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La commedia dell`innocenza

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La commedia dell`innocenza
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LA COMMEDIA DELL’INNOCENZA. Una
congettura sulla detective story
Autore: Guido Vitiello
Editore: Luca Sossella
Copyright: 2008
ISBN: 978-88-89829-39-4.
Pagine: 159
Prezzo: € 15,00
Recensione di Emiliano Ilardi
Alzi la mano chi non ha mai letto almeno un giallo di
Agatha Christie o Ellery Queen magari “rubandolo” dalla
libreria di qualche noiosissima zia a cui siete stati
obbligati a far visita, oppure sul treno, aspettando la
partenza di un volo, di nascosto sotto un ombrellone
come unico possibile rimedio a un afoso pomeriggio
estivo. E siate sinceri. Non dite che, se proprio dovete
leggere un giallo, allora preferite le arzigogolate,
inverosimili e spesso incomprensibili storie di Raymond
Chandler (alla faccia del realismo tanto sbandierato
dall’autore americano) quando magari invece Philip
Marlowe l’avete conosciuto solo con la faccia di
Humphrey Bogart. E soprattutto non dite che non vi
siete divertiti a giocare al detective, a raccogliere
indizi, a risolvere l’enigma, a seguire i ragionamenti di
Hercule Poirot o Ellery Queen. A sentire i teorici della
puzzle theory il piacere del giallo sta tutto qui: nella
stimolazione delle facoltà razionali del lettore, nella
sfida intellettuale che quest’ultimo riceve dall’autore.
Secondo Guido Vitiello questa <<lettura
ludico-illumistica>> non è sufficiente a spiegare lo
straordinario successo geografico e temporale del giallo
classico a enigma, soprattutto quello del periodo tra le
due guerre, la cosiddetta golden age (Agatha Christie,
Ellery Queen, S.S. Van Dine, John Dickson Carr).
Intanto, se il giallo è semplicemente un gioco
17-06-2008 14:20
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intellettuale, allora perché scorre tanto sangue? Che
bisogno c’è dell’omicidio, spesso plurimo? Se il piacere
del lettore è puramente razionale è sufficiente dargli in
pasto un furto di gioielli, la misteriosa scomparsa di
un’opera d’arte o una rapina in banca. <<La complessità
del crimine e non la sua natura, dovrebbe soddisfare le
esigenze dell’intelletto>>. Insomma, per ideare un
enigma non è mica obbligatorio ammazzare qualcuno. E
invece nella detective story l’omicidio sembra essere
una necessità… antropologica. La tesi di Vitiello è secca
(e si apprezzano quei saggi in cui una tesi è espressa
così chiaramente e senza troppi distinguo tanto per
coprirsi le spalle da eventuali critiche): il giallo è la
rifunzionalizzazione in epoca moderna degli antichi riti
basati sull’espulsione di un capro espiatorio dalla
comunità per riportare la pace e il senso di innocenza
tra i suoi membri. Il modello è semplice, ripetitivo ma
tremendamente efficace: c’è uno spazio chiuso (una
villa, una stazione, un appartamento, un treno), viene
commesso un omicidio, l’assassino non può che essere
uno dei membri della comunità, un investigatore venuto
da fuori si trasforma in una specie di sacerdote,
individua il colpevole, lo sacrifica davanti a tutta la
comunità, le restituisce l’innocenza, riconsacra lo
spazio e poi è costretto ad andarsene perché in qualche
modo anche lui si è macchiato di sangue, è infetto. Il
giallo dunque svolge una funzione simbolica
fondamentale: riduce la complessità del mondo, il male
non è frutto di anonime forze sociali, è sempre
circoscrivibile, gli si può dare un nome e cognome, ed
espellerlo attraverso semplice un rito. Semplice sì ma
anche piuttosto brutale e che fa a cazzotti con i
principi basilari dello stato moderno di diritto che per
definizione deve detenere il monopolio della violenza e
al rito sacrificale ha sostituito il processo penale. Ecco
perché tale brutalità di fondo secondo Vitiello va
nascosta dietro la maschera dell’indagine, di lunghi,
raffinati e spesso macchinosi ragionamenti investigativi
che convincano il lettore che almeno in quello specifico
caso si può fare giustizia senza ricorrere alle lungaggini
del tribunale. La confessione finale dell’assassino vinto
dall’intelligenza dell’investigatore è un motivo
narrativo obbligatorio in quanto scarica la comunità del
dubbio di star sacrificando un innocente.
L’investigazione trasforma un sacrificio umano in una
commedia, La commedia dell’innocenza. La tesi del
libro è sicuramente convincente ma è lo stesso autore ad
ammettere che funziona solo per la detective story
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classica, il giallo all’inglese soprattutto del ventennio
tra le due guerre; funziona solo fuori dalla metropoli in
quanto unicamente in una comunità spazialmente e
socialmente delimitata è possibile un rito di questo
tipo; funziona soprattutto in ambito protestante e non è
un caso che il tema dell’espulsione violenta del male
dalla comunità è uno dei tratti tipici dell’immaginario
puritano (e di buona parte dell’immaginario
americano). Insomma se Vitiello vede nel giallo della
golden age una funzione simbolica e sociale così
importante perché questo modello è durato così poco e
ha interessato un sottogenere (il giallo all’inglese) di un
genere (il poliziesco)? Difficile pensare che un rito così
efficace come l’espulsione di un capro espiatorio sia
improvvisamente scomparso nel dopoguerra dalle
dinamiche sociali. Evidentemente ha trovato nuove
forme e nuovi linguaggi. O forse neanche tanto. A
guardare la serie televisiva C.S.I. sembrerebbe di
trovarsi ancora una volta di fronte al classico <<dramma
rituale intorno a un cadavere>> (per di più trasportato
nella metropoli). Solo che questa volta il grande
sacerdote del rito non è più il detective con le sue
facoltà razionali ma la tecnologia con i suoi software.
Guido Vitiello è dottore di ricerca in Sociologia della
Comunicazione. Collabora con le pagine culturali di
Internazionale e del Riformista. Ha scritto "Dall'Lsd alla
Realtà Virtuale. L'esperienza mistica nell'epoca della
sua riproducibilità tecnica" (Lavieri 2007) e "Una
stagione all'inferno. Hans-Jürgen Syberberg e la
questione della colpa nel cinema tedesco" (Ipermedium
libri 2007). Cura il sito UnPopperUno.
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