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Marco Musella Guerra come politica keynesiana Nell
Marco Musella Guerra come politica keynesiana Nell'ambito di quello che l'economia politica può dire sulla guerra io finirò per parlare della guerra come politica keynesiana, argomento se volete vecchio, se ne parlava ai tempi dell'imperialismo americano prima maniera, ma forse è una chiave di lettura da riscoprire soprattutto come prospettiva aggiunta sulla guerra rispetto a quella che ce la mostra come connessa ai fenomeni della globalizzazione e della finanziarizzazione. Saprete che c'è una chiave di lettura della guerra in Iraq come dimostrazione americana per affermare la loro supremazia in un momento di affermazione dell'euro come moneta forte alternativa al dollaro. Ma qui affronteremo se e come la guerra oggi può essere letta come una strategia di politica keynesiana. Il mio punto di partenza è che in fondo se chiediamo all'uomo della strada cosa pensa delle risorse impiegate per gli armamenti, se sono ben spese la risposta sembrerebbe negativa. La teoria economica condivide questo punto di vista? La risposta è necessariamente articolata perché bisogna tenere in conto che da quando Keynes, nel 1936, ha pubblicato “La Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (Keynes, 1936), abbiamo imparato che i sistemi capitalistici possono assestarsi su equilibri di sottoccupazione e che la spesa pubblica, quindi anche la spesa per armamenti, è uno strumento efficace per mettere in moto il processo produttivo e generare aumenti del reddito nazionale e dell’occupazione. Keynes, infatti, desiderava a tal punto criticare la teoria neoclassica del pieno impiego che si spinse ad affermare, polemicamente, che anche “lo scavar buche per terra” poteva essere un buon rimedio contro la mancanza di lavoro ed il basso livello del reddito e della produzione, ma specificava che si potevano fare anche cose utili, specificazione troppo spesso dimenticata. Questo tipo di ragionamento aveva ed ha grosse implicazioni sui livelli di occupazione garantiti anche nell'industria di armi. Joan Robinson, una economista che conosceva bene il pensiero di Keynes perché aveva partecipato alle discussioni che si svolgevano a Cambridge negli anni ’30 del secolo scorso sulle nuove idee, chiarisce bene quale era la posizione dell’autore della Teoria Generale. La Robinson ha scritto in un bell’articolo del 1972: “Keynes non voleva che nessuno scavasse buche per riempirle. Egli indulgeva al felice sogno ad occhi aperti di un mondo nel quale, tenendo gli investimenti al livello della piena occupazione per una trentina d’anni, l’intero fabbisogno di capitale produttivo sarebbe stato soddisfatto, i redditi di proprietà sarebbero stati aboliti, la povertà sarebbe scomparsa ed avrebbe avuto inizio la vita civile…” Keynes aveva in mente una sorta di passaggio automatico ad un sistema diverso da quello capitalistico. “Sono stati i cd. Keynesiani a convincere una dopo l’altro i presidenti degli Stati Uniti che non c’è niente di male in un disavanzo di bilancio, e a permettere che il complesso militare - industriale se ne avvantaggiasse. E così è avvenuto che il felice sogno ad occhi aperti di Keynes si è trasformato in un incubo di terrore” (Robinson, 1972, pp.6-7) Avendo Keynes dato ai policy-makers la possibilità di intervenire con la spesa pubblica la possibilità di modificare la domanda aggregata e quindi l'occupazione perché si è scelto e si sceglie così di frequente la via della spesa per armamenti per sostenere la domanda aggregata? In letteratura c'è una spiegazione apologetica, la spesa per armamenti è vista come la via per accelerare l'introduzione del progresso tecnico che avranno una ricaduta nell'ambito delle produzioni civili. Questa tesi si basa sull'esperienza, è successo così, ma non è sufficiente a prediligere questa via. Sembra più convincente la tesi “politico-critica” secondo la quale nel sistema capitalistico si tende a creare una convergenza di “interessi costituiti” a favore della spesa per armamenti. Si tratta, secondo questa visione delle cose, di un tipo di spesa pubblica per la quale lo Stato, da un lato non entra in competizione con il settore privato, e dall’altro non interferisce con le regole fondamentali di funzionamento di un’economia capitalistica. Per presentare in modo semplice questa idea si può seguire un famoso contributo di Kalecki, sugli “Ostacoli politici al pieno impiego” (Kalecki, 1943). In questo scritto breve, ma ricchissimo di spunti interessanti, l’economista polacco spiega per quali motivi il pieno impiego, pur essendo un obiettivo di politica economica tecnicamente raggiungibile, ed economicamente conveniente, viene avversato dai “capitani di industria”. Innanzitutto le politiche per il pieno impiego, quando prendono la strada degli investimenti pubblici, vengono viste dai capitalisti come indebita interferenza nella sfera di azione dei privati; quando prendono la via dei sussidi al consumo, entrano in conflitto con la “morale” del sistema, per la quale non vi sono pasti gratis per nessuno, e nell’uno e nell’altro caso – elemento ancor più rilevante - minano la disciplina della fabbrica e la stabilità politica che hanno il loro principale punto di forza nella minaccia del licenziamento. Cito l'autore: “… in un sistema di piena occupazione permanente il licenziamento cesserebbe di svolgere la sua funzione di misura disciplinare. La posizione del capo sarebbe indebolita e la fiducia in se stessa e la coscienza della classe operaia crescerebbero. Gli scioperi per gli aumenti salariali e per i miglioramenti della condizioni del lavoro creerebbero tensioni politiche.” Per circa vent'anni dopo la pubblicazione di questo saggio il sistema ha convissuto con tassi di disoccupazione bassissimi, quindi non si è verificato lo scenario di Kalecki, ma potrebbe trattarsi semplicemente di una sbagliata prospettiva storica. Sempre in questo saggio l'economista polacco aggiunge che con il fascismo tendono a venir meno queste preoccupazioni perché la spesa pubblica si orienta verso gli armamenti e la paura del licenziamento viene sostituita con la repressione. Egli ha scritto in “Ostacoli Politici al Pieno Impiego”, che sotto il fascismo: “…la disciplina nelle fabbriche e la stabilità politica sono conservate in condizioni di piena occupazione mediante il nuovo ordine che va dalla soppressione dei sindacati fino ai campi di concentramento. La pressione politica sostituisce la pressione economica esercitata dalla disoccupazione.” E’ interessante notare che nel 1962, scrivendo la prefazione a una ripubblicazione di questo saggio del 1943, Kalecki ha affermato: “Tuttavia l’esperienza ha dimostrato che non è indispensabile il fascismo perché gli armamenti vengono a giocare un ruolo importante per contrastare la disoccupazione di massa”. Io tendo a ritenere che questa è una chiave di lettura per capire il ritorno della guerra e della spesa per armamenti come elemento centrale di una economica. Un altro aspetto della spesa per armamenti sul quale le categorie keynesiane possono gettare una luce interessante, concerne il ruolo che il commercio di armi ha per le economie dei paesi in via di sviluppo. Si tenterà di mostrare le ragioni per le quali esse, oltre a diventare presupposto di azioni di guerra e di violenza che generano morti e distruzioni, rappresentano un vero e proprio fardello che grava sulle condizioni di vita di centinaia di milioni di uomini e donne, perchè il commercio di armi è un fenomeno di dimensioni consistenti con una precisa direzione delle merci dal nord del mondo che produce al sud del mondo, ed un flusso finanziario che fa il percorso inverso. Il ruolo del commercio di armi ha conseguenze diverse nel nord e nel sud del mondo, al nord commerciare armi vuol dire esportare (le esportazioni sono una voce della domanda aggregata), cioè elevare i livelli della domanda aggregata e quindi dell'occupazione; inoltre l'aumento di esportazioni riduce l'impatto del vincolo con i conti con l'estero permettendo quindi politiche più espansive. Dal punto di vista dei paesi del sud del mondo importare armi significa disperdere nel canale estero risorse prodotte all’interno o acquisite contraendo debiti con istituzioni internazionali, banche esterne o Paesi esteri. In tal modo, non solo essi non vedono esplicarsi gli effetti moltiplicativi positivi sul prodotto interno lordo e sull’occupazione che si sarebbero avuti qualora l’orientamento della parte di spesa che va in armamenti acquistati all’estero fosse stata indirizzata verso beni prodotti all’interno, ma si trovano anche a sperimentare una difficoltà aggiuntiva collegata con la difficoltà di restituire quanto dovuto per i prestiti ottenuti. Le conseguenze del commercio di armi, dunque, sono per i paesi in via di sviluppo negative da molteplici punti di vista: aumenta la necessità di ricorrere a prestiti internazionali e diviene stringente l’urgenza di porre in essere politiche economiche restrittive (anche perché questa è una condizione necessaria imposta dal FMI per accedere ai prestiti della cosiddetta Comunità internazionale); ma queste politiche hanno un’incidenza drammatica sul livello di benessere di queste popolazioni. Non è del tutto inutile, concludendo, ricordare che ci sono interessi costituiti per sostenere questo tipo di spesa e che ovviamente, una volta che ci sono le scorte bisogna smaltirle, questa “domanda” estera per armamenti è tanto più alta quanto più diffusi sono i conflitti locali e quanto più solido e forte è, all’interno di paesi economicamente e politicamente deboli, il potere degli apparati militari sia rispetto alla gestione dell’ordine pubblico interno che riguardo alla conduzione delle relazioni con l’esterno.