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Innovazione, competizione ed economia della

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Innovazione, competizione ed economia della
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Global
002_031_AV_ITA_ING
I profondi mutamenti
del nostro tempo hanno
comportato una seria
trasformazione delle
competenze e dei sistemi
di lavoro, sempre più fondati
sull’economia della
conoscenza. Il passaggio
all’economia della conoscenza
richiede però investimenti
coraggiosi: se l’Europa vuole
mantenere il suo livello di vita,
il suo sviluppo sostenibile,
l’equilibrio regionale e vuole
veramente continuare
su questa strada non ha altra
soluzione che investire
in ricerca. L’obiettivo da porsi
è di migliorare il livello della
conoscenza scientifica,
liberalizzare le università,
realizzare modelli
di interazione tra ricerca
e impresa.
The enormous changes
in working methods and skills
taking place today are carrying us
rapidly into the knowledge
economy. Nevertheless,
the transition into the knowledge
economy requires bold
investments: if Europe wants
to maintain its living standards,
its sustainable growth,
its regional balance and really
wants to continue on its current
course, it has no choice but
to invest in research. Our aim
must be to raise our level
of scientific knowledge,
deregulate our universities,
establish models for cooperation
between research and business.
Innovazione, competizione
ed economia della conoscenza
Innovation, Competition
and Knowledge–based Economy
I
n occasione della cerimonia per l’avvio dei lavori di realizzazione del nuovo centro di ricerca
Italcementi ITCLab–Innovation and Technology Central Laboratory, la Fondazione Italcementi Cav. Lav.
Carlo Pesenti ha organizzato lo scorso dicembre una tavola rotonda su “Istituzioni, università,
imprese: le leve per l’innovazione”. L’incontro, a cui hanno partecipato oltre 250 invitati, ha visto la
partecipazione di Luigi Nicolais, ministro per le Riforme e l’Innovazione nella Pubblica Amministrazione,
Adriano De Maio, delegato per l’Alta Formazione, la Ricerca e l’Innovazione della Regione Lombardia,
Andrea Moltrasio, presidente del Comitato Tecnico Europa di Confindustria e presidente di “Bergamo
Scienza”, Alberto Bombassei, vicepresidente di Confindustria per le Relazioni Industriali e gli Affari
Sociali ed Ezio Andreta, presidente APRE–Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea, moderati
da Dario Di Vico, vicedirettore del Corriere della Sera.
“Come imprenditore – ha sottolineato il presidente Italcementi Giampiero Pesenti nel saluto di apertura
dei lavori – ritengo che l’innovazione sia il mezzo più efficace per essere protagonisti nella competizione
globale: per questo la ricerca che genera innovazione nelle imprese è la leva per la competitività
dell’intero sistema Paese”.
Lo spunto per affrontare il tema della ricerca è stato offerto da Roberto Verganti, direttore dell’Alta
Scuola Politecnica Milano/Torino, che ha illustrato i risultati di una ricerca dell’IReR condotta per la
Fondazione Italcementi sui modelli virtuosi di rapporto tra istituzioni, università e imprese nella
promozione delle innovazioni tecnologiche derivanti dalla ricerca scientifica.
I meccanismi di interazione tra università e imprese, quali la creazione di spin-off, l’acquisto di brevetti
da parte delle aziende, la stipula di contratti di ricerca – rileva lo studio – costituiscono solo la punta di
un iceberg nel complesso sistema di confronto. Sotto la superficie esistono meccanismi più “informali”
senza i quali è impossibile attivare la collaborazione. L’accogliere studenti per periodi di stage, la
formazione continua, l’incontro tra ricercatori producono la base per rapporti più “formali” in quanto
creano capitale relazionale.
D’altro canto le imprese hanno bisogno di interagire con i centri di ricerca pubblica poiché la
conoscenza necessaria per generare le innovazioni diventa sempre più elevata, multidisciplinare e
complessa, mentre anche per le università e i centri di ricerca è fondamentale l’interazione con le
imprese, perché da queste interazioni nascono gli stimoli che possono portare a nuove scoperte.
I processi di trasferimento della conoscenza sono però spesso complessi e articolati: lo studio IReR ha
messo in luce che un ruolo importante in questi processi è ricoperto dalle grandi imprese, dal momento
che solo queste possono contare su centri di ricerca e sviluppo e un’organizzazione adatta a interagire
con l’università. I risultati, sul piano pratico, sono commisurati alle risorse, economiche e umane, che
ogni paese mette in gioco nel suo impegno a sostenere la ricerca e l’innovazione.
Istituzioni, università, imprese:
le leve per l’innovazione
Government, Universities, Industry:
Levers for Innovation
di Roberto Verganti*, Paolo Landoni e Claudio Roveda
N
egli ultimi anni, sia nella
comunità scientifica sia
nel dibattito pubblico,
è stata ampiamente evidenziata
l’importanza dell’innovazione
a base scientifica e tecnologica
per lo sviluppo economico
e sociale ed è stata sottolineata
la stretta relazione tra la
capacità d’innovazione delle
imprese da un lato e i sistemi
locali della ricerca pubblica
dall’altro. In particolare viene
chiesto sempre di più alle
imprese di investire in Ricerca
e Sviluppo e al sistema della
ricerca pubblica di trasferire
conoscenze e tecnologie al
mondo industriale. Nonostante
tutti gli studi e i dibattiti sul
tema, non è stata ancora trovata
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O
n the occasion of the cornerstone ceremony in December 2006 for the new Italcementi’s
Innovation and Technology Central Laboratory—ITCLab—the Italcementi Cav. Lav. Carlo Pesenti
Foundation organized a round table on the theme “Government, universities, industry: levers
for innovation”. The speakers at the event, attended by more than 250 guests, were Luigi Nicolais,
Italy’s Minister for Reform & Innovation in the Public Administration, Adriano De Maio, Lombardy’s
Regional Delegate for Higher Education, Research & Innovation, Andrea Moltrasio, Chairman of the
Confindustria Technical Committee for Europe and Chairman of “Bergamo Scienza”, Alberto
Bombassei, Confindustria Vice President for Industrial Relations & Social Affairs, and Ezio Andreta,
Chairman of the Agency for the Promotion of European Research (APRE). The debate was moderated
by Dario Di Vico, deputy editor of the Corriere della Sera newspaper.
Opening the round table, Italcementi Chairman Giampiero Pesenti said: “As a business man, I believe
innovation is the most efficient path to leadership in global competition. This is why research that
generates innovation in our business organizations is the lever for the competitiveness of the entire
country-system.”
The research debate was introduced by Roberto Verganti, Principal of the Alta Scuola Politecnica–ASP
(Milan-Turin), who illustrated the results of an IReR survey conducted for the Italcementi Foundation on
virtuous models for relations between government, universities and industry to promote technological
innovation based on scientific research.
The survey found that the mechanisms for interaction between universities and industry—the creation
of spin-offs, the purchase of patents by companies, research contracts—are just the tip of the iceberg
in a highly complex system of relationships between the two communities. Beneath the surface more
“informal” mechanisms operate, without which cooperation would not be possible. Student
internships, on-the-job training, meetings among researchers create the relational capital that lays the
foundation for ties of a more “formal” nature.
At the same time, industry needs to interact with public research centers, since innovation depends on
increasingly advanced, interdisciplinary and complex levels of knowledge; equally, interaction with the
business community is essential for universities and research centers, because it generates the stimuli
that may lead to new discoveries.
Knowledge transfer processes, however, are often complex and elaborate: the IReR study found that
an important role in these processes is played by large corporations, who alone have the R&D centers
and organization structures to interact with universities. At a practical level, results are commensurate
with the economic and human resources that each country invests to support its commitment to
research and innovation.
una soluzione al problema dello
sviluppo, dell’innovazione e
della ricerca. Il punto di partenza
di questo studio condotto per la
Fondazione Italcementi è stato
proprio questo: il problema
è estremamente complesso,
investe una moltitudine
di soggetti diversi, di relazioni
e di processi, di azioni politiche
e di scelte manageriali che lo
rendono non risolvibile se
affrontato “dall’alto”, cioè solo
in termini numerici o statistici,
con un’ottica rivolta al passato
e senza la capacità di cogliere
le diverse sfumature nei
comportamenti e nelle
organizzazioni. Abbiamo quindi
deciso di utilizzare una
metodologia innovativa,
di cercare una nuova chiave
interpretativa per il nostro
studio: abbiamo scelto di partire
“dal basso”, di considerare
i diversi soggetti coinvolti e in
particolare le loro relazioni.
Abbiamo deciso di cercare ed
evidenziare alcuni casi eccellenti
e da questi generalizzare
e indicare opportunità di azione
per i diversi attori singolarmente
o in interventi coordinati. Inoltre
abbiamo ritenuto necessario
adottare un approccio originale
anche per quanto riguarda la
prospettiva adottata nello studio
e abbiamo scelto di focalizzare
l’attenzione sulle imprese
piuttosto che sulle istituzioni
o i centri di ricerca, partendo
dalla consapevolezza che
è proprio nelle imprese che si
sviluppano le innovazioni.
Il problema
Tutti i report internazionali degli
ultimi anni evidenziano una
situazione di difficoltà dell’Italia
e dell’Europa in termini
di indicatori per la ricerca
e l’innovazione. Nella tabella 1
sono stati selezionati alcuni degli
indicatori più rilevanti, ma la
situazione è ben nota: l’Europa
e in particolare l’Italia sono
in una situazione di difficoltà
sia rispetto agli Stati Uniti
e al Giappone sia, in prospettiva,
rispetto ai paesi emergenti come
Un momento della tavola rotonda.
A highlight from the round table discussion.
ad esempio la Cina. Inoltre
l’Italia, anche nel contesto
europeo, si trova distanziata
dagli altri paesi del G7
e dai paesi del Nord Europa
come la Svezia.
I problemi sono relativi
agli investimenti in ricerca
(in particolare quelli industriali),
alla propensione all’innovazione
tecnologica (brevetti)
e soprattutto al numero di
ricercatori, che sono la risorsa
fondamentale per la ricerca.
E inoltre, come emerge dalla
seconda parte della tabella,
la situazione è anche in
peggioramento. Nonostante
che in valore assoluto sia
riscontrabile una crescita, gli altri
sistemi si stanno muovendo più
velocemente e quindi in termini
relativi il divario aumenta.
In particolare, ritornando alla
prospettiva delle imprese
e quindi dell’innovazione,
è significativa la perdita
di competitività sui mercati
high-tech che si è registrata
negli ultimi 20 anni.
Infine, come comincia a essere
evidenziato anche dai dati,
nuovi paesi si affacciano
sulla scena internazionale e,
a differenza di quanto spesso
si legge, non intendono
competere solo sulle attività
a basso valore aggiunto,
ma soprattutto sulla ricerca
e l’innovazione. Il caso dell’India
e delle sue performance,
in particolare sulle tecnologie
dell’Information
e Communication Technology
(ICT), inizia a essere ben noto,
così come quello della Corea
e delle altre cosiddette tigri
asiatiche, ma anche la Cina sta
volgendosi con decisione
in questa direzione come
dimostrano gli investimenti in
ricerca in percentuale sul Pil
(già oggi più alti rispetto all’Italia)
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Tabella 1: INDICATORI PER LA RICERCA E L’INNOVAZIONE
% Pil investito in R&S
Spesa in R&S
(milioni di €)
Quota investimenti R&S
da industria
Ricercatori ogni 1000
lavoratori
% di ricercatori
industriali
Brevetti (triadic) per
milione di abitanti
6
e il tasso di crescita della quota
dei mercati high-tech negli
ultimi 20 anni, che è stato pari
all’800% (European Union,
Key-figures 2003-2004).
A questi dati ampiamente noti
si sono accompagnati numerosi
studi e dibattiti. Tra le varie
considerazioni emerse sono
ricorrenti in particolare tre
conclusioni: in primo luogo c’è
un problema di risorse, in
secondo luogo c’è un problema
di efficienza e di qualità e infine
c’è un problema relativo
ai processi di innovazione e di
trasferimento tecnologico.
Sul primo punto non si può che
essere d’accordo: il confronto
internazionale pone delle sfide
evidenti e richiede maggiori
sforzi orientati al futuro
da parte delle imprese e delle
amministrazioni pubbliche,
nuovi sistemi di valutazione
e incentivazione degli
investimenti in ricerca e sviluppo
nelle imprese, nelle università
e nei centri di ricerca.
Il secondo punto invece richiede
una maggiore attenzione.
È innegabile la necessità
di attività di ricerca e sviluppo
di qualità, è fondamentale che
gli investimenti non vadano
dispersi in organizzazioni non in
grado di valorizzarli
adeguatamente ed è altrettanto
evidente che in Italia e in Europa
siano possibili numerosi passi
avanti in questo senso.
Ma è altrettanto importante
sottolineare che, pur in presenza
di una realtà estremamente
eterogenea, sono presenti diversi
ottimi centri di ricerca
e università così come numerose
imprese innovative e di successo.
In termini di produttività
scientifica (rapporto tra numero
di pubblicazioni e numero
di ricercatori), ad esempio, l’Italia
è perfettamente in linea con
la media dell’Unione europea
e ha una produttività quasi
doppia rispetto agli Stati Uniti
Tasso di crescita
investimenti in R&S
Tasso di crescita
ricercatori
Tasso di crescita
ricercatori industriali
Crescita brevetti (triadic)
per milione di abitanti
(10 anni)
Nuovi PhD in S&T
Crescita quota
dei mercati high tech
(20 anni)
ITA
EU(25)
1,16
1,93
Usa Giappone
2,59
3,15
14.600 189.584 251.577
119.748
Svezia
UK
4,27
1,89
10.459 30.085
Germania Francia
2,51
2,15
54.310 34.122
43
55,6
63,1
74,5
71,9
43,9
66,1
52,1
2,8
5,4
9
10,1
10,1
5,5
6,3
6,8
39,3
49
80,5
67,9
60,6
57,9
58,1
51,1
14,8
43,3 *
57,7
92,3
91,8
36,7
90,7
40,3
Usa Giappone
Svezia
UK
ITA
EU(25)
2,7
4,5
4,8
3,15
8,4
2,8
3,3
2,1
0,7
2,8
3,2
2,1
4,6
4,1
1,5
3
-1,3
0,9
0,8
-0,4
1,7
1
0,5
1,6
102%
1,37
68%
0,68
26%
0,18
-36%
74%*
43%
0,49
0,41
-22%
1%
29%
0,27
-27%
n.d.
-34%
Germania Francia
97%
32%
0,8
0,71
-54%
15%
* EU 15
Fonti: EU Key-figures 2005 e EU Key-figures 2003-2004, US National Science Board - Science and Engineering
Indicators 2004, OECD Science, Technology and Industry Scoreboard 2005. Dati 2003 o ultimi dati disponibili.
(European Commission – Third
European Report on S&T
Indicators, 2003). Sottolineare
i margini di miglioramento dei
centri di ricerca e delle imprese
rimane un aspetto
fondamentale, ma il dibattito
che vede contrapposti da un
lato quelli che assegnano tutte
le colpe ai centri di ricerca
(sostenendone l’incapacità di
fare ricerca “utile”) e dall’altro
quelli che considerano
responsabili le imprese perché
troppo piccole è stato finora
un dibattito sterile che non
coglie a nostro avviso gli aspetti
prioritari. Per quanto siano
effettivamente necessarie azioni
volte ad affrontare le critiche
sopra evidenziate per ognuno
dei due attori principali del
sistema dell’innovazione,
l’attenzione maggiore deve
essere posta sulle relazioni,
le interazioni e i processi che
vedono coinvolti entrambi.
In quest’ottica sono possibili
diversi spazi d’intervento per
le amministrazioni pubbliche
in termini di governance
del sistema complessivo e di
facilitazione dell’incontro e della
collaborazione tra i diversi
soggetti.
Riprendendo il terzo dei punti
prima evidenziati, possiamo
quindi rilevare che c’è un
problema relativo ai processi di
innovazione e di trasferimento
tecnologico su cui occorre
intervenire. Non a caso, infatti,
negli ultimi anni la cosiddetta
“economia evolutiva” ha
sottolineato l’importanza per
l’innovazione delle imprese di
quelli che sono definiti elementi
di contesto e in particolare della
presenza e dell’interazione dei
diversi attori: sono stati
approfonditi i concetti di sistemi
nazionali (o regionali o settoriali)
dell’innovazione e si è affermata
la consapevolezza dell’esistenza
di una tripla elica di relazioni tra
università, imprese e istituzioni.
Il seguito di questo lavoro
si concentrerà quindi su questi
aspetti considerando come
i diversi soggetti coinvolti
interagiscono e possono
interagire con gli altri attori del
sistema per aumentare la
capacità complessiva di fare
innovazione.
La prospettiva delle imprese
Il soggetto da cui occorre
partire, come già accennato,
sono le imprese. Se il problema
che stiamo affrontando riguarda
l’innovazione come leva per lo
sviluppo economico e sociale,
occorre capire innanzitutto
come le imprese fanno
innovazione e come possono
fare parte di un sistema
interconnesso.
In effetti, è sempre più chiaro
che le imprese sono interessate
ad aprirsi, ad assorbire
conoscenza dal contesto.
Molti dati dimostrano come
il fenomeno sia globale, cioè
sempre più la ricerca delle
imprese avviene in interazione
con il contesto e non più solo
all’interno dei propri laboratori.
Ad esempio le scelte
di localizzazione dei centri
di ricerca delle imprese sono
sempre più indirizzate verso
parchi scientifici e tecnologici
o in generale in prossimità
di altri centri di ricerca industriali
o pubblici e università.
Questo fenomeno di apertura
si verifica per una serie di motivi,
tra cui l’aumentata complessità
della scienza e della tecnologia
e dei costi e dei rischi associati
alla ricerca.
Le tecnologie stesse sono
sempre più complesse e
trasversali e le imprese, non
riuscendo a dominarle tutte e in
modo completo, non possono
che aprirsi all’esterno.
Coesistono, inoltre, diverse
traiettorie tecnologiche sia in
termini di input, cioè di direzioni
lungo le quali orientare la ricerca
più esplorativa, sia in termini
di output cioè di tecnologie
da sviluppare per ottenere
innovazioni. In generale le
attività di ricerca e sviluppo
diventano sempre più rischiose
(in particolare in termini
di risultati raggiungibili
e probabilità di successo)
e costose (in termini di sforzo
necessario e risorse coinvolte)
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Figura 1. IL CASO DEL SETTORE FARMACEUTICO
Investimenti totali in R&S (miliardi di $) e numero di New Chemical Entities (NCEs)
Fonte: 2004 Pharma Annual Survey, 2003/2004 Parexel's Pharmaceutical Industry Sourcebook
ed è quindi necessario rendere
il processo più flessibile
avvalendosi di input
e collaborazioni esterne.
Nel caso del settore farmaceutico,
ad esempio – come emerge
dalla figura 1 – gli investimenti
in Ricerca e Sviluppo sono dovuti
aumentare in modo quasi
esponenziale per mantenere
almeno costante il numero
di nuovi principi attivi.
In risposta a queste difficoltà
le aziende farmaceutiche hanno
progressivamente aumentato
le loro relazioni con altri centri
di ricerca e oggi quasi
il 50% dei prodotti da loro
commercializzati deriva
da accordi di licensing con
piccole imprese o centri
di ricerca (Evaluate Pharma;
ISO Healthcare, 2003).
Questo nuovo approccio delle
imprese all’innovazione è stato
recentemente descritto con
il termine “Open Innovation”
(Chesbrough, H., 2003)
in contrapposizione al vecchio
modello definito di “Closed
Innovation”. Si è cioè passati
da grandi laboratori interni alle
imprese, normalmente segreti
e chiusi rispetto all’esterno,
a imprese che considerano
i propri confini permeabili sia alle
ricerche e alle idee provenienti
dall’esterno sia in termini di
commercializzazione, licensing
e spin-off di proprie idee e
ricerche non strettamente legate
al core business dell’impresa.
Sono ormai disponibili numerosi
esempi di questo nuovo
approccio anche a livello
italiano, ma due casi sono
a nostro avviso particolarmente
significativi per illustrare
le modalità attraverso le quali
è possibile mettere in pratica
questi concetti.
Il primo caso riguarda la Pfizer.
Questa azienda, tra le più grandi
del settore farmaceutico,
da alcuni anni ha lanciato
un programma chiamato
Drug PfinderTM che si basa sulla
collaborazione dei propri grandi
e attrezzati laboratori con
gruppi di ricercatori accademici
di tutto il mondo. L’azienda
permette a ricercatori selezionati
di partecipare alle prime fasi
dell’identificazione di nuovi
composti chimici, di ottenere
benefici economici nel caso
in cui i risultati del loro lavoro
portino a nuovi farmaci e di
ricevere finanziamenti per le loro
ricerche e le loro collaborazioni.
In questo modo, come
sottolineato dalla stessa Pfizer,
i ricercatori ottengono risorse
per le proprie ricerche
e l’impresa riesce ad ampliare
il proprio portafoglio di risorse,
idee e creatività.
Ancora più interessante è il caso
Procter & Gamble che è stato
anche ripreso in un recente
articolo della rivista
Harvard Business Review
(Huston & Sakkab, 2006).
Questa impresa, partendo dalla
considerazione che “per ognuno
dei nostri 7.500 ricercatori ve
ne sono almeno 200 altrettanto
bravi in altre parti del mondo”,
si è organizzata per accedere
a questo enorme bacino
di conoscenze. In particolare
ha creato 70 technology
entrepreneur, settanta
professionisti che di mestiere
fanno scouting, ricercano
tecnologie, conoscenze
e competenze, vanno in giro per
il mondo a cercare opportunità
e soluzioni per la loro impresa.
Negli Stati Uniti, ad esempio,
in questo momento sono un
grande successo le patatine
sviluppate da questa impresa
chiamate Pringles Print e
caratterizzate dall’aver stampato
su ogni patatina, a seconda
della confezione, trivia,
massime, indovinelli su vari temi.
L’aspetto interessante è che
l’implementazione di questa
idea non è stata sviluppata
nei laboratori di ricerca interni;
l’impresa ha cercato di capire
se e chi avesse già sviluppato
una tecnologia di inchiostri
alimentari o qualcosa di simile,
e alla fine ha trovato la soluzione
in uno spin-off accademico
dell’Università di Bologna.
In generale Procter & Gamble
dichiara che ormai oltre il 50%
dell’innovazione della propria
impresa proviene dall’esterno e
che con questo nuovo approccio
e con questa nuova struttura
organizzativa si è dimezzato
il time-to-market, ottenuta una
crescita della produttività della
ricerca e sviluppo del 60%,
e raddoppiato il tasso di
successo dell’innovazione.
Non a caso Huston e Sakkab,
discutendo di questo caso nel
loro articolo, suggeriscono
di non parlare più di
“ricerca e sviluppo” ma di
“connessione e sviluppo”
enfatizzando quindi l’aspetto
del collegamento nei confronti
del contesto esterno rispetto
all’investimento in ricerca
all’interno della propria impresa.
La necessità di sempre maggiori
connessioni è evidenziata anche
dall’affermarsi, in particolare
a livello internazionale,
di società di intermediazione
e di veri e propri marketplace
delle tecnologie come
ad esempio Innocentive
o NineSigma. Questi soggetti,
che nascono sulla base delle
esigenze delle imprese,
hanno lo scopo di mettere
in comunicazione le aziende
che hanno problemi da risolvere
o idee da sviluppare con
i ricercatori di tutto il mondo
e costituiscono un ulteriore
canale attraverso il quale
cercare nuove collaborazioni.
I casi presentati hanno due
interessanti similitudini che
ci permettono di sottolineare
ed esemplificare due primi
risultati del nostro studio.
In primo luogo emerge quanto
stia diventando strategico per
le imprese guardare al proprio
esterno, cercare e cogliere
nuove opportunità e farlo,
aspetto non scontato, con
un’ottica internazionale.
È necessario prendere coscienza
che questi fenomeni
di trasferimento di conoscenze
e tecnologie avvengono
a livello globale, le imprese che
non trovano risposte ai loro
problemi nel contesto locale
iniziano a cercare in altri paesi,
e allo stesso tempo i ricercatori
che non individuano possibilità
di sviluppo per i loro ritrovati
o finanziamenti per le loro
ricerche nel proprio territorio
iniziano a rivolgersi altrove.
Pur riconoscendo il valore della
prossimità per questi processi
e in particolare per gli aspetti
relativi alla fiducia e alle
conoscenze tacite, idee
e conoscenze hanno una
grande mobilità e la
localizzazione non può
costituire una scusa o un alibi.
Al contrario sono presenti
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L’avv. Giovanni Giavazzi, presidente
della Fondazione Italcementi
Cav. Lav. Carlo Pesenti, saluta i partecipanti
alla tavola rotonda.
The Chairman of the Italcementi Cav. Lav.
Carlo Pesenti Foundation, Giovanni Giavazzi,
welcomes the round table speakers.
8
grandi opportunità per chi
si organizza per coglierle.
Proprio questo aspetto
“organizzativo” costituisce la
seconda significativa analogia
tra i due casi e ci permette di
introdurre il secondo risultato
del nostro lavoro: così come
è necessaria una maggiore
attenzione verso l’esterno
dell’impresa, altrettanto e anzi
ancora più importante per
cogliere appieno i vantaggi del
nuovo approccio è una
rinnovata attenzione verso
l’interno dell’impresa.
In primo luogo non è sufficiente
una semplice predisposizione
verso l’esterno: la scoperta
di nuove opportunità e nuove
soluzioni non avviene
naturalmente e, anche se il caso
può certamente giocare un
ruolo rilevante, è necessario
creare le condizioni perché
queste occasioni si presentino.
Serve cioè essere proattivi
e organizzarsi, individuare
programmi e figure
professionali ad hoc per queste
operazioni di scouting e di
selezione. E tutto ciò può
non essere sufficiente se non
è affiancato da un altro
cambiamento interno
fondamentale sempre dal punto
di vista organizzativo: un nuovo
assetto dei laboratori interni di
ricerca e sviluppo nella direzione
di una maggiore capacità
d’interazione con soggetti
e idee esterne. Può succedere
che nuove opportunità e
tecnologie si manifestino alle
imprese, anche senza particolari
sforzi da parte loro, attraverso
l’intermediazione di altri
soggetti o semplice fortuna,
ma senza la capacità di cogliere
e sviluppare queste opportunità
è difficile che dall’incontro
si sviluppino significative
innovazioni. Come sottolineato
in un famoso articolo di
Cohen e Levinthal (1990) le
imprese hanno bisogno di
capacità assorbitive per
appropriarsi, rielaborare e
sviluppare, al fine di ottenere
delle innovazioni,
le conoscenze provenienti
dall’esterno. Le attività
innovative non possono quasi
mai essere date completamente
in outsourcing, è necessario che
nell’impresa ci siano le risorse,
in primo luogo umane, in grado
di trasformare le conoscenze
in innovazioni apportando
il contributo, l’esperienza e il
know-how dell’impresa stessa.
Nei due casi brevemente
descritti si è accennato,
infatti, ai “grandi e attrezzati
laboratori” della Pfizer
e ai “7.500 ricercatori” della
Procter & Gamble. Queste
imprese si aprono verso
l’esterno, ma senza rinunciare
a fare ricerca, senza rinunciare
ai ricercatori che possono
tradurre in innovazioni anche le
conoscenze generate all’esterno.
Su quest’ultimo punto è
necessario un approfondimento
in quanto un’altra evidente
similitudine tra i due casi
presentati è che entrambi
riguardano imprese di
dimensioni molto grandi che
operano in mercati
internazionali. Dal nostro punto
di vista le considerazioni
sviluppate non valgono però
solo per queste tipologie di
imprese: anche imprese di
medie e piccole dimensioni
possono seguire la strada
indicata e diversi esempi lo
confermano. La condizione
fondamentale non è tanto la
dimensione quanto la possibilità
e la consapevolezza della
necessità di investire in risorse
umane qualificate in grado di
generare innovazione, anche
assorbendo conoscenze
e tecnologie dall’esterno.
Sicuramente questo
investimento è più semplice per
imprese medie e grandi,
ma la considerazione che spesso
viene fatta, che cioè in un
contesto molto significativo
di piccole imprese il ruolo delle
università e dei centri di ricerca
pubblici sia ancora più
importante come possibile
sostituto della ricerca
industriale, è a nostro avviso
fuorviante. Diversi studi hanno
ormai dimostrato che se
le imprese non sono
opportunamente organizzate
internamente, se non
dispongono di capacità
assorbitive e non hanno
strutture interne dedicate con
ricercatori o tecnici specializzati,
difficilmente riusciranno
non solo ad appropriarsi della
conoscenza generata al
loro esterno e a tradurla in
innovazione, ma anche a capire
a chi rivolgersi, a porre
le domande giuste e in generale
a comunicare con il mondo
della ricerca e delle tecnologie.
Non a caso da un recente
studio sulle imprese lombarde
è emerso che tra le imprese con
più di 50 addetti oltre l’80%
ha laureati in organico e circa
il 50% ha ospitato stage
di studenti universitari, mentre
tra le imprese con meno
di 50 addetti solo il 35% ha
laureati in organico e solo
il 15% ha ospitato stage di
studenti universitari.
In conclusione per le imprese
sta diventando strategico
guardare al proprio esterno
e devono quindi organizzarsi
per cercare nuove opportunità,
conoscenze e tecnologie;
ma per far funzionare
il processo di trasferimento
di conoscenze e tecnologie
tra imprese, centri di ricerca
pubblici e università non
è sufficiente che i diversi
soggetti entrino in contatto:
le imprese devono organizzarsi
internamente per sviluppare
capacità assorbitive che
permettano loro di cogliere
queste opportunità.
La prospettiva delle
università e dei centri di
ricerca pubblici
Un secondo attore
fondamentale del sistema
dell’innovazione sono
le università e i centri di ricerca
pubblici. Della loro importanza
come luoghi di produzione
di conoscenza e di formazione
di risorse umane qualificate per
le imprese si è già accennato
e in questa sede non è prioritario
discuterne, da un lato perché
sono già presenti numerosi studi
al riguardo, dall’altro perché su
questo punto c’è un sostanziale
consenso sia a livello scientifico
sia a livello di dibattito pubblico.
Più interessante è invece
il dibattito sull’opportunità,
sulle modalità e sulla capacità
di questi attori di trasferire
conoscenze e tecnologie e in
generale sul loro impegno nella
relazione con il mondo
industriale.
È ormai evidente che molti
di questi attori, in particolare
a livello internazionale, hanno
fatto di questo punto una loro
terza missione. Tra i motivi che
spingono a una collaborazione
con le imprese tre sono a nostro
avviso particolarmente rilevanti:
lo stimolo alla ricerca,
l’immagine e l’integrazione delle
risorse finanziarie.
In primo luogo, molti ricercatori
hanno capito i limiti di un
modello lineare che consideri
unicamente un passaggio
unidirezionale dalla ricerca
di base alla ricerca applicata, allo
sviluppo industriale. Le relazioni
sono molto più complesse,
e per quanto la ricerca libera,
di curiosità, continui a costituire
un fondamento imprescindibile
dello sviluppo scientifico
e tecnologico, è ormai chiaro
che diversi stimoli e sfide
possono venire dal mondo
industriale e portare a grandi
scoperte, come avvenuto ad
esempio per la microbiologia
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Figura 2. INFLUENZA DEL RAPPORTO CON LE IMPRESE
SULLA PRODUTTIVITÀ SCIENTIFICA
Numero medio di pubblicazioni all’anno
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
0
Science oriented
Fonte: adattato da Van Looy et al., 2004
grazie agli studi di Pasteur per
la risoluzione di problemi
di natura industriale.
In secondo luogo, la
collaborazione e la stima da
parte delle imprese costituiscono
un elemento distintivo rilevante
in termini d’immagine per
i centri di ricerca e i ricercatori,
sia nei confronti dell’opinione
pubblica sia, soprattutto, in
termini di attrattività di talenti,
di nuovi ricercatori e studenti,
che tra l’altro oltre all’immagine
considerano anche le
opportunità aperte da queste
relazioni.
Infine, una relazione significativa
con il mondo industriale
permette un’integrazione delle
risorse finanziarie a disposizione,
e quindi di nuovo la possibilità
di migliori strutture di ricerca
e ricerche eccellenti.
A queste motivazioni dovrebbe
poi aggiungersi il senso di
responsabilità che sempre di più
caratterizza le università e
i centri di ricerca pubblici, cioè la
consapevolezza della necessità
di valorizzare i risultati della
ricerca per la società. Ma in
questa sede ci preme di più
sottolineare l’aspetto di utilità, e
in particolare il primo punto da
noi evidenziato, perché ancora
oggetto di un significativo
dibattito.
Alcuni autori, a questo riguardo,
continuano a sostenere che un
legame forte tra centri di ricerca
pubblici e imprese pregiudichi la
vera natura di queste istituzioni
e il loro ruolo, e in particolare
impoverisca e limiti le attività di
ricerca di base. A nostro avviso
è sicuramente necessario un
equilibrio nella ripartizione delle
attività di ricerca. Come già
sottolineato, l’importanza della
ricerca di base rimane fuori
Technology oriented
Collaborano
Non collaborano
discussione, ma maggiori
relazioni con il mondo
industriale per università e centri
di ricerca pubblici sono non solo
un dovere ma anche
un’opportunità. Un’opportunità,
come visto sopra, in termini di
stimoli e risorse per la ricerca
e perché, come sempre più studi
dimostrano, probabilmente
entro un certo limite queste
collaborazioni non impattano
negativamente sulla produttività
scientifica. A titolo di esempio
riportiamo i risultati di uno di
questi studi condotto
recentemente presso l’Università
Cattolica di Leuven.
Una serie di docenti di questa
università sono stati divisi in due
gruppi: quelli che collaborano
con le imprese e quelli che non
collaborano con le imprese se
non in modo trascurabile
(all’interno della stessa università
ovviamente ci sono dei margini
di libertà).
Dalla figura 2 si può notare che
quelli che collaborano, quelli che
sono coinvolti in processi di
trasferimento di conoscenze,
sono anche quelli che
pubblicano di più, anzi in campo
tecnologico (pubblicazioni
technology oriented) pubblicano
circa 4 volte di più. La differenza
è meno significativa, ma
comunque rilevante, anche per
quanto riguarda le pubblicazioni
più teoriche, più legate alla
ricerca di base (pubblicazioni
science oriented).
Questo esempio e altri che si
potrebbero citare confermano
l’opportunità di un’apertura
delle università e dei centri di
ricerca pubblici nei confronti
delle imprese, così come
specularmente, abbiamo già
visto, le imprese si stanno
orientando a fare nei confronti
di questo mondo. Ma da un
punto di vista operativo con
quali modalità questi soggetti
possono implementare questa
apertura?
Un caso interessante è proprio
quello dell’Università Cattolica
di Leuven che, anche se meno
famosa di altre università,
ad esempio americane, ha
ottime performance in termini
di trasferimento di conoscenze
e tecnologie e opera in un
contesto europeo che è quindi
più facilmente confrontabile
con quello italiano.
In primo luogo in questa
università da oltre 20 anni
è presente un ufficio di
trasferimento tecnologico
chiamato Leuven R&D (LRD)
che ha oggi circa 25 addetti.
In secondo luogo i ricercatori
dei differenti dipartimenti
universitari, anche appartenenti
a facoltà diverse, possono
decidere di unirsi virtualmente
in “research division” presso
l’ufficio di trasferimento
tecnologico LRD mettendo
a sistema le proprie diverse
competenze di ricerca,
commerciali e industriali.
In questo modo si realizza
una vera e propria struttura
organizzativa a matrice
di carattere interdisciplinare
all’interno dell’università. Alla
base di questa impostazione
c’è l’idea che per risolvere
i problemi applicativi, l’ottica
non può essere disciplinare,
ma necessariamente
multi-disciplinare, cioè
i problemi e le soluzioni dal
punto di vista innovativo
richiedono di mettere insieme
competenze diverse.
Inoltre, mentre il sistema di
incentivi dei dipartimenti e delle
facoltà è basato sulla
promozione nel percorso di
carriera accademica, guardando
essenzialmente alla produzione
di risultati di ricerca e alla
qualità della didattica, per le
divisioni LRD è stato sviluppato
un sistema di incentivi fondato
sulla flessibilità di budget
e sull’autonomia finanziaria
e le divisioni LRD godono
di autonomia nel gestire ricavi e
spese relativi alle proprie attività
di trasferimento tecnologico.
In altre parole, tali divisioni
possono accantonare riserve
finanziarie generate dai profitti
ottenuti con le attività di
trasferimento tecnologico ed
eventualmente investire in
nuove attività di ricerca o in
nuove imprese (spin-off). Infine,
l’Università Cattolica di Leuven
ha realizzato un fondo per
il finanziamento delle imprese
spin-off dell’università stessa
e tale fondo è co-partecipato
all’80% da due grandi banche.
Un altro caso molto
interessante, e più conosciuto,
è quello dell’Università di Oxford.
Anche Oxford ha ottenuto in
questi anni significativi risultati
in termini di trasferimento di
conoscenze e tecnologie, in
particolare per quanto riguarda
la creazione di imprese spin-off
della ricerca che nel 2004
hanno raggiunto un fatturato
cumulato di circa 3 miliardi di
euro. Anche in questa università
è attivo da diversi anni un
centro di trasferimento
tecnologico, chiamato ISIS
Innovation. In questo centro
lavorano circa 35 persone e di
queste ben 18 sono project
manager, ricercatori PhD
specializzati nell’aiutare le
imprese spin-off dell’università a
nascere e nei primi anni del loro
sviluppo. Questi project
manager hanno un compito in
particolare: trovare i soggetti
giusti da coinvolgere nelle
nuove imprese grazie alla loro
rete di relazioni e alla rete
di contatti del centro ISIS
Innovation. All’Università
di Oxford, infatti, i ricercatori
il cui lavoro è stato valutato
interessante da valorizzare
9
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Figura 3. IL CASO DELL’UNIVERSITÀ CATTOLICA DI LEUVEN
BANCHE
80%
20%
IMPRESE
UNIVERSITÀ
Gemma Frisius
Fund
25 M€
DIPARTIMENTO
DIPARTIMENTO
FACOLTÀ
LEUVEN R&D
Innovation Coordinator
RESEARCH DIVISION
RESEARCH DIVISION
10
attraverso la fondazione di
un’impresa spin-off non sono
coinvolti direttamente nella
gestione di questo spin-off:
il capo del gruppo di ricerca
può diventare il direttore della
ricerca e i suoi collaboratori
membri del team di ricerca
e sviluppo dell’impresa,
ma il management, il direttore
generale e/o l’amministratore
delegato sono selezionati
all’esterno del mondo
universitario tra persone con
forti esperienze manageriali
e industriali e sempre all’esterno
sono selezionati esperti
di marketing, degli aspetti
finanziari ecc.
Anche nella prospettiva delle
università e dei centri di ricerca
pubblici i due casi ci
permettono di esemplificare
sinteticamente due ulteriori
risultati del nostro studio.
In primo luogo anche per questi
soggetti è un’opportunità aprirsi
nei confronti del mondo delle
imprese e quindi è necessario
che si organizzino internamente
per gestire queste relazioni.
Le modalità organizzative
possono essere diverse
a seconda del contesto e delle
caratteristiche della ricerca
che viene condotta ed è perciò
necessario che possano
determinarsi autonomamente
in questo senso. È inoltre
importante sottolineare che per
queste attività è necessario
raggiungere una certa massa
critica e quindi sono necessari
investimenti, ma soprattutto
risorse umane dedicate
e specializzate; non a caso nei
due casi esaminati si parlava
rispettivamente di 25 e 35
addetti. Per fortuna le università
e i centri di ricerca pubblici
europei e italiani si stanno
muovendo in questa direzione
e negli ultimi anni hanno creato
e ora stanno sviluppando
e migliorando uffici di
trasferimento tecnologico
RESEARCH DIVISION
dedicati e sempre più
professionali.
In secondo luogo questi
soggetti devono tener presente
di avere delle specificità e dei
limiti. La missione principale
di queste strutture rimane
la ricerca e la formazione
e su questa devono continuare
a investire e migliorare per
distinguersi e per svolgere al
meglio il loro ruolo nel sistema
dell’innovazione. Per quanto
riguarda il trasferimento
di conoscenze e di tecnologie
è utile che coinvolgano gli altri
soggetti con competenze
specifiche, ad esempio gli attori
finanziari come visto nel caso
di Leuven per il fondo di
finanziamento, le persone con
competenze manageriali come
nel caso di Oxford per dirigere
gli spin-off o ancora le stesse
imprese per quanto riguarda
lo sviluppo, l’industrializzazione
delle scoperte scientifiche
e in generale l’innovazione.
La prospettiva delle
istituzioni
L’ultima prospettiva che
affrontiamo è quella delle
istituzioni, ed è una prospettiva
che pone delle sfide
particolarmente significative.
Cosa possono fare le istituzioni?
Il tema di come favorire
il trasferimento tecnologico
e l’interazione tra imprese,
università e centri di ricerca
pubblici è oggi, come si può
vedere anche dall’attenzione
a livello europeo, nazionale
e regionale, ai primi posti
nelle agende politiche perché
riconosciuto fondamentale ma,
come già accennato, si faticano
a trovare delle soluzioni.
Il punto di partenza della nostra
analisi sono state, ancora una
volta, le imprese. In particolare
ci siamo chiesti se
effettivamente tutte le imprese
sono interessate a fare
innovazione e quindi a dedicare
attenzione alle attività di ricerca
e sviluppo e alle relazioni
con gli altri attori del sistema
dell’innovazione.
Abbiamo classificato un
significativo campione di piccole
e medie imprese in Lombardia:
accanto alle innovatrici,
che sono le aziende che hanno
avuto e continuano ad avere
piani di innovazione, abbiamo
individuato le aspiranti e quelle
che abbiamo definito inerti.
Le innovatrici hanno in realtà
un limitato bisogno di politiche
per la ricerca e l’innovazione,
sono cioè già in grado di
sviluppare internamente e in
relazione con altri soggetti
le conoscenze e le opportunità
per competere sul mercato
e chiedono alle amministrazioni
pubbliche più che altro di non
essere ostacolate in queste loro
attività e di creare condizioni
di contesto favorevoli in termini
infrastrutturali, finanziari, della
qualità della ricerca pubblica.
Le aspiranti invece, cioè le
imprese che non hanno ancora
fatto innovazione ma hanno
idea di farne, dovrebbero
costituire il target delle politiche
per la ricerca e l’innovazione
e ne parleremo in seguito.
Poi però dal nostro studio
è emerso anche che circa
il 60% delle imprese, pur in una
regione dinamica quale la
Lombardia, sono inerti: non solo
non fanno innovazione, ma
non hanno nessuna intenzione
di farne (Verganti, Buganza,
Landoni, 2005).
Per queste ultime imprese serve
un ulteriore passaggio:
far capire l’importanza
dell’innovazione, o ancora
meglio la necessità
dell’innovazione.
È poi emerso che le imprese che
fanno innovazione hanno una
maggiore crescita del fatturato,
e soprattutto hanno una
maggiore crescita del fatturato
all’estero. Questo ci dice una
cosa che sapevamo già, e cioè
che fare innovazione aiuta a
competere; ma ci può dire
anche un’altra cosa se letta
nell’altro verso: chi è più esposto
alla competizione internazionale
è più portato a fare innovazione.
Uno dei motivi principali per cui
molte imprese non investono
in innovazione è il fatto che
l’innovazione non ha un valore
di per sé, un valore intrinseco
e oggettivo, ma serve,
è funzionale, a competere
sul mercato. Molte imprese
non sentono la necessità
di competere, non sentono
la pressione competitiva
o quanto meno non
considerano interessante
competere attraverso le leve
dell’innovazione che sono quelle
che garantiscono un
differenziale più significativo.
Per queste imprese le politiche
più rilevanti sono quelle rivolte
a far percepire lo stimolo della
competizione in modo tale
da convincerle a investire
in innovazione. Diverse iniziative
sono in corso in questa
direzione a livello nazionale
ed europeo, ma la strada rimane
ancora lunga come dimostrato
dal recente Global
Competitiveness Report (2006)
che vede l’Italia al 72° posto in
termini di efficienza dei mercati.
Riportando quindi l’attenzione
sulle imprese aspiranti rimane
da capire con quali politiche per
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la ricerca e l’innovazione è
possibile facilitare le relazioni tra
queste imprese e le università
e i centri di ricerca pubblici.
In passato una delle soluzioni
più utilizzate è stata quella
di mettere in mezzo tra questi
due attori incapaci di parlarsi
dei traduttori, dei centri di
trasferimento tecnologico terzi
e indipendenti che facilitassero
il dialogo. Questa soluzione,
che pure ha dato origine
ad alcune strutture significative
che continuano a essere
estremamente utili, aveva senso
in un contesto quale quello
degli anni passati, in cui i due
attori principali non avevano
cominciato a organizzarsi
internamente per il dialogo e
presenta invece forti limiti oggi,
in particolare per la ridondanza
di strutture di questa natura.
Molte di queste strutture
rischiano di essere inefficienti
in primo luogo perché sono
generaliste, cercano cioè
di fare un po’ di tutto e non
si specializzano. Come un
traduttore deve conoscere bene
entrambe le lingue degli
interlocutori, così queste
strutture devono sviluppare
significative competenze per
essere in grado di far interagire
con risultati significativi imprese
e centri di ricerca pubblici.
In secondo luogo, fare
trasferimento senza
focalizzazione è difficilissimo
perché sono presenti moltissimi
soggetti a monte (in particolare
ricercatori e gruppi di ricerca)
e moltissimi soggetti a valle,
cioè moltissime imprese in
diversi settori industriali.
Spesso per queste strutture
è risultato e risulta più
conveniente interagire con pochi
soggetti di grandi dimensioni,
quali le amministrazioni
pubbliche, e concentrare gli
sforzi nell’ottenere da queste
fonti finanziamenti e progetti.
Al contrario, sono i centri di
Pagina 11
trasferimento tecnologico che
hanno più forti legami
e rapporti con il mondo della
ricerca quelli che riescono
a trasferire meglio alle imprese
conoscenze e tecnologie.
Infine, la presenza di un
intermediario allontana invece
che avvicinare i due interlocutori
e anzi l’intermediario ha tutto
l’interesse a tenere separati
i due soggetti affinché
il suo ruolo sia riconoscibile
e necessario.
A nostro avviso, da quanto
discusso emerge la necessità di
rivedere ruolo e organizzazione
di molti di questi centri di
trasferimento tecnologico
avviando, al contempo, politiche
di selezione e integrazione tra
strutture diverse. È ormai chiaro
infatti che le imprese ricorrono
anche e prevalentemente
ad altri intermediari come fonte
delle conoscenze necessarie
all’innovazione.
Come noto a livello scientifico e
come evidenziato anche in Italia
da un recente studio del Censis
(2004), infatti, la principale
fonte di innovazione per le
imprese in generale, e ancora di
più per le piccole e medie
imprese, sono i clienti (e in
particolare i clienti industriali),
i fornitori e i concorrenti,
soprattutto grazie agli stimoli
e alle sfide che impongono
e ai meccanismi di emulazione.
Diverse imprese, ad esempio,
fanno a gara per essere fornitori
della multinazionale
STMicroelectronics, nonostante
i margini relativamente bassi
che riescono a ottenere,
perché lavorare con un leader
tecnologico li obbliga a essere
sempre all’avanguardia e li fa
accedere almeno in parte al
know-how di questa grande
impresa.
Analogamente, diverse imprese
che stiamo contattando
nell’ambito del Progetto
“Attrattività” della regione
Lombardia che hanno
delocalizzato la produzione
in altri paesi ci segnalano
le difficoltà che incontrano per
l’aver perso il tessuto italiano
di piccoli fornitori che avevano
un tempo e che era in grado
di proporre e contribuire
a sviluppare tante innovazioni
nel processo produttivo.
Da queste considerazioni
emerge la complessità del
sistema dell’innovazione,
la presenza di una rete di attori
con propri ruoli e specificità
e processi di trasferimento
di conoscenze e tecnologie
articolati. Concentrare
l’attenzione solo sui centri
di trasferimento tecnologico
intermediari trascurando ad
esempio i marketplace delle
tecnologie di cui si è già parlato
o altri soggetti come quelli
finanziari o i consulenti
difficilmente può portare
a significativi risultati. Il compito
a cui sono chiamate le
amministrazioni pubbliche
è quindi un compito difficile,
un ruolo di facilitazione e
governance che si deve tradurre
in un complesso e differenziato
insieme di interventi e azioni su
diversi aspetti e diversi soggetti,
senza la pretesa di singoli
interventi risolutori.
Ad esempio il
Baden-Wurttemberg in
Germania è un caso interessante
di una governance coerente del
sistema dell’innovazione
caratterizzata da un insieme di
azioni articolate e coordinate,
alcune delle quali sinteticamente
rappresentate nella figura 4.
Tra gli aspetti più rilevanti di
questo caso è importante notare
la presenza di numerosi centri di
ricerca specializzati, con grandi
gruppi di ricerca in grado di
raggiungere la massa critica per
l’ottenimento di risultati
all’avanguardia. Una condizione
fondamentale è infatti
la presenza di ottima ricerca,
e in questo Land tedesco non
mancano gli investimenti in
questa direzione sia in assoluto
(circa il 4% del Pil) sia per
quanto riguarda le imprese, che
contribuiscono per circa l’80%
dell’investimento complessivo.
Sono stati inoltre creati dei
centri ad hoc per facilitare
il trasferimento tecnologico,
ma questi centri, più che porsi
come intermediari, si
propongono come facilitatori
dell’incontro tra ricerca pubblica
e imprese. Non a caso sono
chiamati “agenzie di
coordinamento”, hanno una
funzione principalmente
progettuale e di supporto
e sono inoltre estremamente
focalizzati su specifici settori
(automotive, aerospace, ecc.)
riuscendo in questo modo
non solo a conoscere in modo
approfondito i temi di cui
si occupano ma anche, e nella
maggior parte dei casi
personalmente, i possibili diversi
soggetti oggetto delle loro
azioni di facilitazione.
Un altro caso che è utile
considerare è quello della
regione olandese del Limburg
che ha avviato nel 1998 un
programma di voucher
tecnologici poi finanziato dalla
Comunità europea che è stato
sviluppato in modo simile anche
in Lombardia. Il programma
consiste nel fornire alle imprese,
sulla base di un piccolo progetto,
circa 5.000 euro in un voucher
che queste imprese possono
spendere, per la realizzazione
di una parte del progetto, presso
tutti i centri di ricerca pubblici
accreditati della regione.
Ovviamente l’importo del
contributo è estremamente
limitato e a prima vista potrebbe
sembrare inutile, anche perché,
proprio per la sua entità e quindi
per la capillarità dell’intervento,
risulta non economico un
controllo dettagliato dell’uso
di questi fondi.
11
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Figura 4. IL CASO DEL BADEN-WURTTEMBERG
CENTRI DI RICERCA
IMPRESE
Finanziamento a progetti congiunti
Piattaforma Web
Specializzati per ambito
Densi di competenze
(non puro trasferimento)
Supporto alla brevettazione
Premio “Innovazione nelle PMI”
Sostegno alla diffusione ICT
Supporto agli spin-off
Programma Giovani Innovatori
AGENZIE DI
COORDINAMENTO
(focalizzate)
12
Al contrario, a nostro avviso,
questo caso esemplifica molto
bene una delle possibili
modalità di intervento delle
istituzioni in un’ottica di sistema
secondo quanto sopra
argomentato e in particolare
esemplifica bene una delle
azioni possibili per la creazione
di capitale relazionale in un
territorio. Il capitale di relazione,
la fiducia tra i diversi attori,
è fondamentale per l’avvio
e il successo di collaborazioni
e processi di trasferimento
tecnologico. L’oggetto di questo
trasferimento, la conoscenza,
è infatti estremamente difficile
da quantificare e valutare,
richiede un impegno
significativo in termini finanziari
e di tempo ed è spesso legato
a considerevoli rischi.
Per questi motivi raramente
un’impresa è disposta
a investire grandi risorse in
progetti con ricercatori
e strutture che non conosce
e di cui non sa se potersi fidare.
I voucher tecnologici possono
contribuire a creare questo
capitale relazionale, possono
costituire un primo passo di
avvicinamento dei diversi attori,
possono creare un rapporto
sul quale poi si innesteranno
progetti e collaborazioni
rilevanti, anche autofinanziate
dalle imprese. Con questa
chiave interpretativa è possibile
considerare anche altri
interventi e meccanismi di
interazione, come ad esempio
i progetti dei programmi quadro
dell’Unione europea,
ma soprattutto i convegni
e i seminari scientifici
o più divulgativi sulle nuove
tecnologie o ancora il ruolo
degli studenti che effettuano
stage e tesi presso le imprese
e le borse di studio per studenti
di dottorato finanziate dalle
aziende.
Così come in precedenza
abbiamo sottolineato che le
istituzioni non possono pensare
di risolvere i problemi dei
sistemi dell’innovazione con
uno o due interventi miracolosi
e risolutori, allo stesso modo
le istituzioni non devono
concentrare l’attenzione delle
loro azioni solo sui più eclatanti
meccanismi di interazione tra
i centri di ricerca pubblica e le
imprese quali grandi contratti,
laboratori congiunti, licensing
ecc., ma devono considerare
che questi meccanismi
costituiscono la punta di un
iceberg che ha alla base una
serie di interazioni più informali
ma altrettanto preziose.
Conclusioni
Questo studio, adottando un
approccio “dal basso” basato
su casi e sulla prospettiva delle
imprese, ci ha permesso di
individuare alcune opportunità
di azione per i tre soggetti
principali del sistema
dell’innovazione. In particolare
ci siamo focalizzati sui processi
e le relazioni, siamo entrati nel
merito di questi meccanismi
e abbiamo riconosciuto ampi
spazi di manovra per i singoli
attori; non a caso anche
in Italia diversi soggetti, grazie
all’autonomia di cui
dispongono, si stanno
muovendo per cogliere queste
opportunità e, dal lato delle
istituzioni, per facilitare
o almeno non ostacolare
questi processi.
Abbiamo sottolineato diversi
aspetti, tra cui la necessità sia
per le imprese sia per i centri
di ricerca pubblici di
organizzarsi in modo diverso,
l’importanza del capitale
relazionale, l’opportunità di
politiche capillari e sistemiche,
la rilevanza di centri di
trasferimento focalizzati, ecc.
Ma per concludere ci preme
evidenziare un ultimo punto.
I sistemi dell’innovazione sono
estremamente complessi, la
sfida per le istituzioni pubbliche
in termini di politiche per la
ricerca e l’innovazione e in
termini di governance è quindi
una sfida difficile. Questo
implica che anche le
amministrazioni devono
organizzarsi per affrontare
questi temi e in particolare
hanno bisogno di competenze
per sviluppare un’azione
efficace evitando il rischio di
azioni che, ad esempio
limitando l’autonomia dei
diversi soggetti, siano
controproducenti per il sistema.
Per fortuna alcuni passi in
questa direzione si stanno
compiendo: cresce la
consapevolezza dell’importanza
di queste politiche per lo
sviluppo economico e sociale e
si iniziano a sviluppare le
competenze necessarie per
progettarle e gestirle.
Studio IReR a cura
di Roberto Verganti con
la collaborazione di
Claudio Roveda
e Paolo Landoni.
* Roberto Verganti è direttore dell’Alta
Scuola Politecnica (ASP), la scuola per
talenti dei Politecnici di Milano e Torino.
In precedenza è stato fondatore e primo
direttore della Scuola di Dottorato
di Ricerca del Politecnico di Milano.
È professore ordinario di Gestione
dell’Innovazione e direttore di
“Made in Lab”, il laboratorio di alta
formazione su Marketing, Design and
Innovation Management della School
of Management dell’ateneo milanese.
È inoltre membro dello Scientific
Committee dell’European Institute for
Advanced Studies in Management,
dell’Editorial Board del Journal of
Product Innovation Management,
dell’Advisory Council del Design
Management Institute di Boston.
Nel 1997-1998 è stato visiting professor
alla Harvard Business School, dove tiene
oggi regolarmente seminari e lezioni
sui temi del design management.
O
ver the last few years,
the scientific community
and public debate have
both stressed the importance
of scientific and technological
innovation in economic and
social growth, underscoring the
close relationship between
business organizations’ capacity
for innovation on one hand and
local public research systems
on the other. Specifically,
pressure is growing on industry
to invest in R&D, and on the
public research system
to transfer knowledge and
technology to industry.
Despite all the studies and
debate, a solution to the
problem of growth, innovation
and research has still not been
found. And this was the starting
point of this survey conducted
for the Italcementi Foundation:
since the issue is so complex,
involving a multitude of different
players, relationships and
processes, political action and
managerial decisions,
it cannot be resolved with a
top-down approach based
purely on numbers and statistics,
looking at the past and unable
to perceive subtle behavioral and
organizational differences.
So we decided to use a new
method, to adopt a bottom-up
interpretative approach,
examining the players involved
and the relationships among
them. We decided to focus on
a series of excellent cases and
then generalize from their
stories, indicating possible paths
for players individually or jointly,
on a coordinated basis.
We also decided to take an
original perspective in our survey,
focusing attention on industry
rather than on government
or research centers, given that
industry is the source of
innovation.
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Table 1: RESEARCH AND INNOVATION INDICATORS
% GDP invested in R&D
R&D spending
(€ million)
Portion R&D investment
from industry
Researchers per 1000
workers
% of industrial
researchers
Triadic patents per
1 million inhabitants
The problem
Every international report of the
last few years has observed
the difficult situation of
research and innovation in Italy
and in Europe. Table 1 presents
some of the most significant
indicators; the situation they
reflect is familiar: Europe, and
Italy in particular, lag behind the
USA and Japan, and, looking
ahead, the emerging nations
like China. And within Europe,
Italy lags behind the other G7
nations and the north European
countries such as Sweden.
The problems lie in research
investment (industrial research
investment in particular),
propensity to innovate in
technology (patents) and, above
all, the number of researchers,
the fundamental resource for
research. Worse still, as the
second part of the table shows,
the situation is deteriorating.
Although growth has been
achieved as far as absolute
figures are concerned, the other
systems are progressing faster,
so in relative terms the gap is
widening. From the perspective
of industry and innovation, the
loss in competitiveness on the
high-tech markets over the
last 20 years is significant.
Finally, and this is beginning
to emerge in the figures,
new countries are establishing
an international footing, and,
contrary to what we often read,
they have no intention
of competing only in low
value-added sectors, but are
moving into research and
innovation. India is a rising star,
especially in Information and
Communication Technology
(ICT), as are Korea and the
other so-called Asian tigers.
China, too, is making
a strong move in this direction,
a trend confirmed by the
percentage of GDP invested
in R&D (already higher than
in Italy) and the growth rate
R&D investment
growth rate
Researcher
growth rate
Industrial researcher
growth rate
Triadic patent growth per
1 million inhabitants
(10 years)
New PhDs in S&T
Growth high-tech
market share
(20 years)
ITA
EU(25)
USA
1.16
1.93
2.59
Japan Sweden
3.15
14,600 189,584 251,577
119,748
4.27
UK
Germany
France
1.89
2.51
2.15
10,459 30,085
54,310 34,122
43
55.6
63.1
74.5
71.9
43.9
66.1
52.1
2.8
5.4
9
10.1
10.1
5.5
6.3
6.8
39.3
49
80.5
67.9
60.6
57.9
58.1
51.1
14.8
43.3 *
57.7
92.3
91.8
36.7
90.7
40.3
Japan Sweden
UK
Germany
France
ITA
EU(25)
USA
2.7
4.5
4.8
3.15
8.4
2.8
3.3
2.1
0.7
2.8
3.2
2.1
4.6
4.1
1.5
3
-1.3
0.9
0.8
-0.4
1.7
1
0.5
1.6
102%
1.37
68%
0.68
26%
0.18
-36%
74%*
43%
0.49
0.41
-22%
1%
29%
0.27
-27%
n.a.
-34%
97%
32%
0.8
0.71
-54%
15%
* EU 15
Sources: EU Key-figures 2005 and EU Key-figures 2003-2004, US National Science Board - Science and Engineering
Indicators 2004, OECD Science, Technology and Industry Scoreboard 2005. Figures for 2003 or most recent available
figures.
of its share of high-tech
markets in the last 20 years,
which stands at 800%
(European Union,
Key-figures 2003-2004).
These widely publicized figures
have been accompanied by
countless studies and debates,
which, time and again, have
reached three main conclusions:
first, that there is a problem
with resources, second, that
there is a problem in efficiency
and quality, third, that there
is a problem in innovation and
technology transfer processes.
There is no question about the
first problem: international
competition creates obvious
challenges and requires greater
future-oriented efforts from
industry and government,
new systems to assess and
promote R&D investment
in industry, universities and
research centers.
Greater attention needs to be
taken with the second point.
Without doubt, R&D quality
is essential, we have to avoid
wasting investments on
organizations unable to make
the best use of them; it is
equally clear that there is great
room for improvement in this
area in Italy and in Europe.
At the same time, however,
although the situation is
extremely uneven, we have
many excellent research centers
and universities, as well as
many innovative and successful
business organizations.
For example, in terms of
scientific productivity
(ratio between number of
publications and number of
researchers), Italy is perfectly
aligned with the EU average
and its productivity is almost
double that of the USA
(European Commission – Third
European Report on S&T
Indicators, 2003). It is important
to point out the areas for
improvement in our research
centers and enterprises, but the
debate between those who
attribute all the blame to
research centers, accusing them
of being unable to conduct
“useful” research, and those
who place responsibility with
our enterprises, saying they are
too small, has so far been
a sterile discussion that fails
in our view to grasp the key
issues. While action is clearly
needed to resolve the
weaknesses of the two main
players in the innovation
system, the main focus of
attention should be on the
relationships, the interactions
and the processes in which
both are involved.
At this level, a variety of
measures can be taken by the
authorities to improve the
governance of the system as a
whole and promote exchanges
and cooperation. Going back to
the third problem mentioned
above, there is a problem to be
resolved in innovation and
technology transfer processes.
Over the last few years,
in fact, the so-called
“evolving economy” has
stressed the importance of the
context factor for corporate
innovation, notably the
presence of and interaction
among different players:
the concepts of national
(or regional or sectorial)
innovation systems have been
examined, and commentators
have identified the existence of
a three-way relationship driver,
among universities, industry and
government. This paper focuses
on these aspects, considering
the way in which the various
players interact and could
interact with the other system
players to enhance the overall
capacity for innovation.
The industry viewpoint
As we explained earlier, industry
is the player that should be
considered first. If the topic
under discussion is innovation
as a lever for economic and
social growth, we need to
understand first of all how
industry innovates and how
enterprises can be part of an
interconnected system.
13
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Figure 1. THE PHARMACEUTICALS INDUSTRY
Total R&D investment ($ billion) and number of New Chemical Entities (NCEs)
14
It is becoming clear that
industry actually wants to open
up, to absorb knowledge from
outside. Many figures show this
is a global trend, with
increasing numbers of
companies conducting research
in cooperation with external
partners, and no longer behind
closed laboratory doors.
For example, more and more
companies are locating research
centers in science and
technology parks, or, more
generally, close to other
industrial or public research
centers and universities.
A number of factors are driving
this trend, in particular the
growing complexity of science
and technology, and of
research-related costs and risks.
Technologies themselves are
increasingly complex and
cross-related, and since
companies cannot control them
all fully, they have no choice but
to look outside. They also have
to take account of multiple
technology trajectories,
as regards input, that is, the
directions in which to steer
exploratory research, and as
regards output, that is, the
technology to develop in order
to innovate. Generally speaking,
R&D work involves growing
risks, especially in terms of
possible results and the
likelihood of success, and
growing costs in terms of the
effort and resources required, so
the process needs to be made
more flexible through recourse
to external input and support.
In the pharmaceuticals industry,
for example, as figure 1 shows,
R&D investments have had to
increase at an almost
exponential rate to ensure that
the number of new active
principles at least remains
constant.
Pharmaceutical companies have
responded to these difficulties
by gradually increasing ties with
Source: 2004 Pharma Annual Survey, 2003/2004 Parexel's Pharmaceutical Industry Sourcebook
other research centers,
and today almost 50% of the
products they market are the
result of licensing agreements
with small enterprises or
research centers (Evaluate
Pharma; ISO Healthcare, 2003).
The term “Open Innovation”
was used recently (Chesbrough,
H., 2003) to describe industry’s
new approach to innovation,
as opposed to the old model
of “Closed Innovation”. In other
words, companies have moved
away from large in-house
laboratories, which usually
worked in secret in closed
environments, and are opening
up their doors, both to external
research and ideas, and to
marketing, licensing agreements
and spin-offs for their own ideas
and research work not strictly
related to their core business.
There are numerous examples
of this new approach, in Italy
too. Two cases histories illustrate
the way these concepts
can be put into practice.
The first is the Pfizer company,
one of the largest names in
pharmaceuticals. A few years
ago, Pfizer introduced a
program called Drug PfinderTM
for cooperation between its
own large and well-equipped
laboratories and groups of
academic researchers all round
the world. The company allows
selected researchers to take part
in the early stages of
development of new chemical
compounds, to receive financial
remuneration if their work
results in new drugs, and to
obtain funding for their research
and cooperation. With this
scheme, as Pfizer points out,
researchers obtain resources
for their own work and the
company expands its own
portfolio of resources, ideas
and creativity.
An even more interesting case
is Procter & Gamble, recently
covered in an article in the
Harvard Business Review
(Huston & Sakkab, 2006).
On the premise that “for every
one of P&G’s 7,500 researchers
there were 200 scientists or
engineers elsewhere in the
world who were just as good”,
Procter & Gamble decided to
tap this huge knowledge base
by creating 70 technology
entrepreneurs, professionals
who specialize in scouting for
technology, know-how and
expertise, and go round the
world looking for opportunities
and solutions for the company.
For example, P&G has achieved
a huge success in the USA with
its Pringles Prints, potato crisps
printed with riddles, proverbs
and curious facts, depending on
the type of package.
The point is that the idea was
not developed in-house:
P&G looked around to see
whether an edible ink or similar
technology had already been
developed, and eventually found
an academic spin-off at Bologna
University. Procter & Gamble
says that, generally speaking,
more than 50% of its innovation
is now sourced externally
and that its new approach and
new organizational structure
have halved time-to-market,
boosted R&D productivity by
60%, and doubled its innovation
success rate.
Interestingly enough, in their
article on the P&G case,
Huston & Sakkab suggest that
we are no longer talking about
“research and development”
but about “connect and
develop”, a view that
emphasizes the importance of
connection with the external
environment rather than
investment in in-house research.
The need for greater ties
is also reflected by the growing
success, particularly at
international level, of science
facilitators, and technology
marketplaces like Innocentive
or NineSigma. The mission
of these operators, created
in response to an industry need,
is to bring together companies
with problems to solve or ideas
to develop with researchers
around the world; in doing so
they provide an additional
channel through which new
connections may be sought.
Our case histories present two
interesting similarities that
underscore and exemplify two
preliminary results of our survey.
First, they illustrate the growing
strategic importance for
industry of opening up and
searching for new
opportunities, and of doing so
from an international viewpoint,
not something that is always
taken for granted. We should
be aware that knowledge and
technology transfers occur
at global level, that companies
unable to resolve problems
locally are beginning to look
abroad, that researchers unable
to find local opportunities to
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develop their discoveries or local
funding for their research are
beginning to look further afield.
Although proximity is an
important factor in these
processes, especially in terms
of trust and tacit know-how,
ideas and knowledge are
extremely mobile and
localization cannot be an excuse
or an alibi. On the contrary,
important opportunities
are available for companies
prepared to organize
themselves to take them.
The “organizational” aspect is
the second important similarity
between our two case histories
and brings us to the second
result of our survey:
if companies need to pay greater
attention to what is happening
outside, renewed attention to
their internal operations is
equally or even more important
if they want to realize the full
potential of an open approach.
Simply being outward looking is
not enough: new opportunities
and new solutions do not turn
up spontaneously and although
chance may certainly be
a significant factor, the right
conditions have to be created
for these opportunities to
develop. In other words, the
company has to be proactive,
organize itself appropriately,
draw up ad hoc programs and
identify professional figures
for scouting and selection
operations. Even this may not
be enough unless it is backed
up by another fundamental
organizational change: a new
emphasis on interaction with
external players and ideas
among the company’s in-house
R&D labs. New opportunities
and technologies may present
themselves to companies
without any particular effort
on their part, through
intermediaries or simply
through luck, but significant
innovation is unlikely if they are
Pagina 15
unable to exploit these
opportunities. As a seminal
paper by Cohen and Levinthal
(1990), companies need
absorptive capacity to
accumulate, re-process and
develop external knowledge
and produce innovation.
Innovation can almost never
be fully outsourced, the
company must have the
resources—human resources
first of all—to transform
knowledge into innovation
through its own experience
and know-how.
In the two case histories
described above, we mentioned
Pfizer’s “large and
well-equipped laboratories”
and the “7,500 researchers”
at Procter & Gamble. These
companies look outside, but
they continue to do research
work, they continue to retain
researchers to convert
knowledge that may be sourced
outside the company into
innovation.
This last point should be
examined in greater depth,
given that another obvious
similarity between our two case
histories is that both companies
are huge international market
players. Our observations,
however, do not apply only to
large corporations: small and
medium enterprises can adopt
this kind of approach too, and
there are plenty of examples to
prove it. The basic requirement
is not so much size as the
possibility and the awareness of
the need to invest in qualified
human resources capable
of generating innovation,
when appropriate by absorbing
external knowledge and
technology. Obviously this type
of investment is easier for
medium-sized and large
organizations, but the frequent
comment that in a context with
a very large population of small
enterprises, the role of
universities and public research
centers is even more important
as a possible substitute for
industrial research is misleading.
Many studies have found that
if companies lack the right
internal organization, if they
have no absorptive capacity
and lack in-house teams
of specialized researchers
or engineers, they will find it
difficult not only to accumulate
external knowledge and
translate it into innovation,
but also to know who to ask,
to ask the right questions and
in general to communicate with
the research and technology
community. A recent study
on enterprises in Lombardy
found that more than 80%
of companies with more than
50 employees had university
graduates on their workforce,
and that about 50% organized
internships for university
students; among companies
with fewer than 50 employees,
only 35% had graduate
employees and only 15%
organized internships.
To conclude, an outward
looking approach is becoming
a strategic factor for companies
and they need to organize ways
to find new opportunities,
knowledge and technology;
but for successful knowledge
and technology transfers
between industry, public
research centers and
universities, simply being in
contact with one another is not
enough: companies must
introduce appropriate internal
organizational models to
develop the absorptive capacity
to take advantage of these
opportunities.
The university and public
research center viewpoint
A second major role in the
innovation system is played by
universities and public research
centers. Their importance as
producers of knowledge and
creators of skilled human
resources for industry has
already been mentioned, and
the issue is not a priority for
discussion here, first, because
it has already been analyzed in
many other studies, and,
second, because there is wide
consensus on the point in the
scientific community and
in public debate. A more
interesting topic for discussion
are the opportunities, ways
and ability of universities and
public research centers to
transfer knowledge and
technology and their general
commitment to partnering
with industry.
This has clearly become the
third mission for many
universities and public research
centers, especially at
international level. Among the
reasons for cooperation with
industry, three are particularly
important: stimuli for research,
image and additional funding.
First, many researchers have
realized the limits of a linear
model consisting exclusively
of a one-way path from basic
research to applied research,
and from there to industrial
development. The relationships
involved are far more complex,
and while free research inspired
by curiosity may continue to be
a cornerstone of scientific and
technological development,
it is evident that industry
can provide many stimuli and
challenges and lead to great
discoveries, as for example in
microbiology thanks to Pasteur’s
work on solutions to problems
of an industrial nature.
Second, cooperation with and
recognition by industry are a
significant enhancement to the
image of research centers and
researchers, in terms of public
visibility and, particularly
important, the power to attract
talent, new researchers and
15
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Figure 2. INFLUENCE OF TIES WITH INDUSTRY ON SCIENTIFIC
PRODUCTIVITY
Average number of publications per year
3.5
3
2.5
2
1.5
1
0.5
16
students, who, in addition to the
image factor, also consider the
opportunities opened up by a
relationship with these centers.
Finally, strong ties with industry
are also a way to supplement
funding, and thus to improve
research structures and project
excellence.
Another reason for partnering
is the growing sense of
responsibility among universities
and public research centers: the
awareness that their research
should be of benefit to society.
Our main focus here, however,
is the utility factor, and the first
reason we mentioned, which
is still a widely debated issue.
Some commentators still believe
that strong ties between public
research centers and industry
compromise the true nature and
role of public bodies and,
in particular, diminish and limit
basic research work. We believe
a balance must be achieved
in distribution of research work
and, as noted earlier, the
importance of basic research
is indisputable; nevertheless,
closer ties with industry are not
only a duty for universities and
public research centers, they also
represent an opportunity.
An opportunity because they
provide stimuli and resources and
because, as growing numbers
of studies indicate, cooperation,
probably within certain limits,
does not have a negative impact
on scientific productivity.
The results of a recent study at
the Catholic University of Leuven
illustrate the point.
A number of lecturers from
the university were divided into
two groups: those who
cooperate with industry and
those who cooperate to
an insignificant extent (obviously
there is a certain degree of
freedom within the university).
As figure 2 shows, lecturers who
cooperate and are involved in
knowledge transfers are also
0
Science oriented
Source: adapted from Van Looy et al., 2004
those who publish more; indeed,
the difference is four-fold
for technology-oriented
publications. The difference
is less significant, but still
noticeable, for theoretical
publications covering basic
research (science oriented).
This example and others that
could be mentioned indicate
that it is important for
universities and public research
centers to be open to industry,
in the same way that industry,
as we have seen, is opening up
toward them. But from
a practical point of view,
how can universities and public
research centers put this open
approach into practice?
The Catholic University of
Leuven is an interesting case:
although it is not as famous
as some American universities
it has an excellent track record
in knowledge and technology
transfers. And since it operates
in a European context it is
easier to compare with Italian
universities.
First of all, for more than
20 years the university has
had a technology transfer
office—Leuven R&D (LRD)—with
a staff of around 25 today.
Second, the researchers in the
various university departments,
and also from different faculties,
are able to form virtual “research
divisions” in the LRD, pooling
their specific research,
commercial and industrial
competences. The result is an
interdisciplinary matrix structure
inside the university.
The thinking behind this
approach is that application
problems necessarily require
an interdisciplinary rather
Technology oriented
Cooperate
Do not cooperate
than disciplinary solution:
in terms of innovation, problems
need solutions combining
a variety of skills.
Also, whereas career promotion
is the main incentive in the
departments and faculties, based
on the production of research
results and teaching quality,
the incentives system developed
for the LRD divisions is based on
budget flexibility and financial
independence, and the LRD
divisions are free to manage
revenues and expenditure for
their technology transfers.
In other words, the divisions
can set aside financial provisions
from the profits obtained on
technology transfers, in order
to invest in new research work
or new spin-offs. Finally, the
Catholic University of Leuven
has set up a seed capital fund
to finance its spin-offs,
in partnership with two major
banks, who hold 80%.
Another very interesting and
better known case is Oxford
University. Oxford too has
achieved impressive results in
knowledge and technology
transfers in recent years,
particularly as regards research
spin-offs, whose aggregate
revenues totaled approximately
3 billion euro in 2004.
A technology transfer center,
ISIS Innovation, has been active
at Oxford University
for a number of years.
The center has a staff of
approximately 35, of whom 18
are project managers, PhDs who
specialize in setting up spin-offs
and supporting them in their
first few years. One of the
project managers’ specific tasks
is to find the right partners for
the new companies through
their network of relationships
and ISIS Innovation’s network of
contacts. This is because Oxford
researchers whose work is
developed through spin-offs
are not directly involved in the
management of the start-ups:
the head of the research team
may be appointed head of
company research and his staff
members of the company’s
R&D group, but management,
the general manager and/or
the CEO are recruited outside
the university among people
with solid managerial and
industrial experience; likewise,
marketing and financial
specialists are recruited
externally.
The two cases used to illustrate
the university and public
research center viewpoint
exemplify briefly two further
results of our survey.
First, cooperation with industry
is an opportunity for universities
and public research centers,
and, like industry, they need to
adopt an internal organization
to support these ties.
Organizational models will
depend on the context and the
characteristics of the research
in question, so the operators
in question need to be able
to decide freely. Another
important point is that a critical
mass needs to be reached:
this requires investments and,
above all, specialized human
resources; the two centers
examined here have staffs
of 25 and 35 employees
respectively. Fortunately, Europe
and Italy’s universities and public
research centers are moving
in this direction: a number of
specialized and increasingly
professional technology transfer
offices have been formed in the
last few years, and are
expanding all the time.
Second, universities and public
research centers should bear
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Figure 3. THE CATHOLIC UNIVERSITY OF LEUVEN
BANKS
80%
20%
INDUSTRY
UNIVERSITY
Gemma Frisius
Fund
25 M€
DEPARTMENT
DEPARTMENT
FACULTY
LEUVEN R&D
Innovation Coordinator
RESEARCH DIVISION
RESEARCH DIVISION
RESEARCH DIVISION
in mind their specific features
and limits. Their main mission
is research and education,
and they must continue to
invest and deliver in these areas
in order to play their role in the
innovation system to the full.
As far as knowledge and
technology transfers are
concerned, it is helpful if other
players with specific
competences are brought in,
such as banks for the Leuven
fund, or management experts
in Oxford to run the spin-offs
or the companies themselves
as regards development
and industrialization of scientific
discoveries and innovation
in general.
The government viewpoint
Finally, we come to the
viewpoint of government,
an area that poses particularly
significant challenges. What can
government do? As the interest
in this question at European,
national and regional levels
shows, ways to promote
technology transfers and
interaction between industry and
universities and public research
centers is a top priority on
today’s political agendas because
of its overriding importance; and
yet solutions are slow in coming.
Once again, the starting point
for our analysis was industry.
The question we asked was
whether all enterprises really are
interested in innovation and
consequently in focusing on R&D
and building ties with the other
players in the innovation system.
We classified a significant sample
of small- and medium-sized
enterprises based in Lombardy:
in addition to companies
classified as innovators,
enterprises that have innovated
and continue to plan innovation,
we identified aspirers and a
third group we defined as inert.
The innovators have only
a limited need for research and
innovation policies, because they
are already capable
of developing knowledge and
market opportunities internally
and jointly with other players;
their main requirement as far as
government is concerned
is not to be obstructed in their
work and favorable conditions in
terms of infrastructure, finance
and quality of public research.
The aspirers, who have not yet
innovated but want to, should
be the targets addressed by
research and innovation policies,
and we will discuss them later.
Our study found, however, that
even in a dynamic region like
Lombardy, approximately 60%
of companies are inert: not only
do they not innovate, they
have no intention of doing so
(Verganti, Buganza, Landoni,
2005).
Public policy in relation to these
enterprises should go one step
further: it has to increase
awareness of the importance,
or, better still, of the need
for innovation.
Our study also showed that
innovators report stronger
revenue growth, especially
stronger international revenue
growth. This confirms a known
fact, that innovation enhances
competitiveness; but it can also
be read a different way, that the
companies most exposed to
international competition are the
ones most likely to innovate.
One of the main reason why
many companies do not invest
in innovation is because
innovation has no intrinsic,
objective value, it is a tool to
compete on the market.
Many companies do not feel the
need to compete, they are not
under competitive pressure or
they are not interested in
competing with the innovation
lever, the lever that guarantees a
more significant differential.
These companies can be
effectively targeted with policies
designed to boost perception
of competitive stimuli and
convince them to invest in
innovation. A number of
initiatives of this kind have been
organized in Italy and in
Europe, but much remains to
be done, as the recent Global
Competitiveness Report (2006)
confirms: Italy ranks 72nd
in terms of market efficiency.
Going back to aspiring
innovators, the question is what
sort of research and innovation
policies can foster relations
between aspirers and universities
and public research centers.
A solution frequently adopted in
the past was to provide
translators, in the shape
of independent, third-party
technology transfer centers,
to assist communication between
the two players.
While this approach has
produced some impressive
entities who continue to play
a valuable role, it was useful
a few years ago, before the
two main players had begun
to adopt new internal models
geared to dialog. Today, it has
major limitations, partly because
bodies of this kind are
redundant.
Inefficiency is a risk for many
of these centers, first because
they take a generalist approach,
trying to do a bit of everything
rather than specializing.
In the same way that
a translator needs to know both
the languages he works with,
so this type of center has to
accumulate significant expertise
if it is to foster constructive
interaction between industry
and public research centers.
Second, unfocused transfers are
extremely difficult, because
so many parties are active
upstream (especially researchers
and research groups)
and downstream (countless
enterprises in different
industries). Often, these
intermediate bodies have found
it more effective to interact
with a small number of large
counterparts, in other words
with government agencies,
and concentrate on obtaining
financing and projects from
them. Conversely, technology
transfer centers with the closest
ties with the research
community are the bodies that
have the greatest success
transferring knowledge and
technology to industry.
Finally, the presence of an
intermediary tends to keep the
two interlocutors apart rather
than bring them together;
indeed, it is in the
intermediary’s interest to keep
them apart, so that its role
is recognized as necessary.
We believe our findings
highlight the need for a review
of the role and organization
of many technology transfer
centers and for the introduction
of a selection and merger
policy. Not least because it is
clear that industry tends to go
elsewhere to outsource
knowledge for innovation.
It is a known fact at scientific
level, and confirmed in Italy
by a recent Censis study (2004),
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Figure 4. THE BADEN-WURTTEMBERG CASE
RESEARCH CENTERS
INDUSTRY
Joint project financing
Web platform
Area-specific specialization
Competence intensive
(not pure transfer)
Support for patenting
Innovation Award for SMEs
Support for ICT use
Support for spin-offs
Young Innovators Program
COORDINATION
AGENCIES
(focused)
18
that the main source of
innovation for industry
in general, and for small- and
medium-sized enterprises
in particular, are customers
(especially industrial customers),
suppliers and competitors,
due to the stimuli and
challenges they provide and
to emulation mechanisms.
For example, many companies
compete to be suppliers to the
multinational
STMicroelectronics, despite
relatively low margins, because
working with a technology
leader forces them to keep
ahead and provides them
with at least partial access
to the know-how of this major
corporation.
Similarly, a number of
companies we are in contact
with for the Lombardy region’s
“Attrattività” Project, which
have relocated production to
other countries, have told us
of the difficulties they are
encountering now they no
longer have the support of the
small Italian suppliers who
contributed to the development
of so many innovations in the
production process.
These considerations illustrate
the complexity of the
innovation system, the presence
of a network of players,
each with their own specific
characteristics and role,
and the elaborate workings of
knowledge and technology
transfer processes. Focusing
attention on intermediate
technology transfer centers,
and neglecting other
components such as technology
marketplaces, mentioned
earlier, or other players like
financiers or consultants
is unlikely to bring significant
results. So the task facing
government is a difficult role
of facilitation and governance,
to be interpreted through
a complex and varied range of
activities and initiatives relating
to different aspects and
different players, instead of
attempting one-off solutions.
Baden-Wurttemberg in
Germany is an interesting
example of consistent
governance of the innovation
system through a series
of targeted, coordinated
activities, some illustrated
in figure 4.
One of the most significant
features is the presence of
numerous specialized research
centers with large research
groups guaranteeing the critical
mass needed to achieve
cutting-edge results.
In fact, excellent research is a
fundamental condition, and in
this German Land investments
in research are plentiful, in
absolute terms (approximately
4% of GDP) and in industry,
which accounts for
approximately 80% of overall
spending. Also, ad hoc centers
have been formed to facilitate
technology transfers, but rather
than act as intermediaries,
they facilitate meetings
between public research and
industry. They are known as
“coordination agencies” and
their main function is to provide
planning and support; they also
focus on specific industries
(automotives, aerospace, etc.),
which gives them in-depth
technical knowledge as well as
direct contact, in the majority
of cases at personal level, with
the bodies they may facilitate.
Another example is the
Dutch region of Limburg, which
set up a program of technology
vouchers in 1998, later funded
by the European Community;
a similar program has been
introduced in Lombardy.
Under the program, companies
present small projects to receive
a voucher worth around
5,000 euro, which they can use
to finance development of part
of the project at accredited
public research centers in the
region. Obviously the sum in
question is very small; and at
first sight, it may seem useless,
partly because since it is so
small and so widely
disseminated, detailed checks
on how the money is used
are not cost-effective.
In our view, however, this is
a good example of one way
government can intervene in a
system model, to stimulate the
formation of relational capital.
Relational capital, ties of trust
among the various players, is
vital for successful cooperation
and technology transfers.
The knowledge transferred is
extremely difficult to quantify
and evaluate, it requires
significant commitment in time
and money, and often involves
considerable risk.
For these reasons, enterprises
are rarely prepared to invest
large resources in projects with
researchers and groups they do
not know, whose reliability is
untested. Technology vouchers
help create relational capital,
they can be a first step toward
bringing players together,
creating a relationship as a basis
for future projects and
cooperation agreements,
possibly financed by the
companies themselves.
Relational capital can be built
with other types of initiative
and forms of interaction, such
as the projects of the European
Union framework projects,
or, more effectively, scientific
or public conferences and
seminars on new technology,
internships and opportunities
for undergraduates to research
their theses in companies
and post-graduate scholarships
financed by industry.
Just as government cannot
expect to resolve the problems
of innovation systems with
a couple of miraculous
cure-all measures, so it should
not focus all its efforts on
headline-grabbing forms of
interaction between public
research centers and industry,
such as major contracts,
joint laboratories, licensing, etc.
These mechanisms are the tip
of an iceberg consisting of a
whole series of more informal
but equally valuable forms
of interaction.
Conclusions
By adopting a bottom-up
approach based on case
histories and considering the
question from an industry
viewpoint, we have identified
a number of opportunities
for the three main players in the
innovation system. Specifically,
our study examines the way
processes and relationships
work, finding ample scope for
action for the individual players;
it is no coincidence that
in Italy too, many players are
taking advantage of their
independence to exploit these
opportunities and, as far as
government is concerned,
to facilitate or at least not
obstruct these processes.
We have emphasized a number
of aspects, including the need
for industry and for public
research centers to adopt
new organizational structures,
the importance of relational
capital, the need for
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widespread, systemic policies,
the importance of focused
transfer centers, etc.
In concluding, we wish to stress
a final point. Innovation systems
are extremely complex,
and the challenge for
government in developing
research and innovation policies
and governance is a difficult
one. This implies that
government too should adopt
organizational models to deal
with these issues, to act
effectively and avoid measures
that could be counterproductive
for the system, for example
measures that limit players’
independence. Happily, steps
are being taken in this
direction: awareness is growing
of the importance of these
policies for economic and social
growth, and government is
beginning to develop the
expertise it needs to plan and
manage them.
IReR survey by
Roberto Verganti with the
cooperation of Claudio
Roveda and Paolo Landoni.
* Roberto Verganti is the Principal
of the Alta Scuola Politecnica (ASP),
a school for top performers from the
Milan and Turin Polytechnics. Previously,
he founded and was the first principal
of the Research Doctorate School
of Milan Polytechnic. He is Chair
of Innovation Management and Director
of the “Made in Lab” higher education
laboratory on Marketing, Design and
Innovation Management of Milan
University’s School of Management.
He is also a member of the Scientific
Committee of the European Institute
for Advanced Studies in Management,
the Editorial Board of the Journal
of Product Innovation Management,
the Advisory Council of the Design
Management Institute of Boston.
In 1997-1998 he was visiting professor
at Harvard Business School, where
he holds regular seminars and lectures
on design management.
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La grande sfida della società
della conoscenza
Meeting the Challenge of the
Knowledge Society
Luigi Nicolais*
Sistema privato e sistema pubblico devono collaborare e investire di più nell’innovazione
The private and public systems have to cooperate and invest more in innovation
I
grandi cambiamenti che
caratterizzano la nostra epoca
hanno comportato una
profonda modifica delle
competenze e dei sistemi di
lavoro, sempre più basati
sull’economia della conoscenza.
In questo passaggio il rischio
è che alcune imprese riescano
ad adattarsi e a trovare lo
spazio per competere e che
altre, invece, ne restino escluse.
E riusciranno meglio le imprese
che saranno più pronte e capaci
di smaterializzare i loro prodotti.
Si tratta, com’è chiaro, di un
passaggio di grande complessità
e dobbiamo riuscire a pensare
a una serie di filiere su cui
investire. Questo non dipende
da una singola Legge
Finanziaria: la competitività
migliorerà se saremo capaci di
investire a più lungo termine su
tutta la filiera della conoscenza.
L’obiettivo da porsi è di
migliorare il livello della
conoscenza scientifica,
liberalizzare le università,
realizzare modelli di interazione
tra ricerca e impresa. Lo studio
realizzato dall’IReR per la
Fondazione Italcementi descrive
alcuni dei più efficaci modelli
esistenti e mette giustamente
in evidenza come modelli
passati, quali i parchi scientifici
e tecnologici, oggi non
rispondano più alle esigenze del
mercato. Dobbiamo quindi
pensare a nuovi modelli
di interazione, legati alle
caratteristiche del territorio.
Vi è l’esigenza di un nuovo
e più efficace modello
di governance delle complessità
del sistema che comprenda,
oltre al Governo, le Regioni
e l’Europa. Un ruolo molto
importante potrà essere svolto
dagli enti locali, se sapranno
organizzarsi in maniera
sinergica, per scongiurare
il rischio di una diluizione
delle responsabilità,
e conseguentemente di una
scarsa efficienza.
Posso dire, infatti, sulla base
della mia esperienza come
assessore regionale per sei anni
in una regione difficile come
la Campania, che senza una
governance forte sul territorio
non si riesce a garantire lo
sviluppo. Il governo centrale
deve operare per consentire che
si generi la governance di questi
sistemi complessi. La catena del
valore si è allungata a monte
e a valle: il valore non nasce
più solo dalla produzione,
ma soprattutto a monte,
dalla ricerca, l’innovazione, e la
capacità di riuscire ad accedere
alla conoscenza più avanzata.
In passato l’innovazione nasceva
nelle grandi imprese, come nel
caso della Montecatini che, con
il suo grande Istituto Donegani,
attraverso forti investimenti
riuscì a creare quella barriera
della conoscenza che la
proteggeva dalle altre imprese
competitive. Oggi questo
processo non è più possibile,
perché un vero breakthrough
tecnologico si produce solo se si
riesce a integrare le conoscenze,
se si è in grado di cogliere
il meglio dai vari settori.
Dobbiamo, quindi, accedere
alla conoscenza libera che viene
dalle università e dagli
enti di ricerca pubblici e privati
cambiando radicalmente
il nostro modo di operare,
anche se questo processo
creerà, naturalmente,
delle grandi difficoltà.
La stessa pubblica
amministrazione ha un forte
bisogno di cambiare: negli
scorsi anni è passata attraverso
una serie di tentativi di riforma,
come quelli avviati da Cassese
e Bassanini, che si sono però
sempre rivelati parziali.
Di recente abbiamo introdotto
il protocollo informatico
in sostituzione del protocollo
cartaceo che una recente legge
ha espressamente vietato;
questo, unitamente al flusso
documentale a firma digitale,
è stato un passo importante per
la pubblica amministrazione.
Non abbiamo, però, ancora
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operato il breakthrough
tecnologico: occorre cominciare
a pensare in termini globali
di informatica e a riscrivere
tutte le norme e le leggi
tenendo conto delle tecnologie
informatiche, per evitare di
portarci dietro tutti gli errori del
mondo cartaceo. Si tratta di un
cambiamento essenziale, che va
però realizzato ricordando che
in un contesto così complesso
non si può lavorare solo sulla
tecnologia, ma anche e
soprattutto sull’organizzazione
del lavoro e sui contratti di
lavoro. Questo spiega perché
anche nell’ultima Finanziaria
c’è stato un forte impegno per
allocare i fondi per il rinnovo
contrattuale dei pubblici
dipendenti: non solo
per tenere conto della
variazione dell’inflazione,
ma per configurare un contratto
di lavoro sostanzialmente
diverso dal passato, in cui siano
presenti concetti-chiave come
competitività e valutazione.
Qui si apre un altro grande
problema, dal momento che
nell’ambito pubblico in Italia
non esiste la cultura della
valutazione. Le imprese,
in questo senso, non possono
prescindere dalla valutazione
del mercato, ma la pubblica
amministrazione e gli enti
pubblici non hanno questo
punto di riferimento e tendono,
anzi, a concepire la valutazione
come un elemento di punizione
e non di crescita.
Questo è, a mio parere, il punto
centrale delle grandi difficoltà
della pubblica amministrazione
in generale. In tal senso
il governo ha già avviato alcuni
provvedimenti e si è iniziato
a investire sull’innovazione,
con alcuni importanti progetti
che coinvolgono collegialmente
tre ministri: il ministro
dell’Innovazione, il ministro
della Ricerca e il ministro dello
Sviluppo Economico. In questo
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modo si è voluto dare un
segnale della volontà
del governo di lavorare insieme
in vista di un obiettivo critico
e cruciale per lo sviluppo del
paese. È chiaro che bisognerà
fare molto di più e investire
molto di più, ma ritengo che
ricerca e innovazione debbano
diventare l’elemento trainante
di questo governo, pur
riconoscendo che per questo
occorrerà del tempo.
Va, però, ugualmente detto che
il rilancio dell’università e della
ricerca non è solo un problema
di sovvenzioni. Anche in questo
caso, alla base delle scelte di
finanziamento va posto il tema
della valutazione di efficacia,
cosa che non deve venire solo
dal governo. Noi intendiamo
istituire un’agenzia per la
valutazione della ricerca ma non
sarà sufficiente: occorre che le
università sviluppino dei loro
sistemi di valutazione oggettiva
che migliorino la capacità di
ottenere risultati. Questo però
necessita, a mio parere, di un
grande cambiamento culturale
dell’università italiana, perché
nell’ambito della ricerca
abbiamo bisogno di individuare
le tematiche critiche su cui
puntare e quindi predisporre le
risorse umane e i fondi per
perseguire gli obiettivi prescelti:
massa critica non significa solo
mettere insieme 300 persone
per fare un progetto di ricerca;
significa anche mettere lì
300 milioni di euro per fare
quella ricerca.
In un quadro di competizione
globale non è più sufficiente
competere in uno o due settori
con un numero limitato
di paesi, ma si deve riuscire
a essere i primi della classe
in alcuni ambiti specifici.
Il “Made in Italy” rimane un
insieme di settori forti,
ma per rimanere trainanti
hanno comunque bisogno
di innovazione tecnologica.
A mio parere vi sono le
condizioni perché questo
succeda, ma in termini
di finanziamento, occorre
tenere presenti tutte le fonti
di sovvenzione. Si commette
un errore se nel calcolo degli
investimenti in ricerca si tiene
conto solo del governo centrale
e non delle regioni. Questo
è ancora più importante
in termini di efficacia, perché
gli investimenti delle regioni
hanno un forte impatto in
quanto particolarmente mirati,
grazie alla conoscenza del
territorio. È dunque giusto che
a livello centrale si investa
su ricerche di grande respiro,
capaci di determinare le
condizioni future di sviluppo,
ma bisogna tener presente che
le regioni hanno una capacità
superiore di incidere sullo
sviluppo locale.
Oggi la scelta di dove creare
un centro di ricerche o di dove
insediare un’azienda high-tech
è legata alla materia prima, che
è costituita dalla disponibilità
di cervelli. Da questo punto di
vista, la decisione di Italcementi
di creare il proprio centro
di ricerche al Kilometro Rosso
è pienamente condivisibile.
In passato si decideva di avviare
la produzione di acciaio
o di metalli vicino alle miniere:
oggi dobbiamo sviluppare
gli elementi critici, in grado
di diventare fattori di attrazione
di investimento là dove c’è
la nuova risorsa critica, i cervelli.
Ricerca, università, innovazione
non devono essere viste
semplicemente come
un sistema per supportare
la singola impresa, ma anche
e soprattutto come un elemento
di attrazione di investimenti
pubblici internazionali.
* Luigi Nicolais è ministro per
le Riforme e l’Innovazione nella Pubblica
Amministrazione del secondo Governo
Prodi. Ha al suo attivo un’autorevole
carriera accademica: Ordinario di
Tecnologie dei Polimeri presso la Facoltà
d’Ingegneria dell’Università degli Studi
di Napoli “Federico II” e professore
aggiunto presso le Università del
Connecticut e di Washington a Seattle
negli Stati Uniti. Ha pubblicato
circa 400 lavori scientifici su riviste
internazionali ed è autore di oltre
20 brevetti. È tra i 63 ricercatori italiani
più citati nel mondo e nel 2006
gli è stata conferita l’onorificenza
dell’Ordine al Merito della Repubblica
Italiana quale componente del
“Gruppo 2003 per la Ricerca
Scientifica” firmatario del “Manifesto
del Gruppo 2003: per una rinascita
della ricerca scientifica in Italia”.
Dal 2004 è presidente e fondatore
di IMAST Distretto Tecnologico
sull’Ingegneria dei Materiali Polimerici
e Compositi e Strutture e dal maggio
2005 è presidente di Città della Scienza.
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T
he enormous changes
in working methods and
skills taking place today
are carrying us rapidly into
the knowledge economy.
The danger is that while some
companies will adapt and
become successful competitors,
others may be left behind.
The winners will be the
companies that successfully
dematerialize their products.
Clearly, this is an enormously
complex transition and we need
to select the business sectors
in which to invest. It is not
something that depends on this
or that Government Budget:
our competitiveness will
improve if we invest over the
longer term across the whole
knowledge sector.
Our aim must be to raise our
level of scientific knowledge,
deregulate our universities,
establish models for cooperation
between research and business.
The IReR survey conducted for
the Italcementi Foundation
describes some of today’s most
effective models and rightly
points out that the older
models, like science and
technology parks, no longer fit
the bill. We should be thinking
about new forms of interaction
that take account of local
characteristics.
What we need is a new,
more effective model to govern
the complexities of a system
comprising, in addition to
the Government, the Regions
and Europe. Local government
agencies can play a very
important role if they can
organize themselves on
a synergetic basis and avoid
diluting responsibilities, a risk
that could compromise the
effectiveness of the end result.
My experience as a regional
councilman for six years in
a difficult region like Campania
has taught me that growth
cannot be guaranteed without
strong local governance.
Central government has to take
steps to enable the governance
of these complex systems.
The value chain has been
extended, both upstream and
downstream, and production
is no longer the sole source
of value: the main source today
lies upstream, in research,
innovation, the ability to access
leading-edge technology.
In the past, innovation was
generated by large corporations
like Montecatini, whose famous
Donegani Institute invested
large sums to create a
knowledge barrier as protection
against competitors. Today, that
process no longer exists,
because a real technological
breakthrough is only possible
through integration of the best
knowledge in every field.
In other words, we need access
to free knowledge, the
knowledge in our universities, in
our public and private research
bodies. This implies sweeping
changes in the way we work,
something that naturally creates
huge difficulties.
There is a great need for
change in public administration,
too. Any number of reforms
have been attempted in the last
few years, for example by
Cassese and Bassanini,
but they have always been
halfway measures. We recently
introduced document registers
in electronic format to take
the place of hard-copy registers,
which a recent law expressly
prohibits. This is an important
step for the public
administration, as are document
flows with digital signatures.
Nevertheless, we have not yet
achieved a technological
breakthrough. We need to start
thinking in global IT terms
and re-write all our laws and
regulations to take account
of the advent of information
technology if we want to avoid
bringing the errors of the
paper-based world with us.
This is a vital change, and it is
important to remember that
it is not just a question of
technology, it also involves the
organization of labor and
employment contracts. This is
why the latest Budget is firmly
committed to allocating funds
for the renewal of state
employees’ contracts. Not just
to take account of inflation, but
also to establish a substantially
different type of contract
encompassing key concepts like
competitiveness and assessment.
This brings us to another
major problem, the fact that
assessment is an unfamiliar
concept in the Italian public
sector. Business cannot avoid
assessment by the market,
but the public administration
and government agencies are
not subject to this type of
evaluation; indeed they tend to
regard assessment as a punitive
element rather than as a driver
for growth.
In my view, this is the root of
the enormous difficulties in the
public sector in general.
The government has begun the
process of change. Investment
in innovation has begun, with
a number of important projects
involving three ministers
on a joint basis: the Minister
for Innovation, the Minister for
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Research and the Minister for
Economic Growth. This is a sign
that the government wants us
to work together to achieve
an objective of critical
importance for the country’s
growth. Much more needs to
be done, of course, much more
needs to be invested,
but I believe that research and
innovation should be the
priority of this government,
even though it will take time.
It also needs to be said that
restoring the role of universities
and research is not just a
question of funding. Here again,
assessment of effectiveness
should be the criterion for the
government financing policy.
Nor can assessment be
conducted by the government
alone: we intend to create a
research assessment agency, but
it is not enough. Universities
should organize their own
evaluation systems to improve
their ability to achieve results.
This will fuel a major cultural
change in Italian universities,
because the research
community needs to identify
priority projects and organize
people and funding accordingly.
Critical mass does not just mean
bringing 300 people together
to work on a research project,
it also means providing the
necessary 300 million euro
to carry out that research.
In a scenario of global
competition, we have to do
more than compete in one or
two industries against a handful
of countries. We have to be
top of the class in certain areas.
“Made in Italy” is still
a powerful force, but it needs
technological innovation if it is
to remain a driver for growth.
And I believe this is possible.
As far as funding goes,
however, every source of
finance should be considered.
Research investments plans
should include the regions
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as well as central government.
This is especially important
as regards effectiveness:
thanks to their particular local
knowledge, the regions can
focus investments more
specifically and have a strong
impact. So while central
government should be investing
in wide-ranging research
projects that can foster future
conditions for growth,
the regions have greater power
to influence local growth.
Choosing where to locate
a new research center or
high-tech company depends on
the availability of raw materials,
which today means the
availability of brain power.
From this point of view,
Italcementi’s decision to set up
its research center in the
Kilometro Rosso science park
is perfectly logical. Years ago,
companies located their steel
or metal production plants close
to the mines: today we have to
develop the critical factors that
can attract investment in the
areas where today’s new vital
resource, brain power, is
located. Research, universities
and innovation should not be
regarded simply as a system to
support an individual enterprise;
they are also a force to attract
international public investment.
* Luigi Nicolais is the Minister for
Reform & Innovation in the Public
Administration, in the second Prodi
Government. A distinguished academic,
he is Chair of Polymer Technology in the
Engineering Faculty of Naples’ “Federico II”
University and Associate Professor at the
University of Connecticut and the
University of Washington, Seattle, in the
USA. He has published almost 400
scientific articles in international journals
and holds more than 20 patents. He is
one of Italy’s 63 best-known researchers
worldwide and in 2006 he was decorated
with the Italian Republic’s Order of Merit
for his work as a member of the
“2003 Group for Scientific Research”, a
signatory of the “2003 Group Manifesto:
for the rebirth of scientific research in
Italy”. In 2004 he founded the District for
Polymer and Composite Materials
Engineering and Structures–IMAST,
of which he is Chairman; he has been
Chairman of the “Città della Scienza”
science center since May 2005.
Istruzione universitaria
e sviluppo territoriale
University Education and Local Growth
Adriano De Maio*
Solo con una maggiore liberalizzazione è possibile rafforzare la ricerca e lo sviluppo
scientifico e tecnologico
Greater deregulation is the only way to strengthen scientific and technological
research and development
U
na breve considerazione
preliminare: di solito,
quando un problema
viene continuamente evocato
sui giornali o nei convegni,
è perché non è stato ancora
risolto. In Italia, per esempio, si
parla sempre della necessità di
“fare sistema” mentre in paesi
come la Germania o la Francia
non si può dire che sia un tema
molto discusso per il semplice
motivo che già lo fanno.
Non è un caso, quindi, che in
Europa adesso si continui
a parlare di ricerca. Le mie
osservazioni partono da questa
considerazione di fondo perché
è collegata al tema centrale
espresso dalla ricerca dell’IReR
per la Fondazione Italcementi.
È vero che ci sono molte cose
da discutere, da vedere,
da migliorare: il problema
è proprio che occorre attivare
una rete, quel complesso
di interazioni che chiamiamo
sistema, un network in cui
tutte le parti interagiscano tra
di loro. La competizione rende
indispensabile entrare in rete
e “fare sistema”. Uno degli
elementi forti dell’entrare
in rete è che chi vi partecipa
viene messo costantemente
in discussione. E, inoltre,
partecipare alla rete non
è un’operazione che si fa una
volta per tutte: se si entra
in una rete, in un sistema
collegato, si deve poi operare
con continuità.
A mio avviso, uno degli aspetti
più forti della liberalizzazione
riguarda le università, dove
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liberalizzazione non coincide
con privatizzazione, come del
resto ha dimostrato il caso della
privatizzazione delle autostrade,
che non ha portato a una
effettiva liberalizzazione.
I termini ‘liberalizzazione’
e ‘privatizzazione’ non vanno
confusi: è perfettamente
possibile avere un sistema
universitario ‘pubblico’
liberalizzato, tramite la messa
in concorrenza degli atenei.
Solo con una forte
liberalizzazione di tutte le
componenti del mercato si
arriva a creare competitività.
E nell’ambito del mercato
ci sono anche le università,
che oggi costituiscono
un mercato bloccato. Se non
c’è concorrenza del sistema
formativo di ricerca non
ci può essere miglioramento e
io ritengo che la liberalizzazione
– e quindi la competitività – di
università, sistema formativo
e sistema di ricerca sia un
elemento estremamente
importante: i due elementi si
rinforzano reciprocamente.
A questo proposito vorrei citare
una mia recente esperienza
in occasione di un incontro
delle regioni europee
a Bruxelles sullo spazio e sulla
ricerca aerospaziale che,
come ben si sa, non è soltanto
aerospazio, ma vuol dire
anche telecomunicazioni,
telemedicina, security etc.
Per la Francia era presente la
regione dei Midi-Pyrénées,
designata dal governo francese,
con una delegazione composta
dall’autorità regionale,
le università, i centri di ricerca
e l’industria, mentre per l’Italia
io ero l’unico rappresentante,
in veste di delegato per
l’Alta Formazione, la Ricerca
e l’Innovazione della regione
Lombardia. In Lombardia sono
presenti molte importanti
imprese aeronautiche dotate
di ottime capacità di realizzare
Pagina 23
connessioni avanzate
per la media e piccola
impresa e con
eccellenti sistemi di
telecomunicazione.
C’è, però, anche un
grosso problema:
a Bruxelles, in
occasione dell’incontro
delle regioni europee
nell’ambito del tanto
osannato “facciamo
l’Europa delle Regioni”,
l’unico rappresentante
dell’Italia ero io.
Personalmente
condivido pienamente
questa idea
dell’“Europa delle
Regioni”: come regione
Lombardia, per lo
meno nei settori di mia
competenza quali l’alta
formazione, la ricerca
e l’innovazione, stiamo già
procedendo alla stipula di
importanti accordi tra regioni
italiane e regioni dell’Unione
europea, proprio perché
riteniamo che questi
collegamenti diano più rilevanza
al territorio. E questo è un
punto politico importante:
il territorio, infatti, vede
muoversi le risorse, ne vede
gli eventuali progressi,
vede fisicamente le aziende e le
persone, quindi è più attento,
è più vicino alla realtà concreta.
Se per la grande ricerca di base
probabilmente il livello
d’intervento ha un ambito
internazionale che va ben oltre
gli stessi confini dello stato
o dell’Europa, negli altri campi,
invece, il territorio
è estremamente importante.
Due osservazioni finali. In primo
luogo, non ci può essere
innovazione senza appropriate
risorse umane: è ovvio che
le risorse economiche sono
importantissime, ma ritengo
che la priorità vada alle
persone attivando l’intera
filiera formativa, dalla scuola
23
elementare all’università.
Dobbiamo batterci per un
sistema efficace di selezione,
valutazione e incentivazione dei
docenti migliori. Sono decenni
che questo tema non viene
trattato in Italia con la giusta
attenzione ed è quindi
opportuno che il governo
assuma ora un impegno forte
in questo senso.
La seconda osservazione
riguarda il ruolo delle regioni.
Il ministro Luigi Nicolais
ha ragione quando sostiene
che i ruoli devono essere giocati
in un sistema di governance
complesso, e in questo sistema
il ruolo della regione è di
coordinare e facilitare diversi
grandi progetti, creando
le condizioni perché possano
essere attivati. Lo studio
dell’IReR ricorda giustamente
il caso di successo di Leuven;
io vorrei citare anche quello
dell’IMEC, un eccellente centro
di ricerca pubblica e privata
per la micro e nano elettronica,
un organismo no-profit
che reinveste tutto quello
che guadagna in ricerca.
Fondato nel 1986 con un
investimento della regione delle
Fiandre concentrato sulle
facilities, l’IMEC contava
all’epoca 70 addetti, mentre
adesso può vantare ben
1100 ricercatori e laboratori
di tutte le più grosse industrie
del mondo, inclusa la nostra
STM. Questo è il ruolo
che vuole avere la regione
Lombardia: investire su alcune
facilities che generino sviluppo
attraverso organismi
pubblici-privati prima fra tutte
la creazione di un qualificato
centro di ricerca dedicato
alla nano medicina.
* Adriano De Maio, delegato per
l’Alta Formazione, la Ricerca e
l’Innovazione della Regione Lombardia,
è uno dei massimi esperti italiani
di temi di innovazione, ricerca
e sviluppo. È professore ordinario
di Economia e gestione dell’innovazione
aziendale presso la facoltà di Economia
dell’Università Luiss Guido Carli di cui
è stato rettore dal 2002 al 2005.
Tra i suoi molti importanti incarichi
precedenti, è stato rettore del
Politecnico di Milano dal 1994 al 2002,
commissario straordinario del CNR
nel 1993-94, presidente del gruppo
di valutazione sui Centri di Eccellenza
del Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca dal 2002
al 2004, ed è dal 1996 a oggi
presidente dell’IReR, Istituto di Ricerca
della Lombardia.
002_031_AV_ITA_ING
24
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Pagina 24
L
et me begin with an
elementary observation.
When an issue is
a frequent topic for debate
in the papers or at conferences,
it is usually because it is
an unresolved question. In Italy,
we are always talking about
the need to “work as a system”:
you never hear this mentioned
in Germany or France, for
the simple reason that these
countries already are systems.
So the fact that people are
always talking about research
in Europe today is because
research is not conducted
at European level.
I wanted to stress this point
because it is related to the
central issue raised by the IReR
survey conducted for the
Italcementi Foundation. It is true
that many things need to be
discussed, reviewed and
improved: the problem lies in
the fact that we need to
organize a network, establish
a complex system in which each
part interacts with all the others.
To compete you have to set up a
network and work as a system.
One of the advantages of being
part of a network is that you are
always under scrutiny. Joining
a network is not a one-off
action. When you become part
of a network, an interacting
system, then you have to work
on a consistent basis.
I believe that universities are
one of the main candidates for
deregulation. This is not the
same thing as privatization,
as Italy’s highways prove: their
privatization did not bring any
real deregulation. So we should
not confuse the two terms
‘deregulation’ and
‘privatization’: it is perfectly
possible to have a deregulated
‘public’ university system,
where universities compete
with one another.
Full deregulation of all market
components is the only way
to create competitiveness.
And one of the market
components are universities,
which, today, are a blocked
market. Without competition
in the research and education
system, improvement is not
possible and in my view
the deregulation—and thus
the competitiveness—of our
universities, the education
system and the research system,
is extremely important.
Each strengthens the other.
In this regard, I want to
mention a recent experience
of my own. I lately attended
a meeting of the European
regions in Brussels to discuss
space and airspace research
(which of course means
not just aerospace,
but telecommunications,
telemedicine, security and so on).
The problem was that whereas
France was represented by the
Midi-Pyrénées region, with its
regional council, universities,
research centers and industry,
I was the only representative for
Italy, in my capacity as Delegate
for Further Education, Research
& Innovation for the Lombardy
Regional Authority. Lombardy
is home to many important
airspace companies;
we successfully implement
advanced connections for small
and medium enterprises,
and we have excellent
telecommunications systems.
Yet we also have a problem,
which is that I was in Brussels
on my own. And of course,
the event was a meeting of
European regions according to
the newly fashionable claim
“let’s create a Europe
of Regions”.
Personally I fully support this
view. The Lombardy region,
at least in the fields with which
I am concerned, further
education, research and
innovation, is already moving
ahead with major agreements
with Italian regions and
EU regions, because we believe
these ties give our area
greater prominence. This is
an important political point:
the community sees resources
moving, it sees the progress
being made, it physically sees
the business enterprises and
people, so it is more attentive,
it is closer to reality. For major
basic research, the right level
is probably not even the
State or Europe. In other fields,
however, the local community
is extremely important.
Two final points. One is a
fundamental problem, and that
is that you cannot have
innovation without the right
people. Of course economic
resources are of enormous
importance, but I believe people
have to be our priority.
That means we have to review
the entire educational system,
from primary schools to
universities. We have to fight
for an effective system for
the selection, assessment and
motivation of the best teachers.
This is an issue the Italian
Government has ignored for
decades, but it has to be
tackled now.
The second point is the role of
the regions. Minister Luigi
Nicolais is right when he says
that everyone has to play their
role in a complex system of
governance. Within this system,
the role of the region is to
coordinate and facilitate a series
of major projects, to create the
right conditions for them.
The IReR survey rightly mentions
the success achieved by the city
of Leuven; I would also mention
IMEC, an excellent public-private
research center in micro
and nano electronics, a no-profit
body that reinvests all its
earnings in research.
The IMEC center was established
in 1986 with an investment in
the facility by the Flanders
regional authority: it began with
70 people and now they have
1100 researchers. All the world’s
largest industries have set up
micro and nano electronics
laboratories there, including our
own STM. This is the role the
Lombardy Region wants to play.
It wants to invest in facilities
that stimulate growth through
public-private bodies, and one
of the first ideas currently
under consideration is the
creation of a major center for
nano medicine.
* Adriano De Maio, Lombardy’s
Regional Delegate for Further
Education, Research & Innovation,
is one of Italy’s leading experts in
innovation, research and development.
He is Chair of Corporate Economics
& Innovation Management in the
Economics Faculty of the Luiss
Guido Carli University, of which he was
Rector from 2002 to 2005. He has held
many distinguished posts, including
Rector of Milan Polytechnic from 1994
to 2002, Extraordinary Commissioner
of Italy’s National Research Council from
1993 to 1994, Chairman of the Centers
of Excellence assessment group of the
Ministry for Education, Universities
& Research from 2002 to 2004.
He has been Chairman of the Lombardy
Research Institute (IReR) since 1996.
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Il sistema
fa la forza
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The Strength
of the System
Alberto Bombassei*
La competitività delle imprese è anche frutto della capacità
di un paese di essere innovativo
Business competitiveness depends in part on the nation’s
capacity for innovation
R
icerca e sviluppo sono
elementi imprescindibili
per la competitività
del nostro paese. Il punto, però,
è che oggigiorno gli attori
della competitività non sono più
soltanto le singole imprese
e i loro prodotti.
La globalizzazione e l’euro
hanno cambiato i parametri
della concorrenza e,
ad esempio, l’incidenza della
mano d’opera sul prodotto
può risultare inferiore al costo
della logistica. Diventa, allora,
più importante realizzare
un’autostrada come la
Milano-Bergamo che avere
una riduzione di tre punti del
cuneo fiscale. Un alleggerimento
di tre punti è comunque
sempre il benvenuto, sia chiaro,
ma ci sono attualmente dei
fattori di competitività nuovi
e differenti – ben descritti dalla
ricerca IReR per la Fondazione
Italcementi – su cui investire
per fare del nostro paese
un sistema moderno
e concorrenziale. Preoccupa,
peraltro, il posizionamento
presente dell’Italia nel
contesto internazionale della
competitività e la sua possibile
evoluzione futura.
Emergono fortunatamente dei
segnali positivi. Negli ultimi due
anni gli imprenditori italiani,
soprattutto delle piccole e medie
imprese, hanno ricominciato
a orientare all’estero le proprie
dinamiche industriali per
recuperare competitività a livello
internazionale. Positivo è stato
anche l’andamento
dell’economia europea che
ha registrato risultati in crescita.
E buoni gli ultimi dati della
Germania dove in un anno la
disoccupazione è diminuita
di un milione di unità,
scendendo da un picco
di 5 milioni a poco più di 4:
un risultato raggiunto attraverso
un intenso programma di
investimenti, una politica fiscale
intelligente, e uno sguardo
attento alla ricerca. In poche
parole, una coerente politica
di paese.
È questo il punto cruciale:
la capacità di competere
di un’azienda passa anche
attraverso la competitività del
territorio. È difficile definirne
con esattezza il perimetro,
se è il comune, la provincia
o la regione, ma credo che oggi
il sistema di un territorio
(come nell’esempio del Baden
Wuttenberg, citato dalla ricerca
IReR), dove agiscono scuola,
università, enti di ricerca
e aziende, debba essere un
sistema competitivo. Sono
convinto, cioè, che il confronto
oltre che tra prodotti e aziende,
sia sempre più un confronto tra
sistemi territoriali. E questo vale
sia sulla piccola scala territoriale,
sia a livello di macrosistemi,
dove le grandi sfide si svolgono
a livello mondiale: l’Europa
compete con gli Stati Uniti e con
l’Asia. Dobbiamo quindi fare
un ulteriore passo avanti
e capire che oltre che italiani
siamo anche europei (concetto
auspicato ma poco messo
in pratica). Per il futuro, sarà
questo, credo, l’unico modo per
poter contare ancora qualcosa.
Dobbiamo dare atto al governo
attuale che, pur avendo avviato
una politica di riduzione
delle sovvenzioni alle aziende,
è riuscito in alcuni casi a dare
delle buone risposte e,
soprattutto, sono stati introdotti
alcuni concetti che serviranno
per il futuro. C’è, in primo
luogo, un accenno di politica
industriale che finora è sempre
mancata nel nostro paese:
una buona politica industriale
deve saper mettere a punto
una programmazione
d’interventi su 10-20 anni e non
elargire aiuti pioggia. Sappiamo
che alcuni settori dovranno
chiudere. E, se è vero che oggi
solo il 10% delle nostre
esportazioni è costituito
da prodotti high-tech, dovremo
arrivare a trasformare il nostro
paese identificando alcuni
settori prioritari dove investire in
modo coerente nell’intera filiera:
formazione professionale,
scuola, università, centri di
ricerca, imprese del settore.
Molti paesi più virtuosi dell’Italia
lo hanno già fatto.
In Scandinavia, per esempio,
Finlandia e Svezia sono
diventate leader mondiali nel
settore delle telecomunicazioni
attraverso scelte coerenti
e investimenti appropriati.
Fortunatamente anche in Italia
ci sono dei casi interessanti:
basti pensare a Catania, dove
la STMicroelectronics è riuscita
a impiantare un’azienda
con 4 mila dipendenti, un vasto
indotto di imprese high-tech
e a stretto contatto con
l’Università di Catania che
rappresenta una sorta di vivaio
di giovani ingegneri che spesso
trovano nella STM il loro sbocco
professionale. Questo è un
esempio da tenere in alta
considerazione perché offre
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un’ideale combinazione di
fabbrica di buoni cervelli, buona
scuola e buona università.
* Alberto Bombassei è presidente e
amministratore delegato di Brembo Spa,
società leader a livello mondiale nella
progettazione, sviluppo e produzione
di sistemi e componenti frenanti di alte
prestazioni per auto, moto, veicoli
industriali e commerciali. Consigliere
d’amministrazione di Sole 24 Ore,
Credito Bergamasco e Italcementi,
Bombassei ricopre inoltre la carica
di vicepresidente di Confindustria per
le Relazioni Industriali e gli Affari Sociali
dal maggio 2004. Nel corso degli ultimi
anni gli sono stati conferiti importanti
riconoscimenti tra cui il Premio
Eurostar 2004 da parte della rivista
internazionale Automotive News Europe
per gli eccezionali risultati raggiunti
alla guida di Brembo; la Laurea Honoris
Causa in Ingegneria Meccanica da parte
dell’Università degli Studi di Bergamo
per chiari meriti industriali; il Premio
Leonardo “Qualità Italia” consegnato
dal Presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi nel dicembre
2003 per aver portato il Made in Italy
nel mondo.
I I I I I I
R
esearch and development
is certainly a vital element
in Italian competitiveness.
Until a few years ago,
competition was our businesses
competing with their
counterparts from abroad; today,
however, it is no longer simply a
question of making competitive
products. Globalization and the
euro have changed the rules of
the game: for example, the labor
cost of a product may be lower
than the logistic costs.
So a highway between Milan
and Bergamo may be more
important than a three-point
reduction in the fiscal wedge.
Certainly, those three points are
very welcome, but today
we have to come to terms
with a whole new set of
factors—very well analyzed
in the survey carried out by
IReR for the Italcementi
Foundation—if we want Italy
to be a modern, competitive
country. And it is worrying
to see how Italy ranks in the
world competitiveness
scoreboard and how it will be
ranked in the future.
Fortunately, some positive signs
are emerging. In the last two
years, our entrepreneurs,
especially from our small and
medium businesses, have started
going round the world to
strengthen their organizations’
bases. The European economy
is picking up, too, and the latest
figures from Germany show that
the number of unemployed has
fallen by one million in the last
year, from the 5 million peak
to just over 4 million today.
Germany has invested,
introduced an intelligent fiscal
policy, supported research.
In other words, it has adopted
a systematic country policy.
And this is the crucial point:
a company’s ability to compete
depends in part on the
competitiveness of the
community. It is difficult to
establish exactly the boundaries
of this community: whether it is
the commune, the province
or the region, but the system
of a territory (such as Baden
Wuttenberg, the example
mentioned by the IReR survey),
which encompasses schools,
universities, research bodies and
business organizations, has to be
a competitive system. In other
words, competition today is not
just between products and
companies, increasingly it is
between territorial systems.
It applies on the small territorial
scale, and also on the scale of
the macro-systems that play out
the great world challenges:
Europe competes with the USA
and with Asia. And at this level
you have to take another step
and realize that not only are we
Italians, we are also Europeans,
a notion people talk about a lot,
but generally do not put into
practice. And in the future
I believe this will be the only way
we can still count for something.
Although the present
government has cut a series
of investments that the business
community was counting on,
in some cases it has made some
interesting moves. Above all,
it has established a series of
concepts that will serve us well
in the future. First of all,
an attempt has been made
to set up an industrial policy,
something Italy lacked. A good
industrial policy should set goals
for the next 10 or 20 years
rather than provide
indiscriminate subsidies.
We know certain sectors will
have to close. If it is true that
today only 10% of our exports
are high-tech products,
then action must be taken to
transform the country.
Next, we have to identify a series
of priority sectors in which
to direct across-the-board
investment: professional training,
schools, universities, research
centers, the companies active
in that sector.
This is something many other
countries, more virtuous than
Italy, have already done.
In Scandinavia, Finland and
Sweden have become world
leaders in telecommunications
because they have adopted
a consistent policy and invested
in the communications industry.
But we have important examples
in Italy, too: in Catania for
instance, STMicroelectronics has
successfully created a company
with 4,000 employees, served
by countless allied high-tech
firms, with Catania University
regularly turning out new
engineers who often find their
first job in STM. This is an
example we should watch
closely, a case where you have
a factory with excellent minds,
a good school and a good
university.
* Alberto Bombassei is Chairman and
Chief Executive Officer of Brembo Spa,
a world leader in the design,
development and production of
high-performance brake systems
and components for automobiles,
motorcycles, industrial and commercial
vehicles. A member of the boards
of directors of Sole 24 Ore,
Credito Bergamasco and Italcementi,
he has been Confindustria Vice
President for Labor Relations & Social
Affairs since May 2004. He has received
many important accolades in the last
few years, including the Eurostar 2004
award from Automotive News Europe
magazine for his outstanding
achievements at the head of Brembo;
an honorary degree in Mechanical
Engineering from Bergamo University
for industrial merits; the Leonardo
Award of the Italian Quality Committee,
presented by the President of the
Italian Republic Carlo Azeglio Ciampi
in December 2003, for his contribution
to Italian prestige worldwide.
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Cittadini e aziende insieme
per un salto nel futuro
27
Andrea Moltrasio*
Occorre orientare sempre più l’attenzione di cittadini e imprese
verso la scienza e la tecnologia
People and business should pay greater attention to science
and technology
I
l settore della scienza e della
tecnologia in un’area dinamica
come la Bergamasca è in forte
evoluzione. La ricerca IReR
per la Fondazione Italcementi
ne ha tracciato con chiarezza
strumenti e obiettivi. Ma è
anche chiaro che le tecnologie
con cui finora abbiamo operato
sono molto diverse rispetto
a quelle descritte dallo studio.
Molte aziende, compresa
la mia, si sono mosse sul terreno
di una “innovazione spinta
dai clienti” o di una
“innovazione spinta dai
fornitori”. “Dai clienti” perché
l’azienda va alla ricerca di un
prodotto di nicchia esclusivo,
capace di soddisfare le
richieste del consumatore,
il che, ovviamente, necessita
di un’innovazione di tipo
adattativo o incrementale,
realizzabile senza l’intervento
di un ingegnere
super-specializzato.
“Dai fornitori” perché trae
origine di norma da una grande
azienda (nel caso della mia
azienda era la Bayer), che
attraverso il lancio di un nuovo
prodotto, per esempio una
nuova resina o un nuovo
polimero, indica la strada per
nuove applicazioni.
L’innovazione su grande scala
e basata sulla scienza è, invece,
tradizionalmente poco presente,
poiché la struttura del territorio
è prevalentemente formata
da aziende medio-piccole,
tranne casi eccellenti come
Brembo o Italcementi.
Una volta i giovani con
formazione di scuola media
superiore, con un profilo
tecnico di skills intermedie,
soddisfacevano ampiamente
i bisogni delle aziende.
Oggi, per contro, siamo
chiamati a fare un salto di
qualità nel campo della ricerca
e dell’innovazione, a Bergamo
come altrove in Italia e in
Europa. Per quanto riguarda
la formazione, molto
è già stato fatto;
basti pensare alla fondazione
della Facoltà di Ingegneria
all’Università di Bergamo, una
scelta che all’epoca venne vista
con molta perplessità da altri
atenei, come il Politecnico di
Milano, che non ne
comprendevano la necessità.
Oggi, invece, si assiste
all’inserimento professionale di
nuove leve di giovani
con formazione universitaria
adeguata che trasferiscono alle
aziende del territorio un più
vasto patrimonio di conoscenze
e competenze.
La creazione al Kilometro Rosso
di un laboratorio Italcementi per
la ricerca avanzata è di cruciale
importanza tanto su scala locale
quanto su scala nazionale
e internazionale. È un progetto
che tiene conto sia della
complessità, sia dell’alto livello
di rischio dell’innovazione su
forti basi scientifiche, e dimostra
che l’incontro tra domanda
e offerta di personale con
competenze tecniche elevate
è cambiato radicalmente.
Dobbiamo, però, essere anche
realisti, perché sappiamo bene
che, in generale, il pubblico
rimane culturalmente
indifferente, per non dire ostile,
a scienza e tecnologia.
Diventano così importantissimi
eventi come quello del Festival
della Scienza organizzato
a Bergamo, con l’obiettivo
di creare un catalizzatore di
nuove iniziative tecnologiche
capace di orientare le molecole
del pubblico a un maggiore
interesse nei confronti
del futuro e della scienza:
con lo scopo finale di far
entrare “con forza” nelle nostre
aziende la ricerca scientifica
e tecnologica e realizzare
quell’innovazione basata sulla
scienza che finora non abbiamo
saputo mettere in atto.
© European Community 2006
People and Business Together
Toward the Future
È una sfida molto importante
e c’è molto da fare perché
purtroppo in Italia lo stato della
formazione scientifica è molto
arretrato. Per fare un esempio,
la preparazione matematica
dei nostri studenti a 15 anni
è superiore solo a quella
dei ragazzi in Messico, Grecia
e Turchia e, per di più, ci sono
anche forti differenze tra
Italia del Nord e Italia del Sud.
Occorre dunque essere coscienti
della situazione e operare
i necessari investimenti nella
direzione che la ricerca IReR
ha indicato in modo così chiaro
ed efficace.
* Andrea Moltrasio è consigliere
delegato di Icro Coatings Spa, azienda
all’avanguardia nel settore delle vernici
industriali, e presidente del Comitato
Tecnico Europa di Confindustria.
Siede nel consiglio d’amministrazione
di RCS MediaGroup, Banca Popolare di
Bergamo e BPU Banche Popolari Unite.
Già Presidente dell’Unione degli
Industriali della Provincia di Bergamo
dal 2001 al 2005, ricopre attualmente
la carica di presidente di “Bergamo
Scienza” ed è coordinatore del Gruppo
di lavoro “Club dei 15” di Confindustria
dal 2004.
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I
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mportant developments
are taking place in Bergamo’s
dynamic science and
technology community.
The survey carried out by IReR
for the Italcementi Foundation
clearly outlines the tools and
goals of these changes.
Yet it is also evident that the
technologies we have been
involved with so far are quite
different to those described
in the study.
Many companies, my own
included, have achieved
“customer-driven innovation”
or “supplier-driven innovation”.
Customer-driven, because the
company focuses on an
exclusive niche product to meet
customer requirements.
Innovation in this case is an
adaptive, incremental process,
without the need for
super-specialized engineers.
Supplier-driven, because it
usually originates from a major
company, Bayer in the case of
my organization, which
presents a product such as a
new resin or new polymer, and
opens up the way toward new
application areas. Large-scale
innovation based on science,
on the other hand, tends to be
very limited, because, apart
from a few outstanding
exceptions like Brembo or
Italcementi, the local business
community consists largely of
small and medium enterprises.
Young people with a
high-school diploma and
intermediate technical skills
easily met our local companies’
needs. But now we have to
take a qualitative leap forward
in research and innovation, in
Bergamo as in the rest of Italy
and in Europe. A great deal has
already been done as far as
education is concerned, for
example with the institution
of the Faculty of Engineering
at Bergamo University. At the
time, this raised eyebrows in
Pagina 28
other universities including
Milan Polytechnic, who did not
feel it was necessary. Today
our young people are university
graduates who are taking a
higher level of knowledge into
local companies.
The creation of an Italcementi
advanced research laboratory in
the “Kilometro Rosso” science
park is crucially important, at
local, national and international
level. This project takes account
of both the complexity and the
high level of risk of advanced
scientific innovation, and
confirms that the fit between
the demand for and supply of
high-level technical skills has
changed significantly.
Nevertheless, we have to be
realistic too: we know that,
generally speaking, people are
culturally indifferent if not
hostile to science and
technology. For this reason,
events like the Bergamo Science
Festival are extremely
important, as catalysts for new
technological initiatives and to
foster greater public interest in
the future and science. With
the ultimate goal of creating a
larger role for scientific and
technological research in our
companies and promoting the
sort of science-based innovation
that so far has been absent.
This is a major challenge. Much
needs to be done to deal with
the backward state of science
education in Italy. For example,
the math education of our
15-year-olds is better only than
that of students in Mexico,
Greece and Turkey, and
significant differences exist
between northern and southern
Italy. We have to understand
exactly what the situation is and
make the necessary investments
in the direction so clearly
indicated by the IReR survey.
* Andrea Moltrasio is Chief Executive
Officer of Icro Coatings Spa, a leading
producer of industrial coatings, and
Chairman of the Confindustria Technical
Committee for Europe. He is a member
of the boards of directors of RCS
MediaGroup, Banca Popolare di
Bergamo and BPU Banche Popolari
Unite. Chairman of the Industrialists
Union of the Province of Bergamo from
2001 to 2005, he is chairman of
“Bergamo Scienza” and has been
coordinator of Confindustria’s
“Club dei 15” work group since 2004.
Senza cultura del rischio
l’innovazione non cresce
No Innovation without a Risk Culture
Ezio Andreta*
Il passaggio all’economia della conoscenza richiede
il coraggio di operare investimenti importanti
The transition into the knowledge economy requires
the courage to make important investments
I
ministri europei che nel
2000 lanciarono gli obiettivi
di Lisbona su innovazione,
ricerca e sviluppo avevano
una visione di lungo termine
estremamente ambiziosa:
dichiararono, in sostanza,
che l’Europa avrebbe dovuto
abbandonare il sistema
economico tradizionale – basato
sui fattori di produzione e le
risorse naturali, con una forte
incidenza del costo del lavoro
e con prodotti a basso valore
aggiunto – per abbracciare
il nuovo sistema economico
emergente, dove i fattori
economici sono la conoscenza
e il capitale e dove il prodotto
è sempre più smaterializzato.
La dichiarazione di Lisbona
indica, dunque, un percorso che
ha importanti implicazioni.
Vanno, infatti, ristudiati i fattori
di produzione e le tradizionali
teorie economiche e va
accantonata l’economia classica
da Adam Smith in poi per
entrare in un sistema nuovo,
dove la risorsa-chiave
è la conoscenza. Chi produce
conoscenza può produrre
ricchezza, chi non la produce
rischia di rimanere tagliato
fuori. Ma ancora più
interessante della dichiarazione
di Lisbona era il corollario
e cioè: se l’Europa vuole
mantenere il suo livello di vita,
il suo sviluppo sostenibile,
l’equilibrio regionale e vuole
veramente continuare su questa
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strada non ha altra soluzione
che investire in ricerca.
Questo è stato il messaggio
forte: se vogliamo mantenere
il nostro stato attuale di
benessere, dobbiamo investire.
E da qui nasce il problema,
perché la struttura industriale
europea è composta per l’80%
di industrie che producono beni
a basso valore aggiunto, mentre
solo il 20% fa parte
dell’economia della conoscenza.
La situazione italiana è anche
peggiore, perché non si arriva
neanche al 10%. L’Europa
in 15 anni ha perso la metà del
suo mercato di esportazione e,
secondo le previsioni, tra 5 anni
non sarà in grado di fornire al
mercato mondiale più del 10%
del totale. È per questo che
la Cina si appresta a diventare
la fabbrica del futuro.
Per uscire da questo sistema
dovremo trasformare le
industrie esistenti in industrie
che utilizzano la conoscenza
e non le materie prime.
Italcementi è, ad esempio,
un gruppo che utilizza molta
materia prima. In questo caso,
a mio modo di vedere, la sfida
è continuare a produrre
cemento ma partendo dalle
nano-polveri e integrando nel
prodotto una serie di funzioni
che non sono soltanto la
stabilità dell’edificio, ma anche
la sua capacità di fare
auto-diagnostica e di autoripararsi. Questo è un mondo
completamente differente.
Partendo dalle nano-polveri è
possibile produrre un cemento
completamente rivoluzionario.
Questo approccio si può
applicare a tutti i prodotti,
ma per farlo entra in gioco
l’innovazione. E qui sta un altro
grande equivoco italiano,
perché c’è una grandissima
confusione sul concetto
di innovazione.
Che cos’è l’innovazione e come
avviene? L’innovazione è la
capacità che ha l’imprenditore
di sognare, ma il suo sogno si
trasforma in realtà nella misura
in cui c’è un sistema che
supporta tutte le fasi di questa
trasformazione. Il sistema
della ricerca, però, è molto
complesso e può capitare
di fare molta ricerca senza che
ne venga fuori nulla. È un po’
il caso attuale dei cinesi: fanno
molta ricerca, ma non è detto
che ne risultino prodotti
ad alto valore aggiunto.
Questa situazione è però
destinata a cambiare.
Nel sistema gli attori sono tanti,
come identifica lo studio IReR
per la Fondazione Italcementi,
ma ce n’è uno che sta
assumendo un’importanza
strategica fondamentale:
la finanza. Non si fa
trasformazione da un’economia
tradizionale a una nuova senza
la finanza, e questo è un grosso
problema. Ora, traghettare
l’Europa da una sponda all’altra
è un po’ come attraversare
il Mar Rosso; ci vuole tempo
e chiarezza di idee.
L’innovazione di cui abbiamo
bisogno è orientata a
trasformare la natura delle
industrie e a crearne di nuove.
Per fare questo non c’è
altra soluzione che utilizzare
l’innovazione radicale
e di prodotto. L’innovazione
incrementale di norma viene
fatta sul processo, ma così si
rimane prigionieri del proprio
sistema, perché si può
guadagnare qualche punto
di efficienza e di produttività,
ma si rimane sempre nello
stesso ambito.
L’innovazione radicale, invece,
ci obbliga a rompere con
il sistema precedente
e a entrare in un sistema dove
si ridefinisce il prodotto non più
come un singolo bene, ma
come una risposta al problema
dell’individuo. Questo significa
che nel prodotto si integrano
sempre di più le tecnologie,
ma soprattutto si danno delle
risposte a dei problemi.
Non cemento, ma stabilità
e altri servizi accessori.
Quando si scopre questa realtà,
ci si rende conto che per
spostarci nel mondo del futuro
servono le tecnologie del
futuro. Quelle che utilizziamo
oggi sono tutte al capolinea
e al massimo possiamo valutare
cosa è ancora possibile
ricavarne.
L’esempio dell’industria
farmaceutica, citato nello studio
IReR, è veramente importante.
La ricerca tradizionale è molto
costosa e inefficiente;
ormai è chiaro che il settore
deve cambiare e che occorrono
nuove tecnologie, come
la nano medicina e la
nano farmacologia. Si aprono,
dunque, scenari nuovi.
Se si comprende che l’approccio
da adottare si basa sulle
innovazioni radicali, significa
che ci si deve orientare
a utilizzare tutti i sistemi
di ricerca avanzata come le
nanotecnologie, le tecnologie
convergenti, le biotecnologie,
quelle bio-info-cognitive,
e altre ancora.
Per quanto riguarda il ruolo
della finanza, nel sistema
di innovazione è importante
la cultura del rischio che,
purtroppo, non esiste in Europa.
Questa è una verità che deve
essere condivisa da tutti gli
attori in campo, e non soltanto
dall’imprenditore. L’università
di Leuven, ricorda lo studio,
ha prodotto 50 spin-off all’anno
più dell’Italia. Il vero problema,
però, è generare un cash flow
sufficiente a finanziare la
crescita. L’imprenditore deve
impegnare fondi rilevanti per
anticipare potenziali vendite sul
mercato e questo rappresenta
un grande rischio che i piccoli
fondi di venture capital
non riescono a sostenere.
È un compito che spetta ai
fondi di grande dimensione,
con una massa economica
di almeno 500 milioni
o 1 miliardo di euro.
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just the stability of the building,
but also auto-diagnostic and
self-repair capabilities.
This is a completely different
world. When you begin with
nano-powders you can produce
a revolutionary cement.
This approach can be applied
to all products, but to do so
you need innovation. And
therein lies another great Italian
misunderstanding, because
innovation is a concept over
which confusion reigns.
What is innovation and how
does it come about? Innovation
is the entrepreneur’s ability to
dream, but the dream becomes
reality to the extent that
a system exists to support each
step in the transformation
process. The research system,
however, is extremely complex
and a great deal of research
may be performed without
anything being produced. China
is in a similar situation today:
it conducts a great deal
of research but this will not
necessarily lead to high
value-added products. Things
are bound to change, however.
The system involves a host of
players, as the IReR survey
conducted for the Italcementi
Foundation indicates, but one in
particular is acquiring a crucially
important strategic role:
finance. You cannot move from
a traditional economy to a new
one without finance, and this is
a major obstacle. Taking Europe
across from one shore to the
other is rather like crossing the
Red Sea; you need time and
clear ideas. The innovation we
need focuses on transforming
the nature of our industries and
creating new ones. And the
only solution is radical product
innovation. Incremental
innovation usually applies to
processes, but this keeps you
tied to the system: you may
make some productivity and
efficiency gains, but the
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environment is always the same.
Radical innovation, on the other
hand, breaks away from the old
system into one that defines
the product as the answer
to the problem of the individual
rather than as an individual
article. This means that
products incorporate an
increasingly high technology
content, above all that solutions
are provided to problems.
Not cement, but stability and
other auxiliary services.
When you see this, you realize
that to move into tomorrow’s
world you need tomorrow’s
technologies. All the
technologies we use today have
come to the end of the line,
at the most we can assess
what they still have to offer us.
The example of the
pharmaceuticals industry
mentioned in the IReR survey is
an important case in point.
Traditional research is extremely
expensive and inefficient;
clearly, the industry
has to change and new
technologies are needed,
such as nano-medicine
and nano-pharmacology.
So new horizons are opening
up. When you understand that
radical innovation is the way
forward, then you have to be
prepared to use every possible
advanced research system:
nano-technologies, converging
technologies, biotechnologies,
bio-info-cognitive technologies,
and still others.
As far as the role of finance is
concerned, the risk culture is
important for the innovation
system, but unfortunately it
does not exist in Europe. All the
players need to understand this
point, not just the entrepreneur.
As the survey points, Leuven
University has produced
50 spin-offs a year more than
Italy. Yet the real problem
is to generate sufficient cash
flow to finance their growth.
The entrepreneur has to invest
huge amounts ahead of
potential market sales, and
small venture capital funds are
unable to support the risk. This
is a role for the large funds,
with assets of at least 500
million or one billion euro.
We have to be clear about this.
We know that, as a rule,
of 10 spin-offs only three are
still going after three years and
only one after seven years, but
that one repays the investment.
So funding cannot be sourced
from traditional banks, who put
little value on intangible assets,
on ideas, because they are still
tied to the model of real
collateral. Clearly, new financial
bodies are needed, and may
indeed be spin-offs of
companies that have
dematerialized. One example is
General Electric, which
continues its core industrial
operations but is the world’s
largest financial body.
Europe lacks these new venture
capitalists created either by
dematerialized industry or
within a financial community
with a risk-oriented culture. It is
not just a question of investing
capital in an enterprise, but of
mechanisms organized to
anticipate resources. To some
degree this is a financial issue,
but to an even more important
degree it is a cultural issue.
We find all this confusing.
As business organizations and
as private individuals, we have
lost our traditional points
of reference, everything we
understood as values, market,
money, innovation. Everything
has changed and is part of a
new scenario where the same
things with the same names
have a different meaning.
In my view, the basic points are
the following.
1) The first is competitiveness:
competitiveness today is a
question of systems, and that
means, almost unnaturally, that
the more you cooperate with
your competitor, the more
competitive you become.
2) The second is the concept
of the network, where
cooperation takes place. But to
be a network player you have
to be recognized by the
network, otherwise you are
excluded.
3) The third and perhaps most
interesting point is the mobility
indicator: everything is mobile,
people, capital, products,
finance. And for bodies linked
to the local community,
such as local government,
competitiveness means
attractiveness, the ability to
attract resources.
4) The fourth and final point
is the most difficult: it is that
linearity is finished, and has
been replaced by complexity.
But when you combine
complexity with system, you
realize you need a very great
capacity for non-linear
integration.
These considerations lead me
to the conclusion that as far as
mechanisms inside universities
are concerned, an overly linear
approach is no longer enough.
The correct approach is
integration, and this requires a
new form of governance based
on shared responsibilities
in a common long-term vision.
* Ezio Andreta has been Chairman of
the Agency for Promotion of European
Research (APRE) since June 2006.
A no-profit association supported by
universities and public and private
research and industrial organizations,
APRE promotes Italian involvement in
R&D programs funded by the European
Commission. EC Director General
for Research & Competitive Sustainable
Growth since 1995, Ezio Andreta
is also a member of the Doctorate
School Committee at Turin Polytechnic.
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Su questo occorre avere le idee
chiare. Sappiamo, infatti, che
in genere di 10 spin-off dopo
tre anni ne sopravvivono solo
3 e dopo sette anni ne resta
uno solo, che però ripaga
l’investimento. Questo significa
che il finanziamento non può
venire dalle banche tradizionali,
che danno poco valore
all’intangibile, alle idee, perché
sono ancora attaccate al
modello delle garanzie reali.
Occorrono, chiaramente, dei
nuovi organismi finanziari
che possono anche essere
degli spin-off di aziende che si
sono smaterializzate.
Ne è un esempio la General
Electric, che è il più grande
organismo finanziario al
mondo, pur mantenendo la
presenza industriale in settori
strategici.
In Europa mancano questi nuovi
venture capitalist che nascono
o dall’industria che si è
smaterializzata, o da una
finanza con una cultura diversa
e orientata al rischio.
Non è soltanto un problema
di investimento nel capitale
dell’azienda, ma di meccanismi
predisposti per anticipare delle
risorse; e questa è in parte
una questione finanziaria e in
parte, forse anche maggiore,
una questione culturale.
Tutto questo ci disorienta.
Abbiamo perso gli abituali punti
di riferimento, sia come imprese
sia come cittadini: ciò che
chiamavamo valori, mercato,
moneta, innovazione.
Tutto questo è cambiato e va
inserito in un nuovo contesto
in cui le stesse cose con gli
stessi nomi hanno significato
diverso. Questi, a mio parere,
i punti fondamentali.
1) Il primo è la competitività:
oggi è solo di sistema
e ciò significa, in modo quasi
antinaturale, che più si
collabora con il concorrente più
si riesce a essere competitivi.
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2) Il secondo è il concetto
della rete, che é il luogo
della collaborazione.
Ma, attenzione, per essere un
attore della rete occorre essere
riconosciuti dalla rete,
altrimenti se ne viene esclusi.
3) Il terzo è forse il più
interessante di tutti ed è
l’indicatore della mobilità: tutto
è mobile, le persone, i capitali,
i prodotti, la finanza.
E per chi resta sul territorio,
come nel caso dei comuni,
la competitività vuol dire
capacità di attrazione, saper
attrarre le risorse.
4) L’ultimo, che è l’indicatore
più difficile, è che la linearità
è finita, e al suo posto
è subentrata la complessità.
Ma se si coniuga complessità
con sistema ci si rende conto
che ci vuole una fortissima
capacità di integrazione
non lineare.
Tutto questo mi porta a
concludere che, quando si parla
dei meccanismi all’interno
dell’università, un approccio
troppo lineare non è più
sufficiente. L’approccio corretto
è quello dell’integrazione
e questo implica che
la governance cambi natura
e diventi condivisione della
responsabilità in una comune
visione di lungo termine.
* Ezio Andreta è presidente di
APRE–Agenzia per la Promozione della
Ricerca Europea dal giugno 2006.
APRE, associazione no-profit sostenuta
da numerose università e organizzazioni
private e pubbliche del mondo della
ricerca e dell’industria, si propone
di promuovere la partecipazione italiana
ai programmi di ricerca e sviluppo
finanziati dalla Commissione europea.
Direttore generale della Ricerca e della
Crescita Competitiva e Sostenibile
dell’Unione europea dal 1995,
Ezio Andreta è inoltre professore alla
scuola di PhD del Politecnico di Torino.
T
he European Ministers
who drew up the Lisbon
Agenda for innovation,
research and development
in 2000 had an extremely
ambitious long-term vision:
in essence, what they said was
that Europe had to abandon
its traditional economic
system—based on production
factors and natural resources,
a high incidence of labor costs
and products with low added
value—and embrace the
emerging new economic system
based on knowledge and
capital, whose products tend
increasingly to be intangible.
The path indicated by
the Lisbon Conference has
important implications.
Production factors and
traditional economic theories
need to be reviewed, the
classical economic systems from
Adam Smith onward should be
set aside in favor of a new
system whose key resource is
knowledge. Those who produce
knowledge produce wealth,
those who do not risk being left
behind. The corollary to Lisbon
is even more interesting:
if Europe wants to maintain its
living standards, its sustainable
growth, its regional balance and
really wants to continue on its
current course, it has no choice
but to invest in research.
That was the key message:
if we want to maintain our
current standard of wealth,
we have to invest. And that
is the root of the problem,
because 80% of European
industry are producers of low
value added goods, while only
20% operate in the knowledge
economy. The situation is even
worse in Italy, with less than
10%. In 15 years Europe has
lost half of its export market
and projections indicate that
within five years it will be
unable to supply more than
10% of the needs of the total
world market. This is why China
is preparing to be the factory
of the future.
To find a way out of this
situation, we have to transform
our existing industries into
industries that use knowledge
rather than raw materials.
Italcementi, for example, is a
group that uses a great deal
of raw materials. As I see it, the
challenge it faces is to continue
producing cement, but
beginning with nano-powders
and integrating a series of
functions into the product, not
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