Sviluppo civile: per una critica simpatetica del paradigma
by user
Comments
Transcript
Sviluppo civile: per una critica simpatetica del paradigma
Università degli Studi di Torino Facoltà di Economia TESI DI LAUREA Sviluppo civile: per una critica simpatetica del paradigma dello sviluppo Candidato: Marco Cavallero Relatore: Carlo Salone Correlatore: Roberto Burlando Anno Accademico 2007/2008 Indice: Introduzione Pag. Capitolo primo: Il concetto classico dello sviluppo economico 4 9 - Adam Smith: lo sviluppo nella società mercantile 13 - Karl Marx: sviluppo capitalistico 20 - John Maynard Keynes: l’inizio dell’economia dello sviluppo 27 - I modelli di crescita economica: da Harrod – Domar a Solow 31 Capitolo secondo: Il problema del sottosviluppo 35 - La teoria della modernizzazione 37 - Lo strutturalismo e la teoria della dipendenza 42 - La critica neo- marxista e la teoria dell’imperialismo 51 Capitolo terzo: Il contributo “eterodosso” ai modelli di sviluppo 58 - La grande trasformazione di Karl Polany 60 - François Perroux e i poli di sviluppo 65 - Albert Hirschman e la dimensione ermeneutica dello sviluppo 71 - L’istituzionalismo nella teoria dello sviluppo: Gunnar Myrdal 77 Capitolo quarto: Le critiche liberali ai modelli di sviluppo 84 - La visione liberista: Peter Tomas Bauer 85 - Amartya Sen: sviluppo è libertà 91 - Joseph Stiglitz: globalizzazione e sviluppo 101 2 Capitolo quinto: La fine della crescita 107 - La bioeconomia di Nicholas Georgescu-Roegen 109 - L’economia ecologica di Herman Daly 113 - Jeremy Rifkin: il problema energetico 121 - La decrescita di Serge Latouche 126 - Gilbert Rist e le origini dello sviluppo 135 Capitolo sesto: Lo sviluppo locale per un’economia civile 139 - Dalla crescita regionale allo sviluppo locale 140 - Introduzione all’economia civile 146 - Lo sviluppo civile 151 - La fine dell’economia: l’inizio dello sviluppo civile 156 Conclusioni 160 Riferimenti bibliografici 166 3 Introduzione “Gli economisti e altri studiosi di scienze sociali generalmente si astengono dal proporre le proprie utopie, anche quando le hanno, perché temono di essere considerati ingenui sognatori; è bene vincere questo timore, naturalmente presentando le idee dopo una riflessione ancora maggiore di quella consueta”. Paolo Sylos Labini Cos’è lo sviluppo? La definizione sul dizionario Devoto-Oli recita così: “crescita, aumento progressivo, allargamento, espansione. In economia: aumento dell’occupazione, della ricchezza, espansione, crescita”. Se noi partissimo da questa definizione potremmo esclusivamente pensare allo sviluppo in termini quantitativi, ma non è così. Lo sviluppo non è solamente l’aumento di una data variabile nel tempo, bensì l’aumento della qualità della vita umana. La crescita, al contrario, non considera gli elementi qualitativi concentrandosi esclusivamente sugli elementi quantitativi. La crescita economica illimitata è razionale? La risposta sembra ovviamente negativa, ma se analizziamo il pensiero economico dominante degli ultimi decenni rischiamo di ritrovarci di fronte a un vero e proprio paradosso: la tecnica al servizio del mercato ha come unico obiettivo la crescita economica infinita in un mondo in cui per definizione le risorse sono finite. Il vulnus di ogni singolo ragionamento sullo sviluppo deve partire da questo problema. Questo lavoro, ripercorrendo la storia del concetto stesso di sviluppo economico, vorrebbe esporre un’alternativa plausibile al problema dello sviluppo. Il sistema capitalistico è, per usare la metafora di Giorgio Ruffolo, un moderno Faust dannato alla crescita illimitata ed autodistruttiva. 4 Sarebbe un errore non riconoscere al capitalismo il suo ruolo nello sviluppo della specie umana: della sua potenza, della sua ricchezza, del suo benessere. Quali che siano stati i suoi orrori, e sono stati immensi, non sono certo superiori a quelli delle civiltà che l’hanno preceduto, fondate sulla schiavitù, sull’oppressione, sulla violenza; mentre immensamente superiori sono i suoi meriti: l’incomparabile promozione delle attività di produzione, la diffusione prodigiosa delle innovazioni tecnologiche e, nei tempi più recenti, il compromesso politico con l’altro grande merito della modernità: la democrazia. Una riflessione seria non può, d’altra parte, non riconoscere il rovescio della medaglia: non solo l’esaltazione di Faust, ma anche la sua dannazione. Il capitalismo ha scatenato poderose forze distruttive dell’ambiente naturale e della coesione sociale, fino a minacciare la sopravvivenza stessa della specie. La sua “dannazione” sta nell’assurdità della sua logica della crescita illimitata. In natura non esistono processi di crescita illimitati, che non siano votati allo sterminio. I bambini non crescono come giganti, gli alberi non crescono all’infinito. I critici più radicali dello sviluppo usano correntemente la metafora del treno in corsa verso l’abisso. Quali sono le alternative? Tendenzialmente tre: 1) scendere dal treno, cioè la decrescita della quale ci si occuperà nel quinto capitolo; 2) richiudersi nel treno oscurando i finestrini; 3) cambiare direzione. La prima possibilità, pur essendo desiderabile, è altamente utopica e prevede una vera e propria “rivoluzione culturale”. La seconda possibilità è quella che la società attuale sta percorrendo senza neppure rendersene conto. La terza possibilità è quella auspicabile della deviazione verso un’economia solidale che abbia al centro del suo stesso modo di essere uno sviluppo umano e civile. (Ruffolo, 1994) Questo lavoro intende percorrere la storia del pensiero economico puntando l’attenzione ai lavori di coloro che hanno visto e descritto questo percorso e che hanno proposto soluzioni per modificarne la natura suicida. L’obiettivo della deviazione può essere raggiunto attraverso il raggiungimento di uno “stato stazionario”, che per gli economisti classici era un passaggio inevitabile nell’economia capitalistica. Questa deviazione, dalla crescita all’equilibrio, comporterebbe una formidabile redistribuzione delle risorse tra i ricchi e i poveri del mondo, dato che non è concepibile che la crescita possa essere fermata per entrambi 5 mantenendo l’attuale livello di disuguaglianza; comporterebbe inoltre, all’interno di ogni paese, la fissazione di qualche limite del reddito, minimo e massimo e, comunque, la sterilizzazione delle possibilità di accumulazione della moneta. Richiederebbe di ridurrebbe di molto il dominio dell’economia finanziaria su quella produttiva, che da molti viene considerato come l’origine dei problemi dell’economia contemporanea. La deviazione richiederebbe un rovesciamento delle priorità tra beni collettivi e beni privati. La " resistenza fiscale” e la netta prevalenza nella soddisfazione dei desideri privati rispetto ai bisogni pubblici potrebbero essere superati da un “mercato dei beni pubblici”, forniti da imprese sociali o cooperative di cittadini autogovernate che darebbero a questi ultimi il controllo delle scelte e della spesa relativa, eliminando i costi della burocrazia e l’iniquità dell’evasione fiscale. Lo sviluppo del cosiddetto Terzo settore opera proprio secondo questa logica. Quella teorizzata da questo approccio è un’economia solidale e civile che rompe lo schema marginalista, o monetarista, al punto che c’è da chiedersi se quella così sommariamente tracciata sia ancora economia nel senso in cui noi la intendiamo, e cioè una produzione e distribuzione delle risorse fondata sugli interessi degli individui e non su quelli della società: i quali, con buona pace del pensiero unico, non coincidono affatto “automaticamente” con i primi attraverso il meccanismo del libero mercato. Quel che è certo, è che un radicale riorientamento della specie umana dall’attuale corsa letteralmente insensata verso una condizione di equilibrio, dalla competizione alla cooperazione, non richiede soltanto una riforma dell’economia, ma una rivoluzione culturale, o addirittura antropologica. Richieda uno sviluppo della coscienza, anziché una crescita della potenza: dell’essere, rispetto all’avere; la “fine del paradigma economico” cioè dell’autonomizzazione dell’economia e il suo “rientro” (rembeddment) nell’ambito di una società che abbia riacquistato la consapevolezza dei limiti naturali e dei bisogni di solidarietà sociale. La fine dell’economia, che J.M. Keynes vorrebbe raggiungere per “liberare l’uomo dal bisogno”, può avvenire solo attraverso un’economia solidale ed uno sviluppo civile ed essi passano attraverso la dimensione locale dello sviluppo e attraverso il capitale umano e sociale. 6 I problemi fondamentali hanno una doppia natura, etica ed ecologica e come si vedrà i vari autori che si incontreranno pongono questi due aspetti in primo piano. Il problema ecologico viene affrontato sistematicamente nel capitolo quinto; quello etico accompagna tutto il lavoro. La separazione della scienza economica dall’etica ha causato e causa un grave deficit di capacità di analisi dell’economia stessa. La scienza economica ha smesso di indagare i fini per occuparsi dei mezzi dopo aver reciso il cordone che la legava ai principi morali. L’economia, al contrario, deve: “poter spiegare qual è il modo in cui i beni possono maggiormente servire per aumentare il benessere, certamente la ricchezza, ma anche la felicità, la felicità che è inscritta non nei libri di economia, ma lo è in una delle più grandi costituzioni politiche della storia, la costituzione americana: happiness, la felicità del popolo. Gli economisti dovrebbero essere coscienti che la ricchezza serve alla felicità, che l’economia serve all’uomo e non è l’uomo a servire l’economia”. “L’economia non insegna a produrre. Quello è il compito della tecnica. L’economia insegna a scegliere. Scegliere quali cose produrre e quali metodi della produzione utilizzare. Produrre cose utili. Utili, per l’economista, significa solo che sono richieste da qualcuno, per qualunque ragione. Qualcuno che è disposto a pagare qualche cosa per averle. Si chiamano beni. Anche quando, moralmente parlando, sono mali. Perciò l’economista è un tipo un po’ cinico. Lui si definirebbe: un realista.” (Ruffolo, 2007, p.3) Ciò che mi interessa approfondire, in questo contesto, è proprio il concetto di sviluppo, idea dinamica per definizione, che nella storia della filosofia e dell’economia ha sempre avuto un ruolo di primo piano. Per effettuare questo “viaggio” è stato necessario fare delle scelte che hanno escluso necessariamente delle tappe importanti attraverso gli innumerevoli contributi delle varie scienze umane. Questo lavoro cercherà di offrire, nella sua prima parte, un quadro interpretativo dello sviluppo prendendo come riferimento autori fondamentali nella teoria economica, dai classici agli autori di modelli di crescita di formazione keynesiana. La scelta degli autori è stata fatta nel tentativo di seguire un sentiero interpretativo dello sviluppo che va dalla sua concezione classica alla sua critica più feroce, attraverso la negazione della stessa crescita. I primi due capitoli hanno il compito di introdurre il concetto di sviluppo economico attraverso ottiche differenti ma che 7 hanno il denominatore comune del “progressismo”1. In questi capitoli si analizza in che modo la teoria dello sviluppo è stata formulata all’interno della scienza economica. I tre capitoli successivi attraversano i contributi più disparati al concetto stesso di sviluppo; contributi spesso poco considerati per ragioni di contrapposizione politica (Polanyi, Myrdal, Georgescu – Roegen, etc..) passando per teorie più recenti legate alle varie sensibilità degli autori (Sen, Stiglitz, Latouche, etc..). Questi primi cinque capitoli forniscono il quadro interpretativo per comprendere il senso delle proposte concettuali del sesto capitolo dove, coniugando l’economia civile allo sviluppo locale, e avendo ben chiare le critiche esposte nei capitoli precedenti, si formalizzerà il concetto di sviluppo civile. In conclusione si tenterà di esporre un quadro interpretativo al “problema dello sviluppo” tra democrazia economica, localismi, previsioni di scenari e rivendicazioni di identità. 1 Questo concetto viene spiegato nel primo capitolo nell’introduzione del contributo degli economisti “classici” alla teoria dello sviluppo 8 CAPITOLO PRIMO: Il concetto classico di sviluppo “Prima di provare interessamento per un forte gli altri, dobbiamo essere a nostro agio. Se siamo angosciati nella stessa miseria non abbiamo il tempo di occuparci di quella del vicino” Adam Smith “Il ruolo svolto dagli economisti ortodossi, il cui buon senso è stato insufficiente logica ad arrestarne sbagliata, è la stato estremamente disastroso.” J.M. Keynes Nonostante l’ abitudine degli economisti di considerare i termini crescita e sviluppo come sinonimi, non si può certo affermare che essi lo siano. Nella sua accezione economica la crescita è l'aumento di beni e servizi prodotti dal sistema economico in un dato periodo di tempo, mentre con sviluppo ci si riferisce soprattutto a modificazioni qualitative di elementi di natura sociale, culturale e politica, oltre che economica. La crescita è un concetto riferito alla capacità di un sistema economico di incrementare la disponibilità di beni e servizi per la popolazione. L’usuale supposizione è che la disponibilità di beni e servizi debba aumentare nel tempo, in quanto tendenzialmente cresce la popolazione e con essa la domanda di beni. Il tasso di crescita reale è l'indicatore economico maggiormente utilizzato dagli economisti, dai governi e dalle organizzazioni economiche internazionali. Spesso è associata 9 direttamente al benessere della popolazione, ma la relazione tra le misure delle crescita generalmente in uso e il benessere è molto complessa e controversa. Nell’economia classica la crescita è sinonimo di sviluppo anche se la scienza economica non era ancora quella “scienza triste” che tutti conoscono. Il “progressismo” di Marx e Smith è l’elemento centrale dell’analisi economica e per questo lo sviluppo può essere solamente crescita, progresso verso la prosperità, una crescita che però non deve essere fine a se stessa ma deve avere una naturale finalità, cioè la fine del bisogno e la felicità. Per i classici la crescita, non è la mera ricerca di punti percentuali di Pil o il libero consumismo, bensì è uno strumento fondamentale per fini molto più “nobili”. E’ importante sottolineare come l’impostazione classica, al contrario di quella neoclassica, si concentri sugli elementi dinamici e non statici dell’economia: “Il sistema classico è diretto verso l’analisi di sequenze temporali; il metodo è dinamico, nel senso che le sequenze sono irreversibili. I marginalisti impiegano il metodo statico: si ipotizza che l'economia sia stazionaria (che la quantità e le caratteristiche della popolazione restino costanti nel tempo e non vi siano cambiamenti di tecnologia né di scarsità delle risorse e i gusti dei consumatori siano invariati). L’economia marginalista si basa sul principio di sostituzione: nel campo del consumo riconosce la sostituibilità tra un paniere di beni e un altro; nella produzione tra una combinazione di fattori e un’altra. L’analisi è fatta in termini di possibilità alternative tra cui i soggetti possono scegliere. Il metodo richiede che le alternative siano aperte e che decisioni siano reversibili. Nella misura in cui le alternative siano aperte le decisioni dei soggetti economici sono sperimentali e quindi reversibili. Il processo di sostituzione può quindi continuare finché l’operare del mercato porta alla produzione massima dei produttori e alla massima utilità dei consumatori. Per i marginalisti il consumo e non l’accumulazione è movente principale della attività economica... e la sovranità dei consumatori si sostituisce alla sovranità dei capitalisti. Una volta considerata l’accumulazione come la forza motrice che sottostà all’attività economica, si riconosce l’esistenza di una classe capitalistica che grazie alla proprietà del capitale gode del privilegio di impiegare il lavoro. Se si considera il consumo come la forza motrice lo scopo dell’economia è la soddisfazione dei bisogni umani. C’è ragione di credere che la ricerca dei marginalisti di un approccio 10 alternativo alla teoria economica, ricerca chiaramente scientifica, avesse uno scopo intrinsecamente politico. Appare innegabile il collegamento tra l’avvento del marginalismo e il movimento socialista del tempo. Nella dimostrazione di Ricardo che i salari sono in relazione inversa ai profitti è implicito il riconoscimento che il conflitto di classe è inevitabile nell’economia capitalistica.” (Dasgupta, 1987)1. Nell’economia moderna dopo la svolta marginalista si tende ad ignorare ciò che per gli economisti classici era l’elemento centrale della “scienza economica” cioè lo sviluppo umano e sociale dell’uomo, tendendo eccessivamente a considerare gli elementi amorali ed esclusivamente quantitativi. In Smith e Marx, e con loro Ricardo, Mill e molti altri, è molto chiaro che il “nemico” da sconfiggere è la povertà. I vari autori propongono politiche e strumenti completamente diversi per risolvere questo problema ma per tutti l’economia non è la scienza che, per Lionel Robbins, “studia la condotta umana” in relazione a risorse scarse e a fini alternativi. Il concetto di scarsità walrasiano diventa la “legge dell’economia”. “L'economia è indifferente rispetto ai fini, nel senso che essa non è in grado di dare su di essi un giudizio, allo stesso titolo per cui è in grado di dare un giudizio sui più convenienti usi dei mezzi per pervenire ai fini stessi. Gli scopi che l'azione umana si prefigge sono naturalmente soggetti ad altri tipi di valutazione, in sede morale, religiosa, politica, ecc.” spiega Claudio Napoleoni: “Secondo questa concezione l'economia è una scienza positiva, libera cioè da giudizi di valore” (Napoleoni, 1963). L’idea sull’economia di Smith e Marx - ma anche in parte di Keynes - non è certo quella di Robbins, così come l’idea stessa di sviluppo è necessariamente diversa. In molti economisti classici le innovazioni istituzionali hanno avuto un peso rilevante e sia Smith che Marx individuano nella classe borghese il motore dello sviluppo in contrasto ad un classe nobiliare conservatrice e corporativa. Smith e Marx, che in questo capitolo sono presi come esempi della concezione classica dello sviluppo, sono entrambi “modernisti” e “progressisti” invocando a gran voce l’abolizione di “privilegi esclusivi”. 1 La citazione è contenuta nella relazione di Luciano Iacoponi al XLII convegno Sidea del 22-23 febbraio 2005 11 Ritengo che il contributo di economisti come Smith, Ricardo, Marx e Schumpeter siano fondamentali per comprendere come il problema “originario” dell’economia sia lo sviluppo, legando questo concetto alla produttività; nell’economia marginalista, al contrario, l’elemento centrale è lo scambio e quindi l’equilibrio. Nei primi due paragrafi di questo capitolo si analizzeranno le teorie sullo sviluppo presenti in due pensatori fondamentali per l’economia classica (Smith e Marx) evidenziando come le loro soluzioni siano spesso in aperto contrasto tra loro, ma come rappresentino l’ ideal- tipo di un’idea progressista dello sviluppo stesso. Nel terzo paragrafo è mia intenzione concentrare l’attenzione su colui che più ha influito sul pensiero economico dominante in gran parte del Novecento, cioè J. M. Keynes. Questo paragrafo sottolinea l’importanza dell’opera dell’economista inglese nel dare il via a tutte le teorie sullo sviluppo ponendosi in modo critico nei confronti della scuola neoclassica. Keynes, e la crisi degli anni ’30, forniscono il riferimento ideale per quasi tutte le teorie sullo sviluppo considerate nel capitolo successivo. L’ultimo paragrafo è dedicato ad offrire al lettore una veloce sintesi di alcuni modelli di crescita di stampo post -keynesiano: quelli di Harrod- Domar e di Kaldor, apertamente ispirati al lavoro di Keynes, ma anche il modello neo-classico di Solow, riferimento centrale di questa visione. Per ragioni di spazio e di rilevanza rispetto ai temi dei capitoli successivi non si tratteranno altri modelli di crescita come quello dello sviluppo dualistico di Kuznets o quello di Lewis per i quali rimando nei vari testi di Economia dello sviluppo. 12 Adam Smith e lo sviluppo nella società mercantile L’idea del progresso e della crescita è sempre stata presente nella filosofia illuministica e trovò nell’illuminismo scozzesi uno dei suoi portavoce più affermati, cioè Adam Smith. Il filosofo scozzese, così come gli altri economisti classici, fondarono la loro teoria sulla ricchezza della nazioni su tre elementi fondamentali: capitale, terra e lavoro. Smith attribuisce la priorità della crescita pro capite, la quale dipende in primo luogo dalla produttività del lavoro. Per Sylos Labini l’obiettivo di Smith “ è sradicare la miseria perseguendo lo sviluppo economico non come fine in sé, ma per il fine che veramente conta, lo sviluppo civile”, concetto che rivedremo in modo più approfondito negli ultimi capitoli (Sylos Labini, 2004). Il filosofo scozzese, considerato il padre dell’economia classica, fu certamente espressione della scuola liberale britannica che aveva in Locke ed Hume i suoi rappresentanti di maggior prestigio. Adam Smith è sempre stato associato alla sua opera più famosa “La ricchezza delle nazioni” anche se il realtà lo studioso britannico è stato prima di tutto un importante esponente della filosofia morale contribuendo all’arricchimento delle teorie che, prima di lui, Hobbes, Locke e Mendeville avevano formato. Allievo del filosofo Hutchenson, il giovane Smith gli succede alla cattedra di filosofia morale pubblicando nel 1759 una delle sue opere più importanti “Teoria dei sentimenti morali”. Per comprendere veramente le sue argomentazioni economiche non si può non prescindere da quest’opera di filosofia morale; etica ed economia si fondano nel pensiero del filosofo scozzese. Il concetto fondamentale della filosofia smithiana è il principio di simpatia, che sarà il denominatore comune della sua teoria della “mano invisibile”. Adam Smith descrive un sistema morale fondato sul principio di simpatia che comporta l'immedesimazione nelle passioni e nei sentimenti altrui e che differisce dalla benevolenza e dall'altruismo pur non sostituendosi all'egoismo. Per simpatia, sentimento innato nell'uomo, va intesa la capacità di identificarsi nell'altro, la capacità di mettersi al posto dell'altro e a comprenderne i sentimenti in modo da potere ottenere l'apprezzamento e l'approvazione altrui. Da questo sentimento gli individui deducono regole morali di comportamento. La coscienza morale non è 13 allora un principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che l'uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere prevalentemente sociale e intersoggettivo. Il mercato e la mano invisibile sono il terreno e lo strumento per il naturale corso dello sviluppo economico. Per Adam Smith, ne “La ricchezza della nazioni”, lo schema di sviluppo economico può essere riassunto come un “progresso naturale della prosperità”. Il criterio di valutazione del progresso economico è il valore del prodotto annuale e della sua crescita, che è funzione della quantità di lavoro produttivo impiegato e dal valore prodotto per unità di lavoro. Il motore dello sviluppo è l’accumulazione del capitale che aumenta grazie al risparmio di reddito di un determinato periodo. Il risparmio è, per i classici, assimilabile all’investimento. In questo modo l’elemento centrale per lo sviluppo è il risparmio, quindi la parsimonia dei privati e dello Stato. Alle spalle della parsimonia però c’è l’operosità che rende possibile l’accumulazione del capitale. Il progresso naturale si svolge secondo una serie precisa di fasi successive: “quanto è maggiore la quota di [capitale] impiegata nell’agricoltura, tanto maggiore sarà la quantità di lavoro produttivo che esso mette in moto all’interno del paese; e tanto maggiore sarà pure il valore che tale impiego di capitale aggiunge al prodotto annuo della terra e del lavoro della società. Dopo l’agricoltura è il capitale impiegato nelle manifatture che mette in moto la più grande quantità di lavoro produttivo e che aggiunge il maggior valore al prodotto annuo.” (Smith, 1973, p.360) Secondo Smith l’aumento l’investimento è come l’acqua che passa da una vasca ad un’altra in una serie di “allagamento” continuo: l’accumulazione di capitale in un settore provoca l’aumento di produzione e a sua volta abbiamo un eccedenza di prodotto e capitale che straripano in un altro settore e così via. I sovrappiù di produzione e di capitale regolano lo sviluppo naturale dell’economia. La volontà naturale degli uomini ad aumentare il proprio patrimonio e la propria condizione porta, quindi, ad un progresso continuo e naturale. La produttività è al centro del ragionamento smithiano ed aumenta con il progresso della divisione del lavoro. Il progresso economico costituisce, secondo l’economista scozzese, un “ordine di cose che in generale, anche se non in ogni singolo paese, è imposto dalla necessità, è promosso in ogni singolo paese dalle inclinazioni naturali dell’uomo” (1973, p.374). 14 Smith dimostra in questo passaggio il suo “progressismo” ed “eurocentrismo” dove il progresso deve essere al centro dell’azione umana conforme a natura e ragione. Il padre degli economisti dimostra l’impostazione peculiare di tutti gli economisti che lavorano “per lo sviluppo economico” e che cerco di riassumere in questo primo capitolo. L’economista scozzese però evidenzia come questo ordine naturale delle cose sia stato nel corso della storia rovesciato sotto molteplici aspetti. Questo rovesciamento ha instaurato un ordine delle cose che essendo innaturale è stato lento e retrogrado. L’ordine storico non ha seguito l’ordine naturale a causa di azioni artificiali che però non possono dipendere dall’azione umana del singolo individuo bensì da “istituzioni umane” che vengono rappresentate da gruppi sociali il cui interesse particolare si oppone all’interesse generale. Inoltre questi gruppi devono essere portatori di un potere tale da influire in modo così distorsivo sul corso naturale delle cose. Questi gruppi di potere sono le oligarchie. Il libero mercato è lo strumento di espansione del marcato del lavoro ed esso deve essere immune dagli interventi statali. Lo stato deve concentrarsi sulla salvaguardia della proprietà privata e sulla difesa, evitando di intervenire direttamente sull'economia. Perché, dice Smith, se lo stato interviene nell'economia finirebbe col favorire qualcuno a scapito di altri e dunque alimenterebbe le tendenze monopolistiche della classe capitalistica: il meglio che lo stato può fare in economia è salvaguardare la libertà di commercio, cioè la concorrenza, contro l'oligarchia. La condizione del rovesciamento dell’ordine naturale è dunque la formazione di una oligarchia il cui interesse particolare non coincide con l’interesse generale e che può, tramite lo Stato, imporre la sua volontà all’intera società. La concezione di Stato di Smith è la prima formulazione sistematica del liberalismo ed è visibilmente influenzata dall’economicismo cioè il riduzionismo funzionalistico dell’apparato statuale. Il liberalismo di Smith, come condizione ideale di sviluppo, può essere riassunto così: “Avendo così scartato tutti i sistemi sia di preferenza che di limitazione, il sistema semplice ed ovvio della libertà naturale si stabilisce spontaneamente da solo. Ognuno, nella misura in cui non viola le leggi della giustizia, è lasciato perfettamente libero di perseguire il suo interesse a modo suo, e di mettere in concorrenza sia la sua attività che il suo capitale con quelli di chiunque 15 altro o qualsiasi ordine sociale. Il sovrano è completamente dispensato da un compito, nel tentativo di attuare il quale sarà sempre esposto ad innumerevoli delusioni, e per la giusta attuazione nessuna saggezza o conoscenza umana potrà mai essere sufficiente: il compito di sovrintendere all’attività produttiva dei privati e di indirizzarla verso gli impieghi più confacenti all’interesse della società”. Lo Stato “ha solo tre compiti da svolgere, tre compiti di grande importanza, in effetti, ma chiari e comprensibili per ogni intelletto: primo il compito di proteggere la società dalla violenza e dall’invasione delle altre società indipendenti; secondo, il compito di proteggere, per quanto è possibile, ogni membro della società stessa, cioè il dovere di stabilire un’esatta giustizia; terzo, il compito di esigere e di conservare certe opere pubbliche e certe pubbliche istituzioni la cui edificazione e conservazione non possono mai essere interesse a un singolo individuo o a un piccolo numero di individui, anche se può spesso rimborsarlo abbondantemente a una grande società” (1973, p.681). Tralasciando i primi due ruoli affidati allo Stato (difesa e giustizia) Smith parla apertamente di “istituzioni pubbliche” che si occupino dell’interesse generale e non particolare. Uno Stato che non deve intervenire in economia ma che deve evitare che gli interessi particolari vincano sull’interesse generale. Attraverso questo punto che è fondamentale per assicurare il corso naturale dello sviluppo tramite il mercato, l’analisi smithiana consiste principalmente ad un critica al monopolio. Qui nasce quelli che molti individuano come contraddizione nel pensiero liberale dell’economista scozzese: lo Stato è condizione necessaria del monopolio. La soluzione del problema del monopolio è quindi l’eliminazione dell’interventismo statale. E’ interessante notare come il ruolo dello Stato però possa diventare da negativo a positivo se il controllo di esso sia esercitato da un classe il cui interesse è quello generale e non particolare. Ma lo Stato per Smith, nella sua visione puramente economicista, è privo di razionalità economica al contrario del mercato. Il mercato è il luogo della razionalità economica complessiva, lasciando allo Stato un ruolo marginale e poco chiaro. Riassumendo si può affermare che per Smith la “mano invisibile” ed il libero mercato siano quindi strumenti di giustizia contro prepotenze di oligarchie che tendono al monopolio attraverso lo Stato. In quest’ottica il 16 liberismo smithiano sembra seguire un filone “liberal” di lotta ai poteri conservatori e “retrogradi” della società inglese dei suoi tempi. La visione anti- oligarchica di Smith sembra una contraddizione in termine nei confronti del liberismo moderno che tende ad ignorare questi gruppi sociali che fanno pressioni affinché l’interesse particolare prevalga su quello generale. L’economista scozzese sembra però ridurre questa questione all’interventismo statale come “braccio” dell’oligarchia e offrendo una soluzione semplicistica al problema: l’eliminazione dell’intervento statale in economia. Non si capisce perché il mercato, entità astratta, possa essere il luogo della razionalità economica in funzione di quello sviluppo che per Smith, quindi, non è salvaguardato se lo stato interviene nell'economia perché esso finirebbe col favorire qualcuno a scapito di altri e dunque alimenterebbe le tendenze monopolistiche della classe capitalistica: il meglio che lo stato può fare in economia è salvaguardare la libertà di commercio, cioè la concorrenza, contro l'oligarchia. Di qui dunque una distinzione netta - anche se spesso dimenticata - tra due concetti chiave dell'analisi economica e della ricerca storica e antropologica rivolta all'economia: mercato e capitalismo. Il mercato, se lasciato libero di operare, è un meccanismo in grado di garantire la pace sociale e il massimo benessere possibile. Ma il ceto capitalistico che si oppone al libero mercato, in combutta con lo stato, può rovinare quell'armonia ed il conseguente “progresso naturale della prosperità”. Un’interpretazione volutamente liberista di Smith ha certamente contribuito all'ambiguità del concetto di mercato e della conseguente ideologia politica antistatalista: lanciando da un lato l'idea della "mano invisibile" che governa il sistema della domanda e dell'offerta senza bisogno di regole pubbliche; ma dall'altro ammettendone i limiti quando esprime esplicitamente la consapevolezza del fatto che in fondo il più importante e temibile avversario della concorrenza è l'oligarchia, della quale lo stato può diventare strumento. Per questo il filosofo scozzese prevede un sistema giudiziario che garantisca lo svolgersi del naturale corso verso la prosperità senza che “gruppi sociali dominanti” facciano prevalere l’interesse privato su quello pubblico. Nel sistema smithiano questo non produce una contraddizione perché di fatto l'oligarchia capitalistica si sviluppa solo se aiutata dallo stato. Questa è una 17 conclusione che oggi appare troppo semplicistica: poiché l'oligarchia capitalista preesiste a qualunque operazione liberista e non trae origine solo dal supporto della politica, sicché di fatto la riduzione del ruolo economico dello stato, anche nella forma moderna della deregolamentazione, non provoca solo la liberazione dell'effetto armonizzante della mano invisibile ma anche e soprattutto l'esplosione del potere di quei gruppi sociali che lo stesso Smith individuava come i primi nemici del mercato. L’oligarchia capitalista si riproduce e si rafforza anche senza lo Stato poiché questa entità, quasi teologica, che è il “mercato”, in realtà è solo uno strumento non privo di “fallimenti”. Quasi tutti gli elementi di un dibattito plurisecolare sono dunque già posti nell'opera di Smith. Mercato e interesse. Razionalità e armonia sociale. Pubblico e privato. Ma anche concorrenza e oligarghia. La tesi liberale è nata nella sua interpretazione più innovativa e pericolosa per i ceti sociali dominanti: la mano invisibile diventa un “deus ex machina” che non è più lo strumento che Smith vedeva guidato dal principio di simpatia ma un fine taumaturgico che va lasciato libero di agire senza controllo sociale o politico. Il corso naturale dello sviluppo che ha profonde radici filosofiche diventa nei decenni a venire una legge naturale da difendere in chiave antistatalista e sono gli stessi poteri oligarchici a trasformare questo strumento nato in funzione anti- corporativa come mezzo stesso dell’affermazione del proprio potere in senso conservatore. Questa grave distorsione del pensiero dell’economista scozzese viene individuato da Alessandro Roncaglia nella reinterpretazione di Dugald Steward, primo biografo di Adam Smith. Roncaglia scrive: “Assieme a Hume, Smith viene considerato un pericoloso sovversivo dagli intellettuali conservatori dell’epoca. Il punto è che tutti questi pensatori, favorevoli o avversi alle posizioni di Smith, non percepivano alcuna cesura tra il liberismo in campo politico e quello in campo economico, tra la difesa della libertà (freedom) e la difesa del libero commercio (free trade)”. Il mutamento del clima politico dovuto al Terrore francese porta il biografo di Smith a rendere le tesi del filosofo scozzese più accettabili, distinguendo liberismo economico e liberalismo politico. Roncaglia aggiunge: “Con questa sottile reinterpretazione, una tesi politicamente progressista che pone in rilievo la necessità di combattere le concentrazioni di potere di ogni tipo viene trasformata in una tesi conservatrice, che nella fase dell’industrializzazione giunge ad assumere connotati reazionari, fungendo 18 da giustificazione per un disinteresse completo della nuova classe imprenditrice verso i pesanti costi umani delle nuove tecniche produttive e verso la miseria diffusa nella società: qualcosa di molto lontano dalla sensibilità ripetutamente dimostrata dall’economista scozzese per le sofferenze umane, e dal suo interesse per il continuo miglioramento delle condizioni di vita della grande massa della popolazione” (Roncaglia,, 2001). In questo breve riassunto del pensiero di Smith sullo sviluppo abbiamo incontrato interpretazioni che spesso possono essere in contrasto l’una con l’altra rendendo la figura del filosofo scozzese prima come il padre di uno sfrenato liberismo economico dopo come il saggio padre di uno strumento anti-conservatore che non deve perdere di vista il fine, cioè lo sviluppo civile. Smith è tutto questo. Spesso ci si dimentica del principio di simpatia perdendo, a mio parere, il senso stesso della filosofia smithiana dello sviluppo (prosperità e fine della povertà per uno sviluppo civile). In questo paragrafo mi sembra corretto fare anche un piccolo accenno a David Ricardo che non si occupò mai esplicitamente di sviluppo economico ma che nella sua opera non mancò di individuare gli elementi frenanti dello sviluppo. L'analisi della distribuzione dei redditi servì a Ricardo per formulare una teoria "pessimistica" dello sviluppo economico capitalistico. Posta come condizione allo sviluppo stesso l'esistenza di un saggio di profitto sufficientemente elevato da permettere un'adeguata accumulazione di capitale e quindi un aumento della produzione, l'economista inglese rilevò che la tendenza del saggio di profitto a diminuire (in quanto la necessità di coltivare terre sempre meno fertili in seguito allo sviluppo demografico avrebbe determinato da una parte un aumento della rendita e dall'altra un aumento del prezzo delle derrate alimentari e quindi dei salari correnti) avrebbe frenato lo sviluppo economico. Questa teoria, nota come “la caduta tendenziale del saggio del profitto”, ispirerà Marx nella formulazione delle sue teorie, alle quali rimando nel prossimo paragrafo. 19 Karl Marx: sviluppo capitalistico Karl Marx può essere certamente considerato uno dei più grandi economisti classici che si è occupato di sviluppo economico. Il contributo di Marx allo sviluppo del pensiero economico è molto importante a prescindere dal suo progetto rivoluzionario. Per questo motivo, nel valutare tale contributo alla scienza economica è importante tenere presente il quadro in cui si iscrive, ma allo stesso tempo evitare di farsene travolgere, come se tutti gli elementi della costruzione marxiana reggessero o cadessero insieme al progetto rivoluzionario. In questo paragrafo cercherò di riassumere la posizione del filosofo tedesco nei confronti dello sviluppo con continui richiami a coloro che elaborarono le proprie teorie avendo come base le argomentazioni di Marx: lo sviluppo ciclico che divenne elemento fondamentale nell’opera di Schumpeter ma anche il processo di sviluppo presente nel modello dell’economista torinese Sraffa. Il debito di Schumpeter è verso il Marx studioso dello sviluppo economico e, in particolare, alla sua concezione di tale sviluppo come basato su un meccanismo autopropulsivo. Concezione analoga, sottolinea Schumpeter, a quella presente nella sua Teoria dello sviluppo economico (Schumpeter 1937) Nel comporre la Teoria, leggiamo nella prefazione dell’autore all’edizione giapponese dell’opera, egli si era proposto di formulare: “una teoria economica pura dello sviluppo economico, che non facesse assegnamento soltanto sui fattori esterni che possono spingere il sistema economico da un equilibrio all’altro... questa idea e questa intenzione sono esattamente le stesse che stanno alla base della dottrina economica di Karl Marx. In effetti, ciò che lo distingue dagli economisti del suo tempo come da quelli che lo precedettero è una visione dell’evoluzione economica come di un processo particolare generato dal sistema economico stesso” (Sylos Labini, 1973, p.LX). Paolo Sylos Labini nel saggio Il problema dello sviluppo economico in Marx e Schumpeter2, analizza la teoria dello sviluppo in Marx proprio confrontandola con quella schumpeteriana. In questo paragrafo mi occuperò della prima accennando solamente allo sviluppo ciclico di Schumpeter. 2 Il saggio è contenuto in: Economie capitalistiche ed economie pianificate, Laterza, 1960 20 In Marx, così come era anche per Smith e Ricardo, il vero motore dello sviluppo è l’accumulazione , ossia dall’impiego produttivo (impiego che genera plusvalore) ossia ancora dall’investimento del reddito netto; essa si fonda su una riproduzione continua su una scala allargata. Per Marx la società capitalistica non è e non può essere stazionaria. I diversi elementi che stanno alla base dell’analisi del processo di sviluppo contenuta nel capitolo XXIII del primo libro del Capitale sono: (a) l’introduzione delle macchine, prima di tutto, che consente di ridurre i costi e di ottenere un “plusvalore straordinario” – a condizione, in generale, che venga aumentata la scala produttiva; (b) il conseguente stimolo alla riduzione dei prezzi, che mette alla frusta i concorrenti, costringendoli ad adottare a loro volta i nuovi metodi di produzione; (c) la spinta che ne deriva all’investimento e all’assorbimento di lavoratori addizionali, che può condurre all’assottigliamento dell’“esercito industriale di riserva”, formato dai disoccupati, e al rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori; (d) l’aumento dei salari e la corrispondente diminuzione del saggio del profitto; se oltrepassa un certo limite, la diminuzione del saggio del profitto provoca una caduta dell’incentivo a investire, conducendo a una crisi; nel contempo, l’aumento dei salari fornisce un potente stimolo alla sostituzione del lavoro con macchine; (e) si ricostituisce, per entrambe le vie, l’“esercito industriale di riserva”, mentre l’introduzione delle macchine dà impulso a un nuovo ciclo di accumulazione. Ma da dove proviene la necessità dell’accumulazione e quindi dello sviluppo? “L’accumulazione è la conquista del mondo della ricchezza sociale. Essa estende, oltre la massa del materiale umano sfruttato, anche il dominio diretto ed indiretto del capitalista” (Marx, 1989, libro primo, p.52). Questo sta alla base del processo che ho riassunto in alcune righe poco sopra. Due aspetti del quadro qui sommariamente tracciato meritano di essere sottolineati. Il primo è quello su cui Sylos richiama l’attenzione quando osserva che nell’analisi di Marx (come in quella di Schumpeter) “trend e ciclo appaiono come due aspetti di un unico fenomeno; sono, per così dire, combinati chimicamente” (Sylos Labini, 1960, p.64). Quello che viene descritto non è un movimento ciclico che si sovraimpone a una crescita di lungo periodo che ha luogo indipendentemente da esso, ma un movimento complessivo dell’economia che procede in forma ciclica; movimento dal 21 quale solo a posteriori è possibile, se lo si desidera, ricavare un trend di crescita, facendo statisticamente astrazione dall’aspetto ciclico. Un abisso separa questa visione da quelle teorie che ritengono di poter fare astrazione dal ciclo nell’analisi della crescita, concependo le fasi di espansione e di contrazione dell’economia come scostamenti temporanei da un trend predeterminato. In un caso lo schema di ragionamento è “aperto”: dove l’economia si troverà – in termini di reddito effettivo e potenziale – al termine di un certo numero di cicli dipenderà dalla sequenza di azioni e reazioni che si sarà dipanata nel tempo. Nell’altro il punto d’arrivo è noto in anticipo, e nulla di quel che avviene lungo il cammino può modificarlo. Il secondo aspetto è strettamente connesso a quello appena visto. Ciò che l’impostazione di Marx, fatta propria da Sylos Labini, induce a negare è non solo che siano in azione forze capaci di far crescere l’economia al suo saggio “naturale”, ma anche che abbia senso riferirsi a un simile saggio come a un limite superiore imposto alla capacità di crescita dell’economia. Che la crescita sia limitata dalla disponibilità di lavoro che spontaneamente si manifesta è un’affermazione che l’esperienza storica e l’osservazione di quel che accade sotto i nostri occhi fanno apparire ridicola. E’ evidente, infatti, che, in generale, lo sviluppo economico non incontra difficoltà a procurarsi la manodopera di cui ha bisogno. Marx ci ha insegnato che esso incessantemente assorbe ed espelle lavoratori, e che i processi di espulsione si intensificano quando i lavoratori cominciano a scarseggiare. L’offerta e la domanda di lavoro non possono dunque essere concepite come “due potenze indipendenti che agiscano l’una sull’altra. Les dés sont pipés. Il capitale agisce contemporaneamente da tutte e due le parti” (Marx, 1989, Libro primo, p.700). Ciò vale, come Marx sottolinea, sia per la produzione industriale che per quella agricola. Ma ci sono poi i colossali trasferimenti di popolazione dall’agricoltura all’industria, che hanno storicamente accompagnato, e continuano ad accompagnare, lo sviluppo industriale dei diversi paesi. Per non parlare dell’ingresso nel mercato del lavoro di masse di persone che ne restavano ai margini. E degli immani flussi migratori sollecitati dalla presenza, nei paesi di destinazione, di una domanda di lavoro insoddisfatta . La capacità produttiva, dal canto suo, cresce nel tempo sulla base delle occasioni di investimento create dagli sbocchi commerciali disponibili per le merci che essa consente di produrre. E la stessa crescita della produttività è stimolata non solo 22 dall’aumento dei salari (“effetto di Ricardo”), ma anche dall’espansione del mercato (”effetto di Smith”)3. Ciò, naturalmente, non significa che una concezione della crescita come vincolata dalle risorse non sia giustificata. Significa però che dobbiamo essere capaci di distinguere i vincoli imposti arbitrariamente dalla teoria dai vincoli reali, che nascono dall’esistenza di risorse naturali scarse e dai drammatici problemi ambientali. Il limite imposto all’aumento dei salari, e dunque dei consumi di massa, dal meccanismo descritto prima e l’impulso che lo stesso meccanismo dà allo sviluppo delle forze produttive determinano, secondo Marx, un crescente divario fra produzione e consumo. Né il rimedio può essere cercato nella crescita della domanda di beni di investimento, poiché tale crescita non può aver luogo indefinitamente senza una corrispondente crescita dei consumi (Marx, 1989 ,libro terzo, pp.293-303, 366 e 569) Marx accoglie dunque la tesi dei teorici del sottoconsumo, secondo cui la compressione della quota dei salari sul reddito condanna il sistema capitalistico a una cronica insufficienza della domanda. Egli respinge invece un’altra tesi, che nella tradizione sottoconsumista si presenta come un corollario della precedente: quella secondo cui l’aumento dei salari ha conseguenze univocamente positive. L’aumento dei salari, sostiene Marx, allevia bensì il problema dell’insufficienza della domanda, ma fa, nello stesso tempo, diminuire il saggio del profitto, aprendo la strada a una crisi d’altro tipo. Il sistema capitalistico gli appare perciò stretto in una “contraddizione”: “Contraddizione del modo di produzione capitalistico: gli operai in quanto compratori della merce sono importanti per il mercato. Ma in quanto venditori della loro merce – la forza-lavoro – la società capitalistica ha la tendenza a ridurli al minimo del prezzo” (Marx, 1989, libro secondo). Per Marx “quale sia il saggio dei salari, alto o basso, la condizione dei lavoratori deve peggiorare” (Marx, 1989, libro primo, p. 95). Questa posizione spiega la convinzione del filosofo tedesco di considerare lo sviluppo come un ciclo continuo di 3 cfr. a Torniamo ai classici, Sylos Labini, 2004, p. 18 e capitolo III 23 miglioramento che non influisce sulla condizione dei lavoratori che per questo possono aspirare esclusivamente alla rivoluzione. Marx non prevedeva in nessun modo che le mutate condizioni sindacali, che lui riteneva dannose perché inutile palliativo a discapito della rivoluzione, potessero portare ad una relativa redistribuzione delle risorse che permise una maggiore dinamicità dei salari verso le classi lavoratici con conseguente sostegno alla domanda di consumo. Un ultimo elemento interessante da considerare è la dinamica che porta al monopolio. Secondo Marx l’accumulazione (quindi lo sviluppo) porta ad una concentrazione di capitali e quindi di imprese. Quello che per Smith poteva accadere solo per colpa dello Stato, per Marx è invece un processo tendenziale di lungo periodo in una società capitalista. Per Marx la “riproduzione semplice” dello sviluppo tramite l’accumulazione è una caratteristica fondamentale del sistema capitalistico che sopravvive solo se si rinnova ma, al contrario di Schumpeter, egli ritiene che codesto sistema sia insopportabile per i lavoratori che sono “soffocati” dalla tesi dell’immiserimento e che la tendenza al monopolio possa provocare una mutazione del sistema. “La tesi fondamentale di Marx è che il sistema economico fondato sulle imprese private – il sistema capitalistico – via via che procede nel suo sviluppo tende a creare condizioni incompatibili con la perpetuazione dello sviluppo medesimo e a trasformarsi in un sistema diverso: un sistema “socialistico” (Sylos Labini, 1960,p.72). In conclusione per Marx la crisi generale del capitalismo sarebbe dovuta principalmente alla caduta tendenziale dei profitti e quindi lo sviluppo stesso porta alla crisi del capitalismo e alla sua caduta. Per Schumpeter, invece, come vedremo nelle prossime righe, il capitalismo è economicamente stabile ed il suo sviluppo economico non ha limiti di natura economica, ma politica: “Il capitalismo, pur essendo stabile economicamente, e perfino accrescendo la propria stabilità, crea una mentalità ed uno stile di vita incompatibili con le sue stesse condizioni fondamentali, motivazioni ed istituzioni sociali. Per questo il capitalismo subirà una trasformazione verso un ordinamento che potrà o no essere definito socialismo semplicemente sulla base dei gusti e delle scelte 24 terminologiche. Ciò anche se questa trasformazione non sarà causata da necessità economica, e probabilmente anche se essa implicherà qualche sacrificio in termini di benessere economico” (Schumpeter, 1928, p.385-6). L’economista austriaco è famoso per questa sua teoria sullo sviluppo che evolve il pensiero marxista modificandolo completamente nelle conclusioni. Il “flusso circolare” di Schumpeter ha alcune differenze rispetto l’idea di “riproduzione semplice” basata sul plusvalore di Marx. Nel flusso circolare esistono, oltre ai salari, rendite e redditi di monopolio; non sono presenti profitti ed interessi. L’economista austriaco distingue “fattori interni” e “fattori esterni” di cambiamento al sistema economico. Tra questi ultimi ricorda le guerre, i terremoti e gli interventi dell’autorità pubblica. Tra i primi si possono ricordare i cambiamenti nei gusti o i cambiamenti nei metodi di offerta dei prodotti. In un nuovo approccio dinamico, assimilabile a quella marxista, Schumpeter introduce la figura dell’imprenditore che introduce nuovi prodotti, sfrutta le innovazioni tecnologiche, apre nuovi mercati, cambia le modalità organizzative della produzione. L'imprenditore può fare questo in quanto dispone dei capitali messigli a disposizione dalle banche, che remunera con l'interesse, ossia una parte del profitto aggiuntivo realizzato grazie all'innovazione. La teoria delle innovazioni consente a Schumpeter di spiegare l'alternarsi, nel ciclo economico, di fasi espansive e recessive. Le innovazioni, infatti, non vengono introdotte in misura costante, ma si concentrano in alcuni periodi di tempo - che, per questo, sono caratterizzati da una forte espansione - a cui seguono le recessioni, in cui l'economia rientra nell'equilibrio di flusso circolare. Un equilibrio però, non uguale a quello precedente, ma mutato dall'innovazione. Le fasi di trasformazione sotto la spinta di innovazioni maggiori vengono definite da Shumpeter di "distruzione creatrice", alludendo al drastico processo selettivo che le contraddistingue, nel quale molte aziende spariscono, altre ne nascono, e altre si rafforzano. Il susseguirsi infinito di cicli economici guidati dall’imprenditore- innovatore salvaguardano il sistema capitalistico dalla fine prevista da Marx. 25 Marx è la base classica di molti ragionamenti sullo sviluppo ed il suo lavoro ispirerà il modello di Sraffa e le sue conclusioni sulla crescita nella “scala allargata” ma anche molte analisi sullo sottosviluppo che vedremo nel prossimo capitolo (Sweezy). Per tutti questi motivi ritengo che l’importanza dell’impostazione marxista sia fondamentale per coloro che cercano di fornire un quadro della concezione classica dello sviluppo. Questa parola è sempre stata considerata come sinonimo di crescita e ci si è concentrati sulla sua “faccia” classica cioè l’accumulazione. Nell’ultimo paragrafo di questo capitolo è necessario accennare al contributo di uno dei più grande economisti del Novecento che, pur non essendo considerato un “classico”, assume un importanza miliare nella storia dei modelli economici di crescita: J.M. Keynes è sicuramente l’ispiratore di tutti quei modelli che vedono nella crescita l’unica via d’uscita dalla miseria e si rendono conto che il mercato da solo non è in grado di assolvere questo compito. 26 John Maynard Keynes e l’inizio dell’economia dello sviluppo Il pensiero dell’economista inglese è certamente una delle pietre miliari della scienza economica e se si desidera accennare un quadro sullo sviluppo non si può prescindere da J.M. Keynes. Ponendosi spesso in contrapposizione con la scuola liberale neo-classica Keynes offre nuove idee per lo sviluppo, allontanandosi dal laissez faire di Adam Smith e fornendo gli strumenti necessari allo sviluppo: moneta ed occupazione. Dopo i classici (Smith, Ricardo e Marx) la scienza economica aveva concentrato i suoi interessi principalmente sui problemi dell’equilibrio in condizione di riproduzione semplice e sulla base del presupposto metodologico secondo il quale i teoremi fondamentali dell’economia hanno validità universale. La Teoria generale di Keynes e la sua influenza sugli economisti negli anni successivi costituiscono un punto di rottura con importanti conseguenze. In primo luogo la posizione critica di Keynes nei confronti del capitalismo e delle sue insufficienze a garantire la riproduzione con piena occupazione ripropone prospettive di lunga durata che vedono nel sistema economico capitalista non un mero presupposto della ricerca economica ma un vero problema. In secondo luogo, anche se dal punto di vista analitico l’impostazione keynesiana è quella della statica comparata le domande poste dal lavoro dell’economista inglese sollecitano l’interesse per una visione dinamica e per questa sollecitazione alcuni autori si pongono negli anni successivi l’obiettivo di dinamizzare il modello keynesiano dando vita ad un insieme di modelli di crescita ai quali accennerò in questo paragrafo. In terzo luogo, il fatto che Keynes ammetta la validità della teoria neoclassica nella situazione, teorica, della piena occupazione, mentre elabora una diversa teoria sull’economia reale caratterizzata da disoccupazione sembra legittimare la ricerca di teorie reali e particolari diverse da quelle elaborate per i paesi dell’industrializzazione. Keynes con la sua opera crea, incrinando il principio metodologico dell’unicità e dell’universalità della teoria neoclassica, le basi per la 27 formulazione di una vera e propria teoria economica dello sviluppo.(Hirschman, 1983, 196-197). Al centro dell’opera keynesiana c’è sicuramente il principio della domanda effettiva, principio elaborato all’interno di un’analisi di breve periodo in cui si suppone che le decisioni di investimento siano un dato funzione dell’efficienza marginale del capitale. La teoria della domanda effettiva keynesiana spiega il livello di reddito prodotto ed il livello di occupazione corrispondente in base alle circostanze che regolano separatamente le decisioni di consumo e le decisioni di investimento. Questo principio, però, sembra immerso in una visione di lungo periodo sull’evoluzione del sistema economico attraverso la quale si manifestano le cause che influiscono sulle decisioni di investimento e dunque sull’efficienza marginale del capitale. Questa interpretazione dell’opera keynesiana permette un superamento del riduzionismo neoclassico anche per merito di un “seguace” di Keynes, Hansen, che ampliò questo concetto dando vita alla “teoria del ristagno” secondo la quale nel capitalismo avanzato si ha un eccesso di risparmio rispetto agli sblocchi remunerativi che si offrono all’investimento. Keynes teorizza che le opportunità di investimento dipendano da fattori esogeni, quali la crescita della popolazione o l’innovazione tecnologica, e che essi perdano di intensità con l’aumento dell’accumulazione. Il fatto che gli investimenti, quindi la crescita, dipendano da fattori esogeni che sono decrescenti al procedere dell’accumulazione provoca per il principio della domanda effettiva un posizionamento del reddito nelle economie capitalistiche inferiore a quello realizzabile in base al pieno utilizzo delle risorse disponibili. Tuttavia il principio della domanda effettiva è da Keynes applicato solo al breve periodo, quindi questa sua teorizzazione sul destino “stagnante” del capitalismo poggia su basi teoriche inadeguate. Sarà Harrod a giungere a conclusioni simili a quelle keynesiane attraverso un modello dinamico al quale si accennerà successivamente. La teoria del ristagno dimostra tutti i dubbi keynesiani sulle capacità del sistema economico capitalista di conseguire ritmi adeguati di accumulazione, cioè di poter garantire i bisogni considerato il problema della scarsità. Keynes considera il processo di accumulazione capitalistico sostanzialmente instabile e vede nel sottoinvestimento il vero nemico del sistema. Da questo 28 convinzione nascerà la sua teoria del moltiplicatore ed il suo interventismo regolatore nell’economia. Per l’economista inglese il sistema di accumulazione capitalistico, grazie alle continue innovazioni tecnologiche, sembra in grado di risolvere “nel giro di un secolo” quello che egli stesso considera il “problema economico” ossia il soddisfacimento dei bisogni essenziali dell’uomo. “Ciò significa che il problema economico non è, se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana” (J.M. Keynes, 1991, p.63) Una volta eliminato il problema della scarsità, anche il capitalismo, ed il sistema di valori ad esso connesso che Keynes considera estremamente deprecabile, non avrà più motivo di essere, in quanto strumento con cui si è raggiunto il fine che si prefiggeva , e l’umanità se ne potrà liberare per dedicarsi ad attività più importanti alla natura dell’uomo. “L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali” (p.65). Questo è l’aspetto della mentalità keynesiana che, a mio parere, si deve sottolineare quando si parla di sviluppo: per l’economista inglese lo sviluppo capitalista è una fase necessaria per eliminare il problema economico e per potersi occupare di ciò che conta veramente nella vita. La visione del più grande economista del Novecento, alla luce della moderna concezione di sviluppo infinito, sembra essere radicalmente estranea all’economia contemporanea: il denaro come mezzo e non come fine, lo sviluppo come mezzo e non come fine. La visione ottimistica di Keynes nei suoi saggi meno tecnici lascia all’intervento pubblico il “solo” compito di far si che via sia equilibrio tra risparmi ed investimenti e un maggior controllo delle decisioni di investimento affinché siano meno soggette “al capriccio individuale”. Nella Teoria Generale, dopo la grande Crisi, lo Stato assume un ruolo molto più invasivo. L’atteggiamento di Keynes nei confronti del capitalismo è profondamente mutato. “La critica al meccanismo del mercato, alle sue capacità di autoregolazione, lo induce a sollecitare non soltanto l’azione ma la presenza diretta nell’economia di un soggetto che fino ad allora ne era rimasto in 29 gran parte estraneo.” “Dunque, secondo Keynes, il capitalismo potrà continuare a svolgere una sua funzione produttiva, a risolvere il problema della scarsità e quindi a trovare una legittimazione, soltanto se saprà modificare alle radici la propria struttura sociale.” (Saltari, 1980). Keynes nel corso della sua vita riconosce un ruolo importante nel processo di accumulazione a fattori monetari ponendo nel sottoconsumo e nel risparmio, favorito da fenomeni monetari, il vero elemento fondante dello sviluppo. L’opera dell’economista inglese è importante per questa sua capacità di anticipare temi di dinamica economica senza aver gli strumenti per proporre modelli analitici sulla crescita, riuscendo a porre alcune questioni sugli “errori” del sistema di mercato che si riferiscono si al breve periodo ma che possono tranquillamente essere posti sul lungo periodo. “Sebbene egli [Keynes] scrivesse spesso come se stesse parlando di uno stato di breve periodo dell’economia – e questa è l’interpretazione, o l’applicazione, che i suoi seguaci, con poche eccezioni, avevano avuto presente – si può difficilmente trascurare l’esigenza di dare un’altra interpretazione “L’equilibrio di disoccupazione”, del quale egli parla tanto spesso, può essere interpretato come un equilibrio di breve termine, come una situazione temporanea; ma c’è chiaramente insito il suggerimento che se non si fa qualcosa, tale equilibrio permarrà a lungo, forse in maniera permanente. Stagnazione, non depressione!” (Hicks, 1975, pp.4546). Dopo aver delineato l’importanza del lavoro di Keynes nella nascita di tutte quelle teorie che vanno sotto il nome di “economia dello sviluppo” si espongono brevemente alcuni modelli di ispirazione keynesiana come quello di Harrod – Domar e quello di Kaldor, per poi passare al modello sulla crescita più importante per la scuola neoclassica cioè quello di Solow. 30 I modelli di crescita: da Harrod- Domar a Solow Tutti questi modelli si pongono un unico obiettivo: la crescita economica. Partendo da prospettive diverse individuano varie soluzioni per favorire la crescita. Roy F. Harrod ( 1939 ) ed Evsey D. Domar ( 1946 ), quasi indipendentemente l’uno dall’altro, hanno cercato di integrare l’analisi keynesiana con degli elementi di crescita economica; essi hanno usato funzioni di produzione con poca sostituibilità tra i fattori, per dimostrare che il sistema capitalista è tendenzialmente instabile4. Essi ritengono che una crescita uniforme, capace di eguagliare domanda ed offerta nel mercato dei beni ed in quello del lavoro, richieda che il tasso naturale di crescita della forza lavoro eguagli il «livello garantito», dato dal rapporto tra il tasso di risparmio e la quota di capitale sulla produzione; affermano, inoltre, che non esiste alcuna ragione per cui si debba verificare l’uguaglianza tra queste due grandezze, in quanto ciascuna delle variabili indicate potrebbe essere considerata un parametro esogeno oppure una variabile indicativa di programmazione. Dal momento che il progresso tecnico rappresenta una tendenza inerente ad ogni economia industrializzata, col tempo la quota di capitale sulla produzione dovrebbe progressivamente ridursi, spingendo in alto il tasso garantito di crescita; per mantenere nel tempo l’uguaglianza, dovrebbe aumentare il tasso naturale di crescita della forza lavoro oppure diminuire il tasso di risparmio ( o entrambe le cose ). In caso contrario, si determinerebbe una situazione di eccesso di offerta e di deflazione, che condurrebbe ad un processo di auto aggravamento; l’ammontare della spesa pubblica dovrebbe risultare superiore al consumo degli individui in modo tale che il governo possa essere in grado di evitare di far precipitare l’economia in una fase di depressione. L’analisi di lungo periodo di Keynes è pertanto confermata, a dispetto dell’apparente incremento una tantum nel tasso garantito di crescita ottenibile con un aumento del livello di risparmio. A questo, Harrod aggiunge un ulteriore intreccio: le decisioni di investimento privato sono guidate da incrementi attesi delle vendite ma, affinché l’investimento sia compatibile con il tasso garantito di crescita, il parametro che lega 4 Per una spiegazione completa del modello di Harrod e di Domar si rimanda a Saltari, E. (1980) 31 le due variabili ( investimenti e vendite ) deve eguagliare il rapporto capitale-lavoro e tutto ciò si verifica solo per caso e nessun meccanismo di aggiustamento può essere utile a causa dell’intrinseca instabilità dell’equilibrio descritto; questo «filo del rasoio» richiede quindi ancora l’intervento di un governo benevolo, dal momento che anche il più piccolo shock impedisce al mercato di assicurare un’uguaglianza tra domanda e offerta, determinando, conseguentemente, le condizioni di un circolo vizioso inflazionistico o deflativo: l’analisi di Keynes, così, viene giustificata e resa compatibile con un cornice di teoria della crescita anche con riferimento al breve periodo. Il modello di Kaldor5 pur utilizzando gli strumenti e le ipotesi del modello keynesiano di Harrod e Domar pone l’accento sulla distribuzione del reddito e sugli effetti di questa sul tasso di crescita dell’economia. Tralasciando i passaggi matematici e logici si può dire che questo modello pone trae le seguenti conclusioni: la crescita dipende dalla distribuzione e affinché l’economia possa crescere in equilibrio è necessario che le quote distributive restino costanti; tuttavia quando questa condizione è soddisfatta solo la propensione al risparmio dei capitalisti determina la crescita. I contributi successivi sono stati quelli del premio Nobel Robert Merton Solow e di Trevor W. Swan entrambi datati 1956; Solow dimostra che la crescita e la piena occupazione non sono fuori della portata dei normali meccanismi di mercato e che, al contempo, tutti i paesi possono sperare di convergere verso un livello massimo di benessere. L’aspetto principale del modello di Solow-Swan6 è la forma neoclassica della funzione di produzione, per la quale si assumono rendimenti costanti di scala, rendimenti decrescenti per ciascun fattore produttivo e un’elasticità di sostituzione tra gli input positiva anche se non elevata; questa funzione di produzione, omogenea di primo grado, è combinata con un tasso costante di risparmio ed altre assunzioni tipiche della teoria neoclassica (concorrenza perfetta, piena informazione, comportamenti razionali ) per generare un modello estremamente semplice di equilibrio generale di un’economia. 5 Per una spiegazione completa del modello di Kaldor si rimanda a: Saltari, E. (1980) 6 Per una spiegazione completa del modello di Solow si rimanda a: Solow, R. (1956) 32 Il modello potrebbe essere considerato una generalizzazione del modello di Harrod: il rapporto capitale-produzione non è esogeno, come nel caso del modello di Harrod ma, attraverso la flessibilità della funzione di produzione neoclassica, può essere determinato in modo da rendere ogni rapporto capitale-lavoro adeguato al tasso di crescita demografica; di conseguenza, non si verifica alcuna divergenza tra tasso naturale e tasso garantito di crescita, dal momento che il mercato del lavoro sopporta l’onere dell’adeguamento della funzione derivata della domanda, che risulta dal rapporto capitale-lavoro in funzione del rapporto tra livello della rendita e livello salariale. Inoltre, nessuna divergenza, tra la domanda e l’offerta di beni sarebbe possibile: data la propensione al risparmio, gli investitori sono pronti a pagare ai risparmiatori il valore della produttività marginale del capitale, mentre gli stessi risparmiatori sono disposti a rinunciare ad una data quota del reddito; in presenza, però, di un ammontare crescente di capitale per lavoratore, la produttività dei lavoratori aumenta e, fissato esogenamente il tasso di crescita demografica, il medesimo incremento si determina a livello di produzione e di risparmio. Nel modello di Solow, la crescita è, dunque, la conseguenza di una diminuzione continua del rapporto capitale-lavoro, che avviene attraverso un incremento della produttività del lavoro, causato dal crescente quantitativo di capitale attribuito a ciascun lavoratore; poiché la produttività marginale del capitale decresce, ogni aumento in eccesso della crescita della forza lavoro diverrà alla fine insostenibile. Il modello di Solow risolve in questo modo il “dilemma della lama del rasoio” di Harrod, dal momento che la crescita con piena occupazione è non solo possibile, ma addirittura inevitabile. Nello stato stazionario la produzione può aumentare solo se aumenta l’occupazione, mentre al di fuori di questo stato, in primo luogo, nessun paese può sperare di crescere ad un tasso maggiore di quello consentito dalla migliore tecnologia disponibile e, in secondo luogo, i paesi con dotazioni minori di capitale pro capite possono sperare di crescere più velocemente dei paesi ricchi. E’ questa una previsione del modello che è stata sfruttata seriamente come ipotesi empirica solo negli anni recenti, ed è nota come convergenza condizionata: quanto più basso è il livello iniziale del Pil reale pro capite, relativamente alla posizione di lungo periodo o di crescita uniforme, tanto più veloce è il tasso di crescita; questa proprietà deriva dall’ipotesi di rendimenti decrescenti del capitale, infatti, le 33 economie che hanno meno capitale per lavoratore ( relativamente al loro capitale per lavoratore di lungo periodo ) tendono ad avere più alti tassi di rendimento e più alti tassi di crescita. La convergenza è condizionata perché nel modello di Solow - Swan i livelli di crescita uniforme del capitale e del prodotto per lavoratore dipendono dal tasso di risparmio, dal tasso di crescita della popolazione e dalla posizione della funzione di produzione – caratteristiche che potrebbero variare tra le diverse economie. Tutti questi modelli pur giungendo a conclusioni diverse, quindi proponendo politiche differenti, hanno un’unica idea della sviluppo economico e quindi della crescita, dato che per loro sono sinonimi, e propongono un ideale equilibrio di produzione ed investimenti che possano garantire lo sviluppo del sistema capitalistico. Questi modelli di natura econometrica rischiano di sottovalutare elementi che sono fuori dal “calderone economicistico” e che contribuiscono in modo determinante a quello che noi tutti intendiamo come vero e proprio sviluppo. Inoltre come si vedrà nel capitolo quinto i modelli di crescita neoclassici si scontrano con i limiti fisici del nostro pianeta. Nel prossimo capitolo si abbandonerà questa visione puramente economica esponendo teorie che hanno tentato di “risolvere” il problema del sottosviluppo offrendo una “chiave di lettura” più completa. Si cercherà di andare oltre i modelli e le ricette economiche per considerare lo sviluppo in modo sempre meno economicista e sempre più aperto alle varie scienze sociali. 34 CAPITOLO SECONDO: Il problema del sottosviluppo “Non esistono percorsi generalmente validi di sviluppo, proprio perché non esiste una definizione universalmente valida di sviluppo. Ogni popolo deve scrivere la propria storia” K.J. Jameson e C. K. Wilber Il concetto di sottosviluppo nasce in contrapposizione al concetto di sviluppo con riferimento ai paesi che “sono caratterizzati da un minor reddito pro capite, una minore efficienza produttiva, una organizzazione economica meno complessa e curata, una ricerca tecnico-scientifica meno progredita, un più basso grado di industrializzazione, i consumi della popolazione meno ricchi e variati, e perfino la demografia diversa, a causa di più elevati tassi di natalità e mortalità. Il sottosviluppo di cui si parla è economico, ma è indubbio che le sue manifestazioni oltrepassano i confini dell'economia.” (Ricossa, 1982, voce sottosviluppo) Storicamente si è iniziato a discutere del tema del sottosviluppo nel secondo dopoguerra quando sono nate le prime teorie sulle cause del sottosviluppo stesso. L’espressione “economia dello sviluppo” fu coniata da H. Truman quando nel suo discorso di reinsediamento alla presidenza degli Stati Uniti (20 gennaio 1949) affermò che l’obiettivo era quello d’indicare la via liberal- capitalista della prosperità agli stati di recente indipendenza caratterizzati da sottosviluppo, ovvero da bassi livelli di crescita economica, altrimenti attratti dal modello concorrente socialista. La visione ottimistica del cosiddetto paradigma della modernizzazione era fiduciosa nell’uniformità del processo di cambiamento economico, sociale e politico già avvenuto nelle società del primo mondo. Quest’ultimo era interpretato in termini di passaggio da una situazione di arretratezza a una caratterizzata da industrializzazione, urbanizzazione, e alti livelli di benessere materiale. Su queste 35 basi, l’Occidente pretendeva di applicare le elaborazioni di tale auto- rappresentazione al terzo mondo, considerato di conseguenza un blocco unico e indifferenziato. Tutte le più importanti teorie economiche del periodo partivano dal presupposto comune che lo sviluppo consistesse in un processo evoluzionistico mosso da forze endogene lungo stadi temporali validi per tutti i paesi. In quest’ottica nacquero i modelli di crescita, ai quali ho accennato nel precedente capitolo, e il paradigma della modernizzazione che aprirà questo. L’intenzione in questa parte è quella di inquadrare il concetto di sviluppo e la sua importanza nelle teorie moderne. Questa schematica rappresentazione delle teorie più importanti nate in funzione critica o in aperto contrasto con il paradigma modernista è necessaria per comprendere quelle che saranno le critiche e le posizioni più particolari alle quali si dedicheranno i capitoli successivi. 36 La teoria della modernizzazione La differenza tra le condizioni economiche di diversi paesi nel mondo pone agli economisti due ordini di problemi: in primo luogo bisogna chiedersi perché in alcuni paesi non si sia giunti, grazie ad istituzioni, conoscenze e comportamenti, a livelli di reddito e benessere simili a quelli dei paesi sviluppati; in secondo luogo ci si chiede in che modo sia possibile colmare questo gap. Negli anni 40 sono nate scuole di pensiero che avevano come obiettivo la risoluzione di questi problemi. Denominatore comune di queste scuole è, con alcune importanti differenze, consapevolmente o meno, il paradigma etnocentrico del progresso, del quale si è parlato nel capitolo precedente. Questa visione comune si sviluppa nel paradigma del progresso moderno attraverso un’impostazione evoluzionistica e un continuo ricorso alla comparazione tra paesi. “Nell’analisi della maggior parte degli economisti lo sviluppo è, come il progresso dei moderni, un’evoluzione continua e necessaria, immanente nella natura e nella ragione umana e orientata verso una direzione… La linea lungo la quale lo sviluppo economico procede è identificata, secondo il metodo comparatistico, astraendo dalla storia delle società europee ed occidentali caratteristiche che si suppone abbiano costituito stadi successivi dell’evoluzione dell’umanità nel suo assieme, il cui punto d’arrivo è l’economia moderna capitalistica con i comportamenti individuali e le istituzioni che la caratterizzano.” (Volpi, 1994, p.32) Il primo autore che rappresenta perfettamente l’impostazione evoluzionistica ed il metodo comparatistico è senza dubbio l’economista e sociologo Walt Whitman Rostow. Studioso di storia economica, il professore americano teorizzava la necessità di integrare l’economia teoretica con la storia dell’economia: “la teoria dello sviluppo economico può sorgere soltanto da uno studio di quei fattori sociali che erano in passato, e dovranno rimanere in avvenire, il materiale della storia economica: mutamento delle forze economiche, dei gusti e delle quantità delle risorse” (Rostow, 1962, p.9) Rostow pone alla base della sua teorizzazione la teoria delle “propensioni sociali” che sono alla base della ricerca storica degli economisti e che devono, quindi, essere 37 sempre considerati nella realizzazione dei vari modelli di sviluppo. Secondo l’autore queste “propensioni sociali”sono tre: propensione a consumare e risparmiare, propensione a sviluppare la scienza pura e applicata, tendenza concreta allo sviluppo della popolazione. Queste “propensioni sociali” sono le coordinate grazie alle quali l’economista può formalizzare le proprie teorie. La teoria degli stadi ha il merito di affrontare lo sviluppo seguendo non un mero schema economicistico ma offrendo una chiave di lettura storico- economicosociologica. L’autore individua cinque stadi attraverso i quali avviene la trasformazione di una società agricola in società industriale: 1. società tradizionale. Il sistema economico è bloccato su un trend di stagnazione e su un susseguirsi di eventi catastrofici che intervengono periodicamente a riportare in equilibrio la dinamica della popolazione con quella delle risorse 2. transizione. La società comincia a produrre innovazione perché cerca il mutamento. Nascono figure imprenditoriali pionieristiche, aumenta il profitto e con esso il tasso di accumulazione del capitale 3. decollo o take off. La formazione di un gruppo di imprenditori dinamici determina un forte aumento degli investimenti che porta ad una accelerazione del sistema economico creando discontinuità con il passato: più profitto, più accumulazione, più investimento, più produttività. Il periodo di crescita, big push o big spurt, è trainato da settori guida che generano un processo di crescita settoriale squilibrato, ma in grado col tempo di trascinare avanti tutto il sistema 4. maturità. L’intero sistema è ormai modernizzato, ma la crescita rallenta perché si riducono le opportunità di investimento legate alla creazione di nuove tecnologie 5. età dei consumi di massa. I consumi privati che erano rimasti compressi fino alla maturità per far posto ai grandi investimenti necessari alla modernizzazione del sistema possono crescere sensibilmente poiché non è più necessario mantenere un alto tasso di accumulazione. A quel punto le imprese investono nella standardizzazione dei prodotti per ridurre i costi e allargare i consumi dai quali viene ormai a dipendere la crescita dell’intero sistema economico. Per Rostow gli stadi non sorgono l’uno dall’altro in modo né casuale né meccanico. 38 Le condizioni che consentono il “decollo” devono affiorare nello “stadio preparatorio” sono sostanzialmente tre: a) uno sviluppo della produttività nel settore agricolo, tale da permettere il sostentamento della popolazione che comincia ad addentrarsi nei settori “progressivi”. b) Uno coevo sviluppo nel settore delle esportazioni c) Un certo sviluppo del “capitale sociale”: miglioramenti nei trasporti, dell’utilizzazione delle fonti di energia, dell’istruzione professionale, ecc.. Sostanzialmente il decollo consiste nella realizzazione di uno sviluppo rapido, prolungato e autosostenuto di determinati settori – chiave. Il take off non è uno stadio che debba sorgere necessariamente dallo “stato preparatorio”. Si possono avere decolli “abortivi” sia per la mancanza di un sostegno tecnico al processo autosostenuto sia per la mancata trasformazione sociale, psicologica e politica atta a sostenere questa “rivoluzione” tecnico- economica. Per l’economista americano il vero problema è quale direzione prenderanno i paesi occidentali che nel secondo dopoguerra sono in piena fase della maturità. Rostow teorizza tre alternative: la sicurezza sociale e la riduzione del tempo di lavoro; l’espansione, anche bellica, in campo internazionale; oppure lo stadio “del consumo di massa”. Per l’autore i paesi che giungono a questo stadio (Usa e Urss) hanno il dovere di accompagnare allo sviluppo gli altri paesi evitando di perseguire una “politica di potenza”. Lo stesso Rostow si pone una domanda che pare logica: “è corretto, da un punto di vista scientifico, impiegar il concetto di stadi dello sviluppo, tratto da una generalizzazione dell’esperienza storica del passato, nell’analisi dei problemi attuali dell’aree sottosviluppate?” La sua risposta positiva è alquanto discutibile soprattutto alla luce di un’interpretazione speculare del suo lavoro: è corretto creare un modello “storico” per tentare di spiegare il presente? Rostow per motivi politici sembra proprio compiere questo tipo di analisi cercando di mantenere “un’impostazione scientifica” che è quantomeno discutibile. Il percorso schematizzato dall’autore è un processo evoluzionistico mosso da forze endogene che viene “omologato” per tutte le economie e tutti i paesi. Questa pretesa 39 di “universalismo” rende fragile l’applicazione del modello in realtà diverse da quella capitalista. La presenza di fattori extra- economici, quali i valori accolti dalla società o dalle istituzioni politiche, permettono di leggere il modello come una tesi del mutamento sociale del tipo della modernizzazione, ossia “il processo di cambiamento verso quel tipo di sistemi sociali, economici e politici che si sono sviluppati nell’Europa occidentale e Nord America dal diciassettesimo al diciannovesimo secolo.” (Eisenstadt 1966) Questa impostazione fa in modo che tutta le teoria si possa prestare alle stesse critiche che sono state poste al paradigma della modernizzazione. La critica più importante riguarda l’impostazione dicotomica tra i due estremi della teoria che corrispondono al “tradizionale” versus il “moderno”. Quest’ultimo viene definito tramite un’astrazione empirica della società capitalista e rappresenta un insieme di valori positivi, al contrario il “tradizionale” è tutto ciò che non è moderno. Questa prospettiva ha due conseguenze negative. La prima deriva dalla definizione “in negativo” delle società tradizionali: le differenze tra le società vengono ignorate e tutte hanno il solo compito di essere la base uniforme dello sviluppo. La seconda conseguenza negativa, non meno importante, è che la prospettiva occidentale diventa l’unica possibile e i principi che la guidano sono le regole universali che guidano tutte le società. Questa assunzione rende impossibile quella che gli antropologi chiamano “comprensione” di una società diversa. Quando queste differenze sono evidenti la teoria tende a considerarle irrazionali, quindi da escludere dalla teoria economica, o “primitive”, quindi eccezionali o troppo semplici. Il risultato di questa impostazione è una completa assenza di capacità da parte della scienza economica di poter affrontare il “problema dello sviluppo” nei termini corretti e applicabili, provocando forzature incomprensibili da società non identiche alla nostra. E’ interessante notare come per questa concezione il sottosviluppo debba essere considerato come lo “stadio originario” prima di un progresso della società moderna occidentale verso l’organizzazione economica “ideale”, cioè la società moderna o capitalista. 40 “Questa idea implica che la storia dell’umanità sia la somma di due storie distinte e indipendenti l’una dall’altra: per una parte dei popoli una storia di progresso, per gli altri una storia di stagnazione, e che per questi ultimi l’unica prospettiva di sviluppo sia quella di rincorrere i primi lungo la stessa via.” (Volpi, 1994, p. 35) 41 Lo strutturalismo e la teoria della dipendenza All’inizio degli anni 60 il dibattito sullo sviluppo si concentrò sul commercio internazionale favorendo il sorgere di scuole di pensiero estranee all’esperienza di Usa ed Europa. In risposta alla teoria della modernizzazione di Rostow in America Latina si sviluppò uno scuola che riuniva sociologi ed economisti nel tentativo di dare una soluzione diversa al problema del sottosviluppo; questa scuola aveva come riferimento la Economic Commission for Latin America, ECLA, ed il suo leader Raul Prebisch. La “tesi di Prebisch” si sviluppa da una critica del principio ricardiano della specializzazione e si fonda su un concetto fondamentale per la scuola strutturalista, cioè la dicotomia centro-periferia. L’idea principale è che i paesi periferici siano svantaggiati nel commercio internazionale e che questi effetti negativi si manifestino in quattro modi: i tendenziale squilibrio della bilancia commerciale da parte dei paesi periferici, il trasferimento dei frutti del progresso tecnico da questi a quelli centrali, l’approfondimento del gap tecnologico tra gli uni e gli altri e le distorsioni nella produzione e nel consumo dei primi. Le cause di questi effetti sono da riscontrare, come si vedrà, nella diversa struttura dei mercati del “centro” e della “periferia”, nelle caratteristiche della domanda internazionale dei prodotti industriali, nelle condizioni che creano una difficoltà della periferia di godere dell’economie di scala, comprese le loro esternalità connesse al progresso tecnico. Questa tesi strutturalista trovò lo spunto principale nella crisi degli anni 30’ quando la “grande depressione” provocò un crollo della domanda di materie prime dei paesi industriali. Questa situazione portò alla formulazione di questa tesi secondo la quale le ragioni di scambio dei paesi periferici tendono nel lungo periodo a peggiorare rispetto a quelle dei paesi di centro. Questa tesi contrastava apertamente la teoria sul commercio internazionale sostenuta da tutti gli economisti per i quali il prezzo dei beni manufatti sarebbe diminuito, rispetto ai prodotti agricoli, grazie all’economie di scala e al progresso tecnico. Prebisch documentò invece che il miglioramento delle ragioni di scambio per la Gran 42 Bretagna, paese preso come idealtipo del “centro”, portarono tra il 1870 ed il 1938ad uno speculare peggioramento delle ragioni di scambio dei paesi produttori di beni primari. Alla base di questa dicotomia tra l’andamento delle ragioni dei paesi del centro e quelli periferici esistono due motivazioni economiche: la diversità tra l’elasticità rispetto al reddito tra i beni primari e i beni industriali e nella diversa struttura dei mercati periferici e centrali. La prima causa si spiega con la legge di Engel1 mentre la seconda causa si spiega col fatto che nei paesi industrializzati la tendenza a forme oligopolistiche o monopolistiche non spinge il prezzo dei beni industriali a diminuire con l’aumento della produttività e delle economie di scala, ma si tenderà ad aumentare profitti o salari (a seconda della forza sindacale); al contrario nei paesi periferici l’assenza di sindacalismo e una forte offerta di lavoro permette al prezzo di oscillare secondo le regole della concorrenza internazionale portando ad un prezzo necessariamente più basso. (Singer, 1973) Un’importante conseguenza di questa situazione è che i frutti del progresso tecnico tendono a trasferirsi dalla periferia al centro. Infatti, mentre nei paesi industriali l’aumento della produttività si traduce in maggiori profitti e salari, la maggior produttività delle attività primarie esportatrici dei paesi periferici porterà a prezzi più bassi dei quali si avvantaggeranno i consumatori del centro (Prebisch 1959) La soluzione a questa situazione venne individuata da Prebisch nel creare industrie in grado di produrre beni che sostituissero le importazioni, la cosiddetta “import – substitution industrialization (Preston, 1996). La scarsità di capitali e di capacità imprenditoriali private portava a considerare fondamentale il ruolo dello stato; di conseguenza, ad adottare sistemi d monopolio del commercio ed una disciplina dei prezzi e dei tassi di cambio che ponevano vincoli allo scambio con l’estero. La priorità della domanda interna e la limitazione degli scambi con l’estero sono obiettivi riproposti da coloro che non vedono nell’industrializzazione accelerata la vera soluzione dei problemi del sottosviluppo, ma ritengono che sia di vitale importanza il sostegno pubblico all’agricoltura primaria e alle tradizioni autoctone al 1 La legge di Engel afferma che la percentuale della spesa familiare destinata all’alimentazione è decrescente al crescere del reddito familiare disponibile 43 fine di raggiungere l’autosufficienza alimentare e la soddisfazione dei bisogni essenziali della popolazione. Gli aspetti più negativi del commercio internazionale, secondo questa visione, sono la totale dipendenza verso modelli di consumo dei paesi industrializzati con un progressivo decadimento delle colture tradizionali. Le soluzione proposte da alcuni economisti sono lo svincolamento dei paesi periferici dal mercato mondiale nella prima fase dello sviluppo oppure l’aumento dell’interscambio tra i paesi periferici con una riduzione dalle dipendenza dalla domanda dei paesi del centro. Questa politica di tipo “protezionistico” o “introverso” (Volpi, 1994), accompagnate da un accentramento del potere economico nelle mani di operatori pubblici troppo spesso corrotti, ha portato alcuni paesi che si erano affidati a questo schema ad alcune gravi crisi degli anni ’80 dovute soprattutto a politiche di finanza pubblica improntate sul debito. Oggi le grandi organizzazioni economiche internazionali (Fondo Monetario Internazionale, Banca mondiale, etc..) tendono a favorire politiche che sono in aperto contrasto con le ricette à la Prebisch cercando di spingere i paesi in via di sviluppo a convertirsi senza remore al liberismo del mercato. Questa volontà però copre un’ipocrisia di fondo dei paesi occidentali, che monopolizzano le organizzazioni internazionali: questa ipocrisia consiste nella politica protezionistica , attraverso barriere tariffarie e non, proprio verso le esportazioni di prodotti agricoli ed industriali da parte dei paesi periferici; inoltre essa si mostra nel costante rifiuto dei paesi industrializzati a contribuire alla formazione di un “Nuovo Ordine Economico” da molti invocato nelle varie conferenze internazionali (ad esempio Davos). Seguendo il percorso tracciato dalla scuola strutturalista l’America Latina offre un altro contributo importante alle teorie dell’economia dello sviluppo, cioè la Teoria della dipendenza. E’ possibile considerare Raul Prebisch il fondatore della teoria della dipendenza dato che essa si colloca perfettamente nel modello strutturalista dell’economista argentino. La teoria della dipendenza rappresenta un insieme di contributi teorici delle scienze sociali (concepita da studiosi di vari paesi sviluppati e in via di sviluppo), accomunati da una visione del mondo che suggerisce che i paesi poveri e sottosviluppati della periferia siano in qualche modo dipendenti e sfruttati dai paesi 44 sviluppati del centro. Questi paesi, grazie allo sfruttamento dei primi, sostengono il proprio sviluppo economico. La teoria della dipendenza afferma che la povertà dei paesi nella periferia è il risultato del modo distorto e ingiusto di come essi sono stati “integrati” nel sistema mondiale, laddove gli economisti del mercato libero sostengono invece che questi paesi si stanno pienamente “integrando” e la loro arretratezza non è che uno dei (necessari ma temporanei) risultati di questo processo di integrazione. Secondo molti teorici della “dipendenza” i paesi del Primo Mondo perpetuano attivamente, ma non per questo coscientemente, uno stato di dipendenza attraverso varie politiche ed iniziative. Tale comportamento ha molte “facce”, coinvolgendo l’economia, il controllo dei mass-media, la politica, operazioni bancarie e finanziarie, la formazione, lo sport e tutti gli aspetti dello sviluppo della risorsa umana. I tentativi dalle nazioni dipendenti di resistere alle influenze della dipendenza provocano spesso le sanzioni economiche e/o l’invasione e il controllo militare. Molti teorici della dipendenza invocano la rivoluzione sociale per provocare cambiamenti nelle disparità economiche. La teoria della dipendenza è divenuta popolare negli anni 60 e negli anni 70 come critica della teoria della modernizzazione che sembrava incapace di spiegare il mancato sviluppo dei paesi più arretrati per via della continua povertà diffusa in grandi parti del mondo. Con lo sviluppo apparente delle economie dell’Asia Orientale e dell’India degli anni più recenti, tuttavia, la teoria ha largamente perso consensi. Essa si contrappone acutamente all’economia del libero-mercato e classica. È molto più accettata nelle discipline quali la storia e l’antropologia. Si sostiene che la”dipendenza” sia nata con la rivoluzione industriale e l’espansione degli imperi europei nel mondo grazie alla loro conseguente superiore potenza e alla ricchezza accumulata. Alcuni sostengono che prima di questa espansione su scala mondiale, lo sfruttamento era interno ai paesi, con i centri economici principali che dominavano il resto del paese (per esempio l’Inghilterra sud-orientale che dominava la Gran Bretagna, o del nordest americano che dominava il sud e l’ovest). Stabilendo i pattern di scambio globali nel diciannovesimo secolo ha permesso al capitalismo di spargersi globalmente. I ricchi si sono vieppiù isolati e separati dai poveri, profittando sproporzionatamente dalle loro pratiche imperialistiche. Questa 45 separatezza ha minimizzato i pericoli interni di sommosse e ribellioni dei contadini poveri. Piuttosto che rivoltarsi contro i loro oppressori come nella guerra civile americana o nelle rivoluzioni comuniste, i poveri non hanno più potuto “raggiungere” i ricchi, e di conseguenza le nazioni meno sviluppate sono state inghiottite nella spirale di vere e proprie guerre civili. Una volta che le nazioni ricche imperialiste hanno stabilito il controllo formale, esso non ha potuto più essere rimosso facilmente. Tale controllo assicura che i profitti nei paesi meno sviluppati siano rimessi alle nazioni sviluppate, impedendo il re-investimento interno, causando la fuga dei capitali e così ostacolando lo sviluppo. Gli economisti liberisti indicano molti esempi che confutano la teoria della dipendenza: il miglioramento dell’economia dell’India dopo che è passata da un’economia controllata dallo Stato ad una aperta al commercio internazionale e al controllo privato, è l’esempio più spesso citato. L’esempio dell’India apparentemente contraddice le affermazioni dei teorici della dipendenza riguardo ai vantaggi comparati ed alla mobilità, visto che il relativo sviluppo economico dell’India è stato certamente dovuto anche a fattori come l’out-sourcing—una delle forme più mobili di trasferimenti di capitali. Dall’altro lato, invece, abbiamo esempi come quello della Corea del Sud, che ha visto diminuire drasticamente i suoi tassi di povertà ricorrendo a molte di quelle misure raccomandate dalla teoria della dipendenza. I pensatori del mercato libero considerano legittime le lamentele dei teorici della dipendenza, anche se vedono le loro prescrizioni di politica economica come profezie fatte per auto avverarsi, in quanto quelle politiche aggravano soltanto la disparità fra le nazioni sviluppate e le nazioni sottosviluppate isolandole dai mercati liberi. I fautori del commercio libero vedono l’attuale struttura del capitalismo e del commercio favorire i proprietari di capitali piuttosto che i consumatori, ma credono anche che le prescrizioni dei teorici della dipendenza condurrebbero soltanto a più ricchezza per i proprietari capitali ed a più povertà per il terzo mondo; con ciò implicando che il loro invocare restrizioni commerciali e auto-sviluppo condurrebbero allo stesso risultato che il mercantilismo ottenne sotto il colonialismo. I liberisti criticano la teoria della dipendenza perché mette insieme economia del libero mercato e disposizioni commerciali economiche del capitalismo corrente e 46 presuppone così che il commercio internazionale del mercato libero non aumenterà lo sviluppo economico e lo sviluppo. E’ importante, prima di chiudere il paragrafo, soffermarsi su un grande contributo nella tradizione strutturalista e della dipendenza, cioè l’opera dell’economista brasiliano Celso Furtado (Furtado, 1970, 1975). Gli scritti di Furtado sulla teoria del sottosviluppo evidenziano chiaramente l’influenza della teoria e metodologia marxista che analizzeremo più dettagliatamente nel prossimo paragrafo. Il suo approccio storico e le stesse conclusioni a cui pervenne, sull’importanza dell’impatto dei paesi sviluppati su quelli sottosviluppati, presentano molte somiglianze coi lavori di Baran. Il sottosviluppo non è una fase specifica nel processo di sviluppo, è piuttosto una condizione storica particolare. Furtado volle distinguere chiaramente il concetto di crescita (produzione in aumento) da quello più articolato di sviluppo (che implica l’impiego della forza lavoro in un modo di produzione che utilizza le tecnologie più moderne e massimizza la produttività del lavoro). E, nell’ambito dei processi di sviluppo, le rivoluzioni tecnologiche nella produzione interna di beni di consumo e poi di investimento che caratterizzarono lo sviluppo economico dei paesi avanzati sul piano industriale furono ben diverse dal cambiamento nelle economie sottosviluppate, non trainato da dinamiche interne ma indotto dall’esterno, cioè dal lato della domanda. Nel primo caso, come in Inghilterra, l’introduzione di migliori tecnologie permise di abbassare i prezzi dei beni di consumo, il che fece aumentare la domanda e, quindi, la produzione, fintantoché esisteva un eccesso di offerta di lavoro. Nel 1870, secondo la ricostruzione storica di Furtado, in Inghilterra l’eccesso di offerta di lavoro a basso costo si era ormai esaurita e questa rigidità determinò ben presto il rialzo dei salari e la diminuzione dei profitti nel settore dei beni di consumo. Una conseguenza diretta fu la riduzione del tasso di investimento nel settore, con una contrazione successiva anche della domanda di produzione di beni capitali e il rischio di un arresto del processo di crescita economico, a causa dell’iniziale contrazione della forza lavoro. Quel che evitò questa perversa spirale fu il processo ininterrotto alla fine del XIX secolo di innovazione tecnologica nella produzione di beni capitali, che consentì di recuperare il tasso di profitto tanto nel settore dei beni di consumo quanto in quello dei beni capitali. L’espansione su scala mondiale di economie come quella inglese interessò direttamente anche le sorti delle economie 47 sottosviluppate, confinate a periferie lungo le nuove linee commerciali, oggetto di investimenti diretti nella produzione di materie prime da parte delle imprese multinazionali. Si creavano così delle strutture ibride e dualistiche nelle economie dei paesi sottosviluppati, in parte simili a un sistema capitalistico in parte perpetuazione delle caratteristiche dei sistemi preesistenti. Secondo Furtado, l’espansione di una enclave moderna all’interno delle economie sottosviluppate risultava così direttamente dipendente dalla crescita degli investimenti indotti dall’esterno, e per ciò stesso non sostenibile in termini di un processo di sviluppo a lungo termine. La questione centrale diventava allora capire se la produzione per l’esportazione poteva essere sufficiente a generare effetti positivi anche sul piano della domanda interna, cioè, se poteva servire a far aumentare la domanda necessaria per avviare un processo duraturo di crescita di investimenti per il mercato interno. In un’analisi per diversi aspetti simili a quella sviluppata da Lewis2, la quantità di forza lavoro occupata nel nucleo moderno dell’economia, il salario reale medio, l’ammontare di tasse pagate dalle imprese nel settore moderno (e, quindi, la scala possibile di spesa pubblica attivabile), la domanda indotta di beni manifatturieri prodotti localmente e il livello di profitti e salari spesi sul posto sono i fattori indicati da Furtado come cruciali per stimare la scala della domanda generata da una enclave orientata alle esportazioni. Inizialmente, la quota di salari tende ad essere bassa, come pure limitate sono le tasse riscosse, né il sistema locale è in grado di competere sul piano della produzione di beni capitali e di consumo di lusso, per cui la capacità di trattenere e investire localmente i profitti dipendono essenzialmente dal tasso di crescita della domanda estera e dalla scala di occupazione della forza lavoro nel settore moderno. Solo la crescita sostanziale della forza lavoro impiegata nel settore moderno può giustificare la diversificazione della produzione a favore della manifattura per la produzione di beni di consumo per il mercato locale. Ma Furtado non era molto ottimista circa la possibilità di attrarre su vasta scala lavoratori nel settore moderno: ipotizzava, in particolare, una cifra pari al 5% come il valore medio della proporzione di lavoratori assorbiti nel settore per l’esportazione. Le implicazioni erano perciò opposte a quelle formulate da Lewis: non è l’espansione 2 Per approfondire la teoria di Lewis fare riferimento a: A. Lewis “The theory of economic growth” Routledge 2003 48 del nucleo capitalistico la via di sviluppo, quanto piuttosto il reinvestimento locale dei profitti di quella enclave e, a causa delle dinamiche dei profitti, le economie sottosviluppate sperimentano una espropriazione dei profitti che fuggono all’estero. Per altro, il caso del Brasile serviva a Furtado a rafforzare il suo pessimismo: il nucleo capitalistico concentrato nella produzione di caffè per l’esportazione aveva dato vita, sin da XIX secolo, a una massa consistente di lavoratori impiegati che avrebbero dovuto generare una domanda di beni di consumo da produrre localmente e che invece, per mancanza di capacità competitiva necessaria a reggere l’urto della concorrenza estera, si era tradotta semplicemente in un incremento di importazioni dall’estero. Il Brasile, aggiungeva Furtado, era inoltre un’economia di così grandi dimensioni da poter immaginare un’espansione degli investimenti locali non solo nel settore dei beni di consumo, ma anche in quelli di investimento; in realtà l’esperienza brasiliana indicava che, a fronte di un coefficiente di importazioni pari a circa il 10% dell’economia nel suo complesso, la partecipazione delle importazioni al valore complessivo degli investimenti risultava pari a un terzo, il che significava un coefficiente superiore di tre volte rispetto a quello medio nazionale. La dinamica di dipendenza dall’estero delle economie sottosviluppate sembrava condannare il processo di cambiamento a un’industrializzazione fonte di domanda crescente di beni capitali da importare, come anche pezzi di ricambio e componentistica. Mancava, in altre parole, alcun segno di un processo di generazione di tecnologia locale per sostituire i beni intermedi, il design e il know-how importati. Ciò si traduceva in un continuo incremento di domanda di valuta estera per acquistare le importazioni necessarie e in ricadute negative sul piano occupazionale, perpetuando la natura dualistica delle economie sottosviluppate. La tecnologia finiva così con l’assumere la valenza di variabile indipendente nel processo di sviluppo economico, determinante, al pari della formazione di capitale del settore moderno e del tasso di crescita demografico, dell’incremento occupazionale e cioè – nei termini di Furtado – della relazione tra crescita e sviluppo economico. In assenza di appropriati interventi di politica economica, concludeva Furtado, lo sviluppo industriale è destinato a rimanere bloccato, mantenendo la struttura dualistica dell’economia. Opzioni politiche auspicabili, in questa prospettiva, sono perciò la formazione di mercati comuni per allargare il mercato e la promozione da parte del settore pubblico di 49 sostituzione delle importazioni, particolarmente nel caso dei prodotti con alta elasticità della domanda rispetto al reddito. Infine, tema ricorrente nelle analisi degli economisti strutturalisti, Furtado affronta il problema strutturale delle economie latinoamericane di un’alta inflazione interna e di crisi della bilancia dei pagamenti. Una caratteristica distintiva della scuola di pensiero strutturalista è stata quella di rifiutare l’approccio e le soluzioni neoclassiche e monetariste ai problemi degli squilibri, sia inflazionistici che di bilancia dei pagamenti, delle economie sottosviluppate e un merito di Furtado è stato quello di chiarire analiticamente i limiti del monetarismo e dell’idea secondo cui sia le pressioni sulla bilancia dei pagamenti sia quelle sull’inflazione interna sarebbero sintomi dello stesso problema, cioè dell’eccesso di domanda generata da una troppo rapida espansione dell’offerta monetaria. Le ricette monetariste, essenzialmente volte a svalutare il cambio e indurre una deflazione interna al fine di ridurre la domanda di valuta estera e aumentare gli introiti valutari produrrebbero, insieme a una correzione degli squilibri monetari, l’arresto dello sviluppo. La scarsa elasticità della domanda rispetto ai prezzi sia nel caso delle importazioni che delle esportazioni, il controllo estero della produzione di beni per l’esportazione e i limiti nella capacità di espansione delle esportazioni sono le tre principali ragioni che sconsigliano il ricorso a ricette monetariste. Le tesi di Prebisch e dei teorici della dipendenza (Furtado, Dos Santos, Cardoso, etc..) hanno diversi punti di contatto con la teoria Neo-Marxiana di Paul Baran, Andrè Gunder Frank ed altri. Questi contributi saranno analizzati nell’ultimo paragrafo di questo capitolo insieme ad una veloce dissertazione della teoria dell’imperialismo. 50 La critica neo- marxista e la teoria dell’imperialismo Nel corso degli anni ’50, Paul Baran cominciò, in modo allora solitario nel campo dell’economia dello sviluppo, ad approfondire l’importanza del contributo teorico di Marx per l’analisi del sottosviluppo. Giudicando molto feconda l’analisi marxiana, ma ritenendola anche insufficiente per l’assenza di conoscenze specifiche approfondite sulla realtà dei paesi colonizzati, Baran criticò l’eccessivo ottimismo di Marx in merito alle “naturali” prospettive di sviluppo capitalistico di quei paesi e fece ricorso alla teoria dell’imperialismo di Lenin, alla quale si dedicherà la parte finale di questo paragrafo. Baran introdusse presto nuovi concetti, a cominciare da quello di surplus economico effettivo (corrispondente alla differenza tra prodotto e consumo effettivo), con cui superava lo schema marxiano ortodosso. Paul Baran può essere considerato a tutti gli effetti il fondatore del neo-marxismo ed il suo contributo “The political economy of growth” può essere certamente ritenuto il primo contributo neo- marxista nella storia dell’economia dello sviluppo. Per Karl Marx il futuro dei paesi sottosviluppati era già segnato: capitalismo, rivoluzione, socialismo. La fine del colonialismo e la rivoluzione cinese portarono il pensiero marxista verso un’evoluzione che attraverso la teoria dell’imperialismo e la teoria economica standard portarono ad una scuola che, come vedremo, si distingueva sia dal marxismo classico sia dagli altri teorici della dipendenza. Per l’economista russo i paesi sottosviluppati erano coperti da “la cupa ombra dell’arretratezza” (Baran, 1952, p.75) e l’unico modo per uscirne era la crescita economica, assicurata da un aumento costante della produzione totale. La posizione di Baran non era diversa da quella degli altri economisti del suo tempo (Nurkse, Singer, Rosenstein – Rodan) ma si distingueva dai suoi colleghi per un impostazione dell’economia “politica” puramente marxista. “Il fatto cruciale, che trasforma la realizzazione di un programma di sviluppo è qualcosa di illusorio, è costituito dalla struttura politica e sociale dei governi al potere.” (p.86) Il tentativo di istaurare un sistema capitalistico in una società praticamente feudale avrebbe avuto risultati catastrofici poiché gli aspetti negativi dei due sistemi (sfruttamento capitalistico e assenza di libertà civili) avrebbe portato ad un’ 51 amalgama politico – economico che avrebbe impedito ogni possibilità di crescita economica. In questa situazione le soluzioni proposte da tutti gli economisti della crescita economica non avrebbe portato a niente e una programmazione pianificata avrebbe portato solo ad un aumento della corruzione. Secondo Baran l’unica soluzione possibile sarebbe stata “il collettivo sociale” attraverso una “transizione brusca e dolorosa” (p.90) L’economista russo non aveva nessun dubbio sulla desiderabilità dello sviluppo economico, come sinonimo di crescita, e come Marx attendeva con ansia “il crescente dominio della razionalità umana sulla natura” (Sweezy, 1965, p.459) ma insisteva sulla “incompatibilità tra una crescita economica costante ed il sistema capitalista […] La pianificazione economica socialista rappresenta l’unica soluzione razionale a tale problema.” (p.119) A differenza di Marx, Baran non considera il capitalismo come uno stadio necessario allo sviluppo ma bensì un ostacolo al progresso umano. “Lo sviluppo economico dei paesi sottosviluppati è profondamente nemico degli interessi dominanti nei paesi capitalistici avanzati”. (Baran, 1960, p.120) L’elemento centrale dell’analisi di Paul Baran è, come ho già accennato, il surplus economico secondo due eccezioni: il surplus effettivo, cioè “la differenza tra la produzione effettiva corrente ed il consumo effettivo corrente”, e il surplus potenziale, cioè “la differenza tra la produzione che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico con l’ausilio delle risorse produttive impiegabili, e ciò che si potrebbe considerare come consumo indispensabile” (Baran, 1971, p.3435). Nelle condizioni di un’economia capitalistica monopolistica la differenza tra surplus effettivo e surplus potenziale si allarga a causa della sottoproduzione. I paesi sottosviluppati quindi sono necessari perché diventano un vero e proprio “hinterland” dei paesi capitalisti che in essi trovano la fonte di materie prime, di vasti profitti e sbocchi di investimento. In Baran c’è già l’accenno a quel modello che in Prebisch e nei “dipendentisti” sarà l’ossatura stessa della teoria, cioè il rapporto centro- periferia. Il capitalismo monopolistico con l’imperialismo dei paesi occidentali e l’arretratezza dei paesi sottosviluppati sono le due facce della stessa medaglia e costituiscono un problema globale. 52 Alla fine degli anni ’60, l’approccio di Baran aveva attratto diversi studiosi, a cominciare da Andre Gunder Frank, proveniente dall’università di Chicago e trasferitosi a lavorare in America latina. Il contributo del sociologo tedesco è importante perché per la prima volta si individua nel capitalismo il vero motivo del sottosviluppo. A differenza di Marx, per il quale il capitalismo era un passaggio necessario, e a differenza di Baran, per il quale il capitalismo era diventato un ostacolo nel progresso dell’uomo, Frank credeva che il sottosviluppo fosse causato dal capitalismo.La sua tesi si ricollegava in parte alle conclusioni della teoria dell’imperialismo di Lenin, alla quale si accennerà tra poco, secondo cui lo sviluppo capitalistico dei sistemi metropolitani si era affermato a danno delle colonie sottosviluppate attraverso l’esproprio del loro surplus. Affermando che capitalismo e sottosviluppo erano parte dello stesso sistema, Frank sosteneva che soltanto a causa dell’infiltrazione del capitalismo che i paesi dell’America Latina erano stati colpita da sottosviluppo. Secondo il sociologo tedesco la borghesia era incapace di sostenere quel ruolo progressista che aveva avuto in Europa perché essa era membra (e servile) di una classe internazionale di proprietari. Grazie all’economista senegalese Samir Amin, che usò l’apporto analitico della teoria dello scambio ineguale di Arghiri Emmanuel, il paradigma neomarxista si andava definendo in modo più rigoroso, accentuando l’importanza dell’estrazione di surplus attraverso il commercio, delineando le prospettive di sviluppo del modo di produzione capitalistico in relazione alla specifica posizione nell’economia internazionale, sottolineando la contrapposizione tra centro e periferia che evidenziava un interesse convergente di tutte le classi dominanti (sia nei paesi del centro che in quelli periferici) a non favorire lo sviluppo di un capitalismo produttivo nelle periferie. Egli individuava il rimedio non tanto nello sviluppo che avrebbe fatto crescere gradualmente i livelli di produttività del lavoro e i salari reali nei paesi in via di sviluppo, quanto alla “liberazione della periferia” attraverso la rivoluzione socialista, poiché il socialismo totale sarà necessariamente fondato su un’economia moderna a produttività elevata”(Amin, 1977). 53 L’analisi neomarxista della posizione delle economie sottosviluppate all’interno del regime internazionale trovava molti punti di contatto con la teoria strutturalista latinoamericana degli anni ’40 e ’50, avviata da Raul Prebisch, da cui però si discostava per l’impiego dell’analisi di classe come determinante prima del sottosviluppo e per il ricorso al concetto di surplus economico. Il neomarxismo, cioè, non riconosceva come fondamentale l’importanza alle strutture economiche esistenti, considerate invece le principali cause del sottosviluppo da parte degli strutturalisti, che proponevano soluzioni riformiste specifiche (a cominciare dalle politiche di sostituzione delle importazioni); secondo i neomarxisti tali politiche erano da considerare puri palliativi rispetto all’unica strategia percorribile, di riappropriazione del surplus attraverso una rivoluzione socialista (in ciò, venendo criticati dai marxisti ortodossi che ritenevano, invece, il capitalismo una fase necessaria nel percorso verso il raggiungimento del socialismo). Il lavoro di economisti neo – marxisti, dei “dipendentisti” e di Samir Amin portarono più volte nelle conferenze dei paesi non allineati e nelle varie commissioni ONU l’idea della necessità di un Nuovo Ordine Economico Internazionale: “Qualsiasi forma di sviluppo si produca, questa è distorta o iniqua, coinvolgendo solo una piccola parte della popolazione e riguardando ambiti esclusivamente settoriali e regionali.” (Anell e Nygren, 1980) Prima di chiudere questo capitolo è necessario soffermarsi su una teoria che ha fortemente influenzato tutta la teorizzazione sul sottosviluppo, cioè la teoria dell’imperialismo. I primi teorici dell’imperialismo economico sono Lenin, J. Hobson e Rosa Luxembourg. Per Hobson, il capitalismo inglese, sviluppato ormai in concentrazioni monopolistiche, avrebbe provocato un eccesso di risparmio che tuttavia non avrebbe trovato utilizzo interno, a causa dell'impoverimento della maggior parte della popolazione. La necessità di facilitare gli investimenti esteri, quindi, avrebbe indotto la spinta espansionistica. Su queste basi, Hobson suggeriva una serie di interventi volti ad aumentare il potere di acquisto delle masse, per poter disinnescare la tendenza imperialista. Rosa Luxembourg vedeva l'incorporazione forzata di popolazioni e territori nei processi di accumulazione del capitale come una caratteristica costante di 54 quest'ultimo, dovuta ai tentativi dei suoi agenti di superare le croniche tendenze alla sovrapproduzione. Per Lenin “l’imperialismo è la fase monopolistica del capitalismo” (Lenin, 1966) e riteneva che l'imporsi dei processi di concentrazione della produzione e del capitale avrebbe posto termine al periodo della libera concorrenza dello sviluppo capitalistico, e trasformato il mondo in un teatro di lotta economica tra associazioni monopolistiche internazionali. Questa lotta sarebbe destinata a concludersi nella guerra imperialistica per la spartizione dei domini coloniali. Tra le ragioni per cui la dottrina leninista dell'imperialismo è ancora oggi la più diffusa tra i sostenitori del marxismo vi è il fatto che essa ebbe una maggiore capacità di rivolgersi a fenomeni imperialistici diversi da quelli dell'espansione coloniale stessa. Nel tempo essa venne integrata fino ad essere estesa al fenomeno del neocolonialismo, alle situazioni, cioè, in cui i paesi “sfruttati” mantennero un governo almeno formalmente indipendente dagli stati “sfruttatori”. Dopo la Seconda Guerra Mondiale emerse una nuova importante interpretazione dell'imperialismo dovuta ai marxisti di formazione americana Baran e Sweezy, che fornirono forse il più importante contributo marxista all'analisi dei fenomeni del neocolonialismo e del sottosviluppo. Animati dal proposito di superare la teoria di Lenin, ancora troppo legata ad un’economia di tipo concorrenziale, i due studiosi costruirono un modello teorico che considerava più esplicitamente l'economia monopolistica come il principale fattore dell'imperialismo. Sweezy, fondendo due diverse letture di Marx, vede nell’esportazione di capitale e nella creazione di colonie come strumento per crearvi condizioni ad essa favorevoli il modo in cui il capitalismo si oppone alla caduta tendenziale del saggio di profitto e alle conseguenze del sottoconsumo. Per quanto riguarda il problema del sottosviluppo, questa teoria si riallacciò a un filone di pensiero, del quale si è parlato in questo paragrafo, ampiamente sviluppato da numerosi studiosi marxisti, diretto a sottolineare lo sfruttamento dei paesi neoindipendenti. Il termine colonialismo è stato spesso usato come sinonimo di imperialismo, e più specificamente dell’imperialismo di tipo "diretto" o "formale". Ciò è dovuto sicuramente al fatto che il periodo storico comunemente considerato come "il periodo di splendore" dell'imperialismo coincide con la spartizione 55 coloniale dell'Africa e in parte dell'Asia tra il XIX e il XX secolo. In realtà il colonialismo è solo una delle forme che l'imperialismo ha assunto nel corso della storia, con contenuti più complessi che nelle epoche precedenti. In linea generale, con il termine “colonizzazione”, ci si riferisce al processo di espansione e di conquista, alla sottomissione per mezzo dell'uso della forza e della superiorità economica di altri territori e popolazioni. Il termine “colonialismo”, invece, definisce più propriamente la dottrina e la pratica politica dell'organizzazione di sistemi di dominio, ossia all'organizzazione di forme statuali coloniali, il cui fine era la strutturazione di ciascun paese assoggettato in funzione di un razionale sfruttamento delle risorse. Dopo la II Guerra Mondiale, di fronte all'esaurimento della spinta imperialista degli stati europei e del Giappone, al processo di decolonizzazione, e alla sopravvivenza del capitalismo, molti studiosi marxisti o neomarxisti hanno sentito l'esigenza di costruire nuove teorie legate all'espansione imperialista. Essi hanno visto il fenomeno dell'imperialismo continuare a manifestarsi sia nei rapporti egemonici instauratisi fra le due nuove superpotenze (USA e URSS) e gli stati nel loro blocco, sia nel cosiddetto "neocolonialismo", praticato soprattutto dagli Stati Uniti. In seguito, il neocolonialismo prese ad essere riferito, più che al dominio politico esclusivo di una metropoli sui suoi ex possedimenti coloniali, al dominio del mercato capitalistico internazionale sui paesi produttori di materie prime. Questi sono dipendenti dai paesi ricchi sul piano finanziario e tecnologico, e governati da classi politiche pesantemente condizionate dalla struttura della dipendenza economica. In questo modo l'imperialismo viene oggi a essere collegato a temi come il sottosviluppo, la povertà, etc. Seguendo questa linea di pensiero, all'idea dello sviluppo di un "imperialismo informale" è legata alla teoria della dipendenza, che è già stata affrontata. L'imperialismo può manifestarsi attraverso diverse sfere, dal governo, alla politica, dall'economia alla cultura. Secondo una diffusa lettura si è distinto tra due forme di imperialismo: Diretto o formale: quando una potenza esercita un pieno controllo su un'area dipendente, da cui sottrae la capacità decisionale; indiretto o informale: quando uno stato potente esercita un dominio effettivo su uno più debole senza occuparlo materialmente. In quest'ultimo caso, gli strumenti 56 possono essere i più vari, dalle minacce di interventi militari alle pressioni diplomatiche. Oggi queste teorie dell’imperialismo sembrano inutili per affrontare tematiche immerse ormai in fenomeni globalizzati, ma si può tranquillamente affermare che tendenze imperialistiche non siano affatto scomparse e che i cosiddetti “agenti della globalizzazione” siano il nuovo strumento di un imperialismo completamente rinnovato. 57 CAPITOLO TERZO: Il contributo “eterodosso” ai modelli di sviluppo “Se l'effetto immediato di un cambiamento è deleterio, allora, fino a prova contraria, lo è anche l'effetto finale” Karl Polanyi In questo capitolo si affronterà la tematica dello sviluppo secondo approcci differenti che inseriscono il modello dello sviluppo regionale in teorie che si erano esclusivamente interessate di fenomeni nazionali o inerenti al mercato. Già nel capitolo precedente si è visto come i modelli proposti dagli “economisti del sottosviluppo” provocarono una rottura concettuale nei confronti dei modelli neoclassici di crescita. Le opere che analizzeremo in questo capitolo sono di autori che si pongono in contrapposizione al modello dell’equilibrio di ispirazione neoclassica. L’economia per questi autori non può fare a meno dello studio dei rapporti sociali. La scienza economica in questo capitolo torna ad essere una scienza sociale. Il contributo dell’antropologia economica di Karl Polanyi e gli elementi di storia, sociologia e filosofia di Gunnar Myrdal e Albert Hirschman, ma anche l’elemento spaziale nella teoria di Francois Perroux evolvono il concetto di sviluppo che nel secondo dopoguerra dominava la cultura mainstream della scienza economica e della politica. Questi autori hanno analizzato lo sviluppo rompendo con la tradizione puramente economicista dei neoclassici e, in parte, dei keynesiani. Il loro contributo più importante è stato quello di aver fornito le basi per un’interpretazione diversa dell’economia che ha portato a consolidare quel trait-d’union che deve necessariamente esserci tra la scienza economica e le scienze sociali. Questo capitolo può essere considerato anche come un’introduzione alla seconda parte dove verrà analizzato il contributo del concetto di “sviluppo locale” dato che i 58 contributi degli autori trattati in questi paragrafi inseriscono la dimensione spaziale nel ragionamento sullo sviluppo. La volontà di questi economisti è quella di descrivere ed interpretare il processo dello sviluppo economico in termini contrapposti a quelli lineari dell’equilibrio neoclassico. In quest’ottica, la proposta teorica fornita da Perroux, Myrdal ed Hirschman può essere compresa come un tentativo di spiegare la crescita economica in modo più realistico di quanto non si potesse desumere dai modelli di crescita equilibrata proposti nella tradizione neoclassica. Su questa nuova interpretazione dell’economia reale si baseranno molte politiche di programmazione economica e territoriale del dopoguerra che stravolsero quella che per Perroux era solo una descrizione analitica della realtà. Si inizierà questo capitolo con una breve dissertazione dell’opera “La grande trasformazione” di Karl Polanyi che pone l’attenzione sui problemi basilari dell’economia capitalistica e del suo sviluppo. 59 La grande trasformazione di Karl Polanyi L’argomento principale di Karl Polanyi, recuperato da molti altri economisti eterodossi, è che l’economia è immersa nei rapporti sociali e che le dinamiche dello sviluppo non possono essere apprese appieno restando all’interno di una logica meramente economicistica. Questo è il messaggio che “La grande trasformazione” porta nella scienza dello sviluppo: esso non può essere interpretato dall’esclusiva ottica del “mercato autoregolato”. Polanyi nell’incipit spiega il senso della “grande trasformazione”: “La civiltà del diciannovesimo secolo è crollata. Questo libro si occupa delle origini politiche ed economiche di questo avvenimento oltre che della grande trasformazione che l' ha seguito. La civiltà del diciannovesimo secolo poggiava su quattro istituzioni. La prima era il sistema dell'equilibrio del potere che per un secolo impedì che tra le grandi potenze scoppiassero guerre lunghe e devastatrici. La seconda era la base aurea internazionale, che simboleggiava un'organizzazione unica dell'economia mondiale. La terza era il mercato autoregolato che produceva un benessere economico senza precedenti. La quarta era lo stato liberale…Tra queste istituzioni la base aurea si dimostrò decisiva; la sua caduta fu la causa prossima della catastrofe e al tempo in cui essa cadde la maggior parte delle altre istituzioni erano state sacrificate in un vano sforzo di salvarla. La fonte e la matrice del sistema era tuttavia il mercato autoregolato: fu questa innovazione a dare origine ad una civiltà specifica. La base aurea era semplicemente il tentativo di estendere il sistema del mercato interno al campo internazionale; il sistema dell'equilibrio del potere era una sovrastruttura eretta sulla base aurea e in parte operante su di essa; lo stato liberale era esso stesso una creazione del mercato autoregolato. La chiave del sistema istituzionale del diciannovesimo secolo si trovava nelle leggi che governavano l'economia di mercato. La nostra tesi è che l'idea di un mercato autoregolato implicasse una grande utopia. Un'istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza naturale e sociale della società; essa avrebbe distrutto l'uomo fisicamente e avrebbe trasformato il suo 60 ambiente in un deserto. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi, ma qualunque misura avesse preso, essa ostacolava l'autoregolazione del mercato, disorganizzava la vita industriale e metteva così la società in pericolo in un altro modo. Fu questo dilemma a spingere lo sviluppo del sistema di mercato in un solco preciso ed infine a far crollare l'organizzazione sociale che si basava su di esso.” (Polanyi, 1974, p. 5-6) Secondo l’economista ungherese il capitalismo non è, come sosteneva la tradizione liberale, un naturale punto di approdo nelle società umane, ma l’estrema artificiosità di un sistema in cui l’economia si sottrae al controllo sociale diventa evidente al tramonto della “civiltà del diciannovesimo secolo”. Dopo la crisi e le guerre la “società di mercato” non è più “naturale” delle altre società ma assai meno e , per questo, è destinata a chiudersi con una crisi violenta come tutti i casi “patologici”. Il fallimento evidente della filosofia liberale basata sul meccanismo del mercato si concretizza nella comprensione del problema del cambiamento. L’economia neoclassica è statica è quindi inadatta a comprendere un economia necessariamente dinamica. Polanyi mina le basi antropologiche della dottrina economica liberale negando la pulsione fondamentale dell’attività economica cioè, sulla scorta di A. Smith, la “propensione al baratto, al commercio e allo scambio di una cosa con l’altra”. Su questa propensione si è formato l’utilitarismo e il perseguimento del benessere individuale è diventato un dovere, legittimo ed utile per tutta la società. L’economista ungherese è radicale nell’affermare la falsità di questo sistema: “Nonostante il coro di invenzioni accademiche tanto insistente nel diciannovesimo secolo, il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai prima svolto una parte importante nell’economia e per quanto l’istituzione del mercato fosse abbastanza comune a partire dalla tarda Età della Pietra, il suo ruolo era soltanto incidentale nei confronti della vita economica” (p. 57). Il sistema economico è una funzione del sistema sociale e non viceversa, come sostengono i liberisti:“l’importanza vitale del fattore economico per l’esistenza della società preclude qualunque altro risultato poiché una volta che il sistema economico sia organizzato in istituzioni separate, basate su motivi specifici e conferenti uno speciale status. La società deve essere 61 formata in modo da permettere a questo sistema di funzionare secondo le proprie leggi” (p.74). Il sistema di mercato si auto- regola e si auto- riproduce e attraverso la mercificazione del lavoro, della terra e della moneta, si permette “ al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto” e ciò “porterebbe alla demolizione la società.” (p. 93) L’opinione dell’economista ungherese dello sviluppo della società di mercato capitalista si concretizza in un’analisi spietata secondo la quale, una volta messo in moto dai processi sociali, vale a dire dalla spietata avidità dei capitalisti, avallato dalle forze politiche che rappresentavano i loro interessi e teorizzato dagli utilitaristi e dagli economisti classici, il meccanismo diabolico del “mercato regolato” produce di fatto, nel corso dell’800, i suoi effetti: la crescita prodigiosa della ricchezza è pagata al prezzo di un enorme aumento della miseria e della degradazione umana. Il costo dello sviluppo capitalistico è necessariamente troppo alto e la trasformazione dell’economia di mercato in un vero e proprio “credo” attestato per un verso su di una rivendicazione apologetica della fondatezza scientifica delle leggi economiche che governano il mercato e per un altro su di un’orgogliosa difesa dalle critiche secondo la quale l’incompleta applicazione dei suoi principi era la ragione di tutte le difficoltà che ad esso venivano attribuite. La difesa del liberismo capitalista è totalizzante e pericolosa poiché attraverso questa difesa il liberismo paradossalmente si spiritualizza, nel senso che, contro l’evidenza delle cose, esso diventa il paladino del progresso contro le oscure forze conservatrici che ad esso si oppongono: lo Stato burocratico e la classe lavoratrice miope e accecata dai sindacati “di fronte ai benefici ultimi di un’illimitata libertà economica verso tutti gli interessi umani, compresi i suoi” (p. 185). Il vero pericolo dello sviluppo capitalistico si realizza poiché il suo carattere selvaggio non sta tanto e solo nel grado di sfruttamento dell’uomo e della natura che esso promuove, ma soprattutto nella sua vocazione a promuovere una nuova cultura che scinda definitivamente i legami che l’uomo ha sempre sentito di avere con la società e con la natura, il tessuto umano e naturale della vita sociale, per produrre infine l’individuo che persegue univocamente il fine di affermare i suoi interessi: 62 “separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi di mercato significa annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo diverso di organizzazione, atomistico e individualistico” (p.210). Questa affermazione è un vero e proprio “atto di accusa” nei confronti del capitalismo e del suo sviluppo. L’economista ungherese individua due possibili strade di uscita: il socialismo, nella sua eccezione democratica, ed il fascismo. La versione umanitaristica e socialdemocratica dell’alternativa socialista che Polanyi sembra sottoscrivere è “la tendenza inerente ad una civiltà industriale a superare il mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad una società democratica… dal punto di vista della comunità nel suo insieme il socialismo è semplicemente la continuazione di quello sforzo di rendere la società un rapporto specificamente umano tra persone, rapporto che nell’Europa occidentale era sempre stato associato alle tradizioni cristiane. Dal punto di vista economico, esso è al contrario un allontanamento radicale dal passato immediato, nella misura in cui esso rompe con il fare dei guadagni monetari privati l’incentivo generale alle attività produttive e non riconosce il diritto degli individui privati di disporre dei principali strumenti di produzione. Ecco perché, in ultima analisi, la riforma dell’economia capitalistica da parte dei partiti socialisti è difficile anche quando essi siano decisi a non interferire nel sistema di proprietà. Infatti la semplice possibilità che essi possano decidere di farlo diminuisce quel tipo di fiducia che nell’economia liberale è vitale, cioè l’assoluta fiducia nella continuità dei titoli di proprietà. Mentre il contenuto di fatto dei diritti di proprietà potrebbe subire una ridefinizione per mezzo della legislazione, la sicurezza della continuità formale è esenziale per la continuità dell’economia di mercato” (p.295). Il fascismo è una soluzione autoritaria e conservatrice che permette alle classi borghesi il controllo dei partiti socialisti. Questa soluzione salva il mercato ma rinuncia alla democrazia attraverso un rieducazione forzata che elimina l’idea di fratellanza degli uomini. Il pensiero di Polanyi sullo sviluppo è assolutamente contrastante con lo sviluppo economico, liberale e capitalista che si è analizzato fino ad ora. L’economista ungherese, che può essere considerato un “classico”, rompe radicalmente con la tradizione liberale risalente ad Adam Smith ma soprattutto con l’economia neoclassica e l’utilitarismo ponendo una critica alla base antropologica che sottostà al 63 “discorso economico”. E’ riscontrabile un “fil rouge” tra il pensiero di Karl Marx e le sue argomentazioni , ma, a differenza del filosofo tedesco, Polanyi ha il vantaggio di applicare all’analisi del liberismo un’ottica antropologica che, senza minimizzarne gli effetti economici, sottolinea la sua pervicace volontà di attentare la sostanza umana e naturale della vita sociale: quella per cui l’uomo, nella sua lunga storia, ha sempre riconosciuto l’appartenenza ad un gruppo e alla natura come fondamento della sua esistenza. A differenza di Marx, l’economista ungherese sottolinea vigorosamente il carattere di mutazione culturale prima ancora che economica che il liberismo introduce nella storia del mondo. Una mutazione che, secondo i liberisti, affrancherebbe finalmente l’individuo dai conservatorismi di un passato che limitava, nei rapporti sociali e in quelli con l’ambiente, la sua libertà di autorealizzazione, mentre, secondo Polanyi, essa comporta il rischio di un’atomizzazione dell’esistenza individuale e di una degradazione della società. Storicizzando il suo pensiero, si può affermare che Polanyi trovi la soluzione del “problema dello sviluppo” in una vera e propria rivoluzione culturale del pensiero liberale che riesca a smascherare la mistificazione di un sistema di mercato per il quale tutto deve essere comprato e venduto, stravolgendo ogni attività umana, come il lavoro. La mercificazione della società ed il falso presupposto antropologico che l’attività principale dell’uomo sia lo scambio hanno creato questa enorme mistificazione dalla quale è necessario liberarsi. Lo strumento per la liberazione dalla società capitalista deve essere per Polanyi una soluzione democratica e socialista rompendo lo schema di produzione/ proprietà che domina lo sviluppo capitalistico. Lo sviluppo per Polanyi si concretizza solo in una società dove le relazioni umane non si riducono esclusivamente allo scambio o all’accumulazione capitalista. La ricetta che ci propose l’economista ungherese è una vera e propria sterzata dai binari dello sviluppo economico liberista. Dalla prospettiva sociologica ed antropologica di Karl Polanyi si può introdurre il pensiero di un autore che condizionò profondamente l’idea di sviluppo introducendo la dimensione spaziale che fino a quel momento era stata ignorata dai teorici dello sviluppo economico. 64 François Perroux e i poli di sviluppo Un grande contributo alla teorizzazione dell’economia dello sviluppo in contrapposizione con lo schema neoclassico dell’equilibrio è stato fornito dall’opera dell’economista francese Francois Perroux che si occupò di scienza economica in un’ottica “sviluppista” riprendendo la visuale degli economisti classici come Marx e Schumpeter. Perroux rompe con il pensiero neoclassico perché distingue la crescita dallo sviluppo:per crescita intendeva la crescita economica e del prodotto, e per sviluppo, lo sviluppo morale e culturale dell’individuo: l’unico fattore capace di indicare il grado di progresso sociale realmente conseguito nel campo delle libertà civili. Secondo Perroux, però, senza crescita economica non c’è progresso civile, e viceversa: i due fattori procedono insieme. La distinzione resta fondamentale perché pone un problema della qualità dello sviluppo indicando la crescita come strumento e non come fine, criticando il sistema capitalistico. Nell’opera di Perroux i costi umani e sociali e il problema della sensibilizzazione delle scienze sociali e della disciplina economica al valore e ai bisogni della risorsa umana sono aree di riflessione e di indagine strettamente connesse: la minimizzazione dei costi sociali del capitalismo necessita di una scienza sociale ed economica umanizzata sulla base a criteri di razionalità scientifica, formulati in termini di standard di benessere sostanziale, di “costi umani” o “minimi sociali esistenziali”. I costi sociali sono fenomeni di perdita di valore sociale derivanti dalla mancata considerazione dei costi umani o dei minimi sociali esistenziali. Perroux propone una “rivoluzione”, compatibile alla critica di Karl Polanyi, cioè una “umanizzazione della scienza economica”. Perroux affronta la problematica dei costi umani sullo sfondo della propria critica della concorrenza pura e perfetta e della competizione imperfetta. Egli considera gli “equilibri spontanei” tra piccole unità economiche (individui, imprese) della concorrenza pura e perfetta, sotto l’”arbitrato ‘neutro’ del prezzo”, “nulla di più che una costruzione logica” (Perroux 1991, p.5). La concorrenza non garantisce contro 65 fenomeni di spoliazione e depredamento di risorse naturali dovuti al prevalere di atteggiamenti predatori: “La ripartizione ottima delle risorse e degli impieghi attraverso il meccanismo dei prezzi e attraverso il gioco delle decisioni individuali risulta un’amara irrisione per chi prende in considerazione gli aggregati e gli effetti di lungo periodo. L’imprenditore e il mercante distruggono la foresta, depredano i fattori naturali, si dimostrano altrettanto irrispettosi della vita degli animali e delle piante quanto di quella degli uomini. Quando una politica della ‘conservazione’ viene ad essere decisa, essa è dovuta alla saggezza limitata, tardiva e precaria di alcune élite: certamente non alle spontaneità e agli automatismi del mercato. Le ‘armonie naturali’ di F. Bastiat sembrano decisamente aver perso molta della loro efficacia, benefica ed estetica insieme” (Perroux 1991, p. 375) Il contributo fondamentale dell’economista francese per quanto riguarda lo sviluppo è riscontrabile nell’ambito della geografia economica. Debitrice del pensiero schumpeteriano, l’opera di Perroux abbandona l’equilibrio e la razionalità economica neoclassica riconducendo lo sviluppo della società ai progressi dello processo innovativo, a quella “distruzione creatrice” tanto cara all’economista austriaco. “Senza progresso tecnico non si ammette alcuna forma evolutiva, la quale unisce, in una catena di relazioni, effetti economici, sociali, politici, culturali ed ideologici. L’evoluzione economica sarà dunque un processo dialettico e dinamico, irreversibile e portatore di eterogeneità.” (Conti, 1996, p.125) L’economista francese introduce una nuova concezione di spazio astratto e topologico in contrapposizione all’idea di uno spazio banale, presente nell’economia convenzionale, dove ambito politico e spazio economico ed umano coincidevano. Lo spazio è un “campo di forze” centripete e centrifughe disseminate nel territorio, per le quali soggetti e mezzi di produzione si muovono, vendendo attratti o respinti in modo selettivo da e verso i diversi luoghi. Da questa idea nascono i “poli di crescita”, cioè dei luoghi, con diverse intensità, dai quali la crescita economica si propaga lungo canali definiti coinvolgendo in maniera diversa le parti dello spazio. Alla base del ragionamento di Francois Perroux c’è l’idea dell’asimmetria di potere tra gli attori: la dimensione regionale è il risultato delle varie forme di agglomerazione, ed essa stessa è una manifestazione del potere esercitato in uno spazio geografico. 66 La sua modelizzazione nasce dalla critica alla teoria dell’equilibrio di Walras: la l’ipotesi restrittive per la concorrenza perfetta, in un sistema tendente all’equilibrio, e “l’atomismo” degli agenti costituiscono un’inaccettabile astrazione dal mondo reale, che è caratterizzato da concorrenza imperfetta e forme di potere coercitive. Per Perroux è necessaria una “nuova teoria dell’interdipendenza”, caratterizzata da “deviazione dal modello di concorrenza perfetta” e dal “rifiuto di considerare le persone come esseri annientati”. Egli ha proposto di ricostruire la teoria di equilibrio generale “a partire dagli gli agenti o attori e dalle unità attive.” (Perroux 19 ,p.69-70) La volontà dell’economista francese, ma anche di Myrdal ed Hirschman ai quali dedicherò i prossimi paragrafi, è quella di descrivere ed interpretare il processo dello sviluppo. Basandosi sulla critica all’equilibrio generale e attraverso l’uso del concetto dell’assimetria di potere, Perroux definisce i concetti di “poli di crescita” ed i “poli di sviluppo”, per determinati gruppi di unità (se agenti, imprese o industrie): il polo di crescita è un insieme che ha la capacità di indurre la crescita di un altro insieme (la “crescita” è stata definita come un duraturo aumento dell’indicatore dimensionale); il polo di sviluppo è un insieme che ha la capacità di generare una dialettica delle strutture economiche e sociali il cui effetto è quello di aumentare la complessità del suo complesso e espandere il suo ritorno multidimensionale. (Perroux 19 ,p.48) Questi poli di crescita, che sono espressione del dominio nello spazio, corrispondono all’agglomerazioni industriali nelle quali sono localizzate le “industrie motrici”, cioè unità propulsive, imprese e settori produttivi che generano un effetto moltiplicatore capace di suscitare la crescita di altre unità economiche. Questa funzione viene esercitata da questi poli per il loro particolare potere economico in quello spazio, tendenzialmente derivato dalla loro superiore dimensione, dal loro carattere oligopolistico e dalla loro capacità di instaurare rapporti con il tessuto circostante (imprese fornitrici o acquirenti, popolazione ed infrastrutture). Storicamente la funzione motrice è stata incarnata da vari settori come i trasporti ed il tessile nell’Ottocento, o la siderurgia e l’industria meccanica nella prima parte del Novecento. Questi settori industriali sono caratterizzati da elevati tassi di crescita del prodotto e della produttività e, grazie alla loro capacità innovativa, intervengono in modo profondo nel territorio. Per questi motivi il concetto di “polo di crescita” viene 67 presto sostituito da quello di “polo di sviluppo” dove i settori industriali, motore della crescita, sono in grado di produrre trasformazioni profonde in senso tecnico, istituzionale e sociale. Il potere dei poli non si manifesta quindi solo per i componenti di natura economico – produttiva ma anche trasformando i sistemi regionali. Il ragionamento perrousiano si basa su un processo unitario sul quale si intreccia e si sovrappone una catena di anelli causali che accompagna l’evoluzione del sistema. Si può affermare che questo processo avvenga attraverso quattro processi congiunti: la crescita produttiva, la crescita socio- demografica, la formazione di economie esterne e la complessificazione della crescita. (Conti, 1996, p.126-127) 1. La crescita produttiva. Alla base della crescita, come si è già visto, c’è “l’impresa motrice” la quale riesce ad esprimere un potere economico rilevante, originando una “dominazione”. Questa “dominazione” si realizza grazie ad un controllo della domanda localizzata nel suo territorio e alla capacità di esportare creando profitti e controllando, de facto, il ciclo produttivo. Queste capacità di natura “oligopolistica” si manifestano solo per imprese di dimensioni rilevanti. La “dominazione”, ovvero la capacità di attrarre risorse e popolazione, origina una forma di sviluppo che presuppone l’attivazione di squilibri fra i soggetti operanti nel sistema economico: “Le cause che permettono la nascita di un’industria dominante possono essere molteplici; esse vanno dalla dinamica interna dell’impresa, all’avvenimento storico esogeno, alla non perfetta realizzazione della concorrenza fra eguali. In ogni caso, ciò che permette la nascita di un’impresa è il fatto stesso che esiste, perlomeno nell’economia occidentale di mercato, un rapporto di dominazione, o - se si vuole - un rapporto di scambio fra ineguali.”1 L’impresa motrice ha la capacità di esercitare, per un periodo tempo sufficientemente lungo, un potere su gli altri attori economici; potere che si realizza nel “imporre ai fornitori un prezzo d’acquisto dei propri input inferiore al prezzo di mercato.”2 1 A. Mela e M. Pellegrini, “Formazioni sociali e squilibri interregionali, Guida, Napoli, 1978 p.316 in S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 126 2 F. Perroux “Economic space”, cit. p.24 in S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 127 68 2. La crescita socio- demografica. L’accumulazione dell’impresa dominante e degli altri soggetti localizzati in quel polo crea una serie di processi di polarizzazione sociale e demografica. L’aumento dell’offerta di lavoro, dovuta all’insediamento di nuova attività produttive e all’ampliamento dell’impresa dominante, crea un circolo virtuoso che si autoalimenta grazie ad un continuo incremento della forza lavoro e della creazioni di servizi ed infrastrutture efficienti. Crescita economica e crescita demografica si autoalimentano reciprocamente. 3. La formazione di economie esterne La crescita del polo crea economie esterne che si traducono in vantaggi sia per l’impresa motrice, attraverso una riduzione dei costi unitari di produzione, grazie alla presenza di produttori specializzati, sia per il sistema economico nel suo complesso, dal momento che inducono una più generale espansione della domanda e dell’offerta. Per Perroux esistono due tipi di esternalità: quelle tecnologiche, per le quali un fattore di produzione di un’impresa entra nella funzione di produzione di un’altra, e quelle pecuniarie, per le quali l’output di un impresa influisce sui profitti di un’altra impresa senza entrare nella sua funzione di produzione. 4. La complessificazione della crescita L’espansione della domanda della popolazione insediata produce l’accelerazione del tasso d’investimento sia nell’impresa motrice sia nei settori ad essa correlati. Questo fenomeno provoca una diversificazione del tessuto economico del polo e la formazione di intense relazioni tra gli attori localizzati. Per concludere questo paragrafo è necessario approfondire in che modo Perroux considera lo spazio e quale importanza ad esso viene affidata. La dimensione geografica di questi processi di crescita economica non emerge dal lavoro di Perroux come un elemento centrale dove la “localizzazione” risulta fondamentale. Lo spazio, anche se viene introdotto in modo preponderante, è ancora “astratto” e fa solo da cornice al processo inevitabile che coinvolge le forze economiche operanti in una società industriale. Come ricorda T. Hermansen, infatti, per Perroux “lo spazio geografico appare soltanto un piuttosto banale tipo di spazio, mentre l’oggetto principale della sua attenzione è la crescita economica, ovvero i processi attraverso 69 cui le imprese ( e le unità economiche in generale) compaiono, crescono, si stabilizzano e, talvolta, scompaiono.”3 Questa nuova interpretazione dello sviluppo, in aperto contrasto con la concezione statica di equilibrio, apre la strada ad altre teorie per le quali la dimensione spaziale riveste una, seppur minima, importanza. I concetti introdotti da Perroux verranno usati ed interpretati da altri autori come Hirschman e Myrdal, ai quali sono dedicati i prossima paragrafi. 3 T Hermansen “Development Poles and Related Theories: a Synoptic Review, in Hansen (a cura di) “Growth Centers”, cit. P.167, in S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 128 70 Albert Hirschman e la dimensione ermeneutica dello sviluppo4 Il contributo di Hirschman alla teoria dello sviluppo è molto importante perché non solo contribuisce alla creazione di un’economia regionale ma mette in discussione le basi stesse della teoria dello sviluppo economico neoclassica. L’idea che l’economia possa avere un’esistenza utile separata dalla filosofia è assolutamente estranea al lavoro dell’economista tedesco che ha un approccio ermeneutico all’economia, in generale, e allo sviluppo, in particolare. La distinzione tra scelte individuali e scelte collettive, razionalità individuale e razionalità collettiva, pone Hirschman in un filone di analisi che considera necessario un approccio all’economia che consideri comunque le scelte degli individui come limitate dal sistema di valori da cui dipendono. L’economia non può essere amorale. I lavori sullo sviluppo economico di questo autore devono essere letti alla luce della sua continua ricerca di analisi dei rapporti tra l’individuo ed il contesto collettivo. E’ netta la contrapposizione di questa posizione con l’ortodossia economica per la quale i comportamenti individuali e sociali sono ridotti a reazioni meccaniche sempre prevedibili e astoriche. Il tentativo riduzionista che esclude la diversità umana e la sua imprevedibilità rischia di fallare dalle fondamenta un’economia che si eleva a potenza di scienza perfetta dimenticando la propria dimensione sociale. Il paradigma neoclassico affronta il problema dell'incertezza, riducendola alla prevedibilità di eventi esterni, invece di considerarla come un risultato non predeterminato dell'azione collettiva. Tale semplificazione è resa possibile attraverso l'eliminazione delle componenti strutturali dell'incertezza, ossia le “passioni” degli individui ed il loro “sentimento sociale”. Nel tentativo di rendere l’economia la scienza dell’utilità si è proceduto a scarificare elementi fondamentali della natura umana. Hirschman, in “Passioni ed interessi: argomenti politici a favore del capitalismo prima del suo trionfo”, affronta proprio la questione della “rimozione” storica delle passioni e la loro sostituzione mediante un concetto di razionalità basato sul calcolo del proprio self-interest. L’uomo è un essere 4 Per il titolo del paragrafo si fa riferimento a Lucio Poma “La dimensione ermeneutica dell’economia in Albert O. Hirschman” Università di Bologna, 1994 71 complesso che non può essere ridotto a colui che è guidato solo dal proprio interesse. La fallacia dell’economia ortodossa sta proprio nel credere in questa semplificazione. Nel tentativo di descrivere questa doppia natura umana, fatta di passioni ed interessi, di azione individuale e di azione collettiva, Hirschman elabora i concetti di Exit e Voice dove l'exit è un comportamento individuale di defezione da un prodotto o da un processo, mentre la voice è un comportamento collettivo in quanto, anche nei casi in cui è espressa individualmente, trae la sua logica d'azione da una concezione collettiva di valori e di giustizia sociale interiorizzata dal soggetto che protesta perché vede lesi i suoi diritti o le sue aspettative. Dopo aver inquadrato la “poetica” di Hirschman mi interessa passare ad analizzare le sue idee riguardo lo sviluppo economico, idee che ne hanno fatto uno dei “luminari” di questa materia. Il contributo dell’economista tedesco si inserisce perfettamente tra le varie teorie dello sviluppo come quelle di Rostow, Prebisch e Perroux apportando al dibattito idee “innovative”. Questo contributo si forma sulla consapevolezza che l'economia dello sviluppo sia solamente una delle tante sottomaterie che formano la più generale teoria dello sviluppo. L’economia dello sviluppo deve evolversi in questo senso vero una teoria generale dello sviluppo omnicomprensivo. Questa evoluzione, che emerge dai fallimenti di un approccio puramente economicistico al problema dello sviluppo, individua un campo di indagine caratterizzato da una fondamentale multidisciplinarità che attinge all'economia, certamente, ma anche alla storia, alla sociologia, all'antropologia, alla psicologia. L’idea di fondo di Albert Hirschman è che lo sviluppo si manifesta attraverso una catena di squilibri. Usando la teoria della polarizzazione che Perroux aveva coniato, l’economista tedesco individua due tipi di effetti: gli “effetti di polarizzazione”, “ovvero i fattori che operano nel senso di accrescere le disparità di reddito” e gli “effetti di propagazione”, “ossia i fattori che operano nel senso di diffondere la prosperità dalle regioni ricche alle povere” (Hirschman 1983). Per lo schema interpretativo dell’autore, che si basa sul dualismo economico e su una nozione di centro- periferia, nello sviluppo “più o meno spontaneo” del capitalismo la ricerca di maggiori profitti genera una “naturale” concentrazione geografica degli investimenti nelle regioni urbanizzate ed industrializzate, essendo “improbabile che 72 lo sviluppo abbia inizio ovunque alla stessa velocità nell’ambito di un’economia” (Hirschman 1968, p.219). Questo fenomeno porta ad un’accentuazione delle differenze economiche tra le varie regioni: le regioni sviluppate usufriranno di un aumento del proprio benessere mentre le regioni arretrare rimarranno tali. Quando una certa industria ha deciso una localizzazione in un determinato spazio economico, growing point, si avvia un “processo moltiplicatore” che genera un ciclo virtuoso. La nuova domanda mossa da questo processo si manifesta da una parte attraverso l’aumento di richiesta di beni, infrastrutture e servizi della popolazione immigrata; dall’altra la funzione attrattiva dell’impresa favorisce l’insediamento di nuove unità produttive fornitrici di input e acquirenti di semilavorati da sottoporre a successiva trasformazione. Queste relazioni sono definite da Hirschman come backward e forward linkages, cioè due tipi di effetti di collegamento “all’indietro” o “in avanti”. Questi due fenomeni influiscono su ciò che per l’autore è al centro dello sviluppo, cioè l’”investimento indotto”. L’accresciuta disponibilità di un prodotto induce lentamente ad un incremento della domanda di altri prodotti, complementari all’uso sostenuti dal cosiddetto “bisogno indotto”. L’investimento indotto è qualcosa di molto simile al moltiplicatore di keynesiana memoria; accade cioè che ogni investimento provoca una serie di investimenti successivi portando così con se le economie e le diseconomie esterne. Questi linkages vengono definiti in questo modo da Hirshman: 1. La fornitura degli input, la domanda derivata, o gli effetti di collegamento all’indietro. Ogni attività economica che non sia del settore primario, indurrà degli sforzi per produrre localmente gli input che le sono necessari. 2. L’utilizzazione degli output, o gli effetti di collegamento in avanti. Ogni attività che per sua natura non soddisfa esclusivamente la domanda finale, indurrà degli sforzi per utilizzare i suoi output come input in qualche nuova attività. (1968, p.120) Lo sviluppo economico si fonda, quindi, su questi meccanismi di induzione che permettono allo sviluppo di propagarsi da regione a regione. Il contributo hirschmaniano deve molto alla teoria della geografia economica e ai concetti di 73 economie esterne di Marshall derivanti da quelli che alcuni chiamano come il “milieu” o meglio ancora “l’atmosfera industriale”. L’intero processo essendo cumulativo avvia nuovi cicli di sviluppo che generano nuove forme di concentrazione fino a quando o si manifestano diseconomie di agglomerazione oppure emergono nuovi centri (o poli) di crescita concorrenti che offrono vantaggi competitivi maggiori. Questo fenomeno si manifesta per la naturale tendenza degli imprenditori a concentrarsi e questo risulta essere il fattore propulsivo della crescita economica, la è, per i motivi già visti, necessariamente squilibrata, cioè spazialmente differenziata. Il divario economico tra Nord (regioni sviluppate) e Sud (regioni sottosviluppate) tende necessariamente ad aumentare restringendo le possibilità per quest’ultime di svilupparsi, riducendo il divario. La conclusione di Hirschman sembra essere particolarmente pessimista dato che le regioni sottosviluppate sono destinate a rimanere escluse dalla concentrazione delle attività produttive ma, sempre secondo l’economista tedesco, la soluzione a questo problema avverrebbe “spontaneamente” nel lungo periodo, “in quanto la crescita dei livelli di consumo nelle aree sviluppate determinerebbe un aumento della domanda anche nelle regioni sottosviluppate, favorendo in queste ultime l’innesco di processi di espansione economica. Come si può facilmente intuire la teoria di Hirschman si basa principalmente sull’idea di un forte dualismo tra Nord e Sud del mondo. Questo dualismo è fortemente dialettico e prevede una contrapposizione profonda tra le due realtà che, in un’economia di mercato, sono destinate a scontrarsi. Gli argomenti che si affrontano in questa ultima parte del paragrafo sono le posizioni dell’economista tedesco su quelle che possono (o devono) essere le politiche economiche ed sul suo confronto tra la diffusione interregionale e quella internazionale dello sviluppo economico. La difficoltà, mostrata dall’argomentazione appena descritta, di trasferire lo sviluppo da regione a regione e la difficoltà di dare avvio a processi di crescita in zone scarsamente attrattive assume particolare importanza la distribuzione regionale degli investimenti pubblici che devono fare da moltiplicatore. 74 Secondo Hirschman esistono tre gruppi di interventi pubblici: la dispersione, la concentrazione nelle regioni già sviluppate e la concentrazione nelle zone arretrate. Il primo modello è quello più diffuso poiché i governi tendono a disperdere gli investimenti per avere più popolarità possibile. Il ruolo dei governi nello sviluppo viene brillantemente riassunto da Hirschman in questo passaggio: “Per esercitare un’azione efficace, il governo deve promuovere lo sviluppo per mezzo di decisi interventi, tali da creare incentivi e pressioni per un’azione ulteriore; e deve restar pronto a reagire a queste pressioni e alleviarle in numerose aree. Qualunque sia l’importanza del ruolo dello stato nell’economia, entrambe le funzioni sono generalmente presenti, anche se una delle due può essere predominante.” (p.242) I due compiti quindi sono la promozione e la funzione di attenuazione delle pressioni. Il primo compito , su quale si sono concentrati gli studiosi dello sviluppo, è quello di preparare le condizioni, i prerequisiti, per la continuazione dello sviluppo, ma questa fase è spesso incapace di promuovere lo sviluppo in aree sottosviluppate. La seconda fase si potrebbe definire “indotta” e si concretizza in una serie di interventi di riequilibrio dove lo Stato interviene a sostegno dello sviluppo di un settore aggiornando altri settori complementari: lo sviluppo della siderurgia necessita di uno sviluppo dell’industria energetica e dei trasporti, ma anche dell’istruzione. Ogni singolo intervento ha effetti che devono essere controllati nella loro totalità per non rischiare di creare più danni che benefici. Un’altra argomentazione molto interessante dell’economista tedesco è quella sul rapporto tra lo sviluppo regionale e lo sviluppo internazionale, dato che si cerca di fare una comparazione su base spaziale. Come abbiamo visto lo sviluppo difficilmente passa da regione a regione spontaneamente e questa considerazione potrebbe far dedurre che il passaggio internazionale sia ancora meno probabile. Gli effetti di polarizzazione e di propagazione tendono a favorire tendenze separatiste o meno a seconda di quale tipo di diffusione sia più conveniente (internazionale o interregionale). Hirschiman conclude affermando che “le forze che agiscono a favore della diffusione dello sviluppo tra regioni sono probabilmente più forti di quelle che agiscono per la sua diffusione tra paesi.” (p.236) Questa convinzione nasce dall’argomentazione che in uno stesso Paese lo sviluppo delle zone degradate sarà motivato da ragioni 75 solidaristiche fondate sull’unità nazionale e sul potere di pressione politica dell’aree depresse nei confronti del governo centrale. Dopo questa breve sintesi del contributo hirschmaniano nell’economia dello sviluppo si passerò ad esaminare un altro contributo fondamentale alla materia fornito da un economista molto vicino ad Hirschman, cioè Gunnar Myrdal. 76 Gunnar Myrdal: l’istituzionalismo nella teoria dello sviluppo Anche Myrdal, come gli autori appena visti, critica in modo sistematico la teoria economica generale che non è nata per spiegare lo sviluppo ed il sottosviluppo e che porta con sé troppi fattori irrealistici. La teoria economica risulta essere irrealistica, e quindi fallace, soprattutto per due elementi basilari della teoria stessa: l’equilibrio e la completa sottovalutazione dei cosiddetti “fattori non economici” che vengono considerati dati e statici dalla teoria. Secondo l’economista svedese, l’equilibrio stabile è irrealistico perché sottintende che ad ogni azione ci debba essere una “reazione” contraria della stessa intensità. L’equilibrio si fonda sulle nozioni di razionalità economica e dell’armonia degli interessi che sembra aver scarso collegamento con la realtà dei fatti. “L’idea che desidero esprimere in questo libro è che, al contrario, normalmente non esiste siffatta tendenza verso una automatica e spontanea stabilizzazione nel sistema sociale. Il sistema non si muove per sé stesso verso una forma di equilibrio tra le forze, ma tende continuamente ad allontanarsi da questa posizione. Di norma un cambiamento provoca cambiamenti non in senso contrario ma, all’opposto, continuamente complementari, i quali spingono il sistema nella stessa direzione del cambiamento primario ma vanno molto più in là di esso. In forza di questa causalità circolare un processo sociale tende a divenire cumulativo e spesso a procedere con moto accelerato” (Myrdal, 1974, p.23). Il principio della causazione circolare e cumulativa è il contributo principale alle teoria dello sviluppo myrdaliana. Sembra più corretto, tuttavia, considerare il modello di Myrdal a causalità cumulativa non circolare ma a spirale trattandosi di un modello dinamico e non statico. L’attenzione dell’economista svedese si concentra sul ruolo di questo sistema in un’economia di mercato per i paesi sottosviluppati e scrive: “Che nel libero gioco delle forze del mercato sia immanente una tendenza a creare squilibri regionali e che questa tendenza diventi tanto più dominante quanto più povero è un paese, sono due delle più importanti leggi del sottosviluppo e dello sviluppo economico in condizioni 77 di laissez-faire.” Nel processo cumulativo la “povertà diventa causa di se stessa”(p.42) Il funzionamento di questo processo cumulativo è molto simile all’analisi di Hirschman, secondo il quale la polarizzazione spaziale è conseguenza dell’operato dei meccanismi di mercato. Questa polarizzazione secondo gli autori, se non viene corretta, provoca necessariamente differenze di sviluppo tra le regioni. Il processo di causazione circolare cumulativa ha origine dall’esistenza di particolari condizioni che determinano un vantaggio iniziale per lo sviluppo economico di alcune regioni (centrali). In esse si innescherebbero quindi dei processi cumulativi di sviluppo economico, tali da coinvolgere anche le altre regioni (periferiche), le quali verrebbero coinvolte in un processo centripeto nel corso del quale capitale e lavoro sono attratti verso la regione che dispone del vantaggio iniziale. (Conti, 1996, p.130) Lo sviluppo, mosso da questa forza centripeta, che porterà alla concentrazione di industrie, darà vita a forme di espansione economica fondate su un processo cumulativo che porterà ad un miglioramento delle condizioni infrastrutturali e un ampliamento dei servizi sociali in genere. Questa circolo, che è molto simile al “circolo vizioso” di Nurkse5, è una reazione a catena che produce un meccanismo di crescita economica che si alimenta da solo e che conduce, se non viene corretto, all’accentuazione del divario tra i livelli di sviluppo della diverse regioni: “Se le cose fossero lasciate al libero gioco delle forze di mercato senza interventi di politica economica, la produzione industriale, il commercio, la banca, le assicurazioni, la navigazione, quasi tutte quelle attività che in un’economia in sviluppo tendono a dare una remunerazione superiore alla media, verrebbero ad addentrarsi in certe località e regioni, lasciando il resto del paese più o meno stagnante.” (Myrdal, 1974, p.35) Se si ammette il realismo della ipotesi di causalità circolare in un sistema sociale complesso è inutile cercare “un fattore fondamentale” come “il fattore economico” dato che “diventa in verità difficile comprendere quel che si debba esattamente 5 Il circolo vizioso della povertà di Nurkse implica una costellazione circolare di forze tendenti ad agire e a reagire l’una sull’altra in modo tale da mantenere un paese povero in uno stato di povertà: un povero malnutrito non potrà lavorare molto per uscire dalla povertà: “un paese è povero perché è povero”. R. Nurkse (1952), “Some Aspects of Capital Accumulation in Underdeloped Countries”, Cairo, Oxford, University Press. 78 intendere quando si parla di un “fattore economico” distinto dagli altri fattori, e ancor meno si capisce come possa essere “fondamentale” dal momento che ogni cosa è causa di un’altra in un sistema di concatenazione circolare. Per analoghi motivi, l’applicazione di questa ipotesi spinge lo studio realistico del sottosviluppo e dello sviluppo di un paese o di una regione di un paese ben al di là dei confini della teoria economica tradizionale. Ciò accade perché necessariamente lo studio viene a toccare anche tutti quei cosiddetti “fattori non economici” che gli economisti classici univano in blocco in concetti quali “la qualità dei fattori di produzione” e “l’efficienza produttiva” e lasciavano di regola al di fuori della loro analisi”. Alla luce di questo ragionamento pare chiaro che Mrydal ritenga indispensabili sia le indagini storiche che le analisi delle istituzioni e delle variabili culturali che possono condizionare i fattori produttivi. Il modello della causazione circolare e cumulativa elaborato da Myrdal deve quindi considerare tutti i fattori e non solo quelli economici. Esso può essere ben riassunto dallo schema della figura 1 alla fine di questo paragrafo. Il funzionamento del meccanismo della causazione circolare e cumulativa poggia sull’operare congiunto di due effetti: riflusso e diffusione. I primi fattori, che tendono ad accrescere sempre di più nei dintorni della regione centrale, si riferiscono ai trasferimenti di capitale e di altri fattori produttivi verso i “poli” in rapido sviluppo; a questi fattori di natura economica si aggiungono altri fattori “non economici” come la diffusione della dotazione di servizi: “Sotto questa etichetta [effetti di riflusso dell’espansione economica di una data località] includo gli effetti delle migrazioni, dei movimenti di capitale e del commerci, e anche tutti gli effetti di un intero complesso degli altri rapporti sociali.. il termine è relativo agli effetti complessivi cumulativi, risultanti dal processo di causazione circolare fra tutti i fattori, “economici” e “non economici”(Myrdal, 1974, p.38) L’insieme di questi fattori concorre a far si che le aree sviluppate risultino maggiormente attrattive e, per contrasto, che le possibilità di sviluppo delle regione periferiche siano compromesse. L’interazione tra le regioni, però, attiva anche delle forze di natura centrifuga che possono eventualmente tradursi in processi di diffusione dello sviluppo: “In 79 contrapposto agli effetti di riflusso vi sono, tuttavia, anche taluni effetti di diffusione centrifughi del moto di espansione dai centri in sviluppo verso le altre zone.”(p.39) L’economia centrale in espansione può stimolare la domanda dell’economia periferica e, se fosse in grado di eliminare gli effetti di riflusso, questo processo potrebbe permettere un eventuale innesco di processi cumulativi di sviluppo nelle aree depresse. Il processo di differenziazione tra le economie regionali segue, secondo lo schema myrdalliano, tre fasi successive: 1) una prima fase, preindustriale, nella quale le differenze dello sviluppo tra le aree sono relativamente modeste 2) una fase dove il processo di causazione circolare cumulativa genera processi di sviluppo in pochi poli creando forti squilibri tra le regioni 3) gli effetti di diffusione mitigano gli effetti di riflusso riducendo le differenze creatisi nella fase precedente. Questa ultima fase, secondo Myrdal, si manifesta differentemente a seconda dei luoghi. Nei paesi occidentali sviluppati (Usa ed Europa) gli effetti di diffusione tendono ad essere decisamente più incisivi rispetto ai paesi sottosviluppati dove si ha un aggravamento degli squilibri interni: “.. quanto è più alto il livello di sviluppo economico già raggiunto da una nazione, tanto più forti sono di solito gli effetti di diffusione. Infatti, ad un alto livello medio di sviluppo si accompagnano un miglioramento dei trasporti e delle comunicazioni, più alti livelli di istruzione ed una più dinamica comunione di idee e di valori – tutti fattori che tendono a consolidare le forze per una spinta centrifuga di espansione economica o a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla loro azione.”(p.41) Inoltre secondo Myrdal il fatto che le politiche di intervento pubblico a sostegno degli effetti di diffusione si possono realizzare solo in paesi con una disponibilità finanziaria sufficiente, fa si che questi effetti siano poco efficiente in un paese sottosviluppato. Lo schema myrdalliano non tiene conto della scala geografica di riferimento, prescindendo dalla specificità delle diverse condizioni. Nonostante ciò, Myrdal ribadisce la propria estraneità al modello neoclassico dell’equilibrio rifiutando l’idea che gli effetti di diffusione possano riequilibrare la situazione iniziale: “Al limite le 80 due specie di effetti si bilanceranno reciprocamente e la regione resterà in condizioni di ristagno. Ma questo bilanciarsi non è uno stabile equilibrio, poiché ogni cambiamento delle forze determinerà un movimento cumulativo ascendente o discendente.”(p.39-40) Il modello presenta almeno due limiti: nella sua schematicità esso analizza solo superficialmente i fenomeni di diffusione; in secondo luogo sembra più utile a dimostrare l‘inadeguatezza delle teorie neoclassiche dell’equilibrio economico che non proporsi come una generale teoria dello sviluppo regionale. In particolare, la componente spaziale è individuata solo genericamente in termini di concentrazioni geografiche di attività economiche (poli) e di persistenza dell’ineguaglianze fra queste ed il resto del sistema.(Conti, 1996, p.132-134) Ciò che si preme sottolineare in questo paragrafo è che Myrdal concepisce lo sviluppo come “movimento ascendente dell’intero sociale” avvertendo che “un cambiamento del reddito nazionale pro - capite non può pertanto essere mai usato come qualcosa di più di un indicatore approssimativo e sbrigativo di quel più complesso cambiamento dell’intero sistema sociale che in realtà vogliamo registrare” (Myrdal, 1971, p.103-104). E’ l’idea, anticipatrice, di uno sviluppo non circoscritto alla sola sfera economica ma inteso come movimento di trasformazione che arricchisce la vita di ciascuno e ne allarga gli orizzonti. La causalità non riguarda solo i meccanismi economici ma coinvolge anche fenomeni sociali o aspetti psicologici, morali, come le aspettative, le speranze, le credenze. Myrdal ritiene che l’economia neoclassica, astratta, deduttiva, statica, sia in ritardo rispetto alla realtà che pretende di interpretare. Essa è chiusa, quasi in una sorta di autismo, alle altre discipline come la sociologia e la storia mentre è necessario un approccio multidisciplinare per comprendere l’evoluzione sociale ed istituzionale. Come gli altri “eterodossi” di questo capitolo, proclama il primato delle totalità e oppone una visione solistica all’individualismo metodologico. La conclusione è conseguente: se lo sbocco delle libere forze di mercato è quello di dinamiche inegualitarie e non armoniche, l’unico modo per frenarle ed innescare tendenze controbilancianti è l’intervento pubblico. Tale intervento, infatti, è in grado di costruire causalità cumulative positive per tutti e minori disuguaglianze fondamentali per determinare più sviluppo. Auspica, al riguardo, un progetto comune 81 “costruito” che si sostituisca all’ordine “spontaneo” di Hayek al quale contrappone l’armonia “creata” attraverso la discussione, il confronto, la negoziazione, il compromesso. Myrdal sembra auspicare una democrazia economica che si sostituisca ad un sistema di mercato basato sull’ineguaglianza. Nel prossimo capitolo si cercherà di offrire altri contributi che si distinguono da quelli finora esposti che rimangono nel filone della critica alla teoria dell’economia dello sviluppo economico. 82 Localizzazione di una nuova impresa Crescita occupazionale e demografica locale Sviluppo delle economie esterne Crescita della qualificazione della forza lavoro Sviluppo delle infrastrutture per l’industria e per la popolazione Sviluppo di imprese e settori ausiliari Attrazione di nuove imprese Aumento dell’impostazione fiscale Sviluppo dei servizi Crescita del benessere generale della comunità Figura 1: Il modello di causazione circolare e cumulativa secondo Myrdal (da D. Keeble “Models in economic development” in S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 131) 83 CAPITOLO QUARTO: Le critiche liberali ai modelli di sviluppo “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Giorgio Gaber Questo capitolo affronta la tematica dello sviluppo sotto molteplici punti di vista molto differenti tra loro. Nella prima parte si analizzerà il contributo di un filone teorico legato all’impostazione della Scuola Austriaca, che fondandosi sull’individualismo metodologico, considera lo sviluppo un processo naturale che non deve subire influenze esterne al mercato. Fondamentale in questa prima parte è l’opera dell’economista ungherese, ma inglese di adozione, Peter Tomas Bauer che fornisce, negli stessi anni di Myrdal e Hirschman, una visione originale sul “problema dello sviluppo”. Dopo questa necessaria sintesi della critica anti-statale si proverà a riassumere le tesi, sul tema, di due autori contemporanei molto famosi: l’economista indiano Amartya Sen e l’economista americano Joseph Stiglitz, entrambi premi nobel. I due economisti analizzano il problema dello sviluppo considerandolo da due prospettive diverse; infatti, Sen si propone di analizzare il tema attraverso un’analisi politica orientata alla libertà e alla disuguaglianza, mentre Stiglitz si occupa dello sviluppo nel contesto della globalizzazione. 84 La visione “liberista” : Peter Thomas Bauer Peter T. Bauer ci fornisce un contributo in netto contrasto con le teorie più diffuse che si sono affrontante fino ad ora. Contrastando la teoria neoclassica ed i modelli di ispirazione keynesiana, l’economista inglese si oppone drasticamente alle teorie “sviluppiste” di Myrdal o alle teorie “strutturaliste” o “dipendentiste” di Prebisch e Furtado. Il più grande merito di questo autore è quello di fornire con la sua posizione critica un grande contributo ad un dibattito che vedeva impegnati tutti gli autori che si sono incontrati finora (e non solo). Bauer ha contestato numerose affermazioni comunemente condivise dalla maggioranza degli accademici e dalle istituzioni internazionali del suo tempo e in particolare le seguenti convenzioni: 1- Esiste una sorta di ”Circolo vizioso della povertà” che impedisce ai paesi sottosviluppati di dare inizio ad un vero processo di sviluppo.1 2- La povertà dei paesi del Terzo Mondo è una conseguenza dell’oppressione e dello sfruttamento perpetrato nei loro confronti dall’Occidente.2 3- Il protezionismo è l’unico strumento di difesa che i paesi sottosviluppati possono usare per evitare di venire schiacciati dalla competitività delle industrie occidentali. 4- Senza l’intervento dell’economia è impensabile uno sviluppo autonomo dei paesi del Terzo Mondo. 5- Sono fondamentali gli aiuti stranieri per dare inizio allo sviluppo Per l’economista inglese questi “precetti fondamentali” dello “sviluppismo” sono assolutamente fallaci. Bauer argomenta le proprie posizioni portando ad esempio il suo lavoro “sul campo” in Asia. Gli esempi di sviluppo dei paesi asiatici portati dall’autore cercano di smentire le posizioni dei suoi “rivali”. 1 Per quanto riguarda il “circolo vizioso della povertà” si rimanda al capitolo terzo nota 27. 2 Ci si riferisce a tutta la teorizzazione della dipendenza e dell’imperialismo analizzata nel capitolo secondo 85 L’idea che esista questo “circolo vizioso della povertà” è stata abbandonata dall’odierna visione liberista dell’economia mainstream, basata proprio sulle teorie dell’economista inglese, che nega questo circolo affermando che anche i paesi arretrati non sono immuni dall’accumulazione della ricchezza. In tutte le società, anche quelle più primitive, vi è lo stimolo al baratto prima e al commercio poi. Questa tendenza dei cittadini dei paesi sottosviluppati allo scambio di beni e servizi deve essere sfruttata in tutta la sua interezza in quanto è il commercio, anche su piccola scala o informale, il vero motore dello sviluppo. Secondo Bauer, dopo essersi convertiti alla “fede” nel libero commercio, la strada verso la prosperità economica diventa più semplice da percorrere. Al contrario, continuare a giustificare sentimenti compassionevoli dell’Occidente nei confronti del Terzo Mondo, fornendo aiuti finanziari in misura esponenziale, non può essere che dannoso: essi creano solo dipendenza e impediscono la crescita. “Lord Bauer è un economista classico: i motori dello sviluppo sono l’impresa, il commercio e l’ampliamento dei mercati.[…]. Per Bauer, il punto cruciale è il passaggio dalla produzione di sussistenza a quella per il mercato.”3 Bauer non può però essere considerato un economista classico tout court dato che rifiuta categoricamente l’approccio storicista che tende a costruire teorie generali. In quest’ottica Bauer è certamente più vicino ad Hayek e alla Scuola Austriaca che a Smith o Ricardo. L’economista inglese, distinguendosi fortemente dai neoclassici, affronta “il problema dello sviluppo” soffermandosi non solo sugli aspetti tradizionali dell’analisi economica, quali l’ammontare degli investimenti, l’offerta di infrastrutture, le risorse naturali, etc. ma facendo anche riferimento ai fattori culturali e politici dei singoli paesi sottosviluppati considerati: le attitudini, i costumi e le tradizioni dei singoli cittadini e delle comunità di questi paesi. La critica di Bauer sul metodo degli economisti dello sviluppo mainstream si concentra nella “matematizzazione” dell’approccio ai temi dello sviluppo. Mentre inizialmente si poteva utilizzare un linguaggio più descrittivo ed evitare il ricorso a funzioni e modelli analitici, col passare degli anni l’uso di metodi econometrici è 3 Michael Lipton in G.Meier e D. Seers “I pionieri dello sviluppo” Roma. ASAL 1988 cit. pag. 66 86 diventato inevitabile. Questo processo ha portato ad un riduzionismo della realtà che ha avuto alcune conseguenze negative: 1. Ingiustificata concentrazione di elementi importanti per capire lo sviluppo sotto poche macro-variabili (es. si considerano i paesi poveri come un blocco uniforme). 2. Mancata tenuta in considerazione di alcuni elementi che, seppur altamente pertinenti, non sono trasformabili in termini matematici (es. attitudini personali). 3. 4. Confusione tra ciò che è “significativo” e ciò che è “quantificabile”. Omissione del background e dei processi storici dai modelli di crescita economica. In tutta la sua opera l’economista inglese rivendica l’attività sul campo per la realizzazione del proprio lavoro. L’approccio di Bauer non è analitico, ma sottolinea come le sue teorie nascano dell’evidenza dei fatti stessi. L’accettazione incondizionata dei metodi quantitativi basati sull’aggregazione ha permesso il diffondersi di studi econometrici a volte inappropriati. Al contrario il metodo basato sull’attenta osservazione della realtà è stato definito come aneddotico, poco scientifico e superficiale, mentre invece, dice Bauer (1987), è quello che meglio è in grado di fornire un quadro esaustivo del problema dello sviluppo. Se la critica relativa all’eccessiva “matematizzazione” e alla conseguente scarsa attenzione agli aspetti sociali può essere riscontrata anche in molti autori critici analizzati precedentemente, la visione “anti- egalitaria” di Bauer segna una netta cesura (così come per la politica economica) con questi autori. Il concetto di “eguaglianza” e di “equità” sono sempre stati al centro delle argomentazioni delle politiche di sviluppo occidentali. Secondo Bauer questi concetti evidenziano ed amplificano quel senso di colpa latente che da almeno cinquant’anni affligge i paesi occidentali nei confronti dei ”parenti più poveri”. L’economista inglese ritiene invece che questo atteggiamento compassionevole sia frutto di un pregiudizio di base che può essere riassunto nella frase: ”i poveri sono visti come passivi ma virtuosi, i ricchi come attivi ma malvagi” (Bauer,1982). In realtà egli ritiene che vi siano almeno quattro buoni argomenti a sostegno delle differenze economiche tra Paesi avanzati e paesi in via di sviluppo: 87 • Non si può pensare che, in presenza di diversi livelli culturali e politici e che a fronte di differenti capacità e motivazioni delle persone, tutti abbiano il medesimo reddito. Secondo Bauer che produce di più è giusto che abbia un ritorno economico in proporzione • Le differenze di reddito trovano una giustificazione di tipo procedurale. Le maggiori entrate di un individuo non corrispondono ad una riduzione di quelle di un altro • Le disuguaglianze di reddito sono giustificate dalle loro conseguenze: le politiche redistributive hanno l’effetto di creare ancora più disparità tra ricchi e poveri, tranne che in qualche eccezione di breve periodo. Potendo contare su una sempre maggiore assistenza finanziaria pubblica, le persone meno produttive perdono l’incentivo ad aumentare i propri sforzi lavorativi. Tutto questo è una conseguenza di un altro male moderno, l’eccessiva politicizzazione dell’economia che distoglie le energie dall’attività economica produttiva a favore della politica e della pubblica amministrazione; • L’idea di egualitarismo è di per sé in contrasto con quella di società aperta. Politiche volte al livellamento degli standard di vita sono una forma di coercizione intollerabile per una società che si definisce libera. Il raggiungimento di tale obiettivo ”baratterebbe” la promessa riduzione delle differenze di reddito e di ricchezza in cambio di una nuova disuguaglianza di potere tra i governanti e i cittadini. Bauer rifiuta quindi ogni tipo di responsabilità imperialista del mondo occidentale facendo tabula rasa della storia centenaria del colonialismo occidentale nei paesi sottosviluppati. Queste sue argomentazioni lo portano ad essere antitetico a tutte le teorie strutturaliste o “dipendentiste” di quegli anni. Tutte queste argomentazioni su equità, sviluppo e libertà saranno ben approfondite da A. Sen al quale rimando nel prossimo paragrafo. Come si avrà già avuto modo di capire, per l’economista inglese ciò che è fondamentale è la libertà del mercato. Il commercio è il motore della crescita. Il commercio interno è quindi un’attività produttiva in due sensi: statico, perché assicura l’allocazione ottimale delle risorse; dinamico perché determina la crescita del mercato. I traders, con il loro operato, facilitano la nascita di istituzioni commerciali e di nuove professioni. Questo permette una crescita del livello del 88 capitale umano, il quale, attraverso la specializzazione, raggiunge gli standard qualitativi necessari per lo sviluppo economico. A seguito di tale crescita migliorano le condizioni di vita e si allargano le possibilità di scelta per i consumatori. Senza commercio interno non può esserci commercio internazionale, e senza quest’ultimo il progresso è fortemente limitato. La completa fede verso i meccanismi di mercato e l’assoluta negazione del suo fallimento (gli strumenti non possono fallire), fanno di Bauer il paladino del liberismo dell’economia dello sviluppo. Uno dei suoi principali meriti è quello di aver messo in luce gli effetti, talvolta nefasti, di politiche interventiste sullo sviluppo. La sua forte critica alla politica del FMI e della Banca Mondiale del secondo dopoguerra si concentra proprio sulla dannosità degli investimenti specifici, tanto cari a Myrdal ed Hirschman. Secondo Bauer le “cure” hanno solo peggiorato la malattia. L’economista inglese ha sottovalutato, come egli stesso ammette (1984), l’importanza del potere politico nelle decisioni economiche: i governi tendono a governare attraverso l’uso degli “aiuti”. Si dimentica, però, che nel secondo dopoguerra ciò che influenzava maggiormente le decisioni di politica dello sviluppo era la “guerra fredda”: Banca Mondiale e FMI, dipendenti dagli Usa (oggi come allora) pagavano la fedeltà al capitalismo con finanziamenti in funzione antisovietica. Negli anni ’80, cambiata la politica economica in senso liberista, questa tendenza non si modificò, anche se al posto di finanziamenti i governi dei paesi in via di sviluppo garantivano esclusivo libero commercio alle imprese occidentali (basti pensare alla politica liberista del generale Pinochet nel Cile dittatoriale). Il liberismo di Bauer si scaglia quindi contro qualsiasi tipo di programmazione economica per i paesi sottosviluppati. Questo controllo totale potrebbe essere messo in discussione dall’apertura al commercio estero. La riduzione o l’eliminazione delle barriere, tariffarie e non, provocherebbe, infatti, distorsioni agli effetti programmati dal governo, impedendo così l’attuazione del piano di sviluppo. Bauer invece si scaglia contro queste convinzioni, da lui ritenute non solo errate, ma anche prive di logica. La domanda che Bauer si pone è: come è possibile che la totale chiusura di un paese al mercato internazionale riesca a far aumentare i redditi dei suoi cittadini? Come è possibile, cioè, che, senza importare risorse dall’estero e senza esportare i propri prodotti, si possa generare nuova ricchezza? Ciò che i pianificatori usano per i 89 loro progetti economici non sono nuove risorse ottenute ad hoc, ma sono fondi sviati da altri investimenti pubblici o privati preesistenti. Adottare un’economia orientata al mercato, sostiene Bauer, è quindi fondamentale per lo sviluppo: incentiverebbe a passare da una produzione di sussistenza ad una di scambio, farebbe importare nuove tecnologie e conoscenze scientifiche, riuscirebbe a soddisfare i bisogni dei consumatori. L’economista inglese però non è completamente anti-statalista e sostiene l’importanza dello stato per garantire le istituzioni adatte allo sviluppo cioè le libertà individuali (fondamentale il diritto di proprietà) e il potere giudiziario contro la corruzione. La politica dello stato deve esserci ma solo quando è volta a favorire il libero mercato interno ed internazionale. Ponendo al centro del proprio ragionamento la libertà, Lord Bauer cercherà di capovolgere le critiche anti-mercato con una soluzione opposta a quella auspicata da autori come Polanyi. Un altro autore che partirà dalla nozione di libertà, giungendo però su lidi opposti a quelli dell’economista inglese, è Amartya Sen: all’economista indiano è dedicato il prossimo paragrafo. 90 Sviluppo è liberta: Amartya Sen Il contributo dell’economista indiano nella teoria dello sviluppo si inserisce in quella “terra di mezzo” tra la filosofia, la sociologia e la psicologia e la scienza economica. Sen pone al centro dello sviluppo la libertà: “lo sviluppo può essere visto come un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani” in questo senso, “lo sviluppo richiede che siano eliminate le principali fonti di illibertà: la miseria come la tirannia, l'angustia delle prospettive economiche come la deprivazione sociale sistematica, la disattenzione verso i servizi pubblici come l'intolleranza o l'autoritarismo di uno stato repressivo” (Sen, 2000, p.9). L’importanza affidata da Sen alla libertà e al concetto di uguaglianza nel discorso sullo sviluppo permettono a questa materia di aprirsi alla filosofia politica di Rawls e Nozick ma anche all’etica senza mai perdere di vista il pensiero economico. L’economista indiano è l’anello di congiunzione tra la scienza economica dedicata allo sviluppo e le altre scienze sociali; la sua capacità di fondare la teoria dello sviluppo su concetti non solo economici è fondamentale per l’approccio che questa tesi sostiene nella sua seconda parte. La libertà, intesa come libertà effettiva (di scegliersi una vita cui, a ragion veduta, si dia valore), in un senso assai vicino a quello della real freedom di Philippe Van Parijs4, è, dunque, secondo Sen, il criterio in base al quale valutare gli assetti politico-sociali e orientare le politiche pubbliche. L’approccio individualista e le sue critiche all’utilitarismo e al neoclassicismo avvicinano l’economista indiano a quel filone “liberals” di cui anche Bauer fa parte. La sostanziale differenza tra i due approcci è proprio sul concetto stesso di libertà. Il liberalismo di “destra” così come quello classico concentrano l’attenzione sull’estensione dei diritti di proprietà, sia sulle cose che sulla persona (self ownership) mentre trascura la distribuzione dei diritti di proprietà stessi. 4 La “real freedom”, o libertà reale, per l’economista francese Van Parijs, si inserisce in un’ottica libertaria di “sinistra” combinando l’individualismo della filosofia libertaria con un approccio sostanziale e non solo formale alla libertà, che finisce per avvicinarlo ad una qualche forma di (moderato) egualitarismo 91 Ciò avviene soprattutto a causa dell’idea monistica della proprietà che viene intesa come un insieme dato e fisso di caratteristiche. La teoria funzionalista del diritto ha posto in discussione questa visione interpretando la proprietà come fascio di prerogative che non necessariamente sono presenti in ogni circostanza. Un esempio di tale impostazione si ha nella scuola di analisi economica del diritto che adotta il criterio dell’efficiente utilizzo delle risorse economiche come guida per modellare il contenuto dei diritti di proprietà. In tal modo si apre la strada per aggiungere ai due elementi classici dell’approccio libertario alla proprietà, cioè quello della sicurezza (“esiste una struttura di diritti di proprietà ben definiti”, sottratti quindi all’arbitrio) e quello della proprietà su se stessi (self ownership), anche l’elemento caratterizzante della opportunità concreta per l’individuo di perseguire la propria concezione della vita (Van Parijs, 1995) il che è reso possibile da un’appropriata struttura del sistema dei diritti. E’ questo l’elemento che introduce un tratto sostanziale, che riempie l’idea della libertà negativa di un contenuto positivo, detto altrimenti la rende effettiva rispetto alla sola idea della assenza di coercizione propria del libertarismo classico. In parte questo coincide con la nozione di capabilities elaborata da Sen . L’economista indiano introduce queste sue argomentazioni effettuando una distinzione tra i processi e le possibilità effettive. “L’illibertà può derivare sia da processi inadeguati (come la negazione del diritto di voto o di altri diritti politici o civili) sia dal fatto che ad alcuni non sono date adeguate possibilità di soddisfare desideri anche minimali (il che comprende la mancanza di possibilità elementari, come quella di sfuggire ad una morte prematura, a malattie evitabili o alla fame involontaria)” (Sen 2000, p.23). E’ fondamentale per Sen chiarire che lo sviluppo si basa sulla nozione più ampia possibile di libertà, che comprenda processi e possibilità. La sua analisi, più precisamente, si sviluppa sulla distinzione tra funzionamenti e capabilities (traducibile in “capacitazioni”): i funzionamenti sono stati di essere o di fare cui gli individui attribuiscono valore (ad esempio, essere adeguatamente nutriti, non soffrire malattie evitabili), mentre le capacitazioni sono gli insiemi di combinazioni alternative di funzionamenti che una persona è in grado di realizzare. Per chiarire questa distinzione può essere utile riprendere un esempio di Sen: “un 92 benestante che digiuni [...] può anche funzionare, sul piano dell'alimentazione, allo stesso modo di un indigente costretto a fare la fame, ma il primo ha un “insieme di capacitazioni” diverso da quello del secondo (l'uno può decidere di mangiar bene e nutrirsi adeguatamente, l'altro non può)” (2000, p. 79). Ora, osserva Sen, “mentre la combinazione dei funzionamenti effettivi di una persona rispecchia la sua riuscita reale, l'insieme delle capacitazioni rappresenta la sua libertà di riuscire, le combinazioni alternative di funzionamenti tra cui essa può scegliere” (p.80). L'approccio delle capacitazioni può guardare sia ai funzionamenti realizzati sia all'insieme capacitante delle alternative a disposizione, a seconda che ci si voglia focalizzare sulle cose che una persona fa o su quelle che è libera di fare. È, però, preferibile, secondo Sen, concentrarsi su queste ultime, dal momento che “è possibile dare importanza anche al fatto di avere occasioni che non vengono colte; anzi, è naturale muoversi in questa direzione, se il processo attraverso il quale vengono generati gli esiti ha un suo significato” (p. 80). L’economista indiano si confronta con i maggiori teorici della giustizia come Nozick e Rawls ma anche con la storia del pensiero economico, in particolare con l’utilitarismo. La prospettiva di Sen è, dunque, alternativa rispetto a tutti gli approcci in qualche modo "classici" in tema di distribuzione delle risorse. In particolare, Sen contesta all'utilitarismo: 1) l'indifferenza per la distribuzione della "felicità" 2) la negazione di un valore intrinseco ai diritti e alle libertà, 3) una certa predisposizione a favorire condizionamento sociale e adattamento; Inoltre Sen rimprovera a Rawls: la tendenza a ridurre la libertà a un semplice “vantaggio” e a trascurare i problemi di conversione dei beni principali (beni necessari per qualsiasi piano di vita) in benessere effettivo; obietta a Nozick la mancanza di considerazione per le conseguenze derivanti dall'esercizio dei diritti (negativi) delle persone. Sen ha la capacità di spostare l’attenzione dai mezzi (aumento della produzione, investimenti, utilità, etc..), ai fini cioè allo sviluppo stesso. Le teorie sullo sviluppo economico, troppo spesso, si sono concentrate su un unico fine, cioè la crescita, che è diventato la legge dell’economia stessa. Sen, e con lui molti altri autori qui proposti, 93 ragiona invece sul concetto stesso di sviluppo allontanandosi molto dall’unico “fine” dell’economia mainstream. L’idea dominante è sempre stata che povertà, disuguaglianza, mancanza di istruzione e altri mali sociali sarebbero stati tutti contemporaneamente alleviati dalla crescita del Pil. Anzi: alla crescita del Pil si potevano sacrificare molte vite e molti rapporti sociali perché, pur attraverso alcune sofferenze, la crescita avrebbe portato a condizioni migliori per tutti. Il Pil era insomma diventato il fine dell'economia e delle politiche che, rovesciando i termini della logica e dell'esperienza umana ma accettando quelli dell'economia neoclassica, si facevano dettare l'agenda dalle principali istituzioni economiche. Sen ha la capacità di rimettere al centro del discorso economico (e quindi anche del discorso sullo sviluppo) il fine dell’azione economica con un’affermazione che non è così ovvia: “Se abbiamo delle ragioni per voler essere più ricchi, dobbiamo chiederci quali siano esattamente queste ragioni, come si esplichino, da che cosa dipendano e quali siano le cose che possiamo fare essendo più ricchi. In generale abbiamo ottime ragioni per desiderare un reddito o una ricchezza maggiore; e non perché ricchezza e reddito siano in sé desiderabili, ma perché normalmente sono un ammirevole strumento per essere più liberi di condurre il tipo di vita che, per una ragione o per l'altra, apprezziamo”. Il collegamento con gli economisti classici e con tutto il filone dell’economia civile (che si vedrà meglio nella seconda parte) è evidente: la ricchezza è uno strumento e non un fine. “L'utilità della ricchezza sta nelle cose che ci permette di fare, nelle libertà sostanziali che ci aiuta a conseguire; ma questa correlazione non è né esclusiva (infatti esistono altri fattori, oltre alla ricchezza, che influiscono in modo significativo sulla nostra vita) né uniforme (poiché l'effetto della ricchezza sulla vita varia a seconda di questi altri fattori)”. Queste affermazione sono illuminanti sul perché Sen abbia elaborato questa teoria sulle libertà – capacitazioni: la crescita del Pil non è l'unica strada per raggiungere obiettivi importanti per la vita umana e soprattutto non è questa strada che porta univocamente verso quegli obiettivi. Scopi per i quali valga la pena di battersi, come la possibilità di “vivere a lungo senza essere stroncati nel fiore degli anni” o “vivere bene e non nella sofferenza e 94 nell'illibertà” sono desideri “quasi” universali e che solo in parte, non necessariamente in modo univoco, sono correlati alla mera crescita economica. Sicché anche nella ricerca orientata a favorire lo sviluppo occorre mantenere la consapevolezza dell’importanza dei fattori non- economici e occorre discutere i fini almeno quanto si discutono i mezzi. “Due cose sono ugualmente importanti: riconoscere il ruolo cruciale della ricchezza nel determinare le condizioni e la qualità della vita e rendersi conto di quanto sia condizionata e contingente questa correlazione. Una concezione adeguata dello sviluppo deve andare ben oltre l'accumulazione della ricchezza e la crescita del prodotto nazionale lordo o di altre variabili legate al reddito; senza ignorare l'importanza della crescita economica, dobbiamo però guardare molto più in là”. E ancora: “Dobbiamo considerare ed esaminare sia i fini sia i mezzi dello sviluppo se vogliamo capire più a fondo lo sviluppo stesso”. Sen riassume il significato di tutta la sua teoria così:“Non è sensato considerare la crescita economica fine a se stessa; lo sviluppo deve avere una relazione molto più stretta con la promozione delle vite che viviamo e delle libertà di cui godiamo. L'espansione di quelle libertà che a buona ragione consideriamo preziose non solo rende più ricca e meno soggetta a vincoli la nostra vita, ma ci permette anche di essere in modo più completo individui sociali, che esercitano le loro volizioni, interagiscono col mondo in cui vivono e influiscono su di esso” (2000, p.20-21). L’economista indiano pone alla base del suo ragionamento sulla povertà il concetto di capacitazione ponendo a sostegno della sua tesi tre punti fondamentali (2000, p.92): 1) L’approccio si concentra su privazioni che sono intrinsecamente importanti (a differenza del basso reddito che è significativo solo sul piano strumentale); 2) Sull’incapacitazione, e quindi sulla povertà reale, agiscono altri fattori oltre al basso reddito (il reddito non è il solo strumento che può generare capacitazioni); 3) La relazione strumentale fra basso reddito e basse capacitazioni varia da una comunità all’altra e addirittura da una famiglia, o una persona, all’altra (l’effetto del reddito sulle capacitazioni è contingente e condizionato) 95 Le prime forme di sottosviluppo umano, legate al concetto stesso di povertà come “incapacitazione”, evidenziate da Sen sono la fame, la mancanza di libertà e diritti civili fondamentali, la sicurezza. È insensato sostenere, come alcuni fanno, che si possa scegliere un percorso di sviluppo che inizialmente neghi i diritti civili per accelerare la crescita economica e così combattere la fame. È insensato per due ordini di motivi: perché non è una buona definizione di sviluppo quella che tenga conto solo della crescita del Pil e non della libertà delle persone; e perché non c'è vera lotta alla fame senza democrazia. Tanto è vero che, secondo Sen, i fatti dimostrano che nelle democrazie non ci sono carestie e queste avvengono solo nei paesi governati in modo dittatoriale. Centrale nell’opera seniana la critica alla “mania quantitativa” di molti economisti che considerano il reddito come unico indicatore di povertà: Sen non nega che vi sia una correlazione tra il basso reddito e l'analfabetismo, la cattiva salute, la fame e la denutrizione, ma la correlazione tra le variabili non significa necessariamente un rapporto di causalità. A questo punto, l’economista indiano mostra come la crescita del reddito non abbia molto a che fare con la riduzione della disuguaglianza sociale e della povertà umana, quella che le statistiche sul reddito, appunto, non riescono a registrare fino in fondo. A sostegno di questa tesi, Sen porta ad esempio dati che dimostrano che la probabilità di vita degli afroamericani che vivono negli Stati Uniti è inferiore a quella degli abitanti di paesi come la Cina e lo stato indiano del Kerala: nonostante che gli afroamericani abbiano redditi enormemente superiori di quelli dei cinesi o dei keraliani. Inoltre, introducendo un discorso sull’uguaglianza, si afferma che anche tra gli afroamericani ci sono differenze: i meno fortunati, i maschi che vivono in grandi città come New York, per esempio ad Harlem, hanno meno probabilità di raggiungere i quarant'anni di età dei maschi nati nel Bangladesh nonostante che i nati nel Bangladesh abbiano un reddito infinitamente inferiore a quello dei neri di Harlem. Questo perché la qualità della vita è correlata al reddito, ma non è spiegata solo dal reddito: anzi, in certi casi il reddito è una misura fuorviante. Con questo suo approccio, sicuramente Sen innova la scienza economica di chi ritiene che l'economista non si debba occupare di giudizi di valore. La sua nozione di “sviluppo imperniato sulla libertà” non è troppo diversa da quella di chi si occupa di 96 questioni come la “qualità della vita”. In questo, come si è già visto, prende le distanze dall'eccesso di matematizzazione dell'economia contemporanea ma sente una vicinanza invece con alcune istanze dell'economia originaria. La sua valutazione è semplice: “Quest'attenzione alla qualità della vita e alle libertà sostanziali, anziché solo a reddito e ricchezza, può forse sembrare un allontanarsi dalle solide tradizioni della scienza economica, e in un certo senso lo è davvero (soprattutto in confronto ad alcune rigorose analisi centrate sul reddito che troviamo tra gli economisti contemporanei); ma in realtà questo approccio più ampio è in armonia con alcuni orientamenti analitici che appartengono alla professione dell'economista fin dai primordi” (Sen, p. 30). A questo proposito Sen cita una serie di punti di riferimento, da Aristotele ad Adam Smith (capitolo primo), almeno per quanto riguarda la sua analisi dei beni necessari e delle condizioni di vita. Per l’economista indiano da rinnovare è l'eccesso di analisi quantitativa, il rifiuto assurdo di occuparsi del valori in economia (Sen, 2004), l’ossessiva concentrazione sul reddito, l’utilità e la crescita. A questo punto è necessario analizzare la “ricetta” prevista da Sen per favorire lo sviluppo di un paese, o meglio ancora, degli individui. Si può tranquillamente affermare che, al contrario di molti suoi predecessori “sviluppisti”, l’economista indiano non abbia una vera e propria ricetta taumaturgica ed universale: l’approccio seniano è assolutamente pratico e sostanziale. Sen analizza in che modo la ragione umana possa concepire e promuovere società migliori e più accettabili: come si può creare uno sviluppo. L’economista indiano individua tre critiche all’idea che si possano creare dei modelli di sviluppo. La prima afferma che, dato che persone diverse hanno preferenze e valori eterogenei, non è possibile dunque dare ai nostri ragionamenti un impianto coerente. La seconda critica è metodologica: l’uomo non è in grado di ottenere ciò che intende ottenere, infatti la storia è dominata dalle “conseguenze non volute”: queste conseguenze non possono permettere decisioni razionali collettive. La terza critica si fonda sull’ambito dei valori umani e delle norme di comportamento: l’uomo sceglie anche al di là del “gretto interesse personale”? Se la risposta è negativa, esiste un solo sistema, cioè il mercato. 97 Alla prima critica Sen amplia il teorema dell’impossibilità di Arrow5 per affermare che esso non nega a prescindere la possibilità di compiere una scelta sociale derivata dalle preferenze individuali, ma bensì pone l’attenzione alla base informativa sulla quale questa scelta si compie. La “scelta sociale” assume un ruolo fondamentale nello sviluppo : “la partecipazione dei cittadini al processo decisionale è un elemento fondamentale dell’impegno sociale”(Sen, 1997, p.73). La numerosa letteratura sulla “scelta sociale” indaga in che modo gli individui si relazionano e si influenzano nel dare vita a “scelte pubbliche” in processi decisionali collettivi. Per l’economista indiano qualsiasi progetto di sviluppo passa necessariamente attraverso, consenso, scelte condivise e pubblici dibattiti. Alla seconda critica, che ha trovato in Carl Menger e Friedrich Hayek i più fedeli sostenitori, Sen risponde distinguendo tra conseguenza non voluta e conseguenza imprevedibile: nello scambio entrambe le parti possono prevedere il beneficio della controparte anche se non vogliono tale beneficio. “Se viene intesa così (ossia come previsione di conseguenze importanti ma non intenzionali), l’idea di conseguenza non voluta non si contrappone in alcun modo alla possibilità di riforme razionali; anzi, è vero il contrario. Il ragionamento economico e sociale è senz’altro in grado di tener conto di conseguenze che possono essere intenzionali ma derivano ciononostante da determinati assetti istituzionali, e gli argomenti pro e contro un particolare assetto possono essere meglio valutati prendendo nota della probabilità di una serie di conseguenze non volute.” (Sen, 2000, p.257). La terza critica che ha che fare con il concetto di motivazione del comportamento umano sostiene che l’uomo è interessato solo alla propria persona. Questa visione è assolutamente semplicistica ed è difficilmente difendibile sul piano empirico. “Ogni sistema economico ha certe esigenze di etica del comportamento; il capitalismo non fa eccezione, e i valori possono influenzare le azioni individuali in modo molto pronunciato.”(2000, p. 279). 5 Il teorema dell’impossibilità di Arrow s'inserisce nell'ambito dell'ampio dibattito sulla difficoltà di trasformare nel modo più corretto e coerente possibile le preferenze individuali dei cittadini su temi di interesse generale, in decisioni collettive. Più precisamente, il teorema arriva a dimostrare che non è sempre possibile determinare, nell’ambito delle scelte collettive, una maggioranza stabile ed univoca. 98 E’ importante per Sen considerare tutti i fattori che influenzano il “comportamento reale” dell’uomo che è fatto di egoismo ma anche di valori morali. Non considerare l’etica e i valori significa mortificare le stesse scelte individuali. Superando queste tre critiche l’economista indiano individua le strade dello sviluppo in una via democratica: “scelta sociale”, discussione pubblica e impegno sociale. “La politica dello stato ha un ruolo non solo quando mira a mettere in pratica le priorità derivanti da valori e principi sociali, ma anche in quanto facilita e garantisce discussione pubblica più completa.” In concreto le politiche pubbliche per lo sviluppo devono favorire questo dibattito, attraverso riforme che hanno come obiettivi la libertà di stampa e l’indipendenza dei media, l’espansione dell’istruzione, lo stimolo all’indipendenza economica (attraverso salari minimi garantiti o politiche di occupazione). Tutte quelle riforme che producono “trasformazioni sociali ed economiche che aiutano gli individui a essere cittadini partecipi” sono auspicabili per lo sviluppo. “Al centro di un simile approccio c’è l’idea dell’opinione pubblica come forza attiva di cambiamento, anziché oggetto passivo e docile di istruzioni, o di un’assistenza elargita dall’alto. Alla luce di questi ragionamenti per Sen la libertà individuale assume un’importanza sociale dato che diventa impegno dei singolo individui nelle decisioni pubbliche. Lo stesso Bauer aveva sottolineato come l’obiettivo dello sviluppo economico sia l’estensione delle scelte individuali. Purtroppo si è spesso confuso questo obiettivo come un ampliamento quantitativo delle scelte di consumo concentrando l’attenzione solo sulla crescita economica, eludendo tutte quelle scelte che considerano la “dimensione etica” dell’uomo. L’economista indiano ribadisce l’importanza di porre al centro del discorso sullo sviluppo la libertà perché essa porta in sé l’aspetto processuale e possibilititante della libertà stessa, andando oltre il concetto di sviluppo come crescita. I processi fondamentali per lo sviluppo, come la partecipazione alle decisioni pubbliche e le scelte sociali, non sono mezzi ma fini dello sviluppo stesso. L’importanza delle varie istituzioni sociali – organismi politici, media, apparati giudiziari, la comunità, etc.. – è fondamentale quando, contribuendo al processo di sviluppo, stimolano e sorreggono le libertà individuali. L’analisi dello sviluppo esige “una comprensione integrata dei ruoli di queste istituzioni e delle loro interazioni”. 99 Il pensiero di Sen è ben riassunto da lui stesso nell’osservazione finale: “Fra le caratteristiche della libertà c’è anche quella di presentare aspetti tra loro eterogenei, legati ad una grande varietà di attività e istituzioni. Non ne possiamo estrapolare una concezione dello sviluppo immediatamente traducibile in una - “formuletta” - per l’accumulazione del capitale o l’apertura dei mercati o una pianificazione economica efficiente. Il principio organizzativo che unisce in un corpus integrato i frammenti sparsi è dato dalla preoccupazione, a tutti sovraordinata, per uno sviluppo delle libertà individuali e per un impegno della società a realizzarlo. E’ importante che ci sia questa unità; ma, allo stesso tempo, non possiamo perdere di vista il fatto che la libertà è un concetto intrinsecamente multiforme, che comporta sia elementi processuali, sia la presenza di possibilità concrete.” (2000, p. 297) Lo sviluppo è liberta e la libertà individuale deve essere impegno sociale attraverso quella che nei prossimi capitoli si individuerà come “democrazia economica” e partecipazione. 100 Globalizzazione e sviluppo: Joseph Stiglitz Se oggi si vuole parlare di sviluppo economico non si può prescindere dalla cosiddetta globalizzazione. L’autore che più incarna questa convinzione è il premio nobel per l’economia Joseph Stiglitz. Famoso per i suoi contributi all’economia dell’informazione, attraverso i suoi studi sulle asimmetrie informative, l’economista americano ha trasferito le sue riflessioni dal piano microeconomico al piano macroeconomico ed ha rivolto pesanti critiche alle politiche allo sviluppo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, di cui ha fatto parte, lottando per promuovere un giusto equilibrio tra pubblico e privato e politiche a favore dell’uguaglianza e della piena occupazione. Le sue riflessioni a questo proposito sono illustrate nel libro “La globalizzazione ed i suoi oppositori” che ha contribuito ad impostare un nuovo dibattito sul tema. La globalizzazione è il campo in cui si sviluppano alcuni dei nostri più profondi conflitti sociali, inclusi quelli sui valori fondamentali, e le divergenze più significative riguardano il ruolo dei governi e dei mercati. Pur ammettendo che i governi, da soli, non riescono a realizzare una distribuzione del reddito socialmente accettabile, i conservatori per lungo tempo hanno sostenuto la necessità di separare i temi attinenti all’efficienza da quelli riguardanti l’equità. I limiti dei mercati sono piuttosto chiari: gli scandali degli anni novanta in America e in altri paesi hanno inferto un duro colpo alla finanza ed al capitalismo che si è rivelato antitetico allo sviluppo, che richiede invece lungimiranza di pensiero e di programmazione. L’esistenza di economie di mercato, come quella svedese, diverse da quella americana, dimostrano che esistono forme alternative che possono essere efficienti. Analogamente, benché coloro che criticano la globalizzazione abbiano ragione nell’affermare che è stata usata per portare avanti alcuni interessi particolari, ma non è detto che la globalizzazione debba essere deleteria per l’ambiente, aumentare la sperequazione sociale, indebolire la diversità culturale e promuovere gli interessi delle grandi multinazionali a scapito del benessere del cittadino comune. Stiglitz cerca di dimostrare come la globalizzazione possa fare molto per migliorare le condizioni di vita sia nei paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo. Nei 101 suoi contributi l’economista statunitense evidenzia come la politica sia stata usata per forgiare i processi politici ed il sistema economico affinché avvantaggiassero pochi soggetti a scapito di tutti gli altri: affinché la globalizzazione produca vantaggi per tutti è necessario un ripensamento degli accordi commerciali, delle politiche economiche imposte ai paesi in via di sviluppo, degli aiuti internazionali, del sistema finanziario globale. Queste riforme ed altre potrebbero permettere alla globalizzazione di sviluppare tutte le sue potenzialità nel rispetto della giustizia sociale. Stiglitz, come si vedrà più approfonditamente tra poco, illustra come l’adozione di processi aperti e democratici possa contribuire a limitare i poteri di determinati gruppi che favoriscono interessi particolari. Così come all’interno di un’azienda, l’etica aziendale e la corporate governance possono riconoscere i diritti non solo degli azionisti, ma di tutte le parti coinvolte, analogamente, una cittadinanza impegnata ed informata può capire come far funzionare la globalizzazione, o almeno come farla funzionare meglio, e pretendere che i leader politici agiscano di conseguenza. Per perseguire questo obiettivo, così come aveva messo in luce Sen, sono necessari indicatori del progresso economico e sociale che forniscano informazioni non solo sui benefici dei sistemi di mercato, ma anche sui loro effetti deleteri per l’ambiente, per la sperequazione sociale, per la salute. E’ soltanto disponendo di indicatori dell’effettivo livello di sviluppo umano e sociale che sarà possibile giungere ad una reale comprensione degli effetti delle politiche allo sviluppo e ad un loro cambiamento. Stiglitz richiama cinque ordini di problemi che questa globalizzazione evidenzia: 1- La globalizzazione tende a favorire i paesi industrializzati impoverendo ancor di più quelli poveri. 2- La globalizzazione antepone i valori materiali agli altri 3- La globalizzazione ha indebolito le democrazie nei paesi sottosviluppati privando questi paesi della loro sovranità 4- Molte persone con la globalizzazione si sono impoverite 102 5- Il sistema economico che è stato imposto ai paesi in via di sviluppo è inadeguato e pregiudizievole poiché la globalizzazione viene intesa come americanizzazione. Questi cinque punti riassumono le critiche a chi ha gestito e controllato la globalizzazione cioè il FMI e la Banca Mondiale. La globalizzazione è una grande opportunità per l'umanità, ma finora è stata governata in modo “geloso” (a proprio vantaggio) da chi deteneva le leve del potere e cioè il mondo industrializzato, le grandi corporations e gli Stati Uniti in particolare. Questa globalizzazione è quella che non funziona perché produce tutti queste effetti deleteri sul reale sviluppo dell’uomo. In contrapposizione a questa globalizzazione e, implicitamente, a questo sviluppo, Stiglitz propone una “visione” alternativa per lo sviluppo che è una critica al “culto del Pil”: “Il Pil è una misura pratica della crescita economica, ma non è l’aspetto più importante dello sviluppo”. Il consiglio che viene dato è: “E’ importante, a mio avviso, che i paesi concentrino l’attenzione sull’equità, facendo in modo che i frutti della crescita siano ampiamente condivisi. E’ un dovere morale battersi per l’equità ma questa è necessaria perché la crescita sia sostenibile.” (Stiglitz, 2006, p.48) Ciò che è fondamentale per l’economista statunitense sono istruzione, tutela dell’ambiente e equità. L’eccessiva disuguaglianza non rende “sostenibile” nessun tipo di sviluppo. La via allo sviluppo passa necessariamente attraverso una riforma delle politiche degli istituti internazionali, che originariamente erano stati creati per promuovere lo sviluppo e non per gestire la globalizzazione a favore di pochi. La ricetta degli anni 80 era molto semplice: eliminare i governi, privatizzare e liberalizzare ma questa ricetta dopo i scarsissimi risultati in Russia ed America Latina è entrata in crisi negli anni 90. Quello proposto (ed attuato quando era chief economist alla Banca Mondiale) è un approccio omnicomprensivo allo sviluppo: fornire più risorse e rafforzare i mercati. Per Stiglitz lo Stato ha un ruolo molto importante e lui propone che ogni paese adotti un mix fra Stato e mercato a seconda delle sue caratteristiche. Secondo molti economisti il ruolo della funzione pubblica si concentra in settori quali l’istruzione di base, l’ordinamento giuridico, infrastrutture, armonizzatori sociali, regolamentazione della concorrenza, del settore bancario e degli impatti ambientali. 103 Elemento fondamentale nel modello dell’economista statunitense è il mettere le persone al centro dello sviluppo: “Lo sviluppo deve trasformare la vita delle persone e non soltanto l’economia; per questo occorre analizzare le politiche occupazionali e scolastiche attraverso una doppia lente, valutando in che modo promuovono la crescita e come influiscono direttamente sulla vita della gente.” (2006, p. 52). Le decisioni degli organismi internazionali non possono ignorare le comunità locali e la capacità autoctona di incentivare lo sviluppo delle proprie potenzialità. Il problema principale per affrontare queste tematiche è la governance. Il naturale squilibrio tra politica ed economia in un mondo globalizzato, dove la seconda cambia nettamente più velocemente della prima, porta a questa forte discrasia dove la politica rimane assolutamente indietro. “abbiamo un sistema caotico e scoordinato di governance globale che si riduce a una serie di istituzioni e accordi che trattano di determinati problemi, dal riscaldamento del pianeta al commercio internazionale, passando per i flussi di capitale. I ministri delle Finanze discutono le questioni che attengono al loro ambito presso l’FMI, senza preoccuparsi di come le loro decisioni influiscano sull’ambiente o sulla salute mondiale. I ministri dell’Ambiente possono chiedere che si faccia qualcosa per limitare il riscaldamento globale, ma mancano le risorse per agire in concreto”. “La governance è il nucleo centrale del fallimento della globalizzazione”. “Nel lungo periodo, i cambiamenti più necessari perché la globalizzazione si metta veramente a funzionare riguardano le riforme finalizzate a ridurre il deficit di democrazia”.(2006, p.21, 103, 323) Per auspicare ad una globalizzazione che funziona veramente quella attuale deve essere profondamente riformata e Stiglitz anticipa quali siano le riforme più urgenti: la diffusione della povertà, gli aiuti internazionali e la cancellazione del debito, l'aspirazione a un commercio equo, i limiti della liberalizzazione economica, la tutela dell'ambiente, un sistema di governo globale. Stiglitz si concentra soprattutto sugli effetti nefasti di alcune politiche protezionistiche o corporative che creano gravi distorsioni nel commercio internazionale. Non ci si può esprimere a favore o contro la liberalizzazione dei mercati a prescindere, senza considerare il contesto in cui questi mercati operano. “In parte, il libero commercio non ha funzionato perché non l’abbiamo provato: i trattati commerciali del passato non sono stati infatti né liberi né equi.” (2006, p.66) 104 “Se gestita equamente, con il sostegno di politiche e provvedimenti giusti, la liberalizzazione del commercio può aiutare lo sviluppo. [..]. La questione è: i vantaggi che hanno ottenuto [i paesi in via di sviluppo] sono sostenibili e possono estendersi a tutte le popolazioni del mondo? Io credo di si, ma perché ciò avvenga, la liberalizzazione del commercio dovrà essere gestita in modo radicalmente diverso rispetto al passato.” (2006, p.67) Stiglitz si augura un regime commerciale più equo e non genericamente più libero per favorire veramente lo sviluppo ed esso passa necessariamente attraverso la cancellazione delle barriere all’entrata dei paesi sviluppati che bloccano sul nascere l’ampliamento dei mercati della materie prime o dei prodotti agricoli dei paesi sottosviluppati. Tutto questo può avvenire solo attraverso una forte riforma della governance del “governo mondiale” dove pochissimi (ricchi) decidono per tutti creando un commercio globalizzato che di equo ha veramente poco. Un altro tema caro a Stiglitz è quello del problema ambientale che in un mondo globalizzato non può essere affrontato in modo autonomo dai singoli stati. Il concetto di sostenibilità che l’economista statunitense amplia anche alle problematiche sociali è urgente per l’emergenza ecologica che oggi affligge il mondo. A queste tematiche che recentemente hanno acquisito sempre più importanza sarò dedicato il prossimo capitolo. Le altre tematiche affrontate da Stiglitz, che non possono essere approfondite, sono relative alla cancellazione del debito e gli aiuti internazionali. Alle distorsioni di un’economia esclusivamente finanziaria l’autore imputa la crescente instabilità economica che aumenta ancora di più i rischi dei paesi poveri. Elemento centrale nel lavoro dell’economista statunitense è la governance: riformare la globalizzazione è una questione politica. Alla politica spetta il compito di attuare quelle riforme e quegli interventi necessari affinché la globalizzazione aiuti e non contrasti lo sviluppo. L’obiettivo di Stiglitz è una globalizzazione democratica. Per raggiungerla è necessario qualificare i lavoratori e puntare sull’istruzione in modo tale da “resistere alla competizione globale”, ma inoltre è necessario risolvere il problema del deficit della democrazia all’interno degli organi internazionali, che restano in mano a potentati politico-economici. 105 Stiglitz, in conclusione, individua vari elementi di un “contratto sociale globale” tra i paesi ricchi e i paesi poveri: - L’impegno da parte dei paesi sviluppati a lavorare nella direzione di un regime commerciale più equo che davvero promuova lo sviluppo - Un nuovo modo di intendere la proprietà intellettuale e la promozione della ricerca che riconosca l’assoluta necessità dei paesi in via di sviluppo di accedere alle conoscenze, di potersi procurare i farmaci salvavita a prezzi abbordabili e di vedersi riconosciuto il diritto a tutelare le conoscenze tradizionali - L’impegno, da parte dei paesi sviluppati, a retribuire i paesi in via di sviluppo per i loro servizi ambientali sia per la biodiversità sia per il loro contributo a risolvere il riscaldamento globale - Il riconoscimento esplicito che tutti noi condividiamo lo stesso pianeta e che il riscaldamento globale rappresenta una minaccia concreta - La conferma dell’impegno già assunto dai paesi sviluppati di fornire ai paesi poveri aiuti finanziari in ragione dello 0,7% del Pil - L’ampliamento a un maggior numero di paesi dell’accordo raggiunto nel giugno 2005 per il condono del debito. - Riforme dell’architettura finanziaria globale finalizzate a limitare l’instabilità attraverso soprattutto ad una riforma del sistema di riserva globale - Una serie di riforme giuridiche ed istituzionali volte a limitare il potere di mercato delle varie imprese multinazionali a livello internazionale - I paesi sviluppati dovrebbero impegnarsi concretamente a rinunciare a tutte quelle procedure che minacciano la democrazia, adoperandosi invece per promuoverla. In particolare, dovrebbero adoperarsi sul fronte del commercio di armi, del segreto bancario e della corruzione. Fondamentale per dare vita ad uno sviluppo reale è, per Stiglitz, ridurre il gap di democraticità dovuto al ritardo della politica sull’economia. Non c’è vero sviluppo senza democrazia. 106 CAPITOLO QUINTO: La fine della crescita “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in una società finita è un folle, oppure un economista” Serge Latouche Questo capitolo, dal titolo provocatorio, pone al centro del problema dello sviluppo il rapporto tra crescita economica e l’ecosistema in cui viviamo. Attraverso il contributo di vari autori si cercherà di affrontare i rapporti tra lo sviluppo economico e la sostenibilità ambientale. La letteratura sui “limiti ecologici dello sviluppo” è molto amplia e complessa e, proprio per questi motivi, in questo capitolo, si cercherà di riassumere le varie teorie prendendo vari autori come esempi. Affondando la tematica dello sviluppo ci si è resi conto che l’importanza delle tematiche ambientali hanno investito la teoria economica rivoluzionandone le basi. In questo capitolo si affronterà proprio questo impatto rivoluzionario delle teoria che coniuga ecologoia ed economia. Il primo autore “rivoluzionario” che si incontrerà può essere tranquillamente considerato il padre della bioeconomia: Nicholas Georgescu- Roegen. Il merito più grande di questo autore è, come si vedrà nel primo paragrafo, di aver immerso la scienza economica nel mondo fisico, considerando la portata ecologica dell’ambiente. Attraverso la sua opera si introdurrà il concetto di sviluppo sostenibile attraverso l’opera di Herman Daly che ha contribuito in modo determinate al concetto di sviluppo sostenibile, introducendo interessanti ragionamenti sullo “stato stazionario”. Dopo questi contributi di due economisti molto importanti per tutta l’economia inserita nell’ecologia ci si soffermerà sul contributo recente di Jeremy Rifkin che analizza il problema dello sviluppo ponendo particolare attenzione al “problema energetico”. Gli ultimi paragrafi saranno dedicati alle critiche più radicali 107 dell’economia dello sviluppo, cioè all’opera di Serge Latouche e Gilbert Rist. Il primo basandosi sugli scritti di Georgescu - Roegen e sulla sua impostazione “antropologica” fornisce una teoria che nega lo sviluppo stesso proponendo modelli basati sulla decrescita. Il secondo pone la sua critica sulla pretesa universalità del concetto stesso di sviluppo. Con Latouche e Rist si giunge alla conclusione di questo “viaggio” attraverso i vari modelli e paradigmi dello sviluppo, dalla crescita allo sviluppo sostenibile. 108 La bioeconomia di Goergescu – Roegen L’economista rumeno Nicholas Georgescu – Roegen è il padre fondatore di una teoria che sconvolge nelle fondamenta la teoria economica. Secondo l’interpretazione dei cultori della decrescita (vedi Latouche) l’opera di Georgescu – Roegen è basilare per comprendere le basi della “nuova” società della decrescita. L’economista rumeno è stato il primo a presentare la decrescita come una conseguenza invitabile dei limiti imposti dalle leggi di natura. Se vogliamo comprendere per quali ragioni il modo tradizionale di fare economia, teorizzato dagli economisti neoclassici, non è sostenibile, dobbiamo partire dalla teoria bioeconomica. In polemica con l’economia ecologica di Daly (vedi paragrafo successivo), che può essere considerata come un compromesso tra la bioeconomia e l’economia tout court, Georgescu – Roegen nega categoricamente che possa esistere uno sviluppo sostenibile o durevole, ricercando un’economia giusta e compatibile con le leggi fondamentali della natura. (Bonaiuti, 2003). La critica dell’economista rumeno ruota attorno a due punti fondamentali, che richiamerò brevemente. 1) Teoria della produzione e prima legge della termodinamica La teoria tradizionale della crescita economica è basata su una funzione aggregata di produzione neoclassica del tipo: Q = A f (K, L, R). Ciò significa essenzialmente che la produzione (Q) cresce al crescere della quantità di lavoro (L), dello stock di capitale (K) e del progresso tecnologico (A). Soprattutto essa assume che sia possibile produrre un qualsiasi quantità di prodotto, (Q0) riducendo a piacimento le risorse naturali (R), purché venga aumentato sufficientemente lo stock di capitale. In altre parole, la teoria neoclassica assume completa sostituibilità fra risorse naturali e capitale fabbricato dall'uomo. Ciò significa che, come ha affermato il premio Nobel per l’economia Robert Solow “non c'è in linea di principio alcun problema, il mondo può, in effetti, andare avanti senza risorse naturali”. (Solow, 1977, p.11)1 E' possibile dimostrare, tuttavia, che tale assunzione viola le leggi della termodinamica. Se, come affermano i neoclassici, la 1 In Bonaiuti (2003 p.35) 109 funzione di produzione altro non è che una ricetta, Solow implicitamente afferma che sarà possibile, riducendo la quantità di farina, cuocersi una pizza più grande semplicemente utilizzando un forno tecnologicamente più avanzato, oppure due cuochi al posto di uno. Com'è evidente, questa formulazione semplicemente non rispetta il bilancio dei materiali: un modo diverso di leggere la prima legge della termodinamica. Questo errore si spiega con la pretesa, tipicamente neoclassica, di estendere a tutti i fattori della produzione quella sostituibilità che esiste solo tra capitale e lavoro.La prima legge della termodinamica sancisce, in conclusione, che il flusso di materia che “entra” nel processo economico coincide necessariamente con il flusso di scarti che ritroviamo in uscita (beni prodotti + rifiuti). In generale, dunque, la produzione di quantità crescenti di beni e servizi implicano l’utilizzo di quantità maggiori di materie prime ed energia e, pertanto, un più incisivo impatto sugli ecosistemi. 2) Degradazione entropica e limiti alla crescita Anche il secondo principio della termodinamica, o legge di entropia, ha rilevanti conseguenze per il processo economico. Secondo Georgescu-Roegen, infatti, ogni attività produttiva comporta l'irreversibile degradazione di quantità crescenti di materia ed energia. Essendo la biosfera un sistema chiuso (scambia energia, ma non materia con l'ambiente), ne discendono due importanti conclusioni per l'economia: l'obiettivo fondamentale del processo economico, la crescita illimitata della produzione (e dei redditi), essendo basato sull'impiego di risorse non rinnovabili, finirà inevitabilmente per esaurire le basi energetiche e materiali su cui si fonda. Esso, pertanto, va abbandonato o, comunque, radicalmente rivisto. L'evidenza empirica accumulatasi negli ultimi trent'anni è del resto, a questo proposito, robusta e concorde. La decrescita, auspicata da Georgescu – Roegen, quantomeno nel lungo periodo, assume dunque i tratti di una necessità ecologica. La seconda conclusione è di natura metodologica: la rappresentazione pendolare del processo economico, presentata in apertura di ogni manuale di economia, secondo la quale la domanda stimola la produzione e quest'ultima fornisce il reddito necessario ad alimentare nuova domanda, in un processo reversibile e apparentemente in grado 110 di riprodursi all'infinito, andrà sostituita da una rappresentazione circolare ed evolutiva, in cui il processo economico risulti radicato nell'ambiente biofisico che lo sostiene. Questa revisione epistemologica, oltre a ricordarci l'inevitabile carattere fisico, materiale di ogni processo economico, riportando la scienza economica dalle rarefatte atmosfere della matematica all'universo concreto del vivere quotidiano, fornisce un imprescindibile carattere transdisciplinare alla “nuova economia”. L'idea fondamentale di molti economisti è che il progresso tecnologico consentirà, come già avvenuto in passato, di "oltrepassare i limiti,” giungendo a produrre quantità crescenti di beni con un uso sempre minore di materia ed energia. Questo fenomeno è noto in letteratura come dematerializzazione del capitale. Naturalmente l’innovazione tecnologica sarà favorita da un ritmo accelerato di crescita economica. Ecco dunque che crescita e progresso tecnologico vengono a formare un binomio inscindibile e, paradossalmente, la sola possibile soluzione della crisi ecologica. Resta dunque la domanda fondamentale: è vero che il progresso tecnologico comporta una riduzione dell’impatto sugli ecosistemi e in particolare sui consumi di materia ed energia? “E' certamente corretto affermare che le tecnologie informatiche e, più in generale, le cosiddette nuove tecnologie, siano capaci di produrre reddito con un minore impiego di risorse naturali. Tuttavia, mentre i consumi di numerose risorse per unità di prodotto sono effettivamente diminuite nei paesi più avanzati, i consumi assoluti di risorse continuano ad aumentare.”(Bonaiuti, 2003, p.38-39) Si conclude che il progresso tecnologico non riduce il consumo di energia e quindi non risolve i problemi “ecologici” sollevati precedentemente. La bioeconomia si fonda su un modello di stock e flussi: gli stock sono essenzialmente di tre tipi: capitale naturale (ecosistemi), capitale economico (impianti), forza lavoro (intesa come lavoro organizzato). A differenza dei flussi, che vengono trasformati nell’ambito del processo di produzione, gli stock, in quanto sistemi autopoietici, sono ancora presenti e quindi riconoscibili al termine del processo. La teoria tradizionale della produzione assume che le quantità prodotte dipendano unicamente dai flussi in input e dalla tecnologia impiegata. In questo modo si trascura il ruolo fondamentale giocato dagli stock, ossia dai sistemi, sia di natura biologica (la biosfera ed i suoi sottosistemi) che di natura economica e sociale 111 (impianti, strutture formali e informali di organizzazione del lavoro) nell’ambito del processo di produzione. Il punto fondamentale è che questi sistemi richiedono continui apporti di materia/energia (e lavoro) per mantenersi “in condizioni di efficienza”. Le organizzazioni produttive hanno degli input e degli output. Queste strutture, come noto, si mantengono lontano dall’equilibrio termodinamico grazie a continui apporti di energia provenienti dall’esterno del sistema (input) e producono scarti (output). Tali strutture (stock) necessarie alle economie avanzate per produrre innovazione tecnologica (imprese multinazionali, centri di ricerca, burocrazie, sistemi di trasporto, ecc.) richiedono enormi flussi di materia/energia (e lavoro), non solo, e non tanto, per produrre benessere, quanto, innanzitutto, per mantenere se stesse La mancata considerazione di questi rapporti esterni del sistema economico non ci fa comprendere fino in fondo quando abbiamo una creazione di benessere o una vera e propria perdita. Come si vedrà meglio nel paragrafo di Latouche, la decrescita prospettata da Georgescu – Roegen è qualcosa di molto più complesso. Per quanto la decrescita alluda, sul piano economico, a una riduzione complessiva delle quantità fisiche prodotte e delle risorse impiegate, essa va intesa piuttosto come una complessiva trasformazione della struttura socio-economica, politica, e dell’immaginario collettivo verso assetti sostenibili. Questo nella prospettiva di un significativo aumento, e non certo di una riduzione, del benessere sociale. Tale trasformazione presenta dunque un carattere multidimensionale. La decrescita si deve realizzare secondo quattro prospettive: ecologica, sociale, politica e “immaginativa”. Per questi argomenti rimando alla discussione del contributo di Latouche al penultimo paragrafo. 112 L’economia ecologica di Herman Daly L’economista statunitense Herman Daly ha contribuito in modo determinante alla cosiddetta economia ecologica ponendone le basi teoriche in concetti quali lo “stato stazionario” e la sostenibilità. Il concetto di “sviluppo sostenibile” è un termine che da quando è stato introdotto dal rapporto della Commissione Brundtland nel 1987 viene usato come un mantra. In quell’occasione lo sviluppo sostenibile identificava lo sviluppo che soddisfa le necessità del presente senza sacrificare la possibilità di soddisfare le necessità del futuro. Come è evidente questo concetto è abbastanza vago e crea contrapposizioni dialettiche su quanto debba essere “sostenibile” questo sviluppo. Daly distingue chiaramente crescita economica e sviluppo economico: “La potenza del concetto di sviluppo sostenibile sta nel fatto che esso riflette e al contempo richiede un cambiamento potenziale nella nostra visione di quale sia il rapporto tra le attività economiche degli esseri umani e il mondo naturale – un ecosistema che è finito, non crescente, e materialmente chiuso. La condizione per lo sviluppo sostenibile è che le richieste di tali attività nei confronti dell’ecosistema che le contiene, in termini di rigenerazione degli “input” di materie prime e di assorbimento di “output” di rifiuti, vengano mantenute a livelli ecologicamente sostenibili. Questo cambiamento di visione comporta la sostituzione del modello economico dell’espansione quantitativa (crescita) con quello del miglioramento qualitativo (sviluppo) quale sentiero del progresso futuro” (Daly, 2001, p. 3). L’economia dello sviluppo, per l’economista americano, deve essere progettata senza la crescita in modo molto più completo e complesso. Il concetto – chiave dell’argomentazioni di Daly è quello di “stato stazionario” a cui ha dedicato anni di lavoro. A differenza dell’economia neoclassica il concetto di stazionarietà era già presente nel lavoro di alcuni classici come Mill. “A differenza di quella degli economisti classici, la teoria economica standard (neoclassica) attuale parte da parametri non fisici (tecnologia, preferenze, distribuzione del reddito sono presi come dati) e indaga il modo in cu variabili fisiche, e cioè la quantità di beni prodotte e di risorse utilizzate, devono modificarsi per soddisfare un equilibrio (o un 113 tasso di crescita di equilibrio) determinato da parametri non fisici. Le condizioni qualitative, non fisiche, sono date e le grandezze quantitative, fisiche, vi si devono adattare. Nella teoria neoclassica tale “aggiustamento” comporta quasi sempre crescita economica. Il nuovo paradigma oggi emergente (stato stazionario, sviluppo sostenibile), tuttavia, parte da parametri fisici (un mondo finito, complesse interrelazioni ecologiche, le leggi delle termodinamica) e indaga il modo in cui le variabili non fisiche – tecnologia, preferenze, distribuzione e stili di vita – possono essere condotte a un equilibrio praticabile e giusto con il complesso sistema biofisico di cui siamo parte. […]. Questo paradigma emergente assomiglia molto di più all’economia classica che non a quella neoclassica, per il fatto che l’aggiustamento avviene attraverso lo sviluppo qualitativo e non la crescita quantitativa.”(2001, p.7). Avendo appreso l’insegnamento di Goergescu – Roegen e avendone “eliminato” le posizioni più radicali (vedi paragrafo precedente) Daly è assolutamente convinto che l’economia sia un sottosistema dell’ambiente e che esso dipenda dall’ambiente sia come fonte di input di materie prime sia come bacino ricettivo per gli output di rifiuti: “A meno che non sia supportata dalla visione preanalitica dell’economia come sottosistema, l’intera idea di sviluppo sostenibile – di un sottosistema sostenuto da un sistema più ampio di cui deve rispettare limiti e capacità – non ha alcun senso.” (2001, p.11). A luce di tutto ciò la “crescita sostenibile” non ha nessun senso, risultando un grande e contraddittorio ossimoro. Lo sviluppo sostenibile implica uno spostamento da un’economia della crescita ad un’economia di stato stazionario. Come si è già visto lo “stato stazionario”, cioè l’assenza di crescita economica, era già stato al centro del lavoro di un grande economista come Stuat Mill. Secondo il filosofo ed economista inglese, il prezzo pagato dalla società e dagli individui per continuo aumento della ricchezza materiale è molto alto in termini di qualità della vita, della possibilità di coltivare la crescita intellettuale e morale e di evitare la distruzione della natura. Come si esprime l’autore nel 1848: “Confesso che non mi piace l’ideale di vita di coloro che pensano che la condizione normale degli uomini sia quella di una lotta per andare avanti; che l’urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri, che rappresenta il modello esistente della vita sociale, sia la sorte 114 maggiormente desiderabile per il genere umano, e non piuttosto uno dei piùtristi sintomi di una fase del processo produttivo”. Inoltre aggiunge nel 1857: “Non posso.. considerare lo stato stazionario del capitale e della ricchezza con la palese avversione così generalmente manifestata verso di esso dagli economisti della vecchia scuola. Sono propenso a credere, in complesso, che esso rappresenterebbe un notevolissimo miglioramento rispetto alle nostre condizioni attuali”(Daly, 1981, p.22). Per capire cosa intenda Daly per sostenibilità e stato stazionario è bene partire dal suo “esempio del battello”: “l’internalizzazione delle esternalità è una buona strategia per adattare ottimamente l’allocazione di risorse, facendo sì che i prezzi relativi rappresentino, in modo più appropriato, i costi marginali sociali relativi. Ma ciò non rende il mercato capace di fissare i propri confini fisici assoluti con l’ecosistema più allargato. Per fare un’analogia: uno stivaggio appropriato distribuisce il peso nel battello in modo ottimale, così da massimizzare il carico trasportato. Ma c’è ancora un limite assoluto a quanto peso un battello possa trasportare, anche se questo è sistemato in modo ottimale. Il sistema dei prezzi può distribuire il peso regolarmente, ma, a meno che non sia integrato da un limite assoluto esterno, continuerà a distribuire uniformemente il peso addizionale fino a che il battello, caricato in modo opportuno, affonda”.(Daly, 1994) In altre parole, la capacità della Terra è limitata: l’economia non può non accettare i vincoli biofisici assoluti che il sistema termodinamico chiuso su cui viviamo comporta. Per definire lo stato stazionario, Daly parte dal primo principio della termodinamica e cioè dal fatto che l’energia e la materia non possono essere né create né distrutte, ma solo trasformate: “l’uomo trasforma le materie prime in merci e le merci in rifiuti.” Prende poi in considerazione il secondo principio della termodinamica e l’entropia per definire i vincoli e i flussi di un “sistema aperto” in stato stazionario o in equilibrio biofisico con l’ambiente esterno. Daly individua nel secondo principio e nell’entropia la coordinata fisica fondamentale della scarsità: “se non fosse per la legge dell’entropia, non ci sarebbe alcuna perdita; potremmo bruciare lo stesso litro di benzina in eterno, e il nostro sistema economico non avrebbe alcun rapporto con il resto del mondo della natura”. Si arriva così alla definizione di economia in stato stazionario: “un’economia con “stock” costanti di persone e prodotti, mantenuti a livelli desiderati, sufficienti, con 115 bassi tassi di “throughput”3 di manutenzione, cioè, con i flussi più bassi possibile di materia e di energia dal primo stadio di produzione (sfruttamento di materiali a bassa entropia ottenuti dall’ambiente) all’ultimo stadio di consumo (inquinamento dell’ambiente con scorie e nuovi materiali ad alta entropia)”e aggiunge:“se usiamo il termine crescita per indicare un cambiamento quantitativo e il termine sviluppo per riferirsi a una modifica qualitativa, allora possiamo dire che l’economia in stato stazionario si sviluppa ma non cresce, proprio come la Terra, di cui l’economia umana è un sottosistema. Una ricchezza sufficiente, mantenuta e allocata efficientemente, distribuita in modo equo - e non per massimizzare la produzione costituisce il giusto fine economico” (Daly, 1981, p.26). L’economista americano sottolinea come l’economia dello stato stazionario assuma il concetto di “livello sufficiente degli stock”, un’ipotesi assente e contraddittoria nei modelli del paradigma della crescita. I valori etici e i vincoli biofisici trovano così la loro convergenza nell’economia in stato stazionario o in equilibrio biofisico, il cui sviluppo teorico ha portato - dieci anni dopo la sua formulazione - alla messa a punto del concetto di sviluppo sostenibile. Daly ritiene che il passaggio ad un’economia stazionaria sia desiderabile perché uno dei meriti di questo cambiamento sarebbe quello di ricollocare la scienza economica in quel continuo tra mezzi e fini: “gli economisti non parlano mai del Fine Ultimo, neppure dei mezzi primari. L’attenzione degli economisti è completamente concentrata sul campo medio di tale spettro allocando mezzi intermedi dati (lavoro, prodotti) per il raggiungimento di determinati fini intermedi (cibo, benessere, istruzione, etc..). Questa focalizzazione limitata è stata la fonte della maggior parte della confusione sorta a proposito della crescita economica.” (1981, p.28). La mancanza di considerazione dei fini da parte degli economisti è dovuto ad un volontario isolamento dell’economia dall’etica e dalla tecnica. 3 Esso può essere definito come un flusso antropico di sfruttamento – inquinamento composta da materia ed energia che proviene dalle fonti della natura, attraversa l’intera economia umana, ritorna agli scarichi della natura ed è necessario alla manutenzione e al rinnovo degli stock. 116 L’economista americano si concentra sulla insanabile distanza tra l’economia e i mezzi primari o il loro tasso di utilizzazione. La distanza tra un’economia “intermedia” è le basi stesse del mondo fisico (e le sue leggi). Secondo Daly “la natura del Fine Ultimo limita, infatti, la desiderabilità di una continua crescita economica, mentre la natura dei mezzi primari ne limita la possibilità.” (p.31). L’autore si concentra, come si è visto, soprattutto sul primo problema dimostrando che la scarsità assoluta rende impossibile, a un certo momento, la crescita e l’ulteriore soddisfacimento di bisogni relativi, che si autoneutralizzano, rende la crescita inutile o indesiderabile. Interessante è il rapporto, evidenziato dall’economista americano, tra la povertà e la crescita: “Il permanere di bisogni assoluti insoddisfatti tra i poveri è un argomento più a favore della ridistribuzione che di un’ulteriore crescita. Qualora quest’ultima fosse rivolta, fondamentalmente, al soddisfacimento dei bisogni relativi dovrebbe fronteggiare un grave dilemma. Se il prodotto che risulta dalla crescita complessiva è distribuito equamente allora il soddisfacimento dei bisogni relativi è cancellato perché nessuno può migliorare la propria posizione relativamente a quella degli altri. Per evitare tale risultato, coloro che stanno relativamente meglio devono migliorare la propria posizione, cioè deve aumentare la disuguaglianza. Dopo un certo punto, la crescita rivolta al soddisfacimento dei bisogni relativi deve sfociare in una crescente inutilità, o in una crescente disuguaglianza oppure in una combinazione di entrambe le situazioni”(p.62). L’allontanamento, già incontrato nei capitoli precedenti, dell’economia dall’etica, e quindi dai principi morali e dai fini può essere ricucito da un’economia dello stato stazionario che è basata su principi morali quali l’umiltà, l’olismo e il sapersi accontentare. Daly individua, più precisamente, tre limiti biofisici alla crescita: esauribilità, entropia ed interdipendenza ecologica. “L’economia, nella sua dimensione fisica, è un sottosistema aperto del nostro ecosistema finito e chiuso, che agisce sia come fonte delle sue materie a basso livello di entropia sia come bacino ricettivo dei suoi rifiuti ad alto livello di entropia.” (Daly, 2001, p.46). Alla luce di ciò, la crescita del sistema economico è limitata dalla dimensione fissa dell’ecosistema che lo ospita 117 (esauribilità), dal livello di scambio entropico (entropia) e dalle complesse connessioni ecologiche che diventano sempre più complesse al crescere del sottosistema economico (interdipendenza ecologica). Per l’economista americano esistono, come si è visto, anche dei limiti etico-sociali che lui riassume secondo quattro proposizioni: 1. La desiderabilità della crescita finanziata attraverso la riduzione del capitale geologico è limitata dal costo imposto alle generazioni future 2. La desiderabilità della crescita finanziata attraverso il processo di appropriazione degli habitat è limitata all’estinzione o riduzione nel numero delle specie non umane sensibili il cui habitat sparisce 3. La desiderabilità della crescita aggregata è limitata dai suoi medesimi effetti distruttivi sul benessere 4. La desiderabilità della crescita aggregata è limitata dagli effetti corrosivi sugli standard morali che derivano da quegli stessi comportamenti che promuovono la crescita, come la glorificazione dell’interesse individuale e una visione del mondo scientistica – tecnocratica Daly individua tra strategie alternative per integrare l’economia e l’ecosistema: 1. La prima è l’ “imperialismo economico” in cui l’economia si espande fino ad includere il sistema globale: tutto è economia e tutto ha un prezzo. 2. La seconda prevede di contrarre i confini dell’economia fino ad annullarli, in modo tale che tutto sia ecosistema: il riduzionismo ecologico. 3. La terza strategia è alternativa ad entrambe e prevede che l’economia continui ad essere considerato un sottosistema dell’ecosistema evitando i pericoli dell’imperialismo e del riduzionismo ecologico. Le nuove teorie dello sviluppo sostenibile e dell’“economia ecologica” ci pongono ora davanti un nuovo paradigma: non più un’economia basata su due parametri, il lavoro e il capitale, ma un’economia ecologica che riconosce l’esistenza di tre parametri, il lavoro, il “capitale naturale” e il “capitale prodotto dall’uomo”. Si intende per capitale naturale l’insieme dei sistemi naturali (mari, fiumi, laghi, foreste, flora, fauna, territorio), ma anche i prodotti agricoli, i prodotti della pesca, della caccia e della raccolta e il patrimonio artistico-culturale presente nel territorio, si vede come sia fondamentale oggi investire in questa direzione. 118 Herman Daly abbandona così le certezze dell’economia classica e il determinismo della“mano invisibile del mercato” affrontando il tema della complessità ecologica in questi termini: “Vi sono due modi per conservare il capitale: mantenere costante in aggregato 1) la somma del capitale creato dagli essere umani e del capitale naturale, oppure 2) ciascuna delle componenti del capitale”.(Daly, 2001, p.104) La prima strada è ragionevole qualora si pensi che i due tipi di capitale siano sostituibili l’uno all’altro. In quest’ottica è completamente accettabile il saccheggio del capitale naturale fintantoché viene prodotto dall’uomo un capitale di valore equivalente. Il secondo punto di vista è ragionevole qualora si pensi che il capitale naturale e quello prodotto dall’uomo siano complementari. Ambedue le parti devono quindi essere mantenute intatte (separatamente o congiuntamente ma con proporzioni fissate) perché la produttività dell’una dipende dalla disponibilità dell’altra. La prima strada è detta della “sostenibilità debole”, la seconda è quella della “sostenibilità forte”. Il capitale naturale e quello prodotto dall’uomo sono fondamentalmente complementari e, solo marginalmente, si possono considerare intercambiabili. Quindi è la sostenibilità forte il concetto rilevante, anche se la sostenibilità debole è un utile primo passo avanti. La strada da percorre per raggiungere lo sviluppo sostenibile è investire sul capitale naturale, dato che è la risorsa più scarsa, detto anche fattore limitante. Sviluppo sostenibile significa quindi investire nel capitale naturale e nella ricerca scientifica sui cicli biogeochimici globali che sono la base stessa della sostenibilità della biosfera. Infatti secondo Daly se accettiamo il fatto che il capitale naturale e quello prodotto dall’uomo sono complementari e non possono sostituirsi l’uno all’altro, cosa ne consegue? Ne consegue che se i fattori sono complementari allora quello in minore quantità sarà un fattore limitante. Se i due fattori sono intercambiabili allora nessuno dei due può essere un fattore limitante perché la produttività dell’uno non dipende dalla disponibilità dell’altro. L’idea che o il capitale naturale o quello prodotto possano essere dei fattori limitanti non può scaturire se si continua a pensare che i due si possano sostituire a vicenda. Una volta che ci siamo resi conto che sono complementari dobbiamo domandarci quale dei due sia il fattore limitante, cioè quale sia disponibile in minor misura. Il precedente ragionamento implica la tesi che: il 119 Mondo sta passando da un’era in cui il fattore limitante era il capitale prodotto dall’uomo ad un’era in cui il fattore limitante è quel che rimane del capitale naturale. (Tiezzi, 1999). L’economista americano propone quattro suggerimenti operativi alla Banca Mondiale per promuovere lo sviluppo sostenibile: 1. Smettere di contabilizzare il consumo di capitale naturale come produzione di reddito 2. Ridurre le tasse sul lavoro e sul reddito, e aumentare quelle sul consumo di risorse naturali 3. Massimizzare la produttività del capitale naturale nel breve periodo, e investire per aumentarne l’offerta nel lungo periodo 4. Allontanarsi dall’ideologia dell’integrazione economica globale guidata dal libero scambio, della libera mobilità dei capitali e della crescita trainata dall’esportazioni, e muoversi invece verso un’ottica più nazionalista che tenti di sviluppare la produzione interna per il mercato interno come prima opzione, lasciando il ricorso al commercio internazionale solo per i casi in cu è davvero molto più efficiente. Soffermandosi sull’ultimo punto, Daly adotta una posizione fortemente critica nei confronti di questa globalizzazione basata sul libero scambio: “Il libero scambio, la specializzazione e l’integrazione globale fanno si che i paesi non siano più liberi di non commerciare. E tuttavia la libertà di non partecipare a scambi commerciali è assolutamente necessaria per assicurare che il commercio rimanga mutuamente vantaggioso. La produzione per il mercato nazionale dovrebbe essere il cane ed il commercio internazionale la sua coda. Ma i fautori del libero-scambio vorrebbero annodare insieme le code dei cani così strettamente da far si che il nodo delle code scodinzoli i cani. I fautori della globalizzazione vedono tutto ciò come un balletto canino dall’armoniosa coreografia. E’ più probabile che abbia invece come risultato un feroce combattimento multilaterale di cani, e gravi conflitti di classe all’interno dei singoli paesi.” (p.220) 120 L’economia all’idrogeno: Jeremy Rifkin L’economista americano si è occupato dei rapporti tra biotecnologie ed economia evidenziando soprattutto il problema energetico e l’entropia del sistema. Rifkin è convinto che le priorità siano il problema energetico, legato al petrolio, e il surriscaldamento globale, legato all’entropia. Questi due ostacoli a qualsiasi forma di sviluppo devono condurre la civiltà ad una grande rivoluzione energetica verso l’idrogeno. L’economista americano non si riferisce, come Daly, al generico sistema fisico a pone al centro del suo ragionamento un problema che ritiene principale cioè l’energia. In uno dei suoi più famosi scritti (Rifkin, 2004) l’economista americano si confronta con la realtà dei limiti fisici del mondo e con l’entropia ponendo l’uomo verso le due più grandi sfide contemporanee: il riscaldamento del globo e la scarsità delle risorse. A questi problemi Rikfin contrappone un modello di economia e di sviluppo basata sull’idrogeno. Rifkin parte dalla constatazione che gli Usa hanno raggiunto il cosiddetto picco della produzione petrolifera nazionale già nel 1970 dove per picco della produzione s’intende l’aver estratto la metà delle riserve stimate disponibili. Anche la produzione mondiale di petrolio si avvia velocemente a raggiungerlo e da questo fatto discenderebbero due importanti problemi. Prima di tutto: “anche se gli esperti non concordano sul momento in cui la produzione mondiale raggiungerà il picco, sono tuttavia unanimi nel ritenere che, quando ciò accadrà, la quasi totalità delle riserve petrolifere mondiali ancora sfruttabili sarà nelle mani di alcuni paesi musulmani, con un conseguente potenziale pericolo per l’attuale equilibrio di potere nel mondo” e poi “se la produzione mondiale di petrolio e di gas naturale raggiungesse il picco cogliendo il mondo impreparato, gli Stati e le aziende energetiche deciderebbero di sfruttare, come sostituti del petrolio, anche idrocarburi meno “puliti”, come carbone, olio combustibile e sabbie bituminose. Il ricorso a questi combustibili comporterebbe un incremento delle emissioni di CO2 nell’atmosfera, e, di conseguenza, un surriscaldamento della terra addirittura superiore alla già preoccupante stima di un valore oscillante tra 1,5 e 5,8 °C da qui 121 alla fine del ventiduesimo secolo, con ricadute sulla biosfera ancora più devastanti di quelle già previste.” (Rifkin, 2002, p.8) Egli vede come potenzialmente pericoloso e destabilizzante il fatto che le risorse energetiche residue siano localizzate soprattutto nei paesi del Golfo Persico; inoltre si preoccupa dell’impatto ambientale ancora più devastante che l’uso incontrollato dei combustibili fossili più tradizionali avrebbe sul pianeta se questi fossero impiegati accanto al petrolio. E’ la premessa dalla quale Rifkin parte per dare alla questione energetica una risposta alternativa all’uso del petrolio, basata sull’idrogeno. In questo si può individuare il lucido punto di vista di un economista che si pone il problema della sostenibilità ambientale dell’attuale processo di accumulazione fondato su una produzione complessivamente crescente di merci che richiede ovviamente un consumo di energia altrettanto crescente. Egli si rende conto, superando gli interessi specifici di questo o quel settore economico, il sistema economico sta giungendo a una fase critica data dal rapido esaurimento delle risorse petrolifere e che diviene necessario e urgente cercare, con indirizzi di politica economica e con adeguati investimenti, strade alternative di approvvigionamento energetico svincolate dagli attuali limiti quantitativi e geografici dei pozzi petroliferi. Rifkin propone una rivoluzione energetica perché, come si vedrà, essa porta anche ad una rivoluzione “culturale” e politica. Continua poi mostrando che ogni precedente civiltà, ad esempio quella di Roma antica, quando non ha saputo risolvere la propria crisi energetica ha dovuto subire un inesorabile e tragico declino. L’economista americano fa discendere dalla crisi energetica la decadenza di un sistema economico e quindi di quella che lui chiama una civiltà. In ogni caso, per Rifkin il problema si sta riproponendo. Egli lo evidenzia facendo vedere come l’odierna globalizzazione è potuta avvenire per la possibilità di consumare a basso costo crescenti quantità di energia ricavata dal petrolio. Anzi tutta la storia del capitalismo dell’ultimo secolo, prima la lotta per il carbone, poi per il petrolio, è la storia della lotta per il controllo delle fonti energetiche. Chi le ha governate si è assicurato delle ricchezze incommensurabili, chi invece non ha potuto disporne, i paesi arretrati ad esempio, ha dovuto subire un progressivo indebitamento e depauperamento. Detto questo egli pone una questione: “la nostra vulnerabilità è particolarmente elevata a causa di un’infrastruttura energetica molto centralizzata e 122 gerarchizzata, e alla struttura economica che ne deriva, creata per gestire un regime energetico fondato sui combustibili fossili… Gli enormi costi associati alla lavorazione del carbone, del petrolio e del gas naturale richiedono ingenti investimenti di capitale e portano alla formazione di colossali imprese energetiche. Attualmente, otto mega-aziende — pubbliche e private — dettano i termini del flusso dell’energia attraverso il mondo.” (p.9) In questa situazione Rifkin scorge i punti critici del sistema:”oggi, però, l’infrastruttura creata per sfruttare i combustibili fossili e gestire l’attività industriale comincia a invecchiare e a mostrare segni di cedimento. Si aprono crepe ovunque… Alcuni geologi stanno già ipotizzando scenari di crollo del sistema. Non essere preparati a ciò che potrebbe accadere - affermano i più catastrofisti - sarebbe un’imperdonabile follia.” (p.12) Ecco che si giunge al cuore del problema cioè il trapasso dall’era del petrolio a un’era nuova fondata sull’uso dell’idrogeno come fonte di energia. Si tratta, afferma l’autore, di una vera e propria nuova rivoluzione perché l’idrogeno è praticamente inesauribile ed è una fonte energetica pulita in quanto, non contenendo un solo atomo di carbonio, non porta ad alcuna emissione di anidride carbonica: “le fondamenta dell’economia dell’idrogeno sono già gettate. Nei prossimi anni la rivoluzione informatica e delle telecomunicazioni, associata a quella imminente dell’energia dell’idrogeno, costituirà un mix di tale potenza da riconfigurare radicalmente le relazioni umane nel corso del ventunesimo e ventiduesimo secolo.” (p.12) La soluzione al problema energetico è la cella a combustibile alimentata a idrogeno, la macchina non inquinante per la produzione di energia elettrica, sarebbe la panacea di tutti i mali. Dato che si tratta di un microimpianto installabile presso l’utente finale, essa rovescerebbe il modello energetico gerarchico e centralizzato controllato da pochi grandi potentati economici per dare luogo ad una rete fittissima, una nuova rete distribuita in tutto il mondo simile a quella del World Wide Web, di produttoriconsumatori-scambiatori di energia: “La rete energetica mondiale dell’idrogeno (HEW, Hydrogen Energy Web) sarà la prossima grande rivoluzione economica, tecnologica e sociale della storia. Si innesterà nello sviluppo della rete globale di comunicazione, avviata negli anni Novanta, e - come questo - stimolerà la nascita di una nuova cultura della partecipazione.” (p.13) 123 Quest’ultima sarà la… “base del primo regime energetico realmente democratico nella storia dell’umanità.” (p.13) Naturalmente Rifkin delinea questo processo tenendo conto di pericoli e possibilità di fallimento. Egli avverte che bisogna, perché trionfi la democrazia, che: “le istituzioni pubbliche e quelle non profit - soprattutto le società energetiche pubbliche che forniscono energia a milioni di utenti e le migliaia di cooperative senza scopo di lucro… - si facciano avanti fin dai primi stadi di sviluppo di questa rivoluzione energetica e contribuiscano a costituire in tutti i paesi le associazioni per la generazione distribuita” (p.14) In questo modo: “un regime energetico decentralizzato, fondato sull’idrogeno, offre la speranza di connettere chi non lo è e di abilitare chi è privo di ogni potere. Se questo accadesse, potremo davvero pensare a una reale possibilità di “riglobalizzazione”, questa volta partendo dal basso e con la partecipazione di tutti.” (p.15) A questo punto, per completare il percorso storico umano con un superamento delle attuali contraddizioni e con l’affermazione di una società felicemente liberata dall’oppressione, Rifkin conclude che: “la rete energetica dell’idrogeno, come la rete globale delle telecomunicazioni, permetterà di connettere ogni uomo a ogni suo simile in una matrice sociale ed economica indivisibile e interdipendente, cosicché la specie umana potrà trasformarsi in una comunità perfettamente integrata nell’ecosistema terrestre… La geopolitica disgregante, che tanto ha permeato l’era dei combustibili fossili, cederà il passo, nell’era dell’idrogeno, a un nuovo concetto di politica della biosfera.” (p.16) Interessante è quella che Rifkin definisce come democrazia all’idrogeno. Il futuro prospettato è quello di poter generare energia mediante celle a combustibile e vendere il surplus del fabbisogno con l'aiuto di Internet o di tecnologie digitali integrate nella rete di distribuzione elettrica stessa, acquisendo in tempo reale le quotazioni del gas naturale e dell'elettricità al momento della vendita. Persino gli analisti più cauti del settore prevedono che in futuro la Generazione Distribuita coprirà il 30% dell'intero fabbisogno energetico degli Stati Uniti. In realtà i problemi non mancano. Oggi una centralina di generazione basata su celle a combustibile costa circa 3000 euro al Kilowatt. Si prevede che effetti di economia 124 di scala ne ridurranno il costo fino a 500 euro al Kw nei prossimi anni, ma il fatto che queste tecnologie possano diventare competitive con le fonti tradizionali dipende dai singoli e dalle collettività, dato che i governi lungimiranti sono rari. Come si è visto, la più grande preoccupazione dell’economista americano è quella di proporre un modello alternativo di sviluppo basato su idrogeno e democrazia. Per Rifkin il problema originario è il sistema energetico: rivoluzionato quello, si rivoluziona anche il modello di sviluppo. L’economista americano non si riferisce esplicitamente ad un forte cambiamento nell’impostazione sviluppista basata sull’aumento della crescita. Rifkin, al contrario di Daly e di Latouche, non svincola il modello dello sviluppo dalla continua crescita di produzione delle merci. 125 La decrescita di Serge Latouche Serge Latouche, filosofo ed antropologo dell’economia, si pone in una posizione di assoluta critica nei confronti del concetto stesso di sviluppo. In contrasto con lo “sviluppo sostenibile” di Daly, l’autore francese fonde la bioeconomia di GoergescuRoegen e l’antropologia di Mauss, debitrice dell’impostazione di Karl Polanyi. Come si vedrà più dettagliatamente nel paragrafo successivo l‘etnocentrismo del concetto stesso di sviluppo è il primo limite del concetto stesso. Latouche si sofferma molto su questo punto e pensa che se il concetto di sviluppo indica necessariamente ciò che esso ha in comune con l'esperienza occidentale del decollo dell'economia così come si è strutturata a partire dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750 –1800 qualunque sia l'aggettivo che gli si accosti, il contenuto implicito o esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l'accumulazione del capitale, con tutti gli effetti positivi e negativi che conosciamo: competizione spietata, crescita senza limiti delle disuguaglianze, saccheggio senza ritegno della natura. Ora, il nocciolo duro che tutti gli sviluppi hanno in comune con quella esperienza è legato a "valori" che sono il progresso, l'universalismo, il dominio della natura, la razionalità quantificabile. Questi valori sui quali poggia lo sviluppo e, particolarmente il progresso, non corrispondono affatto alle aspirazioni universali profonde . Esse sono legate alla storia dell'Occidente, raccolgono poca eco nelle altre società. Al di là dei miti sui quali è basata, l'idea dello sviluppo è totalmente priva di senso e le prassi ad essa legate sono assolutamente impossibili perché impensabili. Secondo Latouche tali valori occidentali sono precisamente quelli che bisogna rimettere in discussione per trovare una soluzione ai problemi del mondo contemporaneo (e della "mondializzazione" liberale à la Truman) ed evitare le catastrofi verso le quali ci porta l'economia mondiale. È chiaro che è lo sviluppo realmente esistente quello che da due secoli domina, che ingigantisce i problemi sociali e ambientali attuali: esclusione, sovrappopolamento, povertà, inquinamenti vari ecc. Lo "sviluppismo" manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. In questo paradigma non c'è posto per il rispetto della natura reclamato dagli ecologisti né per il rispetto 126 dell'uomo rivendicato dagli umanitaristi. Lo sviluppo realmente esistente appare, dunque, nella sua verità e lo sviluppo alternativo come una mistificazione. Secondo l’economista francese, accostando al concetto di sviluppo un aggettivo (sostenibile, umano, locale, etc..), non si mette in questione l'accumulazione capitalista, al più si tratta di aggiungere un elemento sociale o una componente ecologica alla crescita economica come non molto tempo fa si è potuto aggiungervi una dimensione culturale. Se ci si concentra sulle conseguenze sociali, come la povertà, il tenore di vita, i bisogni essenziali, o sulla nocività arrecata all'ambiente, occorre evitare gli approcci olistici o globali di un'analisi della dinamica planetaria di una Megamacchina tecno-economica che è funzionale alla concorrenza senza pietà e ormai senza volto. Che si voglia o no, non si può impedire che lo sviluppo sia diverso da quello che è stato. Lo sviluppo è stato ed è l'occidentalizzazione del mondo .(Latouche, 2005) La critica del filosofo francese si concentra sulla sostenibilità dello sviluppo, sostenuta da Herman Daly, e sul cosiddetto “stato stazionario”. L’espressione “sviluppo sostenibile”, in particolare, viene accusata di essere un ossimoro. Attraverso lo “sviluppo sostenibile”, infatti, molti pretendono di mantenere costante la crescita economica senza però danneggiare l’ambiente, bensì salvaguardandolo. È chiaro dunque, per Latouche, come il concetto di sviluppo sostenibile sia una semplice trovata pubblicitaria utilizzata dalla politica su indicazione delle lobbies industriali e finanziarie, al fine di continuare a percorrere indisturbate la strada della crescita a tutto scapito dell’ambiente, quindi a svantaggio della qualità della vita della popolazione mondiale e, ancor più, delle popolazioni del sud del mondo, che, incolpevoli e impotenti, vedono depredare le loro terre e mutare i loro stili di vita. Se Daly afferma la necessita di uno sviluppo senza crescita, Latouche contesta questa opzione perché, usando le parole di Georgescu- Roegen, lo sviluppo “sostenibile” o “durevole” non può essere superato in una società della crescita. Il limite di Daly, secondo l’economista francese, è quello di non riuscire ad uscire dal paradigma dello sviluppo basato sull’accumulazione capitalistica, creando un concetto che è un vero e proprio ossimoro: “Questa posizione “casistica” [cioè lo “stato stazionario” di Daly] sottovaluta la dismisura specifica del nostro sistema. Non rinuncia né al modo di produzione, né al modo di consumo, né allo stile di vita prodotti dalla crescita 127 precedente. Ci rassegna ad un immobilismo che conserva, ma senza mettere in discussione i valori e le logiche dello sviluppismo e dell’economicismo. Di conseguenza, ci si priva dell’apporto positivo della decrescita conviviale in termini di felicità collettiva.”(Latouche, 2007, p.22). L’idea di stato stazionario ispirato da Mill è simile alla società della decrescita auspicata dal filosofo francese. Il termine decrescita non è il termine opposto di crescita (come invece è a-crescita, termine forse più corretto per descrivere il movimento vicino a Latouche) e non identifica un modello pronto per l’uso, ma è piuttosto “uno slogan che raccoglie gruppi ed individui che hanno formulato una critica radicale dello sviluppo ed interessati ad individuare gli elementi di un progetto alternativo per una politica del doposviluppo. Decrescita è dunque una proposta per restituire spazio alla creatività e alla fecondità di un sistema di rappresentazioni dominato dal totalitarismo dell’economicismo, dello sviluppo e del progresso.” (p.12) Con questo slogan ci si riferisce a qualcosa di completamente nuovo, che porti ad un cambiamento radicale della situazione attuale in cui la felicità e il benessere delle persone vengono misurate con un indice puramente economico, il Pil, che, in realtà, misura la ricchezza secondo un metro prettamente capitalistico, dimenticando che il ben-essere di un popolo non coincide con il ben-avere. Ormai è un dato di fatto che, seppur abbiamo una quantità enorme di oggetti e abbiamo prospettive di lunga vita, la nostra serenità non è maggiore di quella dei nostri genitori o dei nostri nonni e la nostra felicità, è evidente, non è direttamente proporzionale al Pil. Per Latouche una società come quella della crescita, dove la felicità promessa ai vincenti si traduce in accumulazione dei beni di consumo, in aumento dello stress, dell’insonnia, delle turbe psicosomatiche e delle malattie di ogni tipo, è una società profondamente in crisi, soprattutto se per realizzarla si deve devastare indiscriminatamente l’ambiente in cui viviamo, contribuendo ancora di più ad aumentare il nostro malessere. Più precisamente, la società della crescita non è auspicabile per tre motivi: 1- Produce enormi disuguaglianze ed ingiustizie: nel 1970 il divario di ricchezza tra il quinto della popolazione più povero e il quinto più ricco era di 1 a 30 ma nel 2004 il rapporto era di 1 a 74. 128 2- Crea un benessere illusorio: l’aumento del livello di vita delle società del Nord crea un paradosso perché non si contano i costi (ambientali, sociali, etc) che questi tenori di vita causano. 3- Sviluppa un “antisocietà” malata della sua ricchezza e in fin dei conti poco armoniosa per gli stessi ricchi: la ricchezza ha un carattere più patologico della povertà. La frenetica ricerca di beni di consumo si traduce in una aumento dello stress, dell’insonnia e delle turbe psicosomatiche. All’aumento della crescita corrisponde un aumento del disagio individuale. Di conseguenza, la società della decrescita è per il filosofo francese una società che deve innanzitutto ristabilire le sue priorità, basandosi sul ben-essere ed eliminando tutti quei valori che hanno un effetto negativo sulla serena sopravvivenza umana; una società che torni a vivere la dimensione locale, riscoprendo una vita più sobria e frugale, quasi di sussistenza, all’interno della propria comunità in cui il valore principale è la solidarietà. Il tutto nel totale rispetto dell’ambiente, senza per questo dover arretrare e regredire ad uno stato primitivo, verso il quale, anche volendo, è impossibile rivolgere lo sguardo. Il percorso da compiere per arrivare alla decrescita, come si è visto, non passa per presunte scorciatoie quali lo sviluppo sostenibile o alternativo, che in realtà sono ingannevoli, ma punta inequivocabilmente ad abbandonare il modello capitalista, che per la sua esistenza pretende la crescita senza limiti. Per Latouche, la decrescita dovrebbe, quindi, essere organizzata non soltanto per preservare l'ambiente ma anche per ripristinare il minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sembrano dunque strettamente legate. I limiti del patrimonio naturale non pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità, ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri attualmente viventi dell'umanità. La decrescita non significa un immobilismo conservatore. Organizzare la decrescita significa, in altre parole, rinunciare all'immaginario economico, vale a dire alla credenza che di più è uguale a meglio. Il bene e la felicità possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire di 129 rapporti sociali conviviali in un mondo sano può ottenersi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura con una certa austerità nel consumo materiale. La parola d'ordine della decrescita ha soprattutto come fine il segnare con fermezza l'abbandono dell'obiettivo insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui movente non è altro che la ricerca sfrenata del profitto per i detentori del capitale. Evidentemente, non si prefigge un rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel raccomandare la decrescita per la decrescita. In particolare, la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita sprofonda le nostre società nel disordine con riferimento alla disoccupazione e all'abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Allo stesso modo non c'è cosa peggiore di una società lavoristica senza lavoro e, peggio ancora, di una società della crescita senza crescita. La decrescita è dunque auspicabile soltanto in una "società di decrescita". Ciò presuppone tutt'altra organizzazione in cui il tempo libero è valorizzato al posto del lavoro, dove le relazioni sociali prevalgono sulla produzione e sul consumo dei prodotti inutili o nocivi. La riduzione drastica del tempo dedicato al lavoro, imposta per assicurare a tutti un impiego soddisfacente, è una condizione preliminare. Latouche sembra coniugare perfettamente l’insegnamento di Karl Polanyi con la bioeconomia di Georgescu- Roegen unendo la critica “antropologica” al capitalismo con la critica “ecologica”. La sua proposta è una rivoluzione totale della società capitalisitica. La prima tappa verso la società della decrescita è: decolonizzare l’immaginario. La causa principale della “colonizzazione della nostra anima” viene individuata nella scolarizzazione (riprendendo Illich), che, non garantendo una giusta educazione è colpevole di distruggere le nostre “difese immunitarie” e, così facendo, di rendere vita facile ai media che ci bombardano quotidianamente con la pubblicità, provocando una sorta di ipnosi che induce inevitabilmente a consumare il più possibile. La crescita, secondo il filosofo francese, attraverso il consumismo, è diventata contemporaneamente un terribile virus e una droga. Per uscire da questo immaginario, bisogna innanzitutto desiderare di uscirvi, lavorare sulla nostra volontà ed entrare in azione, innanzitutto nel nostro piccolo, perché il 130 nostro primo nemico siamo noi stessi, incapaci come siamo di attuare innanzitutto su di noi la trasformazione radicale. Dobbiamo cioè convincerci e convincere gli altri che, oggi come oggi, non solo l’abbondanza di merci non ci rende felici, ma, al contrario, meno abbiamo e meglio stiamo. Se il consumismo è divenuto una droga, la soluzione è disintossicarci. Per Latouche dobbiamo ritrovare il senso del limite. Dobbiamo capire che ciò che ci viene dato dalla natura è un dono che dobbiamo accogliere (e non sradicare) nei limiti che la natura stessa ci pone, oltre i quali si sconfina nella sua progressiva distruzione. A questo punto, se non è possibile tornare al buon senso di ieri per contrastare il “buon senso” di oggi, bisogna costruire il buon senso del domani. A tal proposito, Latouche appronta una sorta di programma della decrescita, sulla base del quale costruire un piano d’azione. Il programma consiste nelle “otto R”: rivalutare, ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Rivalutare. Rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, cambiando quelli che devono esser cambiati. L’altruismo dovrà prevalere sull’egoismo, la cooperazione sulla concorrenza, il piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro, la cura della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, il bello sull’efficiente, il ragionevole sul razionale. Questa rivalutazione deve poter superare l’immaginario in cui viviamo, i cui valori sono sistemici, sono cioè suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare. Ricontestualizzare. Modificare il contesto concettuale ed emozionale di una situazione, o il punto di vista secondo cui essa è vissuta, così da mutarne completamente il senso. Questo cambiamento si impone, ad esempio, per i concetti di ricchezza e di povertà e ancor più urgentemente per scarsità e abbondanza, la “diabolica coppia” fondatrice dell’immaginario economico. L’economia attuale, infatti, trasforma l’abbondanza naturale in scarsità, creando artificialmente mancanza e bisogno, attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione. Ristrutturare. Adattare in funzione del cambiamento dei valori le strutture economico-produttive, i modelli di consumo, i rapporti sociali, gli stili di vita, così da orientarli verso una società di decrescita. Quanto più questa ristrutturazione sarà radicale, tanto più il carattere sistemico dei valori dominanti verrà sradicato. 131 Rilocalizzare. Consumare essenzialmente prodotti locali, prodotti da aziende sostenute dall’economia locale. Di conseguenza, ogni decisione di natura economica va presa su scala locale, per bisogni locali. Inoltre, se le idee devono ignorare le frontiere, i movimenti di merci e capitali devono invece essere ridotti al minimo, evitando i costi legati ai trasporti (infrastrutture, ma anche inquinamento, effetto serra e cambiamento climatico). Ridistribuire. Garantire a tutti gli abitanti del pianeta l’accesso alle risorse naturali e ad un’equa distribuzione della ricchezza, assicurando un lavoro soddisfacente e condizioni di vita dignitose per tutti. Predare meno piuttosto che “dare di più”. Ridurre. Sia l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare che gli orari di lavoro. Il consumo di risorse va ridotto sino a tornare ad un’impronta ecologica pari ad un pianeta. La potenza energetica necessaria ad un tenore di vita decoroso (riscaldamento, igiene personale, illuminazione, trasporti, produzione dei beni materiali fondamentali) equivale circa a quella richiesta da un piccolo radiatore acceso di continuo (1 kw). Oggi il Nord America consuma dodici volte tanto, l’Europa occidentale cinque, mentre un terzo dell’umanità resta ben sotto questa soglia. Questo consumo eccessivo va ridotto per assicurare a tutti condizioni di vita eque e dignitose. Riutilizzare. Riparare le apparecchiature e i beni d’uso anziché gettarli in una discarica, superando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi, dell’obsolescenza degli oggetti e la continua “tensione al nuovo”. Riciclare. Recuperare tutti gli scarti non decomponibili derivanti dalle nostre attività. Questo programma delle “otto R” è comunque indicativo, a detta dell’autore, e durante il suo percorso può variare, nei limiti del variabile, purché rimanga attinente agli obiettivi. Interessante l’importanza per Latouche della democrazia locale alla quale il filosofo francese assegna il compito di mettere in atto una decrescita armoniosa e conviviale. Il locale deve tessere quei rapporti sociali che la globalizzazione e lo sviluppo tendono a distruggere. (2007, p. 138) Diverso è l’approccio che Latouche propone nei confronti del Sud del mondo, dove è sì ugualmente auspicabile, come nel Nord, una società della decrescita con il suo circolo virtuoso, ma dove sicuramente essa si porrà in termini diversi, in quanto le 132 società del Sud non sono realmente “società della crescita” e dove bisogna dunque limitarsi ad eliminare gli ostacoli alla realizzazione di società autonome. In questo senso, Latouche fa proprie alcune posizione “terzomondiste” come quella che si è già incontrata di Samir Amin. La società della decrescita è auspicabile perché significa decrescere nel depredamento della natura, quindi nella produzione, nel consumo, nei trasporti e dunque nell’inquinamento e nella creazione di rifiuti organici e non, al fine di vivere in un ambiente più bello e godibile, seppur facendo una vita più sobria e frugale. Tutto ciò nella consapevolezza che la ricchezza che ci rende effettivamente sereni e felici è quella delle relazioni personali. La pienezza della nostra vita è data dalla quantità e dalla qualità dei rapporti che abbiamo con gli altri (siano essi parenti, amici, conoscenti occasionali ecc.), dal tempo che trascorriamo con loro e dal modo in cui trascorriamo questo tempo insieme. Vivere questi rapporti, che sono la nostra vera felicità, in un ambiente che sia il nostro, più genuino, godibile, sobrio, sereno, allegro in un contesto socio-economico, dove si ritorna a forme di autoproduzione (Pallante, 2005), dove il lavoro diminuisce e torna ad essere piacevole in un certo ambito (come la campagna e l’artigianato), dove il mercato torna ad avere la sua funzione di riunione popolare e riscopre lo scambio culturale attraverso lo scambio prodotto-moneta o addirittura prodotto-prodotto (il baratto) e dove la preoccupazione economica quasi scompare, essendo questa una società conviviale e pressappoco autosufficiente. Per tutti questi motivi Latouche auspica, utopicamente, una società della decrescita. Le proposte concrete di Serge Latouche sono presenti in quello che lui definisce come un esquisse di un programma “politico” per la costruzione di una società della crescita. Il nemico individuato dal filosofo francese sembrerebbe essere il capitalismo “Un capitalismo eco-compatibile è teoricamente concepibile, ma irrealistico sul piano pratico” e quindi “una società della decrescita non può concepirsi se non si esce dal capitalismo”, tuttavia “questa formula comoda si riferisce a una evoluzione storica tutt'altro che semplice... L'eliminazione dei capitalisti, il divieto della proprietà privata degli strumenti di produzione, l'abolizione del rapporto salariale o del denaro getterebbe la società nel caos e in preda a un terrorismo massiccio che tuttavia non basterebbe a distruggere l'immaginario 133 mercantile. Sfuggire allo sviluppo, all'economia e alla crescita non significa quindi rinunciare a tutte le istituzioni sociali che l'economia ha portato con sé (moneta, mercati e anche salariato), ma "re-integrarle " in un'altra logica.” (Latouche, Le Monde Diplomatique/il manifesto, novembre 2005). Preso atto di questa situazione, Latouche propone una serie di interventi: - Tornare ad un impatto ecologico sostenibile per il pianeta, ovvero ad una produzione materiale equivalente a quella degli anni 1960-70, - internalizzare i costi dei trasporti, - rilocalizzare le attività, - restaurare l'agricoltura contadina, - trasformare l’aumento di produttività in riduzione del tempo di lavoro e creazione di impieghi, fino a quando esiste la disoccupazione - incentivare la "produzione" di beni relazionali, - ridurre lo spreco di energia di un fattore 4, - penalizzare fortemente le spese di pubblicità, - decretare una moratoria sull'innovazione tecnologica, tracciarne un bilancio serio e orientare la ricerca scientifica e tecnica in funzione delle nuove aspirazioni. Attraverso queste misure la “scommessa della decrescita”, in un’ottica dell’utopia conviviale, può favorire quella “decolonizzazione dell’immaginario” e suscitare quei comportamenti virtuosi in favore di una soluzione ragionevole: la democrazia ecologica. Per Latouche è necessario evitare quello che Ivan Illich chiamava “fascismo tecnoburocratico” attraverso una democratizzazione nella dimensione locale. 134 L’origine dello sviluppo: Gilbert Rist Gilbert Rist, professore all'Istituto universitario di studi sullo sviluppo (IUED) di Ginevra, si è occupato di analizzare nel profondo la tematica dello sviluppo. Fortemente critico delle idee “sviluppiste”, così come Latouche, Georgescu-Roegen e W. Sachs4, Gilbert Rist dedica un saggio allo “sviluppo”: “Sviluppo: storia di una credenza occidentale”. Il sottotitolo già preannuncia la tesi di fondo: l'idea di "sviluppo", con le conseguenti promesse di maggior benessere per i popoli è solo una recente credenza occidentale, una fede (il termine è di Rist), una fede nel senso più deteriore, inventata nei paesi occidentali a capitalismo maturo ed esportata anche nei paesi terzomondisti e "sottosviluppati". Per l’economista francese lo sviluppo è una mediocre e passeggera credenza: perché lo sviluppo economico, dove si è imposto, lungi dal migliorare le sorti dell'umanità e del pianeta, le ha aggravate notevolmente, approfondendo le ingiustizie sociali preesistenti, generando nuovi meccanismi di esclusione a danno della stragrande maggioranza dell'umanità (ed a vantaggio di pochi), minacciando una volta di più gli equilibri ecologici (vedi deforestazione e desertificazione crescenti, effetto serra, allargamento del buco dell'ozono, estinzione di specie animali e vegetali, ecc.), trascinando verso un produttivismo insano e unilaterale, che ha comportato lo sradicamento alienante di popoli e culture. La fine del sovietismo, salutata da molti come una liberazione, ha, di fatto, agevolato il trionfo definitivo del liberalismo e i programmi "sviluppisti", apparsi più credibili nella formula neoliberistica rispetto alle versioni produttivistiche socialiste, accusate di inefficienza. In realtà, “questa credenza, così comunemente condivisa perché ovunque imposta, non corrisponde ad alcuna realtà storica”, scrive Rist ( Rist, 1997, p. 216), ed i fedeli (gli sviluppisti) “non si preoccupano del fatto che le loro proprie pratiche contraddicono regolarmente i valori ai quali dichiarano di aderire” (p. 218). 4 Di Wolfgang Sachs si segnalano: “Dizionario dello sviluppo” (1998) e “Archeologia dello sviluppo. Nord e Sud dopo il tracollo dell’Est” (1992) 135 Occorre perciò condividere la conclusione dì A. Hirschman (vedi capitolo terzo) quando osserva che “il declino dell'economia dello sviluppo è in parte irreversibile”, poiché essa “lungi dall'apportare la buona vita sperata, non ha fatto che accrescere le ineguaglianze e la marginalizzazione” (p. 221). Rist ritiene che le “bugie sviluppiste” trovino ancora, nonostante i clamorosi insuccessi, molti sostenitori perché, attorno all'ipotesi sviluppista, si è creato, a livello internazionale, un apparato mastodontico, articolato anche a livello locale, che può sopravvivere solo grazie alte menzogne sviluppiste. Il mega-apparato è formato dai funzionari della Banca Mondiale, del Fondo Monetario, del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, delle varie agenzie con pretese più o meno umanitarie (UNICEF, FAO, OMS, UNESCO,...); a tutto ciò si aggiungano i vari ministeri nazionali per la Cooperazione e lo Sviluppo, i divulgatori agricoli, gli "esperti", i ricercatori, gli agronomi, i periti forestali, gli operatori sanitari, i vari pianificatori, i volontari delle ONG, i missionari e senza dimenticare poi le aziende multinazionali più che mai interessate a investire e smerciare nei vari “paesi in via di sviluppo”. “E come cifrare tutti i posti di lavoro indotti dall'insieme di queste attività multiformi che non potrebbero esistere senza segretarie, senza mezzi di telecomunicazione e di trasporto, senza locali, senza fornitori di materie di ogni sorta e senza compagnie aeree” (p. 224). Veri e propri eserciti con o senz'armi, di varia nazionalità, sono schierati per far funzionare i progetti sviluppisti, e nel loro insieme costituiscono un mega-apparato sovranazionale, con giri d'affari multimiliardari ogni anno; a questo punto, poco importa che tali progetti risultino costosissimi e fallimentari a ripetizione; ciò che veramente conta, per gli uomini dell'apparato sviluppista, è che esso non venga smantellato e si perpetui indefinitamente, attirando energie, miliardi e speranze in vista di fini dichiarati che mai verranno realizzati. In realtà si potrebbe dire che, anche in questo caso, il mezzo, cioè l'Apparato, da mezzo si è trasformato in fine assoluto. Vale per l'Apparato sviluppista ciò che molti hanno più volte ripetuto a proposito del Pil: se si dovesse calcolare tutto, cioè non solo quanto prodotto, ma anche le perdite, cioè quanto consumato e distrutto per ottenere un certo Pil o un certo livello di funzionamento dell'Apparato, si capirebbe immediatamente il carattere mistificatorio e fallimentare del Pil e, insieme ad esso, dell'Apparato sviluppista. 136 “La difficoltà principale è allora questa: come far saltare la struttura religiosa che protegge lo sviluppo?” (p. 249). La fede irrazionale nello sviluppo è ancora molto forte, in effetti, in vaste aree mondiali, è una specie di nuova religione totalitaria e dogmatica, cui non mancano i predicatori integralisti, vale a dire gli economisti asserviti, cioè quasi tutti. Da qualche parte, però, ci si accorge che la prima mossa, quella decisiva, non può consistere nel voler cambiare immediatamente i fatti: più semplicemente, basterà cambiare per il momento l'interpretazione di essi. Un proverbio africano citato nel testo ci aiuta a capire che cosa significhi interpretare in modo diverso gli stessi fatti: «Tu sei povero perché guardi quel che non hai. Vedi quel che possiedi, vedi quel che sei, e ti scoprirai straordinariamente ricco». In altre parole, i miraggi degli sviluppisti hanno fatto breccia là dove la gente si è identificata nella loro interpretazione, nel loro paradigma consumistico- produttivistico, cercando conseguentemente di inseguire quei beni economici che venivano loro promessi, in sostituzione della nobiltà e semplicità del vivere tradizionale, visto dagli innovatori di turno come scarsità e insopportabile povertà, come arretratezza da rottamare in cambio di “incentivi allo sviluppo”. Sarà necessario rigettare quest'ultima interpretazione, per rivalutare gli stili di vita che si sottraggono ai modelli sviluppisti transnazionali; ciò sarà sufficiente per una rottura col sistema culturale-economico dominante come già avviene in certe situazioni, dove esso “non è più considerato un modello da adottare ad ogni costo; di colpo finisce la frustrazione provocata dall'impossibile imitazione di uno pseudoideale alienante, e le energie che essa aveva finora mobilitato possono essere investite in un procedimento nuovo: la riscoperta da parte di ciascuno della sua propria legge” (p. 248-249). Se questo compito, ovviamente, non può essere affidato agli economisti che hanno fede nello sviluppo e ne vivono, sostiene Rist, è realistico puntare su quelle culture, d'Oriente e d'Occidente, che da sempre costituiscono delle alternative alla pseudoreligione mondialista dello Sviluppo? Gilbert Rist ci lascia nell’immaginario del “doposviluppo” così come fa Latouche constatando che “alla certezza degli errori, passati e presenti, non bisogna forse preferire l’incertezza del mondo futuro?” 137 Questo capitolo ha esposto una critica radicale al modello dello sviluppo pur sottolineando le forti differenze nell’ipostazione di Daly e Latouche che, partendo dalla bioeconomia di Georgescu – Roegen giungono a “rivoluzioni” diverse. Il carattere “concreto” di Daly si contrappone a quello “utopico” di Latouche ma de entrambi si può cogliere l’insegnamento che un mondo incentrato sullo sviluppo inteso come crescita non è solo insostenibile da un punto di vista ambientale ma anche sociale. Nel prossimo capitolo si cercheranno di coniugare le varie critiche al paradigma dello sviluppo con due temi fondamentali per questo lavoro, cioè l’economia civile e lo sviluppo locale. 138 Lo sviluppo locale per un’economia civile “Chi riconosce che lo sviluppo civile è l’obiettivo fondamentale vede politico dissolversi come neve al sole la separazione fra “morale” e politica” Paolo Sylos Labini Questo capitolo cerca di delineare una linea da percorre per lo sviluppo, coniugando lo sviluppo locale con l’economia civile, alla luce degli elementi di criticità emersi nei capitoli precedenti. Lo sviluppo civile nasce nel territorio e la sua dimensione “localizzata” è necessaria affinché si formi un nuovo paradigma dello sviluppo. Globale e locale in questo contesto si fondono in un contesto di civismo umanista tipico dell’Italia illuminista. La prima parte di quest’ultimo capitolo introdurrà il concetto di sviluppo locale nell’accezione di valorizzazione di un territorio, di uno sviluppo olistico, che non comprenda la mera crescita o la competizione ma che abbia particolare attenzione al capitale umano e sociale. Il contributo dei “padri” dello sviluppo locale ci guiderà attraverso la formazione di un’ economia “altra” dove sociologi, economisti e geografi devono unire i loro sforzi per costruire un modello di sviluppo che si distanzia dal paradigma che è stato precedentemente tratteggiato. Nel secondo paragrafo si introdurrà il secondo ingrediente fondamentale per lo sviluppo civile, cioè l’economia civile, con le sue caratteristiche e la sua storia secolare. Ripreso dai contributi di autori come Bruni e Zamagni, l’economia civile non si concentra sui mezzi, ma pone l’attenzione ai fini del pensiero economico: la società civile e la felicità personale devono tornare al centro dell’economia. Negli ultimi paragrafi si cercherà di spiegare in modo più dettagliato le caratteristiche dello sviluppo civile, come sintesi di sviluppo locale ed economia civile, e perché è auspicabile un ritorno ad un economia “umanizzata” che non sia impermeabile all’ecologia, alla filosofia e alla sociologia. 139 Dalla crescita regionale allo sviluppo locale Lo sviluppo locale è un concetto controverso e troppo spesso risente dell’assenza di una formulazione univoca. A strumenti di sviluppo locale non ha fatto riscontro sinora un altrettanto significativo contributo a favore di una definizione in positivo di ciò che significa “sviluppo locale”. Anzi, l’ambiguità che accompagna nella maggior parte dei Paesi occidentali il concetto di sviluppo locale è aggravata dalla mancanza di una formalizzazione esplicita di tale approccio da parte delle istituzioni comunitarie. (De Luca, Salone 2008). Lo sviluppo economico è un fenomeno territorialmente complesso che non può prescindere dal suo carattere locale (Goglio, in Becattini 2001). L’emergere di questa dimensione rompe lo schema deterministico nell’interpretazione dello sviluppo: l’esistenza di forme non previste di sviluppo “locale” sfugge alle griglie interpretative consolidate di tipo storico- geografico, economico e sociale La varietà dei sentieri di sviluppo rivela la possibilità di rispondere in modo differenziato agli stimoli globali L’approccio attraverso lo sviluppo locale rifiuta spiegazioni univoche, fondate su logiche interpretative generali come: l’approccio dualistico nell’interpretazione delle relazioni alla macroscala (es. la dialettica lavoro-capitale e/o gli schemi rigidi centroperiferia) o l’approccio dell’individualismo metodologico alla microscala: le dinamiche sociali come esito dell’azione dei singoli e dei loro sistemi di preferenze ed interessi. E’ necessario individuare entità intermedie tra il sistema e il soggetto singolo (dare pertinenza teorica al concetto di “sistema parziale”); dato che la teoria economica ortodossa non riconosce l’esistenza di tali “enti” e che la stessa categoria di “regione economica” appare solo come “somma dei soggetti che la compongono” Nella tradizione distrettualistica italiana (Becattini, 2001 e 2002) l’elemento centrale dello sviluppo è un nucleo di relazioni produttive o di altro genere, ancorate al territorio, capace di riprodursi nel tempo: il sistema locale. (Becattini 2001, p.18) Il sistema locale è un aggregato di soggetti che, a certe condizioni, si comporta come attore collettivo; un insieme dotato di una propria identità distinta dall’”ambiente” e 140 da altri sistemi fatto da soggetti operanti che sono consapevoli (identità/appartenenza) e sono capaci di comportamenti collettivi autonomi (autonomia). Sviluppo locale, per Dematteis, tende ad assumere un significato metaforico: “È la capacità di un territorio di decodificare e selezionare le variegate spinte della globalizzazione, fortemente pervasive ed omologanti, per tracciare un proprio percorso evolutivo ed esprimere una propria identità ...” (Dematteis, 1994). L’aleatorietà del concetto di sviluppo locale ci pone di fronte a seri problemi mesis in evidenza da Salone e De Luca in questo passaggio: “È vero che, attribuendo al concetto un valore metaforico, attraverso di esso “alludiamo” a fatti non solo diversi, ma anche interpretabili secondo diverse prospettive. È però altrettanto vero che il ricorso disinvolto al concetto di sviluppo locale tende oggi a usurarne il senso. L’assenza di certezze definitorie, che non rappresenta probabilmente un problema nella fase iniziale di costruzione di un nuovo paradigma, lo diventa tuttavia quando quest’ultimo tende ad assumere un ruolo dominante all’interno di un determinato campo di pratiche.” (De Luca, Salone 2008, p. 52). Per evitare questo problema è necessario chiarire cosa si intenda per “locale” e cosa per “sviluppo”, evitando di confondere lo sviluppo regionale con lo sviluppo locale. Il primo punto è già stato in parte chiarito dal concetto di sistema locale, cioè una struttura intermedia che si situi tra il soggetto singolo e il sistema economico-sociale nel suo insieme: per ritornare a Dematteis (2004), la ricerca di un’“entità intermedi[a] […] aggregato di soggetti che in varie circostanze può comportarsi di fatto come un soggetto collettivo, anche se non è formalmente riconosciuto come tale” (pag. 45). Dunque, il “locale” che qui c’interessa ha a che fare con la prossimità fisica, anche se non esclude affatto relazioni con altri “locali attivi” e con scale superiori – regione, stato ecc. – e implica una progettualità condivisa che fa leva sulle risorse locali. (De Luca Salone, 2008, p. 55) Lo sviluppo locale all’interno dei sistemi locali può assumere tre caratteristiche differenti: 141 • Sviluppo locale come alternativa “strategica” allo sviluppo economico toutcourt, autosufficienza delle comunità locali come antidoto alla “colonizzazione” esterna. L’idea principale è quella di localismo autarchico, cioè una chiusura difensiva verso i processi globalizzanti (Trigilia 2005) • •Sviluppo locale come processo spontaneo nel quadro del laissez-faire, con esiti guidati da una razionalità implicita, da “ordine spontaneo”. Questo processo, chiamato dinamismo locale è basato meramente sulla crescita economica perfettamente inserita nel paradigma economicista. Questo concetto è fortemente criticato perché tende a confondere uno sviluppo locale con un localismo eterodiretto dove la crescita dei sistemi locali avviene secondo logiche di sviluppo globali (Latouche, 2005, p.40) • Lo sviluppo locale come processo auto-organizzativo che si fonda sulle capacità di cooperazione e di strategia dei soggetti locali. Le politiche di sviluppo regionale di natura statale non hanno mai colto l’importanza dei sistema locali proponendo politiche di tipo keynesiano a sostegno della domanda regionale. Lo sviluppo locale scardina la logica del sostegno alla crescita attraverso una nuova impostazione dell’economia istituzionalista. “Da quest’ultima deriva l’idea che l’economia è plasmata da forze collettive stabili, che la rendono un processo “istituito” e non un sistema meccanico basato sulle preferenze individuali. Le forze collettive sono, da un lato, le istituzioni formali – regole, leggi, organizzazioni – e, dall’altro, quelle informali, come le abitudini individuali, le routine di gruppo e i valori e le norme sociali (Amin, 1999 in De Luca, Salone 2008, p.55) L’idea di fondo è quella di valorizzare la ricchezza dei luoghi come fonte primaria di sviluppo e rinnovamento, assicurando la competitività economica mobilitando il potenziale endogeno delle regioni meno favorite. Si favoriscono interventi locali, dal basso, specifici per ciascuna regione, di lungo periodo e incentrati su una pluralità di attori che rompono con l’ortodossia della politica economica (Amin, 1999) Sulla base di questi assunti, lo stimolo allo sviluppo economico è visto in una prospettiva nuova: 142 - le politiche si concentrano sul rafforzamento delle reti associative e non sul singolo attore (Cooke e Morgan, 1998); - la finalità delle politiche è di promuovere la negoziazione e far emergere razionalità procedurali e adattive negli attori; - il processo di governance si fonda sulla mobilitazione di una pluralità di organizzazioni anche al di fuori degli attori di mercato e degli attori pubblici; - l’insieme di questi attori e organizzazioni costituiscono un’institutional thickness che garantisce la tenuta sociale dello sviluppo economico (Amin, Thrift, 1994); - le politiche devono essere forgiate sulle specificità contestuali e sensibili nei confronti delle path dependencies. (in De Luca, Salone, 2008, p.55) In questa prima visione sembra però emergere continuamente l’elemento della competitività territoriale che, come si vedrà in seguito, difficilmente si integra con il concetto di sviluppo civile, dato che il fatto stesso che i sistemi locali debbano competere in un sistema globale non li esula dall’essere parte di quel paradigma dello sviluppo capitalistico del quale si è parlato nei primi capitoli. Infatti tra le fila degli scienziati sociali “progressisti” non mancano quanti, pur concordando con l’assunto secondo il quale occorre valorizzare le risorse locali, mettono in luce le problematiche riscontrate da politiche incentrate su questo nuovo approccio, ad esempio l’esiguità del numero delle opere realizzate all’interno dei progetti di sviluppo nel Mezzogiorno delle quali sia possibile valutare i benefici per le società meridionali. Eppure, nemmeno questo quadro critico sembra annullare il valore di un’esperienza che ha rovesciato l’impostazione tradizionale, centralizzata e gerarchica, delle politiche regionali tradizionali, ha sviluppato le istanze di un policentrismo strutturalmente importante ma poco valorizzato (Salone, 2005), ha promosso una responsabilizzazione delle élites dirigenti locali rispetto agli obiettivi delle azioni di sviluppo e ha spostato il fuoco sui fattori istituzionali dello sviluppo (nel senso delle well structured institutions di Hayek). (De Luca, Salone 2008, p. 56). L’impostazione istituzionalista, di valorizzazione del territorio, è corretta ma, come mettono in luce Salone e De Luca: “la strada da percorrere sembra quella di una rivisitazione dei concetti-chiave alla luce delle pratiche, perché essi non diventino refrain tanto frequenti da rischiare la vacuità (Hadjimichalis, 2006) o da riproporre, 143 come è stato precocemente denunciato da Amin e Tomaney (1995), una semplice “decentralizzazione” di modelli di sviluppo imperniati sulla mera competitività economica. (De Luca, Salone, 2008, p. 66).” In quest’ottica è possibile integrare lo sviluppo locale con l’economia civile formalizzando il concetto di sviluppo civile, valorizzando, come dice Amin, la ricchezza dei luoghi, attraverso la produzione di beni collettivi locali e la valorizzazione del capitale sociale (Trigilia, 2005). Il concetto di capitale sociale2 come le relazioni sociali tra soggetti individuali, assume, nell’ottica dello sviluppo civile, un significato importante poiché in alcune circostanze il capitale sociale diviene sinonimo di cultura civica (civicness), cioè una cultura condivisa che limiti i comportamenti opportunistici e favorisce la cooperazione. (Trigilia, 2005, capitolo secondo) Emerge un nuovo paradigma dello sviluppo locale che non è basato né sulle impostazioni gerarchiche della vecchia programmazione né sul riduzionismo delle retoriche dello sviluppo locale (il localismo)3 (Salone, 2007, p. 93), che rischiano di trascurare le relazioni con i soggetti esterni al territorio, focalizzandosi eccessivamente sul capitale sociale insito al territorio stesso. Elementi centrali di questo nuovo paradigma sono: • Una governance di multi- livello, che coordinando le varie istituzioni ed i vari stakeholders, non deve trascurare attori della società civile che non sono legati in modo evidente al sistema economico, ma che possono rivestire un ruolo fondamentale nello sviluppo economico e “civile”. • Una forte coesione sociale che favorisca la cooperazione tra livelli istituzionali e territori, ma anche tra gli attori stessi • L’integrazione tra settori, attori, risorse e politiche per esprimere in modo coerente una pianificazione territoriale volta allo sviluppo locale 2 Per approfondire il tema del capitale sociale rimandiamo a Boerdieu (1995), Coleman (1988) e Putnam (1993) 3 Per “localismo”, in questo caso, si intende quel fenomeno che carica di eccessiva enfasi l’importanza dei processi economici locali, a discapito delle influenze esterne. 144 Tutti questi elementi, oltre a rivestire un ruolo fondamentale per il nuovo paradigma dello sviluppo locale, sono di primaria importanza per costruire le basi logiche dello sviluppo civile. Prima di approfondire il concetto di sviluppo civile è necessario introdurre l’altro componente concettuale che permette di capire realmente il nuovo paradigma dello sviluppo cioè l’economia civile. 145 Introduzione all’economia civile La prospettiva dell’Economia Civile non è una scuola di pensiero in senso proprio, ma è un modo di guardare la realtà economica, per trarre indicazioni di soluzione dei problemi. Essa è una prospettiva culturale dalla quale interpretare l’intera economia, e dalla quale gettare le basi per una diversa teoria economica. (Zamagni, 2004, p.15) Questa prospettiva ha radici antiche e, precisamente, nell’umanesimo civile del 1400 quando nasce, in Italia, l’economia di mercato, intesa come modello di ordine sociale, cioè come modo di organizzare la società sotto il profilo sia economico che sociale. All’epoca dell’umanesimo civile questa corrente di pensiero, appunto dell’economia civile, vede le sue radici e si sviluppa fino alla metà circa del 1700, l’epoca dell’illuminismo italiano. Tralasciando alcuni aspetti storici dell’economia civile si può individuarne il padre in Antonio Genovesi che per primo al mondo tenne un corso di economia, cioè “lezioni di economia civile”, nel 1752 a Napoli. Il filosofo umanista Adam Smith può essere considerato l’ultimo degli economisti “civili” ed il primo degli economisti “politici”. Come si è visto nel primo capitolo, colui che viene considerato il padre dell’economia è perfettamente inserito nella cultura umanista e illuminista del suo tempo e considera l’impegno civile ed i fondamenti morali come fondamentali nell’agire economico. Dov’è la differenza, dunque, tra l’approccio dell’Economia Politica e l’approccio dell’Economia Civile? Direi che, per essere sintetici, la differenza sta in questo: che l’Economia Politica si è sviluppata sul fondamento del modello dicotomico di ordine sociale Stato-mercato. Cioè, nell’orizzonte tematico dell’Economia Politica, a prescindere dalle varie scuole di pensiero che stanno dentro la medesima, la linea di base è che oggetto di studio dell’economista è lo studio dei rapporti tra Stato e mercato. Questo accomuna tutte le scuole di pensiero dell’Economia Politica. La differenza sta nel diverso peso specifico. Se noi prendiamo, infatti, la scuola neomonetarista di Friedman, fondatore della scuola di Chicago, oppure la scuola austriaca di Von Hayek ed altre, dei due poli Stato- mercato, esse sottolineano il polo del mercato. E’ ormai noto che il pensiero neoliberale, o neoliberista che dir si voglia, assume che è al mercato che dobbiamo affidare le ragioni del successo, del 146 progresso economico e sociale di una comunità e di un Paese. Se rivolgiamo, invece, l’attenzione ad altre scuole di pensiero come quella keynesiana, quella neoricardiana oppure quella neoistituzionalista così come viene chiamata, notiamo che l’accento cade più sullo Stato. La parola Stato non significa solo lo Stato centrale ma l’ente pubblico in generale, cioè chi ha un potere che gli deriva dalla legittimazione di tipo democratico, attraverso procedure elettorali. Quindi noi diciamo Stato non per significare uno Stato nazionale, ma per significare ogni ente (quindi Stato è anche il Comune o la Regione) che ha un potere che deriva da un processo di legittimazione democratica. Altre scuole di pensiero, pertanto, sottolineano di più la necessità dell’intervento dello Stato inteso in questo senso, per correggere i cosiddetti fallimenti del mercato (market failures). Ma a prescindere da queste differenze, che sono notevoli, tutto l’impianto teorico dell’Economia Politica è esattamente basato sul modello Stato-mercato. Perciò, la società per progredire, sotto il profilo economico, deve avvalersi di questi due pilastri. E quali sono i principi regolativi di questi due pilastri? Il principio regolativo del mercato è lo scambio di equivalenti di valore, cioè l’efficienza; per lo Stato il principio è l’equità. Il pensiero neoliberale dice che è più importante il mercato per creare ricchezza e reddito. Il mercato, che lavora secondo il principio dello scambio di equivalenti, permette di massimizzare il non spreco delle risorse, il risultato di efficienza e così via. Altre scuole dicono che è più importante lo Stato che redistribuisce e consente di ottenere un risultato di equità; diversamente, non si può andare molto lontano. Al di là di queste differenze, che non sono di poco conto, rimane il fatto che nella lunga storia del pensiero dell’Economia Politica, il binomio Stato- mercato è l’elemento che accomuna le varie scuole. Ma, come scrive lo stesso Zamagni: “Un ordine sociale , quale esso sia, ha bisogno di tre principi regolativi, distinti ma non indipendenti, per potersi sviluppare in modo armonico”. I primi due sono efficienza ed equità, il terzo è il principio di reciprocità, che si basa sulla società civile ed è i principio cardine dell’economia civile.(Zamagni, 2004, p.21). La società civile ha un ruolo attivo nell’economia, e non è solo, come pensano molti grandi economisti, un presupposto a Stato e mercato. Il principio di reciprocità si differenzia dal principio proprio del concetto di equità, cioè quello dello scambio di equivalenti, poiché il primo è tripolare, transitivo, invece quello dello scambio di 147 equivalenti è biunivoco. Nello scambio di equivalenti la relazione della controparte (ad esempio, il pagamento) non è libera ma necessitata. Nella relazione di reciprocità non è così. Innanzitutto, nella relazione di reciprocità il trasferimento della cosa precede, non è vincolato alla determinazione del prezzo di equilibrio. In secondo luogo, colui che riceve non è affatto obbligato a contraccambiare. Il principio di reciprocità postula, all’origine, l’atto di gratuità, dove gratuità, però, non vuol dire non essere pagati, gratuità è un’ esplicitazione del principio del dono. Il principio e la cultura della reciprocità è elemento fondamentale affinché sia il mercato che lo stato possano funzionare. L’idea dell’Economia Civile è esattamente questa: noi abbiamo bisogno sicuramente dello scambio di equivalenti, perché l’efficienza è cosa buona, sicuramente abbiamo bisogno della redistribuzione, perché l’equità è cosa buona, ma non basta. Abbiamo bisogno di far circolare a livello economico, non solo a livello di presupposto, anche il principio di reciprocità. Abbiamo bisogno che nella società, di cui stiamo parlando, le pratiche della reciprocità non siano, come dire, un’eccezione, ma siano la regola. Perché soltanto la pratica della reciprocità serve a tenere in piedi ed a far funzionare bene sia il mercato sia lo Stato. La cultura della modernità, cioè degli ultimi due secoli, due secoli e mezzo, ha avuto questo difetto: averci fatto credere che bastasse l’efficienza e l’equità. L’economia civile è necessaria per ricucire quel gap che la scienza economica, attraverso la politica economica, ha scavato tra etica ed economia, tra ricerca della felicità e ricerca della ricchezza. La teoria economica mainstream, fondata su utilitarismo e sull’equilibrio, tende a mettere in contrapposizione efficienza ed equità (la famigerata metafora della torta è indicativa) individuando l’economia come tutto ciò che non- tuismo, cioè tutto ciò che è anonimo e strumentale. (p.105) L’economia neoclassica ha espulso il principio di reciprocità dall’economia e con esso ogni tipo di collegamento tra etica e scienza economica. Il fine cui tende il principio di reciprocità è la fraternità, il principio di fraternità. La fraternità è una delle tre parole sulla base delle quali è stata combattuta la rivoluzione francese: liberté, egalitè, fraternitè, ma la parola fraternità è stata respinta di fatto negli ultimi due secoli. Ma la fraternità non è la stessa cosa della solidarietà perché quest’ultima, che è fondamentale, è il principio che tende a rendere 148 eguali i diversi. Ma la fraternità è il principio che consente agli eguali di essere diversi, quindi è il complemento di solidarietà. Una società che è solo solidale non è capace di progresso, perché non è capace di accumulare capitale civile. Per il capitale civile ci vuole fraternità, che vuol dire consentire agli eguali di essere diversi; cioè affermare, come dire, la propria visione del mondo, il proprio stile di vita, la propria concezione. Se noi non consentiamo questo, si nota il calo di creatività, perché la solidarietà senza fraternità tende ad uniformare, a livellare tutti. L’idea di reciprocità si fonda sull’autorealizzazione della persone, cioè la sua fioritura, l’eudaimonia aristotelica: ho bisogno dell’altro per scoprire che vale la pena che io fiorisca. La realizzazione del sé è il risultato dell’interazione. Il riconoscimento dell’altro e il nostro riconoscimento da parte dell'altro è fondamento della reciprocità, della fraternità. (pag.173) Il principio di reciprocità si fonda sul dono, non come strumento, ma come l’inizio di una serie di atti reciproci, ciò che Latouche individuerebbe nella convivialità. Questo aspetto dell’economia civile è fondamentale poiché ci permette di legare un modello di sviluppo basato sulla convivialità decrescente (capitolo quinto) a modelli di sviluppo che si potrebbero definire di mercato. La sfida dell’economia civile è quella di ricercare i modi di far coesistere, all’interno del medesimo sistema sociale, tutti e tre i principi regolativi: efficienza, equità e, soprattutto reciprocità. (p.23) Per concludere questa breve introduzione all’economia civile è necessario chiarire alcuni aspetti che saranno estremamente utili nell’elaborazione del concetto di sviluppo civile. Il primo aspetto è legato al modo in cui la società civile può diventare soggetto economico e cioè attraverso il non profit, o welfare civile. Ai fallimenti del mercato e ai fallimenti dello stato4 esiste una proposta alternativa di welfare quella civile. Secondo il modello di welfare civile le organizzazioni della società civile devono essere partner attivi nel processo di programmazione degli interventi. Essi non solo devono essere autonomi da mercato tradizionale e Stato ma devono avere capacità di essere indipendenti economicamente e finanziariamente: ciò prevede un vero e 4 A questo proposito si segnalano i libri di Buchanan e Tullock sulla public choice 149 proprio mercato sociale. Questo modello prevede un “mercato” composto da imprese sociali e civili formate dai cittadini. (Zamagni, 2004, capitolo ottavo). Alla base di questo ragionamento c’è l’idea seniana delle capacitazioni (capitolo terzo) in cui l’attenzione non è posta sulla prestazione ma sulla capacità degli individui di poterne usufruire. Il rapporto tra Stato e cittadini non può né diventare un rapporto erogatore – utente né, come vorrebbero i liberisti, un rapporto venditore – utente ma bisogna favorire l’organizzazione di una vera e propria struttura istituzionale fondata sulle libertà civili e la società civile.(pp. 237-238). Un modello di sviluppo basato sulle capacitazioni necessita un modello di welfare civile e partecipato. In conclusione di questo paragrafo si possono già intuire i lineamenti di un paradigma dello sviluppo civile, ma è necessario chiarire due aspetti fondamentali: il capitale sociale e la felicità. Il capitale sociale, così come si è visto nel paragrafo precedente, è un elemento centrale per lo sviluppo poiché attraverso ad esso si favoriscono fiducia e cooperazione civile. (Radhuber 2008, p.8). Zamagni, precisamente, parla di capitale civile, concetto ancora più ampio che comprende il capitale sociale (cioè le relazioni, come inteso da Trigilia), l’assetto istituzionale democratico e la capacità di produrre beni relazionali. La felicità non è sinonimo di ricchezza così come sviluppo non è sinonimo di crescita ed in questo la posizione dell’economia civile ricalca le critiche seniane a cui si è dato spazio nel terzo capitolo. Inoltre l’economia civile accoglie il contributo di quegli studi che legano la felicità delle persone al loro grado di partecipazione alla vita civile, politica e democratica. L’economia civile, in conclusione, vorrebbe umanizzare il mercato rendendolo luoghi di incontri civili e civilizzanti, dove la felicità torni ad essere al centro del pensiero economico stesso. In questo senso è corretto introdurre ora il paradigma dello sviluppo civile, inteso come miglioramento qualitativo e quantitativo del capitale civile, in un contesto di democrazia economica sostenibilità ambientale. 150 Lo sviluppo civile L’approccio istituzionalista dello sviluppo locale, con le sue componenti critiche, e l’approccio dell’economia civile sembrano ben integrarsi nel concetto di sviluppo civile. Una recente letteratura ha individuato nel concetto di “social economy” un’alternativa di sviluppo che rifiuta il paradigma della sola competizione di mercato (Amin e Tomaney 1995, Amin, Cameron e Hudson 2002). La “social economy” si riferisce solitamente al Terzo Settore, tra il sistema privato di mercato ed il sistema pubblico di governo. A questo settore solitamente vengono associale le cooperative, le ONG e le fondazioni (charities). Questa nuova “economia” alternativa può essere considerata il “terreno” di incontro tra lo sviluppo locale e l’economia civile. In questo senso il contributo di autori di scuola “istituzionalista” come Amin, è sicuramente fondamentale. Secondo Zamagni l’economia sociale si distingue dall’economia civile in quanto la prima interviene sul lato dell’offerta operando in modo da “umanizzare” i processi di produzione mentre l’economia civile interviene sul lato della domanda permettendo ai cittadini di organizzarsi e strutturarsi per poter interloquire in modo autonomo con i soggetti dell’offerta. (Zamagni, 2002). Il nuovo paradigma offerto dal binomio economia sociale – economia civile è quello di un modello alternativo che non abbia però la pretesa di scardinare né il libero mercato o né il welfare state, fondato sull’azione statale. L’idea di fondo dell’approccio strutturalista di Amin è che le politiche neo-liberiste per lo sviluppo degli anni Ottanta sono fallite perché oltre a aumentare la disoccupazione e a favorire le disparità sociali e regionali, hanno mancato anche il loro obiettivo principale cioè la crescita. L’economia sociale può invece creare la basi di quella “coesione” che è l’elemento centrale, per esempio, della politica comunitaria europea. (Amin e Tomaney 1995). E’ facilmente intuibile la complementarità tra la coesione richiesta dalla comunità europea e la fraternità dell’economia civile. 151 Fondamentale, pero, è che l’economia sociale non venga associata troppo al paradigma dell’economia neo-liberista stravolgendo il senso stesso di quello che vuole essere un paradigma alternativo. L’approccio dello sviluppo locale inteso come valorizzazione dei territori in un’ottica di economia sociale e civile deve rifiutare la logica della competitività di mercato per evitare che questo tipo di economia o le imprese sociali diventino solo un modo per rendere più “appetibile” al mercato un territorio o un’impresa. Un elemento centrale della critica radicale a questo tipo di economia sociale, e quindi di sviluppo, è proprio inerente all’idea di “capitale sociale” che non deve essere un concetto astratto, pronto ad essere “sbandierato” per migliorare la competitività di un territorio, ma deve essere elemento fondamentale di un’economia basata sulla fiducia e la cooperazione. La pericolosità dell’uso del concetto di “capitale sociale” come di “particelle elementari per descrivere il successo o il fallimento di intere comunità” (Hadjimichalis 2006) rischia di svuotarne il significato, caricando di eccessivo peso il suo valore L’idea “poetica” di un capitale sociale che unisce tutti e crea l’immaginario di una società priva di conflitto rischia di delegittimare l’importanza stessa delle relazioni sociali che non sono fatte solo di fiducia e cooperazione ma anche di scontri e contrapposizioni. Il capitale sociale, inteso come centro di rapporti cooperativi, non nasce dal nulla ma dovrebbe aiutare a rinsaldare i legami tra economia, cultura e società, che non risaltino lo scontro e la competizione, come il mondo neo-liberista ha imposto negli ultimi decenni, ma l’incontro. L’idea di sviluppo civile prescinde da questi aspetti e, quindi, la valorizzazione del territorio e del suo capitale sociale dipende da un’idea di sviluppo che non può essere quella neo-liberista di mercato, focalizzata solo sulla crescita. I progetti di economia sociale e di economia civile (sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta) non possono realizzarsi esclusivamente nel “Terzo settore” ma devono contribuire attivamente alla creazione di un paradigma alternativo di sviluppo. E’ importante avere presente il rischio dell’affermazione dell’idea che il “Terzo Settore”debba essere una via intermedia che insegue chi è “vincente”, dato che la distinzione tra vincitori e vinti viene effettuata in base al successo economico nel libero mercato. (Hadjimichalis e Hudson, 2007). 152 I principi su cui si fonda lo sviluppo civile sono la cooperazione e la democrazia economica e non il successo di un modello territoriale da esportare. Lo sviluppo civile in un’economia sociale, intesa come alternativa all’economia di mercato, contribuisce alla formazione di un’alternativa basata sulle pratiche di democrazia economica, sulle relazioni sociali e sul miglioramento della “cittadinanza sociale” (Hadjimichalis e Hudson, 2007, p.103). Un ruolo importante dello sviluppo civile potrebbe essere quello di aumentare l’integrazione dei soggetti più discriminati (immigrati, poveri, donne..) diminuendo, oltre che le disuguaglianze economiche, l’esclusione sociale e favorendo coloro che rischiano di essere esclusi sia dall’economia di mercato sia da una politica statale sempre più corporativa, che tende ad escludere molti soggetti svantaggiati. Un esempio di intervento per favorire lo sviluppo civile è il bilancio partecipato che favorisce la partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica ed economica della propria città o comunità. La partecipazione attiva si realizza innanzitutto su base territoriale. Nel corso di riunioni pubbliche la popolazione di ciascuna circoscrizione è invitata a precisare i suoi bisogni e a stabilire delle priorità in vari campi o settori (ambiente, educazione, salute...). A questo si aggiunge una partecipazione complementare organizzata su base tematica attraverso il coinvolgimento di categorie professionali o lavorative (sindacati, imprenditori, studenti..). Ciò permette di avere una visione più completa della città, attraverso il coinvolgimento dei settori produttivi della città. La municipalità o il comune è presente a tutte le riunioni circoscrizionali e a quelle tematiche, attraverso un proprio rappresentante, che ha il computo di fornire le informazioni tecniche, legali, finanziarie e per fare delle proposte, attento, però, a non influenzare le decisioni dei partecipanti alle riunioni. Alla fine ogni gruppo territoriale o tematico presenta le sue priorità all'Ufficio di pianificazione, che stila un progetto di bilancio, che tenga conto delle priorità indicate dai gruppi territoriali o tematici. Il bilancio viene alla fine approvato dal consiglio comunale. Nel corso dell'anno, attraverso apposite riunioni la cittadinanza, valuta la realizzazione dei lavori e dei servizi decisi nel bilancio partecipativo dell'anno precedente. 153 Di solito le amministrazioni comunali, visti anche i vincoli di bilancio cui sono tenuti per legge, riconoscono alle proposte avanzate dai gruppi di cittadini la possibilità di incidere su una certa percentuale del bilancio comunale (dal 10 al 25%) Nonostante sia un intervento che rimane nel contesto dell’attività pubblica, il bilancio partecipato permette una forma di democrazia diretta molto importante che favorisce la coesione dei cittadini di una stessa città o quartiere. Forme di democrazia diretta come questa e forme di cooperazione e associazionismo nate all’interno del capitale sociale di una comunità permettono di contribuire al modello di sviluppo civile che viene descritto in questo capitolo. La presenza di “imprese sociali” e di un relativo mercato sociale permette ad iniziative di valorizzazione territoriale di uscire dalla logica della competitività del libero mercato creando domanda ed offerta (economia sociale e civile) di una forma nuova di “economia”. Il binomio “civile” e “sociale” ha l’obiettivo di colmare quel deficit di reciprocità che viene evidenziato dall’economia civile e di creare quella coesione fondamentale che è anche molto importante per alcune politiche europee (FSE)5. Ciò che risulta fondamentale però è che non dobbiamo chiederci in che modo possiamo aumentare la competitività di un territorio ma in che modo possiamo migliorare la salute e le condizioni di vita di tale territorio; non dobbiamo chiederci in che modo favorire le learning regions o le learning firms ma in che modo sviluppare un economia capace di supportare diverse forme di imprenditorialità locale ed un piano per le questioni legate all’immigrazione indotta dallo sviluppo; inoltre, invece di seguire l’idea che tutto sia sovrimposto dalle forze della globalizzazione, dovremmo partecipare alla vita democratica locale per migliorare la qualità della vita locale. (Hadjimichalis e Hudson, 2007, p.107) In sintesi tutte le politiche europee per lo sviluppo, la coesione e l’occupazione dovrebbero favorire un modello alternativo che non sia succube del modello attuale 5 Il Fondo Sociale Europeo è uno dei più importanti strumenti finanziari dell'Unione Europea, nell'ambito delle politiche comunitarie la sua azione si esplica nello sviluppo e nel finanziamento di una serie di progetti volti allo sviluppo e alla promozione della coesione tra i diversi stati membri, nel quadro del Trattato di Roma siglato nel 1957, che sancì la nascita della Comunità Economica Europea (www.fondosocialeeuropeo.it). Per un commento critico: Amin e Tomaney (1995) 154 ma che ambisca a cambiarne la natura per, usando le parole di Zamagni, umanizzare l’economia di mercato. Lo sviluppo civile porta con sé necessariamente elementi di riformismo radicale del sistema capitalistico che, però, non prevedono né il superamento di tale sistema né la negazione dello sviluppo capitalistico. Lo sviluppo di imprese sociali localizzate, di cooperative il cui elemento centrale è la reciprocità, di forme di democrazia economica diretta sono esempi del tentativo di sviluppare un egemonia politica5 sugli interventi di sviluppo locale e regionale, attraverso i principi di democrazia (Hadjimicalis e Hudson, 2007, p.107). Questi segnali si integrano perfettamente alla critica al paradigma mercato-centrico dello sviluppo, dove tutto è competizione. In conclusione di questo paragrafo, gli elementi caratterizzanti dello sviluppo civile possono essere riassunti in: la valorizzazione del capitale civile e sociale del territorio, la democrazia economica, la cooperazione e la reciprocità. Il contributo dello sviluppo civile tende a favorire un “capitalismo migliore” fortificando l’economia sociale e l’incontro tra società civile ed istituzioni nel contribuire allo sviluppo della società. 5 Il riferimento è agli scritti sull’egemonia presenti nelle lettere dal carcere di Antonio Gramsci (2007) 155 La fine dell’economia: l’inizio dello sviluppo Il titolo di questo paragrafo prende spunto dal famoso saggio di Sergio Ricossa: “La fine dell’economia”. Ricossa individua in Keynes e Marx due perfettisti il cui fine ultimo deve essere la fine dell’economia. Concordo con l’economista torinese nell’affermare che sia Keynes, che Marx aspirino a liberare l’uomo dallo sfruttamento e dal bisogno capitalistico e individuino nel sistema di mercato la fonte della priorità di alcuni sentimenti negativi, come l’avarizia. La profezia di Keynes è particolarmente esplicativa: “il problema economico non è, se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana.. Vedo quindi uomini liberi tornare ad alcuni dei principi più solidi ed autentici della religione e delle virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro è spregevole, e che chi meno si affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano” (J.M. Keynes, 1991, Esortazioni e profezie, p.63-64). Un altro elemento centrale per la fine dell’economia, secondo Ricossa, è il concetto di stazionarietà: “Il nirvana è una sorta di “stato stazionario”, che si oppone allo sviluppo senza fine dell’economia. […] i perfettisti finiscono col ritenere lo sviluppo economico illimitato un assurdo tanto inopportuno quanto impossibile. Cambia solo la spiegazione dell’impossibilità: talvolta è il difetto di domanda effettiva, talaltra è l’esaurimento delle risorse naturali, che blocca la crescita dell’offerta” (Ricossa, 2004, p.77-78). Gli elementi principali emersi in questo lavoro ci sono tutti: scarsità delle risorse, stazionarietà e, riprendendo Keynes, l’aspetto valoriale. Lo sviluppo civile, che abbiamo introdotto nel paragrafo precedente, non ha la pretesa di voler la fine dell’economia, così come non avrebbe voluto la fine dell’economia J. M. Keynes. Lo sviluppo civile si inserisce in una filosofia che 156 respinge la visione positivista e “apriorista”6 che vede l’economia come la scienza della sola azione umana e dello scambio. Come è emerso nel primo capitolo, la scienza economica è vista come una scienza positiva, cioè libera da giudizi di valore. Anche secondo Ricossa l’economia e, con essa, la scienza economica non sono soggetti a valutazioni morali, ma è necessario studiare esclusivamente l’azione umana. La visione dello sviluppo civile non crede che la scienza economica possa allontanarsi dall’etica e ripropone per questo che l’economia torni ad essere una scienza umana e “sociale”, allontanandosi sia dal positivismo neoclassico che dalla prasseologia “austriaca”. L’economia, come abbiamo visto è “immersa” nella società e la scienza economica è necessariamente influenzata da sociologia, psicologia e etica. Lo sviluppo civile, partendo da questa convinzione, tende a valorizzare gli aspetti di cooperazione tra gli individui per favorire un visione più olistica dello sviluppo stesso. Si può affermare che questo nuovo paradigma dello sviluppo che si focalizza sulla reciprocità e la cooperazione si adatti maggiormente ad accogliere le critiche di coloro che sostengono uno sviluppo ecologicamente sostenibile e uno sviluppo umano omnicomprensivo. Queste critiche, che sono state tratteggiate nei primi capitoli, inerenti al deficit etico ed ecologico dell’economia dello sviluppo vengono assorbite dall’idea di un’ “evoluzione” dello sviluppo che sia fondato sull’aumento ed il miglioramento del capitale civile e sociale della società contemporanea. Un modello basato su qualità della vita, sostenibilità ambientale e cooperazione è intrinseco all’idea dello sviluppo civile, che può diventare il binario alternativo al paradigma dello sviluppo incontrato nella prefazione. Un nuovo modello che sappia accogliere le critiche “ecologiche” di Daly e le critiche “etiche” di Sen può fondarsi sull’idea che gli elementi centrali dello sviluppo stesso non possano essere solamente la crescita e la competitività ma debbano essere lo sviluppo umano, la sostenibilità ambientale e la libertà in un contesto di democrazia economica e partecipazione civile basata sulla reciprocità. 6 In questo caso ci si riferisce al metodo “presseologico” e “apriorista” di Mises e della Scuola Austriaca, della quale Ricossa fa parte. Per approfondimenti: Barotta e Raffaelli (1998) e Motterlini (2000) 157 Non si vuole negare un processo di sviluppo o bandire la parola stessa perché usata troppo spesso come panacea per tutti i mali ma accogliere gli elementi di criticità esposti nei capitoli precedenti per favorire la riformulazione del paradigma stesso. Questo nuovo paradigma permette la formulazione e l’implementazione di “politiche” a sostegno del miglioramento del capitale sociale e civile di un territorio. Si possono individuare tre categorie di interventi: 1) Politiche per favorire la partecipazione civile e la democrazia economica. Queste “politiche”, che si possono definire “istituzionali” o strutturali favoriscono necessariamente la partecipazione dei cittadini, nell’ottica di una democrazia economica partecipata ed attiva. Strumenti come il bilancio partecipativo, o le politiche di economia sociale di inclusione delle fasce più deboli della popolazione o di formazione delle stesse sono esempi perfetti di politiche adatte ad uno sviluppo civile. L’idea centrale di tutti questi interventi è quella di porre l’uomo al centro dello sviluppo e di favorire la libera partecipazione e la libera cooperazione dei cittadini nella attività economiche. Strumenti di programmazione territoriale focalizzati su un sistema partecipativo bottom-up sono sicuramente utili alla formazione di questo paradigma. 2) Politiche per incrementare la coesione e la reciprocità. Si possono auspicare interventi di agevolazione fiscale e “infrastrutturale” che favoriscano l’emergere di economie non profit che sia fondino su una reale reciprocità e non su criteri di mercato; interventi volti a favorire la nascita di associazioni di consumo solidale e alternativo che influenzino la domanda stessa di beni. Si auspica un aumento della cooperazione e della coesione sociale a sostegno del capitale sociale con particolare attenzione alla valorizzazione dei territori, secondo una logica di miglioramento della qualità della vita e non di competitività. Il contributo di politiche volte a favorire “l’umanizzazione” dell’economia di mercato contribuendo a rendere “socialmente sostenibili” le imprese ed i mercati rientrano nell’ottica dello sviluppo civile. L’aumento sempre più forte dell’importanza dei beni relazionali favorisce la formazioni di strutture cooperative volte a soddisfare questi “bisogni”. 158 3) Politiche a sostegno della sostenibilità ambientale Questi interventi sono già stati esposti nel capitolo quinto quando si è discusso del concetto di sostenibilità ambientale di Hermann Daly. Riassumendo si possono individuare nella contabilità ambientale e nel rispetto del concetto di sostenibilità forte alcuni elementi di proposta politica molto interessanti per lo sviluppo civile. Credo sia impossibile slegare lo sviluppo civile da una politica economica improntata sulla sostenibilità ambientale. Otre alle politiche pratiche, è fondamentale intervenire nell’ambito dell’informazione a sostegno di un modello alternativo: il ruolo dei cosiddetti “media” i questo caso è fondamentale (De Biase 2007). Senza usare le metafore di Latouche sulla rivalutazione dell’immaginario, è corretto considerare l’intervento culturale come uno degli elementi fondamentali per modificare l’assolutismo di un paradigma di sviluppo basato su consumo, spreco e crescita. Si può condividere in parte l’idea che lo sviluppo civile, umano e sostenibile abbia necessariamente bisogno di affrontare il “problema dell’egemonia culturale” di gramsciana memoria (Gramsci, 2007). Lo strumento dei nuovi media (internet) può sicuramente essere una strada per “sensibilizzare” le persone sui limiti ecologici e sociali di un modello che ha i difetti che si sono più volte evidenziati in questo lavoro (De Biase, 2007). In conclusione, lo sviluppo civile non aspira a diventare un modello rivoluzionario del sistema capitalistico ma crede di poter dare un contributo al miglioramento di tale sistema per permettere quella “deviazione del treno” invocata nella prefazione. I ragionamenti proposti in questo paradigma contengono elementi sia di riformismo (miglioramenti all’interno del sistema) sia utopici, con la speranza di un futuro migliore. In questo senso, se usassimo la dicotomia ricossiana, lo sviluppo civile è certamente da iscrivere al filone “perfettista” della storia del pensiero. 159 Conclusioni “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo” Karl Marx Questo lavoro ha ripercorso la storia dell’idea di sviluppo ed è giunto ad una critica “simpatetica” ad un paradigma che, nei fatti, ha dominato per decenni. Lo sviluppo civile, così come lo sviluppo umano, lo sviluppo sociale e lo sviluppo sostenibile rappresenta una “via d’uscita” per il treno della crescita. L’apporto sostanziale di grandi economisti ha modificato nel corso del tempo l’idea che crescita economica e sviluppo fossero sempre e comunque sinonimi. La critica talvolta più e talvolta meno radicale di autori come Karl Polanyi, Albert Hirschman e Amartya Sen ha arricchito il paradigma dello sviluppo negando che esso possa dipendere esclusivamente da fattori economici. L’approccio “istituzionalista” dello sviluppo locale e dello sviluppo civile accoglie molte di queste critiche e si pone in aperta contrapposizione con l’idea, o meglio ancora, con il dogma che la crescita sia sempre e comunque auspicabile. Lo sviluppo civile si pone in un filone di studio dell’economia che tende a studiare il bene comune ed il modo attraverso il quale è possibile migliorarlo. In questo lavoro non c’è nessuna intenzione di aderire in modo “ideologico” ad idee “anti-progressiste” che, troppo spesso, radicalizzano lo scontro, proponendosi come unica via di salvezza. Questo “nuovo” concetto rischia certamente di “peccare” dell’utopismo dei cultori della decrescita, ai quali va riconosciuto il merito di proporre comunque una reale alternativa al baratro verso il quale corre il “treno” dello sviluppo. Nonostante questi meriti, non si può certo condannare una parola - “sviluppo” – individuando in essa tutti i mali per proporre una vera e propria rivoluzione anti-mercantilista. Esistono, nonostante quel che possa credere Latouche, alternative sostanziali al baratro ed esse sono state esposte, forse in 160 modo sommario, in questo lavoro. Sviluppo sociale, sviluppo umano, sviluppo sostenibile e sviluppo civile: queste sono le strade alternative che si uniscono in un unico “binario” di salvezza e che permettono di proseguire su una linea ideale di sviluppo, senza obbligare gli uomini a buttarsi giù dal treno rinunciando a tutto ciò che hanno conquistato. Nell’esporre le caratteristiche del concetto di sviluppo civile si sono affrontati temi fondamentali come la “democrazia economica”, la cooperazione, la reciprocità e lo sviluppo locale, inteso come la valorizzazione del territorio. Il concetto di democrazia economica è fondamentale poiché introduce lo sviluppo civile in un paradigma alternativo di economia dove libertà, democrazia ed uguaglianza possono coesistere (Dahl, 1989). Questa democrazia economica si può realizzare non solo all’interno dell’imprese con forme di proprietà collettive e cooperazioni sostanziali, dove possono essere presenti forme di autogoverno democratico, ma anche attraverso la creazione di un mercato plurale dove possano operare imprese capitalistiche, imprese sociali ed imprese civili. Alla democrazia economica, infatti, non basta il pluralismo nelle istituzioni; essa esige anche il pluralismo delle istituzioni economiche – un pluralismo dove le forme di impresa diverse da quella capitalistica – ad esempio le imprese cooperative – non devono essere considerate forme “minori” di impresa. Se si vuole “umanizzare l’economia” è necessario che all’interno dello spazio economico possano operare – senza discriminazione alcuna - soggetti il cui agire è ispirato al principio di reciprocità (cooperative, imprese dell’economia di comunione, etc..). (Zamagni, 2004). Democrazia economica significa quindi portare più democrazia all’interno degli operatori economici e delle istituzioni economiche fornendo un’alternativa seria al mercato liberista, senza per questo negare il mercato stesso. Per migliorare il “grado di democrazia” all’interno di una società capitalista è certamente necessario avviare una vasta campagna culturale centrata sulla figura, affatto nuova, del consumatore socialmente responsabile. Anche il cittadino, in quanto consumatore, non può ritenersi esonerato dall’obbligo di utilizzare il proprio potere d’acquisto per contribuire a conseguire fini che egli giudica eticamente 161 rilevanti. Nella realtà, il consumatore non è mai stato sovrano e non lo è neppure oggi. Potenzialmente però il consumatore ha oggi la capacità di inviare messaggi alla produzione perché questa si adegui alle sue preferenze. Spendendo il suo potere d’acquisto in un modo piuttosto che nell’altro, il consumatore invia un segnale ben preciso a chi produce per indicargli non solo ciò che più gradisce che lui produca ma anche il modo in cui desidera che quel prodotto venga ottenuto. Tanto è vero che se il consumatore sa che certi beni sono prodotti in un modo che egli giudica eticamente contrario alla sua visione del mondo scatta la sanzione economica, ad esempio nella forma del boicottaggio o della denuncia mediatica. Alla luce di quanto sopra, si può apprezzare l’importanza strategica, oltre che simbolica, di iniziative quali il consumo critico, gruppi di acquisto solidale, la finanza etica, le iniziative di asset building (di cui la microfinanza è l’esempio più noto). In definitiva, il punto da sottolineare è che non c’è solo il voto politico quale strumento di democrazia; c’è anche il voto economico, il cui senso è quello di portare dentro l’arena del mercato l’esercizio dell’opzione voice (nel senso di Hirschman1). La democrazia economica postula che i consumatori possano indurre, con le loro decisioni di spesa, imprese e istituzioni ad operare per il perseguimento di fini socialmente legittimati. E’ in ciò il senso profondo della sussidiarietà fiscale e delle pratiche di “amministrazione condivisa”, tra cui “bilancio partecipato”, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. (Zamagni, 2004) La democrazia economica non può non essere un elemento centrale del nuovo paradigma dello sviluppo, poiché alla base di questo paradigma ci sono partecipazione attiva, cooperazione e sviluppo civile (e civico). Senza democrazia non c’è sviluppo civile e viceversa. L’importanza della dimensione locale dello sviluppo emerge in diversi punti di questo lavoro poiché lo sviluppo civile, basandosi su concetti quali la partecipazione civile, la cooperazione e la democrazia economica, necessita certamente di una valorizzazione del capitale sociale di un territorio. Non bisogna mai dimenticare che lo sviluppo è inteso sia in una dimensione locale, sia in una dimensione globale e che gli effetti globali sullo sviluppo locale rivestono un’importanza fondamentale; se ci si 1 Cfr. ad Hirschman: capitolo terzo 162 dimenticasse di ciò si rischierebbe di incappare i forme di localismo corporativo che sono assolutamente inconciliabili con lo sviluppo civile. A questo proposito è giusto chiarire che il vero nemico dello sviluppo civile non è il mercato in quanto tale ma la difesa corporativa di posizioni di rendita all’interno dell’economia. In questo senso, il mercato ha una funzione progressista2 e anticonservatrice che si coniuga anche con lo sviluppo civile. Per lo sviluppo è auspicabile un ritorno a quella versione “umanizzata” del mercato che è stata descritta nei capitoli precedenti. Lo sviluppo civile non è certamente “no-global” ma “new-global”: si crede, cioè, che la globalizzazione si possa fondare non solo sulla competitività economica ma anche su altri “metri di giudizio” come la sostenibilità ambientale e sociale. Non si possono certo condividere soluzioni semi-autarchiche di chiusura dei confini ed esasperazione di localismi identitari a difesa di corporazioni, sacrificando “il bene comune” e progetti fondamentali di coesione comunitaria tra paesi. Il problema etico ed il problema ecologico ci pongono di fronte ad una serie di scenari che sono stati ben schematizzati dal “The Stockholm Environment Institute” attraverso alcuni ipotesi di scenari creati nel Global Scenario Group3. Vengono individuati tre gerarchie che rappresentano fondamentalmente tre visioni sociali differenti: mondi convenzionali, barbarizzazione e grandi transizioni. All’interno di ogni gruppo vengono individuate due varianti che forniscono un totale di sei scenari possibili. Mondi convenzionali. Secondo questa visione l’evoluzione del sistema globale rimane pressoché costante senza grandi variazioni e cambiamenti. L’economia mondiale continuerà a crescere e favorire lo sviluppo degli altri paesi. Ciò può avvenire attraverso: a) Le forze di mercato: i problemi sociali ed ambientali saranno corretti dalla crescita del sistema economico attraverso la logica della competitività dei mercati. 2 Cfr a Smith, capitolo primo 3 Il Global Scenario Group esamina le prospettive per lo sviluppo mondiale nel ventunesimo secolo: www.gsg.org 163 b) Riforme politiche: L’azione coordinata dei governi favorirà uno sviluppo sostenibile e garantirà condizioni di equità. Barbarizzazione. Questo scenario prevede che i legami sociali, economici e morali della civilizzazione si deteriorino e che i problemi si impongano sui mercati e sulla capacità delle politiche economiche a) Crollo: si crea una situazione di conflitto permanente con il crollo delle istituzioni e la crisi economica b) Mondo fortezza: Risposta autoritaria alla paura del crollo con la creazione di fortezze di difesa corporativa e contemporanea miseria, distruzione ambientale e repressione all’esterno delle “fortezze” Grandi transizioni. Questa visione prevede una soluzione alla sfida della sostenibilità attraverso fondamentali cambiamenti di valore e nuovi cambiamenti socio-economici. Si rappresenta una transizione ad una società che preserva i sistemi naturali, provvede ad alti livelli di welfare attraverso una distribuzione equa favorendo un forte senso di solidarietà sociale. Questa transizione è caratterizzata da un livello più basso di consumi ed un uso massiccio di tecnologie verdi. a) Eco- comunalismo: questa visione incorpora la visione “verde” del bioregionalismo, il localismo, la democrazia diretta, le piccole tecnologie e l’autarchia economica b) Paradigma della nuova sostenibilità: questa visione condivide molti obiettivi dell’eco –comunalismo ma vorrebbe cercare un cambiamento del carattere della situazione urbana ed industriale piuttosto che sostituirlo. Vorrebbe costruire una civilizzazione globale più umana ed equa piuttosto che rifugiarsi nel localismo. Lo sviluppo civile si integra perfettamente nella logica della grande transizione che sostiene il paradigma della nuova sostenibilità. La grande transizione, anche attraverso lo “stato stazionario” di Daly, auspica uno sviluppo più coerente con i limiti ecologici di questo pianeta, non dimenticandosi la dimensione etica dell’economia. 164 Il binario che permette la salvezza del treno è proprio quello dello sviluppo civile e della grande transizione perché questa strada alternativa può permettere di non fermare lo sviluppo evitando la dannazione autodistruttiva del Faust - capitalismo (Ruffolo, 2006). La politica ha il compito di guidare la transizione e per farlo deve tornare ad essere l’arte della res pubblica, del bene comune, abbandonando schemi retorici del passato e visioni mercantilistiche del presente. Il ruolo delle varie istituzioni, politiche e non, è quello di fornire alla società la possibilità di dare vita a forme alternative di sviluppo combattendo il dogmatismo ideologico e competitivo del neo-liberismo, ma rinunciando a chiusure ideologiche che negano i contributi positivi del mercato stesso; chiusure che risultano essere altrettanto pericolose. Lo sviluppo civile, così impostato, rischia di apparire poco simpatetico, ma molto critici verso il predominio degli ultimi decenni della visione puramente competitiva. In realtà, lo sviluppo civile, così come molti altri notevoli contributi in materia (sviluppo umano, sviluppo sociale, etc..) potrebbe risultare fondamentale alla sopravvivenza dello sviluppo, evitando, a lui e noi tutti, il precipizio. 165 Riferimenti Bibliografici Amin, A. 1999 An institutional perspectives on regional development, in “International Journal of Urban and Regional research”, 23, 2, pp. 365-378. Amin, A., Cameron, A., Hudson, R. 2002 Placing the social economy, New York, Routledge Amin, A.,Tomaney, J. 1995 The regional dilemma in a neo-liberal Europe, in “European Urban and Regional Studies”, 2, pp. 171-188. 1995 Behind the myth of Europea Union: prospects for cohesion, New York, Routledge Amin S. 1977 Sviluppo ineguale: saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico, Torino, Einaudi Anell L., Nygren B. 1980 The developing countries and the world economic order, Cambridge (Mass.), Bracton Books Arndt, W.H. 1990 Lo sviluppo economico: storia di un’idea, Bologna, Il Mulino Bagnasco A. 1977 Tre Italie: La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, Il Mulino Baran, P. 1952 The political economy of backwardness, Manchester, The Manchester School 1960 The political economy of growth, New York, Marzani & Munsell 1971 Il surplus economico e la teoria marxista dello sviluppo, Milano, Feltrinelli Barotta P., Raffaelli, T. 1998 Epistemologia ed economia, Torino, UTET 166 Bauer, P. T. 1991 The Development Frontier: Essays in Applied Economics, Cambridge, Mass. Harvard University Press Bauman, Z. 2000 Dentro la globalizzazione, Roma-Bari, Laterza Becattini, G. 2001 (a cura di) Il caleidoscopio dello sviluppo locale. Trasformazioni economiche nell’Italia contemporanea, Torino, Rosemberg & Sellier 2002 (a cura di) Lezioni sullo sviluppo locale, Torino, Rosemberg & Sellier 2004 Per un capitalismo dal volto umano. Critica all’economia apolitica, Torino, Bollati Boringhieri Benetti, C. 1979 Smith: la teoria economica della società mercantile, Milano, Etas libri Bevilacqua, P. 2008 Miseria dello sviluppo, Roma-Bari, Laterza Boggio, F., Dematteis, G. 2002 Geografia dello sviluppo, Torino, UTET Bonaiuti, M. 2001 La teoria bioeconomica. La «nuova economia» di Nicholas GeorgescuRoegen, Roma, Carocci Editore Bourdieu, P. 1995 Ragioni pratiche, Bologna, Il Mulino Bruni, L., Zamagni, S. 2004 Economia civile, Bologna, Il Mulino Capello, R. 2004 Economia regionale, Bologna, Il Mulino Coleman, R.J. 1988 Social Capital in the Creation of Human Capital in “American Journal of Sociology”, vol.94, pp.95-120 Conti, S. 1996 Geografia economica, Torino, UTET 167 Dacrema, P. 2007 La dittatura del Pil, Venezia, Marsilo Dahl, R. A. 1989 La democrazia economica, Bologna, Il Mulino Dahrendorf, R. 2005 Libertà attiva, Roma–Bari, Laterza Daly, H. E. 1981 Lo stato stazionario, Firenze, Sansoni 2001 Oltre la crescita, Bologna, Il Mulino Daly, H. E., Cobb Jr., J.B. 1994 Un’economia per il bene comune, Como, Red Edizioni Dasgupta, A.K. 1987 Teoria economica da Marx e Keynes, Bologna, Il Mulino Dasgupta, P. 2007 Povertà, ambiente e società, Bologna, Il Mulino De Biase, L. 2007 L’economia della felicità, Milano, Feltrinelli De Luca, A., Salone, C. 2008 Capitolo terzo: Lo sviluppo locale nelle politiche territoriali dell'Unione Europea in AA.VV., Lo sviluppo locale al Nord e al Sud. Un confronto internazionale, Milano, Franco Angeli Dematteis, G. 1994 Possibilità e limiti dello sviluppo locale, in “Sviluppo Locale”, n. 1, pp. 10-30 Dematteis, G., Janin Rivolin, U. 2004 Per una prospettiva sud-europea e italiana nel prossimo Ssse, in “Scienze Regionali”, 2, pp. 136-149. Eisenstadt, S.N., 1966 Modernization: Protest and Change, Englewood Cliffs, Prentice-Hall Fitoussi, J.P. 2004 La democrazia e il mercato, Milano, Feltrinelli 168 Frank, A.G. 1973 Lo sviluppo del sottosviluppo, in Jossa B., Economia del sottosviluppo, Il Mulino, Bologna Furtado, C. 1970 La formazione economica del Brasile, Torino, Einaudi 1975 Gli Stati Uniti ed il sottosviluppo dell’america latina, Milano, Franco Angeli Galbraith, J.K. 2006 Storia dell’economia, Milano, Rizzoli Georgescu- Roegen, N. 2003 Bioeconomia, a cura di Mario Bonaiuti, Torino, Bollati Boringhieri Gramsci, A. 2007 Le opere, a cura di Antonio Santucci, Roma, l’Unità Editore Guadagnucci, L. 2008 Il nuovo mutualismo, Milano, Feltrinelli Habermas, J. 2000 La costellazione post-nazionale. Mondo globale, nazioni e democrazia, Milano, Feltrinelli Hadjimichalis, C. 2006 Non economic Factors in Economic Geography and in ‘New regionalism’: a Sympathetic Critique, in “International Journal of Urban and Regional Research”, 30, 3, pp. 690-704. Hadjimichalis, C., Hudson R. 2007 Rethinking local and reginal development: implications for radical political practice in Europe in “European Urban and Regionale Studies”, 14, 2,pp. 99113 Hicks, J.R. 1975 La crisi dell’economia keynesiana, Torino, Bollati Boringhieri Hirschman, A. 1968 La strategia dello sviluppo economico, Firenze, La Nuova Italia 1979 Le passioni e gli interessi, Milano, Feltrinelli 1983 Ascesa e declino dell’economia dello sviluppo, Torino, Rosemberg & Sellier 169 Jameson, K. P., Wilber, C.K. 1992 (a cura di) The Political Economy of Development and Underdevelopment, New York, McGraw-Hill Keynes, J.M. 1972 Come uscire dalla crisi, Roma-Bari, Laterza 1991 La fine del laissez faire ed altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri 2001 Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, Utet Latouche, S. 1992 L'occidentalizzazione del mondo, Torino, Bollati Boringhieri 2005 Come sopravvivere allo sviluppo, Torino, Bollati Boringheri 2007 La scommessa della decrescita, Milano, Feltrinelli Lenin, V. I. 1966 Imperialismo, fase suprema del capitalismo in Lenin, Opere complete, Roma, Editori Riuniti Lewis, W. A. 2003 The theory of economic growth, New York, Routledge Lippi, M., 1976 Marx: il valore come costo sociale reale, Milano, Etas libri Marx, K. 1954 Il Capitale: critica all’economia politica, a cura di L. Firpo, Torino, Utet Moroni, M. 2008 Alle origini dello sviluppo locale, Bologna, Il Mulino Motterlini, M. 2000 Metodo e valutazione in economia: all’apriorismo a Friedman, Discussion Paper, n.3, Trento, Dipartimento di Economia, Università degli studi di Trento Myrdal, G. 1971 Saggio sulla poverta di undici paesi asiatici : una ricerca patrocinata dal Twentieth Century Fund, Milano, Il Saggiatore 1974 Teoria economica e paesi sottosviluppati, Milano, Feltrinelli Napoleoni, C. 1963 Il pensiero economico del ‘900, Torino, Einaudi 170 Nurkse, R. 1952 Some Aspects of Capital Accumulation in Underdeloped Countries, Oxford, Oxford University Press Pallante, M. 2005 La decrescita felice, Roma, Editori Riuniti Perroux, F. 1978 Il ruolo del potere nell’analisi economica, Milano, Franco Angeli 1983 A new concept of development: basic tenets, London, Croom Helm 1991 L’economie du XXe siècle, Grenoble, Press Universitaire de Grenoble Polany, K. 1974 La grande trasformazione, Torino, Einaudi Poma, L. 1994 La dimensione ermeneutica dell’economia in Albert O. Hirschman, Bologna, Università di Bologna Prebisch, R. 1959 Commercial policy in underdeveloped countries, American Economic Review Preston, P. 1996 Development theory: an introduction, Cambridge (Mass.), Blackwell Putnam, R. 1993 La tradizione civica delle regioni italiane, Milano, Garzanti Radhuber, M. 2008 Crescita economica o sviluppo civile? Altre vie per il mezzogiorno, MPRA Paper No. 8037, posted 02. Raskin, P., Banuri T., Gallopin, G., Gutman, P., Hammond, A., Kates, R., Swart, R. 2002 Great Transiction: the promise and the lure of the times ahead, Boston, The Stockholm Environment Institute Rawls, J. 2004 Teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli Ricossa, S. 1982 Dizionario di economia, Torino, UTET 2004 La fine dell’economia, Roma, Rubettino 171 Rifkin, J. 2002 Economia all’idrogeno, Milano, Mondatori 2004 Entropia, Milano, Baldini Castoldi Dalai Roncaglia, A. 2001 La ricchezza delle idee, Roma-Bari, Laterza Rostow, W. W. 1962 Gli stadi dello sviluppo economico, Torino, Einaudi Ruffolo, G. 1985 La qualità sociale: le vie dello sviluppo, Roma–Bari, Laterza 1994 Lo sviluppo dei limiti: dove si tratta della crescita insensata Roma–Bari, Laterza 2006 Lo specchio del diavolo, Torino, Einaudi 2008 Il capitalismo ha i secoli contati, Torino, Einaudi Sachs, W. 1998 Dizionario dello sviluppo, Torino, Edizioni Gruppo Abele Salone, C. 1999 Il territorio negoziato. Strategie, coalizioni e “patti” nelle nuove politiche territoriali, Firenze, Alinea 2005 Politiche territoriali. L’azione collettiva nella dimensione territoriale, Torino, Utet Università Saltari, E. 1980 Keynesismo e crescita economica, Torino, Loescher Schumpeter, J. 1977 Teoria dello sviluppo economico, Firenze, Sansoni, 1928 The instability of capitalism, in “Economic Journal” Seers, M. 1986 (a cura di), I pionieri dello sviluppo, Roma, ASAL Sen, A. K. 1997 La libertà individuale come impegno sociale, Roma–Bari, Laterza 1998 Etica ed economia, Roma-Bari, Laterza 2000 Sviluppo è libertà, Milano, Mondatori 2006 Identità e violenza, Roma–Bari, Laterza 172 Severino, E. 2007 Il declino del capitalismo, Milano, Rizzoli Singer, H. W. 1973 La distribuzione dei guadagni tra paesi investitori e paesi debitori, in Jossa, B., Economia del sottosviluppo, Bologna, Il Mulino Smith, A. 2001 Teoria dei sentimenti morali, Milano, Rcs Libri 2005 La ricchezza delle nazioni, Roma, Newton Compton Solow, R. 1956 A Contribution to the Theory of Economic Growth, in “Quarterly Journal of Economics”, 70 Stiglitz, J 2004 La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi 2006 La globalizzazione che funziona, Torino, Einaudi Sylos Labini, P. 1960 Economie capitalistiche ed economie pianificate, Bari–Roma, Laterza 2004 Torniamo ai classici: produttività del lavoro, progresso tecnico e sviluppo economico, Bari-Roma, Laterza Sweezy, P. M., Huberman, L. 1965 Paul Baran (1910 – 1964): A collective portrait, New York, Monthly Review Press, Tiezzi, E. 1999 Che cos’è lo sviluppo sostenibile, Roma, Donzelli Editore Trigilia, C. 2005 Sviluppo locale: un progetto per l’Italia, Roma-Bari, Laterza Van Parijs, P. 1995 Real freedom for all, Oxford, Oxford University Press Viveret, P. 2001 Ripensare la ricchezza, Milano, Ed. Terre di mezzo Volpi, F. 1994 Introduzione all’economia dello sviluppo, Milano, Franco Angeli 173 Zamagni, S. 2002 Volontariato ed economia sociale: quale rapporto? in “Terzo Settore” 01/05/2002 2007 L’economia del bene comune, Roma, Città Nuova Zamagni S., Zamagni V. 2008 La cooperazione: tra mercato e democrazia economica, Bologna, Il Mulino Sitografia http://www. gsg.org http://www.decrescita.it http://www.syloslabini.info http://espresso.repubblica.it/ http://blog.debiase.com/ http://www.carta.org/ http://www.brunoleoni.it/ http://bfp.sp.unipi.it/index.htm http://www.fondosocialeuropeo.it http://www.caffeeuropa.it/ 174 Ringraziamenti Ringrazio il relatore prof. Carlo Salone, il correlatore prof. Roberto Burlando, i professori Angelo Besana e Dario Padovan per le loro consulenze. Ringrazio la mia famiglia che mi ha permesso di arrivare fino a questo lavoro; tutti gli amici di questi anni d’università, gli amici del gruppo di studio Xenos e tutti gli altri con i quali ho scambiato idee preziose per questo lavoro. 175 176