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Sviluppo civile: per una critica simpatetica del paradigma

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Sviluppo civile: per una critica simpatetica del paradigma
Università degli Studi di Torino
Facoltà di Economia
TESI DI LAUREA
Sviluppo civile: per una critica
simpatetica del paradigma dello
sviluppo
Candidato: Marco Cavallero
Relatore: Carlo Salone
Correlatore: Roberto Burlando
Anno Accademico 2007/2008
Indice:
Introduzione
Pag.
Capitolo primo: Il concetto classico dello sviluppo economico
4
9
-
Adam Smith: lo sviluppo nella società mercantile
13
-
Karl Marx: sviluppo capitalistico
20
-
John Maynard Keynes: l’inizio dell’economia dello sviluppo
27
-
I modelli di crescita economica: da Harrod – Domar a Solow
31
Capitolo secondo: Il problema del sottosviluppo
35
-
La teoria della modernizzazione
37
-
Lo strutturalismo e la teoria della dipendenza
42
-
La critica neo- marxista e la teoria dell’imperialismo
51
Capitolo terzo: Il contributo “eterodosso” ai modelli di sviluppo
58
-
La grande trasformazione di Karl Polany
60
-
François Perroux e i poli di sviluppo
65
-
Albert Hirschman e la dimensione ermeneutica dello sviluppo
71
-
L’istituzionalismo nella teoria dello sviluppo: Gunnar Myrdal
77
Capitolo quarto: Le critiche liberali ai modelli di sviluppo
84
-
La visione liberista: Peter Tomas Bauer
85
-
Amartya Sen: sviluppo è libertà
91
-
Joseph Stiglitz: globalizzazione e sviluppo
101
2
Capitolo quinto: La fine della crescita
107
-
La bioeconomia di Nicholas Georgescu-Roegen
109
-
L’economia ecologica di Herman Daly
113
-
Jeremy Rifkin: il problema energetico
121
-
La decrescita di Serge Latouche
126
-
Gilbert Rist e le origini dello sviluppo
135
Capitolo sesto: Lo sviluppo locale per un’economia civile
139
-
Dalla crescita regionale allo sviluppo locale
140
-
Introduzione all’economia civile
146
-
Lo sviluppo civile
151
-
La fine dell’economia: l’inizio dello sviluppo civile
156
Conclusioni
160
Riferimenti bibliografici
166
3
Introduzione
“Gli economisti e altri studiosi di
scienze sociali generalmente si
astengono dal proporre le proprie
utopie, anche quando le hanno,
perché
temono
di
essere
considerati ingenui sognatori; è
bene
vincere
questo
timore,
naturalmente presentando le idee
dopo
una
riflessione
ancora
maggiore di quella consueta”.
Paolo Sylos Labini
Cos’è lo sviluppo? La definizione sul dizionario Devoto-Oli recita così: “crescita,
aumento
progressivo,
allargamento,
espansione.
In
economia:
aumento
dell’occupazione, della ricchezza, espansione, crescita”.
Se noi partissimo da questa definizione potremmo esclusivamente pensare allo
sviluppo in termini quantitativi, ma non è così. Lo sviluppo non è solamente
l’aumento di una data variabile nel tempo, bensì l’aumento della qualità della vita
umana. La crescita, al contrario, non considera gli elementi qualitativi
concentrandosi esclusivamente sugli elementi quantitativi. La crescita economica
illimitata è razionale? La risposta sembra ovviamente negativa, ma se analizziamo il
pensiero economico dominante degli ultimi decenni rischiamo di ritrovarci di fronte
a un vero e proprio paradosso: la tecnica al servizio del mercato ha come unico
obiettivo la crescita economica infinita in un mondo in cui per definizione le risorse
sono finite. Il vulnus di ogni singolo ragionamento sullo sviluppo deve partire da
questo problema. Questo lavoro, ripercorrendo la storia del concetto stesso di
sviluppo economico, vorrebbe esporre un’alternativa plausibile al problema dello
sviluppo. Il sistema capitalistico è, per usare la metafora di Giorgio Ruffolo, un
moderno Faust dannato alla crescita illimitata ed autodistruttiva.
4
Sarebbe un errore non riconoscere al capitalismo il suo ruolo nello sviluppo della
specie umana: della sua potenza, della sua ricchezza, del suo benessere. Quali che
siano stati i suoi orrori, e sono stati immensi, non sono certo superiori a quelli delle
civiltà che l’hanno preceduto, fondate sulla schiavitù, sull’oppressione, sulla
violenza; mentre immensamente superiori sono i suoi meriti: l’incomparabile
promozione delle attività di produzione, la diffusione prodigiosa delle innovazioni
tecnologiche e, nei tempi più recenti, il compromesso politico con l’altro grande
merito della modernità: la democrazia. Una riflessione seria non può, d’altra parte,
non riconoscere il rovescio della medaglia: non solo l’esaltazione di Faust, ma anche
la sua dannazione. Il capitalismo ha scatenato poderose forze distruttive
dell’ambiente naturale e della coesione sociale, fino a minacciare la sopravvivenza
stessa della specie. La sua “dannazione” sta nell’assurdità della sua logica della
crescita illimitata. In natura non esistono processi di crescita illimitati, che non siano
votati allo sterminio. I bambini non crescono come giganti, gli alberi non crescono
all’infinito.
I critici più radicali dello sviluppo usano correntemente la metafora del treno in corsa
verso l’abisso. Quali sono le alternative? Tendenzialmente tre: 1) scendere dal treno,
cioè la decrescita della quale ci si occuperà nel quinto capitolo; 2) richiudersi nel
treno oscurando i finestrini; 3) cambiare direzione. La prima possibilità, pur essendo
desiderabile, è altamente utopica e prevede una vera e propria “rivoluzione
culturale”. La seconda possibilità è quella che la società attuale sta percorrendo senza
neppure rendersene conto. La terza possibilità è quella auspicabile della deviazione
verso un’economia solidale che abbia al centro del suo stesso modo di essere uno
sviluppo umano e civile. (Ruffolo, 1994)
Questo lavoro intende percorrere la storia del pensiero economico puntando
l’attenzione ai lavori di coloro che hanno visto e descritto questo percorso e che
hanno proposto soluzioni per modificarne la natura suicida.
L’obiettivo della deviazione può essere raggiunto attraverso il raggiungimento di uno
“stato stazionario”, che per gli economisti classici era un passaggio inevitabile
nell’economia capitalistica. Questa deviazione, dalla crescita all’equilibrio,
comporterebbe una formidabile redistribuzione delle risorse tra i ricchi e i poveri del
mondo, dato che non è concepibile che la crescita possa essere fermata per entrambi
5
mantenendo l’attuale livello di disuguaglianza; comporterebbe inoltre, all’interno di
ogni paese, la fissazione di qualche limite del reddito, minimo e massimo e,
comunque, la sterilizzazione delle possibilità di accumulazione della moneta.
Richiederebbe di ridurrebbe di molto il dominio dell’economia finanziaria su quella
produttiva, che da molti viene considerato come l’origine dei problemi dell’economia
contemporanea.
La deviazione richiederebbe un rovesciamento delle priorità tra beni collettivi e beni
privati. La " resistenza fiscale” e la netta prevalenza nella soddisfazione dei desideri
privati rispetto ai bisogni pubblici potrebbero essere superati da un “mercato dei beni
pubblici”, forniti da imprese sociali o cooperative di cittadini autogovernate che
darebbero a questi ultimi il controllo delle scelte e della spesa relativa, eliminando i
costi della burocrazia e l’iniquità dell’evasione fiscale. Lo sviluppo del cosiddetto
Terzo settore opera proprio secondo questa logica.
Quella teorizzata da questo approccio è un’economia solidale e civile che rompe lo
schema marginalista, o monetarista, al punto che c’è da chiedersi se quella così
sommariamente tracciata sia ancora economia nel senso in cui noi la intendiamo, e
cioè una produzione e distribuzione delle risorse fondata sugli interessi degli
individui e non su quelli della società: i quali, con buona pace del pensiero unico,
non coincidono affatto “automaticamente” con i primi attraverso il meccanismo del
libero mercato.
Quel che è certo, è che un radicale riorientamento della specie umana dall’attuale
corsa letteralmente insensata verso una condizione di equilibrio, dalla competizione
alla cooperazione, non richiede soltanto una riforma dell’economia, ma una
rivoluzione culturale, o addirittura antropologica. Richieda uno sviluppo della
coscienza, anziché una crescita della potenza: dell’essere, rispetto all’avere; la “fine
del paradigma economico” cioè dell’autonomizzazione dell’economia e il suo
“rientro” (rembeddment) nell’ambito di una società che abbia riacquistato la
consapevolezza dei limiti naturali e dei bisogni di solidarietà sociale.
La fine dell’economia, che J.M. Keynes vorrebbe raggiungere per “liberare l’uomo
dal bisogno”, può avvenire solo attraverso un’economia solidale ed uno sviluppo
civile ed essi passano attraverso la dimensione locale dello sviluppo e attraverso il
capitale umano e sociale.
6
I problemi fondamentali hanno una doppia natura, etica ed ecologica e come si vedrà
i vari autori che si incontreranno pongono questi due aspetti in primo piano. Il
problema ecologico viene affrontato sistematicamente nel capitolo quinto; quello
etico accompagna tutto il lavoro. La separazione della scienza economica dall’etica
ha causato e causa un grave deficit di capacità di analisi dell’economia stessa.
La scienza economica ha smesso di indagare i fini per occuparsi dei mezzi dopo aver
reciso il cordone che la legava ai principi morali. L’economia, al contrario, deve:
“poter spiegare qual è il modo in cui i beni possono maggiormente servire per
aumentare il benessere, certamente la ricchezza, ma anche la felicità, la felicità che è
inscritta non nei libri di economia, ma lo è in una delle più grandi costituzioni
politiche della storia, la costituzione americana: happiness, la felicità del popolo. Gli
economisti dovrebbero essere coscienti che la ricchezza serve alla felicità, che
l’economia serve all’uomo e non è l’uomo a servire l’economia”. “L’economia non
insegna a produrre. Quello è il compito della tecnica. L’economia insegna a
scegliere. Scegliere quali cose produrre e quali metodi della produzione utilizzare.
Produrre cose utili. Utili, per l’economista, significa solo che sono richieste da
qualcuno, per qualunque ragione. Qualcuno che è disposto a pagare qualche cosa per
averle. Si chiamano beni. Anche quando, moralmente parlando, sono mali. Perciò
l’economista è un tipo un po’ cinico. Lui si definirebbe: un realista.” (Ruffolo, 2007,
p.3)
Ciò che mi interessa approfondire, in questo contesto, è proprio il concetto di
sviluppo, idea dinamica per definizione, che nella storia della filosofia e
dell’economia ha sempre avuto un ruolo di primo piano. Per effettuare questo
“viaggio” è stato necessario fare delle scelte che hanno escluso necessariamente delle
tappe importanti attraverso gli innumerevoli contributi delle varie scienze umane.
Questo lavoro cercherà di offrire, nella sua prima parte, un quadro interpretativo
dello sviluppo prendendo come riferimento autori fondamentali nella teoria
economica, dai classici agli autori di modelli di crescita di formazione keynesiana.
La scelta degli autori è stata fatta nel tentativo di seguire un sentiero interpretativo
dello sviluppo che va dalla sua concezione classica alla sua critica più feroce,
attraverso la negazione della stessa crescita. I primi due capitoli hanno il compito di
introdurre il concetto di sviluppo economico attraverso ottiche differenti ma che
7
hanno il denominatore comune del “progressismo”1. In questi capitoli si analizza in
che modo la teoria dello sviluppo è stata formulata all’interno della scienza
economica. I tre capitoli successivi attraversano i contributi più disparati al concetto
stesso di sviluppo; contributi spesso poco considerati per ragioni di contrapposizione
politica (Polanyi, Myrdal, Georgescu – Roegen, etc..) passando per teorie più recenti
legate alle varie sensibilità degli autori (Sen, Stiglitz, Latouche, etc..).
Questi primi cinque capitoli forniscono il quadro interpretativo per comprendere il
senso delle proposte concettuali del sesto capitolo dove, coniugando l’economia
civile allo sviluppo locale, e avendo ben chiare le critiche esposte nei capitoli
precedenti, si formalizzerà il concetto di sviluppo civile.
In conclusione si tenterà di esporre un quadro interpretativo al “problema dello
sviluppo” tra democrazia economica, localismi, previsioni di scenari e rivendicazioni
di identità.
1
Questo concetto viene spiegato nel primo capitolo nell’introduzione del contributo degli economisti
“classici” alla teoria dello sviluppo
8
CAPITOLO PRIMO:
Il concetto classico di sviluppo
“Prima
di
provare
interessamento
per
un
forte
gli
altri,
dobbiamo essere a nostro agio. Se
siamo
angosciati
nella
stessa
miseria non abbiamo il tempo di
occuparci di quella del vicino”
Adam Smith
“Il ruolo svolto dagli economisti
ortodossi, il cui buon senso è stato
insufficiente
logica
ad
arrestarne
sbagliata,
è
la
stato
estremamente disastroso.”
J.M. Keynes
Nonostante l’ abitudine degli economisti di considerare i termini crescita e sviluppo
come sinonimi, non si può certo affermare che essi lo siano. Nella sua accezione
economica la crescita è l'aumento di beni e servizi prodotti dal sistema economico in
un dato periodo di tempo, mentre con sviluppo ci si riferisce soprattutto a
modificazioni qualitative di elementi di natura sociale, culturale e politica, oltre che
economica.
La crescita è un concetto riferito alla capacità di un sistema economico di
incrementare la disponibilità di beni e servizi per la popolazione. L’usuale
supposizione è che la disponibilità di beni e servizi debba aumentare nel tempo, in
quanto tendenzialmente cresce la popolazione e con essa la domanda di beni. Il tasso
di crescita reale è l'indicatore economico maggiormente utilizzato dagli economisti,
dai governi e dalle organizzazioni economiche internazionali. Spesso è associata
9
direttamente al benessere della popolazione, ma la relazione tra le misure delle
crescita generalmente in uso e il benessere è molto complessa e controversa.
Nell’economia classica la crescita è sinonimo di sviluppo anche se la scienza
economica non era ancora quella “scienza triste” che tutti conoscono.
Il “progressismo” di Marx e Smith è l’elemento centrale dell’analisi economica e per
questo lo sviluppo può essere solamente crescita, progresso verso la prosperità, una
crescita che però non deve essere fine a se stessa ma deve avere una naturale finalità,
cioè la fine del bisogno e la felicità.
Per i classici la crescita, non è la mera ricerca di punti percentuali di Pil o il libero
consumismo, bensì è uno strumento fondamentale per fini molto più “nobili”.
E’ importante sottolineare come l’impostazione classica, al contrario di quella
neoclassica, si concentri sugli elementi dinamici e non statici dell’economia: “Il
sistema classico è diretto verso l’analisi di sequenze temporali; il metodo è dinamico,
nel senso che le sequenze sono irreversibili. I marginalisti impiegano il metodo
statico: si ipotizza che l'economia sia stazionaria (che la quantità e le caratteristiche
della popolazione restino costanti nel tempo e non vi siano cambiamenti di
tecnologia né di scarsità delle risorse e i gusti dei consumatori siano invariati).
L’economia marginalista si basa sul principio di sostituzione: nel campo del
consumo riconosce la sostituibilità tra un paniere di beni e un altro; nella produzione
tra una combinazione di fattori e un’altra. L’analisi è fatta in termini di possibilità
alternative tra cui i soggetti possono scegliere. Il metodo richiede che le alternative
siano aperte e che decisioni siano reversibili. Nella misura in cui le alternative siano
aperte le decisioni dei soggetti economici sono sperimentali e quindi reversibili. Il
processo di sostituzione può quindi continuare finché l’operare del mercato porta alla
produzione massima dei produttori e alla massima utilità dei consumatori. Per i
marginalisti il consumo e non l’accumulazione è movente principale della attività
economica... e la sovranità dei consumatori si sostituisce alla sovranità dei capitalisti.
Una volta considerata l’accumulazione come la forza motrice che sottostà all’attività
economica, si riconosce l’esistenza di una classe capitalistica che grazie alla
proprietà del capitale gode del privilegio di impiegare il lavoro. Se si considera il
consumo come la forza motrice lo scopo dell’economia è la soddisfazione dei
bisogni umani. C’è ragione di credere che la ricerca dei marginalisti di un approccio
10
alternativo alla teoria economica, ricerca chiaramente scientifica, avesse uno scopo
intrinsecamente politico. Appare innegabile il collegamento tra l’avvento del
marginalismo e il movimento socialista del tempo. Nella dimostrazione di Ricardo
che i salari sono in relazione inversa ai profitti è implicito il riconoscimento che il
conflitto di classe è inevitabile nell’economia capitalistica.” (Dasgupta, 1987)1.
Nell’economia moderna dopo la svolta marginalista si tende ad ignorare ciò che per
gli economisti classici era l’elemento centrale della “scienza economica” cioè lo
sviluppo umano e sociale dell’uomo, tendendo eccessivamente a considerare gli
elementi amorali ed esclusivamente quantitativi.
In Smith e Marx, e con loro Ricardo, Mill e molti altri, è molto chiaro che il
“nemico” da sconfiggere è la povertà. I vari autori propongono politiche e strumenti
completamente diversi per risolvere questo problema ma per tutti l’economia non è
la scienza che, per Lionel Robbins, “studia la condotta umana” in relazione a risorse
scarse e a fini alternativi. Il concetto di scarsità walrasiano diventa la “legge
dell’economia”. “L'economia è indifferente rispetto ai fini, nel senso che essa non è
in grado di dare su di essi un giudizio, allo stesso titolo per cui è in grado di dare un
giudizio sui più convenienti usi dei mezzi per pervenire ai fini stessi. Gli scopi che
l'azione umana si prefigge sono naturalmente soggetti ad altri tipi di valutazione, in
sede morale, religiosa, politica, ecc.” spiega Claudio Napoleoni: “Secondo questa
concezione l'economia è una scienza positiva, libera cioè da giudizi di valore”
(Napoleoni, 1963). L’idea sull’economia di Smith e Marx - ma anche in parte di
Keynes - non è certo quella di Robbins, così come l’idea stessa di sviluppo è
necessariamente diversa.
In molti economisti classici le innovazioni istituzionali hanno avuto un peso rilevante
e sia Smith che Marx individuano nella classe borghese il motore dello sviluppo in
contrasto ad un classe nobiliare conservatrice e corporativa. Smith e Marx, che in
questo capitolo sono presi come esempi della concezione classica dello sviluppo,
sono entrambi “modernisti” e “progressisti” invocando a gran voce l’abolizione di
“privilegi esclusivi”.
1
La citazione è contenuta nella relazione di Luciano Iacoponi al XLII convegno Sidea del 22-23
febbraio 2005
11
Ritengo che il contributo di economisti come Smith, Ricardo, Marx e Schumpeter
siano fondamentali per comprendere come il problema “originario” dell’economia
sia lo sviluppo, legando questo concetto alla produttività; nell’economia
marginalista, al contrario, l’elemento centrale è lo scambio e quindi l’equilibrio.
Nei primi due paragrafi di questo capitolo si analizzeranno le teorie sullo sviluppo
presenti in due pensatori fondamentali per l’economia classica (Smith e Marx)
evidenziando come le loro soluzioni siano spesso in aperto contrasto tra loro, ma
come rappresentino l’ ideal- tipo di un’idea progressista dello sviluppo stesso.
Nel terzo paragrafo è mia intenzione concentrare l’attenzione su colui che più ha
influito sul pensiero economico dominante in gran parte del Novecento, cioè J. M.
Keynes. Questo paragrafo sottolinea l’importanza dell’opera dell’economista inglese
nel dare il via a tutte le teorie sullo sviluppo ponendosi in modo critico nei confronti
della scuola neoclassica. Keynes, e la crisi degli anni ’30, forniscono il riferimento
ideale per quasi tutte le teorie sullo sviluppo considerate nel capitolo successivo.
L’ultimo paragrafo è dedicato ad offrire al lettore una veloce sintesi di alcuni modelli
di crescita di stampo post -keynesiano: quelli di Harrod- Domar e di Kaldor,
apertamente ispirati al lavoro di Keynes, ma anche il modello neo-classico di Solow,
riferimento centrale di questa visione.
Per ragioni di spazio e di rilevanza rispetto ai temi dei capitoli successivi non si
tratteranno altri modelli di crescita come quello dello sviluppo dualistico di Kuznets
o quello di Lewis per i quali rimando nei vari testi di Economia dello sviluppo.
12
Adam Smith e lo sviluppo nella società mercantile
L’idea del progresso e della crescita è sempre stata presente nella filosofia
illuministica e trovò nell’illuminismo scozzesi uno dei suoi portavoce più affermati,
cioè Adam Smith.
Il filosofo scozzese, così come gli altri economisti classici, fondarono la loro teoria
sulla ricchezza della nazioni su tre elementi fondamentali: capitale, terra e lavoro.
Smith attribuisce la priorità della crescita pro capite, la quale dipende in primo luogo
dalla produttività del lavoro. Per Sylos Labini l’obiettivo di Smith “ è sradicare la
miseria perseguendo lo sviluppo economico non come fine in sé, ma per il fine che
veramente conta, lo sviluppo civile”, concetto che rivedremo in modo più
approfondito negli ultimi capitoli (Sylos Labini, 2004).
Il filosofo scozzese, considerato il padre dell’economia classica, fu certamente
espressione della scuola liberale britannica che aveva in Locke ed Hume i suoi
rappresentanti di maggior prestigio. Adam Smith è sempre stato associato alla sua
opera più famosa “La ricchezza delle nazioni” anche se il realtà lo studioso
britannico è stato prima di tutto un importante esponente della filosofia morale
contribuendo all’arricchimento delle teorie che, prima di lui, Hobbes, Locke e
Mendeville avevano formato. Allievo del filosofo Hutchenson, il giovane Smith gli
succede alla cattedra di filosofia morale pubblicando nel 1759 una delle sue opere
più importanti “Teoria dei sentimenti morali”. Per comprendere veramente le sue
argomentazioni economiche non si può non prescindere da quest’opera di filosofia
morale; etica ed economia si fondano nel pensiero del filosofo scozzese.
Il concetto fondamentale della filosofia smithiana è il principio di simpatia, che sarà
il denominatore comune della sua teoria della “mano invisibile”.
Adam Smith descrive un sistema morale fondato sul principio di simpatia che
comporta l'immedesimazione nelle passioni e nei sentimenti altrui e che differisce
dalla benevolenza e dall'altruismo pur non sostituendosi all'egoismo. Per simpatia,
sentimento innato nell'uomo, va intesa la capacità di identificarsi nell'altro, la
capacità di mettersi al posto dell'altro e a comprenderne i sentimenti in modo da
potere ottenere l'apprezzamento e l'approvazione altrui. Da questo sentimento gli
individui deducono regole morali di comportamento. La coscienza morale non è
13
allora un principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che
l'uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere prevalentemente sociale e
intersoggettivo. Il mercato e la mano invisibile sono il terreno e lo strumento per il
naturale corso dello sviluppo economico.
Per Adam Smith, ne “La ricchezza della nazioni”, lo schema di sviluppo economico
può essere riassunto come un “progresso naturale della prosperità”.
Il criterio di valutazione del progresso economico è il valore del prodotto annuale e
della sua crescita, che è funzione della quantità di lavoro produttivo impiegato e dal
valore prodotto per unità di lavoro. Il motore dello sviluppo è l’accumulazione del
capitale che aumenta grazie al risparmio di reddito di un determinato periodo. Il
risparmio è, per i classici, assimilabile all’investimento. In questo modo l’elemento
centrale per lo sviluppo è il risparmio, quindi la parsimonia dei privati e dello Stato.
Alle spalle della parsimonia però c’è l’operosità che rende possibile l’accumulazione
del capitale. Il progresso naturale si svolge secondo una serie precisa di fasi
successive: “quanto è maggiore la quota di [capitale] impiegata nell’agricoltura, tanto
maggiore sarà la quantità di lavoro produttivo che esso mette in moto all’interno del
paese; e tanto maggiore sarà pure il valore che tale impiego di capitale aggiunge al
prodotto annuo della terra e del lavoro della società. Dopo l’agricoltura è il capitale
impiegato nelle manifatture che mette in moto la più grande quantità di lavoro
produttivo e che aggiunge il maggior valore al prodotto annuo.” (Smith, 1973, p.360)
Secondo Smith l’aumento l’investimento è come l’acqua che passa da una vasca ad
un’altra in una serie di “allagamento” continuo: l’accumulazione di capitale in un
settore provoca l’aumento di produzione e a sua volta abbiamo un eccedenza di
prodotto e capitale che straripano in un altro settore e così via. I sovrappiù di
produzione e di capitale regolano lo sviluppo naturale dell’economia.
La volontà naturale degli uomini ad aumentare il proprio patrimonio e la propria
condizione porta, quindi, ad un progresso continuo e naturale. La produttività è al
centro del ragionamento smithiano ed aumenta con il progresso della divisione del
lavoro.
Il progresso economico costituisce, secondo l’economista scozzese, un “ordine di
cose che in generale, anche se non in ogni singolo paese, è imposto dalla necessità, è
promosso in ogni singolo paese dalle inclinazioni naturali dell’uomo” (1973, p.374).
14
Smith dimostra in questo passaggio il suo “progressismo” ed “eurocentrismo” dove il
progresso deve essere al centro dell’azione umana conforme a natura e ragione. Il
padre degli economisti dimostra l’impostazione peculiare di tutti gli economisti che
lavorano “per lo sviluppo economico” e che cerco di riassumere in questo primo
capitolo.
L’economista scozzese però evidenzia come questo ordine naturale delle cose sia
stato nel corso della storia rovesciato sotto molteplici aspetti. Questo rovesciamento
ha instaurato un ordine delle cose che essendo innaturale è stato lento e retrogrado.
L’ordine storico non ha seguito l’ordine naturale a causa di azioni artificiali che però
non possono dipendere dall’azione umana del singolo individuo bensì da “istituzioni
umane” che vengono rappresentate da gruppi sociali il cui interesse particolare si
oppone all’interesse generale. Inoltre questi gruppi devono essere portatori di un
potere tale da influire in modo così distorsivo sul corso naturale delle cose. Questi
gruppi di potere sono le oligarchie.
Il libero mercato è lo strumento di espansione del marcato del lavoro ed esso deve
essere immune dagli interventi statali. Lo stato deve concentrarsi sulla salvaguardia
della proprietà privata e sulla difesa, evitando di intervenire direttamente
sull'economia. Perché, dice Smith, se lo stato interviene nell'economia finirebbe col
favorire qualcuno a scapito di altri e dunque alimenterebbe le tendenze
monopolistiche della classe capitalistica: il meglio che lo stato può fare in economia
è salvaguardare la libertà di commercio, cioè la concorrenza, contro l'oligarchia.
La condizione del rovesciamento dell’ordine naturale è dunque la formazione di una
oligarchia il cui interesse particolare non coincide con l’interesse generale e che può,
tramite lo Stato, imporre la sua volontà all’intera società.
La concezione di Stato di Smith è la prima formulazione sistematica del liberalismo
ed è visibilmente influenzata dall’economicismo cioè il riduzionismo funzionalistico
dell’apparato statuale. Il liberalismo di Smith, come condizione ideale di sviluppo,
può essere riassunto così: “Avendo così scartato tutti i sistemi sia di preferenza che
di limitazione, il sistema semplice ed ovvio della libertà naturale si stabilisce
spontaneamente da solo. Ognuno, nella misura in cui non viola le leggi della
giustizia, è lasciato perfettamente libero di perseguire il suo interesse a modo suo, e
di mettere in concorrenza sia la sua attività che il suo capitale con quelli di chiunque
15
altro o qualsiasi ordine sociale. Il sovrano è completamente dispensato da un
compito, nel tentativo di attuare il quale sarà sempre esposto ad innumerevoli
delusioni, e per la giusta attuazione nessuna saggezza o conoscenza umana potrà mai
essere sufficiente: il compito di sovrintendere all’attività produttiva dei privati e di
indirizzarla verso gli impieghi più confacenti all’interesse della società”. Lo Stato
“ha solo tre compiti da svolgere, tre compiti di grande importanza, in effetti, ma
chiari e comprensibili per ogni intelletto: primo il compito di proteggere la società
dalla violenza e dall’invasione delle altre società indipendenti; secondo, il compito di
proteggere, per quanto è possibile, ogni membro della società stessa, cioè il dovere di
stabilire un’esatta giustizia; terzo, il compito di esigere e di conservare certe opere
pubbliche e certe pubbliche istituzioni la cui edificazione e conservazione non
possono mai essere interesse a un singolo individuo o a un piccolo numero di
individui, anche se può spesso rimborsarlo abbondantemente a una grande società”
(1973, p.681).
Tralasciando i primi due ruoli affidati allo Stato (difesa e giustizia) Smith parla
apertamente di “istituzioni pubbliche” che si occupino dell’interesse generale e non
particolare. Uno Stato che non deve intervenire in economia ma che deve evitare che
gli interessi particolari vincano sull’interesse generale. Attraverso questo punto che è
fondamentale per assicurare il corso naturale dello sviluppo tramite il mercato,
l’analisi smithiana consiste principalmente ad un critica al monopolio.
Qui nasce quelli che molti individuano come contraddizione nel pensiero liberale
dell’economista scozzese: lo Stato è condizione necessaria del monopolio. La
soluzione del problema del monopolio è quindi l’eliminazione dell’interventismo
statale. E’ interessante notare come il ruolo dello Stato però possa diventare da
negativo a positivo se il controllo di esso sia esercitato da un classe il cui interesse è
quello generale e non particolare. Ma lo Stato per Smith, nella sua visione puramente
economicista, è privo di razionalità economica al contrario del mercato. Il mercato è
il luogo della razionalità economica complessiva, lasciando allo Stato un ruolo
marginale e poco chiaro. Riassumendo si può affermare che per Smith la “mano
invisibile” ed il libero mercato siano quindi strumenti di giustizia contro prepotenze
di oligarchie che tendono al monopolio attraverso lo Stato. In quest’ottica il
16
liberismo smithiano sembra seguire un filone “liberal” di lotta ai poteri conservatori
e “retrogradi” della società inglese dei suoi tempi.
La visione anti- oligarchica di Smith sembra una contraddizione in termine nei
confronti del liberismo moderno che tende ad ignorare questi gruppi sociali che
fanno pressioni affinché l’interesse particolare prevalga su quello generale.
L’economista scozzese sembra però ridurre questa questione all’interventismo statale
come “braccio” dell’oligarchia e offrendo una soluzione semplicistica al problema:
l’eliminazione dell’intervento statale in economia.
Non si capisce perché il mercato, entità astratta, possa essere il luogo della
razionalità economica in funzione di quello sviluppo che per Smith, quindi, non è
salvaguardato se lo stato interviene nell'economia perché esso finirebbe col favorire
qualcuno a scapito di altri e dunque alimenterebbe le tendenze monopolistiche della
classe capitalistica: il meglio che lo stato può fare in economia è salvaguardare la
libertà di commercio, cioè la concorrenza, contro l'oligarchia.
Di qui dunque una distinzione netta - anche se spesso dimenticata - tra due concetti
chiave dell'analisi economica e della ricerca storica e antropologica rivolta
all'economia: mercato e capitalismo. Il mercato, se lasciato libero di operare, è un
meccanismo in grado di garantire la pace sociale e il massimo benessere possibile.
Ma il ceto capitalistico che si oppone al libero mercato, in combutta con lo stato, può
rovinare quell'armonia ed il conseguente “progresso naturale della prosperità”.
Un’interpretazione volutamente liberista di Smith ha certamente contribuito
all'ambiguità del concetto di mercato e della conseguente ideologia politica
antistatalista: lanciando da un lato l'idea della "mano invisibile" che governa il
sistema della domanda e dell'offerta senza bisogno di regole pubbliche; ma dall'altro
ammettendone i limiti quando esprime esplicitamente la consapevolezza del fatto che
in fondo il più importante e temibile avversario della concorrenza è l'oligarchia, della
quale lo stato può diventare strumento. Per questo il filosofo scozzese prevede un
sistema giudiziario che garantisca lo svolgersi del naturale corso verso la prosperità
senza che “gruppi sociali dominanti” facciano prevalere l’interesse privato su quello
pubblico.
Nel sistema smithiano questo non produce una contraddizione perché di fatto
l'oligarchia capitalistica si sviluppa solo se aiutata dallo stato. Questa è una
17
conclusione che oggi appare troppo semplicistica: poiché l'oligarchia capitalista
preesiste a qualunque operazione liberista e non trae origine solo dal supporto della
politica, sicché di fatto la riduzione del ruolo economico dello stato, anche nella
forma moderna della deregolamentazione, non provoca solo la liberazione dell'effetto
armonizzante della mano invisibile ma anche e soprattutto l'esplosione del potere di
quei gruppi sociali che lo stesso Smith individuava come i primi nemici del mercato.
L’oligarchia capitalista si riproduce e si rafforza anche senza lo Stato poiché questa
entità, quasi teologica, che è il “mercato”, in realtà è solo uno strumento non privo di
“fallimenti”. Quasi tutti gli elementi di un dibattito plurisecolare sono dunque già
posti nell'opera di Smith. Mercato e interesse. Razionalità e armonia sociale.
Pubblico e privato. Ma anche concorrenza e oligarghia. La tesi liberale è nata nella
sua interpretazione più innovativa e pericolosa per i ceti sociali dominanti: la mano
invisibile diventa un “deus ex machina” che non è più lo strumento che Smith vedeva
guidato dal principio di simpatia ma un fine taumaturgico che va lasciato libero di
agire senza controllo sociale o politico.
Il corso naturale dello sviluppo che ha profonde radici filosofiche diventa nei decenni
a venire una legge naturale da difendere in chiave antistatalista e sono gli stessi
poteri oligarchici a trasformare questo strumento nato in funzione anti- corporativa
come mezzo stesso dell’affermazione del proprio potere in senso conservatore.
Questa grave distorsione del pensiero dell’economista scozzese viene individuato da
Alessandro Roncaglia nella reinterpretazione di Dugald Steward, primo biografo di
Adam Smith. Roncaglia scrive: “Assieme a Hume, Smith viene considerato un
pericoloso sovversivo dagli intellettuali conservatori dell’epoca. Il punto è che tutti
questi pensatori, favorevoli o avversi alle posizioni di Smith, non percepivano alcuna
cesura tra il liberismo in campo politico e quello in campo economico, tra la difesa
della libertà (freedom) e la difesa del libero commercio (free trade)”. Il mutamento
del clima politico dovuto al Terrore francese porta il biografo di Smith a rendere le
tesi del filosofo scozzese più accettabili, distinguendo liberismo economico e
liberalismo politico. Roncaglia aggiunge: “Con questa sottile reinterpretazione, una
tesi politicamente progressista che pone in rilievo la necessità di combattere le
concentrazioni di potere di ogni tipo viene trasformata in una tesi conservatrice, che
nella fase dell’industrializzazione giunge ad assumere connotati reazionari, fungendo
18
da giustificazione per un disinteresse completo della nuova classe imprenditrice
verso i pesanti costi umani delle nuove tecniche produttive e verso la miseria diffusa
nella società: qualcosa di molto lontano dalla sensibilità ripetutamente dimostrata
dall’economista scozzese per le sofferenze umane, e dal suo interesse per il continuo
miglioramento delle condizioni di vita della grande massa della popolazione”
(Roncaglia,, 2001).
In questo breve riassunto del pensiero di Smith sullo sviluppo abbiamo incontrato
interpretazioni che spesso possono essere in contrasto l’una con l’altra rendendo la
figura del filosofo scozzese prima come il padre di uno sfrenato liberismo economico
dopo come il saggio padre di uno strumento anti-conservatore che non deve perdere
di vista il fine, cioè lo sviluppo civile. Smith è tutto questo. Spesso ci si dimentica del
principio di simpatia perdendo, a mio parere, il senso stesso della filosofia smithiana
dello sviluppo (prosperità e fine della povertà per uno sviluppo civile).
In questo paragrafo mi sembra corretto fare anche un piccolo accenno a David
Ricardo che non si occupò mai esplicitamente di sviluppo economico ma che nella
sua opera non mancò di individuare gli elementi frenanti dello sviluppo. L'analisi
della distribuzione dei redditi servì a Ricardo per formulare una teoria "pessimistica"
dello sviluppo economico capitalistico. Posta come condizione allo sviluppo stesso
l'esistenza di un saggio di profitto sufficientemente elevato da permettere un'adeguata
accumulazione di capitale e quindi un aumento della produzione, l'economista
inglese rilevò che la tendenza del saggio di profitto a diminuire (in quanto la
necessità di coltivare terre sempre meno fertili in seguito allo sviluppo demografico
avrebbe determinato da una parte un aumento della rendita e dall'altra un aumento
del prezzo delle derrate alimentari e quindi dei salari correnti) avrebbe frenato lo
sviluppo economico. Questa teoria, nota come “la caduta tendenziale del saggio del
profitto”, ispirerà Marx nella formulazione delle sue teorie, alle quali rimando nel
prossimo paragrafo.
19
Karl Marx: sviluppo capitalistico
Karl Marx può essere certamente considerato uno dei più grandi economisti classici
che si è occupato di sviluppo economico.
Il contributo di Marx allo sviluppo del pensiero economico è molto importante a
prescindere dal suo progetto rivoluzionario. Per questo motivo, nel valutare tale
contributo alla scienza economica è importante tenere presente il quadro in cui si
iscrive, ma allo stesso tempo evitare di farsene travolgere, come se tutti gli elementi
della
costruzione
marxiana
reggessero
o
cadessero
insieme
al
progetto
rivoluzionario.
In questo paragrafo cercherò di riassumere la posizione del filosofo tedesco nei
confronti dello sviluppo con continui richiami a coloro che elaborarono le proprie
teorie avendo come base le argomentazioni di Marx: lo sviluppo ciclico che divenne
elemento fondamentale nell’opera di Schumpeter ma anche il processo di sviluppo
presente nel modello dell’economista torinese Sraffa.
Il debito di Schumpeter è verso il Marx studioso dello sviluppo economico e, in
particolare, alla sua concezione di tale sviluppo come basato su un meccanismo
autopropulsivo. Concezione analoga, sottolinea Schumpeter, a quella presente nella
sua Teoria dello sviluppo economico (Schumpeter 1937) Nel comporre la Teoria,
leggiamo nella prefazione dell’autore all’edizione giapponese dell’opera, egli si era
proposto di formulare: “una teoria economica pura dello sviluppo economico, che
non facesse assegnamento soltanto sui fattori esterni che possono spingere il sistema
economico da un equilibrio all’altro... questa idea e questa intenzione sono
esattamente le stesse che stanno alla base della dottrina economica di Karl Marx. In
effetti, ciò che lo distingue dagli economisti del suo tempo come da quelli che lo
precedettero è una visione dell’evoluzione economica come di un processo
particolare generato dal sistema economico stesso” (Sylos Labini, 1973, p.LX).
Paolo Sylos Labini nel saggio Il problema dello sviluppo economico in Marx e
Schumpeter2, analizza la teoria dello sviluppo in Marx proprio confrontandola con
quella schumpeteriana. In questo paragrafo mi occuperò della prima accennando
solamente allo sviluppo ciclico di Schumpeter.
2
Il saggio è contenuto in: Economie capitalistiche ed economie pianificate, Laterza, 1960
20
In Marx, così come era anche per Smith e Ricardo, il vero motore dello sviluppo è
l’accumulazione , ossia dall’impiego produttivo (impiego che genera plusvalore)
ossia ancora dall’investimento del reddito netto; essa si fonda su una riproduzione
continua su una scala allargata. Per Marx la società capitalistica non è e non può
essere stazionaria.
I diversi elementi che stanno alla base dell’analisi del processo di sviluppo contenuta
nel capitolo XXIII del primo libro del Capitale sono: (a) l’introduzione delle
macchine, prima di tutto, che consente di ridurre i costi e di ottenere un “plusvalore
straordinario” – a condizione, in generale, che venga aumentata la scala produttiva;
(b) il conseguente stimolo alla riduzione dei prezzi, che mette alla frusta i
concorrenti, costringendoli ad adottare a loro volta i nuovi metodi di produzione; (c)
la spinta che ne deriva all’investimento e all’assorbimento di lavoratori addizionali,
che può condurre all’assottigliamento dell’“esercito industriale di riserva”, formato
dai disoccupati, e al rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori; (d)
l’aumento dei salari e la corrispondente diminuzione del saggio del profitto; se
oltrepassa un certo limite, la diminuzione del saggio del profitto provoca una caduta
dell’incentivo a investire, conducendo a una crisi; nel contempo, l’aumento dei salari
fornisce un potente stimolo alla sostituzione del lavoro con macchine; (e) si
ricostituisce, per entrambe le vie, l’“esercito industriale di riserva”, mentre
l’introduzione delle macchine dà impulso a un nuovo ciclo di accumulazione.
Ma da dove proviene la necessità dell’accumulazione e quindi dello sviluppo?
“L’accumulazione è la conquista del mondo della ricchezza sociale. Essa estende,
oltre la massa del materiale umano sfruttato, anche il dominio diretto ed indiretto del
capitalista” (Marx, 1989, libro primo, p.52). Questo sta alla base del processo che ho
riassunto in alcune righe poco sopra.
Due aspetti del quadro qui sommariamente tracciato meritano di essere sottolineati. Il
primo è quello su cui Sylos richiama l’attenzione quando osserva che nell’analisi di
Marx (come in quella di Schumpeter) “trend e ciclo appaiono come due aspetti di un
unico fenomeno; sono, per così dire, combinati chimicamente” (Sylos Labini, 1960,
p.64). Quello che viene descritto non è un movimento ciclico che si sovraimpone a
una crescita di lungo periodo che ha luogo indipendentemente da esso, ma un
movimento complessivo dell’economia che procede in forma ciclica; movimento dal
21
quale solo a posteriori è possibile, se lo si desidera, ricavare un trend di crescita,
facendo statisticamente astrazione dall’aspetto ciclico. Un abisso separa questa
visione da quelle teorie che ritengono di poter fare astrazione dal ciclo nell’analisi
della crescita, concependo le fasi di espansione e di contrazione dell’economia come
scostamenti temporanei da un trend predeterminato. In un caso lo schema di
ragionamento è “aperto”: dove l’economia si troverà – in termini di reddito effettivo
e potenziale – al termine di un certo numero di cicli dipenderà dalla sequenza di
azioni e reazioni che si sarà dipanata nel tempo. Nell’altro il punto d’arrivo è noto in
anticipo, e nulla di quel che avviene lungo il cammino può modificarlo.
Il secondo aspetto è strettamente connesso a quello appena visto. Ciò che
l’impostazione di Marx, fatta propria da Sylos Labini, induce a negare è non solo che
siano in azione forze capaci di far crescere l’economia al suo saggio “naturale”, ma
anche che abbia senso riferirsi a un simile saggio come a un limite superiore imposto
alla capacità di crescita dell’economia. Che la crescita sia limitata dalla disponibilità
di lavoro che spontaneamente si manifesta è un’affermazione che l’esperienza storica
e l’osservazione di quel che accade sotto i nostri occhi fanno apparire ridicola. E’
evidente, infatti, che, in generale, lo sviluppo economico non incontra difficoltà a
procurarsi la manodopera di cui ha bisogno. Marx ci ha insegnato che esso
incessantemente assorbe ed espelle lavoratori, e che i processi di espulsione si
intensificano quando i lavoratori cominciano a scarseggiare. L’offerta e la domanda
di lavoro non possono dunque essere concepite come “due potenze indipendenti che
agiscano l’una sull’altra. Les dés sont pipés. Il capitale agisce contemporaneamente
da tutte e due le parti” (Marx, 1989, Libro primo, p.700). Ciò vale, come Marx
sottolinea, sia per la produzione industriale che per quella agricola. Ma ci sono poi i
colossali trasferimenti di popolazione dall’agricoltura all’industria, che hanno
storicamente accompagnato, e continuano ad accompagnare, lo sviluppo industriale
dei diversi paesi. Per non parlare dell’ingresso nel mercato del lavoro di masse di
persone che ne restavano ai margini. E degli immani flussi migratori sollecitati dalla
presenza, nei paesi di destinazione, di una domanda di lavoro insoddisfatta .
La capacità produttiva, dal canto suo, cresce nel tempo sulla base delle occasioni di
investimento create dagli sbocchi commerciali disponibili per le merci che essa
consente di produrre. E la stessa crescita della produttività è stimolata non solo
22
dall’aumento dei salari (“effetto di Ricardo”), ma anche dall’espansione del mercato
(”effetto di Smith”)3.
Ciò, naturalmente, non significa che una concezione della crescita come vincolata
dalle risorse non sia giustificata. Significa però che dobbiamo essere capaci di
distinguere i vincoli imposti arbitrariamente dalla teoria dai vincoli reali, che
nascono dall’esistenza di risorse naturali scarse e dai drammatici problemi
ambientali.
Il limite imposto all’aumento dei salari, e dunque dei consumi di massa, dal
meccanismo descritto prima e l’impulso che lo stesso meccanismo dà allo sviluppo
delle forze produttive determinano, secondo Marx, un crescente divario fra
produzione e consumo. Né il rimedio può essere cercato nella crescita della domanda
di beni di investimento, poiché tale crescita non può aver luogo indefinitamente
senza una corrispondente crescita dei consumi (Marx, 1989 ,libro terzo, pp.293-303,
366 e 569)
Marx accoglie dunque la tesi dei teorici del sottoconsumo, secondo cui la
compressione della quota dei salari sul reddito condanna il sistema capitalistico a una
cronica insufficienza della domanda. Egli respinge invece un’altra tesi, che nella
tradizione sottoconsumista si presenta come un corollario della precedente: quella
secondo cui l’aumento dei salari ha conseguenze univocamente positive. L’aumento
dei salari, sostiene Marx, allevia bensì il problema dell’insufficienza della domanda,
ma fa, nello stesso tempo, diminuire il saggio del profitto, aprendo la strada a una
crisi d’altro tipo. Il sistema capitalistico gli appare perciò stretto in una
“contraddizione”:
“Contraddizione del modo di produzione capitalistico: gli operai in quanto
compratori della merce sono importanti per il mercato. Ma in quanto venditori della
loro merce – la forza-lavoro – la società capitalistica ha la tendenza a ridurli al
minimo del prezzo” (Marx, 1989, libro secondo).
Per Marx “quale sia il saggio dei salari, alto o basso, la condizione dei lavoratori
deve peggiorare” (Marx, 1989, libro primo, p. 95). Questa posizione spiega la
convinzione del filosofo tedesco di considerare lo sviluppo come un ciclo continuo di
3
cfr. a Torniamo ai classici, Sylos Labini, 2004, p. 18 e capitolo III
23
miglioramento che non influisce sulla condizione dei lavoratori che per questo
possono aspirare esclusivamente alla rivoluzione.
Marx non prevedeva in nessun modo che le mutate condizioni sindacali, che lui
riteneva dannose perché inutile palliativo a discapito della rivoluzione, potessero
portare ad una relativa redistribuzione delle risorse che permise una maggiore
dinamicità dei salari verso le classi lavoratici con conseguente sostegno alla domanda
di consumo.
Un ultimo elemento interessante da considerare è la dinamica che porta al
monopolio. Secondo Marx l’accumulazione (quindi lo sviluppo) porta ad una
concentrazione di capitali e quindi di imprese. Quello che per Smith poteva accadere
solo per colpa dello Stato, per Marx è invece un processo tendenziale di lungo
periodo in una società capitalista.
Per Marx la “riproduzione semplice” dello sviluppo tramite l’accumulazione è una
caratteristica fondamentale del sistema capitalistico che sopravvive solo se si rinnova
ma, al contrario di Schumpeter, egli ritiene che codesto sistema sia insopportabile per
i lavoratori che sono “soffocati” dalla tesi dell’immiserimento e che la tendenza al
monopolio possa provocare una mutazione del sistema.
“La tesi fondamentale di Marx è che il sistema economico fondato sulle imprese
private – il sistema capitalistico – via via che procede nel suo sviluppo tende a creare
condizioni incompatibili con la perpetuazione dello sviluppo medesimo e a
trasformarsi in un sistema diverso: un sistema “socialistico” (Sylos Labini,
1960,p.72).
In conclusione per Marx la crisi generale del capitalismo sarebbe dovuta
principalmente alla caduta tendenziale dei profitti e quindi lo sviluppo stesso porta
alla crisi del capitalismo e alla sua caduta.
Per Schumpeter, invece, come vedremo nelle prossime righe, il capitalismo è
economicamente stabile ed il suo sviluppo economico non ha limiti di natura
economica, ma politica: “Il capitalismo, pur essendo stabile economicamente, e
perfino accrescendo la propria stabilità, crea una mentalità ed uno stile di vita
incompatibili con le sue stesse condizioni fondamentali, motivazioni ed istituzioni
sociali. Per questo il capitalismo subirà una trasformazione verso un ordinamento che
potrà o no essere definito socialismo semplicemente sulla base dei gusti e delle scelte
24
terminologiche. Ciò anche se questa trasformazione non sarà causata da necessità
economica, e probabilmente anche se essa implicherà qualche sacrificio in termini di
benessere economico” (Schumpeter, 1928, p.385-6).
L’economista austriaco è famoso per questa sua teoria sullo sviluppo che evolve il
pensiero marxista modificandolo completamente nelle conclusioni.
Il “flusso circolare” di Schumpeter ha alcune differenze rispetto l’idea di
“riproduzione semplice” basata sul plusvalore di Marx. Nel flusso circolare esistono,
oltre ai salari, rendite e redditi di monopolio; non sono presenti profitti ed interessi.
L’economista austriaco distingue “fattori interni” e “fattori esterni” di cambiamento
al sistema economico. Tra questi ultimi ricorda le guerre, i terremoti e gli interventi
dell’autorità pubblica. Tra i primi si possono ricordare i cambiamenti nei gusti o i
cambiamenti nei metodi di offerta dei prodotti.
In un nuovo approccio dinamico, assimilabile a quella marxista, Schumpeter
introduce la figura dell’imprenditore che introduce nuovi prodotti, sfrutta le
innovazioni tecnologiche, apre nuovi mercati, cambia le modalità organizzative della
produzione. L'imprenditore può fare questo in quanto dispone dei capitali messigli a
disposizione dalle banche, che remunera con l'interesse, ossia una parte del profitto
aggiuntivo realizzato grazie all'innovazione.
La teoria delle innovazioni consente a Schumpeter di spiegare l'alternarsi, nel ciclo
economico, di fasi espansive e recessive. Le innovazioni, infatti, non vengono
introdotte in misura costante, ma si concentrano in alcuni periodi di tempo - che, per
questo, sono caratterizzati da una forte espansione - a cui seguono le recessioni, in
cui l'economia rientra nell'equilibrio di flusso circolare. Un equilibrio però, non
uguale a quello precedente, ma mutato dall'innovazione. Le fasi di trasformazione
sotto la spinta di innovazioni maggiori vengono definite da Shumpeter di
"distruzione
creatrice",
alludendo
al
drastico
processo
selettivo
che
le
contraddistingue, nel quale molte aziende spariscono, altre ne nascono, e altre si
rafforzano.
Il susseguirsi infinito di cicli economici guidati dall’imprenditore- innovatore
salvaguardano il sistema capitalistico dalla fine prevista da Marx.
25
Marx è la base classica di molti ragionamenti sullo sviluppo ed il suo lavoro ispirerà
il modello di Sraffa e le sue conclusioni sulla crescita nella “scala allargata” ma
anche molte analisi sullo sottosviluppo che vedremo nel prossimo capitolo (Sweezy).
Per tutti questi motivi ritengo che l’importanza dell’impostazione marxista sia
fondamentale per coloro che cercano di fornire un quadro della concezione classica
dello sviluppo. Questa parola è sempre stata considerata come sinonimo di crescita e
ci si è concentrati sulla sua “faccia” classica cioè l’accumulazione.
Nell’ultimo paragrafo di questo capitolo è necessario accennare al contributo di uno
dei più grande economisti del Novecento che, pur non essendo considerato un
“classico”, assume un importanza miliare nella storia dei modelli economici di
crescita: J.M. Keynes è sicuramente l’ispiratore di tutti quei modelli che vedono nella
crescita l’unica via d’uscita dalla miseria e si rendono conto che il mercato da solo
non è in grado di assolvere questo compito.
26
John Maynard Keynes e l’inizio dell’economia dello sviluppo
Il pensiero dell’economista inglese è certamente una delle pietre miliari della scienza
economica e se si desidera accennare un quadro sullo sviluppo non si può
prescindere da J.M. Keynes. Ponendosi spesso in contrapposizione con la scuola
liberale neo-classica Keynes offre nuove idee per lo sviluppo, allontanandosi dal
laissez faire di Adam Smith e fornendo gli strumenti necessari allo sviluppo: moneta
ed occupazione.
Dopo i classici (Smith, Ricardo e Marx) la scienza economica aveva concentrato i
suoi interessi principalmente sui problemi dell’equilibrio in condizione di
riproduzione semplice e sulla base del presupposto metodologico secondo il quale i
teoremi fondamentali dell’economia hanno validità universale.
La Teoria generale di Keynes e la sua influenza sugli economisti negli anni
successivi costituiscono un punto di rottura con importanti conseguenze. In primo
luogo la posizione critica di Keynes nei confronti del capitalismo e delle sue
insufficienze a garantire la riproduzione con piena occupazione ripropone prospettive
di lunga durata che vedono nel sistema economico capitalista non un mero
presupposto della ricerca economica ma un vero problema. In secondo luogo, anche
se dal punto di vista analitico l’impostazione keynesiana è quella della statica
comparata le domande poste dal lavoro dell’economista inglese sollecitano
l’interesse per una visione dinamica e per questa sollecitazione alcuni autori si
pongono negli anni successivi l’obiettivo di dinamizzare il modello keynesiano
dando vita ad un insieme di modelli di crescita ai quali accennerò in questo
paragrafo.
In terzo luogo, il fatto che Keynes ammetta la validità della teoria neoclassica nella
situazione, teorica, della piena occupazione, mentre elabora una diversa teoria
sull’economia reale caratterizzata da disoccupazione sembra legittimare la ricerca di
teorie
reali
e
particolari
diverse
da
quelle
elaborate
per
i
paesi
dell’industrializzazione. Keynes con la sua opera crea, incrinando il principio
metodologico dell’unicità e dell’universalità della teoria neoclassica, le basi per la
27
formulazione di una vera e propria teoria economica dello sviluppo.(Hirschman,
1983, 196-197).
Al centro dell’opera keynesiana c’è sicuramente il principio della domanda effettiva,
principio elaborato all’interno di un’analisi di breve periodo in cui si suppone che le
decisioni di investimento siano un dato funzione dell’efficienza marginale del
capitale.
La teoria della domanda effettiva keynesiana spiega il livello di reddito prodotto ed il
livello di occupazione corrispondente in base alle circostanze che regolano
separatamente le decisioni di consumo e le decisioni di investimento.
Questo principio, però, sembra immerso in una visione di lungo periodo
sull’evoluzione del sistema economico attraverso la quale si manifestano le cause che
influiscono sulle decisioni di investimento e dunque sull’efficienza marginale del
capitale. Questa interpretazione dell’opera keynesiana permette un superamento del
riduzionismo neoclassico anche per merito di un “seguace” di Keynes, Hansen, che
ampliò questo concetto dando vita alla “teoria del ristagno” secondo la quale nel
capitalismo avanzato si ha un eccesso di risparmio rispetto agli sblocchi remunerativi
che si offrono all’investimento. Keynes teorizza che le opportunità di investimento
dipendano da fattori esogeni, quali la crescita della popolazione o l’innovazione
tecnologica, e che essi perdano di intensità con l’aumento dell’accumulazione. Il
fatto che gli investimenti, quindi la crescita, dipendano da fattori esogeni che sono
decrescenti al procedere dell’accumulazione provoca per il principio della domanda
effettiva un posizionamento del reddito nelle economie capitalistiche inferiore a
quello realizzabile in base al pieno utilizzo delle risorse disponibili. Tuttavia il
principio della domanda effettiva è da Keynes applicato solo al breve periodo, quindi
questa sua teorizzazione sul destino “stagnante” del capitalismo poggia su basi
teoriche inadeguate. Sarà Harrod a giungere a conclusioni simili a quelle keynesiane
attraverso un modello dinamico al quale si accennerà successivamente.
La teoria del ristagno dimostra tutti i dubbi keynesiani sulle capacità del sistema
economico capitalista di conseguire ritmi adeguati di accumulazione, cioè di poter
garantire i bisogni considerato il problema della scarsità.
Keynes considera il processo di accumulazione capitalistico sostanzialmente
instabile e vede nel sottoinvestimento il vero nemico del sistema. Da questo
28
convinzione nascerà la sua teoria del moltiplicatore ed il suo interventismo regolatore
nell’economia.
Per l’economista inglese il sistema di accumulazione capitalistico, grazie alle
continue innovazioni tecnologiche, sembra in grado di risolvere “nel giro di un
secolo” quello che egli stesso considera il “problema economico” ossia il
soddisfacimento dei bisogni essenziali dell’uomo. “Ciò significa che il problema
economico non è, se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza
umana” (J.M. Keynes, 1991, p.63)
Una volta eliminato il problema della scarsità, anche il capitalismo, ed il sistema di
valori ad esso connesso che Keynes considera estremamente deprecabile, non avrà
più motivo di essere, in quanto strumento con cui si è raggiunto il fine che si
prefiggeva , e l’umanità se ne potrà liberare per dedicarsi ad attività più importanti
alla natura dell’uomo. “L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore
per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello
che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà
criminali a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo
specialista di malattie mentali” (p.65).
Questo è l’aspetto della mentalità keynesiana che, a mio parere, si deve sottolineare
quando si parla di sviluppo: per l’economista inglese lo sviluppo capitalista è una
fase necessaria per eliminare il problema economico e per potersi occupare di ciò che
conta veramente nella vita. La visione del più grande economista del Novecento, alla
luce della moderna concezione di sviluppo infinito, sembra essere radicalmente
estranea all’economia contemporanea: il denaro come mezzo e non come fine, lo
sviluppo come mezzo e non come fine.
La visione ottimistica di Keynes nei suoi saggi meno tecnici lascia all’intervento
pubblico il “solo” compito di far si che via sia equilibrio tra risparmi ed investimenti
e un maggior controllo delle decisioni di investimento affinché siano meno soggette
“al capriccio individuale”. Nella Teoria Generale, dopo la grande Crisi, lo Stato
assume un ruolo molto più invasivo. L’atteggiamento di Keynes nei confronti del
capitalismo è profondamente mutato. “La critica al meccanismo del mercato, alle sue
capacità di autoregolazione, lo induce a sollecitare non soltanto l’azione ma la
presenza diretta nell’economia di un soggetto che fino ad allora ne era rimasto in
29
gran parte estraneo.” “Dunque, secondo Keynes, il capitalismo potrà continuare a
svolgere una sua funzione produttiva, a risolvere il problema della scarsità e quindi a
trovare una legittimazione, soltanto se saprà modificare alle radici la propria struttura
sociale.” (Saltari, 1980).
Keynes nel corso della sua vita riconosce un ruolo importante nel processo di
accumulazione a fattori monetari ponendo nel sottoconsumo e nel risparmio, favorito
da fenomeni monetari, il vero elemento fondante dello sviluppo.
L’opera dell’economista inglese è importante per questa sua capacità di anticipare
temi di dinamica economica senza aver gli strumenti per proporre modelli analitici
sulla crescita, riuscendo a porre alcune questioni sugli “errori” del sistema di mercato
che si riferiscono si al breve periodo ma che possono tranquillamente essere posti sul
lungo periodo.
“Sebbene egli [Keynes] scrivesse spesso come se stesse parlando di uno stato di
breve periodo dell’economia – e questa è l’interpretazione, o l’applicazione, che i
suoi seguaci, con poche eccezioni, avevano avuto presente – si può difficilmente
trascurare
l’esigenza
di
dare
un’altra
interpretazione
“L’equilibrio
di
disoccupazione”, del quale egli parla tanto spesso, può essere interpretato come un
equilibrio di breve termine, come una situazione temporanea; ma c’è chiaramente
insito il suggerimento che se non si fa qualcosa, tale equilibrio permarrà a lungo,
forse in maniera permanente. Stagnazione, non depressione!” (Hicks, 1975, pp.4546).
Dopo aver delineato l’importanza del lavoro di Keynes nella nascita di tutte quelle
teorie che vanno sotto il nome di “economia dello sviluppo” si espongono
brevemente alcuni modelli di ispirazione keynesiana come quello di Harrod – Domar
e quello di Kaldor, per poi passare al modello sulla crescita più importante per la
scuola neoclassica cioè quello di Solow.
30
I modelli di crescita: da Harrod- Domar a Solow
Tutti questi modelli si pongono un unico obiettivo: la crescita economica. Partendo
da prospettive diverse individuano varie soluzioni per favorire la crescita.
Roy F. Harrod ( 1939 ) ed Evsey D. Domar ( 1946 ), quasi indipendentemente l’uno
dall’altro, hanno cercato di integrare l’analisi keynesiana con degli elementi di
crescita economica; essi hanno usato funzioni di produzione con poca sostituibilità
tra i fattori, per dimostrare che il sistema capitalista è tendenzialmente instabile4. Essi
ritengono che una crescita uniforme, capace di eguagliare domanda ed offerta nel
mercato dei beni ed in quello del lavoro, richieda che il tasso naturale di crescita
della forza lavoro eguagli il «livello garantito», dato dal rapporto tra il tasso di
risparmio e la quota di capitale sulla produzione; affermano, inoltre, che non esiste
alcuna ragione per cui si debba verificare l’uguaglianza tra queste due grandezze, in
quanto ciascuna delle variabili indicate potrebbe essere considerata un parametro
esogeno oppure una variabile indicativa di programmazione. Dal momento che il
progresso
tecnico
rappresenta
una
tendenza
inerente
ad
ogni
economia
industrializzata, col tempo la quota di capitale sulla produzione dovrebbe
progressivamente ridursi, spingendo in alto il tasso garantito di crescita; per
mantenere nel tempo l’uguaglianza, dovrebbe aumentare il tasso naturale di crescita
della forza lavoro oppure diminuire il tasso di risparmio ( o entrambe le cose ). In
caso contrario, si determinerebbe una situazione di eccesso di offerta e di deflazione,
che condurrebbe ad un processo di auto aggravamento; l’ammontare della spesa
pubblica dovrebbe risultare superiore al consumo degli individui in modo tale che il
governo possa essere in grado di evitare di far precipitare l’economia in una fase di
depressione.
L’analisi di lungo periodo di Keynes è pertanto confermata, a dispetto dell’apparente
incremento una tantum nel tasso garantito di crescita ottenibile con un aumento del
livello di risparmio. A questo, Harrod aggiunge un ulteriore intreccio: le decisioni di
investimento privato sono guidate da incrementi attesi delle vendite ma, affinché
l’investimento sia compatibile con il tasso garantito di crescita, il parametro che lega
4
Per una spiegazione completa del modello di Harrod e di Domar si rimanda a Saltari, E. (1980)
31
le due variabili ( investimenti e vendite ) deve eguagliare il rapporto capitale-lavoro e
tutto ciò si verifica solo per caso e nessun meccanismo di aggiustamento può essere
utile a causa dell’intrinseca instabilità dell’equilibrio descritto; questo «filo del
rasoio» richiede quindi ancora l’intervento di un governo benevolo, dal momento che
anche il più piccolo shock impedisce al mercato di assicurare un’uguaglianza tra
domanda e offerta, determinando, conseguentemente, le condizioni di un circolo
vizioso inflazionistico o deflativo: l’analisi di Keynes, così, viene giustificata e resa
compatibile con un cornice di teoria della crescita anche con riferimento al breve
periodo.
Il modello di Kaldor5 pur utilizzando gli strumenti e le ipotesi del modello
keynesiano di Harrod e Domar pone l’accento sulla distribuzione del reddito e sugli
effetti di questa sul tasso di crescita dell’economia. Tralasciando i passaggi
matematici e logici si può dire che questo modello pone trae le seguenti conclusioni:
la crescita dipende dalla distribuzione e affinché l’economia possa crescere in
equilibrio è necessario che le quote distributive restino costanti; tuttavia quando
questa condizione è soddisfatta solo la propensione al risparmio dei capitalisti
determina la crescita.
I contributi successivi sono stati quelli del premio Nobel Robert Merton Solow e di
Trevor W. Swan entrambi datati 1956; Solow dimostra che la crescita e la piena
occupazione non sono fuori della portata dei normali meccanismi di mercato e che, al
contempo, tutti i paesi possono sperare di convergere verso un livello massimo di
benessere.
L’aspetto principale del modello di Solow-Swan6 è la forma neoclassica della
funzione di produzione, per la quale si assumono rendimenti costanti di scala,
rendimenti decrescenti per ciascun fattore produttivo e un’elasticità di sostituzione
tra gli input positiva anche se non elevata; questa funzione di produzione, omogenea
di primo grado, è combinata con un tasso costante di risparmio ed altre assunzioni
tipiche della teoria neoclassica (concorrenza perfetta, piena informazione,
comportamenti razionali ) per generare un modello estremamente semplice di
equilibrio generale di un’economia.
5
Per una spiegazione completa del modello di Kaldor si rimanda a: Saltari, E. (1980)
6
Per una spiegazione completa del modello di Solow si rimanda a: Solow, R. (1956)
32
Il modello potrebbe essere considerato una generalizzazione del modello di Harrod:
il rapporto capitale-produzione non è esogeno, come nel caso del modello di Harrod
ma, attraverso la flessibilità della funzione di produzione neoclassica, può essere
determinato in modo da rendere ogni rapporto capitale-lavoro adeguato al tasso di
crescita demografica; di conseguenza, non si verifica alcuna divergenza tra tasso
naturale e tasso garantito di crescita, dal momento che il mercato del lavoro sopporta
l’onere dell’adeguamento della funzione derivata della domanda, che risulta dal
rapporto capitale-lavoro in funzione del rapporto tra livello della rendita e livello
salariale. Inoltre, nessuna divergenza, tra la domanda e l’offerta di beni sarebbe
possibile: data la propensione al risparmio, gli investitori sono pronti a pagare ai
risparmiatori il valore della produttività marginale del capitale, mentre gli stessi
risparmiatori sono disposti a rinunciare ad una data quota del reddito; in presenza,
però, di un ammontare crescente di capitale per lavoratore, la produttività dei
lavoratori aumenta e, fissato esogenamente il tasso di crescita demografica, il
medesimo incremento si determina a livello di produzione e di risparmio.
Nel modello di Solow, la crescita è, dunque, la conseguenza di una diminuzione
continua del rapporto capitale-lavoro, che avviene attraverso un incremento della
produttività del lavoro, causato dal crescente quantitativo di capitale attribuito a
ciascun lavoratore; poiché la produttività marginale del capitale decresce, ogni
aumento in eccesso della crescita della forza lavoro diverrà alla fine insostenibile.
Il modello di Solow risolve in questo modo il “dilemma della lama del rasoio” di
Harrod, dal momento che la crescita con piena occupazione è non solo possibile, ma
addirittura inevitabile. Nello stato stazionario la produzione può aumentare solo se
aumenta l’occupazione, mentre al di fuori di questo stato, in primo luogo, nessun
paese può sperare di crescere ad un tasso maggiore di quello consentito dalla
migliore tecnologia disponibile e, in secondo luogo, i paesi con dotazioni minori di
capitale pro capite possono sperare di crescere più velocemente dei paesi ricchi.
E’ questa una previsione del modello che è stata sfruttata seriamente come ipotesi
empirica solo negli anni recenti, ed è nota come convergenza condizionata: quanto
più basso è il livello iniziale del Pil reale pro capite, relativamente alla posizione di
lungo periodo o di crescita uniforme, tanto più veloce è il tasso di crescita; questa
proprietà deriva dall’ipotesi di rendimenti decrescenti del capitale, infatti, le
33
economie che hanno meno capitale per lavoratore ( relativamente al loro capitale per
lavoratore di lungo periodo ) tendono ad avere più alti tassi di rendimento e più alti
tassi di crescita. La convergenza è condizionata perché nel modello di Solow - Swan
i livelli di crescita uniforme del capitale e del prodotto per lavoratore dipendono dal
tasso di risparmio, dal tasso di crescita della popolazione e dalla posizione della
funzione di produzione – caratteristiche che potrebbero variare tra le diverse
economie.
Tutti questi modelli pur giungendo a conclusioni diverse, quindi proponendo
politiche differenti, hanno un’unica idea della sviluppo economico e quindi della
crescita, dato che per loro sono sinonimi, e propongono un ideale equilibrio di
produzione ed investimenti che possano garantire lo sviluppo del sistema
capitalistico. Questi modelli di natura econometrica rischiano di sottovalutare
elementi che sono fuori dal “calderone economicistico” e che contribuiscono in
modo determinante a quello che noi tutti intendiamo come vero e proprio sviluppo.
Inoltre come si vedrà nel capitolo quinto i modelli di crescita neoclassici si scontrano
con i limiti fisici del nostro pianeta.
Nel prossimo capitolo si abbandonerà questa visione puramente economica
esponendo teorie che hanno tentato di “risolvere” il problema del sottosviluppo
offrendo una “chiave di lettura” più completa. Si cercherà di andare oltre i modelli e
le ricette economiche per considerare lo sviluppo in modo sempre meno
economicista e sempre più aperto alle varie scienze sociali.
34
CAPITOLO SECONDO:
Il problema del sottosviluppo
“Non
esistono
percorsi
generalmente validi di sviluppo,
proprio perché non esiste una
definizione universalmente valida
di sviluppo. Ogni popolo deve
scrivere la propria storia”
K.J. Jameson e C. K. Wilber
Il concetto di sottosviluppo nasce in contrapposizione al concetto di sviluppo con
riferimento ai paesi che “sono caratterizzati da un minor reddito pro capite, una
minore efficienza produttiva, una organizzazione economica meno complessa e
curata, una ricerca tecnico-scientifica meno progredita, un più basso grado di
industrializzazione, i consumi della popolazione meno ricchi e variati, e perfino la
demografia diversa, a causa di più elevati tassi di natalità e mortalità. Il sottosviluppo
di cui si parla è economico, ma è indubbio che le sue manifestazioni oltrepassano i
confini dell'economia.” (Ricossa, 1982, voce sottosviluppo)
Storicamente si è iniziato a discutere del tema del sottosviluppo nel secondo
dopoguerra quando sono nate le prime teorie sulle cause del sottosviluppo stesso.
L’espressione “economia dello sviluppo” fu coniata da H. Truman quando nel suo
discorso di reinsediamento alla presidenza degli Stati Uniti (20 gennaio 1949)
affermò che l’obiettivo era quello d’indicare la via liberal- capitalista della prosperità
agli stati di recente indipendenza caratterizzati da sottosviluppo, ovvero da bassi
livelli di crescita economica, altrimenti attratti dal modello concorrente socialista. La
visione ottimistica del cosiddetto paradigma della modernizzazione era fiduciosa
nell’uniformità del processo di cambiamento economico, sociale e politico già
avvenuto nelle società del primo mondo. Quest’ultimo era interpretato in termini di
passaggio
da
una
situazione
di
arretratezza
a
una
caratterizzata
da
industrializzazione, urbanizzazione, e alti livelli di benessere materiale. Su queste
35
basi,
l’Occidente pretendeva di
applicare le elaborazioni
di
tale auto-
rappresentazione al terzo mondo, considerato di conseguenza un blocco unico e
indifferenziato. Tutte le più importanti teorie economiche del periodo partivano dal
presupposto comune che lo sviluppo consistesse in un processo evoluzionistico
mosso da forze endogene lungo stadi temporali validi per tutti i paesi. In quest’ottica
nacquero i modelli di crescita, ai quali ho accennato nel precedente capitolo, e il
paradigma della modernizzazione che aprirà questo.
L’intenzione in questa parte è quella di inquadrare il concetto di sviluppo e la sua
importanza nelle teorie moderne. Questa schematica rappresentazione delle teorie più
importanti nate in funzione critica o in aperto contrasto con il paradigma modernista
è necessaria per comprendere quelle che saranno le critiche e le posizioni più
particolari alle quali si dedicheranno i capitoli successivi.
36
La teoria della modernizzazione
La differenza tra le condizioni economiche di diversi paesi nel mondo pone agli
economisti due ordini di problemi: in primo luogo bisogna chiedersi perché in alcuni
paesi non si sia giunti, grazie ad istituzioni, conoscenze e comportamenti, a livelli di
reddito e benessere simili a quelli dei paesi sviluppati; in secondo luogo ci si chiede
in che modo sia possibile colmare questo gap. Negli anni 40 sono nate scuole di
pensiero che avevano come obiettivo la risoluzione di questi problemi. Denominatore
comune di queste scuole è, con alcune importanti differenze, consapevolmente o
meno, il paradigma etnocentrico del progresso, del quale si è parlato nel capitolo
precedente. Questa visione comune si sviluppa nel paradigma del progresso moderno
attraverso un’impostazione evoluzionistica e un continuo ricorso alla comparazione
tra paesi.
“Nell’analisi della maggior parte degli economisti lo sviluppo è, come il progresso
dei moderni, un’evoluzione continua e necessaria, immanente nella natura e nella
ragione umana e orientata verso una direzione… La linea lungo la quale lo sviluppo
economico procede è identificata, secondo il metodo comparatistico, astraendo dalla
storia delle società europee ed occidentali caratteristiche che si suppone abbiano
costituito stadi successivi dell’evoluzione dell’umanità nel suo assieme, il cui punto
d’arrivo è l’economia moderna capitalistica con i comportamenti individuali e le
istituzioni che la caratterizzano.” (Volpi, 1994, p.32)
Il primo autore che rappresenta perfettamente l’impostazione evoluzionistica ed il
metodo comparatistico è senza dubbio l’economista e sociologo Walt Whitman
Rostow. Studioso di storia economica, il professore americano teorizzava la necessità
di integrare l’economia teoretica con la storia dell’economia: “la teoria dello
sviluppo economico può sorgere soltanto da uno studio di quei fattori sociali che
erano in passato, e dovranno rimanere in avvenire, il materiale della storia
economica: mutamento delle forze economiche, dei gusti e delle quantità delle
risorse” (Rostow, 1962, p.9)
Rostow pone alla base della sua teorizzazione la teoria delle “propensioni sociali”
che sono alla base della ricerca storica degli economisti e che devono, quindi, essere
37
sempre considerati nella realizzazione dei vari modelli di sviluppo. Secondo l’autore
queste “propensioni sociali”sono tre: propensione a consumare e risparmiare,
propensione a sviluppare la scienza pura e applicata, tendenza concreta allo sviluppo
della popolazione. Queste “propensioni sociali” sono le coordinate grazie alle quali
l’economista può formalizzare le proprie teorie.
La teoria degli stadi ha il merito di affrontare lo sviluppo seguendo non un mero
schema economicistico ma offrendo una chiave di lettura storico- economicosociologica.
L’autore individua cinque stadi attraverso i quali avviene la trasformazione di una
società agricola in società industriale:
1. società tradizionale. Il sistema economico è bloccato su un trend di stagnazione e
su un susseguirsi di eventi catastrofici che intervengono periodicamente a riportare in
equilibrio la dinamica della popolazione con quella delle risorse
2. transizione. La società comincia a produrre innovazione perché cerca il
mutamento. Nascono figure imprenditoriali pionieristiche, aumenta il profitto e con
esso il tasso di accumulazione del capitale
3. decollo o take off. La formazione di un gruppo di imprenditori dinamici determina
un forte aumento degli investimenti che porta ad una accelerazione del sistema
economico creando discontinuità con il passato: più profitto, più accumulazione, più
investimento, più produttività. Il periodo di crescita, big push o big spurt, è trainato
da settori guida che generano un processo di crescita settoriale squilibrato, ma in
grado col tempo di trascinare avanti tutto il sistema
4. maturità. L’intero sistema è ormai modernizzato, ma la crescita rallenta perché si
riducono le opportunità di investimento legate alla creazione di nuove tecnologie
5. età dei consumi di massa. I consumi privati che erano rimasti compressi fino alla
maturità per far posto ai grandi investimenti necessari alla modernizzazione del
sistema possono crescere sensibilmente poiché non è più necessario mantenere un
alto tasso di accumulazione. A quel punto le imprese investono nella
standardizzazione dei prodotti per ridurre i costi e allargare i consumi dai quali viene
ormai a dipendere la crescita dell’intero sistema economico.
Per Rostow gli stadi non sorgono l’uno dall’altro in modo né casuale né meccanico.
38
Le condizioni che consentono il “decollo” devono affiorare nello “stadio
preparatorio” sono sostanzialmente tre:
a)
uno sviluppo della produttività nel settore agricolo, tale da permettere il
sostentamento della popolazione che comincia ad addentrarsi nei settori
“progressivi”.
b)
Uno coevo sviluppo nel settore delle esportazioni
c)
Un certo sviluppo del “capitale sociale”: miglioramenti nei trasporti,
dell’utilizzazione delle fonti di energia, dell’istruzione professionale, ecc..
Sostanzialmente il decollo consiste nella realizzazione di uno sviluppo rapido,
prolungato e autosostenuto di determinati settori – chiave.
Il take off non è uno stadio che debba sorgere necessariamente dallo “stato
preparatorio”. Si possono avere decolli “abortivi” sia per la mancanza di un sostegno
tecnico al processo autosostenuto sia per la mancata trasformazione sociale,
psicologica e politica atta a sostenere questa “rivoluzione” tecnico- economica.
Per l’economista americano il vero problema è quale direzione prenderanno i paesi
occidentali che nel secondo dopoguerra sono in piena fase della maturità. Rostow
teorizza tre alternative: la sicurezza sociale e la riduzione del tempo di lavoro;
l’espansione, anche bellica, in campo internazionale; oppure lo stadio “del consumo
di massa”. Per l’autore i paesi che giungono a questo stadio (Usa e Urss) hanno il
dovere di accompagnare allo sviluppo gli altri paesi evitando di perseguire una
“politica di potenza”.
Lo stesso Rostow si pone una domanda che pare logica: “è corretto, da un punto di
vista scientifico, impiegar il concetto di stadi dello sviluppo, tratto da una
generalizzazione dell’esperienza storica del passato, nell’analisi dei problemi attuali
dell’aree sottosviluppate?”
La sua risposta positiva è alquanto discutibile soprattutto alla luce di
un’interpretazione speculare del suo lavoro: è corretto creare un modello “storico”
per tentare di spiegare il presente? Rostow per motivi politici sembra proprio
compiere questo tipo di analisi cercando di mantenere “un’impostazione scientifica”
che è quantomeno discutibile.
Il percorso schematizzato dall’autore è un processo evoluzionistico mosso da forze
endogene che viene “omologato” per tutte le economie e tutti i paesi. Questa pretesa
39
di “universalismo” rende fragile l’applicazione del modello in realtà diverse da
quella capitalista. La presenza di fattori extra- economici, quali i valori accolti dalla
società o dalle istituzioni politiche, permettono di leggere il modello come una tesi
del mutamento sociale del tipo della modernizzazione, ossia “il processo di
cambiamento verso quel tipo di sistemi sociali, economici e politici che si sono
sviluppati nell’Europa occidentale e Nord America dal diciassettesimo al
diciannovesimo secolo.” (Eisenstadt 1966)
Questa impostazione fa in modo che tutta le teoria si possa prestare alle stesse
critiche che sono state poste al paradigma della modernizzazione.
La critica più importante riguarda l’impostazione dicotomica tra i due estremi della
teoria che corrispondono al “tradizionale” versus il “moderno”. Quest’ultimo viene
definito tramite un’astrazione empirica della società capitalista e rappresenta un
insieme di valori positivi, al contrario il “tradizionale” è tutto ciò che non è moderno.
Questa prospettiva ha due conseguenze negative.
La prima deriva dalla definizione “in negativo” delle società tradizionali: le
differenze tra le società vengono ignorate e tutte hanno il solo compito di essere la
base uniforme dello sviluppo. La seconda conseguenza negativa, non meno
importante, è che la prospettiva occidentale diventa l’unica possibile e i principi che
la guidano sono le regole universali che guidano tutte le società. Questa assunzione
rende impossibile quella che gli antropologi chiamano “comprensione” di una società
diversa. Quando queste differenze sono evidenti la teoria tende a considerarle
irrazionali, quindi da escludere dalla teoria economica, o “primitive”, quindi
eccezionali o troppo semplici.
Il risultato di questa impostazione è una completa assenza di capacità da parte della
scienza economica di poter affrontare il “problema dello sviluppo” nei termini
corretti e applicabili, provocando forzature incomprensibili da società non identiche
alla nostra.
E’ interessante notare come per questa concezione il sottosviluppo debba essere
considerato come lo “stadio originario” prima di un progresso della società moderna
occidentale verso l’organizzazione economica “ideale”, cioè la società moderna o
capitalista.
40
“Questa idea implica che la storia dell’umanità sia la somma di due storie distinte e
indipendenti l’una dall’altra: per una parte dei popoli una storia di progresso, per gli
altri una storia di stagnazione, e che per questi ultimi l’unica prospettiva di sviluppo
sia quella di rincorrere i primi lungo la stessa via.” (Volpi, 1994, p. 35)
41
Lo strutturalismo e la teoria della dipendenza
All’inizio degli anni 60 il dibattito sullo sviluppo si concentrò sul commercio
internazionale favorendo il sorgere di scuole di pensiero estranee all’esperienza di
Usa ed Europa. In risposta alla teoria della modernizzazione di Rostow in America
Latina si sviluppò uno scuola che riuniva sociologi ed economisti nel tentativo di
dare una soluzione diversa al problema del sottosviluppo; questa scuola aveva come
riferimento la Economic Commission for Latin America, ECLA, ed il suo leader
Raul Prebisch.
La “tesi di Prebisch” si sviluppa da una critica del principio ricardiano della
specializzazione e si fonda su un concetto fondamentale per la scuola strutturalista,
cioè la dicotomia centro-periferia. L’idea principale è che i paesi periferici siano
svantaggiati nel commercio internazionale e che questi effetti negativi si manifestino
in quattro modi: i tendenziale squilibrio della bilancia commerciale da parte dei paesi
periferici, il trasferimento dei frutti del progresso tecnico da questi a quelli centrali,
l’approfondimento del gap tecnologico tra gli uni e gli altri e le distorsioni nella
produzione e nel consumo dei primi.
Le cause di questi effetti sono da riscontrare, come si vedrà, nella diversa struttura
dei mercati del “centro” e della “periferia”, nelle caratteristiche della domanda
internazionale dei prodotti industriali, nelle condizioni che creano una difficoltà della
periferia di godere dell’economie di scala, comprese le loro esternalità connesse al
progresso tecnico.
Questa tesi strutturalista trovò lo spunto principale nella crisi degli anni 30’ quando
la “grande depressione” provocò un crollo della domanda di materie prime dei paesi
industriali. Questa situazione portò alla formulazione di questa tesi secondo la quale
le ragioni di scambio dei paesi periferici tendono nel lungo periodo a peggiorare
rispetto a quelle dei paesi di centro.
Questa tesi contrastava apertamente la teoria sul commercio internazionale sostenuta
da tutti gli economisti per i quali il prezzo dei beni manufatti sarebbe diminuito,
rispetto ai prodotti agricoli, grazie all’economie di scala e al progresso tecnico.
Prebisch documentò invece che il miglioramento delle ragioni di scambio per la Gran
42
Bretagna, paese preso come idealtipo del “centro”, portarono tra il 1870 ed il 1938ad
uno speculare peggioramento delle ragioni di scambio dei paesi produttori di beni
primari.
Alla base di questa dicotomia tra l’andamento delle ragioni dei paesi del centro e
quelli periferici esistono due motivazioni economiche: la diversità tra l’elasticità
rispetto al reddito tra i beni primari e i beni industriali e nella diversa struttura dei
mercati periferici e centrali. La prima causa si spiega con la legge di Engel1 mentre la
seconda causa si spiega col fatto che nei paesi industrializzati la tendenza a forme
oligopolistiche o monopolistiche non spinge il prezzo dei beni industriali a diminuire
con l’aumento della produttività e delle economie di scala, ma si tenderà ad
aumentare profitti o salari (a seconda della forza sindacale); al contrario nei paesi
periferici l’assenza di sindacalismo e una forte offerta di lavoro permette al prezzo di
oscillare secondo le regole della concorrenza internazionale portando ad un prezzo
necessariamente più basso. (Singer, 1973)
Un’importante conseguenza di questa situazione è che i frutti del progresso tecnico
tendono a trasferirsi dalla periferia al centro. Infatti, mentre nei paesi industriali
l’aumento della produttività si traduce in maggiori profitti e salari, la maggior
produttività delle attività primarie esportatrici dei paesi periferici porterà a prezzi più
bassi dei quali si avvantaggeranno i consumatori del centro (Prebisch 1959)
La soluzione a questa situazione venne individuata da Prebisch nel creare industrie in
grado di produrre beni che sostituissero le importazioni, la cosiddetta “import –
substitution industrialization (Preston, 1996).
La scarsità di capitali e di capacità imprenditoriali private portava a considerare
fondamentale il ruolo dello stato; di conseguenza, ad adottare sistemi d monopolio
del commercio ed una disciplina dei prezzi e dei tassi di cambio che ponevano
vincoli allo scambio con l’estero.
La priorità della domanda interna e la limitazione degli scambi con l’estero sono
obiettivi riproposti da coloro che non vedono nell’industrializzazione accelerata la
vera soluzione dei problemi del sottosviluppo, ma ritengono che sia di vitale
importanza il sostegno pubblico all’agricoltura primaria e alle tradizioni autoctone al
1
La legge di Engel afferma che la percentuale della spesa familiare destinata all’alimentazione è
decrescente al crescere del reddito familiare disponibile
43
fine di raggiungere l’autosufficienza alimentare e la soddisfazione dei bisogni
essenziali della popolazione. Gli aspetti più negativi del commercio internazionale,
secondo questa visione, sono la totale dipendenza verso modelli di consumo dei paesi
industrializzati con un progressivo decadimento delle colture tradizionali. Le
soluzione proposte da alcuni economisti sono lo svincolamento dei paesi periferici
dal mercato mondiale nella prima fase dello sviluppo oppure l’aumento
dell’interscambio tra i paesi periferici con una riduzione dalle dipendenza dalla
domanda dei paesi del centro.
Questa politica di tipo “protezionistico” o “introverso” (Volpi, 1994), accompagnate
da un accentramento del potere economico nelle mani di operatori pubblici troppo
spesso corrotti, ha portato alcuni paesi che si erano affidati a questo schema ad
alcune gravi crisi degli anni ’80 dovute soprattutto a politiche di finanza pubblica
improntate sul debito.
Oggi le grandi organizzazioni economiche internazionali (Fondo Monetario
Internazionale, Banca mondiale, etc..) tendono a favorire politiche che sono in aperto
contrasto con le ricette à la Prebisch cercando di spingere i paesi in via di sviluppo a
convertirsi senza remore al liberismo del mercato. Questa volontà però copre
un’ipocrisia di fondo dei paesi occidentali, che monopolizzano le organizzazioni
internazionali: questa ipocrisia consiste nella politica protezionistica , attraverso
barriere tariffarie e non, proprio verso le esportazioni di prodotti agricoli ed
industriali da parte dei paesi periferici; inoltre essa si mostra nel costante rifiuto dei
paesi industrializzati a contribuire alla formazione di un “Nuovo Ordine Economico”
da molti invocato nelle varie conferenze internazionali (ad esempio Davos).
Seguendo il percorso tracciato dalla scuola strutturalista l’America Latina offre un
altro contributo importante alle teorie dell’economia dello sviluppo, cioè la Teoria
della dipendenza.
E’ possibile considerare Raul Prebisch il fondatore della teoria della dipendenza dato
che essa si colloca perfettamente nel modello strutturalista dell’economista
argentino. La teoria della dipendenza rappresenta un insieme di contributi teorici
delle scienze sociali (concepita da studiosi di vari paesi sviluppati e in via di
sviluppo), accomunati da una visione del mondo che suggerisce che i paesi poveri e
sottosviluppati della periferia siano in qualche modo dipendenti e sfruttati dai paesi
44
sviluppati del centro. Questi paesi, grazie allo sfruttamento dei primi, sostengono il
proprio sviluppo economico.
La teoria della dipendenza afferma che la povertà dei paesi nella periferia è il
risultato del modo distorto e ingiusto di come essi sono stati “integrati” nel sistema
mondiale, laddove gli economisti del mercato libero sostengono invece che questi
paesi si stanno pienamente “integrando” e la loro arretratezza non è che uno dei
(necessari ma temporanei) risultati di questo processo di integrazione.
Secondo molti teorici della “dipendenza” i paesi del Primo Mondo perpetuano
attivamente, ma non per questo coscientemente, uno stato di dipendenza attraverso
varie politiche ed iniziative. Tale comportamento ha molte “facce”, coinvolgendo
l’economia, il controllo dei mass-media, la politica, operazioni bancarie e finanziarie,
la formazione, lo sport e tutti gli aspetti dello sviluppo della risorsa umana.
I tentativi dalle nazioni dipendenti di resistere alle influenze della dipendenza
provocano spesso le sanzioni economiche e/o l’invasione e il controllo militare.
Molti teorici della dipendenza invocano la rivoluzione sociale per provocare
cambiamenti nelle disparità economiche.
La teoria della dipendenza è divenuta popolare negli anni 60 e negli anni 70 come
critica della teoria della modernizzazione che sembrava incapace di spiegare il
mancato sviluppo dei paesi più arretrati per via della continua povertà diffusa in
grandi parti del mondo. Con lo sviluppo apparente delle economie dell’Asia
Orientale e dell’India degli anni più recenti, tuttavia, la teoria ha largamente perso
consensi. Essa si contrappone acutamente all’economia del libero-mercato e classica.
È molto più accettata nelle discipline quali la storia e l’antropologia. Si sostiene che
la”dipendenza” sia nata con la rivoluzione industriale e l’espansione degli imperi
europei nel mondo grazie alla loro conseguente superiore potenza e alla ricchezza
accumulata. Alcuni sostengono che prima di questa espansione su scala mondiale, lo
sfruttamento era interno ai paesi, con i centri economici principali che dominavano il
resto del paese (per esempio l’Inghilterra sud-orientale che dominava la Gran
Bretagna, o del nordest americano che dominava il sud e l’ovest). Stabilendo i
pattern di scambio globali nel diciannovesimo secolo ha permesso al capitalismo di
spargersi globalmente. I ricchi si sono vieppiù isolati e separati dai poveri,
profittando sproporzionatamente dalle loro pratiche imperialistiche. Questa
45
separatezza ha minimizzato i pericoli interni di sommosse e ribellioni dei contadini
poveri. Piuttosto che rivoltarsi contro i loro oppressori come nella guerra civile
americana o nelle rivoluzioni comuniste, i poveri non hanno più potuto
“raggiungere” i ricchi, e di conseguenza le nazioni meno sviluppate sono state
inghiottite nella spirale di vere e proprie guerre civili. Una volta che le nazioni ricche
imperialiste hanno stabilito il controllo formale, esso non ha potuto più essere
rimosso facilmente. Tale controllo assicura che i profitti nei paesi meno sviluppati
siano rimessi alle nazioni sviluppate, impedendo il re-investimento interno, causando
la fuga dei capitali e così ostacolando lo sviluppo.
Gli economisti liberisti indicano molti esempi che confutano la teoria della
dipendenza: il miglioramento dell’economia dell’India dopo che è passata da
un’economia controllata dallo Stato ad una aperta al commercio internazionale e al
controllo privato, è l’esempio più spesso citato. L’esempio dell’India apparentemente
contraddice le affermazioni dei teorici della dipendenza riguardo ai vantaggi
comparati ed alla mobilità, visto che il relativo sviluppo economico dell’India è stato
certamente dovuto anche a fattori come l’out-sourcing—una delle forme più mobili
di trasferimenti di capitali. Dall’altro lato, invece, abbiamo esempi come quello della
Corea del Sud, che ha visto diminuire drasticamente i suoi tassi di povertà ricorrendo
a molte di quelle misure raccomandate dalla teoria della dipendenza.
I pensatori del mercato libero considerano legittime le lamentele dei teorici della
dipendenza, anche se vedono le loro prescrizioni di politica economica come
profezie fatte per auto avverarsi, in quanto quelle politiche aggravano soltanto la
disparità fra le nazioni sviluppate e le nazioni sottosviluppate isolandole dai mercati
liberi. I fautori del commercio libero vedono l’attuale struttura del capitalismo e del
commercio favorire i proprietari di capitali piuttosto che i consumatori, ma credono
anche che le prescrizioni dei teorici della dipendenza condurrebbero soltanto a più
ricchezza per i proprietari capitali ed a più povertà per il terzo mondo; con ciò
implicando che il loro invocare restrizioni commerciali e auto-sviluppo
condurrebbero allo stesso risultato che il mercantilismo ottenne sotto il colonialismo.
I liberisti criticano la teoria della dipendenza perché mette insieme economia del
libero mercato e disposizioni commerciali economiche del capitalismo corrente e
46
presuppone così che il commercio internazionale del mercato libero non aumenterà
lo sviluppo economico e lo sviluppo.
E’ importante, prima di chiudere il paragrafo, soffermarsi su un grande contributo
nella tradizione strutturalista e della dipendenza, cioè l’opera dell’economista
brasiliano Celso Furtado (Furtado, 1970, 1975). Gli scritti di Furtado sulla teoria del
sottosviluppo evidenziano chiaramente l’influenza della teoria e metodologia
marxista che analizzeremo più dettagliatamente nel prossimo paragrafo. Il suo
approccio storico e le stesse conclusioni a cui pervenne, sull’importanza dell’impatto
dei paesi sviluppati su quelli sottosviluppati, presentano molte somiglianze coi lavori
di Baran. Il sottosviluppo non è una fase specifica nel processo di sviluppo, è
piuttosto una condizione storica particolare. Furtado volle distinguere chiaramente il
concetto di crescita (produzione in aumento) da quello più articolato di sviluppo (che
implica l’impiego della forza lavoro in un modo di produzione che utilizza le
tecnologie più moderne e massimizza la produttività del lavoro). E, nell’ambito dei
processi di sviluppo, le rivoluzioni tecnologiche nella produzione interna di beni di
consumo e poi di investimento che caratterizzarono lo sviluppo economico dei paesi
avanzati sul piano industriale furono ben diverse dal cambiamento nelle economie
sottosviluppate, non trainato da dinamiche interne ma indotto dall’esterno, cioè dal
lato della domanda. Nel primo caso, come in Inghilterra, l’introduzione di migliori
tecnologie permise di abbassare i prezzi dei beni di consumo, il che fece aumentare
la domanda e, quindi, la produzione, fintantoché esisteva un eccesso di offerta di
lavoro. Nel 1870, secondo la ricostruzione storica di Furtado, in Inghilterra l’eccesso
di offerta di lavoro a basso costo si era ormai esaurita e questa rigidità determinò ben
presto il rialzo dei salari e la diminuzione dei profitti nel settore dei beni di consumo.
Una conseguenza diretta fu la riduzione del tasso di investimento nel settore, con una
contrazione successiva anche della domanda di produzione di beni capitali e il
rischio di un arresto del processo di crescita economico, a causa dell’iniziale
contrazione della forza lavoro. Quel che evitò questa perversa spirale fu il processo
ininterrotto alla fine del XIX secolo di innovazione tecnologica nella produzione di
beni capitali, che consentì di recuperare il tasso di profitto tanto nel settore dei beni
di consumo quanto in quello dei beni capitali. L’espansione su scala mondiale di
economie come quella inglese interessò direttamente anche le sorti delle economie
47
sottosviluppate, confinate a periferie lungo le nuove linee commerciali, oggetto di
investimenti diretti nella produzione di materie prime da parte delle imprese
multinazionali. Si creavano così delle strutture ibride e dualistiche nelle economie
dei paesi sottosviluppati, in parte simili a un sistema capitalistico in parte
perpetuazione delle caratteristiche dei sistemi preesistenti.
Secondo Furtado, l’espansione di una enclave moderna all’interno delle economie
sottosviluppate risultava così direttamente dipendente dalla crescita degli
investimenti indotti dall’esterno, e per ciò stesso non sostenibile in termini di un
processo di sviluppo a lungo termine. La questione centrale diventava allora capire se
la produzione per l’esportazione poteva essere sufficiente a generare effetti positivi
anche sul piano della domanda interna, cioè, se poteva servire a far aumentare la
domanda necessaria per avviare un processo duraturo di crescita di investimenti per
il mercato interno. In un’analisi per diversi aspetti simili a quella sviluppata da
Lewis2, la quantità di forza lavoro occupata nel nucleo moderno dell’economia, il
salario reale medio, l’ammontare di tasse pagate dalle imprese nel settore moderno
(e, quindi, la scala possibile di spesa pubblica attivabile), la domanda indotta di beni
manifatturieri prodotti localmente e il livello di profitti e salari spesi sul posto sono i
fattori indicati da Furtado come cruciali per stimare la scala della domanda generata
da una enclave orientata alle esportazioni. Inizialmente, la quota di salari tende ad
essere bassa, come pure limitate sono le tasse riscosse, né il sistema locale è in grado
di competere sul piano della produzione di beni capitali e di consumo di lusso, per
cui la capacità di trattenere e investire localmente i profitti dipendono essenzialmente
dal tasso di crescita della domanda estera e dalla scala di occupazione della forza
lavoro nel settore moderno. Solo la crescita sostanziale della forza lavoro impiegata
nel settore moderno può giustificare la diversificazione della produzione a favore
della manifattura per la produzione di beni di consumo per il mercato locale. Ma
Furtado non era molto ottimista circa la possibilità di attrarre su vasta scala lavoratori
nel settore moderno: ipotizzava, in particolare, una cifra pari al 5% come il valore
medio della proporzione di lavoratori assorbiti nel settore per l’esportazione. Le
implicazioni erano perciò opposte a quelle formulate da Lewis: non è l’espansione
2
Per approfondire la teoria di Lewis fare riferimento a: A. Lewis “The theory of economic growth”
Routledge 2003
48
del nucleo capitalistico la via di sviluppo, quanto piuttosto il reinvestimento locale
dei profitti di quella enclave e, a causa delle dinamiche dei profitti, le economie
sottosviluppate sperimentano una espropriazione dei profitti che fuggono all’estero.
Per altro, il caso del Brasile serviva a Furtado a rafforzare il suo pessimismo: il
nucleo capitalistico concentrato nella produzione di caffè per l’esportazione aveva
dato vita, sin da XIX secolo, a una massa consistente di lavoratori impiegati che
avrebbero dovuto generare una domanda di beni di consumo da produrre localmente
e che invece, per mancanza di capacità competitiva necessaria a reggere l’urto della
concorrenza estera, si era tradotta semplicemente in un incremento di importazioni
dall’estero. Il Brasile, aggiungeva Furtado, era inoltre un’economia di così grandi
dimensioni da poter immaginare un’espansione degli investimenti locali non solo nel
settore dei beni di consumo, ma anche in quelli di investimento; in realtà l’esperienza
brasiliana indicava che, a fronte di un coefficiente di importazioni pari a circa il 10%
dell’economia nel suo complesso, la partecipazione delle importazioni al valore
complessivo degli investimenti risultava pari a un terzo, il che significava un
coefficiente superiore di tre volte rispetto a quello medio nazionale. La dinamica di
dipendenza dall’estero delle economie sottosviluppate sembrava condannare il
processo di cambiamento a un’industrializzazione fonte di domanda crescente di beni
capitali da importare, come anche pezzi di ricambio e componentistica. Mancava, in
altre parole, alcun segno di un processo di generazione di tecnologia locale per
sostituire i beni intermedi, il design e il know-how importati. Ciò si traduceva in un
continuo incremento di domanda di valuta estera per acquistare le importazioni
necessarie e in ricadute negative sul piano occupazionale, perpetuando la natura
dualistica delle economie sottosviluppate. La tecnologia finiva così con l’assumere la
valenza di variabile indipendente nel processo di sviluppo economico, determinante,
al pari della formazione di capitale del settore moderno e del tasso di crescita
demografico, dell’incremento occupazionale e cioè – nei termini di Furtado – della
relazione tra crescita e sviluppo economico. In assenza di appropriati interventi di
politica economica, concludeva Furtado, lo sviluppo industriale è destinato a
rimanere bloccato, mantenendo la struttura dualistica dell’economia. Opzioni
politiche auspicabili, in questa prospettiva, sono perciò la formazione di mercati
comuni per allargare il mercato e la promozione da parte del settore pubblico di
49
sostituzione delle importazioni, particolarmente nel caso dei prodotti con alta
elasticità della domanda rispetto al reddito. Infine, tema ricorrente nelle analisi degli
economisti strutturalisti, Furtado affronta il problema strutturale delle economie
latinoamericane di un’alta inflazione interna e di crisi della bilancia dei pagamenti.
Una caratteristica distintiva della scuola di pensiero strutturalista è stata quella di
rifiutare l’approccio e le soluzioni neoclassiche e monetariste ai problemi degli
squilibri, sia inflazionistici che di bilancia dei pagamenti, delle economie
sottosviluppate e un merito di Furtado è stato quello di chiarire analiticamente i limiti
del monetarismo e dell’idea secondo cui sia le pressioni sulla bilancia dei pagamenti
sia quelle sull’inflazione interna sarebbero sintomi dello stesso problema, cioè
dell’eccesso di domanda generata da una troppo rapida espansione dell’offerta
monetaria. Le ricette monetariste, essenzialmente volte a svalutare il cambio e
indurre una deflazione interna al fine di ridurre la domanda di valuta estera e
aumentare gli introiti valutari produrrebbero, insieme a una correzione degli squilibri
monetari, l’arresto dello sviluppo. La scarsa elasticità della domanda rispetto ai
prezzi sia nel caso delle importazioni che delle esportazioni, il controllo estero della
produzione di beni per l’esportazione e i limiti nella capacità di espansione delle
esportazioni sono le tre principali ragioni che sconsigliano il ricorso a ricette
monetariste.
Le tesi di Prebisch e dei teorici della dipendenza (Furtado, Dos Santos, Cardoso,
etc..) hanno diversi punti di contatto con la teoria Neo-Marxiana di Paul Baran,
Andrè Gunder Frank ed altri. Questi contributi saranno analizzati nell’ultimo
paragrafo di questo capitolo insieme ad una veloce dissertazione della teoria
dell’imperialismo.
50
La critica neo- marxista e la teoria dell’imperialismo
Nel corso degli anni ’50, Paul Baran cominciò, in modo allora solitario nel campo
dell’economia dello sviluppo, ad approfondire l’importanza del contributo teorico di
Marx per l’analisi del sottosviluppo. Giudicando molto feconda l’analisi marxiana,
ma ritenendola anche insufficiente per l’assenza di conoscenze specifiche
approfondite sulla realtà dei paesi colonizzati, Baran criticò l’eccessivo ottimismo di
Marx in merito alle “naturali” prospettive di sviluppo capitalistico di quei paesi e
fece ricorso alla teoria dell’imperialismo di Lenin, alla quale si dedicherà la parte
finale di questo paragrafo. Baran introdusse presto nuovi concetti, a cominciare da
quello di surplus economico effettivo (corrispondente alla differenza tra prodotto e
consumo effettivo), con cui superava lo schema marxiano ortodosso.
Paul Baran può essere considerato a tutti gli effetti il fondatore del neo-marxismo ed
il suo contributo “The political economy of growth” può essere certamente ritenuto il
primo contributo neo- marxista nella storia dell’economia dello sviluppo. Per Karl
Marx il futuro dei paesi sottosviluppati era già segnato: capitalismo, rivoluzione,
socialismo. La fine del colonialismo e la rivoluzione cinese portarono il pensiero
marxista verso un’evoluzione che attraverso la teoria dell’imperialismo e la teoria
economica standard portarono ad una scuola che, come vedremo, si distingueva sia
dal marxismo classico sia dagli altri teorici della dipendenza.
Per l’economista russo i paesi sottosviluppati erano coperti da “la cupa ombra
dell’arretratezza” (Baran, 1952, p.75) e l’unico modo per uscirne era la crescita
economica, assicurata da un aumento costante della produzione totale. La posizione
di Baran non era diversa da quella degli altri economisti del suo tempo (Nurkse,
Singer, Rosenstein – Rodan) ma si distingueva dai suoi colleghi per un impostazione
dell’economia “politica” puramente marxista. “Il fatto cruciale, che trasforma la
realizzazione di un programma di sviluppo è qualcosa di illusorio, è costituito dalla
struttura politica e sociale dei governi al potere.” (p.86)
Il tentativo di istaurare un sistema capitalistico in una società praticamente feudale
avrebbe avuto risultati catastrofici poiché gli aspetti negativi dei due sistemi
(sfruttamento capitalistico e assenza di libertà civili) avrebbe portato ad un’
51
amalgama politico – economico che avrebbe impedito ogni possibilità di crescita
economica.
In questa situazione le soluzioni proposte da tutti gli economisti della crescita
economica non avrebbe portato a niente e una programmazione pianificata avrebbe
portato solo ad un aumento della corruzione. Secondo Baran l’unica soluzione
possibile sarebbe stata “il collettivo sociale” attraverso una “transizione brusca e
dolorosa” (p.90)
L’economista russo non aveva nessun dubbio sulla desiderabilità dello sviluppo
economico, come sinonimo di crescita, e come Marx attendeva con ansia “il
crescente dominio della razionalità umana sulla natura” (Sweezy, 1965, p.459) ma
insisteva sulla “incompatibilità tra una crescita economica costante ed il sistema
capitalista […] La pianificazione economica socialista rappresenta l’unica soluzione
razionale a tale problema.” (p.119)
A differenza di Marx, Baran non considera il capitalismo come uno stadio necessario
allo sviluppo ma bensì un ostacolo al progresso umano. “Lo sviluppo economico dei
paesi sottosviluppati è profondamente nemico degli interessi dominanti nei paesi
capitalistici avanzati”. (Baran, 1960, p.120)
L’elemento centrale dell’analisi di Paul Baran è, come ho già accennato, il surplus
economico secondo due eccezioni: il surplus effettivo, cioè “la differenza tra la
produzione effettiva corrente ed il consumo effettivo corrente”, e il surplus
potenziale, cioè “la differenza tra la produzione che si potrebbe ottenere in un dato
ambiente naturale e tecnologico con l’ausilio delle risorse produttive impiegabili, e
ciò che si potrebbe considerare come consumo indispensabile” (Baran, 1971, p.3435). Nelle condizioni di un’economia capitalistica monopolistica la differenza tra
surplus effettivo e surplus potenziale si allarga a causa della sottoproduzione.
I paesi sottosviluppati quindi sono necessari perché diventano un vero e proprio
“hinterland” dei paesi capitalisti che in essi trovano la fonte di materie prime, di vasti
profitti e sbocchi di investimento. In Baran c’è già l’accenno a quel modello che in
Prebisch e nei “dipendentisti” sarà l’ossatura stessa della teoria, cioè il rapporto
centro- periferia. Il capitalismo monopolistico con l’imperialismo dei paesi
occidentali e l’arretratezza dei paesi sottosviluppati sono le due facce della stessa
medaglia e costituiscono un problema globale.
52
Alla fine degli anni ’60, l’approccio di Baran aveva attratto diversi studiosi, a
cominciare da Andre Gunder Frank, proveniente dall’università di Chicago e
trasferitosi a lavorare in America latina.
Il contributo del sociologo tedesco è importante perché per la prima volta si
individua nel capitalismo il vero motivo del sottosviluppo. A differenza di Marx, per
il quale il capitalismo era un passaggio necessario, e a differenza di Baran, per il
quale il capitalismo era diventato un ostacolo nel progresso dell’uomo, Frank
credeva che il sottosviluppo fosse causato dal capitalismo.La sua tesi si ricollegava in
parte alle conclusioni della teoria dell’imperialismo di Lenin, alla quale si accennerà
tra poco, secondo cui lo sviluppo capitalistico dei sistemi metropolitani si era
affermato a danno delle colonie sottosviluppate attraverso l’esproprio del loro
surplus. Affermando che capitalismo e sottosviluppo erano parte dello stesso sistema,
Frank sosteneva che soltanto a causa dell’infiltrazione del capitalismo che i paesi
dell’America Latina erano stati colpita da sottosviluppo. Secondo il sociologo
tedesco la borghesia era incapace di sostenere quel ruolo progressista che aveva
avuto in Europa perché essa era membra (e servile) di una classe internazionale di
proprietari.
Grazie all’economista senegalese Samir Amin, che usò l’apporto analitico della
teoria dello scambio ineguale di Arghiri Emmanuel, il paradigma neomarxista si
andava definendo in modo più rigoroso, accentuando l’importanza dell’estrazione di
surplus attraverso il commercio, delineando le prospettive di sviluppo del modo di
produzione capitalistico in relazione alla specifica posizione nell’economia
internazionale, sottolineando la contrapposizione tra centro e periferia che
evidenziava un interesse convergente di tutte le classi dominanti (sia nei paesi del
centro che in quelli periferici) a non favorire lo sviluppo di un capitalismo produttivo
nelle periferie.
Egli individuava il rimedio non tanto nello sviluppo che avrebbe fatto crescere
gradualmente i livelli di produttività del lavoro e i salari reali nei paesi in via di
sviluppo, quanto alla “liberazione della periferia” attraverso la rivoluzione socialista,
poiché il socialismo totale sarà necessariamente fondato su un’economia moderna a
produttività elevata”(Amin, 1977).
53
L’analisi neomarxista della posizione delle economie sottosviluppate all’interno del
regime internazionale trovava molti punti di contatto con la teoria strutturalista
latinoamericana degli anni ’40 e ’50, avviata da Raul Prebisch, da cui però si
discostava per l’impiego dell’analisi di classe come determinante prima del
sottosviluppo e per il ricorso al concetto di surplus economico. Il neomarxismo, cioè,
non riconosceva come fondamentale l’importanza alle strutture economiche esistenti,
considerate invece le principali cause del sottosviluppo da parte degli strutturalisti,
che proponevano soluzioni riformiste specifiche (a cominciare dalle politiche di
sostituzione delle importazioni); secondo i neomarxisti tali politiche erano da
considerare puri palliativi rispetto all’unica strategia percorribile, di riappropriazione
del surplus attraverso una rivoluzione socialista (in ciò, venendo criticati dai marxisti
ortodossi che ritenevano, invece, il capitalismo una fase necessaria nel percorso
verso il raggiungimento del socialismo).
Il lavoro di economisti neo – marxisti, dei “dipendentisti” e di Samir Amin portarono
più volte nelle conferenze dei paesi non allineati e nelle varie commissioni ONU
l’idea della necessità di un Nuovo Ordine Economico Internazionale: “Qualsiasi
forma di sviluppo si produca, questa è distorta o iniqua, coinvolgendo solo una
piccola parte della popolazione e riguardando ambiti esclusivamente settoriali e
regionali.” (Anell e Nygren, 1980)
Prima di chiudere questo capitolo è necessario soffermarsi su una teoria che ha
fortemente influenzato tutta la teorizzazione sul sottosviluppo, cioè la teoria
dell’imperialismo.
I primi teorici dell’imperialismo economico sono Lenin, J. Hobson e Rosa
Luxembourg. Per Hobson, il capitalismo inglese, sviluppato ormai in concentrazioni
monopolistiche, avrebbe provocato un eccesso di risparmio che tuttavia non avrebbe
trovato utilizzo interno, a causa dell'impoverimento della maggior parte della
popolazione. La necessità di facilitare gli investimenti esteri, quindi, avrebbe indotto
la spinta espansionistica. Su queste basi, Hobson suggeriva una serie di interventi
volti ad aumentare il potere di acquisto delle masse, per poter disinnescare la
tendenza imperialista.
Rosa Luxembourg vedeva l'incorporazione forzata di popolazioni e territori nei
processi di accumulazione del capitale come una caratteristica costante di
54
quest'ultimo, dovuta ai tentativi dei suoi agenti di superare le croniche tendenze alla
sovrapproduzione.
Per Lenin “l’imperialismo è la fase monopolistica del capitalismo” (Lenin, 1966) e
riteneva che l'imporsi dei processi di concentrazione della produzione e del capitale
avrebbe posto termine al periodo della libera concorrenza dello sviluppo
capitalistico, e trasformato il mondo in un teatro di lotta economica tra associazioni
monopolistiche internazionali. Questa lotta sarebbe destinata a concludersi nella
guerra imperialistica per la spartizione dei domini coloniali.
Tra le ragioni per cui la dottrina leninista dell'imperialismo è ancora oggi la più
diffusa tra i sostenitori del marxismo vi è il fatto che essa ebbe una maggiore
capacità di rivolgersi a fenomeni imperialistici diversi da quelli dell'espansione
coloniale stessa. Nel tempo essa venne integrata fino ad essere estesa al fenomeno
del neocolonialismo, alle situazioni, cioè, in cui i paesi “sfruttati” mantennero un
governo almeno formalmente indipendente dagli stati “sfruttatori”. Dopo la Seconda
Guerra Mondiale emerse una nuova importante interpretazione dell'imperialismo
dovuta ai marxisti di formazione americana Baran e Sweezy, che fornirono forse il
più importante contributo marxista all'analisi dei fenomeni del neocolonialismo e del
sottosviluppo. Animati dal proposito di superare la teoria di Lenin, ancora troppo
legata ad un’economia di tipo concorrenziale, i due studiosi costruirono un modello
teorico che considerava più esplicitamente l'economia monopolistica come il
principale fattore dell'imperialismo.
Sweezy, fondendo due diverse letture di Marx, vede nell’esportazione di capitale e
nella creazione di colonie come strumento per crearvi condizioni ad essa favorevoli il
modo in cui il capitalismo si oppone alla caduta tendenziale del saggio di profitto e
alle conseguenze del sottoconsumo.
Per quanto riguarda il problema del sottosviluppo, questa teoria si riallacciò a un
filone di pensiero, del quale si è parlato in questo paragrafo, ampiamente sviluppato
da numerosi studiosi marxisti, diretto a sottolineare lo sfruttamento dei paesi neoindipendenti. Il termine colonialismo è stato spesso usato come sinonimo di
imperialismo, e più specificamente dell’imperialismo di tipo "diretto" o "formale".
Ciò è dovuto sicuramente al fatto che il periodo storico comunemente considerato
come "il periodo di splendore" dell'imperialismo coincide con la spartizione
55
coloniale dell'Africa e in parte dell'Asia tra il XIX e il XX secolo. In realtà il
colonialismo è solo una delle forme che l'imperialismo ha assunto nel corso della
storia, con contenuti più complessi che nelle epoche precedenti. In linea generale,
con il termine “colonizzazione”, ci si riferisce al processo di espansione e di
conquista, alla sottomissione per mezzo dell'uso della forza e della superiorità
economica di altri territori e popolazioni. Il termine “colonialismo”, invece, definisce
più propriamente la dottrina e la pratica politica dell'organizzazione di sistemi di
dominio, ossia all'organizzazione di forme statuali coloniali, il cui fine era la
strutturazione di ciascun paese assoggettato in funzione di un razionale sfruttamento
delle risorse. Dopo la II Guerra Mondiale, di fronte all'esaurimento della spinta
imperialista degli stati europei e del Giappone, al processo di decolonizzazione, e
alla sopravvivenza del capitalismo, molti studiosi marxisti o neomarxisti hanno
sentito l'esigenza di costruire nuove teorie legate all'espansione imperialista. Essi
hanno visto il fenomeno dell'imperialismo continuare a manifestarsi sia nei rapporti
egemonici instauratisi fra le due nuove superpotenze (USA e URSS) e gli stati nel
loro blocco, sia nel cosiddetto "neocolonialismo", praticato soprattutto dagli Stati
Uniti. In seguito, il neocolonialismo prese ad essere riferito, più che al dominio
politico esclusivo di una metropoli sui suoi ex possedimenti coloniali, al dominio del
mercato capitalistico internazionale sui paesi produttori di materie prime. Questi
sono dipendenti dai paesi ricchi sul piano finanziario e tecnologico, e governati da
classi politiche pesantemente condizionate dalla struttura della dipendenza
economica. In questo modo l'imperialismo viene oggi a essere collegato a temi come
il sottosviluppo, la povertà, etc. Seguendo questa linea di pensiero, all'idea dello
sviluppo di un "imperialismo informale" è legata alla teoria della dipendenza, che è
già stata affrontata.
L'imperialismo può manifestarsi attraverso diverse sfere, dal governo, alla politica,
dall'economia alla cultura. Secondo una diffusa lettura si è distinto tra due forme di
imperialismo:
Diretto o formale: quando una potenza esercita un pieno controllo su un'area
dipendente, da cui sottrae la capacità decisionale;
indiretto o informale: quando uno stato potente esercita un dominio effettivo su uno
più debole senza occuparlo materialmente. In quest'ultimo caso, gli strumenti
56
possono essere i più vari, dalle minacce di interventi militari alle pressioni
diplomatiche.
Oggi queste teorie dell’imperialismo sembrano inutili per affrontare tematiche
immerse ormai in fenomeni globalizzati, ma si può tranquillamente affermare che
tendenze imperialistiche non siano affatto scomparse e che i cosiddetti “agenti della
globalizzazione” siano il nuovo strumento di un imperialismo completamente
rinnovato.
57
CAPITOLO TERZO:
Il contributo “eterodosso” ai modelli di sviluppo
“Se l'effetto immediato di un
cambiamento è deleterio, allora,
fino a prova contraria, lo è anche
l'effetto finale”
Karl Polanyi
In questo capitolo si affronterà la tematica dello sviluppo secondo approcci differenti
che inseriscono il modello dello sviluppo regionale in teorie che si erano
esclusivamente interessate di fenomeni nazionali o inerenti al mercato. Già nel
capitolo precedente si è visto come i modelli proposti dagli “economisti del
sottosviluppo” provocarono una rottura concettuale nei confronti dei modelli neoclassici di crescita. Le opere che analizzeremo in questo capitolo sono di autori che si
pongono in contrapposizione al modello dell’equilibrio di ispirazione neoclassica.
L’economia per questi autori non può fare a meno dello studio dei rapporti sociali.
La scienza economica in questo capitolo torna ad essere una scienza sociale.
Il contributo dell’antropologia economica di Karl Polanyi e gli elementi di storia,
sociologia e filosofia di Gunnar Myrdal e Albert Hirschman, ma anche l’elemento
spaziale nella teoria di Francois Perroux evolvono il concetto di sviluppo che nel
secondo dopoguerra dominava la cultura mainstream della scienza economica e della
politica.
Questi autori hanno analizzato lo sviluppo rompendo con la tradizione puramente
economicista dei neoclassici e, in parte, dei keynesiani. Il loro contributo più
importante è stato quello di aver fornito le basi per un’interpretazione diversa
dell’economia che ha portato a consolidare quel trait-d’union che deve
necessariamente esserci tra la scienza economica e le scienze sociali.
Questo capitolo può essere considerato anche come un’introduzione alla seconda
parte dove verrà analizzato il contributo del concetto di “sviluppo locale” dato che i
58
contributi degli autori trattati in questi paragrafi inseriscono la dimensione spaziale
nel ragionamento sullo sviluppo.
La volontà di questi economisti è quella di descrivere ed interpretare il processo dello
sviluppo economico in termini contrapposti a quelli lineari dell’equilibrio
neoclassico. In quest’ottica, la proposta teorica fornita da Perroux, Myrdal ed
Hirschman può essere compresa come un tentativo di spiegare la crescita economica
in modo più realistico di quanto non si potesse desumere dai modelli di crescita
equilibrata proposti nella tradizione neoclassica. Su questa nuova interpretazione
dell’economia reale si baseranno molte politiche di programmazione economica e
territoriale del dopoguerra che stravolsero quella che per Perroux era solo una
descrizione analitica della realtà.
Si inizierà questo capitolo con una breve dissertazione dell’opera “La grande
trasformazione” di Karl Polanyi che pone l’attenzione sui problemi basilari
dell’economia capitalistica e del suo sviluppo.
59
La grande trasformazione di Karl Polanyi
L’argomento principale di Karl Polanyi, recuperato da molti altri economisti
eterodossi, è che l’economia è immersa nei rapporti sociali e che le dinamiche dello
sviluppo non possono essere apprese appieno restando all’interno di una logica
meramente economicistica. Questo è il messaggio che “La grande trasformazione”
porta nella scienza dello sviluppo: esso non può essere interpretato dall’esclusiva
ottica del “mercato autoregolato”.
Polanyi nell’incipit spiega il senso della “grande trasformazione”: “La civiltà del
diciannovesimo secolo è crollata. Questo libro si occupa delle origini politiche ed
economiche di questo avvenimento oltre che della grande trasformazione che l' ha
seguito. La civiltà del diciannovesimo secolo poggiava su quattro istituzioni. La
prima era il sistema dell'equilibrio del potere che per un secolo impedì che tra le
grandi potenze scoppiassero guerre lunghe e devastatrici. La seconda era la base
aurea internazionale, che simboleggiava un'organizzazione unica dell'economia
mondiale. La terza era il mercato autoregolato che produceva un benessere
economico senza precedenti. La quarta era lo stato liberale…Tra queste istituzioni la
base aurea si dimostrò decisiva; la sua caduta fu la causa prossima della catastrofe e
al tempo in cui essa cadde la maggior parte delle altre istituzioni erano state
sacrificate in un vano sforzo di salvarla. La fonte e la matrice del sistema era tuttavia
il mercato autoregolato: fu questa innovazione a dare origine ad una civiltà specifica.
La base aurea era semplicemente il tentativo di estendere il sistema del mercato
interno al campo internazionale; il sistema dell'equilibrio del potere era una
sovrastruttura eretta sulla base aurea e in parte operante su di essa; lo stato liberale
era esso stesso una creazione del mercato autoregolato. La chiave del sistema
istituzionale del diciannovesimo secolo si trovava nelle leggi che governavano
l'economia di mercato. La nostra tesi è che l'idea di un mercato autoregolato
implicasse una grande utopia. Un'istituzione del genere non poteva esistere per un
qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza naturale e sociale della
società; essa avrebbe distrutto l'uomo fisicamente e avrebbe trasformato il suo
60
ambiente in un deserto. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per
difendersi, ma qualunque misura avesse preso, essa ostacolava l'autoregolazione del
mercato, disorganizzava la vita industriale e metteva così la società in pericolo in un
altro modo. Fu questo dilemma a spingere lo sviluppo del sistema di mercato in un
solco preciso ed infine a far crollare l'organizzazione sociale che si basava su di
esso.” (Polanyi, 1974, p. 5-6)
Secondo l’economista ungherese il capitalismo non è, come sosteneva la tradizione
liberale, un naturale punto di approdo nelle società umane, ma l’estrema artificiosità
di un sistema in cui l’economia si sottrae al controllo sociale diventa evidente al
tramonto della “civiltà del diciannovesimo secolo”. Dopo la crisi e le guerre la
“società di mercato” non è più “naturale” delle altre società ma assai meno e , per
questo, è destinata a chiudersi con una crisi violenta come tutti i casi “patologici”.
Il fallimento evidente della filosofia liberale basata sul meccanismo del mercato si
concretizza nella comprensione del problema del cambiamento. L’economia
neoclassica è statica è quindi inadatta a comprendere un economia necessariamente
dinamica.
Polanyi mina le basi antropologiche della dottrina economica liberale negando la
pulsione fondamentale dell’attività economica cioè, sulla scorta di A. Smith, la
“propensione al baratto, al commercio e allo scambio di una cosa con l’altra”. Su
questa propensione si è formato l’utilitarismo e il perseguimento del benessere
individuale è diventato un dovere, legittimo ed utile per tutta la società.
L’economista ungherese è radicale nell’affermare la falsità di questo sistema:
“Nonostante il coro di invenzioni accademiche tanto insistente nel diciannovesimo
secolo, il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai prima svolto una parte
importante nell’economia e per quanto l’istituzione del mercato fosse abbastanza
comune a partire dalla tarda Età della Pietra, il suo ruolo era soltanto incidentale nei
confronti della vita economica” (p. 57). Il sistema economico è una funzione del
sistema sociale e non viceversa, come sostengono i liberisti:“l’importanza vitale del
fattore economico per l’esistenza della società preclude qualunque altro risultato
poiché una volta che il sistema economico sia organizzato in istituzioni separate,
basate su motivi specifici e conferenti uno speciale status. La società deve essere
61
formata in modo da permettere a questo sistema di funzionare secondo le proprie
leggi” (p.74).
Il sistema di mercato si auto- regola e si auto- riproduce e attraverso la
mercificazione del lavoro, della terra e della moneta, si permette “ al meccanismo di
mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro
ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto” e ciò
“porterebbe alla demolizione la società.” (p. 93)
L’opinione dell’economista ungherese dello sviluppo della società di mercato
capitalista si concretizza in un’analisi spietata secondo la quale, una volta messo in
moto dai processi sociali, vale a dire dalla spietata avidità dei capitalisti, avallato
dalle forze politiche che rappresentavano i loro interessi e teorizzato dagli utilitaristi
e dagli economisti classici, il meccanismo diabolico del “mercato regolato” produce
di fatto, nel corso dell’800, i suoi effetti: la crescita prodigiosa della ricchezza è
pagata al prezzo di un enorme aumento della miseria e della degradazione umana.
Il costo dello sviluppo capitalistico è necessariamente troppo alto e la trasformazione
dell’economia di mercato in un vero e proprio “credo” attestato per un verso su di
una rivendicazione apologetica della fondatezza scientifica delle leggi economiche
che governano il mercato e per un altro su di un’orgogliosa difesa dalle critiche
secondo la quale l’incompleta applicazione dei suoi principi era la ragione di tutte le
difficoltà che ad esso venivano attribuite. La difesa del liberismo capitalista è
totalizzante e pericolosa poiché attraverso questa difesa il liberismo paradossalmente
si spiritualizza, nel senso che, contro l’evidenza delle cose, esso diventa il paladino
del progresso contro le oscure forze conservatrici che ad esso si oppongono: lo Stato
burocratico e la classe lavoratrice miope e accecata dai sindacati “di fronte ai
benefici ultimi di un’illimitata libertà economica verso tutti gli interessi umani,
compresi i suoi” (p. 185).
Il vero pericolo dello sviluppo capitalistico si realizza poiché il suo carattere
selvaggio non sta tanto e solo nel grado di sfruttamento dell’uomo e della natura che
esso promuove, ma soprattutto nella sua vocazione a promuovere una nuova cultura
che scinda definitivamente i legami che l’uomo ha sempre sentito di avere con la
società e con la natura, il tessuto umano e naturale della vita sociale, per produrre
infine l’individuo che persegue univocamente il fine di affermare i suoi interessi:
62
“separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi di mercato
significa annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo
diverso
di
organizzazione,
atomistico
e individualistico” (p.210).
Questa
affermazione è un vero e proprio “atto di accusa” nei confronti del capitalismo e del
suo sviluppo. L’economista ungherese individua due possibili strade di uscita: il
socialismo, nella sua eccezione democratica, ed il fascismo.
La versione umanitaristica e socialdemocratica dell’alternativa socialista che Polanyi
sembra sottoscrivere è “la tendenza inerente ad una civiltà industriale a superare il
mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad una società democratica…
dal punto di vista della comunità nel suo insieme il socialismo è semplicemente la
continuazione di quello sforzo di rendere la società un rapporto specificamente
umano tra persone, rapporto che nell’Europa occidentale era sempre stato associato
alle tradizioni cristiane. Dal punto di vista economico, esso è al contrario un
allontanamento radicale dal passato immediato, nella misura in cui esso rompe con il
fare dei guadagni monetari privati l’incentivo generale alle attività produttive e non
riconosce il diritto degli individui privati di disporre dei principali strumenti di
produzione. Ecco perché, in ultima analisi, la riforma dell’economia capitalistica da
parte dei partiti socialisti è difficile anche quando essi siano decisi a non interferire
nel sistema di proprietà. Infatti la semplice possibilità che essi possano decidere di
farlo diminuisce quel tipo di fiducia che nell’economia liberale è vitale, cioè
l’assoluta fiducia nella continuità dei titoli di proprietà. Mentre il contenuto di fatto
dei diritti di proprietà potrebbe subire una ridefinizione per mezzo della legislazione,
la sicurezza della continuità formale è esenziale per la continuità dell’economia di
mercato” (p.295). Il fascismo è una soluzione autoritaria e conservatrice che permette
alle classi borghesi il controllo dei partiti socialisti. Questa soluzione salva il mercato
ma rinuncia alla democrazia attraverso un rieducazione forzata che elimina l’idea di
fratellanza degli uomini.
Il pensiero di Polanyi sullo sviluppo è assolutamente contrastante con lo sviluppo
economico, liberale e capitalista che si è analizzato fino ad ora. L’economista
ungherese, che può essere considerato un “classico”, rompe radicalmente con la
tradizione liberale risalente ad Adam Smith ma soprattutto con l’economia neoclassica e l’utilitarismo ponendo una critica alla base antropologica che sottostà al
63
“discorso economico”. E’ riscontrabile un “fil rouge” tra il pensiero di Karl Marx e le
sue argomentazioni , ma, a differenza del filosofo tedesco, Polanyi ha il vantaggio di
applicare all’analisi del liberismo un’ottica antropologica che, senza minimizzarne
gli effetti economici, sottolinea la sua pervicace volontà di attentare la sostanza
umana e naturale della vita sociale: quella per cui l’uomo, nella sua lunga storia, ha
sempre riconosciuto l’appartenenza ad un gruppo e alla natura come fondamento
della sua esistenza. A differenza di Marx, l’economista ungherese sottolinea
vigorosamente il carattere di mutazione culturale prima ancora che economica che il
liberismo introduce nella storia del mondo. Una mutazione che, secondo i liberisti,
affrancherebbe finalmente l’individuo dai conservatorismi di un passato che limitava,
nei rapporti sociali e in quelli con l’ambiente, la sua libertà di autorealizzazione,
mentre, secondo Polanyi, essa comporta il rischio di un’atomizzazione dell’esistenza
individuale e di una degradazione della società.
Storicizzando il suo pensiero, si può affermare che Polanyi trovi la soluzione del
“problema dello sviluppo” in una vera e propria rivoluzione culturale del pensiero
liberale che riesca a smascherare la mistificazione di un sistema di mercato per il
quale tutto deve essere comprato e venduto, stravolgendo ogni attività umana, come
il lavoro. La mercificazione della società ed il falso presupposto antropologico che
l’attività principale dell’uomo sia lo scambio hanno creato questa enorme
mistificazione dalla quale è necessario liberarsi.
Lo strumento per la liberazione dalla società capitalista deve essere per Polanyi una
soluzione democratica e socialista rompendo lo schema di produzione/ proprietà che
domina lo sviluppo capitalistico.
Lo sviluppo per Polanyi si concretizza solo in una società dove le relazioni umane
non si riducono esclusivamente allo scambio o all’accumulazione capitalista. La
ricetta che ci propose l’economista ungherese è una vera e propria sterzata dai binari
dello sviluppo economico liberista.
Dalla prospettiva sociologica ed antropologica di Karl Polanyi si può introdurre il
pensiero di un autore che condizionò profondamente l’idea di sviluppo introducendo
la dimensione spaziale che fino a quel momento era stata ignorata dai teorici dello
sviluppo economico.
64
François Perroux e i poli di sviluppo
Un grande contributo alla teorizzazione dell’economia dello sviluppo in
contrapposizione con lo schema neoclassico dell’equilibrio è stato fornito dall’opera
dell’economista francese Francois Perroux che si occupò di scienza economica in
un’ottica “sviluppista” riprendendo la visuale degli economisti classici come Marx e
Schumpeter.
Perroux rompe con il pensiero neoclassico perché distingue la crescita dallo
sviluppo:per crescita intendeva la crescita economica e del prodotto, e per sviluppo,
lo sviluppo morale e culturale dell’individuo: l’unico fattore capace di indicare il
grado di progresso sociale realmente conseguito nel campo delle libertà civili.
Secondo Perroux, però, senza crescita economica non c’è progresso civile, e
viceversa: i due fattori procedono insieme.
La distinzione resta fondamentale perché pone un problema della qualità dello
sviluppo indicando la crescita come strumento e non come fine, criticando il sistema
capitalistico.
Nell’opera di Perroux i costi umani e sociali e il problema della sensibilizzazione
delle scienze sociali e della disciplina economica al valore e ai bisogni della risorsa
umana sono aree di riflessione e di indagine strettamente connesse: la
minimizzazione dei costi sociali del capitalismo necessita di una scienza sociale ed
economica umanizzata sulla base a criteri di razionalità scientifica, formulati in
termini di standard di benessere sostanziale, di “costi umani” o “minimi sociali
esistenziali”. I costi sociali sono fenomeni di perdita di valore sociale derivanti dalla
mancata considerazione dei costi umani o dei minimi sociali esistenziali. Perroux
propone una “rivoluzione”, compatibile alla critica di Karl Polanyi, cioè una
“umanizzazione della scienza economica”.
Perroux affronta la problematica dei costi umani sullo sfondo della propria critica
della concorrenza pura e perfetta e della competizione imperfetta. Egli considera gli
“equilibri spontanei” tra piccole unità economiche (individui, imprese) della
concorrenza pura e perfetta, sotto l’”arbitrato ‘neutro’ del prezzo”, “nulla di più che
una costruzione logica” (Perroux 1991, p.5). La concorrenza non garantisce contro
65
fenomeni di spoliazione e depredamento di risorse naturali dovuti al prevalere di
atteggiamenti predatori: “La ripartizione ottima delle risorse e degli impieghi
attraverso il meccanismo dei prezzi e attraverso il gioco delle decisioni individuali
risulta un’amara irrisione per chi prende in considerazione gli aggregati e gli effetti
di lungo periodo. L’imprenditore e il mercante distruggono la foresta, depredano i
fattori naturali, si dimostrano altrettanto irrispettosi della vita degli animali e delle
piante quanto di quella degli uomini. Quando una politica della ‘conservazione’
viene ad essere decisa, essa è dovuta alla saggezza limitata, tardiva e precaria di
alcune élite: certamente non alle spontaneità e agli automatismi del mercato. Le
‘armonie naturali’ di F. Bastiat sembrano decisamente aver perso molta della loro
efficacia, benefica ed estetica insieme” (Perroux 1991, p. 375)
Il contributo fondamentale dell’economista francese per quanto riguarda lo sviluppo
è riscontrabile nell’ambito della geografia economica. Debitrice del pensiero
schumpeteriano, l’opera di Perroux abbandona l’equilibrio e la razionalità economica
neoclassica riconducendo lo sviluppo della società ai progressi dello processo
innovativo, a quella “distruzione creatrice” tanto cara all’economista austriaco.
“Senza progresso tecnico non si ammette alcuna forma evolutiva, la quale unisce, in
una catena di relazioni, effetti economici, sociali, politici, culturali ed ideologici.
L’evoluzione economica sarà dunque un processo dialettico e dinamico, irreversibile
e portatore di eterogeneità.” (Conti, 1996, p.125)
L’economista francese introduce una nuova concezione di spazio astratto e
topologico in contrapposizione all’idea di uno spazio banale, presente nell’economia
convenzionale, dove ambito politico e spazio economico ed umano coincidevano.
Lo spazio è un “campo di forze” centripete e centrifughe disseminate nel territorio,
per le quali soggetti e mezzi di produzione si muovono, vendendo attratti o respinti in
modo selettivo da e verso i diversi luoghi. Da questa idea nascono i “poli di crescita”,
cioè dei luoghi, con diverse intensità, dai quali la crescita economica si propaga
lungo canali definiti coinvolgendo in maniera diversa le parti dello spazio.
Alla base del ragionamento di Francois Perroux c’è l’idea dell’asimmetria di potere
tra gli attori: la dimensione regionale è il risultato delle varie forme di
agglomerazione, ed essa stessa è una manifestazione del potere esercitato in uno
spazio geografico.
66
La sua modelizzazione nasce dalla critica alla teoria dell’equilibrio di Walras: la
l’ipotesi restrittive per la concorrenza perfetta, in un sistema tendente all’equilibrio, e
“l’atomismo” degli agenti costituiscono un’inaccettabile astrazione dal mondo reale,
che è caratterizzato da concorrenza imperfetta e forme di potere coercitive.
Per Perroux è necessaria una “nuova teoria dell’interdipendenza”, caratterizzata da
“deviazione dal modello di concorrenza perfetta” e dal “rifiuto di considerare le
persone come esseri annientati”. Egli ha proposto di ricostruire la teoria di equilibrio
generale “a partire dagli gli agenti o attori e dalle unità attive.” (Perroux 19 ,p.69-70)
La volontà dell’economista francese, ma anche di Myrdal ed Hirschman ai quali
dedicherò i prossimi paragrafi, è quella di descrivere ed interpretare il processo dello
sviluppo.
Basandosi sulla critica all’equilibrio generale e attraverso l’uso del concetto
dell’assimetria di potere, Perroux definisce i concetti di “poli di crescita” ed i “poli di
sviluppo”, per determinati gruppi di unità (se agenti, imprese o industrie): il polo di
crescita è un insieme che ha la capacità di indurre la crescita di un altro insieme (la
“crescita” è stata definita come un duraturo aumento dell’indicatore dimensionale); il
polo di sviluppo è un insieme che ha la capacità di generare una dialettica delle
strutture economiche e sociali il cui effetto è quello di aumentare la complessità del
suo complesso e espandere il suo ritorno multidimensionale. (Perroux 19 ,p.48)
Questi poli di crescita, che sono espressione del dominio nello spazio, corrispondono
all’agglomerazioni industriali nelle quali sono localizzate le “industrie motrici”, cioè
unità propulsive, imprese e settori produttivi che generano un effetto moltiplicatore
capace di suscitare la crescita di altre unità economiche. Questa funzione viene
esercitata da questi poli per il loro particolare potere economico in quello spazio,
tendenzialmente derivato dalla loro superiore dimensione, dal loro carattere
oligopolistico e dalla loro capacità di instaurare rapporti con il tessuto circostante
(imprese fornitrici o acquirenti, popolazione ed infrastrutture).
Storicamente la funzione motrice è stata incarnata da vari settori come i trasporti ed
il tessile nell’Ottocento, o la siderurgia e l’industria meccanica nella prima parte del
Novecento. Questi settori industriali sono caratterizzati da elevati tassi di crescita del
prodotto e della produttività e, grazie alla loro capacità innovativa, intervengono in
modo profondo nel territorio. Per questi motivi il concetto di “polo di crescita” viene
67
presto sostituito da quello di “polo di sviluppo” dove i settori industriali, motore
della crescita, sono in grado di produrre trasformazioni profonde in senso tecnico,
istituzionale e sociale. Il potere dei poli non si manifesta quindi solo per i
componenti di natura economico – produttiva ma anche trasformando i sistemi
regionali.
Il ragionamento perrousiano si basa su un processo unitario sul quale si intreccia e si
sovrappone una catena di anelli causali che accompagna l’evoluzione del sistema. Si
può affermare che questo processo avvenga attraverso quattro processi congiunti: la
crescita produttiva, la crescita socio- demografica, la formazione di economie esterne
e la complessificazione della crescita. (Conti, 1996, p.126-127)
1.
La crescita produttiva.
Alla base della crescita, come si è già visto, c’è “l’impresa motrice” la quale riesce
ad esprimere un potere economico rilevante, originando una “dominazione”. Questa
“dominazione” si realizza grazie ad un controllo della domanda localizzata nel suo
territorio e alla capacità di esportare creando profitti e controllando, de facto, il ciclo
produttivo. Queste capacità di natura “oligopolistica” si manifestano solo per imprese
di dimensioni rilevanti.
La “dominazione”, ovvero la capacità di attrarre risorse e popolazione, origina una
forma di sviluppo che presuppone l’attivazione di squilibri fra i soggetti operanti nel
sistema economico: “Le cause che permettono la nascita di un’industria dominante
possono essere molteplici; esse vanno dalla dinamica interna dell’impresa,
all’avvenimento storico esogeno, alla non perfetta realizzazione della concorrenza fra
eguali. In ogni caso, ciò che permette la nascita di un’impresa è il fatto stesso che
esiste, perlomeno nell’economia occidentale di mercato, un rapporto di dominazione,
o - se si vuole - un rapporto di scambio fra ineguali.”1
L’impresa motrice ha la capacità di esercitare, per un periodo tempo sufficientemente
lungo, un potere su gli altri attori economici; potere che si realizza nel “imporre ai
fornitori un prezzo d’acquisto dei propri input inferiore al prezzo di mercato.”2
1
A. Mela e M. Pellegrini, “Formazioni sociali e squilibri interregionali, Guida, Napoli, 1978 p.316 in
S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 126
2
F. Perroux “Economic space”, cit. p.24 in S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 127
68
2.
La crescita socio- demografica.
L’accumulazione dell’impresa dominante e degli altri soggetti localizzati in quel
polo crea una serie di processi di polarizzazione sociale e demografica. L’aumento
dell’offerta di lavoro, dovuta all’insediamento di nuova attività produttive e
all’ampliamento dell’impresa dominante, crea un circolo virtuoso che si autoalimenta
grazie ad un continuo incremento della forza lavoro e della creazioni di servizi ed
infrastrutture efficienti. Crescita economica e crescita demografica si autoalimentano
reciprocamente.
3.
La formazione di economie esterne
La crescita del polo crea economie esterne che si traducono in vantaggi sia per
l’impresa motrice, attraverso una riduzione dei costi unitari di produzione, grazie alla
presenza di produttori specializzati, sia per il sistema economico nel suo complesso,
dal momento che inducono una più generale espansione della domanda e dell’offerta.
Per Perroux esistono due tipi di esternalità: quelle tecnologiche, per le quali un
fattore di produzione di un’impresa entra nella funzione di produzione di un’altra, e
quelle pecuniarie, per le quali l’output di un impresa influisce sui profitti di un’altra
impresa senza entrare nella sua funzione di produzione.
4.
La complessificazione della crescita
L’espansione della domanda della popolazione insediata produce l’accelerazione del
tasso d’investimento sia nell’impresa motrice sia nei settori ad essa correlati. Questo
fenomeno provoca una diversificazione del tessuto economico del polo e la
formazione di intense relazioni tra gli attori localizzati.
Per concludere questo paragrafo è necessario approfondire in che modo Perroux
considera lo spazio e quale importanza ad esso viene affidata. La dimensione
geografica di questi processi di crescita economica non emerge dal lavoro di Perroux
come un elemento centrale dove la “localizzazione” risulta fondamentale. Lo spazio,
anche se viene introdotto in modo preponderante, è ancora “astratto” e fa solo da
cornice al processo inevitabile che coinvolge le forze economiche operanti in una
società industriale. Come ricorda T. Hermansen, infatti, per Perroux “lo spazio
geografico appare soltanto un piuttosto banale tipo di spazio, mentre l’oggetto
principale della sua attenzione è la crescita economica, ovvero i processi attraverso
69
cui le imprese ( e le unità economiche in generale) compaiono, crescono, si
stabilizzano e, talvolta, scompaiono.”3
Questa nuova interpretazione dello sviluppo, in aperto contrasto con la concezione
statica di equilibrio, apre la strada ad altre teorie per le quali la dimensione spaziale
riveste una, seppur minima, importanza. I concetti introdotti da Perroux verranno
usati ed interpretati da altri autori come Hirschman e Myrdal, ai quali sono dedicati i
prossima paragrafi.
3
T Hermansen “Development Poles and Related Theories: a Synoptic Review, in Hansen (a cura di)
“Growth Centers”, cit. P.167, in S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 128
70
Albert Hirschman e la dimensione ermeneutica dello sviluppo4
Il contributo di Hirschman alla teoria dello sviluppo è molto importante perché non
solo contribuisce alla creazione di un’economia regionale ma mette in discussione le
basi stesse della teoria dello sviluppo economico neoclassica.
L’idea che l’economia possa avere un’esistenza utile separata dalla filosofia è
assolutamente estranea al lavoro dell’economista tedesco che ha un approccio
ermeneutico all’economia, in generale, e allo sviluppo, in particolare. La distinzione
tra scelte individuali e scelte collettive, razionalità individuale e razionalità collettiva,
pone Hirschman in un filone di analisi che considera necessario un approccio
all’economia che consideri comunque le scelte degli individui come limitate dal
sistema di valori da cui dipendono. L’economia non può essere amorale.
I lavori sullo sviluppo economico di questo autore devono essere letti alla luce della
sua continua ricerca di analisi dei rapporti tra l’individuo ed il contesto collettivo. E’
netta la contrapposizione di questa posizione con l’ortodossia economica per la quale
i comportamenti individuali e sociali sono ridotti a reazioni meccaniche sempre
prevedibili e astoriche. Il tentativo riduzionista che esclude la diversità umana e la
sua imprevedibilità rischia di fallare dalle fondamenta un’economia che si eleva a
potenza di scienza perfetta dimenticando la propria dimensione sociale. Il paradigma
neoclassico affronta il problema dell'incertezza, riducendola alla prevedibilità di
eventi esterni, invece di considerarla come un risultato non predeterminato
dell'azione collettiva. Tale semplificazione è resa possibile attraverso l'eliminazione
delle componenti strutturali dell'incertezza, ossia le “passioni” degli individui ed il
loro “sentimento sociale”.
Nel tentativo di rendere l’economia la scienza dell’utilità si è proceduto a scarificare
elementi fondamentali della natura umana. Hirschman, in “Passioni ed interessi:
argomenti politici a favore del capitalismo prima del suo trionfo”, affronta proprio la
questione della “rimozione” storica delle passioni e la loro sostituzione mediante un
concetto di razionalità basato sul calcolo del proprio self-interest. L’uomo è un essere
4
Per il titolo del paragrafo si fa riferimento a Lucio Poma “La dimensione ermeneutica dell’economia
in Albert O. Hirschman” Università di Bologna, 1994
71
complesso che non può essere ridotto a colui che è guidato solo dal proprio interesse.
La fallacia dell’economia ortodossa sta proprio nel credere in questa semplificazione.
Nel tentativo di descrivere questa doppia natura umana, fatta di passioni ed interessi,
di azione individuale e di azione collettiva, Hirschman elabora i concetti di Exit e
Voice dove l'exit è un comportamento individuale di defezione da un prodotto o da
un processo, mentre la voice è un comportamento collettivo in quanto, anche nei casi
in cui è espressa individualmente, trae la sua logica d'azione da una concezione
collettiva di valori e di giustizia sociale interiorizzata dal soggetto che protesta
perché vede lesi i suoi diritti o le sue aspettative.
Dopo aver inquadrato la “poetica” di Hirschman mi interessa passare ad analizzare le
sue idee riguardo lo sviluppo economico, idee che ne hanno fatto uno dei “luminari”
di questa materia. Il contributo dell’economista tedesco si inserisce perfettamente tra
le varie teorie dello sviluppo come quelle di Rostow, Prebisch e Perroux apportando
al dibattito idee “innovative”.
Questo contributo si forma sulla consapevolezza che l'economia dello sviluppo sia
solamente una delle tante sottomaterie che formano la più generale teoria dello
sviluppo. L’economia dello sviluppo deve evolversi in questo senso vero una teoria
generale dello sviluppo omnicomprensivo. Questa evoluzione, che emerge dai
fallimenti di un approccio puramente economicistico al problema dello sviluppo,
individua
un
campo
di
indagine
caratterizzato
da
una
fondamentale
multidisciplinarità che attinge all'economia, certamente, ma anche alla storia, alla
sociologia, all'antropologia, alla psicologia.
L’idea di fondo di Albert Hirschman è che lo sviluppo si manifesta attraverso una
catena di squilibri. Usando la teoria della polarizzazione che Perroux aveva coniato,
l’economista tedesco individua due tipi di effetti: gli “effetti di polarizzazione”,
“ovvero i fattori che operano nel senso di accrescere le disparità di reddito” e gli
“effetti di propagazione”, “ossia i fattori che operano nel senso di diffondere la
prosperità dalle regioni ricche alle povere” (Hirschman 1983).
Per lo schema interpretativo dell’autore, che si basa sul dualismo economico e su una
nozione di centro- periferia, nello sviluppo “più o meno spontaneo” del capitalismo
la ricerca di maggiori profitti genera una “naturale” concentrazione geografica degli
investimenti nelle regioni urbanizzate ed industrializzate, essendo “improbabile che
72
lo sviluppo abbia inizio ovunque alla stessa velocità nell’ambito di un’economia”
(Hirschman 1968, p.219).
Questo fenomeno porta ad un’accentuazione delle differenze economiche tra le varie
regioni: le regioni sviluppate usufriranno di un aumento del proprio benessere mentre
le regioni arretrare rimarranno tali.
Quando una certa industria ha deciso una localizzazione in un determinato spazio
economico, growing point, si avvia un “processo moltiplicatore” che genera un ciclo
virtuoso. La nuova domanda mossa da questo processo si manifesta da una parte
attraverso l’aumento di richiesta di beni, infrastrutture e servizi della popolazione
immigrata; dall’altra la funzione attrattiva dell’impresa favorisce l’insediamento di
nuove unità produttive fornitrici di input e acquirenti di semilavorati da sottoporre a
successiva trasformazione.
Queste relazioni sono definite da Hirschman come backward e forward linkages, cioè
due tipi di effetti di collegamento “all’indietro” o “in avanti”. Questi due fenomeni
influiscono su ciò che per l’autore è al centro dello sviluppo, cioè l’”investimento
indotto”. L’accresciuta disponibilità di un prodotto induce lentamente ad un
incremento della domanda di altri prodotti, complementari all’uso sostenuti dal
cosiddetto “bisogno indotto”. L’investimento indotto è qualcosa di molto simile al
moltiplicatore di keynesiana memoria; accade cioè che ogni investimento provoca
una serie di investimenti successivi portando così con se le economie e le
diseconomie esterne.
Questi linkages vengono definiti in questo modo da Hirshman:
1.
La fornitura degli input, la domanda derivata, o gli effetti di
collegamento all’indietro. Ogni attività economica che non sia del settore primario,
indurrà degli sforzi per produrre localmente gli input che le sono necessari.
2.
L’utilizzazione degli output, o gli effetti di collegamento in avanti. Ogni
attività che per sua natura non soddisfa esclusivamente la domanda finale, indurrà
degli sforzi per utilizzare i suoi output come input in qualche nuova attività. (1968,
p.120)
Lo sviluppo economico si fonda, quindi, su questi meccanismi di induzione che
permettono allo sviluppo di propagarsi da regione a regione. Il contributo
hirschmaniano deve molto alla teoria della geografia economica e ai concetti di
73
economie esterne di Marshall derivanti da quelli che alcuni chiamano come il
“milieu” o meglio ancora “l’atmosfera industriale”.
L’intero processo essendo cumulativo avvia nuovi cicli di sviluppo che generano
nuove forme di concentrazione fino a quando o si manifestano diseconomie di
agglomerazione oppure emergono nuovi centri (o poli) di crescita concorrenti che
offrono vantaggi competitivi maggiori.
Questo fenomeno si manifesta per la naturale tendenza degli imprenditori a
concentrarsi e questo risulta essere il fattore propulsivo della crescita economica, la
è, per i motivi già visti, necessariamente squilibrata, cioè spazialmente differenziata.
Il divario economico tra Nord (regioni sviluppate) e Sud (regioni sottosviluppate)
tende necessariamente ad aumentare restringendo le possibilità per quest’ultime di
svilupparsi, riducendo il divario.
La conclusione di Hirschman sembra essere particolarmente pessimista dato che le
regioni sottosviluppate sono destinate a rimanere escluse dalla concentrazione delle
attività produttive ma, sempre secondo l’economista tedesco, la soluzione a questo
problema avverrebbe “spontaneamente” nel lungo periodo, “in quanto la crescita dei
livelli di consumo nelle aree sviluppate determinerebbe un aumento della domanda
anche nelle regioni sottosviluppate, favorendo in queste ultime l’innesco di processi
di espansione economica.
Come si può facilmente intuire la teoria di Hirschman si basa principalmente
sull’idea di un forte dualismo tra Nord e Sud del mondo. Questo dualismo è
fortemente dialettico e prevede una contrapposizione profonda tra le due realtà che,
in un’economia di mercato, sono destinate a scontrarsi.
Gli argomenti che si affrontano in questa ultima parte del paragrafo sono le posizioni
dell’economista tedesco su quelle che possono (o devono) essere le politiche
economiche ed sul suo confronto tra la diffusione interregionale e quella
internazionale dello sviluppo economico.
La difficoltà, mostrata dall’argomentazione appena descritta, di trasferire lo sviluppo
da regione a regione e la difficoltà di dare avvio a processi di crescita in zone
scarsamente attrattive assume particolare importanza la distribuzione regionale degli
investimenti pubblici che devono fare da moltiplicatore.
74
Secondo Hirschman esistono tre gruppi di interventi pubblici: la dispersione, la
concentrazione nelle regioni già sviluppate e la concentrazione nelle zone arretrate.
Il primo modello è quello più diffuso poiché i governi tendono a disperdere gli
investimenti per avere più popolarità possibile. Il ruolo dei governi nello sviluppo
viene brillantemente riassunto da Hirschman in questo passaggio: “Per esercitare
un’azione efficace, il governo deve promuovere lo sviluppo per mezzo di decisi
interventi, tali da creare incentivi e pressioni per un’azione ulteriore; e deve restar
pronto a reagire a queste pressioni e alleviarle in numerose aree. Qualunque sia
l’importanza del ruolo dello stato nell’economia, entrambe le funzioni sono
generalmente presenti, anche se una delle due può essere predominante.” (p.242)
I due compiti quindi sono la promozione e la funzione di attenuazione delle
pressioni. Il primo compito , su quale si sono concentrati gli studiosi dello sviluppo, è
quello di preparare le condizioni, i prerequisiti, per la continuazione dello sviluppo,
ma questa fase è spesso incapace di promuovere lo sviluppo in aree sottosviluppate.
La seconda fase si potrebbe definire “indotta” e si concretizza in una serie di
interventi di riequilibrio dove lo Stato interviene a sostegno dello sviluppo di un
settore aggiornando altri settori complementari: lo sviluppo della siderurgia necessita
di uno sviluppo dell’industria energetica e dei trasporti, ma anche dell’istruzione.
Ogni singolo intervento ha effetti che devono essere controllati nella loro totalità per
non rischiare di creare più danni che benefici.
Un’altra argomentazione molto interessante dell’economista tedesco è quella sul
rapporto tra lo sviluppo regionale e lo sviluppo internazionale, dato che si cerca di
fare una comparazione su base spaziale.
Come abbiamo visto lo sviluppo difficilmente passa da regione a regione
spontaneamente e questa considerazione potrebbe far dedurre che il passaggio
internazionale sia ancora meno probabile. Gli effetti di polarizzazione e di
propagazione tendono a favorire tendenze separatiste o meno a seconda di quale tipo
di diffusione sia più conveniente (internazionale o interregionale). Hirschiman
conclude affermando che “le forze che agiscono a favore della diffusione dello
sviluppo tra regioni sono probabilmente più forti di quelle che agiscono per la sua
diffusione tra paesi.” (p.236) Questa convinzione nasce dall’argomentazione che in
uno stesso Paese lo sviluppo delle zone degradate sarà motivato da ragioni
75
solidaristiche fondate sull’unità nazionale e sul potere di pressione politica dell’aree
depresse nei confronti del governo centrale.
Dopo questa breve sintesi del contributo hirschmaniano nell’economia dello sviluppo
si passerò ad esaminare un altro contributo fondamentale alla materia fornito da un
economista molto vicino ad Hirschman, cioè Gunnar Myrdal.
76
Gunnar Myrdal: l’istituzionalismo nella teoria dello sviluppo
Anche Myrdal, come gli autori appena visti, critica in modo sistematico la teoria
economica generale che non è nata per spiegare lo sviluppo ed il sottosviluppo e che
porta con sé troppi fattori irrealistici. La teoria economica risulta essere irrealistica, e
quindi fallace, soprattutto per due elementi basilari della teoria stessa: l’equilibrio e
la completa sottovalutazione dei cosiddetti “fattori non economici” che vengono
considerati dati e statici dalla teoria.
Secondo l’economista svedese, l’equilibrio stabile è irrealistico perché sottintende
che ad ogni azione ci debba essere una “reazione” contraria della stessa intensità.
L’equilibrio si fonda sulle nozioni di razionalità economica e dell’armonia degli
interessi che sembra aver scarso collegamento con la realtà dei fatti.
“L’idea che desidero esprimere in questo libro è che, al contrario, normalmente non
esiste siffatta tendenza verso una automatica e spontanea stabilizzazione nel sistema
sociale. Il sistema non si muove per sé stesso verso una forma di equilibrio tra le
forze, ma tende continuamente ad allontanarsi da questa posizione. Di norma un
cambiamento provoca cambiamenti non in senso contrario ma, all’opposto,
continuamente complementari, i quali spingono il sistema nella stessa direzione del
cambiamento primario ma vanno molto più in là di esso. In forza di questa causalità
circolare un processo sociale tende a divenire cumulativo e spesso a procedere con
moto accelerato” (Myrdal, 1974, p.23).
Il principio della causazione circolare e cumulativa è il contributo principale alle
teoria dello sviluppo myrdaliana. Sembra più corretto, tuttavia, considerare il
modello di Myrdal a causalità cumulativa non circolare ma a spirale trattandosi di un
modello dinamico e non statico.
L’attenzione dell’economista svedese si concentra sul ruolo di questo sistema in
un’economia di mercato per i paesi sottosviluppati e scrive: “Che nel libero gioco
delle forze del mercato sia immanente una tendenza a creare squilibri regionali e che
questa tendenza diventi tanto più dominante quanto più povero è un paese, sono due
delle più importanti leggi del sottosviluppo e dello sviluppo economico in condizioni
77
di laissez-faire.” Nel processo cumulativo la “povertà diventa causa di se
stessa”(p.42)
Il funzionamento di questo processo cumulativo è molto simile all’analisi di
Hirschman, secondo il quale la polarizzazione spaziale è conseguenza dell’operato
dei meccanismi di mercato. Questa polarizzazione secondo gli autori, se non viene
corretta, provoca necessariamente differenze di sviluppo tra le regioni.
Il processo di causazione circolare cumulativa ha origine dall’esistenza di particolari
condizioni che determinano un vantaggio iniziale per lo sviluppo economico di
alcune regioni (centrali). In esse si innescherebbero quindi dei processi cumulativi di
sviluppo economico, tali da coinvolgere anche le altre regioni (periferiche), le quali
verrebbero coinvolte in un processo centripeto nel corso del quale capitale e lavoro
sono attratti verso la regione che dispone del vantaggio iniziale. (Conti, 1996, p.130)
Lo sviluppo, mosso da questa forza centripeta, che porterà alla concentrazione di
industrie, darà vita a forme di espansione economica fondate su un processo
cumulativo che porterà ad un miglioramento delle condizioni infrastrutturali e un
ampliamento dei servizi sociali in genere. Questa circolo, che è molto simile al
“circolo vizioso” di Nurkse5, è una reazione a catena che produce un meccanismo di
crescita economica che si alimenta da solo e che conduce, se non viene corretto,
all’accentuazione del divario tra i livelli di sviluppo della diverse regioni: “Se le cose
fossero lasciate al libero gioco delle forze di mercato senza interventi di politica
economica, la produzione industriale, il commercio, la banca, le assicurazioni, la
navigazione, quasi tutte quelle attività che in un’economia in sviluppo tendono a dare
una remunerazione superiore alla media, verrebbero ad addentrarsi in certe località e
regioni, lasciando il resto del paese più o meno stagnante.” (Myrdal, 1974, p.35)
Se si ammette il realismo della ipotesi di causalità circolare in un sistema sociale
complesso è inutile cercare “un fattore fondamentale” come “il fattore economico”
dato che “diventa in verità difficile comprendere quel che si debba esattamente
5
Il circolo vizioso della povertà di Nurkse implica una costellazione circolare di forze tendenti ad
agire e a reagire l’una sull’altra in modo tale da mantenere un paese povero in uno stato di povertà: un
povero malnutrito non potrà lavorare molto per uscire dalla povertà: “un paese è povero perché è
povero”. R. Nurkse (1952), “Some Aspects of Capital Accumulation in Underdeloped Countries”,
Cairo, Oxford, University Press.
78
intendere quando si parla di un “fattore economico” distinto dagli altri fattori, e ancor
meno si capisce come possa essere “fondamentale” dal momento che ogni cosa è
causa di un’altra in un sistema di concatenazione circolare.
Per analoghi motivi, l’applicazione di questa ipotesi spinge lo studio realistico del
sottosviluppo e dello sviluppo di un paese o di una regione di un paese ben al di là
dei confini della teoria economica tradizionale. Ciò accade perché necessariamente lo
studio viene a toccare anche tutti quei cosiddetti “fattori non economici” che gli
economisti classici univano in blocco in concetti quali “la qualità dei fattori di
produzione” e “l’efficienza produttiva” e lasciavano di regola al di fuori della loro
analisi”.
Alla luce di questo ragionamento pare chiaro che Mrydal ritenga indispensabili sia le
indagini storiche che le analisi delle istituzioni e delle variabili culturali che possono
condizionare i fattori produttivi.
Il modello della causazione circolare e cumulativa elaborato da Myrdal deve quindi
considerare tutti i fattori e non solo quelli economici. Esso può essere ben riassunto
dallo schema della figura 1 alla fine di questo paragrafo.
Il funzionamento del meccanismo della causazione circolare e cumulativa poggia
sull’operare congiunto di due effetti: riflusso e diffusione.
I primi fattori, che tendono ad accrescere sempre di più nei dintorni della regione
centrale, si riferiscono ai trasferimenti di capitale e di altri fattori produttivi verso i
“poli” in rapido sviluppo; a questi fattori di natura economica si aggiungono altri
fattori “non economici” come la diffusione della dotazione di servizi: “Sotto questa
etichetta [effetti di riflusso dell’espansione economica di una data località] includo
gli effetti delle migrazioni, dei movimenti di capitale e del commerci, e anche tutti
gli effetti di un intero complesso degli altri rapporti sociali.. il termine è relativo agli
effetti complessivi cumulativi, risultanti dal processo di causazione circolare fra tutti
i fattori, “economici” e “non economici”(Myrdal, 1974, p.38)
L’insieme di questi fattori concorre a far si che le aree sviluppate risultino
maggiormente attrattive e, per contrasto, che le possibilità di sviluppo delle regione
periferiche siano compromesse.
L’interazione tra le regioni, però, attiva anche delle forze di natura centrifuga che
possono eventualmente tradursi in processi di diffusione dello sviluppo: “In
79
contrapposto agli effetti di riflusso vi sono, tuttavia, anche taluni effetti di diffusione
centrifughi del moto di espansione dai centri in sviluppo verso le altre zone.”(p.39)
L’economia centrale in espansione può stimolare la domanda dell’economia
periferica e, se fosse in grado di eliminare gli effetti di riflusso, questo processo
potrebbe permettere un eventuale innesco di processi cumulativi di sviluppo nelle
aree depresse.
Il processo di differenziazione tra le economie regionali segue, secondo lo schema
myrdalliano, tre fasi successive:
1)
una prima fase, preindustriale, nella quale le differenze dello sviluppo
tra le aree sono relativamente modeste
2)
una fase dove il processo di causazione circolare cumulativa genera
processi di sviluppo in pochi poli creando forti squilibri tra le regioni
3)
gli effetti di diffusione mitigano gli effetti di riflusso riducendo le
differenze creatisi nella fase precedente.
Questa ultima fase, secondo Myrdal, si manifesta differentemente a seconda dei
luoghi. Nei paesi occidentali sviluppati (Usa ed Europa) gli effetti di diffusione
tendono ad essere decisamente più incisivi rispetto ai paesi sottosviluppati dove si ha
un aggravamento degli squilibri interni: “.. quanto è più alto il livello di sviluppo
economico già raggiunto da una nazione, tanto più forti sono di solito gli effetti di
diffusione. Infatti, ad un alto livello medio di sviluppo si accompagnano un
miglioramento dei trasporti e delle comunicazioni, più alti livelli di istruzione ed una
più dinamica comunione di idee e di valori – tutti fattori che tendono a consolidare le
forze per una spinta centrifuga di espansione economica o a rimuovere gli ostacoli
che si frappongono alla loro azione.”(p.41)
Inoltre secondo Myrdal il fatto che le politiche di intervento pubblico a sostegno
degli effetti di diffusione si possono realizzare solo in paesi con una disponibilità
finanziaria sufficiente, fa si che questi effetti siano poco efficiente in un paese
sottosviluppato.
Lo schema myrdalliano non tiene conto della scala geografica di riferimento,
prescindendo dalla specificità delle diverse condizioni. Nonostante ciò, Myrdal
ribadisce la propria estraneità al modello neoclassico dell’equilibrio rifiutando l’idea
che gli effetti di diffusione possano riequilibrare la situazione iniziale: “Al limite le
80
due specie di effetti si bilanceranno reciprocamente e la regione resterà in condizioni
di ristagno. Ma questo bilanciarsi non è uno stabile equilibrio, poiché ogni
cambiamento delle forze determinerà un movimento cumulativo ascendente o
discendente.”(p.39-40)
Il modello presenta almeno due limiti: nella sua schematicità esso analizza solo
superficialmente i fenomeni di diffusione; in secondo luogo sembra più utile a
dimostrare l‘inadeguatezza delle teorie neoclassiche dell’equilibrio economico che
non proporsi come una generale teoria dello sviluppo regionale. In particolare, la
componente spaziale è individuata solo genericamente in termini di concentrazioni
geografiche di attività economiche (poli) e di persistenza dell’ineguaglianze fra
queste ed il resto del sistema.(Conti, 1996, p.132-134)
Ciò che si preme sottolineare in questo paragrafo è che Myrdal concepisce lo
sviluppo come “movimento ascendente dell’intero sociale” avvertendo che “un
cambiamento del reddito nazionale pro - capite non può pertanto essere mai usato
come qualcosa di più di un indicatore approssimativo e sbrigativo di quel più
complesso cambiamento dell’intero sistema sociale che in realtà vogliamo registrare”
(Myrdal, 1971, p.103-104). E’ l’idea, anticipatrice, di uno sviluppo non circoscritto
alla sola sfera economica ma inteso come movimento di trasformazione che
arricchisce la vita di ciascuno e ne allarga gli orizzonti.
La causalità non riguarda solo i meccanismi economici ma coinvolge anche
fenomeni sociali o aspetti psicologici, morali, come le aspettative, le speranze, le
credenze. Myrdal ritiene che l’economia neoclassica, astratta, deduttiva, statica, sia
in ritardo rispetto alla realtà che pretende di interpretare. Essa è chiusa, quasi in una
sorta di autismo, alle altre discipline come la sociologia e la storia mentre è
necessario un approccio multidisciplinare per comprendere l’evoluzione sociale ed
istituzionale. Come gli altri “eterodossi” di questo capitolo, proclama il primato delle
totalità e oppone una visione solistica all’individualismo metodologico. La
conclusione è conseguente: se lo sbocco delle libere forze di mercato è quello di
dinamiche inegualitarie e non armoniche, l’unico modo per frenarle ed innescare
tendenze controbilancianti è l’intervento pubblico. Tale intervento, infatti, è in grado
di costruire causalità cumulative positive per tutti e minori disuguaglianze
fondamentali per determinare più sviluppo. Auspica, al riguardo, un progetto comune
81
“costruito” che si sostituisca all’ordine “spontaneo” di Hayek al quale contrappone
l’armonia “creata” attraverso la discussione, il confronto, la negoziazione, il
compromesso. Myrdal sembra auspicare una democrazia economica che si
sostituisca ad un sistema di mercato basato sull’ineguaglianza.
Nel prossimo capitolo si cercherà di offrire altri contributi che si distinguono da
quelli finora esposti che rimangono nel filone della critica alla teoria dell’economia
dello sviluppo economico.
82
Localizzazione di una
nuova impresa
Crescita occupazionale
e demografica locale
Sviluppo delle
economie esterne
Crescita della
qualificazione
della forza lavoro
Sviluppo delle
infrastrutture per
l’industria e per la
popolazione
Sviluppo di
imprese e settori
ausiliari
Attrazione di nuove
imprese
Aumento
dell’impostazione
fiscale
Sviluppo dei
servizi
Crescita del benessere
generale della
comunità
Figura 1: Il modello di causazione circolare e cumulativa secondo Myrdal
(da D. Keeble “Models in economic development” in S. Conti “Geografia economica” Utet Torino, 1996 p. 131)
83
CAPITOLO QUARTO:
Le critiche liberali ai modelli di sviluppo
“La libertà non è star sopra un
albero, non è neanche il volo di un
moscone, la libertà non è uno
spazio
libero,
libertà
è
partecipazione.”
Giorgio Gaber
Questo capitolo affronta la tematica dello sviluppo sotto molteplici punti di vista
molto differenti tra loro. Nella prima parte si analizzerà il contributo di un filone
teorico
legato
all’impostazione
della
Scuola
Austriaca,
che
fondandosi
sull’individualismo metodologico, considera lo sviluppo un processo naturale che
non deve subire influenze esterne al mercato.
Fondamentale in questa prima parte è l’opera dell’economista ungherese, ma inglese
di adozione, Peter Tomas Bauer che fornisce, negli stessi anni di Myrdal e
Hirschman, una visione originale sul “problema dello sviluppo”.
Dopo questa necessaria sintesi della critica anti-statale si proverà a riassumere le tesi,
sul tema, di due autori contemporanei molto famosi: l’economista indiano Amartya
Sen e l’economista americano Joseph Stiglitz, entrambi premi nobel.
I due economisti analizzano il problema dello sviluppo considerandolo da due
prospettive diverse; infatti, Sen si propone di analizzare il tema attraverso un’analisi
politica orientata alla libertà e alla disuguaglianza, mentre Stiglitz si occupa dello
sviluppo nel contesto della globalizzazione.
84
La visione “liberista” : Peter Thomas Bauer
Peter T. Bauer ci fornisce un contributo in netto contrasto con le teorie più diffuse
che si sono affrontante fino ad ora. Contrastando la teoria neoclassica ed i modelli di
ispirazione keynesiana, l’economista inglese si oppone drasticamente alle teorie
“sviluppiste” di Myrdal o alle teorie “strutturaliste” o “dipendentiste” di Prebisch e
Furtado. Il più grande merito di questo autore è quello di fornire con la sua posizione
critica un grande contributo ad un dibattito che vedeva impegnati tutti gli autori che
si sono incontrati finora (e non solo).
Bauer ha contestato numerose affermazioni comunemente condivise dalla
maggioranza degli accademici e dalle istituzioni internazionali del suo tempo e in
particolare le seguenti convenzioni:
1-
Esiste una sorta di ”Circolo vizioso della povertà” che impedisce ai paesi
sottosviluppati di dare inizio ad un vero processo di sviluppo.1
2-
La povertà dei paesi del Terzo Mondo è una conseguenza
dell’oppressione e dello sfruttamento perpetrato nei loro confronti
dall’Occidente.2
3-
Il protezionismo è l’unico strumento di difesa che i paesi sottosviluppati
possono usare per evitare di venire schiacciati dalla competitività delle
industrie occidentali.
4-
Senza l’intervento dell’economia è impensabile uno sviluppo autonomo
dei paesi del Terzo Mondo.
5-
Sono fondamentali gli aiuti stranieri per dare inizio allo sviluppo
Per l’economista inglese questi “precetti fondamentali” dello “sviluppismo” sono
assolutamente fallaci.
Bauer argomenta le proprie posizioni portando ad esempio il suo lavoro “sul campo”
in Asia. Gli esempi di sviluppo dei paesi asiatici portati dall’autore cercano di
smentire le posizioni dei suoi “rivali”.
1
Per quanto riguarda il “circolo vizioso della povertà” si rimanda al capitolo terzo nota 27.
2
Ci si riferisce a tutta la teorizzazione della dipendenza e dell’imperialismo analizzata nel capitolo
secondo
85
L’idea che esista questo “circolo vizioso della povertà” è stata abbandonata
dall’odierna visione liberista dell’economia mainstream, basata proprio sulle teorie
dell’economista inglese, che nega questo circolo affermando che anche i paesi
arretrati non sono immuni dall’accumulazione della ricchezza. In tutte le società,
anche quelle più primitive, vi è lo stimolo al baratto prima e al commercio poi.
Questa tendenza dei cittadini dei paesi sottosviluppati allo scambio di beni e servizi
deve essere sfruttata in tutta la sua interezza in quanto è il commercio, anche su
piccola scala o informale, il vero motore dello sviluppo. Secondo Bauer, dopo essersi
convertiti alla “fede” nel libero commercio, la strada verso la prosperità economica
diventa più semplice da percorrere. Al contrario, continuare a giustificare sentimenti
compassionevoli dell’Occidente nei confronti del Terzo Mondo, fornendo aiuti
finanziari in misura esponenziale, non può essere che dannoso: essi creano solo
dipendenza e impediscono la crescita.
“Lord Bauer è un economista classico: i motori dello sviluppo sono l’impresa, il
commercio e l’ampliamento dei mercati.[…]. Per Bauer, il punto cruciale è il
passaggio dalla produzione di sussistenza a quella per il mercato.”3
Bauer non può però essere considerato un economista classico tout court dato che
rifiuta categoricamente l’approccio storicista che tende a costruire teorie generali. In
quest’ottica Bauer è certamente più vicino ad Hayek e alla Scuola Austriaca che a
Smith o Ricardo.
L’economista inglese, distinguendosi fortemente dai neoclassici, affronta “il
problema dello sviluppo” soffermandosi non solo sugli aspetti tradizionali
dell’analisi economica, quali l’ammontare degli investimenti, l’offerta di
infrastrutture, le risorse naturali, etc. ma facendo anche
riferimento ai fattori
culturali e politici dei singoli paesi sottosviluppati considerati: le attitudini, i costumi
e le tradizioni dei singoli cittadini e delle comunità di questi paesi.
La critica di Bauer sul metodo degli economisti dello sviluppo mainstream si
concentra nella “matematizzazione” dell’approccio ai temi dello sviluppo. Mentre
inizialmente si poteva utilizzare un linguaggio più descrittivo ed evitare il ricorso a
funzioni e modelli analitici, col passare degli anni l’uso di metodi econometrici è
3
Michael Lipton in G.Meier e D. Seers “I pionieri dello sviluppo” Roma. ASAL 1988 cit. pag. 66
86
diventato inevitabile. Questo processo ha portato ad un riduzionismo della realtà che
ha avuto alcune conseguenze negative:
1.
Ingiustificata concentrazione di elementi importanti per capire lo sviluppo
sotto poche macro-variabili (es. si considerano i paesi poveri come un blocco
uniforme).
2.
Mancata tenuta in considerazione di alcuni elementi che, seppur altamente
pertinenti, non sono trasformabili in termini matematici (es. attitudini personali).
3.
4.
Confusione tra ciò che è “significativo” e ciò che è “quantificabile”.
Omissione del background e dei processi storici dai modelli di crescita
economica.
In tutta la sua opera l’economista inglese rivendica l’attività sul campo per la
realizzazione del proprio lavoro. L’approccio di Bauer non è analitico, ma sottolinea
come le sue teorie nascano dell’evidenza dei fatti stessi. L’accettazione
incondizionata dei metodi quantitativi basati sull’aggregazione ha permesso il
diffondersi di studi econometrici a volte inappropriati. Al contrario il metodo basato
sull’attenta osservazione della realtà è stato definito come aneddotico, poco
scientifico e superficiale, mentre invece, dice Bauer (1987), è quello che meglio è in
grado di fornire un quadro esaustivo del problema dello sviluppo.
Se la critica relativa all’eccessiva “matematizzazione” e alla conseguente scarsa
attenzione agli aspetti sociali può essere riscontrata anche in molti autori critici
analizzati precedentemente, la visione “anti- egalitaria” di Bauer segna una netta
cesura (così come per la politica economica) con questi autori.
Il concetto di “eguaglianza” e di “equità” sono sempre stati al centro delle
argomentazioni delle politiche di sviluppo occidentali. Secondo Bauer questi concetti
evidenziano ed amplificano quel senso di colpa latente che da almeno cinquant’anni
affligge i paesi occidentali nei confronti dei ”parenti più poveri”. L’economista
inglese ritiene invece che questo atteggiamento compassionevole sia frutto di un
pregiudizio di base che può essere riassunto nella frase: ”i poveri sono visti come
passivi ma virtuosi, i ricchi come attivi ma malvagi” (Bauer,1982).
In realtà egli ritiene che vi siano almeno quattro buoni argomenti a sostegno delle
differenze economiche tra Paesi avanzati e paesi in via di sviluppo:
87
•
Non si può pensare che, in presenza di diversi livelli culturali e politici e che
a fronte di differenti capacità e motivazioni delle persone, tutti abbiano il medesimo
reddito. Secondo Bauer che produce di più è giusto che abbia un ritorno economico
in proporzione
•
Le differenze di reddito trovano una giustificazione di tipo procedurale. Le
maggiori entrate di un individuo non corrispondono ad una riduzione di quelle di un
altro
•
Le disuguaglianze di reddito sono giustificate dalle loro conseguenze: le
politiche redistributive hanno l’effetto di creare ancora più disparità tra ricchi e
poveri, tranne che in qualche eccezione di breve periodo. Potendo contare su una
sempre maggiore assistenza finanziaria pubblica, le persone meno produttive
perdono l’incentivo ad aumentare i propri sforzi lavorativi. Tutto questo è una
conseguenza di un altro male moderno, l’eccessiva politicizzazione dell’economia
che distoglie le energie dall’attività economica produttiva a favore della politica e
della pubblica amministrazione;
•
L’idea di egualitarismo è di per sé in contrasto con quella di società aperta.
Politiche volte al livellamento degli standard di vita sono una forma di coercizione
intollerabile per una società che si definisce libera. Il raggiungimento di tale obiettivo
”baratterebbe” la promessa riduzione delle differenze di reddito e di ricchezza in
cambio di una nuova disuguaglianza di potere tra i governanti e i cittadini.
Bauer rifiuta quindi ogni tipo di responsabilità imperialista del mondo occidentale
facendo tabula rasa della storia centenaria del colonialismo occidentale nei paesi
sottosviluppati. Queste sue argomentazioni lo portano ad essere antitetico a tutte le
teorie strutturaliste o “dipendentiste” di quegli anni. Tutte queste argomentazioni su
equità, sviluppo e libertà saranno ben approfondite da A. Sen al quale rimando nel
prossimo paragrafo.
Come si avrà già avuto modo di capire, per l’economista inglese ciò che è
fondamentale è la libertà del mercato. Il commercio è il motore della crescita. Il
commercio interno è quindi un’attività produttiva in due sensi: statico, perché
assicura l’allocazione ottimale delle risorse; dinamico perché determina la crescita
del mercato. I traders, con il loro operato, facilitano la nascita di istituzioni
commerciali e di nuove professioni. Questo permette una crescita del livello del
88
capitale umano, il quale, attraverso la specializzazione, raggiunge gli standard
qualitativi necessari per lo sviluppo economico. A seguito di tale crescita migliorano
le condizioni di vita e si allargano le possibilità di scelta per i consumatori. Senza
commercio interno non può esserci commercio internazionale, e senza quest’ultimo il
progresso è fortemente limitato.
La completa fede verso i meccanismi di mercato e l’assoluta negazione del suo
fallimento (gli strumenti non possono fallire), fanno di Bauer il paladino del
liberismo dell’economia dello sviluppo. Uno dei suoi principali meriti è quello di
aver messo in luce gli effetti, talvolta nefasti, di politiche interventiste sullo sviluppo.
La sua forte critica alla politica del FMI e della Banca Mondiale del secondo
dopoguerra si concentra proprio sulla dannosità degli investimenti specifici, tanto
cari a Myrdal ed Hirschman. Secondo Bauer le “cure” hanno solo peggiorato la
malattia. L’economista inglese ha sottovalutato, come egli stesso ammette (1984),
l’importanza del potere politico nelle decisioni economiche: i governi tendono a
governare attraverso l’uso degli “aiuti”. Si dimentica, però, che nel secondo
dopoguerra ciò che influenzava maggiormente le decisioni di politica dello sviluppo
era la “guerra fredda”: Banca Mondiale e FMI, dipendenti dagli Usa (oggi come
allora) pagavano la fedeltà al capitalismo con finanziamenti in funzione antisovietica. Negli anni ’80, cambiata la politica economica in senso liberista, questa
tendenza non si modificò, anche se al posto di finanziamenti i governi dei paesi in
via di sviluppo garantivano esclusivo libero commercio alle imprese occidentali
(basti pensare alla politica liberista del generale Pinochet nel Cile dittatoriale).
Il liberismo di Bauer si scaglia quindi contro qualsiasi tipo di programmazione
economica per i paesi sottosviluppati. Questo controllo totale potrebbe essere messo
in discussione dall’apertura al commercio estero. La riduzione o l’eliminazione delle
barriere, tariffarie e non, provocherebbe, infatti, distorsioni agli effetti programmati
dal governo, impedendo così l’attuazione del piano di sviluppo. Bauer invece si
scaglia contro queste convinzioni, da lui ritenute non solo errate, ma anche prive di
logica. La domanda che Bauer si pone è: come è possibile che la totale chiusura di un
paese al mercato internazionale riesca a far aumentare i redditi dei suoi cittadini?
Come è possibile, cioè, che, senza importare risorse dall’estero e senza esportare i
propri prodotti, si possa generare nuova ricchezza? Ciò che i pianificatori usano per i
89
loro progetti economici non sono nuove risorse ottenute ad hoc, ma sono fondi sviati
da altri investimenti pubblici o privati preesistenti. Adottare un’economia orientata al
mercato, sostiene Bauer, è quindi fondamentale per lo sviluppo: incentiverebbe a
passare da una produzione di sussistenza ad una di scambio, farebbe importare nuove
tecnologie e conoscenze scientifiche, riuscirebbe a soddisfare i bisogni dei
consumatori.
L’economista inglese però non è completamente anti-statalista e sostiene
l’importanza dello stato per garantire le istituzioni adatte allo sviluppo cioè le libertà
individuali (fondamentale il diritto di proprietà) e il potere giudiziario contro la
corruzione. La politica dello stato deve esserci ma solo quando è volta a favorire il
libero mercato interno ed internazionale.
Ponendo al centro del proprio ragionamento la libertà, Lord Bauer cercherà di
capovolgere le critiche anti-mercato con una soluzione opposta a quella auspicata da
autori come Polanyi.
Un altro autore che partirà dalla nozione di libertà, giungendo però su lidi opposti a
quelli dell’economista inglese, è Amartya Sen: all’economista indiano è dedicato il
prossimo paragrafo.
90
Sviluppo è liberta: Amartya Sen
Il contributo dell’economista indiano nella teoria dello sviluppo si inserisce in quella
“terra di mezzo” tra la filosofia, la sociologia e la psicologia e la scienza economica.
Sen pone al centro dello sviluppo la libertà: “lo sviluppo può essere visto come un
processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani” in questo senso,
“lo sviluppo richiede che siano eliminate le principali fonti di illibertà: la miseria
come la tirannia, l'angustia delle prospettive economiche come la deprivazione
sociale sistematica, la disattenzione verso i servizi pubblici come l'intolleranza o
l'autoritarismo di uno stato repressivo” (Sen, 2000, p.9).
L’importanza affidata da Sen alla libertà e al concetto di uguaglianza nel discorso
sullo sviluppo permettono a questa materia di aprirsi alla filosofia politica di Rawls e
Nozick ma anche all’etica senza mai perdere di vista il pensiero economico.
L’economista indiano è l’anello di congiunzione tra la scienza economica dedicata
allo sviluppo e le altre scienze sociali; la sua capacità di fondare la teoria dello
sviluppo su concetti non solo economici è fondamentale per l’approccio che questa
tesi sostiene nella sua seconda parte.
La libertà, intesa come libertà effettiva (di scegliersi una vita cui, a ragion veduta, si
dia valore), in un senso assai vicino a quello della real freedom di Philippe Van
Parijs4, è, dunque, secondo Sen, il criterio in base al quale valutare gli assetti
politico-sociali e orientare le politiche pubbliche.
L’approccio individualista e le sue critiche all’utilitarismo e al neoclassicismo
avvicinano l’economista indiano a quel filone “liberals” di cui anche Bauer fa parte.
La sostanziale differenza tra i due approcci è proprio sul concetto stesso di libertà. Il
liberalismo di “destra” così come quello classico concentrano l’attenzione
sull’estensione dei diritti di proprietà, sia sulle cose che sulla persona (self
ownership) mentre trascura la distribuzione dei diritti di proprietà stessi.
4
La “real freedom”, o libertà reale, per l’economista francese Van Parijs, si inserisce in un’ottica
libertaria di “sinistra” combinando l’individualismo della filosofia libertaria con un approccio
sostanziale e non solo formale alla libertà, che finisce per avvicinarlo ad una qualche forma di
(moderato) egualitarismo
91
Ciò avviene soprattutto a causa dell’idea monistica della proprietà che viene intesa
come un insieme dato e fisso di caratteristiche. La teoria funzionalista del diritto ha
posto in discussione questa visione interpretando la proprietà come fascio di
prerogative che non necessariamente sono presenti in ogni circostanza. Un esempio
di tale impostazione si ha nella scuola di analisi economica del diritto che adotta il
criterio dell’efficiente utilizzo delle risorse economiche come guida per modellare il
contenuto dei diritti di proprietà. In tal modo si apre la strada per aggiungere ai due
elementi classici dell’approccio libertario alla proprietà, cioè quello della sicurezza
(“esiste una struttura di diritti di proprietà ben definiti”, sottratti quindi all’arbitrio) e
quello della proprietà su se stessi (self ownership), anche l’elemento caratterizzante
della opportunità concreta per l’individuo di perseguire la propria concezione della
vita (Van Parijs, 1995) il che è reso possibile da un’appropriata struttura del sistema
dei diritti.
E’ questo l’elemento che introduce un tratto sostanziale, che riempie l’idea della
libertà negativa di un contenuto positivo, detto altrimenti la rende effettiva rispetto
alla sola idea della assenza di coercizione propria del libertarismo classico. In parte
questo coincide con la nozione di capabilities elaborata da Sen .
L’economista indiano introduce queste sue argomentazioni effettuando una
distinzione tra i processi e le possibilità effettive. “L’illibertà può derivare sia da
processi inadeguati (come la negazione del diritto di voto o di altri diritti politici o
civili) sia dal fatto che ad alcuni non sono date adeguate possibilità di soddisfare
desideri anche minimali (il che comprende la mancanza di possibilità elementari,
come quella di sfuggire ad una morte prematura, a malattie evitabili o alla fame
involontaria)” (Sen 2000, p.23). E’ fondamentale per Sen chiarire che lo sviluppo si
basa sulla nozione più ampia possibile di libertà, che comprenda processi e
possibilità.
La sua analisi, più precisamente, si sviluppa sulla distinzione tra funzionamenti e
capabilities (traducibile in “capacitazioni”): i funzionamenti sono stati di essere o di
fare cui gli individui attribuiscono valore (ad esempio, essere adeguatamente nutriti,
non soffrire malattie evitabili), mentre le capacitazioni sono gli insiemi di
combinazioni alternative di funzionamenti che una persona è in grado di realizzare.
Per chiarire questa distinzione può essere utile riprendere un esempio di Sen: “un
92
benestante che digiuni [...] può anche funzionare, sul piano dell'alimentazione, allo
stesso modo di un indigente costretto a fare la fame, ma il primo ha un “insieme di
capacitazioni” diverso da quello del secondo (l'uno può decidere di mangiar bene e
nutrirsi adeguatamente, l'altro non può)” (2000, p. 79). Ora, osserva Sen, “mentre la
combinazione dei funzionamenti effettivi di una persona rispecchia la sua riuscita
reale, l'insieme delle capacitazioni rappresenta la sua libertà di riuscire, le
combinazioni alternative di funzionamenti tra cui essa può scegliere” (p.80).
L'approccio delle capacitazioni può guardare sia ai funzionamenti realizzati sia
all'insieme capacitante delle alternative a disposizione, a seconda che ci si voglia
focalizzare sulle cose che una persona fa o su quelle che è libera di fare. È, però,
preferibile, secondo Sen, concentrarsi su queste ultime, dal momento che “è possibile
dare importanza anche al fatto di avere occasioni che non vengono colte; anzi, è
naturale muoversi in questa direzione, se il processo attraverso il quale vengono
generati gli esiti ha un suo significato” (p. 80).
L’economista indiano si confronta con i maggiori teorici della giustizia come Nozick
e Rawls ma anche con la storia del pensiero economico, in particolare con
l’utilitarismo.
La prospettiva di Sen è, dunque, alternativa rispetto a tutti gli approcci in qualche
modo "classici" in tema di distribuzione delle risorse. In particolare, Sen contesta
all'utilitarismo:
1) l'indifferenza per la distribuzione della "felicità"
2) la negazione di un valore intrinseco ai diritti e alle libertà,
3) una certa predisposizione a favorire condizionamento sociale e adattamento;
Inoltre Sen rimprovera a Rawls: la tendenza a ridurre la libertà a un semplice
“vantaggio” e a trascurare i problemi di conversione dei beni principali (beni
necessari per qualsiasi piano di vita) in benessere effettivo; obietta a Nozick la
mancanza di considerazione per le conseguenze derivanti dall'esercizio dei diritti
(negativi) delle persone.
Sen ha la capacità di spostare l’attenzione dai mezzi (aumento della produzione,
investimenti, utilità, etc..), ai fini cioè allo sviluppo stesso. Le teorie sullo sviluppo
economico, troppo spesso, si sono concentrate su un unico fine, cioè la crescita, che è
diventato la legge dell’economia stessa. Sen, e con lui molti altri autori qui proposti,
93
ragiona invece sul concetto stesso di sviluppo allontanandosi molto dall’unico “fine”
dell’economia mainstream.
L’idea dominante è sempre stata che povertà, disuguaglianza, mancanza di istruzione
e altri mali sociali sarebbero stati tutti contemporaneamente alleviati dalla crescita
del Pil. Anzi: alla crescita del Pil si potevano sacrificare molte vite e molti rapporti
sociali perché, pur attraverso alcune sofferenze, la crescita avrebbe portato a
condizioni migliori per tutti. Il Pil era insomma diventato il fine dell'economia e delle
politiche che, rovesciando i termini della logica e dell'esperienza umana ma
accettando quelli dell'economia neoclassica, si facevano dettare l'agenda dalle
principali istituzioni economiche.
Sen ha la capacità di rimettere al centro del discorso economico (e quindi anche del
discorso sullo sviluppo) il fine dell’azione economica con un’affermazione che non è
così ovvia: “Se abbiamo delle ragioni per voler essere più ricchi, dobbiamo chiederci
quali siano esattamente queste ragioni, come si esplichino, da che cosa dipendano e
quali siano le cose che possiamo fare essendo più ricchi. In generale abbiamo ottime
ragioni per desiderare un reddito o una ricchezza maggiore; e non perché ricchezza e
reddito siano in sé desiderabili, ma perché normalmente sono un ammirevole
strumento per essere più liberi di condurre il tipo di vita che, per una ragione o per
l'altra, apprezziamo”.
Il collegamento con gli economisti classici e con tutto il filone dell’economia civile
(che si vedrà meglio nella seconda parte) è evidente: la ricchezza è uno strumento e
non un fine.
“L'utilità della ricchezza sta nelle cose che ci permette di fare, nelle libertà
sostanziali che ci aiuta a conseguire; ma questa correlazione non è né esclusiva
(infatti esistono altri fattori, oltre alla ricchezza, che influiscono in modo
significativo sulla nostra vita) né uniforme (poiché l'effetto della ricchezza sulla vita
varia a seconda di questi altri fattori)”. Queste affermazione sono illuminanti sul
perché Sen abbia elaborato questa teoria sulle libertà – capacitazioni: la crescita del
Pil non è l'unica strada per raggiungere obiettivi importanti per la vita umana e
soprattutto non è questa strada che porta univocamente verso quegli obiettivi. Scopi
per i quali valga la pena di battersi, come la possibilità di “vivere a lungo senza
essere stroncati nel fiore degli anni” o “vivere bene e non nella sofferenza e
94
nell'illibertà” sono desideri “quasi” universali e che solo in parte, non
necessariamente in modo univoco, sono correlati alla mera crescita economica.
Sicché anche nella ricerca orientata a favorire lo sviluppo occorre mantenere la
consapevolezza dell’importanza dei fattori non- economici e occorre discutere i fini
almeno quanto si discutono i mezzi. “Due cose sono ugualmente importanti:
riconoscere il ruolo cruciale della ricchezza nel determinare le condizioni e la qualità
della vita e rendersi conto di quanto sia condizionata e contingente questa
correlazione. Una concezione adeguata dello sviluppo deve andare ben oltre
l'accumulazione della ricchezza e la crescita del prodotto nazionale lordo o di altre
variabili legate al reddito; senza ignorare l'importanza della crescita economica,
dobbiamo però guardare molto più in là”. E ancora: “Dobbiamo considerare ed
esaminare sia i fini sia i mezzi dello sviluppo se vogliamo capire più a fondo lo
sviluppo stesso”. Sen riassume il significato di tutta la sua teoria così:“Non è sensato
considerare la crescita economica fine a se stessa; lo sviluppo deve avere una
relazione molto più stretta con la promozione delle vite che viviamo e delle libertà di
cui godiamo. L'espansione di quelle libertà che a buona ragione consideriamo
preziose non solo rende più ricca e meno soggetta a vincoli la nostra vita, ma ci
permette anche di essere in modo più completo individui sociali, che esercitano le
loro volizioni, interagiscono col mondo in cui vivono e influiscono su di esso” (2000,
p.20-21).
L’economista indiano pone alla base del suo ragionamento sulla povertà il concetto
di capacitazione ponendo a sostegno della sua tesi tre punti fondamentali (2000,
p.92):
1) L’approccio si concentra su privazioni che sono intrinsecamente importanti (a
differenza del basso reddito che è significativo solo sul piano strumentale);
2) Sull’incapacitazione, e quindi sulla povertà reale, agiscono altri fattori oltre
al basso reddito (il reddito non è il solo strumento che può generare
capacitazioni);
3) La relazione strumentale fra basso reddito e basse capacitazioni varia da una
comunità all’altra e addirittura da una famiglia, o una persona, all’altra
(l’effetto del reddito sulle capacitazioni è contingente e condizionato)
95
Le prime forme di sottosviluppo umano, legate al concetto stesso di povertà come
“incapacitazione”, evidenziate da Sen sono la fame, la mancanza di libertà e diritti
civili fondamentali, la sicurezza. È insensato sostenere, come alcuni fanno, che si
possa scegliere un percorso di sviluppo che inizialmente neghi i diritti civili per
accelerare la crescita economica e così combattere la fame. È insensato per due
ordini di motivi: perché non è una buona definizione di sviluppo quella che tenga
conto solo della crescita del Pil e non della libertà delle persone; e perché non c'è
vera lotta alla fame senza democrazia. Tanto è vero che, secondo Sen, i fatti
dimostrano che nelle democrazie non ci sono carestie e queste avvengono solo nei
paesi governati in modo dittatoriale.
Centrale nell’opera seniana la critica alla “mania quantitativa” di molti economisti
che considerano il reddito come unico indicatore di povertà: Sen non nega che vi sia
una correlazione tra il basso reddito e l'analfabetismo, la cattiva salute, la fame e la
denutrizione, ma la correlazione tra le variabili non significa necessariamente un
rapporto di causalità. A questo punto, l’economista indiano mostra come la crescita
del reddito non abbia molto a che fare con la riduzione della disuguaglianza sociale e
della povertà umana, quella che le statistiche sul reddito, appunto, non riescono a
registrare fino in fondo. A sostegno di questa tesi, Sen porta ad esempio dati che
dimostrano che la probabilità di vita degli afroamericani che vivono negli Stati Uniti
è inferiore a quella degli abitanti di paesi come la Cina e lo stato indiano del Kerala:
nonostante che gli afroamericani abbiano redditi enormemente superiori di quelli dei
cinesi o dei keraliani. Inoltre, introducendo un discorso sull’uguaglianza, si afferma
che anche tra gli afroamericani ci sono differenze: i meno fortunati, i maschi che
vivono in grandi città come New York, per esempio ad Harlem, hanno meno
probabilità di raggiungere i quarant'anni di età dei maschi nati nel Bangladesh
nonostante che i nati nel Bangladesh abbiano un reddito infinitamente inferiore a
quello dei neri di Harlem. Questo perché la qualità della vita è correlata al reddito,
ma non è spiegata solo dal reddito: anzi, in certi casi il reddito è una misura
fuorviante.
Con questo suo approccio, sicuramente Sen innova la scienza economica di chi
ritiene che l'economista non si debba occupare di giudizi di valore. La sua nozione di
“sviluppo imperniato sulla libertà” non è troppo diversa da quella di chi si occupa di
96
questioni come la “qualità della vita”. In questo, come si è già visto, prende le
distanze dall'eccesso di matematizzazione dell'economia contemporanea ma sente
una vicinanza invece con alcune istanze dell'economia originaria. La sua valutazione
è semplice: “Quest'attenzione alla qualità della vita e alle libertà sostanziali, anziché
solo a reddito e ricchezza, può forse sembrare un allontanarsi dalle solide tradizioni
della scienza economica, e in un certo senso lo è davvero (soprattutto in confronto ad
alcune rigorose analisi centrate sul reddito che troviamo tra gli economisti
contemporanei); ma in realtà questo approccio più ampio è in armonia con alcuni
orientamenti analitici che appartengono alla professione dell'economista fin dai
primordi” (Sen, p. 30). A questo proposito Sen cita una serie di punti di riferimento,
da Aristotele ad Adam Smith (capitolo primo), almeno per quanto riguarda la sua
analisi dei beni necessari e delle condizioni di vita. Per l’economista indiano da
rinnovare è l'eccesso di analisi quantitativa, il rifiuto assurdo di occuparsi del valori
in economia (Sen, 2004), l’ossessiva concentrazione sul reddito, l’utilità e la crescita.
A questo punto è necessario analizzare la “ricetta” prevista da Sen per favorire lo
sviluppo di un paese, o meglio ancora, degli individui.
Si può tranquillamente affermare che, al contrario di molti suoi predecessori
“sviluppisti”, l’economista indiano non abbia una vera e propria ricetta taumaturgica
ed universale: l’approccio seniano è assolutamente pratico e sostanziale.
Sen analizza in che modo la ragione umana possa concepire e promuovere società
migliori e più accettabili: come si può creare uno sviluppo.
L’economista indiano individua tre critiche all’idea che si possano creare dei modelli
di sviluppo.
La prima afferma che, dato che persone diverse hanno preferenze e valori eterogenei,
non è possibile dunque dare ai nostri ragionamenti un impianto coerente.
La seconda critica è metodologica: l’uomo non è in grado di ottenere ciò che intende
ottenere, infatti la storia è dominata dalle “conseguenze non volute”: queste
conseguenze non possono permettere decisioni razionali collettive.
La terza critica si fonda sull’ambito dei valori umani e delle norme di
comportamento: l’uomo sceglie anche al di là del “gretto interesse personale”? Se la
risposta è negativa, esiste un solo sistema, cioè il mercato.
97
Alla prima critica Sen amplia il teorema dell’impossibilità di Arrow5 per affermare
che esso non nega a prescindere la possibilità di compiere una scelta sociale derivata
dalle preferenze individuali, ma bensì pone l’attenzione alla base informativa sulla
quale questa scelta si compie.
La “scelta sociale” assume un ruolo fondamentale nello sviluppo : “la partecipazione
dei cittadini al processo decisionale è un elemento fondamentale dell’impegno
sociale”(Sen, 1997, p.73). La numerosa letteratura sulla “scelta sociale” indaga in
che modo gli individui si relazionano e si influenzano nel dare vita a “scelte
pubbliche” in processi decisionali collettivi. Per l’economista indiano qualsiasi
progetto di sviluppo passa necessariamente attraverso, consenso, scelte condivise e
pubblici dibattiti.
Alla seconda critica, che ha trovato in Carl Menger e Friedrich Hayek i più fedeli
sostenitori, Sen risponde distinguendo tra conseguenza non voluta e conseguenza
imprevedibile: nello scambio entrambe le parti possono prevedere il beneficio della
controparte anche se non vogliono tale beneficio. “Se viene intesa così (ossia come
previsione di conseguenze importanti ma non intenzionali), l’idea di conseguenza
non voluta non si contrappone in alcun modo alla possibilità di riforme razionali;
anzi, è vero il contrario. Il ragionamento economico e sociale è senz’altro in grado di
tener conto di conseguenze che possono essere intenzionali ma derivano
ciononostante da determinati assetti istituzionali, e gli argomenti pro e contro un
particolare assetto possono essere meglio valutati prendendo nota della probabilità di
una serie di conseguenze non volute.” (Sen, 2000, p.257).
La terza critica che ha che fare con il concetto di motivazione del comportamento
umano sostiene che l’uomo è interessato solo alla propria persona. Questa visione è
assolutamente semplicistica ed è difficilmente difendibile sul piano empirico. “Ogni
sistema economico ha certe esigenze di etica del comportamento; il capitalismo non
fa eccezione, e i valori possono influenzare le azioni individuali in modo molto
pronunciato.”(2000, p. 279).
5
Il teorema dell’impossibilità di Arrow s'inserisce nell'ambito dell'ampio dibattito sulla difficoltà di
trasformare nel modo più corretto e coerente possibile le preferenze individuali dei cittadini su temi di
interesse generale, in decisioni collettive. Più precisamente, il teorema arriva a dimostrare che non è
sempre possibile determinare, nell’ambito delle scelte collettive, una maggioranza stabile ed univoca.
98
E’ importante per Sen considerare tutti i fattori che influenzano il “comportamento
reale” dell’uomo che è fatto di egoismo ma anche di valori morali. Non considerare
l’etica e i valori significa mortificare le stesse scelte individuali.
Superando queste tre critiche l’economista indiano individua le strade dello sviluppo
in una via democratica: “scelta sociale”, discussione pubblica e impegno sociale.
“La politica dello stato ha un ruolo non solo quando mira a mettere in pratica le
priorità derivanti da valori e principi sociali, ma anche in quanto facilita e garantisce
discussione pubblica più completa.” In concreto le politiche pubbliche per lo
sviluppo devono favorire questo dibattito, attraverso riforme che hanno come
obiettivi la libertà di stampa e l’indipendenza dei media, l’espansione dell’istruzione,
lo stimolo all’indipendenza economica (attraverso salari minimi garantiti o politiche
di occupazione). Tutte quelle riforme che producono “trasformazioni sociali ed
economiche che aiutano gli individui a essere cittadini partecipi” sono auspicabili per
lo sviluppo. “Al centro di un simile approccio c’è l’idea dell’opinione pubblica come
forza attiva di cambiamento, anziché oggetto passivo e docile di istruzioni, o di
un’assistenza elargita dall’alto.
Alla luce di questi ragionamenti per Sen la libertà individuale assume un’importanza
sociale dato che diventa impegno dei singolo individui nelle decisioni pubbliche. Lo
stesso Bauer aveva sottolineato come l’obiettivo dello sviluppo economico sia
l’estensione delle scelte individuali. Purtroppo si è spesso confuso questo obiettivo
come un ampliamento quantitativo delle scelte di consumo concentrando l’attenzione
solo sulla crescita economica, eludendo tutte quelle scelte che considerano la
“dimensione etica” dell’uomo. L’economista indiano ribadisce l’importanza di porre
al centro del discorso sullo sviluppo la libertà perché essa porta in sé l’aspetto
processuale e possibilititante della libertà stessa, andando oltre il concetto di
sviluppo come crescita. I processi fondamentali per lo sviluppo, come la
partecipazione alle decisioni pubbliche e le scelte sociali, non sono mezzi ma fini
dello sviluppo stesso.
L’importanza delle varie istituzioni sociali – organismi politici, media, apparati
giudiziari, la comunità, etc.. – è fondamentale quando, contribuendo al processo di
sviluppo, stimolano e sorreggono le libertà individuali. L’analisi dello sviluppo esige
“una comprensione integrata dei ruoli di queste istituzioni e delle loro interazioni”.
99
Il pensiero di Sen è ben riassunto da lui stesso nell’osservazione finale: “Fra le
caratteristiche della libertà c’è anche quella di presentare aspetti tra loro eterogenei,
legati ad una grande varietà di attività e istituzioni. Non ne possiamo estrapolare una
concezione dello sviluppo immediatamente traducibile in una - “formuletta” - per
l’accumulazione del capitale o l’apertura dei mercati o una pianificazione economica
efficiente. Il principio organizzativo che unisce in un corpus integrato i frammenti
sparsi è dato dalla preoccupazione, a tutti sovraordinata, per uno sviluppo delle
libertà individuali e per un impegno della società a realizzarlo. E’ importante che ci
sia questa unità; ma, allo stesso tempo, non possiamo perdere di vista il fatto che la
libertà è un concetto intrinsecamente multiforme, che comporta sia elementi
processuali, sia la presenza di possibilità concrete.” (2000, p. 297)
Lo sviluppo è liberta e la libertà individuale deve essere impegno sociale attraverso
quella che nei prossimi capitoli si individuerà come “democrazia economica” e
partecipazione.
100
Globalizzazione e sviluppo: Joseph Stiglitz
Se oggi si vuole parlare di sviluppo economico non si può prescindere dalla
cosiddetta globalizzazione. L’autore che più incarna questa convinzione è il premio
nobel per l’economia Joseph Stiglitz.
Famoso per i suoi contributi all’economia dell’informazione, attraverso i suoi studi
sulle asimmetrie informative, l’economista americano ha trasferito le sue riflessioni
dal piano microeconomico al piano macroeconomico ed ha rivolto pesanti critiche
alle politiche allo sviluppo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca
Mondiale, di cui ha fatto parte, lottando per promuovere un giusto equilibrio tra
pubblico e privato e politiche a favore dell’uguaglianza e della piena occupazione. Le
sue riflessioni a questo proposito sono illustrate nel libro “La globalizzazione ed i
suoi oppositori” che ha contribuito ad impostare un nuovo dibattito sul tema. La
globalizzazione è il campo in cui si sviluppano alcuni dei nostri più profondi conflitti
sociali, inclusi quelli sui valori fondamentali, e le divergenze più significative
riguardano il ruolo dei governi e dei mercati. Pur ammettendo che i governi, da soli,
non riescono a realizzare una distribuzione del reddito socialmente accettabile, i
conservatori per lungo tempo hanno sostenuto la necessità di separare i temi attinenti
all’efficienza da quelli riguardanti l’equità. I limiti dei mercati sono piuttosto chiari:
gli scandali degli anni novanta in America e in altri paesi hanno inferto un duro colpo
alla finanza ed al capitalismo che si è rivelato antitetico allo sviluppo, che richiede
invece lungimiranza di pensiero e di programmazione. L’esistenza di economie di
mercato, come quella svedese, diverse da quella americana, dimostrano che esistono
forme alternative che possono essere efficienti. Analogamente, benché coloro che
criticano la globalizzazione abbiano ragione nell’affermare che è stata usata per
portare avanti alcuni interessi particolari, ma non è detto che la globalizzazione
debba essere deleteria per l’ambiente, aumentare la sperequazione sociale, indebolire
la diversità culturale e promuovere gli interessi delle grandi multinazionali a scapito
del benessere del cittadino comune.
Stiglitz cerca di dimostrare come la globalizzazione possa fare molto per migliorare
le condizioni di vita sia nei paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo. Nei
101
suoi contributi l’economista statunitense evidenzia come la politica sia stata usata per
forgiare i processi politici ed il sistema economico affinché avvantaggiassero pochi
soggetti a scapito di tutti gli altri: affinché la globalizzazione produca vantaggi per
tutti è necessario un ripensamento degli accordi commerciali, delle politiche
economiche imposte ai paesi in via di sviluppo, degli aiuti internazionali, del sistema
finanziario
globale.
Queste
riforme
ed
altre
potrebbero
permettere
alla
globalizzazione di sviluppare tutte le sue potenzialità nel rispetto della giustizia
sociale.
Stiglitz, come si vedrà più approfonditamente tra poco, illustra come l’adozione di
processi aperti e democratici possa contribuire a limitare i poteri di determinati
gruppi che favoriscono interessi particolari. Così come all’interno di un’azienda,
l’etica aziendale e la corporate governance possono riconoscere i diritti non solo
degli azionisti, ma di tutte le parti coinvolte, analogamente, una cittadinanza
impegnata ed informata può capire come far funzionare la globalizzazione, o almeno
come farla funzionare meglio, e pretendere che i leader politici agiscano di
conseguenza.
Per perseguire questo obiettivo, così come aveva messo in luce Sen, sono necessari
indicatori del progresso economico e sociale che forniscano informazioni non solo
sui benefici dei sistemi di mercato, ma anche sui loro effetti deleteri per l’ambiente,
per la sperequazione sociale, per la salute. E’ soltanto disponendo di indicatori
dell’effettivo livello di sviluppo umano e sociale che sarà possibile giungere ad una
reale comprensione degli effetti delle politiche allo sviluppo e ad un loro
cambiamento.
Stiglitz richiama cinque ordini di problemi che questa globalizzazione evidenzia:
1- La globalizzazione tende a favorire i paesi industrializzati impoverendo ancor
di più quelli poveri.
2- La globalizzazione antepone i valori materiali agli altri
3- La globalizzazione ha indebolito le democrazie nei paesi sottosviluppati
privando questi paesi della loro sovranità
4- Molte persone con la globalizzazione si sono impoverite
102
5- Il sistema economico che è stato imposto ai paesi in via di sviluppo è
inadeguato e pregiudizievole poiché la globalizzazione viene intesa come
americanizzazione.
Questi cinque punti riassumono le critiche a chi ha gestito e controllato la
globalizzazione cioè il FMI e la Banca Mondiale. La globalizzazione è una grande
opportunità per l'umanità, ma finora è stata governata in modo “geloso” (a proprio
vantaggio) da chi deteneva le leve del potere e cioè il mondo industrializzato, le
grandi corporations e gli Stati Uniti in particolare.
Questa globalizzazione è quella che non funziona perché produce tutti queste effetti
deleteri sul reale sviluppo dell’uomo. In contrapposizione a questa globalizzazione e,
implicitamente, a questo sviluppo, Stiglitz propone una “visione” alternativa per lo
sviluppo che è una critica al “culto del Pil”: “Il Pil è una misura pratica della crescita
economica, ma non è l’aspetto più importante dello sviluppo”. Il consiglio che viene
dato è: “E’ importante, a mio avviso, che i paesi concentrino l’attenzione sull’equità,
facendo in modo che i frutti della crescita siano ampiamente condivisi. E’ un dovere
morale battersi per l’equità ma questa è necessaria perché la crescita sia sostenibile.”
(Stiglitz, 2006, p.48)
Ciò che è fondamentale per l’economista statunitense sono istruzione, tutela
dell’ambiente e equità. L’eccessiva disuguaglianza non rende “sostenibile” nessun
tipo di sviluppo. La via allo sviluppo passa necessariamente attraverso una riforma
delle politiche degli istituti internazionali, che originariamente erano stati creati per
promuovere lo sviluppo e non per gestire la globalizzazione a favore di pochi. La
ricetta degli anni 80 era molto semplice: eliminare i governi, privatizzare e
liberalizzare ma questa ricetta dopo i scarsissimi risultati in Russia ed America
Latina è entrata in crisi negli anni 90. Quello proposto (ed attuato quando era chief
economist alla Banca Mondiale) è un approccio omnicomprensivo allo sviluppo:
fornire più risorse e rafforzare i mercati. Per Stiglitz lo Stato ha un ruolo molto
importante e lui propone che ogni paese adotti un mix fra Stato e mercato a seconda
delle sue caratteristiche. Secondo molti economisti il ruolo della funzione pubblica si
concentra in settori quali l’istruzione di base, l’ordinamento giuridico, infrastrutture,
armonizzatori sociali, regolamentazione della concorrenza, del settore bancario e
degli impatti ambientali.
103
Elemento fondamentale nel modello dell’economista statunitense è il mettere le
persone al centro dello sviluppo: “Lo sviluppo deve trasformare la vita delle persone
e non soltanto l’economia; per questo occorre analizzare le politiche occupazionali e
scolastiche attraverso una doppia lente, valutando in che modo promuovono la
crescita e come influiscono direttamente sulla vita della gente.” (2006, p. 52).
Le decisioni degli organismi internazionali non possono ignorare le comunità locali e
la capacità autoctona di incentivare lo sviluppo delle proprie potenzialità.
Il problema principale per affrontare queste tematiche è la governance. Il naturale
squilibrio tra politica ed economia in un mondo globalizzato, dove la seconda cambia
nettamente più velocemente della prima, porta a questa forte discrasia dove la
politica rimane assolutamente indietro. “abbiamo un sistema caotico e scoordinato di
governance globale che si riduce a una serie di istituzioni e accordi che trattano di
determinati problemi, dal riscaldamento del pianeta al commercio internazionale,
passando per i flussi di capitale. I ministri delle Finanze discutono le questioni che
attengono al loro ambito presso l’FMI, senza preoccuparsi di come le loro decisioni
influiscano sull’ambiente o sulla salute mondiale. I ministri dell’Ambiente possono
chiedere che si faccia qualcosa per limitare il riscaldamento globale, ma mancano le
risorse per agire in concreto”. “La governance è il nucleo centrale del fallimento
della globalizzazione”. “Nel lungo periodo, i cambiamenti più necessari perché la
globalizzazione si metta veramente a funzionare riguardano le riforme finalizzate a
ridurre il deficit di democrazia”.(2006, p.21, 103, 323)
Per auspicare ad una globalizzazione che funziona veramente quella attuale deve
essere profondamente riformata e Stiglitz anticipa quali siano le riforme più urgenti:
la diffusione della povertà, gli aiuti internazionali e la cancellazione del debito,
l'aspirazione a un commercio equo, i limiti della liberalizzazione economica, la tutela
dell'ambiente, un sistema di governo globale.
Stiglitz si concentra soprattutto sugli effetti nefasti di alcune politiche
protezionistiche o corporative che creano gravi distorsioni nel commercio
internazionale. Non ci si può esprimere a favore o contro la liberalizzazione dei
mercati a prescindere, senza considerare il contesto in cui questi mercati operano. “In
parte, il libero commercio non ha funzionato perché non l’abbiamo provato: i trattati
commerciali del passato non sono stati infatti né liberi né equi.” (2006, p.66)
104
“Se gestita equamente, con il sostegno di politiche e provvedimenti giusti, la
liberalizzazione del commercio può aiutare lo sviluppo. [..]. La questione è: i
vantaggi che hanno ottenuto [i paesi in via di sviluppo] sono sostenibili e possono
estendersi a tutte le popolazioni del mondo? Io credo di si, ma perché ciò avvenga, la
liberalizzazione del commercio dovrà essere gestita in modo radicalmente diverso
rispetto al passato.” (2006, p.67)
Stiglitz si augura un regime commerciale più equo e non genericamente più libero
per favorire veramente lo sviluppo ed esso passa necessariamente attraverso la
cancellazione delle barriere all’entrata dei paesi sviluppati che bloccano sul nascere
l’ampliamento dei mercati della materie prime o dei prodotti agricoli dei paesi
sottosviluppati. Tutto questo può avvenire solo attraverso una forte riforma della
governance del “governo mondiale” dove pochissimi (ricchi) decidono per tutti
creando un commercio globalizzato che di equo ha veramente poco.
Un altro tema caro a Stiglitz è quello del problema ambientale che in un mondo
globalizzato non può essere affrontato in modo autonomo dai singoli stati. Il concetto
di sostenibilità che l’economista statunitense amplia anche alle problematiche sociali
è urgente per l’emergenza ecologica che oggi affligge il mondo. A queste tematiche
che recentemente hanno acquisito sempre più importanza sarò dedicato il prossimo
capitolo.
Le altre tematiche affrontate da Stiglitz, che non possono essere approfondite, sono
relative alla cancellazione del debito e gli aiuti internazionali. Alle distorsioni di
un’economia esclusivamente finanziaria l’autore imputa la crescente instabilità
economica che aumenta ancora di più i rischi dei paesi poveri.
Elemento centrale nel lavoro dell’economista statunitense è la governance: riformare
la globalizzazione è una questione politica. Alla politica spetta il compito di attuare
quelle riforme e quegli interventi necessari affinché la globalizzazione aiuti e non
contrasti lo sviluppo. L’obiettivo di Stiglitz è una globalizzazione democratica. Per
raggiungerla è necessario qualificare i lavoratori e puntare sull’istruzione in modo
tale da “resistere alla competizione globale”, ma inoltre è necessario risolvere il
problema del deficit della democrazia all’interno degli organi internazionali, che
restano in mano a potentati politico-economici.
105
Stiglitz, in conclusione, individua vari elementi di un “contratto sociale globale” tra i
paesi ricchi e i paesi poveri:
-
L’impegno da parte dei paesi sviluppati a lavorare nella direzione di un
regime commerciale più equo che davvero promuova lo sviluppo
-
Un nuovo modo di intendere la proprietà intellettuale e la promozione della
ricerca che riconosca l’assoluta necessità dei paesi in via di sviluppo di
accedere alle conoscenze, di potersi procurare i farmaci salvavita a prezzi
abbordabili e di vedersi riconosciuto il diritto a tutelare le conoscenze
tradizionali
-
L’impegno, da parte dei paesi sviluppati, a retribuire i paesi in via di sviluppo
per i loro servizi ambientali sia per la biodiversità sia per il loro contributo a
risolvere il riscaldamento globale
-
Il riconoscimento esplicito che tutti noi condividiamo lo stesso pianeta e che
il riscaldamento globale rappresenta una minaccia concreta
-
La conferma dell’impegno già assunto dai paesi sviluppati di fornire ai paesi
poveri aiuti finanziari in ragione dello 0,7% del Pil
-
L’ampliamento a un maggior numero di paesi dell’accordo raggiunto nel
giugno 2005 per il condono del debito.
-
Riforme dell’architettura finanziaria globale finalizzate a limitare l’instabilità
attraverso soprattutto ad una riforma del sistema di riserva globale
-
Una serie di riforme giuridiche ed istituzionali volte a limitare il potere di
mercato delle varie imprese multinazionali a livello internazionale
-
I paesi sviluppati dovrebbero impegnarsi concretamente a rinunciare a tutte
quelle procedure che minacciano la democrazia, adoperandosi invece per
promuoverla. In particolare, dovrebbero adoperarsi sul fronte del commercio
di armi, del segreto bancario e della corruzione.
Fondamentale per dare vita ad uno sviluppo reale è, per Stiglitz, ridurre il gap di
democraticità dovuto al ritardo della politica sull’economia. Non c’è vero sviluppo
senza democrazia.
106
CAPITOLO QUINTO:
La fine della crescita
“Chi crede che una crescita
esponenziale
possa
continuare
all’infinito in una società finita è
un folle, oppure un economista”
Serge Latouche
Questo capitolo, dal titolo provocatorio, pone al centro del problema dello sviluppo il
rapporto tra crescita economica e l’ecosistema in cui viviamo. Attraverso il
contributo di vari autori si cercherà di affrontare i rapporti tra lo sviluppo economico
e la sostenibilità ambientale.
La letteratura sui “limiti ecologici dello sviluppo” è molto amplia e complessa e,
proprio per questi motivi, in questo capitolo, si cercherà di riassumere le varie teorie
prendendo vari autori come esempi. Affondando la tematica dello sviluppo ci si è
resi conto che l’importanza delle tematiche ambientali hanno investito la teoria
economica rivoluzionandone le basi. In questo capitolo si affronterà proprio questo
impatto rivoluzionario delle teoria che coniuga ecologoia ed economia.
Il primo autore “rivoluzionario” che si incontrerà può essere tranquillamente
considerato il padre della bioeconomia: Nicholas Georgescu- Roegen. Il merito più
grande di questo autore è, come si vedrà nel primo paragrafo, di aver immerso la
scienza economica nel mondo fisico, considerando la portata ecologica
dell’ambiente.
Attraverso la sua opera si introdurrà il concetto di sviluppo sostenibile attraverso
l’opera di Herman Daly che ha contribuito in modo determinate al concetto di
sviluppo sostenibile, introducendo interessanti ragionamenti sullo “stato stazionario”.
Dopo questi contributi di due economisti molto importanti per tutta l’economia
inserita nell’ecologia ci si soffermerà sul contributo recente di Jeremy Rifkin che
analizza il problema dello sviluppo ponendo particolare attenzione al “problema
energetico”. Gli ultimi paragrafi saranno dedicati alle critiche più radicali
107
dell’economia dello sviluppo, cioè all’opera di Serge Latouche e Gilbert Rist. Il
primo basandosi sugli scritti di Georgescu - Roegen e sulla sua impostazione
“antropologica” fornisce una teoria che nega lo sviluppo stesso proponendo modelli
basati sulla decrescita. Il secondo pone la sua critica sulla pretesa universalità del
concetto stesso di sviluppo.
Con Latouche e Rist si giunge alla conclusione di questo “viaggio” attraverso i vari
modelli e paradigmi dello sviluppo, dalla crescita allo sviluppo sostenibile.
108
La bioeconomia di Goergescu – Roegen
L’economista rumeno Nicholas Georgescu – Roegen è il padre fondatore di una
teoria che sconvolge nelle fondamenta la teoria economica.
Secondo l’interpretazione dei cultori della decrescita (vedi Latouche) l’opera di
Georgescu – Roegen è basilare per comprendere le basi della “nuova” società della
decrescita. L’economista rumeno è stato il primo a presentare la decrescita come una
conseguenza invitabile dei limiti imposti dalle leggi di natura. Se vogliamo
comprendere per quali ragioni il modo tradizionale di fare economia, teorizzato dagli
economisti
neoclassici,
non
è sostenibile, dobbiamo partire dalla teoria
bioeconomica. In polemica con l’economia ecologica di Daly (vedi paragrafo
successivo), che può essere considerata come un compromesso tra la bioeconomia e
l’economia tout court, Georgescu – Roegen nega categoricamente che possa esistere
uno sviluppo sostenibile o durevole, ricercando un’economia giusta e compatibile
con le leggi fondamentali della natura. (Bonaiuti, 2003).
La critica dell’economista rumeno ruota attorno a due punti fondamentali, che
richiamerò brevemente.
1)
Teoria della produzione e prima legge della termodinamica
La teoria tradizionale della crescita economica è basata su una funzione aggregata di
produzione neoclassica del tipo: Q = A f (K, L, R).
Ciò significa essenzialmente che la produzione (Q) cresce al crescere della quantità
di lavoro (L), dello stock di capitale (K) e del progresso tecnologico (A). Soprattutto
essa assume che sia possibile produrre un qualsiasi quantità di prodotto, (Q0)
riducendo a piacimento le risorse naturali (R), purché venga aumentato
sufficientemente lo stock di capitale. In altre parole, la teoria neoclassica assume
completa sostituibilità fra risorse naturali e capitale fabbricato dall'uomo. Ciò
significa che, come ha affermato il premio Nobel per l’economia Robert Solow “non
c'è in linea di principio alcun problema, il mondo può, in effetti, andare avanti senza
risorse naturali”. (Solow, 1977, p.11)1 E' possibile dimostrare, tuttavia, che tale
assunzione viola le leggi della termodinamica. Se, come affermano i neoclassici, la
1
In Bonaiuti (2003 p.35)
109
funzione di produzione altro non è che una ricetta, Solow implicitamente afferma che
sarà possibile, riducendo la quantità di farina, cuocersi una pizza più grande
semplicemente utilizzando un forno tecnologicamente più avanzato, oppure due
cuochi al posto di uno. Com'è evidente, questa formulazione semplicemente non
rispetta il bilancio dei materiali: un modo diverso di leggere la prima legge della
termodinamica.
Questo errore si spiega con la pretesa, tipicamente neoclassica, di estendere a tutti i
fattori della produzione quella sostituibilità che esiste solo tra capitale e lavoro.La
prima legge della termodinamica sancisce, in conclusione, che il flusso di materia
che “entra” nel processo economico coincide necessariamente con il flusso di scarti
che ritroviamo in uscita (beni prodotti + rifiuti).
In generale, dunque, la produzione di quantità crescenti di beni e servizi implicano
l’utilizzo di quantità maggiori di materie prime ed energia e, pertanto, un più incisivo
impatto sugli ecosistemi.
2)
Degradazione entropica e limiti alla crescita
Anche il secondo principio della termodinamica, o legge di entropia, ha rilevanti
conseguenze per il processo economico. Secondo Georgescu-Roegen, infatti, ogni
attività produttiva comporta l'irreversibile degradazione di quantità crescenti di
materia ed energia.
Essendo la biosfera un sistema chiuso (scambia energia, ma non materia con
l'ambiente), ne discendono due importanti conclusioni per l'economia: l'obiettivo
fondamentale del processo economico, la crescita illimitata della produzione (e dei
redditi), essendo basato sull'impiego di risorse non rinnovabili, finirà inevitabilmente
per esaurire le basi energetiche e materiali su cui si fonda. Esso, pertanto, va
abbandonato o, comunque, radicalmente rivisto. L'evidenza empirica accumulatasi
negli ultimi trent'anni è del resto, a questo proposito, robusta e concorde. La
decrescita, auspicata da Georgescu – Roegen, quantomeno nel lungo periodo, assume
dunque i tratti di una necessità ecologica.
La seconda conclusione è di natura metodologica: la rappresentazione pendolare del
processo economico, presentata in apertura di ogni manuale di economia, secondo la
quale la domanda stimola la produzione e quest'ultima fornisce il reddito necessario
ad alimentare nuova domanda, in un processo reversibile e apparentemente in grado
110
di riprodursi all'infinito, andrà sostituita da una rappresentazione circolare ed
evolutiva, in cui il processo economico risulti radicato nell'ambiente biofisico che lo
sostiene. Questa revisione epistemologica, oltre a ricordarci l'inevitabile carattere
fisico, materiale di ogni processo economico, riportando la scienza economica dalle
rarefatte atmosfere della matematica all'universo concreto del vivere quotidiano,
fornisce un imprescindibile carattere transdisciplinare alla “nuova economia”.
L'idea fondamentale di molti economisti è che il progresso tecnologico consentirà,
come già avvenuto in passato, di "oltrepassare i limiti,” giungendo a produrre
quantità crescenti di beni con un uso sempre minore di materia ed energia. Questo
fenomeno è noto in letteratura come dematerializzazione del capitale. Naturalmente
l’innovazione tecnologica sarà favorita da un ritmo accelerato di crescita economica.
Ecco dunque che crescita e progresso tecnologico vengono a formare un binomio
inscindibile e, paradossalmente, la sola possibile soluzione della crisi ecologica.
Resta dunque la domanda fondamentale: è vero che il progresso tecnologico
comporta una riduzione dell’impatto sugli ecosistemi e in particolare sui consumi di
materia ed energia?
“E' certamente corretto affermare che le tecnologie informatiche e, più in generale, le
cosiddette nuove tecnologie, siano capaci di produrre reddito con un minore impiego
di risorse naturali. Tuttavia, mentre i consumi di numerose risorse per unità di
prodotto sono effettivamente diminuite nei paesi più avanzati, i consumi assoluti di
risorse continuano ad aumentare.”(Bonaiuti, 2003, p.38-39)
Si conclude che il progresso tecnologico non riduce il consumo di energia e quindi
non risolve i problemi “ecologici” sollevati precedentemente.
La bioeconomia si fonda su un modello di stock e flussi: gli stock sono
essenzialmente di tre tipi: capitale naturale (ecosistemi), capitale economico
(impianti), forza lavoro (intesa come lavoro organizzato). A differenza dei flussi, che
vengono trasformati nell’ambito del processo di produzione, gli stock, in quanto
sistemi autopoietici, sono ancora presenti e quindi riconoscibili al termine del
processo. La teoria tradizionale della produzione assume che le quantità prodotte
dipendano unicamente dai flussi in input e dalla tecnologia impiegata. In questo
modo si trascura il ruolo fondamentale giocato dagli stock, ossia dai sistemi, sia di
natura biologica (la biosfera ed i suoi sottosistemi) che di natura economica e sociale
111
(impianti, strutture formali e informali di organizzazione del lavoro) nell’ambito del
processo di produzione.
Il punto fondamentale è che questi sistemi richiedono continui apporti di
materia/energia (e lavoro) per mantenersi “in condizioni di efficienza”. Le
organizzazioni produttive hanno degli input e degli output. Queste strutture, come
noto, si mantengono lontano dall’equilibrio termodinamico grazie a continui apporti
di energia provenienti dall’esterno del sistema (input) e producono scarti (output).
Tali strutture (stock) necessarie alle economie avanzate per produrre innovazione
tecnologica (imprese multinazionali, centri di ricerca, burocrazie, sistemi di
trasporto, ecc.) richiedono enormi flussi di materia/energia (e lavoro), non solo, e
non tanto, per produrre benessere, quanto, innanzitutto, per mantenere se stesse
La mancata considerazione di questi rapporti esterni del sistema economico non ci fa
comprendere fino in fondo quando abbiamo una creazione di benessere o una vera e
propria perdita.
Come si vedrà meglio nel paragrafo di Latouche, la decrescita prospettata da
Georgescu – Roegen è qualcosa di molto più complesso. Per quanto la decrescita
alluda, sul piano economico, a una riduzione complessiva delle quantità fisiche
prodotte e delle risorse impiegate, essa va intesa piuttosto come una complessiva
trasformazione della struttura socio-economica, politica, e dell’immaginario
collettivo verso assetti sostenibili. Questo nella prospettiva di un significativo
aumento, e non certo di una riduzione, del benessere sociale.
Tale trasformazione presenta dunque un carattere multidimensionale. La decrescita si
deve realizzare secondo quattro prospettive: ecologica, sociale, politica e
“immaginativa”.
Per questi argomenti rimando alla discussione del contributo di Latouche al
penultimo paragrafo.
112
L’economia ecologica di Herman Daly
L’economista statunitense Herman Daly ha contribuito in modo determinante alla
cosiddetta economia ecologica ponendone le basi teoriche in concetti quali lo “stato
stazionario” e la sostenibilità.
Il concetto di “sviluppo sostenibile” è un termine che da quando è stato introdotto dal
rapporto della Commissione Brundtland nel 1987 viene usato come un mantra. In
quell’occasione lo sviluppo sostenibile identificava lo sviluppo che soddisfa le
necessità del presente senza sacrificare la possibilità di soddisfare le necessità del
futuro. Come è evidente questo concetto è abbastanza vago e crea contrapposizioni
dialettiche su quanto debba essere “sostenibile” questo sviluppo.
Daly distingue chiaramente crescita economica e sviluppo economico: “La potenza
del concetto di sviluppo sostenibile sta nel fatto che esso riflette e al contempo
richiede un cambiamento potenziale nella nostra visione di quale sia il rapporto tra le
attività economiche degli esseri umani e il mondo naturale – un ecosistema che è
finito, non crescente, e materialmente chiuso. La condizione per lo sviluppo
sostenibile è che le richieste di tali attività nei confronti dell’ecosistema che le
contiene, in termini di rigenerazione degli “input” di materie prime e di assorbimento
di “output” di rifiuti, vengano mantenute a livelli ecologicamente sostenibili. Questo
cambiamento di visione comporta la sostituzione del modello economico
dell’espansione quantitativa (crescita) con quello del miglioramento qualitativo
(sviluppo) quale sentiero del progresso futuro” (Daly, 2001, p. 3).
L’economia dello sviluppo, per l’economista americano, deve essere progettata senza
la crescita in modo molto più completo e complesso.
Il concetto – chiave dell’argomentazioni di Daly è quello di “stato stazionario” a cui
ha dedicato anni di lavoro. A differenza dell’economia neoclassica il concetto di
stazionarietà era già presente nel lavoro di alcuni classici come Mill. “A differenza di
quella degli economisti classici, la teoria economica standard (neoclassica) attuale
parte da parametri non fisici (tecnologia, preferenze, distribuzione del reddito sono
presi come dati) e indaga il modo in cu variabili fisiche, e cioè la quantità di beni
prodotte e di risorse utilizzate, devono modificarsi per soddisfare un equilibrio (o un
113
tasso di crescita di equilibrio) determinato da parametri non fisici. Le condizioni
qualitative, non fisiche, sono date e le grandezze quantitative, fisiche, vi si devono
adattare. Nella teoria neoclassica tale “aggiustamento” comporta quasi sempre
crescita economica. Il nuovo paradigma oggi emergente (stato stazionario, sviluppo
sostenibile), tuttavia, parte da parametri fisici (un mondo finito, complesse
interrelazioni ecologiche, le leggi delle termodinamica) e indaga il modo in cui le
variabili non fisiche – tecnologia, preferenze, distribuzione e stili di vita – possono
essere condotte a un equilibrio praticabile e giusto con il complesso sistema biofisico
di cui siamo parte. […]. Questo paradigma emergente assomiglia molto di più
all’economia classica che non a quella neoclassica, per il fatto che l’aggiustamento
avviene attraverso lo sviluppo qualitativo e non la crescita quantitativa.”(2001, p.7).
Avendo appreso l’insegnamento di Goergescu – Roegen e avendone “eliminato” le
posizioni più radicali (vedi paragrafo precedente) Daly è assolutamente convinto che
l’economia sia un sottosistema dell’ambiente e che esso dipenda dall’ambiente sia
come fonte di input di materie prime sia come bacino ricettivo per gli output di
rifiuti: “A meno che non sia supportata dalla visione preanalitica dell’economia come
sottosistema, l’intera idea di sviluppo sostenibile – di un sottosistema sostenuto da un
sistema più ampio di cui deve rispettare limiti e capacità – non ha alcun senso.”
(2001, p.11).
A luce di tutto ciò la “crescita sostenibile” non ha nessun senso, risultando un grande
e contraddittorio ossimoro.
Lo sviluppo sostenibile implica uno spostamento da un’economia della crescita ad
un’economia di stato stazionario. Come si è già visto lo “stato stazionario”, cioè
l’assenza di crescita economica, era già stato al centro del lavoro di un grande
economista come Stuat Mill.
Secondo il filosofo ed economista inglese, il prezzo pagato dalla società e dagli
individui per continuo aumento della ricchezza materiale è molto alto in termini di
qualità della vita, della possibilità di coltivare la crescita intellettuale e morale e di
evitare la distruzione della natura. Come si esprime l’autore nel 1848: “Confesso che
non mi piace l’ideale di vita di coloro che pensano che la condizione normale degli
uomini sia quella di una lotta per andare avanti; che l’urtarsi e lo spingersi gli uni con
gli altri, che rappresenta il modello esistente della vita sociale, sia la sorte
114
maggiormente desiderabile per il genere umano, e non piuttosto uno dei piùtristi
sintomi di una fase del processo produttivo”. Inoltre aggiunge nel 1857: “Non posso..
considerare lo stato stazionario del capitale e della ricchezza con la palese avversione
così generalmente manifestata verso di esso dagli economisti della vecchia scuola.
Sono propenso a credere, in complesso, che esso rappresenterebbe un notevolissimo
miglioramento rispetto alle nostre condizioni attuali”(Daly, 1981, p.22).
Per capire cosa intenda Daly per sostenibilità e stato stazionario è bene partire dal
suo “esempio del battello”: “l’internalizzazione delle esternalità è una buona
strategia per adattare ottimamente l’allocazione di risorse, facendo sì che i prezzi
relativi rappresentino, in modo più appropriato, i costi marginali sociali relativi. Ma
ciò non rende il mercato capace di fissare i propri confini fisici assoluti con
l’ecosistema più allargato. Per fare un’analogia: uno stivaggio appropriato
distribuisce il peso nel battello in modo ottimale, così da massimizzare il carico
trasportato. Ma c’è ancora un limite assoluto a quanto peso un battello possa
trasportare, anche se questo è sistemato in modo ottimale. Il sistema dei prezzi può
distribuire il peso regolarmente, ma, a meno che non sia integrato da un limite
assoluto esterno, continuerà a distribuire uniformemente il peso addizionale fino a
che il battello, caricato in modo opportuno, affonda”.(Daly, 1994)
In altre parole, la capacità della Terra è limitata: l’economia non può non accettare i
vincoli biofisici assoluti che il sistema termodinamico chiuso su cui viviamo
comporta. Per definire lo stato stazionario, Daly parte dal primo principio della
termodinamica e cioè dal fatto che l’energia e la materia non possono essere né
create né distrutte, ma solo trasformate: “l’uomo trasforma le materie prime in merci
e le merci in rifiuti.” Prende poi in considerazione il secondo principio della
termodinamica e l’entropia per definire i vincoli e i flussi di un “sistema aperto” in
stato stazionario o in equilibrio biofisico con l’ambiente esterno. Daly individua nel
secondo principio e nell’entropia la coordinata fisica fondamentale della scarsità: “se
non fosse per la legge dell’entropia, non ci sarebbe alcuna perdita; potremmo
bruciare lo stesso litro di benzina in eterno, e il nostro sistema economico non
avrebbe alcun rapporto con il resto del mondo della natura”.
Si arriva così alla definizione di economia in stato stazionario: “un’economia con
“stock” costanti di persone e prodotti, mantenuti a livelli desiderati, sufficienti, con
115
bassi tassi di “throughput”3 di manutenzione, cioè, con i flussi più bassi possibile di
materia e di energia dal primo stadio di produzione (sfruttamento di materiali a bassa
entropia ottenuti dall’ambiente) all’ultimo stadio di consumo (inquinamento
dell’ambiente con scorie e nuovi materiali ad alta entropia)”e aggiunge:“se usiamo il
termine crescita per indicare un cambiamento quantitativo e il termine sviluppo per
riferirsi a una modifica qualitativa, allora possiamo dire che l’economia in stato
stazionario si sviluppa ma non cresce, proprio come la Terra, di cui l’economia
umana è un sottosistema. Una ricchezza sufficiente, mantenuta e allocata
efficientemente, distribuita in modo equo - e non per massimizzare la produzione costituisce il giusto fine economico” (Daly, 1981, p.26).
L’economista americano sottolinea come l’economia dello stato stazionario assuma il
concetto di “livello sufficiente degli stock”, un’ipotesi assente e contraddittoria nei
modelli del paradigma della crescita.
I valori etici e i vincoli biofisici trovano così la loro convergenza nell’economia in
stato stazionario o in equilibrio biofisico, il cui sviluppo teorico ha portato - dieci
anni dopo la sua formulazione - alla messa a punto del concetto di sviluppo
sostenibile.
Daly ritiene che il passaggio ad un’economia stazionaria sia desiderabile perché uno
dei meriti di questo cambiamento sarebbe quello di ricollocare la scienza economica
in quel continuo tra mezzi e fini: “gli economisti non parlano mai del Fine Ultimo,
neppure dei mezzi primari. L’attenzione degli economisti è completamente
concentrata sul campo medio di tale spettro allocando mezzi intermedi dati (lavoro,
prodotti) per il raggiungimento di determinati fini intermedi (cibo, benessere,
istruzione, etc..). Questa focalizzazione limitata è stata la fonte della maggior parte
della confusione sorta a proposito della crescita economica.” (1981, p.28).
La mancanza di considerazione dei fini da parte degli economisti è dovuto ad un
volontario isolamento dell’economia dall’etica e dalla tecnica.
3
Esso può essere definito come un flusso antropico di sfruttamento – inquinamento composta da
materia ed energia che proviene dalle fonti della natura, attraversa l’intera economia umana, ritorna
agli scarichi della natura ed è necessario alla manutenzione e al rinnovo degli stock.
116
L’economista americano si concentra sulla insanabile distanza tra l’economia e i
mezzi primari o il loro tasso di utilizzazione. La distanza tra un’economia
“intermedia” è le basi stesse del mondo fisico (e le sue leggi).
Secondo Daly “la natura del Fine Ultimo limita, infatti, la desiderabilità di una
continua crescita economica, mentre la natura dei mezzi primari ne limita la
possibilità.” (p.31).
L’autore si concentra, come si è visto, soprattutto sul primo problema dimostrando
che la scarsità assoluta rende impossibile, a un certo momento, la crescita e
l’ulteriore soddisfacimento di bisogni relativi, che si autoneutralizzano, rende la
crescita inutile o indesiderabile.
Interessante è il rapporto, evidenziato dall’economista americano, tra la povertà e la
crescita: “Il permanere di bisogni assoluti insoddisfatti tra i poveri è un argomento
più a favore della ridistribuzione che di un’ulteriore crescita. Qualora quest’ultima
fosse rivolta, fondamentalmente, al soddisfacimento dei bisogni relativi dovrebbe
fronteggiare un grave dilemma. Se il prodotto che risulta dalla crescita complessiva è
distribuito equamente allora il soddisfacimento dei bisogni relativi è cancellato
perché nessuno può migliorare la propria posizione relativamente a quella degli altri.
Per evitare tale risultato, coloro che stanno relativamente meglio devono migliorare
la propria posizione, cioè deve aumentare la disuguaglianza. Dopo un certo punto, la
crescita rivolta al soddisfacimento dei bisogni relativi deve sfociare in una crescente
inutilità, o in una crescente disuguaglianza oppure in una combinazione di entrambe
le situazioni”(p.62).
L’allontanamento, già incontrato nei capitoli precedenti, dell’economia dall’etica, e
quindi dai principi morali e dai fini può essere ricucito da un’economia dello stato
stazionario che è basata su principi morali quali l’umiltà, l’olismo e il sapersi
accontentare.
Daly individua, più precisamente, tre limiti biofisici alla crescita: esauribilità,
entropia ed interdipendenza ecologica. “L’economia, nella sua dimensione fisica, è
un sottosistema aperto del nostro ecosistema finito e chiuso, che agisce sia come
fonte delle sue materie a basso livello di entropia sia come bacino ricettivo dei suoi
rifiuti ad alto livello di entropia.” (Daly, 2001, p.46). Alla luce di ciò, la crescita del
sistema economico è limitata dalla dimensione fissa dell’ecosistema che lo ospita
117
(esauribilità), dal livello di scambio entropico (entropia) e dalle complesse
connessioni ecologiche che diventano sempre più complesse al crescere del
sottosistema economico (interdipendenza ecologica).
Per l’economista americano esistono, come si è visto, anche dei limiti etico-sociali
che lui riassume secondo quattro proposizioni:
1. La desiderabilità della crescita finanziata attraverso la riduzione del capitale
geologico è limitata dal costo imposto alle generazioni future
2. La desiderabilità della crescita finanziata attraverso il processo di
appropriazione degli habitat è limitata all’estinzione o riduzione nel numero
delle specie non umane sensibili il cui habitat sparisce
3. La desiderabilità della crescita aggregata è limitata dai suoi medesimi effetti
distruttivi sul benessere
4. La desiderabilità della crescita aggregata è limitata dagli effetti corrosivi sugli
standard morali che derivano da quegli stessi comportamenti che
promuovono la crescita, come la glorificazione dell’interesse individuale e
una visione del mondo scientistica – tecnocratica
Daly individua tra strategie alternative per integrare l’economia e l’ecosistema:
1. La prima è l’ “imperialismo economico” in cui l’economia si espande fino ad
includere il sistema globale: tutto è economia e tutto ha un prezzo.
2. La seconda prevede di contrarre i confini dell’economia fino ad annullarli, in
modo tale che tutto sia ecosistema: il riduzionismo ecologico.
3. La terza strategia è alternativa ad entrambe e prevede che l’economia continui
ad essere considerato un sottosistema dell’ecosistema evitando i pericoli
dell’imperialismo e del riduzionismo ecologico.
Le nuove teorie dello sviluppo sostenibile e dell’“economia ecologica” ci pongono
ora davanti un nuovo paradigma: non più un’economia basata su due parametri, il
lavoro e il capitale, ma un’economia ecologica che riconosce l’esistenza di tre
parametri, il lavoro, il “capitale naturale” e il “capitale prodotto dall’uomo”.
Si intende per capitale naturale l’insieme dei sistemi naturali (mari, fiumi, laghi,
foreste, flora, fauna, territorio), ma anche i prodotti agricoli, i prodotti della pesca,
della caccia e della raccolta e il patrimonio artistico-culturale presente nel territorio,
si vede come sia fondamentale oggi investire in questa direzione.
118
Herman Daly abbandona così le certezze dell’economia classica e il determinismo
della“mano invisibile del mercato” affrontando il tema della complessità ecologica in
questi termini: “Vi sono due modi per conservare il capitale: mantenere costante in
aggregato 1) la somma del capitale creato dagli essere umani e del capitale naturale,
oppure 2) ciascuna delle componenti del capitale”.(Daly, 2001, p.104)
La prima strada è ragionevole qualora si pensi che i due tipi di capitale siano
sostituibili l’uno all’altro. In quest’ottica è completamente accettabile il saccheggio
del capitale naturale fintantoché viene prodotto dall’uomo un capitale di valore
equivalente. Il secondo punto di vista è ragionevole qualora si pensi che il capitale
naturale e quello prodotto dall’uomo siano complementari. Ambedue le parti devono
quindi essere mantenute intatte (separatamente o congiuntamente ma con proporzioni
fissate) perché la produttività dell’una dipende dalla disponibilità dell’altra. La prima
strada è detta della “sostenibilità debole”, la seconda è quella della “sostenibilità
forte”. Il capitale naturale e quello prodotto dall’uomo sono fondamentalmente
complementari e, solo marginalmente, si possono considerare intercambiabili. Quindi
è la sostenibilità forte il concetto rilevante, anche se la sostenibilità debole è un utile
primo passo avanti.
La strada da percorre per raggiungere lo sviluppo sostenibile è investire sul capitale
naturale, dato che è la risorsa più scarsa, detto anche fattore limitante.
Sviluppo sostenibile significa quindi investire nel capitale naturale e nella ricerca
scientifica sui cicli biogeochimici globali che sono la base stessa della sostenibilità
della biosfera.
Infatti secondo Daly se accettiamo il fatto che il capitale naturale e quello prodotto
dall’uomo sono complementari e non possono sostituirsi l’uno all’altro, cosa ne
consegue? Ne consegue che se i fattori sono complementari allora quello in minore
quantità sarà un fattore limitante. Se i due fattori sono intercambiabili allora nessuno
dei due può essere un fattore limitante perché la produttività dell’uno non dipende
dalla disponibilità dell’altro. L’idea che o il capitale naturale o quello prodotto
possano essere dei fattori limitanti non può scaturire se si continua a pensare che i
due si possano sostituire a vicenda. Una volta che ci siamo resi conto che sono
complementari dobbiamo domandarci quale dei due sia il fattore limitante, cioè quale
sia disponibile in minor misura. Il precedente ragionamento implica la tesi che: il
119
Mondo sta passando da un’era in cui il fattore limitante era il capitale prodotto
dall’uomo ad un’era in cui il fattore limitante è quel che rimane del capitale naturale.
(Tiezzi, 1999).
L’economista americano propone quattro suggerimenti operativi alla Banca
Mondiale per promuovere lo sviluppo sostenibile:
1. Smettere di contabilizzare il consumo di capitale naturale come produzione di
reddito
2. Ridurre le tasse sul lavoro e sul reddito, e aumentare quelle sul consumo di
risorse naturali
3. Massimizzare la produttività del capitale naturale nel breve periodo, e
investire per aumentarne l’offerta nel lungo periodo
4. Allontanarsi dall’ideologia dell’integrazione economica globale guidata dal
libero scambio, della libera mobilità dei capitali e della crescita trainata
dall’esportazioni, e muoversi invece verso un’ottica più nazionalista che tenti
di sviluppare la produzione interna per il mercato interno come prima
opzione, lasciando il ricorso al commercio internazionale solo per i casi in cu
è davvero molto più efficiente.
Soffermandosi sull’ultimo punto, Daly adotta una posizione fortemente critica nei
confronti di questa globalizzazione basata sul libero scambio: “Il libero scambio, la
specializzazione e l’integrazione globale fanno si che i paesi non siano più liberi di
non commerciare. E tuttavia la libertà di non partecipare a scambi commerciali è
assolutamente necessaria per assicurare che il commercio rimanga mutuamente
vantaggioso. La produzione per il mercato nazionale dovrebbe essere il cane ed il
commercio internazionale la sua coda. Ma i fautori del libero-scambio vorrebbero
annodare insieme le code dei cani così strettamente da far si che il nodo delle code
scodinzoli i cani. I fautori della globalizzazione vedono tutto ciò come un balletto
canino dall’armoniosa coreografia. E’ più probabile che abbia invece come risultato
un feroce combattimento multilaterale di cani, e gravi conflitti di classe all’interno
dei singoli paesi.” (p.220)
120
L’economia all’idrogeno: Jeremy Rifkin
L’economista americano si è occupato dei rapporti tra biotecnologie ed economia
evidenziando soprattutto il problema energetico e l’entropia del sistema.
Rifkin è convinto che le priorità siano il problema energetico, legato al petrolio, e il
surriscaldamento globale, legato all’entropia. Questi due ostacoli a qualsiasi forma di
sviluppo devono condurre la civiltà ad una grande rivoluzione energetica verso
l’idrogeno. L’economista americano non si riferisce, come Daly, al generico sistema
fisico a pone al centro del suo ragionamento un problema che ritiene principale cioè
l’energia.
In uno dei suoi più famosi scritti (Rifkin, 2004) l’economista americano si confronta
con la realtà dei limiti fisici del mondo e con l’entropia ponendo l’uomo verso le due
più grandi sfide contemporanee: il riscaldamento del globo e la scarsità delle risorse.
A questi problemi Rikfin contrappone un modello di economia e di sviluppo basata
sull’idrogeno.
Rifkin parte dalla constatazione che gli Usa hanno raggiunto il cosiddetto picco della
produzione petrolifera nazionale già nel 1970 dove per picco della produzione
s’intende l’aver estratto la metà delle riserve stimate disponibili. Anche la
produzione mondiale di petrolio si avvia velocemente a raggiungerlo e da questo
fatto discenderebbero due importanti problemi. Prima di tutto: “anche se gli esperti
non concordano sul momento in cui la produzione mondiale raggiungerà il picco,
sono tuttavia unanimi nel ritenere che, quando ciò accadrà, la quasi totalità delle
riserve petrolifere mondiali ancora sfruttabili sarà nelle mani di alcuni paesi
musulmani, con un conseguente potenziale pericolo per l’attuale equilibrio di potere
nel mondo” e poi “se la produzione mondiale di petrolio e di gas naturale
raggiungesse il picco cogliendo il mondo impreparato, gli Stati e le aziende
energetiche deciderebbero di sfruttare, come sostituti del petrolio, anche idrocarburi
meno “puliti”, come carbone, olio combustibile e sabbie bituminose. Il ricorso a
questi combustibili comporterebbe un incremento delle emissioni di CO2
nell’atmosfera, e, di conseguenza, un surriscaldamento della terra addirittura
superiore alla già preoccupante stima di un valore oscillante tra 1,5 e 5,8 °C da qui
121
alla fine del ventiduesimo secolo, con ricadute sulla biosfera ancora più devastanti di
quelle già previste.” (Rifkin, 2002, p.8)
Egli vede come potenzialmente pericoloso e destabilizzante il fatto che le risorse
energetiche residue siano localizzate soprattutto nei paesi del Golfo Persico; inoltre si
preoccupa dell’impatto ambientale ancora più devastante che l’uso incontrollato dei
combustibili fossili più tradizionali avrebbe sul pianeta se questi fossero impiegati
accanto al petrolio. E’ la premessa dalla quale Rifkin parte per dare alla questione
energetica una risposta alternativa all’uso del petrolio, basata sull’idrogeno. In questo
si può individuare il lucido punto di vista di un economista che si pone il problema
della sostenibilità ambientale dell’attuale processo di accumulazione fondato su una
produzione complessivamente crescente di merci che richiede ovviamente un
consumo di energia altrettanto crescente.
Egli si rende conto, superando gli interessi specifici di questo o quel settore
economico, il sistema economico sta giungendo a una fase critica data dal rapido
esaurimento delle risorse petrolifere e che diviene necessario e urgente cercare, con
indirizzi di politica economica e con adeguati investimenti, strade alternative di
approvvigionamento energetico svincolate dagli attuali limiti quantitativi e geografici
dei pozzi petroliferi. Rifkin propone una rivoluzione energetica perché, come si
vedrà, essa porta anche ad una rivoluzione “culturale” e politica.
Continua poi mostrando che ogni precedente civiltà, ad esempio quella di Roma
antica, quando non ha saputo risolvere la propria crisi energetica ha dovuto subire un
inesorabile e tragico declino. L’economista americano fa discendere dalla crisi
energetica la decadenza di un sistema economico e quindi di quella che lui chiama
una civiltà. In ogni caso, per Rifkin il problema si sta riproponendo. Egli lo evidenzia
facendo vedere come l’odierna globalizzazione è potuta avvenire per la possibilità di
consumare a basso costo crescenti quantità di energia ricavata dal petrolio. Anzi tutta
la storia del capitalismo dell’ultimo secolo, prima la lotta per il carbone, poi per il
petrolio, è la storia della lotta per il controllo delle fonti energetiche. Chi le ha
governate si è assicurato delle ricchezze incommensurabili, chi invece non ha potuto
disporne, i paesi arretrati ad esempio, ha dovuto subire un progressivo indebitamento
e depauperamento. Detto questo egli pone una questione: “la nostra vulnerabilità è
particolarmente elevata a causa di un’infrastruttura energetica molto centralizzata e
122
gerarchizzata, e alla struttura economica che ne deriva, creata per gestire un regime
energetico fondato sui combustibili fossili… Gli enormi costi associati alla
lavorazione del carbone, del petrolio e del gas naturale richiedono ingenti
investimenti di capitale e portano alla formazione di colossali imprese energetiche.
Attualmente, otto mega-aziende — pubbliche e private — dettano i termini del flusso
dell’energia attraverso il mondo.” (p.9)
In questa situazione Rifkin scorge i punti critici del sistema:”oggi, però,
l’infrastruttura creata per sfruttare i combustibili fossili e gestire l’attività industriale
comincia a invecchiare e a mostrare segni di cedimento. Si aprono crepe ovunque…
Alcuni geologi stanno già ipotizzando scenari di crollo del sistema. Non essere
preparati a ciò che potrebbe accadere - affermano i più catastrofisti - sarebbe
un’imperdonabile follia.” (p.12)
Ecco che si giunge al cuore del problema cioè il trapasso dall’era del petrolio a
un’era nuova fondata sull’uso dell’idrogeno come fonte di energia. Si tratta, afferma
l’autore, di una vera e propria nuova rivoluzione perché l’idrogeno è praticamente
inesauribile ed è una fonte energetica pulita in quanto, non contenendo un solo atomo
di carbonio, non porta ad alcuna emissione di anidride carbonica: “le fondamenta
dell’economia dell’idrogeno sono già gettate. Nei prossimi anni la rivoluzione
informatica e delle telecomunicazioni, associata a quella imminente dell’energia
dell’idrogeno, costituirà un mix di tale potenza da riconfigurare radicalmente le
relazioni umane nel corso del ventunesimo e ventiduesimo secolo.” (p.12)
La soluzione al problema energetico è la cella a combustibile alimentata a idrogeno,
la macchina non inquinante per la produzione di energia elettrica, sarebbe la panacea
di tutti i mali. Dato che si tratta di un microimpianto installabile presso l’utente
finale, essa rovescerebbe il modello energetico gerarchico e centralizzato controllato
da pochi grandi potentati economici per dare luogo ad una rete fittissima, una nuova
rete distribuita in tutto il mondo simile a quella del World Wide Web, di produttoriconsumatori-scambiatori di energia: “La rete energetica mondiale dell’idrogeno
(HEW, Hydrogen Energy Web) sarà la prossima grande rivoluzione economica,
tecnologica e sociale della storia. Si innesterà nello sviluppo della rete globale di
comunicazione, avviata negli anni Novanta, e - come questo - stimolerà la nascita di
una nuova cultura della partecipazione.” (p.13)
123
Quest’ultima sarà la… “base del primo regime energetico realmente democratico
nella storia dell’umanità.” (p.13)
Naturalmente Rifkin delinea questo processo tenendo conto di pericoli e possibilità
di fallimento. Egli avverte che bisogna, perché trionfi la democrazia, che: “le
istituzioni pubbliche e quelle non profit - soprattutto le società energetiche pubbliche
che forniscono energia a milioni di utenti e le migliaia di cooperative senza scopo di
lucro… - si facciano avanti fin dai primi stadi di sviluppo di questa rivoluzione
energetica e contribuiscano a costituire in tutti i paesi le associazioni per la
generazione distribuita” (p.14)
In questo modo: “un regime energetico decentralizzato, fondato sull’idrogeno, offre
la speranza di connettere chi non lo è e di abilitare chi è privo di ogni potere. Se
questo
accadesse,
potremo
davvero
pensare
a
una
reale
possibilità
di
“riglobalizzazione”, questa volta partendo dal basso e con la partecipazione di tutti.”
(p.15)
A questo punto, per completare il percorso storico umano con un superamento delle
attuali contraddizioni e con l’affermazione di una società felicemente liberata
dall’oppressione, Rifkin conclude che: “la rete energetica dell’idrogeno, come la rete
globale delle telecomunicazioni, permetterà di connettere ogni uomo a ogni suo
simile in una matrice sociale ed economica indivisibile e interdipendente, cosicché la
specie umana potrà trasformarsi in una comunità perfettamente integrata
nell’ecosistema terrestre… La geopolitica disgregante, che tanto ha permeato l’era
dei combustibili fossili, cederà il passo, nell’era dell’idrogeno, a un nuovo concetto
di politica della biosfera.” (p.16)
Interessante è quella che Rifkin definisce come democrazia all’idrogeno. Il futuro
prospettato è quello di poter generare energia mediante celle a combustibile e
vendere il surplus del fabbisogno con l'aiuto di Internet o di tecnologie digitali
integrate nella rete di distribuzione elettrica stessa, acquisendo in tempo reale le
quotazioni del gas naturale e dell'elettricità al momento della vendita. Persino gli
analisti più cauti del settore prevedono che in futuro la Generazione Distribuita
coprirà il 30% dell'intero fabbisogno energetico degli Stati Uniti.
In realtà i problemi non mancano. Oggi una centralina di generazione basata su celle
a combustibile costa circa 3000 euro al Kilowatt. Si prevede che effetti di economia
124
di scala ne ridurranno il costo fino a 500 euro al Kw nei prossimi anni, ma il fatto che
queste tecnologie possano diventare competitive con le fonti tradizionali dipende dai
singoli e dalle collettività, dato che i governi lungimiranti sono rari.
Come si è visto, la più grande preoccupazione dell’economista americano è quella di
proporre un modello alternativo di sviluppo basato su idrogeno e democrazia. Per
Rifkin il problema originario è il sistema energetico: rivoluzionato quello, si
rivoluziona anche il modello di sviluppo.
L’economista americano non si riferisce esplicitamente ad un forte cambiamento
nell’impostazione sviluppista basata sull’aumento della crescita. Rifkin, al contrario
di Daly e di Latouche, non svincola il modello dello sviluppo dalla continua crescita
di produzione delle merci.
125
La decrescita di Serge Latouche
Serge Latouche, filosofo ed antropologo dell’economia, si pone in una posizione di
assoluta critica nei confronti del concetto stesso di sviluppo. In contrasto con lo
“sviluppo sostenibile” di Daly, l’autore francese fonde la bioeconomia di GoergescuRoegen e l’antropologia di Mauss, debitrice dell’impostazione di Karl Polanyi.
Come si vedrà più dettagliatamente nel paragrafo successivo l‘etnocentrismo del
concetto stesso di sviluppo è il primo limite del concetto stesso. Latouche si sofferma
molto su questo punto e pensa che se il concetto di sviluppo indica necessariamente
ciò che esso ha in comune con l'esperienza occidentale del decollo dell'economia così
come si è strutturata a partire dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni
1750 –1800 qualunque sia l'aggettivo che gli si accosti, il contenuto implicito o
esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l'accumulazione del capitale, con
tutti gli effetti positivi e negativi che conosciamo: competizione spietata, crescita
senza limiti delle disuguaglianze, saccheggio senza ritegno della natura. Ora, il
nocciolo duro che tutti gli sviluppi hanno in comune con quella esperienza è legato a
"valori" che sono il progresso, l'universalismo, il dominio della natura, la razionalità
quantificabile. Questi valori sui quali poggia lo sviluppo e, particolarmente il
progresso, non corrispondono affatto alle aspirazioni universali profonde .
Esse sono legate alla storia dell'Occidente, raccolgono poca eco nelle altre società. Al
di là dei miti sui quali è basata, l'idea dello sviluppo è totalmente priva di senso e le
prassi ad essa legate sono assolutamente impossibili perché impensabili. Secondo
Latouche tali valori occidentali sono precisamente quelli che bisogna rimettere in
discussione per trovare una soluzione ai problemi del mondo contemporaneo (e della
"mondializzazione" liberale à la Truman) ed evitare le catastrofi verso le quali ci
porta l'economia mondiale. È chiaro che è lo sviluppo realmente esistente quello che
da due secoli domina, che ingigantisce i problemi sociali e ambientali attuali:
esclusione, sovrappopolamento, povertà, inquinamenti vari ecc. Lo "sviluppismo"
manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. In questo paradigma non c'è
posto per il rispetto della natura reclamato dagli ecologisti né per il rispetto
126
dell'uomo rivendicato dagli umanitaristi. Lo sviluppo realmente esistente appare,
dunque, nella sua verità e lo sviluppo alternativo come una mistificazione.
Secondo l’economista francese, accostando al concetto di sviluppo un aggettivo
(sostenibile, umano, locale, etc..), non si mette in questione l'accumulazione
capitalista, al più si tratta di aggiungere un elemento sociale o una componente
ecologica alla crescita economica come non molto tempo fa si è potuto aggiungervi
una dimensione culturale. Se ci si concentra sulle conseguenze sociali, come la
povertà, il tenore di vita, i bisogni essenziali, o sulla nocività arrecata all'ambiente,
occorre evitare gli approcci olistici o globali di un'analisi della dinamica planetaria di
una Megamacchina tecno-economica che è funzionale alla concorrenza senza pietà e
ormai senza volto. Che si voglia o no, non si può impedire che lo sviluppo sia
diverso da quello che è stato. Lo sviluppo è stato ed è l'occidentalizzazione del
mondo .(Latouche, 2005)
La critica del filosofo francese si concentra sulla sostenibilità dello sviluppo,
sostenuta da Herman Daly, e sul cosiddetto “stato stazionario”. L’espressione
“sviluppo sostenibile”, in particolare, viene accusata di essere un ossimoro.
Attraverso lo “sviluppo sostenibile”, infatti, molti pretendono di mantenere costante
la crescita economica senza però danneggiare l’ambiente, bensì salvaguardandolo. È
chiaro dunque, per Latouche, come il concetto di sviluppo sostenibile sia una
semplice trovata pubblicitaria utilizzata dalla politica su indicazione delle lobbies
industriali e finanziarie, al fine di continuare a percorrere indisturbate la strada della
crescita a tutto scapito dell’ambiente, quindi a svantaggio della qualità della vita
della popolazione mondiale e, ancor più, delle popolazioni del sud del mondo, che,
incolpevoli e impotenti, vedono depredare le loro terre e mutare i loro stili di vita. Se
Daly afferma la necessita di uno sviluppo senza crescita, Latouche contesta questa
opzione perché, usando le parole di Georgescu- Roegen, lo sviluppo “sostenibile” o
“durevole” non può essere superato in una società della crescita. Il limite di Daly,
secondo l’economista francese, è quello di non riuscire ad uscire dal paradigma dello
sviluppo basato sull’accumulazione capitalistica, creando un concetto che è un vero e
proprio ossimoro: “Questa posizione “casistica” [cioè lo “stato stazionario” di Daly]
sottovaluta la dismisura specifica del nostro sistema. Non rinuncia né al modo di
produzione, né al modo di consumo, né allo stile di vita prodotti dalla crescita
127
precedente. Ci rassegna ad un immobilismo che conserva, ma senza mettere in
discussione i valori e le logiche dello sviluppismo e dell’economicismo. Di
conseguenza, ci si priva dell’apporto positivo della decrescita conviviale in termini di
felicità collettiva.”(Latouche, 2007, p.22). L’idea di stato stazionario ispirato da Mill
è simile alla società della decrescita auspicata dal filosofo francese.
Il termine decrescita non è il termine opposto di crescita (come invece è a-crescita,
termine forse più corretto per descrivere il movimento vicino a Latouche) e non
identifica un modello pronto per l’uso, ma è piuttosto “uno slogan che raccoglie
gruppi ed individui che hanno formulato una critica radicale dello sviluppo ed
interessati ad individuare gli elementi di un progetto alternativo per una politica del
doposviluppo. Decrescita è dunque una proposta per restituire spazio alla creatività e
alla fecondità di un sistema di rappresentazioni dominato dal totalitarismo
dell’economicismo, dello sviluppo e del progresso.” (p.12) Con questo slogan ci si
riferisce a qualcosa di completamente nuovo, che porti ad un cambiamento radicale
della situazione attuale in cui la felicità e il benessere delle persone vengono misurate
con un indice puramente economico, il Pil, che, in realtà, misura la ricchezza
secondo un metro prettamente capitalistico, dimenticando che il ben-essere di un
popolo non coincide con il ben-avere. Ormai è un dato di fatto che, seppur abbiamo
una quantità enorme di oggetti e abbiamo prospettive di lunga vita, la nostra serenità
non è maggiore di quella dei nostri genitori o dei nostri nonni e la nostra felicità, è
evidente, non è direttamente proporzionale al Pil.
Per Latouche una società come quella della crescita, dove la felicità promessa ai
vincenti si traduce in accumulazione dei beni di consumo, in aumento dello stress,
dell’insonnia, delle turbe psicosomatiche e delle malattie di ogni tipo, è una società
profondamente in crisi, soprattutto se per realizzarla si deve devastare
indiscriminatamente l’ambiente in cui viviamo, contribuendo ancora di più ad
aumentare il nostro malessere.
Più precisamente, la società della crescita non è auspicabile per tre motivi:
1-
Produce enormi disuguaglianze ed ingiustizie: nel 1970 il divario di
ricchezza tra il quinto della popolazione più povero e il quinto più ricco era
di 1 a 30 ma nel 2004 il rapporto era di 1 a 74.
128
2-
Crea un benessere illusorio: l’aumento del livello di vita delle società
del Nord crea un paradosso perché non si contano i costi (ambientali,
sociali, etc) che questi tenori di vita causano.
3-
Sviluppa un “antisocietà” malata della sua ricchezza e in fin dei conti
poco armoniosa per gli stessi ricchi: la ricchezza ha un carattere più
patologico della povertà. La frenetica ricerca di beni di consumo si traduce
in una aumento dello stress, dell’insonnia e delle turbe psicosomatiche.
All’aumento della crescita corrisponde un aumento del disagio individuale.
Di conseguenza, la società della decrescita è per il filosofo francese una società che
deve innanzitutto ristabilire le sue priorità, basandosi sul ben-essere ed eliminando
tutti quei valori che hanno un effetto negativo sulla serena sopravvivenza umana; una
società che torni a vivere la dimensione locale, riscoprendo una vita più sobria e
frugale, quasi di sussistenza, all’interno della propria comunità in cui il valore
principale è la solidarietà.
Il tutto nel totale rispetto dell’ambiente, senza per questo dover arretrare e regredire
ad uno stato primitivo, verso il quale, anche volendo, è impossibile rivolgere lo
sguardo.
Il percorso da compiere per arrivare alla decrescita, come si è visto, non passa per
presunte scorciatoie quali lo sviluppo sostenibile o alternativo, che in realtà sono
ingannevoli, ma punta inequivocabilmente ad abbandonare il modello capitalista, che
per la sua esistenza pretende la crescita senza limiti.
Per Latouche, la decrescita dovrebbe, quindi, essere organizzata non soltanto per
preservare l'ambiente ma anche per ripristinare il minimo di giustizia sociale senza la
quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza
biologica sembrano dunque strettamente legate. I limiti del patrimonio naturale non
pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le
disponibilità, ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri attualmente
viventi dell'umanità. La decrescita non significa un immobilismo conservatore.
Organizzare la decrescita significa, in altre parole, rinunciare all'immaginario
economico, vale a dire alla credenza che di più è uguale a meglio. Il bene e la felicità
possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire di
129
rapporti sociali conviviali in un mondo sano può ottenersi con serenità nella frugalità,
nella sobrietà e addirittura con una certa austerità nel consumo materiale.
La parola d'ordine della decrescita ha soprattutto come fine il segnare con fermezza
l'abbandono dell'obiettivo insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui
movente non è altro che la ricerca sfrenata del profitto per i detentori del capitale.
Evidentemente, non si prefigge un rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel
raccomandare la decrescita per la decrescita. In particolare, la decrescita non è la
crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita sprofonda le
nostre società nel disordine con riferimento alla disoccupazione e all'abbandono dei
programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della
vita. Allo stesso modo non c'è cosa peggiore di una società lavoristica senza lavoro e,
peggio ancora, di una società della crescita senza crescita. La decrescita è dunque
auspicabile soltanto in una "società di decrescita". Ciò presuppone tutt'altra
organizzazione in cui il tempo libero è valorizzato al posto del lavoro, dove le
relazioni sociali prevalgono sulla produzione e sul consumo dei prodotti inutili o
nocivi. La riduzione drastica del tempo dedicato al lavoro, imposta per assicurare a
tutti un impiego soddisfacente, è una condizione preliminare.
Latouche sembra coniugare perfettamente l’insegnamento di Karl Polanyi con la
bioeconomia di Georgescu- Roegen unendo la critica “antropologica” al capitalismo
con la critica “ecologica”. La sua proposta è una rivoluzione totale della società
capitalisitica.
La prima tappa verso la società della decrescita è: decolonizzare l’immaginario.
La causa principale della “colonizzazione della nostra anima” viene individuata nella
scolarizzazione (riprendendo Illich), che, non garantendo una giusta educazione è
colpevole di distruggere le nostre “difese immunitarie” e, così facendo, di rendere
vita facile ai media che ci bombardano quotidianamente con la pubblicità,
provocando una sorta di ipnosi che induce inevitabilmente a consumare il più
possibile. La crescita, secondo il filosofo francese, attraverso il consumismo, è
diventata contemporaneamente un terribile virus e una droga.
Per uscire da questo immaginario, bisogna innanzitutto desiderare di uscirvi, lavorare
sulla nostra volontà ed entrare in azione, innanzitutto nel nostro piccolo, perché il
130
nostro primo nemico siamo noi stessi, incapaci come siamo di attuare innanzitutto su
di noi la trasformazione radicale.
Dobbiamo cioè convincerci e convincere gli altri che, oggi come oggi, non solo
l’abbondanza di merci non ci rende felici, ma, al contrario, meno abbiamo e meglio
stiamo. Se il consumismo è divenuto una droga, la soluzione è disintossicarci.
Per Latouche dobbiamo ritrovare il senso del limite. Dobbiamo capire che ciò che ci
viene dato dalla natura è un dono che dobbiamo accogliere (e non sradicare) nei
limiti che la natura stessa ci pone, oltre i quali si sconfina nella sua progressiva
distruzione.
A questo punto, se non è possibile tornare al buon senso di ieri per contrastare il
“buon senso” di oggi, bisogna costruire il buon senso del domani. A tal proposito,
Latouche appronta una sorta di programma della decrescita, sulla base del quale
costruire un piano d’azione. Il programma consiste nelle “otto R”: rivalutare,
ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare.
Rivalutare. Rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la
nostra vita, cambiando quelli che devono esser cambiati. L’altruismo dovrà prevalere
sull’egoismo, la cooperazione sulla concorrenza, il piacere del tempo libero
sull’ossessione del lavoro, la cura della vita sociale sul consumo illimitato, il locale
sul globale, il bello sull’efficiente, il ragionevole sul razionale. Questa rivalutazione
deve poter superare l’immaginario in cui viviamo, i cui valori sono sistemici, sono
cioè suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare.
Ricontestualizzare. Modificare il contesto concettuale ed emozionale di una
situazione, o il punto di vista secondo cui essa è vissuta, così da mutarne
completamente il senso. Questo cambiamento si impone, ad esempio, per i concetti
di ricchezza e di povertà e ancor più urgentemente per scarsità e abbondanza, la
“diabolica coppia” fondatrice dell’immaginario economico. L’economia attuale,
infatti, trasforma l’abbondanza naturale in scarsità, creando artificialmente mancanza
e bisogno, attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione.
Ristrutturare. Adattare in funzione del cambiamento dei valori le strutture
economico-produttive, i modelli di consumo, i rapporti sociali, gli stili di vita, così da
orientarli verso una società di decrescita. Quanto più questa ristrutturazione sarà
radicale, tanto più il carattere sistemico dei valori dominanti verrà sradicato.
131
Rilocalizzare. Consumare essenzialmente prodotti locali, prodotti da aziende
sostenute dall’economia locale. Di conseguenza, ogni decisione di natura economica
va presa su scala locale, per bisogni locali. Inoltre, se le idee devono ignorare le
frontiere, i movimenti di merci e capitali devono invece essere ridotti al minimo,
evitando i costi legati ai trasporti (infrastrutture, ma anche inquinamento, effetto
serra e cambiamento climatico).
Ridistribuire. Garantire a tutti gli abitanti del pianeta l’accesso alle risorse naturali e
ad un’equa distribuzione della ricchezza, assicurando un lavoro soddisfacente e
condizioni di vita dignitose per tutti. Predare meno piuttosto che “dare di più”.
Ridurre. Sia l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare che gli
orari di lavoro. Il consumo di risorse va ridotto sino a tornare ad un’impronta
ecologica pari ad un pianeta. La potenza energetica necessaria ad un tenore di vita
decoroso (riscaldamento, igiene personale, illuminazione, trasporti, produzione dei
beni materiali fondamentali) equivale circa a quella richiesta da un piccolo radiatore
acceso di continuo (1 kw). Oggi il Nord America consuma dodici volte tanto,
l’Europa occidentale cinque, mentre un terzo dell’umanità resta ben sotto questa
soglia. Questo consumo eccessivo va ridotto per assicurare a tutti condizioni di vita
eque e dignitose.
Riutilizzare. Riparare le apparecchiature e i beni d’uso anziché gettarli in una
discarica, superando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi,
dell’obsolescenza degli oggetti e la continua “tensione al nuovo”.
Riciclare. Recuperare tutti gli scarti non decomponibili derivanti dalle nostre attività.
Questo programma delle “otto R” è comunque indicativo, a detta dell’autore, e
durante il suo percorso può variare, nei limiti del variabile, purché rimanga attinente
agli obiettivi.
Interessante l’importanza per Latouche della democrazia locale alla quale il filosofo
francese assegna il compito di mettere in atto una decrescita armoniosa e conviviale.
Il locale deve tessere quei rapporti sociali che la globalizzazione e lo sviluppo
tendono a distruggere. (2007, p. 138)
Diverso è l’approccio che Latouche propone nei confronti del Sud del mondo, dove è
sì ugualmente auspicabile, come nel Nord, una società della decrescita con il suo
circolo virtuoso, ma dove sicuramente essa si porrà in termini diversi, in quanto le
132
società del Sud non sono realmente “società della crescita” e dove bisogna dunque
limitarsi ad eliminare gli ostacoli alla realizzazione di società autonome.
In questo senso, Latouche fa proprie alcune posizione “terzomondiste” come quella
che si è già incontrata di Samir Amin.
La società della decrescita è auspicabile perché significa decrescere nel
depredamento della natura, quindi nella produzione, nel consumo, nei trasporti e
dunque nell’inquinamento e nella creazione di rifiuti organici e non, al fine di vivere
in un ambiente più bello e godibile, seppur facendo una vita più sobria e frugale.
Tutto ciò nella consapevolezza che la ricchezza che ci rende effettivamente sereni e
felici è quella delle relazioni personali. La pienezza della nostra vita è data dalla
quantità e dalla qualità dei rapporti che abbiamo con gli altri (siano essi parenti,
amici, conoscenti occasionali ecc.), dal tempo che trascorriamo con loro e dal modo
in cui trascorriamo questo tempo insieme. Vivere questi rapporti, che sono la nostra
vera felicità, in un ambiente che sia il nostro, più genuino, godibile, sobrio, sereno,
allegro in un contesto socio-economico, dove si ritorna a forme di autoproduzione
(Pallante, 2005), dove il lavoro diminuisce e torna ad essere piacevole in un certo
ambito (come la campagna e l’artigianato), dove il mercato torna ad avere la sua
funzione di riunione popolare e riscopre lo scambio culturale attraverso lo scambio
prodotto-moneta o addirittura prodotto-prodotto (il baratto) e dove la preoccupazione
economica quasi scompare, essendo questa una società conviviale e pressappoco
autosufficiente. Per tutti questi motivi Latouche auspica, utopicamente, una società
della decrescita.
Le proposte concrete di Serge Latouche sono presenti in quello che lui definisce
come un esquisse di un programma “politico” per la costruzione di una società della
crescita. Il nemico individuato dal filosofo francese sembrerebbe essere il
capitalismo “Un capitalismo eco-compatibile è teoricamente concepibile, ma
irrealistico sul piano pratico” e quindi “una società della decrescita non può
concepirsi se non si esce dal capitalismo”, tuttavia “questa formula comoda si
riferisce a una evoluzione storica tutt'altro che semplice... L'eliminazione dei
capitalisti, il divieto della proprietà privata degli strumenti di produzione, l'abolizione
del rapporto salariale o del denaro getterebbe la società nel caos e in preda a un
terrorismo massiccio che tuttavia non basterebbe a distruggere l'immaginario
133
mercantile. Sfuggire allo sviluppo, all'economia e alla crescita non significa quindi
rinunciare a tutte le istituzioni sociali che l'economia ha portato con sé (moneta,
mercati e anche salariato), ma "re-integrarle " in un'altra logica.” (Latouche, Le
Monde Diplomatique/il manifesto, novembre 2005).
Preso atto di questa situazione, Latouche propone una serie di interventi:
-
Tornare ad un impatto ecologico sostenibile per il pianeta, ovvero ad una
produzione materiale equivalente a quella degli anni 1960-70,
-
internalizzare i costi dei trasporti,
-
rilocalizzare le attività,
-
restaurare l'agricoltura contadina,
-
trasformare l’aumento di produttività in riduzione del tempo di lavoro e
creazione di impieghi, fino a quando esiste la disoccupazione
-
incentivare la "produzione" di beni relazionali,
-
ridurre lo spreco di energia di un fattore 4,
-
penalizzare fortemente le spese di pubblicità,
-
decretare una moratoria sull'innovazione tecnologica, tracciarne un bilancio
serio e orientare la ricerca scientifica e tecnica in funzione delle nuove
aspirazioni.
Attraverso queste misure la “scommessa della decrescita”, in un’ottica dell’utopia
conviviale, può favorire quella “decolonizzazione dell’immaginario” e suscitare quei
comportamenti virtuosi in favore di una soluzione ragionevole: la democrazia
ecologica. Per Latouche è necessario evitare quello che Ivan Illich chiamava
“fascismo tecnoburocratico” attraverso una democratizzazione nella dimensione
locale.
134
L’origine dello sviluppo: Gilbert Rist
Gilbert Rist, professore all'Istituto universitario di studi sullo sviluppo (IUED) di
Ginevra, si è occupato di analizzare nel profondo la tematica dello sviluppo.
Fortemente critico delle idee “sviluppiste”, così come Latouche, Georgescu-Roegen
e W. Sachs4, Gilbert Rist dedica un saggio allo “sviluppo”: “Sviluppo: storia di una
credenza occidentale”.
Il sottotitolo già preannuncia la tesi di fondo: l'idea di "sviluppo", con le conseguenti
promesse di maggior benessere per i popoli è solo una recente credenza occidentale,
una fede (il termine è di Rist), una fede nel senso più deteriore, inventata nei paesi
occidentali a capitalismo maturo ed esportata anche nei paesi terzomondisti e
"sottosviluppati".
Per l’economista francese lo sviluppo è una mediocre e passeggera credenza: perché
lo sviluppo economico, dove si è imposto, lungi dal migliorare le sorti dell'umanità e
del pianeta, le ha aggravate notevolmente, approfondendo le ingiustizie sociali
preesistenti, generando nuovi meccanismi di esclusione a danno della stragrande
maggioranza dell'umanità (ed a vantaggio di pochi), minacciando una volta di più gli
equilibri ecologici (vedi deforestazione e desertificazione crescenti, effetto serra,
allargamento del buco dell'ozono, estinzione di specie animali e vegetali, ecc.),
trascinando verso un produttivismo insano e unilaterale, che ha comportato lo
sradicamento alienante di popoli e culture.
La fine del sovietismo, salutata da molti come una liberazione, ha, di fatto, agevolato
il trionfo definitivo del liberalismo e i programmi "sviluppisti", apparsi più credibili
nella formula neoliberistica rispetto alle versioni produttivistiche socialiste, accusate
di inefficienza.
In realtà, “questa credenza, così comunemente condivisa perché ovunque imposta,
non corrisponde ad alcuna realtà storica”, scrive Rist ( Rist, 1997, p. 216), ed i fedeli
(gli sviluppisti) “non si preoccupano del fatto che le loro proprie pratiche
contraddicono regolarmente i valori ai quali dichiarano di aderire” (p. 218).
4
Di Wolfgang Sachs si segnalano: “Dizionario dello sviluppo” (1998) e “Archeologia dello sviluppo.
Nord e Sud dopo il tracollo dell’Est” (1992)
135
Occorre perciò condividere la conclusione dì A. Hirschman (vedi capitolo terzo)
quando osserva che “il declino dell'economia dello sviluppo è in parte irreversibile”,
poiché essa “lungi dall'apportare la buona vita sperata, non ha fatto che accrescere le
ineguaglianze e la marginalizzazione” (p. 221).
Rist ritiene che le “bugie sviluppiste” trovino ancora, nonostante i clamorosi
insuccessi, molti sostenitori perché, attorno all'ipotesi sviluppista, si è creato, a
livello internazionale, un apparato mastodontico, articolato anche a livello locale, che
può sopravvivere solo grazie alte menzogne sviluppiste. Il mega-apparato è formato
dai funzionari della Banca Mondiale, del Fondo Monetario, del Programma delle
Nazioni Unite per lo Sviluppo, delle varie agenzie con pretese più o meno umanitarie
(UNICEF, FAO, OMS, UNESCO,...); a tutto ciò si aggiungano i vari ministeri
nazionali per la Cooperazione e lo Sviluppo, i divulgatori agricoli, gli "esperti", i
ricercatori, gli agronomi, i periti forestali, gli operatori sanitari, i vari pianificatori, i
volontari delle ONG, i missionari e senza dimenticare poi le aziende multinazionali
più che mai interessate a investire e smerciare nei vari “paesi in via di sviluppo”.
“E come cifrare tutti i posti di lavoro indotti dall'insieme di queste attività multiformi
che non potrebbero esistere senza segretarie, senza mezzi di telecomunicazione e di
trasporto, senza locali, senza fornitori di materie di ogni sorta e senza compagnie
aeree” (p. 224). Veri e propri eserciti con o senz'armi, di varia nazionalità, sono
schierati per far funzionare i progetti sviluppisti, e nel loro insieme costituiscono un
mega-apparato sovranazionale, con giri d'affari multimiliardari ogni anno; a questo
punto, poco importa che tali progetti risultino costosissimi e fallimentari a
ripetizione; ciò che veramente conta, per gli uomini dell'apparato sviluppista, è che
esso non venga smantellato e si perpetui indefinitamente, attirando energie, miliardi e
speranze in vista di fini dichiarati che mai verranno realizzati. In realtà si potrebbe
dire che, anche in questo caso, il mezzo, cioè l'Apparato, da mezzo si è trasformato in
fine assoluto.
Vale per l'Apparato sviluppista ciò che molti hanno più volte ripetuto a proposito del
Pil: se si dovesse calcolare tutto, cioè non solo quanto prodotto, ma anche le perdite,
cioè quanto consumato e distrutto per ottenere un certo Pil o un certo livello di
funzionamento dell'Apparato, si capirebbe immediatamente il carattere mistificatorio
e fallimentare del Pil e, insieme ad esso, dell'Apparato sviluppista.
136
“La difficoltà principale è allora questa: come far saltare la struttura religiosa che
protegge lo sviluppo?” (p. 249).
La fede irrazionale nello sviluppo è ancora molto forte, in effetti, in vaste aree
mondiali, è una specie di nuova religione totalitaria e dogmatica, cui non mancano i
predicatori integralisti, vale a dire gli economisti asserviti, cioè quasi tutti.
Da qualche parte, però, ci si accorge che la prima mossa, quella decisiva, non può
consistere nel voler cambiare immediatamente i fatti: più semplicemente, basterà
cambiare per il momento l'interpretazione di essi. Un proverbio africano citato nel
testo ci aiuta a capire che cosa significhi interpretare in modo diverso gli stessi fatti:
«Tu sei povero perché guardi quel che non hai. Vedi quel che possiedi, vedi quel che
sei, e ti scoprirai straordinariamente ricco».
In altre parole, i miraggi degli sviluppisti hanno fatto breccia là dove la gente si è
identificata
nella
loro
interpretazione,
nel
loro
paradigma
consumistico-
produttivistico, cercando conseguentemente di inseguire quei beni economici che
venivano loro promessi, in sostituzione della nobiltà e semplicità del vivere
tradizionale, visto dagli innovatori di turno come scarsità e insopportabile povertà,
come arretratezza da rottamare in cambio di “incentivi allo sviluppo”.
Sarà necessario rigettare quest'ultima interpretazione, per rivalutare gli stili di vita
che si sottraggono ai modelli sviluppisti transnazionali; ciò sarà sufficiente per una
rottura col sistema culturale-economico dominante come già avviene in certe
situazioni, dove esso “non è più considerato un modello da adottare ad ogni costo; di
colpo finisce la frustrazione provocata dall'impossibile imitazione di uno pseudoideale alienante, e le energie che essa aveva finora mobilitato possono essere
investite in un procedimento nuovo: la riscoperta da parte di ciascuno della sua
propria legge” (p. 248-249).
Se questo compito, ovviamente, non può essere affidato agli economisti che hanno
fede nello sviluppo e ne vivono, sostiene Rist, è realistico puntare su quelle culture,
d'Oriente e d'Occidente, che da sempre costituiscono delle alternative alla pseudoreligione mondialista dello Sviluppo?
Gilbert Rist ci lascia nell’immaginario del “doposviluppo” così come fa Latouche
constatando che “alla certezza degli errori, passati e presenti, non bisogna forse
preferire l’incertezza del mondo futuro?”
137
Questo capitolo ha esposto una critica radicale al modello dello sviluppo pur
sottolineando le forti differenze nell’ipostazione di Daly e Latouche che, partendo
dalla bioeconomia di Georgescu – Roegen giungono a “rivoluzioni” diverse. Il
carattere “concreto” di Daly si contrappone a quello “utopico” di Latouche ma de
entrambi si può cogliere l’insegnamento che un mondo incentrato sullo sviluppo
inteso come crescita non è solo insostenibile da un punto di vista ambientale ma
anche sociale.
Nel prossimo capitolo si cercheranno di coniugare le varie critiche al paradigma
dello sviluppo con due temi fondamentali per questo lavoro, cioè l’economia civile e
lo sviluppo locale.
138
Lo sviluppo locale per un’economia civile
“Chi riconosce che lo sviluppo
civile
è
l’obiettivo
fondamentale
vede
politico
dissolversi
come neve al sole la separazione
fra “morale” e politica”
Paolo Sylos Labini
Questo capitolo cerca di delineare una linea da percorre per lo sviluppo, coniugando
lo sviluppo locale con l’economia civile, alla luce degli elementi di criticità emersi
nei capitoli precedenti. Lo sviluppo civile nasce nel territorio e la sua dimensione
“localizzata” è necessaria affinché si formi un nuovo paradigma dello sviluppo.
Globale e locale in questo contesto si fondono in un contesto di civismo umanista
tipico dell’Italia illuminista. La prima parte di quest’ultimo capitolo introdurrà il
concetto di sviluppo locale nell’accezione di valorizzazione di un territorio, di uno
sviluppo olistico, che non comprenda la mera crescita o la competizione ma che
abbia particolare attenzione al capitale umano e sociale. Il contributo dei “padri”
dello sviluppo locale ci guiderà attraverso la formazione di un’ economia “altra”
dove sociologi, economisti e geografi devono unire i loro sforzi per costruire un
modello di sviluppo che si distanzia dal paradigma che è stato precedentemente
tratteggiato. Nel secondo paragrafo si introdurrà il secondo ingrediente fondamentale
per lo sviluppo civile, cioè l’economia civile, con le sue caratteristiche e la sua storia
secolare. Ripreso dai contributi di autori come Bruni e Zamagni, l’economia civile
non si concentra sui mezzi, ma pone l’attenzione ai fini del pensiero economico: la
società civile e la felicità personale devono tornare al centro dell’economia.
Negli ultimi paragrafi si cercherà di spiegare in modo più dettagliato le
caratteristiche dello sviluppo civile, come sintesi di sviluppo locale ed economia
civile, e perché è auspicabile un ritorno ad un economia “umanizzata” che non sia
impermeabile all’ecologia, alla filosofia e alla sociologia.
139
Dalla crescita regionale allo sviluppo locale
Lo sviluppo locale è un concetto controverso e troppo spesso risente dell’assenza di
una formulazione univoca. A strumenti di sviluppo locale non ha fatto riscontro
sinora un altrettanto significativo contributo a favore di una definizione in positivo di
ciò che significa “sviluppo locale”. Anzi, l’ambiguità che accompagna nella maggior
parte dei Paesi occidentali il concetto di sviluppo locale è aggravata dalla mancanza
di una formalizzazione esplicita di tale approccio da parte delle istituzioni
comunitarie. (De Luca, Salone 2008).
Lo sviluppo economico è un fenomeno territorialmente complesso che non può
prescindere dal suo carattere locale (Goglio, in Becattini 2001). L’emergere di questa
dimensione rompe lo schema deterministico nell’interpretazione dello sviluppo:
l’esistenza di forme non previste di sviluppo “locale” sfugge alle griglie
interpretative consolidate di tipo storico- geografico, economico e sociale
La varietà dei sentieri di sviluppo rivela la possibilità di rispondere in modo
differenziato agli stimoli globali
L’approccio attraverso lo sviluppo locale rifiuta spiegazioni univoche, fondate su
logiche interpretative generali come: l’approccio dualistico nell’interpretazione delle
relazioni alla macroscala (es. la dialettica lavoro-capitale e/o gli schemi rigidi centroperiferia) o l’approccio dell’individualismo metodologico alla microscala: le
dinamiche sociali come esito dell’azione dei singoli e dei loro sistemi di preferenze
ed interessi.
E’ necessario individuare entità intermedie tra il sistema e il soggetto singolo (dare
pertinenza teorica al concetto di “sistema parziale”); dato che la teoria economica
ortodossa non riconosce l’esistenza di tali “enti” e che la stessa categoria di “regione
economica” appare solo come “somma dei soggetti che la compongono”
Nella tradizione distrettualistica italiana (Becattini, 2001 e 2002) l’elemento centrale
dello sviluppo è un nucleo di relazioni produttive o di altro genere, ancorate al
territorio, capace di riprodursi nel tempo: il sistema locale. (Becattini 2001, p.18)
Il sistema locale è un aggregato di soggetti che, a certe condizioni, si comporta come
attore collettivo; un insieme dotato di una propria identità distinta dall’”ambiente” e
140
da
altri
sistemi
fatto
da
soggetti
operanti
che
sono
consapevoli
(identità/appartenenza) e sono capaci di comportamenti collettivi autonomi
(autonomia).
Sviluppo locale, per Dematteis, tende ad assumere un significato metaforico: “È la
capacità di un territorio di decodificare e selezionare le variegate spinte della
globalizzazione, fortemente pervasive ed omologanti, per tracciare un proprio
percorso evolutivo ed esprimere una propria identità ...” (Dematteis, 1994).
L’aleatorietà del concetto di sviluppo locale ci pone di fronte a seri problemi mesis in
evidenza da Salone e De Luca in questo passaggio: “È vero che, attribuendo al
concetto un valore metaforico, attraverso di esso “alludiamo” a fatti non solo diversi,
ma anche interpretabili secondo diverse prospettive. È però altrettanto vero che il
ricorso disinvolto al concetto di sviluppo locale tende oggi a usurarne il senso.
L’assenza di certezze definitorie, che non rappresenta probabilmente un problema
nella fase iniziale di costruzione di un nuovo paradigma, lo diventa tuttavia quando
quest’ultimo tende ad assumere un ruolo dominante all’interno di un determinato
campo di pratiche.” (De Luca, Salone 2008, p. 52).
Per evitare questo problema è necessario chiarire cosa si intenda per “locale” e cosa
per “sviluppo”, evitando di confondere lo sviluppo regionale con lo sviluppo locale.
Il primo punto è già stato in parte chiarito dal concetto di sistema locale, cioè una
struttura intermedia che si situi tra il soggetto singolo e il sistema economico-sociale
nel suo insieme: per ritornare a Dematteis (2004), la ricerca di un’“entità
intermedi[a] […] aggregato di soggetti che in varie circostanze può comportarsi di
fatto come un soggetto collettivo, anche se non è formalmente riconosciuto come
tale” (pag. 45).
Dunque, il “locale” che qui c’interessa ha a che fare con la prossimità fisica, anche se
non esclude affatto relazioni con altri “locali attivi” e con scale superiori – regione,
stato ecc. – e implica una progettualità condivisa che fa leva sulle risorse locali. (De
Luca Salone, 2008, p. 55)
Lo sviluppo locale all’interno dei sistemi locali può assumere tre caratteristiche
differenti:
141
•
Sviluppo locale come alternativa “strategica” allo sviluppo economico toutcourt,
autosufficienza
delle
comunità
locali
come
antidoto
alla
“colonizzazione” esterna. L’idea principale è quella di localismo autarchico,
cioè una chiusura difensiva verso i processi globalizzanti (Trigilia 2005)
•
•Sviluppo locale come processo spontaneo nel quadro del laissez-faire, con
esiti guidati da una razionalità implicita, da “ordine spontaneo”. Questo
processo, chiamato dinamismo locale è basato meramente sulla crescita
economica perfettamente inserita nel paradigma economicista. Questo
concetto è fortemente criticato perché tende a confondere uno sviluppo locale
con un localismo eterodiretto dove la crescita dei sistemi locali avviene
secondo logiche di sviluppo globali (Latouche, 2005, p.40)
•
Lo sviluppo locale come processo auto-organizzativo che si fonda sulle
capacità di cooperazione e di strategia dei soggetti locali.
Le politiche di sviluppo regionale di natura statale non hanno mai colto l’importanza
dei sistema locali proponendo politiche di tipo keynesiano a sostegno della domanda
regionale. Lo sviluppo locale scardina la logica del sostegno alla crescita attraverso
una nuova impostazione dell’economia istituzionalista. “Da quest’ultima deriva
l’idea che l’economia è plasmata da forze collettive stabili, che la rendono un
processo “istituito” e non un sistema meccanico basato sulle preferenze individuali.
Le forze collettive sono, da un lato, le istituzioni formali – regole, leggi,
organizzazioni – e, dall’altro, quelle informali, come le abitudini individuali, le
routine di gruppo e i valori e le norme sociali (Amin, 1999 in De Luca, Salone 2008,
p.55)
L’idea di fondo è quella di valorizzare la ricchezza dei luoghi come fonte primaria di
sviluppo e rinnovamento, assicurando la competitività economica mobilitando il
potenziale endogeno delle regioni meno favorite. Si favoriscono interventi locali, dal
basso, specifici per ciascuna regione, di lungo periodo e incentrati su una pluralità
di attori che rompono con l’ortodossia della politica economica (Amin, 1999)
Sulla base di questi assunti, lo stimolo allo sviluppo economico è visto in una
prospettiva nuova:
142
- le politiche si concentrano sul rafforzamento delle reti associative e non sul singolo
attore (Cooke e Morgan, 1998);
- la finalità delle politiche è di promuovere la negoziazione e far emergere razionalità
procedurali e adattive negli attori;
- il processo di governance si fonda sulla mobilitazione di una pluralità di
organizzazioni anche al di fuori degli attori di mercato e degli attori pubblici;
- l’insieme di questi attori e organizzazioni costituiscono un’institutional thickness
che garantisce la tenuta sociale dello sviluppo economico (Amin, Thrift, 1994);
- le politiche devono essere forgiate sulle specificità contestuali e sensibili nei
confronti delle path dependencies. (in De Luca, Salone, 2008, p.55)
In questa prima visione sembra però emergere continuamente l’elemento della
competitività territoriale che, come si vedrà in seguito, difficilmente si integra con il
concetto di sviluppo civile, dato che il fatto stesso che i sistemi locali debbano
competere in un sistema globale non li esula dall’essere parte di quel paradigma dello
sviluppo capitalistico del quale si è parlato nei primi capitoli. Infatti tra le fila degli
scienziati sociali “progressisti” non mancano quanti, pur concordando con l’assunto
secondo il quale occorre valorizzare le risorse locali, mettono in luce le
problematiche riscontrate da politiche incentrate su questo nuovo approccio, ad
esempio l’esiguità del numero delle opere realizzate all’interno dei progetti di
sviluppo nel Mezzogiorno delle quali sia possibile valutare i benefici per le società
meridionali. Eppure, nemmeno questo quadro critico sembra annullare il valore di
un’esperienza che ha rovesciato l’impostazione tradizionale, centralizzata e
gerarchica, delle politiche regionali tradizionali, ha sviluppato le istanze di un
policentrismo strutturalmente importante ma poco valorizzato (Salone, 2005), ha
promosso una responsabilizzazione delle élites dirigenti locali rispetto agli obiettivi
delle azioni di sviluppo e ha spostato il fuoco sui fattori istituzionali dello sviluppo
(nel senso delle well structured institutions di Hayek). (De Luca, Salone 2008, p. 56).
L’impostazione istituzionalista, di valorizzazione del territorio, è corretta ma, come
mettono in luce Salone e De Luca: “la strada da percorrere sembra quella di una
rivisitazione dei concetti-chiave alla luce delle pratiche, perché essi non diventino
refrain tanto frequenti da rischiare la vacuità (Hadjimichalis, 2006) o da riproporre,
143
come è stato precocemente denunciato da Amin e Tomaney (1995), una semplice
“decentralizzazione” di modelli di sviluppo imperniati sulla mera competitività
economica. (De Luca, Salone, 2008, p. 66).”
In quest’ottica è possibile integrare lo sviluppo locale con l’economia civile
formalizzando il concetto di sviluppo civile, valorizzando, come dice Amin, la
ricchezza dei luoghi, attraverso la produzione di beni collettivi locali e la
valorizzazione del capitale sociale (Trigilia, 2005).
Il concetto di capitale sociale2 come le relazioni sociali tra soggetti individuali,
assume, nell’ottica dello sviluppo civile, un significato importante poiché in alcune
circostanze il capitale sociale diviene sinonimo di cultura civica (civicness), cioè una
cultura condivisa che limiti i comportamenti opportunistici e favorisce la
cooperazione. (Trigilia, 2005, capitolo secondo)
Emerge un nuovo paradigma dello sviluppo locale che non è basato né sulle
impostazioni gerarchiche della vecchia programmazione né sul riduzionismo delle
retoriche dello sviluppo locale (il localismo)3 (Salone, 2007, p. 93), che rischiano di
trascurare le relazioni con i soggetti esterni al territorio, focalizzandosi
eccessivamente sul capitale sociale insito al territorio stesso. Elementi centrali di
questo nuovo paradigma sono:
•
Una governance di multi- livello, che coordinando le varie istituzioni ed i vari
stakeholders, non deve trascurare attori della società civile che non sono
legati in modo evidente al sistema economico, ma che possono rivestire un
ruolo fondamentale nello sviluppo economico e “civile”.
•
Una forte coesione sociale che favorisca la cooperazione tra livelli
istituzionali e territori, ma anche tra gli attori stessi
•
L’integrazione tra settori, attori, risorse e politiche per esprimere in modo
coerente una pianificazione territoriale volta allo sviluppo locale
2
Per approfondire il tema del capitale sociale rimandiamo a Boerdieu (1995), Coleman (1988) e
Putnam (1993)
3
Per “localismo”, in questo caso, si intende quel fenomeno che carica di eccessiva enfasi l’importanza
dei processi economici locali, a discapito delle influenze esterne.
144
Tutti questi elementi, oltre a rivestire un ruolo fondamentale per il nuovo paradigma
dello sviluppo locale, sono di primaria importanza per costruire le basi logiche dello
sviluppo civile.
Prima di approfondire il concetto di sviluppo civile è necessario introdurre l’altro
componente concettuale che permette di capire realmente il nuovo paradigma dello
sviluppo cioè l’economia civile.
145
Introduzione all’economia civile
La prospettiva dell’Economia Civile non è una scuola di pensiero in senso proprio,
ma è un modo di guardare la realtà economica, per trarre indicazioni di soluzione dei
problemi. Essa è una prospettiva culturale dalla quale interpretare l’intera economia,
e dalla quale gettare le basi per una diversa teoria economica. (Zamagni, 2004, p.15)
Questa prospettiva ha radici antiche e, precisamente, nell’umanesimo civile del 1400
quando nasce, in Italia, l’economia di mercato, intesa come modello di ordine
sociale, cioè come modo di organizzare la società sotto il profilo sia economico che
sociale. All’epoca dell’umanesimo civile questa corrente di pensiero, appunto
dell’economia civile, vede le sue radici e si sviluppa fino alla metà circa del 1700,
l’epoca dell’illuminismo italiano. Tralasciando alcuni aspetti storici dell’economia
civile si può individuarne il padre in Antonio Genovesi che per primo al mondo
tenne un corso di economia, cioè “lezioni di economia civile”, nel 1752 a Napoli.
Il filosofo umanista Adam Smith può essere considerato l’ultimo degli economisti
“civili” ed il primo degli economisti “politici”. Come si è visto nel primo capitolo,
colui che viene considerato il padre dell’economia è perfettamente inserito nella
cultura umanista e illuminista del suo tempo e considera l’impegno civile ed i
fondamenti morali come fondamentali nell’agire economico.
Dov’è la differenza, dunque, tra l’approccio dell’Economia Politica e l’approccio
dell’Economia Civile? Direi che, per essere sintetici, la differenza sta in questo: che
l’Economia Politica si è sviluppata sul fondamento del modello dicotomico di ordine
sociale Stato-mercato. Cioè, nell’orizzonte tematico dell’Economia Politica, a
prescindere dalle varie scuole di pensiero che stanno dentro la medesima, la linea di
base è che oggetto di studio dell’economista è lo studio dei rapporti tra Stato e
mercato. Questo accomuna tutte le scuole di pensiero dell’Economia Politica. La
differenza sta nel diverso peso specifico. Se noi prendiamo, infatti, la scuola
neomonetarista di Friedman, fondatore della scuola di Chicago, oppure la scuola
austriaca di Von Hayek ed altre, dei due poli Stato- mercato, esse sottolineano il polo
del mercato. E’ ormai noto che il pensiero neoliberale, o neoliberista che dir si
voglia, assume che è al mercato che dobbiamo affidare le ragioni del successo, del
146
progresso economico e sociale di una comunità e di un Paese. Se rivolgiamo, invece,
l’attenzione ad altre scuole di pensiero come quella keynesiana, quella neoricardiana
oppure quella neoistituzionalista così come viene chiamata, notiamo che l’accento
cade più sullo Stato. La parola Stato non significa solo lo Stato centrale ma l’ente
pubblico in generale, cioè chi ha un potere che gli deriva dalla legittimazione di tipo
democratico, attraverso procedure elettorali. Quindi noi diciamo Stato non per
significare uno Stato nazionale, ma per significare ogni ente (quindi Stato è anche il
Comune o la Regione) che ha un potere che deriva da un processo di legittimazione
democratica. Altre scuole di pensiero, pertanto, sottolineano di più la necessità
dell’intervento dello Stato inteso in questo senso, per correggere i cosiddetti
fallimenti del mercato (market failures). Ma a prescindere da queste differenze, che
sono notevoli, tutto l’impianto teorico dell’Economia Politica è esattamente basato
sul modello Stato-mercato. Perciò, la società per progredire, sotto il profilo
economico, deve avvalersi di questi due pilastri. E quali sono i principi regolativi di
questi due pilastri? Il principio regolativo del mercato è lo scambio di equivalenti di
valore, cioè l’efficienza; per lo Stato il principio è l’equità.
Il pensiero neoliberale dice che è più importante il mercato per creare ricchezza e
reddito. Il mercato, che lavora secondo il principio dello scambio di equivalenti,
permette di massimizzare il non spreco delle risorse, il risultato di efficienza e così
via. Altre scuole dicono che è più importante lo Stato che redistribuisce e consente di
ottenere un risultato di equità; diversamente, non si può andare molto lontano. Al di
là di queste differenze, che non sono di poco conto, rimane il fatto che nella lunga
storia del pensiero dell’Economia Politica, il binomio Stato- mercato è l’elemento
che accomuna le varie scuole. Ma, come scrive lo stesso Zamagni: “Un ordine
sociale , quale esso sia, ha bisogno di tre principi regolativi, distinti ma non
indipendenti, per potersi sviluppare in modo armonico”. I primi due sono efficienza
ed equità, il terzo è il principio di reciprocità, che si basa sulla società civile ed è i
principio cardine dell’economia civile.(Zamagni, 2004, p.21).
La società civile ha un ruolo attivo nell’economia, e non è solo, come pensano molti
grandi economisti, un presupposto a Stato e mercato. Il principio di reciprocità si
differenzia dal principio proprio del concetto di equità, cioè quello dello scambio di
equivalenti, poiché il primo è tripolare, transitivo, invece quello dello scambio di
147
equivalenti è biunivoco. Nello scambio di equivalenti la relazione della controparte
(ad esempio, il pagamento) non è libera ma necessitata. Nella relazione di reciprocità
non è così. Innanzitutto, nella relazione di reciprocità il trasferimento della cosa
precede, non è vincolato alla determinazione del prezzo di equilibrio. In secondo
luogo, colui che riceve non è affatto obbligato a contraccambiare. Il principio di
reciprocità postula, all’origine, l’atto di gratuità, dove gratuità, però, non vuol dire
non essere pagati, gratuità è un’ esplicitazione del principio del dono. Il principio e la
cultura della reciprocità è elemento fondamentale affinché sia il mercato che lo stato
possano funzionare.
L’idea dell’Economia Civile è esattamente questa: noi abbiamo bisogno sicuramente
dello scambio di equivalenti, perché l’efficienza è cosa buona, sicuramente abbiamo
bisogno della redistribuzione, perché l’equità è cosa buona, ma non basta. Abbiamo
bisogno di far circolare a livello economico, non solo a livello di presupposto, anche
il principio di reciprocità. Abbiamo bisogno che nella società, di cui stiamo parlando,
le pratiche della reciprocità non siano, come dire, un’eccezione, ma siano la regola.
Perché soltanto la pratica della reciprocità serve a tenere in piedi ed a far funzionare
bene sia il mercato sia lo Stato. La cultura della modernità, cioè degli ultimi due
secoli, due secoli e mezzo, ha avuto questo difetto: averci fatto credere che bastasse
l’efficienza e l’equità.
L’economia civile è necessaria per ricucire quel gap che la scienza economica,
attraverso la politica economica, ha scavato tra etica ed economia, tra ricerca della
felicità e ricerca della ricchezza. La teoria economica mainstream, fondata su
utilitarismo e sull’equilibrio, tende a mettere in contrapposizione efficienza ed equità
(la famigerata metafora della torta è indicativa) individuando l’economia come tutto
ciò che non- tuismo, cioè tutto ciò che è anonimo e strumentale. (p.105) L’economia
neoclassica ha espulso il principio di reciprocità dall’economia e con esso ogni tipo
di collegamento tra etica e scienza economica.
Il fine cui tende il principio di reciprocità è la fraternità, il principio di fraternità.
La fraternità è una delle tre parole sulla base delle quali è stata combattuta la
rivoluzione francese: liberté, egalitè, fraternitè, ma la parola fraternità è stata
respinta di fatto negli ultimi due secoli. Ma la fraternità non è la stessa cosa della
solidarietà perché quest’ultima, che è fondamentale, è il principio che tende a rendere
148
eguali i diversi. Ma la fraternità è il principio che consente agli eguali di essere
diversi, quindi è il complemento di solidarietà. Una società che è solo solidale non è
capace di progresso, perché non è capace di accumulare capitale civile. Per il capitale
civile ci vuole fraternità, che vuol dire consentire agli eguali di essere diversi; cioè
affermare, come dire, la propria visione del mondo, il proprio stile di vita, la propria
concezione. Se noi non consentiamo questo, si nota il calo di creatività, perché la
solidarietà senza fraternità tende ad uniformare, a livellare tutti.
L’idea di reciprocità si fonda sull’autorealizzazione della persone, cioè la sua
fioritura, l’eudaimonia aristotelica: ho bisogno dell’altro per scoprire che vale la
pena che io fiorisca. La realizzazione del sé è il risultato dell’interazione. Il
riconoscimento dell’altro e il nostro riconoscimento da parte dell'altro è fondamento
della reciprocità, della fraternità. (pag.173)
Il principio di reciprocità si fonda sul dono, non come strumento, ma come l’inizio di
una serie di atti reciproci, ciò che Latouche individuerebbe nella convivialità.
Questo aspetto dell’economia civile è fondamentale poiché ci permette di legare un
modello di sviluppo basato sulla convivialità decrescente (capitolo quinto) a modelli
di sviluppo che si potrebbero definire di mercato.
La sfida dell’economia civile è quella di ricercare i modi di far coesistere, all’interno
del medesimo sistema sociale, tutti e tre i principi regolativi: efficienza, equità e,
soprattutto reciprocità. (p.23)
Per concludere questa breve introduzione all’economia civile è necessario chiarire
alcuni aspetti che saranno estremamente utili nell’elaborazione del concetto di
sviluppo civile.
Il primo aspetto è legato al modo in cui la società civile può diventare soggetto
economico e cioè attraverso il non profit, o welfare civile. Ai fallimenti del mercato e
ai fallimenti dello stato4 esiste una proposta alternativa di welfare quella civile.
Secondo il modello di welfare civile le organizzazioni della società civile devono
essere partner attivi nel processo di programmazione degli interventi. Essi non solo
devono essere autonomi da mercato tradizionale e Stato ma devono avere capacità di
essere indipendenti economicamente e finanziariamente: ciò prevede un vero e
4
A questo proposito si segnalano i libri di Buchanan e Tullock sulla public choice
149
proprio mercato sociale. Questo modello prevede un “mercato” composto da imprese
sociali e civili formate dai cittadini. (Zamagni, 2004, capitolo ottavo).
Alla base di questo ragionamento c’è l’idea seniana delle capacitazioni (capitolo
terzo) in cui l’attenzione non è posta sulla prestazione ma sulla capacità degli
individui di poterne usufruire. Il rapporto tra Stato e cittadini non può né diventare un
rapporto erogatore – utente né, come vorrebbero i liberisti, un rapporto venditore –
utente ma bisogna favorire l’organizzazione di una vera e propria struttura
istituzionale fondata sulle libertà civili e la società civile.(pp. 237-238). Un modello
di sviluppo basato sulle capacitazioni necessita un modello di welfare civile e
partecipato.
In conclusione di questo paragrafo si possono già intuire i lineamenti di un
paradigma dello sviluppo civile, ma è necessario chiarire due aspetti fondamentali: il
capitale sociale e la felicità.
Il capitale sociale, così come si è visto nel paragrafo precedente, è un elemento
centrale per lo sviluppo poiché attraverso ad esso si favoriscono fiducia e
cooperazione civile. (Radhuber 2008, p.8). Zamagni, precisamente, parla di capitale
civile, concetto ancora più ampio che comprende il capitale sociale (cioè le relazioni,
come inteso da Trigilia), l’assetto istituzionale democratico e la capacità di produrre
beni relazionali.
La felicità non è sinonimo di ricchezza così come sviluppo non è sinonimo di
crescita ed in questo la posizione dell’economia civile ricalca le critiche seniane a cui
si è dato spazio nel terzo capitolo. Inoltre l’economia civile accoglie il contributo di
quegli studi che legano la felicità delle persone al loro grado di partecipazione alla
vita civile, politica e democratica. L’economia civile, in conclusione, vorrebbe
umanizzare il mercato rendendolo luoghi di incontri civili e civilizzanti, dove la
felicità torni ad essere al centro del pensiero economico stesso.
In questo senso è corretto introdurre ora il paradigma dello sviluppo civile, inteso
come miglioramento qualitativo e quantitativo del capitale civile, in un contesto di
democrazia economica sostenibilità ambientale.
150
Lo sviluppo civile
L’approccio istituzionalista dello sviluppo locale, con le sue componenti critiche, e
l’approccio dell’economia civile sembrano ben integrarsi nel concetto di sviluppo
civile.
Una recente letteratura ha individuato nel concetto di “social economy”
un’alternativa di sviluppo che rifiuta il paradigma della sola competizione di mercato
(Amin e Tomaney 1995, Amin, Cameron e Hudson 2002).
La “social economy” si riferisce solitamente al Terzo Settore, tra il sistema privato di
mercato ed il sistema pubblico di governo. A questo settore solitamente vengono
associale le cooperative, le ONG e le fondazioni (charities).
Questa nuova “economia” alternativa può essere considerata il “terreno” di incontro
tra lo sviluppo locale e l’economia civile. In questo senso il contributo di autori di
scuola “istituzionalista” come Amin, è sicuramente fondamentale.
Secondo Zamagni l’economia sociale si distingue dall’economia civile in quanto la
prima interviene sul lato dell’offerta operando in modo da “umanizzare” i processi di
produzione mentre l’economia civile interviene sul lato della domanda permettendo
ai cittadini di organizzarsi e strutturarsi per poter interloquire in modo autonomo con
i soggetti dell’offerta. (Zamagni, 2002).
Il nuovo paradigma offerto dal binomio economia sociale – economia civile è quello
di un modello alternativo che non abbia però la pretesa di scardinare né il libero
mercato o né il welfare state, fondato sull’azione statale.
L’idea di fondo dell’approccio strutturalista di Amin è che le politiche neo-liberiste
per lo sviluppo degli anni Ottanta sono fallite perché oltre a aumentare la
disoccupazione e a favorire le disparità sociali e regionali, hanno mancato anche il
loro obiettivo principale cioè la crescita. L’economia sociale può invece creare la
basi di quella “coesione” che è l’elemento centrale, per esempio, della politica
comunitaria europea. (Amin e Tomaney 1995).
E’ facilmente intuibile la complementarità tra la coesione richiesta dalla comunità
europea e la fraternità dell’economia civile.
151
Fondamentale, pero, è che l’economia sociale non venga associata troppo al
paradigma dell’economia neo-liberista stravolgendo il senso stesso di quello che
vuole essere un paradigma alternativo.
L’approccio dello sviluppo locale inteso come valorizzazione dei territori in un’ottica
di economia sociale e civile deve rifiutare la logica della competitività di mercato per
evitare che questo tipo di economia o le imprese sociali diventino solo un modo per
rendere più “appetibile” al mercato un territorio o un’impresa.
Un elemento centrale della critica radicale a questo tipo di economia sociale, e quindi
di sviluppo, è proprio inerente all’idea di “capitale sociale” che non deve essere un
concetto astratto, pronto ad essere “sbandierato” per migliorare la competitività di un
territorio, ma deve essere elemento fondamentale di un’economia basata sulla fiducia
e la cooperazione. La pericolosità dell’uso del concetto di “capitale sociale” come di
“particelle elementari per descrivere il successo o il fallimento di intere comunità”
(Hadjimichalis 2006) rischia di svuotarne il significato, caricando di eccessivo peso
il suo valore
L’idea “poetica” di un capitale sociale che unisce tutti e crea l’immaginario di una
società priva di conflitto rischia di delegittimare l’importanza stessa delle relazioni
sociali che non sono fatte solo di fiducia e cooperazione ma anche di scontri e
contrapposizioni. Il capitale sociale, inteso come centro di rapporti cooperativi, non
nasce dal nulla ma dovrebbe aiutare a rinsaldare i legami tra economia, cultura e
società, che non risaltino lo scontro e la competizione, come il mondo neo-liberista
ha imposto negli ultimi decenni, ma l’incontro.
L’idea di sviluppo civile prescinde da questi aspetti e, quindi, la valorizzazione del
territorio e del suo capitale sociale dipende da un’idea di sviluppo che non può essere
quella neo-liberista di mercato, focalizzata solo sulla crescita. I progetti di economia
sociale e di economia civile (sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta) non
possono realizzarsi esclusivamente nel “Terzo settore” ma devono contribuire
attivamente alla creazione di un paradigma alternativo di sviluppo. E’ importante
avere presente il rischio dell’affermazione dell’idea che il “Terzo Settore”debba
essere una via intermedia che insegue chi è “vincente”, dato che la distinzione tra
vincitori e vinti viene effettuata in base al successo economico nel libero mercato.
(Hadjimichalis e Hudson, 2007).
152
I principi su cui si fonda lo sviluppo civile sono la cooperazione e la democrazia
economica e non il successo di un modello territoriale da esportare.
Lo sviluppo civile in un’economia sociale, intesa come alternativa all’economia di
mercato, contribuisce alla formazione di un’alternativa basata sulle pratiche di
democrazia economica, sulle relazioni sociali e sul miglioramento della “cittadinanza
sociale” (Hadjimichalis e Hudson, 2007, p.103).
Un ruolo importante dello sviluppo civile potrebbe essere quello di aumentare
l’integrazione dei soggetti più discriminati (immigrati, poveri, donne..) diminuendo,
oltre che le disuguaglianze economiche, l’esclusione sociale e favorendo coloro che
rischiano di essere esclusi sia dall’economia di mercato sia da una politica statale
sempre più corporativa, che tende ad escludere molti soggetti svantaggiati.
Un esempio di intervento per favorire lo sviluppo civile è il bilancio partecipato che
favorisce la partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica ed economica della
propria città o comunità.
La partecipazione attiva si realizza innanzitutto su base territoriale. Nel corso di
riunioni pubbliche la popolazione di ciascuna circoscrizione è invitata a precisare i
suoi bisogni e a stabilire delle priorità in vari campi o settori (ambiente, educazione,
salute...). A questo si aggiunge una partecipazione complementare organizzata su
base tematica attraverso il coinvolgimento di categorie professionali o lavorative
(sindacati, imprenditori, studenti..). Ciò permette di avere una visione più completa
della città, attraverso il coinvolgimento dei settori produttivi della città. La
municipalità o il comune è presente a tutte le riunioni circoscrizionali e a quelle
tematiche, attraverso un proprio rappresentante, che ha il computo di fornire le
informazioni tecniche, legali, finanziarie e per fare delle proposte, attento, però, a
non influenzare le decisioni dei partecipanti alle riunioni.
Alla fine ogni gruppo territoriale o tematico presenta le sue priorità all'Ufficio di
pianificazione, che stila un progetto di bilancio, che tenga conto delle priorità
indicate dai gruppi territoriali o tematici. Il bilancio viene alla fine approvato dal
consiglio comunale. Nel corso dell'anno, attraverso apposite riunioni la cittadinanza,
valuta la realizzazione dei lavori e dei servizi decisi nel bilancio partecipativo
dell'anno precedente.
153
Di solito le amministrazioni comunali, visti anche i vincoli di bilancio cui sono tenuti
per legge, riconoscono alle proposte avanzate dai gruppi di cittadini la possibilità di
incidere su una certa percentuale del bilancio comunale (dal 10 al 25%)
Nonostante sia un intervento che rimane nel contesto dell’attività pubblica, il
bilancio partecipato permette una forma di democrazia diretta molto importante che
favorisce la coesione dei cittadini di una stessa città o quartiere.
Forme di democrazia diretta come questa e forme di cooperazione e associazionismo
nate all’interno del capitale sociale di una comunità permettono di contribuire al
modello di sviluppo civile che viene descritto in questo capitolo.
La presenza di “imprese sociali” e di un relativo mercato sociale permette ad
iniziative di valorizzazione territoriale di uscire dalla logica della competitività del
libero mercato creando domanda ed offerta (economia sociale e civile) di una forma
nuova di “economia”. Il binomio “civile” e “sociale” ha l’obiettivo di colmare quel
deficit di reciprocità che viene evidenziato dall’economia civile e di creare quella
coesione fondamentale che è anche molto importante per alcune politiche europee
(FSE)5.
Ciò che risulta fondamentale però è che non dobbiamo chiederci in che modo
possiamo aumentare la competitività di un territorio ma in che modo possiamo
migliorare la salute e le condizioni di vita di tale territorio; non dobbiamo chiederci
in che modo favorire le learning regions o le learning firms ma in che modo
sviluppare un economia capace di supportare diverse forme di imprenditorialità
locale ed un piano per le questioni legate all’immigrazione indotta dallo sviluppo;
inoltre, invece di seguire l’idea che tutto sia sovrimposto dalle forze della
globalizzazione, dovremmo partecipare alla vita democratica locale per migliorare la
qualità della vita locale. (Hadjimichalis e Hudson, 2007, p.107)
In sintesi tutte le politiche europee per lo sviluppo, la coesione e l’occupazione
dovrebbero favorire un modello alternativo che non sia succube del modello attuale
5
Il Fondo Sociale Europeo è uno dei più importanti strumenti finanziari dell'Unione Europea,
nell'ambito delle politiche comunitarie la sua azione si esplica nello sviluppo e nel finanziamento di
una serie di progetti volti allo sviluppo e alla promozione della coesione tra i diversi stati membri, nel
quadro del Trattato di Roma siglato nel 1957, che sancì la nascita della Comunità Economica Europea
(www.fondosocialeeuropeo.it). Per un commento critico: Amin e Tomaney (1995)
154
ma che ambisca a cambiarne la natura per, usando le parole di Zamagni, umanizzare
l’economia di mercato.
Lo sviluppo civile porta con sé necessariamente elementi di riformismo radicale del
sistema capitalistico che, però, non prevedono né il superamento di tale sistema né la
negazione dello sviluppo capitalistico.
Lo sviluppo di imprese sociali localizzate, di cooperative il cui elemento centrale è la
reciprocità, di forme di democrazia economica diretta sono esempi del tentativo di
sviluppare un egemonia politica5 sugli interventi di sviluppo locale e regionale,
attraverso i principi di democrazia (Hadjimicalis e Hudson, 2007, p.107).
Questi segnali si integrano perfettamente alla critica al paradigma mercato-centrico
dello sviluppo, dove tutto è competizione.
In conclusione di questo paragrafo, gli elementi caratterizzanti dello sviluppo civile
possono essere riassunti in: la valorizzazione del capitale civile e sociale del
territorio, la democrazia economica, la cooperazione e la reciprocità.
Il contributo dello sviluppo civile tende a favorire un “capitalismo migliore”
fortificando l’economia sociale e l’incontro tra società civile ed istituzioni nel
contribuire allo sviluppo della società.
5
Il riferimento è agli scritti sull’egemonia presenti nelle lettere dal carcere di Antonio Gramsci (2007)
155
La fine dell’economia: l’inizio dello sviluppo
Il titolo di questo paragrafo prende spunto dal famoso saggio di Sergio Ricossa: “La
fine dell’economia”. Ricossa individua in Keynes e Marx due perfettisti il cui fine
ultimo deve essere la fine dell’economia. Concordo con l’economista torinese
nell’affermare che sia Keynes, che Marx aspirino a liberare l’uomo dallo
sfruttamento e dal bisogno capitalistico e individuino nel sistema di mercato la fonte
della priorità di alcuni sentimenti negativi, come l’avarizia. La profezia di Keynes è
particolarmente esplicativa: “il problema economico non è, se guardiamo al futuro, il
problema permanente della razza umana.. Vedo quindi uomini liberi tornare ad
alcuni dei principi più solidi ed autentici della religione e delle virtù tradizionali: che
l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro è
spregevole, e che chi meno si affanna per il domani cammina veramente sul sentiero
della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e
preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora
e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle
cose, i gigli del campo che non seminano e non filano” (J.M. Keynes, 1991,
Esortazioni e profezie, p.63-64).
Un altro elemento centrale per la fine dell’economia, secondo Ricossa, è il concetto
di stazionarietà: “Il nirvana è una sorta di “stato stazionario”, che si oppone allo
sviluppo senza fine dell’economia. […] i perfettisti finiscono col ritenere lo sviluppo
economico illimitato un assurdo tanto inopportuno quanto impossibile. Cambia solo
la spiegazione dell’impossibilità: talvolta è il difetto di domanda effettiva, talaltra è
l’esaurimento delle risorse naturali, che blocca la crescita dell’offerta” (Ricossa,
2004, p.77-78). Gli elementi principali emersi in questo lavoro ci sono tutti: scarsità
delle risorse, stazionarietà e, riprendendo Keynes, l’aspetto valoriale.
Lo sviluppo civile, che abbiamo introdotto nel paragrafo precedente, non ha la
pretesa di voler la fine dell’economia, così come non avrebbe voluto la fine
dell’economia J. M. Keynes. Lo sviluppo civile si inserisce in una filosofia che
156
respinge la visione positivista e “apriorista”6 che vede l’economia come la scienza
della sola azione umana e dello scambio. Come è emerso nel primo capitolo, la
scienza economica è vista come una scienza positiva, cioè libera da giudizi di valore.
Anche secondo Ricossa l’economia e, con essa, la scienza economica non sono
soggetti a valutazioni morali, ma è necessario studiare esclusivamente l’azione
umana. La visione dello sviluppo civile non crede che la scienza economica possa
allontanarsi dall’etica e ripropone per questo che l’economia torni ad essere una
scienza umana e “sociale”, allontanandosi sia dal positivismo neoclassico che dalla
prasseologia “austriaca”.
L’economia, come abbiamo visto è “immersa” nella società e la scienza economica è
necessariamente influenzata da sociologia, psicologia e etica. Lo sviluppo civile,
partendo da questa convinzione, tende a valorizzare gli aspetti di cooperazione tra gli
individui per favorire un visione più olistica dello sviluppo stesso.
Si può affermare che questo nuovo paradigma dello sviluppo che si focalizza sulla
reciprocità e la cooperazione si adatti maggiormente ad accogliere le critiche di
coloro che sostengono uno sviluppo ecologicamente sostenibile e uno sviluppo
umano omnicomprensivo. Queste critiche, che sono state tratteggiate nei primi
capitoli, inerenti al deficit etico ed ecologico dell’economia dello sviluppo vengono
assorbite dall’idea di un’ “evoluzione” dello sviluppo che sia fondato sull’aumento
ed il miglioramento del capitale civile e sociale della società contemporanea. Un
modello basato su qualità della vita, sostenibilità ambientale e cooperazione è
intrinseco all’idea dello sviluppo civile, che può diventare il binario alternativo al
paradigma dello sviluppo incontrato nella prefazione.
Un nuovo modello che sappia accogliere le critiche “ecologiche” di Daly e le critiche
“etiche” di Sen può fondarsi sull’idea che gli elementi centrali dello sviluppo stesso
non possano essere solamente la crescita e la competitività ma debbano essere lo
sviluppo umano, la sostenibilità ambientale e la libertà in un contesto di democrazia
economica e partecipazione civile basata sulla reciprocità.
6
In questo caso ci si riferisce al metodo “presseologico” e “apriorista” di Mises e della Scuola
Austriaca, della quale Ricossa fa parte. Per approfondimenti: Barotta e Raffaelli (1998) e Motterlini
(2000)
157
Non si vuole negare un processo di sviluppo o bandire la parola stessa perché usata
troppo spesso come panacea per tutti i mali ma accogliere gli elementi di criticità
esposti nei capitoli precedenti per favorire la riformulazione del paradigma stesso.
Questo nuovo paradigma permette la formulazione e l’implementazione di
“politiche” a sostegno del miglioramento del capitale sociale e civile di un territorio.
Si possono individuare tre categorie di interventi:
1) Politiche per favorire la partecipazione civile e la democrazia economica.
Queste “politiche”, che si possono definire “istituzionali” o strutturali favoriscono
necessariamente la partecipazione dei cittadini, nell’ottica di una democrazia
economica partecipata ed attiva. Strumenti come il bilancio partecipativo, o le
politiche di economia sociale di inclusione delle fasce più deboli della popolazione o
di formazione delle stesse sono esempi perfetti di politiche adatte ad uno sviluppo
civile. L’idea centrale di tutti questi interventi è quella di porre l’uomo al centro dello
sviluppo e di favorire la libera partecipazione e la libera cooperazione dei cittadini
nella attività economiche.
Strumenti di programmazione territoriale focalizzati su un sistema partecipativo
bottom-up sono sicuramente utili alla formazione di questo paradigma.
2) Politiche per incrementare la coesione e la reciprocità.
Si possono auspicare interventi di agevolazione fiscale e “infrastrutturale” che
favoriscano l’emergere di economie non profit che sia fondino su una reale
reciprocità e non su criteri di mercato; interventi volti a favorire la nascita di
associazioni di consumo solidale e alternativo che influenzino la domanda stessa di
beni. Si auspica un aumento della cooperazione e della coesione sociale a sostegno
del capitale sociale con particolare attenzione alla valorizzazione dei territori,
secondo una logica di miglioramento della qualità della vita e non di competitività. Il
contributo di politiche volte a favorire “l’umanizzazione” dell’economia di mercato
contribuendo a rendere “socialmente sostenibili” le imprese ed i mercati rientrano
nell’ottica dello sviluppo civile. L’aumento sempre più forte dell’importanza dei beni
relazionali favorisce la formazioni di strutture cooperative volte a soddisfare questi
“bisogni”.
158
3) Politiche a sostegno della sostenibilità ambientale
Questi interventi sono già stati esposti nel capitolo quinto quando si è discusso del
concetto di sostenibilità ambientale di Hermann Daly. Riassumendo si possono
individuare nella contabilità ambientale e nel rispetto del concetto di sostenibilità
forte alcuni elementi di proposta politica molto interessanti per lo sviluppo civile.
Credo sia impossibile slegare lo sviluppo civile da una politica economica improntata
sulla sostenibilità ambientale.
Otre alle politiche pratiche, è fondamentale intervenire nell’ambito dell’informazione
a sostegno di un modello alternativo: il ruolo dei cosiddetti “media” i questo caso è
fondamentale (De Biase 2007).
Senza usare le metafore di Latouche sulla rivalutazione dell’immaginario, è corretto
considerare l’intervento culturale come uno degli elementi fondamentali per
modificare l’assolutismo di un paradigma di sviluppo basato su consumo, spreco e
crescita. Si può condividere in parte l’idea che lo sviluppo civile, umano e sostenibile
abbia necessariamente bisogno di affrontare il “problema dell’egemonia culturale” di
gramsciana memoria (Gramsci, 2007). Lo strumento dei nuovi media (internet) può
sicuramente essere una strada per “sensibilizzare” le persone sui limiti ecologici e
sociali di un modello che ha i difetti che si sono più volte evidenziati in questo lavoro
(De Biase, 2007).
In conclusione, lo sviluppo civile non aspira a diventare un modello rivoluzionario
del sistema capitalistico ma crede di poter dare un contributo al miglioramento di tale
sistema per permettere quella “deviazione del treno” invocata nella prefazione. I
ragionamenti proposti in questo paradigma contengono elementi sia di riformismo
(miglioramenti all’interno del sistema) sia utopici, con la speranza di un futuro
migliore.
In questo senso, se usassimo la dicotomia ricossiana, lo sviluppo civile è certamente
da iscrivere al filone “perfettista” della storia del pensiero.
159
Conclusioni
“I filosofi hanno soltanto
diversamente interpretato
il mondo; si tratta di
trasformarlo”
Karl Marx
Questo lavoro ha ripercorso la storia dell’idea di sviluppo ed è giunto ad una critica
“simpatetica” ad un paradigma che, nei fatti, ha dominato per decenni. Lo sviluppo
civile, così come lo sviluppo umano, lo sviluppo sociale e lo sviluppo sostenibile
rappresenta una “via d’uscita” per il treno della crescita.
L’apporto sostanziale di grandi economisti ha modificato nel corso del tempo l’idea
che crescita economica e sviluppo fossero sempre e comunque sinonimi. La critica
talvolta più e talvolta meno radicale di autori come Karl Polanyi, Albert Hirschman e
Amartya Sen ha arricchito il paradigma dello sviluppo negando che esso possa
dipendere esclusivamente da fattori economici. L’approccio “istituzionalista” dello
sviluppo locale e dello sviluppo civile accoglie molte di queste critiche e si pone in
aperta contrapposizione con l’idea, o meglio ancora, con il dogma che la crescita sia
sempre e comunque auspicabile. Lo sviluppo civile si pone in un filone di studio
dell’economia che tende a studiare il bene comune ed il modo attraverso il quale è
possibile migliorarlo. In questo lavoro non c’è nessuna intenzione di aderire in modo
“ideologico” ad idee “anti-progressiste” che, troppo spesso, radicalizzano lo scontro,
proponendosi come unica via di salvezza. Questo “nuovo” concetto rischia
certamente di “peccare” dell’utopismo dei cultori della decrescita, ai quali va
riconosciuto il merito di proporre comunque una reale alternativa al baratro verso il
quale corre il “treno” dello sviluppo. Nonostante questi meriti, non si può certo
condannare una parola - “sviluppo” – individuando in essa tutti i mali per proporre
una vera e propria rivoluzione anti-mercantilista. Esistono, nonostante quel che possa
credere Latouche, alternative sostanziali al baratro ed esse sono state esposte, forse in
160
modo sommario, in questo lavoro. Sviluppo sociale, sviluppo umano, sviluppo
sostenibile e sviluppo civile: queste sono le strade alternative che si uniscono in un
unico “binario” di salvezza e che permettono di proseguire su una linea ideale di
sviluppo, senza obbligare gli uomini a buttarsi giù dal treno rinunciando a tutto ciò
che hanno conquistato.
Nell’esporre le caratteristiche del concetto di sviluppo civile si sono affrontati temi
fondamentali come la “democrazia economica”, la cooperazione, la reciprocità e lo
sviluppo locale, inteso come la valorizzazione del territorio.
Il concetto di democrazia economica è fondamentale poiché introduce lo sviluppo
civile in un paradigma alternativo di economia dove libertà, democrazia ed
uguaglianza possono coesistere (Dahl, 1989).
Questa democrazia economica si può realizzare non solo all’interno dell’imprese con
forme di proprietà collettive e cooperazioni sostanziali, dove possono essere presenti
forme di autogoverno democratico, ma anche attraverso la creazione di un mercato
plurale dove possano operare imprese capitalistiche, imprese sociali ed imprese
civili.
Alla democrazia economica, infatti, non basta il pluralismo nelle istituzioni; essa
esige anche il pluralismo delle istituzioni economiche – un pluralismo dove le forme
di impresa diverse da quella capitalistica – ad esempio le imprese cooperative – non
devono essere considerate forme “minori” di impresa. Se si vuole “umanizzare
l’economia” è necessario che all’interno dello spazio economico possano operare –
senza discriminazione alcuna - soggetti il cui agire è ispirato al principio di
reciprocità (cooperative, imprese dell’economia di comunione, etc..). (Zamagni,
2004).
Democrazia economica significa quindi portare più democrazia all’interno degli
operatori economici e delle istituzioni economiche fornendo un’alternativa seria al
mercato liberista, senza per questo negare il mercato stesso.
Per migliorare il “grado di democrazia” all’interno di una società capitalista è
certamente necessario avviare una vasta campagna culturale centrata sulla figura,
affatto nuova, del consumatore socialmente responsabile. Anche il cittadino, in
quanto consumatore, non può ritenersi esonerato dall’obbligo di utilizzare il proprio
potere d’acquisto per contribuire a conseguire fini che egli giudica eticamente
161
rilevanti. Nella realtà, il consumatore non è mai stato sovrano e non lo è neppure
oggi. Potenzialmente però il consumatore ha oggi la capacità di inviare messaggi alla
produzione perché questa si adegui alle sue preferenze. Spendendo il suo potere
d’acquisto in un modo piuttosto che nell’altro, il consumatore invia un segnale ben
preciso a chi produce per indicargli non solo ciò che più gradisce che lui produca ma
anche il modo in cui desidera che quel prodotto venga ottenuto. Tanto è vero che se il
consumatore sa che certi beni sono prodotti in un modo che egli giudica eticamente
contrario alla sua visione del mondo scatta la sanzione economica, ad esempio nella
forma del boicottaggio o della denuncia mediatica. Alla luce di quanto sopra, si può
apprezzare l’importanza strategica, oltre che simbolica, di iniziative quali il consumo
critico, gruppi di acquisto solidale, la finanza etica, le iniziative di asset building (di
cui la microfinanza è l’esempio più noto).
In definitiva, il punto da sottolineare è che non c’è solo il voto politico quale
strumento di democrazia; c’è anche il voto economico, il cui senso è quello di portare
dentro l’arena del mercato l’esercizio dell’opzione voice (nel senso di Hirschman1).
La democrazia economica postula che i consumatori possano indurre, con le loro
decisioni di spesa, imprese e istituzioni ad operare per il perseguimento di fini
socialmente legittimati. E’ in ciò il senso profondo della sussidiarietà fiscale e delle
pratiche di “amministrazione condivisa”, tra cui “bilancio partecipato”, di cui
abbiamo parlato nel capitolo precedente. (Zamagni, 2004)
La democrazia economica non può non essere un elemento centrale del nuovo
paradigma dello sviluppo, poiché alla base di questo paradigma ci sono
partecipazione attiva, cooperazione e sviluppo civile (e civico). Senza democrazia
non c’è sviluppo civile e viceversa.
L’importanza della dimensione locale dello sviluppo emerge in diversi punti di
questo lavoro poiché lo sviluppo civile, basandosi su concetti quali la partecipazione
civile, la cooperazione e la democrazia economica, necessita certamente di una
valorizzazione del capitale sociale di un territorio. Non bisogna mai dimenticare che
lo sviluppo è inteso sia in una dimensione locale, sia in una dimensione globale e che
gli effetti globali sullo sviluppo locale rivestono un’importanza fondamentale; se ci si
1
Cfr. ad Hirschman: capitolo terzo
162
dimenticasse di ciò si rischierebbe di incappare i forme di localismo corporativo che
sono assolutamente inconciliabili con lo sviluppo civile.
A questo proposito è giusto chiarire che il vero nemico dello sviluppo civile non è il
mercato in quanto tale ma la difesa corporativa di posizioni di rendita all’interno
dell’economia. In questo senso, il mercato ha una funzione progressista2 e anticonservatrice che si coniuga anche con lo sviluppo civile. Per lo sviluppo è
auspicabile un ritorno a quella versione “umanizzata” del mercato che è stata
descritta nei capitoli precedenti.
Lo sviluppo civile non è certamente “no-global” ma “new-global”: si crede, cioè, che
la globalizzazione si possa fondare non solo sulla competitività economica ma anche
su altri “metri di giudizio” come la sostenibilità ambientale e sociale. Non si possono
certo condividere soluzioni semi-autarchiche di chiusura dei confini ed esasperazione
di localismi identitari a difesa di corporazioni, sacrificando “il bene comune” e
progetti fondamentali di coesione comunitaria tra paesi.
Il problema etico ed il problema ecologico ci pongono di fronte ad una serie di
scenari che sono stati ben schematizzati dal “The Stockholm Environment Institute”
attraverso alcuni ipotesi di scenari creati nel Global Scenario Group3.
Vengono individuati tre gerarchie che rappresentano fondamentalmente tre visioni
sociali differenti: mondi convenzionali, barbarizzazione e grandi transizioni.
All’interno di ogni gruppo vengono individuate due varianti che forniscono un totale
di sei scenari possibili.
Mondi convenzionali.
Secondo questa visione l’evoluzione del sistema globale rimane pressoché costante
senza grandi variazioni e cambiamenti. L’economia mondiale continuerà a crescere e
favorire lo sviluppo degli altri paesi. Ciò può avvenire attraverso:
a)
Le forze di mercato: i problemi sociali ed ambientali saranno corretti
dalla crescita del sistema economico attraverso la logica della competitività
dei mercati.
2
Cfr a Smith, capitolo primo
3
Il Global Scenario Group esamina le prospettive per lo sviluppo mondiale nel ventunesimo secolo:
www.gsg.org
163
b)
Riforme politiche: L’azione coordinata dei governi favorirà uno sviluppo
sostenibile e garantirà condizioni di equità.
Barbarizzazione.
Questo scenario prevede che i legami sociali, economici e morali della civilizzazione
si deteriorino e che i problemi si impongano sui mercati e sulla capacità delle
politiche economiche
a) Crollo: si crea una situazione di conflitto permanente con il crollo delle
istituzioni e la crisi economica
b) Mondo fortezza: Risposta autoritaria alla paura del crollo con la creazione di
fortezze di difesa corporativa e contemporanea miseria, distruzione
ambientale e repressione all’esterno delle “fortezze”
Grandi transizioni.
Questa visione prevede una soluzione alla sfida della sostenibilità attraverso
fondamentali cambiamenti di valore e nuovi cambiamenti socio-economici.
Si rappresenta una transizione ad una società che preserva i sistemi naturali,
provvede ad alti livelli di welfare attraverso una distribuzione equa favorendo un
forte senso di solidarietà sociale. Questa transizione è caratterizzata da un livello più
basso di consumi ed un uso massiccio di tecnologie verdi.
a) Eco- comunalismo: questa visione incorpora la visione “verde” del bioregionalismo, il localismo, la democrazia diretta, le piccole tecnologie e
l’autarchia economica
b) Paradigma della nuova sostenibilità: questa visione condivide molti obiettivi
dell’eco –comunalismo ma vorrebbe cercare un cambiamento del carattere
della situazione urbana ed industriale piuttosto che sostituirlo. Vorrebbe
costruire una civilizzazione globale più umana ed equa piuttosto che
rifugiarsi nel localismo.
Lo sviluppo civile si integra perfettamente nella logica della grande transizione che
sostiene il paradigma della nuova sostenibilità. La grande transizione, anche
attraverso lo “stato stazionario” di Daly, auspica uno sviluppo più coerente con i
limiti ecologici di questo pianeta, non dimenticandosi la dimensione etica
dell’economia.
164
Il binario che permette la salvezza del treno è proprio quello dello sviluppo civile e
della grande transizione perché questa strada alternativa può permettere di non
fermare lo sviluppo evitando la dannazione autodistruttiva del Faust - capitalismo
(Ruffolo, 2006).
La politica ha il compito di guidare la transizione e per farlo deve tornare ad essere
l’arte della res pubblica, del bene comune, abbandonando schemi retorici del passato
e visioni mercantilistiche del presente.
Il ruolo delle varie istituzioni, politiche e non, è quello di fornire alla società la
possibilità di dare vita a forme alternative di sviluppo combattendo il dogmatismo
ideologico e competitivo del neo-liberismo, ma rinunciando a chiusure ideologiche
che negano i contributi positivi del mercato stesso; chiusure che risultano essere
altrettanto pericolose.
Lo sviluppo civile, così impostato, rischia di apparire poco simpatetico, ma molto
critici verso il predominio degli ultimi decenni della visione puramente competitiva.
In realtà, lo sviluppo civile, così come molti altri notevoli contributi in materia
(sviluppo umano, sviluppo sociale, etc..) potrebbe risultare fondamentale alla
sopravvivenza dello sviluppo, evitando, a lui e noi tutti, il precipizio.
165
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Ringraziamenti
Ringrazio il relatore prof. Carlo Salone, il correlatore prof. Roberto Burlando, i
professori Angelo Besana e Dario Padovan per le loro consulenze. Ringrazio la mia
famiglia che mi ha permesso di arrivare fino a questo lavoro; tutti gli amici di questi
anni d’università, gli amici del gruppo di studio Xenos e tutti gli altri con i quali ho
scambiato idee preziose per questo lavoro.
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