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GATTOPARDO„ E LA CRITICA

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GATTOPARDO„ E LA CRITICA
Il "GATTOPARDO„ E LA CRITICA
L'interesse al romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è quanto di
più sensazionale registri la cronaca letteraria di questi mesi : un successo
editoriale strepitoso, che richiama alla mente la popolarità del Dottor Zivago
e che, trattandosi di un testo italiano, costituisce una notevole eccezione.
Notoriamente, il grosso pubblico nostrano non allunga il grifo al di là degli
sciocchezzai e delle cibarie pornografiche ammannite dai rotocalchi, e però
tanto più sottile dev'essere là spiegazione del fenomeno quanto più epidemica è l'apatia degli italiani a leggere. Non meno vasta è l'eco della critica,
la quale, nel proposito di alcuni, sembra debba avere la funzione deliberata
di smontare gli entusiasmi, non d'intenderli e spiegarli : le interpretazioni
più disparate hanno subito invaso il campo. Da un lato i benevoli senza riserve, dall'altro gli stroncatori ; Nord e Sud è venuta promuovendo un ampio dibattito, quasi ad avvicinare le posizioni ; e, quali che possano essere
i risultati risolutivi, resterà il merito di aver tentato di offrire agl'intenditori
equanimi i vari orientamenti del gusto di larghi strati del pubblico, e non
si potrà prescinderne, in un ulteriore discorso. Già il Falqui (in Fiera Letteraria, 14 giugno 1959) cercava di sbrigliare la matassa, ma con un taglio
troppo gordiano, in verità, che non risolve nulla : l'abbaglio di gente frettolosa, che fa calca con l'aria di aver capito tutto e bene e con leggerezza
crea la fortuna o la sfortuna di un libro. Ma, a parte che il bandolo rimane
ancora nascosto nel suo garbuglio, il libro è piaciuto e piace anche a leg.gitori non frettolosi e non sprovveduti, nè certo per via del « fascino dell'opera unica » o della « arietta di pervicace reazionarismo » o dello « odoruccio di macerato sensualismo », che non sono certo categorie estetiche che
possano determinare precisi assentimenti di gusto. Semmai, a noi pare di
dover temere che sia accaduto l'opposto : ossia, che gli odorucci e le ariette
-abbiano forse dato nel naso proprio ai lettori più esperti e più smaliziati,
sino al punto da compromettere seriamente la funzionalità del senso critico.
Non è, per caso, sintomatico che nelle insidie di cotesto empirismo siano finiti per incorrere giudici come Falqui (in Fiera Letteraria, nn. del 14 e 21
.giugno) e come Alicata (in Contemporaneo; n. di aprile ?).
Non si presume, ora, di sciogliere enigmi, che del resto non ci sono. Il
romanzo di Lampedusa, si voglia denominarlo storico o sociale o psicòlogico
ancora generi letterari ! ha la sua struttura interna di ragioni e di
idee, la sua atmosfera poetica, la verità psicologica dei suoi personaggi, e
questo basta perchè possa vantare validità artistica, e possa piacere. La tec94
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nica narrativa, ci è capitato di ripeterlo in altra occasione, è quanto di più
liberamente personale non si abbia mai diritto di contestare alla fantasia
dell'artista ; e però, i salti cronologici dal '60 allo '83 al '910 rientrano nell'articolazione di una tecnica che non intende tracciare il profilo storico di
un'epoca nelle sue ombre fatali o nella precarietà delle sue illusioni (il Gattopardo non è Il Marchese di Roccaverdina, nè I Vicerè), ma vuole soltanto
ritrarre la contraddittorietà dell'esistenza di un uomo, anzi dell'uomo, sbalestrato dalla sorte a consumare i suoi anni in una solitudine forzata, più
imposta dalla natura de]. proprio io, abbarbicato a preconcetti di classe, che,
dalla necessità delle circostanze storiche. A proposito, bene ha osservato il
Grisi (in Fiera Letteraria 26 aprile): « il fatto storico non è visto oggettivamente, dominante la scena e i personaggi, ma è visto come filtrato attraverso,
le sensazioni, la spiritualità e la testimonianza psicologica dei protagonisti »
come nella narrativa migliore, dei Pavese dei Vittorini dei Pratolini, nata
dal clima della Resistenza.
Seguiamo brevemente il principe di Salina nella trama del romanzo. Lo,
si vede crucciato e scettico la sera della recita del rosario, e poi pensoso e
ironico sul cadavere del soldato borbonico, venuto a morirsene, solo, sotto,
un albero di limone nel suo giardino : la complessa figura di questo attore,
che recita suo malgrado una parte ormai deteriorata nel copione, per usareuna sua immagine, risalta dalle prime pagine. L'incontro col re Ferdinando,.
di poco dopo, serve a rivelarci un altro aspetto della sua natura : la ripugnanza al fanatismo, anche mascherato di regalità, e alle improntitudini degli
uomini che si credono designati dalla Provvidenza a reggere i destini dei
popoli. Lo sbarco garibaldino del '60 è il fatto nuovo, e nella scia delle sorprese, delle illusioni e delle paure che ne derivano, si muove il protagonista
e attorno a lui, la folla dei minori. La secolare monotonia dell'isola è rotta.
bruscamente, nelle campagne, nelle coscienze, nelle attese. Don Fabrizio avverte il soffio rivoluzionario di quell'evento, per una superiore sensibilità,
che lo stacca dall'ambiente che è suo e anzi lo pone in conflitto con esso.
La ripetizione meccanica di vecchie abitudini nella casa Salina, come la recita.
del rosario a sera, è l'ultimo rifugio di una apparente vita interiore, svuotata ormai dell'anima e puntellata solo nelle forme, e in essa si esaurisce la
funzione storica di una classe sociale. Tutto è guasto nel palazzo del principe:
dalle cose alle persone; dallo stemma del gattopardo, tronco nelle gambe dalle
sassate, all'ultimo rampollo della prosapia felina, che è quel melenso di Paolo.
Il rovinio del vecchio mondo si fa sempre più sordo e più esteso. Il gesuita don
Pirrone è un'autorità senza credito, come un'ombra fatua di antichi imperi
dello spirito; tanto che il principe se lo trascina con sè, al guinzaglio, testimone
dei suoi capricci notturni con Mariannina; la moglie e le figlie sono inghiottite
come ciarpame nell'etichetta e nel cerimoniale. L'inquietudine di don Fabrizio,
non investe soltanto le smanie arrivistiche dei vari don Candeloro Sedara, ma
anche le santoccherie di Stelluccia (si rilegga quella strana apologia del peccato che è a pagina 38), e le rughe premature solcate sui volti pallidi e assenti di
Carolina e Caterina accrescono il suo umor nero, quanto più prepotente diventa.
la bellezza di Angelica, figlia di don Candeloro. Il risentimento del principe„
pertanto, ha anche radici affettive, oltre che politico-sociali. Accetta la fatalità del destino della sua casa, ma si rifiuta di giustificarne le conseguenze.
Ha della vita una concezione sanamente naturalistica, che non gli fa depre95
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care l'inevitabile e trasforma la ribellione in rassegnazione eroica. Se nel
dialogo col re Ferdinando non è difficile ravvisare il fiuto storico della sua
intelligenza di meridionale, bisogna anche convenire che non meno aperta e
violenta è la sua avversione alla classe dirigente della vita politico-sociale
e spirituale d.ell'isola; sicchè cotesta capacità in lui di sdoppiamento, delle
responsabilità della classe, cui appartiene per tradizione e per sangue, e dei
diritti alla . vita, contesi dal la nuova realtà storica alla sua famiglia, conferisce al personaggio i contorni di una tragedia umana che lo pone al di sopra
delle schermaglie di classe. In tale prospettiva psicologica, il quadro degli
avvenimenti del '60 e del '62 gli si scompone in un giudizio soggettivo e arbitrario, ch'è di condanna, di dissenso integrale. ll suo pessimismo diventa
cosmico : vedi il discorso col l'ambasciatore piemontese Chevalley, che gli offre
un seggio onorario al senato, a nome di Vittorio Emanuele. Quella sua filosofia della storia siciliana non ha nulla di categorico e di programmatico, in sé,
perchè non esprime conclusioni maturate nel rovello di una indagine che abbracci veramente, come pure fa sembrare, secoli e secoli di storia isolana;
compendia, piuttosto, ragioni prossime e remote di un disappunto sentimentale, che solo ora, in occasione del fatto nuovo, rivela il suo volto e il suo
spirito. La solitudine scontrosa del principe, come ha creato prima il deserto
nella sua famiglia, così crea ora il vuoto nell'intera isola; quel suo disgusto
insomma, che dalla classe sociale ritornava nell'ambiente della famiglia,
raggiunge ora la stessa fenomenologia della vita isolana, quale gli salta allo
occhio, annebbiato dalla tristezza delle cose, e alla immaginazione, corrosa
dalla ipocrisia degli uomini : in perfetta coerenza psicologica e artistica. Non
occorre, quindi, attribuire un peso eccessivo alle sue enunciazioni di sapore
metafisico, e tanto meno sentenziare di « nichilismo », come fa il Falqui, o
di « oscurantismo », come preferisce l'Alicata. Che don Fabrizio, poi, sia o
non il prestanome delle convinzioni retrivistiche dello scrittore, importa ancora meno ai fini di una valutazione artistica.
La figura del principe di Salina, così da noi vista e interpretata, riflette
le incertezze e i laceramenti propri di tutte le età di transizione; con qualche
lieve ritocco, potrebbe indossare i panni del borghese irrequieto di oggi, se
munito, almeno, di una dose non avara di umanità e di sensibilità. L'addentellato storico, ripetiamo, è espediente tecnico, che non inficia la validità universale del personaggio, e neppure la determina; e pertanto, non è lecito
parlare di naturalismo storico e d'insufficienza critica del romanziere, o accusare l'uomo Lampedusa di soggettivismo moralistico, individuandovi il limite
delle sue attitudini di narratore.
Il capitolo di padre Pirrone a San Cono e quello ultimo delle reliquie,
come s'innestano nel tronco degli avvenimenti, tutti incentrati intorno al principe di Salina ? La deviazione dal tema centrale non è fin troppo evidente
Infatti, sono stati affacciati non pochi dubbi in merito, e spesso in maniera
grave : l'Alicata scrive che il libro « oscilla fra una raccolta di racconti sullo
stesso tema e il riassunto squisitamente letterario di un romanzo più vasto,
che avrebbe potuto e non fu invece mai scritto ». Vediamo. Padre Pirrone,
nell'interesse artistico dello scrittore, cede il campo solo a don Fabrizio; « lo
credevamo un semplice dori Basilio, commenta il Montale (in Corriere della
Sera, 12 dic. '58), e invece pretende tutto un capitolo a sè, rivelandosi di
colpo buon cristiano e uomo assennato ». Anzitutto buon gesuita, aggiungiamo
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noi, come lasciano intravedere le sfumature della sua anima, duttile e ac c- omodante; per , es. in quella lungagnata di assiomi, di aforismi e di facezie,
inflitta al povero erbuario, che peraltro non riesce a .ricavarne un costrutto.
La filosofia della storia del principe di Salina è l'eco di un dolore secolare
che il Gattopardo si porta con sé nella tomba, con la gelosia ombrosa di un
enigma irrisolto e forse irresolvibile; ma la filosofia della storia di Padre
Pirrone trabocca nel fanatismo delle disuguaglianze sociali, umettato di un-.
zioneelle pseudoevangeliche.
Una equivoca ricchezza spirituale spesa a servizio della consorteria. Tra
i rustici del suo paese e della sua gente, vuole ad ogni costo dar ragione
del suo apostolato tra gli aristocratici delle città, e l'atteggiamento non può
che essere goffo. A noi sembra di trovarci di fronte ad una autentica satira
ecclesiastica, con un rifatto don Pirrone, che discetta, alla presenza di un
erbuario, addirittura della necessità storica della nobiltà, come se. si trattasse
di un dogma teologico. E il don Pirrone del cap. V è il don Pirrone di tutto
il romanzo.
Tuttavia, è una satira ecclesiastica che non esclude la catarsi umana del
gesuita; il quale si riscopre .« buon cristiano », al contatto della meschinità
degli asti domestici del suo parentado, nello squallore della miseria materiale
che è anche morale, e smonta la protervia dello zio e ripara l'offesa della
nipote sedotta, con la saggezza degli umili che proviene dalla legge cristiana
dell'amore. Questo gesuita, che è capace di allestire .due linguaggi e due
misure, è mantenuto rei limiti di una rappresentazione ironica costante dalle
prime alle ultime scene, e nell'economia del romanzo assolve un ruolo si/ gnificativo: se il principe incarna la coscienza critica di una classe, volta al
declino senza rimedi, don Pirrone simboleggia l'arretratezza di ogni concezione fideistica e rinunciataria della storia e dei rapporti sociali.
Inoltre, nel caso dei due maggiori personaggi, ci sembra quasi -superfluo
aggiungere che, se per un verso l'oggettivazione narrativa è così eqùilibrata,
che non riesce mai a detrimento dell'arte l'evidente intenzione polemica allo
indirizzo di costumi e istituti, tuttora vivi nella realtà siciliana (1- 1 Gattopardo non è um pamphlet ideologico o un libello anticlericale), per l'altro il
significato ideale del libro è così sapientemente disposto nella dialettica dei
due stessi personaggi, da escludere il proposito dilettantistico dell'autore di
comporre un romanzo fuori delle ragioni vitali del nostro tempo.
L'ultimo capitolo si vorrebbe tagliare fuori, solo perchè ha in fronte la
data del '910. Il precedente riguarda la morte del principe, immaginata nello
'83. Nessuno. iato, crediamo noi, nel tessuto fantastico della vicenda, la quale
non abbraccia solo personaggi ma anche atteggiamenti. 11 filo storico interessa assai meno di quello ideale, all'autore del Gattopardo; d'altronde
mosfera storica e sociale dell'ambiente è già delineata sufficientemente nei
capitoli centrali. Angelica e Tan.credi, il senatore Tassoni e le tre sorelle divengono figure compiute proprio in virtù del capitolo VIII Resta sempre la
loro funzione complementare di contrappunto al protagonista di quel inondo
e di quel travaglio che è don Fa Inizio; ma la gamma delle gradazioni psicologiche, dí quel mondo e di quel travaglio, si arricchisce artisticamente
col contributo di questo capitolo finale. la stesso gorgo che in tempi diversi inghiotte tutti. Angelica era la giovinezza . fiduciosa e ansiosa, il richiamo irresistibile di Tancredi e delle sue fortune, e qui ricompare sfiorita
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e stanca, simbolo melanconico della fugacità di ogni illusione umana. Del
giovane Falconeri, brioso e cinico, calcolatore e sognatore, un misto di astuzie aristocratiche ,e d'ingenuità popolane, rimane appena qualche labile rimpianto, in quella casa che fu piena, del suo nome e del suo trionfo. Più desolata, nelle manie senili del culto di false reliquie di santi e nella ottusità
superstiziosa, è ancora la fine delle tre figlie del Gattopardo: una sorta di
Sorelle Materassi della bigotta aristocrazia siciliana. Persino il cane Bendicò,
impaglialo e teneramente custodito a scorno di un'epoca più che a ricordo
del padrone, si scaraventa ora da una finestra del palazzo Salina, e il mucchietto di pòivere livida », in cui quell'inutile simulacro si disgrega, è la
sorte stessa dei gattopardini superstiti: il profilo beffardo di don Fabrizio
riaffiora per un istante dalla memoria, e il romanzo si chiude con la rievocazione amara dell'unico confidente del principe, che era stato il cane Bendicò.
Ma riteniamo anche che non bisogna sopravvalutare i due ultimi capitoli,
sino al punto da ricondurre l'essenza poetica e il valore ideale del romanzo
proprio al tema della morte. Anzitutto, quell'i►magine della morte (in fondo
al capitolo VII), raffigurata in una giovane dama civettuola, ha tutta l'aria di
una ipotiposi, assai goffa, della peggiore arcadia . lugubre e galante insieme:
stona troppo con la natura del fiero Gattopardo. E poi, c'è il paesaggio siciliano, non importa se triste, e tutta la storia della Sicilia, anche se dolorosa,
che passano nell'anima di don. Fabrizio, a convincerlo della perennità dei
travagli umani; e dove continua lo sforzo dell'uomo, non c'è la morte, ossia
la rinuncia, ma la trasformazione, ossia la legge stessa della storia. Assai
suggestiva, invece, la scena della stanza d'albergo in faccia al mare, dello
stesso capitolo; il principe invecchiato, su questo sfondo, pare come sospeso
tra il finito dell'esistenza umana • e l'infinito della natura cosmicà; il brusio
dei congiunti non è che l'ultimo atto della tragicommedia della vita. Il tutto
espresso e ritratto dallo scrittore coi]. sincera adesione di simpatia, senza
tuttavia le.. svenevolezze dei deliqui crepuscolari. L'andamento stilistico asassume il ritmo di una trenodia serenamente classica, con in più, della modernità, qualche tinta arguta e maliziosa, che fa di queste pagine le più intensamente liriche del romanzo. Quella di don Fabrizio è meno aristocrazia
del sangue che dello spirito: al pensiero delle morte, che inatteso e violento
lo coglie fra gli androni mondani del palazzo Pallavicino, reagisce colla risoluzione di chi non vede nella morte la fine delle cose ma il significato
delle stesse, e la malinconia trapassa nell'umorismo. All'invito di un giro di
danza' da parte di Angelica, si sente ringalluzzito, come l'antico eroe affogava
la mischia del giorno nel licore generoso; la cripta dei cappuccini e il progetto dei restauri alla tomba gentilizia e l'incubo dei cadaveri appesi per il
collo e mummificati lungo i muri, si. fermano per un istante solo nella immaginazione, divertita quasi, più che sgomenta. La sua ribellione non risparmia neppure questo aspetto macabro delle tradizioni della casata, in nome della natura, che non è puro e semplice predominio dei sensi, e della
storia, che non è rinnegamento della vita per chi sappia comprenderla. Questo ci sembra il significato più esatto dell'umorismo del principe, esploso subito dopo la contemplazione del dipinto di Greuze, La morte del Giusto.
Intorno alla lingua e alla prosa del Gattopardo non occorrono molte
parole. Se sono indubbiamente elette, non scadono mai nelle preziosità parnassiane del tardo decadentismo, come a taluni è piaciuto sofisticare ; sono
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filtrate attraverso una sensibilità di gusto formata sui classici antichi e moderni, al di qua di ogni sperimentalismo provinciale. É vero: nell'esasperatezza di alcune diagnosi psicologiche qua e là s'insinuano venature pirandelliane e joyciane, per una certa predilezione non al paradosso delle situazioni
ma degli accostamenti aggettivali e analogici, e talora si mescolano anche
punte di verbalismo ed erotismo dannunziano - come nelle pagine del ciclone amoroso di Tancredi e Angelica, oppure nella descrizione del ballo in
casa dei Pallavicino - ; ma sono da .considerarsi piuttosto quali espedienti
stilistici atti a creare quella particolare atmosfera . d'ironia e di satira che
interessa allo scrittore; e, comunque, non vengono certo meno la compattezza
e la limpidezza dell'insieme, che altro poi non sono che l'immagine fedele
della cristallinità dell'ispirazione e della perseveranza, veramente rara, della
meditazione e dell'elaborazione. Senza dire che, certamente, l'ultima mano,
di fatto mancata, avrebbe potuto avere qualche motivo di perfezionare, e
forse lì dove meno si è suppusto e si suppone. Peraltro l'impressione delle
prime pagine perdura sino all'ultima, ed è di un romanzo che vuole abbracciare una temperie spirituale, più che un periodo storico, concentrata in una
anima che ha tutte le risorse e tutti i limiti dell'uomo di sempre.
NICOLA CARDUCCI
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