Limiti del diritto di critica del lavoratore e obbligo di fedeltà
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Limiti del diritto di critica del lavoratore e obbligo di fedeltà
GESTIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO Limiti del diritto di critica del lavoratore e obbligo di fedeltà di Nicola Ghirardi – avvocato e dottore di ricerca in diritto del lavoro Il lavoratore, come tutti i cittadini, gode del diritto, costituzionalmente garantito (art.21 Cost.), di libera espressione del proprio pensiero, che implica il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro. Sul dipendente, però, grava anche l’obbligo di fedeltà (art.2015 cod.civ.) e di correttezza (art.1175 e 1375 cod.civ.), che comporta il divieto di ledere l’immagine dell’azienda e di tenere comportamenti offensivi e ingiuriosi nei confronti del datore di lavoro. La giurisprudenza ha fissato dei principi e dei limiti per stabilire quando il diritto di critica da parte del lavoratore è legittimo e quando, invece, può giustificare l’irrogazione di sanzioni disciplinari, compreso, nei casi più gravi, il licenziamento. I limiti del diritto di critica nel rapporto di lavoro disciplinari relative alle critiche così espresse. La questione, naturalmente, ha riflessi tanto sul piano civilistico che regola il rapporto di lavoro quanto su quello penalistico. In questa sede daremo maggior spazio al primo dei due aspetti. Dottrina e giurisprudenza si sono da lungo tempo poste il problema dei limiti del diritto di critica del lavoratore, cercando, con apprezzabile sforzo interpretativo, di coniugare i contrapposti interessi in causa. I criteri e i parametri concettuali in concreto utilizzati per valutare la legittimità delle critiche sono stati mutuati da quelli da tempo utilizzati dalla giurisprudenza in materia di diffamazione a mezzo stampa, cioè per valutare, sia sotto il profilo penale che sotto quello civile, la liceità dell’attività giornalistica (soprattutto relativamente a giudizi di natura politica)2. In primo luogo, la critica deve rispettare il parametro della “continenza sostanziale”, che impone la necessaria veridicità dei fatti riportati dal lavoratore, in quanto l’attribuzione di fatti falsi che connotino in maniera negativa il datore di lavoro o, peggio, risultino apertamente disonorevoli e lesivi dell’immagine aziendale, costituisce un comportamento illecito, che si pone in contrasto con gli obblighi assunti dal prestatore di lavoro3. Le espressioni critiche utilizzate dal lavoratore devono poi rispettare l’ulteriore limite della “continenza formale”, ovvero non devono utilizzare termini o espressioni di per sé offensive o ingiuriose, che travalichino i limiti dell’espressione del proprio pensiero, per sconfinare nell’offesa4. Il rapporto di lavoro implica spesso tensioni e conflitti che possono sfociare in dichiarazioni – anche rese in pubblico o a organismi di comunicazione sociale – molto critiche e dure da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e del suo operato. Il dipendente, come tutti i cittadini, gode del diritto, costituzionalmente tutelato (art.21 Cost.), di libera espressione del proprio pensiero, ribadito anche dallo Statuto dei Lavoratori (art.1, L. n.300/70), ma è anche tenuto a un dovere di fedeltà (art.2105 cod. civ.) e di correttezza e buona fede (artt.1175 e 1375 cod.civ.) nei confronti dell’azienda, per cui deve astenersi, in generale, da comportamenti che possano ledere l’immagine e gli interessi dell’azienda stessa1. I motivi che possono condurre il lavoratore all’aperta critica del datore di lavoro e del suo operato sono molteplici, dalla semplice insofferenza o antipatia alla rivendicazione collettiva (tipica dell’azione sindacale), dalla denuncia di irregolarità o condotte illecite poste in essere dal datore al “dissenso costruttivo”, volto all’elaborazione di soluzioni comuni. Il diffondersi dell’uso dei c.d. social network, su cui talvolta vengono espressi commenti poco lusinghieri sui propri datori di lavoro, visibili dagli utenti dei suddetti network, ha reso più frequenti i casi di sanzioni Secondo la corretta osservazione di dottrina e giurisprudenza, l’obbligo di fedeltà previsto dall’art.2015 cod.civ. prevede solamente che “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”, e non sarebbe quindi applicabile al caso qui in esame (sul punto si legga M. Nicolosi, L’obbligazione di fedeltà del prestatore di lavoro subordinato tra dottrina e giurisprudenza, LG, 2007, pag.334). L’obbligo di non ledere ingiustamente l’immagine dell’azienda si desume, comunque, facilmente da altre norme, in primis dall’art.1375 cod.civ.. 1 2 Tra le molte sentenze in materia si segnalano, tra le più recenti, Cass. n.1434/15; Cass. n.839/15; Cass. n.23144/13. 3 A. De Luca, Diritto di critica del lavoratore, LG, 2008, pag.983. 4 Cass. n.7499/13, Cass. n.29008/09. Secondo App. Bologna, 5 agosto 2009: “Il diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro incontra dei limiti nei criteri della continenza sostanziale, che indica 8 CONTRATTO DI LAVORO La circolare di lavoro e previdenza n.24 del 19 giugno 2015 GESTIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO Così una recente sentenza di legittimità, che riassume bene la questione giuridica in esame, ha affermato che: soprattutto in ambito sindacale, per cui la stessa Cassazione ha affermato che: “Nel valutare il ricorrere di giusta causa di licenziamento per avere, un lavoratore sindacalista, adoperato, in un contesto di conflittualità aziendale, espressioni che possano apparire eccedenti i limiti di un corretto esercizio delle libertà sindacali e quindi lesive del rapporto di fiducia con il datore di lavoro, il giudice di merito deve accertare se le espressioni stesse non costituiscano la forma di comunicazione ritenuta più efficace ed adeguata dal sindacalista in relazione alla propria posizione in un determinato contesto conflittuale, in tal caso non prestandosi valutare tali espressioni con il parametro dell’inadempimento contrattuale dovuto a lesione dell’altrui sfera giuridica nell’esercizio di un diritto di rilevanza costituzionale”6. “l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti della continenza sostanziale (nel senso di corrispondenza dei fatti alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva) e formale (nel senso di misura nell’esposizione dei fatti), si traducano in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale – suscettibile di provocare, con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro – è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall’art. 2105 cod. civ., e può costituire giusta causa di licenziamento”5. Quando a porre in essere critiche contro il datore di lavoro è un lavoratore nelle sue funzioni di rappresentante sindacale, o comunque nell’ambito dell’attività sindacale, è considerato normale che il tono e le espressioni utilizzate siano maggiormente “forti” e colorite, in quanto un tale linguaggio è tipico del conflitto collettivo. L’attività sindacale, infatti, comprende anche il diritto di esprimere il proprio pensiero critico nei confronti del datore di lavoro ed è, come tale, tutelata e promossa a livello costituzionale. Così, anche nell’ipotesi in cui la critica sia esercitata per mezzo della satira – tipica del confronto politico e sindacale – la legittimità della stessa va verificata “alla luce e nel contesto del linguaggio satirico, il quale, essendo inteso, con accento caricaturale, alla dissacrazione e allo smascheramento di errori e di vizi di una o più persone, è per sua natura simbolico e paradossale”7. Fin qui, apparentemente, tutto facile. Non si possono riferire fatti falsi e si devono utilizzare toni “urbani”, cioè non offensivi. Ma poi, in concreto, quando tali limiti sono rispettati e quando no? Attività sindacale e diritto di critica È importante, in questo senso, valutare di caso in caso le espressioni utilizzate dal lavoratore, tenendo in considerazione che la valutazione va contestualizzata nell’ambito del rapporto di lavoro, che, come detto, comporta per sua natura conflitti anche molto aspri tra le parti. La durezza del conflitto si rispecchia conseguentemente anche sul linguaggio utilizzato, la necessaria veridicità dei fatti narrati, e della continenza formale, che impone il carattere civile e misurato dell’esposizione. Qualora il comportamento del lavoratore superi i suddetti limiti e risulti quindi idoneo a screditare il datore di lavoro e a lederne l’immagine, esso va a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro e legittima, pertanto, il licenziamento”. 5 Cass. n.21362/13. Questo il caso esaminato dalla Corte: in un volantino a firma di alcuni lavoratori di un Istituto di vigilanza privato veniva data un’immagine dell’Istituto estremamente negativa, non veritiera e gravemente lesiva del prestigio e del buon nome dello stesso, che, senza ricatti di sorta, aveva sempre corrisposto ogni emolumento, anche in periodi, più o meno recenti, in cui i bilanci societari facevano registrare rilevanti perdite, e aveva sempre perseguito pratiche di gestione del personale che, nel rispetto delle previsioni contrattuali e delle norme di legge, si ispiravano a intese che, legittimamente perfezionate con tutto il rimanente personale, per una loro rivisitazione avrebbero richiesto nuove trattative di carattere collettivo. Nel volantino si faceva riferimento a comportamenti che si assumevano vessatori, arbitrari e frutto di evidenti abusi, ma anche dai toni ricattatori e frutto di pratiche illegali, in cui avrebbero dovuto risultare coinvolti o almeno compiacenti anche uffici istituzionalmente preposti al controllo e alla vigilanza sui contratti di lavoro e sulle stesse modalità di espletamento del servizio, non trascurandosi nemmeno le OO.SS., attraverso l’operato delle loro rappresentanze aziendali e non esclusi alcuni atteggiamenti che avrebbero dovuto apparire come pratiche di vere e proprie tangenti. Nel caso, quindi, in cui la critica sia espressa nell'ambito di un'azione di rivendicazione collettiva, la giurisprudenza, anche penale, tende ad adottare parametri formali assai più "elastici" rispetto al caso del lavoratore individuale, in considerazione della particolare natura dell'attività sindacale stessa8. Cass. n.9743/02. Nella specie, un sindacalista aveva redatto un comunicato di convocazione di un’assemblea, affisso nella sala mensa, in cui si diceva ai lavoratori che l’assemblea stessa sarebbe stata contestata da altri, nominati lavoratori, sindacalisti di altre organizzazioni, perché con rappresentanti del datore di lavoro, anch’essi nominati, “si dividono i soldi di tredicesima, quattordicesima, ferie, permessi individuali retribuiti che fregano agli extra”, questi ultimi intesi come personale non fisso. 7 Cass. n.18570/05. 8 Si veda, ad esempio, Cass. pen., sez. V, n.7499/00, la quale ha affermato che non esula dai limiti del diritto di critica sindacale e non dà luogo a re6 9 La circolare di lavoro e previdenza n.24 del 19 giugno 2015 GESTIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO Il diritto di critica nelle altre ipotesi lavoratore, particolarmente agitato dopo il diverbio12. Tornando al caso dei social network di cui si è detto, è evidente che qui raramente le critiche avranno una connotazione collettiva o sindacale, risultando essere spesso, invece, degli “sfoghi” di carattere personale, magari con toni abbastanza coloriti, tipici di tali mezzi comunicativi. Il lavoratore conserva, naturalmente, il diritto di critica anche in quanto singolo e al di fuori dell’attività sindacale, ad esempio per contestare scelte aziendali che lo riguardano personalmente ed esclusivamente. In questo caso, però, i confini che rendono legittima la critica sono più rigorosi, mancando la “rilevanza sociale” del conflitto. La rilevanza degli interessi sottostanti, infatti, rappresenta l’imprescindibile parametro attraverso cui valutare l’adeguatezza dei modi e le forme utilizzate per esprimere la critica9. Un persistente comportamento polemico e ostile, quando determina disorganizzazione e disfunzioni nell’unità produttiva, è causa legittima di mutamento delle mansioni, di trasferimento in una diversa sede o struttura di lavoro (art.2103 cod.civ.) ovvero di licenziamento10. Così, è stato ritenuto legittimo il licenziamento di un dirigente di una Provincia che, a seguito di una contestazione al suo operato da parte di un assessore, aveva emesso giudizi squalificanti nei confronti di quest’ultimo, esorbitanti l’esigenza di difendere la propria autonomia professionale11. D’altro canto, deve tenersi in debita considerazione l’evoluzione sociale in relazione al disvalore dato a certe espressioni, divenute di uso comune, per cui è stato ritenuto legittimo da parte del lavoratore l’uso di un’espressione impiegata come sinonimo di “non infastidirmi”, “lasciami in pace”, indirizzata al datore di lavoro a seguito di un litigio tra i due, anche perché, secondo quanto affermato dal giudice, deve darsi il giusto rilievo allo stato d’animo soggettivo del Anche se i c.d. profili degli utenti sono, di norma, frequentati solo da utenti di conoscenza dei soggetti stessi, non si deve dimenticare che, secondo la giurisprudenza, si tratta comunque di “luoghi aperti al pubblico”13, per cui chi esprime giudizi in queste “piazze virtuali” non potrà poi contestare di averlo fatto in un luogo privato, strettamente riservato14. Un’affermazione o un giudizio molto offensivo nei confronti del proprio datore di lavoro, espresso su uno dei social network, potrà quindi avere rilievo disciplinare ed essere causa di sanzioni, anche se sarà necessario, in questo come in ogni altro caso di contestazioni disciplinari, valutare di volta in volta la gravità del comportamento del lavoratore. Si tratta di valutazioni inevitabilmente assai soggettive, che dipendono dalla sensibilità personale e culturale di chi li valuta, ovvero, nel caso di contenzioso, del giudice investito della decisione. Visti gli ampi margini di discrezionalità sarà sempre opportuno, quindi, usare la massima cautela nel decidere quali conseguenze disciplinari applicare al caso concreto. sponsabilità penale l’affermazione contenuta in un comunicato sindacale affisso nella bacheca dell’azienda, secondo cui la mancata promozione di un dipendente al ruolo dirigenziale doveva considerarsi “una vera mascalzonata” e il comportamento dell’azienda nei confronti del suddetto dipendente veniva definito “intimidatorio”, sostenendo che la vicenda sarebbe rimasta "rigorosamente circoscritta nell’ambito di un’ordinaria polemica sindacale, per quanto accesi fossero i toni di contrapposizione dialettica con i vertici aziendali". 9 In questo senso P. Tullini, Il diritto di critica civile del sindacalista, RIDL, 1999, II, 346. 10 G. Golisano, Libertà di critica, ingiurie ed uso dei mezzi aziendali, un caso di prova tramite presunzioni, LG, 65. 11 Cass. n.24003/12. Il dirigente aveva inviato la lettera non solo alla catena gerarchica di riferimento del dirigente, dal Presidente della Provincia al Direttore Generale, al Segretario Generale sino al Presidente dell’Osservatorio per la Trasparenza e il Controllo, ma anche a organismi politici, quali il Presidente del Consiglio Provinciale e, soprattutto, i capigruppo consiliari. Trib. Bergamo, 30 giugno 2011. Così, secondo Cass. n.37596/14, "integra il reato di cui all’art. 660 c.p. l’invio di messaggi molesti, “postati” sulla pagina pubblica di Facebook della persona offesa, trattandosi di luogo virtuale aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete e quindi di “luogo aperto al pubblico”". 14 Sul punto si legga P. Salazar, Facebook e il rapporto di lavoro: quale confine per l’obbligo di fedeltà?, LG, 2015, 287. 12 13 10 La circolare di lavoro e previdenza n.24 del 19 giugno 2015