bidoni da tre litri sistemati accanto alle porte. Le celle erano provviste solo di acqua fredda, e i gabinetti utilizzavano l'acqua della baia. Dalla mia cella riuscivo a vedere attraverso le sbarre esterne. Nonostante il sole splendente, m'infilai la giacca. Era sempre saggio mettersi una giacca addosso quando si usciva dalla cella, a San Quentin. A San Francisco poteva essere una giornata luminosa di sole, mentre sul Grande Cortile soffiava un vento freddo. Suonò una campanella, seguita come una punteggiatura dallo sciame disordinato dei detenuti del quinto ballatoio che uscivano dalle celle sbattendosi la porta alle spalle. Un torrente di spazzatura ruzzolava man mano che gli uomini la spingevano a calci dai ballatoi superiori. Ogni tanto i giornali in caduta libera e altri rifiuti maleodoranti racchiudevano un barattolo di caffè istantaneo o di burro di arachidi, che esplodeva a terra facendo volare schegge di vetro. Una voce gridò: - Se sapessi chi è stato, lo fotterei… frocio che non è altro! - Nessuno reagì. Passò ancora un quarto d'ora prima che l'apertura raggiungesse il secondo ballatoio. È in quel momento che mi alzai e mi vestii. Cancellai un altro giorno sul calendario. Me ne restavano sessanta e rotti, non ne ricordo il numero esatto. Siccome era il Memorial Day, nel pomeriggio era previsto un incontro di boxe nel cortile inferiore. Erano due anni che non mi cimentavo in un incontro di pugilato, ma il mio precedente allenatore, Frank Littlejohn, mi aveva chiesto di prendere il posto di un tale che stava allenando, perché temeva che costui si sarebbe buscato una bella suonata. Perché no? Erano soltanto tre round. Tirai fuori una scatola da sotto il letto e ne estrassi delle fasciature Ace macchiate di sangue e di sudore che avevo usato a mo' di bende per le mani, oltre al mio paradenti e alle calzature da pugile. Mi sorpresi che non ci fossero ragni all'interno, considerato il tempo che erano rimaste nella scatola di scarpe. Non appena il calpestio dei detenuti in uscita si fu allontanato al piano superiore, si alzò un'altra sbarra di sicurezza liberando il flusso di un'altra torma di detenuti su un altro ballatoio, accompagnata da un altro diluvio di spazzatura. Radunai le cose che avrei portato con me giù nel Grande Cortile. Oltre alla mia attrezzatura da pugile, infilai alla rinfusa l'equivalente di una stecca di sigarette dentro la camicia per saldare un debito di gioco. Quei dannati Yankee avevano perso la sera prima. Che ne era dell'adagio della mia infanzia, ovvero non scommettere mai contro Joe Louis, Notre Dame, o gli Yankee di New York? Stronzate! Presi anche un libro che dovevo restituire al mio amico Leon Gaultney: "Science and Sanity" di Alfred Korzybski, il fondatore della semantica generale. Francamente, conteneva troppi esempi di equazioni matematiche che, a mo' di interruttori, mi spegnevano tutti i circuiti cerebrali. Ero convinto che la semantica fosse una disciplina importante per comprendere la realtà, ma io preferivo i libri di S. I. Hayakawa e Wendell Johnson. Valutai se era il caso di prendere anche le pagine del mio nuovo libro per mostrarle a Jimmy, Paul e Leon, ma decisi che ero già troppo carico. Avrei dovuto portarmi dietro quello che prendevo per tutta la giornata. Attesi che il secondo ballatoio venisse aperto. Uscito dalla cella, richiusi la porta e aspettai finché la sbarra di sicurezza non ridiscese. In quegli ultimi tempi, certi ladruncoli avevano fatto delle rapide incursioni nelle celle per sgraffignare qualche oggetto, quando l'occupante della cella si allontanava prima che la sbarra di sicurezza venisse riabbassata. I quasi duemila detenuti alloggiati nelle quattro sezioni del Blocco Sud del penitenziario avanzarono verso la scala centrale che scendeva alla rotonda e alle porte d'acciaio che si aprivano sul refettorio. Come al solito, il cibo era appena mangiabile. Il menù era la conferma che tra la parola e la cosa significata c'è un abisso. Quando riuscivo a mandarla giù, la colazione consisteva unicamente in zuppa di fiocchi d'avena, un panino secco alla cannella e burro di arachidi. Il panino si ammorbidiva nel caffè tiepido. Mandai giù tutto e uscii nel cortile. Il Grande Cortile era già pieno. Il Blocco Sud era l'ultimo a mangiare. Uscito dalla porta del refettorio, mi tuffai attraverso il muro di suoni prodotto da quattromila uomini identificati da un numero di matricola, tutti delinquenti incarcerati per omicidio, rapina, stupro, incendio doloso, furto con scasso, spaccio di droga, acquisto di droga, compravendita di refurtiva, tutti i reati rubricati nel Codice Penale della California. La folla era più numerosa in prossimità della porta del refettorio, perché sebbene una guardia sollecitasse quelli sulla soglia a spostarsi fuori, i prigionieri tendevano a fare tre metri e poi fermarsi, per accendersi una sigaretta o salutare un amico. Mentre mi infilavo tra quella folla, non mancavo di dire «Scusa… scusa» se sfioravo o urtavo qualcuno. I detenuti possono essere gli individui più sboccati sulla faccia della terra, ma diversamente dall'immagine che ne offrono il cinema e la televisione, sono più evoluti dei newyorkesi, quanto a manifestazioni di cortesia. Tra gli uomini identificati da un numero di matricola, ce n'erano sempre alcuni con tendenze paranoidi. Un ragazzo di colore, un bulletto poco più che adolescente, non soltanto aveva trascurato di chiedere scusa, ma aveva soggiunto «Togliti di mezzo, imbecille» all'indirizzo di un bianco secco come un fuscello che era detenuto in California prima di essere trasferito nello Utah, dove aveva già accoppato un altro detenuto. L'«imbecille» aveva rimuginato la cosa per quasi un mese, e poi, un giorno, si era accostato al bullo prendendolo alle spalle, mentre era seduto a mangiare nel refettorio. Il colpo di coltello paralizzò il bullo dal collo fino alla punta dei piedi. Aveva finito di fare il bullo. Tra gli adagi della prigione figurava questo: «Tutti sanguinano; chiunque può ammazzarti. Là dove è facile procurarsi un grosso coltello, le buone maniere sono la regola, anche se si accompagnano alla volgarità. Pensaci». Oltre la folla ammassata, c'era più spazio. Feci il giro del cortile in senso antiorario, in cerca dei miei amici. Dapprima mi diressi verso lo spaccio dei detenuti. Soltanto i detenuti che facevano effettivamente la fila per lo spaccio, una fila di sportelli che ricordavano i botteghini dell'ippodromo, potevano superare il limite di una linea rossa a un decina di metri di distanza. Sopra l'area dello spaccio, sulla passerella, stazionava una guardia armata di fucile, che sorvegliava la folla. Vidi molti uomini che conoscevo, ma non quelli che cercavo al momento. Ero al tempo stesso fiducioso e circospetto, perché, pur avendo molti amici, avevo anche il mio numero di nemici. Non volevo imbattermi in loro inaspettatamente; avrebbero potuto credere che stavo cercando di aggredirli a tradimento. All'esterno dei cancelli del Blocco Est, scorsi le due coppie di allibratori di San Quentin. Sullivan e O'Rourke erano irlandesi; Globe e Joe Cocko erano chicanos. Ogni coppia aveva la pagina sportiva verde del «Chronicle», e verificava i risultati delle corse negli ippodromi dell'Est. Gli scommettitori stazionavano a poca distanza da loro. In gran parte erano scommettitori accaniti, e qualcuno era davvero esperto. Avevano tutto il tempo possibile e immaginabile per studiare i concorrenti in gara. M'incamminai tra il muro del blocco di celle e i tavoli di domino. Le partite erano febbrili e rumorose, il colpo secco delle tessere di plastica del domino che venivano calate con forza sul tavolo. Un doppio sei aprì il gioco. Il giocatore successivo aveva un sei tre che sbatté sul tavolo. - Fanno quindici. - Vado dietro il blocco per procurami degli spiccioli, - disse il successivo, piazzando un sei due sul sei. Ogni partita era di proprietà di un detenuto che incassava la sua percentuale, raccogliendo i soldi dai perdenti e pagando i vincenti. Sapevo giocare, ma non tanto bene da scommettere soldi. Mi era costato troppo caro diventare un giocatore di poker di prim'ordine per mettermi adesso a giocare a domino. Li c'erano i migliori giocatori di domino del mondo. Giocavano dall'apertura delle celle della colazione fino al rientro in cella del pomeriggio. Giocavano anche sotto la pioggia, proteggendosi la testa con un giornale, se non avevano né cappello né impermeabile. Il muro del Blocco Est si incrociava con la porta della rotonda del Blocco Nord. Il cortile davanti al Blocco Nord era il primo a ricevere il tepore del sole mattutino. Il Grande Cortile era di solito freddo al mattino. Il cemento dava l'impressione di conservare il freddo della notte finché il sole non era alto nel cielo. Molti detenuti di colore si radunavano in quella zona. Nonostante gli appartenenti a una stessa comunità tendessero a raggrupparsi da soli, non esistevano affatto ostilità o tensioni razziali aperte. Le cose sarebbero cambiate nei decenni a venire. Non stavo cercando lui, ma scorsi Leon Gaultney in piedi insieme a due altri neri, uno dei quali era Rudy Thomas, il campione dei pesi leggeri del penitenziario. Rudy aveva tutti i numeri per diventare il campione del mondo. Ahimè, era un tossico. Lì accanto c'era anche il campione dei pesi massimi, Frank Deckard, che stava scontando una pena per aver ucciso un uomo sferrandogli un solo pugno. Fra me e Deckard correvano rapporti civili. Un giorno mi aveva minacciato di rompermi la mascella, al che io avevo risposto che lo avrei pugnalato alle spalle. Io bluffavo, convinto che avrebbe battuto in ritirata, e così fu. Rudy Thomas e io eravamo amici, ma secondo me sospettava che, in certa misura, tutti i bianchi fossero razzisti. Era vero che se fosse scoppiata una guerra razziale, io, da bianco, mi sarei battuto a fianco dei bianchi, ma non credevo affatto che qualcuno fosse migliore o peggiore per via della razza. Poi c'era Leon. Leon Gaultney. In vita mia, ho avuto un numero insolito di amici intimi. Gli uomini americani hanno raramente amicizie intime dello stesso sesso, quelli che possono chiamarsi fratelli. Io ne ho avuto almeno una dozzina, o forse due, e decine che ho considerato compagni. Leon apparteneva alla mezza dozzina di amici che hanno contato di più, e per un certo tempo è stato il mio migliore amico. Non mi ricordo più delle circostanze del nostro primo incontro. Durante il primo anno della mia detenzione a San Quentin, ero troppo preoccupato della mia immagine per avere un nero come regolare compagno. Avevo parecchi amici di colore, ragazzi che conoscevo dal carcere minorile passando per l'istituto correzionale, e che ora erano a San Quentin, ma non erano regolari compagni. In cortile non mi facevo vedere insieme a loro. Ormai, però, avevo acquisito riconoscimento e prestigio sufficienti, nonostante avessi appena ventun'anni, perché nessuno pensasse male, o, in tal caso, trovasse nulla da ridire. Inoltre, per mio tramite, Leon aveva stretto legami di amicizia e si era guadagnato il rispetto di numerosi detenuti bianchi che esercitavano una certa influenza. Jimmy Posten aveva fatto ottenere a Leon un posto nell'ambulatorio dentistico. Il dentista capo non firmava nessun cambiamento nell'assegnazione dei lavori senza la preventiva approvazione di Jimmy. Leon era l'unico detenuto nero a lavorare lì. Non era una questione di razzismo: il motivo era che i posti buoni si offrivano ai buoni amici. Leon aveva una stazza di ottanta chili distribuiti su un metro e ottanta di statura. Non era né bello né brutto, e non vestiva mai di tutto punto: niente abiti inamidati e stirati. È quando prendeva la parola che ci si rendeva conto di quanto fosse unico. La minima traccia di accento nero popolare era stata cancellata in favore di una pronuncia impeccabile. Mi raccontò che aveva studiato la dizione di Clifton Webbe e Sydney Poitier, e che aveva fatto esercizio di lettura a voce alta con i romanzi di James Baldwin e altri scrittori. Durante i tre anni di pena che aveva già scontato, aveva imparato lo spagnolo da autodidatta abbastanza bene da tradurre Shakespeare in un senso e poi nell'altro. Parlava correntemente anche il francese e l'italiano, e al momento stava studiando l'arabo. L'unica decorazione della sua cella monastica era uno schizzo di Albert Einstein. Leon era l'uomo più intelligente che mi fosse mai capitato di incontrare in prigione. Rari erano quelli da me conosciuti al riformatorio che potevano dirsi intelligenti. A dire il vero, non era l'ampiezza e la profondità della sue conoscenze a impressionare. Sono sicuro che avevo letto più libri di lui. Leggeva raramente romanzi, mentre io credo che niente esplori le profondità e le tenebre della mente umana meglio dei grandi romanzi, e anche un romanzo discreto può illuminare con la sua luce un crepaccio sconosciuto. Dostoevskij vi fa comprendere la mente di giocatori d'azzardo, assassini e altri individui meglio di qualsiasi psicologo, Freud incluso. Mentre avanzavo verso di loro, salutai Frank e Rudy con un cenno del capo, e Leon con una pacca sulla spalla. - Novità? domandai. - Ho visto il tuo nome sul cartello degli incontri di pugilato, - disse Rudy. Annuii. - Sì. Frank mi ha convinto a partecipare. È convinto che Tino Prieto le suonerà di brutto a Rooster. - Quand'è l'ultima volta che ti sei infilato i guantoni? - Non ricordo. Un anno fa, forse. Rudy scrollò il capo e levò gli occhi al cielo. - Potrebbe suonarle anche a te. È vecchiotto, e ha un po' di pancia, ma ha al suo attivo trenta o trentacinque incontri da professionista. Guardagli la faccia. - Lo so… ma, 'fanculo, sai che voglio dire. Io peso cinque o sette chili più di lui. Prieto è davvero un peso leggero. - È in forma e, dannazione, non si può dire lo stesso di te, questo è certo. - Troppo tardi. Leon ci interruppe. - Andiamo. Littlejohn vuole vederti in palestra. Erano passate da poco le nove del mattino. Il cancello del cortile era stato appena aperto in modo da permettere ai detenuti di scendere per le scale di cemento che conducevano al cortile inferiore. Il primo incontro non si sarebbe disputato prima dell'una. Io avrei combattuto nel terzo. Non sarei stato obbligato a presentarmi al suono del gong prima dell'una e trenta. Annuii, poi dissi a Rudy: - Porteranno quel peso leggero da Sacramento? - Frankie Goldstein, un organizzatore di boxe che spesso veniva a San Quentin per assistere agli incontri, arbitrare e al tempo stesso scoprire se c'erano dei pugili di talento nella prigione, avrebbe dovuto portare un contendente peso leggero per un incontro dimostrativo con Rudy, il quale aveva eliminato tutti quelli che avevano accettato di salire sul ring per cimentarsi con lui. Gli avevo fatto da "sparring–partner" in palestra quando nutrivo la segreta ambizione di diventare una grande speranza bianca. Non ero mai riuscito a mollargli un pugno vero e proprio. E quando lui mi colpiva, a malapena vedevo arrivare il pugno. Sono convinto che Rudy Thomas sarebbe potuto diventare il campione del mondo. Peccato che fu incapace di staccarsi dalla siringa. - Dovrebbero portarlo. Staremo a vedere. Presi congedo da Frank Deckard con un gesto; in risposta mi salutò con un cenno del capo, la faccia impassibile. Leon e io ci allontanammo. - Quando avrai finito, questo pomeriggio, - disse, - ho quel che ci serve per sballarci. - Perché non subito? Che è? - Ehi, non ho intenzione di caricarti prima di spedirti sul ring. Ti faresti suonare fino a crepare, senza neppure rendertene conto. - È meglio così. - No, se ti riducono il cervello in poltiglia. Qualche volta basta un pestaggio a sangue. - Vedo che hai una grande fiducia in me. - Credo che sia stato Jimmy Barry a incastrarti… per via di quella faccenda dell'anno scorso. «Quella faccenda dell'anno scorso» era stato uno scontro tra Leon e Jimmy. Era accaduto dopo il mio incontro con Leon, ma prima che diventassimo inseparabili. Io mi stavo allenando solo davanti a uno specchio a figura intera, quando qualcuno mi annunciò che era in corso una vera e propria scazzottata. Non potevo perdermela. Si svolgeva sul campo di pallamano, sull'altro lato della palestra. Arrivato lì, vidi che erano Leon e Jimmy che si battevano. Jimmy aveva vent'anni di più e dieci chili meno di Leon; inoltre Leon era un buon pugile amatoriale della categoria dei massimi–leggeri. Jimmy, per contro, era stato un peso welter tra i meglio classificati. Era lui l'organizzatore degli incontri; dirigeva il settore pugilistico. Aveva anche una pessima reputazione e un abito da spione. I detenuti «a posto» lo evitavano per quanto possibile, ma era difficile riuscirci completamente per la posizione che rivestiva. Aveva in mano tutto il settore pugilistico della prigione. Era lui che distribuiva l'equipaggiamento. Nessuno poteva farsi assegnare un armadietto metallico, o ricevere scarpe da boxe o paradenti se non tramite lui. Era lui a organizzare i combattimenti, e a decidere chi combatteva contro chi. Una dozzina di detenuti si tenevano sul bordo del campo di pallamano e si godevano lo spettacolo della scazzottata. Leon ce la metteva tutta, cercando di far seguire a un diretto un gancio al corpo, ma Jimmy schivava il diretto e bloccava il gancio. Nessuno dei due si faceva gran che danno, finché Leon non mollò all'avversario un colpo violento di spalla e scaraventò Jimmy contro il muro. Senza fiato, Jimmy lottò per riprendere a respirare. Di sorpresa, dalla linea laterale del campo, il «piccolo» Jimmy saltò sulla schiena di Leon e tentò di ferirlo in faccia o in un occhio con una penna a sfera. Toglietemelo di dosso! - urlò Leon. Con mia grande vergogna, esitai. Leon e io non eravamo così intimi come saremmo diventati, ma i nostri rapporti erano amichevoli. Inoltre, era un detenuto a posto, mentre Jimmy aveva fama di essere un informatore. Tuttavia, Jimmy era bianco e Leon era nero. Il problema della razza mi fece esitare per dieci secondi. Poi mi mossi verso la porta del campo di pallamano urlando: - Togliti di lì! Jimmy Barry mi guardava da sopra la spalla di Leon. Prima che potessi varcare la soglia, qualcun altro separò i due uomini, e un altro detenuto gridò: - Arriva il capo! - Tutto rientrò in buon ordine prima dell'arrivo della guardia di sorveglianza. Percepì l'aria carica di elettricità o di ozono, ma non ebbe la minima idea di quanto era successo. Tutti si scostarono al suo passaggio come se fosse una roccia in un fiume. Lo sconcerto si leggeva sulla sua faccia. Tornando verso il cortile, mi ritrovai a camminare a fianco di Leon. Grazie, - disse. Si teneva un fazzoletto sulla guancia. Sanguinava leggermente per la ferita aperta dalla penna a sfera. C'era una nota di sarcasmo? Forse non aveva visto che mi trovavo tra gli spettatori? Non aveva alcuna importanza. M'importava invece che non ero riuscito a reagire restando fedele a ciò che mi dettavano i miei valori. La scazzottata sul campo di pallamano risaliva a più di un anno prima. È da allora che Leon e io eravamo diventati amici per la pelle. Lui era rispettato dai detenuti bianchi. I bianchi costituivano ancora il settanta per cento della popolazione carceraria. Le tensioni razziali erano rare. Se si verificava una lite tra detenuti di razze diverse, coinvolgeva solo loro, e forse i loro amici più prossimi. Leon godeva anche di un certo prestigio tra molti giovani neri, specie quelli originari di Oakland e San Francisco. I mesi passarono. Comparvi dinanzi alla commissione per la libertà vigilata e ottenni la data del rilascio. Poche settimane dopo, ebbi un diverbio con due dei detenuti neri più duri di San Quentin: Spotlight Johnson e Dollomite Lawson. L'uno e l'altro avrebbero potuto suonarmele di santa ragione senza difficoltà. Entrambi erano tarchiati e forzuti, brutti come la fame. Nella prigione della Contea di L. A., gli aggiunti avevano sistemato Dollomite in una cella di detenzione particolare perché «rimettesse le cose a posto». Aveva sbattuto la testa di un uomo contro le sbarre, e lo aveva ammazzato. Spotlight era nel Blocco Est, ma ignoravo su quale ballatoio. Dollomite occupava una cella sul quarto ballatoio del Blocco Sud. Non si sarebbe aspettato che sarei uscito dalla mia cella per primo. Sarebbe sceso in cortile in modo da trovarsi con il suo compare, e potermi affrontare insieme a lui. Al contrario, avrei colpito Dollomite nel momento esatto in cui avrebbe varcato la soglia della sua cella. Non avrebbe mai pensato alla prima apertura delle celle della giornata. Era un bruto stupido e illetterato. Ahimè, era un bruto stupido e illetterato molto tosto. In un ambiente primitivo cui si era perfettamente adattato. Ma anch'io ne sapevo qualcosa. Tutta la sera mi rovellai sul problema, talvolta con rabbia, talvolta provando un dolore intimo, perché, bene che andasse, sarebbe stata una vittoria di Pirro. Mi sarebbe costata perlomeno sette, otto anni in più, anche se non lo avessi ucciso. Non ne valeva la pena. Alle ventidue e quindici, i detenuti occupati nelle attività serali incominciarono a rientrare. I loro passi risuonarono sugli scalini d'acciaio, e alcuni passarono davanti alla mia cella. Leon comparve e si fermò. - Qualcuno ha detto che hai avuto da ridire con Testa Grossa e il suo compare. La cosa è finita? Esitai. Avrei voluto confidargli tutto e chiedere il suo aiuto, ma il mio codice morale, per quanto personale e pervertito, diceva che spettava a me tirarmi fuori dai miei guai. Risposi: - Non proprio -. Non appena quelle parole mi uscirono di bocca, mi sentii in colpa. Una guardia all'estremità del ballatoio alzò la sbarra di sicurezza. I detenuti che erano in attesa rientrarono nelle celle. Leon era solo sul ballatoio. - Dove dovresti essere, tu? - Vado, vado, capo, - rispose Leon. - Ci vediamo domattina, - disse rivolgendosi a me. Presto incominciò il "clac clac clac" di ogni cella che veniva chiusa a chiave, e il "clic clic clic" più discreto delle guardie che premevano i pulsanti dei loro contatori. Ebbi l'impressione di essere rimasto sveglio tutta la notte, ma dovetti dormire, almeno per un po', perché quando la guardia batté sulle sbarre e mi piantò il fascio di luce della torcia in faccia, il rumore e il bagliore mi svegliarono. - Bunker… prima apertura. - Va bene. Dieci minuti dopo si levò la sbarra di sicurezza e la guardia aprì la porta della mia cella. Uscendo, notai che c'erano due altre figure sul ballatoio. Era estate e il sole era già alto quando il caposquadra della lavanderia attraversò il Grande Cortile in compagnia della sua squadra, un cortile ancora vuoto ad eccezione di qualche gabbiano e piccione. La squadra addetta alle macchine del bucato era formata solo da bianchi, quella degli addetti alle centrifughe (macchine enormi che eliminavano l'acqua in eccesso girando ad alta velocità) erano tutti neri, e la squadra delle macchine asciugabiancheria era formata da chicanos. Ciascuna doveva cooperare con le altre due per avere i vestiti migliori lavati a puntino. Gli addetti alle presse della stiratura a vapore appartenevano un po' a tutti i gruppi. Il capo era un nero. Non appena entrai nell'edificio, andai a ricuperare il mio coltello che avevo riposto in un nascondiglio. Era lungo una quarantina di centimetri, il manico avvolto di nastro isolante, e aveva la forma di uno stuzzicadenti dell'Arkansas, la punta affilata e molto allargata. Lo portai dietro un'enorme lavatrice, dove aspettavano i miei scarponi di gomma, l'uno accanto all'altro sotto una panca. Feci scivolare il coltello dentro il mio grosso scarpone di gomma. Tutta la mattina sorvegliai l'orologio. Alle sette e quarantaquattro dissi al caposquadra che non mi sentivo bene e che salivo in infermeria. Nel sole mattutino, il tragitto da fare era lungo, attraversare il cortile inferiore fino alle scale che conducevano al Grande Cortile. I primi detenuti dei Blocchi Ovest e Nord cominciavano a uscire dai refettori. Quando entrai nel Blocco Sud e presi a salire le scale, gli occupanti del quinto ballatoio stavano scendendo. Bene. Dollomite era ancora nella sua cella. Arrivato sul terzo ballatoio, svoltai per passare davanti alle celle. Leon era lì, in piedi davanti alla cella di Dollomite. Leon mi vide e con un gesto, la mano lungo la gamba, mi fece cenno di girare sui tacchi. Mi fermai e obbedii. Dopo un minuto, Leon mi raggiunse. - Andiamo, - disse, guidandomi giù per le scale. - Che succede? - domandai. Mentalmente ero pronto, ed essendo pronto, non accettavo l'idea di lasciar perdere. - La cosa è sistemata, - disse Leon. - In realtà non vanno in cerca di guai. Hanno anche Fingers nel mirino. E pensano che tu sei matto… e avere la fama di essere un po' pazzo è un vantaggio in questo posto. Leon mi aveva salvato: la data del mio rilascio sulla parola non sarebbe stata revocata. E forse mi aveva anche messo al riparo da una condanna supplementare per aggressione o, magari, per omicidio. Era veramente amico mio. (Devo aggiungere, tra parentesi, rivolgendomi in particolare a quei detenuti che leggeranno questo testo, che un'amicizia tale non avrebbe potuto iniziare a San Quentin dopo la seconda metà degli anni sessanta, quando incominciarono i conflitti razziali). Ma oggi era il Memorial Day, e io sarei uscito di galera in libertà vigilata nella prima settimana di agosto. Leon e io ci dirigevamo verso la palestra, quando sopraggiunse 'Frisco Flash, un tipetto pelle e ossa, che fece cenno a Leon di avvicinarsi. La conversazione tra loro fu breve. Leon tornò scrollando il capo. - Che coglione sono stato. Non avrei dovuto dargliela. - Dargli cosa? - Erba e pasticche. Le rivendeva per mio conto. Conosci Walt, Country e Duane, no? - Sì, da un sacco di tempo. - A Walt e agli altri due ha rifilato dei barbiturici, e adesso loro sostengono che le pillole erano una fregatura. Sono incazzati con lui. - Ci parlerò io. - Non ci voglio guadagnare, ma vorrei ricuperare i soldi che ci ho investito. - Non c'è problema. Me ne occupo io. Ero convinto che il problema si sarebbe risolto. Tutti e tre erano amici miei, ed erano in debito con me, per motivi diversi. Cambiai discorso. - Littlejohn avrà bisogno di qualcuno che l'aiuti, al mio angolo sul ring. Tu te la senti? - Certo. Fermerò il sangue. - Apprezzo la tua fiducia. Tieni l'asciugamano a portata di mano, in caso mi faccia ammazzare. Risalimmo le scale fino all'ultimo piano del Vecchio Edificio Industriale. Era lì che tenevano la forca, all'epoca in cui in California i condannati a morte venivano giustiziati con l'impiccagione. Il primo piano era diviso in laboratori di manutenzione, e una parte del primo piano ospitava la cappella cattolica. Due altri piani erano vuoti, e la palestra era all'ultimo piano. L'edificio era stato costruito ai piedi di una collina, e costeggiava il cortile inferiore. Fino a poco tempo prima, per raggiungere la palestra, bisognava percorrere il viale lungo le porte che si aprivano sui laboratori di manutenzione e poi inerpicarsi per cinque file di scale addossate contro il muro esterno dell'edificio. Dopo che Popeye Jackson (ucciso in seguito per le strade di San Francisco) ebbe colpito un tale con un colpo di accetta e un'anziana guardia aveva avuto un attacco di cuore mentre correva su per le scale, venne costruita una passerella con una ringhiera che collegava la sommità della collina con la porta della palestra. Ciò rese più facile controllare il traffico degli uomini che entravano e uscivano dalla palestra; inoltre le guardie potevano accedervi più rapidamente. Paapke, la guardia hawaiana di centocinquanta chili, era all'ingresso della passerella e verificava le tessere d'identità su una lista. Mi conosceva e mi fece segno di passare senza essere controllato. Il settore boxe era in silenzio. Il gong regolato su una sequenza di un round di tre minuti inframmezzato da una pausa di un minuto di riposo era stato disattivato. Lo staccato costante dei punching ball mancava, così come quello dei pugni violenti sul grande sacco. Le conversazioni erano insolitamente discrete, mentre i gladiatori si preparavano per la battaglia e gli allenatori si aggiravano qua e là dispensando aiuto e consigli. Il premio per il pugile consisteva in due foto scattate durante ciascun incontro. Frank Littlejohn doveva essere lì, in compagnia dei suoi due campioni, Rudy Thomas e Frank. - Ehi, ci rincontriamo, - disse Leon salutando Rudy e Frank. Poi si rivolse a me: - Me ne vado. Ci vediamo quando scendi di sotto. Annuii e domandai a Rudy: - Dov'è Littlejohn? Rudy indicò la porta che conduceva all'ufficio dell'organizzatore degli incontri in un angolo del settore boxe. Era un bugigattolo all'interno dell'edificio, costituito da un ufficio con una vetrata e un retro con una finestra dalla quale veniva consegnato e restituito l'equipaggiamento. Era anche uno spazio privato, e nessuno poteva vedere quanto accadeva all'interno. Mentre mi avviavo in quella direzione, vidi Country Fitzgerald e Duane Patillo che uscivano dalla porta. Country era un noto truffatore che castigava gli idioti senza pietà. Aveva avuto la droga da 'Frisco Flash. Duane, che usava la mano pesante quando ce n'era bisogno, era un giovane bianco, una vera pellaccia, e Walt era complice di loro due, sempre pronto a seguirli. Cambiai direzione per intercettarli. Si fermarono, la faccia affabile. Eravamo amici. - Ehi, la roba che avete avuto da 'Frisco Flash veniva dal mio amico Leon. Lui non vuole che gli paghiate il prezzo che avevate stabilito, ma solo i soldi che lui ci ha investito. E non siete obbligati a regolare subito, se siete a corto di grana. Prendetevi un giorno per rifletterci su. - Oh, amico, non era di Flash? Gli garantii di no. - La grana non ce l'abbiamo subito. - Quand'è che potrete avercela in mano? - Forse la settimana prossima. Mi parve ragionevole, ed ero certo che Leon sarebbe stato d'accordo. Era più una questione di salvarsi la faccia che del valore della merce. - Glielo dirò, - dissi. Come al solito all'inizio dell'estate nella zona della baia, la nebbia del mattino si dissolse e il pomeriggio fu caldo e soleggiato. Quattromila e duecento detenuti occupavano il cortile inferiore. La boxe era una grande attrattiva a San Quentin. Molti sfidanti erano venuti da fuori. Ogni volta che dei campioni si trovavano nella regione della baia, venivano in visita a San Quentin. Le loro foto firmate erano appese alle pareti del settore pugilistico della palestra: Archie Moore, Bobo Olson, Rocky Marciano. La maggioranza dei quattromila e duecento carcerati stazionavano nel campo esterno e intorno al ring, ma i visitatori del mondo libero e una ventina di detenuti importanti occupavano le seggiole pieghevoli della prima fila. Quel giorno erano previsti otto combattimenti, tre per le qualificazioni preliminari e cinque per il campionato del penitenziario nelle diverse categorie. Io ero iscritto nel terzo combattimento delle qualificazioni preliminari, presumendo che appartenessi alla categoria dei pesi welter. In effetti, pesavo qualche chilo in più del limite prescritto, ovvero settantotto chili, e il mio avversario, che pesava sessantadue chili, era a tutti gli effetti un peso leggero. Nel primo incontro si sfidarono due pesi piuma che salivano per la prima volta sul ring. Vero è che si erano cimentati in parecchi combattimenti nella palestra; gli allenatori li avevano istruiti a dovere, ma quando percepirono l'elettricità che si sprigionava dalla folla, dimenticarono di mettere in atto ciò che avevano appreso. Giravano prudentemente l'uno intorno all'altro, le mani alzate, quasi danzando. Uno allungò timidamente un diretto; l'altro sferrò un diretto che arrivò a segno. Entrambi presero a frustare l'aria come girandole, a testa bassa, menando scompostamente i pugni, pochissimi dei quali facevano grande effetto. Per i detenuti era uno spasso. Urlavano, battevano le mani, si piegavano in due dal ridere. L'esito del combattimento fu un pareggio. Al secondo incontro prestai poca attenzione. Facevo esercizi di scioglimento e riscaldamento, muovendomi qua e là. Un muggito della folla si riversò sul ring. Mi voltai a guardare. Uno dei pugili era seduto sul ring, una mano aggrappata alla corda più bassa. Cercava di servirsene per rimettersi in piedi. L'arbitro avanzò, agitando le braccia sopra la testa. Il combattimento era finito. - A un minuto e nove secondi del primo round… Littlejohn mi allacciò i guanti, serrandoli ben stretti. Oddio, mi davano l'emicrania. Se dovevo incassare un pugno, preferivo di gran lunga che fosse di una mano nuda piuttosto che di un guanto da boxe. La vittima che era stata messa fuori combattimento mi passò davanti, le gambe ancora malferme, gli occhi vitrei, in compagnia dell'allenatore che gi diceva all'orecchio: Dannazione! Te l'avevo detto di agganciargli il destro, quando ti colpiva dall'alto. Leon salì le scale fino al bordo del ring e scostò le corde in modo che io potessi passarci in mezzo. Mi diressi verso la cassetta della resina e feci qualche saltello per impregnare di resina la suola delle scarpe, che così non sarebbero scivolate sul tappeto del ring. Quando mi voltai, mi ritrovai davanti il mio avversario in attesa di usare anche lui la resina. Io ero più massiccio e più giovane, ma sulla sua faccia erano impressi quarantadue combattimenti professionali, in gran parte disputati nei dintorni di Tijuana. Ero già contratto. A quel punto anche il mio stomaco cominciò a torcersi. Tornato nell'angolo del ring, Littlejohn mi disse: - Tieniti a distanza; avanza su di lui. Usa il diretto. Hai un buon diretto. Frankie Carter, l'arbitro, ci fece cenno di avanzare al centro del ring. - Conoscete le regole. Smettete, quando ve lo dico. E proteggetevi sempre… - Mentre l'arbitro impartiva le istruzioni di rito, io guardavo il mio avversario, non con lo sguardo intimidatorio che è in uso oggigiorno in molti sport. Piuttosto, lo squadravo per valutarne il calibro. Era più basso di me, più tarchiato, con capelli neri che cominciavano a diradarsi. Aveva braccia corte, i bicipiti forti, ma niente di eccezionale. I suoi avambracci mi fecero pensare a Braccio di Ferro. Era coperto di tatuaggi, inchiostro di china blu, ripugnanti e permanenti. Erano un marchio di fabbrica. Ero lì, in piedi, e percepivo il calore del sole sulle mie spalle nude. Tornammo ai nostri angoli. Il gong suonò e il combattimento iniziò, tre round, ciascuno della durata di tre minuti. Dal momento che non ero in buona forma fisica, decisi di andarci piano nel primo round, un diretto e un arretramento per riguadagnare la distanza. Se mi avesse pressato, avrei risparmiato i colpi per conservare fiato ed energia. Questa era la tattica che avevo studiato. Girai intorno al mio avversario, gli mollai un diretto, e fui colpito in pieno nell'occhio sinistro da un destro micidiale sferrato dall'alto. Luci esplosero nel mio cervello. Oh, merda! Tesi il braccio per afferrarlo, e lui mi colpì con un montante al corpo che quasi mi sollevò i piedi dal tappeto. Ooof! Mi resi conto che mi trovavo in guai seri. Riuscii a stringermi a lui corpo a corpo, bloccandogli le braccia. Quando l'arbitro intimò il suo break, io lo ignorai. Dovette lui separarmi con la forza. Bene o male, riuscii ad arrivare fino alla fine del primo round. Fui felice quando suonò il gong. Quando mi accasciai sullo sgabello, ansimando, guardai dall'altra parte del ring. Il mio avversario era in piedi, e parlava con il suo allenatore. Sorrideva? - Il diretto, devi colpirlo col diretto! - non smetteva di ripetere Littlejohn. - Serviti del tuo allungo per tenerlo a distanza. Distruggilo lentamente. Spostati e colpisci… spostati e colpisci… Il fiato, come va? - Non male… finora. L'arbitro si accostò. - Ripresa! Leon bagnò il mio paradenti e me lo infilò in bocca. Suonò il gong. Il secondo round fu migliore del primo. Le mie gambe stavano meglio, e io ero capace di muovermi, muovermi, muovermi… e quando il mio avversario si mostrò troppo agitato, mi fermai di colpo e gli assestai un diretto in faccia. Gli assestai un diretto, seguitai, e lo colsi con un gancio violento allo stomaco. Il suo «ooof» fu la prova che gli avevo fatto male. Danzavo come Fred Astaire. Vincevo il round, fino agli ultimi trenta secondi. All'improvviso, come aria che fuoriesce da un palloncino, restai a corto di fiato. Le mie gambe diventarono di piombo. Mi venne addosso, e io intendevo schivare il pugno e allontanarmi. Le gambe si rifiutarono di obbedire al mio ordine. Si incrociarono e io misi un piede in fallo, traballai, e quasi finii al tappeto. Mi colse alle costole, sotto il cuore. Mi fece male. Poi mi arrivarono due pugni in faccia, e il mio cervello s'illuminò di scintille. Istintivamente, provai ad afferrarlo. Le mie braccia tese gli lasciarono spazio per colpirmi in alto. Un altro lampo di scintille. Dannazione! Suonò il gong. Grazie a Dio. Dov'era l'angolo? -…Te la cavi bene, - mi disse Leon, sfilandomi il paradenti. Littlejohn mi massaggiò le gambe. - Continua a fare come prima. Un diretto e presa. Un diretto e presa -. Mentre parlava, mi ricordai che il diretto e la presa avevano permesso a Joey Maxim di battere Sugar Ray Robinson, una sera afosa allo Yankee Stadium di New York. Robinson aveva vinto tutti i round fino al tredicesimo, prima di abbandonare ritirandosi nel suo angolo, spossato e disidratato. Aveva perso quasi dieci chili durante i tredici round. Perché mi era venuto in mente? Chissà. Suonò il gong. Del terzo round ricordo poco, salvo che durò tre ore. L'arbitro l'avrebbe sospeso, se io non avessi seguitato ad avanzare, e Tino Prieto non avesse continuato a colpirmi fino a non avere più forza nelle braccia. A un certo punto, mentre mi trovavo in piedi in mezzo al ring, piegato in due, un po' come un toro che aspetta il colpo di grazia, sentii Littlejohn gridare: - Il diretto! Dagli col diretto! Indietreggiai, guardai sopra la mia spalla e dissi a voce alta: - Ehi, Frank. Lo farei, se potessi. Non ce la faccio! Littlejohn chiuse gli occhi scrollando il capo, incredulo. Leon fece un largo sorriso. I detenuti della prima fila ridacchiarono un'altra volta. Incollai il mento contro la spalla e tenendo la mia destra in guardia alta, il gomito stretto al corpo, avanzai incontro ai colpi di Prieto, muovendo la testa da sinistra a destra. Ogni tanto lanciavo un poderoso gancio di sinistro, che andò a segno soltanto una volta, e anche stavolta arrivò troppo alto, buttandogli all'aria i capelli e niente più. Solo chi ha fatto questa esperienza può immaginare quanto sia lungo un round di tre minuti. Quando suonò il gong finale, quattromila detenuti saltarono sul posto e urlarono. Io fui appena in grado di raggiungere il mio sgabello. - Alzati. Saluta! - disse Littlejohn. - Sei matto? Forse dovrai portarmi in braccio fuori di questo fottuto ring. Se mai mi infilerò un paio di guanti un'altra volta… - Abbiamo un verdetto discorde, - disse l'annunciatore. - L'arbitro Frankie Carter dà ventinove a ventotto per l'angolo blu. I due giudici, Willy Hermosillo e Frank Washington, danno ventinove a ventinove. A maggioranza il combattimento è dichiarato pari. Pari! Pari! Incredibile. Ero talmente sorpreso ed eccitato che superai la mia spossatezza e mi rimisi in piedi. Riuscii a salutare la folla e ad abbracciare Tino Prieto. Aveva un'aria stravolta dalla sorpresa e ricambiò il mio abbraccio senza entusiasmo. Poco dopo, consultai i cartellini segnapunti. Due giudici avevano dato il primo round pari, dieci a dieci; il secondo round l'avevano aggiudicato a me, dieci contro nove, e il terzo a Prieto, con lo stesso punteggio di dieci a nove. Quando scesi le scale del ring, Rudy Thomas mi accolse con un largo sorriso: - Non sapevo che eri un pugile così bravo, - disse. - La forza della disperazione, - risposi. - E non mi infilerò più un paio di guanti da boxe, mai più, credimi. Poco dopo, nella palestra, il mio avversario uscì dalla doccia. Mi stavo pettinando davanti a un lavandino, e fu costretto a passare alle mie spalle. I nostri occhi si incrociarono allo specchio. - Bel combattimento, - fece. - Anche tu sei bravo, amico. - Come dire, sono contento di non aver vinto. - Di che stai parlando? - Adesso, così, sono tranquillo. Non ti verrà in mente di accoltellarmi. - Oh, amico, non farei una cosa simile. - Lo so -. Sorrise, un dente di meno, e seguitò per la sua strada. Finii di pettinarmi. Ero tutto dolorante, e ripensavo a quello che quel tale aveva detto. Era paranoia? Senza dubbio, ma era anche un avvertimento diretto a me. Io mi ero deliberatamente costruito la nomea di essere un po' schizzato. Lo scopo era di avvisare gli altri di stare alla larga, come le righe bianche nella pelliccia di una moffetta. Ma se qualcuno pensava che sarei arrivato al punto di accoltellare per via di un incontro di pugilato, questo poteva vanificare i suoi progetti. Se qualcuno mi riteneva pazzo fino a questo punto, e tra noi fossero volate parole, può darsi che avrebbe potuto accoltellarmi lui per primo a titolo preventivo. L'unica cosa che speravo è che questo non accadesse nei due mesi a venire. Passato questo tempo, mi sarei ritrovato per le vie di Los Angeles. Più tardi, durante la chiusura per l'appello generale, mi chinai per riassettare le lenzuola della mia branda e un dolore lancinante mi trapassò le costole. Quando uscii, dopo l'apertura delle celle per il pasto serale, chiesi al sergente del blocco di poter andare all'ospedale e di preavvisarli del mio arrivo. Quando l'infermiere detenuto di servizio quella sera mi palpò la costola feci una smorfia di dolore. A suo parere era incrinata, ma ciò non bastava per richiedere l'intervento nel penitenziario dell'ufficiale medico del giorno. Ad ogni modo, un detenuto più anziano soffriva di un dolore lancinante al petto e altri dolori più lievi al braccio sinistro. L'eventualità di una crisi cardiaca era motivo sufficiente per far venire l'ufficiale medico del giorno. Passò un'ora prima che arrivasse in pantaloncini e felpa. Grazie a Dio, il detenuto con il dolore al petto non correva pericolo di infarto. Quando arrivò il mio turno e il dottore apprese che le mie ferite derivavano da un incontro di pugilato, borbottò qualcosa a proposito dell'ignoranza, ma richiese una radiografia che evidenziò una costola fratturata. Le due parti dell'osso non si erano separate. Bastava immobilizzare la costola, e la frattura si sarebbe saldata da sola. Così fece, applicando un grosso cerotto adesivo sul punto della frattura, fissato da una benda che mi fasciava il dorso. Quando una guardia mi scortò per ricondurmi al blocco, erano circa le dieci e mezzo. Dovetti attendere all'Ufficio del Sergente che si controllasse il mio rientro, in mezzo a una folla di detenuti che tornavano dopo l'apertura della sera. Salivano le scale e si piazzavano di fronte alle loro celle aspettando la chiusura. Entrò Walt, e vedendomi, si avvicinò. - Cazzo, amico, hai un occhio… - Mi è capitato di peggio. Sarà passato tutto, quando varcherò il cancello. - Quanto ti resta? - Sessantadue giorni e un risveglio. Hai sistemato, poi, quella cosa con Leon? - Sì, tutto a posto. Qualche cosa nella sua voce contraddiceva le sue parole. - Ehi, - dissi. - Rivuole soltanto i soldi che ha investito. - Sì, be', mm… ne abbiamo parlato. Glieli ridaremo, a quel "negro". Gli daremo i soldi che secondo noi gli spettano. E se non gli sta bene, vada a farsi fottere. Le sue parole mi arrivarono come schiaffi in faccia. Ad ogni parola vedevo sempre più rosso. Mi mancò quasi il respiro, e dovetti schiarirmi la gola. Frattanto suonò la campanella che annunciava la chiusura, e i detenuti ancora distanti dalle loro celle affrettarono il passo. Pur sentendomi ancora soffocare, riuscii a dire: - Non so quanto vuole… però ti avverto: se non ha il giusto e ci sono dei problemi, io, quel "negro", lo appoggio, fino in fondo, fino alla camera a gas, se necessario. Pensaci. A domani. Una guardia comparve sulla porta delle sezione e ci illuminò con la torcia. - Chiusura. Muovetevi. - Aspetto il controllo, - risposi. Walt sparì sulle scale che conducevano al ballatoio. Mi aggiunsero al conteggio nell'Ufficio del Sergente. Finito l'appello, una guardia mi scortò fino alla mia cella. Passai una brutta notte, senza chiudere occhio. Mi è difficile immaginare che molti lettori abbiano trascorso una notte col pensiero fisso di dover uccidere qualcuno con un colpo di coltello - o di poter finire ammazzato nello stesso modo - al sorgere del sole. Questo pensiero non induce certo a un sonno tranquillo, né a un sonno qualsiasi, anche se dovetti assopirmi una o due volte durante la notte. La costola rotta pulsava; il mio occhio gonfio era quasi chiuso. Contavo i giorni che mi restavano a San Quentin. Sessantuno. Ero forse pazzo, a lasciare che quanto mi era uscito di bocca mi travolgesse in un'altra bufera di merda? Avrei potuto essere più diplomatico. Non avrei dovuto lanciargli una minaccia, come prima cosa. Però lui si era comportato da perfetto coglione, usando la parola «negro» per parlare di Leon. Di negri, ce n'erano tanti in giro, rozzi, volgari, ignoranti, e anche di negri bianchi, ce n'erano tanti. A pensarci bene, Walt era analfabeta e ignorante. Un detenuto portato per lo scherzo un giorno aveva teso a Walt una scatola di fiammiferi, offrendogli una stecca di Camel se fosse riuscito a leggere la pubblicità sulla scatola. Dopo averla guardata, Walt aveva gettato la scatola di fiammiferi per terra, dicendo: - Vai a farti fottere! - Probabilmente odiava doppiamente Leon, perché Leon era così istruito. Non importava. Loro avevano fatto la loro dichiarazione, e io avevo fatto la mia, anche se adesso ero tormentato dai dubbi e dai ripensamenti. Volevo tornare a casa. Non avevo preso coscienza delle opportunità che la vita poteva offrirmi all'epoca del mio primo incontro con Mistress Hal Wallis. Adesso lei firmava le sue lettere «Mamma», e io sentivo che lei era effettivamente la mia mamma. Lei voleva aprirmi le porte, voleva che mi venissi in aiuto da solo. Era riuscita a trovarmi un lavoro alla casa di accoglienza per ragazzi McKinley. La sede dell'istituto si trovava tra Riverside Drive e Woodman. Sarebbe diventato un enorme centro commerciale, ancorato a due grandi magazzini, ma questo sarebbe accaduto vent'anni dopo. Per il momento si trattava di una casa di accoglienza per ragazzi. Louise ne era la principale benefattrice. Ed era anche la mia benefattrice. Grazie a lei, avevo l'opportunità di realizzare i miei sogni o, perlomeno, ce l'avevo fino all'indomani mattina. Mi pareva di vivere la ripetizione di quanto era accaduto qualche settimana prima, quando Leon aveva interceduto in mio favore. Mi aveva salvato il culo, in un modo o nell'altro: mi aveva risparmiato di ritrovarmi col cervello ridotto in poltiglia a suon di calci o di farmi incriminare per aver fatto fuori uno dei miei nemici, o magari entrambi. Come avevo potuto ricacciarmi praticamente nella stessa situazione? Perché all'inizio ero stato io che mi ero rivolto a loro per mettere in chiaro che Leon era uno a posto. Mi ero messo in mezzo, e me ne assumevo la responsabilità. Mi sentivo ancora in colpa per non aver immediatamente strappato quel bastardo di Jimmy Barry dalla schiena di Leon, e mi sentivo in debito perché Leon aveva salvato la mia libertà sulla parola mettendosi tra me e il dinamico duo Spotlight e Dollomite. Oddio, che carogne! Stavolta non potevo lasciare solo Leon, su questo non c'era dubbio. Ma, perdio, volevo anche uscire di galera. La mia reazione era stata troppo impulsiva. Perché avevo dovuto espormi in quel modo, quando Walt mi stava dicendo come intendevano pagare, o non pagare? Avrei potuto prendere tempo per architettare un piano qualsiasi, invece di incastrami in un regolamento di conti sul genere dello scontro a fuoco di O. K. Corral. Avrei perlomeno dovuto incontrarmi con Leon, prima di minacciare di ammazzare qualcuno. Per essere un tipo intelligente, certo che talvolta mi comportavo proprio da stupido. Comunque non c'era modo di tornare indietro, se non con la coda tra le gambe. Almeno mi ero comportato in modo da poter sostenere la vista della mia immagine allo specchio. Il mio era un mondo di "machos", con precise regole che derivavano dal Codice Cavalleresco. 'Fanculo. Succedesse quel che doveva succedere. I primi uccelli incominciarono a cinguettare. Tra non molto sarebbe iniziata l'apertura delle celle del mattino presto. Aspettavo, già vestito, quando il fascio di luce della torcia perlustrò la cella e una sagoma chiamò a bassa voce: - Bunker. - Sì, capo. Dieci minuti più tardi uscii sul ballatoio richiudendo la porta della cella alle mie spalle. In fondo al ballatoio intravidi un'altra sagoma che si stava vestendo. Mi avviai verso le scale che conducevano al Refettorio Sud. Entrando, anziché prendere un vassoio e mettermi in fila, risalii per il corridoio centrale, feci il giro dei tavoli a vapore che tenevano il cibo in caldo, ed entrai nella cucina principale. Alcuni detenuti addetti al servizio di mensa stavano entrando al lavoro, e attraversavano la cucina per raggiungere uno spogliatoio dove si cambiavano gli abiti, indossando una tenuta bianca da cuoco o per lo meno un blusotto bianco. Anziché entrare nello spogliatoio, presi per un corridoio e varcai una doppia porta che si apriva nella stanza in cui si mondavano le verdure. I detenuti che vi lavoravano, otto chicanos, erano intenti a pelare le patate che poi gettavano in enormi pentole d'acqua. Alzarono gli occhi guardandomi senza espressione, quando passai davanti a loro per raggiungere la porta sul fondo della stanza che dava sulla banchina di carico dietro la cucina. La cucina aveva un cortile proprio dove si trovavano dei pesi. Su un lato c'era un muro. L'altro lato del muro sovrastava il cortile inferiore. Il secondino armato di carabina sorvegliava i due cortili. Seguiva un percorso di ronda che lo allontanava dal cortile della cucina. Sull'altro lato del cortile c'era una recinzione che lo separava da un altro cortile, quello dell'Unità d'Onore Ovest, dove i detenuti potevano andare e venire dalle loro celle, dalle sei di mattina alle undici di sera. La cella di Leon si trovava sul quinto ballatoio, sul lato posteriore. Si era trasferito nell'Unità d'Onore due settimane prima. L'avevo aiutato a trasportare le sue cose. Una coppia di detenuti che indossavano stivali a metà coscia, pesanti grembiuli di gomma e guanti spessi, pulivano i bidoni delle immondizie servendosi di canne a vapore. Finsi di interessarmi a quel che facevano, finché il secondino armato mi volse le spalle per continuare la sua ronda nell'altra direzione. Poi mi arrampicai sulla recinzione e saltai dall'altra parte. Feci un bel po' di rumore, ma il secondino non sentì nulla. Attraversai il cortile dell'Unità d'Onore fino alle massicce porte d'acciaio che si aprivano sulla rotonda dell'edificio. Provai ad aprirne una, tirando quel tanto che bastava ad assicurarmi che non era chiusa a chiave. Esitai ad aprirla tutta. Dall'altra parte della rotonda, all'interno del blocco di celle vero e proprio, si trovava il piccolo Ufficio del Sergente. Durante il giorno i detenuti entravano e uscivano liberamente, ma forse il sergente avrebbe notato quel qualcuno che entrava a quest'ora della mattina. Il sole era alto, era estate, ma la maggior parte dei prigionieri doveva ancora lasciare le celle per la colazione. Mentre riflettevo sulla condotta da tenere, la porta della rotonda si aprì, spinta dall'altro lato. Uscirono tre detenuti. - Dov'è il secondino? - domandai. - Sui ballatoi, - rispose uno. Scivolai all'interno, attraversai la rotonda, e superai il blocco di celle in tutta la sua lunghezza sotto la sporgenza della copertura del secondo ballatoio. Salii i gradini delle scale sul fondo due alla volta. Arrivato in cima, svoltai all'angolo. Leon occupava la sesta cella sul ballatoio. La porta era aperta e Country era appoggiato contro lo stipite. Che succedeva? Io ero soltanto a tre o quattro passi di distanza, poiché le celle erano larghe soltanto un metro e trentacinque. Vedere Country fu una sorpresa. Mi fermai. La mia faccia dovette assumere un'espressione strana, quella che un umano assume in tali situazioni. Mi ero messo in testa di accoltellare quell'uomo, ma non avevo un coltello addosso. Avevo deciso di ricuperarlo dopo aver parlato con Leon. Country ebbe un sussulto di sorpresa. - Bunk! Stai qui adesso? - No. Sono ancora nel bidone della spazzatura. Leon si accostò all'ingresso della cella. - Che succede? - Indossava pantaloncini bianchi e una T–shirt; aveva capelli dritti come le molle di un orologio, e in altre circostanze sarei scoppiato a ridere. - Volevo vederti, - dissi. - Aspetta un minuto che mi rollo una canna -. Sulla sua branda c'era una rivista aperta, e su questa era posato un pacchetto in carta di alluminio di Topper, un tabacco forte che una volta veniva distribuito ai detenuti californiani. Leon finì di rollarsi la canna e la tese a Country. - Adesso devo andare, - disse Country. - Ci vediamo. - Sì. D'accordo. Country si allontanò. - Come mai qui a quest'ora? - domandò Leon. Raccontai brevemente a Leon quanto era accaduto, ciò che aveva detto Walt, e ciò che io gli avevo risposto, e che tutto quanto era avvenuto la sera prima, all'ora dell'ultima chiusura delle celle. - Country si è presentato all'apertura di stamattina. Mi ha chiesto quanto avevo perso, e mi ha dato i soldi. Non c'è problema -. Leon mi mostrò qualche dollaro. - Che te ne pare? - Che ne so? Walt non può aver fatto il passaparola, da quando ho parlato con lui. In questo momento è ancora in cella. Leon aveva un'aria perplessa. - Scommetto che Walt parlava soltanto per sé, capisci che voglio dire? E non credo che si aspettasse che tu reagissi come hai fatto. Stava semplicemente parlando a vanvera -. Leon fece un largo sorriso. - Non sapeva che tu facevi proprio sul serio. - Credo. Te ne resta per farmi una canna? - Certo. Nell'attesa, decisi che Leon aveva ragione. Country aveva tutte le intenzioni di pagare, fin dall'inizio. Avevo trascorso una notte insonne per niente, alimentando dentro di me, un passo dopo l'altro, una violenza omicida. Ebbi l'impressione che mi togliessero una tonnellata dalle spalle. Non avrei perduto la libertà vigilata, né passato due anni in isolamento. Non rivolsi più la parola a Walt. Qualche anno più tardi, dopo la sua morte (avvenuta in un incidente dopo un inseguimento da parte di una pattuglia della polizia stradale), appresi che era riuscito a informare Country per il tramite di un detenuto infermiere che era salito fino al ballatoio per consegnare i medicinali a un altro detenuto. L'infermiere staccava il turno a mezzanotte e alloggiava nell'Unità d'Onore Ovest in una cella accanto a quella di Country. I tre uomini volevano fregare Leon. Mai avrebbero pensato che io mi sarei immischiato nella faccenda, perché loro erano bianchi e amici miei. Inoltre, tutti e tre erano tutt'altro che mingherlini. Duane, da solo, non avrebbe faticato gran che a mettermi fuori combattimento in una scazzottata. Ma loro credevano anche che io fossi pazzo, e cercare rogne con uno fuori di testa armato di coltello non faceva parte dei loro piani. Ciò che feci per un amico di colore a metà degli anni cinquanta è una cosa che non avrei neppure preso in considerazione una decina di anni dopo. All'epoca dei fatti, qualcuno avrebbe borbottato «l'amico dei negri», ma a voce sufficientemente bassa perché non sentissi. E sarebbe finita lì. Ma quando le tensioni razziali furono all'ordine del giorno, sarebbe stato come un Tutsi che avesse un Hutu per amico, o viceversa. Quando Martin Luther King fu assassinato, la segregazione razziale era assoluta a San Quentin. E tale praticamente resta tre decenni più tardi. CAPITOLO OTTAVO. LA TERRA DEL LATTE E DEL MIELE. Nell'estate del '56 uscii dal Penitenziario di San Quentin in libertà vigilata. Louise Wallis riservò a mio nome un biglietto aereo che ritirai all'ufficio della United Airlines di Union Square, a San Francisco. All'epoca si volava ancora a bassa quota, su aeroplani a elica, e così mentre sorvolavo la Salinas Valley nella luce pomeridiana e nel rombo dei motori, potevo vedere l'ombra dell'aereo che correva sulla superficie dei motivi geometrici verdi e marroni dei campi sottostanti e sulle fattorie bianche, ciascuna attorniata da alberi disposti in circolo. Tutto sembrava così nitido e così privo di gente. Pensai ai racconti che Steinbeck aveva estratto da questa terra relativamente vuota. Se lui era stato capace di trovare qui "Furore", "La valle dell'Eden", e "Uomini e topi", i miei scarni talenti di scrittore avrebbero potuto permettermi di trovare delle storie nei luoghi in cui ero stato e dalle persone che avevo conosciuto. La lettura mi aveva insegnato che la prigione era un crogiuolo che aveva formato parecchi grandi scrittori. Cervantes scrisse gran parte del "Don Chisciotte" nella cella di una prigione, e Dostoevskij fu uno scrittore mediocre finché non fu condannato a morte, e si vide commutare la pena a poche ore dall'esecuzione per poi essere spedito in Siberia. È dopo queste esperienze che divenne un grande scrittore. Due sono i mondi in cui gli uomini si ritrovano messi a nudo, tutte le facciate spariscono, in modo che è possibile vedere il loro nocciolo duro. Il primo è il campo di battaglia; l'altro è la prigione. Senza dubbio, avevo materiale in abbondanza; la questione essenziale era se avessi talento o no. Louise mi aveva riferito che certi suoi amici avevano letto il mio manoscritto, e avevano dichiarato che pur non essendo pubblicabile, era tuttavia promettente. Per me era stato meraviglioso il solo fatto di averlo finito, ma quando lo rilessi un anno dopo mi sembrò patetico, anche se constatai un certo miglioramento tra il primo e l'ultimo capitolo. Avevo imparato qualcosa, in quelle trecento pagine. Adesso avevo scritto quasi cento pagine del mio secondo romanzo, e speravo che sarebbe stato mille volte meglio. Volevo davvero diventare uno scrittore, anche se ancora non avevo investito tutte le mie speranze e i miei sogni in questa ambizione. Chi poteva sapere cosa avrei trovato nel mondo fuori dal carcere? Magari mi sarei sentito diverso in tutto e per tutto. Eric Fromm mi aveva fatto prendere coscienza di un aspetto della mia natura: nutrivo un desiderio ardente di trascendere. Mentre sorseggiavo un bourbon con una 7Up contemplando l'ombra dell'aereo che sorvolava la terra a tutta velocità, tante idee mi passarono per la testa. Ero libero. Ero entrato a San Quentin a diciassette anni, e ne uscivo a ventidue. Ero cresciuto fino all'età adulta dietro le mura della prigione. Mentre mentalmente soppesavo i vantaggi e gli svantaggi della mia condizione, mi parve evidente che avevo più fattori a mio favore della maggioranza delle mie conoscenze. Mistress Hal Wallis firmava le sue lettere «Con affetto, mamma». Mi avrebbe aiutato ad aiutarmi da solo. Di cos'altro avevo bisogno? Non avevo mai sentito dire di nessuno che, il giorno della sua rimessa in libertà, non si fosse ritrovato in mano altro che un pacco di abiti da lavoro. Tranne me. La responsabile della libertà condizionata nella zona mi aveva fatto sapere che si sarebbe occupata lei del mio guardaroba. Inoltre, aveva un appartamento a mia disposizione, anche se non me ne aveva dato l'indirizzo perché non desiderava che tutti i miei amici detenuti ne venissero a conoscenza. La cosa per me andava bene, poiché, nonostante avessi molti amici, ero interessato a mantenere i contatti solo con un paio di loro, ai quali avrei sempre potuto spedire il mio indirizzo una volta rimesso in libertà. Anche senza Mistress Hal Wallis, anche senza nessun altro, avevo fiducia nelle mie capacità. Avevo sostenuto un esame di un livello paragonabile a quello di un diploma di laurea in lettere a Harvard, e l'avevo superato con lo stesso esito del cinque per cento degli studenti più brillanti; in più avevo un talento che loro neppure si sognavano. Della vita sapevo cose che tanta gente non impara mai, e non prova mai neppure il bisogno di imparare. Ma sapevo di avere anche degli enormi difetti, emozioni e impulsi privi del controllo interiore che ci insegnano i genitori e la società. La maggioranza delle persone obbedisce alla legge non per paura delle conseguenze, ma perché hanno integrato in sé le convinzioni che essa implica. Le mie convinzioni si fondavano su quanto avevo appreso nel mondo della malavita e in prigione. Io non avevo seguito l'esempio di Raskolnikov, rendendo spontaneamente una confessione per un problema di coscienza. Per anni, dopo aver letto "Delitto e castigo", pensai che Dostoevskij era in errore su questo punto, finché vidi due uomini che conoscevo abbastanza bene, uomini che ritenevo detenuti incalliti, autodenunciarsi di omicidi per i quali non esisteva prova alcuna contro di loro. A me non sarebbe mai accaduto. Innanzitutto perché non ero un assassino, anche se c'erano stati momenti in carcere in cui avrei ucciso per legittima difesa. Non mi davo alla fuga. Non ero vendicativo, né provavo rimorsi per gran parte dei reati che avevo commesso. Ero convinto che era possibile trarre insegnamento dal passato, ma non cancellarlo. Se mi fossi adagiato sul mio passato, c'erano buone probabilità che sarei diventato completamente pazzo. Ne avevo già fatte troppe, e troppe ne avevo subite. Eppure, tutto questo non era che un girare in tondo, come un gatto che si morde la coda. Leon mi aveva dato l'unico consiglio prezioso: - Non sei normale, ma non sei pazzo. Sta a te decidere se vuoi commettere un altro reato. Farlo o non farlo è tutto ciò che conta. Era vero. Ero diverso. Come avrei potuto essere altrimenti da quello che ero, dopo aver varcato la soglia del carcere minorile a dieci anni, del riformatorio a tredici, e di San Quentin a diciassette? Mai più avrei visto il mondo o mi sarei comportato come se appartenessi alla borghesia. Né lo volevo. Avevo un desiderio ardente di esperienza e saggezza, non di una vita media di quieta disperazione. Il massimo cui potevo ambire era un adattamento marginale, ma era tutto ciò di cui avevo bisogno. Dipendeva solo da me non rischiare un'altra pena detentiva commettendo un altro crimine. Nella misura in cui non lo facevo, nient'altro aveva veramente importanza. Avevo un cervello che funzionava a pieno regime, avevo Louise, e mentre l'aereo sorvolava le montagne e il bacino di L. A., mi resi conto di nutrire grandi speranze. Atterrammo al crepuscolo. Anziché passare per le attuali passerelle a soffietto che si appoggiano al velivolo, all'epoca si scendeva sempre sulla pista prima di attraversare il campo in direzione di una recinzione di rete metallica dietro la quale attendevano le persone venute ad accogliere i passeggeri in arrivo. Vidi Louise in lontananza: gli abiti bianchi e i capelli biondi la distinguevano dalla folla. Inoltre, saltava gioiosamente sul posto salutando con la mano. Feci un largo sorriso e provai una profonda ondata di affetto. Ero un ex detenuto fortunato; non potevo definirmi altrimenti. Louise mi venne incontro al cancello e mi strinse a sé calorosamente, poi mi allontanò da lei per squadrarmi da capo a piedi. - Di questi vestiti ci sbarazzeremo, - disse. - Domani. - Domani devo incontrarmi con il responsabile della libertà vigilata. - No, no. Me ne sono occupata io. Passerà a trovarti tra qualche giorno. Andiamo. Mentre ci voltavamo per aprirci un varco tra la folla, notai che era accompagnata da un ragazzo sui sedici anni. Me lo presentò mentre ci muovevamo verso l'area di parcheggio. Si chiamava Mickey, era il suo autista, e veniva dalla casa di accoglienza per ragazzi McKinley, l'istituto che mi offriva lavoro. - Avrai una stanza alla McKinley e l'appartamento dove stiamo andando adesso. Tieni. Mi porse una chiave agganciata a un anello portachiavi con una medaglia di San Francesco. - Benedetta dal papa, - precisò. - Quando andremo a Roma, ti porterò da lui. L'appartamento si trovava sopra un garage di quattro posti macchina dietro una casa di due piani in stile vittoriano ai margini di Hancock Park. Louise aveva fatto costruire la casa prima di incontrare Hal. Nell'appartamento sopra il garage avevano abitato i suoi genitori. L'alloggio era diverso dalla maggioranza di quelli che si vedono in giro, poiché la casa si trovava all'angolo della strada, il viale per le automobili partiva dalla via di fronte alla casa, costeggiata da un lungo muro su un lato, e all'appartamento si accedeva da una porta in cima a una rampa di scale che faceva angolo con il viale, per cui era difficile vedere che era un'abitazione su un garage. Louise e Hal avevano appena acquistato la proprietà di Joan Bennett e Walter Wanger su Mapleton Drive, a Holmby Hills. Walter Wanger stava attraversando un periodo di gravi problemi finanziari. La "Giovanna d'Arco" con Ingrid Bergman era affondata al botteghino, e Walter Wanger aveva passato qualche mese nella prigione della Contea di L. A. per aver sparato a Jennings Lang (che più tardi avrebbe preso in mano la direzione della Universal Studios) nell'area di parcheggio. Tutto a causa di Joan Bennett. Risultato finale: dovette vendere la casa in fretta e furia. Louise disse che l'aveva avuta al prezzo del solo terreno, vale a dire novantamila dollari. All'epoca il valore della casa si aggirava sui duecentocinquantamila dollari. Trent'anni dopo, alla morte di Hal Wallis, fu venduta al prezzo di seimilioni e cinquecentomila dollari. Quando fui rimesso in libertà, Louise risiedeva ancora nella sua proprietà di Van Nuys. Lo Stato l'aveva espropriata, e la sua casa doveva essere trasformata in una scuola. A titolo di indennizzo, aveva ottenuto una vera e propria fortuna per il 1954, ma per una costruzione con un terreno di dieci ettari, aveva incassato l'equivalente del valore odierno di una casa di taglia media a sud di Ventura Boulevard. Me ne aveva parlato in una lettera. Aveva tutto il tempo per traslocare, almeno un paio d'anni. Era tutta eccitata quando salimmo le scale e aprimmo la porta. Era un appartamento di una camera da letto, su una superficie totale di settanta metri quadri, progettato e rifinito con cura. Era stretto, naturalmente, perché si trovava sopra quattro garage. La porta in cima alla scala si apriva sul salone. Le finestre davano sui sicomori della via e sulla casa di lato. Un'altra finestra dava sul muro nudo di un nuovo immobile. L'intimità era così assolutamente garantita. Il salone era molto confortevole e arredato con gusto. Il divano e la poltrona imbottita erano foderati di grigio; le pareti erano in tinta arancione bruciato, o un altro colore simile che non saprei definire. Appesi a una parete c'erano due piccoli acquarelli impreziositi da una cornice raffinata. In seguito avrei saputo che i due artisti erano famosi. Dominava la stanza un mobile antico, un enorme scrittoio in un angolo, il cui legno, segnato di nodi, scintillava con riflessi cupi e profondi. - Ce l'avevo e non sapevo che farne, - disse Louise. - Quindi, eccolo qui -. Mi si accostò più vicino, e in tono confidenziale soggiunse: - Vale quarantamila dollari -. Mi fece una strizzatina d'occhio. Non so perché mi strizzò l'occhio, ma le risposi con un sorriso, come se invece avessi inteso. Mi mostrò il resto dell'appartamento. Il bagno e la cucina erano l'uno di fronte all'altra sui due lati di un corridoio stretto. Lo spazio era sfruttato in modo intelligente. Oltre il bagno, il corridoio si apriva sulla camera da letto. La stanza era discreta: molto più grande di qualsiasi cella in cui avevo vissuto, ma forse più piccola di una cella di detenzione provvisoria. Le finestre, lungo una parete laterale e sul retro, erano di gran classe, del tipo con l'intelaiatura di legno con i riquadri vetrati piccoli e un saliscendi come chiusura. I mobili della camera da letto erano semplici e costosi, precisò Louise. Venivano dalla residenza dei Wanger. L'armadio era un guardaroba accessibile. - Vi metteremo alcune cose domani, - disse. - Sbarazzati di quelli, soggiunse indicando i miei vestiti. Cominciai a protestare. I pantaloni in flanella grigia e il blazer blu scuro potevano andar bene dappertutto, all'epoca come oggigiorno. Erano di buona qualità. Sull'etichetta si leggeva: HART, SHAEFFNER & MARX. Non erano di Hickey Freeman, ma erano capi eccellenti. - Sono niente male, no? - Sì, ma vengono dalla prigione. - Come me. - Lo so. Lo so. Ma gettali via. Fallo per me. - D'accordo. Aprì una porta finestra che dava su un angolo colazione in fondo alla cucina, accanto alle scale del retro. - Be', che ne pensi? - domandò. Mentre mi poneva questa domanda, scorsi una macchina per scrivere portatile, una Royal nuova di zecca, poggiata su uno scrittoio della camera da letto, a fianco di una finestra che dava sulla piscina. Restai letteralmente senza fiato, incapace di proferire parola, una reazione nuova per me. Le lacrime mi salirono agli occhi. Come avrei potuto fallire? Come avrei potuto deluderla? Per me, aveva trasformato il sogno in realtà. Non mi offriva la luna su un piatto, ma mi aiutava ad aiutare me stesso. Mi avrebbe aperto le porte, anche se non avevo la minima idea di quali fossero queste porte. - Magari ti va di scrivere qualcosa con quella, - disse. - Lo farò, - dissi in tutta sincerità, ma i mesi a venire avrebbero dimostrato che quella sincerità era alquanto discutibile. Ero sincero, ma il fascino illusorio delle luci della città, delle automobili veloci e delle ragazze con le gambe lunghe e un buon profumo addosso era troppo forte per me. Sarebbero trascorsi decenni prima che io, nella condizione di libero cittadino, passassi una serata a casa. Andavo a dormire quando ero stanco, mangiavo quando avevo fame e, dopo i primi mesi che mi ci vollero per acclimatarmi, ogni giornata fuori dal carcere si gonfiava fino a scoppiare di possibili avventure. L'indomani mattina, sul tardi, Louise arrivò accompagnata da Bertha Griffith, che avevo conosciuto prima di finire in prigione. Già da allora suo marito era poco più di uno spettro devastato dalla paresi, il viso alterato da tic spasmodici, i gesti incoerenti. Era stato un regista del cinema muto, e aveva contratto la sifilide da una giovane attrice quindici anni prima che gli antibiotici riuscissero a curare il morbo. A Bertha avrei voluto chiedere notizie sulla salute del marito, ma ebbi la sensazione che la domanda non sarebbe stata bene accetta e me ne restai zitto. A bordo della lunga Chrysler familiare bianca di Louise, raggiungemmo Miracle Mile, a qualche isolato di distanza. Le vetrine dei negozi eleganti e dei grandi magazzini erano di fronte a Wilshire. La zona commerciale era stata concepita tutta in funzione dell'automobile, e i magazzini erano provvisti di grandi aree di parcheggio sul retro. Nell'insieme era molto più gradevole delle gigantesche gallerie commerciali che sarebbero venute in seguito. Allo stesso tempo questa parte di Wilshire, dal punto di vista immobiliare, era considerata la zona più cara di tutta la California del Sud. A partire dal capolavoro liberty di Bullocks–Wilshire, ci muovemmo verso ovest, facendo acquisti per il mio guardaroba lungo il tragitto. Louise mi comprò di tutto. Il dietro della familiare era pieno fino al tetto di scatole di Bullocks, Desmond's e Silverwood's. In un grande magazzino, un commesso sbalordito aveva seguito Louise con una seggiola. Quando lei si fermava per sedersi, lui le accostava la seggiola e la faceva accomodare. Louise mi aveva sussurrato: - Sono Lady Wallis, te n'eri dimenticato? - Nel suo tailleur pantalone in gabardine di un bianco immacolato, era impossibile dimenticarsene. Giocare a Lady Wallis era una delle sue più grandi gioie nella vita. Era una scena uscita pari pari da tanti film che avevo visto, con l'unica differenza che era reale. Ero sgomento, e riconoscente. Tutta quella generosità mi faceva sentire a disagio, come se non me la meritassi. Ciò nonostante, senza ombra di dubbio, avrei accettato tutto. E ancora grazie. A Beverly Hills, andammo da Oviatt, all'epoca il sarto classico più elegante della California del Sud. È da Oviatt che venivano confezionati gli abiti di Hal. Louise mi aveva fatto preparare due prove, una per un vestito blu scuro in pettinato di lana (- Se anche non avessi nient'altro, avresti sempre questo, - mi suggerì), l'altra per un abito in flanella bianca leggera. Era morbida e liscia tra le mie dita. - Ti scambieranno per Gatsby, - disse Louise. Gatsby era un grande, ma assolutamente improbabile. Gatsby era troppo irreale. Secondo me Fitzgerald scriveva bene come qualsiasi romanziere americano del ventesimo secolo, ma Gatsby era lontano dal vero quanto il dottor Fu Manchu. Era troppo tenero per essere il protagonista della sua storia. Avrebbe potuto fare il ladro acrobata, ma non aveva nulla del gangster. Gli mancava la capacità di obbligare i duri ad obbedire ai suoi ordini con il semplice esercizio della sua forza di volontà. Inoltre non aveva superato un'altra prova: era troppo debole con le donne. - Ho recitato in molti film tratti dai suoi racconti e dai suoi libri, - disse Louise. È una cosa che non ho mai verificato. E oggi mi limito a ripetere ciò che lei diceva, che è quanto dovrebbe fare l'autore di un libro di memorie onesto. All'epoca mi domandavo come fosse possibile rendere le sfumature psicologiche dei personaggi di Fitzgerald in un film muto, o in un film qualsiasi, se è per questo. Dopo Beverly Hills e i suoi edifici a due piani con i loro cortili e le loro fontane, i tetti di tegole rosse - com'erano nel 1956 - attraversammo Beverly Glen per entrare nella San Fernando Valley. A circa due chilometri dalla proprietà dei Wallis si trovava la Casa di Accoglienza per Ragazzi McKinley. Ospitava circa centoventi ragazzi, dai cinque anni fino alla fine della scuola superiore; parecchi ragazzi ormai diciottenni, ma non ancora in grado di lasciare l'istituto, vi restavano come impiegati. Vivevano in un edificio a loro riservato. Nel '56 i ragazzi della McKinley erano prevalentemente bianchi, ma tra gli ospiti della casa c'era anche un numero non trascurabile di ragazzi di colore e messicani. In maggioranza venivano da famiglie di alcolisti che avevano abusato di loro, altri vi erano inviati dai servizi sociali, e alcuni erano destinati lì dal Tribunale dei Minori. Una volta avevano cercato di sistemarmi lì. Nell'area di parcheggio avevo scatenato un putiferio, inscenando una tale ferocia da pazzoide, che colui o colei che aveva assistito alla scena dalla finestra dell'amministrazione aveva deciso di non accettarmi. Sul momento mi ero sentito meravigliosamente bene. Sarei potuto restare con mio padre nella sua camera ammobiliata, e dormire nel lettino pieghevole dell'esercito nell'angolo della stanza per altre due settimane almeno. La faccia di mio padre era scarlatta, le vene risaltavano in creste dure. Soffocava la collera. Io avevo perfezionato la tecnica di farmi espellere da queste case di accoglienza, da queste scuole che odiavo; ormai si sarebbero assolutamente rifiutate di accogliermi. Non molto tempo dopo questo episodio cessai di essere sotto la responsabilità dei servizi sociali e passai nelle mani del sistema giudiziario per i minori. Louise lasciò Riverside e attraversò un tunnel di alberi fino a un'area di parcheggio. Era stracolmo di automobili, ma l'unica persona visibile in circolazione era un bambino di otto anni in costume da bagno che si avvicinava al marciapiede davanti al parcheggio. Non appena i suoi piedi nudi vennero a contatto con il cemento cocente, prese a saltare sul posto e balzò sul prato. Poi scomparve dietro l'angolo di un edificio di mattoni su due piani. Anche noi andammo in quella direzione. Prima di arrivare nei pressi dell'edificio, sentimmo un rumore di schizzi e delle voci eccitate che gridavano allegre: - Vai! Vai! Vai! Svoltato l'angolo, vedemmo la piscina olimpionica e i partecipanti a una gara di nuoto. Un uomo sulla sessantina, capelli bianchi, si staccò da un gruppo di adulti nei pressi della piscina per venire a salutarci. Era Mister Swartzcoff, l'amministratore dell'istituto. Era lui che mi aveva offerto un lavoro per soddisfare i requisiti della liberata sulla parola. Nonostante all'epoca la vita fosse più facile per gli ex detenuti, nella misura in cui i lavori non mancavano, c'era sempre un marchio di infamia che li segnava, per cui provai a studiare Mister S., come si faceva chiamare dagli ospiti e dal personale della casa, perché volevo sapere se aveva fatto questa offerta di impiego in tutta libertà, oppure se era stato motivato dal fatto che Mistress Hal Wallis era la prima benefattrice della Casa di Accoglienza McKinley. All'istituto, in realtà, la mia assunzione non costava nulla. Mistress Wallis staccava un assegno dell'importo pari al mio stipendio, che peraltro era immediatamente deducibile dalle sue imposte come opera di beneficenza. Se me lo avesse corrisposto dopo aver pagato le tasse, l'ammontare reale del mio stipendio sarebbe stato tanto maggiore, perché una volta detratte le tasse, non restava che il quindici per cento circa del reddito imponibile. Mister S. usò maniere affabili, ma fu Mistress S., sua moglie, decisamente più espansiva, che mi mise a mio agio e mi accompagnò a visitare la casa. Avrei cominciato a lavorare soltanto il lunedì successivo. A dire il vero non mi erano state assegnate mansioni precise, ma con centoventi ragazzi c'era sempre da fare. Qualche volta sorvegliavo la piscina, nonostante tutti gli ospiti sapessero nuotare come pesci dopo il primo mese estivo. Oppure li accompagnavo in automobile dal medico, dal dentista o dall'assistente sociale. La mia stanza si trovava sopra la cucina. Era spaziosa e aveva un balcone che dava sul viale di transito delle automobili e sul passaggio pedonale che portava al refettorio. Potevo abitarvi durante la settimana e spostarmi nel mio appartamento per il sabato e la domenica. Scaricammo i tanti pacchi e le buste col marchio di Desmond's, Bullocks e Silverwood's e li accatastammo sul pavimento, accanto al letto, senza nasconderli, ma provando a non metterli in evidenza, come una cosa di ordinaria amministrazione. Mi consegnarono la chiave, e mi scappò una risata quando la feci scivolare nella serratura e la chiave girò. Era la prima porta che chiudevo a chiave in vita mia. Mi parve buffo, ma io ho sempre trovato buffe certe cose che per gli altri non lo erano affatto. Era l'ora per un pranzo tardivo, e il cancello di Wallis Farms era proprio all'angolo della strada, su Woodman, a ottocento metri. Domandai a Mistress Wallis perché la sua casa si chiamava Fattoria, e lei mi rispose che in questo modo potevano pagare la cuoca, la cameriera, l'autista e il giardiniere come dipendenti agricoli, anziché come domestici. Lasciammo Woodman per dirigerci verso il cancello verde massiccio che si stava già aprendo automaticamente. Il posto era familiare, eppure interamente nuovo. Mi parve più radioso, dopo i cinque anni di San Quentin che avevano affinato le mie facoltà percettive. Le rose erano un tripudio di colore, e nel tragitto dall'automobile all'ingresso principale, la brezza soffiò verso di me il loro dolce profumo. Signore, quant'era bello essere liberi! Durante il pranzo Louise mi parlò di Mister e Mistress S. Mi disse quanto fosse affezionata a loro e che magnifico lavoro svolgevano alla McKinley. Finito il pranzo, Bertha se ne andò. Louise schioccò le dita, come ricordandosi all'improvviso di qualcosa. - Ti servono ancora un paio di cosette. Vieni. Mi condusse al primo piano nell'appartamento di Hal, da cui asportò un paio di gemelli d'oro e zaffiri che provenivano da uno yacht club molto elegante delle Bahamas e un fermacravatte con un diamante di mezzo carato. Fece per prendere uno dei tre orologi, ma poi cambiò idea. - No. Te ne comprerò uno -. Presi i regali, ma provai vaghe apprensioni. Non mi aspettavo oggetti materiali. Lei aveva sempre inteso dire che voleva aiutarmi ad aiutare me stesso, e ciò era quello che mi aspettavo e desideravo. I vestiti e l'appartamento, era stato generoso da parte sua e l'apprezzavo, ma quanto soprattutto speravo è che lei mi introducesse nell'ambiente e mi aprisse le porte. Uscendo dall'appartamento, Louise si fermò davanti all'armadio guardaroba di Hal, lungo sette metri e alloggiato dietro dei pannelli a specchio scorrevoli. Sullo scaffale sopra le stampelle erano accatastati dei maglioni riposti in buste di plastica. Ne tirò giù parecchi. Ti piace il cashmere? Tieni. Era un semplice pullover blu scuro con lo scollo a V, ma sull'etichetta c'era scritto BERGDORF–GOODMAN, e toccandolo percepii l'inconfondibile morbidezza del cashmere. Louise cantava quando scendemmo nuovamente al pianterreno. Nella Camera Blu prese una sigaretta da una scatola e un fiammifero da cucina da un'altra. Invece di accenderlo sulla scatola, sfregò il fiammifero sulla parete. Si accese, ma lasciando una lunga strisciata sul muro. - Chi se ne importa? Ormai appartiene all'Ufficio Scolastico… Mi ci volle qualche secondo per capire la battuta e rispondere con una risata, anche se il suo umorismo e il mio riso si erano tinti di tristezza, perché quella casa in stile coloniale Monterey, con i suoi spazi verdi ombreggiati e i prati lussureggianti, aveva la bellezza serena di un chiostro. Poiché Louise aveva sempre fatto il clown, e aveva sempre fatto ridere, ci volle una serie di avvenimenti bizzarri che si susseguirono per un periodo di parecchi mesi perché mi rendessi conto che qualcosa non andava. Al detenuto in libertà vigilata la procedura ordinaria impone l'obbligo di incontrare il suo responsabile - noto con il termine di «agente della condizionale» - all'indomani del suo rilascio, dal quale peraltro riceve il resto dei soldi della prigione. All'indomani del mio rilascio ero in giro per negozi in compagnia di Louise; poi arrivò il fine settimana, cosicché riuscii ad incontrare il mio responsabile della condizionale solo il lunedì. Era un tizio di bassa statura, con un taglio di capelli piatto in cima alla testa, e un minuscolo paio di baffi. E anche allora il colloquio non si svolse nell'Ufficio della Libertà Vigilata, ma a Wallis Farms, nella Camera Blu. Ero seduto a fianco di Louise Fazenda Wallis, sul largo bracciolo della sua poltrona imbottita, il braccio appoggiato lungo lo schienale. Louise giocava a fare l'affabile padrona di casa. Ricordava Katherine Cornell. Avrebbe accettato di venire a visitare gli studi in compagnia di sua moglie? - No, non in uno dei suoi giri, naturalmente. La porterei dietro le quinte. Ha una moglie e dei figli? Ah, se lo rigirava come voleva. Non era manipolazione con secondi fini. Voleva che quell'uomo si dimenticasse di me. Aveva sotto la sua responsabilità più di cento detenuti in libertà vigilata, e pochissimi erano quelli che poteva seguire regolarmente. Io volevo essere ignorato, e questo era il messaggio che parve trasmettermi quando lo riaccompagnai all'automobile. L'agente della condizionale si fermò, si voltò, squadrò la casa dall'alto in basso e lanciò un'occhiata alla proprietà. - Benedisse, laconico. - Sono quasi certo che aprendo il giornale non mi capiterà di leggere che sei stato coinvolto in una sparatoria con il Lapd. - E un'automobile? Posso guidare? - Se hai la patente. Ci stringemmo la mano, e l'agente ripartì facendo il giro della scalinata circolare prima di raggiungere la strada che conduceva al cancello d'ingresso. Mi sentivo meravigliosamente bene. Un'automobile. Avrei avuto un'automobile, non appena avessi preso la patente. Rientrai in casa saltellando, agitando le braccia, abbozzando colpi di boxe. Vedendomi, Louise scoppiò a ridere. - Ti senti bene, eh? - Non potrei sentirmi meglio. Mi ha detto che potrò guidare… se avrò la patente. - Ci avevo pensato. Credi di farcela a superare l'esame della patente? Ne dubitavo, e lo lasciai capire. Avevo fatto dei giri, tanto per divertirmi, nelle automobili rubate ed ero stato coinvolto in un paio di inseguimenti a rotta di collo che erano finiti in tamponamenti disastrasi, ma oltre al significato del rosso e del verde, ignoravo totalmente le norme del codice della strada. - Non importa, - disse. - Ci ho pensato io. Prenderai qualche lezione. Una volta in possesso della patente, avrai bisogno di un'automobile. Niente di nuovo, né di troppo vistoso, ma ho messo un po' di soldi da parte, grazie alla casa. Sono stata costretta a reinvestire quasi tutto, altrimenti avrei dovuto dare i soldi al governo. Le tasse, capisci. Ci si può arricchire sempre di più… in effetti dobbiamo diventare sempre più ricchi, altrimenti il governo si prende tutto. - Non mi pare che lei se la passi tanto male. Rise, e mi sembrò che quel riso mi avvolgesse come un abbraccio affettuoso. La settimana seguente incominciai a lavorare alla Casa di Accoglienza per Ragazzi McKinley. Le mie mansioni, per così dire, evolsero nel tempo. All'inizio venni utilizzato come riempitivo in diversi posti. Alla piscina la mia funzione era più quella dello spaventapasseri che del bagnino sorvegliante. Tutti i ragazzi sapevano nuotare, e a partire dall'età di dieci anni, tutti nuotavano meglio di me. Avevo l'incarico di mantenere l'ordine, contenere al minimo le baruffe, e impedire ai ragazzi di correre intorno alla vasca. Quando l'autobus pieno di ragazzi partiva diretto da qualche parte, ad esempio l'incontro amichevole del «Times» tra i Rams di L. A. e i Redskins di Washington, io svolgevo il compito di secondo accompagnatore, quello che impediva loro di urlare dai finestrini e controllava che nessuno si separasse dal gruppo. All'inizio del primo semestre, sorvegliai la stanza destinata allo studio per tre sere la settimana. Dopo aver preso la patente di guida e aver ottenuto una Ford decappottabile vecchia di quattro anni, il mio principale lavoro fu di accompagnare i ragazzi ai vari appuntamenti con dottori, dentisti, psicologi. Dopo un mese, avrei potuto vincere la palma della popolarità come il membro del personale preferito dai ragazzi. Questo in parte a motivo del fatto che la mia posizione non esigeva da me un grande esercizio di autorità, ma la ragione principale era che io ero cresciuto in posti come la McKinley, anche se erano molto meno buoni. Sapevo cosa significava essere un bambino allevato da sconosciuti, senza una famiglia sulla quale contare. Non potevo riempire quel vuoto, ma mi comportavo da amico e consigliere, e non giudicavo mai. Volevo aiutarli a trovare i loro punti fermi nella vita. Era difficile amare alcuni di loro, i frignoni e i lamentosi, e mi vergognavo di non esserne capace, perché loro più degli altri avevano bisogno di attenzione e comprensione. Tra i centoventi ospiti della McKinley, ce n'era un gruppo di irrecuperabili. La brutta piega che avevano preso era senza ritorno. Due di loro fecero irruzione in un grosso negozio di hi–fi a Van Nuys e nascosero il bottino dentro la mia automobile. Urlai: - Oh Signore! Oh merda! - quando me lo dissero. Per me poteva significare il ritorno a San Quentin per violazione della condizionale. L'autorità giudiziaria mi avrebbe trattato come un Fagin del ventesimo secolo. Ciò nonostante non potevo accettare l'idea di denunciarli. Pur non avendo alcuna intenzione di commettere un altro crimine, seguitavo ad accettare senza riserve la regola numero uno dei criminali: non farai mai la spia, neppure a una spia. - Portate via quella merda, - ordinai. - Immediatamente! Naturalmente si fecero prendere quando tornarono a scuola e misero in bella vista il loro bottino. Mi mancò il fiato, ma il mio nome non saltò mai fuori. I due ragazzi si erano già messi nei guai in passato, e stavolta Mister S. li spedì al carcere minorile, sotto la competenza del sistema giudiziario per i delinquenti minori. La faccenda mi rattristò, perché era molto simile a quella che era stata la mia infanzia, una cosa che portava a un'altra e, alla fine, in prigione. Dieci anni dopo mi capitò di incontrare uno dei due al penitenziario. Alla McKinley nessuno, tranne Mister e Mistress S., sapeva che ero un ex detenuto, e men che meno si sapeva in giro del rapporto speciale tra me e Mistress Wallis. Louise viveva così vicino che mi era facile farle visita. Quando voleva che incontrassi qualcuno, mi mandava a cercare. Hal era fuori città, ed ebbi la vaga impressione, senza sapere perché, che fosse a girare gli esterni di "Sfida all'O. K. Corral". Il loro figlio, Brent, era tenente nell'Esercito o nell'Aeronautica, assegnato in una base nella California del Nord. Tornava a casa nei fine settimana, e finii per incrociarlo in uno di quei pomeriggi afosi così frequenti nella San Fernando Valley. Fisicamente, era abbastanza prestante. Fin da ragazzo si allenava con i pesi. A giudicare dai libri allineati alle pareti della sua stanza, era sicuramente ben istruito, colto, e interessato alle idee. Molti dei suoi libri erano in spagnolo. Louise diceva che lo aveva perso quando aveva dodici anni. Lo portava con sé quando seguiva Hal che usciva per incontrarsi con le sue amanti, apertamente, sotto gli occhi di tutti. A suo dire, Brent aveva reagito detestando il padre e trattando freddamente la madre. - Ha un'armatura degna di una corazzata, - mi confessò. Aveva preso un dottorato in psicologia, e Louise riteneva che la sue scelte derivassero dall'infanzia. Detestava visceralmente l'industria del cinema, diceva. Quando lo incontrai, mi domandai che cosa sua madre gli avesse detto sul mio conto. Naturalmente sapeva che ero stato in prigione mentre lui frequentava una delle prestigiose università di Claremont. Non sapevo esattamente quale. Mi vedeva come un intruso? Lo trovai indecifrabile come il proverbiale individuo asiatico. Brent era talmente formale che fui incapace di leggere dentro di lui. Le buone maniere che affettava me le sarei aspettate da un membro dell'aristocrazia inglese, non dal rampollo di un "nouveau riche" di Hollywood. Louise era convinta che dipendesse dal fatto che era stato allevato da governanti europee. Aveva le più belle maniere che fino a quel momento mi era capitato di vedere. Fu lui a farmi provare la mia prima birra d'importazione, una Heineken. Era indubbiamente migliore della Lucky Lager o della Brew 102, quelle che bevevano gli adolescenti dei quartieri poveri di Los Angeles per ubriacarsi. Che altra ragione c'era di bere la birra? Mi riaccompagnò alla McKinley in una decappottabile Mercedes 190 Sl: era la prima volta che viaggiavo su un'automobile sportiva. Le sensazioni che provai nelle curve e nelle svolte erano quasi erotiche. Era completamente diversa dalle altre automobili. Era divertente. Ne volevo una. Volevo un'infinità di cose. Nonostante Brent si fosse mostrato affabile e cordiale, non avevo la benché minima idea di ciò che pensasse o provasse realmente. Non volevo credesse che sfruttavo sua madre. Non avrei mai approfittato di lei, anche se sarebbe venuto il momento in cui avrei rimpianto di non averlo fatto. Volevo che lei facesse quanto aveva detto di voler fare dall'inizio: aiutarmi ad aiutare me stesso. Le cose cominciarono a cambiare. Iniziò a passarmi dei soldi, ben oltre le mie aspettative e i miei desideri, e quando provai a dirglielo, mi scansò con un gesto della mano: - Lascia stare. Ne abbiamo più di quanti avremmo mai sognato di possederne. Ho appena incassato due milioni di dollari -. In effetti avevano acquistato la proprietà di un miliardario a Chatsworth. Era una villa con parecchi annessi, la casa dei mandriani, le scuderie, e una pista di cronometraggio per i cavalli da corsa che Hai aveva allevato. Poiché la proprietà era accatastata come casa agricola, Louise aveva in mente di impiantare una coltivazione di erba medica e di dedurre i passivi dalle altre entrate. Due mesi dopo aver depositato la caparra, la proprietà venne classificata in un'altra categoria fondiaria e fu possibile lottizzarla come terreno edificabile. Il suo valore raddoppiò, passando da due a quattro milioni di dollari. Quando si è ricchi, disse Louise, ci si continua ad arricchire senza grossi sforzi, se non si dilapidano deliberatamente i propri averi. Come potevo protestare quando mi allungava qualche centinaio di dollari? Una volta le restituii mille dollari; l'indomani me li vidi recapitare per posta alla McKinley. Non sapendo che altro fare, perché certamente non avevo alcuna intenzione di gettarli per strada, li depositai sul mio conto corrente. Ci sarei ricorso, senza dubbio. Verso la fine dell'estate incontrai Hal Wallis per la prima volta. Avevo bucato una gomma a circa quattrocento metri dal cancello di Wallis Farms. Chiamai Louise e lei mi disse di andare da lei e telefonare a nome suo all'Auto Club di cui lei era membro. In tal modo non avrei pagato le spese di rimorchio. Feci il colpo di telefono, lei mi aveva dato la sua carta, e mi preparavo a tornare all'automobile per aspettare il carro attrezzi, quando sentimmo aprirsi il portone d'ingresso, e poi il rumore di voci maschili. Entrò Hal, seguito da Brent e un altro giovane che credo fosse il responsabile del settore agricolo vero e proprio di Wallis Farms, dove c'erano effettivamente delle coltivazioni di qualcosa. Tornavano da una proiezione in anteprima di "Sfida all'O. K. Corral" e avevano con sé i moduli del sondaggio effettuato tra gli spettatori. - Come sono? - domandò Louise. - Penso i migliori che abbia mai visto, - rispose Hal. - E ne ho visti un bel po' nel corso degli anni. In "Sfida all'O. K. Corral" recitavano Burt Lancaster e Kirk Douglas, entrambi scoperti da Hal. Louise una volta mi aveva detto che Hal non era istruito e che le sue maniere lasciavano molto a desiderare la prima volta che lo aveva incontrato. All'epoca lavorava nel settore pubblicità dei National Studios, che in seguito divennero la Warner Brothers. Un giorno, su un set, l'aveva visto di spalle e, scambiandolo per un altro, l'aveva afferrato da dietro. Si erano sposati, e tre anni dopo era produttore esecutivo responsabile della produzione alla Warner Brothers, lo stesso incarico che ricopriva Irving Thalberg alla M.g.m. Gli studi di Hal: stenografia e dattilografia in un istituto commerciale di Chicago. Ma possedeva due talenti naturali. Aveva fatto risparmiare alla produzione migliaia di dollari grazie a un senso infallibile dei tagli da operare su una sceneggiatura, senza aspettare che le scene in questione fossero girate. Inoltre aveva un fiuto sopraffino per individuare in anticipo i gusti del pubblico. La sua assai mediocre autobiografia, "Star Maker", che avrebbe scritto venticinque anni dopo, conteneva poco più dell'elenco dei suoi film. Senza dubbio fu uno dei magnati dell'età dorata di Hollywood, e si merita una buona biografia, come del resto la merita Louise Fazenda Wallis. Quella sera Mister Wallis non fece caso a me, ma io lo studiai attentamente. Da giovane era stato un bell'uomo, disse Louise, ma all'epoca i suoi capelli si erano già diradati, li pettinava incollati all'indietro, e ciò rendeva più affilati i tratti del suo viso. In buona sostanza, era passabile, anche se con quei suoi abiti costosi ed eleganti pareva uscito da una copertina di «Esquire». Si mostrò cordiale, ma per un istante misi a nudo il suo sguardo. Vedeva la vita in termini di manipolazione e di lotta, e quindi che opinione poteva avere di un ex detenuto di ventidue anni? Potevo comprendere il suo atteggiamento. Con tutto ciò, sarebbe stato meraviglioso entrare nelle sue grazie. Poteva aprirmi le porte in questa capitale del nepotismo, dell'oligarchia, e dei ganci. Riuscire a Hollywood richiedeva del talento, ma ben più dei talenti, tranne le competenze tecniche, ci volevano delle relazioni. Il mezzo più facile per diventare una star del cinema era avere genitori che fossero attori, registi o produttori. Man mano che crescevano, i figli della gente del cinema vedevano da vicino come si giocava la partita, e conoscevano di persona i giocatori, i padri degli amici con i quali erano cresciuti. C'è abbastanza sangue nuovo per permettere al sistema di perpetuarsi. - Meglio se ti muovi, - disse Louise, - altrimenti farai tardi all'appuntamento con il carro attrezzi dell'Auto Club. Percorsi il viale fino al cancello elettrico, poi feci Woodman in direzione di Chandler Boulevard, il cui nome, suppongo, era quello della famiglia fondatrice del «Los Angeles Times». Un tempo avevano posseduto proprietà con aranciere, e i loro figli andavano a cavallo lungo la strada, che non aveva né cordoli né marciapiedi. Ormai le aranciere erano poche, anche se sentivo il profumo dei fiori d'arancio e di gelsomino nella notte. Era il Sogno Americano del momento: tre camere, due bagni in un centro residenziale stile ranch. Una canzone popolare esaltava la gioia di insediarsi nella San Fernando Valley. Mentre avanzavo lungo la strada, illuminato di tanto in tanto dai fari delle automobili in transito, lo scricchiolio dei miei passi sulla ghiaia, il canto dei grilli nella notte, compresi che Hal Wallis era completamente diverso da sua moglie. Lei mi aveva detto che era un uomo freddo e spietato (sposato con l'Angelo di Hollywood) e chiunque fosse così freddo e spietato non poteva essere che molto sospettoso. Le due cose andavano di pari passo, come la mostarda e l'hot dog. Mentre volevo diventare uno scrittore e lo dichiaravo alto e forte, in quel periodo volevo in particolare scrivere sceneggiature per il cinema, cosa di cui non parlavo con nessuno. Se avessi avuto Hal Wallis come alleato… avevo provato a tirarlo dalla mia parte, ma c'era l'ostacolo della sua ostilità sospettosa. Quando ero ormai nei pressi della mia automobile, sopraggiunse il carro attrezzi dell'Auto Club. L'autista fece fatica a credere che ero incapace di cambiare una ruota bucata. È un'operazione che non era inclusa nel programma di addestramento del riformatorio, e a San Quentin non avevo proprio avuto occasione di cambiare una ruota. Perciò, dove avrei dovuto impararlo? Una spiegazione che tenni per me. Hal lasciò la California per una destinazione imprecisata, e Brent tornò alla sua base. La sorella di Hal, Minna Wallis, si trovava in città, ma vedeva raramente Louise. Minna non si era mai sposata, e nel giro di Hollywood, secondo Louise, si parlava del suo rapporto possessivo, quasi incestuoso, col fratello. È lei che aveva procurato al fratello il suo primo incarico in uno degli studi. - Era gelosa persino di me, all'epoca, - mi disse Louise. Si raccontava anche che Minna avesse obbligato un attore inglese, una controfigura squattrinata di Ronald Colman, a essere il suo amante in cambio del rinnovo del suo contratto da parte di Hal. Vedeva raramente Louise, nella normale routine quotidiana. Ero l'unico a notare il deterioramento dello stato di Louise, ma poiché non l'avevo frequentata in passato e lei, dopo tutto era quasi un clown di professione, attribuii gran parte del suo comportamento bizzarro alla sua natura. Un pomeriggio andai da lei in visita e la trovai che sfondava una parete di casa con la mazza. Non potei fare altro che sorridere e scrollare il capo. In un'altra occasione, passammo invano due ore al telefono a chiamare in tutto il mondo, per raggiungere un prete con cui desiderava parlare. Erano le tre e mezzo del mattino in Austria, dove aveva sede l'ordine religioso cui apparteneva il prete. Lui si trovava da qualche parte in Terra Santa, e non c'era modo di mettersi in contatto con lui. Gli storni volavano nella sua stanza, e qua e là erano rimaste tracce di cacca d'uccello impossibili da rimuovere completamente con le pulizie. Le chiazze di sporco erano rimaste. - Vorrei che quei figli di puttana mi dicessero qualcosa, - sbottò. Un pomeriggio ricevetti un messaggio alla McKinley in cui mi si diceva di chiamare Mistress Wallis. Era tutta eccitata: voleva che andassi a cena da lei. Tennessee Williams sarebbe stato tra gli ospiti. Hal stava negoziando l'acquisto dei diritti cinematografici di "Pelle di serpente", una commedia che Williams aveva scritto appositamente per Anna Magnani. Hal Wallis aveva un contratto con lei per parecchi film. Mi presentai in camicia blu scuro e cravatta. Tennessee Williams indossava un maglione a scacchi rossi e neri, era mezzo sbronzo, la barba incolta, e mandava un cattivo odore. Quando arrivò il momento di sedersi a tavola, era completamente ubriaco. Non avevamo ancora finito di mangiare la zuppa, che disse di non sentirsi bene e lasciò la tavola. Tutti i sabato sera, gli ultimi film usciti venivano proiettati nella Camera Blu. Dal pavimento usciva uno schermo, e sul muro di fronte calava un quadro che scopriva un'apertura in cui era alloggiata la cabina di proiezione. L'operatore veniva dallo studio. Quando Hal era a casa, alle proiezioni assistevano anche i suoi amici. Quando era assente, ovvero per la maggior parte del tempo, erano gli amici di Louise a essere invitati. Mi piaceva abbandonarmi in una delle poltrone imbottite guardando Liz Taylor correre nella giungla davanti a un branco di elefanti scatenati o Jack Palance, grande divo adulato dalle folle, ma al tempo stesso alla mercé di un grande magnate dell'industria cinematografica. Assistere a una proiezione privata era un modo stupendo di iniziare la serata del sabato, e nelle ineguagliabili notti di L. A. mi aspettavano sempre nuove avventure fino al levarsi del sole l'indomani mattina. L'estate del '56 giunse al termine. Unico cambiamento, i pomeriggi nella valle raggiungevano una temperatura di ventotto gradi anziché di trentotto. Mi tenevo alla larga dalla maggioranza dei miei vecchi amici e degli ex detenuti, ma non avevo mai incluso, nei miei voti di riabilitazione, la promessa di non fumare più marijuana. Il che richiedeva che mantenessi il contatto con il mio vecchio socio di infanzia, Wedo. Quando andai a trovarlo, scoprii che durante i miei cinque anni di detenzione a San Quentin si era sposato con la sua ragazza di un tempo, era padre di due bambini ed era diventato un tossico che spacciava per le strade per far fronte ai suoi bisogni. Aveva beneficiato della libertà vigilata dopo un arresto per detenzione di sostanze stupefacenti ed era in attesa di giudizio per un altro reato. Prima della fine del mese sarebbe comparso davanti al tribunale per essere giudicato, ed era certo che sarebbe finito nel posto da cui io ero appena uscito. Tramite Wedo feci la conoscenza di suo cognato, Jimmy D., che era sposato con la sorella della moglie di Wedo. Jimmy mi procurava volentieri erba per qualche dollaro se gliene lasciavo un po' per suo uso e consumo. Sebbene fossimo coetanei, i miei cinque anni a San Quentin mi conferivano un certo prestigio. Jimmy era magro, potente e bello, ma non si preoccupava più né del suo aspetto, né dei vestiti che indossava. Una volta gli passai un abito costoso. Lo mise nel bagagliaio dell'automobile. Cinque mesi dopo lo vidi aprire il bagagliaio. Il vestito era ancora lì, ammuffito, inutilizzabile. Jimmy era troppo pigro per lavorare, ed era diventato troppo pavido per rubare. Un paio di anni dopo, sarebbe stato al volante mentre io rapinavo un allibratore. Quando ero uscito dal luogo della rapina, l'automobile era scomparsa. Avevo dovuto scappare a piedi, cercando una via di fuga per i viali e scavalcando i recinti di un quartiere che conoscevo poco. Ero riuscito a scappare, e quando avevo affrontato Jimmy, lui mi aveva risposto che una macchina della polizia aveva fatto il giro dell'isolato perché gli agenti insospettiti volevano capire bene le sue intenzioni, e a quel punto lui se l'era filata. Sul momento gli avevo concesso il beneficio del dubbio, ma quando, in seguito, si era tirato indietro alla vigilia di un colpo (- Non ce la faccio, amico; è semplice, non ce la faccio -) mi ero ricreduto sull'episodio precedente, che per altro, vent'anni più tardi, usai come materiale per una sequenza del film "Vigilato speciale". Ero senza famiglia, e senza parenti prossimi. Avevo qualche cugino alla lontana, ma non ne avevo rivisto nessuno dopo il divorzio dei miei genitori: erano adolescenti e io avevo quattro anni. Bob H., al tempo ventinovenne, dirigeva uno dei servizi di Channel 4, la succursale locale della N.b.c. Era un bell'uomo e cantava bene, ma non abbastanza; come pittore era anche più bravo, ma lo stesso non abbastanza. Magari avrebbe potuto fare carriera in un campo o nell'altro, ma gli mancava la tenacia necessaria per superare sfondare. Ad ogni modo non era ciò che voleva essere. Si convertì al cattolicesimo, con l'intenzione di farsi prete. Non ricordo per quale motivo non seguì fino in fondo la sua vocazione. All'inizio credetti che fosse omosessuale. I suoi modi affettati mi ricordavano quelli di una checca al penitenziario. Come diceva un detenuto: - Non ho mai visto un uomo comportarsi così -. Un po' di tempo dopo, tuttavia, giunsi a un'altra conclusione. Credo che Bob fosse asessuato, psicologicamente credo che fosse più simile a un omosessuale che a un guerriero virile, ma doveva trovare fisicamente ripugnante il pensiero del sesso tra maschi. Bob aveva una ragazza, Patty Ann, anche se la loro era una strana relazione sentimentale. Lui l'aveva baciata soltanto una volta. Ai miei occhi, lei era unica nel suo genere. Ventisei anni, esile, carina, istruita e ben educata, vivace, intelligente, era anche vergine. Cosa che avrei saputo solo dopo un po' di tempo. Nonostante il moralismo degli anni cinquanta e il fatto che Patty Ann fosse una brava ragazza cattolica, stentavo a credere che a ventisei anni si potesse essere ancora vergine, a meno che una non fosse entrata in convento. La conobbi un sabato pomeriggio a Channel 4, dove ero stato invitato dal cugino Robert che quella sera dava una festa. Tra Patty Ann e me nacque subito una simpatia. La festa finì ben oltre la mezzanotte. Camminammo per Hollywood fino all'alba, parlando di un'infinità di cose. Lei non aveva mai incontrato qualcuno che era stato in prigione. Anche questo, per me, era una cosa difficile da credere. In meno di una settimana cominciammo a vederci regolarmente, e qualunque idea ciascuno avesse potuto avere all'inizio sull'eventualità di una storia d'amore tra noi, presto divenne evidente che eravamo troppo diversi per una cosa più profonda di una grande amicizia. Tuttavia avevamo in comune l'amore dei libri e della scrittura. Mi offrì incoraggiamento e consigli. Di tutte le persone che ho mai conosciuto, credo che lei avesse il miglior atteggiamento nei confronti della vita. Era così felice, quanto si può essere senza tuttavia essere psicotici. Migliorò le mie maniere, e quando mi mettevo a pensare o agire come me l'avevano insegnato il mio passato e il mio ambiente, lei mi pizzicava la guancia, dicendo: - Eh no, no, carino. Non puoi più fare così. Sei uno scrittore, adesso -. Riusciva sempre a farmi star bene. Mistress Wallis trovava Patty Ann meravigliosa e ci permetteva di usare una "cabana" al Sand & Sea Club, la residenza che Hearst aveva fatto costruire per Marion Davis sulla spiaggia di Santa Monica. Le originali colonne coloniali che si alzavano di fronte all'oceano erano grosse come quelle della Casa Bianca. La piscina, attraversata da un ponte, era di marmo di Carrara. Gran parte della costruzione originaria era scomparsa, ed era stato eretto un doppio pontile di "cabanas". Ogni "cabana" comprendeva una camera con un bagno e la doccia, e si apriva su un'ampia terrazza che sovrastava la sabbia e il mare. Era arredata con mobili adatti alla spiaggia: un divano di bambù e cuscini impermeabili, un tavolo con il piano di vetro in un'alcova, un mobile con bar e armadio. C'era anche un tavolino da gioco. Di tanto in tanto mi mettevo nei panni dello scrittore, spostando il tavolino da gioco con la macchina per scrivere portatile sulla terrazza, e poi ne assumevo la posa, un grosso bicchiere di qualcosa a portata di mano, contemplando la folla sudicia che correva di sotto in tutte le direzioni. Per me era un modo elegante e bizzarro di fare la vita da spiaggia. Intanto il comportamento di Louise si era fatto più irrazionale, anche se io non vedevo ancora a quale punto di gravità si fosse spinto. Dicendo sbrigativamente che i gioielli non le erano mai veramente piaciuti, Louise aveva regalato a Patty Ann un fermaglio tempestato di diamanti e zaffiri. Io non avevo alcuna idea del valore di quell'oggetto, e non sapevo che Louise distribuiva a destra e a manca gioielli e altri oggetti di sua proprietà indiscriminatamente. Cambiò atteggiamento anche nei miei riguardi. Laddove, per un periodo, si era mostrata generosa ma senza eccedere, insistendo sul fatto che mi aiutava ad aiutare me stesso, adesso aveva preso a offrirmi più di ciò che volevo, mi aspettavo o mi dava soddisfazione. Cambiai la Ford decappottabile con una Jaguar d'occasione X.K.120, con l'intenzione di pagarmi le rate da solo. Mi disse che ero troppo impaziente, che dovevo darmi una calmata. Aggiunse che mi sarebbe stato difficile chiedere l'aiuto di qualcuno, qualora mi fossi presentato al volante di una Jaguar. Ciò nonostante, al momento di fare il mio primo versamento, mi accorsi che l'ammontare totale del prestito era stato restituito. Era stupendo, ma non era ciò che volevo. Quando protestai con lei a questo proposito, con un gesto della mano mi fece segno di farla finita con quella faccenda, e mi disse di non preoccuparmi. Non era difficile accettare, ma sapevo che non sarebbe durata. Non era una menzogna permanente dietro la quale potevo nascondermi. Sentivo che non andava bene. Presi coscienza della gravità della situazione durante una proiezione, un sabato sera. Di solito cenavo tardi a casa quando ero invitato a una proiezione, ma per qualche ragione Patty Ann e io cenammo allo Sportsman's Lodge di Ventura Boulevard, che a quel tempo era abbastanza recente e piuttosto elegante. Quando giungemmo a casa di Louise, la cena era terminata. Era presente Brent Wallis, accompagnato da un amico di nome Henry Fairbanks. Tre o quattro fratelli cattolici, insegnanti cattolici della vicina Notre Dame High School aspettavano di assistere alla proiezione, più una giovane donna del quartiere con cui Brent era cresciuto, accompagnata dal marito che lavorava per la Bank of America. Quando raggiungemmo la Camera Blu, Louise era ubriaca. La giacca del suo completo pantalone bianco era sbottonata sulla schiena. A quanto pareva, la giovane donna contestava l'eccessiva generosità di Louise che aveva offerto alla coppia l'ipoteca sulla loro casa, di cui Louise era intestataria. La conversazione cominciò a perdere d'interesse per via del nostro arrivo e perché gli invitati si erano mossi verso la sala per vedere il film. La tela sopra l'apertura della cabina di proiezione cominciò a scendere, lo schermo uscì dal pavimento, gli invitati si accomodarono a sedere. Louise prese posto sul lato destro di un divano sul fondo, sotto la cabina di proiezione. Con un cenno invitò Patty Ann a sedersi accanto a lei. - E tu, lì, - mi disse, indicando lo spazio a lato di Patty Ann. La mia attenzione era attratta da una conversazione che si svolgeva dall'altra parte della stanza, il cui argomento non riesco a ricordare. Poi, su tutte, emerse la voce di Louise, stridula e alterata dall'alcol: -…Prendilo e sposatelo. Ha bisogno di te. Mi ha chiesto che lo facessi sposare con Anita Ekberg. Scherzava, ma… Non vuole un'attrice. Lo pensa soltanto. Le attrici non vedono mai nulla, ad eccezione del loro specchio. È di una brava ragazza, che ha bisogno. Diventerà ricco… farò di lui l'uomo più ricco della San Fernado Valley -. Notò che io stavo ascoltando e mi fece cenno di allontanarmi. - È una cosa tra noi, - disse. Teneva in mano un anello con un diamante che avrei creduto falso, se non fosse stato nella mano di Mistress Hal B. Wallis. Un diamante da tre a cinque carati. Si senti il ronzio dell'interfono e l'operatore avvisò Louise che tutto era pronto. Lei gli disse di far partire il film. Si spensero le luci e il fascio di luce grigia tagliò il fumo di sigaretta e gettò le immagini sullo schermo mentre, contemporaneamente, si levò la musica. Fui contento per l'anonimato in cui ci calava, perché ero scarlatto dall'imbarazzo e Patty Ann era quasi in lacrime. Mentre scorrevano i titoli di testa, Louise seguitò a incalzare Patty, ripetendo le stesse frasi: - Fai questa piccola cosa per me. Per favore, falla per me. - La musica di sottofondo soffocò le parole di Louise, che allora premette un pulsante sul bracciolo del divano e tagliò il suono, mentre le immagini seguitavano a sfilare in silenzio nell'oscurità. L'unico suono che si sentiva era la voce di Louise alterata dall'alcol che supplicava Patty Ann di accettare l'anello e sposarmi. Brent e il suo amico si alzarono in piedi e lasciarono la stanza. Li seguii nell'ingresso. Ho dimenticato ciò che dissi loro, ma fu un misto di scuse e di rifiuto di responsabilità. Parimenti, non ricordo la risposta di Brent, tranne che fu breve e molto elegante. Uscirono dalla porta d'ingresso. Tornai verso la Camera Blu. Il suono era stato ripristinato - grazie a Dio, pensai - e in quel preciso momento Patty Ann uscì, le spalle tremanti, un braccio sul viso. Quando rialzò gli occhi per vedere dove stava andando (malgrado l'imbarazzo, non voleva andare a sbattere la testa contro un muro) notai che aveva le guance rigate da due strisce nere di mascara. Era sconvolta, e mi misi nei suoi panni. Ciò nondimeno gli sbaffi di mascara andavano, per così dire, al di là dell'angoscia e produssero l'effetto di una parodia da avanspettacolo. Non erano in gioco né la morte né una condanna in prigione. Il dolore c'era, ma c'era anche la comicità del dolore e, mio malgrado, scoppiai a ridere. Dopo qualche minuto di lacrime raddoppiate, Patty Ann all'improvviso batté un piede per terra. - Dovresti vergognarti, Ed Bunker. Non sei capace di consolare una ragazza -. Poi anche lei, a sua volta, percepì l'assurdità della situazione e si mise a ridere senza smettere di piangere. Le carezzai la schiena domandandomi se era il caso di tornare nella Camera Blu. Dalla porta aperta in fondo al corridoio giunsero lampi di luce grigia e la colonna sonora, ma solo per poco. Poi il film si fermò e le luci della stanza si accesero. Avrei potuto tornare lì scivolando nel buio, ma la confusione particolare che doveva regnare nella sala di proiezione non era cosa cui la vita mi aveva preparato. E Patty Ann non meritava certamente di provare altro imbarazzo, per qualsiasi motivo. - Forza, andiamo -. La guidai verso l'uscita. La mia automobile non era lontana dal portone d'ingresso. Mentre salivamo in macchina, Brent e il suo amico passarono a bordo della Mercedes cabriolet. Eravamo proprio dietro di loro quando superarono il cancello, ma quando svoltarono a sinistra, io svoltai a destra. Non volevo che pensassero, neppure per un momento, che forse li stavo seguendo. Risalii per i tornanti di Beverly Glen fino a Mulholland Drive, che correva lungo la cresta della linea delle colline o piccole montagne che partivano da Cahuenga Pass a Hollywood per raggiungere la Pacific Coast Highway a fianco dell'oceano. Mulholland era tutta curve e stretti tornanti. Ogni tanto la San Fernando Valley era visibile, grappoli di luci distanziati dalle tenebre. Presto sarebbe diventata un tappeto che si srotolava fino alle montagne vicine. Parlammo poco. Avevamo ancora in mente la scena nella Camera Blu, forse più io che lei. Tutti gli atteggiamenti comici caratteristici del comportamento di Louise nei primi tempi acquistavano adesso un significato più cupo. Qualcosa non andava in lei, e l'ubriachezza era il solo catalizzatore che lo faceva emergere sotto gli occhi di tutti. Il lunedì mattina chiamai la Paramount e provai a contattare Hal Wallis. Era fuori città, e la donna con cui parlai al telefono si rifiutò di darmi il suo numero, se non le avessi detto con esattezza i motivi della mia chiamata. Non ero disposto a farlo. Avrei potuto mettermi in contatto con Minna Wallis, ma non la conoscevo. Alla fine chiamai la clinica Hacker di Beverly Hills. Sapevo che Louise un tempo vi aveva seguito una terapia con il dottor Hacker. Lui ascoltò la mia storia, ma non si sbilanciò. Qualche giorno dopo ricevetti una telefonata del dottor Fryn, che mi disse che avevo fatto la cosa giusta. Qualcuno aveva parlato con Hal, il quale era tornato in aereo a Los Angeles, e anche lui si era messo in contatto con il dottor Hacker. Il fatto di aver saputo da loro che io li avevo già informati della situazione poteva attenuare i suoi sospetti nei miei riguardi. Il dottor Fryn sottolineò due cose: - Non accetti denaro da lei, e non beva con lei. Quando una persona possiede una fortuna come la sua, e comincia a distribuirla a destra e a manca, si fa presto a dichiararla incapace di intendere e di volere. Parecchi giorni dopo, senza avviso, Louise fu ricoverata al Cedars Hospital. Durante il fine settimana, tutto quanto si trovava nella residenza della valle fu trasferito nella casa più spaziosa di 515 Mappleton Drive, a Holmby Hills. Il dottor Hacker riteneva che il fatto di aver perso la casa nella valle, il santuario in cui Louise per molti anni aveva trovato rifugio e protezione dalle infedeltà flagranti di Hal, fosse parte del problema. Quello stesso fine settimana ricevetti un messaggio alla Casa di Accoglienza McKinley, in cui venivo sollecitato a mettermi in contatto con Mister Wallis. Voleva incontrami. Il trasloco era in pieno svolgimento quando giunsi alla villa. Lui mi disse che Louise aveva distribuito in giro somme considerevoli di denaro e tutti i suoi gioielli. - So che lei non ha ricevuto grosse somme di denaro. Ma i gioielli? - Tutto ciò che potevo riferire in proposito si limitava al fermaglio che aveva dato a Patty Ann. Ricuperai il gioiello e lo restituii a Mister Wallis nel corso di un nostro incontro al Country Club di Hillcrest. La nostra conversazione durò soltanto pochi secondi, ma si concluse con le parole di Mister Wallis che mi disse che forse avrebbe potuto aiutarmi. Quando Louise uscì dall'ospedale, andò ad abitare nella nuova casa di Holmby Hills. Minnie e suo marito, che erano stati entrambi leali con Louise, furono sostituiti da una coppia assunta dalla sorella di Hal. Quando andai a trovarla, ebbi la sensazione che mi sorvegliassero. In passato, avevo sempre avuto l'impressione che Louise ed io fossimo legati come due cospiratori che complottano senza in realtà nuocere a nessuno. Era evidente, però, che lei era stata colpita da una forma di depressione. Il dottor Hacker andava in visita da lei ogni settimana. In queste circostanze, mi era impossibile parlarle come facevo un tempo. Non potevo aggiungere altra tensione alla situazione. Le avevo dato il manoscritto ancora incompleto del mio secondo romanzo, la storia di un giovane drogato che diventa informatore della polizia. Impossibile trovarlo dopo il trasloco. E non era certo una famiglia che non aveva consuetudine con sceneggiature e manoscritti… Nessuno avrebbe gettato via il mio scritto senza neanche guardare di che si trattasse. Senza dubbio lo smarrimento del mio testo era dovuto alla cattiveria di qualcuno, ma io non potevo fare congetture o mettere in atto qualcosa in proposito. Probabile che il romanzo non meritasse di essere pubblicato, come del resto i miei quattro successivi romanzi che vennero giudicati scadenti, anche se l'ultimo sarà presto pubblicato in Inghilterra e forse in America dopo le opportune sfrondature e puliture. Era una specie di storia noir alla Jim Thompson, a differenza degli altri miei romanzi, tutti realistici. Ero uscito da San Quentin da un anno circa, e per me era arrivata l'ora di lasciare la Casa di Accoglienza per Ragazzi McKinley e di volgermi altrove. Considerando la mia voracità di lettore e le mie aspirazioni letterarie, mi pareva ragionevole tentare di trovarmi un lavoro nel settore sceneggiature di uno degli studi cinematografici. Louise era dello stesso avviso, ma riteneva anche inopportuno che fosse lei a chiamare Mervyn Le Roy. Minna Wallis, essendo agente, trattava con quelli degli studi e avrebbe fatto le telefonate del caso, anche se con la Warner Brothers avrebbe dovuto muoversi dietro le quinte, poiché, alla semplice menzione del nome di Hal Wallis, Jack Warner avrebbe avuto un colpo apoplettico. Un «analista del racconto» o un «lettore» ricevevano in consegna un libro o un articolo, sul quale dovevano scrivere un breve commento, una pagina al massimo, valutando la possibilità di ricavarne un film, oltre a un riassunto di tre o quattro pagine della storia stessa. Ebbi in lettura "La storia di una monaca", che la Warner Brothers aveva già acquistato, e con l'aiuto di Patty Ann portai a termine il lavoro che mi era stato assegnato. Louise lo lesse e lo trovò molto buono. Avevo già incontrato gli addetti di quattro studi, quando il caposervizi del settore sceneggiature della Paramount mi informò che se da una parte Minna aveva combinato l'incontro, dall'altro gli aveva detto che lei e Hal preferivano che lui non mi assumesse. Non so che c'è sotto, - aggiunse. - Ma non credo che lei le sia amica. Attraversando il parcheggio per raggiungere la mia automobile, ebbi la certezza di chi era stato a prendere e distruggere il manoscritto del mio romanzo incompleto. Non ero neanche in collera. La cosa non faceva altro che confermare la mia opinione sulla natura umana. Tanto più se ripensavo alla battuta di Hal Wallis che aveva dichiarato di volermi aiutare. Potevo disporre di un guardaroba di prima classe e di una Jaguar sportiva, anche se ormai mi era chiaro che si trattava di una fregatura e che il rivenditore di auto d'occasione mi aveva imbrogliato. Per un motivo o per un altro era sempre dal meccanico, e le riparazioni mi costavano un bel po' di quattrini. Louise mi aveva dato un assegno di duemilaseicento dollari che non avevo mai incassato. Sapevo come lei regolava queste faccende. Aveva al suo servizio un ragioniere, un tale al quale aveva trovato un impiego presso un servizio di amministrazione di immobili, e che al momento si occupava della manutenzione di parecchi edifici del centro della città. Una volta al mese l'uomo passava da lei e si occupava dei suoi conti. Avrebbe certamente attirato l'attenzione di Louise su un assegno di un tale importo, perché nel 1956 quella somma valeva almeno dieci volte tanto quello che vale oggi, alla vigilia del ventunesimo secolo. A dire il vero, neanche all'epoca erano un mucchio di soldi, ma era una cifra che non si poteva far uscire senza la debita attenzione. E Louise si sarebbe limitata a far semplicemente sparire le tracce dell'assegno. Ne ero certo. La frizione della Jaguar si ruppe. Incassai l'assegno e me ne dimenticai. Non l'avevo fatto mio con il sotterfugio o con l'inganno. Mi era stato dato. E a quel tempo, per quel che ne sapevo, non si poneva affatto il problema di sapere se Louise agiva nel pieno delle sue facoltà. Riconosco che avevo provato una lieve sensazione di disagio prima di depositare l'assegno, ma non avevo mai pensato che stavo facendo una cosa sbagliata. Passò qualche settimana. Senza alcun sintomo premonitore, Louise dovette essere ricoverata al Cedars per essere sottoposta a un intervento chirurgico al fegato «estremamente serio», come il dottor Fryn l'aveva definito. - Quando si tratta di fegato, l'operazione è sempre seria. Telefonai al Cedars, e mi fu risposto che non c'era nessuna paziente che rispondeva al nome di Louise Wallis o Mistress Hal Wallis o Wallis, Wallace o Fazenda. A quel punto, la centralinista fu brusca e seccata. Pensai di chiamare tutti gli ospedali della California del Sud, ma la lista era troppo lunga, e le possibilità troppo numerose. Naturalmente era stata ricoverata sotto un altro nome. Il nome di un personaggio che aveva interpretato in qualche film poco noto. Mi chiamò dopo una settimana. Era stata tra la vita e la morte, perlomeno così mi disse, ma, a sentire la sua voce, pareva aver riacquistato le forze e il buonumore. Restò in ospedale ancora una settimana, durante la quale tornarono gli assegni dei suoi vari conti personali. Mi disse immediatamente, quando andai a trovarla la prima volta, ancora convalescente nella sua casa di Mappleton Drive, che Hal li aveva controllati. Per un attimo ebbi la sensazione di aver perduto qualcosa, ma sapevo di non aver perso nulla. Hal Wallis non mi avrebbe mai aiutato, se non avesse intravisto la possibilità di trarne vantaggio, cosa del tutto improbabile, anche se così si sarebbe guadagnato un amico leale senza doppiezze o intenzioni dettate dalla cupidigia. Ci avrei scommesso allora, e lo scommetterei anche oggi, che Mister Hal Wallis non avrebbe mai potuto indicare tre uomini con un dito e dichiarare in tutta sincerità che erano suoi amici. Divenne altresì evidente che non potevo più contare su Louise, né cospirare con lei. Mi aveva dato talmente tanto che, al pensiero, quasi me ne duoleva il cuore e lacrime di gratitudine mi inondavano gli occhi considerando tutto ciò che aveva fatto per me, e all'epoca non avevo ancora piena coscienza del fatto che il suo regalo più grande era stato permettermi di sbirciare all'interno del castello, e che io ero troppo saggio su troppe cose per accettare il futuro cui il mio passato mi condannava. Magari mi avrebbe aiutato in futuro, in un certo momento o in un altro, ma per ora avevo bisogno di un piano praticabile per uscire dalla mia attuale situazione. Era ormai evidente che non avrei trovato nessun posto nel settore sceneggiature di uno studio cinematografico. Avrei forse potuto trovare un impiego come fattorino all'«Herald Express», come si chiamava all'epoca il giornale pomeridiano di proprietà di Hearst. Vanità delle vanità, non riuscivo proprio a immaginarmi nei panni di un fattorino, grazie. Avevo tuttavia bisogno di un lavoro qualsiasi, sia per tener buono il responsabile della libertà vigilata, sia per guadagnarmi da vivere. Avevo bei vestiti, un bell'appartamento per il quale non pagavo affitto, e una Jaguar sportiva, ma niente liquidi. Avevo fatto domanda per un impiego di assicuratore. Erano rimasti entusiasti dei miei modi e del mio aspetto, ma non ebbi più notizie da loro quando saltò fuori il mio passato. Quando mi resi conto con quale abilità il rivenditore di automobili d'occasione che mi aveva rifilato la Jaguar mi aveva truffato, io, che mi ritenevo abbastanza dotato come truffatore, decisi che era un gioco che dovevo imparare. Avrei fatto il rivenditore di automobili d'occasione. Il mio primo posto di lavoro lo trovai presso il concessionario Chevrolet di Wilshire Boulevard, a Beverly Hills. Il titolare assumeva chiunque varcasse la soglia della porta d'ingresso. I venditori erano pagati su commissione, dunque, perché preoccuparsi? L'idea era di rifilare un'automobile a tuo padre e a tua madre, a fratelli e sorelle, amici e amanti. Li fai entrare e poi li rigiri fino al punto che si decidono a comprare una macchina. Mi ci vollero appena tre giorni per capire che non avrei concluso un bel niente. In seguito passai due mesi presso un concessionario che vendeva Nash e Rambler. Non ricordo se all'epoca si chiamasse America Motors o qualcosa del genere. Eravamo nel 1958, un anno terribile per il mercato delle automobili, e quello che proponevamo ai clienti era l'opposto degli yachts con le ali a freccia positiva che erano in voga in quel periodo. Guadagnai un po' di soldi, ma non tanti. Ad ogni modo imparai le regole del gioco. Alla fine andai a lavorare per il meccanico inglese che riparava la mia Jaguar. La sua officina si trovava tra Second e La–Brea. Era specializzato nella riparazione di vetture straniere, inglesi in particolare, e vendeva automobili sportive di tutte le marche. Era l'epoca delle Austin–Healey, Jaguar, M.g., e delle Bathtub Porsche. Alle sue dipendenze aveva solo due venditori. L'orario di lavoro mi andava perfetto. Arrivavo a mezzogiorno e staccavo alle ventuno. Le ultime tre ore ero solo. Il giorno dopo aprivo il negozio alle nove e lavoravo fino a mezzogiorno, quando prendeva servizio il secondo venditore. Poi ero libero fino a mezzogiorno dell'indomani. Avevo a mia disposizione il telefono, che potevo utilizzare liberamente, senza limiti, e avevo la libertà di ricevere tutti i clienti che volevo nell'intimità del mio piccolo ufficio col suo rumoroso condizionatore d'aria montato sulla finestra. Potevo indossare giacca e cravatta, senza dovermi sporcare le unghie. Eravamo negli anni cinquanta conservatori, ancora molto lontani dall'epoca in cui si incominciò a sentir parlare del grunge come stile di abbigliamento. Anche i poeti "beatnik" erano curati ed eleganti, anche se con qualche tocco di originalità personale. Un altro vantaggio accessorio del mio lavoro era che, una sera sì e una sera no, quando spettava a me chiudere il negozio, potevo servirmi di una qualsiasi delle due dozzine di vetture di marca straniera allineate nel parcheggio. Una sera una Bathtub Porsche, la seguente una Austin– Healey, una Jaguar, o una Mercedes 190 S.l. Un giorno il titolare prese in deposito una Mercedes 300 S.l. con le sue ali di gabbiano, che mi chiese di non usare. - Non ci pensavo proprio, - gli dissi. - Perché? - domandò. - Il serbatoio è quasi a secco -. È pur vero che la Richfield super costava solo cinque centesimi al litro, ma io sceglievo sempre una vettura col serbatoio pieno, o quasi pieno. Come si dice nel gergo della malavita, il lavoro di venditore di automobili si rivelò un'ottima copertura… CAPITOLO NONO. LO SPASSO. I ladri professionisti riconoscono che il gioco che si sono scelti implica una o più pene da scontare in galera. Per loro il successo non si misura in base alla certezza di una futura incarcerazione, ma piuttosto in considerazione della durata di questa incarcerazione rapportata alla durata dell'evasione e della qualità della vita che conducono prima della detenzione. Anche se la sottocultura dei ladri professionisti com'è descritta da Dickens, Melville e Victor Hugo prima è stata erosa dal crimine organizzato sotto il Proibizionismo e le guerre di controllo del territorio, poi è stata distrutta dalla droga e dalla malavita uscita dalla droga. Fino ad oggi, in cui i talenti di un giovane criminale si limitano a eliminare qualcuno o spacciare crack. All'epoca, nel '57, esisteva ancora un certo numero di malavitosi ligi ai vecchi principi, perciò riuscii a trovare dei veri criminali degni di questo nome, ladri, scassinatori, borseggiatori, truffatori e taccheggiatori. Il mio primo responsabile della condizionale aveva detto, molto giustamente, che non temeva, sfogliando il giornale del mattino, di leggere che ero stato coinvolto in una rapina al supermercato o a una banca, e che ero riuscito a scappare sparando all'impazzata. Aveva più di cento casi sotto la sua responsabilità, e altri individui richiedevano la sua attenzione ben più di me. Dopo circa sei mesi senza problemi, non lo rividi più. La sua unica richiesta fu che gli inviassi dei rapporti mensili. La qual cosa non mi obbligava a venire a patti col mio rancore verso le autorità. Se si trattava solo di questo, potevo farlo. Senza Louise Wallis, le porte dell'industria del cinema per me si chiusero nel 1957. «The Biz» allora non era che una frazione di ciò che è oggi, e la proprietaria di una delle tre agenzie più importanti, sorella del numero uno della Paramount che faceva guadagnare parecchi soldi alla sua compagnia anno dopo anno, aveva chiaramente manifestato di non avere alcuna stima di me. Aveva fatto carte false per sabotarmi e mettermi i bastoni tra le ruote. In altri tempi avrei riferito tutto a Louise, e insieme avremmo architettato qualcosa come contromossa. Adesso era impossibile. Louise soffriva di una forma prossima alla schizofrenia, o alla depressione conclamata, aggravata dall'alcolismo. Sospettavo che il suo telefono fosse sotto controllo «per il suo stesso bene», e quando andavo a farle visita avevo l'impressione di trovarmi nel parlatorio di una prigione. Le mie ambizioni di sceneggiatore dovevano aspettare. Se non potevo ottenere ciò che desideravo, allora neppure lo volevo. Questo fu l'atteggiamento che assunsi. Ad ogni modo non era il mio vero ambiente. Mi sentivo più a mio agio nei quartieri oscuri di Hollywood, in mezzo alle ragazze squillo, ai vizi, alla droga, alle luci dei locali che scintillavano nella notte. La malavita dei ladri, che è così diversa da quella dei mafiosi, delle gang, e dei racket, aveva molti adagi e principi. «Se non vuoi finire al fresco, sta attento a non immischiarti col crimine organizzato». Un altro detto recitava: «Il sangue freddo di un ladro è direttamente proporzionale allo stato delle sue finanze». Un altro ancora: «In tempi duri, muso duro». Io iniziavo col vantaggio di un appartamento elegante, un bel guardaroba, e di una Jaguar cabriolet X.K. 120, che faceva sempre la sua bella figura, nonostante il parafango ammaccato e un paraurti anteriore storto. Non ero incalzato dall'urgenza di realizzare un colpo per tirarmi fuori dai guai. Molti reati vengono commessi per far fronte alle contravvenzioni o agli assegni di mantenimento dei figli. Io non dovevo risolvere problemi del genere. Potevo prendermela comoda. Ripensando al mio passato, non riesco a ricordare un momento preciso in cui decisi di tornare al crimine come modo di vita. Cercavo semplicemente di cavarmela o di vivere bene nel mondo in cui vivevo. Per trovarmi dei soci, andai nei quartieri e nei "barrios" a est del L. A. River, dove avevo degli amici, una reputazione, e un certo credito. A Beverly Hills, una Jaguar era un'automobile come un'altra, mentre a Los Angeles est, le Jaguar si vedevano raramente. Come criminale, si potrebbe dire che ero un eclettico tuttofare piuttosto che uno specialista, e che vi erano dei reati che mi ripugnavano. Non svaligiavo le case private, né derubavo i vecchi e i poveri. Ad ogni modo, costoro non avevano nulla che valesse la pena rubare. Le mie vittime preferite erano le compagnie assicurative, e andavo alla ricerca di reati non violenti ma redditizi, anche se disprezzavo i truffatori. Libri e film li dipingono come uomini belli ed eleganti, untuosi, persuasivi, spiritosi e amabili, ma la verità è che i truffatori, nella maggioranza dei casi, sono individui spregevoli. Prendono di mira gli anziani e i deboli, come avvoltoi. Non hanno alcuna lealtà, perché vedono ognuno come un potenziale babbeo. Io preferivo i rapinatori a mano armata. Per lo più erano degli sciocchi che passavano all'azione spinti dalla disperazione. Quando avevano bisogno di soldi per pagare l'affitto, una contravvenzione o farsi un buco, tutto ciò che sapevano fare era puntare un'arma in faccia dicendo: - Dammi la grana -. Per lo più vagano qua e là, senza un obiettivo preciso in mente, finché non s'imbattono in un bersaglio facile: un supermercato o una rivendita di alcolici. Posteggiano all'angolo della strada e poi entrano, senza mai sapere cosa troveranno all'interno. Se rapinano regolarmente nella stessa zona, molto probabilmente restano vittime di un'imboscata, il cognato del proprietario armato di un fucile da caccia, o un poliziotto nascosto dietro una tenda. Infine, la rapina a mano armata è sempre stata considerata un reato grave, che la legge punisce severamente. Il rapinatore ha sempre conosciuto la spada di Damocle delle «tre recidive prima dell'ergastolo». Si chiamava così lo statuto del criminale recidivo. Io prendevo in considerazione l'eventualità del furto, ma a patto che il bottino fosse sostanzioso, il rischio di essere obbligato a sparare ridotto al minimo, e che comunque potessi mascherarmi la faccia. Non avrei mai commesso un furto a seguito del quale qualcuno potesse indicarmi con un dito dal banco dei testimoni e dichiarare: - Sì, è quest'uomo -. Ci sono soltanto due modi di essere incriminati e condannati per furto. Il primo è di farsi catturare sul luogo del delitto; l'altro è di essere identificati senz'ombra di dubbio dalle vittime nell'aula di un tribunale. La polizia, anche oggigiorno, istiga un testimone a procedere a un'identificazione positiva, se è certa della colpevolezza del sospetto, anche se il testimone non ne è altrettanto sicuro. I poliziotti dicono al testimone: - Noi sappiamo che quest'uomo è colpevole, ma se lei non lo identifica, il ladro sarà ancora libero di rubare -. L'unico modo di sventare questa possibilità è far sì che l'identificazione si renda assolutamente impossibile. Per questo è sufficiente calarsi sulla testa una maschera di gomma con la faccia di Frankenstein. Anche con i migliori piani possibili e tutte queste precauzioni, nondimeno esitavo a lungo. Troppe cose potevano andare storte. Troppe incognite nell'equazione. Ciò nonostante non avevo nulla contro l'idea di mettere a punto un piano e rivenderlo ad altri perché lo portassero a termine. Ecco come si svolse la cosa. In fondo a Main Street Nord, nel quartiere di Lincoln Heights, dove si trovava la prigione municipale, l'ospedale generale e il carcere minorile, c'era un bar, il Mama's. Mama Selino era proprietaria della licenza, cucinava paste assolutamente deliziose, e adorava i malviventi avventori del suo locale. Suo figlio Frank, un emulo di Van Gogh, gestiva il posto. Le sue tele occupavano tutte le superfici disponibili. Il Mama's era un posto carino, ma la presenza di Frank non favoriva certo l'incremento della clientela. Una volta, un pomeriggio di caldo torrido, era capitato nel bar un nuovo cliente, e Frank era di malumore. Non era proprio una bella giornata per Frank e le sue velleità di artista. Dopo dieci, quindici minuti, il cliente aveva tossito per attirare l'attenzione del proprietario. E Frank, anziché servirlo, gli aveva lanciato una bottiglia di Heineken, cosicché il malcapitato aveva visto bene di darsela a gambe levate. Inutile aggiungere che la clientela del Mama's era molto limitata. Il Lapd della Divisione di Highland Park sapeva del Mama's. I piedipiatti spesso parcheggiavano davanti a un chiosco di hot dog sull'altro lato della strada, i cui proprietari spifferavano agli sbirri i particolari dell'andirivieni del bar. Finché, una certa sera, a un'ora tarda, il chiosco andò in fiamme, e non ne restarono che le ceneri. Mama Selino era arrivata da Salerno, accompagnata dal marito, nel 1920. La coppia aveva fatto prosperare il locale durante il Proibizionismo, finché il marito, una decina di anni dopo, si era fatto ammazzare, lasciando Mama Selino vedova con due figli. Lei amava i «suoi ragazzi», e non solo i suoi due figli Frank e Rocky. Tra i «suoi ragazzi» si annoveravano i delinquenti e i ladri che la donna sfamava con pasta e ravioli a credito. E loro, dopo aver fatto un colpo, saldavano il conto in sospeso, pagandole gli interessi. Frank, il primogenito, era un «duro» nel vero senso del termine. Lui e Gene «Dizzy» Davis avevano scontato una pena a San Quentin per rapina a mano armata. L'altro figlio, Rocky, era un cittadino e un contribuente esemplare, ed era proprietario di una piccola ditta di costruzioni. Frank non faceva altro che dipingere. Il bar gli assicurava magri introiti. La legge imponeva ai gestori di bar di non servire più dalle due del mattino. Il Mama's talvolta restava aperto fino al sorgere del sole. È al Mama's che mi imbattei in Dizzy Davis. Ci conoscevamo di nome a San Quentin, ma ci eravamo rivolti la parola solo una o due volte. Dizzy era di statura superiore alla media e fisicamente non era niente male, capelli biondi ricciuti tagliati corti sul cranio, il naso aquilino e occhi di un azzurro liquido. Era uscito da due mesi, dopo aver scontato una pena di nove anni. Era senza famiglia, anche se era uno dei preferiti di Mama Selino. Qualcuno gli aveva dato una pistola, e lui campava dei furti che metteva a segno in piccoli negozi, roba da poco, tanto per sopravvivere, permettersi una stanza in un motel, un pasto al banco di una tavola calda, e sedersi al tavolo di un bar con un bicchiere davanti. La cosa peggiore è che versava la metà dei suoi bottini a un tale unicamente perché gli faceva da autista. Il tale lo accompagnava sul posto, e poi lo veniva a riprendere una volta che il colpo era finito, a uno o due isolati di distanza. Dizzy non era un imbecille. - Ho l'impressione di essere un cretino, - diceva, ma non sapeva agire diversamente. Incarnava una cosa che io avevo notato tra i criminali. Molti conoscevano le regole per commettere un crimine, ma si lasciavano andare in balia delle circostanze e correvano dei rischi che sapevano essere stupidi. Erano incapaci di aspettare; erano incapaci di agire secondo un piano; avevano bisogno dei soldi subito. In effetti erano in molti a non passare all'azione criminosa senza trovarsi con le spalle al muro, costretti a far fronte a una situazione disperata. Come ho detto precedentemente, Dio solo sa quanti reati sono stati commessi per pagare una contravvenzione o un assegno familiare, o un garante della cauzione. Non ero ricco, ma avevo abbastanza soldi per permettere a Dizzy di affittare settimanalmente una camera ammobiliata, quelle con la moquette logora, e il gabinetto e la doccia comuni al piano. Il lavandino della camera raccoglieva un bel po' di piscio. Mi assicurai che Dizzy avesse a sua disposizione qualche dollaro per i pasti e le sigarette, e promisi di trovargli un colpo redditizio. Mi ascoltò. La mia fiducia in lui gli diede fiducia in se stesso. Trovare e pianificare rapine era relativamente semplice. Mi misi alla ricerca di posti dove si maneggiavano contanti, e in cui la responsabilità di questo denaro era affidata a una sola persona. Era la pratica corrente prima dell'avvento delle casseforti di deposito valori a doppia chiave, che i direttori di vendita non potevano aprire senza la scorta armata, e perciò i piccoli supermercati erano l'obiettivo migliore, anche se i locali notturni e i ristoranti potevano comunque rappresentare un'alternativa. Mi limitavo a girare in macchina, finché non mi imbattevo in qualcosa che soddisfaceva i requisiti preliminari. Entravo e chiedevo di vedere il direttore. Quando mi indicavano la persona, certe volte lo avvicinavo per parlargli di persona su un argomento qualsiasi. Il mio unico scopo era mettermi in grado di riconoscerlo al momento giusto. Cercavo anche di individuare il luogo in cui erano custoditi i soldi, spesso in una cassaforte dell'ufficio. Uscendo, prendevo nota degli orari di apertura e chiusura del punto vendita. Dopo la chiusura, sorvegliavo l'uscita degli impiegati. Invariabilmente, il direttore era l'ultimo a lasciare il supermercato. Identificavo l'automobile su cui saliva. Talvolta lo seguivo fino a casa sua, ma era un'eccezione. L'indomani sera, portavo Dizzy con me e gli mostravo tutti i dettagli. La sera successiva, Dizzy si limitava ad aspettare nel parcheggio, piombare sul direttore quando si accostava all'automobile, e farlo rientrare nell'ufficio perché aprisse la cassaforte. La sera del primo colpo, a un supermercato di Burbank, mi appostai sull'altro lato della via e osservai Dizzy che obbligava il direttore ad attraversare il parcheggio e a rientrare dentro da una porta laterale. Io presi il venti per cento. Dizzy e il suo autista si divisero il restante ottanta per cento. La somma non era trascurabile, e io ero lontano, nelle retrovie. Quanto alle prove contro di me, non poteva essercene alcuna. Questo piano ci permise di portare a termine tre colpi con successo. Poi, il fiasco. Dizzy assalì il macellaio, anziché il direttore. Tutto andò a rotoli, a partire da quel momento. Ciò nondimeno, tre successi su quattro colpi è una buona percentuale per un predatore. Persi Dizzy sul finire di un pomeriggio, a Lincoln Heights. Parecchi «amici» si trovavano nel parcheggio di Le Blanc's, all'angolo tra Griffith Avenue e North Broadway. La maggior parte erano ex galeotti; gli altri erano italiani e avevano un debole per il gioco d'azzardo, e quindi probabilmente erano affiliati dei mafiosi della East Coast o del Middle West. Uno o due di loro potevano essere degli «affrancati». Dizzy faceva parte del gruppo. Due giovani agenti in uniforme del reparto di Highland Park, al volante di una civetta, passarono a fianco del parcheggio e notarono lo scellerato raduno. Gli agenti seguitarono per la loro strada, fecero il giro dell'isolato, e ricomparvero all'improvviso: - Fermi tutti! Nessuno si muova! Dopo pochi minuti necessari per verificare i documenti di identità, assicurarsi che nessuno fosse colpito da mandato di cattura, e prendere i nomi di tutti, che in maggioranza già conoscevano, gli agenti si preparavano a ripartire. Ma un incidente accaduto a El Segundo, un mese prima, aveva lasciato una scia che a molti cambiò la vita. Due agenti di polizia avevano arrestato qualcuno, e questo qualcuno li aveva freddati lì per lì. Nessuna arma era stata ritrovata, e i poliziotti non avevano rilevato il numero di targa quando avevano deciso di fermare il veicolo, cosicché non c'era stato modo di risalire all'automobile. Per parecchi anni, in ogni prigione e in ogni stazione di polizia sarebbe rimasto un identikit dell'omicida sospettato di aver assassinato i due poliziotti. Tutte le centinaia e migliaia di arrestati venivano sottoposti a confronto con l'identikit. Questa scena sul parcheggio con Dizzy si svolse poco dopo il fatto di El Segundo e prima del pronunciamento della Corte Suprema della California nell'"Affare Cahan" e della decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti nel processo "Mapp contro lo Stato dell'Ohio", ambedue contenenti la disposizione che tutti i ricorsi erano legittimi per imporre alla polizia il rispetto del Quarto Emendamento, ovvero il diritto del cittadino di non essere sottoposto a «perquisizioni o sequestri ingiustificati», anche quelli inerenti l'applicazione delle sanzioni civili e penali, cosa che le giurie non facevano rispettare. Dopo un secolo di decisioni futili, era arrivata l'ora di togliere alla polizia il movente del suo comportamento incostituzionale, ovvero i corpi del reato che sequestrava, più tutte le prove alle quali aveva accesso con mezzi illegali. Era «il frutto dell'albero avvelenato», per riprendere l'espressione coniata nel corso del processo "Wong Sun contro gli Stati Uniti d'America". Il dispositivo del processo "Mapp contro lo Stato dell'Ohio" sarebbe entrato in vigore soltanto un paio di anni più tardi. Gli agenti decisero di perquisire Dizzy. L'arma che gli trovarono addosso era un corpo del reato valido a termini di legge. Lo obbligarono, come indiziato, a comparire per il riconoscimento davanti ai testimoni di fatti criminosi. Prima che lo prendessi sotto la mia ala protettiva, oltre alle rivendite di alcolici e ai piccoli supermercati del quartiere, Dizzy aveva rapinato il cassiere di una banca Well Fargo. Dalla sbarra dei testimoni, il cassiere puntò il dito contro di lui e dichiarò: - E lui -. La giuria sentenziò: - Colpevole -. Il giudice comminò: - Diciotto anni -. "Sic transit gloria", Dizzy Davis. Sebbene conservassi qualche colpo di riserva, e li vendessi di tanto in tanto ad altri, la mia epoca di pianificatore di rapine era essenzialmente conclusa. Meglio così, perché avevo altra carne al fuoco. Un amico dei fratelli Hernandez di Tijuana forniva tre documenti di identità, principalmente una patente di guida della California integrata da altri due documenti di conferma, e un centinaio di assegni destinati al pagamento degli stipendi, il tutto per mille dollari. Ricevetti i documenti di identità sotto nomi messicani comuni Gonzales, Cruz o Martinez - con i tratti segnaletici di «un metro e sessantacinque, capelli neri e occhi marroni». La mia prima serie di assegni era a nome della Southern Pacific. Molti chicanos lavoravano per la compagnia ferroviaria. Un tizio di mia conoscenza, tale Sonny Ballesteros, reclutò tre ragazzi del quartiere pieni di buona volontà. Ai tre volenterosi consegnammo tre assegni ciascuno. Quando questi assegni vennero incassati e ci furono rimessi i contanti, passai a Sonny i novantuno assegni restanti. Non so cosa lui ne ricavò, ma io, per quel che mi riguardava, fui soddisfatto della mia parte. Ancora una volta ero al riparo da possibili procedimenti giudiziari contro la mia persona. Il colpo degli assegni andò a segno per tre volte; poi il mio contatto con Tijuana venne individuato e si interruppe. Avevo denaro a sufficienza per parecchi mesi e un altro piano in vista. A coloro che sono moralmente scandalizzati dai miei disegni criminali e dall'assenza di ogni forma evidente di rimorso da parte mia, permettetemi di dire che a me bastava giustificarmi dinanzi a me stesso, che poi è ciò di cui ognuno ha bisogno. Nessun uomo fa coscientemente del male. Io ritenevo, e ritengo tuttora, che se Dio mettesse su un piatto della bilancia tutto ciò che ho fatto io e sull'altro piatto tutto ciò che mi è stato fatto nel nome della società, sarebbe difficile stabilire in anticipo da quale parte penderebbe il piatto. Io ho soltanto rubato soldi, e ho smesso nel momento in cui sono riuscito a vendere un romanzo. Mi sono rifiutato di accettare la posizione in cui la società relega l'ex delinquente. Ho preferito correre il rischio di tornare in prigione piuttosto che accettare un posto di lavoro in un autolavaggio o nella cucina di una tavola calda. Due lavori che non hanno nulla di disonorevole, ma non sono fatti per me. Avevo già letto troppi racconti di gesta eroiche, ed ero arso dal furore di vivere. Non avevo una famiglia che mi contenesse entro certi limiti suscitando in me un sentimento di vergogna, e non dovevo niente alla società, per quanto mi risultava, ritenevo peraltro che la maggioranza dei suoi membri avesse esattamente ciò che si meritava. Erano i classici ipocriti, che proclamavano a voce alta le virtù cristiane ma poi, al massimo, vivevano secondo idee più primitive e più meschine, arrivando fino a violare anche quelle, se ne valeva la pena, e se trovavano dentro di loro abbastanza coraggio per farlo. Non vivevano in pieno accordo con i valori e le virtù che professavano, esplicitamente o implicitamente. Io li derubavo dei loro soldi, senza rimpianti o esitazione. Loro se li erano anche guadagnati operando con mezzi legali, sì, ma senza creare nulla, senza fare nulla di costruttivo, senza contribuire in nulla al benessere generale, né alla libertà umana, né a nient'altro, tranne forse alla loro famiglia più prossima. L'Esercito della Salvezza e i Francescani erano veri cristiani. Loro non eleggevano a proprio domicilio il palazzo più grande del pianeta, circondati da ricchezze e da oggetti d'arte ancora più sfarzosi di quelli conservati nei musei della terra; no, loro scendevano in strada e andavano in aiuto di chi ne aveva bisogno. Persone così, come loro, veri cristiani, persone di buona fede, ce n'erano, ma erano una minoranza. Una delle cose che mi dava una libertà unica era la mia totale assenza di preoccupazione per ciò che gli altri pensavano di me o per ciò che potevano farmi. Io mi curavo molto di più della verità. E della ricerca della verità, del divertimento e dell'avventura, quanto più ne potevo spremere dalla vita. Ciò che mi piaceva, lo facevo, finché non sopraggiungeva la noia. Tutte le mattine (in realtà più facile che fosse mezzogiorno, che di buon'ora), partivo a vele spiegate in cerca di avventura. Il drugstore di Schwab su Sunset, esattamente dove termina Crescent Heights e inizia Laurel Canyon (e dove, leggenda vuole, sia stata scoperta Lana Turner) serviva al banco una colazione favolosa. A fianco di Schwab si trovava lo Sherry's, un locale frequentato da allibratori, giocatori d'azzardo, malfattori occasionali, ragazze squillo d'alto bordo e i loro magnaccia, anche se questi ultimi si adombravano del termine «magnaccia». Loro si definivano «giocatori». Davanti allo Sherry's avevano teso una trappola al celebre gangster Mickey Cohen. Lui l'aveva scampata senza un graffio; la sua guardia del corpo era stata assassinata. Allo Sherry's mi portò per la prima volta Ann J., che si faceva chiamare Sandy Winters. Cresciuta in un sobborgo di Los Angeles, da adolescente era grossa e informe. I suoi amici del liceo fumavano spinelli ed erano delinquenti, e alcuni di loro erano diventati dei veri criminali. Il suo ragazzo era finito in riformatorio per il furto di un'automobile. In sua assenza, Sandy aveva perso le sue rotondità adolescenziali, per rivelare il corpo di una ballerina di Las Vegas, seni prosperosi, vita sottile, fianchi larghi e gambe muscolose, più simile a Jane Mansfield che a Jane Fonda. Ann aveva «svoltato», diventando una squillo d'alto bordo protetta da un magnaccia (scusate, «giocatore»), ma era la sua «ruota di scorta» (la sua ragazza numero due), e lei detestava passargli tutto ciò che guadagnava, anche se il «giocatore» le comprava i vestiti da Bullocks e le aveva regalato una coupé De Ville, tenendosi comunque il certificato di proprietà. Il magnaccia/giocatore era della razza che regna col terrore, stando bene attento tuttavia a non «ammaccare» la mercanzia, laddove era visibile. In capo a qualche mese Sandy aveva fatto le valigie e se n'era tornata a casa sua, nella San Gabriel Valley. Aveva portato con sé una copia del suo «libro», un registro verde con parecchie centinaia di nomi e numeri di telefono. Certi segni in codice dietro ciascun nome stavano a indicare quanto ogni cliente pagava, ciò che gli piaceva, la data dell'ultimo incontro, e talvolta altre annotazioni aggiunte ai margini. Tra i nomi comparivano magnati e divi del cinema. Perché Mitchum avrebbe dovuto frequentare una ragazza squillo? Perché il fatto non produceva ripercussioni di sorta, anche se, in quegli ultimi tempi, alcune prostitute avevano incominciato a passare qualche soffiata al celebre fogliaccio scandalistico del momento, «Confidential». Sandy smise di fare le marchette e iniziò a lavorare come segretaria, anche se non disdegnava di fare la cortigiana nei fine settimana, quando qualcuno che le piaceva desiderava offrirle dei diamanti e accoglierla tra le sue braccia. Sebbene non fosse la più bella del reame, Sandy aveva l'andatura più sexy che io avessi mai visto, e faceva girare la testa agli uomini ovunque andasse. Dopo un fine settimana a Las Vegas o a New York, puntualmente se ne tornava a casa con un nuovo gioiello, il cui valore ammontava a un mese del suo stipendio, che lei depositava presso il suo agente di borsa. Sandy e io eravamo stati presentati da Jimmy D., cognato del mio socio d'infanzia Wedo Gambos, di cui ho già parlato in precedenza. Lui era in attesa della sentenza che poi l'avrebbe spedito in prigione, all'epoca del nostro incontro. Ormai era già finito dietro le sbarre. Jimmy era sposato con la sorella della moglie di Wedo. Pur essendo coetanei, Jimmy non possedeva che una frazione minima del mio sapere, che l'avessi ricavato dai libri o dalla strada. A ventidue anni mi ero diplomato con ottimi voti, dopo i cinque anni trascorsi a San Quentin. Quanto a Jimmy, lui conosceva le ragazze che amavano lo sballo e la baldoria, e i posti in cui ciò era possibile. Io avevo i soldi e l'automobile sportiva, la mia Jaguar, che seguitava rapidamente a collezionare colpi e ammaccature, in seguito alle quali uno dei fari proiettava un fascio di luce sghembo verso il cielo. Una sera mi aveva chiamato, la voce tutta eccitata: - Ah, amico mio, voglio proprio presentarti una puledra rossa. E un vero schianto… credimi… e si sballa che è un piacere. Era l'epoca precedente all'introduzione delle cinture di sicurezza, o quanto meno delle leggi sull'obbligo delle cinture, e quindi ci stringemmo tutti e tre sui due sedili. - Allora, che si fa? - domandai. - Decidi tu, bambola, - disse Jimmy rivolgendosi a Sandy. - Voglio farmi, - disse. - Ho chiamato il mio fornitore. Ce l'ha. - Dov'è? - Nella zona est… vicino a Brooklyn e Soto. Eravamo su Sweetzer, esattamente a nord di Santa Monica Boulevard, sul Sunset Strip. L'avrebbero ribattezzato West Hollywood, quando sarebbe diventato parte integrante della comunità urbana, ma nel '57 era ancora uno «strip», una striscia di terreno della contea, circondato su tre lati dalla City of Angels e sul quarto da Beverly Hills. Lo Strip ospitava la maggior parte dei locali alla moda, il vizio e il gioco d'azzardo. Una prostituta che cadeva in una retata della polizia nel territorio della contea si beccava un'ammenda di cento dollari. A Beverly Hills, si vedeva rifilare novanta giorni di galera la prima volta, e sei mesi la seconda. - East L. A. è un bel pezzo di strada, - osservai. - Conosco un tizio a meno di due chilometri da qui. - Un fornitore? - Ehm… sì, un mio amico. - Uno spacciatore a Hollywood? - Sì. - Deve essere il primo. Era vero. Fino a quel periodo, chiunque volesse rifornirsi di droga, doveva spostarsi nella zona est della città, per lo meno fino a Temple Street, esattamente a ovest del Civic Center, oppure fino al Grand Central Market tra Third e Broadway, dove stazionavano gli spacciatori, la bocca piena di minuscole capsule di droga, come scoiattoli. Se gli agenti della squadra narcotici sbucavano all'improvviso da una porta, lo spacciatore non faceva altro che ingoiare quello che aveva in bocca. Chiamai il mio amico Denis Kanos, primo spacciatore di droga a risiedere a Hollywood, da una cabina telefonica nella stazione di rifornimento Richfield. Stava per uscire, ma dal momento che eravamo molto vicini a casa sua, accettò di incontrarci al parcheggio di uno Smokey Joe, una catena di caffè ristoranti che serviva hamburger leggendari, all'incrocio tra Beverly Boulevard e La Cienega Boulevard. Fummo i primi ad arrivare sul posto, e scendemmo dall'automobile, dove saremmo stati troppo scomodi per aspettare. Individuai la nuova Thunderbird a due posti di Denis quando entrò nel parcheggio. Si fermò a una certa distanza da noi. Non conoscendo né Sandy né Jimmy, Denis non aveva alcuna voglia di incontrarli, precauzione elementare dello spacciatore accorto e prudente. Mi mossi verso Denis, che guardava Sandy alle mie spalle. - Perdio, amico, certo che è un bel pezzo di rossa, quella lì. Non mi hai detto quello che volevi. - Solo un paio di capsule. All'epoca l'eroina, per lo meno nelle strade di Los Angeles, si vendeva in capsule da cinque di gelatina. Una capsula era sufficientemente ricca di sostanza attiva da bastare per due, sempre che questi non fossero veri e propri tossici, ma cominciava a diffondersi la pratica di tagliare la polvere con il lattosio. A ogni passaggio nelle mani di un intermediario, l'eroina veniva tagliata un'altra volta. Nel giro di qualche anno, non sarebbe stata neppure l'ombra di quella di un tempo, e alla fine si sarebbe venduta in palline da un grammo. - Non sapevo che ti facevi, - disse Denis. - L'ho provata un paio di volte. Mi piace così tanto che non voglio restarci fregato. Vedo bene come si diventa tossici. - Sì… e quando cominci a farti un buco dietro l'altro, e a provarci gusto, resti tossico per il resto dei tuoi giorni. Hai "sempre" una voglia matta di rifarlo. Tirò fuori due capsule bianche e le infilò nel cellophane di un pacchetto di sigarette, che richiuse con una piega. Le capsule si scioglievano, tenendole in mano. - Grazie, D. Quanto ti devo? - A buon rendere. Un giorno, quando ne avrò bisogno. - Cazzo, si è mai sentito dire di uno spacciatore che da via la roba gratis? - Be', non facciamo altro… soprattutto coi ragazzini… finché non diventano tossici e li abbiamo in pugno. E allora, o li mettiamo a fare le puttane, oppure li costringiamo a rubare il televisore di casa -. Gli uscirono queste parole come la cosa più naturale del mondo, la faccia impassibile; era la sua idea dell'umorismo. - L'hai trovata? - domandò Sally al mio ritorno. Aprii la mano in modo da mostrarle il pacchetto di cellophane, dopo di che ci stringemmo nuovamente a bordo della Jaguar. - Allora, dove si va? - domandò la ragazza. - Che ne dici di quel posto sulla spiaggia di cui mi hai parlato? - suggerì Jimmy. Il mio appartamento era più vicino, ma meno suggestivo della "cabana" privata al Sand and Sea Club sulla spiaggia di Santa Monica che Louise mi aveva autorizzato a utilizzare. Jimmy aveva avuto una buona idea, perché nonostante io non fossi mai stato ossessionato dalle ragazze (o dal sesso) come i miei amici adolescenti, di tanto in tanto il serpente della lussuria mordeva anche me. E mi aveva morso, proprio in quel momento. Volevo aprire le cosce di quella rossa gagliarda fino al punto di sentire una fitta di dolore al basso ventre. E anche se non avevo esperienza nel gioco della seduzione, sentivo intuitivamente che Sandy si rifiutava sprezzantemente agli uomini il cui desiderio era troppo evidente. Quegli uomini erano solo clienti, e si meritavano di essere manipolati, e non rispettati. Una puttana è spesso più difficile da sedurre di una donna seria timorata di Dio, nella misura in cui interviene il denaro; diversamente, l'uomo diventa un semplice puttaniere o un cliente, e non merita che disprezzo. Era importante che dissimulassi il desiderio ardente che avevo di lei. Come mi aspettavo, il parcheggio era vuoto e nessuno ci vide varcare il cancello e fare il giro della piscina fino alla rampa di gradini che conduceva a un lungo balcone sul quale si affacciavano tutte le "cabanas". Il tonfo delle onde e il rumore della risacca contribuirono a mascherare la nostra presenza. Nonostante fossi autorizzato a usare quel posto, non ero in possesso della chiave. Durante la giornata, il responsabile dello stabilimento mi apriva la porta. Si trattava di una porta vetrata scorrevole, che avevo manomesso in modo che si aprisse senza chiave. Scrollai il capo quando venne il mio turno di bucarmi. - Vedo il mio responsabile della condizionale domani. E credo che vorrà sottopormi a un test di nalorfina. - Sei in libertà vigilata? - chiese Sandy. Era con un nuovo interesse che aveva posto questa domanda, oppure era soltanto la mia percezione di un nuovo interesse da parte di lei? In certi ambienti, un periodo trascorso in prigione, anziché essere un marchio di infamia, era motivo di rispetto. - Sì. - Si è fatto cinque anni, - precisò Jimmy. - Non proprio cinque. - A San Quentin, - intervenne ancora Jimmy. - Ti avevo preso per un figlio di papà, - disse Sandy. - Sarebbe il mio sogno, ma non è la realtà, questo è certo. - Conosce Flip, - soggiunse Jimmy. - Conosci davvero la leggendaria Yvonne Renee Dillon? - Non la dimenticherò mai. Sandy scoppiò a ridere, annuendo con un cenno del capo. Dopo aver tirato le tende sulla porta vetrata, col sottofondo del tonfo delle onde che si frangevano sulla sabbia per poi rientrare nell'oceano sibilando, i due si bucarono. - Roba buona, - disse Sandy, la voce impastata e stridula, mentre si grattava l'occhio e il naso col dorso della mano. - Ottima, direi, - continuò, lasciando scivolare la testa sul petto, lentamente, prima di raddrizzarla di colpo. Sandy lottava contro il sopore e provava un'euforia che attraversava tutto il suo essere, fisico ed emotivo. Un'assenza totale di dolore. Non era il momento di metterle fretta, e neppure di parlarle granché. Uno che si è riempito di roba vuole restare lì dov'è, a mangiarsi coni gelato o fumare sigarette. I tossici restano coinvolti in un'alta percentuale di incendi accidentali appiccati dalle sigarette. Una volta in preda al torpore, mezzo addormentati, mandano in fumo la tappezzeria di seggiole e divani. Ma io vedevo a che punto si sentivano bene, in uno stato di totale autosufficienza, ivi compreso il rituale preliminare del buco, e mi metteva paura. Sandy non aveva il benché minimo desiderio di conversare, per il momento. Uscii sul balcone e fumai una Camel contemplando la luna piena che scendeva bassa sull'orizzonte. L'ampio raggio di luna si allungava sulla superficie del mare come un sentiero che si sarebbe potuto percorrere a piedi. Il vento era tenue, la notte gradevole. Quando le onde finivano di frangersi, una dopo l'altra, e risalivano sulla spiaggia in corsa, l'acqua lasciava sulla sabbia un motivo del tutto simile all'orlo di un merletto bianco, che durava per pochi secondi, prima di sparire quando la risacca si ritirava. Scene come questa suscitavano sempre in me un desiderio vago e ardente, forse persino un'epifania. Più di ogni altra persona di mia conoscenza, amavo restarmene da solo con i miei pensieri, in certi luoghi. E questo era uno di quei luoghi; lo stesso che camminare nell'oscurità della città addormentata nelle ore prossime alla mezzanotte, quando tutto era immerso nel silenzio e deserto. Un po' di buona erba, e le porte della percezione si aprivano. Ero deluso che Sandy fosse sprofondata come uno zombie nell'oblio dell'eroina. Volevo conoscerla meglio. Senza dubbio il suo corpo, con quei seni prosperosi e arroganti e le grandi cosce abbronzate, risvegliava il mio desiderio, ma anche la sua personalità mi attraeva. Jimmy diceva che era simile ai suoi amici. E in un certo senso era vero: era una donna da uomo, come poche ne ho incontrate, a suo agio in mezzo agli uomini più rudi. Sapendo ciò che volevano, e consapevole del desiderio primitivo che suscitava in loro, lei vi trovava un potere che riconosceva, e tuttavia dietro questo potere si nascondeva un'aspirazione ad essere la donna vulnerabile e fragile che gli uomini vegliano, proteggono e amano. Talvolta Sandy aveva l'impressione di aver trovato ciò che cercava, ma fino a quel momento tutto e tutti si erano rivelati soltanto un miraggio, una volta cadute le maschere e messa a nudo la verità. Compresi tutto questo col tempo, quando imparai a conoscerla. In quel momento mi fece pensare a Flip, che non vedevo da cinque anni, anche se certamente era tornata spesso nei miei pensieri nell'oscurità della cella, quando mi ricordavo della sua bellezza, la pelle di alabastro, il culo perfetto, il modo in cui sapeva scopare. Anche se non potevo rivendicare una vasta esperienza sessuale, dopo di lei, le altre non erano state che corpi inerti buone soltanto a stendersi su un letto e aprire le gambe. All'epoca il potere della sua bellezza mi aveva intimidito. Adesso che mi ero diplomato dopo cinque anni nella Casa di Dracula, non ero più intimidito da nulla, tranne che da un fucile calibro.12 puntato a cinque centimetri dalla mia testa. Riuscire a sopravvivere per cinque anni a San Quentin fa meraviglie, quanto alla crescita della fiducia in se stessi. Qualche giorno dopo il mio telefono squillò. Sandy era dall'altra parte del filo. - Ho avuto il tuo numero da Jimmy, - disse. - Non te la prendi, spero. - Niente affatto. Coma va? - Flip si ricorda di te. Vuole vederti. - Anch'io voglio vederla. Va bene stasera? - No. Ha detto giovedì. Non è che le cose le vadano troppo bene, al momento. - Che le succede? - Il tizio con cui stava l'ha mollata. Teneva tutto in automobile. È partita per andare a rifornirsi di roba a L. A., dove qualcuno le ha rotto il vetro di un finestrino laterale con un mattone e le ha rubato i vestiti, tutti i vestiti. Non è facile per lei lavorare senza una facciata. - Perché ha bisogno di un guardaroba col lavoro che fa? Non si stende sul letto per prima e si alza per ultima? - Quanto a questo, no… ma deve dare l'impressione di essere uscita da una vetrina di Bloomingdale quando attraversa l'atrio di un albergo elegante per recarsi a un appuntamento. Sì, era comprensibile. La differenza tra una puttana che batte a un angolo della strada e una squillo in un appartamento su un attico spesso non era altro che una questione di facciata. Prendete la prima, la portate dal parrucchiere, la mettete sotto la lampada abbronzante, le fate indossare i vestiti acquistati da Neiman Marcus, e poi la sistemate in un appartamento di lusso, e il suo prezzo per lo stesso servizio lievita da venti a duecento dollari per venti minuti, e da duecento a duemila per l'intera notte. Nel 1957 i Paramount Studios non si estendevano fino a occupare gli edifici che si affacciavano su Melrose Avenue, come oggi. Erano rientranti di un isolato, su una strada che si chiama Marathon. Nella stretta via che univa Melrose e Marathon si trovava un condominio di appartamenti su tre piani in "faux" stile Tudor costruito in legno e gesso. Gli appartamenti dell'ultimo piano avevano ciascuno una finestra che dava su una scala antincendio sovrastante il cancello DeMille, l'icona degli studi Paramount, un po' meno celebre del logo della montagna con il suo cappello di nevi. La finestra era esposta a ovest e prendeva in pieno i raggi del tramonto. A Flip piaceva sedersi nel vano della finestra accanto alla scala antincendio, bevendo scotch durante l'ora magica del crepuscolo. In quei momenti fantasticava su ciò che avrebbe potuto essere se non avesse avuto questa inclinazione forsennata all'autodistruzione. Quando Sandy ci scortò dopo il nostro ingresso nell'appartamento, non osservai bene Flip finché non ci ritrovammo in salotto. Chiuse la porta e si voltò verso di noi. Non credo di aver avuto una reazione visibile, anche se forse la piega di carne tra le sopracciglia ebbe un lieve sussulto. L'immagine idealizzata di un corpo perfetto che sprigionava uno straordinario potere sessuale era scomparsa. Cinque anni di scotch ed eroina avevano sfigurato la perfetta bellezza sensuale che Dio le aveva donato. Il suo viso era ancora di un'avvenenza non comune, e con un po' di trucco sarebbe stata sbalorditiva, ma il suo corpo si era rammollito e appesantito, per via delle cattive abitudini. - Ehi, tesoro, - disse. - Sei diventato grande. Scommetto che adesso ti fai la barba. Credo di essere arrossito; in ogni caso sentii un calore sulla faccia. - Non ho molto tempo, - disse. - Mi spiace. Ho ricevuto una telefonata all'improvviso per un appuntamento. Un cliente regolare. Scott Brady. - L'attore? - domandò Sandy. - Già, - rispose Flip. - Aspettate qui. Una scala che saliva lungo il muro laterale conduceva al piano superiore dove si trovavano un bagno e una camera; una porta dava sul corridoio. - Proprio un bel posto per una ragazza che fa la vita, - osservò Sandy. Vedendo che non capivo, si spiegò meglio. Per lo meno si può circolare senza imbottigliarsi. Un cliente che esce dalla porta lassù indicò la scala - non rischia di imbattersi con un cliente che entra da questa porta -. Indicò la porta di fronte, e allora capii. Flip scese le scale. Si era data una rassettata ai capelli e poco altro, e aveva un aspetto ben più trasandato di quanto mi aspettassi in una ragazza squillo di alto bordo. - Ascolta, disse a Sandy. - Fammi un favore e dammi un passaggio fino a casa sua. - Non ti aspettiamo, però, - rispose Sandy. - No… no… Mi va bene. Tornerò con i miei mezzi. Scott Brady abitava in una piccola casa bianca appollaiata sul piano di una scarpata sulle colline di Laurel Canyon. Una piscina copriva tutto lo spazio che non era occupato dalla casa. Era stata progettata in modo tale che aggrappandosi al bordo della vasca si poteva godere lo spettacolo della vasta piana di Los Angeles o della San Fernando Valley in basso fino all'orizzonte. Quando scese, Flip mi fece scivolare in mano un pezzetto di carta col suo numero di telefono. - Dammi un colpo di telefono. Ti preparerò una bistecca e patate al forno. Mentre scendevamo per i tornanti di Laurel Canyon in direzione di Sunset Strip, Sandy mi canzonò bonariamente: - Cavolo, tesoro, pare proprio che ti abbia preso in simpatia, la favolosa Miss Yvonne Renee Dillon di Palm Springs e Hollywood. - La questione è sapere in che razza di guai può cacciarti una così. Non è un caso se la chiamano Flip. - Lei è Flip… ma è pur sempre una brava a far soldi. Ha più di un migliaio di numeri nella sua rubrica, e ha certi clienti affezionati che si rifiutano di vedere un'altra ragazza. - No… ehm… io non sono un magnaccia. A dire il vero disprezzo i magnaccia. Le puttane sì, loro mi piacciono… ma i magnaccia, no. - Alcuni non sono poi così male. Si prendono cura della loro signora… non le permettono di iniettarsi il gruzzolo nelle vene. Ci sono tante ragazze che non riescono a fare una marchetta senza prima bucarsi. Potevo capirlo. Uno sballo serviva da isolante e permetteva di sottrarsi a realtà spiacevoli, come per esempio succhiare l'uccello di uno sconosciuto. - I magnaccia sono pieni di grana, - disse Sandy, - e non finiscono in galera. Non spesso, in ogni caso. Nel momento in cui era in corso questa conversazione, la mia attenzione era concentrata principalmente sui lampi intermittenti delle luci dei freni della vettura che ci precedeva. Ciò che Sandy disse fu registrato senza essere analizzato. Nel corso dei giorni successivi, mi venne un'idea: avrei fatto pagare i magnaccia per la mia protezione. Avrei, per così dire, fatto la parte di Lucky Luciano e li avrei organizzati. L'operazione essenziale nella riuscita del mio disegno era convincerli che avevano bisogno di una protezione. Potevano aspettarsi di tutto, se non fossero stati protetti dai vandali e dai pazzi furiosi. Erano proprietari di jukebox e distributori di sigarette che potevano rovesciarsi per terra o subire accidentalmente l'impatto di una mazzata. Quel tizio, adesso mi sfugge il nome, non era proprietario di un locale notturno su Santa Monica Boulevard? Il locale poteva andare a fuoco. Le mogli dei clienti avrebbero potuto ricevere un colpo di telefono col quale venivano informate che i loro mariti andavano matti per le puttane. I magnaccia avrebbero potuto restare coinvolti in un incidente, prima o poi. Il dieci o il quindici per cento degli introiti non valevano il senso di sicurezza che garantiva una protezione? L'ottantacinque per cento di un bel po' di soldi era preferibile al cento per cento di niente, ad eccezione di ogni sorta di guai. Perché la cosa funzionasse, era necessario che ci fosse "un fait accompli" nel momento in cui ne avessero sentito parlare. La loro prima reazione, ovvero la mia eliminazione fisica, doveva essere uno scacco totale: la mia morte avrebbe comportato la morte di tutti quelli che conoscevano. In realtà, bastava che loro credessero che la mia eliminazione avrebbe scatenato dei pazzi furiosi impossibili da identificare, i quali avrebbero sfondato la porta di casa loro per massacrarli insieme a tutta la famiglia. Naturalmente, la mia bravura non arrivava a tanto. Per me non era che un gioco, sostenuto soltanto dal mio pugno rabbioso e da una bocca capace di convincere chiunque che ero pronto ad assassinarlo in qualsiasi momento. Roteavo gli occhi, la mano ferma, mentre dicevo che volevo andare al… e la canna di una calibro dodici puntata a tre metri. Nessuno mi ha mai risposto - Fai pure, coglione -. Dio solo sa ciò che sarebbe accaduto in questo caso. Parecchi autentici pazzi furiosi circolavano in assoluta libertà a Los Angeles. Potevo assumerli al mio servizio. Il problema era il seguente: sarei riuscito a controllarli in seguito? Magari avrei potuto servirmi di qualcuno dei ragazzi di Joe Morgan, facendoli appostare a una certa distanza, e chiedendo loro di assumere un'aria feroce? L'idea della protezione dei magnaccia fluttuava ancora in qualche recesso indeciso del mio cervello, qualche giorno dopo, quando chiamai Flip per sapere se il suo invito alla cena a base di bistecca e patate al forno era ancora valido. Andava bene per quella sera stessa. Alle diciotto e trenta? Perfetto. Era ancora il crepuscolo quando parcheggiai accanto al marciapiede e scesi dall'automobile. Mi accorsi che Flip era appollaiata nel vano della finestra a fianco della scala antincendio, un bicchiere di whisky in mano. Mi vide e mi salutò agitando il bicchiere. Aprì la porta, entrai, e lei si incollò a me dandomi un grosso bacio umido. Poi disse: - Ti cucinerò una grossa bistecca e ti scoperò fino a farti scoppiare il cervello -. Sapeva di scotch, ed era già sbronza. Mi versò da bere e si riempì nuovamente il bicchiere, dopo di che la bottiglia era vuota. - Perché non vai a comprare una bottiglia mentre preparo la cena? - domandò. - C'è un negozio di alcolici subito dopo l'angolo su Melrose. - Certamente, - risposi. Il minimo che potessi fare per lei era comprarle una bottiglia di whisky, se è vero che voleva scoparmi fino a farmi scoppiare il cervello. Se il passato era un preludio, certamente ne era capace. Dopo aver finito di cuocere la bistecca, molto prima che le patate fossero pronte, era già troppo ubriaca per trasferire la carne dalla padella al vassoio. La bistecca scivolò prima di cadere per terra schizzando grasso bollente. Flip scoppiò a ridere. Feci altrettanto. Quando si chinò per raccogliere la carne, vi piantò la forchetta e cominciò a sollevarla, ma poi perse l'equilibrio e cadde per terra. Stavolta la bistecca volò in aria. Se la prima disavventura era stata buffa, la seconda era esilarante. - Tanto non avevo una gran fame, dissi tendendole la mano per aiutarla a rialzarsi. Flip si mostrò docile, ma ben presto mi resi conto che non avevo voglia neanche di lei, in quello stato, completamente stordita dai fumi dell'alcol. Nel corso dei giorni successivi, andai a farle visita parecchie volte, ogni volta portandole una bottiglia di Black and White, la sua marca di whisky preferita. Oltre a sballarsi, la sua attività preferita era parlare. Disprezzava i magnaccia ai quali aveva passato tanti soldi prima che le dessero il benservito. Fu Flip a informarmi dell'esistenza della casa sulla spiaggia di cui uno di loro era proprietario a Hermosa, come pure dell'associazione di protettori che possedeva il Regency Club a North Hollywood. Mi feci fare una copia della rubrica. A dire il vero, l'era della fotocopia era ancora a venire, e la mia copia era in negativo, lettere bianche su fondo nero, anziché il contrario. Un pomeriggio, mentre eravamo in una birreria su Santa Monica Boulevard, Flip disse casualmente che il jukebox apparteneva a un protettore di nome Richie. - Sai di altri posti dove li ha installati? domandai. - Sì. Qualcuno. - E anche i distributori di sigarette? - Sì… per lo meno alcuni. Che vuoi sapere, a ogni modo? Ero giovane e vanitoso, e inoltre credevo che lei disprezzasse i magnaccia, per cui le confidai il mio piano. Ignoravo il timor panico che le incutessero, e neppure per un attimo sospettai che avrebbe parlato di me con loro, finché un giorno non posteggiai l'automobile in un parcheggio sotterraneo non lontano da Sunset Boulevard. Un paio di mastini importati da Las Vegas mi stava aspettando. Come scesi dall'automobile, uno dei due mi chiamò dicendo: - Aspetta un momento -. Non subodorando nessun pericolo, mi fermai e li aspettai, finché non arrivarono a qualche metro di distanza, e allora vidi uno dei due infilarsi un pugno di ferro. Feci un salto, come se avessi toccato un filo elettrico. Presi a correre tra le vetture prima di balzare su un cofano per scappare a rotta di collo sul tetto delle automobili in sosta, finché raggiunsi una finestra socchiusa. I miei inseguitori non si affannarono a darmi la caccia, ma le loro imprecazioni minacciose mi risuonarono nelle orecchie. - Corri, corri, fottuta carogna -. È l'epiteto che ricordo. Anche se non riesco a ricordare esattamente ciò che dissero, sapevo per conto di chi agivano. Flip, o Sandy, mi aveva detto che i protettori di Hollywood avevano dei legami stretti con la mafia di Las Vegas. Naturalmente, sul momento mi presi una bella paura. I pugni di ferro sono armi terribili. Fracassano le ossa del viso senza difficoltà. Ma una volta varcata la finestra, mi ritrovai sulla strada e la mia paura cedette il posto a una strana eccitazione. Non era collera. Era allegria. Era quello, il gioco che preferivo. Un livello di eccitazione che alimentava a meraviglia il mio metabolismo. Tutta la mia esistenza mi aveva condizionato per affrontare situazioni simili. I magnaccia avranno pensato di aver evocato un demone. Mi avviai verso Sherry's, tra Sunset e Crescent Heights. Tra i molti personaggi della malavita che frequentavano Sherry's, c'era Denis Kanos. Non era tra i clienti. Lo chiamai dal posto di telefono pubblico per informarlo che stavo per incamminarmi sul marciapiede sud di Sunset Boulevard. C'era il rischio che i due mastini capitassero da Sherry's. Stavo sorridendo tra me e me quando Denis si accostò al marciapiede e suonò il clacson. Salii in macchina e ci allontanammo, a est su Sunset in direzione di Hollywood. - Me l'hai portata una rivoltella? - domandai. - Lì dentro, - rispose indicando il portaoggetti. - Possono identificarla? - Impossibile risalire fino a noi. Hai conosciuto Richard Eck? - L'ho incontrato. Richard Eck era stato ammazzato due anni prima, in uno scontro a fuoco con la polizia dopo una rapina. - L'ho comprata da lui. Penso fosse parte di una refurtiva. Il portaoggetti custodiva una piccola automatica con la scritta walther incisa sulla canna. Delle armi da fuoco sapevo ben poco. Quella mi sembrava abbastanza leggera per portarmela addosso senza sformarmi i vestiti, ma era piccola ed era un'automatica, e dunque mi sollevava qualche perplessità. - Sei sicuro che è abbastanza potente? - Oh, sì. Era in dotazione agli ufficiali tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. Costano care. - Ho visto un tale ferito da una pallottola sparata da una piccola Beretta 25, e non ha neppure accorciato il passo. Anzi, ha picchiato a sangue il tizio che gli aveva sparato -. In realtà non ero stato testimone di questa sparatoria inconcludente; l'aneddoto mi era stato raccontato a San Quentin, in una delle sedute di chiacchiere a ruota libera che si tenevano nel Grande Cortile. - No, no, questa li fermerà. L'arma entrava nella tasca della mia giacca. Bene. Avrei preferito un revolver calibro.38 o.44. Le automatiche erano preferibili quando era necessario sparare molti colpi. In quel caso bastava rimuovere il caricatore vuoto e sostituirlo con uno pieno. Ci si metteva un paio di secondi, a condizione di avere un caricatore di ricambio. Un revolver, al contrario, doveva essere ricaricato piazzando le pallottole una ad una nel tamburo. Un'automatica teneva da otto a dodici pallottole, un revolver cinque o sei. Tuttavia io preferivo il revolver perché era molto più affidabile. Lasciate un'automatica caricata in un cassetto per due anni e le molle possono allentarsi al punto da non far più salire una nuova cartuccia nella camera. Le automatiche tendevano a bloccarsi. Una volta, mentre sparavo su un bersaglio con una Beretta 7.6, al secondo colpo si inceppò. Non ho mai sentito dire di un revolver che si bloccasse. Non dissi nulla delle mie preferenze in fatto di armi da fuoco, grato di averne comunque una per il momento. Qualche giorno più tardi comprai una Smith & Wesson.383 canna corta e lasciai l'automatica tedesca nell'appartamento di Flip. Quando l'affrontai faccia a faccia accusandola di aver avvisato i protettori, lei lo confermò e disse: - Mi avrebbero fatto sfregiare la faccia. Tu sei suonato, amico. Le stronzate che racconti, le hai viste al cinema -. Era evidente dal suo modo di parlare che aveva trascorso un periodo con i neri, anche se il suo ultimo protettore, e gran parte di quelli che controllavano il giro delle ragazze squillo all'epoca in quel quartiere della città, era un bianco. Suppongo che fossero convinti che mi sarei cacato addosso e sarei sparito dalla circolazione, perché avevano fatto venire quegli scagnozzi probabilmente legati alla mafia di Las Vegas. Erano loro che si facevano delle idee prendendole dai film. Invece di sparire, mi misi alla loro caccia. Avrei anche potuto servirmi del migliaio di numeri di telefono della rubrica di Flip per distruggere il loro traffico, ma sarebbe stata una vittoria di Pirro. Molestando i clienti e le loro mogli, sarei riuscito a fare piazza pulita del loro giro, ma in tal caso i protettori non avrebbero avuto la possibilità di pagarmi la protezione contro l'estorsione, e così via. Non sapevo dove abitavano, ma conoscevo bene una casa di appuntamenti dove lavoravano le squillo, un appartamento su Sweetzer sotto Sunset, cui faceva capo anche la seconda ragazza di un magnaccia. Conoscevo anche la loro routine. Le ragazze squillo, diversamente dalle prostitute di strada, sbrigano gran parte dei loro traffici durante le ore lavorative della giornata. I loro clienti, uomini in grado di permettersi squillo d'alto bordo, non erano incatenati a una scrivania o vincolati da un orario. Nessuno batteva ciglio se sparivano per un'ora o due nel pomeriggio. Per loro era più difficile allontanarsi da una moglie la sera o durante il fine settimana. Il più delle volte, la ragazza squillo finiva la sua giornata lavorativa nel tardo pomeriggio. È a quell'ora che il magnaccia si faceva vivo per riscuotere i suoi soldi. «Tutto quello che lei guadagnava apparteneva a lui», tale era il principio fondamentale che regolava i rapporti tra puttana e magnaccia. Durante la giornata, quando lei vendeva il suo corpo, lui giocava a biliardo e sfoggiava i suoi abiti Hickey–Freeman e il suo diamante solitario al mignolo. Dopo un'altra dura giornata, riuniva le sue donne e le portava a cena in uno dei migliori ristoranti della città, dove non sembravano affatto puttane e magnaccia. Fu proprio durante l'ora di cena che forzai la porta della cucina dell'appartamento ed entrai. Mi servii di una minuscola torcia per muovermi nel salotto, dove mi sedetti per aspettare il loro ritorno, ridacchiando mentre mi figuravo la faccia del protettore quando avrebbe acceso le luci e mi avrebbe trovato seduto sul divano del suo salotto. Tic tac, faceva l'orologio. Ebbi l'impressione che restassero via per tanto, tanto tempo. Alla fine trovai un armadio guardaroba e aprii la porta. Il minuscolo fascio di luce della mia torcia illuminò soltanto spazio vuoto, niente vestiti. Mm. Perlustrai la stanza con la mia torcia, senza essere ben certo di ciò che vedevo. Premetti l'interruttore accanto alla porta. Non c'erano dubbi. Era un appartamento ammobiliato, ma era vuoto. Avevano fatto le valigie, e fui costretto a pensare che il protettore aveva anticipato la mia mossa. Nei giorni successivi, trascorsi gran parte del tempo nella zona est della città, a Lincoln Heights, Los Angeles Est, Bell Gardens e altri, tutti quartieri poveri, dove era più probabile trovare degli ex detenuti. Avevo un alleato di fiducia, e mi vennero fatti nomi di uomini che già sapevo essere dei veri duri, ma erano anche troppo scatenati perché potessi controllarli e tenerli a freno. Arraffavano tutto, comprese le donne, che in maggioranza erano molto più belle di una qualunque delle tossiche tatuate con cui filavano. Denis e io discutemmo della possibilità di dar fuoco al locale notturno o di sfasciare qualche jukebox, ma queste azioni isolate non avrebbero portato a nulla. Flip aveva mandato a monte tutti i miei progetti, mettendo i protettori al corrente dei miei piani prima che io fossi pronto ad agire. In modo assolutamente casuale, il protettore numero uno trovò la morte in un incidente automobilistico tra Palm Springs e il Salton Sea. Lui e la sua protetta (la sua ragazza numero uno) superarono la striscia continua e andarono a sbattere contro un autobus Greyhound. Sebbene fosse del tutto impossibile parlare di omicidio, tra la malavita di Hollywood cominciò a diffondersi la notizia che ero stato io a eliminarli. Dall'oggi al domani diventò impossibile per i grandi magnati del cinema e altri clienti trovarsi una squillo a West Hollywood. I magnaccia avevano caricato le ragazze sulle loro Cadillac e avevano lasciato la città. Sandy e Denis trovarono la cosa esilarante. A quel tempo vissi una delle mie esperienze più bizzarre. Passata mezzanotte, in settimana, il mio telefono squillò. Vivevo nel mio appartamento tra Ninth e Detroit. Flip era dall'altro capo del filo. Era ubriaca. - Devo vederti, Eddie. - È tardi, bambola. Ci vediamo domattina -. Riappesi. Il telefono squillò ancora dopo pochi secondi. - Se non vieni, mi ammazzo. - Arrivo subito, bambola. Mi diressi verso casa sua, all'ombra della Paramount, e parcheggiai nella via stretta di fronte. Suonai il campanello del suo appartamento senza ricevere risposta. Si era suicidata? Ne dubitavo, ma non si poteva mai sapere… (In effetti si tolse la vita meno di tre anni dopo). Feci il giro dell'edificio e nel vicolo trovai un finestra del corridoio socchiusa di qualche centimetro per fare passare l'aria. Accanto correva un canale di scarico zincato massiccio, abbastanza solido da permettermi di salirvi e raggiungere la finestra. Una volta all'interno, percorsi il corridoio sulle mie suole di para e presi la scala fino al terzo piano. Nessuno rispose quando bussai alla porta. Siccome non volevo fare troppo rumore per non rischiare di svegliare il condominio, ridiscesi e uscii per la porta d'ingresso, che feci in modo di lasciare socchiusa puntellandola con un giornale gettato via. Presi un piede di porco che tenevo in automobile e, rientrato nell'edificio, salii fino al terzo piano. In fondo al corridoio, la finestra si apriva sulla scala antincendio, che passava a qualche decina di centimetri dalla finestra della cucina. Un piccolo colpo seguito da un rumore di vetro rotto, e introdussi la mano per aprire la finestra. Attraverso l'arco potevo vedere parte del salotto. Era inondato di luce verde, che Flip amava particolarmente quando riceveva. In salotto trovai Flip abbandonata sul divano in biancheria nera, blusa e pantaloncini sgualciti, in stato di incoscienza. Russava. La scrollai. Aprì un occhio. - Dov'è la mia pistola? - Avevo lasciato lì la mia pistola un paio di giorni prima. - Non fare del male a Michael! - Michael! Non farò del male a Michael! - Non fare del male a Michael! Merda. Fu allora che lo vidi, anche lui privo di sensi, ai piedi della scala che saliva alla camera e al bagno del quarto piano. Era in mutande e canottiera, uno di quegli italiani con il petto e, in minor misura, con le spalle ricoperti da una pelliccia di peli neri. Era un amico di Johnny Stompanato, assassinato dalla figlia di Lana Turner. Michael lavorava come barman al Playboy, a un isolato di distanza su Melrose. Aveva un taglio di capelli col codino, con un boccolo alla Tony Curtis che gli ricadeva sulla fronte. S'immaginava di essere un uomo straordinario, fatto apposta per le donne. Flip lo teneva al guinzaglio della sua passera, cosa che sapeva sicuramente fare meglio di chiunque altra. Lui era innamorato di lei e, da bravo stallone virile e italiano qual era, detestava la cosa: il fatto che lei fosse una puttana e che lui l'amasse era difficile da sopportare, specie quando lei perversamente si divertiva a tormentarlo. Quando il telefono squillava in presenza di Michael, lei lo fissava negli occhi mentre anticipava al cliente tutto quello che gli avrebbe fatto a letto. Michael si sbronzava e la picchiava. Piangeva. A lei piaceva, e poi facevano sesso alla grande. Nonostante le mie proteste, Flip si rifiutava di credere che non avevo alcuna intenzione di fare del male a Michael. Dopo averla scossa un paio di volte per svegliarla, lasciai perdere e decisi di ritrovare la pistola da solo. Quanti erano i posti dove aveva potuto nasconderla in un appartamento così piccolo? Il primo posto in cui guardai era dietro i cuscini del divano su cui si era assopita. Feci scivolare la mano tra i cuscini, tastai qualcosa e lo tirai fuori. Un coltello da macellaio. Che diavolo ci faceva li? Portai il coltello in cucina e lo posai sul tavolo. Poi incominciai a frugare, e dopo una ventina di minuti trovai la pistola in una teglia dentro il forno. Me la misi in tasca e tornai a casa. Dormii fino a circa le undici del mattino, poi passai un'oretta a farmi un bagno e vestirmi. Dalla finestra vidi il piccolo fattorino che depositava il giornale del pomeriggio, l'«Herald Express» di Hearst, dal mio vicino di casa. Come facevo spesso, aprii la porta e uscii per prendere il giornale. Lo rimettevo sempre a posto quando uscivo a una certa ora nel pomeriggio. In quel periodo Los Angeles dava la caccia a uno dei suoi pluriomicidi, di quelli che ammazzano in serie, fenomeno abbastanza ricorrente. Venivano chiamati con ogni sorta di nomi, quali il Guardiano della Notte e l'Assassino dell'Autostrada. Stavolta l'omicida era stato soprannominato il Predatore di Hollywood. Penetrava negli appartamenti delle donne nubili nei dintorni di Hollywoood e Hollywood Hills, spesso tagliando una porta zanzariera o usando altri mezzi simili. Almeno una di queste donne l'aveva uccisa, per quel che ricordo. Portai il giornale in casa, mi versai una tazza di caffè caldo, e lo aprii. Il grosso titolo in prima pagina diceva: scoperte impronte del predatore. A destra, sotto il titolo, si trovava, su quattro colonne, la foto di un coltello da macellaio. L'articolo che seguiva cominciava con: «L'ultima vittima del Predatore di Hollywood, l'attrice e modella Yvonne Renee Dillon…» Leggevo malamente, perché le mani mi tremavano. L'articolo diceva che la donna era viva. Grazie a Dio. Tornai immediatamente alla finestra e in meno di un minuto scesi per la scala esterna sul retro, la camicia sbottonata, le scarpe in mano. La mia automobile era parcheggiata accanto al marciapiede. Mi fermai, nascosto dai cespugli, cercando di controllare se ero sorvegliato. Tutto sembrava normale. Salii in macchina e mi allontanai. Per andare dove? Risalii Highland Avenue in direzione dell'autostrada per Hollywood. A un semaforo, guardai nello specchietto retrovisore e vidi una civetta della polizia fermarsi dietro di me. O gli sbirri non avevano il numero di targa, oppure erano distratti. Quando scattò il verde, accelerai lentamente, lottando contro la voglia incontenibile di schiacciare il pedale dell'acceleratore a tavoletta. Cosa che avrebbe sicuramente attirato su di me la loro attenzione, ed era meglio evitarlo. Raggiunta l'autostrada, decisi di andare a est verso El Monte. Avevo degli amici laggiù. La Hollywood Freeway diventò la San Bernardino. Accesi la radio. La notizia di apertura del notiziario riguardava la scoperta delle impronte del Predatore sui luoghi del suo ultimo crimine. Inoltre si informava che la polizia voleva parlare con un ex detenuto. Immaginate la mia sensazione di vuoto allo stomaco. Per lo meno non avevano menzionato il mio nome. Su Valley Boulevard, nei pressi di Five Points, presi una camera in un motel a un dollaro e cinquanta per notte, senza telefono né aria condizionata, poi mi feci a piedi il chilometro che mi separava dal posto in cui Jimmy D. viveva con la moglie, il bambino, e i parenti acquisiti, ivi compresa la sorella di sua moglie e i suoi due bambini. Il marito di quest'ultima era detenuto a San Quentin. Jimmy non era in casa. Sua moglie non sapeva bene dove fosse andato; sospettava che fosse andato al "barrio" con Japo, un chicano così chiamato per i suoi tratti vagamente asiatici. Conoscevo Japo dai tempi della casa di correzione per minori. Non parlai della mia situazione con la moglie di Jimmy; il timore che suo marito passasse dei guai l'avrebbe forse indotta a chiamare la polizia. - Gli darò un colpo di telefono, - dissi, prima di riprendere la strada di ritorno al motel, una vera scarpinata in quel pomeriggio di canicola estiva. A ogni passo sollevavo una nuvola di polvere secca, e pensando alla mia situazione, alternativamente provavo pietà di me e scoppiavo in una risata sonora per l'assurdità di tutta la faccenda. Più ci riflettevo, più mi sembrava improbabile venire accusato di essere l'autore di una serie di omicidi o uno stupratore. Ricordo anche di aver pensato che un giorno avrei scritto di questi avvenimenti così singolari. Non erano certo un soggetto proustiano, ma non c'è dubbio che erano avvincenti. Di ritorno su Valley Boulevard, chiamai Sandy da un posto telefonico pubblico in una stazione di servizio. Rispose con la sua voce melliflua di ragazza squillo: - È lei che paga, disse. - Sono io, - ribattei, supponendo legittimamente che riconoscesse la mia voce. La informai rapidamente della situazione. Quando ebbi finito, Sandy esclamò: - O mio Dio! È pazzesco! - Fammi un favore. Chiama Flip e cerca di capire cosa è successo. Non dirle che hai parlato con me. Dille che lo hai letto sul giornale. Ti richiamo tra mezz'ora. Quando la richiamai, Sandy aveva saputo tutta la storia. La mattina presto, quando Flip e Michael si erano risvegliati con i postumi della sbornia, lui aveva cominciato a picchiarla, perché lei era una puttana e lui era innamorato di lei. - Michael! Michael, dopo tutto quello che ho sopportato per proteggerti! - lei gli aveva gridato. Gli aveva mostrato la finestra rotta e gli aveva raccontato di essersi fatta violentare. Lui a quel punto aveva afferrato il telefono. E io adesso mi ritrovavo sospettato di essere uno stupratore e un omicida responsabile di tutta una serie di crimini. Per due giorni rimasi nascosto a El Monte, interrogandomi sul da farsi. In effetti ero meno preoccupato di una eventuale incriminazione per omicidio che della possibilità che la cosa giungesse alla conoscenza del mio responsabile della condizionale. Avevo un buon responsabile della condizionale (sarebbe cambiato entro breve tempo), ma una cosa del genere rischiava di sollevare un polverone. Dopo quell'unico titolo in prima pagina, i giornali non parlarono più del caso. Sandy mi convinse ad andare a parlare con un avvocatuccio, un losco figuro che era tra i suoi clienti «speciali». Lui chiamò gli investigatori della squadra omicidi. Mi ero preoccupato per niente. Il pomeriggio del primo giorno, la polizia già sapeva che si trattava di una montatura. Yvonne Renee Dillon era stata già arrestata più volte ai sensi di una legge sui tossicodipendenti. All'epoca essere semplicemente un drogato era un reato in California, una legge che la Corte Suprema della California avrebbe ben presto dichiarato incostituzionale. Flip era stata già arrestata anche per prostituzione. Inoltre aveva passato un periodo di detenzione a Camarillo. La polizia neppure chiese di parlare con me, e nessuno aveva segnalato nulla all'ufficio delle condizionali. E quindi questo dramma della disperazione era finito non con un'esplosione, ma gonfiandosi con un sibilo. Altre avventure nel mondo della malavita mi si presentarono nel corso dei sette o otto mesi successivi. Non ricordo esattamente la sequenza in cui si svolsero, e neppure in quale momento esatto avvennero in rapporto a oggi. Credo di ricordare che mi trovavo davanti al Broadway Department Store, all'incrocio tra Vine Street e Hollywood Boulevard, e guardavo parecchi televisori in vetrina, tutti sintonizzati sullo stesso notiziario, mentre in sottofondo pulsava il suono elettronico dello "Sputnik" dell'Unione Sovietica, il primo oggetto costruito dall'uomo per navigare nello spazio in orbita intorno alla Terra. Un giorno il mio amico Denis mi chiamò dicendomi che aveva bisogno di aiuto. - E porta una pistola, - soggiunse. Diversamente dalla maggioranza dei miei amici, l'avevo conosciuto dopo la mia uscita dal penitenziario. Era di origine greca. Era bello, nel senso classico. Un po' più basso del mio metro e ottanta, capelli scuri, naso aquilino, denti perfetti, e una carnagione leggermente olivastra. A Denver, dove suo padre era proprietario di un ristorante, la polizia lo aveva messo al bando. Gli avevano intimato di non rimettere più piede in quella città, altrimenti sarebbe finito seppellito o tra le quattro mura di una prigione o sotto terra, e in mancanza di prove per incriminarlo, gli sbirri avrebbero fatto di tutto per incastrarlo. Denis aveva seguito il consiglio di Horace Greely, «andare a Ovest», e qui si era stabilito come trafficante di droga, attività che seguitò ad esercitare per il resto dei suoi giorni, tranne nei periodi in cui fini in prigione. E così andai da lui, la calibro.38 nella tasca posteriore dei miei Levi's, il gonfiore nascosto dalla falda di una giacca sportiva in tweed antracite stile Ivy League, con una gran quantità di bottoni come tutti gli indumenti di questo tipo. Eccolo arrivare con la sua Ford Thunderbird due posti, rossa con una bordatura di bianco. Una vettura che cercava di parcheggiare gli impedì di raggiungere la corsia di destra. Mi accertai che la mia pistola fosse al suo posto. Non volevo che cadesse inavvertitamente sul marciapiede di Hollywood Boulevard alle otto di sera. Mi infilai tra i veicoli sulla carreggiata. Denis si allungò e aprì la portiera dalla parte del passeggero, e partimmo prima ancora che la chiudessi. - Che succede, fratello? Non vorrai mica coinvolgermi in un regolamento di conti, vero? - Non lo so. Bisogna andare a vedere. Prese a sud su Vine e a est su Fountain, passando dinanzi al Cedars of Lebanon, l'ospedale in cui ero nato. Parcheggiò su Fountain, e poi ci incamminammo per un vicolo prima di salire per una scala esterna che conduceva alla porta di un piccolo appartamento sopra un garage. La porta era coperta da una lastra metallica e la serratura era del tipo installato solitamente sulla porta posteriore delle rivendite di alcolici per difendersi dai rapinatori. Ci fece entrare un nero di bassa statura, età indefinita, espressione contratta, modi esageratamente femminili. Aveva tutto il lato sinistro della faccia vistosamente gonfio, la pelle scolorita. - Oh, amico, sono così contento di vederti. Quel fottuto negro, Pinky, - cominciò a dire, dopo di che tirò su col naso come sul punto di scoppiare in lacrime. - Ahh, amico, - lo interruppe Denis, - basta con queste stronzate, e dimmi esattamente quello che è successo. - Ne ha comprato un grammo, amico. Due ore dopo, è ritornato, in compagnia di altri sporchi negri figli di puttana, e ha detto che la roba non era buona, e rivoleva indietro la grana. Allora io gli ho detto, se è vero che era una schifezza, com'è, perdio, che te la sei sparata tutta? Ha detto che non gli andava di discutere… rivoleva i suoi soldi. Io gli ho detto di no, e lui ha incominciato a darmele. Mi ha puntato un coltello alla gola e mi ha detto che si prendeva tutto… i soldi… la polvere… tutto. - Che si è portato via? - Merda… tutto. Si è preso tutto. Denis scrollò il capo. - Cazzo se è dura farsi un po' di grana. Sai come trovarlo? - Non so dove abita, ma ha una ragazza, una bianca che lavora come cameriera in quel… albergo… il Roosevelt Hotel su Hollywood Boulevard. Una sera abbiamo dovuto aspettarla all'uscita dal lavoro, perché la ragazza gli passasse i soldi per pagarsi la dose. Scommetto che riesci a beccarlo tramite lei. - Sai come si chiama? - Credo che si chiami Elaine… una biondina con l'accento campagnolo. - Andiamo a controllare, - fece Denis. - Ehi, D., puoi fare qualcosa per me? Non m'è rimasto niente per domani mattina. Starò male come un cane… Denis tirò fuori dalla tasca un rotolo di banconote tanto grosso da soffocare un cavallo. Le carte di credito erano ancora nell'avvenire, e il liquido regnava ancora sovrano. Denis sfilò due biglietti da venti dollari e glieli allungò. - Lo sai dove rifornirti, no? - Devo scendere giù al ghetto. - Sempre meglio che stare male. Vedi di sgombrare da questo posto domattina presto. - Puoi anticiparmi un'oncia, che così posso tornare a galla? - Chiamami dopo che te ne sei andato da qui. Muoviamoci. Andammo al Roosevelt Hotel su Hollywood Boulevard, proprio di fronte al Chinese Theater, famoso per il suo marciapiede davanti all'ingresso con le impronte dei piedi e delle mani dei più grandi divi del cinema. Il locale a fianco del Roosevelt era stato la sede dei primi Oscar, ma nel corso dei decenni successivi, l'albergo aveva conosciuto il declino, e stessa sorte era toccata al locale. Denis mi precedeva quando attraversammo l'atrio d'ingresso in direzione del locale, la cui porta era aperta. Sulla soglia, si fermò, e io gli finii addosso. - Indietro, - ordinò, allontanandosi dall'entrata del locale. - Che c'è? - È lì, con lei. - Il tipo che cerchiamo? - Sì. Pinky. - Lo conosci? - Non proprio. L'ho visto che tornava da Dixie's, un giorno che facevo una consegna. - E lui ti conosce? - Non credo. - Ti riconoscerebbe? Scrollò il capo, ma in modo non troppo convinto. - Fammi andare a vedere, - dissi. - Ti aspetto fuori, davanti all'ingresso. Usci, ed io entrai nel bar. Era immerso nell'ombra e quasi deserto. Due uomini erano seduti a un tavolo; altri due, ciascuno sul suo sgabello, erano appoggiati al banco. Io mi sedetti a un tavolo vuoto vicino all'entrata, dicendomi che Denis si era sbagliato. Non c'era nessun nero, lì. La cameriera portò delle bevande ai due uomini al tavolo, poi venne verso di me. Sul suo cartellino di identità c'era scritto ELLIE. Mi bastava. - Portami un goccio di bourbon e mettimene un altro in una 7UP per mandarlo giù. Annuì, e si allontanò per passare l'ordine al barman. Poi si accostò al fianco di uno dei due uomini al banco mentre aspettava di essere servito. L'uomo seduto sullo sgabello le passò un braccio intorno alla vita, con aria possessiva. Mi alzai e mi avvicinai al banco per pagare la cameriera. - Tieni. Vado al bagno. Torno subito -. L'uomo sullo sgabello si voltò a guardarmi. La sua pelle era bianca almeno quanto la mia, e solo in America avrebbero potuto considerarlo uno di colore. Ma i suoi lineamenti, in particolare il naso largo e schiacciato, erano segni visibili che qualcuno dei suoi antenati aveva fatto il viaggio tra le Indie Occidentali e l'America. Il suo sguardo abbandonò la ragazza per posarsi su di me. Gli strizzai l'occhio, ma il suo viso restò freddo e impassibile. Uscii fuori, ma anziché attraversare l'atrio per raggiungere le toilette, presi il piccolo corridoio che conduceva alla porta su Hollywood Boulevard. Il marciapiedi brulicava di passanti; un autobus scaricava una frotta di turisti dinanzi al cinema sull'altro lato della strada, un punto di passaggio obbligato per chi visitava la città. Mi guardai intorno. Denis uscì da una porta. - È lui di sicuro -. Il marciapiede era stracolmo di gente, la strada ingombra di veicoli, e una vettura bianca e nera passò a velocità ridotta. - Qui non possiamo fare niente. Troppi testimoni. Aspetteremo che esca per vedere dove va. Magari torniamo più tardi. - Verso le sei e mezza del mattino -. Mi piaceva prendere di sorpresa qualcuno nelle prime ore del mattino. I coglioni si affacciavano sulla porta barcollando e stropicciandosi gli occhi. - Benedisse, Denis, e poi: - Là! Non muoverti! Aveva parlato a bassa voce, ma con tono deciso. Mi fermai. Una figura arrivò alle mie spalle e ci passò accanto. Profumo di colonia da uomo. Denis l'aveva visto arrivare. Mi fece un largo sorriso. - Capita a volte che anche un cane cieco abbia fortuna. Vieni. Pinky passò davanti all'albergo prima di svoltare a destra e costeggiare l'edificio sul lato est. Lo seguimmo da lontano, a una distanza sufficiente perché non si insospettisse guardandosi alle spalle. Facevo la mia parte, in quella spedizione, ma il mio cuore era altrove. Il problema non era mio; dunque non ero mosso dalla rabbia. Pinky, inoltre, era massiccio, quasi un metro e novanta, forse una novantina di chili, e due pugni con un bell'allungo. Senza dubbio Denis e io, in tandem, gli avremmo spaccato il muso in tempi brevi, a Pinky, ma era anche probabile che lui fosse più solido "mano a mano" di Denis o di me. Per farla breve, penso che la mia adrenalina non pompasse ancora al ritmo giusto. Mi aspettavo che Pinky proseguisse fino al parcheggio dietro l'albergo. Al contrario, si infilò tra le vetture parcheggiate lungo il marciapiede prima di attraversare la strada in diagonale e imboccare un vicolo parallelo al Boulevard. Denis mi precedeva. Mi aspettavo che si fermasse per permettermi di raggiungerlo. Preferì affrettare il passo e prendere per il vicolo. Quando io a mia volta attraversai, Denis gridò: Ehi, Pinky! Aspetta! Pinky si voltò e si fermò. Anche se il suo viso restava nell'ombra, il suo corpo era pronto a partire a passo di corsa. Prima che riuscisse a decidersi, Denis colmò la distanza che li separava. Mi fermai a qualche metro da loro. - Sì, che c'è? - domandò Pinky. - Non vado in cerca di guai… ma tu mi devi un po' di grana. - Grana? Chi cazzo sei, tu? - Sono il figlio di puttana che era proprietario della merda che hai preso al piccolo Dixie. - Non ti conosco… e non ho un cazzo di niente da dirti. Il disprezzo aggressivo di Pinky fece salire la mia rabbia. Chi pensava di prendere per il culo? Feci qualche passo avanti. - Il tuo comportamento, amico… non va niente bene -. Dovetti riprendere fiato a metà frase. La mia aggressività giocava dei brutti scherzi al mio modo di parlare, al punto che quasi balbettavo, un difetto che ho perso andando avanti con gli anni, quando sono diventato meno soggetto a perdere le staffe. Mi spostai, in modo da incastrare Pinky tra Denis e me. Pinky girò la testa per scrutare l'oscurità del vicolo. Guardai anch'io nella stessa direzione. Un figura era scesa da un'automobile parcheggiata a trenta metri di distanza e avanzava verso di noi a passo veloce. - Che succede amico? - voleva sapere il nuovo arrivato. Ero io quello che gli era più vicino. Aveva la stazza di un giocatore di football, e avrà pesato per lo meno una quarantina di chili più di me. Con la mano sinistra estrassi lentamente la pistola dalla tasca posteriore dei pantaloni, servendomi del mio corpo come schermo per evitare che i due neri vedessero l'arma. - Questi due bifolchi figli di puttana pensano di mettermi paura… Il grosso nero mi saltò addosso e mi piantò il dito nel petto. Era visibilmente più vecchio, il cranio lucente e calvo, tranne qualche ciuffo di capelli grigi intorno alle orecchie. Ciò nonostante, mi fece l'impressione di un orso grigio. Il vicolo era immerso nell'oscurità, e nessuno dei due notò la piccola pistola nera che tenevo in mano. - Piccolo bianco figlio di puttana, - disse. Non risposi nulla. Non era il momento di perdermi in chiacchiere. Sollevai la pistola, la mano appoggiata al corpo, e tirai all'altezza del mio stomaco. Sentii il calore della canna (e in seguito trovai delle bruciature sulla camicia) quando l'arma sputò la fiamma. Mirai deliberatamente al suolo (non avevo intenzione di ucciderlo) e la pallottola lo colpì appena sopra il ginocchio. Attraversò la carne e fece sprizzare delle scintille sul cemento. Il tizio urlò di dolore e si afferrò la gamba prima di cadere in ginocchio. Feci qualche passo indietro. Volevo guadagnare uno spazio libero per sparargli bene, in caso gli fosse venuta voglia di saltarmi addosso. Cosa che non fece. Mi voltai verso Pinky. - Ne vuoi un po' anche tu? - Agitava le mani e scuoteva la testa, mentre batteva in ritirata. - Voglio la mia grana, coglione, - disse Denis. Quanto a me, volevo una sola cosa: andarmene di lì il prima possibile. Eravamo a un isolato da Hollywood Boulevard. Al mio orecchio, il colpo di arma da fuoco era risuonato come un lanciarazzi. - Forza… vieni, - dissi. - Togliamoci di qui. Denis e io girammo sui tacchi e ci mettemmo a correre. Quando arrivammo all'automobile, lui attaccò a ridere. - Credevo che eravamo finiti in un guaio grosso, con quei bellimbusti. Mi ero dimenticato che avevi la pistola. Denis non ricuperò mai i suoi soldi. Pinky lasciò il quartiere. Dieci anni dopo, nel 1967, ero a Folsom, e il grosso nero arrivò sull'autobus dell'Amministrazione Penitenziaria. Lo riconobbi immediatamente, ed ebbi la conferma che si trattava di lui quando lo vidi zoppicare. Mentre era ancora incatenato, in fila insieme ai nuovi arrivati, sul quinto ballatoio dell'Edificio N. 2, raggiunsi furtivamente la sua cella per parlargli. Gli confessai chi ero, e che non volevo guai… ma che avrei cercato di ucciderlo se gli fosse venuta l'idea di vendicarsi. Disse che era tutto dimenticato; tra sette mesi sarebbe uscito in libertà vigilata, e ad ogni modo Pinky era un informatore della polizia. Ed era sbagliato stare dalla parte di un informatore, qualunque fosse il colore della sua pelle. Quanto disse mi fece sorridere; era l'atteggiamento che tutti i fuorilegge dovrebbero avere. Era trascorso un anno senza che fossi arrestato. Bisogna dire che per nove mesi non avevo fatto niente di illegale, tranne fumare un po' di erba. Non avvertivo che la terra cominciava a tremare sotto i miei piedi. La vita era troppo eccitante. I venti contrari cominciarono ad alzarsi una certa sera, una di quelle sere tipiche di L. A., che è fresco per quanto sia stato caldo durante la giornata, in cui andai a trovare Joe Morgan al Club El Sereno su Huntington Drive. Un bar vecchio stile con grossi separé in cuoio rosso, pareti rivestite di legno, e luci velate. Era un punto di ritrovo dei grossi trafficanti di droga chicanos dell'epoca. Quella sera la sala era piena di diversi tipi di Angelenos, tutti attirati dal trio di Art Pepper. Pepper era forse il miglior sax alto bianco dell'epoca. Come il suo idolo, Charlie Parker, Pepper amava la droga, in tutte le sue forme: polvere, fumo, siringa. Amava l'eroina. Nel gergo di certa malavita, era un «tossico fino alla spasimo». Ma una cosa era certa: il sassofono lo sapeva suonare. Il bar era affollato e tranquillo. Pepper interpretava "Body and Soul". Faceva uscire l'anima del sassofono, e il pubblico era rapito. Non del tutto, naturalmente. Il proprietario era sul fondo, parlava al telefono, e nel separé più lontano, due coppie ridevano. Non vedendo Joe, trovai un posto libero al banco, e quando arrivò il barman e si sporse verso di me, io feci altrettanto e ordinai un bicchierino di Jack Daniel's e una mistura di bourbon e 7UP. Mandai giù il bicchierino di whisky e sorseggiai la seconda bevanda. All'epoca, era un buon modo di bere. Conoscevo parecchia gente nella sala. La cameriera era una ragazza euroasiatica molto attraente, dalla bellezza decisamente esotica. Era anche spiritosa e al passo coi tempi. Ero molto interessato a lei, finché non scoprii che aveva due bambini. A questo non ero ancora pronto, e allora ciò che era stato un desiderio sensuale insoddisfatto, durato per alcuni giorni, si era trasformato in semplici battute piene di sottintesi maliziosi quando portava le consumazioni. Jimmy D. era lì, in compagnia della moglie. Lei doveva avergli puntato una pistola alla gola, o almeno aver fatto il diavolo a quattro, per farlo decidere a portarla con sé. Jimmy D. era uno che viaggiava da solo: amava l'avventura e la passera sempre nuova. Potevo capirlo. Ahimè, aveva due figli molto piccoli. Si lamentava spesso che la vita gli pesava tonnellate, -…per non parlare poi di mia moglie… - Scrollava il capo. La sofferenza gli si leggeva in faccia. A un'estremità del bar stazionavano Billy il Buttafuori e Al il Russo. Erano entrambi sulla cinquantina, e da vent'anni non finivano in prigione. Erano specializzati in casseforti, all'epoca in cui lo scassinatore era il più rispettato tra i ladri. Era praticamente impossibile provare la colpevolezza di uno scassinatore, tranne nel caso in cui fosse colto in flagranza di reato, cosa che accadeva raramente. Al il Russo aveva al suo attivo soltanto un periodo di incarcerazione, negli anni trenta. Abitava in un albergo di terz'ordine, proprio di fronte a un piccolo supermercato a Modesto. In una notte tra il sabato sera e la domenica mattina, era penetrato nel negozio, aveva aperto la cassaforte, e si era portato via quarantamila dollari, un bottino fantastico di quei tempi. Era tornato in albergo, il tempo di cambiarsi e indossare un vestito elegante. Uscendo dall'ascensore, era incappato in due investigatori nell'atrio: stavano indagando su un trafficante di droga la cui presenza era stata segnalata nell'albergo. I due sbirri avevano notato Al il Russo nei suoi abiti costosi, lo avevano fermato, e gli avevano chiesto cosa trasportava nella valigia. Erano alla ricerca di stupefacenti, ma furono soddisfatti di ciò che trovarono. Al scontò una pena di nove anni per «rapina a mezzo di esplosivi», una categoria speciale del furto con scasso. Era stata ritenuta pertinente ai termini di legge la torcia ad acetilene in suo possesso. Da quindici anni non lo avevano più incastrato. Billy il Buttafuori aveva scontato una pena nella prigione della contea per un illecito di minore gravità: possesso di attrezzi atti allo scasso. Sentivo il mio corpo invaso dal calore dei miei due bicchieri di alcol. La piacevole sensazione mi indusse a ordinarne due altri, uno che mandai giù tutto d'un fiato, l'altro che sorseggiai poco alla volta, mentre tenevo d'occhio la porta sul fondo ogni qualvolta si apriva. Joe non si era ancora visto, quando il trio di Art Pepper concluse la prima parte dell'esibizione, e i musicisti uscirono nell'area di parcheggio per fumarsi una sigaretta o, più verosimilmente, per concedersi qualche tiro di spinello. Aspettavo da più di un'ora, e se non si fosse trattato di Joe Morgan, me ne sarei già andato da quel posto dopo trenta minuti. Avevo grande rispetto per lui. Pepper era a metà della sua interpretazione di "When Sunny Gets Blue", nella seconda parte della sua esibizione, quando la cameriera venne al banco, e mi toccò il braccio indicandomi il proprietario del locale sul fondo. Aveva un telefono in mano, e quando vide che lo guardavo, lo allungò nella mia direzione. Qualcuno voleva parlarmi. Andai a vedere di chi si trattava. Era una voce femminile. - Lei è Eddie B.? - Non lo so. E lei chi è? - Big Joe mi ha detto di chiamarla. - Ah. Che succede? - Sono venuti per portarlo via. - Ah… chi… chi è venuto? - Quelli dell'F.b.i. Non hanno voluto spiegarmi il motivo. Mentre lo portavano via, Joe mi ha detto «Chiama Eddi B. al club e avvisalo». È quello che ho fatto. - Grazie -. Riappesi. I federali. Non c'entrava niente con i movimenti di droga controllati da Joe. J. Edgar Hoover non consentiva che la F.b.i. procedesse agli arresti riguardanti il traffico di stupefacenti: le tentazioni di lasciarsi corrompere erano troppo grandi. Sarebbero passati parecchi anni prima che rivedessi Joe. In un primo tempo fu incriminato per rapina a mano armata a una banca, ma il governo non lo rinviò a giudizio. Mancavano le prove. Allora l'Amministrazione Penitenziaria lo rispedì in prigione per violazione della condizionale. Aveva varcato i confini dello Stato della California; gli sbirri erano in possesso della prova documentata, nero su bianco, che aveva noleggiato un'automobile per raggiungere Las Vegas. Ma questi sono avvenimenti che avrei appreso in seguito, nel corso dei mesi successivi. Quella sera seppi soltanto che Joe si era fatto pizzicare. Mezzo ubriaco in seguito ai sei bicchieri che avevo mandato giù in due ore, uscii diretto alla mia automobile, una Jaguar X.K.120 del 1955, con un V8 Red Ram di Dodge sotto il cofano, al posto del motore originario Jaguar a sei cilindri. Le Jags di quel modello erano lunghe, affusolate, e molto belle. Ahimè, la mia non aveva ancora tre anni e, si sa, dava spesso problemi. Come quella sera. L'avviamento funzionò, ma il motore si rifiutò di partire. Aprii il cofano e armeggiai con i fili, pur non sapendo assolutamente cosa cercare. Non rintracciai nessun guasto riconoscibile. Il posto di telefono pubblico si trovava in un piccolo corridoio che conduceva alle toilette. Stavo per chiamare il carro attrezzi, quando passò Billy il Buttafuori che andava a fare un goccio d'acqua. Uscito dal bagno, si fermò e aspettò che riappendessi. - Hai bisogno di un passaggio? - domandò. - Sì… ma lo sai dove abito? - Non lontano da Hollywood, no? - Vicino a Wilshire e LaBrea. - Andiamo da quelle parti… quindi se non hai voglia di pagarti il taxi… Il prezzo della corsa fino alla mia abitazione costava un bel po' di soldi. Economicamente parlando, i taxi non sono un mezzo di cui ci si può liberamente servire nella California del Sud. Col tram, ci si impiegavano due ore, prima fino al centro della città; poi dovevo prendere un autobus. Ero ben felice di farmi riaccompagnare a casa. Mentre attraversavamo la città, mi informarono che stavano andando a Beverly Hills, per un sopralluogo in vista di un colpo. - Non se ne fa niente stasera, - disse Al. - Andiamo giusto a controllare un paio di cose. A Hollywood, ci fermammo al Tiny Naylor's, un grande ristorante drive–in tutto illuminato, all'angolo di Sunset e LaBrea, dove conoscevo una delle cameriere. Si chiamava Betty. Staccava dal lavoro due ore dopo, all'una del mattino, e un amico musicista le aveva parlato di una jam–session di notte in un locale tra Forty–third e Central Avenue. Volevo accompagnarla? Potevamo prendere la sua automobile. Decisi che sarei tornato a prenderla due ore dopo. Avrei accompagnato Al il Russo e Billy il Buttafuori - non avrebbero fatto nulla, per quella sera - e mi avrebbero lasciato lì sulla via del ritorno. Se fossi arrivato un po' in anticipo, avrei sempre potuto sedermi all'interno e mangiare un pezzo di torta. Il Santa Monica Boulevard era meno allegro di oggi, ma c'era parecchia gente affollata sui marciapiedi davanti ai locali notturni. Beverly Hills era un'altra cosa. L'orizzonte era basso, e rari erano gli edifici che superavano i tre piani, ma vi regnava un'aria di ricchezza un po' desueta che promanava dall'architettura tipica del Sudovest o mediterranea. I ristoranti erano rari, i locali notturni inesistenti. Billy era al volante. Svoltò in un viale dietro Beverly Drive. Percorso metà dell'isolato, trovò un posto per parcheggiare e si fermò. Billy e Al scesero e io restai in macchina mentre loro discutevano. Il fascio di luce di una torcia illuminò l'interno della vettura, delineando la sagoma dei due uomini. Mi tirai su sul sedile e mi voltai a guardare. Un poliziotto. Oh merda! Poi la stretta di paura scomparve. Non stavamo facendo nulla di male. - Voltatevi. Avvicinatevi, - ordinò il poliziotto. Mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi. Qualunque cosa fosse successa, avrei sempre potuto dire che ero ubriaco sul sedile posteriore. La luce della torcia picchiettò sul vetro laterale; il fascio luminoso mi colpì dritto in faccia. Vedevo un chiarore violento attraverso le palpebre chiuse. Aprii un occhio. - Che… che succede? - Scenda dalla macchina. Scesi. - Qual è il problema, agente? - Laggiù. Vediamo un po' i documenti. Mostrammo i documenti di identità e Billy volle sapere il motivo del controllo. Apparentemente, il poliziotto faceva la sua ronda a piedi e ci aveva visti imboccare nella direzione vietata il viale a senso unico. - Che ci fate da queste parti? - Un goccio d'acqua, - rispose Billy. - Non lo so, - risposi a mia volta. - Dormivo sul sedile dietro. - Venite a fare due passi con me, - disse il poliziotto. Lasciammo il viale per imboccare una via. Il mio istinto mi suggeriva di correre. Sebbene fossi conosciuto per la mia lentezza, e da sempre, il poliziotto davanti a me aveva una pancia dalla quale si capiva bene che neanche lui doveva essere un razzo. Se me la fossi data a gambe, si sarebbe ritrovato di fronte a un dilemma: se si fosse messo al mio inseguimento, gli altri due sarebbero scappati. Ciò che mi trattenne dal battermela a gambe levate fu il fatto che non avevo fatto niente di male. L'agente aprì lo sportello di un posto telefonico di soccorso e prese il ricevitore. Aspettammo l'arrivo di un sergente in automobile che ci riportò nel viale. Per strada, il sergente ci domandò che cosa stavamo architettando nel viale. Gli risposi che mi ero addormentato sul sedile posteriore. Gli altri ribadirono che erano lì per urinare. Il sergente illuminò l'interno della vettura con la torcia. - Aprite il portabagagli. Billy aprì con la chiave. Il sergente ispezionò il vano con la torcia: c'era una lampada acetilene portatile munita di due cinghie, in modo che si poteva reggere sulla schiena. All'interno di una borsa c'erano un trapano con una punta, una sega circolare, un piede di porco, parecchi scalpelli affilati di recente, una piccola mazza e diversi altri attrezzi. - Siete in arresto, - disse sfoderando l'arma. Era troppo tardi per mettersi a correre. Dal momento in cui fummo schedati per essere incarcerati, cominciai a reclamare la telefonata cui avevo diritto. L'agente addetto all'accettazione mi rispose che dovevo aspettare il nulla osta degli investigatori. - No, non aspetto. Ho diritto a fare una telefonata. - Tu hai diritto a un calcio in culo. La reazione dell'agente mi ridusse temporaneamente al silenzio, ma dal momento in cui mi ritrovai in cella, incominciai a urlare:- Voglio fare una telefonata! - Quelli che passavano davanti alla cella o si trovavano a portata d'orecchio mi sentivano reclamare forsennatamente la mia telefonata. Dovevo essere rimesso in libertà sotto cauzione prima di lunedì mattina, quando il mio responsabile della condizionale sarebbe venuto a sapere che ero finito dentro. Automaticamente, avrebbe emesso un mandato di detenzione a mio nome. Potevo sperare di essere rilasciato al più presto dopo la notifica della mia incriminazione, qualunque fosse. Se fossi stato riconosciuto colpevole, fosse pure di un reato minore, è possibile che mi avrebbero rispedito a San Quentin per violazione della libertà vigilata, e la commissione delle condizionali avrebbe potuto rivedere la durata della mia pena affibbiandomi il massimo. Il reato minore costituiva una violazione della condizionale nella misura in cui mi ero ritrovato in compagnia di noti criminali e persone di pessima reputazione. Dovevo fare quella telefonata. Ero stato arrestato perché sospettato di furto con scasso. Un avvocato avrebbe potuto chiedere un'udienza dal giudice e presentare una richiesta di "habeas corpus", e il giudice avrebbe potuto emettere un ordine di comparizione davanti al tribunale, fissando altresì l'ammontare della cauzione. Un garante della libertà vigilata avrebbe preso il dieci per cento come suo onorario, chiedendo inoltre la garanzia di un'ipoteca su un bene qualsiasi, una casa ad esempio, per la totalità della somma anticipata. Lunedì il capo di imputazione sarebbe stato ascritto per un reato minore e la cauzione richiesta sarebbe stata inferiore, ma io non potevo permettermi di aspettare lunedì. - Mia madre ha trenta milioni di dollari, e io voglio fare la mia telefonata! - gridai tutta la notte. Gli investigatori arrivarono il sabato mattina, il loro giorno libero. Pregustavano il piacere di sbattere i due vecchi scassinatori troppo furbi in galera. Mi convocarono per primo, ben sapendo che la mia storia, ovvero che mi ero addormentato sul sedile posteriore, era soltanto una balla. - Sei in libertà vigilata, Bunker. Fai presto a tornare in prigione, - disse uno di loro schioccando le dita. - Allora? Lo sai che questi due avevano in mente di rapinare uno di quei supermercati laggiù… Tu ci aiuti, e noi aiuteremo te. - Mi piacerebbe… ma non volete bugie, vero? Si scambiarono uno sguardo prima di tornare a guardare dalla mia parte con espressione ostile. - Torna in cella. Ne parleremo più tardi. Mentre mi riaccompagnavano nella sezione delle detenzioni provvisorie, dove un agente di custodia stava per farmi entrare, chiesi loro davanti a lui: - Dite a questo tizio di farmi fare una telefonata. - Fagli fare la sua telefonata, - consentì l'investigatore. L'agente di custodia annuì aprendo il cancello che poi richiuse con un colpo alle mie spalle. Venti minuti più tardi mi fecero uscire per condurmi al posto telefonico a pagamento. - Avanti. - Mi servono dieci centesimi. - Non hai dieci centesimi? - Amico, siete voi che mi avete preso tutti i soldi prima di rinchiudermi in cella. - Io non ti ho rinchiuso in cella. Io non c'ero. - Come faccio a fare la mia telefonata? - Senza i dieci centesimi, non lo so. La mia faccia era in fiamme, quando mi rimise in cella. Oscillavo su un pendolo emotivo tra indignazione furiosa e fitte di disperazione. Un'ora più tardi un vecchio chicano, detenuto di fiducia in tenuta cachi con la scritta prigione della contea stampata su entrambe le ginocchia, la tasca sul petto e il dietro della camicia, passò sul ballatoio su cui si aprivano le celle. Spingeva una scopa. - Ehi, amico, "ese"! Il vecchio detenuto si guardò intorno per accertarsi di non essere visto da nessuna guardia. - Si? - Ehi, amico, mi servono dieci centesimi per fare una telefonata. Fece una smorfia di dolore, lacerato tra la paura delle guardie e il desiderio di aiutare un altro prigioniero. - Per favore, amico. Quando arrivò all'altezza della mia cella, depose un quarto di dollaro sulle sbarre e proseguì il suo cammino. - Guardia! Guardia! Mia madre ha trenta milioni di dollari e io voglio fare una telefonata! Sottolineai le mie urla scuotendo il cancello con tutta la forza che avevo in corpo. Sollevai un bel fracasso. - Falla finita, cazzo, signor figlio di puttana da trenta milioni di dollari! - Vai a farti fottere, insieme a tua madre. Agente! Guardia! Voglio fare una telefonata! Il sabato sera gli investigatori cominciarono a farci uscire all'ora dell'appello. Era anche l'ora del cambio del turno di servizio degli agenti di sorveglianza. Si ritrovavano nella sala delle adunanze. Dopo il controllo delle presenze e l'assegnazione delle vetture, venivano informati sui reati commessi di recente e su quanto erano tenuti a sapere. Gli investigatori della Sezione Furti e Rapine ci scortarono al pianterreno, facendoci marciare in fila, e poi ci obbligarono a sfilare davanti al gruppo degli agenti del turno di notte annunciando i nostri pedegree: -…Due dei migliori scassinatori della California… e questo qui ha l'aria di un pivello, ma non lasciatevi incantare. Questo, - proseguì agitando parecchi fogli di carta gialla, - è il suo fascicolo. Ci fecero nuovamente uscire dalle celle quando arrivarono quelli del turno di giorno. Sotto la vampa delle luci, dissi a voce alta: - Ho il diritto di fare una telefonata o no? - Non te l'hanno ancora concesso? - No. Al nostro ritorno in cella, una nuova guardia mi condusse un'altra volta al posto di telefono a pagamento. - Avanti, - disse. Mi avvicinai all'apparecchio e infilai il quarto di dollaro nella fessura. Osservai la guardia: vidi la sorpresa illuminare la sua faccia come un neon. Composi il numero personale di Louise, quello della sua camera. - Pronto? - Era la sua voce. - Pronto, mamma, sono io. Ho bisogno d'aiuto… - Le spiegai ciò che era successo e in quale situazione mi trovavo. Non potevo chiamare nessun altro. La istruii sul da farsi, e le comunicai anche il nome di un avvocato senza scrupoli che avrebbe potuto occuparsi della faccenda. Bisognò attendere fino alla domenica sera per ottenere il mandato e inviare la cauzione. Mentre mi vedevo con il garante della cauzione, anche Billy il Buttafuori era uscito e discuteva con il suo avvocato. Non aveva intenzione di perdere tempo con un mandato del giudice. L'indomani lui e Al sarebbero stati incriminati di un reato minore e l'ammontare della loro cauzione sarebbe stato commisurato alla gravità del capo di imputazione. Vale a dire circa un quinto della cauzione per il reato grave che io avevo dovuto inviare quel giorno. Billy non aveva il problema del responsabile della condizionale. Scoppiò a ridere, scoprendo i suoi denti rovinati, e mi informò che gli investigatori erano furiosi. Avevano pensato di poter far corrispondere gli attrezzi trovati nell'automobile con le tracce rinvenute su parecchie casseforti scassinate. Ahimè, gli attrezzi erano stati molati e affilati da poco. Erano così puliti, che non avevano rivelato neppure impronte digitali. - Come diavolo potevano essere finiti in un portabagagli, senza essere stati nemmeno toccati da mano umana? Uscii nella notte di Beverly Hills, nel fruscio delle palme agitate dal vento caldo del deserto. Louise era lì ad aspettarmi. Fui sorpreso di trovarla. Mi accompagnò nel mio appartamento all'angolo tra Ninth e Detroit. Le riferii esattamente quanto era successo, e ai miei occhi ero l'innocenza in persona. In effetti ero l'ubriaco sul sedile posteriore. Che mi credesse o meno, tanto la sua voce quanto il suo atteggiamento rivelarono chiaramente che era delusa, in parte per il guaio in cui mi ero cacciato, in parte anche perché avevo praticamente smesso di andare a trovarla. - Sei andato a trovare Marion, la scorsa settimana. Perché non sei venuto anche da me? - Era vero. Un pomeriggio mi ero fermato a casa di Marion Davies e avevo bevuto un gin tonic in sua compagnia. Marion beveva parecchio gin. L'ordine di "habeas corpus" scadeva dopo dieci giorni. Dovevo presentarmi davanti al Tribunale Municipale di Beverly Hills alle dieci del mattino col mio avvocato. Annotai la data sul calendario e dimenticai la faccenda. Avevo altro per la testa. Potevo tirare per le lunghe questa pastoia legale, magari fino alla scadenza della mia libertà vigilata. A quel punto, una condanna per un reato minore non avrebbe avuto conseguenze rilevanti. Avrei scontato volentieri sei mesi di prigione, se avessi potuto sbarazzarmi del cappio al collo della condizionale. Come previsto, tutto ciò di cui potevano accusarmi si limitò a una serie di reati minori. Anziché difenderci dall'accusa, chiedemmo il rinvio di un mese per studiare i processi verbali dell'arresto e dell'inchiesta. Il mio avvocato, un vecchio che insegnava diritto criminale e conosceva il giudice, ma non era più tanto allenato alle battaglie legali e le dispute processuali, riuscì a ottenere un rinvio di cinque settimane per esaminare i processi verbali. Il pubblico ministero fece obiezione: era giovane e combattivo. Il giudice lo ignorò, fissando la data dell'udienza preliminare cinque settimane dopo, esattamente un lunedì, alle dieci del mattino. Ci saremmo probabilmente presentati al procedimento con una dichiarazione di «non colpevolezza», e ottenuto che la data del processo fosse fissata a novanta giorni. Anche se una giuria mi avesse riconosciuto colpevole, durante la procedura d'appello per un reato minore, l'imputato aveva comunque diritto incondizionato alla libertà su cauzione. La procedura d'appello sarebbe durata a dir poco diciotto mesi. In altri termini, male che andasse, avrei dovuto scegliere tra fuggire dal Paese o andarmene in prigione per qualche mese, e questo non prima che fossero trascorsi due anni. Era un'eternità, in rapporto al ritmo con cui procedeva la mia vita. Ci vorrebbe troppo tempo per raccontare tutte le mie avventure dei ventitre anni. Avevo letto i due libri di Aldous Huxley, "Le porte della percezione" e "Il cielo e l'inferno", e all'epoca in cui una rivista pubblicò un articolo sui funghi magici messicani, mi capitò di ritrovarmi con novemila dollari in tasca e un compagno di buona volontà qual era Billy D., il fratello di Jimmy D. Avevamo preso la vecchia Route 66 per attraversare l'Arizona e il Nuovo Messico, prima di piegare a sud e varcare la frontiera a El Paso e Juarez. Viaggiammo in territorio messicano e per due volte fummo fermati da dei soldati che ci domandarono i nostri visti. Pagammo cinquanta dollari e proseguimmo per la nostra strada. Comprammo qualche fungo da un indiano. Sballo strano. Tre settimane dopo eravamo di ritorno a Los Angeles. All'epoca scoprii anche Las Vegas. Fu Sandy a portarmi lì la prima volta, ma in seguito ci andai per due o tre giorni quasi per capriccio. Adoravo il gioco d'azzardo. No, non esattamente il gioco d'azzardo: piuttosto mi piaceva giocare a poker. Per quanto i casinò dell'epoca davano l'impressione di essere il non plus ultra in termini di ricchezza e di splendore, erano praticamente insignificanti paragonati agli enormi palazzi dedicati al gioco di oggi. Mi piaceva attraversare la sala del casinò e sentire il capo del tavolo dirmi: Tavolo aperto, Mister Bunker… - Avevo ventitre anni; la cosa mi faceva sentire un pezzo grosso. Accadde una cosa buffa. Come ho detto, avevo una Jaguar sportiva. La mia assicurazione era stata annullata, e quindi giravo con un paraurti sfondato e qualche altro piccolo bozzo e graffio; inoltre, dal punto di vista meccanico, questa automobile era solo fonte di seccature. Quasi per scherzo, dissi a un tizio, un giovanotto, che gli avrei dato due scatole di tabacco piene d'erba se fosse riuscito a trovarmi una vettura che somigliasse alla mia. Dal concessionario di automobili sportive dove svolgevo il lavoro che mi serviva da copertura avevo imparato che sulle Jaguar il numero di serie si trovava su una targhetta avvitata al tramezzo che separava il vano del motore dall'abitacolo. Ciò che era avvitato poteva essere svitato e riavvitato altrove, per esempio su un'automobile migliore. La domenica mattina successiva mi svegliai da Flip, nel suo appartamento nei pressi della Paramount, e per un motivo che non ricordo, chiamai il vicino che abitava nell'appartamento al pianterreno. - Quel ragazzo ha fatto un baccano del diavolo, quando ha riportato la sua automobile qui, ieri notte, - si lamentò il vicino di casa. La mia automobile! A casa! - Aspetti un attimo, - dissi. Andai alla finestra e guardai giù in strada. Era lì, la mia automobile. Quella che il ragazzo aveva portato fin lì non era la mia. Scendemmo a dare un'occhiata. Era una copia perfetta, comprese le gonne montate sulle ruote posteriori. Era in perfetto stato, un gioiello. Il mio problema era sbarazzarmi della vecchia. Con Flip a rimorchio, partii in cerca d'aiuto. Volevo Jimmy D., che era inserito nel commercio dei rottami, e Jack K., che era addetto a certe macchine e poteva avere accesso a un cannello per tagliare nell'officina meccanica del padre. Mi avrebbe aiutato a demolire la Jaguar. La carrozzeria era in alluminio; Jimmy l'avrebbe presa per il suo traffico di rottami. Jack lavorava nel campo dei motori; poteva prendersi il motore a sei cilindri della Jaguar, che era già una leggenda. Il motore della Jag era sempre perfetto; era tutto il resto, in particolare il sistema elettrico, che lo faceva deteriorare in fretta col passare degli anni. Impossibile sapere quanto valgono oggi; dovrà passare qualche anno. Ma si deprezzano rapidamente. La giornata era calda, e l'asfalto dei parcheggi era morbido. Trovai Jimmy e Jack che uscivano insieme dalla penombra fresca di un bar. Partirono subito per la caccia. Jack andò a cercare il cannello acetilenico. Avremmo fatto a pezzi la Jag dal suocero di Jimmy, che conoscevo dai tempi in cui ero stato riacciuffato, addormentato nel suo garage, dopo un'evasione dal carcere minorile. All'epoca, la sua figlia più grande era la mia amichetta. Adesso era sposata con uno che era in prigione, mio compagno in gioventù. La seconda figlia era sposata con Jimmy, il quale detestava il matrimonio, ma aveva due figli che adorava. Provava una repulsione fisica per ogni forma di routine ed era psicologicamente incapace di svolgere un lavoro con un orario. Gli capitava di restare in piedi, a fare baldoria, fino alle sei e mezzo del mattino, e allora, come poteva presentarsi al lavoro alle otto? Certo, fare a pezzi un'automobile una domenica pomeriggio era un altro paio di maniche. La casa col garage era a El Monte. Il cortile sul retro era tutto in lunghezza, cosicché quanto facevamo nel garage non avrebbe dovuto disturbare il barbecue familiare. Avremmo sezionato la scocca, tagliandola in due pezzi. Mentre Jack metteva gli occhiali di protezione e maneggiava il cannello, Jimmy usava i suoi muscoli impressionanti per forzare e aprire la lamiera con una sbarra. Sempre più numerosi erano i membri della famiglia e gli amici che passavano accanto al garage per raggiungere il barbecue in fondo al giardino. Tutto sarebbe andato bene, se il cannello non avesse dato fuoco all'isolante di gomma, e quest'ultimo non avesse preso a bruciare in men che non si dica, senza peraltro fare la fiamma, al punto che grosse volute di fumo si riversarono fuori di una finestra rotta in fondo al garage e invasero il cortile. Acre e nero, il fumo riempì anche il garage. Fummo costretti a sollevare la porta del garage per dare aria. E la corrente d'aria spinse più fumo ancora attraverso il vetro rotto della finestra che dava sul cortile, ormai pieno di italiani che tossivano in preda al soffocamento. Flip, in pantaloncini bianchi, camicetta bianca, e fascia bianca intorno al capo (lo stile di Lana Turner in "Il postino suona sempre due volte"), si era messa all'ingresso del garage e piangeva dal ridere. Ben presto scoppiò il litigio: Jimmy avrebbe preso la carrozzeria in alluminio e Jack il motore, ma non era stato considerato il problema di chi avrebbe preso il telaio. Osservai che prima era meglio finire la demolizione, e poi avremmo deciso. Quando la carrozzeria fu tutta rimossa, non restarono che il telaio, quattro ruote, e due sedili avvolgenti. Io presi le targhe, la targhetta del numero di serie che avevamo svitato dal vano motore, le chiavi dell'automobile, e lasciai il posto insieme a Flip. Quaranta minuti più tardi avvitai la targa col numero di identificazione del veicolo, la placchetta col numero del motore e il resto sulla decappottabile nera intatta, come nuova di zecca, X.K.140. La preferivo alla 120, perché aveva i finestrini che si alzavano e si abbassavano con una manovella. La 120 aveva dei pannelli laterali scorrevoli che si aprivano. Perché tutto sembrasse normale, inserii la chiave della vecchia Jag nell'accensione dell'automobile rubata. Con una piccola manomissione, la chiave girò e io premetti il pulsante dell'avviamento che era indipendente dalla chiave. Il motore partì con un ruggito, questo rumore ipnotico per un fanatico di vetture sportive, categoria di cui facevo parte. Pochi giorni più tardi scoprii che Jimmy e Jack si erano messi alla guida del telaio sulle sue quattro ruote e i due sedili - ma senza carrozzeria, senza parabrezza, senza fari e senza targhe -sull'autostrada di San Bernardino, poi avevano preso l'Interstate 10, fino a Riverside. Affermarono che non avevano mai visto niente di così veloce sulla strada. Per miracolo, la pattuglia della stradale non li intercettò per confermare il record di velocità di cui si vantavano. Vendettero il motore a un tale che lo montò su una barca. Girai al volante della nuova Jaguar per circa un anno, e una volta finì nel deposito di automobili rimosse dalla polizia col carro attrezzi, senza che nessuno scoprisse che in realtà apparteneva al titolare di una concessionaria di Van Nuys. Successivamente, anche durante un'evasione, montai sulla Jaguar le targhe di un altro Stato e la guidai per parecchi mesi. Una sera la parcheggiai in una delle strade in discesa ripida che davano su Sunset Strip. Dopo che mi fui allontanato, i freni si ruppero, e la macchina precipitò per la discesa sfondando l'entrata di un condominio. Quando tornai era stata già rimorchiata da un carro attrezzi. "C'est la vie", Jaguar. Sandy tornò nei pressi del Sunset Boulevard, in un appartamento elegante su Sweetzer, tra Sunset e Fountain. Un giorno, sul tardo pomeriggio, mi telefonò per dirmi di passare da lei. - Qualcuno vuole vederti. - Chi è? - No, no. Sarà una sorpresa. Quando aprì la porta disse: - Non indovinerai mai chi c'è di là. Sul divano del salotto era seduto Ronnie H. Sandy aveva ragione: non avrei mai indovinato. Non sapevo assolutamente che era uscito di galera. Non lo vedevo dai tempi di San Quentin. Era originario dello stesso quartiere di Sandy, che l'aveva conosciuto prima che finisse in prigione. In realtà lei era amica della sorella, che sarebbe finita assassinata nel deserto per mano di un detenuto evaso, poi condannato a morte. Non ricordo però se fu effettivamente giustiziato o se la sentenza fu commutata quando la Corte Suprema giudicò incostituzionale la condanna a morte come veniva applicata. Ronnie H. era stato un bravo detenuto, ma non era un omicida. Nel gergo del penitenziario, era un regolare. Sorrise a bocca aperta, scoprendo un dente mancante. - Ehi, Eddie. Ci è giunta voce che tutto ti va bene, la Jaguar, e tutto quanto. I miei modi affabili dissimularono la gelosia. Anche se Sandy non era la mia donna, e infatti non eravamo nemmeno andati a letto insieme, sentii una fitta di gelosia, che si acuì quando mi informò che Ronnie aveva un bel po' di grana in seguito a uno spaccio di assegni falsi, e che sarebbero partiti insieme per un lungo viaggio. - Ho sempre voluto vivere un periodo a New York. - E meraviglioso. Quando partite? - Tra un paio di giorni, - rispose Ronnie. - Prima ho da ricuperare i soldi che mi devono in giro -. Quando Sandy uscì dalla stanza, Ronny mormorò: - Billy D. mi ha detto che ti puoi procurare degli assegni per il pagamento degli stipendi in bianco. Me ne servirebbe qualcuno. - Quanti ne vuoi? - Non so… quanti me ne puoi dare, direi. - No, non credo che ne vuoi così tanti. Puoi incassarne soltanto una dozzina al giorno. - Ci sono altri che lavorano per me e possono darmi una mano a cambiarli. Che ne dici di cento… centocinquanta? Quanto mi costano? - Sei bigliettoni, ti sta bene? - Diciamo di sì. - O.k. Che giorno è domani? - Venerdì. - Li avrò per domani sera. E tu mi porterai la mia grana? - Oh sì… certo… non appena avrò visto quei tizi da cui devo avere i miei soldi. - No, no… non voglio aspettare. - No, non dovrai aspettare. Se non li dovessi vedere, ti pagherò con altri soldi che ho da parte. - O.k., molto bene. Quando avrò gli assegni, dove vuoi che ti contatti? - Qui, da Sandy. Tornando alla mia automobile, risi tra me e me al pensiero che avevo provato un sentimento per me insolito, la gelosia. Non mi ero reso conto di quanto mi piacesse Sandy finché non avevo saputo che era in partenza. Avevo in mio possesso una dozzina di assegni della Southern Pacific Railroad e nove della Walt Disney, già compilati. Non bastavano. Sapevo dove procurarmene altri, in un'officina meccanica di South Pasadena. Il colpo era facile: non c'era l'allarme. La finestra sul retro era munita di sbarre di protezione, ma le avevano tagliate per potervi installare un condizionatore d'aria. Indossati i guanti, naturalmente, piegai le sbarre, rimossi l'apparecchio climatizzatore e penetrai all'interno. Un paio di minuti, e avevo in mano un grosso libretto di assegni. Il furto degli assegni sarebbe stato scoperto soltanto il lunedì. Dovevano trascorrere due giorni prima che fossero segnalati in qualche elenco degli assegni rubati. Chiamai Sandy dall'officina meccanica. - Ehi, bambola, è lui? - È uscito… non so dove. Credo che sia andato a incontrarsi con quei tizi che gli devono i soldi. Sarà di ritorno tra poco. - Tienilo lì. Sto arrivando. - Ce li hai? - Sì, signora. Era l'imbrunire quando scesi la rampa che si immetteva su Pasadena Freeway; ma quando lasciai l'autostrada di Hollywood a Highland Avenue, le luci della città punteggiavano il buio della notte. Seguii Highland fino a Fountain, presi a ovest fino a Sweetzer, e trovai un parcheggio lungo il marciapiede. Il condominio risaliva al periodo d'oro dell'architettura californiana, intorno al 1940. Era una costruzione a due piani in stucco con un tetto di tegole rosse. Per accedervi dalla strada, bisognava varcare il cancello di un cortile cintato dove crescevano felci lussureggianti e zampillava una fontana. Quando Sandy aprì la porta, mi annunciò che Ronnie si trovava nell'appartamento. - Ce li ha i soldi? - Non lo so. Parla con lui. Era in salotto e guardava una partita di football in televisione. Dal momento in cui mi vide e saltò in piedi, capii, senza neppure che lo dicesse, che i soldi non li aveva. - Non sono venuti all'appuntamento, - mi comunicò. - Ma va'! Eh no! Sono stronzate. La cosa non mi riguarda. Mi servono i miei soldi. - Sicuro, amico, - disse - Ti pagherò con l'incasso di questi assegni, li cambio e ti do la differenza. - Ascolta bene, Ronnie. Tu e io siamo amici… ma io non faccio il criminale per niente. Voglio i miei soldi domani, e voglio cinquanta dollari per assegno, invece di quaranta. Ronnie annuì ancora prima che avessi finito di parlare. - Sicuro, amico. Grazie, amico. Cazzo, potrò anche incassarne alcuni stasera e darti la grana -. Si voltò a guardare dalla parte della porta della camera, dove Sandy faceva le valigie. - Puoi rimediarmi una macchina per stampare le cifre sugli assegni? - Non lo so. Forse. - Forza, andiamo a cercare un po' di grana, - disse. - Prenderemo la mia macchina, ma tu stai al volante, o.k.? Per me andava bene. Così potevo dare un occhio ai miei soldi. Passammo da casa mia per stampare a macchina un nome sugli assegni. Seppi allora che Ronnie non aveva documenti falsi. - Useremo la mia carta d'identità, - disse. - Perché no? Voglio dire… che cazzo… tanto sarò un evaso comunque. Che differenza fa tra una violazione di condizionale e una nuova incriminazione per spaccio di assegni falsi? Il ragionamento aveva una sua logica. Io non l'avrei fatto, ma in effetti avrebbe scontato forse la stessa pena tanto per spaccio di assegni falsi che per violazione della libertà vigilata. La prima volta era finito dentro per rapina a mano armata. La commissione delle condizionali poteva sempre ritenere che stava comunque facendo dei passi avanti, visto che tornava in prigione per un reato di falso. Quando uscì dal primo supermercato e mi consegnò il denaro, disse: - Non ne parlare con Sandy. - Di che? - Che ho usato la mia vera carta di identità. - Sì… certo. Il resto lo avrò domani, no? - Sì, naturale. Sta andando bene, eh? Annuii. - Meglio che incassi più soldi possibile… perché più ne hai, più lungo sarà lo spasso. - Giusto. Avremo un mucchio di grana dopo aver smaltito tutti gli assegni che restano. L'indomani mattina toccò a me aiutare Sandy a sgombrare il suo appartamento. Ciò che non portava con sé sarebbe finito nel garage della casa dei suoi genitori nella San Gabriel Valley. Quando arrivai al suo appartamento, la ragazza stava nel bel mezzo di una lite furibonda con la sua padrona di casa, che si rifiutava di restituirle le mensilità anticipate in deposito perché Sandy lasciava l'appartamento prima della scadenza del contratto d'affitto. - Lascia perdere, - dissi, quasi trascinandola via a forza. Sandy era una ragazza in carne, e benché si abbigliasse come una donna di mondo, era cresciuta per le strade dei quartieri malfamati e l'idea di mollare alla proprietaria un pugno nell'occhio non la contrariava affatto. Ma io non volevo che ciò accadesse. Tirando Sandy verso l'automobile, dissi: -Calmati. Gliela faremo, alla signora. Tornerò a comodo mio e ripulirò tutto l'appartamento -. Cosa che feci alcune sere dopo, portando via tutto quello che si poteva vendere, ivi compreso un tappeto che, da solo, fruttò il doppio delle mensilità in deposito. La proprietaria dell'appartamento era una megera e una puttana, ma aveva buon gusto. Dopo aver lasciato tutto tranne due valigie nella casa piccola ma linda dei genitori di Sandy, raggiungemmo un'altra casa ad Alhambra. Era di legno, costruita prima della Depressione, e situata lontano, sul fondo della lottizzazione. Il viale sterrato presentava due solchi profondi dovuti al passaggio di un'infinità di automobili. Un tempo c'era stato un prato sul davanti; ormai restava soltanto qualche quadrato d'erba, ed era ovviamente ordinaria amministrazione parcheggiare le macchine nel cortile davanti alla casa. Quel giorno, di automobili ce n'erano due. Non le riconobbi. Quella di Ronnie non c'era, e neppure quella del suo complice. R.L. era nella truffa degli assegni rubati. In effetti, era lui che doveva versarmi il resto dei soldi. Girava con una vecchia Cadillac decappottabile bordeaux. Anticipava le alette posteriori che nel 1957 raggiunsero le vette della stravaganza. Feci scendere Sandy e poi girai intorno al blocco per parcheggiare. Era poco probabile che arrivasse la polizia, ma non impossibile. Se gli sbirri fossero arrivati sul davanti, avrei avuto la possibilità di fuggire saltando al di là del recinto sul retro. In tal caso, non avrei voluto abbandonare la mia macchina. Era diventata per me un'abitudine parcheggiare a una certa distanza dal posto in cui andavo a commettere un illecito. Sandy era sola nel salotto quando entrai. - Chi c'è in casa? - domandai. - La donna di R.L. e un'altra ragazza -. Indicò la cucina, che si apriva oltre un arco. Lì trovai la moglie, soprannominata Charlie, e una ragazza del quartiere di nome Bonnie. Charlie dava da mangiare a un bebé seduto su un seggiolone. Sul tavolo della cucina erano accatastati dei sacchi di generi alimentari. Qualcuno aveva incassato gli assegni. Presentare gli assegni rubati al supermercato, perché era lì che bisognava incassarli per avere il contante, aveva come conseguenza quantità enormi di generi alimentari. Io li passavo alla cognata di Jimmy D., il cui marito era detenuto a San Quentin. Lei li consumava tutti, specie il cibo per bambini. L'accoglienza di Charlie fu fredda, e quando le domandai dove si trovava suo marito, fece una smorfia, accompagnandola con un'esclamazione di disgusto: - Non lo so. Me ne frego. Tieni -. Da sotto una rivista tirò fuori un mazzetto di bigliettoni verdi. - Te ne dobbiamo ancora seicento, - disse. - Chiedili a lui. Rivolto a Bonnie, feci una smorfia, reazione che io intendevo comica in risposta alla collera manifesta di Charlie. Bonnie non reagì, e guardandola più da vicino, mi accorsi che aveva pianto. Il rumore della porta zanzariera che si richiuse sbattendo mi richiamò in salotto. R.L. era tornato. Sorrideva a bocca aperta a Sandy con l'aria stupida di uno sbronzo. - Come va, bellona… - Poi mi vide. - Ehi, il grande E.B. Cazzo, come sei sciccoso! Dov'è il tuo schianto di Jaguar? Charlie mi passò davanti. - Allora…? - domandò lei. - Allora, che…? - ribatté R.L. - Sei riuscito a passarne qualcuno? Scrollò la testa. - Non me li accettano. - Sporco bastardo di un bugiardo! - urlò, poi tirò su col naso e tornò in cucina. R.L. mi guardò come se fossi il giudice della sua corte d'appello. - Non lo so perché, amico, te lo giuro, non me li vogliono prendere. Quindici minuti più tardi posteggiavamo la Cadillac di R.L. in un parcheggio a fianco di un supermercato su Huntigton Drive. Per strada avevo detto a R.L. esattamente ciò che doveva fare. Scese, e io restai ad aspettarlo in macchina. Cinque minuti dopo, ricomparve all'angolo opposto e si affrettò verso l'automobile scuotendo il capo ancora prima di salire. Te l'ho detto. Non li vogliono, è semplice. Ovviamente si era limitato a fare il giro del supermercato senza entrare dentro. Quando ci fermammo al supermercato successivo, lo accompagnai. Era un enorme Safeway. - Prendi un carrello, - ordinai. Mentre lui spingeva il carrello, io lo riempivo di cibarie fino all'orlo. Andai con lui a mettermi in fila alla cassa. Quando non restò più che un solo cliente tra la cassiera e lui, feci il giro e lo aspettai accanto alla porta. R.L. allungò l'assegno. La cassiera chiamò il direttore, che guardò la patente e siglò l'assegno con le sue iniziali. Infilammo i generi alimentari nei sacchi della spesa che poi rimettemmo nel carrello, mentre la cassiera contava il resto prima di consegnarcelo. - E stato facile, - disse R.L. una volta risaliti in automobile. Allungai la mano. - Oh, sì, so bene che te li devo, - disse tendendomi il rotolo di biglietti. Gli feci ripetere lo stesso numero per altre due volte: caricai il carrello, condussi R.L. nella fila e gli mollai una pacca sulla spalla prima di uscire. - Amico, è più facile di quel che pensassi, - disse mentre mi consegnava i soldi. Era tutto ciò che mi doveva. - Ce ne facciamo un altro paio prima di tornare. Al supermercato successivo, come ci avvicinammo alla porta di ingresso, Ronnie H. uscì spingendo un carrello carico di cibarie. - Non entrate lì dentro, - disse. - Il direttore mi è parso un pochino sospettoso. Torniamo a casa. Di ritorno a casa, avevo tutti i soldi che mi dovevano. In rotoli spessi che deformavano le due tasche dei miei pantaloni e la tasca interna della giacca. Presi l'automobile e la caricai di provviste da dare via. Ronnie si offrì un riposino prima di uscire di nuovo. Sapeva bene che importava poco incassare dieci assegni o duecento: se fosse stato preso, avrebbe scontato la stessa pena. Più assegni cambiava, più lontano avrebbe potuto viaggiare, e più a lungo avrebbe potuto restare al riparo dal pericolo. "Datemi abbastanza soldi e sarà impossibile per le autorità acciuffarmi", si immaginava. Sandy aspettava sempre sul divano. Ronnie la guardò e disse: - Sei tu la più intelligente di tutti. Ti prendi tutto senza fare niente. - No, - ribatté la ragazza. - Non sono io la più intelligente. Il più intelligente è lui, soggiunse annuendo nella mia direzione. Ero sulla porta zanzariera. - Arrivederci e buona fortuna a tutti. - Ti chiamo domani, - disse Sandy. - Non lasci la città? - Ti chiamerò dal posto in cui mi trovo. Lo vorrai sapere come sto, no? - Naturale. A risentirci. Li salutai tutti, prima di uscire alla luce di quel tardo pomeriggio, canticchiando un'aria e schioccando le dita. - Sono il re del mondo… devo farmi una canna prima di andare a spassarmela. Salii in macchina e mi accesi una grossa canna che si chiamava «bombardiere». Quando il telefono squillò nel tardo pomeriggio del giorno dopo, sapevo che era Sandy. Presi in mano il ricevitore dissi: -Ciao, bambola. - Come facevi a sapere che ero io? - Il mio sesto senso. - Ti va di andare al cinema? - Sicuro. - Passa a prendermi da mia madre. - A che ora? - A che ora arrivi arrivi. Quella sera andammo a Pasadena, dove vedemmo recitare Frank Sinatra nel ruolo dell'attore del Proibizionismo Joe E. Lewis, in "Il Jolly è impazzito". Sembrava un buon film, anche se non lo ricordo bene come altri film che ho visto in passato. Persi il filo degli avvenimenti, quella sera al cinema, pensando al corpo di Sandy accanto al mio. Avevo fatto il gioco dell'attesa, avevo nascosto la mia voglia di Sandy per molti mesi, certo del suo disprezzo per un uomo che lei avrebbe potuto menare per il naso per via del desiderio sessuale che risvegliava in lui. Adesso era pronta a diventare la mia donna. Quell'idea mi dava alla testa. Per me era la donna perfetta, esperta della vita di strada, ma istruita al tempo stesso. Che fosse stata una squillo mi stava benone. Non avrei avuto a che fare con una sciocchina perbene che, se fossi finito dentro, sarebbe venuta in parlatorio e si sarebbe messa a frignare sul vetro. Volevo una compagna capace all'occorrenza di tampinare il garante della cauzione perché si adoperasse per farmi uscire. Era anche bella, un metro e settantadue, con un fisico da capogiro e i lunghi capelli rossi e lucenti. Si muoveva con l'andatura più sensuale che avessi mai visto in una donna, le lunghe gambe abbronzate ben disegnate e muscolose, anche se era di coscia forte, non proprio com'è di moda oggigiorno, ma a me piacevano esattamente così. Come alla maggioranza degli uomini. Benché avessi la testa piena di visioni di lei, stesa su lenzuola bianche, le gambe aperte, sapevo che non sarebbe durata, ma non era quello il momento per porre il punto all'ordine del giorno. Tante cose si comunicavano tra noi senza neppure pronunciare una parola. Potremmo fare una squadretta eccezionale, - disse, e dopo una pausa aggiunse: - Ogni tanto, so anche ascoltare… - Io non risposi nulla; mi piacque anche ciò che aveva detto, perché confermava il mio ruolo dominante nella coppia. Perché confessarle che l'idea stessa di picchiare una donna mi ripugnava profondamente? Una settimana dopo abitavamo in un appartamento su Sunset Boulevard, nei pressi dell'incrocio con Holloway Drive. Ricordo di essermi appostato sul balcone, nello stupore del mio sballo, e di aver contemplato la piana di luci della città, con la voce di Ella Fitzgerald che cantava "The Rodgers and Hart Songbook". Aspettavo che Sandy si preparasse per la cena. Il mondo intero era steso ai miei piedi. Ero re di tutto ciò che il mio sguardo abbracciava. CAPITOLO DECIMO. NELLA MERDA FINO AL COLLO. Il telefono squillò. Sollevai la cornetta. - Pronto? - Edward Bunker? Non riconobbi la voce, ma un campanello d'allarme risuonò nel mio cervello. - Chi lo vuole? - Chi parla? - domandò la voce. - L'ho chiesto io per primo. Silenzio. - Sono il responsabile della condizionale… e si è messo in guai grossi. "Oh, merda"! - Adesso non è in casa. - Chi è lei? - Gli dirò di mettersi in contatto con lei -. Riappesi. La mia camicia era bagnata di sudore. Il telefono squillò ancora. Lo lasciai suonare. L'indomani mattina avvolsi un fazzoletto intorno al microfono del ricevitore. Simulai un leggero accento del Sud e chiamai il responsabile della condizionale. Mi passarono un certo Harry Sanders. - Ho ricevuto un messaggio… so che voleva parlarmi. - Sono il suo nuovo responsabile della condizionale. Chi si crede di essere, andando in giro al volante di una Jaguar? - Ho il permesso di avere un'automobile. - Non riesco a trovare traccia di nessuna autorizzazione scritta nel suo fascicolo. - Be', me l'aveva data il mio vecchio responsabile. Può chiedere a lui. - Non sta più qui. E poi, l'autorizzazione dovrebbe essere data per iscritto. Non ribattei nulla. Che potevo dire? - Non ci ha nemmeno provato a farla, questa condizionale. - Ho un lavoro. - Lei vende automobili. È una truffa. Lei dovrebbe essere già dentro, per via di queste accuse in sospeso a Beverly Hills. Mi domando come diavolo ha fatto a uscire. Per la seconda volta restai in silenzio. - Venga immediatamente nel mio ufficio. - Ha intenzione di rimandarmi in prigione? - Decideremo quando sarà qui. - Volevo solo sapere se devo portarmi lo spazzolino da denti e biancheria pulita. - Fa anche lo spiritoso, a quanto pare. - No, io non… no davvero. Riappendendo il ricevitore, considerai la possibilità di darmi alla fuga. A mio avviso, è preferibile essere inseguito che catturato, ed era lampante che si era aperto un capitolo tutto nuovo nei miei rapporti con la Divisione delle Condizionali. Con grosse riserve, mi misi in macchina per raggiungere l'ufficio delle condizionali. Era situato al centro della città, nell'edificio che al pianterreno ospitava il vecchio Million Dollar Theater. Una volta dentro, l'assistente addetta al pubblico doveva azionare un sistema di apertura della porta perché si potesse riuscire. I bugigattoli usati come uffici si aprivano lungo un passaggio stretto: il posto evocava un luogo kafkiano. Si aprì una porta, comparve una testa, e una mano mi fece cenno di entrare. - Personalmente, la rimanderei immediatamente in prigione, - fu la frase con cui mi accolse Harry Sanders. Era sulla trentina, grasso e sgradevole, le guance cascanti che gli straripavano dal collo della camicia. Vibravano quando muoveva la testa. - Il mio superiore mi ha detto di aspettare. Sono sicuro che il superiore in questione era convinto che fossi sempre sotto la protezione di Mistress Hal Wallis. Non aveva intenzione di agire in maniera sconsiderata. - Le dirò una cosa, - proseguì Sanders. - Si troverà un altro tipo di lavoro. - Che c'è di male a vendere automobili? - Troppe tentazioni… troppe truffe ai clienti. Volevo protestare, ma i giornali erano pieni di articoli a proposito di uno scandalo recente riguardante H. J. Caruso, uno dei più importanti concessionari della California del Sud. Alzai le spalle senza dire nulla. - E questa Jaguar… Lei si sbarazzerà di questa vettura. Chi diavolo si crede di essere? Uno in libertà vigilata al volante di una Jaguar! Abbassai lo sguardo in segno di sottomissione, ma ciò non mi impedì di fantasticare quanto mi sarebbe piaciuto trattare con quel tizio a quattrocchi, da qualche altra parte, senza testimoni. Quando tornai all'automobile, mi accorsi che le mani mi tremavano. Come dovreste aver capito, dopo quanto avete letto fin qui, non sono un uomo che si lascia facilmente intimidire. Volevo ammazzare Sanders, perché sapevo, contrariamente alla credenza popolare, che l'omicidio è forse il crimine più facile da commettere, così come uscirne fuori puliti, se l'autore segue un copione semplice. Innanzitutto, non fidarsi di nessuno. È un fardello troppo pesante da portare per gli altri, specie se questi altri si ritrovano in una situazione in cui possono scambiare l'informazione in loro possesso con la libertà. Troppa gente si sente apparentemente obbligata a fidarsi di qualcuno, vuotando il sacco. L'assassinio è un fardello pesante per l'anima. Così non dovrebbe essere, ma lo è. Il secondo passo consiste nel trovare un posto dove sorprendere la vittima da sola, un vicolo, un parcheggio, un garage sotterraneo. Avanzate di qualche passo e sparate, preferibilmente tra gli occhi o dietro l'orecchio; anche il cuore può andare. Accertatevi che il colpo sia mortale e che nessuno potrà identificarvi. Sbarazzatevi dell'arma, in un posto dove non sarà mai possibile ritrovarla, e fate in modo che non si possa risalire a voi, nel caso in cui venga ritrovata. Dunque non ci sono né corpi del reato, né testimoni. Anche se la polizia è convinta della vostra colpevolezza, non esiste alcuna prova che potrà esibire dinanzi a una giuria. Se vi interrogano, non mentite. Non dite nulla, tranne: - Voglio parlare con il mio avvocato -. Ditelo agli sbirri che eseguono l'arresto; ditelo all'agente addetto alla procedura di ingresso in prigione; ditelo agli investigatori che vi interrogano; ditelo a tutti gli agenti che passano; ditelo all'infermiere che distribuisce i medicinali; ditelo al custode: - Voglio parlare con il mio avvocato. Mi sentivo in grado di passarla liscia, ma non era nella mia natura uccidere a sangue freddo. Per legittima difesa, sì. Se qualcuno minacciava la mia vita, l'avrei eliminato senza tanti complimenti. Harry S. poteva forse rientrare in questa categoria, ma quel forse non era abbastanza perché gli togliessi la vita, benché non valesse gran che. Avrei provato a resistere, ad accettare ciò che mi diceva, avrei provato a rabbonirlo. Era contrario alla mia natura, ma era l'unica possibilità che avevo di vincere. Mi restavano nove mesi e dodici giorni per portare a termine la mia condizionale. Lo Stato mi aveva messo un cappio al collo quando avevo quattro anni affidandomi alla tutela del Tribunale dei Minori. Da allora ero stato in libertà vigilata o in regime di affidamento in prova al servizio sociale. Se ero capace di resistere, c'era la speranza che il mio responsabile fosse impegnato in altri casi che potevano attrarre la sua attenzione. Se fossi riuscito a tener duro per un anno, mi sarei scaricato da ogni obbligo. Sarei stato libero. Smisi di vendere automobili e accettai un lavoro di operaio agli studi Disney: spostavo gli scenari all'aperto, sotto il sole cocente. Dopo due settimane non ne potevo più e lasciai perdere. Il fratello di un amico ex detenuto era proprietario di un locale di spogliarello su Seventh Street, vicino al centro della città. Mi offrì un impiego di copertura, e mi fece un assegno che gli resi; poi gli pagai la parte fiscale e la previdenza sociale. Il responsabile della condizionale mi rifiutò il suo beneplacito perché seguitassi il lavoro, il mese successivo quando gli inviai il mio rapporto. A questo punto, mi limitai a sostenere che non riuscivo a trovare lavoro. Non gli sarebbe stato facile incastrarmi per violazione della condizionale perché non lavoravo, visto che mi aveva fatto lasciare due impieghi. Un'altra cosa che irritava Sanders erano le donne. - Com'è che lei ha così tante ragazze? Chi sono queste donne? - Voleva vederle. Chiesi a Flip di andare a trovarlo, presentandosi sotto il nome di Patty Ann. Allo scopo di eseguire la sua ingiunzione di sbarazzarmi della Jaguar, misi semplicemente la vettura sotto il nome di Sandy con un passaggio di proprietà in piena regola. Sanders volle sapere chi era l'acquirente, e quando gli dissi che era una che aveva chiamato quando avevo messo il cartello vendesi sul vetro, volle avere il suo nome e il suo numero di telefono. Impossibile rispondergli che non li avevo. Quando lo riferii a Sandy, lei esclamò: - Che coglione! - La pensavo esattamente allo stesso modo. Quando le telefonò, dicendo che era un responsabile della condizionale e voleva sapere della vendita dell'automobile, lei gli rispose di rivolgersi al suo avvocato. Lui preferì chiamare la banca (il prestito doveva essere trasferito) e ottenne delle informazioni sulla domanda di credito; poi chiamò il produttore cinematografico che garantiva per Sandy quando la ragazza aveva bisogno di referenze. Sanders lo interrogò: - Chi è questa ragazza? Sapeva che… Non appena il mio responsabile riappese, il produttore chiamò Sandy, e pretese di sapere: - Chi è questo Edward Bunker? Lei lo coccolò a parole e lo calmò, ma alla fine lui comunque disse: - Non so se posso seguitare a farti da garante per il lavoro. Fammici pensare. Non appena il produttore riappese, Sandy mi chiamò: - Quel responsabile della condizionale è un fottuto fuori di testa. Sai cosa ha fatto? - Non mi sorprende più niente. - Quel sadico bastardo ha chiamato il mio amico produttore e… oh merda! Doppia merda! - Mi dispiace, piccola. Davvero… - 'Fanculo. È andata. Inutile piangere sul latte versato -. Fece una pausa. - Sai che ti dico? Credo che quel responsabile della condizionale abbia qualche fobia sul sesso… probabile che sia in crisi d'astinenza. - Ha il culo di un elefante. La battuta fece ridere Sandy, senza peraltro rassicurarmi. - Non pensarci più, - dissi. Dove vuoi andare a mangiare? - Che ne dici del Captain's Table? - Mi va bene. - Sono pronta in un quarto d'ora. Mentre Sandy si vestiva e si truccava, misi Ella Fitzgerald, "Sings Rodgers and Hart", sul giradischi ad alta fedeltà e uscii sul balcone a fumare uno spinello e contemplare la piana di luci che cominciava a illuminarsi sul calare della notte. La musica e questa voce perfetta che mi cullava mi giungevano dalla porta aperta. Vai a farti fottere Sanders. Ero il re del mondo - o perlomeno questo era l'effetto che mi faceva l'erba - e la città si estendeva lontana fin dove il mio sguardo poteva arrivare. Schioccavo le dita al ritmo della musica e ridevo nel crepuscolo. Oh, amico, per un ex detenuto di ventitre anni, cresciuto dallo Stato, stringevo davvero la vita per le palle… Avremmo preso la mia Jag o la sua Cad? Quanti ex detenuti di ventitre anni, cresciuti dallo Stato, avevano questa scelta? Col senno di poi, non avrei dovuto gonfiarmi di tanta superbia. Arrivò il giorno in cui dovetti presentarmi davanti al tribunale municipale di Beverly Hills. La polizia inizialmente mi aveva mandato in prigione con l'incriminazione di sospetto furto con scasso, un reato grave, ma alla fine l'unica accusa per cui ero stato rinviato a giudizio era soltanto una serie di reati minori. Il mio avvocato, incaricato da Louise, era un anziano signore che insegnava al Loyola. Non faceva la parte del leone nell'arena del tribunale, ma aveva molte conoscenze nel sistema giudiziario. Il giudice era stato un suo studente. Il pubblico ministero del tribunale municipale competente per il mio caso accettò di lasciar cadere tutti i capi di accusa tranne uno, un'incriminazione per vagabondaggio, se ci fossimo dichiarati colpevoli. E si sarebbero astenuti dalla richiesta di un periodo di pena, se il giudice mi avesse ingiunto di pagare una multa. - Di lei se ne infischiano totalmente. Sono gli altri due che vogliono. - Lei me lo garantisce? - Non posso "garantirglielo", ma se il pubblico ministero non si oppone… Lo conosco da parecchio tempo. Se affrontiamo il processo, è probabile che il giudice la riconosca colpevole su tutta la linea, e a quel punto potrebbe condannarla a sei mesi di pena per ogni reato. Non appena la riconosceranno colpevole, lui revocherà la libertà vigilata, è matematico. Se lei ammette la sua colpevolezza, la lascerà a piede libero fino al giorno della sentenza… e se la condanna consisterà in una pena pecuniaria… - Quanto tempo passerà prima del giudizio? - Sei settimane… due mesi… e una multa. Pur pieno di dubbi ed esitazioni, accettai la sua linea di difesa. Nell'aula del tribunale, vuota di spettatori, consentii di dichiararmi «colpevole» nel merito del capo di imputazione di vagabondaggio. Il giudice fissò una data per l'udienza relativa all'affidamento in prova e al giudizio a sei settimane da allora. Incaricò l'ufficio competente per l'affidamento in prova di redigere un rapporto. Uscendo dall'aula, l'avvocato mi strinse la spalla e disse che avrebbe chiamato il responsabile dell'ufficio competente per l'affidamento in prova. - Non si preoccupi. Non si preoccupi. Era pazzo? Non avrei fatto altro, o per lo meno immaginavo che così sarebbe stato. Quella sera, comunque, le sei settimane mi sembrarono lontane, e ogni giorno portò un'esperienza nuova. Sandy conosceva cose che io ignoravo, sul sesso e su come divertirsi. L'epoca degli hippy era ancora a venire, la moda degli abiti informali e disinvolti era ancora agli albori, e dunque ci mettevamo eleganti per uscire a cena nei ristoranti in voga come Perino's, Romanoff's, Chasen, il Fog Cutter di Edna Earle, Don the Beachcomber, prima di andare ad ascoltare Francis Faye all'Interlude, sopra il Crescendo. Riuscimmo a sentire Billie Holiday al Jazz City su Hollywood Boulevard, nei pressi di Western. Billie era visibilmente in crisi di astinenza e male in arnese, e perciò, nell'intervallo, quando scese alla toilette, Sandy la seguì. Era impossibile per Billie farsi un buco regolare, ma Sandy le offrì una sniffata, e quando Billy cantò dopo la pausa, la sua voce era rauca e profonda, unica, al suo meglio del meglio. È fenomenale la velocità con cui anche una piccola dose di neve riesce a eliminare l'angoscia e il tormento atroce dell'astinenza e praticamente tutti gli altri dolori. E quelli che non fa sparire, li rende insignificanti. Il braccio resta sempre rotto, ma, in un certo senso, non ci si fa caso. Lo stesso vale per le angosce e le ansie. Una sniffata avvolge le vostre pene e i vostri guai in un cartoccio, e getta tutto dalla finestra. Annienta ogni dolore, anche i più nascosti, dolori di cui non eravate neppure consapevoli fintanto che non li avete sentiti sparire. Dopo l'orario di chiusura dei bar e dei ristoranti, andavamo spesso nei locali notturni che gravitavano nell'area tra Forty–second e Central Avenue, dove, se si ordinava whisky, veniva portato nella teiera e versato in una tazza, le luci erano soffuse, il fumo di sigaretta spesso, e musicisti leggendari venivano, dopo lo spettacolo ufficiale, a improvvisare fino all'alba. Il colloquio e il rapporto precedente il giudizio andarono abbastanza bene. Il funzionario dell'ufficio dell'affidamento in prova era sommerso di lavoro e alquanto distaccato. Accettò l'impiego fasullo che mi serviva da copertura come un vero lavoro, e in effetti si pose la questione se io avessi effettivamente preso parte al piano messo a punto per scassinare la cassaforte. Anche il rapporto della polizia affermava che ero evidentemente addormentato sul sedile posteriore quando l'agente si era avvicinato all'automobile. Dopo la lettura del rapporto sull'affidamento in prova, il mio avvocato parlò con il giudice: -…in via ufficiosa, per così dire… e lui ritiene che la pena comminata sarà sull'ordine dei cento dollari di ammenda o cinquanta giorni… - Cinquanta giorni! - No, no. Cinquanta giorni se lei non paga l'ammenda. Due dollari al giorno. Smisi di preoccuparmi, e seguitai a divorare i piaceri dell'edonismo. I giorni scorrevano. Finalmente arrivò la data che avevo cerchiato sul calendario. L'udienza era fissata nel pomeriggio, e io arrivai in ritardo. Non ne ricordo il motivo. Ma ricordo di aver trovato il mio avvocato nel corridoio all'esterno dell'aula del tribunale. Era sconvolto. - L'hanno già chiamata -. Il giudice era pronto a emettere un mandato per non comparizione -. Mentre parlava mi sospinse attraverso la porta dell'aula. Il pubblico era scarso, ma il tribunale doveva ancora esaminare parecchi casi. Il giudice stava ascoltando gli argomenti relativi a un altro caso, qualcuno che tentava di ottenere una riduzione sull'ammontare della cauzione. Il mio avvocato aveva due posti a sedere riservati su un lato del corridoio centrale. Una volta seduti, mi tese delle carte. - Cristo, perché non mi ha avvertito? Lessi: «Amministrazione Penitenziaria. Servizio delle Libertà Condizionali e della Comunità». Era "lui", la mia "bête noire" col culo d'elefante. Lessi a tratti, il cervello troppo agitato per leggere di seguito: «…Il Lapd lo ha sospettato di due omicidi…» Era fuori di testa, o che? Di che parlava? Parecchio tempo dopo capii che si riferiva al fiasco del Predatore di Hollywood, anche se non ho mai realizzato quale fosse il secondo omicidio di cui parlava. «…Implicato in un traffico di stupefacenti e nello sfruttamento della prostituzione nel quartiere di Sunset–Beverly Hills…» Se fosse stato presente in aula e avessi avuto una pistola, si sarebbe beccato una pallottola davanti al giudice, gli ufficiali giudiziari, il sostituto procuratore e Dio Onnipotente. Rischiavo di finire in galera per via di queste stronzate. Omicidio? Che merda era questa? Sfruttamento della prostituzione? Follia pura! Ero il migliore amico di una puttana. Detestavo i magnaccia. Se soltanto fossi stato informato di questo rapporto… - Vado a fare un goccio d'acqua, dissi, con l'intenzione di uscire senza ritorno. - Il popolo contro Bunker, numero cinque sei nove sei trattino cinque sette… Il giudice mi condannò a una pena di novanta giorni da scontare nella prigione della contea, gli ufficiali giudiziari mi si fecero intorno e mi condussero nella cella di detenzione provvisoria accanto all'aula delle udienze. Quando un ufficiale giudiziario aprì la porta massiccia, fui assalito da un tanfo di corpi non lavati unito a quello di tazza di gabinetto tappata. Come la maggioranza delle celle di detenzione dei tribunali, era affollata. Tutte le panche erano occupate; come gran parte del pavimento. Ero di gran lunga il detenuto meglio vestito. Tutti gli altri erano arrivati da un posto di polizia dove avevano dormito con ciò che avevano indosso al momento dell'arresto. Erano quasi tutti poveri, si vedeva dai loro abiti. Trovai un posto accanto al muro, mi tolsi la giacca sportiva di cammello e la usai come cuscino. Se le mie passate esperienze valevano qualcosa, l'attesa sarebbe stata lunga. Verso le sei e trenta, gli aggiunti arrivarono con le catene. L'autobus aspettava fuori. Da Beverly Hills andammo a Inglewood per prelevare altri prigionieri, e da lì raggiungemmo Long Beach. Mezzanotte era passata da un bel pezzo quando fummo scaricati al vecchio Palazzo di Giustizia tra Temple e Broadway. Era stato previsto di costruire una nuova prigione centrale su una discarica dietro Union Station, ma sarebbero passati due anni prima che l'edificio fosse ultimato. La procedura di incarcerazione richiese diciotto ore, che in gran parte trascorremmo in attese diverse in vari posti dell'edificio. Il parlatorio era utilizzato per la notte, una volta terminate le visite, idem per le celle di detenzione provvisoria del tribunale al pianterreno. Quando un nuovo arrivato cadeva nella tramoggia del processo, neanche Dio poteva ritrovarlo finché non fosse risalito dall'altra estremità della trafila, il corpo appiccicoso del D.d.t. spruzzato dopo la doccia, vestito con la divisa da carcerato spiegazzata e sformata, e tenendo in braccio la fodera del materasso arrotolata in un fagotto. Il giudice aveva emesso la sentenza il venerdì pomeriggio. Soltanto la domenica mattina, verso le quattro, il cancello della sezione di detenzione si richiuse alle mie spalle. Il corridoio davanti alle celle era una distesa da parete a parete di materassi e corpi distesi, per lo più addormentati. Uno o due uomini leggevano dei tascabili alla luce che cominciava a filtrare attraverso le sbarre esterne dal passaggio della guardia di sorveglianza. Riuscii a distendermi sul cemento senza materasso, usando la fodera ripiegata a mo' di cuscino. Nonostante la scomodità, mi addormentai in fretta. Avevo meno di un'ora di sonno dalla notte precedente, e anche allora avevo dormito sul pavimento nudo. Nei giorni feriali, alle quattro del mattino, un aggiunto, con un portablocco in mano, chiamava i nomi di quelli che erano convocati in tribunale. Poiché era domenica, le luci si accesero alle sei e i prigionieri di fiducia della sezione uscirono dalla prima cella e incominciarono a svegliare quelli che dormivano nel corridoio di passaggio. In tutta la prigione, i cancelli cominciarono ad aprirsi. I corridoi vennero sgombrati dai materassi e dalle fodere in modo da poter consentire la distribuzione della colazione. Lottai duramente contro il peso terrificante della mancanza di sonno. Il corridoio si vuotò rapidamente man mano che i prigionieri arrotolavano i loro materassi e li trasportavano nelle celle. Questa sezione non aveva nulla a che vedere con le sezioni di massima sicurezza, che disponevano sempre di posto. Qui c'erano cinque uomini in una cella prevista per due. Mi avviai verso la prima cella: i detenuti di fiducia mi avrebbero assegnato a una cella. - Bunker! Eddie Bunker! - L'uomo che aveva parlato era all'ingresso della prima cella. Portava una canotta blu che si intonava con i tatuaggi blu inchiostro di china che gli coprivano le braccia e ogni altro centimetro di pelle visibile, compresa la zona intorno al collo marcata da una linea con le parole tagliate seguendo la linea tratteggiata. Fu la sua barba, non autorizzata a San Quentin, che mi fece esitare. Corrugai la fronte, non riconoscendo quello che aveva parlato. Lui mi vide e capì perché avevo corrugato la fronte. - Jimmy Thomas, scemo! Ma certo. Skinny Jimmy! Non lo vedevo da anni. - Ehi, amico, come va? - Sono accusato di rapina. Io e Buddy Sloan. Porta qui la carcassa -. Mi fece cenno di entrare nella prima cella. Nonostante l'affollamento del resto della sezione, la cella n. 1 ospitava soltanto due occupanti per le due brande. Da questo momento in poi, devo dire, mi fu impossibile entrare in una prigione o in un penitenziario della West Coast senza conoscere parecchi (quando era una prigione) o molti (quando si trattava di un penitenziario) dei suoi ospiti. L'altro detenuto di fiducia della prima cella apparve sulla soglia, un metro e novanta di muscoli e il cranio rasato. - Conosci Bobby Hedberg? - Certo so chi è, - dissi tendendo la mano. - Eddie Bunker. - Anch'io ho sentito parlare di te… pazzo bastardo. - Non tanto pazzo quanto te -. Era vero. Bobby Hedberg era un autentico pazzo. Pareva sano di mente e razionale nella conversazione - esprimeva idee sensate quando parlava -, ma faceva cose così strambe che le mie avventure, a confronto, parevano risibili. Se avessi fatto ciò che Bobby aveva fatto nel corso della sua carriera criminale, avrei trascorso la mia intera esistenza in penitenziario, anziché i disgraziati diciotto anni che ho scontato, in tre riprese diverse. Bobby era un caso eccezionale. Suo padre R.B., dal quale gli derivava il soprannome perché era il figlio più grande, era ricco: aveva fatto fortuna edificando le lottizzazioni nella San Fernando Valley alla fine della Seconda guerra mondiale. R.B. era cattolico e irlandese, duro e severo, e il mondo ai suoi occhi si divideva in negri, portoricani, oriundi sudeuropei, giudei, inglesi figli di puttana leccaculo del re, oriundi italiani bastardi o fottuti protestanti. Detestava tutti tranne il papa, ma non gli andava a genio Giovanni Ventitreesimo perché era troppo progressista, perdio. Bobby era il figlio più grande, e Bobby, quando finì in galera, spezzò il cuore del padre. Non aveva nulla del figlio di papà che si concede una piccola avventura dall'altra parte della barriera: era un duro intransigente fino al midollo. Avrebbe fatto cose scandalose, nel corso dei due anni a venire, in prigione e fuori. Un giorno, inseguito dalla pattuglia della stradale, aveva sfondato la barriera della frontiera tra l'America e il Messico sotto un diluvio di pallottole prima di arrendersi alle autorità messicane. Un'altra volta un responsabile della condizionale era riuscito a bloccarlo in un ufficio al nono piano di un immobile al centro della città. Bobby aveva gettato tutto dalla finestra, trasformando i fascicoli dei detenuti in una pioggia di stelle filanti e coriandoli. Aveva finito staccando la fotografia di Ronald Reagan dalla parete e gettandola, anch'essa, dalla finestra. Un giorno passai a trovarlo a West Hollywood. Quando arrivai nei pressi del grattacielo del suo condominio, il posto era bloccato da un cordone di volanti dello sceriffo. Da una cabina telefonica vicina gli feci un colpo di telefono. Senza dubbio era Bobby l'oggetto di tutte quelle attenzioni, anche se non ricordo più il motivo della cosa. Aveva la voce impastata del tossico che si è appena fatto. Parlammo per qualche secondo, e poi disse che doveva andare. Mesi dopo venni a sapere che aveva imbottito quanta più eroina possibile in dei preservativi annodati stretti prima di infilarseli nel culo, al punto che era rimasto piegato in due. Poi si era bucato, al limite dell'overdose. Quando gli sbirri avevano sfondato la porta, l'avevano trovato privo di sensi steso sul pavimento. Non si era nemmeno reso conto che lo avevano arrestato finché non si era risvegliato nel reparto detenuti dell'ospedale generale. Un'altra volta si trovava nella prigione della contea, dove complottava con una delle ragazze Manson per rapire un console generale dell'America Centrale allo scopo di chiedere un riscatto per la sua liberazione. L'F.b.i. aveva fiutato il complotto, senza tuttavia mai prenderlo sul serio. A me avrebbero rifilato quarant'anni, Bobby non ne ebbe che due, che peraltro si confusero con la pena che scontava a San Quentin. Bobby morì di overdose all'età di quarant'anni, ma questo sarebbe successo molto più tardi. Quando lo incontrai in cella, Bobby mi disse: - Amico, ho sentito parlare di te dai tempi del carcere minorile. La sezione era piena zeppa: ogni cella ospitava dai quattro ai cinque detenuti, a eccezione delle prime tre, occupate ciascuna da due o tre detenuti. Erano loro che distribuivano il cibo, spazzavano e lavavano il corridoio, assegnavano le celle e le brande, e inoltre mantenevano l'ordine a suon di pugni e calci. Mi sistemai nella prima cella con un materasso sul pavimento. Era domenica, la vita scorreva lentamente. Né comparizioni in tribunale, né visite, né spesini con i carrelli carichi di mercanzie, tranne Oscar, il suo giornale e la sua bancarella mobile delle riviste. Oscar aveva la concessione della prigione da decenni; la vendita quotidiana di migliaia di giornali e libri tascabili aveva fatto di lui un uomo ricco. Durante la giornata dormii sulla branda di Bobby. Dopo l'appello della sera, giocai a poker per tenere occupata la mente e non rimuginare sui miei guai. Non potevo fare nulla, tranne preoccuparmi. Era preferibile concentrami sulle carte che uscivano dal mazzo. Finalmente arrivarono la chiusura e lo spegnimento delle luci. Mi addormentai in fretta per evitare di pensare alla mia situazione. L'indomani mattina tardi, venni chiamato e lasciai la sezione per raggiungere la Sala degli Avvocati. Mentre passavo il controllo presso l'aggiunto seduto alla sua scrivania, gettai un'occhiata nella stanza e vidi il responsabile della condizionale. Gli andai incontro, avanzando tra i tavoli, e notai il luccichio maligno nei suoi piccoli occhi porcini e il ghigno che gli sollevava gli angoli della bocca. - Lo sai che finirai dentro un'altra volta, no? Annuii, non fidandomi di ciò che sarebbe potuto uscire dalla mia bocca. È con uno sforzo di volontà sovrumana che non mi tuffai attraverso il tavolo per spaccargli la faccia. Non erano le conseguenze a preoccuparmi. Era il fatto che in pochi secondi mi sarebbero tutti piombati addosso per togliermelo dalle mani. Se avessi avuto a disposizione due o tre minuti, gli sarei saltato addosso. Bene che andasse, con un po' di fortuna, avrei avuto una quindicina di secondi, non abbastanza da darmi soddisfazione a fronte del pestaggio che mi avrebbero inflitto in seguito, la reclusione nella cella di rigore, e un'annotazione supplementare sul suo rapporto riguardante la mia condizionale. In effetti il responsabile non aveva fatto altro che confermare ciò che già sapevo. Era procedura ordinaria che ogni rilasciato in regime di libertà vigilata spedito nella prigione della contea venisse rinviato in carcere; soltanto in seguito le autorità studiavano il caso. Nessuno veniva mai rimesso in libertà vigilata. Addirittura poteva accadere che certi scontassero una pena più lunga per la violazione della loro condizionale che per la condanna originaria. Avevo seguitato a sperare, nonostante ciò che sapevo. Adesso la speranza era finita. Di ritorno in cella, passando per i corridoi, mi ero ormai rassegnato a rivedere il Grande Cortile. A questo punto la mia più grande speranza era che i documenti venissero regolati in fretta, così che non sarei stato obbligato a passare due mesi nella prigione della contea. Quando arrivai sul pianerottolo davanti alla sezione, Bobby Hedberg aspettava dietro il cancello. Teneva in mano lo scarno pacchetto delle mie cose. - Chi era? - Il responsabile della condizionale -. Feci il pollice verso; il gesto era eloquente. - Hanno chiamato il tuo nome. Sei trasferito alla colonia agricola. - Alla colonia agricola? - Sì. L'hanno detto poco dopo la tua partenza. L'aggiunto responsabile dei quattro blocchi di celle al pianerottolo arrivò per aprire il cancello e lasciarmi entrare. - Ecco Bunker. Queste sono le sue cose. L'aggiunto aprì il cancello e Bobby tese la fodera del materasso. Una mezz'ora più tardi ero a bordo dell'autobus dell'Ufficio dello Sceriffo diretto a nord, passando per la San Fernando Valley. Non ero ammanettato. La colonia agricola della contea applicava misure di sicurezza minime. Mentre l'autobus era in marcia, capii che la burocrazia penitenziaria, che aveva sempre bisogno di spazio nella prigione del centro della città, mi considerava idoneo alla colonia agricola. Il responsabile della condizionale non aveva ancora depositato il suo ordine di detenzione contro di me al momento dell'appello. Quando l'autobus lasciò la Us 99 a Castaic per varcare i cancelli della colonia, pregai in silenzio che non fossero lì ad aspettarmi. L'autobus si fermò. Un sergente era in attesa. Chiamò i nostri nomi e assegnò ciascuno dei nuovi arrivati a una baracca. - Bunker, baracca undici, letto quindici. Entrai nella baracca, oltrepassai il letto quindici, uscii per la porta posteriore e, facendo appello a tutto il mio coraggio, mi aggrappai con un balzo in alto al recinto. La rete metallica tremò e il rumore vibrò su tutta la superficie per una certa lunghezza. Seguitai ad arrampicarmi. La sommità era protetta da tre file di filo spinato. Passai una gamba dall'altra parte e il filo spinato mi agganciò il pantalone prima di lacerarmi la gamba. Mi liberai e seguitai, incurante della mia ferita. Era molto più rischioso scavalcare la recinzione in pieno giorno, piuttosto che di notte. Un aggiunto di passaggio, o uno dei sorveglianti dei numerosi gruppi occupati a lavorare sulla riserva, avrebbe potuto individuarmi. Di notte, l'oscurità mi avrebbe occultato una volta superata la recinzione. Ahimè, non avevo scelta. Non potevo aspettare la notte. La telescrivente poteva inviare il suo messaggio in ogni momento. Mi lasciai cadere sulla strada sterrata che costeggiava l'altro lato del recinto. Un dolore acuto mi trafisse la caviglia. Me l'ero storta; risalii la prima scarpata zoppicando. Era un deserto spoglio, con qualche rara pianta disseccata. Avvicinandomi alla cima del pendio, ero abbastanza in alto perché uno qualsiasi all'interno del recinto carcerario potesse vedermi. Avevo avuto fortuna. Nessuno suonò l'allarme. Superai la sommità del basso pendio e scomparvi alla vista di eventuali sguardi. Il vantaggio era ormai in mio favore. Avevo cominciato a dire tra me: «"Riuscirò a fuggire! Riuscirò a fuggire"!» - Le parole che salmodiavo si accordavano al ritmo della mia fuga. Sparita la depressione. Ero tutto eccitato. Prima o poi, nei giorni a venire, tra un mese, due mesi o due anni, mi avrebbero catturato. Questo lo sapevo. Ma al momento era meglio essere ricercato che catturato. Meglio essere fuggitivo che detenuto. L. A., sto tornando. CAPITOLO UNDICESIMO. IN FUGA. Se esiste un addestramento alla condizione del fuggitivo, io avevo cominciato a seguirlo fin da quando ero un bambino, scappando ripetutamente da collegi e scuole militari. Avevo perfezionato i miei talenti nel corso delle evasioni dal carcere minorile e dal riformatorio. Supponevo che le autorità si sarebbero attenute alla medesima strategia, sia verso un fuggiasco in libertà vigilata sia verso un evaso da un'istituzione con misure di sicurezza minime, ovvero si sarebbero limitate ad aspettare finché il fuggitivo non si fosse fatto pizzicare per un'infrazione al codice della strada o per un reato minore, e allora lo avrebbero incastrato. Nella maggioranza dei casi, l'uomo in fuga è nell'impossibilità di esibire documenti di identità falsi. Non ne possiede, oppure ha i suoi. Su richiesta, li mostra, e si mette a pregare. Sono i computer a inchiodarlo. Diversamente, è un vicino che chiama le autorità se l'evaso si avvicina alla casa della sua famiglia. Fui sorpreso dal numero di tentativi intrapresi per catturarmi. La polizia provò a fare pressioni su Sandy perché mi denunciasse. Quando lei si rifiutò di fare la spia (- Non so dov'è, - disse. Fatemi telefonare al mio avvocato -.), gli sbirri l'arrestarono con l'accusa di sospetto di furto, sperando di intimidirla. La loro mossa non ebbe esito, e dal posto di polizia Sandy venne trasferita al carcere femminile Sybil Brand a bordo di un autobus dello sceriffo, accompagnata dai fischi e dalle grida di acclamazione dei prigionieri di sesso maschile. Era l'unica donna a occupare la gabbia di rete metallica installata per l'occasione sul davanti dell'autobus. Portava una gonna di pelle attillata, una maglietta ancora più attillata (era l'epoca dei seni prorompenti e dei reggipetti col ferretto di sostegno) e lunghi guanti. Gli agenti dell'Ufficio dello Sceriffo andarono su tutte le furie quando, due ore più tardi, arrivò un avvocato con un ordine di scarcerazione del giudice che liberava Sandy sotto cauzione, seguito da un garante che aveva i soldi con sé. Di conseguenza mi feci molto più prudente di quanto non sarei stato. I miei falsi documenti di identità avrebbero superato ogni controllo, tranne la verifica delle impronte digitali, che all'epoca poteva effettuarsi soltanto al posto di polizia. Passavano tre giorni prima che le impronte tornassero da Sacramento o da Washington, a meno che la pratica non fosse sollecitata con urgenza. Un fuggitivo, come ogni altra persona, deve far fronte alla necessità di procacciarsi dei mezzi di sostentamento. I servizi di assistenza sociale e il computer rendono un impiego legale impossibile, a meno che non si ambisca a fare il pastore di pecore nel Montana, o qualcosa del genere. Dai miei traffici precedenti mi restavano parecchi blocchetti già incominciati di assegni per il pagamento degli stipendi. La loro traccia si era in parte attenuata, dopo i mesi trascorsi dal momento in cui erano stati rubati, ed era facile trovare persone disposte a presentarli in giro. Erano sicuri e redditizi. Affittai un appartamento a Monterey Park, una comunità della Contea di Los Angeles, a est del centro. Gli appartamenti erano su due livelli, e un balcone correva tutt'intorno al piano superiore. Il complesso aveva una forma a ferro di cavallo, con una piscina al centro. Una sera rientrai a casa, girai la chiave e aprii la porta. Mi ritrovai di fronte due ispettori, uno dei quali aveva estratto la pistola. Immediatamente, prima ancora che potesse pronunciare una sola parola, girai bruscamente sulla destra e mi lanciai a correre lungo il balcone. - "Fermo! Fermo!" - gridò qualcuno quando raggiunsi l'estremità del balcone e superai con un balzo la ringhiera per guadagnare le scale e il pianerottolo. Li presi male e capitombolai fino al fondo degli scalini, arrestando la mia caduta con le mani. Presi una storta a entrambi i polsi e mi lacerai la pelle fino alla carne, cosa che non notai sul momento. - Fermo! - gridò ancora uno dei due ispettori. Ignorai la voce e mi precipitai verso il muretto sul retro. Esplosero tre colpi di arma da fuoco, l'ultimo mentre scavalcavo il muretto. Vidi la pallottola far sprizzare scintille quando rimbalzò in diagonale sul cemento. Ormai ero nell'area di parcheggio, ma ignorai la mia automobile. Ci avrei messo troppo tempo per raggiungerla. Tirai oltre, e trascorsi il resto della notte al riparo di alcuni cespugli bassi davanti a un casa, mentre il quartiere era pattugliato dalle vetture della polizia, le luci lampeggianti e i fari che illuminavano i viali e gli altri nascondigli possibili. I cespugli che mi ospitavano erano talmente bassi che ero obbligato a stare steso ventre a terra. Erano un nascondiglio così improbabile che furono oggetto soltanto di un controllo sommario. Il cielo virò al grigio sotto le prime luci dell'alba e incominciò a piovere. Fino a quel momento avevo provato una sorta di eccitazione a giocare al fuggitivo, ma all'alba di quel giorno particolare, non mi sentii altro che un uomo ricercato, bagnato e sventurato. La polizia abbandonò le ricerche quando sopravvenne il cambio del turno di servizio. Qualcuno mi aveva denunciato. C'erano forse mezza dozzina di persone che erano al corrente del posto in cui vivevo, ma non avevo alcuna idea dell'identità del mio Giuda. Forse lui o lei lo avevano confidato a qualcuno, e quest'ultimo aveva chiamato la polizia. Ormai avevo perso l'automobile, i vestiti, la macchina per scrivere, e una nuova prima versione parziale del mio secondo tentativo di romanzo. In tasca avevo trecento dollari infradiciati dalla pioggia. Ne spesi cento per comprarmi una Ford del '46. Cento altri se ne andarono per una Colt semiautomatica calibro.32 e un fucile a doppia canna calibro.12, più una sega per accorciare le canne e tagliare il calcio. Il risultato assomigliava alla pistola di un pirata del diciottesimo secolo, completa di doppio cane. L'ultima cosa che feci fu affittare una stanza ammobiliata nei pressi di Seventh Street e Alvarado, a meno di due chilometri a ovest del centro della città. Costava dodici dollari la settimana. L'inflazione doveva ancora passare di lì. Non sapendo chi mi aveva denunciato, non mi fidai più di nessun altro dopo questo episodio, a eccezione di Sandy e Carlos Guiterrez, detto Boonie. Sandy non era stata: aveva preferito andare in prigione piuttosto che fare la spia. Di Boonie mi fidavo semplicemente in ragione della sua integrità. Come criminale era mediocre, essenzialmente perché non voleva fare niente se non quando si ritrovava al verde e alla disperata ricerca di soldi. In effetti, come ho detto in precedenza, la maggioranza dei reati è ispirata dalla disperazione. E naturalmente la causa preponderante dei crimini disperati è il bisogno di trovare soldi per pagarsi la droga. È la durezza dei tempi che rende dure le persone, e niente rende più duri della dipendenza dall'eroina o del desiderio irresistibile di cocaina. All'inizio, quando si prende la cocaina, niente, neppure l'estasi religiosa, procura una gioia simile, ma ben presto il desiderio irresistibile di prenderne altra diventa un'ossessione, lo sballo un lamento funebre di paranoia, e poi diviene terribile come una depressione. Il cane nero nella polvere bianca consuma l'anima tutta intera. La maggioranza dei ladri ruba o rapina unicamente quando la povertà è imminente, o è già uno stato di fatto. Io ho tentato di evitare di commettere un tale errore. Quando facevo il ladro, era una professione che esercitavo ventiquattro ore su ventiquattro. Il mio occhio era sempre alla ricerca di denaro o di qualcosa che potesse trasformarsi in denaro. Non ho mai posseduto una Rolls–Royce e neppure una Mercedes di lusso, ma solitamente riuscivo a non farmi mancare un bel rotolo di bigliettoni - se non un conto in banca - e una carta di credito o due, anche se false o rubate. Dopo quasi un anno di fuga, riuscirono quasi a riprendermi, per quanto in quell'occasione aspettassero al varco il mio compagno Denis Kanos. Dovevamo incontrarci con due sorelle gemelle, il cui momento di gloria era stato una foto su una doppia pagina di «Penthouse». Entrambe avevano un'aria emaciata, per via della mistura di eroina e cocaina che si sparavano in vena. Ci eravamo dati appuntamento in un motel su Sunset, nei pressi di Silverlake District. Per quanto lealtà e generosità fossero qualità innegabili di Denis, due qualità che pongo al di sopra delle altre, la puntualità non era proprio il suo forte. Non ho mai conosciuto una persona più ritardataria di lui. Se l'appuntamento era alle sette, potevi stare sicuro che non compariva prima delle undici o di mezzanotte. Avevo smesso di far caso a questo dettaglio, e seguitavo a badare alle mie cose anche se lui ritardava. Quella sera, tuttavia, ero insieme a lui. L'appuntamento al motel era verso le diciassette e trenta. Cadeva la pioggia in quella sera di dicembre, ed erano le ventuno e quarantacinque quando svoltammo l'angolo della via e vedemmo parecchie volanti della polizia, le luci sul tettuccio lampeggianti. Passando scorgemmo le due sorelle ammanettate in compagnia di una donna poliziotto. In seguito venimmo a sapere che la polizia si era acquattata davanti all'albergo per trarre Denis in arresto. Gli sbirri aspettarono e aspettarono, e una volta stufi, sfondarono la porta. Il ritardo inaudito di Denis ci aveva evitato di cadere nella trappola. Due settimane più tardi, Denis e io giocammo a fare gli ispettori e arrestammo un trafficante di droga di Compton. Fu un bel colpo. Decisi di lasciare Los Angeles. Gli unici viaggi che avevo fatto fuori della California erano state parecchie puntate a Las Vegas, che in realtà era poco più di un lontano sobborgo della City of Angels, e a Tijuana, in Messico. Volevo vedere New York City e tutto il Paese tra i due oceani. Era febbraio quando partii verso est sulla Route 66, facendo l'itinerario inverso della canzone. San Bernardino fu la prima tappa dell'itinerario, anziché l'ultima. Alla luce del crepuscolo, l'Arizona mi fece l'impressione sorprendente di appartenere a un altro mondo, con le sue "mesas" piatte, le cui sommità erano immerse nell'arancione dorato della luce, mentre il viola profondo della notte scalava lentamente i loro fianchi. Fui costretto a procedere lentamente per poter apprezzare il paesaggio, perché all'epoca l'autostrada che attraversava l'Arizona era una successione di buche capaci di spaccare un asse. Il tratto della Route 66 che attraversava il New Mexico era ugualmente accidentato. Albuquerque offriva una serie di motel aperti sul cortile, dei bungalow malandati, alcuni copie scadenti di una "hacienda". Uno di questi motel era un agglomerato di "tepee" indiani in intonaco e legno, cosa che mi sarei aspettato di vedere nella Los Angeles della mia infanzia. Ad Albuquerque restai una notte, girando per la città. Nulla mi trattenne più a lungo e dunque, prima dell'alba, ero già sull'autostrada, il piede sul pedale dell'acceleratore. Attraversai senza fermarmi una parte della lingua di terra del Texas e arrivai a Oklahoma City. La città mi parve estremamente carina. Mi imbattei in un musicista di Los Angeles, in una caffetteria aperta tutta la notte. Conosceva un po' di gente in città, e mi fermai tre settimane prima di rimettermi in marcia. Avrei dovuto ascoltare il bollettino meteorologico, perché tra Oklahoma City e Joplin, nel Missouri, si alzò il vento e si mise a nevicare. Non avevo catene, e slittai più di una volta. Il freddo cominciò a insinuarsi all'interno della vettura nonostante il riscaldamento. La radio annunciò che nevicava fino a Saint–Louis. Ero solo nella tempesta in mezzo all'America. I miei abiti erano adatti al clima mite della California del Sud, dove un pullover e una giacca era tutto ciò che serviva. Non avevo una sciarpa pesante, né guanti, né cappello, né niente di simile. Mi fermai sul lato della strada e mi infilai un altro paio di pantaloni, un'altra camicia e un pullover. Le mie mani seguitavano a gelarsi sul volante. Trovai un compromesso: una mano sul volante e l'altra tra le cosce. Il vento glaciale mi pungeva insinuandosi tra le fessure dell'automobile, delle quali ignoravo fino a quel momento l'esistenza. La carreggiata era ghiacciata a tratti, soprattutto sui ponti che incontravo durante il percorso, perché il freddo colpiva entrambi i lati della struttura, sopra come sotto. Davanti a me scorsi delle torce rosse e una sagoma che agitava una luce. La circolazione dei veicoli rasentava un gigantesco semirimorchio che era finito di traverso prima di inclinarsi su un fianco. C'erano parecchie macchine della polizia con delle luci lampeggianti lungo la carreggiata, e un'ambulanza sopraggiunse in senso contrario. Rallentai ancora, procedendo a venti–trenta chilometri l'ora, teso dalla testa ai piedi, quando sentivo i pneumatici perdere aderenza e la vettura cominciare a slittare. Ogni volta riprese la sua traiettoria. Non smisi di tremare dal freddo per tutto il tragitto. A Joplin vidi un'insegna al neon attraverso i fiocchi di neve: hotel. Era un albergo a buon mercato, sopra un bowling. Sebbene fossi alloggiato al quarto piano, sentivo il fracasso dei birilli al pianterreno. Per lo meno nella camera faceva caldo, un calore di vapore che fischiava, e c'era un televisore. L'ultimo film era ambientato nell'antico Egitto, ed era interpretato da Joan Collins, che era una puttana spietata e intrigante. Avesse potuto complottare contro di me, non mi avrebbe fatto né caldo né freddo, in fondo era così seducente. Al mattino aveva smesso di nevicare, ma era tutto coperto di bianco. Uscii per mangiare un boccone e comprare degli indumenti più caldi. In un J. C. Penney, la commessa mi raccomandò delle mutande lunghe. Credevo che solo gli anziani si mettessero i mutandoni, tuttavia li acquistai, oltre ai guanti, un cappello e una giacca pesante. Portai i pacchetti in camera e mi cambiai. Vestito più pesante, ero pronto per fare un giro nella città di Joplin. Avevo messo al sicuro gran parte dei miei soldi nello spacco di una poltrona della stanza. Vi infilai la mano e tastai. Più niente! No, non era possibile! Tastai ancora. Frugai nel materasso, pur sapendo benissimo che il mio tentativo non avrebbe prodotto alcunché. Alla disperazione subentrò la mia rabbia di sempre. Mi ricordai della faccia dell'impiegato alla portineria quando ero passato. Aveva qualcosa, un'espressione indefinibile sul momento, ma che adesso riconoscevo come una confessione. «Devo sparargli», pensai, immaginando la mia soddisfazione davanti al suo grido di dolore mentre gli facevo saltare una rotula. Ma non potevo fare una cosa del genere. Avevo dato un nome falso, ma il mio numero di patente era autentico. E con quel numero la polizia sarebbe potuta risalire a me. Le mie impronte erano ovunque. No, non gli avrei sparato, ma, perdio, se lo meritava, o per lo meno si meritava una scarica di calci in culo. Le mie armi erano nel bagagliaio dell'automobile. Ringraziando Iddio! Ovunque fossi, a Joplin, Chicago, Roma o Timbuktu, avrei sempre potuto procurami un po' di denaro, se avessi avuto una pistola. Non avevo nemmeno bisogno di parlare la lingua del posto. La canna di una pistola, nella lingua universale, significava: - "Fuori i soldi"! Mi uscì una risata che somigliava più a un grugnito, mentre dentro mi veniva da piangere. Che sfortuna… Nell'oscurità dell'inverno, con le luci e le decorazioni di Natale che guarnivano le vetrine, camminai per il centro della città di Joplin. Tutto era chiuso, tranne un cinema. Camminai ancora un po' finché mi imbattei in una banca. A due isolati dal mio albergo. Una rapina alla banca! Santo cielo! Avrebbero seppellito le mie chiappe ancora giovani in galera, se mi avessero catturato mentre svaligiavo una banca! Ma avevo bisogno di soldi. Non potevo trovare lavoro. Non avevo neppure la tessera dell'assistenza sociale. Inoltre non sapevo fare nulla che potesse motivare qualcuno a pagarmi perché lo facessi. Sulla via del ritorno in albergo, vidi che la biglietteria del cinema stava chiudendo in quel momento. Le luci della pensilina all'ingresso erano spente. Il proprietario contava i soldi con il cassiere. Bussai alla finestra. - Posso avere un biglietto? - È cominciato da dieci minuti. - Non importa. Mi fece segno di entrare. Nella luce grigia tremula, mi lasciai avvincere da una storia mediocre. Rock Hudson era il bel fattore giusto e onesto del Kenya che si batte contro una rivolta dei Mau–Mau. Ripensandoci adesso, il film pareva propagandare le vedute razziste dei coloni europei civilizzati contro i «selvaggi» Mau–Mau, che massacravano senza motivo le donne bianche e i servitori neri leali armati di grandi coltelli chiamati "pangas". Sul momento non feci alcuna analisi delle implicazioni storiche o politiche del film. Era soltanto una storia il cui punto di vista era esattamente conforme alle aspettative. Trent'anni più tardi, sarebbe stata ugualmente prevedibile: i ribelli eroici contro gli oppressori razzisti. Siamo passati dal "cliché" di Stepin Fetchit a quello di Mister T., due stereotipi alle estremità opposte dello spettro. Se si realizzasse oggi un altro film sui Mau– Mau, questi sarebbero i combattenti eroici per la libertà contro l'oppressore bianco. Per lo meno il film mi rilassò senza farmi pensare. Di ritorno in albergo, fui contento che fosse di servizio un altro portiere. Mi addormentai senza difficoltà. Al mattino, passando di fronte alla portineria dell'albergo, l'impiegato disse che non avevo regolato il conto di un giorno. Risposi che sarei ripassato a pagare ciò che dovevo e gli chiesi di preparare la ricevuta perché avrei lasciato l'albergo in giornata. Se non fossi stato senza il becco di un quattrino, sicuramente non avrei avuto il fegato di rapinare la mia prima banca. A dire il vero, al primo tentativo mi bloccai. Entrai e mi fermai al banco, lontano dagli sportelli di cassa, dove incominciai a riempire un modulo di deposito. Mi guardai intorno, cosciente del peso della pistola alla cintola. Un uomo in giacca e cravatta parlava con un funzionario della banca; ero convinto, senza saperne il motivo, che fosse uno sbirro. Mi prese paura e guadagnai l'uscita. Un'ora più tardi, confortato da tre bicchieri di Wild Turkey, tornai alla banca, avviandomi dritto sparato all'ufficio del vicedirettore, e gli comunicai che era una rapina. Aprii la giacca, quel che bastava per fargli vedere il calcio della pistola. Per camuffare la mia paura, feci la voce minacciosa, finché non vidi il terrore sul suo viso. Passammo dietro agli sportelli dei due cassieri, lui raccolse i contanti dai cassetti e li infilò in una borsa. I cassieri avevano un'aria perplessa e indecisa, ma uno dei due capi ciò che stava accadendo quando il vicedirettore mi tese la borsa. Mi accorsi che l'impiegato voleva dire qualcosa o dare l'allarme, e a quel punto scrollai il capo e infilai la mano nella giacca. La distanza che mi separava dalla porta d'ingresso mi parve allungarsi a dismisura, come una strada in un quadro di Salvador Dalí. Arrivai alla porta e uscii. Signore, l'aria fresca di quella giornata d'inverno mi parve bellissima! Avanzai sul marciapiede che costeggiava la vetrina della banca. All'estremità dell'edificio si trovava un viale in cui svoltai, per poi mettermi a correre a gambe levate. Poco prima di arrivare sul fondo del viale, mi voltai. Vuoto. Nessuno mi seguiva. Entrando nell'atrio dell'albergo, soffocai il fiato grosso passando davanti all'impiegato, che salutai con un piccolo gesto. Mi misi ad aspettare l'ascensore, poi cambiai idea e feci le scale a lato. Chiusa a chiave la porta, rovesciai i soldi sul letto e cominciai a contarli. Il bottino ammontava a poco più di settemila dollari. Venti minuti dopo, lasciavo Joplin al volante della mia automobile. Mi fermai in una caffetteria a parecchi chilometri dalla città, con grossi camion e rimorchi parcheggiati sullo spiazzo antistante, e feci colazione con pancetta e uova strapazzate. Sapevo di essere nel Sud perché veniva offerta la scelta tra patatine fritte e polenta integrale. Sul banco era aperto un giornale: J.F.K. SULLA LUNA. Diedi una scorsa all'articolo. Il giovane e bel presidente aveva fatto la promessa solenne che, nei dieci anni a venire, gli Stati Uniti avrebbero inviato un uomo sulla Luna e lo avrebbero riportato sulla Terra. Le notizie meteorologiche annunciavano che la neve era cessata negli Ozarks. Informavano anche che la regolamentazione del parcheggio era sospesa, finché le strade non fossero state sgombrate dalla neve. Più tardi, mentre filavo sul nastro nero dell'autostrada tra i campi di neve, mi sentii invaso dall'allegria: avevo rapinato una banca ed ero riuscito a farla franca. Venivo da così lontano che a nessuno sarebbe venuto in mente di mostrare la mia foto segnaletica alle vittime. Quella rapina sarebbe finita negli archivi criminali come caso irrisolto, e da decenni il reato è passato in prescrizione. Ben presto però all'allegria subentrò una sorta di malinconia. Non c'entrava il senso di colpa, perché le esperienze che avevo vissuto avevano attutito la capacità di provare quel sentimento. Era tristezza e senso di solitudine davanti alla disperazione dei miei giorni. Era sempre una questione di scelta, ma come si sceglieva: questo era il vero problema. Avevo dovuto svaligiare una banca perché ero un uomo ricercato, incapace di lavorare, e senza soldi. Se avessi potuto procurarmi dei soldi senza l'aiuto di una pistola, per cui avevo un debole, l'avrei fatto, ma non conoscevo niente di Joplin, e se avessi rubato qualcosa che si poteva rivendere, non avrei avuto un posto dove rivenderla. Mi pareva che le circostanze mi avessero condotto a rapinare quella banca. Che altro avrei potuto fare? Consegnarmi alla polizia. E come no. Naturalmente, guardando a ritroso, niente mi obbligava a saltare il recinto della colonia agricola della contea. Avrei potuto aspettare che mi riportassero alla prigione centrale e mi caricassero sull'autobus diretto a San Quentin, per scontare una pena per violazione della condizionale. Ma questo era contrario alla mia natura. Ero incapace di arrendermi senza combattere. Dovevo combattere. Se non fossi salito sull'automobile di Billy con Al fino a Beverly Hills in quella sera d'estate, niente di tutto ciò sarebbe accaduto. Un bravo cittadino, una persona a posto, non avrebbe mai conosciuto una coppia di scassinatori o, se li avesse conosciuti, non avrebbe saputo chi erano e cosa facevano. Io non li avrei conosciuti, se non fossi passato per San Quentin. Avessi frequentato Harvard, avrei conosciuto tutt'altra categoria di persone, ma questa strada mi era stata preclusa quando l'alberello si era piegato sotto i venti della fortuna, o della sfortuna, tanto tempo prima. Tutto nella vita riposa su ciò che si è fatto in precedenza. Si fa questo o quello perché, sul momento, pare che sia la cosa da fare. Si deve affrontare una situazione o un'altra a causa degli avvenimenti che si sono prodotti a un certo punto del passato sul cammino della vita. Ciò che è successo dipende da ciò che è avvenuto ancora prima. Chi metterebbe in dubbio l'affermazione che nessuno si regge su un vuoto o su un nulla? Il cono dei miei fari mordeva la luce grigia davanti a me. Era un giorno d'inverno senza sole, e avrebbe potuto essere mezzogiorno così come il crepuscolo. Trecentoventi chilometri a nordest, la notte si levò e inghiotti la terra. «"Onward, onward, rode the six hundred"». Accesi la radio e provai a trovare una musica di mio gradimento. La notte agevolava la ricezione. Forse avrei potuto captare Chicago o Saint–Louis. Riuscii a sintonizzarmi soltanto su musica country. Preferivo il jazz, il blues, o la classica, Mozart in particolare, perché non conoscevo altro. Al carcere minorile e al riformatorio, la maggioranza degli ospiti veniva dalla città, indipendentemente dal colore della pelle, e c'era un grosso pregiudizio diffuso contro i ragazzi di campagna, considerati degli idioti cresciuti a granoturco. Al penitenziario, però, questo pregiudizio scompariva. I detenuti più duri che ho conosciuto sono figli della gente di campagna che si riversò in massa in California dal Dust Bowl del Midwest durante la Grande Depressione degli anni trenta. Anche se le mie preferenze in materia di cantanti inclinavano verso un quartetto di voci nere, Ella Fitzgerald, Dinah Washington, Sarah Vaugham e Billie Holiday, quando la voce nasale e intrisa di dolore di Patsy Cline uscì dall'altoparlante, smisi di cercare un'altra stazione e restai in ascolto. Anche lei aveva ciò che possedevano le altre: un'anima. Da qualche parte, nel territorio del Missouri, presi la direzione sbagliata. Mi ritrovai a Cairo, nell'Illinois, dove l'Ohio River confluisce nell'enorme e poderoso Mississipi. Seguitai fino a raggiungere il Kentuky. L'automobile cominciò a perdere olio. A un certo punto, a est del Mississipi, comprai una latta di olio e ogni cinquanta chilometri mi fermai per versarne un litro o due nel serbatoio. Il sotto del telaio era sfasciato, e quando uscii da una caffetteria dove avevo fatto sosta, notai una spessa pozza d'olio per terra. Ma fintanto che riempii il serbatoio, il motore seguitò a funzionare. Dopo essere uscito da Paducah, nel Kentuky, a qualche chilometro dalla città, il motore di colpo si fermò. Proseguii fino a un'area di sosta lungo una salita lunga e poco ripida, di quelle che i camion giganteschi col rimorchio si fanno a tutta velocità se hanno uno slancio sufficiente. L'ultima cosa che un automobilista desidera fare è fermarsi per soccorrere un imbecille fermo accanto alla sua automobile in panne, alle quattro del mattino di una notte glaciale. Faceva veramente freddo fuori, ma ormai avevo addosso vestiti pesanti. La terra era nera e nuda, ma al riparo dei cespugli o degli alberi si vedevano ancora chiazze di neve. L'aria era gelida, il cielo terso, punteggiato dalle stelle più luccicanti che avessi mai visto. Una stella cadente disegnò una traiettoria curva per qualche secondo prima di sparire. Allora mi venne un pensiero, un'idea che mi è tornata un'infinità di volte da quel momento. Come poteva essere sensata la nostra idea di Dio, quando la minuscola pallina blu della Terra, paragonata all'universo, era meno di un granello di sabbia sulla spiaggia di Santa Monica? Se fossimo capaci di vedere galassie di un miliardo di soli, ciascuna situata a due miliardi di anni luce di distanza, come sarebbe concepibile l'idea che Dio si sia rivolto personalmente a Mosè o abbia avuto un figlio di nome Gesù? La Bibbia conteneva sicuramente certe verità e certe rivelazioni, la più ovvia delle quali era: «…Tutto è vanità!» Quando si levò il sole, si fermò un camioncino scoperto. Il conducente mi portò fino a una stazione di servizio con un'officina meccanica ai margini di Paducah. Pensavo che la pompa della benzina fosse saltata. L'indicatore di livello segnalava che il serbatoio era pieno a un quarto, ma la benzina non arrivava fino al motore. Un carro attrezzi partì per rimorchiare la mia automobile. Installarono una pompa nuova, ma neanche così arrivava carburante al motore. Il meccanico infilò un'asticella nel serbatoio, e la tirò fuori asciutta. Il problema non era la pompa. Era il galleggiante che si era incastrato nel serbatoio. Ero sicuro che il meccanico avesse subito capito tutto, ma che avesse approfittato di me non facendo la verifica prima di installare una nuova pompa della benzina. Immaginai la sua costernazione e il suo terrore qualora gli avessi puntato la pistola in faccia e lo avessi alleggerito di tutta la sua grana. Mi dissi che non ne valeva la pena, visto e considerato il putiferio della polizia che mi sarei scatenato addosso, perciò soffocai la mia collera e lo pagai, rammentandomi di questo adagio del truffatore: «Se proprio devi fare l'idiota, fallo, senza alzare troppo rumore». A Paducah affittai una stanza in un residence, un edificio di mattoni di tre piani. Costava cinquanta dollari al mese ed era un complesso rispettabile. I residenti erano dei celibi, rappresentanti di commercio o altri impiegati. Uno si era appena laureato in legge. Lavorava nel più prestigioso studio di Paducah e stava preparando l'esame di iscrizione all'albo professionale. Un altro faceva il barman. All'albergo si adoperarono perché potessi affittare un televisore da un negozio di mobili nelle vicinanze, che apparteneva ai proprietari dell'albergo. Dissi che ero uno scrittore, ma feci il misterioso quando mi domandarono cosa scrivevo. In effetti stavo lavorando al mio secondo romanzo, quello il cui manoscritto era andato perso durante il trasloco della casa Wallis, e anche al mio diario di fuggitivo, che in gran parte avevo inviato a Sandy sotto forma di lettere presso un altro indirizzo. Uno dei residenti osservò che aveva sentito la mia macchina per scrivere rientrando tardi un sabato notte. Ero nato nella California del Sud, dove tutto ciò che ha più di quarant'anni è considerato irrimediabilmente decrepito e consumato dal tempo, perciò per me Paducah era la città più vecchia che avessi mai visto. Sembrava fatta tutta di mattoni scuri e ferro battuto in abbondanza. In un bar nei pressi del fiume incontrai una puttana di nome Jetta. Era di Detroit, e il suo amico stava scontando sei mesi nella prigione locale per truffa, un raggiro particolare noto come «The Pigeon Drop». Conosceva la misura assai mediocre della vita mondana di Paducah, ed entrambi avevamo bisogno di compagnia. Con lei mi confidai un poco, ma non troppo. Mi avrebbe probabilmente venduto in cambio della liberazione del suo uomo, se avesse saputo la verità. Le dissi che mi nascondevo dalla mia ex moglie, che pretendeva gli alimenti per il bambino. - Li pagherei anche, -dissi, - ma credo che quel marmocchio moccioso non sia neanche figlio mio. In effetti assomiglia più a quel bastardo dell'amichetto di mia moglie. In capo a una settimana, Paducah divenne di una noia mortale. Avevo visto tutti i film in programmazione, alcuni persino due volte, e faceva talmente freddo che passavo gran parte del tempo in camera mia. Lavorai un po' a quello che sarebbe stato il secondo dei miei sei romanzi inediti. A Paducah commisi un altro errore indotto dalla mia arroganza esasperata che, come sapete, è uno dei miei numerosi difetti caratteriali. Mandai una cartolina al mio responsabile della condizionale di Los Angeles: «"Felice che tu non sia qui. Ah, ah, ah…"» La imbucai alla vigilia della mia partenza dalla città. Avevo intenzione di arrivare fino a New York, che mi aveva da sempre affascinato. La conoscevo, questa città, tanto bene quanto poteva conoscerla uno che non vi aveva mai messo piede. Avevo letto le descrizioni sinfoniche di Penn Station e di Park Avenue scaturite dalla penna di Thomas Wolfe, e quelle della scoperta della città, vagando a piedi di notte. Ero salito in cima all'Empire State Building con Cary Grant e Deborah Kerr in "Un amore splendido", ed ero andato ad Harlem con "Outsider" di Richard Wright. Conoscevo il Cotton Club e il Fulton Fish Market. Non avevo mai visto uno spettacolo teatrale o un musical di Broadway, ma sapevo che avrei potuto trovare entrambi nei pressi di Times Square. New York era il posto che volevo vedere più di qualsiasi altro. Anziché prendere la direzione nordest, mi ritrovai sulla Us 40, che saliva in direzione nord verso la Città dei Venti: Chicago. Mi resi conto del mio errore qualche ora più tardi, quando vidi i cartelli con le indicazioni stradali. Al diavolo, tanto valeva visitare anche Chicago… Come la chiamava Sandburg? «…"la macellatrice dei porci per il resto del mondo"…» Conoscevo anche Chicago grazie a Nelson Algren e al superbo romanzo di Willard Motley, "Che nessuno scriva il mio epitaffio", che mi fece piangere, una notte fonda nella prigione della contea, quando Nicky Romano («Affrettati a vivere, muori giovane, così che il tuo cadavere avrà ancora un bell'aspetto») veniva scortato alla sedia elettrica. Non ricordo se aveva visto suo figlio prima di morire. Era una storia con la quale mi ero veramente identificato. Non mi sarebbe dispiaciuto affatto dare un'occhiata anche a Chicago. Al mattino mi trovai in prossimità dei quartieri meridionali della metropoli. Poiché ero nato e cresciuto nella California del Sud, dove i fiori sbocciano tutto l'anno e anche le peggiori catapecchie sono casette basse unifamiliari con un cortile sul davanti, i sobborghi meridionali di Chicago furono una rivelazione sinistra. La neve recente si era trasformata in una fanghiglia disgustosa mescolata a cristalli di sale. Tutti gli edifici sembravano costruiti in mattoni, a tre piani, con scale e verande di legno sul retro. Era una povertà come non l'avevo mai vista. Volevo uscire da Chicago, ma mi ritrovai in direzione nord sul tratto che costeggiava il lago, e soltanto in prossimità della Northwestern University capii che stavo percorrendo la strada intorno al lago nel senso di marcia sbagliato. Avrei dovuto attraversare il Canada se avessi voluto piegare a est. Feci un'inversione e fui felice di varcare la frontiera dell'Indiana dove, per la prima volta nel corso del viaggio, mi procurai una carta stradale. Da Chicago fino a New York la strada era larga, piatta e diritta. L'unica volta che dovetti fermarmi fu al confine dello Stato e per fare rifornimento di benzina. E di olio, molto olio. All'uscita di South Bend, presi una camera in un motel. Al mattino la neve cadeva e sotto l'automobile vidi un lago di olio. Il motore si rifiutava di partire. Scaricai la mia roba e rimossi le targhe prima di gettarle in un fossato dietro il motel. Un taxi mi condusse alla stazione dei pullman Greyhound. Il pullman mi portò fino a Toledo, la città natale di mio padre, o perlomeno è ciò che credevo allora e credo tuttora, anche se non riesco a ricordare come mi feci questa idea. Sapevo che lui e mia zia erano cresciuti a Toledo, e dunque presumevo che vi fossero anche nati. Sapevo anche che i miei antenati paterni erano emigrati dalla Francia nel diciottesimo secolo per diventare cacciatori di pelli nella regione dei Grandi Laghi e in territorio canadese. Esiste un'Associazione della Famiglia Bunker i cui numerosi membri provenienti da tutte le regioni dell'America si riuniscono annualmente. Sono abbonato al loro notiziario, ma questa famiglia Bunker discende da antenati anglosassoni che inizialmente si insediarono a Nantucket e nel New Hampshire. Dubito di appartenere a questo ramo e dubito che i suoi membri vogliano annoverarmi nei loro ranghi. Non so nulla della mia nonna paterna, né il nome di battesimo né il cognome, anche se credo che si chiamasse Ida. Credo inoltre, e con qualche certezza in più, che il nome di mio nonno fosse Charles. Mi raccontarono che era capitano o ufficiale di bordo su un battello che faceva servizio sui Grandi Laghi, e che annegò quando mio padre era ancora giovanissimo. Misera conoscenza sulla storia di una famiglia che avrebbe potuto essere interessante, visto anche che abbraccia la storia dell'America. Quando arrivai a Toledo, ripensai ai racconti che mi avevano fatto sugli inizi del secolo, quando mio padre aveva visto il combattimento Dempsey contro Firpo. Un pugno, e Firpo aveva fatto volare Dempsey fuori dal ring. Era stato uno degli incontri tra pesi massimi più feroci di tutti i tempi. A Toledo restai in un motel, aspettando che il tempo volgesse al meglio. Faceva sempre freddo, ma almeno il cielo era sereno. Tramite un annuncio sul giornale di Toledo trovai una Olds Rocket 88 del '54, e la comprai. All'epoca era una cannonata. Quando le previsioni meteorologiche annunciarono giorni chiari e soleggiati per il resto della settimana, mi rimisi in strada. Avevo deciso che New York sarebbe stata la tappa finale del mio viaggio, ma che, prima di arrivarci, me la sarei presa comoda e mi sarei goduto la campagna. Rimpiangevo di non averlo fatto invece di divorare chilometri e chilometri di strada all'inizio del viaggio. Recentemente avevo letto "Stillness at Appomatox" di Bruce Catton, e sapevo che i luoghi in cui erano state combattute le grandi battaglie della Guerra di Secessione distavano solo poche centinaia di chilometri. C'era Gettysburg in Pennsylvania, che volevo vedere. Volevo vedere tante cose. Tempo e soldi non mi mancavano, e allora perché non lasciarmi trasportare dal capriccio? Vidi Cincinnati, poi attraversai il fiume verso il Kentucky. L'America offriva un numero incalcolabile di posti da visitare di una bellezza trascendente, ma la serenità e l'incanto della Regione del Bluegrass nel Kentucky, con i suoi chilometri di recinzioni bianche (immaginai di nutrire i cavalli all'ombra dei grandi alberi nei pascoli verdeggianti, sullo sfondo, in lontananza, di una casa coloniale in mattoni o di una fattoria di epoca federale) per me fu il massimo. Se dovessi scegliere un posto in cui vivere, a questa regione riserverei un soggiorno intenso e prolungato, come del resto a Parigi, Londra, Capri, Martha's Vineyard, Roxbury nel Connecticut, oppure starei otto mesi nel Montana e quattro a Los Angeles. Comunque sia, fui profondamente affascinato dal paese "bluegrass". Memphis, in giugno, la trovai niente male, anche se le giornate erano ormai un po' calde e umidicce. Le notti erano belle e delicatamente profumate. Pensavo di trattenermi soltanto qualche giorno, ma incontrai una ragazza in un Dairy Queen e restai quasi un mese. La rivoluzione sessuale era ancora a venire, e anche se alla ragazza piaceva pomiciare e farsi sbaciucchiare finché diventavo matto, non si lasciava scopare. A un certo punto mi dissi che era ora di rimettermi in marcia. Rimandai a un momento successivo la mia visita a New York. Dicevano che il peggior momento per andarci era la metà dell'estate, troppo calda e troppo umida. I newyorkesi che potevano permetterselo lasciavano la città nei mesi della canicola. Dopo qualche giorno passato attraversando il Sud, una notte qui, una notte lì, mi ritrovai a Fulton Country, in Georgia, dove mi fermai in un motel con graziosi bungalow di legno disposti a ferro di cavallo, lo spazio al centro ricoperto di ghiaietto. Non c'erano né alberi né piante, e anche l'ufficio era ugualmente spoglio, di un'austerità eccessiva. Quando l'impiegato o il proprietario o chiunque fosse comparve dal fondo dell'ufficio, dalla porta aperta mi giunsero le note di un'opera. Credo fosse Wagner. Dopo essermi sistemato nella mia stanza, feci un giro in macchina e passai davanti a un piccolo agglomerato di punti vendita e attività commerciali - stazione di servizio, caffetteria, drogheria - a meno di due chilometri dalla strada. Quando il sole cominciò a tramontare, feci una passeggiata per trovarmi qualcosa da mangiare e un pacchetto di Camel. Mentre uscivo dal piccolo supermercato, passò un agente della polizia di Stato, le luci lampeggianti. Mi avviai per la strada, seguendolo con lo sguardo. La luce lampeggiante si spense prima che raggiungesse il viale di accesso al motel e lo imboccasse. Oh, là! La prima idea che mi venne in mente fu: "Per lo meno ho i soldi"! A dire il vero era tutto ciò che avevo con me. Abiti, armi, macchina per scrivere, e tutto il resto era nell'automobile o in camera. Avrei potuto ricuperarne una parte, perlomeno le armi? Erano nel bagagliaio, e io avevo le chiavi. Imboccai la strada restando nell'ombra, gli occhi fissi davanti a me, pronto a nascondermi se avessi visto dei fari. A circa duecento metri dal viale del motel, presi per il bosco. Le piante e gli alberi erano bagnati di rugiada, e il suolo era accidentato. Rividi le luci lampeggianti, e quando arrivai sul bordo del bosco scorsi due vetture della polizia di Stato e degli uomini in uniforme con cappelli a falda larga. Erano appostati davanti alla porta aperta del mio bungalow e avevano circondato la mia automobile. Uno di loro ispezionava l'interno del veicolo con una torcia. Era tempo di darsi alla fuga. Più esattamente, era tempo di incominciare a scarpinare nella notte. Non avevo idea del numero di uomini che avevano radunato nella zona per catturarmi. Non vidi nessuno; ancora una volta mi tenni alla larga dalle strade il più possibile. Passai davanti a fattorie, e i cani mi abbaiarono contro. A ogni coppia di fari che vedevo, mi nascondevo finché non sparivano. Al mattino smisi di nascondermi e avanzai sul bordo di una piccola autostrada, il pollice levato per chiedere un passaggio. Un nero al volante di un furgoncino scoperto mi fece salire e mi condusse fino al paese successivo, di cui non ricordo il nome. Li c'era una stazione di automezzi della Continental Trailways con una sala d'attesa e un caffè. Alla biglietteria domandai il prezzo del tragitto fino a New York, Miami e Los Angeles. La giovane donna mi diede le informazioni che volevo. - Quale parte per primo? - Per il Sud parte tra venti minuti. Per Miami bisogna cambiare a Jacksonville. - È il primo? - Sì. - Mi dia un biglietto di sola andata. - Vuole proprio andare da qualche parte, vero? - Come lo sa? - Leggo nei pensieri. Poco tempo dopo ero in viaggio verso il Sud. Scoprii che potevo scendere ovunque si fermasse l'automezzo e prenderne un altro che faceva servizio sullo stesso itinerario. Scesi a Jacksonville, dove affittai una camera di albergo e comprai una pistola a poco prezzo. L'indomani pomeriggio, rapinavo un'altra banca. O meglio, tentavo di rapinare un'altra banca. Quando allungai il mio bigliettino alla cassiera, costei mi squadrò dalla testa ai piedi. Resasi conto che non spianavo nessuna pistola, si abbassò, scomparve dalla mia vista e incominciò a urlare: - Aiuto! Aiuto! Aiuto! Anche se avessi estratto la pistola per puntagliela alla testa, non avrei mai sparato; magari le avrei rifilato una sberla. Girai sui tacchi, ricacciai l'arma nella cintola, e uscii camminando e ruotando la testa, la fronte corrugata, come se anch'io cercassi in giro la causa scatenante di quelle grida. Tutti si guardavano intorno. I miei occhi si appuntarono a quelli di un giovane in giacca e cravatta dietro una scrivania. Non smetteva di fissarmi. Se avessi affrettato il passo, si sarebbe messo a urlare indicandomi col dito. Invece esitò, fintanto che non arrivai a due passi dalla porta. Avevo già sollevato le mani per spingerla, quando sentii urlare: - È lui! Mi precipitai attraverso la porta girevole e uscii sul marciapiede sospinto dallo slancio, e poi attraversai di corsa la strada. Si sentì uno stridore di freni, allorché un automobilista inchiodò la sua automobile, poi il fracasso di un tamponamento a catena. Seguitai a correre senza neanche voltarmi a guardare. Sull'altro lato della strada svoltai l'angolo e presi per una strada laterale. Un vialetto costeggiava il retro di alcuni negozi. A metà strada mi voltai a guardare dietro. Tre o quattro liceali in uniforme scolastica si erano lanciati al mio inseguimento. Estrassi la pistola ed esplosi un colpo sopra le loro teste. Il ragazzo a capo del gruppo si fermò. Quelli che lo seguivano gli finirono addosso e capitombolarono a terra l'uno sull'altro. Sparai un'altra pallottola e quelli batterono in ritirata. Dopo aver girato l'angolo dell'edificio, mi rimisi a correre. La stazione dei pullman era a un isolato e mezzo di distanza. Gocciolavo sudore dai vestiti fradici e lottai per riprendere fiato e saltare sugli scalini del pullman. Nel momento in cui balzai su riuscii a vedere dall'alto la rampa di uscita sulla strada. Una macchina della polizia passò lanciata a tutta velocità. Mi lasciai cadere sul sedile e chiusi gli occhi. Qualche minuto dopo, il mio corpo mi segnalò che stavolta lo spavento era stato veramente troppo. Incominciai a tremare, e la paura che soffocavo in me quando passavo all'azione mi scosse in ondate successive. Gesù mio, un ex detenuto in fuga che esplode colpi di arma da fuoco durante una rapina! Mi avrebbero sepolto a Leavenworth. Avrei avuto cinquant'anni, quando mi avrebbero rilasciato. CAPITOLO DODICESIMO. RICONOSCIUTO PAZZO CRIMINALE. Nonostante di tanto in tanto mi sia capitato di commettere una rapina a mano armata nel corso della mia lunga carriera criminale, questa non è mai stata la mia prima scelta tra le varie modalità del furto. Le armi da fuoco creano una situazione per definizione troppo aleatoria. C'è sempre il rischio che qualcosa vada storto. L'impiego delle armi aveva davvero delle conseguenze esplosive. Allo stesso modo, le autorità consideravano la rapina a mano armata un reato ben più grave del falso o del furto con scasso. In fin dei conti, direi che ero innanzitutto un ladro di merci. Non svaligiavo le case, ma, a parte questo, si può dire che rubavo tutto ciò che riuscivo a rivendere. Le merci migliori erano le sigarette e il whisky, naturalmente, e ne rubai un bel po', ma rubai anche un camion di motori fuoribordo, duemila pennelli (si vendettero alla svelta, che lo crediate o no), una partita di macchine fotografiche (riempivano una stanza intera), l'intero contenuto di un negozio specializzato in attrezzatura per la pesca subacquea e quello di due monte dei pegni. Un fine settimana di pioggia, rapinai un bar nel quartiere Rampart di Los Angeles in compagnia di un vecchio ladro professionista di nome Jerry. Fu facile penetrare all'interno, praticamente un gioco da ragazzi. La porta era munita di un allarme antisfondamento, ma c'era una sopraffinestra senza allarme. Jerry mi fece salire sulle sue spalle. Coprii con del nastro adesivo una parte dell'imposta sopra il chiavistello e la colpii con il pugno protetto da un asciugamano. Il vetro si ruppe senza cadere per terra. Staccai l'adesivo con i pezzi di vetro che vi erano rimasti attaccati, e solo qualche piccola scheggia finì al suolo tintinnando. Qualche istante dopo, mi lasciai cadere nel locale, atterrando morbido e silenzioso come un gatto. Restai in ascolto, il tempo di qualche battito del cuore, poi andai alla porta e feci entrare Jerry. Il temporale ci fece da copertura. Jerry aveva una Buick Roadmaster. Avevamo rimosso il sedile posteriore, e riempimmo tutto lo spazio disponibile con casse di whisky. Trovai anche un fucile da caccia e qualche altro oggetto da ricettare. Dentro la scrivania c'era un blocchetto di assegni. Staccai parecchi assegni alla fine del libretto, che poi riposi nel cassetto. In un monte dei pegni avrei potuto procurarmi una macchina per stampare le cifre sugli assegni. Mi dissi che il proprietario del bar avrebbe potuto anche non accorgersi dell'ammanco degli assegni. Il titolare di un locale notturno di Hollywood aspettava il whisky. Lo scaricammo passando dalla porta sul retro una domenica pomeriggio di pioggia. L'indomani portai il resto della refurtiva da un ricettatore che era titolare di un piccolo autolavaggio su Venice Boulevard, a meno di due chilometri dal centro della città di Los Angeles. Mentre erano in corso le trattative sui prezzi, il suo telefono squillò. Il ricettatore rispose, e la sua conversazione si limitò a grugniti e monosillabi. - Uh–uh… Sì… Uh–uh… Sì. D'accordo. Poi disse, tendendomi il ricevitore: - Parla con questo amico. - Che succede? - domandai. - Ascolta, - rispose la voce di un nero. - Sono su Western. Sono pieno di roba di tutti i tipi, sul viale dietro un negozio di elettronica. Non riesco a far partire la mia macchina e ho bisogno di qualcuno che mi venga a prendere. - Dove sei? - Era all'altezza di Seventieth, in fondo a Western. - Credimi, amico, è un lavoro da tassista. Non mi costava niente andare a vedere, e la cosa m'incuriosiva. Quando ci ripenso, era una follia, ma all'epoca ero affascinato da tutto ciò che era folle. All'angolo di Western e della via perpendicolare che la voce al telefono mi aveva indicato, mi incontrai con un nero smilzo, la faccia stravolta tipica del tossico senza ritorno. Mi fece fare il giro dell'isolato e svoltare in un vicolo. Non c'erano dubbi: nello spazio riservato al parcheggio sul retro di un negozio, sotto una coperta, c'era una pila di apparecchi stereo e televisori, oltre a un migliaio di trentatre giri che al mercato nero valevano un dollaro e mezzo ciascuno. Non era Fort Knox, ma, come aveva detto, era un lavoro da tassista. Posteggiai all'interno e spensi il motore; abbassai la targa uscendo dalla vettura, se mai passasse qualcuno. Ci mettemmo ad ammucchiare la roba sul dietro della Buick, il cui sedile posteriore non era stato ancora rimesso al suo posto. In meno di due minuti avevamo finito, e partimmo. Il ricettatore comprò tutto tranne un lungo cappotto da donna. Era di cachemire, salvo il cappuccio e il collo di visone, e l'etichetta su cui c'era scritto: bullocks. Il ricettatore aveva offerto meno di quanto io sapevo di poterne ricavare proponendolo a una cameriera di un bar su Sunset Boulevard. Poi, anche se mi avesse dato di meno, preferivo che lo avesse lei. Di fatto, se si fosse dimostrata carina con me, forse avrei anche potuto regalarglielo. Il mio nuovo complice, di cui ignoravo il nome, sudava, tremava e sbadigliava, tutto nello stesso tempo. - Stai male, eh? - domandai. La parola «male», nel linguaggio della strada, voleva dire in crisi di astinenza. - Come un cane, amico. Ti fai anche tu, amico? Scrollai la testa. - Mi faccio qualche canna. - Vuoi portarmi dal mio fornitore? D'impulso, accettai. In realtà dovetti accompagnarlo da due spacciatori. Il primo era fuori casa; il secondo volle sapere chi ero. Ci eravamo spinti così lontano dai quartieri bianchi, che avremmo anche potuto trovarci a Nairobi. Era buio quando lo riaccompagnai a casa sua tra Manchester e Western. Era una bella casa bassa in una via residenziale. Entrai per fare una telefonata. Volevo avvisare una barista che ero in ritardo, e che non prendesse un altro appuntamento. Mentre ero in casa, bussarono alla porta. Andò ad aprire la ragazza del mio nuovo complice. Sentii delle voci con un tono ostile. Era ora di sloggiare. - Me ne vado, - dissi al mio socio avviandomi verso la porta d'ingresso. Il nuovo arrivo era una coppia di giovani neri, un metro e ottantasette uno, e l'altro anche più alto. Mi feci piccolo passando davanti a loro e, uscendo nell'oscurità, percepii il loro sguardo bruciante sulla mia schiena. Nel viale, oltre il cancello, la mia automobile era parcheggiata lungo il marciapiede, a una decina di metri. A pochi passi dalla vettura, sentii cigolare il cancello. Mi voltai. I due neri mi seguivano. Entrai dentro e aprii il coltello, nel momento stesso in cui i due sopraggiunsero. Uno dei due fece il giro per venire dalla parte del conducente. Con un gesto repentino passò la mano attraverso il finestrino posteriore e afferrò il cappotto orlato di visone. - È il cappotto di mia madre. Mi bastò sentire le sue parole e capii tutta la faccenda. Il mio «complice» aveva svaligiato l'appartamento di qualcuno che conosceva, qualcuno che aveva sospettato di lui non appena il furto era stato scoperto. Allungò la mano per aprire la portiera. Io tagliai l'aria con il coltello e lui fece un balzo indietro. Girai la chiave dell'avviamento e premetti l'acceleratore. La grossa Buick parti a zigzag, lasciando la gomma sull'asfalto. Svoltai a un angolo, poi a un altro, senza mai distogliere lo sguardo dallo specchietto retrovisore. Vidi una coppia di fari. Mi seguivano? Impossibile saperlo. Svoltai ancora e diedi gas. All'improvviso una vettura arrivò alle mie spalle; le luci lampeggianti sul tetto annunciarono che era la polizia. Altro giro, altra corsa. Schiacciai l'acceleratore e l'automobile scattò in avanti. L'urlo della sirena riempi la notte di L. A. Dovevo abbandonare la macchina. Non ero nel mio quartiere e non conoscevo le vie. Ma dovevo girare due volte, prima di prendere il largo senza farmene accorgere. Immaginavo l'inseguimento. Tutte le radio in ascolto, e la macchina che mi stava dietro diramava lo svolgimento dell'operazione: «A sud su Budlong… A ovest su Forthy–third… A sud…» Sopraggiunsero altre macchine della polizia per unirsi all'inseguimento. Da una strada laterale sbucai su un viale a un capo del quale c'era un semaforo. Entrambe le corsie erano bloccate da una fila di automobili in attesa. Sterzai il volante sulla destra, evitando soltanto in parte il marciapiede e l'ingresso di una stazione di servizio; premetti il freno e sterzai ancora. Il dietro dell'automobile sbandò e urtò un palo. Sopra il marciapiede e sul viale. A tutto gas. La lancetta del contachilometri salì. Gli sbirri non erano dietro l'angolo, quando svoltai. A metà strada dell'isolato, schiacciai il freno. I pneumatici stridettero e l'automobile si piantò slittando. Prima che si fermasse del tutto, ero già uscito fuori e correvo in linea retta attraverso la strada per poi imboccare un viale accanto a una casa. Alle mie spalle comparve la macchina della polizia all'altezza dell'angolo della via. Mi avevano visto? Impossibile saperlo. Mi infilai di volata in un cortile, le mani protese in avanti. Prima dell'introduzione delle macchine per lavare e asciugare il bucato, i fili per stendere i panni nei cortili delle case costituivano una vera e propria minaccia per i fuggiaschi che scappavano nell'oscurità. Un giorno ne avevo preso uno in piena fronte correndo a rotta di collo. Seguitai a correre, finendo gambe all'aria. Ricaddi battendo la testa, e fui fortunato a non rompermi il collo. La mia fronte si squarciò in linea retta fina all'osso, e la mia faccia si inondò di sangue. Sanguina di brutto, la faccia! Attraversai il cortile, saltai su un recinto che tremò sotto il mio peso. Non smisi di correre finché non uscii dal cortile vicino, poi feci il vialetto e attraversai la strada, urlando una preghiera silenziosa perché in quel momento non arrivasse un'altra automobile dall'angolo della strada. Nessuna automobile. Avevo la possibilità di farla franca se gli sbirri si fossero dispersi a macchia d'olio a partire dal posto in cui avevo abbandonato la macchina. Attraversai il davanti di un cortile e piombai nell'oscurità di un altro vialetto. Era chiuso da un cancello. Tesi la mano per aprire il chiavistello, quando un rottweiler ringhioso mi saltò addosso e tentò di mordermi la mano, sputandomi il suo fiato caldo in faccia. "Merda"! Senza un secondo di esitazione, battei in ritirata. Avrei preso per il viale della casa vicina. Uscii e tagliai per un prato. Sull'altro lato della strada, dove mi trovavo poco prima, comparve un'uniforme scura. "Alt"! Presi a correre ancora più forte. Risuonò un colpo di arma da fuoco. La pallottola fece sprizzare delle scintille sul viale davanti a me. Provai ad accelerare. Mi trovai di fronte a un altro cancello. Per favore, Signore Iddio, niente cani. Tentai di scavalcare la griglia del cancello. Un piede restò impigliato. Toccai terra con la testa. Il piede sempre impigliato. Il fascio di luce ballerino di una torcia precedette di un attimo la comparsa di una figura scura sopra di me. Una.375 Magnum puntata addosso. - "Non muoverti, cazzo"! Un'altra figura in uniforme scura sopraggiunse ansimando. Frattanto le luci si accesero in entrambe le case. Un poliziotto tentò di aprire il cancello, mentre l'altro mi teneva la torcia e la pistola puntate addosso. - Fermo dove sei e non muoverti. Si aprì una finestra. - Che succede, là fuori? - Dal tono melodioso della voce si sarebbe detto un afroamericano. - Operazione di polizia! Restate dentro casa! Riuscirono ad aprire il cancello e a infilarmi le manette, poi, a forza di spinte e strattoni, mi trascinarono sul marciapiede. Arrivarono altri due sbirri. Erano sfiancati, ma piuttosto elettrizzati dall'inseguimento forsennato. Uno dei due mi mollò un calcio sullo stomaco, ma io riuscii a scartarmi e ad alzare il ginocchio abbastanza in alto da parare il colpo. Nix… nix, - fece un poliziotto. Me ne ricordo bene, perché era un termine che non sentivo dai tempi della scuola. "Nix! Che razza di stronzata è questa"? Il motivo erano i testimoni. Molti vicini erano usciti sulla veranda di casa per vedere cosa stava succedendo. Era un quartiere di neri della media borghesia. Un viale traversava l'isolato, e gli sbirri non furono costretti a farmi fare il giro. Adesso gli sbirri erano quattro, e altri due arrivarono a passo di carica dall'altro lato del viale, lanciandosi contro di me come due terzini di football americano. - O.k., figlio di puttana! Ti insegnamo noi a scappare, testa di cazzo… bastardo con la merda al posto del cervello… E stato sempre "de rigueur" per gli sbirri prodursi in un pestaggio alla fine di un inseguimento. Fa parte del gioco. Me l'aspettavo e non provai alcuna indignazione, ma, a dire il vero, un po' di gratitudine, perché erano una mezza dozzina a contendersi la preda. Un ammasso di corpi rotolò sul viale fino alla strada successiva, dove sostavano in attesa parecchie automobili della polizia, le luci lampeggianti. La Buick era al centro della strada, la portiera dalla parte del conducente ancora aperta. Una folla di abitanti del quartiere si era raccolta sul marciapiede. Erano tutti di colore, e sopra gli altri rumori sentii una voce esclamare in tono sorpreso: - È un bianco! Perdio! - Mi schiaffarono sul sedile posteriore di una macchina della polizia. Si accostò un sergente e aprì la portiera. Mi avevano preso il portafoglio, e lui teneva in mano tre patenti con tre nomi diversi originari di tre Stati diversi. - Come ti chiami? - Sono John McCone, Cia. Ho provato ad avvertirli… - Avvertirli? A proposito di che? - Nel trentasei, li avevo informati che i giapponesi avrebbero bombardato Pearl Harbour. - Che cazzo stai raccontando? - Volete portarmi a Washington? Si accostò un altro poliziotto per dare un'occhiata. - Si è fatto di qualcosa. Questo coglione crede di essere della Cia. - Può essere anche la "regina di Maggio", chi se ne frega? Mettiamolo dentro, così possiamo tornarcene a casa. Mi portarono al famigerato posto di polizia di Seventy–seventh. Erano due anni che non sbattevano in galera un bianco. Mi picchiarono per un po', perché ero un bianco. Ma, a questo punto, ci avevo preso gusto. Quando mi incarcerarono, firmai la mia scheda di ingresso come Marty Cagle, Lt., U.s.n.r., indicando come anno di nascita il 1905. L'addetto alla procedura di incarcerazione mostrò la scheda al sergente: - Lascia perdere. Chi se ne importa? - Mi incarcerarono sotto il nome di «Identità Ignota N. 1» Mi sbatterono in cella. Non c'era modo di essere liberato su cauzione. Ero un evaso e avevo violato la condizionale, dunque non avevo diritto al rilascio su cauzione. Avrebbero dovuto trascinarmi a forza per riportarmi al penitenziario. Si sarebbe visto il solco sull'asfalto per tutta la lunghezza della strada. Si erano domandati se ero pazzo da quando avevo dieci anni, perciò in quel momento decisi che mi sarei comportato come un matto da legare. Che la farsa avesse inizio. La mia spacconeria mascherava un vuoto che sconfinava nella disperazione più nera. Stando al buon senso, una situazione tale avrebbe dovuto farmi sbattere la testa contro il muro. Al contrario, fui sopraffatto da un sopore irresistibile. Il sonno è un modo di sfuggire alla depressione. Mi addormentai col tanfo del materasso nel naso. Al mattino, un agente in uniforme aprì il cancello della cella. Un investigatore aspettava per interrogarmi nel solito posto, una stanza senza finestre con un tavolo e tre seggiole dallo schienale rigido. Mi scrutò con sguardo freddo e ostile. - Siediti, Bunker. Conoscevano già il mio nome. Maledizione! Si erano fatti in quattro per saperlo o, ad ogni modo, è ciò che pensai sul momento. - È morto, - ribattei. - Io sono il numero cinque. Lei chi è? - Mentre parlavo, m'inclinai sulla sinistra e osservai il soffitto, muovendo lentamente la testa, come se seguissi con lo sguardo un insetto che strisciava in alto. L'ispettore conservò una faccia deliberatamente impassibile, ma i suoi occhi si restrinsero a due fessure sottili, e anche lui fissò il soffitto. - Sapete chi sono quelli, no? - domandai. - Quelli chi? - I cattolici. Hanno cercato di impiantarmi una radio nel cervello, sa? - Ciò che voglio sapere io, sono informazioni su quei furti. Abbiamo trovato gli assegni nella tua camera d'albergo. La camera d'albergo! Come avevano fatto…? La chiave della camera. Cazzo. Era nell'automobile. - Dell'albergo non so niente. È la Chiesa… È tutta quella gente. È tutto lì. Dunque, lei non lo sa? Le mie parole avevano un tono stridulo che lo fermò. Aveva dato per scontato che mi fossi fatto con la polvere d'angelo o qualche altro allucinogeno. Era un bell'uomo, vestito elegante. Non dava l'impressione di essere molto impressionato dal mio comportamento. Le vecchie volpi della polizia hanno avuto a che fare con una tale varietà di debolezze umane che hanno l'aria di essere quasi sempre persi nei loro pensieri. In molti casi un vecchio sbirro e un vecchio ladro hanno molte più cose in comune tra loro che con uno sbarbatello della propria parrocchia. L'investigatore mise termine all'interrogatorio e mi rispedì in cella. Fui obbligato a passare davanti a una mezza dozzina di celle. Ciascuna ospitava quattro o cinque giovani di colore. Era l'epoca delle pettinature afro, che i neri si acconciavano usando un pettine appuntito che gonfiava i capelli, in modo da formare un ciuffo dritto, più era grosso meglio era. Ahimè, gli agenti addetti alla procedura di incarcerazione requisivano l'apposito pettine, cosicché, dopo una sola notte di galera, la loro capigliatura somigliava alla violenta esplosione di innumerevoli molle d'orologio. Passando davanti a una cella, uno di loro, non credendo ai suoi occhi, esclamò: - Ehi, amico, mettono un viso pallido giù in fondo! - I visi pallidi infrangono la legge, - fece un altro. - Non ne ho mai visto uno al Seventy–seventh. La guardia che mi scortava disse:- Non ha niente di un bianco. È un negro bianco. Tornato nella mia cella con le scritte sui muri, il materasso a strisce impregnato del sudore e dell'odore dei suoi precedenti occupanti, sprofondai nella disperazione più nera. Che vita! Che avevo fatto per meritarla? La domanda aveva una sua risposta, e risi di questo mio momento di autocommiserazione. Una cosa era certa: mi sarei difeso con le unghie e coi denti prima che i cancelli di San Quentin mi inghiottissero nuovamente chiudendosi alle mie spalle. Nel tardo pomeriggio, con la luce che virava al grigio filtrando dalle piccole finestre sbarrate dirimpetto alla cella, la porta esterna si aprì e due passi diversi risuonarono sul pavimento del corridoio. - Ehi, amico… ehi… ehi… ehi, "figlio di puttana"! - urlò un fratello nero in fondo al ballatoio. L'agente di sorveglianza non si palesò a quel richiamo. L'agente di sorveglianza, un nero in carne nell'uniforme scura del Lapd, la faccia ancora segnata dall'esasperazione, arrivò davanti alla mia cella e l'aprì. Era seguito da un bianco più avanti con gli anni. Lo chiameremo Pollack, perché aveva un nome dell'Europa dell'Est, credo. Pieno di rughe e flaccido, dava l'impressione di saperla lunga. Mi ricondussero nella stanza degli interrogatori. Pollack e il bell'ispettore mi aspettavano con alcuni fascicoli a portata di mano. Mi sedetti. - Il tuo responsabile della condizionale dice che simuli, - esordi l'ispettore. - Amico… Fa parte della Chiesa. Possibile che lei non lo veda? Alzò gli occhi al cielo e poi, con voce appena percepibile, si lasciò scappare: - Meeerda… - Ascolta, Bunker, - proseguì Pollack, tirando fuori il portafoglio da cui estrasse una carta. Non sono cattolico. Sono luterano. Guarda… - Mostrò una tessera di appartenenza a una chiesa luterana. Mi sporsi in avanti ed esaminai la tessera con cura e grande serietà, prima di annusarla. Falsa, - sentenziai. Il colloquio seguitò sullo stesso binario. Mi interrogarono su Gordo. Dove diavolo avevano trovato quel nome? Parecchi mesi dopo, leggendo un rapporto di polizia durante un'udienza in tribunale, appresi che aveva chiamato l'albergo e lasciato il suo nome. Una notte buia e tutta illuminata di luci, mi condussero sul luogo in cui era stata scassinata e svuotata una cassaforte. Una donna che abitava nella casa accanto al bar aveva visto una vettura arrestarsi di fronte alla porta sul retro del locale. Ne era uscito un uomo, secondo la dichiarazione della testimone, che poi aveva attraversato il marciapiede ed era salito in macchina. La donna si trovava a una trentina di metri, e l'aveva visto in parte di spalle e di lato. Avrebbe potuto identificarmi? Mi fecero uscire dall'automobile e restare li mentre l'altro conduceva la testimone verso distanza. Non ci scambiammo neppure una alzare le spalle. Niente identificazione. Non volante. in piedi. Un ispettore rimase al mio fianco, il bordo del marciapiede, a cinque metri di parola, ma vidi la donna scuotere il capo e ero io, ad ogni modo. In quel colpo, ero al L'indomani mattina, l'ispettore e il suo collega mi fecero uscire dalla cella del distretto di polizia per condurmi al Tribunale Municipale di Inglewood per l'udienza preliminare. In quella sede mi sarebbero stati contestati i miei capi di imputazione. Mi richiusero in una cella di detenzione provvisoria, accanto all'aula dell'udienza. Era occupata già da parecchi altri imputati, rastrellati per le strade durante la giornata o la notte precedente. Per tutti era la prima comparizione dinanzi al giudice. Nell'attesa, preparai il mio costume di scena. Annodai dei pacchetti di tabacco Bull Durham alla camicia come una sfilza di medaglie. Mi coprii la testa con un asciugamano che poi legai con un laccio delle scarpe. Sfilai i lembi della camicia e arrotolai il fondo dei pantaloni fino al ginocchio. Ai membri della corte dovetti apparire come il più demente pazzoide che avessero mai visto in vita loro, anche se gli aggiunti non mi prestarono alcuna attenzione. Ne avevano visti passare molti, di svitati. Prima che la corte facesse il suo ingresso, entrammo in fila nell'aula e ci sedemmo sui banchi dei giurati. Era un'udienza di contestazione dell'atto di accusa. L'aula ronzava come un alveare, tra avvocati, garanti di cauzione, impiegati del tribunale e agenti di polizia giudiziaria, oltre al pubblico degli spettatori convenuti in gran numero. Entrò l'usciere annunciando che il Tribunale Municipale della città di Inglewood, Contea di Los Angeles, apriva la sessione, presieduto dall'Onorevole Giudice James Shanrahan. Quando il giudice varcò la soglia dell'aula, io uscii dal mio seggio, urlando con tutto il fiato che avevo in corpo: - Lo conosco! È un vescovo! Guardate la tonaca! Aiuto! Aiuto! Arrivarono gli uscieri a passo di corsa. Clicchettio di chiavi, rumore di seggiole che si rovesciavano. Gli spettatori saltarono in piedi, alcuni per vedere meglio, altri per scappare. Il caos regnava nell'aula del tribunale. Mi fecero uscire portandomi via di forza mentre urlavo imprecazioni e battevo i piedi per terra. Persi anche una scarpa che poi non riuscii a recuperare. In un ufficio adiacente, un giovane sostituto procuratore mi fece qualche domanda, del tipo da quanto tempo ero in prigione. Centosei anni mi parve una risposta appropriata. Dopo alcune altre domande seguite da risposte simili, mi riportarono nell'aula davanti al giudice. Ero affiancato da due aggiunti ben piantati. Il giovane sostituto procuratore depositò un'istanza ai sensi della Sezione 1367 del Codice Penale della California. Gli occhi persi nel vuoto, non prestai alcuna attenzione a quanto accadeva, limitandomi a guardare in giro nell'aula. In realtà la Sezione 1367 del Codice Penale della California pone fine al procedimento giudiziario rinviando il caso a un dipartimento della Corte Suprema, al fine di richiedere un'udienza psichiatrica e quindi determinare se l'accusato può ragionevolmente essere giudicato da un tribunale. Sebbene tale udienza non prenda in esame la questione della colpevolezza o dell'innocenza dell'imputato, tuttavia può aggiungersi al fascicolo, allo stesso titolo di tutte le prove a carico e dei corpi del reato. Mentre mi scortavano fuori dell'aula del tribunale, mi voltai a guardare il bell'ispettore che aveva condotto l'inchiesta. Era seduto dietro la sbarra, ed era visibilmente contrariato. Avrei voluto salutarlo con una strizzatina d'occhio, ma l'insulto sarebbe stato troppo grave, e prima o poi, in una delle fasi del procedimento giudiziario a mio carico, avrebbe dovuto deporre in qualità di testimone. E poi, che motivo avevo di strizzargli l'occhio? Io ero in gabbia, e lui era libero. Tutte le mie macchinazioni avrebbero potuto al massimo ridurre di una frazione minuscola il tempo che avrei dovuto trascorrere dietro le sbarre. Dopo il tribunale, mi ritrovai tra quelli chiamati per salire sul primo pullman che ripartiva per la prigione. Era una prigione nuova, aperta nel periodo in cui ero a piede libero, ed era già diventata tristemente famosa perché gli aggiunti dello sceriffo rompevano il muso ai detenuti, e ne avevano già fatti fuori più di uno. Mi ricordai di un amico, Ebie, che mi raccontò di un messicano ubriaco che durante la procedura di incarcerazione aveva lanciato un cestino della spazzatura attraverso una finestra interna. L'avevano trascinato via, in una stanza senza testimoni. Ed era stato lì, quando gli aggiunti si erano già allontanati, che il messicano era scivolato su una buccia di banana e si era spaccato la testa sbattendo contro le sbarre. Era parte dell'etica criminale, una delle regole del gioco, aspettarsi un pestaggio quando si commettevano certi atti, in particolare quando gli sbirri si sentivano minacciati fisicamente, o con le azioni o con le parole. In certi posti, il solo fatto di aprire la bocca poteva suscitare l'intervento della squadra dei picchiatori. Tutti gli istituti penitenziari avevano una squadra di picchiatori, che, bontà loro, veniva chiamata con un termine più politicamente corretto, tipo «gruppo di reazione». Nella Prigione Centrale di L. A., bastava un nonnulla perché ti saltassero addosso e ti pestassero, talvolta facendo ricorso anche ai gas lacrimogeni, per poi spedirti in isolamento, e magari con l'incriminazione per un nuovo reato, perché il modo migliore per giustificare un feroce pestaggio era accusare il detenuto di aver aggredito gli agenti di sorveglianza. La loro parola, collettivamente, valeva più di quella del singolo. Il modulo in cui mi sistemarono disponeva di celle individuali. Quando si aprirono i cancelli per la distribuzione del vitto, riconobbi molte facce familiari nella fila dei detenuti che aspettavano di essere serviti in piedi o seduti ai tavoli. Il cibo era appena mangiabile; facendo uno sforzo, riuscivo a mandar giù qualche boccone, mangiavo il pane e bevevo il tè caldo e zuccherato che veniva servito la sera. Vivevo di arance. Qualche giorno dopo, mi chiamarono alle cinque del mattino per un'udienza davanti al tribunale. Ci servirono delle uova nel refettorio, prima di spedirci al pianterreno nella «fila per il tribunale». Ci consegnarono i nostri vestiti civili, nel caso avessimo voluto indossarli per comparire in aula. La cosa non aveva alcuna importanza per me. Ci andavo in costume, e il blu della prigione aiutava la messinscena. L'udienza psichiatrica si tenne all'ospedale generale. Un sostituto dell'avvocato nominato d'ufficio venne a interrogarmi. Ciò che gli risposi non aveva né capo né coda. La mia udienza davanti alla corte durò una trentina di secondi. L'usciere annunciò il mio caso. Il giudice scrutò la mia persona, la povera creatura demente con striscioline di carta igienica ficcate nelle orecchie, la camicia indossata all'incontrario, e una sfilza di pacchetti di tabacco Bull Durham appuntati sul petto come medaglie. Il giudice aveva visto parecchi pazzi nella sua carriera, e l'individuo che aveva di fronte ne era un classico esempio. Di comune accordo con gli altri membri della corte, incaricò due psichiatri di condurre una perizia e presentargli un rapporto. Quando il sostituto del difensore d'ufficio provò a parlarmi, io bofonchiai parole senza senso. Lasciò perdere e mi augurò buona fortuna. Durante il tragitto nell'automobile che mi riportava in prigione, divorai con gli occhi la città notturna, come facevo solitamente durante questi piccoli trasferimenti. E ancora oggi mi ricordo, come fosse ieri, di una cosa intravista trent'anni orsono: la porta aperta di una cantina e la musica dei "mariachis" che inondava il marciapiedi. L'incarcerazione, quanto meno, offre al prigioniero il vantaggio di vedere il mondo con un occhio nuovo, alla maniera di un artista. Il giorno dopo mi chiamarono un'altra volta: facevo parte del carico di detenuti che dovevano essere trasferiti in furgone alla vecchia prigione della contea sopra il Palazzo di Giustizia. Ci raggrupparono come una mandria di bestiame in una gabbia provvisoria. Le assegnazioni a una particolare prigione erano determinate dal tribunale davanti al quale il prigioniero doveva comparire. Quelli detenuti nella nuova prigione centrale partivano per tribunali periferici con sede a Santa Monica, Van Nuys, Pasadena, e altri ancora operanti nel territorio della vasta Contea di L. A. Coloro che dovevano comparire nelle aule del Palazzo di Giustizia erano quelli arrestati nel centro della città, per cui la maggioranza dei trasferiti erano detenuti di colore. Gli aggiunti urlavano e spintonavano i prigionieri. A bordo del pullman ci ritrovammo pigiati come sardine, e io ribollivo di rabbia. C'erano anche un paio di vecchi ubriaconi che tremarono per tutto il tempo. Al nostro arrivo al Palazzo di Giustizia, ci condussero alle docce. Era lo stesso posto in cui avevo accoltellato Billy Cook, il pluriomicida, più di dieci anni prima. - Aprite bene le orecchie! - gridò un aggiunto. - Spogliatevi, lasciatevi addosso solo mutande e canottiera, e gettate qui i vestiti, - proseguì indicando un cesto della biancheria. Man mano che ci toglievamo i vestiti di dosso, aumentava il tanfo dei corpi non lavati. Io respiravo lentamente con la bocca, pensando che soltanto da poco tempo il genere umano doveva aver smesso di puzzare. Tutti facevano le cose alla svelta, tranne me e uno dei due ubriaconi scosso dai tremiti dovuti all'età e alla sbornia. Faceva fatica a mantenere l'equilibrio mentre si toglieva i vestiti, e a un certo punto vacillò. Istintivamente, per non cadere, allungò le braccia, e andò a urtare un giovane di colore. Il giovane si voltò e vide che si trattava di un vecchio tutto tremante. - Vecchio ubriacone bastardo, - disse. - Togliti dai piedi -. Con entrambe le mani spintonò il vecchio che scivolò e cadde pesantemente per terra. Nessuno si mosse per aiutarlo. Gli altri prigionieri gli passarono accanto per gettare i vestiti nella cesta e mettersi in fila. La piccola esibizione di odio razzista mi aveva irritato, ma non erano affari miei, conformemente al codice della prigione. La prendevo comoda. Che andassero per primi gli altri. Non avevo fretta di indossare una nuova divisa da detenuto. Ce n'erano per tutti. - Muoviti, amico. Forza -. Un altro giovane di colore mi spingeva sulla schiena. Era più alto di me, ma anche più mingherlino. - Fai piano. Ci arriveremo, prima o poi. Disse qualcosa. Non riuscii a decifrare le parole, ma il tono della voce era ostile. Sapevo per esperienza che i giovani neri del ghetto soffiano, ringhiano e si fronteggiano petto contro petto con l'avversario prima di passare alle vie di fatto, come una sorta di danza intimidatoria tra maschi. Mentre ansimava, gli mollai un gancio sinistro corto sul plesso solare. Emise un grugnito di sorpresa e dolore. Nessun bianco, presumeva, avrebbe accettato di battersi. Quanto era successo non collimava con quello che gli avevano insegnato. Sferrai un altro gancio sinistro e mancai il bersaglio; il mio braccio gli passò intorno al collo. Finimmo entrambi sul pavimento di mattonelle. Lui cadde di spalle. Nel giro di qualche secondo, gli aggiunti ci furono addosso e ci separarono. Spediti in Siberia. La Siberia era una sezione di celle sprovvista delle comodità più elementari, materassi compresi, e privata di tutti i privilegi accordati ai detenuti di fiducia. Era arrivata l'ora di aggiungere un'altra pagina al mio fascicolo di pazzo conclamato: un tentativo di suicidio vecchio stile, che avrebbe potuto servire in futuro, se fosse stato necessario. Inutile non era mai. Il punto luce della cella era incastrato nel soffitto e protetto da una griglia, in modo da impedire al detenuto di accedere alla lampadina. Quando mi portarono il vitto, conservai la tazza in polistirolo. La riempii d'acqua che poi lanciai contro la lampadina incandescente. "Pop"! Esplose, e io ricuperai le schegge di vetro appuntite. Servendomi della manica di una camicia a mo' di laccio emostatico, la avvolsi intorno al braccio all'altezza del bicipite e cominciai a tagliare la vena rigonfia sull'incavo del gomito. All'inizio esitai. Poteva essere facile fisicamente, ma, mentalmente, tagliare la propria carne è tutt'altro che facile. La pelle si aprì, esponendo la carne bianca e la vena. Mi ci vollero parecchi tentativi. Poi la vena si squarciò, e il sangue schizzò a un metro di distanza. Mi sbrigai ad afferrare la tazza in cui lasciai colare il sangue finché sul fondo se ne raccolsero due dita abbondanti. Aggiunsi tre dita d'acqua. Poi mi versai tutto lentamente sulle spalle e sul petto, fino a che il tronco fu tutto coperto di rosso. Poi iniziai a girare su me stesso dondolando contemporaneamente le braccia. Il sangue schizzò sulle pareti e prese a sgocciolare dalle sbarre del cancello. Era un macello, nel vero senso del termine. Infine riempii parzialmente la tazza della soluzione di acqua e sangue, che poi versai all'esterno della cella, in modo da farla scorrere sul pavimento del corridoio. - Ehi, tu della cella accanto! - gridai. - Guarda qui… dalla porta. - Perdio! Oh merda! - Chiama il secondino. Le sbarre incominciarono a vibrare e si levarono le urla: - Poo–liziaaa! Ufficiale! Aiuto! Aiuto! Un uomo a terra! Un uomo a terra! Nel giro di pochi secondi, si levò un coro di urla da tutte le celle. Passò qualche minuto prima che sentissi aprirsi i cancelli della sezione. A questo punto, io giacevo a terra in una pozza di sangue. La cella sembrava un mattatoio. Rumori di chiavi, poi una voce sgomenta: - Signore Gesù! Chiama la clinica. Un carrello, presto! Il carrello arrivò sferragliando, spinto dalle guardie lungo il corridoio. Mentre, steso sul carrello, passavo davanti ai detenuti affacciati alle sbarre delle loro celle, sentii dire: - Hei, amico, questo qui è morto -. Merda, amico, che cazzo di macello ha combinato -. Quello scemo si è ammazzato -. Qualcuno si permise anche di giudicare: - Quell'idiota era proprio un debole per fare una roba del genere. L'ascensore fino al pianterreno, poi l'ambulanza e l'uscita dal tunnel per una corsa a sirene spiegate fino all'ospedale generale, a parecchi chilometri di distanza. Mi ricucirono, mi lavarono, e mi sistemarono nel reparto piantonato dalle guardie penitenziarie al tredicesimo piano. Quando il medico mi domandò perché l'avevo fatto, risposi che la Chiesa cattolica mi aveva impiantato una radio nel cervello e mi aveva istigato a suicidarmi. Mise tutto nero su bianco. Grazie, dottore. Il reparto piantonato dalle guardie dell'ospedale era talmente affollato che i letti debordavano dalle camere e si allineavano nel corridoio principale. Quella sera stessa, sul tardi, fui dimesso e rispedito alla prigione centrale. Mi sistemarono in una camera a tre letti nell'infermeria della prigione, caviglia sinistra e mano destra incatenate al letto. Il letto centrale era occupato da un vecchio diabetico. Di fianco a lui, un giovane chicano ben piantato aveva un piede incatenato al telaio del letto. Si era messo seduto, e si dondolava avanti e indietro recitando il rosario, senza concedersi un momento di pausa, né ogni tanto un atto di dolore. L'infermiera che distribuiva le medicine spiegò che stava avendo una reazione alla polvere d'angelo. Mi consegnò due pillole marroni che riconobbi come pillole di Torazina. Finsi di prenderle. Talmente mostruoso fu ciò che vidi in questa stanza di ospedale che è rimasto impresso nella mia mente come un'acquaforte resta incisa dall'azione corrosiva dell'acido nitrico. Signore Gesù! - esclamò il vecchio diabetico prima di balzare in piedi e avventarsi sulla porta a suon di pugni e calci. Rimasi a guardarlo per un momento, prima di voltarmi verso il chicano che occupava l'altro letto. Era sempre seduto, e seguitava a dondolarsi borbottando le sue preghiere. Il suo occhio destro si aprì e poi si richiuse, ma non c'era più pupilla nell'orbita. Era finita sul lenzuolo bianco del letto, e da lì guardava fisso. L'occhio sinistro dondolava avanti e indietro sotto il mento, appeso a una sorta di tendine. Si era servito dei pollici per cavarsi gli occhi dalle orbite. Il mio cuore prese a battere forte, i capelli mi si drizzarono in testa. Era orribile. Più di un anno dopo questo episodio, tornai alla prigione centrale e rividi il chicano che veniva condotto in tribunale. Era completamente cieco, ma le accuse a suo carico gli erano state confermate. Oh no, non sarebbe uscito di galera tanto facilmente. Non so se lo rispedirono in prigione. Non mi sorprenderebbe. Dopo tutto, aveva rubato. Quando il medico della prigione venne per parlarmi, dichiarai che il papa aveva al suo servizio dei sicari che mi aspettavano per assassinarmi nel Palazzo di Giustizia, e che non potevo dividere la mia cella con nessuno perché vedevo delle luci che fluttuavano sopra le loro teste. Speravo di essere assegnato alla sezione dei «matti», lì, alla prigione centrale. Volevo evitare il Palazzo di Giustizia, essenzialmente perché, al mio ritorno, mi avrebbero immediatamente rispedito in Siberia. Il medico annotò tutto sulla mia cartella e disse di non preoccuparmi; non sarei tornato al Palazzo di Giustizia. L'indomani mattina, per mancanza di spazio, un altro dottore mi firmò il foglio di dimissioni. Fui assegnato a una sezione di celle singole nella prigione centrale. Mi stava molto bene. Due giorni più tardi, l'aggiunto mi chiamò: - Bunker, raccogli le tue cose! - Mi trasferivano al Palazzo di Giustizia. Il trasferimento era determinato da problemi di spazio, nessuno consultò alcun fascicolo. Quando l'aggiunto aprì la mia cella e mi ordinò di uscire, io mi avviai verso l'entrata della sezione. Lui era al pannello dei comandi, in una gabbia dietro le sbarre, intento a manovrare leve e a chiamare nomi. Anche altri prigionieri venivano trasferiti, oppure erano convocati per un colloquio con l'avvocato o il responsabile della condizionale. L'aggiunto era un giovanotto con la faccia liscia, e all'accademia di polizia gli avevano insegnato che tutti i prigionieri erano dei bugiardi e dei truffatori, la feccia della terra che voleva soltanto fregarlo. Perciò, quando mi avvicinai alle sbarre e gli dissi - Ehi, capo, - che, secondo la mia educazione, era un segno di rispetto, lui credette che si trattasse di un'insolenza ed ebbe una reazione sospettosa e ostile. Fece orecchie da mercante quando gli dissi che non sarei dovuto andare al Palazzo di Giustizia, secondo il parere del medico della prigione. - Non è a me che devi dirlo. Raccontalo all'aggiunto alla cabina dei comandi nel corridoio -. Premette il pulsante che apriva la serratura del cancello e consentiva l'accesso al corridoio del secondo piano. Il corridoio era lungo e largo. I prigionieri dovevano camminare sul lato destro, contro la parete. La cabina dei comandi si trovava accanto alla porta che conduceva all'ascensore. L'aggiunto era seduto in posizione sopraelevata, dietro i doppi vetri, e vedeva chiaramente tutto quanto succedeva nel corridoio. Avanzai fino alla finestra della cabina. - Mi hanno detto di raccogliere le mie cose per essere trasferito al Palazzo di Giustizia, ma io, lì, non devo andarci. - No? E perché mai? - L'ha detto il dottore… - Dillo all'aggiunto responsabile dei trasferimenti per il tribunale che è al pianterreno, - mi interruppe. Scesi con l'ascensore e seguii la linea dipinta sul pavimento fino alla porta che si apriva sulla grande sala piena di gabbie, ciascuna un quadrato di quattro metri e mezzo di lato, con un cartello sopra il cancello che designava un tribunale periferico. Al mattino, molto prima del sorgere del sole, nelle gabbie si ammucchiavano i prigionieri in attesa del loro pullman. Erano meno umane dei recinti del bestiame nelle stazioni dei treni merci. La mattinata volgeva ormai al termine. I pullman erano partiti e avrebbero incominciato a rientrare solo nel tardo pomeriggio, uno dopo l'altro fino a sera. Le gabbie erano state spazzate e ospitavano i prigionieri che dovevano essere trasferiti in altri posti, compreso il Palazzo di Giustizia. Un aggiunto era seduto a un tavolo davanti a elenchi di nomi incollati con il nastro adesivo sulla parte alta del piano di legno. Man mano che i prigionieri dichiaravano i loro nomi, lui li indirizzava alle gabbie. Ancor prima di presentarmi e di cominciare a raccontare la mia storia, già sapevo che l'aggiunto al modulo, quello che mi aveva mandato alla cabina dei comandi, e l'aggiunto della cabina dei comandi, che mi aveva mandato fin lì, stavano giocando a un certo gioco, quello di farmi accostare sempre più, tappa dopo tappa, al pullman in partenza. - Io non devo essere trasferito al Palazzo di Giustizia. - Come ti chiami? - Il dottore lo ha scritto sulla cartella medica. - Come ti chiami? - Bunker. - Gabbia sei. - Il medico… - Me ne fotto del medico. Vai nella Gabbia sei. - Vuole verificare con il reparto medico? - Io non verifico niente con nessuno. Entra in questa fottuta gabbia -. Si alzò in piedi per rafforzare con la minaccia fisica il suo ordine. La Gabbia sei si trovava proprio di fronte al tavolo. Entrai dentro e lui richiuse il cancello. - Mi ascolti, signore, - dissi. - Posso vedere un superiore o un sergente? - No. Non puoi vedere nessuno. - O.k… ma mi lasci dire una cosa: io non parto. - Non parti? Tu salirai su quell'autobus, te lo garantisco, dovessi incatenarti e lanciarti lì sopra. A quel punto decisi che potevo ancora aggiungere un altro po' di pazzia al mio fascicolo. Avevo con me un cartone di sigarette che conteneva i miei miseri effetti personali: pettine, spazzolino, e lamette Gillette. Scartai una lametta nuova, la appoggiai sulle sbarre, e poi mi tolsi la camicia e la benda che mi fasciava il braccio. Attorcigliai la manica intorno al bicipite, gonfiai il muscolo per far uscire la vena, ricuperai la lametta e mi misi a tagliare la carne viva. Era molto più facile che con la scheggia della lampadina. Due incisioni, e il sangue schizzò fuori. Senza rimuovere il mio laccio emostatico improvvisato, tenni il braccio vicino alle sbarre. Il sangue cominciò a spruzzare in aria e ricadde sugli elenchi dei nomi incollati sul tavolo. L'aggiunto non si era accorto di ciò che stavo facendo, finché il sangue non gocciolò sulle sue scartoffie. E anche allora, ci mise un paio di secondi per riprendersi dalla sorpresa. Che diavolo… - Balzò in piedi. Provò a raccogliere gli elenchi, ma erano fissati al tavolo col nastro adesivo. Strappò un foglio a metà. Il sangue imbrattò tutti i fogli quando agitai il braccio cambiando la traiettoria. L'aggiunto incominciò a strillare invocando aiuto, e dei colleghi sopraggiunsero a passo di corsa. Mentre tentavano di trovare una chiave per aprire il cancello della gabbia, io seguitai ad agitare il braccio avanti e indietro, imbrattando le loro uniformi, cosa che li fece urlare e imprecare, specie quando videro che il tessuto di lana color verde oliva delle divise assorbiva il sangue. La porta si aprì e mi piombarono addosso. Devo ammettere che mi allungarono soltanto pochi pugni e calci. Mi sarei aspettato di peggio, da parte degli uomini dell'Ufficio dello Sceriffo. Tre o quattro di loro mi trasportarono a faccia in giù lungo il corridoio che conduceva all'infermeria. Riconobbi l'aggiunto che mi aveva minacciato di mettermi le catene. - Te l'avevo detto che non sarei partito, - dissi. Non rispose nulla, ma credo che se gli avessero tirato un secchio d'acqua, avrebbe esalato vapore, tanta era la rabbia che gli ribolliva in corpo. Un'ora dopo ero di ritorno nella camera dell'ospedale con i tre letti. Un paio di giorni più tardi, il medico mi rispedì in cella. Stavolta era cosa certa: non sarei ripartito per il Palazzo di Giustizia. Gli psichiatri incaricati di esaminare il mio caso vennero uno alla volta. Quando mi convocarono in una sala dell'ospedale destinata agli interrogatori, ero pronto. Mi sedetti e cominciai a dondolare avanti e indietro, guardando lo psichiatra, gli occhi socchiusi; poi abbassai lo sguardo fissando il pavimento. Mi domandò cosa mi dicevano le voci. Risposi che erano cose troppo sporche, e non potevo ripeterle. Poi gli chiesi se era cattolico. Quando mi rassicurò dicendo che non era il suo caso, gli confessai che i cattolici mi perseguitavano da anni. - Che fanno? - Lei lo sa che fanno. - Non me lo può dire? - Mi parlano dalla radio e dalla televisione… mi insultano… mi dicono che sono un finocchio. Cazzo, io non sono un finocchio. - Certo che no. Dopo una decina di minuti, l'esame era finito. Non mi sospettavano di simulazione perché, in senso stretto, le clausole delle Sezioni 1367 e 1368 non contemplavano la possibilità di assoluzione per infermità mentale. Stabilivano semplicemente che non ero in grado di essere processato da un tribunale in quel preciso momento. Non appena fossi stato ritenuto capace di intendere e di volere, sarei comparso davanti a una corte per essere giudicato. Su questa base quindi, un individuo può commettere un reato, essere sano di mente e responsabile di ciò che fa nel momento in cui agisce, ma, a distanza di qualche anno dal fatto, al momento dell'arresto e dell'incriminazione, può essere completamente uscito fuori di testa. Com'è possibile portare in tribunale, o punire, un imputato quando è pazzo? Il secondo psichiatra era un nero "café–au-lait" con un nome francese, probabilmente con degli antenati provenienti dalla Louisiana. Feci lo stesso numero, ma ebbi l'impressione che volesse esaminarmi più da vicino, allora di colpo incominciai a strillare, rovesciai il tavolo e scappai dalla stanza. Raggiunto il corridoio, mi misi a correre ancora più veloce, inseguito dagli aggiunti. Mi placcarono e mi riportarono indietro trascinandomi sul pavimento. Mi sedetti tutto tremante sulla seggiola. Lo psichiatra mi comunicò il suo responso senza neanche rendersene conto. - Può tornare nel suo reparto -. Evidentemente era un lapsus freudiano. "Reparto" significava ospedale, ed è lì che si mettono i malati. I due psichiatri conclusero che ero uno «schizofrenico cronico con tendenze paranoidi che soffre di allucinazioni auditive e deliri di persecuzione, infermo mentale e irresponsabile di fronte alla legge». Un pazzo a tutti gli effetti, insomma. Davanti al tribunale che doveva deliberare sulla mia condizione mentale, il giudice mi ritenne «infermo mentale ai sensi delle Sezioni 1367 e 1368 del Codice Penale della California». Mi assegnò all'Ospedale Statale di Atascadero finché non fossi stato giudicato responsabile di intendere e di volere e in grado di comparire dinanzi a un tribunale. Ero pronto a essere giudicato immediatamente. Avevo la mia difesa. Il fatto di essere riconosciuto irresponsabile e quindi incapace di essere giudicato da un tribunale non significa che l'individuo in questione fosse infermo mentale al momento in cui aveva commesso il reato. Una giuria non può tener conto che delle prove riconosciute come ammissibili. Gli agenti che avevano eseguito l'arresto avrebbero testimoniato, sempre che non avessero mentito, che io avevo dichiarato di essere in viaggio per Dallas con nuove prove riguardanti l'assassinio Kennedy. I fascicoli relativi all'arresto redatti alla stazione di polizia riportavano che io avevo dichiarato di avere novant'anni. Gli ispettori incaricati dell'inchiesta erano tenuti a testimoniare, se, ancora una volta, non avessero mentito, che io avevo dichiarato che la Chiesa cattolica mi aveva impiantato una radio nel cervello. Le cartelle dell'ospedale della prigione riportavano due tentativi di suicidio e altri episodi di comportamento irrazionale. Infine, se gli psichiatri dichiaravano che ero infermo mentale due settimane dopo il crimine, come avrei potuto non essere folle quando il reato era stato commesso qualche ora prima del mio arresto? Com'è possibile che una giuria potesse non giudicarmi incapace di intendere e di volere? Inoltre, era altamente improbabile che l'ufficio del procuratore distrettuale si battesse con molto accanimento. Era un furto con scasso di routine. Senza dire che non sarei uscito veramente vincente dalla mia battaglia contro il sistema, perché ci sarebbero voluti per lo meno da sei mesi a un anno per comparire nuovamente davanti a un tribunale, e allora il giudizio emesso in quella sede sarebbe stato irrilevante, perché l'ufficio delle condizionali mi avrebbe incastrato perché scontassi i termini della mia prima pena. Avrei scontato tre o quattro anni nel penitenziario, ovvero tutta la pena che meritava il mio crimine. Il mio unico guadagno sarebbe stato sbarazzarmi di un'altra libertà vigilata, oppure riuscire a evadere. Un ospedale statale non era un penitenziario. Forse era munito di sbarre, ma non di torrette di sorveglianza con le guardie armate. Uno dei miei amici aveva capeggiato un'evasione da Atascadero. Insieme ai suoi numerosi compagni di fuga, si era servito di una panca pesante come un ariete per abbattere una porta sul retro dell'ospedale. C'era una cosa di cui ero assolutamente incosciente in quel momento. Sulla mia fedina penale sarebbero rimaste scritte per sempre queste parole: riconosciuto pazzo criminale. Chiunque, ignaro della verità, le avesse viste, si sarebbe aspettato di trovarsi dinanzi a un pazzo farneticante. Situato a metà strada tra Los Angeles e San Francisco, l'Ospedale Statale di Atascadero offriva livelli di sicurezza assai prossimi alla massima sicurezza che può garantire un ospedale statale. La maggioranza dei pazienti vi erano stati assegnati in quanto responsabili di reati sessuali, perché affetti da turbe mentali, comunemente noti col termine di pedofili o violentatori di bambini o, nel gergo carcerario, pederasti. Mi avevano insegnato il codice etico dei detenuti, secondo il quale il violentatore di bambini è un essere spregevole, un verme che merita di essere schiacciato, coperto di sputi e perseguitato. In prigione tutti i soprusi perpetrati ai danni di un pedofilo sono accettabili. Chiunque finisce dentro per aver abusato di un bambino fa del suo meglio per tenere la cosa segreta. Nessuno ammette di aver avuto un comportamento così abominevole. La difesa abituale, che mi è capitato di sentire più di una volta, è che una moglie vendicativa aveva montato l'accusa di sana pianta. Ad Atascadero, la maggioranza dei pederasti molestatori di bambini guardava dall'alto in basso la minoranza dei ladri pazzi criminali. Loro erano malati, noi eravamo criminali: era così che vedevano le cose. La ciliegina sulla torta era che l'istituzione disponeva di una «pattuglia dei pazienti» che esibiva una fascia al braccio come segno distintivo che, secondo il mio modesto parere, non era altro che una licenza di fare la spia. Un tale, detenuto a Folsom, ricordo, una volta disse che i molestatori di bambini erano spregevoli né più né meno degli spioni, e qualcun altro soggiunse: - Non spregevoli… la stessa cosa. Non ho mai visto un pederasta che non fosse anche una talpa, e voi? Vanno insieme, come il somaro e la carretta -. La precisazione fu accolta da grugniti di approvazione. Ad Atascadero ci si annoiava. Ai pazienti non era permesso starsene a letto durante il giorno. Erano obbligati a sedere nella sala di ricreazione, a guardare gli sceneggiati in televisione, o magari andavano in To (Terapia Occupazionale), dove fabbricavano posacenere di argilla o dipingevano. Né l'una né l'altra attività mi interessava. Per me, la suddetta terapia assomigliava troppo alla seconda elementare. Nella sala di ricreazione si svolgevano partite di poker (grazie a Dio), e io vi prendevo parte come si inala una dose di sali per riprendersi da uno svenimento. Mi comportai in modo perfettamente razionale, tranne una volta, quando un sorvegliante si accostò al tavolo da gioco e mi domandò come stavo. Risposi che andava benone, se non fosse stato per il prete che avevo visto nel corridoio: -… E dalla luce rossa che aveva sopra la testa potevo dedurre che era proprio me che cercava. Quando volevamo andare da qualche parte, per esempio allo spaccio, l'infermiera doveva consegnarci un lasciapassare. Non eravamo autorizzati a girare per i corridoi. Io, però, mi misi alla ricerca di una breccia, un passaggio, o un posto che avrei potuto scavalcare o del quale avrei potuto segare le sbarre per poi fuggire nelle colline circostanti. I responsabili della sicurezza, però, avevano fatto un censimento di tutti i punti deboli dell'edificio e li avevano provvisti di misure di rinforzo, oppure li avevano affidati alla sorveglianza di un membro della pattuglia dei pazienti. È così che mi misi nei guai. Mi stavo aggirando tra le quinte dell'auditorium, quando un molestatore di bambini con la fascia di riconoscimento al braccio mi domandò che cercavo. Lui non mi riconobbe, ma io sì. L'avevo visto, anni prima, alla prigione della contea. Era in attesa di giudizio per aver violentato la nipote. Ricordo che l'abuso era iniziato quando la bambina aveva tre anni ed era seguitato fino a che lei aveva compiuto sette anni, e l'aveva denunciato. Mi tornò in mente tutto mentre mi domandava il mio nome e il numero del mio reparto. Ruotai leggermente sulla sinistra per prendere slancio e gli affondai un pugno nello stomaco, come facevo in palestra, quando mi allenavo con il sacco. Ogni pugile sa quanto può essere micidiale questo colpo quando arriva inaspettato. Il tizio restò senza fiato e si piegò in due prima di vacillare lateralmente e cadere al suolo, agitando le gambe come se pedalasse in sella a una bicicletta. Era veramente un atto di violenza gratuito, uno sfogo delle mie frustrazioni e della mia collera su un altro, oltre che l'espressione del mio odio per Atascadero. Mio Dio, avrei preferito essere al penitenziario piuttosto che lì, in quell'ospedale di Stato dove venivo trasformato in un vegetale e trattato come un bambino, che sembrava proprio ciò che mi stava capitando. Nessuno aveva assistito alla scena. Lasciai l'auditorium per unirmi alla partita di poker, e cancellai l'accaduto dalla memoria. Atascadero ospitava quasi tremila degenti. Che avrebbero potuto fare? Una sessione di riconoscimento facendo sfilare tremila individui? Inoltre, quell'imbecille si sarebbe rimesso in sesto non appena avesse ripreso a respirare. Senza rendermene conto, gli avevo fratturato tre costole. Quella sera, mentre facevo la fila al refettorio, alzai gli occhi e lo vidi, piantato sulla soglia della cucina in compagnia del guardiano vestito di bianco incaricato della sorveglianza. Il molestatore tirò la manica del guardiano prima di puntare il dito su di me, mentre le sue labbra si muovevano freneticamente. Nel gergo della prigione, stava «suonando la trombetta»…E seguitò a suonarla mentre i sorveglianti mi condussero in ufficio. Il terzo turno di servizio stese un rapporto sull'accaduto, e lo trasmise al turno del giorno, quando medici e impiegati amministrativi erano disponibili. Non mi aspettavo che succedesse niente di particolare. Avevo già visto parecchi toccati di cervello perdere le staffe e aggredire qualcuno. Nel peggiore dei casi, li rinchiudevano in una stanza per qualche ora in attesa che si calmassero. Senza che fossi stato avvertito, il rapporto dell'Amministrazione Penitenziaria, identificato come A20284 Bunker, era arrivato quella mattina. Anziché in una stanza, mi sistemarono nella sezione speciale, riservata a circa due dozzine di pazienti, quelli considerati più imprevedibili, che erano tenuti sotto chiave. Tra loro c'erano tre ex detenuti che conoscevo dai tempi del penitenziario. Uno di loro, Rick, si meritava a pieno titolo la qualifica di paranoico. Al mio ingresso a San Quentin, l'avevo incontrato nell'ufficio delle incarcerazioni. Rick aveva avuto da ridire con un altro internato durante una lezione di orientamento. Il detenuto in questione era un bruto, così che Rick si era preso una bella strizza, cosa assolutamente da non provocare in un paranoico. L'unica arma che Rick era riuscito a trovare in così poco tempo era stata un coltello X–Acto a lama corta, ma affilato come un rasoio. Quella sera, nel refettorio, Rick aveva visto il tizio dalle ambizioni da bruto nel momento in cui lasciava la fila con il suo vassoio pieno per andarsi a sedere. Rick si era avvicinato alle sue spalle, gli aveva tirato indietro la testa e gli aveva tagliato la gola. Il sangue era schizzato in aria per tre metri. In un qualsiasi altro posto del mondo, la vittima sarebbe morta. A San Quentin, i medici sono specializzati in una malattia endemica, le ferite da arma bianca, e riuscirono a salvargli la vita. Rick scontò la totalità della sua pena in segregazione amministrativa, nel reparto psichiatrico e nell'unità medica del penitenziario di Vacaville, quando venne aperta. Adesso era lì, felice di vedermi. Gli altri due li conoscevo meno bene. Uno era un duro, un giovane chicano dalla mente un po' disturbata, la cui malattia precisa non riuscii a capire. La sezione di ventidue pazienti aveva otto sorveglianti in servizio a tutte le ore, tranne nel turno di notte, da mezzanotte alle otto del mattino, quando ne restavano soltanto tre. Il reparto comprendeva la sala di ricreazione, con seggiole di vimini e cuscini imbottiti, camere di degenza su entrambi i lati dei due corridoi, dove potevamo soltanto dormire, ma non sostare durante il giorno, e infine un piccolo vestibolo dietro una massiccia porta chiusa a chiave. In totale erano quindici stanze, tutte dotate di misure di massima sicurezza. La chiamavano «reclusione», ma l'isolamento è l'isolamento, indipendentemente dalla terminologia adottata. In fondo al piccolo vestibolo c'era una porta che dava su una strada che circondava l'edificio. Rick mi informò che era la stessa porta che il mio amico Bobby Hagler e i suoi compagni avevano sfondato parecchi anni prima servendosi di una panca. Da quel giorno la porta era stata rinforzata, le panche massicce erano state rimosse, ed erano stati aggiunti parecchi altri sorveglianti. Discutemmo della possibilità di ripetere l'impresa, e decidemmo che era impossibile. Ahimè, qualcuno ci aveva sentito e aveva «suonato la trombetta». Da un momento all'altro sopraggiunsero venti sorveglianti vestiti di bianco e invasero la sala di ricreazione. Eravamo in tre: ci spogliarono, lasciandoci in mutande e canottiera, e poi ci rinchiusero nelle camere del piccolo vestibolo. La chiamavano «reclusione» in isolamento, ma per me era una cella nuda e cruda, spoglia di tutto. In un ospedale di Stato si permettono di fare cose che in un penitenziario sarebbero inammissibili. Anziché il gabinetto, c'era una buca sul pavimento. Il tanfo che ne fuoriusciva era soffocante. In prigione si poteva coprire la buca con un giornale o una rivista, ma queste erano il genere di cose proibite in reclusione. Potevano essere destabilizzanti. La camera era provvista di una finestra (rete metallica e sbarre) talmente alta che dovevo issarmi con la punta delle dita, il mento sul davanzale, per intravedere brevemente l'avvallamento delle colline nude fuori. Un medico passava tutti i pomeriggi e parlava a monosillabi incomprensibili. Aveva un accento che mi ricordò della mia esperienza da bambino nel manicomio nei pressi di Pomona. Gli domandai di dove era originario. - Estonia, - rispose. - Non eravate alleati dei nazisti, voialtri? domandai. La faccia gli diventò paonazza, il suo accento si fece più marcato, e compresi subito che mi ero messo nei guai. Ciò nonostante, feci un passo indietro, allungai il braccio destro in aria, e tuonai: - Heil Hitler! - La cosa lo disgustò. Ma bisogna dire che anch'io lo trovavo disgustoso. Si sarebbe adattato molto bene a condurre degli esperimenti in un campo di concentramento. Tutti i giorni faceva il suo giro, scrutando l'interno delle celle da piccole finestrelle di osservazione incassate nelle porte, pronunciando talvolta una parola, spesso non aprendo neanche bocca. Gli domandai quanto tempo sarei rimasto sotto chiave, e lui, nello stile degli strizzacervelli, rispose: - Quanto tempo dovrà durare secondo te? In prigione esistevano norme e regolamenti su certe questioni; in manicomio dipendeva tutto dal capriccio dello psichiatra responsabile. Non è una punizione; era il trattamento. Dopo due settimane senza la benché minima crepa allo "status quo", la mia indole incline alla ribellione prese il sopravvento. Presi a giocare il ruolo del sobillatore degli altri tredici pazienti. Scesa la sera, i tredici erano già caricati a dovere. Ciascuno di loro ruppe il vetro della finestrella di osservazione e si servì delle schegge per tagliarsi una vena. Un'ora dopo, nel reparto giunse il sovrintendente dell'ospedale. Era fuori di sé, perché se è vero che il direttore di un penitenziario può denigrare tutto ciò che fanno i detenuti, è tutto un altro paio di maniche quando i pazienti di un ospedale protestano contro le condizioni in cui sono costretti ricorrendo all'autolesionismo. È il genere di cose che può impressionare molto negativamente la stampa. Nel reparto sopraggiunse anche il medico neonazista. Capì immediatamente chi aveva orchestrato tutto. Lui e il sovrintendente vennero a parlare con me. Illustrai loro le mie esigenze: materasso e coperte al posto dei giacigli di gomma, libri e riviste, e il diritto di scrivere e ricevere la corrispondenza. Il sovrintendente accolse tutte le mie richieste, ma i telefoni e le telescriventi ronzavano in continuazione. Alle nove del mattino, si aprì la porta della mia camera e i sorveglianti, arrivati in forza, mi ordinarono di uscire. Mi fecero infilare una tuta bianca, mi misero le catene, e mi scortarono, passando per la porta posteriore, fino a una vettura che mi stava aspettando. Tre ore dopo, arrivavo all'Unità Medica della California, a Vacaville. Il trasferimento era stato eseguito ai sensi di una norma statutaria che autorizzava l'ammissione nell'unità penitenziaria di certi pazienti pericolosi e mentalmente disturbati condannati alla reclusione per i reati commessi. Quando arrivai, i funzionari della prigione non sapevano niente di me, oltre alle notizie che avevano ricevuto per telescrivente. C'era un tenente di nome Estelle il quale, credo, sarebbe stato in seguito messo a capo del sistema penitenziario texano, e mi aveva conosciuto in un'altra prigione. Per un motivo a me ignoto, provava nei miei riguardi un astio personale tutto speciale. Mi assegnò alla S-3, l'unità al terzo piano dell'Ala S., costituita di celle con pareti di vetro, dall'altezza del busto fino al soffitto. Le pareti vetrate erano sia sul davanti che sul fondo, per cui il blocco di celle veniva chiamato «l'acquario». In alcune non c'era altro che una buca sul pavimento, mentre altre erano provviste di un monoblocco metallico con lavandino e gabinetto. Fui fortunato, e mi fu assegnata una cella di quest'ultimo tipo. Quando l'acqua defluiva dal lavabo, finiva nel water sotto. Il guaio era che il fondo del water era a qualche millimetro sopra il pavimento, e negli interstizi caldi e umidi avevano eletto la loro dimora un milione di scarafaggi, talmente numerosi che alcuni erano sospinti in piena luce quando correvano intorno al water alla ricerca del buio. Quando diedi fuoco a un pezzo di carta e lo infilai sotto il gabinetto, caricarono in massa in avanti, così numerosi che dovetti salire sopra il vaso finché non ebbero riguadagnato il loro rifugio. Non li infastidii più. A mio favore giocava il fatto che le luci della cella non venivano mai spente. Non ho idea del tipo di carte o documenti che si scambiarono per telescrivente o per posta il Servizio di Igiene Mentale e i funzionari dell'Amministrazione Penitenziaria, ma questi ultimi si convinsero che ero stato processato per i furti e rilasciato per infermità mentale e, siccome l'ospedale di Stato mi aveva dimesso, a quel punto rientravo sotto la giurisdizione dell'autorità penitenziaria. Restai circa un mese nell'acquario dei pesci rossi. I detenuti «normali» mi fecero avere dei libri dalla biblioteca. Sono sempre riuscito a incassare il colpo, a patto di poter leggere. Durante il mio soggiorno nella S-3, lessi Hermann Hesse e Sartre. Mi pare anche di aver letto "Anna Karenina" e "Lord Jim", disteso sul pavimento della cella dell'acquario. Di fronte alla mia cella c'era l'uomo per il quale era stata votata la legge che autorizzava il trasferimento dei malati mentali dall'ospedale a Vacaville. Si chiamava Jack Cathy. Era di Los Angeles ma era stato detenuto in una prigione dell'Arizona, dove aveva ammazzato qualcuno. Alla fine aveva scontato lì la sua pena e aveva ottenuto la condizionale. Era stato arrestato a Hollywood e accusato di un altro omicidio. Dapprima era stato riconosciuto incapace di intendere e di volere e irresponsabile dinanzi alla legge, ai sensi delle Sezioni 1367 e 1368 del Codice Penale della California. Allora lo avevano rinchiuso ad Atascadero, dove aveva accoltellato quattro sorveglianti, ammazzandone uno. Un tribunale di San Luis Obispo l'aveva nuovamente riconosciuto affetto da infermità mentale, e quindi incapace di essere processato, ma aveva disposto che fosse internato nell'Unità Medica della California, a Vacaville, dove le misure di sicurezza erano pari a quelle di una prigione. Un avvocato aveva depositato un'istanza di "habeas corpus". Per tutta risposta, gli organi legislativi avevano votato la clausola che disponeva il suo trasferimento, e il mio. Restai alla S-3 per parecchi mesi. Tre volte alla settimana Cathy veniva fatto uscire dalla sua cella per essere sottoposto a un trattamento di elettroshock. Un detenuto mi informò che Cathy subiva quel regime da parecchi anni. Nel giro di mezzora lo riportavano indietro e lo scaricavano in cella come un sacco di patate. Circa un'ora dopo il suo ritorno, attaccava a gridare: - Ehi, tu, amico… nella cella accanto… Io allora mi alzavo in piedi per riuscire a vederlo attraverso il vetro. Per tre volte alla settimana facevamo la stessa conversazione. Mi domandava dov'era, e io glielo dicevo. Mi chiedeva da dove venivo, e io glielo dicevo. Mi domandava se conoscevo Eddie Chaplick, la Volpe. Verso la fine della giornata Cathy ricuperava quasi del tutto la memoria. Diceva Oh, sì, - e si ricordava di un'altra cosa. La conversazione seguiva sempre la stessa sequenza di domande e risposte. Quando aveva quasi ricuperato la memoria, tornavano a riprenderlo per sottoporlo a un'altra seduta di elettroshock. La faccenda andò avanti per due mesi. Mi fecero uscire dalla S-3 per sistemarmi nell'unità di quelli rei di aver violato la condizionale, e incominciarono a istruire l'udienza per violazione della condizionale. Richiesero un rapporto esterno da parte del responsabile della condizionale, e quando venni a conoscenza dei capi d'accusa che mi erano contestati, scoprii che vi erano inclusi anche quegli stessi nel merito dei quali un tribunale mi aveva dichiarato incapace di essere processato dinanzi a una corte di giustizia con un avvocato e con tutte le garanzie del sistema giudiziario americano. Se non potevo far fronte a quelle accuse in quella sede, come potevo affrontarle in un processo per violazione della libertà vigilata senza alcuna protezione legale? Intuii che avevano commesso un errore e iniziai a studiare i testi di giurisprudenza. L'unità in cui erano internati coloro che avevano violato la libertà vigilata ospitava parecchi uomini che avevo conosciuto a San Quentin e in altri istituti di pena, ivi compreso il detenuto che finì per raccontarmi la storia sulla quale si basa il mio romanzo "Cane mangia cane". La mia pazzia divenne una gag senza fine. Sostare nel lungo corridoio dell'unità era proibito. In genere arrivava una guardia, che ordinava ai detenuti di sgombrare, o verso il cortile o nell'edificio delle celle. A mo' di burla, quando arrivava a cinque metri di distanza, io mi voltavo e mi mettevo a picchiettare il muro con un dito, pronunciando parole incoerenti: - Cosa? Che cosa? Faresti meglio a non dirlo. Te lo dico adesso… subito… basta… lascia perdere. "Vroom… vroom… vroom…" - E sottolineavo le ultime parole con una pantomima, come se manovrassi il cambio di un'automobile, che innestavo sulla terza prima di girare bruscamente e di ripartire camminando, mentre imitavo il rombo del motore. La guardia assumeva un'aria costernata, e i miei compagni soffocavano la loro voglia di scoppiare a ridere. Nella fila del refettorio, i nuovi addetti alla distribuzione delle vivande, il mestolo in mano, avevano paura di me. Li fissavo con occhi spiritati e agitavo il vassoio sotto il loro naso. Loro lo riempivano oltre misura, anche se io lo facevo più per divertirmi che per ottenere maggiori quantità di cibo, che solitamente era difficile mangiare in porzioni normali, figuriamoci quando il piatto era stracolmo. All'incirca in quel periodo ricevetti una lettera dalla figlia del dottor Marcel Frym, lo psichiatra che avevo conosciuto tramite Al Matthews durante le udienze nel tribunale che mi aveva giudicato per aver aggredito l'agente dell'Amministrazione Penitenziaria. Di tanto in tanto sui giornali si legge un articolo che parla di una donna solitamente appartenente alla media borghesia, che si innamora di un esemplare umano, a prima vista mostruoso, in attesa di essere giustiziato per aver commesso una sfilza di macabri omicidi. La maggioranza della gente si limita a scuotere la testa con aria di disgusto: è una cosa che oltrepassa la sfera della loro esperienza. In effetti, l'infatuazione scatta non per un individuo in carne e ossa, ma per un personaggio che è frutto della fantasia, qualcuno che la donna può andare periodicamente a trovare in prigione, come un paziente che s'incontra col suo psicanalista. Il detenuto dietro le sbarre di colpo acquista tutti gli attributi che la donna desidera intensamente. È lei che li proietta su di lui. Lei si crea una "imago" e la ama come una persona pienamente compiuta. La donna può rendergli visita tutte le settimane o tutti i mesi e restare seduta di fronte a lui per ore e ore, riversando i tormenti della sua anima e della sua psiche finché non si compie l'inevitabile transfert. Mi resi conto che questo era quanto stava accadendo anche nel mio caso. Ero molto combattuto riguardo questa relazione. Mi avevano accusato di essere un manipolatore e uno sfruttatore, delle donne in particolare. In tutta sincerità, era un giudizio erroneo ai miei occhi. Dov'erano i fatti? Mistress Hal Wallis? Non avevo approfittato di lei, nemmeno quando era caduta in depressione e mi avrebbe dato tutto ciò che chiedevo. Ciò nondimeno ero molto consapevole di quell'accusa, anche se il mondo intero si era schierato contro di me, e avevo bisogno perlomeno di un alleato. Questa donna di nome Mary non era semplicemente una persona armata di buona volontà: era un'entusiasta. Diceva che viveva in un bozzolo dall'adolescenza, e «adesso sono una farfalla che vola con le sue ali». Francamente, mi spaventava. Se il mondo in cui vivevo l'avesse aggredita, l'altro mondo ne avrebbe data a me la colpa. Io non mi curavo affatto della maggioranza dei suoi abitanti, ma il padre di Mary mi aveva dimostrato amicizia. Tuttavia, si trattava anche di una lotta per la sopravvivenza, e chiunque si accostasse troppo vicino si beccava una granata. Solo, con qualche detenuto miserabile per amico, cercavo disperatamente degli alleati. Lasciai entrare Mary nella mia vita. Le sue lettere divennero infiammate e voluminose. M'infilavano la posta sotto la porta della cella prima dell'apertura del mattino, in base al principio che il detenuto iniziava così la sua giornata di buon umore. Il principio era corretto. Mary mi scriveva tutti i giorni, ma per via dei capricci del servizio postale americano e della sala posta della prigione, certe mattine sotto la porta non c'era nulla. Altri giorni, solitamente il martedì, le sue lettere coprivano letteralmente il pavimento della mia cella. Poi Mary venne a farmi visita. Non era una bellezza mozzafiato, ma emanava una potente sensualità, dalla massa dei suoi folti capelli corvini allo scatto delle anche quando camminava. Aveva una certa somiglianza con Elizabeth Taylor, con un busto stupendo, ma gambe un po' troppo corte per essere perfette. Pur essendo da sempre un gran conoscitore in materia di gambe e di "derrière", con un interesse minimo per il seno delle donne (atteggiamento quasi non americano), trovai Mary sessualmente attraente. La sua caratteristica più seducente, però, non era fisica; era la sua energia. Moriva dalla voglia di avventura. Ebbene, sarebbe stata accontentata. Finita la visita, andò a Fairfield, alla sede della contea, e assunse un giovane avvocato, che venne a Vacaville e domandò: - Come lo trattate? - Come tutti gli altri, - rispose il funzionario della prigione. - È questo il problema. Non è come tutti gli altri. È un malato di mente. L'avvocato ripartì per immergersi nei manuali di giurisprudenza e trovare degli appigli giuridici a tutela della mia condizione. L'Amministrazione Penitenziaria decise di sbarazzarsi della patata bollente rappresentata dalla mia persona. Un giorno, senza preavviso alcuno, gli altoparlanti chiamarono: - Bunker… A–due-zero–due-otto–quattro, a rapporto all'Accettazione e Rilascio. Credevo si trattasse di un pacco di vestiti, o che dovessero prendermi le impronte digitali. L'ultima cosa che mi aspettavo era che mi lanciassero una tuta bianca e mi dicessero di indossarla. Quindici minuti dopo, uscivo dal cancello sul retro della prigione, accomodato sul sedile posteriore di un autobus che poteva portare sette passeggeri. Quando giungemmo ad Atascadero, quelli dell'ospedale di Stato furono colti da sorpresa. Non ne volevano sapere di me. Io risposi che sarei ripartito immediatamente a piedi, se parlavano sul serio. Gli psichiatri della prigione avevano certificato che ero nuovamente responsabile delle mie azioni. Dopo tre ore di attesa, si decisero ad accettarmi e lasciarono ripartire l'autista. Il medico neonazista era pronto. Mi aspettava. Di ritorno nella stessa saletta annessa, come la chiamavano. Notai che i vetri delle finestrelle di osservazione erano stati sostituiti da lastre metalliche perforate. Prima che mi mettessero in «contenzione totale». Prima la camicia di forza; poi mi stesero sul letto e annodarono al telaio del letto un lenzuolo che mi avevano legato alle caviglie, e un altro lenzuolo legato alle ascelle lo fissarono alla testiera. Le lenzuola erano così tirate e il vecchio letto era così infossato nel mezzo che di fatto ero come sospeso nel vuoto. (Ovviamente esagero, ma non tanto). L'operazione fu completata da un'iniezione di Prolixin, una sostanza stupefacente che vi sprofonda immediatamente, e per lungo tempo, in uno stato mentale vegetativo. L'effetto di una sola siringa dura una settimana. Mentre il sorvegliante preparava l'ago, il dottore neonazista si godeva lo spettacolo in piedi accanto al letto, un ghigno di soddisfazione sulle labbra. Aveva preso il mio tentativo di sobillare i malati di mente come un'offesa personale. Da come mi guardava, si capiva che mi considerava un fuorilegge, un criminale. Quando lo guardavo, per parte mia, me lo immaginavo in uniforme nera con una fascia con la svastica e bottoni a forma di teschio sui risvolti, e non mi sarei sorpreso se mi avessero detto che a suo tempo aveva lavorato a un programma di eugenetica in un ospedale tedesco. Dei rapporti furono redatti, firmati, sigillati, affrancati e inviati in tempi record al tribunale municipale di Inglewood. In capo a tre settimane arrivò l'autobus dei servizi dello sceriffo; alcuni scesero, altri salirono. Io ero tra questi ultimi. Mentre mi trovavo a Vacaville, Denis, il mio amico spacciatore di Hollywood, arrivò al Centro Accettazione per una violazione della libertà vigilata. I magnaccia cui io estorcevo denaro lo avevano contattato per chiedere il suo aiuto. Denis mi informò che un noto avvocato, che si prestava in affari poco puliti, di nome Brad Arthur, poteva far annullare il mandato di cattura spiccato contro di me per violazione della condizionale. Com'era possibile? Denis non lo sapeva con esattezza, ma la cosa era fattibile. Io mandai subito Mary da Brad Arthur per assicurarsi se era possibile, e nel caso sapere quanto sarebbe costato. - Ma non dargli soldi, finché non te lo dico io… Qualche giorno dopo aver dato queste istruzioni, mi trasferirono nuovamente all'ospedale di Stato di Atascadero. Là, immobilizzato dalla camicia di forza, legato a un letto e trasformato in un vegetale, non avevo diritto né a visite né all'invio di corrispondenza. L'uso della matita, indispensabile per scrivere, era ritenuto pericoloso per la mia persona. Mary, che tramite suo padre conosceva il giudice Stanley Mosk della Corte Suprema della California, lo chiamò. Costui, pur non apprezzando che gli venisse imposto di fare questo passo, che probabilmente giudicò al limite della sconvenienza, telefonò al sovrintendente di Atascadero per avere informazioni. Venendo da un giudice della Corte Suprema, la richiesta bastò perché Mary e Brad Arthur scavalcassero il medico neonazista. Dovevo essere ritrasferito a Los Angeles in settimana. Malgrado la presenza concomitante dei sorveglianti e del medico, riuscii a dire a Mary e Brad di «occuparsi dell'ordine di detenzione per violazione della condizionale». Non sapevo se l'avevano già fatto quando l'autobus dei servizi dello sceriffo arrivò ad Atascadero per scaricare alcuni internati e prelevarne altri. I giorni seguenti li passammo viaggiando sulle autostrade della California Centrale: ci fermammo in varie prigioni della contea per caricare alcuni detenuti richiesti a Los Angeles e depositarne altri a San Luis Obispo, Monterey o Bakersfield. Quando arrivammo nel cortile riservato ai mezzi di carico e scarico della prigione della Contea di L. A., era mezzanotte passata. Veicoli e furgoni del Lapd rigurgitavano a ritmo incessante decine, centinaia di giovani neri. L'aria era inquinata dall'ozono della rabbia. I poliziotti brandivano il manganello, servendosene per colpire e spintonare, oppure lo battevano sul palmo della mano a scopo intimidatorio urlando: - Avanti! Muovetevi! - Lo ignoravo, ma quella era la prima notte dei tumulti di Watts. Mentre passavo la procedura di incarcerazione, giunse la notizia che la cauzione era stata inviata. Sapevo che il momento critico sarebbe sopraggiunto una volta arrivato all'ultima fase dell'iter di rimessa in libertà, quando l'addetto dell'Ufficio Accettazione e Rilascio mi avrebbe chiamato allo sportello per verificare il mio bracciale di riconoscimento e le impronte digitali. - Quando senti il cicalino dell'apertura, spingi la porta, - disse l'aggiunto. La vernice grigia era scomparsa in quel punto, dove migliaia di mani avevano spinto prima di me. Il cicalino ronzò, io spinsi, e la porta si aprì. Mary mi aspettava all'esterno, e l'alba si levava sulla Città degli Angeli. Andammo immediatamente in un motel su Seventh Street, dove lei aveva già prenotato una camera. Guardammo la rivolta di Watts in televisione. Grazie a Dio non mi trovavo in prigione quando trascinarono dentro le migliaia di giovani neri arrabbiati. CAPITOLO TREDICESIMO. RECLUSO NEL PENITENZIARIO DI FOLSOM. L'estate dell'amore a San Francisco: '67, '68 o '69, non ne sono più tanto sicuro, perché all'epoca ero recluso nel Penitenziario di Folsom e avevo perso la nozione del tempo. Anche allora, la California aveva le sue prigioni come la General Motors aveva le sue automobili: in una vasta gamma di modelli, stili e prestazioni. Certi istituti penitenziari disponevano di rampe d'accesso per il vecchio ladro in carrozzella che scontava la pena come recidivo, altri offrivano servizi medici per i malati e gli infermi mentali. C'erano penitenziari duri per i predatori, e altri più morbidi per i deboli che non avrebbero potuto pagare il loro debito altrove. Certi istituti di pena erano molto vecchi, e altri così moderni che il colore della vernice alle pareti era scelto dallo psicologo. Ce n'era soltanto uno che rispondeva ai requisiti della massima sicurezza: Folsom, bollato "Represa". A trenta chilometri a est di Sacramento, nel ventre della regione della Corsa all'oro, Folsom copre un'area di centottanta ettari anche se il settore circoscritto dalla cinta muraria è più piccolo. Ci sono soltanto tre muri. Il quarto muro è in fondo a un cortile creato spianando una collina, e in realtà è una gola in cui gorgoglia e spumeggia l'American River. Un detenuto imbecille una volta si trasformò in un sottomarino umano, con tanto di tubo respiratorio e tasche zavorrate, ma sopravvalutò la sua spinta di galleggiamento, e finì sul fondo annegando. Le possibilità di raggiungere il fiume sono minime, perché il cortile inferiore è recintato da due barriere di rete metallica sormontate da filo spinato, ed è dominato da torrette di osservazione munite di mitragliatrice. Un prigioniero sottoposto a misure di massima sicurezza non è autorizzato ad avvicinarsi al cortile inferiore. Se si spinge fin lì, l'aspettano un'altra torretta di osservazione e un'altra recinzione di rete metallica sormontata da filo spinato. La campagna circostante fu completamente spogliata all'epoca della frenetica Corsa all'oro, un disastro ecologico "ante litteram" dal quale non si è mai completamente ripresa. L'unica vista che si gode dal penitenziario è il territorio che si apre di là dal fiume: colline basse cosparse di arbusti bruciati dal sole che offrono la loro piccola eruzione di verde per due settimane in primavera, prima di riprendere il loro aspetto abituale, un paesaggio triste e spoglio. Nel 1864, quando il posto fu proposto per la costruzione di una prigione, un medico provò a esprimere qualche riserva: il sito non era molto salubre. Quel parere convinse gli organi legislativi a deliberare la costruzione dell'istituto di pena. Nel 1880, un numero sufficiente di edifici era stato ormai ultimato, e il penitenziario era pronto a ricevere i primi ospiti. I detenuti furono messi a lavorare, e spettò a loro tagliare il granito che ancora oggi caratterizza l'architettura incoerente del penitenziario, talmente strana che si vedono enormi blocchi di granito fondersi senza giunture con la colata di cemento nello stesso muro. Strana simbiosi. La storia di Folsom è brutale e imbrattata di sangue. Camicie di forza, pane e acqua e sospensione per i pollici erano punizioni normali, che si sono protratte fin nel ventesimo secolo inoltrato. Le impiccagioni erano frequenti. Novantun uomini furono giustiziati sulla forca di Folsom prima che la California passasse alla camera a gas, usata per la prima volta a San Quentin. Folsom ha conosciuto evasioni finite nel sangue: la più importante, avvenuta nel 1903, fu capeggiata da «Red Shirt» Gordon, la Camicia Rossa, così chiamato perché quel colore rendeva gli irriducibili facilmente individuabili dalle guardie appostate sulle torrette di osservazione. Alla testa di una dozzina di prigionieri, irruppe nell'Ufficio del Capitano, accoltellando a morte una guardia che tentava di fermarli. Il gruppo di Gordon prese parecchie persone in ostaggio, tra le quali il direttore e suo nipote, il capitano e due secondini. Uscendo dal penitenziario, si fermarono nell'armeria e prelevarono un arsenale intero. Raggiunta l'aperta campagna, alcuni evasi si staccarono dal resto della banda e si fecero catturare. Una squadra di volontari, che si era formata tempestivamente e contava nelle sue file anche alcuni membri della milizia, riacciuffò il grosso dei fuggitivi, che si rifiutarono di arrendersi. Due soldati della guardia nazionale restarono uccisi, e molti cittadini furono feriti. I fuggitivi lasciarono un morto per terra. Gli altri riuscirono a scappare. Sei di loro non vennero mai catturati. Di quelli che furono ripresi, due furono impiccati, e gli altri rilasciati, dopo aver scontato la pena, per poi diventare cittadini esemplari. Il giorno più sanguinoso nella storia di Folsom fu il Giorno del Ringraziamento del 1927. Armati di un revolver e di coltelli, sei detenuti progettarono di impadronirsi di un settore interno contiguo all'edificio dell'amministrazione e di sequestrare il direttore. Fecero irruzione nella prima zona, ma non riuscirono a trovare una chiave che era d'importanza cruciale per il buon esito del loro piano. Frustrati, tornarono sui loro passi e cercarono di passare per un altro cancello, che non dava all'esterno del penitenziario, ma si apriva su un settore meno sorvegliato. Un agente di custodia li vide sopraggiungere e in fretta e furia chiuse il cancello. Si beccò una pallottola nella gamba. Un secondo proiettile lo mancò, ma uccise un detenuto addetto al cancello. Gli evasi, ormai pazzi furiosi, erano intrappolati nella prigione interna. Si precipitarono nella sala di ricreazione, dove un migliaio di detenuti stava guardando un film, l'ultimo offerto in visione prima di "Mister Smith va a Washington", una dozzina di anni più tardi. Massacrarono una guardia che stava sulla porta, presero nuovi ostaggi e cercarono di confondersi tra la massa dei presenti. I soldati della milizia, armati di mitraglie, giunsero da Sacramento. Seguì un assedio durato trentasei ore. Dieci prigionieri restarono uccisi e una mezza dozzina feriti prima che i "desperados" si arrendessero. Furono processati in tempi brevi e impiccati. La loro esecuzione non funzionò da deterrente. Dieci anni dopo, un altro gruppo tentò di usare il direttore come biglietto di viaggio verso la libertà. Era una domenica, e il direttore Larkin conduceva gli interrogatori nell'Ufficio del Capitano. Una lunga fila di detenuti attendeva all'esterno, dietro una barriera di filo di ferro, sotto quella che oggi è la Torretta di Guardia N. 16. Sette degli uomini in attesa erano armati di coltelli, e non avevano in mente soltanto un colloquio con il direttore. Uno di loro era già evaso dal penitenziario del Kansas. Un altro scontava una pena per aver introdotto a San Quentin un certo numero di pistole, che erano state usate per sequestrare la commissione della condizionale al completo. Non appena il cancello si aprì per lasciar uscire altri prigionieri, i sette lo varcarono usando la forza. La loro audacia impedì alle guardie sulle torrette di osservazione di vedere ciò che accadeva sotto i loro occhi. I detenuti fecero presto a ridurre all'impotenza il direttore Larkin e il capitano Ryan detto il Porco, nomignolo inevitabile, tanto se l'era meritato. Un paio di detenuti volevano accoltellare Ryan, ma il capo li dissuase. Un nodo scorsoio di filo di ferro fu passato intorno al collo del direttore. Due guardie, armate delle loro «mazze» con la punta di piombo, si lanciarono nel tentativo di liberare i due uomini. Furono accoltellate e respinte. Una morì. A ranghi serrati, tenendo il direttore e il capitano al centro del gruppo, i prigionieri uscirono. Il direttore ordinò alla guardia sulla torretta di osservazione più vicina di lanciargli un fucile. Le guardie si tenevano a distanza, incapaci di muoversi. Una guardia appostata su un'altra torretta giocò il tutto per tutto e premette il grilletto. Fece fuori due detenuti con due colpi. Le guardie sulle altre torrette presero a sparare, mentre i restanti prigionieri, presi dal panico, incominciarono a pugnalare gli ostaggi da ogni parte, finché altre guardie si precipitarono e li sopraffecero a colpi di mazza. Il direttore Larkin morì in seguito alle ferite. I detenuti sopravvissuti ai colpi di fucile fecero la serata d'apertura della camera a gas. Bill Ryan sopravvisse, ed era ancora il vicedirettore di Folsom al momento del mio ingresso nel penitenziario. Questo olocausto indusse gli organi legislativi a votare una legge che impediva ai detenuti di tentare la fuga contando sul sequestro di persone prese in ostaggio. La legge impediva agli agenti di custodia di obbedire agli ordini di chicchessia, a cominciare dal direttore. Nel 1961, una compagnia corale giunse a Folsom per offrire una rappresentazione nella cappella del penitenziario. Tra i coristi c'erano parecchie giovani donne. Furono prese in ostaggio da tre detenuti, che io conoscevo molto bene. Un detenuto si era intromesso ed era stato accoltellato a morte (fu insignito di un perdono postumo). Ma i cancelli di Folsom rimasero chiusi, e a nessuno venne in mente di aprirli. Tutti i detenuti conoscono la legge e sanno che sarà applicata. È una delle prime cose che viene loro insegnata quando mettono piede nel penitenziario. Al contrario di quanto avviene in tutte le prigioni della contea e nella maggioranza degli istituti di pena, Folsom si risveglia in silenzio, senza il chiasso di campanelle e cicalini. L'edificio carcerario circonda il blocco di celle costruito su cinque ballatoi, come una grande scatola che ne contiene una più piccola. Un'infinità di rondinotti, piccioni e merli nelle fessure dei muri e sotto le grondaie strillano e gracchiano da ore, ma i detenuti si svegliano soltanto quando sentono i responsabili delle celle infilare le loro enormi chiavi nelle serrature. Un rumore assordante, ogni giro di chiave intercalato da una pausa ricercata: "cla… c, cla… c…" Le celle di Folsom hanno le stesse dimensioni di quelle di San Quentin: da tre metri e trenta a tre metri e cinquanta di lunghezza per un metro e trenta di larghezza. Come a San Quentin, disponevo di un tavolo abbastanza grande da ospitare una macchina per scrivere e una pila di fogli dattiloscritti accanto. Avevo terminato il mio terzo romanzo inedito ed ero alle prese con l'inizio del quarto. Stavolta non avevo alcun contatto con l'esterno. Se fossi stato assassinato e sepolto sotto l'edificio carcerario, nessuno al mondo avrebbe chiesto che fine avevo fatto. «Esquire» aveva pubblicato un lungo articolo sul mondo letterario di New York, ivi compresi gli agenti letterari. Scrissi a Armitage (Mike) Watkins, la cui madre, uno dei primi agenti letterari a New York, aveva rappresentato molti scrittori famosi del passato. Non pensavo certo di poter interessare qualcuno così in vista, ma data la qualità letteraria dei suoi clienti, pensai che Watkins avrebbe perlomeno potuto leggere i miei manoscritti. Gli scrissi informandolo che non avevo i soldi per pagare l'onorario di lettura, e che avrei provveduto alle spese di spedizione postale vendendo mezzo litro di sangue. Avrebbe letto ciò che avevo già scritto? Watkins rispose affermativamente. Gli inviai due romanzi. Me li rispedì indietro. Dichiarò che avevo talento e che avrebbe letto volentieri tutto ciò che avrei prodotto in futuro. Stavo già scrivendo un altro romanzo. Perciò andai avanti. Un rumore improvviso, seguito dalle raffiche stridule di un'infinità di cancelli, segnalò che il ballatoio superiore era stato aperto e che un nuovo giorno era cominciato a Folsom. La spazzatura iniziò a ruzzolare a cascata man mano che i detenuti del piano superiore si trascinarono a passi lenti verso la scala centrale. La sezione che si apriva in quel momento era chiamata «dietro lo schermo», ovvero la sezione di sorveglianza vicina all'Edificio N. 1. Il mio piano era il prossimo a uscire. Tirai su le coperte senza veramente rifare il letto. Abbottonandomi la camicia, spinsi con il piede i rifiuti verso l'ingresso della cella, che avrei dovuto spazzare quando si fosse alzata la sbarra di sicurezza. Nessuno avrebbe detto niente, pensai. Almeno non per un giorno. Un detenuto, noto con il nomignolo affettuoso di Pulce (quando gli altoparlanti lo chiamavano, si sentiva: - La Pulce, a rapporto da…-), dorme con i vestiti addosso in un centimetro di polvere di tabacco, lenzuola e coperte luride, e trenta centimetri di spazzatura sul pavimento. Più o meno una volta al mese, le guardie lo fanno sgomberare e puliscono. La Pulce protesta, dicendo che gli tolgono i suoi effetti «personali». Il mio letto malamente rifatto non offenderà la sensibilità di nessuno a Folsom, diversamente da quanto potrebbe accadere in una delle nuove prigioni fiore all'occhiello dell'Amministrazione Penitenziaria. Attraverso le sbarre della cella, due recinzioni interne, una serie di sbarre più spesse a una finestra stretta, e ancora un'altra barriera di filo di ferro, intravedo vagamente il muro di sostegno in blocchi di granito alla base di una collina scoscesa, in cima alla quale c'è un'altra recinzione di filo spinato e una torretta di osservazione, mentre al di là, ma fuori dal campo visivo, si erge un muro con altre torrette di osservazione. "Clac". Si alzano le sbarre di sicurezza. Apro il cancello con una spinta e trasporto le mie scarpe sul ballatoio. Passano dei detenuti. Dei trenta uomini su questo piano, almeno la metà scontano una pena all'ergastolo o sono stati giudicati criminali recidivi. Sui cinque ballatoi vige la stessa percentuale. Joe Morgan, un nome leggendario che i detenuti della California dovrebbero riconoscere senza esitazioni, si diverte a sfottermi sostenendo che sono l'unico galeotto condannato per furto aggravato a ritrovarsi qui, «dietro lo schermo». Indio passa con la sua andatura lievemente zoppicante, mi saluta con un rapido sorriso e una pacca sul braccio. Ha scontato parecchi anni nel Braccio della Morte per aver ammazzato, a San Quentin, un tizio, un non detenuto, che lo tormentava. Indio già scontava una pena tendente all'infinito, e desiderava, e tuttora desidera, essere lasciato in pace. Lui, gli altri, li lascia in pace. Passa un mussulmano: è alto, e ha un portamento invariabilmente severo. Il suo compagno lo aspetta in fondo al ballatoio. Come tutti i mussulmani di colore, è silenzioso e riservato, si veste in modo dignitoso, e segue un'etica che Calvino approverebbe. Anche lui ha passato qualche anno nel Braccio della Morte, ma ignoro quale crimine abbia commesso, e sarebbe un'ingerenza nella sua vita privata, se glielo chiedessi. Jerry O'Brien fa una certa fatica a uscire di cella: prima deve disincagliarsi dal cumulo della mezza dozzina di tele cui sta lavorando per la Mostra d'Arte di Primavera. Dipinge dodici ore al giorno e fa passi da gigante: sarà presto un bravo artista. Di lui, a mo' di battuta scherzosa, si dice che è destinato a diventare il «Pittore di Folsom», com'è accaduto per l'«Uccellatore di Alcatraz», quando avrà finito di scontare la sua pena. Aveva ucciso un ufficiale di polizia di Torrance durante una sparatoria seguita a una rapina (anni prima gli avevano sparato mentre era a quattro zampe e disarmato) ed era stato fatto oggetto di una vasta caccia all'uomo. Catturato nello Utah e trasferito a Los Angeles, era stato condannato a morte. Nel corso di un nuovo processo istruito per un vizio procedurale, si era difeso da solo ed era riuscito a spuntare una condanna all'ergastolo, un successo straordinario per uno che non era un uomo di legge. La sua agonia, però, era soltanto all'inizio. Venticinque o trent'anni di prigione stanno a un'esecuzione capitale, come il cancro a un'attacco di cuore, anche se un uomo giovane poteva scontare i suoi venticinque anni e poi, una volta fuori, condurre una vita più che accettabile. Alto, il viso emaciato, dà l'impressione di essere sempre sotto pressione, cosa insolita per Folsom, dove tutto è molto lento. Non è scivolato nella trance abulica necessaria per sopportare un carico di anni tanto pesante. Ogni tanto i suoi occhi diventano vitrei, quando si rende conto, con un sentimento viscerale, che Folsom è il suo universo e che il tempo che lo separa dalla prima condizionale in cui può "sperare" si conta in decine di anni. E che anche questa è tutt'altro che scontata. Due giovani guardie in fondo al ballatoio sono coperte da un tiratore scelto sulla passerella sovrastante, tre metri oltre le due recinzioni. I tre uomini sono assonnati. Il turno di notte, da mezzanotte alle otto del mattino, monotono e faticoso, volge al termine. Le guardie sono sedute, smistano la posta e ascoltano il silenzio punteggiato dal gorgoglio dei tubi del vapore. Il refettorio si trova in un edificio separato più vecchio del blocco di celle. È collegato a quest'ultimo da una porta in acciaio, di modo che non è necessario uscire all'esterno per andare a mangiare. Il fatto che gli edifici siano comunicanti non nasce dalla volontà di rendere facile la vita ai detenuti, ma per ovviare all'inconveniente della nebbia, che talvolta avvolge tutto il complesso penitenziario. Nella "Guida Michelin" delle prigioni della California, il vitto passato a Folsom è insignito di tre stelle e mezzo, anche se la qualità è un po' scaduta in questi ultimi anni, dopo che Ryan il Porco è andato in pensione. A suo avviso, il modo migliore per tener buoni i prigionieri è di metterli all'ingrasso. Un uomo con la pancia piena è solitamente poco aggressivo. San Quentin offre il vitto peggiore di tutto il sistema penitenziario, ma, in termini di orrore gastronomico, la prigione della Contea di L. A. è senza pari: qui è letteralmente impossibile mangiare per giorni e giorni. Io persi quasi venti chili tra aprile e settembre. La cosa curiosa è che l'Ufficio dello Sceriffo spende un mucchio di soldi per il vitto della prigione, ragion per cui, forse, uno dei suoi funzionari, qualche anno dopo, finì in prigione. I detenuti di Folsom mangiano tranquillamente in un'atmosfera rilassata. I tavoli, inchiodati al pavimento, sono a quattro posti. Ai tavoli sono fissati degli sgabelli, per cui è necessario scivolare sopra i sedili per accomodarsi a mangiare. I tavoli devono essere occupati nell'ordine, senza essere necessariamente pieni. La maggioranza dei detenuti consuma i pasti con un compagno regolare. Io mangiavo solitamente con due amici, ma uno finì all'ospedale e l'altro, appena uscito dalla massima sicurezza, cambiò blocco. Lasciarono un vuoto. L'universo del detenuto è talmente promiscuo, così totalmente privo di intimità, che all'inizio ciascuno agogna disperatamente la solitudine. Il tempo, tuttavia, erode questo bisogno, e alla fine prevale l'atteggiamento opposto, e non si desidera più stare soli. Quel mattino mangiai tranquillamente, impaziente di uscire in cortile. Per uscire bisogna attraversare l'edificio carcerario, con la sua luce invariabilmente grigia. Ecco un'altra cosa cui si fa l'abitudine. Le celle al pianterreno sono uguali a tutte le altre, eppure gli uomini alloggiati lì hanno personalità differenti. Ovunque siano, e indipendentemente dalle loro condizioni di vita, gli uomini costruiranno sempre una parvenza di mondo. A Folsom, non esistevano regole rigide riguardanti l'arredamento delle celle. Altrove, in tutti gli altri istituti del sistema penitenziario, specie nelle prigioni di costruzione recente, tutte le celle erano identiche, prive di qualsiasi arredo. Ma a Folsom c'era il detto: «Tutto ciò che porti dentro la tua cella è tuo, fosse pure il tappeto del direttore». Era un'esagerazione con un pizzico di verità. Ecco una cella dove si accumulano fino al soffitto scatole di dentifricio Colgate, tubi di crema da barba, scatole di tabacco da pipa, scatole di dolciumi, ciambelle e sigari: uno spaccio completo, con tutta la mercanzia esposta in vetrina. Ahimè, i contenitori sono tutti vuoti, come in certe creazioni della pop art. Ecco un'altra cella talmente immacolata che il suo inquilino si toglie le scarpe prima di entrare, e non si siede sulla branda finché non è l'ora di coricarsi. Ci sono bambole in un'altra cella, e sul letto è stesa una trapunta rosa. Certe celle sono nude e sciatte come una camera ammobiliata. Un'altra cella ha le pareti coperte di foto di Malcom X, Elijah Muhammad e Huey Newton. Presi per un tunnel largo e corto, seguendo alcuni uomini fino a un cancello aperto che dava sul cortile. A fianco del cancello, c'è un posto di controllo in granito, con una caffettiera sempre pronta. Vi stazionano le guardie. Recentemente hanno avuto in dotazione dei manganelli, anche se secondo la nomenclatura orwelliana oggi vengono denominati «bastoni». (Una mazza, comunque la si chiami, fa sempre molto male). La pratica di armare le guardie (i randelli con la punta di piombo finirono al museo nel 1940) fu resuscitata dopo l'uccisione di alcuni agenti di sorveglianza in parecchie prigioni, anche se questo non era ancora successo a Folsom. Un anno prima, San Quentin era stato il teatro di una violenta rivolta, e conflitti razziali erano insorti a Tracy, Soledad e San Quentin. Alla luce del sole mattutino mi fermai e mi guardai intorno. Non avevo alcuna voglia di imbattermi in uno dei miei pochi nemici. Poteva pensare che si trattasse di un'aggressione a sorpresa e reagire di conseguenza. Il cortile è praticamente un quadrato, anche se una sua parte circonda l'Edificio N. 1 fino a un campo di pallamano, un'area di sollevamento pesi, il settore delle televisione con due apparecchi installati all'aperto, e una pista per giocare a biglie. Si scommette sulle partite di biglie come sulle partite di biliardo. Il quadrato è un po' più ampio di un campo di softball di media grandezza: il paragone è calzante e agevole perché il diamante di un campo di softball occupa l'ottanta per cento dello spazio. I lanci non validi che escono sul lato sinistro del campo si schiantano sui tavoli del domino e sul campo di pallacanestro in asfalto disseminato di buche che si trova di fronte all'Edificio N. 1. Esternamente, in fondo al lato destro, si erge la Torretta N. 16, che sovrasta il cortile e una recinzione con un cancello all'esterno dell'Ufficio delle Detenzioni. Sulla Torretta N. 16 è appostata una guardia armata nota come Tuesday Slim, e leggenda o mito vuole che sia un tiratore d'eccezione, capace di colpire il tallone di un'idiota a centocinquanta metri di distanza. Altre quattro torrette di osservazione dominano il cortile da ubicazioni diverse. La loro funzione non è sorvegliare il perimetro del penitenziario, ma mantenere l'ordine all'interno delle mura. Nessuna è munita di armi con portata superiore ai cinquanta metri. La maggioranza dei detenuti è già al lavoro, in cima alla collina, nella fabbrica di targhe automobilistiche, oppure sull'altro lato della collina, a valle, ma quasi duecento uomini restano ancora nel cortile. Alcuni passeggiano avanti e indietro lungo la linea di campo sinistra del campo di softball. Altri, soli o in gruppo, si appoggiano contro il muro del Centro di Adattamento per crogiolarsi al calore del sole mattutino. La cricca dei motociclisti non si mescola con gli altri. La maggioranza dei neri si raggruppa intorno al campo di pallacanestro e al muro dell'Edificio N. 1, più isolati che nel passato, nella misura in cui i problemi razziali insorti nelle strade e nelle altre prigioni si sono insinuati anche a Folsom. Ma c'è meno tensione qui che nelle prigioni per giovani detenuti. Troppi uomini a Folsom si conoscono fin dall'infanzia. Motor (abbreviazione di Motormouth) Buford se ne sta disteso supino al centro del campo di pallacanestro e picchia i talloni sull'asfalto, rotolandosi da una parte all'altra, bofonchiando e ridacchiando in modo troppo convulso perché chiunque capisca più di una frazione di ciò che sta dicendo; ciò nonostante fa ridere quelli che gli stanno intorno. Non ha nemici. Ha molti amici. Si è beccato l'ergastolo per aver ucciso Sheik Thompson, l'uomo più odiato e più incredibile che io abbia mai conosciuto. Sheik era un errore della natura, una specie di regresso filogenetico. Se mai il termine «animale» è convenuto a un umano, costui era Sheik. La prima volta che entrai a San Quentin, Sheik lavorava al di fuori delle mura, alla cava delle pietre: rompeva quelle grosse per farne di più piccole. La cava distava un chilometro e mezzo dalle mura di cinta, in cima a un lieve pendio. Lieve quanto si vuole, ma bisognava arrivare fin lassù. Lo saliva trotterellando, un giogo di legno sulle spalle. Non appena lo trovò troppo facile, si caricò un detenuto di quarantacinque chili sulla groppa. Sheik non pesò mai più di sessantacinque chili e quindi, il giorno della Festa del Lavoro, all'epoca in cui San Quentin offriva ai detenuti una gara di atletica al mattino e un incontro di pugilato il pomeriggio, Sheik correva i 400 metri, gli 800 metri e i 1500 metri al mattino. Dopo pranzo combatteva per il titolo dei pesi medi, dei pesi massimi leggeri e dei pesi massimi. Talvolta vinceva, talvolta perdeva, ma non ricordo che siano mai riusciti a fermarlo. Sheik era senza orecchie. Il suo avversario gliele aveva mozzate con i denti prima di ingoiarle in una rissa leggendaria. Lui e Albert Johnson, un altro nero, avevano cominciato a battersi dietro l'Edificio N. 1. Da tre torrette di osservazione avevano preso a sparare su di loro (la California è l'unico Stato americano in cui si spara su prigionieri disarmati per mettere fine a una scazzottata, allo stesso modo in cui si userebbe un idrante per separare cani che si battono) con i calibro 30.30 e 30.06. Molti furono i colpi esplosi. I due uomini furono raggiunti da parecchi proiettili, ciò nonostante seguitarono a battersi: calci, pugni, morsi a non finire. Albert Johnson fu colpito ai testicoli. Mozzò le orecchie di Sheik con un morso, e poi le inghiottì. Più tardi, quando gli altoparlanti diffusero la richiesta di donatori di sangue, neppure un detenuto volle donare per Sheik una goccia del suo sangue. Per Albert Johnson si presentarono in molti. L'odio indefesso verso Sheik non era dovuto alle sue capacita fisiche animali, era piuttosto una reazione ai suoi atteggiamenti bestiali. Ogni parola che pronunciava era una sfida bruciante di rabbia. Era omosessuale e spia, e una volta aveva spedito un prigioniero nel Braccio della Morte. Il prigioniero ne uscì senza essere giustiziato. Da allora lo chiamarono col soprannome Jefferson Braccio della Morte. Alla benché minima provocazione da parte di un altro detenuto, Sheik gli sputava addosso, insulto tremendo in un mondo governato dal machismo. Quando Motor e Slim alla fine ammazzarono Sheik, le guardie li scortarono per il cortile, dall'Ufficio delle Detenzioni fino al Centro di Adattamento, all'ora in cui tutti i detenuti di Folsom si mettevano in fila per il rientro in cella e l'appello serale. Tutti applaudirono e acclamarono Motor e Slim. Motor fu condannato all'ergastolo, e Slim alla pena capitale, ma Motor fu visto a South Central negli anni novanta, e Slim non fu giustiziato. Agli occhi degli ignari, il cortile di Folsom poteva sembrare pacifico e omogeneo, con i detenuti che si muovevano placidamente come vacche al pascolo. Ciò nonostante, dietro l'apparente sonnolenza e gli sguardi rapaci delle guardie si nascondevano intrighi mortali e faide omicide. Gli uomini avevano nemici che volevano uccidere. L'ostilità covava come la brace sotto la cenere. Bastava pochissimo per appiccare un incendio, magari uno sguardo o una parola che qualcuno "pensava" di aver sentito. Gli uomini tenevano l'occhio vigile per proteggersi dai loro nemici, e restavano nei settori in cui stazionavano i loro amici. Quando mi avvicinai a Denis, Ebie, Paul e Andy Pope, la conversazione verteva sulla pena di morte. - Quanti ce ne sono lassù adesso? - Non lo so. Forse centocinquanta… qualcosa del genere. - E se ne aggiungono due o tre ogni mese, giusto? - Sì. - Prima o poi dovranno spingerceli dentro per forza. Dovranno giustiziarli più in fretta di quanto arrivano. Se no, finiranno per averne a migliaia. E allora che faranno? Una specie di bagno di sangue? - Non mi sorprenderebbe neanche un po', - disse Andy. - In effetti è quello che farei io alla maggioranza di questi inutili coglioni. - Sì, ma tu mica ti presenti candidato alla carica di governatore. Mettiamo che giustiziano trenta o quaranta imbecilli in due o tre mesi. Si rovinerebbe la carriera politica. - Non ne sono tanto sicuro, - ribatté Andy. - Forse potrebbe farsi eleggere presidente. - Scendi? - mi domandò Denis. Alludeva alla biblioteca, dove entrambi eravamo assegnati. Lui era impiegato alla biblioteca di giurisprudenza, posto al quale avevo rinunciato per diventare impiegato capo, con un ufficio privato sul retro, dietro l'ufficio esterno del bibliotecario che era un libero cittadino. Denis era il mio migliore amico. Forse ricorderete che ho parlato di lui in precedenza come il primo spacciatore residente a Hollywood. Scontava una pena da un minimo di quindici anni all'ergastolo, e il primo termine possibile per la concessione della libertà vigilata era stato fissato allo scadere di quattordici anni e nove mesi dalla data del suo ingresso nel penitenziario. Una voce gracchiò all'altoparlante: - La fila delle otto e trenta. Entrate! Il ritmo della marea di uomini che misuravano a grandi passi il cortile e l'apparente omogeneità del loro viavai incominciarono a disfarsi. Il grosso della folla di prigionieri si riunì prima di canalizzarsi attraverso il cancello dell'Edificio N. 5. Era l'unico tragitto possibile per raggiungere il Settore Educativo, i laboratori creativi e l'ospedale. Denis e io ci dirigemmo dalla parte opposta, facendo il giro della base di partenza del campo di softball lungo una passerella che corre sulla facciata della cappella in granito; quest'ultima assomiglia più a una centrale elettrica del diciannovesimo secolo che a una chiesa. L'Uomo dei Gatti staziona fuori della cappella con le sue due brocche di latte e le tasche della giacca piene di avanzi di cibo. I gatti escono dai paraggi e da sotto l'edificio. Uno o due detenuti sono appoggiati a una ringhiera, come gli spettatori di uno zoo. Da una grossa scatola di cartone emerge Pinky, il grosso micio patriarca. Ha il muso segnato da cicatrici, e gli mancano parti di pelo, emblemi delle zuffe con gli altri gatti e gli scoiattoli che proliferano sui fianchi ripidi delle colline vivendo negli interstizi delle mura di sostegno in granito. L'Uomo dei Gatti li nutre e si prende cura di loro, nessuno escluso. Sono i suoi amici in un mondo freddo e privo di amicizia. Qualche mese prima la popolazione felina era esplosa, e in una notte erano state portate via due figliate di gattini. In seguito all'accaduto l'Uomo dei Gatti era rimasto così sconvolto che avevano dovuto ricoverarlo nel Padiglione Psichiatrico per alcuni giorni. Adesso prendeva della Torazina e dava da mangiare a Pinky separatamente dagli altri. Denis e io passammo per un posto di ispezione prima di scendere per il viale pedonale che conduceva alla biblioteca. Era una costruzione bassa dai muri di intonaco color ocra e un tetto grigio, dal displuvio che si alza e si insella a seconda dello stato delle travi di sostegno. Costruita originariamente per essere un'officina meccanica, aveva un pavimento di legno tenero che era diventato un reticolo di fessure; l'avevano destinata ad altro uso semplicemente aggiungendo delle librerie in una delle stanze e degli scaffali lungo le pareti. Poche cose erano cambiate da quando la biblioteca era stata istituita. La più vasta delle tre stanze è la Sezione Giuridica, che l'Amministrazione Penitenziaria vuole sopprimere per venire incontro al procuratore generale. Come d'abitudine, il tavolo della Sezione Giuridica raccoglie moltissimi detenuti. S'impilano davanti a loro i libri rossi dei codici, i tomi color crema delle decisioni della Corte d'Appello della California, i volumi marrone scuro delle corti d'appello federali, oltre a cartelle e fogli di carta per prendere appunti. Il silenzio è di rigore per gran parte del tempo, anche se talvolta si sente rumore di voci, quando gli avvocati del penitenziario s'infervorano discutendo di qualche questione giuridica: - Idiota, non sai niente di niente! Leggi "Il Popolo contro Bilderbach, Sessantadue Cal, secondo". È l'applicazione della dottrina "Wong Sun" allo Stato della California. I detenuti di Folsom depositano ventimila ricorsi ogni anno. Venti anni prima non si era mai sentito parlare di una cosa del genere, e un detenuto che veniva visto con dei fascicoli giuridici sotto il braccio sarebbe stato deriso e sbeffeggiato. Il diritto era considerato come una religione segreta, inaccessibile ai comuni mortali. Solo i suoi sacerdoti potevano officiarla. Per battersi dinanzi a un tribunale bisognava avere un avvocato che costava un bel po' di soldi e conosceva i giudici. La battaglia combattuta da Caryl Chessman per non entrare nella camera a gas, durata dodici anni, aveva cambiato il comportamento dei detenuti. Il flusso incessante di ricorsi è l'eredità lasciata da Chessman. Nell'ambito delle scommesse, l'Irish Sweepstake frutta di più, ma per certi individui l'appello è l'unica speranza di resurrezione, per quanto esile possa essere. Denis entra nella biblioteca di giurisprudenza. Io vado dalla parte opposta, attraverso l'ufficio del bibliotecario per raggiungere il mio passando per un'altra porta. Il bibliotecario mi piace. Come d'abitudine, è intento a leggere. Seduto a una scrivania poco più in là c'è Dacy, che risponde al telefono. Sconta una «pena intera», una condanna all'ergastolo senza possibilità di libertà vigilata. Dopo un vita di reati minori, aveva fatto la grande scommessa: un sequestro di persona per incassare un riscatto. Vede la sua situazione con macabro umorismo. Sa che io sono un aspirante scrittore e si permette di fare dello spirito chiedendomi di scrivere la sua autobiografia, che avrebbe per titolo "Come trasformare un bambino sconosciuto in un bel po' di soldi", e, per sottotitolo, "I miei trent'anni nelle prigioni californiane", oppure, in alternativa, "Come perdere gli amici e alienarsi i responsabili della condizionale". L'umorismo gli fa difetto, in questi ultimi tempi; forse sta lentamente prendendo coscienza del vero orrore del suo destino. Nel mio ufficio mi occupo delle scartoffie della biblioteca, e lavoro più della maggioranza degli altri detenuti, per quanto il mio impegno si limiti a due ore al giorno. Nessuno sviluppa l'abitudine al lavoro, in prigione. Bevo una tazza di caffè. Per le dieci ho finito e risalgo il viale fino al cortile, dove faccio i miei venticinque giri di corsa intorno al campo. Voglio finire il mio allenamento prima che il grosso dei detenuti si metta a correre durante l'ora di pranzo, sollevando polvere come un'orda di bufali. Solo un altro prigioniero, Merkouris, corre lungo la linea della base, a piccoli passi svelti per un tempo, prima di passare alla camminata semplice per un altro tempo. Di statura media, criniera bianca, indossa una maglietta bianca aderente al suo giro vita a ciambella, sia col bel tempo sia col freddo sia con la pioggia. È in forma, per essere uno sulla soglia della vecchiaia. Merkouris è un solitario: non ha amici. Disprezza i detenuti, e i detenuti disprezzano lui. Evidentemente è un uomo che ha lavorato sodo in vita sua, e possiede un codice morale austero e inflessibile, del tutto estraneo all'etica della prigione. È il suo primo periodo di reclusione nel penitenziario, e ha già scontato una quindicina d'anni. All'inizio degli anni cinquanta, recitò il ruolo del primo attore in uno dei processi per omicidio più celebri tenuti a Los Angeles. La sua ex moglie e il nuovo marito di costei, un ex poliziotto, furono trovati morti, assassinati con un'arma da fuoco, nel loro piccolo negozio. Il fratello del morto era un sergente del Lapd, cosa che aveva gettato benzina sul fuoco. Durante il processo, Merkouris era stato legato alla seggiola, imbavagliato, e sistemato all'interno di una copertura di vetro. Protesta sempre la sua innocenza. Sostiene di essere stato lui la vittima del crimine, che era stata la moglie a rubargli tutti i suoi soldi per dividerli col suo nuovo uomo. Merkouris non commetterebbe mai un altro crimine, ammesso e non concesso che abbia commesso il primo, perché non è un criminale. In effetti, disprezza i criminali. È fortunato di non essere stato già ammazzato a Folsom, perché, se vede qualcuno infrangere le regole, prende e va a riferirlo alle autorità. Io non ho niente da dirgli, e si insospettirebbe se gli rivolgessi la parola. La fila per il primo turno del pranzo entra nel refettorio. Io sono nell'elenco, e vado a mangiare con un amico che sarà trasferito a Chino l'indomani mattina. Gli restano sessanta giorni prima del rilascio in libertà vigilata. Ha scontato nove anni per aver rapinato un Thrifty Drug Store. Non lo confessa chiaro e tondo, ma ha paura di uscire. Una nuova condanna per furto, e sarà giudicato come criminale recidivo. A trentanove anni, ha già scontato quattordici anni di prigione in due riprese, e vuole cambiar vita. Ha paura di non trovare il suo posto nel mondo, teme di essere inadeguato, di essere stato storpiato da tutti questi anni passati dietro le sbarre. Avrà sessanta dollari in tasca e non ha neanche un amico, tranne altri ex galeotti o delinquenti. Se è incapace di ricavarsi la sua nicchia nella società, un luogo dove possa trovare un minimo di accettazione da parte degli altri e di rispetto di sé, tornerà nel mondo dove ha degli amici, in cui viene accettato e rispettato, anche se non è questo ciò che desidera veramente. Conosce il risultato probabile: la rovina del resto della sua vita. Suona il fischio del dopo pranzo che annuncia la ripresa del lavoro, e fa esplodere un volo di merli dal tetto di un edificio. Come in risposta a un segnale, una mezza dozzina di guardie arriva dal Centro di Adattamento, scortando un trio di prigionieri in divisa cachi (la tenuta con cui si compare davanti al tribunale), ammanettati e incatenati per la cintola. Hanno i capelli troppo lunghi per essere degli internati di Folsom. Qualcuno chiama. Uno di loro si gira, sorride, e risponde salutando con un cenno del capo. Il trio è detenuto a Folsom per ragioni di sicurezza, per la durata del processo: sono accusati di aver ucciso un aggiunto dello sceriffo nella Contea di Sutter. Di ritorno nella biblioteca, bevo del tè e lascio che il tempo scorra in questa sorta di trance in cui i prigionieri imparano a sprofondare. Li taglia fuori dalla realtà e lascia libero corso alle fantasie a occhi aperti. Guardo da una finestra al di là del cortile inferiore, delle recinzioni, dell'American River e delle colline aride, fino alle nuvole di garza bianca. Johnny Cash mentiva: impossibile sentire i treni dall'interno del Penitenziario di Folsom. Così passa il pomeriggio, vuoto. A Folsom un uomo si abitua alla giornata corta: le due del pomeriggio è già tardi, e alle tre tutto è pronto per il rientro e la reclusione in cella. Le file di uomini cominciano a formarsi anche prima del fischio. Al segnale, i prigionieri si trascinano lentamente verso i vari edifici, e si riversano a fiotti su per le scale metalliche e lungo i ballatoi. Le sbarre di sicurezza si riabbassano, i cancelli sono chiusi a chiave, e una guardia passa per distribuire la posta. Ti chiama per nome; tu rispondi dichiarando il tuo numero di matricola. Non mi aspetto che si fermi; non c'è mai posta per me. Questo pomeriggio, però, la guardia chiama: - Bunker. - A–due-zero–due-otto–quattro, - rispondo. Depone una busta sulle sbarre. Viene dall'agente letterario di New York, Mike Watkins, che ha accettato di leggere i miei manoscritti. Gli ho spedito il mio quinto tentativo di romanzo. Nel corso degli anni ho imparato a scrivere in vari generi. Tutto cominciò con una collaborazione con Paul Allen. Paul doveva fornire la storia, e io la dovevo scrivere. Era un tentativo di scrivere, come Jim Thompson o Charles Williford, un romanzo breve su un truffatore tossico il quale pensa che il resto del mondo sia fatto di coglioni. Avevamo appena cominciato che Paul lasciò cadere la cosa. Io portai a termine il romanzo, inventandomi la storia, e lo spedii. Per l'ennesima volta l'agente scrisse: «Lei sta migliorando, ma il livello non è ancora sufficiente per promuovere il libro presso gli editori. Potrebbe forse provare con qualche altro agente. Terremo il manoscritto in attesa di sue istruzioni». L'agente conosceva le mie difficoltà a fare uscire i miei testi fuori delle mura della prigione. No, non avrei provato a trovare un altro agente. Speravo che il nuovo romanzo che avevo già cominciato a scrivere sarebbe stato accettato. Qualche minuto dopo nel blocco echeggiò il suono stridente di una raganella: era un detenuto che avanzava seguito da un sergente e da un agente dell'Amministrazione Penitenziaria. Al passaggio del detenuto, ci si alzava in piedi. Il sergente e l'agente hanno dei portablocchi. Annotano ogni posto vuoto: uno fa il conto positivo, l'altro il conto negativo, ballatoio per ballatoio, poi tirano le somme. Quindici minuti più tardi inizia l'apertura delle celle per il vitto. È la stessa routine del mattino, salvo che, dopo il refettorio, si torna in cella per un altro appello. Si fa l'appello spesso, nelle prigioni di massima sicurezza. Mentre fuori delle mura è ancora pomeriggio, la routine della sera è già iniziata a Folsom. Per un certo numero di anni sembra di una lentezza insopportabile, ma alla fine i detenuti la preferiscono. I prigionieri di Folsom che vengono trasferiti nei campi detestano la vita nei dormitori. Il blocco di celle è davvero tranquillo: difficile credere che l'alveare di questo edificio racchiuda nelle sue celle parecchie centinaia di uomini. Molti si incollano al piccolo televisore Sony che adesso hanno il permesso di acquistare. Il rumore più forte è quello delle macchine per scrivere disseminate nell'edificio, ciascuna con una velocità e un ritmo propri, dall'incertezza impacciata di alcune alla pulsazione regolare di altre, a produrre ricorsi per le istanze di "habeas corpus", oppure il Grande Romanzo Americano, perché non sono l'unico detenuto di Folsom a sognare la redenzione tramite la vita letteraria, a sognare di far sbocciare il fiore di loto dalla melma. Dubito di essere io quello dotato di maggior talento. Direi che mi considerano il più determinato. Ho scritto più di cento racconti e cinque romanzi senza aver visto neanche un rigo delle mie opere pubblicato sotto il mio nome, mai comparso, tranne che nell'«Observer» del Penitenziario di Folsom e nel «News» di San Quentin. Quando la sbarra di sicurezza si è riabbassata e la grande chiave ha spinto il paletto d'acciaio nella serratura della cella, io mi estranio dalla prigione e mi immergo nei libri, a leggerli e scriverli. Ho smesso di scrivere con la macchina per scrivere. La prima stesura è scritta a mano. A ogni capitolo che batto a macchina, faccio le modifiche via via che vado avanti. Se è mattina presto, solitamente leggo. Può sembrare assurdo, lo so, ma mi pare di non aver mai abbastanza tempo per dedicarmi alle mie letture personali. Sono convinto che chi non legge resta uno stupido. Anche se nella vita sa destreggiarsi, il fatto di non ingerire regolarmente parole scritte lo condanna ineluttabilmente all'ignoranza, indipendentemente dai suoi averi e dalle sue attività. Alle otto risuona un campanello. Le macchine per scrivere tacciono. Può darsi che qualcuno chieda al vicino di cella: - Hai saputo il risultato della partita dei Dodgers? - Non ci sono più rumori violenti, né conversazioni prolungate, non «dietro lo schermo» del Penitenziario di Folsom, dove la metà almeno dei detenuti non vedrà mai più il giorno fuori della cinta muraria. Quasi tutti i prigionieri vogliono che si faccia silenzio, e in fin dei conti se ne infischiano che il silenzio sia quello della tua tomba, o della loro. Quindici anni prima, quando la mia fame indiscriminata di lettura aveva incominciato ad acquisire un certo senso critico, mi ero concentrato principalmente, sebbene non esclusivamente, sugli scrittori americani del ventesimo secolo. "The Outsider" di Colin Wilson, tuttavia, aveva agito da catalizzatore, e adesso ero immerso negli scrittori europei, essenzialmente francesi e russi, più alcuni tedeschi, che affrontano i grandi temi esistenziali. Hermann Hesse, con "Il lupo della steppa", "Siddharta" e "Il gioco delle perle di vetro", e Robert Musil con "L'uomo senza qualità". I romanzi, le opere teatrali e i saggi di Camus. Da Sartre ho appreso che la comprensione dell'esistenzialismo è viscerale quanto intellettuale, e che per raggiungere una comprensione viscerale bisogna passare per la nausea dell'esistenza. Leggere Dostoevskij è stato come ascoltare dei racconti sull'anima umana narrati da un uomo tormentato, con la schiuma alla bocca, e sebbene ritenessi poco verosimile che un individuo potesse comportarsi come Raskolnikov, consegnarsi alla polizia e confessare un delitto commesso mesi o anni prima, unicamente per motivi di coscienza, in realtà avevo visto la cosa accadere realmente per ben due volte, a due uomini che conoscevo, Jack Mahone e Bobby Butler. Dostoevskij sapeva che la colpa è capace di macerare l'animo di alcuni individui. C'era anche l'italiano Alberto Moravia, che riusciva a rendere con estrema precisione e profondità ciò che passava per la mente dei suoi personaggi. Nel mio sesto romanzo stavo cercando di scrivere del mondo della malavita adottando il punto di vista del criminale. Esistono molti libri sui delinquenti, ma lo scrittore li osserva sempre, loro e il mondo, dal punto di vista della società. Volevo che il lettore considerasse il mondo dalla prospettiva del criminale: ciò che vedeva, ciò che pensava, ciò che provava, e perché. Questo era il mio tentativo. Allo stesso tempo cercavo di scrivere a tre livelli di lettura: il primo relativo all'interesse del racconto e dell'intreccio, il secondo inerente l'esplorazione delle dinamiche psicologiche, e il terzo mirante a veicolare una visione filosofica. Tentavo inoltre di seguire la massima di Hemingway, secondo la quale uno scrittore deve consacrarsi alla ricerca della verità come un prelato della Chiesa a Dio. Contrariamente alla maggioranza degli eruditi e di tutti i politici, io non ho mai deformato un fatto perché quadrasse con un'affermazione. Mi capita talvolta di giungere a prese di posizione contraddittorie, ma sappiamo tutti che «una stupida coerenza è l'ossessione di piccole menti», parole che ho letto in un famoso saggio di Emerson, e non nel "Dizionario delle citazioni" di Bartlett. A quell'epoca, l'America stava attraversando un periodo di disordini. I neri si rivoltavano nelle città, e i campus universitari erano agitati da contestatori appassionati che protestavano contro la guerra nel Vietnam. Nelle altre prigioni della California erano insorti conflitti razziali e proteste contro l'ingiustizia della legge che legittimava le condanne a pene di durata indeterminata. Folsom, tuttavia, era rimasta tranquilla, a eccezione della sua quota abituale di accoltellamenti, anche se recentemente un tale che si faceva chiamare il Fuorilegge, aveva distribuito dei volantini stampati al ciclostile che incitavano allo sciopero contro le condanne di durata indeterminata. Un paio di giorni prima ero capitato nei gabinetti della biblioteca, e avevo trovato uno dei custodi che strappava una copia del «Fuorilegge». - Che succede? - domandai. - Sei contro lo sciopero? - Amico, se scioperano, ci salta il film del fine settimana. Cazzo, amico, è "Gangster Story". Non me lo voglio perdere. - Io non voglio che si mettano in sciopero. - No? - No… Magari scatenassero una sommossa e bruciassero questa galera fino alle fondamenta -. In realtà, per me non faceva alcuna differenza. Era vero che la condanna a una pena di durata indeterminata era stata oggetto di abuso da parte dei poteri in carica, ma dubitavo che un'azione qualsiasi promossa dai detenuti potesse cambiare alcunché. Stavo semplicemente giocando al sobillatore per intimidire uno che consideravo un mero imbecille. Raramente andavo a vedere i film. Mentre li proiettavano, solitamente ero in cortile con Joe Morgan. Era l'unico momento in cui potevo accedere al campo di pallamano. Avevo dimenticato quella conversazione uscendo dai gabinetti, né ci ripensai durante l'appello generale, quando un sergente e una guardia comparvero all'ingresso della mia cella. Il sergente aprì il cancello, e qualcuno alzò la sbarra di sicurezza. - Andiamo, Bunker. Il sergente aveva in mano un foglio di carta bianca, l'ordine di mettermi in isolamento. Non protestai. A che sarebbe servito? Presi la mia giacca di tela blu e feci mentalmente l'inventario delle mie tasche. Niente merci proibite. Bene. Eravamo sul ballatoio quando domandai: - Chi ha firmato l'ordine? Il sergente controllò il foglio. - Il vicedirettore. Il vicedirettore! Cazzo. Era insolito. In genere era un tenente a firmare gli ordini di reclusione nelle celle di rigore. Che poteva essere? - Qual è il motivo? - Niente. - Che vuol dire, niente? - Segregazione cautelare. Per proteggerti. - Per proteggermi! Stronzate! - Mi fermai di colpo, e andammo a sbattere gli uni contro gli altri. - Sta' attento, Bunker -. Erano pronti a saltarmi addosso. Per qualche istante restai nell'indecisione. - Forza, Bunker; non peggiorare le cose. - Sì, d'accordo -. Ripresi a camminare, ma dentro ribollivo di rabbia. Non era giusto. Nessuno era sbattuto in isolamento per motivi di protezione, a meno che non ne facesse richiesta, e la segregazione cautelare era un marchio d'infamia difficile da far dimenticare. Non potevo neanche immaginare di chiedere di essere protetto. Se tre cani pazzi furiosi, tre assassini, mi avessero aspettato in cortile, neanche in quel caso avrei chiesto di essere protetto. Mai e poi mai. Se avessi dovuto affrontare la possibilità di una morte imminente, magari avrei commesso un gesto sconsiderato per essere messo in isolamento, ma non avrei chiesto una protezione. Una volta avevo avuto dei problemi con un assassino ben noto in prigione. Aveva promesso di ammazzarmi non appena ci fossimo trovati nel Grande Cortile. Successe nel periodo in cui scontavo la mia prima pena. Non volevo morire, né ucciderlo per poi finire nella camera a gas, né, molto più probabilmente, subire una nuova condanna che avrei pagato con altri dodici anni di reclusione nel Penitenziario di San Quentin. Lo vidi al refettorio, mi avvicinai a lui prendendolo di spalle e gli fracassai il cranio con un piatto in acciaio inossidabile. Non ci ritrovammo mai più nel cortile insieme, e quest'azione rafforzò il mio prestigio e la mia reputazione, anche se, a dire il vero, avevo attaccato perché avevo paura. Il sergente e la guardia mi fecero scendere le scale, attraversare il refettorio e la cucina. In un corridoio tra i due refettori c'era l'ingresso al Centro di Adattamento. Un membro della mia scorta suonò il campanello. Un attimo dopo un guardiano venne a dare un'occhiata prima di farci entrare. Ero in grado di passare per la perquisizione corporale come si trattasse di un minuetto che si ripeteva nel corso degli anni. Dopo che mi ebbero guardato nel buco del culo e nella gola, mi rimisi le mutande. Una guardia mi accompagnò al pianterreno, passando davanti alle celle. Ero stato assegnato a una cella di rigore sul fondo. Mi sembrò di finire sempre in una cella di rigore sul fondo. Guardai le facce che mi guardavano da dietro le sbarre. Mi vennero in mente i grossi felini nelle gabbie dello zoo di Griffith Park. Dovevo avere otto anni, quando mi arrampicai sul tetto di una gabbia di felini. L'unico che abbia saltato nel tentativo di darmi una zampata fu un puma. I leoni e le tigri erano troppo pigri. C'era Big Raymond. Lo salutai con un cenno della testa e alzando un pugno chiuso. Conoscevo Raymond dall'età di undici o dodici anni. Avevamo conosciuto insieme la cella di isolamento alla Compagnia B del carcere minorile, due celle minuscole situate una di fronte all'altra, su ogni lato di un'alcova. Avevamo demolito tutto, sdraiati sulla schiena, martellando con calci le porte ricoperte di lastre di metallo, scatenando un fracasso assordante. Nessuno riusciva a dormire. Il capo incitò molti dei trenta ragazzi della compagnia a saltarci addosso nel momento in cui saremmo usciti dalle docce. Ci battemmo gomito a gomito nella sala in cui si trovavano docce e lavabi. Lui superava il metro e ottanta, secco e resistente come un cavo d'acciaio, anche all'epoca. In una mischia del genere, è raro colpire l'avversario con la potenza e la precisione di un pugno assestato a regola d'arte. Raymond ci riuscì. Uno degli aggressori finì al tappeto. Un altro, che si batteva con me, scivolò e si fratturò il polso cadendo sul pavimento. Raymond e io ci conoscevamo da allora, per questo lo salutai con un cenno della testa, un segno di rispetto che era insolito tra un bianco e un nero. Avevo sentito dire che l'avevano trasferito da Soledad, ma era finito direttamente in cella di rigore, perciò questa era la prima volta che lo vedevo dopo dieci anni. Sentii il rumore dell'apertura del pannello dei comandi. Era la «segregazione di massima sicurezza». Un lato del pianterreno era riservato a quelli considerati i più duri tra i duri. Per lo più avevano ammazzato qualcuno in prigione, oppure si riteneva che prima o poi avrebbero potuto farlo. L'altro lato del pianterreno era occupato dagli uomini condannati a qualche giorno di isolamento in cella di rigore come punizione per aver violato il regolamento. Dieci giorni per fabbricazione di birra casalinga, una settimana per possesso di due spinelli, più deferimento al pubblico ministero locale per eventuale incriminazione, ventinove giorni per possesso di un coltello, più deferimento al pubblico ministero locale per eventuale incriminazione, cinque giorni per possesso di ricevute di scommesse sulle partite di calcio o per furto dello zucchero al refettorio allo scopo di fabbricare birra casalinga. Arrivammo al cancello dell'ultima cella; era aperta ed entrai dentro. Un metro e cinquanta per due metri e dieci, la conoscevo bene. L'agente di scorta fece cenno all'addetto all'ingresso di chiudere. Il cancello si richiuse con un botto. L'agente di scorta si allontanò. Eccomi qua, tra le pareti coperte di graffiti come unica lettura che mi era concessa, il vaso del gabinetto e un lavandino che non era stato lavato da un bel po' di tempo. Avevo creduto di avere una buona possibilità di ottenere un rilascio in libertà vigilata alla mia prossima comparsa davanti alla commissione per le condizionali. Adesso tutto restava in sospeso, e dipendeva da ciò che, a dir loro, avevo fatto, e da ciò che avevano trovato a mio carico. Il venerdì seguente fui convocato dinanzi al consiglio di disciplina. L'udienza si teneva nell'ufficio esterno del Centro di Adattamento ed era presieduta dal capitano o dal vicedirettore, affiancato da uno strizzacervelli e da un subalterno incaricato del verbale dell'interrogatorio. Quel giorno c'era il vicedirettore, che conoscevo dai tempi in cui era agli albori della carriera quale modesta guardia carceraria. Assomigliava a uno studente liceale, e le sue maniere affabili nascondevano un temperamento laido. Meglio lui, comunque, che il capitano Joe Campoy, che chiamava i detenuti i «miei animali». - Sei accusato di violazione al regolamento interno D–undici-zero–uno, riguardante il comportamento del detenuto. Redazione e diffusione di un foglio proibito, il «Fuorilegge», e incitazione allo sciopero contro l'ufficio delle condizionali. - Inoltre sei accusato di contrabbando, di furto di forniture dello Stato servite a stampare il foglio illegale. Come ti dichiari? - Tutte stronzate. - Non colpevole, presumo. - Non colpevole, esatto. - Inoltre hai dichiarato a un detenuto che spereresti in una rivolta e in un incendio che radesse al suolo questo posto. Compresi immediatamente che era stato il custode rimbecillito dei gabinetti a parlare, quello che voleva vedere "Gangster Story". - Non ne so nulla, di questa faccenda. Sì e no, avrò letto una copia di questo… «Fuorilegge». - Bunker… Bunker… andiamo. Ho riconosciuto anche il tuo stile. - Che posso dire… se lei riconosce lo stile? - Niente. Il risultato? Dieci giorni di isolamento e segregazione amministrativa di massima sicurezza. Il giudizio doveva essere rivisto dopo novanta giorni, e tutti i novanta giorni seguenti. La durata media di un soggiorno in segregazione era diciotto mesi. Adesso che ero comparso dinanzi al consiglio di disciplina, avevo diritto di accedere al cortile di allenamento. Infatti il Centro di Adattamento disponeva di due cortili. Come gran parte di Folsom, anche il Centro di Adattamento era stato scavato sul fianco della collina, e uno dei cortili si trovava al piano terra, al livello occupato dai detenuti. L'altro era al livello del terzo piano ed era usato dai detenuti alloggiati al secondo e terzo piano. Il cortile al piano terra, cui fui assegnato, era Max 4-A. Non c'era posto per me, ma ero stato autorizzato a fare esercizio fisico. Comparve una guardia. - Vuoi fare un po' di esercizio? - Certo. I detenuti erano fatti uscire dalle loro celle uno alla volta. Si presentavano in mutande e canottiera e avanzavano fino a una porta inferriata dove stazionavano parecchie guardie. I detenuti entravano, venivano perquisiti, e ciascuno di loro riceveva una tuta senza tasche avvolta intorno a un paio di scarpe accollate, che venivano tenute in una cassettiera aperta. La guardia mi consegnò tuta e scarpe, e poi aprì la porta che dava sul cortile. Lo spazio riservato all'esercizio fisico era delimitato dai muri del Centro di Adattamento su due lati, e dalla massiccia parete di cemento del Blocco di celle N. 2. La pavimentazione era di cemento. Non c'erano guardie nel cortile, ma sul tetto del Blocco N. 2 era appostato un tiratore, la carabina poggiata sull'incavo del gomito. Faceva regnare l'ordine, tenendo tutti sotto la minaccia della sua arma. Fui obbligato ad avanzare al di là di una linea rossa, a una certa distanza dalla porta, prima di cominciare a infilarmi la tuta. Ero l'ultimo dell'ultima dozzina di uomini in uscita. Conoscevo una buona metà degli altri. Red Howard, uno di campagna, dal fisico slanciato: era un meccanico, un bravo ragazzo con tendenze paranoiche. Non aveva ancora ammazzato nessuno, ma aveva già accoltellato un paio di persone, incluso Big Barry, uno dei suoi amici. C'era Gene Chester, omosessuale con tendenze omicide. Cornell Nolan era un pugile professionista di colore, categoria pesi massimi, duro e spietato come nessun altro. Suo fratello, più giovane di lui, sarebbe stato ucciso da una guardia armata di fucile a Soledad, prima vittima di un concatenarsi di cause ed effetti che avrebbe prodotto dozzine di morti prima di arrivare alla fine. E, soprattutto, c'era Joe Morgan nel cortile. Lo conoscevo dal 1955, quando lo avevano trasferito da Folsom a San Quentin in previsione di un rilascio in libertà vigilata. Mentre m'infilavo la tuta prima di sedermi sul cemento per mettermi le scarpe, mi aspettavo che quelli che mi conoscevano mi salutassero, che Joe, in particolare, mi sorridesse e mi rivolgesse una battuta spiritosa. Nessuno aprì bocca. Non potete immaginare l'angoscia improvvisa e assoluta che quel silenzio suscitò in me. Qualcuno aveva detto che ero una spia? Joe era in collera con me? Oppure Red, o un altro dei presenti? Dovevo andare da Joe e domandarglielo? Mi avrebbe preso in giro? D'un tratto, con la coda dell'occhio, intravidi un movimento rapido a sette, otto metri di distanza. Un bianco alto e magro aveva estratto un'arma della grandezza e della forma di una piccozza (Dio solo sa dove se l'era procurata) e avanzava su un indiano di cui conoscevo il nome, Bobby Lee. Quest'ultimo aveva la fama di essere un attaccabrighe e un coglione di prima categoria. Era senza camicia addosso, e il primo colpo fece colare un rivolo di sangue sul suo petto. La ferita sembrava superficiale, ma non ne ero sicuro. Le ferite da arma da taglio possono provocare delle emorragie interne anche quando sembrano superficiali. Il bianco seguiva Bobby come un pugile che vuole mettere alle corde l'avversario sul ring. Ero ipnotizzato, con in mano un laccetto della scarpa che stavo annodando. Il fischio risuonò sulle nostre teste. Poi il secondo fischio, seguito dallo sparo di avvertimento obbligatorio. In quel canyon di cemento, lo sparo risuonò come un colpo di obice. Feci un balzo e alzai gli occhi. Il tiratore, dietro i suoi occhiali scuri, stava mirando ai due uomini. "Bum"! Due schegge di cemento volarono in aria. Sentii il colpo di rimbalzo del proiettile che poteva rimbalzare ovunque, con tutto quel cemento. Gli uomini si sparpagliarono. Seguii Joe Morgan. Conosceva la via migliore per uscire di lì. "Bum! Bum! Bum! Bum!" I proiettili colpivano il cemento intorno ai piedi del bianco. Il quale non distolse neanche per un momento gli occhi da Bobby, che adesso si era messo a correre in tutte le direzioni. La porta dell'edificio si aprì. Le guardie fecero capolino. Bobby Lee finì tra le loro braccia e la porta si richiuse. Joe Morgan mi guardò con un grande sorriso da sopra la spalla. - Un altro giorno è trascorso al Quattro–A, - osservò. - Ho sentito dire che stai cercando di organizzare uno sciopero nel cortile. - Ahh, amico… che stronzaaata! Passò un altro minuto, la porta si riaprì e una guardia batté una chiave sullo stipite della porta. - In cella -. Lanciò un'occhiata al bianco. - Tu, Andy, per primo. Il bianco slanciato rivolse a Joe un gesto cameratesco e si diresse verso la porta, i vestiti in una mano, le scarpe nell'altra. Era la prima volta che vedevo Andy Pope, poi divenuto mio amico: un'amicizia impeccabile, durata trent'anni. È stato anche uno dei primi sostenitori delle mie ambizioni letterarie, e mi regalò il libro di Strunk e White, "Elements of Style", e quello di Layos Egri, "The Art of Dramatic Writing". Di ritorno nell'edificio, le autorità ci convocarono per un interrogatorio, uno alla volta. Quelli che erano in attesa di entrare nell'ufficio sapevano quanto tempo ciascuno restava dentro. Per i detenuti era un punto d'onore uscire il prima possibile. Senza neppure sedermi, prima che mi ponessero la benché minima domanda, pronunciai le parole di routine: - Non ho visto niente; non ho sentito niente; non so niente; lasciatemi andare. Il direttore aggiunto produsse con la bocca un rumore simile a una scoreggia, guardò il soffitto e con un dito mi indicò la porta da cui dovevo uscire. Un tempo record. Quella notte, nella penombra della mia cella, guardai fuori della finestra, attraverso le sbarre, e pensai: «Resterò rinchiuso in questa cella per un anno o più». Questa idea tetra si addiceva alle tenebre del mondo circostante. - Ebbene, - mormorai, - quando il gioco diventa troppo duro per tutti gli altri, è proprio allora che comincia a piacermi -. Dopo qualche istante, soggiunsi: - Tu menti, sei solo un miserabile, e hai il fiato che puzza -. Ma la verità era che avevo la capacità di resistere a tutto ciò che mi infliggevano. Se mi avessero ammazzato, neppure me ne sarei accorto. Mentalmente ero preparato a trascorrere perlomeno un altro anno nel Centro di Adattamento. Tutti hanno un po' di fortuna, ogni tanto. Circa tre mesi più tardi, i direttori e i responsabili delle varie prigioni della California si riunirono a Sacramento. Da tempo la politica dei direttori era di sbarazzarsi degli attaccabrighe e dei rissosi trasferendoli altrove. Seguitarono a praticarla negli istituti penitenziari di media o minima sicurezza, ma la politica era cambiata nelle prigioni di massima sicurezza. San Quentin, Folsom e Soledad erano obbligati ad accettare e tenere chiunque fosse recluso da loro. I direttori, tuttavia, facevano degli scambi, e i suddetti scambi erano all'ordine del giorno nell'incontro di Sacramento. Red Fenton era recluso a San Quentin. Qui aveva ammazzato un uomo quindici anni prima e aveva partecipato a una tentativo di evasione da Folsom nel '61, con il sequestro delle coriste in visita, che erano state prese in ostaggio. Dopo il suo rinvio a giudizio, che gli era costato un'altra condanna da cinque anni all'ergastolo e parecchi anni al Centro di Adattamento di Folsom, lo avevano trasferito a San Quentin offrendogli la possibilità di restare tra la popolazione carceraria. La sua fama lo aveva preceduto. Decine di cacasotto avevano chiesto di essere protetti, e di conseguenza Red Fenton fu segregato e trascorse due anni in isolamento. L. S. (Red) Nelson, direttore di San Quentin, voleva sbarazzarsi di Fenton e, in cambio, accettò di riprendermi. Red Fenton perciò tornò a Folsom, e io salii sull'autobus alla volta di San Quentin, che è stata sempre la mia galera. Dopo qualche settimana, mi fu assegnata una cella singola nel blocco d'onore e fui incaricato di un nuovo lavoro che mi permetteva di andare a zonzo per il penitenziario fino a mezzanotte. CAPITOLO QUATTORDICESIMO. GUERRA RAZZIALE IN PRIGIONE. Per più di un secolo dal giorno in cui una nave prigione spagnola si incagliò sulla punta della penisola chiamata Point San Quentin e una passerella da sbarco venne costruita fino a riva per creare la San Quentin Prison, il posto su cui si erge il penitenziario è stato teatro di avvenimenti turbolenti. Non riesco a immaginare il numero di omicidi che vi sono stati commessi. All'epoca del nodo scorsoio, San Quentin aveva con Folsom un punto in comune: la forca. Ma con l'avvento della camera a gas, San Quentin è diventata la sola e unica sede delle esecuzioni capitali. Ha conosciuto tentativi di evasione violenti (in un'occasione i prigionieri presero in ostaggio la commissione delle condizionali, la quale, oggigiorno, si riunisce fuori della cinta muraria) e un paio di fughe che restano tuttora inspiegabili per le autorità (non per me). Il penitenziario è stato un tempo il quartier generale di una rete di falsari. Rovescio della medaglia, è servito da studio per un programma radiofonico nazionale (molto prima dell'avvento della televisione), dal titolo "San Quentin on the Air", diffuso sulla Blue Network della N.b.c. durante l'ora di massimo ascolto della domenica sera. Il detenuto matricola 4242 cantava la canzone che faceva da sigla del programma "Time on My Hands". Nulla nella storia di San Quentin, tuttavia, fu al tempo stesso così delirante ed esilarante del periodo del quale scrivo. Dall'inizio degli anni quaranta fino agli anni cinquanta, San Quentin è cambiato radicalmente: da prigione la cui brutalità era tristemente famosa in tutta l'America a capofila degli istituti di pena improntati alla criminologia progressista e al principio della riabilitazione. Come gli altri penitenziari, San Quentin non era pronto a gestire ciò che accadde quando la rivoluzione arrivò in America. Allo stesso modo in cui inondò le città, la droga si riversò su San Quentin. I tumulti razziali delle vie furono amplificati nel mondo di sardine in scatola di San Quentin. Bastino due avvenimenti a illustrare la polarizzazione che si verificò all'interno del penitenziario. Nel 1963, quando fu assassinato John Kennedy, era l'ora di pranzo nel Grande Cortile. Silenzio sbigottito tra i detenuti. Occhi che non conoscevano il pianto dai tempi dell'infanzia si inondarono di lacrime. Non fecero eccezione i più duri detenuti di colore. Cinque anni dopo, quando Bobby Kennedy fu ucciso con una pallottola in testa, la reazione fu alquanto diversa. I neri urlarono: - Gli sta bene! - "Chi la fa, l'aspetti", titolò il giornale delle Black Panthers. - Dieci per uno! - fu il grido dei nazionalisti neri, ovvero: ammazza dieci bianchi per un nero, e la rivoluzione trionferà. La feroce retorica politica fu presa alla lettera dagli uomini in gabbia, schematici e senza cultura. A Soledad, un tiratore appostato su una torretta fece fuoco per tre volte su una mischia di corpi nel cortile del Centro di Adattamento: due bianchi avevano subito l'aggressione di cinque neri. Il tiratore ammazzò tre detenuti neri, tra cui il fratello di Cornell Nolan, che occupava la cella vicino alla mia nel Centro di Adattamento di Folsom. Quella stessa notte, in un'altra ala di Soledad, una giovane guardia bianca fu gettata giù dal ballatoio del terzo livello e finì sul cemento sottostante. Morto. Tre detenuti neri, George Jackson, Fleeta Drumgo e Clutchette furono reclusi in cella di isolamento e accusati dell'omicidio. Un'avvocatessa della zona della baia, Fay Stender, socialista, se non addirittura marxista convinta, accettò di difendere George Jackson. Raccolse in un libro le sue lettere, convinse Jean Genet a scrivere una prefazione e lo pubblicò col titolo "I fratelli di Soledad". Il libro fece dei tre uomini una "cause celèbre". Fay Stender ottenne il cambiamento di giurisdizione a San Francisco, e organizzò il trasferimento dei detenuti a San Quentin, dove furono reclusi nel Centro di Adattamento. Per via della pubblicità data al caso, in tribunale venne Angela Davis. Marxista dichiarata, Miss Davis viveva in un universo diverso da quello della borghesia. Vide un nero attraente e muscoloso in catene, e quanto a catene non avevano certo usato la mano leggera. S'innamorò immediatamente della sua immagine e del suo sogno, perché non poteva andare diversamente. Dalla faccenda non poteva sortire nulla tranne un miracolo, e una specie di miracolo avvenne: Clutchette e Drumgo alla fine furono rilasciati. Ahimè, George Jackson era un sociopatico fino al midollo, e aveva il difetto tipico dei sociopatici: l'impazienza. Inoltre, aveva del mondo una visione limitata, e in un certo senso credeva che la rivoluzione fosse alle porte. Un internato nero che era stato chiamato a testimoniare contro di loro in cambio del suo rilascio in libertà vigilata fu recluso nell'ospedale di San Quentin in una camera chiusa a chiave e piantonata da una guardia. Albert Johnson e un altro detenuto nero riuscirono a introdursi nell'ospedale e a raggiungere il primo piano. Assassinarono la guardia seduta davanti alla porta, senza immaginare neanche per un attimo che l'uomo non aveva la chiave della camera. Un pessimo piano, verrebbe da dire. Un altro detenuto nero, Yogi Pinell, si era fabbricato una lancia corta: aveva arrotolato strette le pagine di una rivista e attaccato una punta metallica a una delle due estremità. Riuscì ad accoltellare e ammazzare una guardia attraverso le sbarre. Nel refettorio, un detenuto nero di nome Willy Christmas estrasse improvvisamente un coltello e si avventò contro una guardia appostata sul fondo del bancone delle vivande. L'episodio ebbe un risvolto esilarante. La guardia si mise a correre per tutta la cucina urlando e chiedendo aiuto, mentre Willy Christmas lo inseguiva senza tregua, brandendo il coltello. Per quasi due decenni, nessuna guardia era stata uccisa in una prigione della California. Poi, nel giro di qualche mese, ne furono ammazzate una dozzina a San Quentin, Soledad e Folsom, tutte per mano di prigionieri di colore. Gli agenti di sorveglianza, per definizione conservatori e di mente ristretta già all'inizio, sentirono la retorica incendiaria e vennero a conoscenza degli omicidi dei loro colleghi. Presero gli avvenimenti come una minaccia personale diretta contro di loro. Se segretamente erano stati dei fanatici retrogradi, adesso si trasformarono in razzisti dichiarati. Per parecchi anni, prima che gli agenti diventassero loro stessi dei combattenti, la guerra razziale era esistita, ma aveva investito essenzialmente i neri mussulmani e i nazisti americani, come questi ultimi si erano autodefiniti. I nazisti possedevano una copia del "Mein Kampf", che si passavano tra loro come se si trattasse della Sacra Bibbia. Nessuno riusciva davvero a capire cosa vi fosse scritto. Com'era possibile capirlo? Il libro sconfina nella farneticazione. Ad eccezione di un paio, questi sedicenti nazisti erano soltanto degli sbarbatelli secchi come chiodi e brufolosi con una paura matta di essere fottuti dagli altri detenuti, paura che tuttavia non impediva loro, facendo branco, di accoltellare qualcuno senza esitazione. In realtà, molti di loro volevano accoltellare qualcuno, allo scopo di farsi una reputazione. La mia preoccupazione era soltanto accademica. Finché si limitavano ad ammazzarsi tra loro, una fazione contro l'altra o, come diceva il mio amico Danny Trejo, «il potere al popolo finché non fanno del male alle donne bianche della mia famiglia e non mi rovinano la Cadillac», la cosa mi era del tutto indifferente. Fu George Jackson che estese la violenza ai non coinvolti. Tutto cominciò quando parecchi mussulmani tesero un'imboscata a Stan Owens, il capo dei nazisti, e se ne servirono per allenarsi all'uso della baionetta. In qualsiasi altro posto, l'uomo sarebbe morto. Come ho già detto, però, i medici di San Quentin sono i migliori del mondo, quando si tratta di ricucire ferite da arma bianca. Stan Owens sopravvisse, con un rene in meno e una zoppia pronunciata. Nel giro di una settimana, i nazisti ordirono tre rappresaglie. Un detenuto ci rimise la pelle; un altro seguitò a vivere, ma da paraplegico. I detenuti neri reclusi in isolamento si convinsero che i medici avevano lasciato morire deliberatamente la vittima di colore. Per George Jackson fu la goccia che fece traboccare il vaso. Lui non era un nero mussulmano; era un militante del fronte razziale. Un giorno riunì un gruppo di tre o quattro uomini, e al momento della chiusura in cella dopo il pranzo, li condusse al secondo livello del Blocco di celle Sud. Una volta lì, accoltellarono tutti i bianchi presenti sul ballatoio. I bianchi indossavano una tuta bianca: erano appena scesi dal pullman del penitenziario ed erano ben lungi dall'immaginare che avrebbero subito un'aggressione per via del colore della loro pelle. Uno morì, e un altro, che aveva scavalcato la ringhiera per evitare i colpi di coltello, si ruppe entrambe le caviglie cadendo sul cemento sottostante. Nel giro di poche ore, tutti gli aggressori vennero reclusi in cella di isolamento, ma nessuno di loro fu condannato da una corte di giustizia esterna. George Jackson fu trasferito a Tracy, dove scatenò un'altra rivolta razziale. Si fece rinchiudere in isolamento e trasferire a Soledad. Nei film sulle prigioni, è una convenzione che rasenta il "cliché" vedere un detenuto duro tra i duri, il più coriaceo della sua specie, essere il grande burattinaio della vita in galera. All'epoca di Bogart e Cagney, il detenuto che regnava indiscusso era di pelle bianca: oggi, solitamente, è nero. Quest'idea può avere qualche giustificazione nelle piccole prigioni che non sono propriamente dure, in Stati come il Maine e il Vermont. Ma se uno veramente coriaceo capita in queste prigioni, è trasferito altrove in forza dell'accordo federale tra le prigioni. Nessun detenuto fa la parte del grande burattinaio in prigioni come Leavenworth, Marion, San Quentin, Folsom, Angola, Jeff City, Jolier, Huntesville o altri penitenziari duri. Nessuno, indipendentemente dal colore della pelle, è abbastanza duro per arrivare a tanto. È pur vero che i detenuti recitano le loro giaculatorie, tipo: «I duri sono sotto terra» oppure «Tutti fanno sangue, tutti muoiono, e chiunque può farti fuori». Nel corso degli anni ho visto dei veri duri, certificati e dichiarati, arrivare a San Quentin o a Folsom (di solito a San Quentin, perché non resistono tanto tempo prima di essere trasferiti a Folsom) e credere che avrebbero preso le redini in mano contando sui muscoli. Uno di loro era un portoricano del Bronx che sarà pesato neanche sessanta chili. Accoltellò un tale che in capo a qualche settimana doveva passare al Centro di Orientamento e Consiglio. Pensava veramente di essere un assassino e di aver intimidito tutti quanti. Durò undici mesi. Lo ritrovarono nella sua cella con un filo elettrico intorno al collo e una dozzina di ferite, simili a punture, sotto la gabbia toracica, per lo più direttamente sul cuore. Qualcuno gli dedicò un elogio funebre molto laconico: «Un altro di questi duri figli di puttana che morde la polvere…» Considerando questi parametri e questi limiti, posso dire di avere avuto potere e influenza nella stessa misura di uno qualsiasi dei quattromila detenuti che misuravano a grandi passi il cortile di San Quentin. Nel corso degli anni avevo fatto miei un codice etico e un atteggiamento in cui si coniugavano John Wayne e Machiavelli. Rispettavo tutti, compresi i deboli e gli spregevoli, perché era meglio avere qualcuno per amico, anche un cane rognoso, piuttosto che per nemico. I miei amici erano i più duri tra i detenuti bianchi e chicanos. Mi garantivo la loro lealtà essendo leale con loro, e il loro rispetto dimostrando la mia intelligenza in molti campi. Uno dei miei amici, Denis Kanos, che avevo lasciato a Folsom all'epoca del mio trasferimento, si vide accordare un'udienza davanti alla Corte Suprema della California grazie a un ricorso che avevo inoltrato io. Denis, che avrebbe dovuto aspettare quindici anni, prima di soddisfare i requisiti utili per la condizionale, lasciò il penitenziario da libero cittadino. Un paio di mesi dopo il suo rilascio, tornò a essere, come sempre, un capo indiscusso del traffico di droga nella California del Sud. Tutti i mesi, o quasi, mi inviava trenta grammi di eroina. Altri detenuti che ricevevano da fuori una qualche sostanza stupefacente dovevano rivenderne un bel po' all'interno del penitenziario per potersela pagare. Io non pagavo niente ed ero generoso con i miei amici. È difficile far capire esattamente il valore reale dell'eroina in prigione. La cocaina non ha praticamente alcun valore, perché i detenuti cercano qualcosa che li calma, non ciò che li manda ulteriormente fuori di testa. Con un grammo di eroina, la trentesima parte della mia spedizione mensile, ci si poteva facilmente comprare un omicidio su commissione. Quando qualcuno voleva sapere chi poteva disporre di eroina, domandava: - Chi è Dio, oggi? - Tale era il potere del serpente bianco. Anche se io stavo al gioco (era l'unico possibile), me ne ero veramente stancato. Della prigione sapevo tutto, e la tenevo sotto controllo. Ma incominciavo a pensare al giorno in cui sarei stato nuovamente un uomo libero. A meno di un miracolo, sarei tornato al crimine. Era l'unico modo di fare soldi che conoscevo. Dio mio, se soltanto avessi potuto vendere un libro… Ma questo era l'equivalente di una vincita alla lotteria. Le quattro del pomeriggio. Dalla mia cella sul ballatoio del terzo livello, lato cortile, del Blocco di celle Nord, potevo vedere il Grande Cortile dalla finestra in alto. Si stava riempiendo rapidamente di detenuti che si riversavano lì di ritorno dai vari lavori. Avevo appena finito di dattiloscrivere una pagina del mio sesto romanzo e l'aggiungevo agli altri fogli raccolti nel contenitore extra–large. Il romanzo era quasi finito. Non sapevo se valeva qualcosa. Comunque era il primo romanzo che avevo scritto senza tentare consapevolmente di seguire una formula o una combinazione di formule, del genere che si trovano nei manuali «Come fare per…» pubblicizzati nel «Reader's Digest». Questo manoscritto sarebbe diventato "Come una bestia feroce", il mio primo romanzo pubblicato, e il mio miglior romanzo, da tutti i punti di vista. Ben presto il Grande Cortile si sarebbe riempito, avrebbero risuonato dei fischietti, e quattromila detenuti si sarebbero avviati in fila verso i blocchi di celle per la chiusura e l'appello. Per me significava che era l'ora di uscire. Come al solito, il cortile sembrava freddo. Le previsioni meteorologiche davano pioggia. Sopra la camicia della mia divisa da prigioniero infilai una maglia grigia con Neiman Marcus sul petto, poi indossai due giacche, prima una di lana nera, e sopra una di tela blu. A San Quentin era sempre una buona idea prendere una giacca quando si scendeva nel cortile. Il Blocco di celle Nord era uno dei due blocchi d'onore. Un detenuto incaricato della gestione del ballatoio su ogni livello aveva la chiave delle celle. Ero sul ballatoio quando gli dissi di chiudere la cella dietro di me. Scesi per la scala metallica. Per arrivare nel cortile dovevo passare davanti all'ufficio del blocco. Parecchie guardie stazionavano all'ingresso e ricevevano i pacchi di posta che ciascuna contava e ripartiva per ogni ballatoio. Stavo per passare oltre, quando il sergente avanzò verso di me. - Bunker! - Il mio primo pensiero fu che mi volesse perquisire, ma il sergente mi tese una busta. Una lettera. Chi poteva scrivermi? - Grazie -. Controllai il mittente: Alexander Aris, 26 Main Geranium, Elbow, Texas. Era di Denis, e l'indirizzo di Denis mi fece sorridere. Era uno scherzo, ma solo in pochi potevano capirlo. - Ti tengo d'occhio, Bunker, - disse il sergente. - Ehi, sergente, lo sa che sono un detenuto modello. - Era la tua cella, vero? Oh, no, dissi tra me. No, oh, no, - risposi. Scrollò la testa in un modo che significava: oh, sì, invece. Una settimana prima parecchi detenuti si erano bucati nella mia cella. Io mi ero fatto per primo, ed ero uscito. Tre erano rimasti all'interno, più un altro che faceva da sentinella sul ballatoio. La mia cella era al centro del ballatoio, e nessun agente poteva accostarsi senza essere visto, ma la siringa si era otturata e i detenuti, le tre teste accalcate in un crocchio, cercavano di stapparla. Quello che faceva da sentinella lanciò un'occhiata da sopra la spalla e, incuriosito, entrò dentro. Ehi, "ese". Metti un po' d'acqua nel contagocce e scalda l'ago prima di spingere. Il calore farà dilatare il metallo, e il tappo schizzerà fuori. Proprio in quel momento il sergente che di routine ispezionava i piani dell'edificio arrivò sul terzo ballatoio. Quando giunse all'altezza della mia cella, lanciò un'occhiata all'interno e vide quattro dei detenuti di San Quentin, noti per il loro vizietto, con le teste accalcate, come se stessero confabulando prima di un'azione di football. Entrò, ficcò il naso nel crocchio, e strappò la siringa dalla mano del detenuto. Caos. Il sergente bloccò la porta, probabilmente anche in preda al panico. Riuscì a farsi dare dai detenuti la loro tessera di identificazione, e li fece scendere all'ufficio per chiamare i rinforzi. Pretty Henry mi trovò nel Grande Cortile subito dopo, e m'informò dell'accaduto. Gli dissi di tornare nella mia cella, togliere lo sgabello, rimettere un po' d'ordine, spegnere la luce e richiudere la porta. Ovviamente il sergente tornò sul ballatoio. Non era sicuro se si trattava del terzo o del quarto livello. Salì sopra, ridiscese, ispezionò le celle. Non riusciva a ricordare bene, per lo meno non fino a tardi quella sera, quando tornai dal lavoro verso mezzanotte e lui dovette aprirmi per farmi rientrare in cella. A quel punto gli scoccò la scintilla. Trasmise l'informazione al tenente E. F. Ziemer, comandante del terzo turno di sorveglianza, ma il tenente gli rispose che non aveva motivi sufficienti per stilare un rapporto. L'indomani sera Ziemer mi disse di fare attenzione: - Muore dalla voglia di fregarti. Si guadagnerebbe le stellette, e se ti beccasse sul fatto, non potrei fermare il procedimento. - Io faccio sempre attenzione, capo -. La qual cosa non era del tutto vera. Quando il turno di guardia del giorno staccava alle quattro e mezzo del pomeriggio, il comandante degli agenti di sorveglianza era il tenente Ziemer. Era l'ufficiale di più alto grado nella prigione. Se il direttore, il vicedirettore o il capitano voleva entrare all'interno della cinta muraria, l'uomo di guardia al cancello telefonava sempre per avvertire. In quelle ore, ero io che avevo in mano San Quentin. Prima di recarmi in cortile, aprii la lettera di Denis. Lessi: «Un'istanza di "habeas corpus", lunga dodici pagine, è stata inviata per posta al Tribunale della Contea di Marin questo pomeriggio». Traduzione: «Dodici cucchiai, ovvero ventiquattro grammi, di eroina sono stati spediti a un indirizzo della Contea di Marin». L'indirizzo era quello della madre di Big Arm Barney. Lei si sarebbe occupata della consegna. C'era un problema. L'ufficio postale si era messo in sciopero il giorno prima. M'immersi nel mare di rumore prodotto dall'accumulo di parecchie migliaia di voci nella fossa formata dai blocchi di celle. Dava l'impressione di un lago di tela blu e di volti in perenne movimento. C'erano solo neri, qui. Piegai verso sinistra, lungo il muro del Blocco Est, passando davanti al rubinetto dell'acqua calda, che quasi bolliva, a giudicare dal vapore che fuoriusciva. Serviva a preparare il caffè con la polvere solubile. Come sempre, alcuni detenuti stazionavano nell'angolo, stringendo le loro tazze di plastica Tupperware fumanti, avvolte nel nastro adesivo. Faceva freddo nel cortile. Avevo letto da qualche parte, forse in "Believe It or Not" di Ripley, che il Grande Cortile di San Quentin era l'unico posto al mondo in cui il vento soffiava contemporaneamente dai quattro punti cardinali. Fatto sta che sembrava turbinare simultaneamente in tutte le direzioni. Avanzavo prudentemente in mezzo alla massa di uomini in blu, salutando quelli che conoscevo con un cenno del capo o un gesto della mano. La paranoia era troppo diffusa in questo ambiente. Un'offesa qualsiasi, per quanto insignificante, poteva scatenare pensieri folli. Cercavo Paul Allen e, in minor misura, il gruppo dei giovani duri che erano i nostri soci e i nostri rinforzi. Li trovai riuniti in fondo al Blocco Est, contro il muro. Era Paul, come al solito, a tenere banco, mentre i più giovani, T. D. Bingham, Wayne Odom, Blinky Williamson, Vito Rodriguez, Dicky Bird e un paio d'altri, ascoltavano, le bocche aperte in un sorriso. Paul raccontava una storia: -…Eravamo una quindicina in questo cortile, quando quel tizio si è fatto accoltellare. C'era un orinale nell'angolo. Fummo convocati tutti quanti per essere interrogati, e l'indomani il giornale scrisse: «Nessun testimone dell'accoltellamento. Quindici prigionieri usano l'unico orinale nel cortile durante l'aggressione». Paul notò il mio arrivo. - Che succede? Gli passai il foglio di Denis. Lo lesse, poi sorrise e sollevò i gomiti, facendo il verso del pollo che tenta di spiccare il volo. - Bel colpo! Siamo di nuovo in sella! L'hai detto a Big Arm? - Sono appena uscito. È presto per cantare vittoria. L'ufficio postale sciopera domani, no? L'allegria sparì dalla faccia di Paul. - Ahh… merda! Pensavo che gli impiegati pubblici non potessero scioperare. È contro la legge, no? - Quel che so, l'ho letto sul giornale. Il «Chronicle» dice che faranno sciopero. Avremo la merce quando lo sciopero sarà terminato. - Giusto, - disse Wayne. - La madre di Barney non si bucherà di sicuro. All'improvviso, una dozzina di fischi lacerarono l'aria contemporaneamente. Erano le quattro e mezzo, l'ora del rientro in cella per l'appello principale della giornata. Le guardie avanzarono lungo i tavoli del domino: - Sgomberate… sgomberate. Avanzai controcorrente nella marea umana verso il cancello del cortile, da cui seguitava ad arrivare qualche ritardatario. Insieme a un paio di altri detenuti, io dipendevo dall'Ufficio del Cortile, che somigliava a un chiosco di hot dog dallo stile vagamente modernista, ed eravamo contati a parte. L'ufficio era formato da due stanze, più i gabinetti. Gabinetti esclusi, le pareti erano tutte vetrate. Il vecchio Ufficio del Cortile comprendeva una stanza posteriore chiusa che aveva acquistato una certa notorietà nel corso degli anni. Nulla di quanto accadeva nel nuovo ufficio poteva passare inosservato. Era circondato da una recinzione di rete metallica con due cancelli che davano sulla strada, uno per i veicoli, l'altro per i pedoni. Dietro, a soli tre metri di distanza dalla porta sul retro dell'Ufficio del Cortile, si trovava l'ingresso del modernissimo Centro di Adattamento. Chiunque entrasse o uscisse dal cortile e si dirigesse verso la Cappella del Giardino, l'Ufficio delle Detenzioni, il gabinetto dentistico o altri settori era obbligato a passare davanti all'Ufficio del Cortile. Il ponte che conduceva al Vecchio Stabilimento Industriale, che al mio arrivo a San Quentin ospitava la palestra, si trovava davanti all'Ufficio del Cortile. Ormai tutti i piani superiori erano vuoti. Poiché era costruito in mattoni, con parecchi vecchi solai di legno secco e altri materiali infiammabili, a guardia dell'edificio era stato assegnato un detenuto in qualità di «vigile del fuoco». Questo posto di lavoro era una pacchia, ed era risaputo. Chiunque l'occupasse aveva libero accesso all'immenso edificio che, con i suoi numerosi interstizi e anfratti, era il posto ideale per fabbricare l'alcol. Uno di questi detenuti addetti alla vigilanza antincendio si era fabbricato lui stesso un alambicco per distillare del liquore molto forte. Stavo per raggiungere l'Ufficio del Cortile, quando vidi Bulldog che attraversava in tutta fretta il Giardino delle Delizie, praticamente ridotto a nuda terra. Bulldog era alto un metro e sessantotto, con un cuore e un sorriso grande così. Era un atleta di talento, e avrebbe potuto diventare un giocatore professionista di golf. Certo è che più di una volta mi aveva salvato il culo sul campo di pallamano. Lo aspettai davanti alla porta, poi feci due passi con lui in direzione del cortile. - Dove sei stato? - domandai. - In parlatorio. - Non sapevo che avessi delle visite. - Ascolta bene. Vieni. Mi voltai a guardare indietro. Avevo un minuto, e sarei rientrato in tempo per l'inizio dell'appello. Seguitai a camminare con lui tornando verso il cortile. - Non indovinerai mai chi è venuto a trovarmi -. Fece una pausa prima di proseguire: Quell'avvocato donna. Fay Stender. - La sinistroide, quella che difende Jackson? - Sì. Lui è lì, adesso. Aspettava di parlare con lei subito dopo di me. Sembrava furioso, perché era costretto ad aspettare. - Merda, Bulldog, è una celebrità, quel tipo. Cazzo, è quasi un divo -. Stavo per aggiungere che per questo bastava un atto di ribellione suicida, ma Bulldog mi interruppe. - Non ci crederai, amico, ma sai che vuole quella donna? Vuole che noi, i bianchi, facciamo fuori qualche secondino. - Ma che dici? Te l'ha detto così, chiaro e tondo? - Sì… be'… come ha detto lei, com'è che i neri stanno facendo la rivoluzione, e noi non li aiutiamo contro i porci? - Io avrei risposto che non c'è nessun secondino che vuole ammazzarmi. È matta da legare. E tu che le hai risposto? - Le ho risposto che era completamente matta, matta da legare… Be', non proprio… in realtà le ho detto che ne avrei parlato con i miei compagni e bla, bla, bla… Ti rendi conto? Io da qui voglio uscire. E se ammazzo una guardia, da qui non esco… né mi entrano soldi in tasca. Non vado matto per gli sbirri, ma neanche li ammazzo. Se mi trovo con le spalle al muro e faccio fuori uno sbirro, è per via di questo, oppure getto via la pistola e mi becco l'ergastolo. Cazzo, ammazzare qualcuno è una cosa grave… doppiamente grave. Non è la stronzata più folle che hai mai sentito in vita tua? - Più o meno -. Era vero. Quando raggiungemmo il cancello del cortile, dovetti tornare indietro. Mentre Bulldog affrettava il passo, notai che il cortile era quasi vuoto. Le ultime file di detenuti stavano entrando nel Blocco di celle Est. Qualche sparso raggio di sole trafisse le nubi e scintillò sulle finestre a quindici metri di altezza del blocco. Mi ricordai di aver visto lo stesso spettacolo, dalla stessa prospettiva, diciotto anni prima, e mi venne in mente che se allora avessi saputo di ritrovarmi lì, nello stesso posto, diciotto anni dopo, mi sarei suicidato. Ma non avevo previsto che le cose sarebbero andate così, e non ero in grado di prevedere cosa sarebbe accaduto nei diciotto anni a venire. Feci dietro front e mi incamminai verso l'Ufficio del Cortile. Big era il responsabile del turno di guardia del giorno. Era proprio enorme, né particolarmente muscoloso, né particolarmente grasso. Pesava centoquaranta chili, ed era garrulo come un ragazzino di otto anni. - Di che parlavate con Bulldog? - Bulldog? Chi è Bulldog? - Scommetto che stavate concludendo qualche traffico di roba. Pensi che non lo sappia? - No, Big, è di tua madre che parlavamo. - Ehi, ehi, vedi di farla finita. - 'Fanculo, Big. Aprì l'ultimo cassetto della sua scrivania ed estrasse un manganello. - Adesso ti accarezzo le ginocchia con questo, - disse. - Voglio vedere se funziona -. Lo abbatté sulla scrivania, producendo un suono crudele e minaccioso. I manganelli fanno male. Sento ancora oggi quello che si abbatté sulla mia schiena quando, all'età di quattordici anni, tentai di introdurmi clandestinamente in un cinema passando per i gabinetti degli uomini all'ingresso. - Di sicuro ti dà un'aria elegante, - dissi con aria sarcastica e sprezzante. A Big tutto questo piaceva un mondo. - Fa' lo stronzo con me, e io ti denuncio… a proposito di quel medaglione che porti sotto la camicia -. Big portava una catena intorno al collo, con una grossa medaglia a forma di svastica. Se l'era procurata quando una guardia era stata assassinata nell'ospedale del penitenziario. In passato Big aveva manifestato opinioni razziste, e un giorno mi aveva dichiarato: - È più forte di me; sono proprio convinto che i negri nell'insieme sono più stupidi dei bianchi -. Ciò nonostante trattava i detenuti alla pari, senza fare discriminazioni. Ma ormai erano parecchie le estati lunghe e afose rese ancor più torride dagli incendi appiccati nelle città americane e dagli omicidi razziali avvenuti a San Quentin. (Aveva visto un detenuto portoghese di nome Rios battersi, uno contro uno, con un nero nel cortile inferiore. Una torma di neri aveva aggredito, pestato e colpito Rios alla testa con una mazza da baseball: alla fine il suo cranio era praticamente spiaccicato per terra, come se a ridurlo in quello stato fossero state le ruote di un'automobile). Il fanatismo latente di Big si era quasi trasformato in odio razzista ossessivo. Essendo un poliziotto, aveva il diritto di portare la pistola, e più di una volta mi disse che aspettava la buona occasione per ammazzare un negro e passarla liscia. Io riuscivo a capire ciò che provava, così come riuscivo a capire la vena di odio paranoico che correva tra tanti neri nei confronti dei bianchi. Mi ero spesso detto che se fossi stato un nero, avrei fatto sì che la società dei bianchi mi avesse già ammazzato da tempo. Ma io non ero un nero, e non avevo alcuna intenzione di fare il capro espiatorio della vendetta nera, facendo finire il mio nome su un manifesto. Al carcere minorile e al riformatorio avevo imparato che il razzismo nero è forse più virulento del razzismo bianco. Una volta qualcuno mi aveva detto: - Noi, quando siamo razzisti, ci limitiamo a tenerci alla larga da loro. Quando loro sono razzisti, ciò che vogliono è ammazzarci -. Era vero: i razzisti neri volevano la vendetta, i razzisti bianchi la segregazione. Tutti i neri non erano razzisti, neppure tutti i bianchi. Quanto a me, mi auguravo veramente che tutti fossero indifferenti alle questioni di razza e, a parte questo, che ciascuno si mostrasse civile e rispettoso dell'altro. È impossibile creare una società civile senza civiltà. Sul ponte passerella che conduceva al Vecchio Stabilimento Industriale comparve Willy Hart. Conoscevo Willy dai tempi della sua prima detenzione a San Quentin, più di dodici anni prima. Era un rapinatore a mano armata, ma non corrispondeva certo all'idea che l'opinione pubblica si fa di un individuo del genere. Se qualcuno avesse detto «No, mi rifiuto di fare questa cosa», e si fosse seduto incrociando le braccia, Willy avrebbe reagito con un'alzata di spalle e si sarebbe allontanato. In altri termini, non era il tipo che potesse fare del male a chiunque, ma se qualcuno avesse estratto un'arma per colpirlo, Willy avrebbe reagito, arma in pugno, oppure avrebbe sparato per primo, se ci fosse stato costretto. Era al suo secondo soggiorno dietro le sbarre per rapina a mano armata. Non era mai riuscito a fare il serio nei quindici anni trascorsi a San Quentin e a Folsom. - Ehi, Bunk, come cazzo te la passi in questi giorni? - mi domandò mentre attraversava la strada per raggiungere l'Ufficio del Cortile. Anche lui doveva rispondere all'appello lì, insieme a un altro detenuto, il capo della squadra di notte del cortile. Dal momento in cui l'appello era convalidato, il resto della squadra del cortile era libera. Mentre i prigionieri entravano in fila nei refettori, la squadra di notte del cortile si serviva di grossi tubi di annaffiamento alimentati dall'acqua della baia per pulire gli sputi, i mozziconi di sigaretta e le migliaia di bucce d'arancia, se nel vitto erano state incluse le arance. Era uno dei migliori lavori a San Quentin. Il caposquadra era una figura sopravvissuta dall'epoca in cui San Quentin funzionava grazie ai capodetenuti. Quanto a Willy Hart, quando era arrivato per la prima volta a San Quentin, veniva da una prigione giovanile di Tracy, che aveva rimpiazzato Lancaster e svolgeva la stessa funzione, ovvero la detenzione di giovani delinquenti di età compresa tra i diciotto e i venticinque anni. Il mio primo ricordo di lui risaliva alla sua ultima notte trascorsa a Lancaster. Era sotto le docce, insieme agli altri detenuti del suo ballatoio. - Sì… sì, - proclamava a voce alta. - L'ho scampata da tutti questi pervertiti. Nessuno ha mai messo il tappo nel buco della mia botte -. Aveva la parlantina mordace e spassosa. Aveva la risposta pronta, più di chiunque altro degli internati, per la qual cosa, ogni tanto, finiva per mettersi nei guai. - Dove vai? - domandò. Risposi miniando il gesto di mangiare. - Al refettorio. In quel momento la porta riservata ai pedoni si aprì. Passarono due guardie: tra loro c'era George Jackson. Tornava dal parlatorio, e veniva scortato al Centro di Adattamento, il cui ingresso era a cinque metri dal posto in cui ci trovavamo Willy e io. Era ammanettato. Lo guardammo mentre si avvicinava. Io avevo letto "I fratelli dì Soledad". Il libro aveva avuto molto successo, senza tuttavia dire nulla di nuovo. Eldridge Cleaver aveva affrontato le stesse tematiche, e molto meglio, in "Anima in ghiaccio", che raccoglieva qualche suo saggio comparso in «Ramparts» e delle lettere. I due libri adottavano una posizione marxista sull'America, e auspicavano la rivoluzione armata e uno Stato comunista. Credo che George Jackson sia stato iniziato alla retorica marxista quando venne scoperto dai marxisti bianchi della zona della baia, con Fay Stender come figura di primo piano. Fino ad allora, si era accontentato di odiare i bianchi. Io ero già un veterano all'epoca del suo ingresso nel penitenziario, ed ero alloggiato in una cella vicina alla sua. Lo sentii dichiarare che lui non voleva l'uguaglianza; voleva vendicarsi della razza europea. Il giorno in cui lo incontrai mentre ero con Willy, tuttavia, era la prima volta che lo vedevo bene: non l'occhiata sfuggente che gli lanciavo quando passava davanti alla mia cella. Era un uomo giovane e bello, da tutti i punti di vista. Un metro e ottanta di altezza e forse più, per un peso di una novantina di chili, aveva il passo arrogante di un guerriero. Vedeva i due detenuti bianchi, quali noi eravamo, fermi lì, a qualche metro dal posto in cui era diretto. Al suo passaggio ci guardò rivolgendoci un cenno della testa che avrebbe potuto essere un saluto, ma anche un gesto di sfida. Io lo fissai senza battere ciglio, impassibile. Non potevo salutare un uomo che ammazzava la gente senza ragione, tranne perché era di pelle bianca, né era nel mio stile rivolgergli la parola. Ma altro era lo stile di Willy. Nell'istante preciso in cui George Jackson ci passò accanto, e la guardia di scorta premette il campanello all'ingresso del Centro di Adattamento, passò un Phantom dell'Aeronautica militare americana, superando il muro del suono. - C'è il Potente Uomo Bianco, lassù, - fece Willy, indicando il cielo. Io non risi, ma non potei fare a meno di sorridere. Un attimo prima di varcare la soglia dell'ingresso, George Jackson si voltò, lo sguardo intriso di odio. Quando la porta si richiuse, Willy si produsse in un paio di piroette e alzò la mano per battere il palmo contro il mio. - L'ho sparata bella, no? - Sì, riconosco che ti meriti proprio la medaglia d'oro. Finii il mio sesto romanzo, e tramite un insegnante che era diventato amico di uno dei miei compagni, lo feci uscire clandestinamente dal penitenziario e lo spedii ai miei agenti Mike Watkins e Gloria Loomis. Nel giro di due settimane Mike mi rispose: sperava e riteneva di poterlo fare pubblicare. Era soltanto una speranza, ma era la migliore notizia che avevo ricevuto in tanti anni. In realtà, era la prima lettera che ricevevo dopo tanti anni. Un mattino mi trovavo a fianco della chiesa del giardino, quando vidi due neri che venivano fatti uscire incatenati dal Centro di Adattamento; ne riconobbi uno, Willie Christmas. Aveva tentato di accoltellare una guardia nel Refettorio Nord. Era in partenza per il Tribunale della Contea di Marin. Non ci pensai più di tanto. In ogni momento i detenuti partivano alla volta del Tribunale della Contea di Marin. Qualche ora dopo vidi il capitano precipitarsi fuori dell'Ufficio delle Detenzioni in direzione della porta pedonale, seguito, di lì a poco, da due tenenti. Sebbene non fosse ancora l'ora di riprendere il mio lavoro, raggiunsi l'Ufficio del Cortile per scoprire cosa stava succedendo. Big Brown era al telefono. Stava chiedendo alla squadra tattica di intervento, meglio conosciuta tra i detenuti come «squadra dei picchiatori», di presentarsi con la massima urgenza. Brown era così agitato che balbettava. - Che succede? - domandai quando Brown riappese. - Christmas e l'altro negro si sono impadroniti dell'aula del tribunale. - L'aula del tribunale? - Pistole! Sono armati e hanno in mano degli ostaggi. Due membri della squadra dei picchiatori passarono in fretta e furia, la faccia scura. Il Tribunale della Contea di Marin era soltanto a qualche minuto dal penitenziario. La legge proibiva di far uscire dalla prigione detenuti che tentavano l'evasione servendosi di ostaggi. Si sarebbe applicata anche in questa situazione? Era una curiosità che ci saremmo tolti molto presto. Mentre Brown parlava nuovamente al telefono, io mi avviai verso il cortile per informare i miei compagni dell'accaduto. Era metà della mattinata, e nel cortile c'erano più gabbiani che detenuti. Alcuni andavano allo spaccio, altri misuravano a grandi passi la lunghezza del cortile facendo alzare in volo un gruppo di piccioni, più alcuni gabbiani cui un detenuto offriva molliche di pane. Spero che ti cachino addosso, - borbottai passandogli accanto. Vicino al rubinetto dell'acqua calda sul muro del Blocco di celle Est stazionavano una decina di bianchi e chicanos radunati intorno a Danny Trejo. A giudicare dall'intensità del suo discorso e dall'espressione rapita di quelli che lo stavano ascoltando, era evidente che era al corrente di quanto era accaduto in tribunale. C'era una battuta ricorrente, quando succedeva un fatto qualsiasi, violento o scandaloso, e se qualcuno voleva delle notizie: - Chiedilo a Danny -. Era lui che teneva la rubrica dei pettegolezzi di San Quentin. Stava parlando, quando mi avvicinai: -…Un giovane, uno sbarbatello, si è alzato in piedi nell'aula, un Uzi in mano, e ha detto: «Adesso comando io». Aveva una caterva di armi e le ha distribuite a quei pazzi figli di puttana. Hanno preso il giudice, il procuratore, e la giuria… ciascuno aveva un ostaggio tutto suo. Come avere Dio stesso in ostaggio… - Se fossero dentro le mura, chi se ne importerebbe? Li farebbero fuori subito, anche prima che Dio venisse a saperlo. - Ascoltate… hanno preso un fucile a canne mozze carico, col cane alzato, e lo hanno legato con un filo intorno al collo del giudice. Basta un colpo di tosse, e si fa saltare il cervello. - Ehi, Danny, sei sicuro che non stai raccontando un'altra delle tue fottute bugie? Sai come sei… - Ogni tanto, la racconto qualche bugia bella e grossa, "ese", ma questa è roba vera, coglione. - È la verità, - intervenni. - Ne ho sentito parlare al posto quattro. Quelli della squadra dei picchiatori sono usciti dal cancello correndo. - Cazzo, - imprecò qualcuno. - Questi negri sono nella merda! - L'osservazione trovò tutti d'accordo, a giudicare dai cenni del capo con cui venne accolta. Willy Hart comparve al cancello e cominciò ad attraversare il cortile. Ci vide, e deviò verso il nostro gruppo, tremante di eccitazione. - Ehi, ragazzi, avete sentito quello che è successo? - Sì, l'abbiamo sentito. - Tutto finito, ormai. Sono usciti sul parcheggio. Credo che gli sbirri dello sceriffo si stessero ritirando, ma poi sono entrati in scena due poliziotti della prigione. Si sono messi a sparare, e hanno fatto schizzare fuori la merda da quegli imbecilli. Ci sono morti, tra i negri e tra i giudici. Cadaveri dappertutto. - Negri morti e giudici morti… Che culo! Cosa può chiedere di più un bifolco? Ah… ah… ah… ah! Lanciai un'occhiata all'autore di quel commento, Dean Lakey. Aspirava ad entrare nei ranghi dei duri tra i duri, e sarebbe andato lontano, ma in fondo, sotto sotto, era un pappamolla. E un giorno si rivelò per ciò che era veramente: doveva vedersela con un vero duro, e preferì essere recluso in isolamento per essere protetto. Avendo varcato questa barriera che lo segnava per sempre con un marchio di infamia, gli restava poca strada da fare per diventare una spia. Era al corrente di parecchi omicidi, compresi due in cui era coinvolto in un ruolo minore, tipo fare da sentinella mentre gli altri si occupavano dell'assassinio. Quando pronunciò il suddetto giudizio su negri, giudici e bifolchi, le sue parole suonarono false. Dava l'impressione di uno che cercava di apparire più razzista e più "freddo" di quanto ci si possa immaginare, quando non si appartiene a questo ambiente. Del genere «secondo me, ti stai scaldando troppo». Volevo sapere ciò che era veramente accaduto. Volevo leggere i giornali e parlare con un nero che era stato chiamato a testimoniare dalla difesa. Quando si era scatenata tutta quella follia, gli avevano chiesto se voleva andare con loro, e lui aveva cortesemente rifiutato. No, grazie. Il suo termine per la libertà condizionale era a meno di sei mesi. Scontava una pena corrispondente al reato di guida in stato di ubriachezza. Era della vecchia scuola, e molto più saggio. Ciò che appresi a riguardo del reale svolgimento dei fatti, è che l'aula del tribunale, quel giorno, era quasi senza pubblico e che nessun membro del personale giudiziario, giudice, cancelliere, ufficiale giudiziario, sostituto procuratore, aveva notato nulla quando Jonathan Jackson, il fratello più giovane di George Jackson, allora diciassettenne, era entrato. Era sceso per il corridoio centrale prima di infilarsi tra le panche riservate al pubblico. Portava una borsa da viaggio. L'unico ad averlo visto era stato l'imputato, Willie Christmas. Gli altri notarono la sua presenza solo quando si alzò in piedi, la pistola in pugno, e annunciò in modo chiaro e distinto: - Benissimo, signori. Adesso comando io -. Dopo attenta riflessione, devo riconoscere che, checché ne dica il resoconto ufficiale dei fatti, le parole pronunciate dal giovanotto avevano un certo "élan". Penso che suo fratello l'avesse convinto che la rivoluzione fosse imminente. Jonathan si era sbrigato ad armare Willie Christmas, aveva disarmato il pubblico ufficiale e gli aveva tolto le chiavi; poi aveva aperto la gabbia in cui erano detenuti gli imputati. Ruchell Magee non aveva esitato a prendere un'arma. Il detenuto che conoscevo scrollò il capo, e restò lì. Gli altri uscirono e lui seguì la scena attraverso una fessura nella porta. Non poteva vedere tutta l'aula, ma vide con i suoi occhi il giovane Jackson calare un nodo scorsoio attaccato a un fucile intorno alla testa e al collo del giudice. Il fucile, carico e col cane alzato, era appoggiato sulla sua spalla, sotto il mento. I detenuti, facendosi scudo con gli ostaggi, avanzarono fino al parcheggio, dove li aspettava una camionetta gialla con le porte scorrevoli. Gli uomini dello sceriffo avanzarono con loro, ma avevano paura di aprire il fuoco. I detenuti stavano per salire sulla camionetta, quando una delle guardie della prigione, armata di una grossa carabina da caccia munita di cannocchiale di precisione, allineò il reticolo della mira e premette il grilletto. Al primo colpo, un detenuto cadde a terra. A quel punto tutti aprirono il fuoco: i poliziotti che scaricarono i proiettili contro le sottili pareti della camionetta, i detenuti che spararono sugli ostaggi. La testa del giudice saltò; il sostituto procuratore riportò una gravissima lesione al midollo spinale. Sopravvisse, ma restò paraplegico, e in seguito venne nominato giudice della Corte Suprema. L'unico sopravvissuto, tra i detenuti, fu Ruchell Magee. Fu ferito, ma si rimise. Stava già scontando una pena all'ergastolo. Quella sera i telegiornali mostrarono un filmato in cui si vedevano i cadaveri dei detenuti estratti dalla camionetta e trascinati con delle corde, come carcasse di bovini. Le autorità simularono la paura che quei cadaveri fossero - trappole esplosive -, ma io vidi la furia e la rabbia di quel loro gesto. Questo episodio avrebbe cambiato per sempre il modo in cui i detenuti di San Quentin sarebbero stati trattati nelle aule di tribunale della Contea di Marin. Qualche giorno dopo si apprese che le armi utilizzate appartenevano ad Angela Davis, la professoressa nera comunista. La Davis si diede alla fuga prima di essere arrestata. Contro di lei venne spiccato un mandato di cattura, con l'accusa di complicità. Trascorsero alcuni mesi prima della sua cattura e del suo ritorno nella città più progressista dell'America, San Francisco, per comparire dinanzi al tribunale ed essere giudicata. Fu difesa da Charles Garry, il miglior avvocato penalista della California del Nord. Il suo libro sui criteri di formazione di una giuria fece scuola sull'argomento. Alla fine del processo, la giuria non soltanto rilasciò Angela Davis, ma offrì persino un ricevimento in suo onore. Riguardo alla questione se fu lei a fornire le armi a Jonathan Jackson, o se costui le prese a insaputa di lei, non ne ho la minima idea, ma credo che si fosse innamorata di George Jackson. Grande, forte e bello, dovette suscitare in lei dei sentimenti profondi quando lo vide avvolto nelle catene dell'uomo bianco. Ai suoi occhi, non era un assassino, poco importava se o chi avesse ucciso. Era un nero ridotto in schiavitù, in rivolta contro i suoi oppressori, perciò tutto ciò che aveva fatto era giustificato. La sparatoria del Tribunale di Marin finì sulla prima pagina dei giornali e dei notiziari televisivi di tutto il Paese. I fratelli di Soledad divennero un caso ancor più celebre e George Jackson fu nominato feldmaresciallo del Black Panther Party. Era fiero del fratellino diciassettenne che avevano estratto dalla camionetta trascinandolo legato a una corda come un quarto di bue. Fay Stender comprese che parlare di rivoluzione armata era ben diverso dal far saltare la testa ai giudici, massacrare detenuti e trasformare un sostituto procuratore in un paraplegico. Abbandonò la causa e rinunciò al caso. La guerra del Vietnam sconvolse i campus universitari americani. Esplosero bombe; gli estremisti di sinistra diventarono rivoluzionari e iniziarono a rapinare le banche. Frattanto i ghetti neri di una città americana dietro l'altra andavano a fuoco nelle «lunghe e torride estati» al canto di «brucia, baby, brucia!» Nel Mississipi il Klan assassinava i difensori dei diritti civili. A San Francisco una banda di neri scorrazzava nella notte e ammazzava i bianchi che venivano sorpresi da soli. Li avevano chiamati "Zebra Killings" e io ritenevo probabile che vi fossero implicati degli ex detenuti neri (non mi sbagliavo), perché uccisioni simili le avevo viste soltanto nelle prigioni della California. Entrambe le fazioni le praticarono, ma George Jackson fu il primo. Come succede per ognuno, lui non faceva niente di male, ai suoi occhi. Per l'individuo, ciò che importa è giustificarsi guardandosi allo specchio. Che è quanto faceva George Jackson, grazie ai quattro secoli di schiavitù che lo avevano preceduto e alla politica segregazionista di Jim Crow. Arrivarono giornalisti da tutto il mondo per intervistarlo. Passava più tempo in parlatorio che in cella. Giunsero scrittori da «Time», «Newsweek», «Le Monde», dal «Times» di Londra e dal «New York Times». Era la politica dell'Amministrazione Penitenziaria autorizzare queste interviste, e George ne concedeva una, e talvolta più di una al giorno, ogni giorno della settimana. Le guardie lo odiavano, lui e «quei bastardi sinistroidi e comunisti che prendevano un assassino pieno di odio e lo trasformavano in un eroe rivoluzionario». Non apprezzavano di vedersi affibbiare gli epiteti di «porco» o «fascista», in cui nessuno di loro si riconosceva guardandosi allo specchio, anche se alcuni facevano una strizzatina d'occhio quando venivano interrogati sul razzismo, specie quando incominciarono a farsi ammazzare. I detenuti bianchi non apprezzavano che si parlasse di loro come di neonazisti convinti della supremazia della razza bianca, i malvagi della storia, per così dire. Si svolgevano parecchie guerre razziali dietro le mura di San Quentin. Vi regnava una tale paranoia razzista che non era neppure necessaria una vera e propria provocazione per suscitare un omicidio. Praticamente tutte le scuse erano buone per estrarre i coltelli. Una guerra, in particolare, incominciò a seguito di avvenimenti solo vagamente collegati a questioni di razza. Era una sera di primavera, dopo il vitto, e i settecento detenuti del Blocco Est attraversavano il Grande Cortile per rientrare in cella. I cinque ballatoi erano gremiti. Mentre alcuni aspettavano accanto alla cella il momento della chiusura, altri si aggiravano sui ballatoi, in cerca di una dose di eroina o di acido, un litro di birra casalinga, o che altro per addolcire la realtà della lunga notte che li attendeva. Io vivevo nel Blocco di celle Nord, ma per via della mia posizione, potevo gironzolare dove volevo. Quella sera volevo fare una scommessa sulle finali universitarie di atletica della N.c.a.a. Salii le scale a passo di corsa fino al terzo livello, girai intorno alla ringhiera e avanzai sul ballatoio. Un rumore di fondo copriva tutto nel blocco di celle, un rumore talmente normale, talmente invasivo, che non lo si notava più, una volta che ci si era abituati. Era il genere di rumore che attrae l'attenzione solo quando cessa, o il suo ritmo cambia. Il ritmo cambiò. Da uno dei ballatoi inferiori salì il tonfo e i grugniti di corpi che lottavano, poi un grande botto, quando qualcuno andò a sbattere contro il cancello di una cella che si richiuse sullo stipite. I detenuti che mi ritrovai vicino si fermarono di colpo prima di voltarsi, con la stessa diffidenza di animali in risposta a un suono improvviso. Altri sui ballatoi superiori e inferiori allungarono il collo per vedere cosa stava succedendo. La tensione si propagò come elettricità lungo i fili. Alcuni uomini a quaranta metri di distanza percepirono nello spazio di qualche secondo che era successo qualcosa. La guardia armata sulla passerella, un coscritto, correva avanti e indietro, nel tentativo di individuare l'origine del problema. Vide qualcosa, dei movimenti indistinti. Il suo fischietto mugolò una volta, due volte, e dissipò tutti i dubbi: stavano accoltellando qualcuno. I detenuti di San Quentin avevano abbandonato da tempo le risse a suon di pugni per risolvere le controversie. Se è una faccenda per cui non vale la pena ammazzare, allora dimenticala. Se molli a uno un pugno in bocca e lo lasci andare, è molto probabile che rimugini la sua rabbia per un mese o due e torni con un coltello. Si fece improvvisamente un grande silenzio in tutto il blocco, a eccezione del calpestio di uomini in corsa. Più di un uomo cercava di farsi largo tra la folla per scappare. La guardia imbracciò il fucile, ma non riuscì a sparare in quell'ammasso di corpi. Tentò di seguirli lungo la passerella, seguitando a fischiare in segno di accusa, ma le sue prede scomparvero giù per le scale in fondo al ballatoio. Le guardie del pianterreno arrivarono troppo tardi sul luogo. Gli aggressori si erano dileguati. Decisi di lasciar perdere la mia scommessa e uscii dal blocco prima che chiudessero il cancello della rotonda. Forse mi avrebbero potuto anche fare delle domande. Mi affrettavo a raggiungere la scala dell'ingresso quando mi capitò di guardare di sotto, al pianterreno del blocco di celle. Quattro neri spingevano un carrello che in genere serviva a spostare ceste della biancheria e bidoni dell'immondizia. In quel momento trasportava un «fratello», che in tutta fretta veniva condotto in ospedale. L'uomo era sulla schiena, le gambe ripiegate sul petto, la giacca di tela aperta, una chiazza rossa sulla canottiera bianca. I neri che spingevano il carrello avrebbero lasciato morire un bianco, e un bianco che avesse prestato soccorso a un nero ferito (a meno di non essere assegnato all'ospedale) si sarebbe visto dare l'ostracismo da tutti gli altri bianchi, sempre che non l'avessero aggredito. Le prime voci furono che era stato accoltellato e gettato giù dal quarto ballatoio. A vederlo, pareva improbabile. La vittima era distesa sulla schiena, le gambe ripiegate, la testa eretta. Se fosse caduto sul cemento da un'altezza di tredici metri, si sarebbe fratturato le ossa. E non avrebbe avuto quella cera e quella postura. Dai ballatoi superiori, centinaia di detenuti seguivano la sorte del gruppo. La questione era sapere chi l'aveva accoltellato. Se era stato un altro nero, la faccenda riguardava la vittima, l'aggressore, e i loro rispettivi compagni. Se era stato un chicano, fino ad allora un episodio del genere non aveva innescato reazioni a catena. Ma se si trattava di un bianco contro un nero, o di un nero contro un bianco, sarebbero sicuramente seguiti grossi guai. Mentre raggiungevo la porta della rotonda dell'edificio, arrivò il sergente da un'altra direzione per chiuderla a chiave. Gli altoparlanti gracchiavano e urlavano: - Chiusura! Lato baia, chiusura! Lato cortile, chiusura! - Il sergente alzò la mano facendo segno di fermarmi, poi mi riconobbe e mi lasciò scivolare nella notte del Grande Cortile. Le guardie sopraggiunsero a passo di corsa, il mazzo di chiavi in una mano e il manganello nell'altra. Tornai sui miei passi attraversando il cortile. Assomigliava a un quadro di Edward Hopper, uno studio sull'ombra e la luce, con molte figure al lavoro. Una maneggiava il bocchettone di un grosso tubo antincendio, un'altra tirava il peso del tubo. Il getto potente spazzava via gli sputi e i pacchetti di sigarette vuoti, facendo danzare le migliaia di scorze d'arancia fino al canale di scolo delle acque accanto alla tettoia. Altri detenuti raccoglievano i rifiuti e li spalavano sulle carriole. Ogni giorno i detenuti trasformavano il cortile in un porcile. I membri della squadra di notte, incaricati della pulizia del cortile, erano tutti amici miei. Impossibile essere assegnati alla squadra, senza che io facessi una strizzatina d'occhio al tenente. Paul Allen si avvicinava agitando la scopa. Dal cortile, la sera, si poteva vedere l'interno del blocco di celle illuminato. - Che è successo lì dentro? - Un negro si è fatto accoltellare, sul quarto ballatoio. Avevo deliberatamente usato la parola «negro», l'epiteto razzista, ma senza livore. Non l'avrei usato con nessun nero, neanche scherzando con un amico, ma se avessi scelto un altro termine con Paul, lui l'avrebbe puntualizzato. - Scoppierà una nuova guerra? - Non so chi l'ha accoltellato. Non sembra ferito gravemente. Al cancello del cortile comparve il tenente E. F. Ziemer. Sulla cinquantina inoltrata, aveva l'andatura di un uomo che ha passato anni su una nave in rollio. Nel suo caso, si trattava di un sottomarino. Il suo cappello era spavaldamente inclinato su un lato. Trotterellava verso la rotonda del Blocco Est. Era il mio capo, e gli accennai un saluto. Si fermò. - Ehi Bunk! - gridò. - Tieniti a disposizione. Dovremo scrivere dei rapporti, stasera. - Sarò lì, Capo. - Un'altra cosa. - Di che si tratta, Capo? - Manderanno Aaron Mitchell alla camera a gas, il prossimo venerdì. C'è un bel po' di sporcizia, laggiù. Ho mandato Willy Hart a dare una passata ai pavimenti con lo strofinaccio. Voleva che ti chiedessi di aiutarlo. - Come al solito. - Se ti va. - Certo. Come si entra? Le chiavi della Sezione delle Esecuzioni Capitali erano conservate nella Torretta N. 2, sopra il cancello del Grande Cortile. Proprio in quel momento, una guardia uscì dalla rotonda del Blocco Nord, che permetteva di entrare contemporaneamente nel blocco di celle attraverso una porta di acciaio sulla sinistra e dava altresì accesso alle celle dell'ultima notte, passando per un'altra porta di acciaio sempre dritto di fronte. La guardia era il fattorino, quello che raccoglieva e distribuiva la posta e le note di servizio, e scortava i detenuti di notte (per esempio, all'ospedale). Si avviava verso la Torretta N. 2, evidentemente per restituire la chiave; Ziemer lo chiamò, e gli andammo incontro. Quando il fattorino aprì la porta d'acciaio verde, Willy era all'ingresso di una delle due celle dell'ultima notte; il cancello era aperto. Aveva una scopa in mano, e un grande sorriso sul viso. Accanto aveva un secchio a rotelle da cui spuntava il manico dello spazzolone. Alle sue spalle si apriva una porta di acciaio verde e, a meno di un metro più in là, si vedeva la porta ovale, anch'essa aperta, della camera a gas, che faceva pensare a una campana subacquea. All'interno, due seggiole, una di fianco all'altra. Mi venne in mente la storia di Allen e Smitty, i due detenuti di Folsom giustiziati per aver ammazzato un altro detenuto. Un secondino mi aveva detto che quando la porta era stata richiusa, e la ruota della tenuta stagna aveva preso a girare, i due si erano chinati l'uno verso l'altro e si erano baciati, un bacio di arrivederci, da seggiola a seggiola. Ripensandoci, scoppiai a ridere. Willy aveva appena detto qualcosa di buffo, lui era spesso molto buffo, e pensò che io ridessi della sua battuta. - Ehi, Bunk, vedo che sei venuto a darmi una mano. - Torno tra una mezzora, - disse la guardia. - Va bene? - Penso di sì, - rispose Willy. - Dovremmo aver finito. La guardia richiuse la porta. Ci ritrovammo soli, con le due celle dell'ultima notte e la camera a gas. Mi piantai sulla soglia della prima cella col cancello aperto. Un passo per uscire, un passo a destra per varcare la porta. Un passo lungo (o due piccoli, oppure il segno dei piedi di chi viene trascinato a forza), era lo spazio che separava dall'ingresso della camera a gas. Dannazione, era proprio piccola. Dipinta di verde e di forma ottagonale, aveva finestre col davanzale al livello della cintola. Persiane nascondevano l'interno alla vista dei testimoni. I testimoni restavano all'esterno. La prima fila aveva il naso a pochi centimetri dal vetro, e il condannato a morte era a pochi centimetri dall'altra parte. Un testimone era alla lettera «testimone dell'avvenimento», da vicinissimo. - Non è Shorty Schrekendost che ha dipinto questo posto? - domandò Willy. - Credo… una decina d'anni fa. - Credo che abbia lasciato scritto il suo nome sotto uno dei sedili. - Veramente l'ha lasciato scritto dappertutto, in questa galera. Fammi controllare. Scivolai per terra e mi rotolai sulla schiena per guardare. Il graffito del nome non lo vidi, ma vidi il modo in cui era amministrata la morte: tecnologia elementare, una leva con un gancio dal quale pendeva un sacchetto di garza pieno di pasticche di cianuro. Quando si manovrava la leva, il sacchetto si tuffava in un secchio di acido solforico. Il contatto sprigionava il gas. Il fondo del sedile era forato per agevolare l'ascesa del gas. Sollevai la testa. Quel pensare agli odori mi rinfrescò la memoria. - E il mio arnese per il buco? Dov'è finito? - L'ho nascosto laggiù. Quando usciamo… - Spero che tu l'abbia lavato, e che non puzzi -. Lo stavo prendendo in giro. Faceva parte del rapporto tra Willy e me. Se mi fossi comportato diversamente, avrebbe pensato che c'era qualcosa sotto. - È pulito… e ah, ho un regalo per te, amico. Da un taschino della camicia estrasse una scatola di fiammiferi. Dentro c'era uno spinello, con le due estremità che spuntavano fuori. - Be', che aspetti ad accenderlo? Detto fatto. Ci sedemmo uno di fianco all'altro, nella camera a gas, passandoci e ripassandoci lo spinello. Era erba buona, e ci sballammo il giusto, ridacchiando e raccontandoci le nostre storielle, finché non sentimmo la chiave girare nella serratura della porta esterna. Scattammo in piedi, e assumemmo un'aria indaffarata. Willy sbatacchiava lo spazzolone mentre io passavo uno straccio sulle seggiole dei testimoni. Mi domandai quanti di loro si erano pisciati nei calzoni quando il cianuro era caduto nel catino, ritrovandosi faccia a faccia, incrociando gli sguardi, con l'uomo agonizzante. La guardia non fece caso alla qualità delle pulizie, ma fiutò in giro, dicendo: - Che è quest'odore? - Io non sento niente, - rispose Willy. - Tu senti qualcosa, Legend? - Hai messo il Pine Sol nel secchio dell'acqua, no? Willy scrollò il capo. - No… solo un po' d'ammoniaca. - Si fa così. La guardia intuì che lo stavamo prendendo in giro, senza capire esattamente a proposito di cosa, né perché; non aveva riconosciuto l'odore. - Andiamo, - disse, e ordinò a Willy di portare il materiale. - Il tenente vuole vederti immediatamente, - mi disse. Uscii con un sorriso sulle labbra. Mentre io e Willy eravamo occupati a pulire la camera delle esecuzioni, il tenente Ziemer interrogava i detenuti alloggiati nelle celle vicine al luogo in cui era avvenuto l'incidente. Aveva scoperto pochissimo, ma era comunque obbligato a stilare un rapporto. Era lavoro mio. Tutti i rapporti sugli incidenti avevano la stessa forma: - Approssimativamente…, il giorno…, durante il mio turno di servizio in qualità di…, ho notato, mi è stato riferito… eccetera. Era molto rituale, e lo conoscevo a menadito: "La vittima, Robinson, Booooo, ha riportato tre ferite penetranti, inflitte da uno strumento sconosciuto, sulla parte superiore destra del petto (confer referto medico). Il soggetto dichiara di essere stato aggredito da un messicano di identità sconosciuta. Va tenuto in debito conto che Robinson è stato recentemente trasferito in questo istituto in seguito a numerosi rapporti disciplinari alla California Men's Colony. Va tenuto in debito conto che il soggetto in questione manifesta un comportamento ostile. Il firmatario del suddetto rapporto lo ha assegnato all'isolamento amministrativo, in attesa dell'inchiesta sull'incidente e sugli esiti da essa prodotti." Il tenente Ziemer lesse il rapporto e lo firmò. - Cazzo, scrivo un sacco di rapporti, - disse sgranando gli occhi, la bocca aperta, simulando una sorta di ingenuità. - Big Red Nelson si è felicitato con me, nell'ultima riunione del personale. Mi ha chiesto come te la passavi. - Vado al blocco, - dissi. - Sempre che lei non abbia bisogno di me. - Ricapita intorno alle undici. Gli agenti assegnati al Blocco Est avranno dei rapporti da scrivere. - Ci sarò, capo. Quando raggiunsi il cortile, dove la squadra delle pulizie aveva terminato il suo lavoro e rimetteva a posto gli attrezzi, Danny Trejo conosceva le notizie vere relative all'accoltellamento del Blocco Est. La lite era incominciata nell'edificio della Sezione Educativa, dove il chicano e il nero frequentavano entrambi un corso di alfabetizzazione, il che significava che l'esito delle loro prove era inferiore al livello del corso elementare e che stavano imparando a leggere. Si erano scambiati degli sguardi, per un motivo o per l'altro, sguardi che si erano trasformati in espressione beffarda e poi in parole: - Allora? - Allora che? - A quel punto era suonata la campanella che segnava la fine della lezione. I due uomini vivevano in un mondo in cui era impossibile concepire, e tanto più esprimere, l'insensatezza di un assassinio scatenato da un incrociarsi di sguardi ostili e niente di più. Quando si diffuse la voce per cui i due implicati nell'accoltellamento erano un chicano e un nero, la maggioranza dei bianchi si rilassò, felice di non essere coinvolta. Alcuni neri particolarmente militanti progettavano una rappresaglia. Per quel che li riguardava, un fratello era stato accoltellato, e nient'altro contava. I chicanos prevedevano che sarebbero insorti dei guai, e si tenevano pronti. I detenuti neri addetti ai ballatoi distribuirono i coltelli tirati fuori dai materassi e dai ventilatori. I chicanos fecero altrettanto. In realtà furono una dozzina per ciascuna fazione ad armarsi. Servendosi di nastro adesivo fissarono dei grossi coltelli, affilati grossolanamente, ma mortali, sugli avambracci, in modo da poterli sfilare dalla manica con uno strattone. Oppure fecero un buco sul fondo della tasca anteriore dei pantaloni in modo da mantenere la lama contro la coscia, la mano sul manico del coltello, invisibile nella tasca; così potevano estrarlo in un batter d'occhio. Come nell'Ovest selvaggio, la prontezza con cui si estraeva l'arma spesso decideva chi restava in vita e chi ci rimetteva la pelle. Il penitenziario dormiva, inconsapevole che la miccia della rabbia nera contro l'uomo bianco era stata accesa. Nessuno avrebbe potuto immaginare con quanta violenza avrebbe bruciato il fuoco di quell'inferno. Né per quanto tempo avrebbe bruciato. Due giganteschi refettori sfamavano i detenuti di San Quentin. Il più grande dei due, il Refettorio Sud, era diviso in quattro sezioni ed era affrescato con scene della storia della California. Dava l'idea di una mensa liceale piuttosto che di un luogo destinato alla sussistenza di ladri, stupratori e assassini, drogati e pederasti. Due refettori non bastavano a contenere tutti i detenuti simultaneamente, così il vitto veniva servito a turni. I detenuti dei Blocchi Nord e Ovest facevano colazione per primi. Dopo il pasto, potevano uscire nel cortile o tornare nel loro blocco fino all'appello per il lavoro delle otto. Alle sette e trenta gli ultimi occupanti dei Blocchi Est e Sud si trovavano abitualmente nei refettori. I primi a lasciare le celle, come regola generale, si recavano già nel cortile. Io non mi alzavo mai per la colazione, ma quel mattino Veto Tewksbury (un chicano della San Fernando Valley, nonostante il suo nome, che gli veniva da un signorotto inglese un tempo proprietario di migliaia di ettari in Arizona) allungò le braccia attraverso le sbarre e mi scosse il piede. - Alzati, amico. Volerà un bel po' di merda, oggi, in cortile. Mi alzai in piedi e guardai attraverso le sbarre del blocco in direzione del Grande Cortile. Senza dubbio la segregazione tra le razze era più marcata del solito. Come sempre i neri si erano radunati lungo il Blocco Nord, proprio sotto la mia finestra, ma contrariamente alle loro abitudini, non scherzavano, né ridevano, né chiacchieravano, quel mattino: erano taciturni e silenziosi. La linea di separazione tra le razze era stretta, con alcune sovrapposizioni, senza che nessuno prestasse veramente attenzione agli imperativi territoriali, ma quel mattino la banda di divisione era larga una trentina di metri. Circa trecento neri fissavano con sguardi minacciosi due gruppi di messicani; un centinaio di questi ultimi si erano parzialmente radunati sotto la tettoia sul fianco destro dei neri, un altro centinaio fronteggiavano direttamente i neri sull'asfalto vuoto. Dietro i chicanos, per sostenerli, si era appostata una dozzina di giovani nazisti e una ventina di Hell's Angels. Qua e là, sparsi tra i chicanos, si vedevano dieci o quindici bianchi, pronti a sostenere i loro amici provenienti dallo stesso quartiere o i loro compagni più stretti. Un gruppo di bianchi, mettendosi bene in vista, era salito in piedi su delle panche lungo la parete del Blocco Est. Nel corso dell'ultima guerra razziale bianchi contro neri, erano stati loro ad avere la più grossa responsabilità degli scontri, e avevano commesso altri omicidi e aggressioni cruente. Dei bianchi, era la cricca più forte, ma il numero dei suoi effettivi in seno alla popolazione penitenziaria si era assottigliato, perché le autorità li avevano reclusi in isolamento o li avevano trasferiti altrove. Erano dei violenti, ma non particolarmente razzisti; con ciò intendo dire che non avrebbero scatenato una guerra razziale. Ma nelle loro fila contavano persone come me che avevano dei compagni chicanos i quali ci avevano sostenuto a suo tempo in uno scontro con una numerosa banda di messicani, che in seguito sarebbe diventata La Nuestra Familia, nemica mortale della mafia messicana, alias La Eme. Nel sudovest, in particolare nella California del Sud, ma anche in Arizona, nel New Mexico e in una parte del Texas, era meglio avere per nemico Cosa Nostra che La Eme. In quel mattino particolare, tuttavia, queste bande erano ancora soltanto degli embrioni senza nome. Gli agenti di sorveglianza si resero conto della situazione esplosiva nei cortili: molti erano armati di carabine, e un sergente fanatico di culturismo aveva una mitraglietta Thompson, un'anticaglia sempre efficace. Erano tutti allineati sulla passerella all'esterno del muro del Blocco Nord. Facile dire che quasi tutte le canne erano puntate sui neri (non erano i bianchi, o i chicanos ad aver ucciso tante guardie nell'anno appena trascorso). Una guardia nera, tuttavia, teneva sotto tiro le file dei messicani. Tale era la situazione razziale a San Quentin. Ero disgustato da tutto quel furore nato dall'ignoranza. Andava oltre il razzismo, l'orgoglio razziale, e anche la rivoluzione. Era una cosa degna delle guerre tribali nella giungla della Nuova Guinea, con tanto di caccia alle teste. Malgrado la follia della situazione, non potevo ignorarla. Troppi erano stati i bianchi, all'epoca ancora la maggioranza, che avevano adottato questa tattica. Una tattica che di fatto incitava all'aggressione. Gli atteggiamenti delle fazioni schierate sulle loro posizioni si protrassero per altri dieci minuti, mentre i refettori finivano di rigurgitare i prigionieri nel cortile. I ranghi si gonfiarono. I tiratori che sorvegliavano la situazione dall'alto delle loro postazioni prevedevano una sommossa vera e propria, ma la tensione raggiunse un'intensità insostenibile. Dai limiti laterali dei due schieramenti uscirono un nero e un chicano. Il nero, un bell'uomo di pelle chiara, era un pugile professionista: era così dotato che nessuno, a meno di non pesare venti chili di più, voleva misurarsi con lui. Cantava il mantra di Ali, danzando come una farfalla, prima di pungere come un'ape. Era un tossico, e se ne fregava della segregazione tra le razze, pur di soddisfare la sua dipendenza. Non aveva fama di essere un militante, anche se alcuni lo sospettavano di sobillare gli animi sottobanco. Non credo che odiasse i bianchi, ma era un nero fiero di esserlo e, come me, quando le linee erano segnate, raggiungeva le sue. Nessuno poteva biasimarlo. Il chicano, che era appena tornato a San Quentin per scontare una pena per omicidio, voleva essere un «capo» nel firmamento di San Quentin, e aveva raccolto intorno a sé una banda di una dozzina di galeotti, che adesso si erano appostati col grosso della truppa sotto la tettoia. Quando i due uomini arrivarono al centro dell'asfalto vuoto, il pugile nero fece cenno alla massa dei suoi compagni di colore. Due di loro avanzarono, entrambi alti e con un passo da militare; uno aveva il cranio rasato e cosparso di olio come il mio. Riluceva sotto il sole del mattino. Era influente tra i neri mussulmani. L'altro portava dei minuscoli occhiali alla Benjamin Franklin, e aveva una capigliatura afro cespugliosa, lo stile preferito dai neri dell'epoca. Il quartetto si strinse in cerchio. I neri parlavano gesticolando, tesi, accusatori, e pieni di collera. A sua volta il chicano prese la parola, e la conversazione proseguì mentre si apriva il cancello del cortile e risuonava la sirena che annunciava l'appello per il lavoro della mattina. La metà dei detenuti in cortile uscì, ben felice di evitare eventuali problemi. I guerrieri dei due schieramenti contrapposti restarono sul posto. Altrettanto fecero i tiratori che seguivano l'evolversi degli eventi dalla passerella sopraelevata. Lasciarono che il convegno tra i quattro andasse avanti, perché avrebbe potuto risolvere la controversia senza un nuovo bagno di sangue. La piccola adunanza si sciolse. Il pugile nero strinse la mano dei due militanti, e il messicano tornò verso i membri della sua fazione che lo stavano aspettando. Disse qualcosa e fece un gesto in direzione del cancello, trascinando la cricca fuori dal cortile. I portavoce neri tornarono verso il loro schieramento. Una dozzina di guerrieri neri si fecero loro intorno e ascoltarono ciò che avevano da dire. Riecheggiarono gli altoparlanti, dando l'ordine di sgombrare il cortile. T.D. e Bulldog scesero dalla panca lungo il muro e mi passarono accanto. T.D. mostrò un blocchetto di biglietti dello spaccio. - Offro io il festino -. (Voleva dire le vaschette di gelato da mezzo chilo che sarebbero state distribuite e che avremmo mangiato servendoci delle tessere d'identità, che erano perfette per tuffarcele dentro). - Non succederà nulla. - E tutti sono contenti, - disse un'altra voce. Al che mi dissi: «Non so com'è per gli altri, ma io sono sicuramente contento, cazzo». Gli schieramenti si dissolsero, lasciando soltanto singoli individui e piccoli gruppi che si dirigevano verso le loro rispettive destinazioni. Nel giro di qualche minuto il cortile praticamente si svuotò; rimasero alcuni lavoratori dei servizi notturni e il nostro gruppo che faceva cerchio. I gabbiani e i piccioni che avevano intravisto la loro occasione scesero. T.D. mi allungò una scatola aperta di gelato. Avevo già in mano la mia tessera d'identità. - Ero pronto a spassarmela, - disse T.D. passando un avambraccio carnoso sulla spalla di Veto Rodriguez. Nessuno avrebbe fatto del male a Mulo. Veto talvolta veniva chiamato Mulo per via del suo grosso pene, e non aveva proprio bisogno di aiuto per evitare che qualcuno gli facesse del male. - Vorrei proprio sapere che cosa si sono detti, quelli, - fece Paul. - Credi che abbia chiesto scusa? - Questa domanda scatenò uno scoppio di risa, ma non seguirono altre ipotesi. Pensai: «Chi se ne importa?» Qualche giorno dopo si venne a sapere la verità: il capo della cricca messicana aveva sconfessato l'assalitore, col pretesto che il tizio era un nazista, e non un chicano, e di conseguenza lo scontro fisico tra neri e bruni fu evitato. Mentre la tensione saliva tra il Mex nazista (era effettivamente un ammiratore dei nazisti, in particolare delle uniformi nere delle S.s., ma siccome era un analfabeta, che poteva saperne?) e il nero, un altro incendio covava altrove. Due motociclisti di pelle bianca piuttosto corpulenti avevano truffato un nero pagandogli venti dosi d'eroina con un biglietto falso da cento dollari. La moglie di uno dei motociclisti aveva passato di nascosto al marito parecchi biglietti falsi durante un loro incontro nel parlatorio. Il nero, per parte sua, aveva consegnato una di queste banconote false a sua moglie, per comprare più eroina. Lei aveva portato i bambini a Disneyland, e il cassiere di una biglietteria aveva riconosciuto la banconota fasulla. La moglie del nero era stata condotta al posto di polizia, e i bambini le erano stati portati via. La donna aveva la fedina penale pulita ed era in possesso di un solo biglietto falso, per cui il procuratore aveva deciso di non rinviarla a giudizio. Ma era furiosa scatenata, cosa peraltro comprensibile. Comunicò al suo uomo che non gli avrebbe più portato la droga in prigione. Il nero uscì fuori dai gangheri al solo pensiero di essere stato fregato da un paio di «bianchi sporchi puzzolenti pieni di tatuaggi in sella a una moto…» Un'ora dopo lo scontro sventato nel Grande Cortile, il nero truffato e parecchi suoi amici beccarono i due motociclisti in fondo al Blocco di celle Sud e cominciarono a sventolare i coltelli. I due bianchi, entrambi giovani e robusti, riuscirono a difendersi senza farsi ammazzare, ma finirono all'ospedale tutti tagliuzzati. Parecchi membri della cricca bianca dominante avrebbero in seguito fondato la Fraternità Ariana. Loro sapevano della truffa all'origine dell'accoltellamento, e decisero di non immischiarsi. - Se si ritrovano nella merda, è colpa loro, - osservò Bulldog. - Che si aspettavano del resto? Dargli la fregatura e passarla liscia? Che cazzata! - Sottolineò la sua osservazione con un pollice verso, e questo mise fine alla discussione. Aveva una grossa influenza sulla cricca. Molta più di me. Poiché ero tenuto a lavorare dalle quattro a mezzanotte, le mie giornate erano libere. Era raro che andassi a pranzo, ma nell'ora in cui veniva servito preferivo spesso la mia cella al cortile affollato. E in quel momento che battevo a macchina ciò che avevo scritto, con la matita numero 2, la notte precedente, alla luce di una torcia elettrica che avevo rubato e della quale a nessuno era importato nulla. Quel giorno, però, Paul Allen mi voleva come spalla in una partita di poker che aveva in mano lui. Come potevo rifiutare? Non avevamo idea che l'accoltellamento della sera precedente, aggravato da quello della mattinata di oggi, aveva scatenato una vera e propria guerra. Gli uomini che vivevano nel Blocco di celle Nord potevano andare e venire come desideravano, a ogni ora. Un addetto ai ballatoi aveva le chiavi delle celle del piano. Apriva il cancello quando glielo chiedevano. Aspettando i giocatori di poker prima di condurli nella sala della caldaia, dove si sarebbe svolta la partita, cercai di capire le tensioni che regnavano nel cortile. Erano più intense del solito, ma molto meno che nelle prime ore della mattinata. Le considerai un effetto residuo dello scompiglio che si era verificato, perché la maggioranza dei detenuti non aveva alcuna idea di ciò che accadeva in queste circostanze. Poi comparvero delle guardie da diverse direzioni e si diressero verso il Blocco Nord. Era successo qualcosa nel blocco di celle o nel Braccio della Morte. Tutto si fermò, nel cortile, tranne i gabbiani che volteggiavano in alto. Tutti gli sguardi puntarono verso la porta del blocco di celle. Qualche istante dopo, quattro detenuti bianchi ne uscirono precipitosamente, trasportando un uomo su una barella. Due guardie li affiancavano a passo di corsa. Il corteo attraversò il cortile in diagonale verso l'entrata del Blocco Sud e l'ospedale situato dietro, e due amici dell'uomo uscirono dalla folla per scortarlo, anche loro di corsa. Le guardie fecero loro segno di allontanarsi. Furono ignorate. Vidi l'uomo sulla barella. Parlava e gesticolava. Quando la barella raggiunse l'estremità dell'edificio, il limite invalicabile per i suoi compagni, costoro tornarono indietro. Il cortile era immerso nel silenzio. Tremila paia d'occhi non si perdevano una mossa. Il detenuto, che io non conoscevo, allargò le braccia urlando: - Dannati negri fottuti! - Non penso proprio che oggi giocheremo a poker, - osservò Paul. Avvertii un malessere al cavo dello stomaco, un malessere che si diffuse in tutto il corpo. Quanto accadeva era assolutamente insensato. Più tardi, quando mi convocarono per dattiloscrivere i rapporti, le mie inquietudini si trasformarono in indignazione. Il ferito sarebbe sopravvissuto con qualche cicatrice e l'uso menomato della mano destra, perché aveva avuto mozzato di netto un tendine mentre cercava di parare un colpo di coltello. Era in prigione per ricettazione di merce rubata e lavorava alla fabbrica di mobili. Non aveva mai commesso un'infrazione al regolamento, ed era già stato ricoverato in ospedale. Stava facendo un sonnellino nella sua cella, il cancello aperto. Perché no? Non aveva nemici. Un nero era entrato e l'aveva accoltellato, mentre un altro nero faceva da sentinella all'ingresso. Non aveva alcuna idea della loro identità, e loro non lo conoscevano. Era stato scelto perché era bianco e dormiva. Avrei potuto esserci io al suo posto, anche se è poco probabile che io mi facessi un sonnellino col cancello della cella aperto. C'è da dire che l'addetto al ballatoio, anche lui nero, avrebbe sempre potuto aprirlo, se glielo avessero chiesto. Un'altra voce gridò: - Negri labbroni figli di puttana! - Vai a farti fottere, bifolco di un bianco! - contraccambiò un detenuto tra la folla dei neri. Sulla passerella sovrastante comparve una guardia con un secchio contenente granate lacrimogene e un lanciabombe a canne corte. Alle sue spalle, sudando e ansimando per lo sforzo, sopraggiunsero un paio di guardie armate di carabine. I detenuti di sotto, neri e bianchi, erano perplessi. I loro «capi» non li avevano informati di nulla. Non sapevano che pesci prendere. La sirena annunciò l'appello al lavoro del pomeriggio, e i detenuti, come vacche da latte obbedienti, incominciarono a muoversi lentamente verso i loro posti rispettivi. Tornai in cella per seguitare a leggere una biografia di Alessandro Magno. Mai nella storia nessuno meritò più questo appellativo del re guerriero macedone. Lessi i particolari della vittoria riportata su Dario e i Persiani, dell'incendio di Persepoli, e della fondazione della prima grande biblioteca al mondo, la Biblioteca di Alessandria, ad opera di Tolomeo, generale di Alessandro, i cui discendenti regnarono sull'Egitto fino all'epoca di Cleopatra. Una volta, mentre mi trovavo in isolamento da qualche parte, avevo avuto un battibecco con un nero mezzo analfabeta che affermava che Cleopatra era «una regina nera africana dalla pelle d'ebano». Venimmo quasi alle mani quando ribattei che Cleopatra sarà pure stata nera, ma che nessuno storico degno di questo nome contesta il fatto che fosse di discendenza greca, ed era un fatto fuori discussione. A quel punto il tizio mi sparò il suo vetriolo "ad hominem": - I diavoli bianchi rubano la storia dell'uomo nero -. Non sapevo nulla della strepitosa marcia di Alessandro attraverso il Kush e il Passo di Khyber, quando conquistò tutti coloro che si opponevano alla sua avanzata e macchiò la sua immagine dorata con quelli che oggi chiameremmo «crimini di guerra». La sua volontà era indomabile, ed era spesso vittorioso, semplicemente perché era determinato ad esserlo. Alla mia età aveva già conquistato il mondo ed era al contempo morto e immortale, mentre io ero un fuorilegge, una reietto della società che scontava una pena in un penitenziario di pietra grigia. Ero nato nell'epoca sbagliata, e nelle circostanze sbagliate. Verso le quattordici e trenta ero passato alle "Riflessioni sulla pena di morte" di Camus, forse il saggio più meditato, e certamente quello più splendidamente scritto, sulla pena capitale. Mi alzai per sciogliermi la schiena e urinare. Quando distolsi la testa dalla tazza del gabinetto, vidi il cortile dalle finestre. I detenuti avanzavano in massa verso il blocco di celle. Non erano disposti in fila. Mancava ancora un'ora e mezza alla normale chiusura per l'appello. Stava ancora succedendo qualcosa, e io sapevo che si trattava di uno scontro razziale. Si era verificato un altro incidente? Nel minuto che segui sentii i primi uomini varcare la porta della rotonda e risalire a passi pesanti la scala che conduceva ai ballatoi. Alcuni passarono davanti alla mia cella, ma con passo troppo veloce perché potessi fermarli e chiedere qualcosa. Comparve Billy Michaels. Era alto e biondo, un bell'uomo, ma tossico fino al midollo, quel che si dice un «tossico da morire», essendo uno che desidera molto più che semplicemente sentirsi bene: a costui piace bucarsi finché il mento non gli affonda nel petto, e perde ogni consapevolezza del mondo esterno. Prima che potessi domandargli cosa stava accadendo, Billy Michaels disse: - Prestami il tuo attrezzo per il buco. - Hai della roba? - Io no, ma Chente è appena tornato dal parlatorio. La moglie gli ha portato un assaggio. Due grammi. Non può tornare al lavoro perché stanno facendo la chiusura in cella. Posso beccare anch'io se gli rimedio con che bucarsi. - Non ce l'ho qui. - Merda! I ballatoi si riempirono rapidamente. Una voce all'altoparlante ordinò a tutti i detenuti di dirigersi verso le loro destinazioni per l'appello principale. La chiamata riguardava anche me. - Posso andare a prenderlo e portarlo dopo l'appello. - Oh, amico, mi piacerebbe proprio. - Non direi mai di no, quando c'è da farsi una pera. - Oh, amico! Ce n'è soltanto un grammo o due. - Be', due ce ne vengono, non è difficile… se vuole sballarsi stasera. - Glielo dirò. - Perché chiudono per l'appello? - Non lo so. Forse per tutte queste stronzate tra le razze. - È successo qualcos'altro? - Non ho sentito dire niente. Tagliavo i capelli al pianterreno. Suonò la campanella del blocco. Le sbarre di sicurezza si alzarono per lasciare entrare i detenuti. Uscii su un ballatoio vuoto, nel fragore dei cancelli che si chiudevano, con l'immancabile ritardatario che si affrettava a passo di corsa per raggiungere la sua cella prima di ritrovarsi chiuso all'esterno. Mancare a un appello non era un'infrazione alla disciplina, ma parecchie assenze potevano costituirne una. Erano sempre gli stessi, i detenuti che mancavano all'appello. Varcai il cancello del cortile quando vidi due gruppi di guardie che incalzavano una coppia di detenuti neri verso la Sezione B. Non conoscevo nessuno dei due di nome, ma uno aveva frequentato la biblioteca di giurisprudenza di Folsom all'epoca in cui ero impiegato lì. Tentava di trovare un errore nella procedura della sua estradizione. Quelli dell'F.b.i. l'avevano sequestrato mentre si trovava in Messico per portarlo di qua dal confine. Sapendo appena leggere, faceva parte di quel folto gruppo di detenuti che sembrano credere che se trovi la giurisprudenza giusta, e si ripetono le citazioni giuste come una sorta di salmodia magica, i cancelli della prigione si aprano come per incanto. Avevo cercato di spiegargli l'essenziale della legge: la Corte Suprema aveva dichiarato che il modo in cui l'avevano portato in tribunale importava poco; l'autorità della corte non sarebbe stata contestata. Non gradì il mio chiarimento. - O.k., o.k., come non detto. Cercavo solo di aiutarti, - ricordo di avergli detto. La sua risposta, intrisa di veleno, fu: Nessun uomo bianco ha mai aiutato un uomo nero -. Il che non lasciava spazio ad alcuna replica, allora come ora. Era stato «fanonizzato», anche se non aveva mai sentito parlare di Franz Fanon. Mi guardò con un sogghigno, passandomi accanto. Niente cambierà mai, sogghignai per tutta risposta, ma dentro di me provai un dolore funebre. Era stato un triste, triste giorno. Quando arrivai all'Ufficio del Cortile, scoprii ciò che era accaduto. Un detenuto bianco di cinquant'anni in procinto di essere trasferito, aveva voluto salutare un professore. La classe si trovava in cima a una scala in un locale annesso all'edificio scolastico. Tre neri aspettavano nell'ombra del pianerottolo per sorprendere il primo bianco che sarebbe comparso. Capitò che fosse proprio il bianco destinato al trasferimento. Gli aggressori uscirono dall'ombra quando l'uomo si trovava sulla rampa superiore prima del pianerottolo, e tanta fu la sorpresa che precipitò giù per le scale. Il professore si trovava in aula e, udito il fracasso, andò alla porta. L'aprì e vide gli aggressori che si dileguavano giù per le scale. La vittima potenziale urlò. Il professore lanciò l'allarme con il fischietto. Alcune guardie che si trovavano nei paraggi sopraggiunsero a passo di corsa, e riuscirono a catturare due dei neri che stavano scappando. Mentre li portavano via, uno di loro gridò: - Potere al popolo! - Il detenuto bianco cinquantenne si slogò una caviglia. Bastò questa aggressione abortita per far scattare l'ordine di chiusura nel penitenziario. I detenuti vennero rispediti nei loro blocchi. Sui ballatoi la paranoia era al culmine, perché in quello spazio stretto era impossibile sapere quando, e se, i lunghi coltelli sarebbero usciti fuori. Gli uomini senza amici, quelli che cercavano di scontare tranquillamente la loro pena e di uscire di prigione, erano nella posizione più pericolosa. Erano senza alleati. I bianchi erano indignati e avevano paura. I neri esultavano, ma avevano ugualmente paura, e aspettarono di essere rinchiusi nelle loro celle, che garantivano la copertura dell'anonimato, per urlare la loro soddisfazione. Quella notte, guardie e personale amministrativo iniziarono una perquisizione del penitenziario che si protrasse per giorni e giorni, e portò al ritrovamento di centinaia di armi. I blocchi di celle vennero setacciati per primi. I membri del personale amministrativo si distribuirono senza preavviso sul quinto ballatoio, in modo da presidiare in due l'ingresso di ciascuna cella. Erano coperti da dei tiratori appostati alle loro spalle. Le sbarre di sicurezza si alzarono, e gli occupanti ricevettero l'ordine di spogliarsi, restando in mutande e canottiera, e uscire sul ballatoio. Non appena i detenuti capirono ciò che stava accadendo, i coltelli, lanciati attraverso le sbarre, cominciarono a piovere sul primo ballatoio, alzando un rumore metallico via via che toccavano terra. In realtà, non è che fosse proprio necessario sbarazzarsi delle armi, perché gli incaricati della perquisizione non erano al meglio della forma fisica, abituati com'erano a tenere il culo incollato alla seggiola. Prima di aver finito di perquisire due celle, erano già col fiato corto, incapaci di fare tanto di più che sollevare alla bell'e meglio il materasso. Molti si limitarono a entrare nelle celle e mettersi a sedere. Su ogni ballatoio, dietro le celle, c'era un passaggio stretto di servizio, dove si trovavano i condotti di alimentazione dell'acqua e dell'elettricità. I detenuti elettricisti e idraulici avevano accesso a questi corridoi. Le guardie rinvennero una trentina di coltelli e tre accette usate per la copertura dei tetti nei passaggi del Blocco di celle Est. L'arsenale apparteneva a bianchi e chicanos, nella misura in cui l'idraulico era un bianco e l'elettricista un chicano. Gli unici detenuti a trovarsi fuori delle loro celle erano quelli assegnati ai lavori essenziali: due segretari dell'Ufficio del Capitano, gli addetti in servizio all'ospedale, gli incaricati della vigilanza antincendio, l'ultima squadra di pulizie delle cucine, e io. Praticamente io potevo muovermi ovunque volessi all'interno della cinta muraria di San Quentin fino a mezzanotte. Mi diressi verso il Blocco di celle Sud. Era, a San Quentin, l'equivalente della «via della perdizione». Il più vecchio di tutti, era diviso in quattro sezioni, una delle quali, la famigerata Sezione B, era l'unità di segregazione a lungo termine. Il resto del blocco era tranquillo, ma la Sezione B restava una vera e propria cacofonia fino all'alba; poi i suoi occupanti dormivano durante il giorno, alzandosi soltanto per i pasti e per l'ora d'aria nel cortile. Molti di quelli reclusi lì vi erano finiti in seguito all'ultima guerra razziale. Di questa non ricordo molti particolari, ma dopo un ciclo infernale di accoltellamenti e rappresaglie, nuovi accoltellamenti e nuove rappresaglie, i militanti bianchi avevano messo a punto un piano. Ogni membro di un gruppo di molti detenuti veramente violenti, ne avrebbe portati con sé due, tre o quattro in diversi posti, ovvero la biblioteca, l'edificio scolastico, o altri. Al fischio delle tredici, che annunciava la ripresa del lavoro pomeridiano, ogni squadra avrebbe aggredito e ammazzato tutti i neri che si trovavano nei paraggi. Alle dodici e quarantacinque, si scatenò una rissa a suon di pugni nel cortile dell'ora d'aria dell'unità di segregazione. L'agente armato sulla passerella sopraelevata fischiò (nessuna reazione), poi sparò il colpo di intimazione regolamentare. Lo sparo mise fine alla rissa, ma il colpo d'arma da fuoco risuonò in tutto il penitenziario. I detenuti bianchi che aspettavano nel cortile inferiore credettero che fosse stato lanciato il segnale dell'attacco generale. Estrassero le armi e caricarono un gruppo di neri disarmati, i quali, avendo finito di mangiare, si trovavano al cancello d'ingresso dei laboratori in attesa di riprendere il lavoro. Disarmati e colti di sorpresa, i detenuti si diedero alla fuga, cercando di salvarsi la pelle. Due ritardatari, due anziani dai capelli grigi, non compresero in tempo il pericolo mortale. Provarono a correre, ma il branco di lupi riuscì ad accerchiarli. Il capobranco saltò sulla schiena di uno dei due uomini. Costui cadde a terra, sparendo sotto una mezza dozzina di assalitori, mentre brillavano al sole le lame rosse che si levavano prima di ricadere sulla vittima. Il secondo vecchio riuscì a raggiungere la recinzione metallica che circondava l'area del giardiniere. I suoi inseguitori lo strapparono da lì e piombarono su di lui con la furia di una muta di cani selvatici. Il referto medico dichiarò che ricevette perlomeno quarantadue ferite, che avrebbero potuto causargli la morte. In seguito a quell'episodio San Quentin restò in regime di segregazione in cella per due mesi. Ogni giorno partivano autobus di detenuti alla volta di Folsom, Soledad e Tracy. Un paio di prigionieri, ritenuti più pazzoidi degli altri, furono spediti al California Medical Facility, il centro medico di Vacaville, dove furono sottoposti al trattamento di elettroshock. La terapia eliminò in loro ogni forma di aggressività, ma anche qualche punto di Q.i., che questi detenuti non potevano permettersi il lusso di perdere. Il regime di segregazione in cella si protrasse. La fazione dei bianchi e i loro fiancheggiatori chicanos riuscirono a scambiarsi qualche comunicazione col tam tam. Le parole erano: - Aspettate… aspettate… aspettate… - Erano stati presi totalmente alla sprovvista dalla seconda serie di attacchi. Non avevano alcuna idea che si trattasse di una ritorsione, la quale faceva seguito all'accoltellamento del nero nel Blocco Est. Ne era responsabile un chicano. E se costui era anche un fanatico delle S.s. di Hitler, cosa si poteva fare? Il mercoledì e il giovedì successivi passarono senza che succedesse nulla. Il regime di segregazione in cella era troppo severo. Ogni detenuto che lasciava la cella veniva perquisito parecchie volte. Anch'io ero stato perquisito da un secondino di primo pelo. Il fine settimana, l'Unità d'Onore Ovest riprese il suo orario normale. Qualche altro lavorante supplementare venne fatto uscire dalle file della colazione. Il vicedirettore convocò parecchi detenuti nel suo ufficio. Voleva avere il polso della situazione all'interno del penitenziario. Quel vicedirettore, però, non era per niente amato, e inoltre non aveva contatti con i detenuti giusti. Quelli da lui convocati non avevano prestigio o autorevolezza nel cortile. Nominò un comitato di detenuti per «pacificare» la situazione, ma i membri del suddetto comitato non erano rispettati dai loro pari. I neri, in particolare, non avevano alcun potere. Il fatto stesso che accettassero di parlare col «porco in capo» li tagliava fuori dai loro fratelli. Un amministratore nero convocò me e altri tre bianchi considerati «capi». Voleva avere la garanzia che non sarebbero più accaduti episodi del genere. Gli spiegai che non ero a capo di niente, né ero il portavoce di nessuno. Due altri restarono in silenzio, a testa bassa. Il terzo arrossì e balbettò: - Hanno quasi accoppato cinque o sei bianchi… vecchi e poveracci, da soli, che non avevano fatto male a nessuno. Tra un po' vorranno che ci strappiamo le sopracciglia e ci infiliamo un paio di mutandine nere. Per me… non prometto niente -. Non si risolse nulla. Il piano per tornare alla normalità consisteva nella possibilità di guadagnare gradualmente il massimo consenso. I nazisti e gli Hell's Angels si defilarono dal fronte delle ostilità, dichiarando che nessuno dei loro fratelli era stato toccato, e che si sarebbero tenuti in disparte finché non fosse accaduto. I neri non aspettarono la decisione dei bianchi. Proseguirono l'offensiva. Mi trovavo sul quinto ballatoio, davanti a una cella occupata da due miei amici, quando vidi due neri comparire all'angolo e svoltare sul ballatoio. Fortunatamente i miei amici avevano un'accetta, di quelle usate per la copertura dei tetti, nella loro cella. Me la passarono attraverso le sbarre. I neri la videro, si fermarono, e fecero dietro front. Non fu vigliaccheria: anche se mi avessero ammazzato, io avrei sicuramente inflitto loro delle ferite, e le ferite li avrebbero smascherati e fatti beccare. Sul quarto ballatoio, un altro bianco, un motociclista che stava contrattando l'acquisto di una dose di acido, si trovava davanti a una cella. Lavorava nel retrocucina del refettorio e aveva appena staccato. In effetti calzava ancora i pesanti scarponi di gomma del lavoro. La cella era situata a metà del ballatoio. Gli stessi neri di prima arrivarono alle sue spalle e si avvicinarono. Un terzo, che era sul ballatoio inferiore, salì per la scala sul davanti. Il bianco fu preso tra due fuochi. Li vide e avvertì il pericolo, perché indietreggiò contro la ringhiera, evitando di voltare loro le spalle. Se mi fossi trovato nella sua situazione, avrei scavalcato il ballatoio ben prima che loro arrivassero. Il bianco allargò le braccia e poggiò le mani sulla ringhiera, sporgendosi indietro per vedere di sotto. Tentava probabilmente di dissimulare ogni traccia di paura. Un detenuto intelligente, bianco o nero, sarebbe passato al livello superiore o inferiore senza esitazione. Quest'uomo probabilmente pensava che non ce l'avevano con lui; non aveva fatto niente a nessuno. Non aveva abbastanza paura per salvarsi la pelle. Il nero che sopraggiungeva da davanti fu il primo a piombargli addosso. A tre metri di distanza estrasse il coltello e si avventò contro di lui. Il bianco girò su se stesso per fronteggiarlo e levò in alto le mani per parare il colpo. La lama gli passò tra le mani e affondò nel suo petto. Un attimo dopo gli altri due sopraggiunsero dall'altra parte. Uno lo pugnalò alla schiena. Il più massiccio dei tre lo afferrò da dietro e lo ferì al braccio. Il primo nero lo pugnalò alla gola. La lama gli entrò al di sopra della clavicola, gli attraversò i polmoni e penetrò nel cuore. L'uomo seguitò a dibattersi, ma il sangue gli sgorgava dalla bocca, ed era già agonizzante. Il secondo nero seguitò a infliggere le sue coltellate. Non si udirono grida, solo rantoli e respiri ansimanti, e il suono orribile della carne squarciata. Specchi uscirono da dietro le sbarre lungo il ballatoio come tanti periscopi: i detenuti volevano vedere ciò che stava accadendo. I bianchi si misero a urlare e a scuotere le sbarre per far fuggire gli aggressori. Erano spettatori di un assassinio e incapaci di fare alcunché per fermarlo. Gli uomini sui ballatoi superiore e inferiore gridarono: - Che succede? - Quei negri che ammazzano un bastardo. - Vi accopperemo tutti, bianchi bastardi! - gridò una voce nera. Gli assassini si precipitarono giù per le scale in fondo, mentre una ventina di guardie arrivò correndo. Solo sei neri si trovavano fuori dalla loro cella. Furono tutti condotti all'Ufficio delle Detenzioni per l'inchiesta. Fu ritrovato un coltello insanguinato sotto una giacca di tela imbrattata di sangue in un bidone della spazzatura. Il coltello e la giacca non condussero all'identificazione di nessuno dei responsabili. L'indomani mattina, in seguito a parecchie telefonate da parte dell'ufficio locale della National Association for the Advancement of Colored People, il vicedirettore ordinò al capitano di rilasciare i sei neri per mancanza di prove a loro carico. Per contro dispose la segregazione in cella di parecchi amici della vittima, in base alla considerazione logica che costoro avrebbero potuto provare a ordire una vendetta. Prima che i neri venissero rilasciati, le guardie scoprirono tracce di sangue sulle scarpe di tre di loro; inoltre, i sei avevano reso dichiarazioni contraddittorie. Il vicedirettore annullò l'ordine di rilascio. Quel pomeriggio si diffuse la voce secondo la quale le guardie avrebbero deliberatamente girato la testa dall'altra parte, quando i bianchi avessero messo in atto la loro ritorsione. Il favoritismo esisteva da tempo, ma una licenza di uccidere pura e semplice era una novità. L'empia alleanza tra guardie e detenuti di razza bianca non era la manifestazione di un amore reciproco, ma di un odio condiviso. Fino a qualche anno prima, la maggioranza delle guardie trattava i detenuti su un piano di assoluta uguaglianza. Questa morte insensata agì da catalizzatore della follia. Anch'io, che mi immedesimavo nelle sofferenze dell'uomo nero in America, adesso ribollivo di odio razziale. Quando l'apertura delle celle per la cena iniziò lentamente, a turni di mezzo ballatoio alla volta, sulle facce si leggeva lo stato delle cose. I detenuti bianchi erano cupi e silenziosi; i neri ridevano e scherzavano. Quando venne aperto il quinto ballatoio del Blocco Est, si sentirono all'improvviso i fischietti. Alcune guardie salirono per le scale di corsa. Trovarono due neri nella loro cella: giacevano a terra in una pozza di sangue. Uno dei due, gravemente ferito, era tuttavia riuscito a uscire sulle sue gambe. L'altro era steso sul pavimento, metà del corpo sotto la brandina, e vomitava un fiotto di sangue a ogni respiro. Era segno di un polmone perforato. Una guardia armata sulla passerella teneva quattro bianchi sotto tiro, e dei neri sul ballatoio li indicavano col dito. La maggioranza delle guardie si disinteressarono dell'inchiesta aperta sull'accaduto. Le due vittime sopravvissero. Dichiararono che due bianchi erano entrati correndo nelle loro celle e che avevano preso a colpirli con i coltelli nel momento in cui le sbarre di sicurezza si erano alzate, mentre altri due bianchi tenevano il resto dei prigionieri a distanza sul ballatoio. Tra i neri, alle risate divertite subentrò il silenzio. Settantadue ore trascorsero senza incidenti, a eccezione di una rissa con scazzottata. Le autorità prevedevano un ritorno alla normalità. Gli addetti alle cucine già erano tornati alla routine abituale. I servizi di mensa disponevano di una sala con armadietti e docce al primo piano. Vi si poteva accedere soltanto da una scala stretta in cemento. Più di un omicidio insoluto si era verificato nei locali delle cucine e degli annessi, l'ultimo, in ordine di tempo, quello in cui era rimasto vittima un informatore cui avevano letteralmente strappato la giugulare dalla gola. Mentre le autorità stavano considerando la possibilità di un ritorno alla normalità, una mezza dozzina di detenuti bianchi risalirono le scale in fila indiana, ciascuno con un coltello infilato nella cintola. Cinque neri si trovavano nella sala chi si rasava, chi si faceva la doccia, chi si lavava le mani - quando i bianchi varcarono la porta. Uno dei neri si accorse dell'attacco imminente e scappò di corsa dentro un recinto metallico dove venivano riposti i piatti. Tenne chiusa la porta. Gli altri non avevano altra via di scampo. Nel giro di pochi secondi, il sangue schizzò sulle pareti. I neri correvano in circolo, inseguiti dai bianchi armati di coltelli. Un giovane nero corpulento abbassò la testa e caricò contro la porta stretta che dava sulle scale. Due Hell's Angels lo aspettavano. Superò l'ostacolo del primo e piombò di testa sul secondo. Entrambi caddero giù per le scale. Il bianco si fratturò una caviglia. Il nero aveva molte ferite, e un coltello piantato in una natica. Raggiunse di corsa la cucina propriamente detta, dove mi trovavo per caso anch'io, a fianco del tenente Ziemer e del sergente di sorveglianza, che stavano mangiavano panini con uova e pancetta. - Sono ferito, - disse il detenuto nero. In effetti la sua T–shirt era macchiata di sangue e il coltello gli pendeva dalla natica. La scena aveva dell'assurdo. Il sergente gli rispose: - Non sei ferito così grave. Aspetta laggiù. In realtà, cadendo giù per le scale, il nero aveva salvato la vita agli altri. I bianchi credettero che fosse stato lanciato l'allarme, e fuggirono prima di dare il colpo di grazia ai tre neri rimasti di sopra. Una delle vittime ci lasciò la pelle. L'uomo si era rotto la spina dorsale. Era entrato in coma, e non aveva più ripreso conoscenza. Nessuna foto venne mai mostrata alle altre vittime ai fini dell'identificazione degli aggressori. Le autorità superiori avevano le mani legate dall'indifferenza ostile dei loro sergenti e tenenti. Il piano di ritorno alla normalità fu rinviato. Due volte al giorno, panini freddi vennero passati attraverso le sbarre delle celle, tranne che ai detenuti precedentemente indicati quali «assegnati ai lavori essenziali». A costoro erano serviti pasti caldi. Quanto a me, restavo chiuso in cella per tutto il giorno, ma al cambio del turno, mi lasciavano uscire. Verso le ventidue il tenente Ziemer si recava all'Ufficio di Controllo delle Chiavi e prendeva quelle delle grandi celle frigorifere della cucina. Era l'ora delle bistecche di filetto di manzo per i pochi eletti, io e l'ultima squadra delle pulizie. Durante la giornata lavoravo al mio romanzo, per sfoltirlo di un po' di pagine, e al mio primo saggio: aveva per argomento i problemi razziali nelle prigioni. Sparito il riso dei primissimi giorni dalle facce dei neri, ormai anche neri e bianchi che si conoscevano dall'infanzia si incrociavano ostentando facce di pietra, senza rivolgersi la parola, senza neppure riconoscere l'esistenza dell'altro. Le amicizie si ruppero. In un mondo totalmente integrato, dove ogni cella era assolutamente identica a tutte le altre, dove ciascun uomo mangiava lo stesso cibo e portava gli stessi vestiti degli altri, l'odio razziale era malefico e incontenibile. La maggioranza dei detenuti non aveva un rifugio tutto per sé, dove poter rilassarsi. Anche la cella non offriva alcuna sicurezza. Una brocca vuota poteva essere riempita di benzina e scagliata contro le sbarre, seguita da una scatola di fiammiferi accesi. Era accaduto più di una volta. Andare a mangiare, anche un mezzo ballatoio alla volta, con due secondini armati a cinque metri di distanza, implicava passare per dei posti senza via d'uscita sui pianerottoli dove si poteva restare vittima di un'imboscata. Un gruppo di bianchi o di neri poteva aspettare uno di un altro colore di pelle, o magari semplicemente un altro amico, ma un individuo di un altro colore di pelle poteva non sapere perché si trovassero in quel posto, e doveva per forza incrociarli da vicino per passare. Un bianco era stato sorpreso in questo modo, ma era riuscito a scappare. Dieci minuti più tardi, in un altro blocco di celle, un bianco aveva assalito un nero, ma gli aveva mostrato il coltello prima di essere a distanza ravvicinata. Il nero l'aveva visto e si era precipitato via di corsa sul ballatoio. Il comitato dei detenuti del vicedirettore era autorizzato ad aggirarsi nei blocchi di celle la sera, nella speranza che i suoi membri parlassero coi militanti delle varie fazioni e ponessero così fine alla guerra. Un bianco aveva approfittato dell'apertura delle celle finalizzata a mantenere la pace per farsi una doccia. Un nero l'aveva sorpreso nudo e bagnato, e l'aveva pugnalato al collo. Per miracolo, sopravvisse. Due guardie nere erano di servizio al blocco, quella sera. Coprirono l'aggressore nero allo stesso modo in cui le guardie bianche avevano coperto i bianchi in altre occasioni. L'indomani, un amico dell'ultima vittima si avventò contro un gruppo di neri impugnando un coltello. Ne colpì uno, trafiggendogli il bicipite. Un altro nero saltò sulla schiena dell'aggressore e lo fece cadere a terra. Arrivarono le guardie e lo ridussero all'impotenza. Avrebbe scontato una pena da cinque anni all'ergastolo per possesso di arma da taglio. Nel Blocco di celle Nord, i detenuti conclusero un armistizio parziale. Non ci sarebbero state aggressioni all'interno dell'edificio. Fuori, la caccia restava sempre aperta. Nessuna delle due fazioni si fidò completamente dell'altra. Nessun bianco, né alcun gruppo di bianchi, poteva parlare per tutti gli altri, allo stesso modo in cui nessun gruppo di neri poteva parlare per tutti gli altri neri. Tuttavia l'armistizio durò, e i giorni divennero settimane, perlomeno nel Blocco Nord. Nel resto del penitenziario trascorse una settimana, poi un'altra settimana ancora. Tanti erano i detenuti segregati, che le celle di isolamento ospitavano gruppi di quattro o cinque uomini, e il traffico dei pullman seguitava a pieno ritmo. Passarono altri dieci giorni, e alla fine il penitenziario ritrovò lentamente i suoi orari abituali. Un sabato pomeriggio venne proiettato il film del fine settimana nel Refettorio Nord. Uno dei neri implicati nell'accoltellamento della sala docce non era stato individuato e segregato. Era nella sala di proiezione. Quando la parola FINE apparve sullo schermo e si accesero le luci, la folla incominciò a sciamare verso le uscite. Un bianco e il suo compagno d'infanzia chicano provarono a colpire il nero, ma qualcuno urlò per avvisarlo e quello riuscì a fuggire. Qualche minuto dopo, un centinaio di neri si radunarono sotto la tettoia di fronte a un numero pari di bianchi e ad alcuni chicanos raggruppati a fianco del Blocco Est. Il Grande Cortile era totalmente immerso nel silenzio. Il detenuto addetto alla sala radio della prigione in qualità di disc jokey mise della musica country a tutto volume. Non dimenticherò mai il titolo della canzone, "The Eyes of Texas Are Upon You". Non potei fare a meno di ridere. Solo quattro o cinque membri della cricca bianca responsabile degli assassini si trovavano ancora tra la popolazione carceraria. Gli altri erano stati messi in segregazione. Due di questi ancora in giro avanzarono verso i neri, come se andassero a bere alla fontana che si trovava al centro del loro raggruppamento. Un nero di statura piccola si fece avanti dalle ultime file, inoltrandosi tra la folla. Parecchi altri si mossero con lui. I due bianchi si voltarono di colpo. Uno estrasse un'accetta, l'altro un coltello grande come uno spadino. Il piccolo nero batté in ritirata sbarazzandosi del suo coltello, fermato sia dalle dimensioni delle armi degli avversari, sia dal rumore secco dei fucili a pompa che venivano caricati. Era ai neri che le guardie bianche avrebbero mirato. I bianchi accanto al Blocco Est avevano incominciato ad avanzare, ma si fermarono. I due uomini in testa avevano riguadagnato i loro ranghi. Una guardia nera ne teneva d'occhio uno, ma costui riuscì a farla franca, lasciando cadere il coltello a terra, e poi, con un calcio, lo disperse tra la folla. Qualcuno se ne sbarazzò. Ancora una volta nel penitenziario rientrò in vigore il regime di segregazione nelle celle. Trascorsero due mesi prima di un ritorno lento alla normalità. Ormai, però, le guardie portavano i manganelli, per la prima volta dopo l'abolizione delle mazze con la punta di piombo decretata nel 1940. Nessuno fu incriminato né riconosciuto colpevole degli accoltellamenti e degli omicidi. La Contea di Marin non voleva detenuti di San Quentin nel suo tribunale. Durante le lunghe giornate della segregazione in cella, tagliai il venti per cento del libro cui stavo lavorando, "Come una bestia feroce". Pagina, paragrafo, frase o parola, presi in considerazione tutto ciò che era superfluo. Era quanto mi aveva chiesto Merrill Pollack di W. W. Norton & Co. Sebbene non avesse potuto offrirmi un contratto anticipato, nessun altro prima di lui, in diciassette anni, mi aveva manifestato tanto interesse. Del resto, che altro avevo da fare? Quando gli rispedii il libro, acclusi un saggio in forma di racconto sulla guerra razziale che ho appena descritto. Due mesi più tardi, ottenni un lasciapassare per incontrarmi con il mio assistente sociale allo scopo di preparare la relazione da presentare per la mia convocazione annuale dinanzi alla commissione delle condizionali. Ciascun blocco di celle disponeva ormai di una fila di uffici in cinerite al pianterreno. Il giovane, uscito fresco fresco dall'Università di Stato di San Francisco, lavorava per l'assistenza sociale da qualche mese. Bussai alla porta. - Oh, sì, Bunker. Entri pure. Cerchiamo il suo fascicolo. Passammo davanti ai bugigattoli in cinerite per raggiungere la prima cella in cui si tenevano gli armadietti contenenti i fascicoli. Allora mi disse: - A proposito, ha chiamato l'Ufficio del Direttore, per concederle l'autorizzazione a fare una telefonata a New York. - Una telefonata a New York? A che proposito? - Non mi hanno detto nulla. Aprì l'armadietto e cercò tra le cartelle in carta Manila. La maggioranza dei fascicoli aveva da uno a due centimetri di spessore. L'assistente sociale trovò il mio, lasciandosi sfuggire un grugnito al momento di tirarlo fuori. Era spesso quanto l'elenco del telefono di Los Angeles Centro. Tornando nell'ufficio, lo sollevò per valutarne il peso. - Non ho mai visto un fascicolo così grosso. In effetti il suo fascicolo è due volte più grosso di tutti i fascicoli che finora ho visto qui -. Rientrati nell'ufficio, lui si sedette dietro la sua scrivania. - Che è questo? - Si infilò gli occhiali e guardò la strisciolina di carta attaccata con il nastro adesivo sull'esterno della cartella, poi scoppiò a ridere. - Sa che c'è scritto? Scrollai il capo. - Dice «Confronta il fascicolo numero 2». Afferrai l'umorismo della cosa, ma al tempo stesso era anche triste. Era la mia vita. - Facciamo questa telefonata, - disse. Chiese al centralinista di darmi la linea esterna, poi compose il numero e mi passò il ricevitore. - Agenzia Watkins, - rispose una voce femminile. - Mi chiamo Edward Bunker. Mi è stato detto di chiamarvi. - Oh, sì. Mike vuole parlarle. Una voce che pareva uscita dall'epoca vittoriana parlò all'altro capo del filo: - Ebbene, buongiorno, Mister Bunker, sono Mike Watkins. Finalmente riesco a parlare con lei. Sa di che si tratta? - Ehm… forse… non lo so… voglio dire, spero. Fece una risatina. - Merrill Pollack della W. W. Norton ha fatto un'offerta per pubblicare il suo libro. L'anticipo non è un gran che, ma Norton è una buona casa editrice, e penso che dovremmo accettare la loro offerta. - Oh… sì… certo… quello che lei dice mi sta bene. - Ero sicuro che mi avrebbe risposto così. Oh, c'è un'altra cosa. Louis Lapham di «Harper's» vuole pubblicare questo testo che lei gli ha inviato sulla guerra razziale nelle prigioni. Lo vuole come pezzo di apertura per il numero di febbraio. Diciassette anni, sei romanzi non pubblicati, decine di racconti non pubblicati, senza vedere una sola parola stampata su una pagina. La scrittura era diventata la mia sola possibilità di uscire dal pantano in cui era scivolata la mia vita. Avevo perseverato anche quando la candela della speranza si era completamente consumata. Avevo perseverato per abitudine, perché non avevo la minima idea di che altro avrei potuto fare. Oggi, in ventiquattr'ore, nel tempo di una telefonata, una delle riviste più prestigiose d'America e un editore di qualità avevano accettato di pubblicare il mio primo saggio e il mio sesto romanzo. Anni prima, quando per la prima volta avevo deciso di imbarcarmi nell'avventura della scrittura e diventare scrittore, avevo visioni di ciò che ne avrei ricavato. Avrei vissuto un misto di Hemingway, di Scott e Zelda, e della celebre giovane donna che era allora Françoise Sagan, che aveva conosciuto uno straordinario successo internazionale col suo primo libro quando era ancora adolescente. Scrivere un buon libro mi avrebbe aperto le porte. Il mondo avrebbe letto le verità che scrivevo. Avrei fatto nascere un fiore di loto dalla melma. Questi sogni avevano diciassette anni, quattordici dei quali trascorsi dietro le mura sinistre della prigione. Ero contento, certo, ma il tempo aveva appannato la lucentezza del sogno. Non avevo alcuna idea di ciò che mi riservava l'avvenire, tranne il fatto che avrei seguitato a scrivere. Mi ero già imbarcato in un altro romanzo. Quella notte, nella mia cella, provai a risuscitare gli stessi sogni di un tempo. Restarono opachi, privi di luce. La verità dei venticinque anni a venire sarebbe stata ben più grandiosa, per molti versi, delle mie visioni di quarantacinque anni fa. Il sogno si è avverato, al di là delle mie speranze. I miei quattro romanzi seguitano a essere pubblicati in nove Paesi, e il primo, "Come una bestia feroce", continua a essere ristampato venticinque anni dopo la sua prima edizione. Non c'è dubbio: un fiore di loto è nato dalla melma. E seguita a crescere. POSTFAZIONE. PARIGI, QUASI PRIMAVERA. Sono a Parigi, solo. Mia moglie, tale da quasi due decenni, è tornata a casa da Brendan, il nostro figlio di cinque anni. Sono stato invitato a interpretare un piccolo ruolo in un piccolo film francese, "Camaleon", che parla di una donna fatale, incontestabilmente un camaleonte. Benoît Cohen, regista giovane ed entusiasta del film, ha pochissimi mezzi: prega e usa pellicole che ha ricevuto in regalo per portare la sua visione sul grande schermo. Il mio compenso è irrisorio, ma copre quasi tutte le spese, e chi rifiuterebbe un mese gratis nella città più bella del mondo? Febbraio ha ceduto il passo a marzo, e la neve è quasi sparita, tranne in quei recessi in cui il sole non s'insinua mai. I rami degli alberi sono ancora spogli, ma dal mio arrivo a Parigi, stanno germogliando piccole gemme dure che ben presto diverranno foglie sontuose danzanti nella brezza. Mio Dio, amo Parigi in tutte le stagioni dell'anno. L'Hotel Normandy è sulla riva destra, nei pressi del Louvre, della Senna e di Place de la Concorde. - Sa dov'è? - domandai al portiere. Dovevo passare a ritirare la somma corrispondente alla mia indennità settimanale di soggiorno, denaro in contanti che non viene tassato come reddito. Il portiere tirò fuori una di quelle cartine di Parigi per turisti, che riportano i boulevard e i monumenti più importanti, senza fornire dettagli di altro genere. Indicò una zona verde che designava un parco. - È proprio qui vicino, - rispose. - Quattro o cinque chilometri. - Posso arrivarci a piedi, no? - Sì, è una passeggiata lunga… ma è una bella giornata. Aveva ragione su entrambe le cose. M'incamminai risalendo Avenue de l'Opera. Il sole era abbastanza forte da giustificare gli occhiali scuri, ma il freddo mattutino è un ottimo refrigerante quando si cammina con passo energico. Sono sicuro di poter giungere a destinazione se trovo il parco, e non dovrebbe essere troppo difficile. D'altra parte, il tempo che ci impiegherò non ha alcuna importanza. Adoro esplorare le città a piedi: New York, Londra, Roma, tutte le città tranne L. A., e Parigi più di tutte. Mi tornano in mente i vagabondaggi notturni di Thomas Wolfe per le strade vuote e buie di Manhattan, mentre era in comunione con la sua musa. La prosa di Wolfe trasforma le strade deserte in sinfonie descrittive. Arrivato all'Opera (certo che l'edificio è abbastanza grande per ospitare un fantasma errante), giro a destra. Credo sia Boulevard Haussmann. Venti minuti dopo, svolto di nuovo a destra. Adesso risalgo lentamente una collina relativamente ripida fiancheggiata da appartamenti eleganti. Diversamente dagli Stati Uniti, dove le classi medie hanno abbandonato i centri delle città, lasciandoli andare in malora nelle buone mani di mendicanti e minoranze, qui le persone benestanti sono rimaste. I poveri sono stati respinti nelle periferie circostanti. Lo spazio all'interno della città si è valorizzato. Gli appartamenti sono piccoli e costosi. È uno dei motivi per cui la vita vibra con tanta intensità, a Parigi. A L. A. praticamente tutti possiedono una piscina sul terreno dietro casa. A Parigi solo i ricchi hanno una casa col terreno. Il parco iniziava a un'isolato dalla cima della collina. Era più vasto di quanto immaginassi, e non sapevo più che direzione prendere. Scorsi due uomini intenti a conversare, e aspettai il momento giusto per chiedere a loro, scusandomi prima per la mia intrusione, e allungai il foglietto con l'indirizzo. Era una domanda che non richiedeva di parlare francese. Uno dei due mi indicò il fondo della collina e il fianco della collina successiva. Ripresi a camminare. Avevo percorso circa un mezzo isolato, quando sentii alle mie spalle qualcuno che co