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L`uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica
Massimo Recalcati L'UOMO SENZA INCONSCIO Figure della nuova clinica psicoanalitica Raffaello Cortina Editore www.raffaellocortina.it ISBN 978-88-6030-302-8 © 2010 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2010 Stampato da Consorzio Artigiano LVG, Azzate (Varese) per conto di Raffaello Cortina Editore Ristampe 1 2 3 4 5 6 7 2010 2011 2012 2013 2014 2015 INDICE Introduzione Parte prima Il disagio della Civiltà ipermoderna Capitolo I Estinzione dell'inconscio? Una recente mutazione antropologica Capitolo II Evaporazione del Padre e discorso del capitalista Capitolo III L'ideologia ipermoderna del benessere: l'ideale della salute o il reale del sintomo? Parte seconda Anoressie Capitolo IV Separazione e rifiuto: considerazioni sulla scelta dell'anoressia Capitolo V L'icona anoressica del corpo magro Capitolo VI Corpo, angoscia e anoressia Capitolo VII Panico e anoressia Parte terza Sintomi contemporanei Capitolo Vili Le nuove forme del sintomo: considerazioni metapsicologiche e cliniche 141 Capitolo IX Il corpo alla moda: intorno ad alcuni nuovi sintomi femminili 161 Capitolo X La clinica della maschera e le nuove patologie dell'identificazione 177 Capitolo XI L'impero della sostanza: note sul soggetto tossicomane 195 Capitolo XII Depressioni contemporanee 219 Capitolo XIII Paranoia e ambivalenza: il lavoro paranoico come antilutto 237 Capitolo Alopecia XIV della parola. Osservazioni su un caso di fenomeno psicosomatico 263 Capitolo XV psicoanalitico di fronte alle nuove Il trattamento forme del sintomo 275 Appendici Meditazioni sulla pulsione di morte 291 L'eclissi del desiderio e il totalitarismo postideologico 305 Bibliografia 327 Indice dei nomi 335 Ai miei amici e colleghi dell'i. R.P.A., ai nostri allievi, a una visione di fine estate sulla spiaggia di Grottammare L'avvenire della psicoanalisi dipende da quello che avverrà di questo reale, cioè se i gadget, per esempio, vinceranno veramente la partita, se noi stessi giungeremo a essere veramente animati dai gadget. J. LACAN, La terza INTRODUZIONE È un errore considerare il soggetto dell'inconscio come un dato di natura, o peggio come un'essenza sovrastorica immune dalle trasformazioni sociali. E un errore anche pensare che la sua esistenza sia garantita in quanto espressione ontologica della realtà umana. Di conseguenza è, a mio giudizio, un grave errore non contemplare la possibilità disastrosa che il soggetto dell'inconscio possa declinare, eclissarsi, persino estinguersi. Anche per questa ragione Jacques Lacan ha sempre insistito sulla necessità di evitare di attribuire all'inconscio uno statuto ontologico mostrandone invece la valenza eminentemente etica o, come si esprime in apertura del Seminario XI, "preontologica". 1 Perché il soggetto dell'inconscio preservi la sua forma specifica di esistenza è necessario che la psicoanalisi installi la condizione della sua operatività. Non c'è soggetto possibile dell'inconscio se non attraverso l'esperienza della psicoanalisi. Per questa ragione Lacan poteva affermare, non senza un certo gusto per il paradosso, che lo psicoanalista è parte integrante del concetto di inconscio. 2 In questo libro avremo modo di studiare le condizioni cliniche e sociali che disattivano (tendenzialmente) il funzionamento del soggetto dell'inconscio. Le forme attuali della psicopatologia (dipendenze patologiche, anoressie, depressioni, somatizzazioni, attacchi di panico) sembra confermino, con una virulenza drammatica, questa possibilità di una estinzione del soggetto dell'inconscio, di una sua progressiva abrogazione. La psicopatologia tradizionale ci aveva già confrontati con forme ra1. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), tr. it. Einaudi, Torino 1979, p. 30. 2. "Gli psicoanalisti fanno parte del concetto di inconscio perché ne costituiscono la destinazione "; vedi J. Lacan, Posizione dell'inconscio, tr. it. in Scritti, Einaudi, Torino 1976, p. 835. IX dicali di rifiuto del soggetto dell'inconscio: il lavoro della paranoia e quello della melanconia vengono descritti da Freud e da Lacan come lavori antagonisti al lavoro del soggetto dell'inconscio. Nell'attualità questo antagonismo al soggetto dell'inconscio sembra informare tutte le forme prevalenti della psicopatologia. Se il grande passo di Freud è stato quello di mostrare che il soggetto dell'inconscio era l'artefice di tutte quelle manifestazioni della realtà umana che sfuggivano al dominio intenzionale della coscienza (sogni, sintomi, lapsus, sbadataggini, dimenticanze, motti di spirito, coazioni a ripetere) e che avevano il potere di imprimere alla sofferenza sintomatica il carattere metaforico di un messaggio cifrato, di un discorso singolare, eccentrico a ogni discorso comune già stabilito, il quale esigeva di essere ascoltato e interpretato, l'attualità della clinica ci confronta sempre più frequentemente con forme della sofferenza che sembrano aver interrotto ogni contatto con l'inconscio, che, più radicalmente, sembrano decretare in primis non tanto e non solo la morte della psicoanalisi, come si sente frequentemente dire, ma la morte, assai più grave, del soggetto stesso dell'inconscio. Cosa ci insegnano le nuove forme sintomatiche della clinica contemporanea? Ci insegnano che in esse non è più in gioco primariamente il desiderio del soggetto come manifestazione principe del soggetto dell'inconscio, ma il suo annullamento nichilistico. E ci insegnano pure che questo annullamento tende a manifestarsi secondo due direttrici fondamentali: come rafforzamento narcisistico dell'Io che dà luogo a identificazioni solide che irrigidiscono sterilmente l'identità soggettiva o come un'esigenza imperiosa di godimento che travalica ogni principio di mediazione simbolica per imporsi come un comandamento tanto assoluto quanto mortifero. E così che in questo libro propongo di differenziare in due grandi capitoli la nuova clinica psicoanalitica: il capitolo della clinica delle identificazioni solide e il capitolo della clinica dello strapotere dell'Es. L'"evaporazione del Padre", per usare una felice espressione di Lacan3 sulla quale ritorneremo frequentemente, costituisce lo sfondo sociale delle profonde trasformazioni che hanno investito la psicopatologia. Soggetti spaesati, alla deriva, vuoti, privi di punti di riferimento ideali, ingessati in identificazioni conformistiche, indifferenti, chiusi monadicamente nelle loro nicchie narcisistiche, prigionieri delle loro pratiche di godimento dove l'Altro è assente; legami liquidi, sbriciolati dalla potenza idolatrica dell'oggetto di godimento offerto illimitatamente dal sistema globale del mercato, sempre a disposizione, conti3. Vedi J. Lacan, "Nota sul padre e l'universalismo", tr. it. in La psicoanalisi, 33,2003, p. 9. guo, adesivo, incalzante; legami morti, privi di desiderio, asettici, smembrati, fragili, inconsistenti, legami che riducono la dimensione dell'incontro con l'Altro alla riproduzione monotona dello Stesso. Questo libro interroga l'epoca ipermoderna come l'epoca dell'evaporazione del Padre provando a inquadrare le cosiddette nuove forme del sintomo all'interno di questo passaggio epocale. L'epoca ipermoderna è l'epoca dell'individualismo atomizzato che s'impone sulla comunità, è l'epoca del culto narcisistico dell'Io e della spinta compulsiva al godimento immediato che stravolgono il circuito sublimatorio della pulsione imponendosi nella forma di un inedito principio di prestazione che situa il godimento stesso come nuovo dovere superegoico. Tutte le forme contemporanee del disagio della civiltà, tutta la nuova psicopatologia con la quale lo psicoanalista oggi si deve confrontare riflettono questa duplice tendenza: da una parte l'individuo staccato dalla comunità, atomizzato, ridotto a pura maschera sociale, prodotto di una identificazione solida, disinserito dai legami per un eccesso di alienazione ai sembianti sociali; dall'altra parte, la spinta della pulsione che rifiuta la castrazione simbolica e la sua necessaria canalizzazione sublimatoria per imporsi come una spinta sadiana al consumo dell'oggetto, come esigenza imperativa di ottenere un godimento senza passare dall'Altro. Si tratta di una contraddizione che attraversa il nostro tempo: chiusura monadica, ritiro libidico, compattamento narcisistico, indifferenza, apatia, rifiuto dell'Altro, adattamento passivo e conformista alle insegne sociali e tracimazione del godimento nocivo, compulsione per il nuovo, ricambio febbrile dell'oggetto, volatilizzazione dell'esperienza. Il passaggio dal postmoderno all'ipermoderno, anche come viene apertamente teorizzato da Gilles Lipovetsky,4 mette in evidenza come l'emancipazione dai modelli ideali rigidi della modernità non accentui più solo la "gadgetizzazione della vita", il culto frivolo ed effimero del godimento, la fluidità vacua dei piaceri, ma generi fenomeni di insicurezza e di angoscia diffusa dove è la vulnerabilità del soggetto a essere in primo piano. Lo sanno bene gli psicoanalisti: senza l'ombrello protettivo del Padre l'insicurezza dell'esistenza emerge senza più schermi difensivi. L'epoca ipermoderna non è allora solo l'epoca dell'alleggerimento della vita dai pesi ingombranti degli Ideali, ma è anche l'epoca della vita alla deriva, caotica, spaesata, priva di punti di riferimento, destabilizzata, smarrita, vulnerabile; della vita che si rifugia in identificazioni solide o che si dissipa in legami liquidi con l'oggetto di godimento. 4. Vedi G. Lipovetsky, Les temps hypermodernes, Grasset, Paris 2004, p. 60. Jacques Lacan, in una celebre conferenza milanese del maggio del 1972, ha provato a formulare il mathema preciso di questo nuovo sfondo sociale attraverso la figura concettuale del discorso del capitalista che costituisce un polo teorico rilevante per la mia riflessione.5 L'epoca dominata dal discorso del capitalista definisce lo spazio dell'ipermodernità come quello spazio che si genera dall'esaurimento della funzione orientativa e strutturante dei grandi ideali moderni, sulla depoliticizzazione, sulla desacralizzazione, sulla demitizzazione, sull'affermazione incontrastata del potere globalizzante del mercato, sull'iperattività fondamentale dell'individualismo edonistico, sulla volatilizzazione e sull'accelerazione maniacale del tempo. Il tempo ipermoderno è un tempo nel quale la desostanzializzazione del soggetto e il suo affrancamento dalla pesantezza e dalla rigidità degli ideali della tradizione espongono 0 soggetto stesso a un vuoto insensato, a una "apatia frivola" che paralizza la sua vita emotiva.6 E qualcosa che ritroviamo in certe analisi di Lipovetsky: l'"estasi del nuovo", l'esaltazione euforica dell'attualità come tempo dell'"iperconsumo", l'assolutizzazione di un "presente perpetuo" come aveva avuto modo di predire Orwell in 1984. "Consumare senza attendere, viaggiare, divertirsi, non rinunciare a niente: alle politiche dell'avvenire radioso subentra il consumare come promessa di un presente euforico". 7 L'epoca ipermoderna è, in questo senso, l'epoca dell'impero del discorso del capitalista nel quale la macchina del godimento sostituisce la macchina della rimozione. La caduta degli ideali della tradizione e delle forme disciplinari di regolazione della pulsione - il cui centro metapsicologico è costituito dall'attività della rimozione - ha lasciato il posto al culto sfrenato di un consumo che, come fa notare Lacan, consuma nichilisticamente se stesso in una circolarità diabolica. Ma qui le analisi di Lacan si discostano nettamente da quelle di Lipovetsky perché manca al sociologo francese la categoria di godimento e quella di pulsione di morte, senza le quali il rischio di enfatizzare l'estasi ludica e il reale come puro sembiante è sempre in agguato. Lacan condivide l'idea di fondo di Lipovestky che il tempo ipermoderno non abbia più nulla di tragico, non sia più il tempo di Antigone. Ma per Lacan non è Yhomo felix il protagonista di questo tempo ma 5. J. Lacan, "Del discorso psicoanalitico", tr, it. in Lacan in Italia (a cura di G. Contri), La Salamandra, Milano 1978. 6. Vedi G. Lipovetsky, L'ère du vide. Essais sur l'individualisme contemporain, Gallimard, Paris 1993, p. 74 e pp. 108-109, 7. G. Lipovetsky, Les temps hypermodernes, cit., p. 59. piuttosto l'uomo del godimento promosso dal marchese De Sade. Per questo egli non trascura affatto il fattore mortifero che abita il godimento quando esso si sgancia perversamente dal desiderio. E ciò che accade nei legami sociali ispirati dal discorso del capitalista. Questo discorso si configura in effetti come una macchina del godimento che prescinde dalla dialettica della rimozione: il godimento dissipativo della pulsione di morte, strutturalmente antagonista e alternativo a quello del desiderio, trascina il soggetto in una deriva autistica che lo separa dall'Altro. È questa una tesi metapsicologica dell'ultimo Freud: la potenza del Todestrieb è una potenza che rompe gli argini di Eros, scioglie il legame del soggetto con l'Altro, distrugge e devasta la vita disinserendola dal campo dell'Altro. In questo senso questo libro sostiene la tesi che la clinica contemporanea è sempre meno una clinica del desiderio e sempre più una clinica della pulsione di morte. Al suo centro non c'è più la problematica, centralissima nella nevrosi, delle vicissitudini della vita amorosa e delle sue interrogazioni soggettive: Posso accettare il rischio dell'amore? Posso trovare un amore che non generi solo insoddisfazione? Posso unire l'amore al godimento? Posso amarne una sola senza volerle tutte? Posso trovare un partner che non abusi di me? Posso amare come una donna e non come una madre? Posso evitare che ogni mio amore si trasformi in merda? Posso esserle fedele? Posso esserle infedele? Posso sopportare la sua mancanza? Posso amare la sua mancanza? Queste interrogazioni costituiscono ancora oggi il cuore della problematica amorosa della nevrosi, ma sembra non occupino più alcun posto nel discorso del soggetto ipermoderno. Anche per questa ragione definiamo la nuova clinica come una clinica antagonista al discorso amoroso, come una clinica dell'antiamore. Questo significa che nei nostri nuovi pazienti non è più decisiva la difficoltà nevrotica di assumere, soggettivandolo, il proprio desiderio - di togliere la rimozione, nel linguaggio di Freud - , quanto la difficoltà di dare un senso alla propria vita, di avere delle passioni feconde, di animare la propria esistenza la quale appare invece come trascinata da una spinta acefala verso un godimento maledetto, nocivo alla vita, rovinoso, non inquadrato dal fantasma, non articolato al soggetto dell'inconscio, oppure bloccata sterilmente in un arroccamento difensivo, in una apatia indifferente, in una pseudoidentità che risulta dall'alienazione passiva alle insegne sociali. Il soggetto ipermoderno, diversamente dal soggetto nevrotico, appare come privo di senso di colpa eppure massimamente colpevole. La sua colpa consiste nel non assumere col coraggio adeguato la fatica del- l'esistenza e il programma inconscio del proprio desiderio. Non c'è assunzione etica del proprio desiderio, ma nemmeno la sua delega nevrotica. Si assiste piuttosto al suo annullamento, alla sua cancellazione, al suo aggiramento, alla sua negazione. E quello che mi colpisce maggiormente nei nostri nuovi pazienti: la dimensione del desiderio inconscio e della sua cornice fantasmatica sembra semplicemente non esistere più. L'uomo senza inconscio diventa così la figura inquietante che abita la scena del disagio contemporaneo della Civiltà. Si tratta di un soggetto che tende a liquidare l'esperienza freudiana dell'inconscio come esperienza della verità, della differenza e del desiderio. Il consumo tossicomanico di sostanze, l'ipnosi narcisistica dell'anoressica, la spinta al divoramento compulsivo della bulimia, lo spaesamento del soggetto panicato, il ritiro libidico del depresso, la solitudine apatica dell'obeso, la lesione silenziosa di certi fenomeni psicosomatici, l'identificazione desoggettivata e conformistica ai sembianti sociali dominanti, la fatica crescente di esistere, di dare un senso alla propria presenza nel mondo, la fuga nella normalità come maschera di un falso adattamento definiscono il campo variegato della clinica contemporanea dove non è più il soggetto dell'inconscio a essere protagonista ma un uomo che appare, appunto, come sganciato, "disabbonato" come direbbe Lacan, separato drasticamente dal proprio inconscio. La tesi sostenuta con vigore da Bauman e divenuta con successo una chiave di lettura della nostra epoca considerata come l'epoca dei legami liquidi, alla luce delle trasformazioni più recenti della psicopatologia, non è scorretta ma deve essere integrata. La liquidità è, infatti, solo un aspetto della Civiltà contemporanea. Attraverso di essa si manifestano gli effetti della dissoluzione della funzione orientativa dell'Ideale edipico che aveva cementato la società moderna. L'altro aspetto del disagio contemporaneo della Civiltà che dobbiamo registrare è quello delle identificazioni solide, come vengono definite in questo libro, ovvero quelle identificazioni che segnalano la tendenza del soggetto alla chiusura autistica, alla pietrificazione, alla solidificazione narcisistica come risposte estreme alla liquefazione generalizzata dei legami sociali. In questo senso con il doppio riferimento allo "strapotere dell'Es" (formula con la quale originariamente Freud indicava la condizione del soggetto psicotico) e alle "identificazioni solide" intendo definire il campo di oscillazione della nuova clinica; da una parte l'aspetto incandescente, caotico, infernale, distruttivo della ripetizione pulsionale, dall'altra parte la tendenza del soggetto contemporaneo a dare vita a identificazioni compatte, pietrificate, irrigidite, senza crepe che ap- paiono come delle isole autistiche nel mezzo della liquefazione diffusa dei legami sociali. Se lo strapotere dell'Es trascina il soggetto verso la devastazione pulsionale, le identificazioni solide gli offrono l'illusione di una consistenza immaginaria che promette falsamente di salvare la vita da una deriva mortifera. Da una parte abbiamo una clinica che si occupa della liquefazione del legame con l'Altro a partire da una incandescenza della dimensione del godimento pulsionale che appare come non regolato dalla castrazione e privo della cornice inconscia del fantasma; dall'altra parte abbiamo una clinica che si occupa delle patologie dell'identificazione, delle identificazioni solide, compatte, prive di flessibilità, rigide che tendono a offrire una padronanza illusoria al soggetto a prezzo della cancellazione della sua stessa singolarità desiderante. La prima è una clinica dell'Es senza inconscio, è una clinica dove domina la sregolatezza pulsionale, la spinta a raggiungere la scarica immediata, l'evacuazione delle tensioni interne, la tendenza compulsiva alla ripetizione di un godimento che prescinde dallo scambio con l'altro sesso, la tendenza ad agire, al passaggio all'atto, alla negazione di ogni mediazione simbolica (parola, pensiero), lo scivolamento verso un godimento mortifero, narcotizzante o devastante la vita. La seconda è invece una clinica dell'Io senza inconscio, una clinica dell'iperidentificazione, dell'immedesimazione alienante e conformistica ai sembianti dell'Altro, una clinica dell'armatura narcisistica, del governo disciplinare del corpo, della negazione di ogni esperienza dell'alterità, del rifugio nella maschera sociale, dell'indifferenza e dell'apatia, dell'assimilazione desoggettivata all'insegna sintomatica. Quello che accosta queste declinazioni alternative della clinica contemporanea (la prima hard, la seconda cool) è la comune cancellazione del soggetto dell'inconscio. Questa cancellazione si evidenzia innanzitutto nel declino della problematica soggettiva del desiderio e del discorso amoroso. La clinica dell'Es senza inconscio o dell'Io senza inconscio, la clinica della sregolazione pulsionale o delle identificazioni solide, è una clinica che non si istituisce più - come accade invece ancora nella clinica freudiana delle nevrosi - sulla dimensione singolare e indistruttibile del desiderio, ma sulla sua soppressione nichilistico-conformistica. Per questa ragione una delle tesi di questo libro è che la matrice delle cosiddette nuove forme del sintomo deve essere reperita nella clinica delle psicosi, del narcisismo e della perversione, nelle quali al centro non c'è l'istanza inconscia del desiderio ma la sua negazione nella forma di una prevalenza dell'agire pulsionale privo di articolazione simbolica o in quella di un aggiramento della castrazione - dalla quale invece il desi- derio, come insegna Freud, scaturisce - che sospende la differenza sessuale e l'angoscia dell'incontro con l'altro sesso. La liquidità del godimento e la solidità dell'identificazione annullano la potenza creativa del desiderio congelandolo in una monade separata dall'Altro o disperdendola in una ricerca del nuovo che, in realtà, non è altro se non la ripetizione mortifera dello Stesso. Come dobbiamo allora intendere questo disabbonamento del soggetto ipermoderno dall'inconscio? Come dobbiamo pensare questa tendenza all'estinzione del soggetto dell'inconscio, alla sua liquidazione sociale? Come possiamo articolare questa disinserzione del soggetto dal campo dell'Altro? Questo libro prova a rispondere a queste domande ricorrendo alla clinica psicoanalitica delle nuove forme del sintomo come forme antagoniste al lavoro dell'inconscio. La scommessa della psicoanalisi oggi non è più quella di portare la "peste" nella Civiltà borghese sconvolgendo il suo falso moralismo. Il secolo della psicoanalisi ha ampiamente metabolizzato quel virus con l'effetto, imprevisto dal suo fondatore, della sua parziale neutralizzazione e del suo addomesticamento. Soppiantata dalla diffusione degli psicofarmaci e dalle terapie cognitivo-comportamentali che pretendono di offrire soluzioni terapeutiche più efficaci e in tempi brevi, accusata di intellettualismo e di impotenza clinica, criticata nei suoi modelli epistemologici, giudicata, nella migliore delle ipotesi, un capitolo concluso della storia delle idee del Novecento, esclusa dal diritto di cittadinanza nella comunità della cosiddetta psicologia scientifica, ridotta a una superstizione ormai arcaica, la psicoanalisi oggi è obbligata a dare prove della sua forza anche confrontandosi con la nuova clinica. E questo un terreno privilegiato dove essa potrà rilanciare il suo progetto etico: mostrare che la cura dall'incombenza sempre più cupa della pulsione di morte e del suo potere devastatore non avviene nelle forme di una normalizzazione psicologica, come una ortopedia disciplinare dell'Io, ma può accadere solo riabilitando l'alleanza del soggetto col suo desiderio inconscio. La psicoanalisi è destinata a estinguersi se non ritroverà la ragione etica che fonda la sua pratica: rianimare il soggetto del desiderio, rendere il desiderio capace di realizzazioni creative, promuovere la singolarità irriducibile del soggetto come obiezione a ogni sua assimilazione conformistica. Noli, settembre 2009 PARTE PRIMA IL D I S A G I O D E L L A C I V I L T À I P E R M O D E R N A ESTINZIONE DELL'INCONSCIO? UNA RECENTE MUTAZIONE ANTROPOLOGICA IL DESERTO CRESCE II nostro tempo è il tempo nel quale, come si esprimeva Heidegger, "il deserto cresce". Ma che cosa significa, nella prospettiva della psicoanalisi, affermare che il nostro tempo è il tempo del deserto che cresce? Significa innanzitutto pensare che il nostro tempo è il tempo di un naufragio dell'esperienza del soggetto dell'inconscio, significa pensare che il nostro tempo è un tempo esposto al rischio di estinzione del soggetto dell'inconscio. Significa, più propriamente, pensare che il soggetto dell'inconscio non è un soggetto garantito per natura, non è un soggetto-essenza, ma un soggetto che è compito etico della psicoanalisi far esistere. Si tratta di una mutazione antropologica in corso: l'uomo senza inconscio sarebbe l'uomo ridotto all'efficienza inumana della macchina, al suo funzionamento automatico, privo di desiderio; sarebbe l'uomo animato da una spinta pulsionale acefala, imperativa, senza ancoraggio nella funzione simbolica della castrazione. Il deserto cresce, dunque, quando il soggetto dell'inconscio declina, quando il carattere, secondo Freud, "indistruttibile" del desiderio viene rigettato. IL SOGGETTO DELL'INCONSCIO Quale genere di esperienza è quella del soggetto dell'inconscio? Come si è articolata originariamente in Freud questa esperienza? Che tipo di esperienza è l'esperienza freudiana dell'inconscio? Solo se si prova a rispondere a queste domande si può cogliere il senso di quale mutazione antropologica provocherebbe la sua estinzione. Provo allora a ri- spondere isolando almeno tre caratteristiche essenziali dell'esperienza freudiana dell'inconscio. Prima caratteristica: l'esperienza dell'inconscio freudiano è innanzitutto un esperienza di verità. Ma non di una verità impersonale, universale, assoluta, archetipica, collettiva; la verità in gioco nell'esperienza analitica non è la verità trascendentale della filosofia, né la verità priva di contraddizione della logica e nemmeno la verità universale della religione. La verità che concerne l'esperienza dell'inconscio è una verità che ci tocca nella nostra intimità, nel nostro essere più singolare, nella nostra bizzarra, stramba, scabrosa, oscena e irriducibile particolarità. Tuttavia questa verità, essendo sempre in fuga, non coincidendo mai con la rappresentazione narcisistica di noi stessi, essendo sempre, come si esprimeva Lacan, nel soggetto ma trascendente il soggetto, 1 si dà solo come rimossa, si manifesta come un'esperienza di decentramento, di perdita di padronanza, di spiazzamento dell'Io. La verità analitica, infatti, non assume mai le forme ontologiche dell'adaequatio intellectus et rei poiché il soggetto non può avanzare nei suoi confronti nessuna pretesa di governo; non è mai il soggetto che la determina, essendone piuttosto, in una parola chiave dell'insegnamento di Lacan, "assoggettato". E questo il significato dell'apologo lacaniano della verità che si trova esposto in ha cosa freudiana. La verità parla solo laddove il soggetto si eclissa, laddove il pensiero e l'essere si disgiungono evidenziando che "io" non sono mai quello che penso di essere poiché il mio essere trascende sempre il mio pensiero. E quello che si esprime in ogni formazione dell'inconscio (lapsus, sogno, atto mancato, sbadataggine, sintomo): ciò che pensavo di essere si incrina di fronte a un'altra verità che sgorga nei punti di incertezza e di vacillamento della padronanza dell'Io. Diversamente da quanto si istituisce come certezza indubitabile attraverso il movimento del cogito cartesiano (cogito ergo sum), non solo io non sono quello che penso di essere, ma posso accostare la verità del mio essere soltanto attraverso il cedimento dell'illusione del governo razionale e autocratico di me stesso, del potere della mia "volontà di volontà", dell'affermazione narcisistica della mia immagine come autosufficiente. La verità dell'inconscio freudiano, in effetti, parla {"ga parie") solo dove ga souffre, ovvero solo dove si concentra il mistero spesso e pungente della sofferenza sintomatica del soggetto,2 dove il soggetto 1. Il soggetto dell'inconscio è un "soggetto nel soggetto, trascendente il soggetto", vedi J. Lacan, La psicoanalisi e il suo insegnamento, tr. it. in Scritti, cit., p. 429. 2. Vedi J. Lacan, La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi, tr. it. in Scritti, cit., p. 403. perde ogni padronanza su se stesso. In questo senso la verità analitica resta assolutamente eccentrica alla dimensione puramente teoretica della verità del logos filosofico e di quella puramente logico-formale e quantitativa di ogni ratio scientista. Seconda caratteristica dell'esperienza freudiana del soggetto dell'inconscio freudiano: l'esperienza dell'inconscio è un esperienza della differenza. Cosa significa? L'esperienza dell'inconscio come esperienza della verità mostra come l'incontro con l'inconscio implichi sempre un effetto di riduzione dell'Io, di alterazione, di erosione, di indebolimento della sua funzione di governo verticale della personalità. L'esperienza freudiana dell'inconscio non è mai un'esperienza di identità ma, casomai, di disidentità, di scompaginamento, di imbastardimento dell'identità; è esperienza del soggetto come differenza, come singolare assoluto, come non-comune, non-comparabile, non-uniformabile. Il soggetto dell'inconscio emerge sempre come una discontinuità nella trama costituita del discorso universale. Per questa ragione la psicoanalisi eleva alla dignità della verità tutte quelle espressioni apparentemente più infime e scabrose della vita del soggetto; il catalogo freudiano di queste espressioni (lapsus, motto di spirito, sintomo, atto mancato, sogno) riassume l'esperienza dell'inconscio come antiuniversale, non generalizzabile, resistente a ogni comparazione, perché vi può essere manifestazione dell'inconscio - in un lapsus come in un sogno - solo quando v'è caduta del discorso universale, solo quando l'omogeneità di questo discorso viene bucata dall'emergenza di una particolarità indomabile dal "senso comune" di ogni discorso già stabilito. Terza caratteristica: l'esperienza dell'inconscio è un 'esperienza del desiderio. Del desiderio, precisa Freud, in quanto "indistruttibile", ovvero impossibile da redimere, educare, governare, adattare. In questo senso l'indistruttibilità del desiderio evoca un nocciolo singolare che resiste a ogni addomesticamento, a ogni dressage normalizzante di tipo disciplinare. Il movimento del desiderio è un movimento insistente di apertura verso l'Altro. Non bisogna mai ridurre la forza del desiderio inconscio alla manifestazione di una interiorità psicologica. L'esperienza della indistruttibilità del desiderio è un'esperienza di apertura che rigetta ogni versione solipsistica dell'apparato psichico. L'apertura del desiderio, la sua trascendenza fondamentale, invoca l'alterità come radice ultima dell'esperienza dell'inconscio. In questo senso l'incontro col soggetto dell'inconscio porta con sé l'incrinatura dell'ideale morale dell'autosufficienza dell'Io e di ogni sua supposta impermeabilità sostanziale. Non c'è esperienza del desiderio inconscio se non come aper- tura all'Altro - a quell'Altro che abita il soggetto e a quell'Altro verso il quale il desiderio del soggetto si dirige oltrepassando i confini chiusi del proprio Io. E questo un altro aspetto dell'indistruttibilità del desiderio: esso è "indistruttibile" proprio perché non dipende dalla volontà dell'Io, non è portato dall'Io, non è deciso dall'Io, ma, al contrario, è ciò da cui la volontà dell'Io dipende, è ciò che porta l'Io, che lo rende, appunto, "assoggetto" (asujet, per Lacan). Per Freud questo collocava la matrice del desiderio umano nelle esperienze infantili rimosse: elementi, frammenti, mozziconi di infanzia che non tramontano mai; passato che non passa, passato che ritorna; pezzi di reale che, seppure rimossi, o, se si preferisce, proprio perché rimossi, non rinunciano a ritornare, come spettri anarchici, sulla scena del mondo facendo valere le loro antiche ragioni, interferendo sullo scorrere falsamente lineare del nostro tempo comune. UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA: ESTINZIONE DELL'INCONSCIO La mia tesi è che sia in corso una profonda mutazione antropologica promossa dal dominio del discorso del capitalista;3 la mia tesi è che nella Civiltà ipermoderna, dominata dal discorso del capitalista, l'esperienza del soggetto dell'inconscio come esperienza di verità, di differenza e del carattere indistruttibile del desiderio rischi l'estinzione perché è un'esperienza che risulta inassimilabile all'ordine di quel discorso. La mia tesi è che la Civiltà ipermoderna e le sue declinazioni sintomatiche prevalenti (anoressie e bulimie, obesità, tossicomania, dipendenze patologiche, depressioni, attacchi di panico) diano luogo a una tendenziale soppressione del soggetto dell'inconscio freudiano. In altre parole, il mio punto di partenza consiste nel considerare che il nostro tempo, il tempo in cui viviamo, è un tempo antagonista al tempo del soggetto dell'inconscio. Proverò a radunare sinteticamente in cinque punti le ragioni di questo antagonismo. 3. Il discorso del capitalista non può essere ridotto a una versione storica del capitalismo come sistema economico. Si tratta piuttosto di una figura concettuale insieme più ampia e più specifica proposta da Lacan per definire una certa declinazione del legame sociale caratterizzata, tra l'altro, dal fatto che viene meno l'esperienza cruciale della castrazione simbolica e, di conseguenza, il godimento dell'oggetto - senza appunto l'ormeggio simbolico offerto dalla castrazione - tende ad affermarsi come un godimento puramente dissipativo, senza limiti, compulsivo, imparentato con il carattere nichilistico-distruttivo della pulsione di morte. Vedi J. Lacan, Del discorso psicoanalitico, cit. Per un suo commento più approfondito vedi le pagine seguenti. Primo punto: il nostro tempo è antagonista all'esperienza del soggetto dell'inconscio freudiano perché, se tale esperienza è, come abbiamo appena visto, esperienza dell'incommensurabile, del singolare assoluto, del desiderio come differenza, ciò che oggi sembra dominare il grande Altro del campo sociale è invece l'impero del numero, della cifra, della comparazione quantitativa, della quantificazione scientista, della negazione del desiderio come l'impossibile da misurare. 4 Il nostro tempo è il tempo del trionfo iperpositivista dell'oggettività che tende a considerare l'inconscio psicoanalitico come una forma arcaica e irrazionale di superstizione, introducendo surrettiziamente un nuovo concetto di inconscio ridotto al neuronale, al cerebrale, a una mera alterazione biochimica dell'organismo, come quando si vuole ridurre il sentimento dell'amore a una serie di turbolenze delle endorfine che mobilitano in modo iperattivo le nostre reazioni neuronali, ovviamente destinate in modo inesorabile a degradare nel corso del tempo. Secondo punto: il nostro tempo è antagonista all'esperienza dell'inconscio freudiano perché questa esperienza esige pensiero e, dunque, esige tempo per pensare, disponibilità a perdersi, a incontrare il caos, l'imprevisto, il reale come l'impossibile da pensare. Il nostro tempo è un tempo sordo al tempo "lungo" del pensiero perché è il tempo della maniacalizzazione dell'esistenza - della sua agitazione perpetua, della sua intossicazione per eccesso di stimolazioni - che rende impraticabile il concetto stesso di esperienza dissolvendola nella tendenza compulsiva alla "scarica", all'"agire", al passaggio all'atto privo di pensiero e totalmente desimbolizzato. A questo proposito due definizioni di Agostino Racalbuto mi sembrano preziose ed efficaci per definire la mutazione antropologica in corso: "perversione del cambiamento" e "spazio drogato". 5 Con la prima formula egli indica con precisione il risvolto psicopatologico di questa accelerazione costante della temporalità ipermoderna. Nella ricerca affannosa di nuove sensazioni e di nuovi oggetti di godimento, nel culto esasperato del "nuovo" e del cambiamento continuo dell'oggetto, il soggetto ipermoderno prova ad aggirare perversamente lo scoglio della castrazione, operando un suo rinnegamento radicale, cercando cioè di annullare gli effetti di limitazione del godimento che la castrazione simbolica ha il potere benefico di introdurre. Con la seconda definizione, 4. Un lavoro interessante che affronta il problema dell'esistenza dell'inconscio confrontandosi apertamente con il discorso proprio della ricerca scientifica è quello di N. Terminio, Misurare l'inconscio? Coordinate psicoanalitiche della ricerca in psicoterapia, Bruno Mondadori, Milano 2009. 5. Queste due espressioni si trovano in A. Racalbuto, "Il setting psicoanalitico e la persona dell'analista", in C,li Argonauti, 99,2003, pp. 296-297. Racalbuto vuole invece definire l'effetto di intasamento mentale provocato dalla serie moltiplicata di oggetti frammentati, non simbolizzati, non mentalizzati, di oggetti beta nel linguaggio di Bion, che impediscono il tempo del pensiero e della elaborazione psichica, il tempo della simbolizzazione, a causa di un eccesso di presenza e di iperstimolazione. Terzo punto: il nostro tempo è antagonista all'esperienza dell'inconscio freudiano perché tale esperienza è esperienza del carattere indistruttibile del desiderio nel suo rapporto costituente con la Legge. Essa mostra che senza l'esperienza del limite, della castrazione dell'immediatezza del godimento, non si dà mai esperienza del desiderio, la quale, per esistere, necessita, appunto, dell'alleanza fondamentale con la Legge. Sebbene il desiderio non si appiattisca mai sulla Legge, non vi si identifichi mai risolutivamente (tranne nel programma fantasmatico del desiderio ossessivo che però è una patologia del desiderio), per realizzarsi creativamente il desiderio necessita del sostegno simbolico della Legge. Per questo Lacan ha sempre insistito sulla necessità di pensare insieme, e non in una semplice e cieca opposizione, desiderio e Legge, di pensare, in altre parole, l'alleanza che li costituisce come il retro e il verso di un unico foglio. Per questa ragione l'esperienza freudiana dell'inconscio è l'esperienza di una tensione conflittuale che unisce e, mentre unisce, differenzia il desiderio e la Legge. Il soggetto freudiano è, effettivamente, un soggetto diviso tra il programma normativo del principio di realtà e quello edonistico del principio di piacere. Il suo disagio scaturisce proprio dalla difficile e precaria articolazione di questi due programmi. Diversamente le forme sintomatiche più recenti del disagio della Civiltà disegnano una configurazione inedita di questa conflittualità. Il desiderio svincolato dalla Legge smarrisce la sua forza propulsiva per integrarsi anonimamente in un programma collettivo di godimento sconnesso dalla castrazione simbolica e privo di soddisfazione, attivato dal discorso del capitalista. In questa prospettiva Herbert Marcuse in L'uomo a una dimensione, per definire lo stato d'essere della soggettività nell'epoca delle società industrialmente avanzate rette dal programma iperedonistico di un accesso falsamente democratico al godimento, introduceva già, con grande lungimiranza, la figura, volutamente paradossale, della "desublimazione repressiva". Mentre il sogno ingenuo di una Civiltà liberata, coltivato dallo stesso Marcuse in Eros e civiltà, era quello di una "sublimazione non repressiva", 6 cioè di una emancipazione della pulsione dai vincoli repressivi indotti dal si6. Vedi H . Marcuse, Eros e civiltà, tr, it. Einaudi, Torino 1980, p. 224. stema capitalista che però assumeva come dato incontrovertibile quella quota necessaria di sacrificio pulsionale richiesto dalla "repressione fondamentale" che istituisce il programma della Civiltà in quanto tale, la società industriale avanzata mobiliterebbe invece una "travolgente desublimazione", un iperedonismo diffuso che vorrebbe gettare alle sue spalle ogni limite al godimento. In questo modo il sacrificio pulsionale viene negato nel nome di una falsa liberazione della pulsione che si svincola da ogni forma di sublimazione, promettendo un godimento immediato, desublimato appunto, senza mediazioni simboliche e senza più limiti. In questo senso Marcuse adotta l'espressione paradossale di desublimazione repressiva per indicare come, in questa apparente diffusione della libertà, è solamente la realtà del dominio a intensificarsi.7 La facilitazione dell'accesso al godimento, la via libera - priva del necessario passaggio sublimatorio - concessa alla scarica pulsionale, una sessualità agita compulsivamente, senza veli e, dunque, senza Eros, scorporata dall'amore, insomma l'effetto generale della desublimazione della pulsione indotta dalla nuova civilizzazione, non risulta affatto disalienante e liberatorio, ma altamente repressivo poiché spegne il movimento del desiderio annullando ogni disimmetria critica nei confronti della realtà alla quale, invece, il soggetto tende a adeguarsi sempre più passivamente. Il culto ipermoderno del consumo non è tanto, come crede invece Gilles Lipovetsky, una forma alleggerita di edonismo che lascerebbe alle sue spalle la tragedia dell'alienazione e del nichilismo descritta da Marx e da Nietzsche - ovvero dell'uomo ridotto dal potere delle merci a essere una merce tra le altre e dell'uomo smarrito perché privo di punti di riferimento ideali - , realizzando una nuova forma dell'umano, quella del "turboconsumatore" che liberamente gestisce il suo piacere di consumare ciò che più aggrada i suoi "appetiti per le esperienze" in tempi ridotti all'istantaneità dei suoi "desideri" policromi. 8 Questa rappresentazione della soggettività ipermoderna trascura pericolosamente la differenza tra godimento e desiderio o, se si preferisce, oppone semplicemente l'edonismo contemporaneo al culto ideologico del sacrificio senza cogliere come l'abbandono a un piacere scisso dallo scambio con l'Altro - effetto, come direbbe lo stesso Lipovetsky, della gadgettizzazione ipermoderna della vita - comporti di per sé una caduta del desiderio come desiderio dell'Altro e un'af7. Vedi H. Marcuse, L'uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale avanzata, tr. it. Einaudi, Torino 1967, pp. 90-91. 8. Vedi G. Lipovetsky, Una felicità paradossale. Sulla società dell'iperconsumo, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007, in particolare pp. 71-155. fermazione di un godimento tossico, sganciato dalla castrazione simbolica. La libertà illimitata del consumo si può così rovesciare drasticamente in una vita emotiva che rinuncia all'incontro con l'alterità dell'Altro e si richiude narcisisticamente su se stessa e sul consumo ludico del futile e dell'aleatorio. In questo senso affermo che il nostro tempo è antagonista all'esperienza dell'inconscio perché tende a cancellare la tensione critica e conflittuale di Legge e desiderio in nome di un edonismo ben integrato al sistema e dell'affermazione entusiasta e disincantata dell'homo felix. Il nostro tempo è il tempo nel quale l'imperativo sadiano al godimento illimitato (la "desublimazione repressiva" della pulsione, nel linguaggio di Marcuse) è divenuto un comandamento sociale inedito, installandosi nel luogo stesso della Legge. Il nostro tempo è il tempo dove tutto si consuma e dove tutto, consumandosi, si distrugge, rivelando il suo carattere totalmente effimero ed evanescente; è il tempo chiuso del cinismo della monade di godimento. E il tempo dove domina il carattere inumano del discorso del capitalista che annichilisce la spinta singolare del desiderio nell'ideologia iperedonista per la quale ciò che solo conta è l'imperativo al godimento illimitato. Quarto punto: il nostro tempo è antagonista all'esperienza dell'inconscio perché abolisce la dimensione della verità riassorbendola in quella del sapere biotecnologico. Come abbiamo visto, l'esperienza freudiana dell'inconscio è l'esperienza di una verità che scompagina il sapere costituito costringendolo a rinnovarsi permanentemente. Nella teoresi di Freud il sapere non esaurisce mai l'essere. Ed è proprio in questa non coincidenza che la partita dell'analisi trova la sua molla di innesco. La frase: "Non penso di sapere più cosa davvero sono... " non accompagna forse sempre il soggetto che bussa alla porta dell'analista? Qui la certezza granitica del cogito cartesiano si fessura: non sono ciò che penso, ma ciò che sono oltrepassa la rappresentazione che io ho sempre avuto di me stesso; ciò che sono esorbita il mio pensiero. Tuttavia, questa erosione del sapere e delle sue certezze non comporta affatto per la psicoanalisi un rigetto del sapere. L'esperienza dell'inconscio non è l'esperienza di un relativismo nichilistico. Al contrario: l'esperienza dell'analisi prova, come afferma Lacan, a ricongiungere il sapere alla verità, offrendo al soggetto l'occasione per produrre un nuovo sapere sulla sua verità più particolare, sulla verità che tocca l'intimo del suo essere; prova, in altri termini, a ricostruire l'alleanza, recisa patologicamente, tra il desiderio e la Legge. Il nostro tempo non sospinge affatto in questa direzione, nella direzione della ricostruzione di una possibile alleanza tra il sapere e la ve- rità; esso sembra alimentare invece una loro disgiunzione netta affermando un primato sterile del sapere che riduce la verità dell'inconscio, come si è espresso una volta Christopher Bollas, a un mero "arcaismo". 9 Ciò che per il nostro tempo conta è solo il potere delle cose; il sapere come classificazione, catalogazione anonima, protocollare dei fatti, il sapere come manifestazione del potere grigio e formale della statistica10. L'uomo della burocrazia anonima del sapere iperspecializzato che si adatta conformisticamente all'ordine stabilito delle cose prende il posto dell'uomo freudiano che vuole sapere l'enigma della verità del suo desiderio e che per questo è disposto a mettere in gioco tutte le sue certezze acquisite sfidando l'ordine costituito delle cose. Quinto punto: l'esperienza della cura analitica è esperienza di una trasformazione che avviene grazie a una nuova alleanza che il soggetto stabilisce con l'inconscio. Non per esorcismo, negazione, colonizzazione dell'inconscio ma per una nuova alleanza (anche terapeutica) con il proprio inconscio. Sappiamo, infatti, come i cosiddetti effetti terapeutici di una cura analitica non si producono se non in "sovrappiù", come si esprimeva Lacan, promosso proprio da questo riabbonamento inedito del soggetto al proprio inconscio. Nel nostro tempo, invece, l'esperienza "psy" della cura si pone come un'esperienza tendenzialmente disciplinare, come un'operazione di aggiustamento ortopedico del corpo o del pensiero del soggetto, come una riabilitazione del soggetto alla normalità, al principio di prestazione, all'assimilazione conformista al discorso stabilito. In questa direzione si muovono in effetti le terapie cognitivocomportamentali oggi sul mercato sempre più diffuse ed egemoni.11 CLINICA DEL VUOTO Abbiamo mostrato come il carattere sovversivo dell'esperienza dell'inconscio sia in contrasto con la Civiltà del nostro tempo e come questa esperienza sia a rischio di estinzione soppiantata dal potere scientista della cifra, dagli oggetti di godimento, dalle pratiche psicoeducative di tipo disciplinare, dalla falsa liberazione promessa dal discorso del capitalista. Abbiamo anche accennato a come questo contrasto abbia ge9. Vedi C. Bollas, Lombra dell'oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato, tr. it. Boria, Roma 2001, p. 163. 10. Vedi J-C. Milner, La politique des choses, Navarin, Paris 2005. 11. Per tutti i temi qui solo accennati, rinvio a M. Recalcati, Elogio dell'inconscio. Dodici argomenti in difesa della psicoanalisi, Bruno Mondadori, Milano 2007. nerato una nuova psicopatologia, nuove forme del sintomo, una inedita clinica psicoanalitica. Il fondamento di questa nuova clinica è costituito da ciò che ho avuto modo di definire come una metamorfosi fondamentale che consiste nella riduzione della "mancanza a essere" al "vuoto". 12 Se la "mancanza a essere" costituisce per Lacan la realtà umana come tale ed è il prodotto di una simbolizzazione fondamentale del vuoto, l'esperienza del vuoto è un'esperienza di riduzione, di reificazione, di ossificazione, di congelamento della mancanza. Nell'attualità ipermoderna, questa esperienza sembra imporsi univocamente su quella della mancanza: se l'esperienza umana della mancanza è la matrice del dinamismo del desiderio, della sua funzione di apertura verso l'Altro, verso lo scambio simbolico con l'Altro, quella del vuoto è un'esperienza di annullamento, di nirvanizzazione, di ibernazione, di pietrificazione, di cancellazione del desiderio. La mancanza ridotta a vuoto sarebbe allora una mancanza sconnessa dal desiderio. Questa metamorfosi è effettivamente l'indice di una sorta di mutazione antropologica: l'uomo della clinica del vuoto appare come un uomo senza inconscio. Mentre la clinica classica della nevrosi era centrata sul conflitto fondamentale tra il programma del desiderio e quello della Civiltà, la clinica del vuoto pone l'accento sulla necessità primaria di arginare l'angoscia, dunque sulla difesa dall'angoscia più che sulla rimozione del desiderio. Al suo centro non c'è più il programma del desiderio ma quello del narcinismo (narcisismo + cinismo) del godimento; del godimento dell'Uno, uniano (unien), autistico, monadico, del godimento senza l'Altro che si oppone allo scambio simbolico.13 Lo sfondo di questa metamorfosi è sociale e riguarda una modificazione essenziale del comandamento del Super-io. L'ideologia del Superio sociale freudiano era di tipo kantiano. Non a caso Freud individuava nel Super-io l'erede (legittimo) dell'imperativo categorico di Kant. La sua voce morale esigeva la rinuncia pulsionale come condizione di accesso alla Civiltà; l'incivilimento imponeva, hegelianamente, l'annientamento dell'animale. Nella Civiltà ipermoderna si assiste a un cambio di segno del programma del Super-io sociale: il suo comandamento non parla più con la voce kantiana della coscienza morale; la torsione ipermoderna del Super-io avviene in modo inedito attraverso l'elevazione del 12. Vedi M. Recalcati, Clinica del vuoto: anoressie, dipendenze e psicosi. F r a n c o Angeli, Milano 2002. 13. Il termine " n a r c i n i s m o " viene p r o p o s t o da Colette Soler in Declinaciones de l'angustia (Anfora, Bogotá 2007, pp. 61-68). P e r il termine " u n i e n " , vedi J. Lacan, Radiofonia e televisione, tr. it. Einaudi, Torino 1982, p. 84. godimento, del "narcinismo" del godimento, a nuovo imperativo sociale. Il godimento viene, in altre parole, reso equivalente alla Legge.14 In questo si può notare la tendenza non solo cinica ma anche perversa del programma ipermoderno della Civiltà. Il godimento assume la forma di un imperativo categorico che rifiuta la castrazione: Devi godere! Il paradigma della clinica del vuoto è stato ricavato dalla clinica dell'anoressia. E stata l'anoressica a insegnarci l'eterogeneità tra vuoto e mancanza, ma anche come il godimento del vuoto possa annichilire la dialettica del desiderio che scaturisce dalla mancanza. L'anoressica fa muro, come si suole dire, nei confronti del muro del linguaggio. Vive nella mortificazione, nella privazione apparente del godimento, per non pagare il prezzo della castrazione simbolica; mortifica il proprio corpo, lo disciplina attraverso un regime drastico di privazioni, ma fa tutto questo solo per sottrarsi alla mortificazione simbolica indotta dal significante. La scelta anoressica è cioè una scelta antagonista alla funzione simbolica della castrazione. In questo quadro clinico, l'esperienza del vuoto assume un carattere particolarmente rilevante. Il soggetto sembra operare una sconnessione dall'Altro attraverso un rifiuto radicale che, separandolo dall'Altro, lo concentra solo sul vuoto del proprio corpo e sulle strategie finalizzate alla sua preservazione. In questo modo la mancanza a essere dalla quale sorge il desiderio viene letteralmente ossificata nel vuoto che il soggetto pretende di saper governare. Questa metamorfosi porta con sé una serie di implicazioni: l'affermazione narcisistica dell'Io ideale che recide ogni legame con l'Altro; la scelta perversa di un oggetto inumano (l'immagine speculare del corpo magro, il vuoto del proprio corpo) come partner fondamentale; le pratiche di governo del corpo finalizzate a custodire il vuoto; la solidifi14. Il carattere epocale di una figura come quella di Silvio Berlusconi non consiste ovviamente nell'azione di governo che ha caratterizzato la sua missione politica, ma nel come la sua persona abbia suggellato paradigmaticamente questa equivalenza ipermoderna tra Legge e godimento. Non solo i suoi cosiddetti comportamenti privati, ma in modo assai più emblematico, la sua stessa azione legislativa (vedi, per esempio, le cosiddette leggi adpersonam), svelano come il massimo rappresentante della vita dello Stato miri alla realizzazione del proprio godimento situato non come capriccio estemporaneo, ma come di diritto inscritto nella funzione istituzionale che egli ricopre. Mentre l'epoca dominata da figure come quelle di Alcide De Gasperi o di Enrico Berlinguer appariva caratterizzata da una tensione etica tra Legge e godimento ancora edipica (si pensi solo alla politica dell'austerità teorizzata negli anni Settanta da Berlinguer), l'azione di Berlusconi appare totalmente svincolata da questo dissidio. N o n c'è vergogna, senso di colpa, senso del limite appunto, poiché non c'è senso della Legge disgiunto da quello del godimento, perché il luogo della Legge coincide propriamente con quello del godimento. Tutto è apertamente (perversamente) giocato come se non esistesse castrazione. La figura del capo del governo riabilita così i fantasmi del Padre freudiano dell'orda, del Padre che ha diritto di godere di tutte le donne, del Padre bionico, immortale, inscalfibile, osceno e inattaccabile, non come limite al godimento (è il volto ancora rassicurante dei Padri della nostra prima Repubblica), ma come esercizio illimitato del godimento. In questo la figura di Berlusconi fa davvero epoca. cazione dell'identificazione idealizzante all'immagine del corpo magro con una finalità difensiva rispetto all'angoscia. La tendenza all'abolizione del soggetto dell'inconscio, alla sconnessione del soggetto dall'inconscio, l'assenza del soggetto dell'inconscio in quanto soggetto del desiderio, sembra dunque condizionare le nuove forme della psicopatologia. La clinica del vuoto è, in effetti, come vedremo bene nel corso di questo libro, una clinica in assenza di inconscio. Questo significa che nella nuova psicopatologia la coppia rimozione-ritorno del rimosso, centrale nella clinica della nevrosi, non è più operativa, ma viene sostituita da quella angoscia-difesa. IL FONDO PSICOTICO DELLA NUOVA PSICOPATOLOGIA La clinica della nevrosi viene edificata da Freud a partire dal conflitto strutturale tra il programma singolare del desiderio e quello universale della Civiltà. La rimozione per Freud non è un meccanismo di difesa tra gli altri ma un processo che costituisce l'inconscio in quanto soggetto di desiderio. Tutto ciò che viene rimosso, nella prospettiva freudiana, è ciò che risulta "inconciliabile" con la rappresentazione ideale e morale che il soggetto ha di se stesso. Tuttavia, ciò che viene rimosso - separato, scisso, allontanato dalla coscienza - continua a esistere, non viene semplicemente abolito o annullato, tende, in altre parole, a ritornare. Per questo, sempre secondo Freud, la rimozione è strutturalmente fallimentare. La sua barriera non è affatto un cemento impermeabile, una scissione di tipo verticale. Piuttosto resta indissociabilmente legata agli effetti di ritorno del rimosso che essa stessa provoca. In questo senso nella clinica freudiana della nevrosi rimozione e ritorno del rimosso sono due facce della stessa medaglia. Ma che cosa ritorna? Che cosa non si lascia dimenticare? Che cosa insiste nonostante la rimozione? Ciò che ritorna è l'istanza indistruttibile del desiderio. Essa ritorna attraverso le formazioni dell'inconscio che sono formazioni di linguaggio: lapsus, atto mancato, sogno, sintomo, sbadataggine. Questo significa che il ritorno del rimosso è un ritorno simbolico del reale. Dobbiamo sottolineare il termine "simbolico". L'inconscio è strutturato come un linguaggio, secondo la formula classica di Lacan, significa che le sue espressioni tendono ad articolarsi in forme linguistico-simboliche. L'apparente insensatezza di un sintomo o la trama caotica di un sogno rivelano sempre una loro profonda strutturazione semantica. In questo senso il soggetto dell'inconscio è sempre, come si esprimeva Franco Fornari, una volontà di significazione, un voler direP E, in questo contesto, la responsabilità del soggetto consiste innanzitutto nella sua volontà di sapere la verità contenuta nella significazione enigmatica delle sue formazioni dell'inconscio, consiste nell'assumere soggettivamente quella verità, dunque nel sovvertire il movimento della rimozione; se la rimozione è un allontanare ciò che il soggetto non vuole incontrare - la parte di sé inconciliabile con la rappresentazione narcisistica che egli ha di se stesso - , la responsabilità del soggetto consiste nel voler sapere, dunque nel voler incontrare, questa parte di sé estranea a se stesso. La clinica del vuoto segnala un declino del funzionamento dialettico della coppia freudiana rimozione-ritorno del rimosso avanzando la tesi di un fondo psicotico della nuova psicopatologia. Il che non autorizza in nessun modo ad affermare che i soggetti che portano le stimmate dei nuovi sintomi siano necessariamente psicotici. Piuttosto propongo di utilizzare il riferimento alla psicosi - come Freud aveva utilizzato il riferimento alla nevrosi per diagnosticare il disagio della Civiltà della sua epoca o all'isteria per costruire i fondamenti della clinica psicoanalitica - come chiave di lettura del disagio della Civiltà ipermoderna. Questo riferimento alla clinica della psicosi come matrice della nuova psicopatologia ci obbliga a recuperare, seppur rapidamente, i concetti cardine della clinica freudiana della psicosi. Freud e Lacan sostengono una discontinuità strutturale di nevrosi e psicosi: la follia si genera dal rifiuto del disagio della Civiltà, mentre la nevrosi è invece una malattia del disagio della Civiltà. In termini freudiani classici questo significa che nelle psicosi lo "strapotere dell'Es" non tiene affatto conto della realtà esterna, mentre nelle nevrosi lo "strapotere" nei confronti del quale il soggetto soccombe è quello "della realtà esterna" che obbliga la rimozione dell'istanza del desiderio. Nelle psicosi si tratta, scrive sempre Freud, di un tipo speciale di rimozione: rimosso non è il desiderio inconscio ma la realtà stessa,16 nelle nevrosi invece la rimozione colpisce l'istanza del desiderio generando quel dissidio tra Legge e desiderio che costituisce il centro instabile del soggetto freudiano. Lacan riprende il cuore di questa differenziazione strutturale tra nevrosi e psicosi stabilita da Freud quando afferma che nella psicosi la parola del soggetto è l'espressione di una libertà solo negativa, di una pa15. Vedi F. Fornari, 1 fondamenti di una teoria psicoanalitica del linguaggio. Bollati Boringhieri, Torino 1982. 16. Queste definizioni si trovano in S. Freud, La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi, tr. it. in Opere, Boringhieri, Torino 1980, voi. 10, p. 39. rola che ha rinunciato a farsi riconoscere. 17 Lo psicotico è, infatti, un soggetto che si vuole disperatamente libero e che dunque non tollera di integrarsi in nessun discorso già stabilito. La sua libertà vuole essere assoluta opponendosi al patto simbolico tra gli uomini; la separazione psicotica dai legami sociali non è dialettica perché manca di quella quota di alienazione necessaria che, come scrive Winnicott, la rende autenticamente possibile. In questo senso la separazione psicotica non è una separazione soggettivata, simbolizzata, ma è una separazione agita, non pensata, senza alcuna dialettica con l'alienazione. Se dunque nella nevrosi c'è un ritorno simbolico del reale rimosso attraverso le formazioni dell'inconscio, nelle psicosi c'è un collasso simbolico e un ritorno del reale come tale, senza alcun filtro simbolico. E questa tutta la differenza psicopatologica che separa un'allucinazione da un sintomo. Mentre l'allucinazione s'impone al soggetto come un reale che impedisce ogni mediazione simbolica, il sintomo è una mediazione simbolica tra il reale dell'esigenza pulsionale e l'azione della rimozione. Se mi riferisco a un fondo psicotico della nuova psicopatologia è proprio per sottolineare come i sintomi contemporanei rispondano più alla logica dell'allucinazione che a quella della formazione sintomatica. Il prevalere in essi della scarica, dell'agire, del passaggio all'atto di fronte al collasso del simbolico, di processi privi di pensiero, sembra imporre al centro della nuova clinica un "traumatismo senza rimozione", 18 anziché un ritorno cifrato del desiderio rimosso: al centro non c'è più il soggetto dell'inconscio ma lo strapotere dell'Es, dunque un Es che dobbiamo porre senza inconscio, non strutturato come un linguaggio, senza rapporti con il soggetto del desiderio. L'ES SENZA INCONSCIO Insistiamo su questa definizione dell'Ei senza inconscio. Che cos'è l'Es freudiano e che tipo di uso clinico possiamo farne? Sappiamo che l'Es è il modo con il quale Freud, dopo la svolta metapsicologica di Al di là del principio di piacere^ designa l'inconscio in quanto reale opponendolo all'idea dell'inconscio come equivalente al rimosso, cioè all'i17. Vedi J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, tr. it. in Scritti, cit., p. 273. 18. Vedi A. Racalbuto, Tra il fare e il dire. L'esperienza dell'inconscio e del non verbale in psicoanalisi, Raffaello Cortina, Milano 1994, p. 20. 19. Vedi S. Freud, Al di là del principio di piacere, tr. it. in Opere, cit., voi. 9. dea dell'inconscio strutturato come un linguaggio, per dirla con Lacan. La nuova psicopatologia ci obbliga, in effetti, a intraprendere teoricamente uno sdoppiamento dell'inconscio freudiano, o, se si preferisce, a radicalizzare la doppia definizione freudiana dell'inconscio come volontà di significazione e come volontà di godimento (che Freud nomina nella figura inquietante della pulsione di morte). Non a caso Jacques Lacan, in un giudizio ispirato su Freud, contenuto nel Seminario XVII, propone di distinguere almeno "due passi" fondamentali di Freud. 20 Di cosa si tratta? Quali sarebbero questi due passi di Freud? Come possiamo reperire nel testo di Freud la differenza tra il soggetto dell'inconscio, strutturato come un linguaggio, e l'Es? Siamo di fronte a due forme distinte dell'inconscio freudiano. La prima conduce Freud verso le metamorfosi del desiderio inconscio, la seconda verso la ripetizione maledetta della pulsione di morte. Insistiamo su questa differenziazione perché è da essa che possiamo recuperare l'idea clinica di un Es senza inconscio come chiave di lettura della nuova psicopatologia. La prima versione freudiana dell'inconscio è quella che pone il soggetto dell'inconscio come volontà di significazione. Per Lacan è il Freud che teorizza l'inconscio come luogo di manifestazione del carattere indistruttibile del desiderio, è il Freud dell' Interpretazione dei sogni, il Freud ermeneuta celebrato da Paul Ricoeur, il Freud che s'interessa della dimensione eminentemente simbolica dell'esistenza umana e delle sue manifestazioni cifrate che trovano i loro canali privilegiati nel corpo parlante delle isteriche, nelle trame tortuose dei sogni, nel lampo istantaneo del lapsus e del motto di spirito, nei grovigli intricati e paradossali dei sintomi, nelle sbadataggini della vita quotidiana, ovvero in tutto quel campo di esperienze marginali che la ragione filosofica e scientifica non si è mai degnata di considerare e che invece la psicoanalisi eleva alla dignità del logos. Ebbene proprio questo bordo marginale e screditato dell'esperienza umana diviene per Freud il luogo principale dove il soggetto dell'inconscio prende vita e parola. Un "voler dire" clandestino interferisce nel discorso cosciente enunciandosi tra le sue righe e rendendo possibile il ritorno di una verità scabrosa, inaccettabile, sconveniente che l'opera della rimozione aveva condannato all'esilio. Questo primo Freud, il Freud ermeneuta, il Freud paladino dell'inconscio come "voler dire" clandestino, come interferenza significante nella catena del discorso cosciente, insiste nell'evidenziare il carattere 20. Vedi J. Lacan, Il seminario. Libro naudi, Torino 2001, p. 50. XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), tr. it. Ei- retorico-linguistico dell'inconscio stesso e la sua eterogeneità nei confronti di ogni eventuale riduzione dell'inconscio al selvaggio, all'istintuale, allo schizofrenico. Il soggetto dell'inconscio nell'esperienza clinica di Freud non è affatto l'irrazionale, ma emerge come una vera e propria ragione che risponde a leggi simboliche (Lacan preciserà a suo modo: linguistiche). In questo senso uno dei meriti enormi di Freud consiste nel sottrarre l'esperienza dell'inconscio alla dimensione intimistica e irrazionalista dell'ineffabile. E su questo punto che egli si distanzia decisamente dall'esperienza romantica dell'inconscio. E ciò su cui ha insistito in modo particolare il cosiddetto "ritorno a Freud" di Lacan: l'inconscio non è l'incolto, il prelinguistico, il caos del sotterraneo; l'inconscio è un'altra ragione, l'inconscio è strutturato come un linguaggio. Ciò che Freud avanza qui è qualcosa di semplicemente inaudito sino ad allora. Prendiamo ancora come riferimento 11 interpretazione dei sogni', in quest'opera egli non si limita ad affermare che i sogni hanno un senso - cosa del resto, come Freud stesso rileva, nota sin dall'antichità - , ma ci mostra come questo senso sia in un rapporto fondamentale col desiderio più proprio del soggetto e, soprattutto, come il sogno risponda a un lavoro di narrazione complesso e articolato in forme logiche, retoriche e grammaticali precise. In questo modo Freud scompagina l'opposizione moderna di ragione e sentimento, razionalità e irrazionalità, spingendo la ragione illuminista al suo limite interno, obbligandola, cioè, a confrontarsi con la sua radice più scabrosa. Insomma, ciò che Freud davvero inventa è l'idea di una ragione diversa dalla ragione dell'Io. Tuttavia non si tratta affatto di opporre il barbarico al civile, l'irrazionale al razionale, quanto piuttosto di superare la rigidità inflessibile di questa antitesi mostrando come l'uno sia nell'altro e viceversa. In fondo è lo stesso principio che ispira la fondamentale lettura freudiana dell'amore e dell'odio. Quando infatti Freud introduce il concetto di "ambivalenza affettiva" per descrivere la possibilità che sentimenti di amore si trasformino in quelli di odio, o viceversa, non sta affatto definendo una patologia degli affetti, ma la condizione strutturale dell'affettività umana. L'odio non è in questo senso una semplice alternativa all'amore, come l'ombra lo è della luce, secondo una retorica illuministica ingenua, ma un nucleo interno all'amore e lo stesso vale per l'amore nei confronti dell'odio. 21 L'inconscio di Freud non è il luogo dell'arcaico ma è strutturalmen21. Sul tema della cosiddetta ambivalenza affettiva di amore e odio, mi permetto di rinviare a M. Recalcati, Sull'odio, Bruno Mondadori, Milano 2004. te associato al desiderio. Non è un serbatoio di simboli archetipici (come diventa con Jung), ma indica la struttura del desiderio umano in quanto tale. Questo significa che la sua tesi relativa all'esistenza dell'inconscio non si limita semplicemente ad affermare i limiti della coscienza. In fondo, prima di Freud, già Marx - e con lui ogni filosofia materialista rigorosa - aveva mostrato come l'essere della coscienza ci appaia sin dalle sue origini fatalmente spurio, condizionato, infettato da qualcos'altro da sé, esposto a una contaminazione inaggirabile. La tesi principale del materialismo storico esige infatti che la coscienza venga ribaltata da ogni sua supposta padronanza e rivelata nella sua posizione derivata, subordinata, condizionata dai movimenti e dai processi che coinvolgono la struttura sociale ed economica. Tuttavia la topica di Marx resta una topica verticale che si limita a invertire i rapporti di dominio tra la coscienza e le sue condizioni storico-sociali, mentre il passo davvero ulteriore di Freud - che non si oppone a quello di Marx ma che andrebbe a esso integrato, come hanno provato rigorosamente a fare, sebbene con esiti assai diversi, più che i cosiddetti freudomarxisti, Sartre e Althusser - consiste nel porre questo problema della non originarietà della coscienza e quello del suo condizionamento non solo come l'effetto della sua dipendenza dalle condizioni materiali della vita, ma anche come l'effetto di una discontinuità interna al soggetto di cui l'artefice è, appunto, il desiderio. L'inconscio di Freud è in questo senso, per dirla sempre con Lacan, una esteriorità interna che spiazza ogni falsa autonomia della coscienza. Per questo in 11interpretazione dei sogni egli ci mostra come il desiderio stesso non sia affatto una proprietà del soggetto, né tantomeno un attributo della coscienza, ma qualcosa che s'impone alla coscienza dall'interno, soggiogandola, destituendola di ogni padronanza. Per questa ragione il soggetto appare a Freud come gettato costitutivamente nel disagio che nessun programma di addestramento psicologico potrà mai guarire. Il programma della Civiltà, nella prospettiva freudiana, resta infatti inconciliabile con il programma del desiderio. Nessuna armonia, nessuna intesa possibile tra i due. Se si vuole, è proprio questa prospettiva fortemente dualistica che Freud non abbandonerà mai nel corso della sua opera, pur così ricca di cambiamenti interni di direzione. Ciò che non cambierà mai è, appunto, l'idea dell'esistenza di una discordanza fondamentale tra la realtà umana - animata dal desiderio - e le esigenze della realtà esterna - sostenute dal programma della Civiltà. Ciò che non cambierà mai è, in altri termini, l'idea che il soggetto umano, in quanto soggetto del desiderio, sia disadattato alle sue radici, esposto a un disagio insanabile. Il problema che investe il progresso civile non è per Freud il problema di come emancipare l'uomo dal suo nucleo selvatico, barbaro, animale, di come emendarlo dal carattere ingovernabile delle pulsioni, ma come tenere conto costruttivamente di questo nucleo scabroso, di questo reale irriducibile e mai del tutto integrabile nel piano universale della Civiltà. Ebbene è proprio questo residuo pulsionale, refrattario a ogni programma di incivilimento, che troverà la sua forma concettuale compiuta solo intorno agli anni Venti, nel concetto di pulsione di morte (Todestrieb). Ci affacciamo qui su un altro modo di definire l'inconscio, non più attraverso le sue risorse simboliche, ma attraverso la sua forza quantitativa che innesca la spirale mortifera della ripetizione. Siamo così giunti al secondo passo di Freud, il passo che, appunto, lo conduce verso l'ai di là del principio di piacere, verso l'ai di là del soggetto dell'inconscio considerato come un'altra forma di ragione, verso una dimensione dell'esperienza umana che non risponde più univocamente alle leggi ermeneutiche del simbolo. Si tratta, in realtà, di un concetto rigettato dalla storia della psicoanalisi del dopo Freud (con le sole straordinarie eccezioni di Melanie Klein e di Jacques Lacan) perché ritenuto troppo speculativo e, soprattutto, perché in contrasto col tentativo, di certe tendenze postfreudiane, di recuperare una visione retoricamente umanistica della realtà umana il cui principio normativo tornava a essere quello dell'"Io forte", dell'"Io adattato", dell"To desessualizzato", finalmente di nuovo padrone in casa propria, di nuovo capace di governare dall'alto le forze pulsionali. Questa seconda definizione dell'inconscio implica il passo più autenticamente sovversivo di Freud. Infatti la vera pietra dello scandalo della sua speculazione non consiste tanto nell'aver decentrato l'Io rispetto alla potenza simbolica dell'inconscio come facoltà semantica di significazione, ma nell'aver mostrato come l'inconscio stesso non possa essere ridotto ermeneuticamente a un "voler dire" clandestino, a una volontà di significazione, poiché come Es, come pura pulsione di morte, esso esprimerebbe una tendenza iperedonistica a un godimento mescolato col Male, una tendenza acefala alla distruzione, all'insubordinazione radicale nei confronti di ogni vitalismo biologico. L'inconscio come Es è l'inconscio senza parole, muto, silenzioso, è l'inconscio che non si esprime attraverso simboli, ma che agisce come forza indomita, spinta, compunzione a ripetere. Questa pietra dello scandalo destinata biblicamente a divenire la pietra angolare del suo edificio metapsicologico e che Freud rintraccia nel periodo tra le due guerre, in un'Europa ancora dilaniata dalle terribili ferite della prima guerra mondiale e alle soglie dell'allucinante esperienza del totalitarismo nazifascista, impone alla nostra cultura, cresciuta nel terreno positivo della ragione dei lumi, di considerare quanta potenza di morte essa alleva nel suo seno. Siamo giunti al punto dove le acque dell'inconscio sembrano dividersi: da un lato scorre il fiume carsico dell'inconscio ermeneutico e della sua facoltà di venire alla luce e di sottrarsi nell'oblio seguendo un ritmo discontinuo, aggirando continuamente i vincoli imposti dalla censura morale dell'Io, dall'altro lato scorre invece la lava incandescente dell'Er, del Todestrieb che tutto trascina con sé in un movimento costante di distruzione e di devastazione. Da una parte troviamo una dialettica della significazione e dall'altra una economia del dispendio e della perdita di sé. Economia irriducibile alla logica del principio di piacere perché espone la vita a un eccesso mortifero e maligno. E la lava della pulsione di morte che costituisce un'altra esperienza dell'inconscio - l'inconscio non come metamorfosi del senso, ma come "coazione a ripetere" - , un'esperienza assai più inquietante di quella dell'inconscio come desiderio indistruttibile. Non solo il soggetto appare come scisso, privo di centro, parlato dall'inconscio, ma anche come contro se stesso, come odio puro verso se stesso, animato da una volontà di godimento che lo trascina verso la propria rovina. Fenomeni inquietanti di attacco e di sregolazione pulsionale del corpo, tendenza suicidaria, pratiche di godimento compulsive e dissipative, esperienze di angoscia senza nome, violenza, aggressività, comportamenti a rischio che attentano la conservazione della vita, incentivazione eccessiva delle stimolazioni, somatizzazioni, disinvestimento libidico, ritiro autistico e disinserzione dai legami sociali, godimento mortifero del vuoto, apatia narcisistica, indifferenza verso la vita, sono tutti indici dell'azione distruttiva della pulsione di morte che la clinica delle psicosi illustra esemplarmente. L'Es si impone sul soggetto dell'inconscio; il godimento si dissocia dal desiderio e si afferma come una volontà tirannica. Siamo di fronte all'Es senza inconscio, allo strapotere dell'Es come presupposto metapsicologico fondamentale della nuova clinica. Mentre la clinica classica della nevrosi resta una clinica del soggetto dell'inconscio, la nuova clinica si afferma come una clinica dell'Es e del suo potere mortifero. Ciò che nelle nuove forme del sintomo ritorna e si ripete, non ritorna e si ripete per la via simbolica delle formazioni dell'inconscio, ma per la via maledetta della pulsione di morte che infrange ogni schermo linguistico. Mentre il ritorno del rimosso implica sempre l'evento di una cifratura del godimento, una sua simbolizzazione, una schermatura della sua forza distruttiva, il ritorno psico- tico del godimento è senza cifratura; esso s'impone come un puro reale non addomesticato dall'azione del significante. LE IDENTIFICAZIONI SOLIDE Lo strapotere dell'Es - dell'Es senza inconscio - non è però la sola formula metapsicologica per evidenziare il fondo psicotico della nuova psicopatologia. Esiste un altro grande capitolo della nuova clinica che è quello delle patologie dell'identificazione. Se da una parte abbiamo il capitolo della sregolazione pulsionale, dello strapotere dell'Es, delle devastazioni incandescenti della pulsione di morte, delle dipendenze compulsive, addizionali, dell'eccesso demoniaco e ripetitivo del godimento, dall'altra parte dobbiamo situare una clinica più fredda, apparentemente meno turbolenta, centrata sull'identificazione adesiva, sull'iperidentificazione, sulla maschera identificatoria, sull'adattamento conformista, sociocentrico, sull'assenza del desiderio e della sua soggettivazione creativa. Sullo sfondo comune di un collasso dell'ordine simbolico, questi mi sembrano in effetti i due capitoli fondamentali della nuova psicopatologia che possiamo distinguere solo astrattamente. Da un lato la clinica dei passaggi all'atto, delle pratiche compulsive del godimento, della necessità della scarica, della spinta coattiva della pulsione dove il reale, slacciandosi dal simbolico, non si inquadra più nella cornice inconscia del fantasma, da un lato, dunque, la clinica dell'Es senza inconscio. Dall'altro lato abbiamo invece quella clinica che Lacan definirebbe delle "psicosi sociali", ovvero una clinica dell'identificazione solida, centrata sull'eccessiva identificazione ai sembianti sociali che sembra cancellare il desiderio e la sua soggettivazione e nella quale l'immaginario, sconnettendosi dal simbolico, dà luogo a iperidentificazioni che compensano in qualche modo (patologico) lo smarrimento liquido di soggetti senza più riferimenti ideali capaci di orientarne stabilmente la vita. Per accostare questo secondo grande capitolo della psicopatologia contemporanea - quello delle identificazioni solide - propongo di prendere le mosse da una formidabile riflessione di Winnicott sulla clinica delle psicosi. In un passaggio decisivo di Gioco e realtà egli distingue le psicosi schreberiane, caratterizzate dalla perdita di realtà, dunque da una separazione del soggetto dal senso ordinario della realtà, da una dissoluzione delirante del mondo comune e dei suoi confini simbolici, da un'altra forma di psicosi che ci introdurrebbe a un nuovo gene- re di separazione. 22 Una separazione che non allontana tanto il soggetto dalla realtà cosiddetta esterna, ma da se stesso, dal suo proprio inconscio. Si tratta, secondo Winnicott, di soggetti talmente ancorati alla realtà esterna da perdere il contatto con se stessi, con la parte più creativa di se stessi, con la realtà soggettiva del proprio inconscio. In questo caso in primo piano non è lo strapotere dell'Es ma, come si esprime Winnicott, un eccesso di mondo oggettivo che comporta la morte del mondo soggettivo. Possiamo entrare da questa porta nella clinica variegata delY ¿pendentificazione, o, se si preferisce, di quella che propongo di definire come una clinica dell'identificazione solida. La psicosi vi appare non come rottura con la realtà, ma come eccesso di alienazione, di integrazione, di assimilazione conformista al discorso comune. Le psicosi sociali di Lacan sono quelle psicosi, secondo una sua precisa definizione, compatibili con il buon ordineP Sono il rovescio delle psicosi deliranti, perché anziché sconvolgere il senso stabilito della realtà, si identificano a esso adesivamente, passivamente, senza mostrare alcun desiderio. Ciò che accomuna psicosi deliranti e psicosi sociali è, infatti, la stessa impossibilità di accedere a una soggettivazione del desiderio, è il vuoto di fondo che abita il soggetto e che lo rende morto, apatico, indifferente, privo di un sentimento effettivo della vita. Avremo modo, nel corso di questo libro, di riprendere ampiamente il tema delle identificazioni solide. Per il momento mi limito a indicare come in questo contesto assuma un valore speciale la nozione clinica di maschera', l'annullamento della differenza tra essere e sembiante (tra ciò che un soggetto è e come esso viene rappresentato dalla catena dei significanti sociali a cui aderisce) non avviene per disintegrazione dei sembianti (come accade invece nelle psicosi deliranti), ma per un eccesso di identificazione, per una cristallizzazione della maschera sociale, per una adesione inerte, per un suo incollamento conformistico. E ciò che Christopher Bollas nomina come caratteristica principale delle personalità normotiche, nelle quali l'espressione della sofferenza individuale non avviene come esplosione delirante e anarchica della soggettività ma come "distruzione del fattore soggettivo".24 22. Vedi D.W. Winnicott, Gioco e realtà, tr. it. Armando, Roma 1972, pp. 121-122. 23. Vedi J. Lacan, Una questione preliminare a ogni possibile trattamento delle psicosi, tr. it. in Scritti, cit., p. 572. 24. Vedi C. Bollas, L'ombra dell'oggetto,tr. it. Boria, Roma 1989, p. 142. IL NUOVO PRINCIPIO DI PRESTAZIONE Quale è il contesto sociale che alimenta la diffusione di queste identificazioni solide e cosa anima e amplifica la tendenza alla distruzione del fattore soggettivo? Il contesto sociale dove si diffondono le forme solide dell'identificazione è caratterizzato da una egemonia dell'adeguamento conformistico ai sembianti sociali e al loro potere di installazione di pseudoidentità narcisisticamente fragili. Questa egemonia sulla quale avremo modo di ritornare diffusamente - si può bene sintetizzare con una concettualizzazione proposta a suo tempo da Herbert Marcuse: sussunzione del principio di realtà nel principio di prestazioneP In questa formula il filosofo intendeva definire una vera e propria mutazione antropologica generata dal discorso del capitalista che introduceva una versione imperativa, superegoica, prestazionale appunto, del principio di realtà. Il principio di realtà sussunto in quello di prestazione non si limitava più a porre dei limiti alle esigenze del principio di piacere, ma imponeva come condizione dell'affermazione di sé la sottomissione del proprio desiderio a criteri prestazionali dettati dalla logica competitiva del profitto. Se il principio di realtà in Freud era pensato inseparabilmente dalla tensione dialettica che lo rapportava al principio di piacere - essendo una sorta di antagonista necessario del desiderio - , la sua trasfigurazione nel principio di prestazione, comporta che esso sia divenuto una sorta di principio normativo che anziché opporsi dialetticamente al principio di piacere - il quale, ricordiamo, esige che l'apparato psichico persegua il piacere ed eviti il dispiacere contenendo le tensioni interne all'apparato psichico al livello minimo sembra assumere un inedito volto sadico. E quello che Marcuse sa cogliere con grande lucidità: il carattere normativo assunto dal principio di realtà agisce come un imperativo superegoico che esige l'annullamento del desiderio anziché alimentarne la dialettica. L'esigenza di raggiungere una capacità prestazionale efficiente, la richiesta superegoica di adattarsi inflessibilmente all'istanza normativa del principio di realtà trasfigurato nel principio di prestazione finiscono per surclassare ogni desiderio soggettivo. Al posto del conflitto freudiano tra principio di piacere e principio di realtà s'impone a senso unico il culto sociale della prestazione che incalza la soggettività come un inedito dover essere. Quello che però Marcuse ancora non può vedere pienamente è che l'esigenza della prestazione e la prestazione stessa alla quale il soggetto 25. Vedi H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 80. deve subordinare il suo desiderio non è semplicemente alternativa al godimento ma è fondamentalmente una prestazione di godimento. Nell'epoca ipermoderna, infatti, il principio di prestazione si declina essenzialmente come un principio di godimento e non come un principio morale di sacrificio del godimento. Ciò che resta identico rispetto all'originaria teorizzazione marcusiana è l'assoggettamento alla prestazione come dovere imperativo anche se il contenuto di questa prestazione non è più in nessun modo legato alla rinuncia pulsionale. Esso manifesta piuttosto il carattere dissipativo del godimento che può prendere forme diverse e apparentemente alternative tra loro. Possiamo pensare, per un verso, a quei fenomeni dove è evidente la riduzione del corpo a puro strumento di godimento. E quello che accade nelle dipendenze patologiche dove il corpo diventa luogo di puro consumo del godimento pulsionale (obesità, bulimia, tossicomania ecc.), o in un certo modo perverso di agire la sessualità sganciandola dalla dimensione dell'incontro con l'Altro dove il corpo viene frammentato in oggetti multipli di godimento senza alcun rapporto col desiderio. Per esemplificare questo fenomeno della frammentazione perversa del corpo possiamo pensare al "gioco" di certi adolescenti che riprendono con i loro telefonini immagini parziali di parti svestite del corpo, palpeggiamenti, organi e atti sessuali anonimi, facendo poi circolare queste immagini staccate sulla rete, in una rappresentazione smembrata del corpo come pura macchina di godimento. Si tratta di un esempio forse banale, ma anche eloquente, di come l'edonismo aristotelico del principio di piacere e il limite imposto dal principio di realtà siano stati riassorbiti e deformati in un unico imperativo, in un imperativo a una sola dimensione, direbbe Marcuse, quello, appunto del godimento sadiano, che, come Lacan ha mostrato, parcellizza il corpo dell'Altro riducendolo a mero strumento del proprio godimento. In questo senso il principio di prestazione non è solo l'obbedienza passiva al principio normativo della realtà, ma è ciò che allontana il soggetto dal suo desiderio e lo lega all'obbligazione prescrittiva della prestazione, soprattutto in quanto la prestazione non è semplicemente antitetica al godimento, ma, come abbiamo appena visto negli esempi proposti, tende piuttosto a realizzarlo compulsivamente. In questi casi la vera prestazione è divenuta la trasgressione stessa. Il Super-io sociale ipermoderno esige infatti che la trasgressione funzioni da modello di ogni prestazione. Ci troviamo di fronte a una inedita normativizzazione unidimensionale di quei comportamenti che anziché sovvertire la Legge ne applicano invece, spensieratamente, la quota sadica. Per un altro verso però il principio di prestazione tende a configurarsi in una forma più fredda e disciplinare, meno caotica e incandescente. Prevale in queste forme non tanto la riduzione plateale del corpo a strumento perverso di godimento, ma una sorta di estasi della prestazione, di rafforzamento della volontà del soggetto e della sua efficacia pratica. Possiamo fare come primo esempio quello del consumo di cocaina. Com'è noto questa sostanza, diversamente da altre droghe come l'eroina, accentua la capacità prestazionale del soggetto agendo come un amplificatore narcisistico dell'Io. La sua assunzione può non introdurre alcun conflitto tra il principio di piacere e il principio di realtà, ma sussumere l'uno nell'altro. L'azione del cocainomane viene potenziata dalla chimica della sostanza che la rende più efficiente e più adeguata alle esigenze del sistema in cui il soggetto è iscritto; in questo caso il principio di piacere sembra coincidere pienamente con il principio di prestazione. E la stessa logica che ispira l'azione del soggetto anoressico, per il quale l'esperienza del corpo esclude, per principio, il desiderio, essendo l'anoressia innanzitutto un'esperienza disciplinare di governo del corpo pulsionale attraverso un rafforzamento prestazionale della volontà tendente a neutralizzare la dimensione angosciante del desiderio. Attraverso il disciplinamento del corpo l'anoressia si afferma come una padronanza di sé che vorrebbe evacuare il contenuto sessuale del corpo affermando un corpo compatto, scheletrico, appunto, privo di carne, senza mancanza, un corpo-strumento come pura manifestazione della volontà di volontà dell'Io. Questa assenza di alterità che pare caratterizzare il disegno anoressico di governo disciplinare del corpo non è eccessivamente distante da un altro fenomeno ipermoderno com'è quello del palestrato che contempla la sua immagine muscolare allo specchio piegando il proprio corpo a una disciplina tanto rigorosa quanto priva di un ideale che non coincida con il proprio rafforzamento fallico-narcisistico. La prestazione del corpo obbedisce anche in questo caso al suo potenziamento come strumento di godimento che esclude l'incontro con l'Altro o, quantomeno, riduce questo incontro a un'ennesima conferma speculare della propria potenza immaginaria. EVAPORAZIONE DEL PADRE E DISCORSO D E L CAPITALISTA IL DISCORSO DEL CAPITALISTA COME DISTRUZIONE DEI LEGAMI La precarietà non è solo un effetto economico della globalizzazione che investe la dimensione del lavoro e del mercato, ma è anche ciò che nell'epoca ipermoderna mostra il generale decadimento della dimensione dell'ordine simbolico e, per questa ragione, non può non interessare la psicoanalisi. Il discorso del capitalista di Lacan è stato un primo tentativo di decifrare la declinazione ipermoderna del registro del simbolico provando a inquadrare la natura del legame sociale nel nostro tempo. La tesi che si può dedurre dalla riflessione di Lacan è che il discorso del capitalista, come quinto discorso, 1 si manifesta come il discorso della distruzione di ogni legame, come il discorso asservito al potere nichilistico della pulsione di morte. Come Lacan declina, nella celebre conferenza tenuta a Milano all'Università Statale il 12 maggio 1972, questo discorso?2 Innanzitutto come una nuova configurazione del regime capitalista rispetto a quello che aveva caratterizzato il tempo inaugurale della sua affermazione storica. Implicitamente, con la formalizzazione del discorso del capitalista, Lacan propone una sorta di tempo secondo del capitalismo rispetto alle tesi classiche di Karl Marx e anche di Max Weber sulle sue origini.3 Più precisa1. Gli altri quattro discorsi sono quello del padrone, dell'università, dell'isteria e dell'analista. La teoria dei quattro discorsi viene esposta da Lacan in particolare in II seminario. Libro XVII, cit. 2. Vedi J. Lacan, Del discorso psicoanalitico, cit. Una lettura e una applicazione interessante di questo discorso per intendere soprattutto il fenomeno della globalizzazione si può trovare in J. Alemán, Derivas del discurso capitalista, Miguel Gómez Ediciones, Malaga 2003. 3. Su questa stessa linea concettuale si muove il ponderoso recente studio di Mauro Magatti sul capitalismo tecno-nichilista (CTN) che scandaglia le trasformazioni avvenute all'interno del ca- mente, il quinto discorso di Lacan si presenta come un discorso che corregge apertamente le tesi weberiane sulla natura etica delle origini del capitalismo. Il fondamento ideologico-culturale dell'affermazione del capitalismo si troverebbe, secondo la tesi classica di Weber, nella cultura dell'ascetismo protestante. Solo la rinuncia e il sacrificio di sé consentirebbero l'accumulazione del capitale e la produzione del profitto. Il discorso del capitalista lacaniano è, in questo senso, radicalmente antiweberiano. Esso non esalta affatto il legame come effetto della rinuncia pulsionale, come prodotto del sacrificio o come manifestazione della virtù delle opere, ma è un discorso che esalta a senso unico la spinta del godimento contro ogni forma di legame. Si tratta pertanto di un discorso al limite di ogni possibile discorso, perché se il discorso è un modo per definire il legame sociale, in quanto ogni discorso si organizza per introdurre un certo freno significante al godimento e per rendere possibile in questo modo una civilizzazione dei legami tra gli esseri umani, quello del capitalista tende a distruggere ogni forma discorsiva affermando il soggetto come pura spinta al godimento solitario, dunque dissolvendo ogni freno al godimento, anzi, incoraggiando il godimento come nuova forma di comandamento sociale. Il sacrificio di sé risulta così totalmente contraddittorio in un regime che pone il proprio fondamento sull'imperativo sregolato del "consumo di consumo". La mancanza di godimento come condizione dell'accumulazione del capitale - secondo la classica tesi weberiana si trasforma beffardamente in una proletarizzazione generalizzata e in una precarizzazione diffusa. La mancanza di godimento anziché costituire la condizione etica del profitto dà luogo a una pura avidità di godere. Questo significa, come propone di fare Lacan nella sua matematizzazione del discorso del capitalista, porre il soggetto sbarrato nella posizione di agente, ovvero nella posizione che definisce l'orientamento specifico, la direzione di fondo, di un discorso.4 Diversamente dal discorso del padrone dove la mancanza è prodotta dall'azione stessa del significante che impone al soggetto una perdita di godimento in cambio della sua iscrizione simbolica pitalismo stesso e, almeno per certi versi, prolunga, a mio giudizio, sul piano sociologico, la riflessione di Lacan. Vedi M. Magatti, La libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009. 4. Nella Conferenza milanese del 1972 Lacan disegna il discorso del capitalista come segue: ^ Nel posto di agente v'è d u n q u e 8 come espressione della domanda convulsa del soggetto, della mancanza avida di godimento. Il discorso del p a d r o n e ha nella posizione di agente l'S dell'identificazione idealizzante, quello dell'Università l'S, del sapere anonimo, quello dell'analista l'oggetto piccolo (a) in quanto oggetto causa del desiderio e in quello dell'isterica ritroviamo sì nella posizione di agente il soggetto diviso (8) ma non come mancanza avida di godimento ma come desiderio diretto verso il sapere dell'inconscio. nel discorso della Civiltà, nel discorso del capitalista la mancanza si trasfigura in una avidità di consumo che vuole scalzare il potere letale del significante essendo prodotta dalla continua offerta di oggetti di godimento proposta dal mercato. Questo significa porre nella posizione dell'agente il soggetto sbarrato: non è l'Ideale che aggrega i legami sociali, né l'interdizione al godimento che ne scaturisce, ma la convulsione del soggetto sbarrato che domanda oggetti in grado di sanarne la divisione, salvo verificare che l'astuzia del discorso del capitalista consiste proprio nel produrre e nell'introdurre sul mercato oggetti che anziché soddisfare la domanda hanno il potere di alimentarla compulsivamente. D'altra parte l'elevazione del soggetto sbarrato nel luogo dell'agente significa che il cedimento della funzione orientativa dell'Ideale è stato rimpiazzato dall'illusione che non esista più alcun padrone al di fuori del soggetto ridotto, per usare l'espressione di Lipovetsky, a "turboconsumatore". Tuttavia l'individualismo sfrenato che sostiene il discorso del capitalista non è affatto una forma di disalienazione del soggetto dalla schiavitù nei confronti dei significanti padroni, ma una nuova forma di schiavitù. Il discorso del capitalista, come fa notare il conservatore Lacan, è chiaramente una forma di assoggettamento e non di liberazione. Marcuse parlava a questo proposito di desublimazione repressiva: non è il soggetto che desidera, ma che esige un godimento che spenga ogni suo desiderio. Pier Paolo Pasolini aveva sintetizzato così questa trasformazione epocale del potere: il potere ipermoderno non ha bisogno di sudditi ma di liberi consumatori! Non è l'Ideale che sancisce la rinuncia pulsionale come condizione di ammissione del soggetto nella Civiltà, ma è la spinta al godimento che anima una divisione inedita del soggetto, la quale non è più in rapporto al significante, ma all'oggetto reso ¡Ilusoriamente disponibile (illimitatamente) dal potere del mercato. Per questa ragione l'algebra lacaniana del discorso del capitalista richiude, anziché aprire, come accade invece per il soggetto dell'inconscio, il rapporto tra soggetto diviso e l'oggetto piccolo (a): l'oggetto non è perduto, non è indice della mancanza, ma si solidifica ¿Ilusoriamente, restando contiguo al soggetto, a sua disposizione, a portata di mano e di bocca. E questo il significato della osservazione di Lacan secondo cui la macchina iperattiva del discorso del capitalista si muove troppo rapidamente, senza tregua, viaggiando come su due rotelle, raggiungendo una velocità infernale che abolisce il soggetto e che rivela l'anima profondamente nichilistica di questo discorso. Il soggetto sbarrato, situato nel materna del discorso del capitalista in una posizione agente, si rivela così una cifra ironica: nessun padrone, nessuna radice, nessun debito, nessun vincolo, nessuna castrazione, libertà assoluta di godere. Eppure in questa pseudopadronanza, in questa libertà immaginaria, per riprendere il titolo efficace dell'ultimo lavoro di Mauro Magatti sul capitalismo tecno-nichilista,5 il soggetto si trova schiavo dell'oggetto che più che consumare diventa ciò che lo consuma, oggetto passivo della "volontà di godimento" 6 dell'Altro del discorso del capitalista più che l'euforico protagonista di un mondo senza più limiti. Il "turboconsumatore" del quale Lipovetsky, per certi versi, tesse le lodi non è solo, come crede il sociologo francese, il padrone razionale dei suoi gusti e delle possibilità delle loro soddisfazioni, un Giano bifronte capace di "sfruttare a tutto campo le potenzialità aperte da quelle che sono le due grandi finalità della modernità: efficienza e felicità sulla terra", 7 ma è anche l'espressione di un godimento sganciato dalla castrazione simbolica, impermeabile al discorso amoroso, antivitale, che non si genera solo dai consumi ma che tende a consumare anche chi consuma, a utilizzare il consumo delle cose come modo di compensazione della disinserzione del soggetto da ogni legame con l'Altro. La caduta dell'Ideale e della sua funzione orientativa e l'affermazione dell'oggetto di godimento in una posizione di agente sono i due elementi cruciali che animano il discorso del capitalista come macchina anonima di godimento e mostrano la precarietà simbolica dell'Altro contemporaneo: crisi della politica, dell'ideologia, del religioso, della dimensione valoriale, del discorso educativo, epoca postideologica, postmoderna, ipermoderna, postumana. Si tratta di una precarietà che è il prodotto di una instabilità dei legami, di legami senza Ideale, instabili, liquidi direbbe Bauman, esposti alla contingenza del sintomo. 8 Ma anche di legami chiusi, cristallizzati, non-liquidi, reificati, solidificati, gelati, molecolari, involuti, segregativi. La caduta dell'Ideale, la crisi del discorso del padrone, come ho già fatto notare, non comporta solo la liquefazione dei legami in quanto privati di ogni orientamento ideale, ma tende anche a rafforzare un loro compattamento monadico, autistico, apatico, narcisisticamente ostile allo scambio simbolico. 5. Vedi M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, cit. 6. Vedi J. Lacan, "Intervention suite à l'exposé de C. Bardet-Giraudon", in Lettres de l'Ecole freudienne de Paris, 9, dicembre 1972. 7. Anche Lipovetsky non può non notare che la vera tragedia della civiltà ipermoderna investe il piano dei legami sociali. "I godimenti materiali", scrive, "sono reali e svariati, ma si moltiplicano solo in parallelo alle frustrazioni esistenziali, ai dubbi e alle insoddisfazioni nei confronti di sé. Il fallimento non è quello del consumatore, ma quello dell'individuo-soggetto e della sua esistenza intima. Ironia dell'epoca: la civiltà delle ipermerci non ha creato tanto alienazione nei riguardi delle cose, ma, piuttosto, ha accentuato [...] la difficoltà di esistere come essere-soggetto" (G. Lipovetsky, Una felicità paradossale, cit., p. 138). 8. Vedi Z. Bauman, Modernità liquida, tr. it. Laterza, Bari 2002. L'Altro contemporaneo incentiva l'instabilità strutturale dei legami umani, favorisce la liquidità o la cristallizzazione monadica dei legami, accentua, per dirla con Lacan, l'esteriorità della parola rispetto al nucleo autistico del godimento pulsionale. Uno dei tratti più salienti della precarietà ipermoderna è, infatti, quello relativo alla svalutazione della dimensione simbolica ed erotica della parola. Al suo posto subentra il principio di prestazione elevato a imperativo iperedonistico, come abbiamo già visto. Lo abbiamo già visto: diversamente da quanto accadeva all'epoca freudiana il principio di prestazione non si limita più a potenziare repressivamente il principio di realtà (era l'ipotesi coniata a suo tempo da Marcuse), perché attualmente la prestazione in gioco è innanzitutto una prestazione di godimento. Il conflitto tra principio di piacere e principio di realtà, tra programma pulsionale e programma della Civiltà, si è stemperato e al suo posto è subentrata una domanda collettiva di omologazione agli stili di godimento prevalenti. In questa prospettiva la prestazione diventa un effetto dell'imperativo sociale del Super-io sadiano: Godi! Questo principio tende però a non fare legame ma a isolare i soggetti nel loro statuto individuale, monadico, precario. Il legame sociale sembra perdere il suo fondamento che è invece scopo della funzione paterna preservare, poiché, come indica l'insegnamento fondamentale di Freud sulla necessità di una sublimazione paterna della pulsione, solo la rinuncia al godimento (incestuoso) immediato della Cosa è in grado di animare il desiderio. Per questa ragione il discorso del capitalista, nella sua illusoria democrazia, si sviluppa sulle ceneri dell'Edipo, cioè sulla perdita di centralità dell'Imago paterna nella strutturazione del soggetto. Diventerà allora essenziale interrogare questo declino del Padre per cogliere l'importanza della sua funzione simbolica e di come il discorso del capitalista sfrutti cinicamente la sua caduta. L'INSODDISFAZIONE COME PRODOTTO DEL DISCORSO DEL CAPITALISTA Cosa produce il discorso del capitalista? Produce insoddisfazione. Produce l'insoddisfazione come una nuova forma clinica della precarietà. La nostra epoca non è più quella delle masse radunate dall'Ideale. Non è più l'epoca degli entusiasmi fanatici che potevano scaturire dall'idea di appartenere a un solo grande corpo sociale. La nostra epoca vive piuttosto il contrasto generato dal discorso del capitalista tra l'effetto maniacalizzante dovuto alla soppressione dei limiti del godimento e la tendenza a precipitare verso un sentimento depressivo di estraneità, di inesistenza, di superfluità, di indifferenza e di fatica di esistere. La caduta della funzione guida del Padre accentua in effetti il rischio di una parallela caduta del soggetto. In questo senso l'insoddisfazione prodotta dal discorso del capitalista perpetua una delle espressioni più scabrose della precarietà ipermoderna che non è più rappresentabile dall'insoddisfazione isterica del desiderio che non trova in nessun oggetto del mondo l'oggetto (fallico) che potrebbe colmare la propria mancanza, ma è un'insoddisfazione di genere diverso che tende a distruggere l'amore come possibilità di unire il desiderio al godimento. Il discorso del capitalista alimenta l'illusione di riuscire a risolvere il problema della mancanza a essere scavalcando il riferimento simbolico all'Altro, facendo a meno dell'amore, svuotando radicalmente il discorso amoroso di ogni senso. Se il discorso del capitalista è un discorso al limite del discorso è anche perché è un discorso antagonista al discorso amoroso, è anche perché è il discorso dell'antiamore? Mentre la clinica della nevrosi resta una clinica profondamente connessa alle impasse del discorso amoroso - il nevrotico soffre principalmente a causa dell'amore, anche nella nevrosi ossessiva, seppure nella forma di non riuscire mai ad accedere all'amore - , la clinica delle nuove forme del sintomo appare come una clinica dove l'amore non occupa più una funzione centrale. Le vicissitudini della vita amorosa restano al centro della clinica della mancanza perché l'amore si offre come la possibilità di supplire l'inesistenza del rapporto sessuale e come il modo più umano per trattare in modo fecondo la propria mancanza a essere. Al contrario la clinica del vuoto non tratta i sintomi della vita amorosa (inibizioni, scissione tra amore e desiderio, intralci al godimento sessuale, difficoltà ossessiva di accedere al desiderio, insoddisfazione isterica del desiderio) ma l'assenza della domanda d'amore, l'indifferenza nei confronti del discorso amoroso in quanto tale. Questa indifferenza è suscitata dal fatto che i nuovi sintomi tendono letteralmente a sostituire il partner umano e sessuato con dei partner inumani (droga, cibo, computer, psicofarmaco, immagine narcisistica di sé...), provando 9. Il cinismo di molti psicoanalisti nei confronti del discorso a m o r o s o serve oggi fatalmente il f u n z i o n a m e n t o macchinico del discorso del capitalista. N o n è "già scritto", c o m e ritengono alcuni, che l ' a m o r e d e b b a s e m p r e a n d a r e a finire in m e r d a . P i u t t o s t o la possibilità della libertà dell'am o r e costituisce un'alternativa etica f o n d a m e n t a l e alla degradazione nichilistica dei legami sociali provocata dal discorso del capitalista. Sul nesso a m o r e e libertà, vedi le belle pagine di M. Binasco, "La liberté ou le t e m p s " , in Champ lacanien, 7, m a r z o 2009, p p . 55-64. U n o sviluppo interessante dell'antagonismo tra discorso del capitalista e discorso a m o r o s o è presentato originalmente in C. D e m o u l i n , "L'amour d a n s le discours du capitaliste", in J-P. L e b r u n (a cura di), Lcs désarrois nouveaux du sujet. Prolongements théorico-cliniques au Monde sans limite, érès, Ramonville SaintAgne 2005, pp. 246-253. così a uscire da tutte quelle turbolenze che il discorso amoroso porta necessariamente con sé. In questo senso mentre l'insoddisfazione isterica resta in rapporto alla difficoltà di accedere a un legame d'amore capace di durare nel tempo, capace di sottrarsi alla delusione fallica dell'Ideale, l'insoddisfazione prodotta dal discorso del capitalista serve ad alimentare unicamente il soggetto come macchina del godimento. L'isterica sceglie l'insoddisfazione per difendere il proprio desiderio laddove il discorso del capitalista la produce - l'insoddisfazione - solo per animare compulsivamente la domanda di godimento sulla quale si regge il potere del mercato. Se l'insoddisfazione isterica si nutre dell'ideale fallico, esigendo di raggiungere il fallo - l'uomo ideale impossibile da raggiungere - come significante puro del desiderio, quella ipermoderna è un insoddisfazione legata al nichilismo del consumo dell'oggetto. Mentre l'isterica attraverso l'insoddisfazione tende a salvaguardarle la propria mancanza a essere, il suo desiderio singolare, il discorso del capitalista produce solo pseudomancanze finalizzate a produrre sempre nuovi oggetti che si offrono ¡Ilusoriamente come soluzioni, alternative all'amore, per il dolore di esistere. Per questo Lacan parla di una proletarizzazione generalizzata come effetto del discorso del capitalista. La mancanza non viene salvaguardata, ma deve essere prodotta di continuo come un artificio finalizzato alla ripetizione anonima del godimento dello Stesso. In questo senso, mentre la mancanza isterica resta pur sempre collegata al desiderio, quella artefatta del discorso del capitalista è vincolata solo alla coazione del godimento. E per questa ragione il discorso del capitalista è più una manifestazione della pulsione di morte che un'espressione dell'insoddisfazione isterica del desiderio. IL NARCINISMOIPERMODERNO Nell'epoca del discorso del capitalista il sintomo nella sua funzione sociale sembra surclassato dal sintomo nella sua funzione di puro apparato di godimento. Quando parliamo di una funzione sociale del sintomo possiamo pensare al sintomo che istituisce un legame familiare o al sintomo che cementa un legame di coppia. In questi casi si evidenzia una funzione sociale del sintomo, nel senso che il sintomo sostiene i legami, anziché interferire negativamente con essi. Dobbiamo distinguere però questa funzione sociale del sintomo da quella del sintomo come puro apparato di godimento. Nel primo caso abbiamo il sintomo che sostiene il legame; nel secondo caso invece esso tende a impedirlo proponendosi come strumento di un godimento pulsionale in opposizione a ogni forma di scambio con l'Altro. Le nuove forme del sintomo accentuano proprio questo lato del sintomo, non il sintomo come fondamento del legame sociale, ma il sintomo come rottura del legame sociale. Sono quei sintomi dove in primo piano troviamo un godimento pulsionale chiuso su se stesso, appartato, senza rapporti con il desiderio e con la dimensione dell'incontro amoroso, disinserito dal campo dell'Altro. Anche in questo senso il discorso del capitalista come discorso che incentiva la diffusione epidemica di queste forme sintomatiche di godimento è un discorso al limite del discorso. Il soggetto diviso, sganciato dal significante, sconnesso dalla mancanza a essere e dal desiderio, diventa una pura volontà avida di godimento, essendo ridotto perversamente al solo suo corpo come puro strumento di godimento. E ciò che Lacan intende quando si riferisce a un effetto di proletarizzazione come proprio del discorso del capitalista. Per Marx il capitalismo come sistema economico storicamente determinato disumanizzava gli uomini riducendoli alle sole funzioni animali del corpo. Attualmente questa riduzione alienante ha assunto le forme di una riduzione del soggetto alla spinta mortifera del godimento. Come abbiamo già visto, Colette Soler ha coniato, per definire questa riduzione, il termine narcinismo (narcisismo + cinismo). La vita è ridotta al campo del godimento, alla volontà di godimento (cinismo) e questo godimento è autistico, senza legami con l'Altro, chiuso su se stesso, autotrofico (narcisismo). Per questo l'angoscia è sempre più diffusa. È angoscia di essere ridotti alla volontà di godimento del proprio corpo. Dobbiamo considerare questa dimensione collettiva dell'angoscia un'altra manifestazione significativa della precarietà ipermoderna. L'esperienza della precarietà è, infatti, una esperienza di angoscia. Per questo dobbiamo, seguendo Lacan, mantenere distinti l'oggetto del desiderio e l'oggetto dell'angoscia. Se l'angoscia è angoscia della presenza dell'oggetto, della sua eccedenza, del fatto che l'oggetto soffoca, invade, sovrasta il soggetto, se l'oggetto dell'angoscia è un troppo che scompagina e perturba l'immagine narcisistica dell'Io, l'oggetto del desiderio è invece un oggetto che implica la mancanza, l'assenza, la sua stessa perdita in quanto oggetto, la sua separtizione (sépartition) dal corpo del soggetto, come si esprime efficacemente Lacan.10 L'oggetto del desiderio è cioè sempre un oggetto che non possiamo dominare, un oggetto che non possiamo mai raggiungere, un'assenza d'oggetto di cui non possiamo mai disporre la proprietà. In 10. Vedi J. Lacan, Il seminario. Libro X. L'angoscia (1962-1963), rr. it. Einaudi, Torino 2007, p. senso stretto non lo si può nemmeno definire "oggetto del desiderio" ma, come precisa opportunamente Lacan, "oggetto causa del desiderio". Questa precisazione non è affatto sofistica ma comporta l'enfatizzazione del carattere causativo, determinante, dominante dell'oggetto del desiderio sull'intenzionalità desiderante del soggetto. Lacan insiste su questo punto per far valere la specificità del contributo della psicoanalisi alla nozione di desiderio: è l'oggetto causa del desiderio che orienta il cammino inconscio del desiderio del soggetto, non è il desiderio del soggetto che mira finalisticamente al suo oggetto. Per questa ragione di fondo l'assenza di oggetto, la sua funzione di causa, genera sempre una forza che anima il desiderio, che lo vitalizza, sospingendolo in avanti. Viceversa la presenza in eccesso dell'oggetto - come accade nel discorso del capitalista tende ad annichilire il desiderio, intasando la mancanza necessaria a promuovere la spinta desiderante e impedendo, di conseguenza, la creazione di nuovi legami. Piuttosto il legame con l'oggetto tende ad assumere i tratti di una nuova forma di schiavitù. E ciò che la clinica contemporanea nomina solitamente come "dipendenze patologiche". EVAPORAZIONE DEL PADRE, UNIVERSALISMO E NUOVE SEGREGAZIONI In una breve nota scritta alla fine degli anni Sessanta, titolata Nota sul padre e sull'universalismo,n Lacan ritorna in modo sintetico e ispirato sul tema del tramonto dell'Imago paterna di cui aveva già colto i primi sintomi in un saggio del 1938 dal titolo I complessi familiari nella formazione dell'individuo,12 In questa breve nota egli mette in fila tre concetti destinati a essere centrali per la comprensione del disagio attuale della Civiltà. Il primo tra questi è quello di "evaporazione del Padre". Con questa immagine Lacan non intende riferirsi semplicemente alla crisi d'identità dei padri reali di cui si occupano, più o meno recentemente, la sociologia e la psicologia. Piuttosto egli fa riferimento alla perdita di centro, alla caduta dell'Uno, alla decapitazione del vertice Ideale - di matrice edipica che aveva strutturato i legami sociali e dato un senso alla vita delle persone. Tutta la psicologia freudiana delle masse è retta da questo riferimento a un Ideale verticale che guida e sostiene la vita degli uomini e che si incarna nel potere carismatico e suggestivo del leader. 11. Vedi J. Lacan, Nota sul padre e l'universalismo, cit. 12. Vedi f. Lacan, I complessi familiari nella formazione 2004. dell'individuo, tr. it. Einaudi, Torino Quando Lacan scrive questa nota siamo aJia fine del 1968. Le istituzioni disciplinari che fungevano da paradigmi della riflessione freudiana (la Chiesa e l'Esercito) sono state fortemente scosse dal movimento della contestazione. E lo stesso principio freudiano dell'Edipo è stato violentemente messo in discussione come matrice reazionaria di quelle istituzioni.13 Anche il concetto borghese di famiglia nucleare non si sottrasse a questo attacco critico. Ma fu soprattutto la figura normativa del Padre a essere messa in questione. Lacan, scrivendo di una sua "evaporazione", fa allusione a questa demolizione come a una sorta di esito storico della critica del Sessantotto. Ma cosa significa, per la psicoanalisi, constatare l'evaporazione del Padre? E, più precisamente, quale Padre evapora? Di quale Padre Lacan parla proponendone l'evaporazione storica? Ebbene il Padre evaporato è il Padre che garantisce al soggetto e ai legami sociali un senso e un ordine stabilito trascendentalmente. E 0 Padre della rassicurazione, il Padre-fondamento, il Padre che sa rispondere sulla verità delle cose, il Padre della garanzia ultima. E il Padre come tutore dell'ordine simbolico che Lacan ha chiamato, ben consapevole dei suoi inevitabili echi biblico-teologici, Nome del Padre. E il Padre-sovrano nella versione che Agamben ha proposto del concetto di sovranità: è colui che, essendo in una posizione di eccezione rispetto al sistema della Legge che pure installa, ha il potere di sospendere il funzionamento stesso di questo sistema, ma questo potere anziché annichilire il sistema è ciò che gli dà consistenza.14 E, come lo definisce Lacan, l'Altro dell'Altro: l'eccezione, non sottoposta alla Legge, che istituisce logicamente il funzionamento della Legge uguale per tutti. Dunque esso rappresenta il significante del luogo dell'Altro in quanto tale; il significante-guida, il significante dal quale dipendono tutti gli altri significanti, il significante che, come scrive ancora Lacan, "nell'Altro, in quanto luogo del significante, è il significante dell'Altro, in quanto luogo della Legge".15 Nella società postsessantotto, questa funzione istituente del Padre si è vaporizzata. È la tesi di Lacan. L'evaporazione del Padre indica preci13. Un frutto maturo di questa contestazione può essere considerato L'anti-Edipo di Deleuze e Guattari che nella loro critica non si limitano a colpire al cuore il vecchio Edipo normativo di Freud ma coinvolgono anche e assai più radicalmente la stessa teorizzazione lacaniana della psicoanalisi. Vedi G. Deleuze, F. Guattari, Vanti-Edipo. Schizofrenia e capitalismo, tr. it. Einaudi, Torino 1975. 14. Vedi G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, pp. 20-35. 15. J. Lacan, Una questione preliminare a ogni possibile trattamento della psicosi, cit., p. 579. Dobbiamo evidenziare come in Lacan il N o m e del Padre non indica se non il luogo del significante dell'Altro e non ciò che lo occupa nella realtà. Da questo punto di vista c'è una distanza incommensurabile tra la funzione del padre e quella del sovrano, essendo quest'ultimo qualcuno che rivendica il titolo di essere colui che può occupare nella realtà il luogo dell'Altro al quale il N o m e del Padre invece può solo rinviare simbolicamente. sámente il venire meno di questo carattere fondativo, trascendentale, normativo in senso ideale, della funzione paterna. Ecco allora profilarsi il secondo termine presente nella Nota lacaniana: quello dell'"universalismo". Con questa espressione Lacan definisce l'affermazione dei mercati comuni, ovvero quello che oggi definiremmo come fenomeno della globalizzazione. In altri termini, l'universalismo di cui ci parla Lacan è quello prodotto dall'affermazione dell'oggetto di godimento che il discorso del capitalista rende illimitatamente disponibile sul mercato globalizzato. La caratteristica principale di questo discorso sarebbe, infatti, come abbiamo visto in precedenza, quella di concretizzare un legame sociale che si istituisce sulla decapitazione della funzione verticale e orientativa giocata dall'Ideale edipico e che al posto della funzione normativa del Padre impone la potenza reale e immaginaria (non simbolica) dell'oggetto di godimento. Gli effetti di questa imposizione sono sotto gli occhi di tutti: parcellizzazione molecolare del legame sociale, narcisismo, indifferenza, ipnosi collettiva senza alcun vertice apertamente totalitario, diffusione capillare dell'imperativo del godimento, isolamento crescente dei soggetti ridotti a monadi individuali, esclusione dell'Altro a vantaggio della creazione di comunità di simili, prevalere della compunzione all'identità sullo scambio tra le differenze, svuotamento nichilistico del senso della vita, eclissi del desiderio sommerso dalla marea montante di un godimento compulsivo dello Stesso, sentimento diffuso di inesistenza, vuoto, apatia, indifferenza, fatica di esistere. Per tutti questi effetti - ed ecco apparire il terzo e ultimo termine della serie proposta da Lacan - l'universalismo globalizzante non genera affatto una pluralità democratica, ma nuove segregazioni, "segregazioni ramificate", moltiplicazioni delle barriere, rafforzamento comunitario di etnie chiuse su loro stesse, frattura dei legami, isolamenti "straordinariamente sterili", insomma fenomeni di ritorno dell'identico che appaiono come vere e proprie cicatrici sintomatiche della evaporazione del Padre. COSA RESTA DEL PADRE? A Giulia Terzaghi, il cui amore per le lettere mi salvò per primo Questa crisi della funzione orientativa dell'Ideale edipico di fronte alla spinta incalzante dell'oggetto di godimento genera due letture a mio giudizio ugualmente sintomatiche, che riflettono altresì posizioni ideologiche presenti all'interno dello stesso movimento psicoanalitico. Per un verso il fenomeno dell'evaporazione del Padre può essere considerato come un'apertura a possibilità inedite. L'ai di là dell'Edipo diventerebbe il luogo di sperimentazione di legami non più dipendenti dal carattere normativo di quella figura. L'ianti-Edipo di Deleuze e Guattari e una certa esaltazione macchinica del corpo pulsionale vanno indubbiamente in questa direzione. Senza considerare però la forte collusione con il discorso del capitalista, il quale, a sua volta, offre una rappresentazione macchinica del corpo pulsionale: il corpo che gode senza tener conto della castrazione è il corpo sadico, il corpo perverso, il corpo che non conosce l'esperienza del limite, il corpo che fa del corpo dell'Altro uno strumento del suo stesso godimento, il corpo dell'antiamore, del godimento acefalo, del godimento "uniano", come lo definisce Lacan,16 dunque del godimento dell'Uno senza l'Altro. Dal punto di vista sociale questa lettura dell'ai di là dell'Edipo come liberazione della pulsione collude paradossalmente con il centro stesso del discorso del capitalista che è un centro eminentemente cinico. Ciò che conta non è l'asservimento edipico all'Ideale ma il godimento che vuole se stesso, il godimento come volontà cinica di godere. E questa la faccia superegoica del discorso del capitalista che Lacan mette in luce: elevare il godimento alla dignità paradossale del dover essere. Per un altro verso il fenomeno della evaporazione del Padre sembra invece suscitare la nostalgia per il tempo perduto, per la sicurezza garantita dal fondamento paterno, per lo statuto ontologico dell'eccezione, o, se si preferisce, in maniera più prosaica, per il Padre padrone. Come intendere, in effetti, il rigurgito fondamentalista se non come l'appello al Padre totemico, al Padre dell'orda, al Dio pazzo che può creare e distruggere il mondo quando e come vuole e che spinge i suoi fedeli a uccidere nel nome del Bene, a fare il Male nel nome del Bene? - e, sappiamo, che quando qualcuno pensa di agire per il Bene universale non c'è più limite al Male che può causare perché quel Male è, a quel punto, fanaticamente al servizio del Bene! Il fondamentalismo è infatti, nelle sue radici, necessariamente nostalgico; esso rievoca il potere terribile del Padre che garantisce al mondo un senso a priori e alla precarietà della vita un rifugio sicuro in cambio dell'asservimento totale dei suoi figli. In questo caso al Padre evaporato si contrappone l'immagine di un Padre incorrotto, solido, onnipotente che però, in realtà, è solo una compensazione - come già accadde in Occidente nella nefasta stagione dei totalitarismi - del suo declino irreversibile. Nella psicoanalisi stessa il riferimento al quadro edipico come qua16. Vedi J. Lacan, Radiofonia e televisione, eie., p. 82. dro normativo irrinunciabile può rischiare di scadere nella stessa illusione ottica di un fondamentalismo compensatorio dagli effetti francamente discutibili. Queste due letture del fenomeno dell'evaporazione del Padre sono in realtà due facce della stessa medaglia: il cinismo del discorso del capitalista che promette godimento democratico per tutti anima il fantasma fondamentalista del Padre totemico, del castigo superegoico e, a sua volta, secondo una circolarità che mostra la convergenza paradossale di queste antitesi, questo fondamentalismo ospita nel suo seno l'oscenità inconfessata di un godimento senza limite (basti pensare, tra gli innumerevoli esempi che potremmo fare, all'"aldilà" così come viene vagheggiato dai militanti più spietati del terrorismo islamico: luogo di un godimento pulsionale infinito, senza alcun freno inibitorio; luogo sadiano che rovescia specularmente il rigorismo kantiano al quale deve conformarsi la vita nell'"aldiqua"). Credo che uno dei compiti etici fondamentali e attuali della psicoanalisi sia quello di offrire all'ai di là dell'Edipo una declinazione differente da quella del cinismo ipermoderno e del fondamentalismo nostalgico. Innanzitutto Lacan ci ricorda che la funzione paterna è inseparabile dall'introduzione di un luogo Terzo rispetto alla specularità immaginaria e al monismo del godimento entro la cui oscillazione sembra invece restare preso il discorso della Civiltà ipermoderna. Da questo punto di vista la funzione paterna viene assimilata da Lacan alla funzione logica dell'eccezione, dell'almeno-uno che, essendo fuori dalla serie di cui è il fondamento, agisca come la condizione di tenuta della serie stessa.17 E questo il paradosso dell'estimità logica della sovranità che evocavamo poc'anzi. La funzione logica del Padre è quella funzione che salvaguarda, rispetto all'omogeneità simmetrica dell'identificazione e del diritto al godimento uguale per tutti, un luogo asimmetrico, Terzo, eccentrico, capace di introdurre una Legge, un limite, una linea di confine necessaria a introdurre la dimensione della differenziazione simbolica. In questo senso Lacan insiste nell'affermare che la funzione logica del Padre è omologa a quella del linguaggio che impone all'essere parlante il vincolo della parola e, di conseguenza, una inevitabile sottrazione di godimento come condizione d'entrata nel suo campo. In questo modo Lacan intende liberare l'Edipo freudiano da tutti quegli elementi psicologico-immaginari che rischiano di ridurlo a un romanzo familiare e asse17. Sull'attualità di questo tema nel dibattito psicoanalitico vedi J-P. Lebrun, E. Volckrick, Avons-nous encore besoin d'un tiers?, érès, Ramonville Saint-Agne 2005, in particolare J-P. Lebrun, "La distinction des tiers", pp. 105-132. gna non al Padre ma al linguaggio la funzione di Terzo rispetto alla coppia immaginaria e incestuosa madre-bambino. La funzione paterna è dunque omologa a quella del linguaggio perché introduce una mancanza nel soggetto limitando il godimento immediato della pulsione (decretando, secondo Lacan, la morte della Cosa) e generando come effetto di questa limitazione (castrazione simbolica) il movimento del desiderio. Resta evidente che in tutto questo ragionamento sull'eccezione l'accento non cade tanto su chi occupa quel luogo - il luogo Terzo dell'eccezione presentificato dal sovrano - ma sulla funzione eminentemente logica di quel luogo la cui caratteristica è proprio quella di non lasciarsi mai occupare da Uno, ma di permettere differenti declinazioni discorsive. Tuttavia dobbiamo anche chiederci quale è la funzione del Padre rispetto a quella esercitata dal linguaggio, perché se il linguaggio è una struttura di separazione che sgancia l'essere umano - il parlessere, come direbbe Lacan - dall'immediatezza del godimento incestuoso della Cosa, dunque che introduce il soggetto al desiderio per la via della sua castrazione simbolica, che cosa resta della funzione paterna in quanto tale, che cosa resta del Padre? Provo a rispondere a queste domande ricordando come la funzione simbolica del Padre abbia innanzitutto il compito di preservare il luogo dell'Altro come luogo vuoto per rendere possibile una trasmissione del desiderio capace di istituire una discendenza generazionale. Se invece il Padre occupa quel luogo ponendosi come un Ideale assoluto viene a meno la condizione basica di questa trasmissione. Un padre è colui che preservando vuoto il luogo dell'Altro sa offrire ai propri figli una soluzione incarnata di come si può vivere nel desiderio senza distruggersi, impazzire o suicidarsi. Perché questo vuoto animi il desiderio del soggetto è infatti necessario trovare una testimonianza di cosa significhi desiderare. In questa incarnazione della testimonianza trovo che la funzione paterna in senso stretto trovi il suo significato più pieno. In generale la preservazione del luogo dell'Altro come luogo vuoto è ciò che agisce come condizione della tenuta stessa di ogni insieme, di ogni ordine possibile, di ogni serie significante, degli stessi legami che costituiscono il corpo sociale. Senza questo elemento Terzo nessun insieme - ma anche nessuna significazione - potrebbe strutturarsi efficacemente come mostra ampiamente la teoria lacaniana del Nome del Padre. Eppure questo elemento Terzo non può più - nell'epoca ipermoderna - essere pensato come base ontologica o teologica, ma solo come una pura funzione logica la cui incarnazione suppone una decisione senza fondamento, un atto non garantito, una presa di posi- zione che si può giustificare solo in se stessa, nella sua più pura contingenza. La logica che anima il discorso del capitalista punta invece ad annullare il carattere Terzo di quel luogo mediante la falsa democrazia di una simmetrizzazione generalizzata del legame con l'oggetto di godimento (il soggetto viene ridotto a "turboconsumatore"), mentre quella fondamentalista vorrebbe occuparlo definitivamente con la potenza di un Dio padrone o con il dispiegamento di valori ideali assoluti. In entrambi i casi il carattere Terzo del Nome del Padre verrebbe meno. Per questa ragione uno dei temi più scottanti della nostra epoca è quello relativo a come salvaguardare questo vuoto, ovvero a come coniugare la funzione logica del Padre con la necessità etica di incarnare questo vuoto, di dargli una consistenza esistenziale, di renderlo operativo. Mi pongo, dunque, ancora la questione che giudico decisiva: cosa resta del Padre? Cosa può funzionare come Padre nell'epoca dell'inesistenza del grande Altro, della caduta irreversibile del Padre-norma, del Padre-fondamento, nell'epoca della sua evaporazione? Come si può fare valere la logica dell'eccezione che consente la tenuta dei legami tra le generazioni? Come si può coniugare questa versione del Padre come custode del vuoto con la necessità della sua incarnazione esistenziale? O ancora: cosa significa trasmettere l'esistenza di questo luogo Terzo in un'epoca che tende a escluderne cinicamente l'esistenza (discorso del capitalista) o a occuparlo abusivamente (fondamentalismo ideologico)? Alcuni lacaniani individuano ciò che resta del Padre nel sintomo come espressione del carattere singolare e irriducibile a ogni universale del soggetto dell'inconscio. Questa idea suppone che se il Padre evapora la sola possibilità di regolare soggettivamente il godimento resta quella offerta dal sintomo, non come indice di una patologia o di una qualche disfunzione del corpo o del pensiero, ma, appunto, come una nuova organizzazione singolare (antiuniversale) di godimento. 18 Io penso invece che non si possa liquidare troppo rapidamente la questione di come un padre sia in grado di incarnare o meno il suo desiderio, e, dunque, degli effetti formativi e di trasmissione del desiderio che questa incarnazione è in grado o meno di produrre per le nuove generazioni, anche se penso pure che la via di una sua restaurazione trascendentale è preclusa e darebbe luogo solo a fanatismi fondamentalisti. Ma di quale incarnazione paterna del desiderio vi sarebbe allora ancora bisogno? Daccapo: che cosa resta del Padre nell'epoca della sua evapo18. Per esempio è questo l'orientamento assunto, nella variegata comunità lacaniana, da Jacques-Alain Miller; vediJ-A. Miller, "Una fantasia", tr. it. in Lapsicoanalisi, 38,2005, pp. 17-34. razione? In che modo possiamo salvaguardare quel luogo Terzo che il Padre rappresenta dalla tendenza ipermoderna alla sua cancellazione? Ecco la mia tesi: ciò che salvaguarda la funzione terza del Padre, nell'epoca del suo declino come funzione simbolico-normativa, è la dimensione etica della testimonianza. Il Padre che resta o, se si preferisce, il resto del Padre, quel resto che mantiene il suo carattere terzo, irriducibile all'identificazione tra simili e al consumo omogeneo del godimento uguale per tutti imposto dal discorso del capitalista e irriducibile anche all'autorità folle e ipnotica del Dio di ogni fondamentalismo, risiede nella responsabilità etica di offrire una risposta possibile su come si possa mantenere unito il desiderio alla Legge, su come si possa sostenere alleanza tra il desiderio e la Legge. Questa risposta è la sua responsabilità radicale, e questa responsabilità è ciò che, in ultima istanza, resta del Padre. Questa risposta per essere tale, ovvero per esercitare la sua funzione etica, richiede una incarnazione singolare. La risposta del Padre quella risposta che può valere non per la sua esemplarità universale (esemplarità che contraddistingue solo il padre educatore dello psicotico), ma per la sua capacità di trasmettere una testimonianza particolare dagli effetti non-prescrittivi, ma casomai retroattivi - 1 9 esige l'incarnazione, nel senso che si oppone a ogni retorica pedagogica, a ogni pensiero valoriale in senso morale, ma anche a ogni versione ideale-universale della testimonianza stessa. Questo significa che la dissoluzione dell'Edipo come orizzonte trascendentale, come orientamento morale-ideale del soggetto, deve lasciare il posto non a una uscita di scena del Padre, ma all'accentuazione etica, e non più trascendentale, della sua funzione. La crisi dell'Altro simbolico (della politica, del religioso, dell'aura estetica, della morale ecc.) non deve esaltare la disgregazione dei legami familiari e sociali ma aprire a una loro diversa ricomposizione, a un modo nuovo di fare esistere una comunità che sappia implicare il carattere radicalmente asimmetrico del vuoto al quale la funzione simbolica e logica del Padre rinvia.20 Se il Padre non è più il fondamento sicuro della Legge, se non è più il rappresentante della norma che governa 19. Un' P a ^ r e volesse incarnare nei suoi atti una vita esemplare ponendosi come modello ideale sarebbe " " Padre insopportabile. Per questo il valore eventualmente esemplare della sua testimonianza p ^ ;arsi solo retroattivamente, après coup, e mai come una intenzione prescrittiva. E solo nel tempo c e U n jj 0 p 0 t r ^ [-¡trovare le tracce della testimonianza paterna rivalutandone il valore di t r a s m i s s i 0 n e d e , d e s ^ £ r i o 20. Su qu j p t o , anche se senza riferimenti espliciti alla dottrina di Lacan, resta per me un riferimento es ^ e R Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998. Sulla st ea J j p e n s i e r 0 m i sembrano anche le importanti riflessioni di Lebrun sul disagio contempo Jella civiltà: vedi T-P. Lebrun, Le perversion ordinane. Vwre ensemble sans autrui, Denoel, P a n s 2007 l'ordine simbolico, se il Padre rivela la sua inesistenza trascendentale, l'abisso che lo attraversa, se esso non può più fondare il suo potere sull'egemonia del patriarcato, sull'esistenza di un grande Terzo, come avveniva per esempio nelle società religiose, questa sua dissoluzione può lasciare il posto al potere anarchico dell'oggetto di godimento o alla riesumazione nostalgica del Padre-padrone, ma può anche generare lo spazio della testimonianza come incarnazione singolare di una soluzione possibile dell'enigma relativo a come annodare, a come tenere insieme, il desiderio alla Legge che, secondo Freud e Lacan, è l'enigma più proprio custodito nella questione paterna. Un padre, quel che resta del padre, quel che del padre resta nella testimonianza incarnata di come unire desiderio e Legge, pone esattamente questa interrogazione di fondo: come si può dare corpo, consistenza, spessore esistenziale, come si può oggi, nell'epoca del trionfo dell'oggetto, nell'epoca dello sbriciolamento di ogni forma di comunità, nell'epoca del ritorno spettrale del Dio fondamentalista, testimoniare il legame particolare tra desiderio e Legge? Che cosa può essere una vita animata dal desiderio e in grado di non lasciarsi trascinare nelle spirali mortifere del godimento? Non è forse questo che un padre è tenuto a incarnare rispetto ai suoi discendenti? Non è forse questo ciò che si chiede a un padre? Non è questo il cuore di ogni trasmissione, di ogni autentica eredità? Mostrami con la tua vita, con la tua esistenza, con la carne della tua esistenza singolare, come hai potuto vivere seguendo il più coerentemente possibile il tuo desiderio? Come hai potuto e saputo rinunciare al godimento immediato, dissipativo, illimitato della pulsione di morte per scegliere la via più lunga del desiderio e in questa via godere delle tue realizzazioni? Dimmi: come hai saputo sostenere la potenza del desiderio come potenza vitale? Ma anche, dimmi come hai potuto e saputo cedere una libbra del tuo godimento, della tua carne, come hai saputo vivere nella castrazione del tuo godimento senza sacrificio, senza il godimento del sacrificio, come hai potuto essere nella castrazione e donare, trasmettere ai tuoi figli, alle generazioni che sono venute dopo di te, una significazione possibile e creativa del desiderio. La trasmissione di un desiderio non anonimo - che resta l'effetto essenziale della funzione paterna - non può che avvenire attraverso questa testimonianza singolare. Non attraverso la retorica educativa, né tantomeno per la via obsoleta della voce autoritaria del padrone. Ripetiamolo: quello che resta del Padre è un 'incarnazione possibile del nodo che tiene insieme la Legge al desiderio. Un'incarnazione che può non associarsi affat- to al padre reale, al padre biologico, ma che può essere incontrata anche per altre vie: un libro, un discorso, un'amicizia, un amore, una politica, la disciplina paziente di una pratica, una comunità, un'opera... uno psicoanalista. L'EPOCA DELLA PRECARIETÀ E LE PATOLOGIE DEL LEGAME L'epoca della evaporazione del Padre è l'epoca di una precarietà economica e materiale, ma anche di una precarietà simbolica. L'esperienza della precarietà è una esperienza di solitudine, di angoscia, di insicurezza, è una esperienza di perdita di padronanza. La nostra esistenza è, come tale, una espressione della precarietà. Lo ricorda anche Freud in apertura de II disagio della civiltà-, l'uomo non è fatto per essere felice. La morte, la malattia, l'esistenza dell'altro uomo, rendono precaria la sua vita.21 Tuttavia, proprio perché la precarietà definisce l'esistenza come tale, il soggetto aspira sempre a un legame, aspira a trovare nell'Altro la consistenza di cui manca, la condizione per curare la sua precarietà. Per la psicoanalisi i legami umani in generale sono, almeno da questo punto di vista, delle supplenze all'inesistenza del rapporto sessuale, ovvero dell'assenza di legame tra il godimento dell'Uno e il godimento dell'Altro. Gli esseri umani si difendono dalla precarietà che li intacca innanzitutto per la via del legame sociale. E una tesi classica anche della filosofia politica: il legame civile protegge gli uomini dalla precarietà che assedia minacciosamente le loro vite. Per la psicoanalisi, in generale, il legame sociale è dunque una cura della precarietà. O, se si preferisce: la precarietà genera la tendenza al legame come un suo trattamento possibile. La clinica delia nevrosi è, per esempio, una clinica nella quale viene accentuata proprio la natura protettiva (ana elitica o narcisistica, secondo Freud) del legame: il legame come esorcismo nei confronti della precarietà. La dipendenza dal legame è infatti un sintomo costante nella clinica della nevrosi quanto l'angoscia nei confronti della precarietà. In questo senso, Freud affermava che ogni nevrotico conserva sempre dei tratti infantili. Bion ha nominato questa esigenza protettiva del legame come tendenza socialistica, sociocentrica.22 Possiamo affermare che per questa funzione protettiva attribuita immaginariamente al legame la clinica della nevrosi 21. Vedi S. Freud, Il disagio della civiltà, tr. it. in Opere, cit., voi. 10, pp. 568-569. 22. Vedi W.R. Bion, Cogitations-Pensieri, tr. it. Armando, Roma 1996, p. 133. si configuri come una clinica della patologia del desiderio nella quale il soggetto tende a vivere il proprio desiderio come incapace di concludere, incapace di realizzazione, di soddisfazione, insomma, come un desiderio inconcludente. E qualcosa che l'esperienza clinica conferma: il desiderio nevrotico è un desiderio che soffre per il suo essere perennemente inconcludente. E tuttavia, ed è sempre l'esperienza clinica che ce lo dimostra, la sofferenza causata dalla propria inconcludenza diviene anche un luogo paradossale di godimento. Il nevrotico è colui - come ci insegna la clinica lacaniana della nevrosi - che gode dell'impossibilità (nevrosi ossessiva) o dell'insoddisfazione (isteria) del desiderio. Nei Complessi familiari Lacan definisce con precisione nel culto dell'impotenza e in quello dell'utopia i due versanti cruciali della patologia nevrotica del desiderio, i due modi attraverso i quali il soggetto nevrotico conduce il proprio desiderio al fallimento.23 In entrambi ritroviamo l'idea freudiana che nella nevrosi il desiderio del soggetto soccomba allo "strapotere della realtà". Il impotenza consiste in una sua non realizzazione che avviene per assenza di forza sufficiente, per inadeguatezza, per insufficienza fallica del soggetto di fronte, appunto, a quello strapotere. Il soggetto si sente sempre inadeguato, non all'altezza, rispetto al compito richiesto dal suo desiderio. Preferisce allora assecondare il comandamento sociale della cosiddetta realtà che avventurarsi lungo il difficile cammino dell'assunzione responsabile del proprio desiderio. In questo caso 0 fallimento assume la forma dell'impotenza. L'altro versante è invece quello delYutopia che è una non realizzazione del desiderio che si sostiene sull'ideale illusorio e sulla posizione dell'anima bella, dunque sull'evitamento del reale in gioco nel proprio desiderio. Anche in questo caso il soggetto sembra in difficoltà a contrastare efficacemente lo "strapotere della realtà". Egli preferisce il vagheggiamento di un ideale impossibile da raggiungere che affrontare la partita effettiva del proprio desiderio. L'utopia è un'illusione che garantisce al soggetto di non decidersi mai nelle sue scelte ma di constatare che c'è sempre qualcos'altro che potrebbe essere meglio di ciò che esso è o ha. In questo modo l'utopia disimpegna il soggetto dall'assunzione etica del proprio desiderio in nome di un al di là evocato in realtà come un rifugio rispetto all'angoscia relativa all'assunzione del proprio desiderio. In entrambe queste posizioni - impotenza o utopia - la nevrosi si manifesta come una necessità di difesa dal desiderio o, se si preferisce, come difficoltà del soggetto ad assumere eticamente il proprio desiderio. Il sogget23. VediJ. Lacan, / complessi familiari nella formazione dell'individuo, cit., p. 52. to arretra di fronte alla possibilità di manifestare con decisione la forza del suo desiderio. Prevale l'esigenza socialistico-conformista del legame (nevrosi ossessiva) o il lamento dell'insoddisfazione per ogni legame (isteria). Il legame nevrotico è tendenzialmente un legame impotente o utopico. E tuttavia il nevrotico esige il legame, è sempre alla ricerca di un legame; egli, come afferma Lacan, dipende dalla domanda dell'Altro. La clinica della nevrosi non è una clinica della dissoluzione cinica dei legami, dello scioglimento del legame, che invece, come vedremo meglio fra poco, costituisce il cuore osceno del discorso del capitalista e della nuova clinica, ma è una clinica animata della necessità del legame anche se questa necessità rischia di indebolire la forza singolare del desiderio. Più precisamente, per il nevrotico il legame tende a funzionare come una difesa dal reale. Impotenza e utopia sono effettivamente due difese nevrotiche dal reale. Nella clinica psicoanalitica la struttura nevrotica è la struttura che più massicciamente si difende dal reale, dunque che più massicciamente ricerca i legami come argini protettivi contro l'incandescenza angosciante del reale. Per questa ragione di fondo il legame può tendere a diventare a sua volta sintomatico. Il legame, cioè, può assumere la forma di un vero e proprio sintomo; può diventare per il soggetto il luogo di un trattamento privilegiato del reale. Nondimeno questa riduzione sintomatica del legame tende a produrre nel soggetto nevrotico insoddisfazione. E qualcosa che la clinica ci conferma regolarmente: il legame nevrotico è segnato dall'insoddisfazione, dall'insoddisfazione dell'impotenza e dall'insoddisfazione dell'utopia. Non riesco mai a stare come vorrei nel legame (impotenza); sogno sempre un legame diverso da quello in cui sono (utopia). La clinica della psicosi invece è una clinica dell'attacco al legame, del rifiuto del legame, della rottura del legame, dello scatenamento (déclanchement), come direbbe Lacan. La parola dello psicotico rinuncia a farsi riconoscere, la sua libertà, precisa sempre Lacan, è solo negativa.24 È una libertà solo negativa perché punta a recidere ogni legame con l'Altro, a escludere l'Altro. La libertà del folle vuole rigettare ogni forma di debito e di alienazione. E una libertà che si vuole come assoluta. Dunque è un delirio della libertà. Eppure la clinica della psicosi non si caratterizza solo per questo strappo nei confronti del legame sociale - lo schizofrenico è colui che diserta il legame come limite alla precarietà, che sceglie la precarietà piuttosto del falso accomodamento nevrotico nei legami - ma è 24. Vedi J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, tr. it. in Scritti. cit., p. 273. anche una clinica della cementificazione del legame. Come abbiamo già indicato in apertura di questo libro, Jacques Lacan pone nella figura della "psicosi sociale", in linea con le ricerche cliniche di Helene Deutsch sulle personalità "come se", di Winnicott sul "falso Sé", di Bollas sulle personalità normotiche, una corruzione del legame sociale che si sviluppa non tanto come una rottura traumatica con la realtà, ma per eccesso di identificazione alla realtà. In questo caso l'attacco al legame non si manifesta tanto come disgregazione, frattura, rottura del patto simbolico con l'Altro - come accade nelle psicosi deliranti - , ma come immedesimazione acritica al sistema dell'Altro, come adesione olofrastica alle sue insegne sociali, come indifferenza nei confronti del desiderio inconscio. Le patologie del legame possono dunque essere patologie del desiderio (sacrificato alla sopravvivenza sintomatica del legame), come accade nelle nevrosi, patologie del rifiuto o della rottura del legame (dove è il legame che viene distrutto dal godimento dissipativo, non normato dalla castrazione), come accade nelle psicosi deliranti, ma anche patologie delXirrigidimento identificatorio del legame, come avviene nella clinica delle psicosi sociali o, se si preferisce, delle identificazioni solide. Mentre la prima patologia preserva la precarietà del soggetto, la precarietà del soggetto diviso, del soggetto come mancanza a essere, del soggetto del desiderio, la seconda e la terza segnalano invece un collasso del soggetto diviso. La figura dello psicotico che rompe le catene del significante o quello che si assimila socialisticamente a un significante identificatorio, coincidono nel porre il legame - la sua distruzione come la sua iperdeterminazione - come alternativa secca al desiderio. In questo senso la clinica psicoanalitica mostra gli effetti distruttivi provocati dal legame che si frattura, ma anche gli effetti, altrettanto distruttivi, del legame che diventa laccio, lega, fascio, del legame che abolisce ogni spazio autenticamente comune. In questi casi il legame non frena il godimento ma diventa, secondo logiche diverse, luogo di un godimento mortifero. E il cuore psicotico della psicologia delle masse segnalato da Bion: il legame non sposta il godimento verso il desiderio, ma genera solamente il godimento infatuato dell'Uno e la sua difesa a oltranza, priva di mente. LEGAMI ALLA DERIVA In quanto spinta alla deriva del soggetto la pulsione di morte è la manifestazione più violenta della precarietà. Il godimento si sgancia dall'amore, Thanatos si scioglie da Eros, la morte si afferma come aspi- razione più profonda del soggetto, come avviene in modo esemplare nella melanconia che, ricordiamolo, per Freud è la patologia che illustra gli effetti più drammatici del disimpasto pulsionale tra Eros e Thanatos, del disannodamento tra la pulsione di vita e quella di morte, dunque dello scioglimento del legame tra l'Uno e l'Altro. Ma il godimento di Thanatos non si esaurisce solo nella figura della melanconia, non implica sempre la recisione di ogni possibile legame con l'Altro. Questo godimento lo possiamo trovare all'opera anche nella realizzazione di legami sociali che cancellano l'alterità nella forma della fusione fanatica che anima l'identificazione a massa sulla quale si struttura ogni legame totalitario. In questo caso l'attacco al legame dà luogo a una forma ipertrofica di legame che esclude la differenza del soggetto dell'inconscio. Per questa ragione Bion lo definisce un legame ottuso e privo di mente. Si tratta, infatti, di una forma di legame che annulla il legame con l'alterità riducendolo a una adesione ipnotica alla volontà dell'Altro situato nella posizione di padrone. A questo punto potremmo chiederci: ma non è forse il godimento, per principio, senza legame? Non è il circuito stesso del godimento fondamentalmente autistico? Non è forse questa la differenza che lo separa dal desiderio? Se il desiderio è desiderio dell'Altro, il godimento non sarebbe forse sempre godimento dello Stesso, godimento della Cosa senza l'Altro, godimento come rifiuto dell'Altro? Da un punto di vista molto generale la pratica della psicoanalisi è una pratica che punta a riannodare eticamente Eros e Thanatos. In questo senso essa potenzia in un soggetto la capacità di costruire e di abitare legami. Nel Seminario X Lacan ha teorizzato la funzione dell'amore proprio in questi termini: fare convergere il desiderio col godimentoP L'amore come legame implica, infatti, la convergenza, l'intreccio, l'impasto del godimento pulsionale e del desiderio in quanto desiderio dell'Altro. E questo il modo più diretto con il quale Lacan prova a ripensare l'impasto pulsionale freudiano, dunque la funzione dell'amore, la funzione di Eros come annodamento di Thanatos. Per Freud Eros è un trattamento, il trattamento fondamentale, di Thanatos. Se Thanatos è la spinta a slegare - il disannodamento, la distruzione del legame, è una manifestazione della pulsione di morte - , se Thanatos è, come si esprimeva Edoardo Weiss, pura destrudo, una spinta, una forza, dunque non uno stato d'essere, ma una forza che rifiuta ogni forma, ogni connessione, ogni articolazione, ogni legame possibile con l'Altro, 25. Vedi J. Lacan, Il seminario. Libro X, cit., p. 193. allora l'Eros freudiano è ciò che può dare forma alla forza, è ciò che può produrre una forma che è già una forza capace di produrre forme. In altre parole, Eros sarebbe la capacità di produrre un legame che non sia solo castrazione del godimento, ma anche realizzazione di un'altra soddisfazione. La funzione del legame non è, infatti, solo quella di regolare il narcisismo mortifero dell'Uno da solo, di regolare la potenza distruttiva del godimento, ma è anche la possibilità di permettere al godimento di convergere col desiderio, dunque di non escludere l'Altro ma di realizzarsi proprio attraverso lo scambio simbolico con l'Altro. La definizione lacaniana dell'amore come ciò che fa convergere il desiderio col godimento non è solo una definizione dell'amore come legame tra due esseri umani, ma è anche una definizione di una possibile politica della psicoanalisi. Come permettere l'annodamento della forza della pulsione (della spinta a godere) con l'apertura del desiderio al campo dell'Altro? Come non richiudere su se stessa la forza pulsionale? Come imbrigliare in modo non semplicemente repressivo-disciplinare (cioè superegoico) la pulsione di morte, la spinta dissipativa al godimento? Come, insomma, legare questa spinta alla potenza del desiderio? Nel far convergere il desiderio col godimento, l'amore realizza una forma di legame non totalitario perché include in questo legame l'esperienza del desiderio che è esperienza del non-tutto, della differenza assoluta e della separazione. La grande scommessa per una politica della psicoanalisi sarebbe quella di realizzare un legame fondato non sull'utopia totalitaria dell'Uno, né sull'impotenza nichilistica che sperimenta ogni legame come impraticabile, ma sulla dimensione detotalizzata del non-tutto. In altre parole: sapere costruire legami sullo sfondo di una precarietà (l'inesistenza del rapporto sessuale) dalla quale non si può guarire. Il legame erotico è dunque una forma che è già una forza, mentre nella clinica delle nevrosi - che è sempre una clinica delle difficoltà di manifestare la potenza di Eros - tende a prevalere l'una o l'altra, o una forma senza forza (nevrosi ossessiva) o una forza senza forma (isteria). Dove predomina l'esigenza meramente protettiva, il legame diventa uno scudo difensivo rispetto alla forza, diventa solo una forma che perde ogni legame con la forza appiattendosi su di un funzionamento burocratico, sganciato dal desiderio. E ciò che illustra, per certi versi, il funzionamento ossessivo del legame. L'esistenza del legame in quanto tale conta più della sua vitalità, anzi, è un modo per annullare il carattere necessariamente aleatorio di ogni legame vitale, di privarlo della sua forza erotica. D'altra parte se vi fosse solo forza non vi sarebbe legame possibile: la forza senza forma è distruzione, disordine, scatenamento, rottura senza rimedio del legame. E ciò che illustrano diversamente l'isteria e la follia: nel primo caso l'esistenza stessa del legame è vissuta come un ostacolo alla realizzazione del desiderio perché riduce la sua utopia a un oggetto qualunque del mondo, mentre nel secondo caso il soggetto si proclama libero da ogni legame, privo di radici, senza alcun debito nei confronti dell'Altro, rigettando ogni forma di alienazione sino alla distruzione di se stesso, perché non può beneficiare della funzione simbolica della castrazione. IL RISCHIO DEL LEGAME Il legame non è solo una protezione dalla precarietà ma può anche essere un luogo di manifestazione della precarietà. Ogni legame umano è, come tale, esposto alla precarietà; ogni legame umano sorge sempre da una contingenza, non è mai una necessità scritta nel destino. In questo senso ogni legame non è solo il luogo di una iscrizione simbolica o di un rifugio immaginario del soggetto, ma è anche quello di una esposizione alYinsecuritas della contingenza. Essere in un legame significa essere esposti all'incognita del desiderio dell'Altro. 26 Il legame implica sempre l'erotizzazione e l'erotizzazione può provocare angoscia approssimando troppo il soggetto all'oggetto causa del suo desiderio. Per questa ragione, in generale, la vera posta in gioco del discorso del padrone - il quale sorveglia affinché la macchina disciplinata del soggetto funzioni a dovere, cioè senza desiderio - è sempre la sterilizzazione di Eros. Il discorso del padrone tende a imporre legami di potere che neutralizzino la forza del desiderio. Esso promette di difendere dalla precarietà solo perché istalla il soggetto in un ordine stabilito. Per questo nella posizione di agente esso colloca l'S dell'identificazione idealizzante alla quale il soggetto aderisce rinunciando al proprio desiderio in cambio di un guadagno di solidità identitaria e di appartenenza. Se il legame stabilito dal discorso del padrone è un legame di potere - dunque un legame che impone l'identificazione contro la separazione e la differenziazione - , quello che esprime potenza è invece 26. La clinica del gruppo monosintomatico mostra, per esempio, come il divenire del gruppo un oggetto libidico per i membri che lo compongono possa coincidere con una separazione di certi soggetti dal gruppo, con una loro uscita angosciata o con una fobicizzazione dell'oggetto-gruppo visto come oggetto causa di angoscia proprio in quanto erotizzato. Su questi temi sono obbligato a rinviare a M. Recalcati, L'omogeneo e il suo rovescio. Per una clinica psicoanalitica del piccolo gruppo monosintomatico, Franco Angeli, Milano 2005. un legame capace di condurre il desiderio alla sua realizzazione, è un legame che sa intrattenere una relazione critica col discorso del padrone. E una forza che non si accontenta di indossare la forma alienata della volontà dell'Altro. E piuttosto una forza che cerca la sua propria forma. Il legame che esprime potenza è quel legame che non intende imbrigliare il desiderio perché, come affermava Elvio Fachinelli a proposito della sua pratica coi gruppi, questo legame è solo uno stato del desiderio.21 Mantenere un soggetto, una istituzione o un gruppo, o più in generale, una politica, nella condizione del desiderio produttivo è il modo per riannodare l'effetto Thanatos attraverso Eros, per opporre al discorso del padrone e al discorso del capitalista, come sua variante ipermoderna, la potenza dell'amore come ciò che fa convergere il desiderio col godimento. D'altra parte non c'è soggetto, gruppo o istituzione immune da Thanatos, immune dal rischio della rottura del legame, dalla tendenza alla distruzione del legame. La presenza della pulsione di morte è una costante della vita soggettiva come di quella collettiva e istituzionale. Ci sono però un soggetto o una istituzione che vivono paranoicamente Eros come minaccia, come attacco al legame, come sconvolgimento dell'ordine stabilito e ci sono un soggetto o una istituzione che si sostengono sulla circolazione della forza del desiderio in cerca della sua forma più propria. Più precisamente: potremmo pensare che il legame sociale come tale tenda a oscillare tra queste due polarità. Tra la polarità della forma e quella della forza. Se però questa oscillazione dà luogo a una fissazione sul polo della difesa dell'ordine stabilito (della forma) che conduce a vivere il nuovo come minaccia, c'è malattia, c'è malattia del potere, c'è paranoia, c'è la malattia paranoica del potere che consiste, appunto, nel vivere Eros come un attacco al legame. Se, al contrario, prevalesse a senso unico una forza allergica a ogni forma, a ogni legame stabilito, non vi sarebbe istituzione possibile, freno al godimento, legame che possa durare nel tempo, ma solo caos, forza senza forma alcuna, dispersione di energia libidica, tendenza sterilmente antistituzionale. Il discorso del padrone ritiene che per trattare Thanatos occorre disciplinare il godimento. La psicoanalisi, che non misconosce affatto questa esigenza, aggiunge una posta in gioco superiore: insegna che per contrastare Thanatos non è sufficiente il trattamento disciplinare del godimento, ma occorre innanzitutto operare per la riattivazione singo27. Vedi E. Fachinelli, "Il desiderio dissidente", in II bambino dalle uova d'oro, Feltrinelli, Milano 1974, p. 112. lare del desiderio. L'ombrello dell'Edipo nella nostra epoca, che è l'epoca della evaporazione del Padre, non è più sufficiente a garantire questa riattivazione. Il Padre edipico non detiene la risposta circa l'enigma singolare del desiderio. Quel che resta del Padre può solo offrire un'incarnazione del desiderio irriducibile alla volontà che anima il progetto di uniformazione del discorso del padrone. Quel che resta del Padre è una testimonianza ontologicamente indebolita, depotenziata, ma eticamente resistente, di come si possa mantenere l'esistenza desiderante non nonostante ma grazie alla mancanza che l'attraversa. Perché per la psicoanalisi, diversamente dal discorso del padrone, solo Eros è l'unico trattamento, eticamente compatibile con la sua pratica, di Thanatos. Ill L'IDEOLOGIA IPERMODERNA DEL BENESSERE L'IDEALE DELLA SALUTE O IL REALE DEL SINTOMO? LA "FAGLIA EPISTEMO-SOMATICA" E L'IMPERATIVO DELLA SALUTE Nell'attualità ipermoderna il discorso delle cure appare sempre più vincolato alla logica disumana della quantificazione: grafici, scale, dati statistici, costanti biologiche, diagrammi computerizzati occupano la scena svuotandola della dimensione etica della parola. L'affermazione scientista di un linguaggio protocollare e integralmente formalizzato non esime però il medico dal fronteggiare la dimensione più specifica e scottante della sua pratica, ovvero l'incontro con la domanda di aiuto del soggetto. Questa domanda implica una singolarità spigolosa che non può essere aggirata attivando delle semplici procedure standardizzate, uguali per tutti, omogenee. Le pratiche della cura che non danno il giusto valore a ciò che unisce problematicamente la sofferenza sintomatica a una domanda singolare tendono inevitabilmente a produrre dispositivi totalitari del trattamento della sofferenza. Per questa ragione Lacan avverte il medico sulla centralità che deve assumere nella sua pratica la giusta valutazione del carattere singolare e paradossale della domanda, la quale contiene sempre uno scarto, un elemento irregolare, singolare appunto, rispetto alla pura e semplice domanda di guarire: Quando il malato è inviato presso un medico o quando ci va direttamente, non dite che egli si aspetta puramente e semplicemente la guarigione. Egli mette il medico alla prova per farlo uscire dalla sua condizione di malato, cosa che è molto differente, perché questo può implicare che egli possa essere completamente attaccato all'idea di conservarla. Talvolta, viene proprio per domandarci di legittimarlo come malato. In altri casi viene, nel modo più evidente, a domandarci di preservarlo nella sua malattia, di curarlo nel modo a lui più conveniente, quello che gli permetterà di continuare a essere ben collocato nella sua malattia.1 Una pratica della cura che voglia rispettare la dimensione umana della domanda non deve precipitarsi - suggerisce qui molto opportunamente Lacan - a rispondere a questa domanda senza, per esempio, considerare l'eterogeneità strutturale che la separa dal desiderio, dunque senza prendere in carico quell'elemento singolare che differenzia questa domanda da qualunque altra. Questa differenza viene ignorata dalle pratiche totalitarie della cura, le quali prescindendo dalla domanda come evento soggettivo regolano la loro azione su di un criterio burocraticamente amministrativo o su un'esigenza produttiva che impone trattamenti standard protocollari della domanda di cura. Più precisamente, per Lacan l'oggetto della pratica medica non dovrebbe essere la natura ovvia e scontata della domanda di guarigione, quanto piuttosto la "faglia epistemo-somatica" che separa il corpo come pura estensione, come mero oggetto passivo del sapere scientifico, come oggetto delle cure, dal corpo come corpo vivente, sessuato, come "qualcosa che è fatto per godere, per godere di se stesso". 2 Per la scienza medica assorbita dai problemi della sua produttività, assillata dalla necessità sociale della sua organizzazione pubblica e dal controllo biopolitico della salute, il corpo-godimento resta impensato ed escluso dall'orizzonte della sua azione. Il sapere medico-scientifico vuole richiudere il più in fretta possibile il carattere scabroso della faglia epistemo-somatica, riducendo il corpo del soggetto a un oggetto inanimato sottoposto al potere delle procedure tecnico-scientifiche e del loro sguardo pervasivo: il corpo ridotto a oggetto è il corpo fotografato, radiografato, calibrato, diagrammatizzato e condizionabile, è il corpo non del soggetto ma del sapere medico. 3 In gioco è qui il corpo-fatticità e non il corpo-verità, per riprendere una distinzione proposta da Georges Canguilhem con la quale egli intende differenziare il corpo come mero dato di fatto (corpo-fatticità), oggetto di manipolazione del sapere tecnicoscientifico della medicina, dal corpo vivente, dal corpo come "esistente singolare", come presenza al mondo, dotato di un senso proprio di verità. Nell'ambito di questa differenziazione il concetto di "salute" non ha alcuna dignità per rappresentare adeguatamente la verità del corpo, poi1. J. Lacan, "Psicoanalisi e medicina", tr. it. in La psicoanalisi, 32,2002, p. 13. 2. Ibidem, p. 14. 3. Ibidem. ché si pone come un'essenza normativa che precede l'esistenza, come un modello obbligato, un dover essere, un tipo ideale, che trascura il carattere unico e singolare dell'esistenza e che, soprattutto, dà per scontato che il corpo vivente segua naturalmente la via universale del cosiddetto benessere. L'ideale della salute diventa un nuovo imperativo sociale che subordina al suo comando le esigenze particolari della vita. Tuttavia questo concetto idealizzato della salute - oggi alla moda - si regola esclusivamente sul corpo-fatticità forcludendo il corpo-godimento. Per questo una mossa fondamentale della pratica psicoanalitica consiste nel mantenere separate la dimensione della clinica da quella della salute. Il dominio del corpo-fatticità è il dominio della misura e del calcolo, della valutazione quantitativa e della salute come ideale universale. Il luogo del corpo come verità implica invece sempre una pluralizzazione degli stili di vita, dei modi di godimento e della stessa misura della felicità, dunque uno sfaldamento critico del concetto normativo e omogeneo di salute. Questa pluralizzazione del corpo definisce il campo della clinica - la quale si occupa effettivamente dei modi d'esistenza del corpo-godimento più che delle classificazioni e delle manipolazioni del corpo-fatticità - , nel quale ciò che conta è solo la misura singolare della propria felicità. Per questa ragione il medico avvertito non si interesserà di uniformare il corpo malato al corpo cosiddetto sano, ma di cogliere innanzitutto la particolarità storica ed esistenziale di quel corpo e della sua malattia. Nella pratica della cura ne deriva, sempre secondo Canguilhem, che: il mio medico è colui che accetta che io lo istruisca su ciò che solo io posso dirgli, ossia su ciò che il mio corpo annuncia a me stesso con i suoi sintomi il cui senso non mi è chiaro. Il mio medico è colui che accetta che 10 veda in lui un esegeta, prima ancora di accettarlo come un riparatore.4 11 concetto di disturbo, oggi assunto come paradigma della psicopatologia dai vari DSM, tende invece a schiacciare il sintomo al livello di una deviazione anormale dall'Ideale universale della salute, come un'alterazione del buon funzionamento della macchina del corpo o del pensiero, rovesciando questa lettura della pratica medica come esegesi della singolarità del corpo. I cosiddetti disturbi dell'appetito, dell'umore, del sonno, delle attività di apprendimento, dell'ansia ecc., suppongono, infatti, che la diversità dalla norma assuma già di per sé il significato di una malattia e mobiliti, di conseguenza, le pratiche della cura come pratiche di 4. Vedi G. Canguilhem, "La salute: concetto volgare", tr. it. in Sulla medicina, Einaudi, Torino 2007, p. 31. riparazione della funzione normale lesa.5 Al contrario, il sintomo analitico resta eterogeneo alla categoria di disturbo, preservando la differenza dalla norma come occasione di singolarizzazione del soggetto e, dunque, di pluralizzazione del campo falsamente omogeneo della salute. Restiamo ancora un momento su questa centralità della categoria psicopatologica di disturbo nella clinica contemporanea, perché essa contribuisce a illuminare una combinazione discorsiva tanto inedita quanto egemonica. Foucaultianamente: quella della biopolitica come nuova forma di alleanza di sapere e potere nella loro incidenza sulla vita. Lacanianamente: quella tra il discorso del padrone e quello dell'università nella produzione di un nuovo regime discorsivo che forclude la singolarità. Questo nuovo regime trova nella recente avanzata delle terapie cognitivo-comportamentali una sua manifestazione rilevante. Il soggetto della cura è un soggetto senza inconscio che deve essere addestrato, il più rapidamente possibile, a ritrovare la sua efficienza operativa sconvolta dal sintomo. In questa prospettiva se per la pratica della psicoanalisi la volontà del padrone è il rovescio di quella dell'analista, in quanto la conduzione della cura analitica non coincide affatto con la direzione pedagogico-normativa del paziente, 6 le terapie cognitivo-comportamentali recuperano la funzione del terapeuta come funzione ibrida tra la figura del direttore di coscienza e quella dell'esperto iperspecializzato. L'apprendimento di tecniche di consolidamento dell'Ego autonomo fondate sul rafforzamento della volontà razionale riduce la terapia a un dressage psicoeducativo, a un'azione disciplinare che finisce inevitabilmente per minorizzare e suggestionare il paziente. Si tratta di tecniche che mirano alla normalizzazione funzionale del soggetto e che assimilano la dimensione singolare del sintomo a quella standard del "disturbo". In questo contesto il potere-sapere del terapeuta orienta la vita del paziente, ma non più nella forma carismatica e suggestiva del potere padronale tipico del leader - che costituiva il centro della psicologia freudiana delle masse - quanto in quella più asettica e anonima dell'intervento iperspecialistico proprio del discorso dell'università. Questa degenerazione della relazione terapeutica rappresenta un salto di qualità rispetto a ciò che avveniva sotto agli occhi di Lacan nei termini di una riduzione psicologistica della dialettica del transfert alle vi5. Di grande attualità è, in questa prospettiva, la rilettura dell'opera di Georges Canguilhem, in particolare del suo II normale e il patologico, tr. it. Einaudi, Torino 1972. 6. Per questa ragione Lacan afferma che sebbene l'analista si trovi a essere investito nel transfert di un potere particolare, l'atto che installa l'operatività del desiderio dell'analista consiste nel rinunciare al potere che il transfert gli consegna. Vedi J. Lacan, La direzione della cura e iprincipi del suo potere, tr. it. in Scritti, cit., p. 658. cende emotive del controtransfert, a una intersoggettività immaginaria fondata sulla relazione speculare tra io. Allora Lacan notava il rischio di reintrodurre la suggestione nella pratica dello psicoanalista, laddove la sua posizione nella cura veniva enfatizzata come guida morale del paziente. Attualmente le terapie cognitivo-comportamentali operano, invece, una sorta di rovesciamento della suggestione. Non è più il sapere del terapeuta a suggestionare il paziente ma, viceversa, è la sua domanda, la domanda convulsa del paziente, avallata con forza dall'igienismo maniacale del discorso sociale contemporaneo che vuole riabilitare il più rapidamente possibile il corretto funzionamento della macchina del corpo o del pensiero, a suggestionare la mobilitazione del sapere iperspecialistico, il quale offrirebbe al soggetto sofferente le giuste pratiche per raggiungere la salute ideale... cioè l'adattamento omologato all'autorità del principio di realtà.7 Con un dato aggiuntivo però: questo inedito rovesciamento della suggestione comporta il sacrificio della singolarità, poiché la forma ideale da raggiungere è il prodotto di una alienazione collettiva di tipo conformista, di un'identificazione a massa orizzontale, "socialistica" direbbe Bion, ai sembianti sociali e alle loro icone.8 La cura non punta a realizzare - come invece prova a fare un'analisi - il soggetto come differenza assoluta, ma persegue la sua integrazione adattiva a una idea uniforme della vita. In questo senso, come afferma Lacan, ogni psicoterapia conduce necessariamente al "peggio". 9 LA SINGOLARITÀ DEL SINTOMO E la politica del sintomo analitico a scompaginare il programma di assimilazione scientista del soggetto agli indici quantitativi richiesti dalle procedure della valutazione. Il sintomo analitico incarna non solo la verità, ma anche quel margine insopprimibile di libertà del soggetto rispetto alle determinazioni alienanti del grande Altro alle quali è strutturalmente assoggettato: esso incarna lo spigolo di dissenso, il rilievo che non si lascia appiattire, l'obiezione singolare alla legge dell'Altro e ai suoi significanti ideali. 7. Come sappiamo la combinazione tra il discorso del padrone e quello dell'università deve essere completata con ciò che Lacan definisce come quinto discorso, ovvero con il discorso del capitalista che a questa combinazione offre lo sfondo sociale più adatto celebrando astutamente la cosiddetta "realtà". 8. Su questo punto vedi E. Gaburri, L. Ambrosiano, Ululare coi lupi. Conformismo e rèverie. Bollati Boringhieri, Torino 2004. 9. J. Lacan, Radiofonia e televisione, cit., p. 71. Alla luce scabrosa del godimento sintomatico, il soggetto appare infatti come un residuo, un resto irriducibile, inadattabile al programma universale della Civiltà. Ed è proprio da questa resistenza residuale che occorrerebbe ripartire per formulare un nuovo programma per la psicoanalisi stessa. E infatti nella supplenza sintomatica che si incarna il nuovo umanismo critico che le pratiche totalitarie della cura vorrebbero riassorbire nel funzionamento informatizzato e universale della macchina del pensiero, del corpo o del cervello. La morte dell'uomo teorizzata filosoficamente dallo strutturalismo - assume oggi le forme sconcertanti della sparizione della singolarità in procure discorsive che riducono la condizione umana a un numero solo statisticamente significativo. La problematica che si dischiude con l'ultimo insegnamento di Lacan non è però affatto quella di una cancellazione "strutturalistica" del soggetto, della sua riduzione a un mero effetto (di significato) della combinatoria significante, ma di come sia possibile preservarne la discontinuità singolare nonostante la sua dipendenza dall'azione della struttura. Ed è proprio questa difesa del carattere incomparabile e irriducibile della singolarità la dimensione che qualifica la cifra etica della pratica della psicoanalisi. Questa era, in fondo, l'istanza che animava già il testo di fondazione dell'insegnamento di Lacan, qual è funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, anche se in quel momento la rivendicazione del carattere insopprimibile della singolarità avveniva ancora attraverso una fenomenologia esistenziale di matrice dialettica e non dall'interno di una rimeditazione critica del paradigma strutturalista, come avverrà invece, assai più fecondamente, più avanti. Tuttavia, non possiamo scordare la critica potente che Lacan solleva in funzione e campo nei confronti della scienza, considerata incapace di fare spazio alla singolarità, accusata di procedere attraverso un movimento forclusivo che esclude e aliena il soggetto in un linguaggio totalitario capace di abolire la dimensione contingente della parola, di annullare la dimensione singolare dell'enunciazione in una serie anonima e spersonalizzata di enunciati seriali. La scienza come pratica forclusiva e autoritaria non è, come pensa Foucault, alternativa a quella della follia, ma ne rappresenta, per Lacan, il rovescio speculare. Non solo nel senso che bisogna registrare una sorta di follia nella pretesa dello scientismo di ridurre la contingenza del singolare a una cifra quantitativa, solo statisticamente rilevante, ma anche in quello, assai più radicale, per cui in entrambe, nella follia come nella scienza, la parola singolare smarrisce il suo legame simbolico con l'Altro, perde la sua potenza negativa, di separazione, riducendosi, nel caso della scienza, a una istanza protocollare, a un linguaggio morto, reificato, regolato da un automatismo alienante,10 mentre in quello della follia dando luogo a una parola alla deriva, sconnessa dalla trama simbolica dei discorsi stabiliti, e che, proprio nel suo eccesso paradossale di soggettività, finisce nel ricadere nel massimo di alienazione, ovvero in un linguaggio che, anziché ospitare l'inserzione contingente e singolare della parola, installa un automatismo necessario che finisce per parlare il soggetto, come accade in certi fenomeni allucinatoti nei quali, appunto, il soggetto è letteralmente parlato dall'Altro.11 Quale genere di pratica è dunque la pratica della psicoanalisi? Qual è il suo programma nei confronti della singolarità soggettiva? La pratica della psicoanalisi è una pratica neoesistenzialista, nella quale necessariamente l'esistenza precede l'essenza. Questa pratica sorge storicamente con Freud da una esigenza irriducibile all'imperativo salutista dell'aggiustamento terapeutico del soggetto. Il problema della salute e del suo ripristino non orienta, infatti, in nessun modo l'azione dell'analista. La psicoanalisi pone piuttosto la questione di una pratica che agisce sulla sofferenza sintomatica senza porsi il problema di raggiungere un ideale normativo di salute al quale conformare il soggetto secondo un criterio normalizzante. In questo senso, essa non agisce presupponendo un modello ideale di salute o di felicità al quale si tratterebbe di conformare il soggetto cosiddetto sofferente. Più precisamente: per la psicoanalisi, clinica e salute sono campi che non si possono sovrapporre. Innanzitutto perché la pratica analitica non è orientata da un concetto universale di salute. Dunque la malattia non è ciò che interrompe uno stato di salute che la cura deve poter ripristinare il più rapidamente possibile. La salute non è uno stato ideale tanto quanto la cura analitica non è il suo recupero. L'insorgenza di un sintomo non è mai considerata dallo psicoanalista come la manifestazione di un'alterazione patologica di un organo o di una funzione. Il sintomo, cioè, non è per la psicoanalisi ciò che è per la semiotica medica, ovvero il segno che può indicare l'esistenza di una malattia. La psicoanalisi recide questa relazione univoca tra sintomo-segno e malattia-significato, complessificando il rapporto singolare del soggetto con il suo proprio sintomo. Essa considera che il sintomo 10. Nel Seminario XVII questa funzione verrà ricoperta soprattutto dal discorso dell'università, il quale situa nella funzione di agente l'S del sapere ripetuto, del sapere omogeneo, standard, protocollare appunto, in quanto iperspeciaGstico, nel quale è abolita la ricerca della verità che trova la sua base materiale nel soggetto diviso e la sua espressione più propria nel discorso isterico. 11. Vedi J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, tr. it. in Scritti, cit.,pp. 272-275. non si configura affatto come l'indice di una patologia in corso ma come un significante che rappresenta il soggetto per un altro significante, cioè che rivela la verità inconscia del soggetto a sua insaputa. Quale verità? La verità più scabrosa, la più inconciliabile con l'Io, la più impensabile. La psicoanalisi pone il sintomo come un evento-occasione per il soggetto, un incontro, una tyche, una possibilità di assumere qualcosa di se stessi che la rimozione ha separato dal campo dell'Io. All'analista non interessa affatto sopprimere il sintomo, né tantomeno riportare le cose a come stavano prima della sua insorgenza. Il criterio che misura la guarigione con la restituzione di uno stato primo - che, secondo Lacan, costituisce un certo ideale della medicina - non è valido in nessun modo nella pratica della psicoanalisi.12 Il sintomo si manifesta innanzitutto come un intralcio, un ostacolo alla vita, come ciò che rende la vita più o meno invivibile, come un impedimento alla felicità. Tuttavia questa prima constatazione elementare contiene una serie complessa di risvolti. Il primo è che il sintomo analitico non può mai prescindere dall'implicazione del soggetto. E questa una forte diversità con il discorso medico, il quale pone l'alterazione della malattia come qualcosa di accertabile oggettivamente con gli strumenti tecnico-scientifici più sofisticati in modo tale che la sua esistenza di fatto possa totalmente prescindere dal vissuto del soggetto. Lo sviluppo di cellule cancerose può essere registrato oggettivamente nel "silenzio degli organi", senza cioè che il soggetto avverta direttamente dei sintomi specifici. La percezione di sé come in salute o come malato non corrisponde necessariamente alla valutazione medica della salute o della malattia. Al contrario, nell'esperienza analitica, è il soggetto a decretare l'esistenza o meno di un sintomo. Non è lo sguardo dell'Altro a definire ciò che costituisce un sintomo in senso analitico ma solo quando il soggetto che lo vive come fonte di una sofferenza insopportabile. 13 È solo questa sofferenza che può animare una domanda di cura. Non a caso sia Freud che Lacan pongono proprio nella soggettivazione della domanda un passo indispensabile per l'entrata del soggetto nel disposi12. E questo un tema sul quale ha insistito molto anche Georges Canguilhem nelle sue riflessioni sulla pratica medica, quando, per esempio, afferma che il significato tradizionale della guarigione come "fine di una perturbazione e ritorno all'ordine anteriore", come movimento reversibile, come ritorno allo stato che precede l'insorgere della malattia, non è adeguato a definire il processo di guarigione. Vedi G. Canguilhem, "E possibile una pedagogia della guarigione?", tr. it. in Sulla medicina, cit., pp. 38-40. 13. La dimensione oggettiva del sintomo non è operativa in psicoanalisi, come, per esempio, dimostrano i soggetti perversi o le anoressiche che possono vivere la loro condizione non come sintomatica ma totalmente adeguata al loro ideale di vita. In questi casi sono i soggetti che hanno relazione con queste persone che possono vivere questa stessa relazione in termini autenticamente sintomatici. tivo della cura analitica. Il discorso medico attuale, al contrario, come abbiamo visto, non prende affatto in considerazione la domanda come evento di soggettivazione; piuttosto, al tempo soggettivo della domanda, fa subentrare l'esigenza della sua stessa organizzazione produttiva, la quale tenderà piuttosto a far sorgere una domanda collettiva animata più dalla paura diffusa che da un processo critico di effettiva soggettivazione. 14 Questo significa che la domanda, anziché essere colta nella sua differenza e nella sua articolazione eterogenea col desiderio, viene appiattita sulla dimensione volontaristica della motivazione o sulla domanda immaginaria della risoluzione immediata del problema. Questa degenerazione della domanda tende a produrre risposte protocollari, sganciate dalla singolarità del paziente. E la difficoltà che Lacan e Canguilhem riconoscono alla pratica della medicina: difficoltà ad accogliere la domanda singolare del paziente e tendenza ad aggirare questa difficoltà attraverso una modalità preformata della risposta. Sarebbe, sempre per Lacan e per lo stesso Canguilhem, solo la psicoanalisi a offrire alla medicina un altro modello possibile per la pratica della cura. E la psicoanalisi che potrebbe sovvertire, dalla sua posizione di "extraterritorialità", il sapere medico spostando il fuoco della significazione dall'asse della valutazione obbiettiva a quello singolare della domanda e del corpo-godimento. 15 Ebbene, in questa prospettiva inedita che la psicoanalisi inaugurerebbe, cosa diventerebbe allora la sofferenza sintomatica? Come può operare lo psicoanalista, nella sua pratica, sulla sofferenza sintomatica del soggetto? Il suo interesse è davvero, come sembra credere anche Foucault, quello di realizzare una sua ortopedizzazione riassorbendo l'anormalità bizzarra del sintomo nel funzionamento normalizzato della macchina del corpo o del pensiero? Il desiderio dello psicoanalista, precisa Lacan, non ha alcun contenuto morale, non è desiderio di salvazione, né di normalizzazione, non punta a una "rieducazione emotiva" del paziente, 16 non opera ponendosi come guida rieducativa - la direzione della cura di cui l'analista si 14. Per Foucault l'affermazione del liberalismo non può, contraddittoriamente, prescindere dal rafforzamento della sicurezza. In particolare per tutto ciò che concerne la capitalizzazione dell'umano. In questo ambito un capitolo centrale è quello occupato dal tema della salute nei sistemi liberali che diventa una sorta di inedito imperativo superegoico. Su questi temi restano fondamentali le considerazioni che sviluppa nei suoi corsi al Collège de France; si vedano in particolare M. Foucault, Bisogna difendere la società, tr. it. Feltrinelli, Milano 1998, e Nascita della biopolitica, tr. it. Feltrinelli, Milano 2005. 15. Vedi J. Lacan, "Psicoanalisi e medicina", cit., e G. Canguilhem, "E possibile una pedagogia della guarigione?", cit., pp. 36-38. 16. VediJ. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, cit., p. 615. assume la responsabilità non è affatto una direzione della coscienza -, 17 non domanda nulla, né che il paziente guarisca, né tanto meno che uniformi i suoi comportamenti supposti fuori norma. Il desiderio dell'analista è ciò che buca traumaticamente la volontà curativa del sapere medico e quella educativa delle scienze psicopedagogiche. Lacan è preciso su questo punto: nella pratica della psicoanalisi l'analista, diversamente dal padrone, agisce a partire dalla sua stessa mancanza a essere, ovvero dall'"ignorare ciò che sa". 18 Se infatti il transfert del paziente tende a collocarlo nel luogo onnipotente dell'Altro materno, dell'Altro della domanda, Lacan ribadisce che l'analista deve saper rispondere alla domanda del soggetto solo dalla sua posizione di transfert, dunque non prendendosi per l'Altro che veramente ha, per l'Altro d e l l ' o n n i potenza materna", 19 per l'Altro della domanda, per l'Altro che ha ciò che il paziente vorrebbe avere, per l'Altro che può saturare la domanda del paziente. L'analista che vuole il bene del paziente, e che dunque si prodigherebbe a rispondere immediatamente alla sua domanda, riedita infatti quella onnipotenza finendo per sostenere un Super-io tirannico che per Lacan è la matrice di ogni educazione aberrante. 20 La dimensione della suggestione immaginaria ricade in questo vizio di fondo: "Nell'analisi", precisa ancora Lacan, "ogni risposta alla domanda [...] riporta il transfert alla suggestione". 21 Per questa ragione il desiderio dell'analista non si installa al livello degli enunciati ma in quello dell'enunciazione incarnando la sua incognita fondamentale. Quello che conta nella pratica della psicoanalisi non è tanto cosa un analista dice nel corso di una seduta, ma la posizione dalla quale lo dice. Quello che l'analista dice - il livello dei suoi enunciati - tende infatti inevitabilmente a rafforzare la sua immagine ideale - l'idealizzazione dell'Altro - , rendendo difficile l'elaborazione del transfert, mentre il lavoro analitico segue la direzione opposta: rendere possibile una disidealizzazione radicale dell'Altro, affinché il soggetto possa trovare la differenza singolare del suo desiderio. 17. Ibidem, p. 581. 18. Formula che va affiancata a un'altra, proposta nel Seminario XVII, secondo la quale il solo soggetto supposto sapere in un'analisi è l'analizzante e non l'analista. Vedi J. Lacan, Il seminario. Libro XVII, cit., p . 5 9 . 19. Vedi J. Lacan, La direzione della cura, cit., p. 614. 20. Ibidem, pp. 614-615. 21. Ibidem, p. 631. STORIA, VERITÀ E GODIMENTO L'analista non odia il sintomo del paziente, non esige la sua estirpazione, non combatte una guerra contro di esso perché non vi vede l'indice di una patologia ma l'occasione contingente di un incontro possibile del soggetto con la verità rimossa del suo desiderio. La pratica della psicoanalisi è dunque una pratica che valorizza il sintomo come un significante che rappresenta il soggetto per un altro significante. Per questa ragione essa opera una trasformazione preliminare: trasforma il corpo del sintomo nel corpo della storia del soggetto. E questo un primo versante della concezione psicoanalitica del sintomo. Il sintomo analitico si situa come un punto di condensazione dei "drammi della storia" del soggetto e non, come vorrebbe il discorso medico, come una mera "limitazione del suo potere fisico".22 Ma di quale storia? Qui si introduce una differenza tra l'esperienza anamnestica dell'analisi e l'anamnesi medica, o medico-psichiatrica, poiché il presupposto dell'anamnesi analitica non è semplicemente quello di acquisire delle informazioni sulla biografia del soggetto e sui suoi sintomi, poiché considera la memoria come non a disposizione della volontà razionale del soggetto, dunque irriducibile alla serie dei ricordi con il quale il soggetto la può razionalmente scomporre e ricomporre. In altri termini, l'invenzione freudiana dell'inconscio pone il problema di una esteriorità del corpo della mia storia nei confronti dell'intenzionalità che anima i miei ricordi; al soggetto, infatti, sfugge la chiave di accesso alla sua propria storia. E questa una delle forme che può assumere l'esperienza soggettiva dell'inconscio: la mia storia mi sfugge, è come un testo incompleto, sbiancato, censurato, disperso, frammentato, privo di certi capitoli, in parte perduto. 23 La memoria 22 ."Le malattie dell'uomo non sono solo limitazioni del suo potere fisico, ma sono anche drammi della sua storia. La vita umana è un'esistenza, un esserci per un divenire non prestabilito, votato dalla propria fine. L'uomo è aperto, dunque, alla malattia non per una condanna o per un destino ma in virtù della propria semplice presenza al mondo. E in questa prospettiva, la salute non è affatto un'esigenza d'ordine economico da far valere nel quadro di una legislazione, ma è semmai l'unità spontanea delle condizioni di esercizio di vita. Quest'esercizio, su cui si fondano tutti gli altri, crea e racchiude sempre il rischio dell'insuccesso, un rischio da cui nessuno statuto di vita socialmente normalizzata p u ò preservare l'individuo" (G. Canguilhem, "E possibile una pedagogia della guarigione?", cit., pp. 46-47). 23. Solo per un certo periodo del suo insegnamento Lacan ha potuto credere che l'esperienza analitica sia la possibilità di ritrovare la "continuità" del testo storico. Vedi J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit., p. 252. In seguito l'accento cadrà non tanto sul termine "continuità", ma su quello di una "soggettivazione" della propria storia, che non avviene più come ristabilimento esegetico della continuità del testo storico, ma in quello contingente di una nuova produzione del testo del soggetto. Questo comporterà pensare l'inconscio non tanto come il capitolo perduto della nostra storia che si tratta di ritrovare, ma come qualcosa di non realizzato, non ancora compiuto, che si tratta di produrre più che di ricomporre. volontaria non è padrona del tempo del soggetto. Il sintomo come corpo storico espone - nella forma di un corpo estraneo, di una sporgenza extime, interna-esterna, intima e straniera - ciò che la memoria del soggetto non è in grado di ricordare della sua storia. Non ciò che è stato scritto e si è cancellato, ma è ciò che non si è ancora scritto. Ed è proprio attraverso la via regia del sintomo che le lacune del corpo storico del soggetto possono riapparire. Questa riapparizione però non è, come accade per esempio nella memoria involontaria di Proust, il ritorno lirico di qualcosa che pensavamo perduto e che invece sorprendentemente possiamo ritrovare. Il ritorno anacronico del rimosso attraverso il sintomo è causa di sofferenza. La riapparizione del passato è spettrale, riporta alla luce ciò che doveva restare nell'oblio, sconvolge l'ordinarietà del tempo dell'Io, mostra il soggetto come diviso da se stesso, separato dal suo essere. In questo senso nel sintomo si deposita un frammento del passato, un passato che non passa, l'indimenticabile della nostra storia, ciò che non è stato sufficientemente simbolizzato, "passato reale", afferma Lacan,24 un frammento di reale che non è entrato nel dire.25 Attraverso la sofferenza sintomatica i pazienti non sono dunque confrontati con un semplice "disturbo", con il disfunzionamento della macchina del corpo o del pensiero, che esigerebbe un intervento correttore, ma con la loro storia, il che significa, innanzitutto, con i vuoti, le assenze, i passaggi censurati, i drammi della loro storia. Un'analisi è, dunque, una storicizzazione della propria vita, un'attività di costruzione della propria biografia, dove però il soggetto incontra non solo ciò che si può ricordare o ciò che si sottrae alla memoria, ma anche l'indimenticabile della sua storia, che non è alle spalle del soggetto, ma gli si para davanti, lo attende, lo assilla, lo incalza, o, nei casi più radicali, lo perseguita. Si tratta di un passato sempre presente proprio in quanto dimenticato, un passato incistato nella sofferenza del sintomo, il quale, da questo punto di vista, diviene il significante che attualizza l'impossibilità per il soggetto di padroneggiare la sua verità, la sua divisione costituente. Dall'inizio del suo insegnamento Lacan resta fedele all'insegnamen24. Vedi J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit. 25. N o n si deve però commettere l'errore, nel quale invece a volte Freud incorre, di pensare che possa esistere una simbolizzazione esaustiva del passato rimosso o, se si preferisce, in termini lacaniani, del reale. Questa esaustività è esclusa per struttura. A ciò allude del resto la stessa problematica freudiana della rimozione originaria. Per questa ragione strutturale il sintomo non può mai essere dissolto senza lasciare residui. Esso, piuttosto, accompagna l'esistenza umana come tale, essendo l'indice della sua costituzione lesa. Un certo idealismo psicoanalitico rifiuta di pensare al sintomo come ciò che annoda l'esistenza nel suo essere, relegandolo, come avviene anche per le terapie cognitivo-comportamentali, nel campo della pura disfunzione di una determinata competenza normativa. to di Freud che pone il sintomo come una formazione dell'inconscio, il cui carattere maggiore consiste nella sua natura simbolica. E questo il secondo versante del sintomo psicoanalitico, quello che ne evidenzia la parentela ermeneutica col simbolo. Per Freud, infatti, il sintomo non è l'alterazione anormale di una funzione ma una formazione semantica, un luogo di addensamento del senso. Il passo inaudito compiuto da Freud consiste, infatti, nel coniugare la sofferenza sintomatica al senso. La clinica psicoanalitica si fonda in gran parte su questa coniugazione. Nel sintomo analitico non si tratta mai di una deviazione patologica dal normale funzionamento del corpo o del pensiero, di una scompensazione della salute nella malattia, ma di un senso che mi concerne, che tocca il mio essere, che mi concerne anche se in un modo enigmatico, di una incarnazione misteriosa e dolorosa del senso. Il senso del sintomo resta, infatti, opaco al soggetto. Lacan afferma che il senso del sintomo appare sempre come un senso imprigionato,26 Più radicalmente, seguendo Freud, Lacan eleva il concetto di sintomo alla dignità della verità. Esso avrebbe cioè la medesima struttura dell'aletheia greca così come Heidegger la reinterpreta. Sarebbe quel luogo chiaroscurale dove la verità appare solo attraverso il suo stesso nascondimento. Dove la verità si dà ma solo nella forma della sottrazione e dell'oblio parziale. Si noti la forza critica di questo spostamento dalle alterazioni e dalle lesioni della sofferenza - che le macchine della scienza medica possono registrare obbiettivamente - a una verità irriducibile alla sua declinazione logica di adeguazione del concetto alla cosa: nella formazione sintomatica la verità si mostra solo mascherandosi, trasfigurandosi, cifrandosi, sempre, come direbbe Lacan, tra le righe.27 Ma di quale verità stiamo parlando? Quale verità è in gioco nella sofferenza sintomatica? Questa verità non è la verità universale della logica e non ha nemmeno uno statuto archetipico, come invece credeva Jung. Si tratta piuttosto di una verità che, pur concernendo il soggetto nella sua particolarità più propria (o impropria, dunque più malsana, inconfessabile, bizzarra, originale...), il soggetto stesso ha allontanato da se stesso. Si tratta di quella verità su se stesso che il soggetto respinge, ripudia, rifiuta, non intende né riconoscere, né ospitare. Si tratta di quella verità che è stata ri26. Vedi J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit., p. 274. 27. Incontriamo qui una duplicità essenziale del sintomo analitico: da una parte è un evento del senso, implica il piano della significazione, ma dall'altra il suo senso sfugge continuamente al soggetto. Anche in questa duplicità ritroviamo la struttura propria dell'aletheia secondo Heidegger: la verità del sintomo si dà, ma solo nella forma della ritrazione, del suo nascondimento. mossa, sottoposta a un'operazione - tale è in psicoanalisi il processo della rimozione - di oblio. La verità che parla nel sintomo è una verità scabrosa che il soggetto non intende assumere perché, come affermava già Freud, contiene qualcosa di inconciliabile rispetto all'immagine ideale che il soggetto ha di se stesso. Si tratta di quella verità, come puntualizza Lacan, che "il desiderio è stato nella sua storia".28 La rimozione allontana questa parte inconciliabile - la verità del desiderio - , la rimuove appunto, la separa dalla coscienza. Il sorgere della sofferenza, da questo punto di vista, scaturisce per la psicoanalisi da un eccessivo attaccamento alla propria identità narcisistica. Per questa ragione la rimozione s'intensifica sempre a causa di una eccessiva rappresentazione identitaria di se stessi che aumenta la quota di rappresentazioni inconciliabili, cioè destinate a essere rimosse. Tuttavia, la rimozione non giunge mai ad abolire ciò che allontana. L'oblio della verità non è mai definitivo. I pezzi di storia che il soggetto separa da se stesso, che rimuove appunto, non soggiacciono in una memoria-baule. La memoria freudiana è piuttosto una memoria spettrale: il rimosso ritorna, non cessa di ritornare. Per questa ragione Freud pone la natura della rimozione come necessariamente fallimentare. Lo spettro del rimosso riappare, intercetta la nostra esistenza, insiste in una ripetizione che Freud colloca al di là del principio di piacere. In questo senso il sintomo si oppone alla dimenticanza. Freud lo affermava a suo modo: le isteriche, scriveva, soffrono di reminiscenze. Soffrono dei loro sintomi che sono modi coi quali qualcosa di anacrónico - "reminiscenze" - ci interpella. Lacan ha messo in evidenza che dal punto di vista linguistico l'incarnazione sintomatica della verità avviene per la via di una sostituzione metaforica. Il sintomo è un significante che prende il posto di un significato rimosso. E dunque una metafora, una condensazione, una emergenza del senso, un evento di senso. Per questo la psicoanalisi non si preoccupa di eliminare il sintomo, di aggredirlo, di sopprimerlo. Essa si dedica piuttosto a liberare il senso che in esso risulta imprigionato. E per questo Lacan può affermare che il sintomo "è un simbolo scritto sulla sabbia della carne". 29 Cosa significa un simbolo scritto sulla sabbia della carne? La carne è la carne del soggetto che soffre e che laddove soffre (fa souffre) in realtà parla (fa parie). Il riferimento alla sabbia come piano sul quale il sintomo si scriverebbe allude alla contingenza 28. Vedi J. Lacan, distanza della lettera dell'inconscio o la ragione dopo Freud, tr. it. in Scritti, cit.,p. 514. 29. Vedi J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit., p. 274. di questa scrittura e al fatto che il lavoro analitico come lavoro di decifrazione avrebbe il potere di cancellare la scrittura del sintomo liberando il senso dalla sua prigione. Come si vede, per la psicoanalisi la problematica della sofferenza non s'innesta affatto, come avviene per la scienza medico-psichiatrica, sullo sfondo di una alterazione della normalità, ma sulla problematica di una possibile incarnazione della verità. Non certamente della verità della filosofia o della scienza, del discorso del padrone o di quello dell'università, per utilizzare i termini del Seminario XVII. La verità del sintomo riflette un carattere eminentemente etico. E una verità che parla attraverso le stimmate della sofferenza, dunque che implica profondamente la testimonianza del soggetto e che pone nella posizione di agente - come accade per il discorso isterico - il soggetto diviso, leso, teso alla ricerca della propria verità. Il sintomo, dunque, parla là dove il soggetto soffre; parla nella forma della sofferenza. Il soggetto, scrive Lacan, "grida con il suo sintomo", come "Cristo ha detto che avrebbero fatto le pietre se i figli d'Israele non avessero parlato con la loro voce".30 Grida ciò che l'Io ha fatto tacere. In questo senso l'inconscio è una insistenza simbolica che si manifesta attraverso una memoria significante. A questa memoria Lacan riconduce, almeno in una prima fase del suo insegnamento, la coazione a ripetere di Freud: qualcosa continua a insistere per manifestare la sua verità. Nondimeno questa insistenza deborda verso il reale in quanto essa interferisce radicalmente nella vita del soggetto. Per questo Lacan tenderà nel corso del suo insegnamento a differenziare il sintomo dalle altre formazioni dell'inconscio. Esso non può essere assimilato a un sogno, un atto mancato, un lapsus, una sbadataggine. Diversamente dalle altre formazioni dell'inconscio, infatti, un sintomo non è evanescente, non dura, come un sogno, solo 0 tempo di una notte. Il sintomo, piuttosto, insiste, accompagna il soggetto, non passa, persevera. Non ha la natura del lampo ironico del lapsus o del motto di spirito. Il suo carattere non è solo quello dell'enigma che attende la sua decifrazione, non è solo una scrittura sulla sabbia che l'onda dell'interpretazione può dissolvere, ma è anche la persistenza silenziosa della pietra. La sofferenza del sintomo tende a ripetersi, grida nel silenzio. Non si esaurisce in un tempo aleatorio, né segnala solo l'insistenza della verità rimossa che chiede la parola, ma rivela una particolare inerzia. Il tempo del sintomo è più solidale al tempo fissato del trauma che a quello discontinuo del desiderio. La sua 30. Vedi J. Lacan, L'istanza della lettera dell'inconscio o la ragione dopo Freud, cit., p. 514. natura è quella di essere un corpo estimo, interno-esterno, un'alterità interna, una pietra che l'azione dell'interpretazione può isolare ma non dissolvere senza lasciare resti. Nel senso che la decifrazione del sintomo non elimina mai del tutto l'elemento ingovernabile della pulsione che in esso si manifesta. Più precisamente, l'esperienza della sofferenza sintomatica come ripetizione della forza del sintomo è un'esperienza che riduce il potere della volontà. E un fatto di esperienza: nessun sintomo guarisce con il ricorso alla ragione. Il soggetto percepisce il sintomo come l'esistenza di qualcosa che si oppone alla sua volontà e alla sua ragione. Lo incontra come un'alterità ingovernabile, come una tendenza alla sua ripetizione al di là del principio di piacere. Il passaggio dal sintomo-simbolo, scritto sulla sabbia della carne del soggetto, al sintomo-grido, al sintomo-pietra, al sintomo-al di là del principio di piacere, ci conduce dritti verso il terzo versante del sintomo psicoanalitico, verso il suo volto più straniero e più inquietante che nella clinica contemporanea sembra aver preso unilateralmente il sopravvento sugli altri due versanti del sintomo. Si tratta del sintomo che agisce come espressione della pulsione di morte e non come espressione storico-simbolica del desiderio inconscio. In Inibizione, sintomo e angoscia Freud pone il sintomo come un'esteriorità rispetto all'organizzazione dell'Io, come un indice radicale di "extraterritorialità" che rivela l'impotenza dell'Io a governarlo. Tuttavia, continua il ragionamento freudiano, questo carattere spigoloso e avverso del sintomo all'unità sintetica dell'Io può dare luogo a una progressiva, quanto sconcertante, integrazione. In questo secondo movimento, col quale il sintomo viene incorporato nell'Io - diventando così il luogo di interessi e tornaconti primari e secondari - , esso diventa un inaudito agente di godimento, rendendo possibile non solo una significazione inattesa, un evento di senso, ma anche una nuova, seppur insensata, soddisfazione. 31 Si tratta di una delle tesi cliniche più sconcertanti di Freud: non solo nella sofferenza dobbiamo vedere un dramma storico, una memoria che insiste, l'emergenza di una verità, il suo ritorno dall'esilio della rimozione, ma anche un luogo di godimento che attenta la conservazione della vita pur essendo incorporato alla vita. In altri termini, l'esperienza del godimento sintomatico eleva il male a meta pulsionale che eccede ogni concezione naturalistico-edonistica del soggetto e conduce la clinica psicoanalitica a sovvertire radicalmente il paradigma della salute e 31. Vedi S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, tr. it. in Opere, cit., voi. 10, pp. 247-249. del benessere di cui si nutre l'igienismo contemporaneo. Il male del sintomo non è solo ciò che disturba la nostra vita, ma è ciò che procura al soggetto un godimento irrinunciabile, per quanto maledetto esso sia. Per questo l'ultimo Lacan introduce l'idea che il sintomo è il luogo dove il soggetto gode del suo inconscio che lo determina,32 Si tratta di una formula enigmatica che traduce il motivo più cogente dell'esperienza psicoanalitica del sintomo: esiste negli esseri umani una tendenza - che Freud chiamava pulsione di morte (Todestrieb) - a lasciarsi aspirare da un godimento rovinoso, mortifero, distruttivo, dissipativo, costantemente in eccesso. Questa tendenza mostra che la vita non aspira al bene ma a godere, a godere al di là del principio del bene, a godere della propria distruzione, della propria dissipazione, della violazione continua dell'omeostasi a cui punterebbe invece il principio (aristotelico) di piacere. In altre parole, la psicoanalisi ci pone di fronte allo scandalo non tanto dell'esistenza dell'inconscio come luogo di una verità inconciliabile, quanto dell'esistenza dell'inconscio come una spinta al godimento contraria alla conservazione della vita. Una spinta che espone il soggetto a un'intemperanza che turba l'equilibrio e che è preferita alla protezione narcisistica della vita. Freud aveva definito questa tendenza come masochismo erogeno.33 Siamo qui di fronte all'abisso più inquietante con il quale la pratica della psicoanalisi si confronta: come rendere feconda e non distruttiva questa spinta alla morte che accompagna come un'ombra la nostra vita? Come ripensare il problema della singolarità soggettiva tenendo conto che la vita non tende affatto al bene quanto piuttosto al suo "insuccesso", al suo fallimento, al suo scacco? 32. VediJ. Lacan, Le Séminaire. Livre XXII. R. S. I. (1974-1975), in Ornicar?, Navarin, Paris 1978,2-5. 33. Vedi S. Freud, Il problema economico del masochismo, tr. it. in Opere, cit., voi. 10, p. 9. PARTE SECONDA ANORESSIE SEPARAZIONE E RIFIUTO CONSIDERAZIONI SULLA SCELTA DELL'ANORESSIA LA SCELTA DELL'ANORESSIA L'anoressia non è una malattia dell'appetito, ma una posizione del soggetto, ovvero una scelta del soggetto. Consideriamo questa definizione come il nostro punto di partenza etico. Come Freud parlava di "scelta della nevrosi" o di "scelta della psicosi" parliamo di una "scelta dell'anoressia", precisando che questa scelta si configura come un rifiuto, o, se si preferisce: la scelta dell'anoressia si caratterizza primariamente come una scelta per il rifiuto. Come dimostra l'esperienza clinica, la dimensione del rifiuto risulta sempre centrale nell'anoressia. Il rifiuto tende a manifestarsi fenomenicamente, innanzitutto, come rifiuto del nutrimento, come rifiuto di cibo, come rifiuto di alimentare il proprio corpo, di sottometterlo alle leggi della necessità biologica. Ma questo genere di rifiuto non esaurisce affatto la problematica del rifiuto anoressico. Quello che propongo nelle considerazioni che seguiranno è una perlustrazione dei modi differenti di declinazione del rifiuto anoressico in rapporto all'esigenza di separazione che anima la posizione anoressica del soggetto al di là delle differenti strutture di personalità che la diagnosi differenziale può rilevare. Ogni clinico che si occupa di queste pazienti può facilmente constatare come in esse si manifesti una radicalità inflessibile, una determinazione decisa, una espressione estrema della forza di volontà, una rara e inquietante ostinazione. La scelta dell'anoressia mira a governare disciplinarmente, attraverso il potere della volontà, il carattere ingovernabile del proprio corpo. Questa scelta e la sua perseverazione è fonte di entusiasmo, di felicità, di ebbrezza, di godimento. I Kestemberg hanno avuto modo di definire efficacemente questa condizione estatica come una "vertigine della dominazione". 1 Restando per il momento al di qua del campo complesso della diagnosi differenziale, si può affermare che l'anoressia si configuri in generale come una scelta di padronanza. E questa la dimensione centrale della scelta anoressica che la distingue dalla bulimia e dagli altri disturbi del comportamento alimentare. Lo ascoltiamo dalle nostre pazienti come un tema costante: c'è un tempo (istantaneo o progressivo) dove l'anoressia si configura come una vera e propria soluzione decisa dal soggetto, il quale impegna tutto se stesso nella realizzazione del suo progetto: mai più schiavo di ciò che non governo! Finalmente libero dalle catene del corpo pulsionale! Finalmente separato per sempre dalla domanda dell'Altro! Mai più oggetto del godimento dell'Altro! Se nelle cosiddette nuove forme del sintomo prevale tendenzialmente la dimensione della schiavitù che tende a declinarsi come dipendenza patologica dalla sostanza (droga, cibo, alcol, psicofarmaco, computer, gioco d'azzardo ecc.), nell'anoressia il soggetto sembra essere in grado di separarsi da ogni oggetto imponendo la propria forza di volontà nel perseguimento deciso del suo obbiettivo: fare a meno di tutto ! In questo caso è la padronanza a essere accentuata, mentre negli altri sintomi contemporanei sono la dipendenza (tossicomania, bulimia, obesità, alcolismo giovanile) o la perdita di padronanza (attacco di panico, depressione) a venire traumaticamente in primo piano. Diversamente da queste forme sintomatiche, dove prevale l'incandescenza del godimento pulsionale sregolato, l'anoressia si presenta come il contrario di una schiavitù, come un elogio dell'indipendenza e dell'autonomia del soggetto di fronte all'Altro. Più radicalmente, il soggetto anoressico si pone come se fosse senza l'Altro. Il solo Altro che conta per lui è l'altro dell'immagine speculare, è l'altro immaginario, il simile idealizzato, l'altro in quanto proiezione ideale del proprio corpo elevato alla dignità di una icona, l'altro come incarnazione riflessa del proprio Io ideale, come doppio narcisistico del soggetto, l'altro idealizzato dell'immagine speculare del proprio corpo magro. 2 Se nelle dipendenze patologiche come paradigmatiche della nuova clinica l'oggetto-sostanza amplifica lo stato di servitù del soggetto - la sua passività fondamentale - vincolandolo a una ripetizione pulsionale 1. Vedi E. Kestemberg , J. Kestemberg, S. Decobert, La faim et le corps, PUF, Paris 1972, p. 232. 2. E evidente che rispetto a quest'immagine ideale di sé la padronanza anoressica si ribalta in una posizione di dipendenza: il soggetto dipende dalla sua propria immagine speculare idealizzata. che sembra imporsi tirannicamente sulla volontà dell'Io, l'anoressia nutre l'illusione che sia l'Io del soggetto a rivendicare nei confronti dell'Altro la sua indipendenza narcisistico-immaginaria. Rifiutando la dipendenza simbolica che lo vincola ai significanti dell'Altro, il soggetto anoressico rifiuta la sua stessa divisione ponendosi come un soggetto compatto, freddo, integro, pietrificato, non castrato, autofondato. In questo senso l'anoressia è davvero il contrario del sintomo nevrotico. Mentre il sintomo nevrotico divide il soggetto producendo una vacillazione dell'identificazione che spiazza l'identità immaginaria costituita dall'Io - il soggetto nevrotico è freudianamente un soggetto che non è mai padrone in casa propria; il sintomo nevrotico è un marchio della operatività simbolica della castrazione - , l'anoressia insegue invece l'ideale di una padronanza assoluta che vorrebbe poter cancellare la divisione soggettiva. Lo abbiamo ripetuto in altre occasioni: l'anoressia è, da questo punto di vista, tendenzialmente egosintonica e non egodistonica\ la follia dell'anoressia è la follia di una volontà che intende costituire un soggetto non intaccato dalla castrazione. UNA SEPARAZIONE SENZA LUTTO Il tono euforico dell'anoressia si contrappone alla dimensione depressiva che accompagna tendenzialmente la sofferenza nevrotica e la difficoltà del soggetto a soggettivare la propria separazione dall'Altro. L'anoressia sembra invece sostituire a questa difficoltà l'ideale nirvanico di una specie di separazione assoluta, apatica, anestetica, di una separazione in opposizione a ogni esperienza di mancanza e di perdita. E questo il paradosso profondo che dobbiamo rintracciare da subito nella separazione anoressica. Mentre la separazione implica strutturalmente la perdita, di un frammento di sé, di un pezzo del proprio essere - per Lacan la separazione ha sempre come sua condizione logica l'alienazione significante del soggetto - , nella separazione anoressica, al posto di questa perdita, troviamo un rafforzamento dell'Io, un compattamento narcisistico del soggetto, un suo irrigidimento identitario. Si tratta, in sostanza, di una separazione come difesa dalla separazione, di una separazione come scongiuro, raggiro, evitamento della separazione, poiché si tratta di una separazione che non è fondata sulla perdita ma che agisce come una negazione ostinata della perdita. Per questo l'anoressia è un antilutto o, se si preferisce, un acting out della separazione, una separazione senza lutto, una separazione dissociata dal lavoro del lutto. E proprio per questa ragione essa tende ad assumere la forma del rifiuto. Tuttavia, il rifiuto non può mai coincidere con la separazione. La separazione implica sempre una perdita (di godimento), dunque, in termini lacaniani, un'alienazione. Il rifiuto, al contrario, è una esperienza di esclusione, di opposizione, di rottura con l'Altro. La sua forma più radicale è quella dell'odio. E non a caso l'odio occupa un posto di rilievo nella clinica dell'anoressia, tanto quanto l'amore. Freud situa l'odio proprio in relazione all'esigenza della differenziazione soggettiva.3 La condizione della differenziazione tra me e non-me, tra il soggetto e l'Altro, tra il mondo interno e quello esterno è legata al movimento somatico primordiale dello "sputare". E solo attraverso questa incarnazione patemica della negazione che l'organismo-soggetto ha la possibilità di staccare da sé l'oggetto cattivo, l'oggetto perturbatore del suo equilibrio interno, umanizzandosi proprio attraverso questo movimento di espulsione. Per Freud, infatti, il movimento dell'espulsione (Ausstossung), come antecedente somatico-patemico dell'odio, viene prima, è più antico dell'amore ed è la condizione primordiale della differenziazione del soggetto. Da esso dipende lo stesso movimento dell'incorporazione. Perché vi sia assimilazione vi deve essere stata esternalizzazione, allontanamento, separazione dall'oggetto cattivo e perturbatore. 4 Per il soggetto anoressico, che recupera questa modalità primordiale dell'apparato psichico di differenziazione, che recupera lo "sputare" come incarnazione dell'odio e, dunque, come moto tendente alla separazione, il prezzo fatale della sua differenziazione sarà la rinuncia all'assimilazione, perché l'assimilazione confonde i confini che distinguono il soggetto dall'Altro, perché l'assimilazione annulla la differenza soggettiva inghiottendo l'Uno nell'Altro. E quello che molti psicoanalisti hanno notato: l'anoressica ha terrore della relazione con l'Altro - per quanto aspiri a questa relazione - perché teme di perdervisi, di non saper reggere all'intrusione dell'Altro nella propria vita affettiva.5 In questo senso, nell'anoressia il prezzo della differenziazione è l'antiamore. Il movimento di allontanamento, espulsione, separazione dall'oggetto si 3. Vedi, in particolare, S. Freud, Pulsioni e loro destini, tr. it. in Opere, cit., voi. 8, pp. 13-35. 4. Per un chiarimento più articolato di queste tesi, mi permetto di rinviare ancora a M. Recalcati, Sull'odio, cit., pp. 33-74. 5. Per esempio, nei termini proposti da Philippe Jeammet, la dipendenza viene vissuta dal soggetto anoressico come una vera e propria "minaccia narcisistica" dalla quale è necessario difendersi per salvaguardare "i confini del soggetto", "la sua identità e la sua integrità narcisistica". Vedi P. Jeammet, Psicopatologia dell'adolescenza, tr. it. Boria, Roma 2004, pp. 140-141. Per Lacan questa confusione tra il soggetto e l'Altro si gioca, come vedremo fra poco, sul registro dell'indifferenziazione tra il campo del bisogno e quello del desiderio. cristallizza, tende a fissarsi, fossilizzandosi anziché integrarsi con quello dell'incorporazione-assimilazione dell'Altro. Un effettivo movimento di separazione implica invece che il soggetto possa ricercare nell'Altro ciò che ha perduto di se stesso a causa dell'azione dell'Altro, secondo un tracciato dialettico di andata e ritorno. La separazione, in questo senso, non è mai una liquidazione dell'Altro ma implica un'apertura verso l'Altro. Non cancella il debito, ma lo assume oltrepassandolo, perché solo assumendolo lo può davvero oltrepassare. Il rifiuto anoressico tende invece a voler cancellare ogni debito nei confronti dell'Altro, a negare l'alienazione, a installare il soggetto come un assoluto compatto, privo di mancanza, e, di conseguenza, a non spostare, a non trasferire primariamente l'oggetto perduto nel campo dell'Altro. La forza, l'assenza di schiavitù e di divisione, l'illusione di autonomia dell'anoressia si producono come l'effetto maniacale di una separazione del soggetto dalla domanda dell'Altro che sembra recidere ogni forma di legame. La separazione tende a realizzarsi non solo come separazione dalla domanda dell'Altro legata all'oggetto orale, al cibo, al nutrimento, ma dalla domanda dell'Altro in quanto tale. Non solo, dunque, dall'oggetto della domanda, ma dalla domanda in sé come luogo di manifestazione dell'Altro. L'anoressica rivela, in questo senso, un'esigenza radicale di separazione che giunge a coincidere, nei casi più gravi, per esempio nelle anoressie melanconiche, con una vera e propria spinta alla morte, ovvero con la spinta del soggetto a uscire dalla scena del mondo. Nell'esasperare la sua esigenza di separazione, l'anoressia mantiene un rapporto privilegiato con l'età dell'adolescenza. E infatti nell'adolescenza che si gioca in modo decisivo la partita della separazione dall'Altro. Seguendo questa considerazione, possiamo pensare che l'obesità resti invece una patologia legata strutturalmente alla posizione infantile del bambino che dipende integralmente dalla domanda dell'Altro e che sperimenta l'impossibilità della separazione. Nell'obesità, infatti, la difficoltà a separarsi dalla domanda dell'Altro mantiene il soggetto in una posizione di oggetto (infantilizzato) rispetto alla volontà dell'Altro. Manca totalmente il movimento della soggettivazione; c'è solitudine del godimento ma senza soggettivazione della separazione. Se l'evento della soggettivazione della separazione ha come base l'azione simbolica della castrazione e la perdita di godimento che essa comporta, possiamo constatare come nell'obesità vi sia un'opposizione a questa azione nei termini di una accumulazione passiva e distruttiva del godimento. Diversamente, nell'anoressia l'opposizione alla castrazione avviene in una forma iperattiva, assolutizzando non l'alienazione - come accade paradossalmente nel caso dell'obesità - ma la separazione. In questo senso, mentre l'oggetto-cibo nell'obesità si profila come un farmaco per trattare l'angoscia della separazione, nell'anoressia, al contrario, è ciò che la può innescare. Nell'adolescenza in generale l'esigenza di separazione tenda a porsi in contrasto col riconoscimento del debito simbolico; la necessità di conquistare una propria posizione, di differenziarsi dal mondo degli adulti e dalle insegne identificatorie proposte dai propri genitori, di guadagnare un proprio gusto e un proprio stile personale oppone la giovinezza al mondo degli adulti e può sospingere il soggetto verso una dichiarazione di indipendenza radicale che però, se avviene in termini meramente oppositivi, risulta inevitabilmente artificiosa, velleitaria, priva di fondamenti, provocatoria. Nell'anoressia l'esigenza di separazione riflette apertamente la contraddizione della separazione adolescenziale. La sua separazione, in quanto alternativa secca e non dialettica all'alienazione, 6 è solo, come quella che troviamo in certe vicende adolescenziali, una pseudoseparazione, cioè una separazione che non scaturisce dalla soggettivazione del debito simbolico ma dal suo rifiuto antidialettico. Questa debolezza della separazione anoressica contrasta con il decisionismo che la sorregge. La scelta dell'anoressia vive, in effetti, di una ipertrofia della volontà. Il suo carattere paradossale tende a raggiungere un carattere iperbolico: per un verso la posizione anoressica è sostenuta da una esasperazione della volontà, per un altro verso però la volontà stessa tende a divenire un luogo pulsionale. Questo non significa solo che l'anoressica fa masochisticamente della privazione un mezzo di godimento, ma anche che al fondo della padronanza anoressica troviamo l'esperienza angosciante di una perdita di padronanza. Significa che la volontà, nell'esasperazione assoluta del governo integrale di se stessa, raggiunge un punto dove non è più in grado di governarsi, dove, in altre parole, perde il controllo su se stessa, perde il controllo sulla propria volontà di controllo. In questi casi, che la clinica DSM raccoglie nel quadro delle cosiddette "anoressie restrittive", la volontà di controllo diventa una manifestazione diretta della pulsione di morte. Come quando un soggetto anoressico si dichiara disponibile a tornare a mangiare, ma dichiara di aver perso il controllo sul proprio rifiuto del cibo, owe6. In Vultima cena: anoressia e bulimia (Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 79), per definire il carattere antidialettico della posizione anoressica avevo proposto la formula "separazione-controalienazione". ro che non è più in grado di controllare il meccanismo stesso del controllo che la sua volontà aveva inizialmente attivato. LA PASSIVITÀ ANORESSICA Il carattere deciso, volontaristico, determinato della scelta dell'anoressia non è sufficiente a inquadrare chiaramente la posizione del soggetto anoressico. Ai margini di questo aspetto volontaristico - l'anoressia è una malattia della volontà, è una ipertrofia della volontà - possiamo isolare una dimensione più passiva dell'anoressia. Abbiamo visto come il soggetto operi per separarsi attivamente dalla domanda dell'Altro. In questa prospettiva, l'anoressia è davvero una scelta deliberata del soggetto. D'altra parte però il soggetto che decide per l'anoressia è un soggetto situato dall'Altro nella posizione di oggetto, consegnato a una posizione passiva, è un soggetto dipendente dall'Altro. In che senso? Cosa significa affermare che il soggetto anoressico viene situato dall'Altro nella posizione d'oggetto e che la sua posizione porta con sé una dimensione passiva? Significa che, in generale, l'Altro dell'anoressia è un Altro che non considera il soggetto come un soggetto di desiderio. Piuttosto, è un Altro che tende a soddisfare in modo zelante la dimensione della domanda, della domanda di cure, la dimensione dei bisogni primari del soggetto. Come ci insegna l'esperienza clinica, l'Altro dell'anoressica è un Altro tendenzialmente sollecito e impeccabile nel soddisfacimento dei bisogni cosiddetti primari. Ma è anche un Altro che non è capace di rispondere alla domanda del soggetto attraverso il suo desiderio e che, di conseguenza, non sa differenziare nel soggetto la dimensione del bisogno da quella del desiderio. E questa una tesi generale di Lacan sull'anoressia: l'Altro dell'anoressica confonde sistematicamente la dimensione del bisogno con quella del desiderio. Risponde ai bisogni materiali delle cure ma non a quelli umani del desiderio come desiderio di amore e di riconoscimento, come desiderio del desiderio dell'Altro. In questo senso, come ci ricorda Lacan, l'Altro dell'anoressica è un Altro che tende a ridurre il soggetto a oggetto passivo delle cure riducendo forzatamente il desiderio alla dimensione del bisogno. E ciò che egli definisce come la dimensione "asfissiante" della domanda dell'Altro. 7 7. Vedi J. Lacan, La direzione delta cura e iprincipi del suo potere, cit., p. 623. Possiamo cogliere qui l'intersezione della psicopatologia col discorso sociale. L'Altro contemporaneo è veramente un Altro che confonde sistematicamente il desiderio col bisogno, che rifiuta lo svezzamento del "Per mia madre sono solo una bocca aperta da riempire"; per i miei genitori sono solo un "tubo digerente"; "si interessano a me solo se ho mangiato e che cosa ho mangiato!". Così si lamentano i soggetti anoressici. Ebbene quali sono gli effetti sul soggetto di questa riduzione alla posizione passiva di oggetto delle cure? L'effetto maggiore è una situazione di paralisi angosciante e di morte del desiderio. L'angoscia, come insegna Lacan, sopravviene ogni volta che il soggetto si trova situato nella posizione di oggetto nelle mani dell'Altro, ridotto alla sensazione di essere solo un corpo. In questa prospettiva, l'angoscia precede sempre la scelta dell'anoressia e questa scelta si configura, a sua volta, come una sorta di tentativo di soluzione dell'angoscia, di questa riduzione insopportabile del soggetto alla sensazione di essere solo un corpo. Non a caso nelle storie cliniche delle nostre pazienti troviamo insistentemente come congiuntura di scatenamento dell'anoressia una esperienza di perdita di soggettività, un suo essersi sentita degradata a una oggettività inerte. Questa degradazione può prendere per il soggetto forme differenti: l'incontro cattivo e traumatico con il godimento dell'Altro che lo pone violentemente nella posizione di oggetto, una separazione subita, le prime esperienze sessuali, l'incontro con il sapere medico che lo espone a una manipolazione oggettiva e brutale del suo corpo, l'intrusione di un fratello o di una sorella che lo obbliga ad assumere una posizione subordinata nella famiglia dove sino ad allora era considerato l'unico, la figlia più adorabile e insostituibile, la pubertà stessa come incontro con il carattere ingovernabile del corpo pulsionale che esibisce la sua dimensione più passiva e incapace di padroneggiare queste trasformazioni, il tradimento amoroso che lo abbandona come un oggetto scaduto, l'imposizione della volontà dei genitori nelle sue scelte di vita fondamentali che lo declassano a oggetto passivo privo di diritto di parola, l'assenza di verità rispetto a determinate vicissitudini familiari che lo collocano nella posizione di un oggetto senza diritto di sapere. In tutte queste congiunture di scatenamento possiamo reperire una radice comune: il soggetto si trova ridotto traumaticamente a oggetto. Tuttavia questa radice comune non sopprime affatto la dimensione diagnosticamente differenziale della scelta anoressica. La nostra esperienza clinica ci ha insegnato che occorre sempre declinare al plurale l'anosoggetto e che tende a saturare ogni spazio vuoto con l'offerta incalzante dell'oggetto capace di soddisfare i bisogni. La clinica dell'anoressia è una clinica dell'Altro materno come dell'Altro sociale. La maternalizzazione dell'Altro sociale consiste nel fatto che l'Altro sociale non lascia prodursi alcuno svezzamento. ressia come figura clinica, ovvero che esistono diverse anoressie o, più precisamente, diverse declinazioni soggettive dell'anoressia che dipendono dalla diversa struttura di personalità a cui corrispondono (nevrosi, psicosi e perversione). 8 Di seguito proveremo dunque a differenziare diversi possibili modi del rifiuto anoressico e della esigenza di separazione che li anima. IL RIFIUTO COME MANOVRA DI SEPARAZIONE In età evolutiva l'esigenza di separazione p u ò prendere elettivamente le forme del rifiuto anoressico come manovra di separazione dall'Altro. Questa declinazione del rifiuto la ritroviamo frequentemente nelle anoressie infantili e in quelle dell'adolescenza, ma più in particolare nel corso del passaggio puberale. In questo passaggio, che investe il reale del corpo pulsionale e la sua difficile soggettivazione si assiste a un possibile ribaltamento della docilità infantile del soggetto di fronte alla domanda dell'Altro. Il bambino tende sempre a corrispondere alla domanda dell'Altro, nel senso che pone la sua soddisfazione nel soddisfare la domanda dell'Altro, nel soddisfare le sue attese. Lacan ci ricorda come, nei confronti dell'onnipotenza dell'Altro, il bambino sia necessariamente situato in una posizione di impotenza, dipendente dalla potenza (simbolica e reale) dell'Altro. 9 Anche su questo punto l'esperienza clinica ci insegna che le bambine destinate a diventare anoressiche sono state bambine docili, schiacciate sulla domanda dell'Altro, tendenzialmente oblative, preoccupate di corrispondere totalmente alle attese narcisistiche dell'Altro familiare. Il passaggio adolescenziale si infiamma per questa caratteristica esageratamente compiacente dell'infanzia. La docilità passiva della bambina-gioiello si rovescia nel suo contrario, in un'attività strenuamente oppositiva nei confronti dell'Altro genitoriale. Perché questa radicalità estrema? Qual è la ragione di questa infiammazione del conflitto adolescenziale? Perché si afferma una esigenza di separazione che intende negare ogni forma di discendenza, di filiazione, di eredità, di trasmissione, di debito simbolico? Proviamo a dare una risposta generale: perché i confini tra il soggetto e l'Altro sono stati definiti confusamente, perché il soggetto si è sentito 8. La problematica della diagnosi differenziale dell'anoressia-bulimia è al centro dei miei lavori; si vedano, in particolare, Lultima cena: anoressia e bulimia, cit., e Clinica del vuoto, cit. 9. VediJ. Lacan, Il Seminario. Libro IV. Le relazioni di oggetto (1956-1957), tr. it. Einaudi, Torino 1996, p. 199. aspirato, risucchiato, inglobato, ridotto a oggetto inerte del godimento dell'Altro, perché lo spazio insaturo della sua enunciazione soggettiva non è stato sufficientemente preservato. Prendiamo come riferimento esemplare il caso di una giovane adolescente costretta a una ospedalizzazione urgente a causa di un'anoressia estremamente grave. L'anoressia si scatena negli ultimi due anni e assume rapidamente forme preoccupanti. Questa ragazza era stata abusata sessualmente da un cugino sin dall'età di cinque anni, senza averne mai fatto parola ad alcuno. Solo durante il ricovero riferisce questa storia traumatica agli operatori. La scelta dell'anoressia l'aveva resa non appetibile di fronte al godimento dell'Altro, si era cioè profilata come una vera e propria manovra di separazione reintroducendo nel luogo dell'oggetto sessuale passivo una quota di negazione attiva. Attraverso l'anoressia il soggetto rende il suo corpo intoccabile separandosi dall'Altro abusante. Resta però aperta la vera questione: perché questa bambina aveva acconsentito agli abusi del cugino per tutti quegli anni senza chiedere aiuto, protezione, senza dire nulla a nessuno, lasciandosi semplicemente sopraffare dal godimento dell'Altro? La storia della sua infanzia è stata caratterizzata da un rapporto molto "stretto" con la madre. Esemplare era il rito della poppata che si protrasse, nonostante le ripetute indicazioni contrarie del pediatra, oltre i tre anni. La madre durante la poppata letteralmente la "sequestrava" impedendo al padre anche solo di essere presente nelle vicinanze. La stanza veniva chiusa a chiave e il padre non poteva entrare in nessun modo. Alla figlia veniva così assegnata la funzione di incarnare - "realizzare" direbbe Lacan - 1 0 l'oggetto del godimento materno. Il corpo a corpo della madre con la figlia aveva dissolto ogni senso simbolico del limite. Possiamo dedurre che gli abusi sessuali erano potuti avvenire in quella modalità solo su questo sfondo particolare costituito dalla relazione cannibalica madre-figlia. La bambina non protesta per essere violata perché l'essere violata è iscritto nella sua storia come un significante primordiale. Solo con l'anoressia può introdursi un elemento separatore tra lei e il godimento abusivo dell'Altro. Più in generale, nell'anoressia come manovra di separazione il rifiuto del soddisfacimento del bisogno - mangiare il "niente" - tende a difendere il soggetto nella sua singolarità consentendogli di separarsi dalla domanda asfissiante dell'Altro ("mangia! ! "). Solo la separazione dal bisogno può, infatti, fare esistere il soggetto come soggetto del deside10. VediJ. Lacan, "Due note sul bambino", tr. it. in \m psicoanalisi, 1,1985, p. 22. rio. Per questa ragione l'insistenza della domanda dell'Altro può generare solo resistenza. E una tesi classica di Charles Lasègue: l'insistenza dei familiari a sovrastimare il momento dell'alimentazione favorisce l'insorgere dell'anoressia come condotta di resistenza che si rifiuta di assecondare la domanda insistente dell'Altro.11 Il rifiuto dell'oggetto è finalizzato all'esigenza di separazione dall'Altro soffocante, al sottrarsi dalla posizione di oggetto per rivendicare la propria posizione di soggetto. In questo rifiuto si realizza una manovra soggettiva nei confronti dell'Altro. Con la precisazione che il rifiuto come manovra di separazione non definisce solo la scelta anoressica, ma un movimento transclinico del soggetto in età evolutiva per estrarre l'oggetto del proprio desiderio separandolo dalla domanda invasiva dell'Altro. IL RIFIUTO COME RIFIUTO DEL CORPO Il "rifiuto del corpo" è una categoria lacaniana con la quale si intende ripensare la clinica freudiana dell'isteria.12 Questa è una clinica centrata sul carattere metaforico del sintomo: il corpo isterico parla, si manifesta come simbolo, come corpo strutturato come un linguaggio, come un corpo-teatro. La clinica dell'anoressia è invece una clinica del silenzio del corpo, del godimento silenzioso del corpo, del corpo che assume le forme non di un teatro ma di un muro. Come scrivevo in Uultima cena il corpo anoressico è un corpo-muro che si oppone al muro del linguaggio. Nella scelta anoressica il rifiuto del corpo è innanzitutto rifiuto del corpo sessuale. Ma il rifiuto del corpo sessuale significa innanzitutto rifiuto del corpo in quanto corpo ingovernabile, corpo improprio, corpo pulsionale impossibile da disciplinare. E rifiuto del carattere strutturale della improprietà del corpo; delle sue secrezioni, dei suoi appetiti, delle sue trasformazioni, della sua vitalità, della sua eccentricità, della sua possibilità di generare. In questo senso il rifiuto anoressico del corpo è sempre rifiuto del corpo dell'Altro, è rifiuto dell'alterità del corpo e rifiuto dell'alterità del corpo dell'Altro. Cosa significa? Significa che il ri11. C. Lasègue, "L'anoressia isterica", tr. it. in W.W. Gull, C. Lasègue, La scoperta dell'anoressia, Bruno Mondadori, Milano 1998, p. 71. Questa tesi è una formula aurea per intendere gli atteggiamenti oppositivi in età evolutiva. Dove la domanda dell'Altro diventa incalzante si produce fatalmente una resistenza nel soggetto. Accade nell'anoressia di fronte alla domanda "Mangia!", nell'iperattivismo di fronte alla domanda "Stai fermo!", nell'insuccesso scolastico di fronte alla domanda "Studia! ". 12. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro XV//, cit., p. 112. fiuto del corpo è rifiuto del corpo in quanto luogo dell'Altro e del corpo dell'Altro in quanto sessuale. E rifiuto del corpo come alterità che sfugge. È rifiuto del corpo come ciò che non si può ricondurre all'intenzionalità della coscienza, del corpo come reale che non si può governare (il corpo muore, si ammala, gode al di là della volontà dell'Io). Nella clinica dell'anoressia questo rifiuto si traduce come tentativo del soggetto di preservare il corpo al di qua della differenza tra i sessi, di preservarlo come uno indiviso, come non intaccato dalla castrazione, la quale agisce invece proprio differenziando i sessi, rompendo l'illusione indifferenziata dell'Uno. Anche in questa circostanza ciò che si evidenzia è la difficoltà di soggettivare la separazione, è una separazione che si pone senza soggettivazione, dunque un acting out della separazione. Questo tipo di rifiuto può sconfinare clinicamente dall'isteria verso la melanconia. E ciò che definiamo come l'inclinazione melanconica dell'anoressia. Il rifiuto del corpo può dare luogo a fenomeni di deriva del corpo, di masochismo, di annullamento, di devitalizzazione. In questa inclinazione melanconica il soggetto anoressico manifesta tutta la sua difficoltà a elaborare il lutto del suo corpo infantile, del corpofallo, del corpo amato, idealizzato, ma anche goduto, dall'Altro familiare. La sessuazione del corpo, sancita dalla castrazione simbolica, implica infatti la perdita irreversibile del corpo infantile. Accade anche nella clinica della obesità che è in senso stretto una clinica del rifiuto del corpo. Ma nell'obesità non c'è acting out della separazione quanto piuttosto una estrema difficoltà a separarsi dalla domanda dell'Altro. Il soggetto resta nella posizione dell'oggetto, incollato alla domanda dell'Altro. Manca il movimento della soggettivazione; c'è la solitudine del godimento ma non c'è separazione. Se per Lacan la separazione ha la sua condizione della separtizione {sépartition), ovvero nella perdita di godimento, nella separazione interna del soggetto dei suoi oggetti pulsionali (seno, feci, voce, sguardo), nell'obesità c'è opposizione alla perdita di godimento nella forma della accumulazione incessante e solitaria dell'oggetto. Non c'è svezzamento, separtizione, perdita dell'oggetto ma una sua assimilazione incessante. Nell'anoressia invece questo rifiuto della perdita di godimento avviene tendenzialmente in una forma iperattiva, in un negazionismo maniacale, nell'assolutizzazione non tanto dell'alienazione ma della separazione stessa. Infatti, mentre nel soggetto obeso l'oggetto riduce l'angoscia, nell'anoressia la provoca. IL RIFIUTO COME APPELLO Winnicott aveva definito i cosiddetti disturbi dell'alimentazione in età evolutiva come le manifestazioni di un dubbio del bambino sull'amore dei suoi genitori.13 Il rifiuto anoressico dell'oggetto è un modo del bambino per interrogare l'amore dell'Altro e per invocare il segno del suo amore. Si tratta di una negazione dell'oggetto di godimento (il cibo) finalizzata a produrre la mancanza dell'Altro. Si tratta di rifiutare ciò che l'Altro ha per farsi dare ciò che l'Altro non ha. Il rifiuto anoressico dell'oggetto è dunque una invocazione del segno d'amore. La negazione anoressica nega l'oggetto del bisogno per far sorgere il soggetto del desiderio. La negazione dell'oggetto mira a raggiungere la mancanza dell'Altro, a trasformare la mancanza dell'Altro in un dono d'amore. All'inverso la bulimia si configura come una compensazione della frustrazione della domanda d'amore attraverso il consumo compulsivo dell'oggetto, nel senso che l'oggetto-cibo prova a rimpiazzare il segno d'amore assente. Mentre la bulimia, come l'obesità, procede attivando una logica compensatoria, l'anoressia è il rifiuto di ogni compensazione possibile; essa esige il segno anche a costo di rinunciare per sempre all'oggetto. Anche in questo l'anoressia appare come un fondamentalismo: ciò che conta è la negazione dell'oggetto, è la separazione assoluta dalla domanda, è l'affermazione del soggetto come indiviso, è l'annullamento dell'alienazione significante e del debito simbolico. In certe forme di anoressia il rifiuto come invocazione del segno d'amore (che anima profondamente l'anoressia isterica dove il desiderio stesso tende a manifestarsi come un rifiuto) oscilla verso una vera e propria strategia ricattatoria. E il tratto marcatamente perverso dell'anoressia. Il rifiuto diventa in questi casi un modo per gettare l'Altro familiare nell'angoscia. Il corpo si fa ostaggio per esercitare sull'Altro una pressione, una violenza, per gettare l'Altro nell'abisso dell'impotenza angosciata.14 Secondo Lacan la strategia perversa consiste in effetti nel provocare l'angoscia nell'Altro, nel contaminare il luogo neutro dell'Altro dall'affetto dell'angoscia, nel vedere sorgere sul suo volto la smorfia inquietante dell'angoscia. In questo senso la manovra anoressica è sempre un po' perversa perché gioca sulla vita e sulla morte, sull'esercizio di 13. Vedi D.W. Winnicott, "Appetito e disturbo emozionale", tr. it. in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze 1975, p. 51. 14. Con la figura del "corpo-ostaggio" abbiamo isolato uno dei temi cardine della clinica dell'anoressia. Vedi M. Recalcati (a cura di), Il corpo ostaggio. Teoria e clinica dell' anoressia-bulimia, Boria, Roma 1998. un potere assoluto sull'Altro, sul farsi lo strumento della sua angoscia. Si tratta, infatti, di mostrare che non solo l'Altro familiare, ma anche l'Altro della Legge, l'Altro del codice, l'Altro del linguaggio non può sopportare la sfida che l'anoressica gli rivolge. Il rifiuto perverso della castrazione implica infatti innanzitutto il rifiuto dell'azione alienante del linguaggio che impone una sottrazione di godimento. La caratteristica spietata e impassibile di questo rifiuto fa sorgere l'angoscia nei genitori, getta l'Altro familiare nella più cupa disperazione per mostrarsi padrona del loro essere. Per questa ragione agli albori della sua identificazione psicopatologica Charles Lasègue includeva giustamente tra i sintomi dell'anoressia anche la "disperazione dei genitori".15 IL RIFIUTO COME DIFESA Arroccamento, compattamento, cementificazione del soggetto. L'anoressia non è solo un appello ma è anche un muro. E un muro contro il muro del linguaggio: l'anoressia è chiusura, muratura, burka del corpo.16 Questo inspessimento del corpo, evidente nella sua coincidenza più o meno marcata con lo scheletro, può avere come finalità quella di difendere il soggetto dall'incontro traumatico col godimento dell'Altro. Si tratta di una difesa dal rischio di essere ridotti a oggetto, dal rischio angosciante della caduta del soggetto al rango dell'oggetto. Per questa ragione, nelle congiunture più classiche di scatenamento dell'anoressia - come abbiamo già ricordato - troviamo frequentemente abusi sessuali, traumatismi, intrusioni, lutti, tradimenti, incontri cattivi col sapere e con l'istituzione medica, incidenti, frustrazioni della domanda d'amore, ovvero circostanze nelle quali il soggetto si trova identificato alla posizione di oggetto di un godimento maligno e devastatore. In questi casi la solidificazione dei confini del corpo, la muratura del corpo, la negazione oppositiva dell'Altro sono un modo per reagire alla degradazione traumatica del soggetto a oggetto goduto dall'Altro. Il rifiuto agisce qui non tanto come appello d'amore ma come una difesa severa che può raggiungere anche i limiti estremi dell'autismo anaffettivo. In questo caso il rifiuto non svolge più una funzione dialettica, non è più rivolto all'Altro, perché agisce come semplice barriera nei confronti della sua violenza distruttiva. 15. Vedi C. Lasègue, "L'anoressia isterica", cit., p. 72. 16. Sul tema del muro dell'anoressia, rimando al mio L ultima cena, cit., pp. 75-80. La clinica dell'anoressia psicotica illustra con ampiezza di esempi questa modalità difensiva del rifiuto anoressico. La psicosi non si manifesta attraverso i suoi fenomeni elementari (delirio, allucinazioni, passaggi all'atto) ma viene come mantenuta chiusa dall'irrigidimento dell'identità soggettiva promosso dall'anoressia. Il corpo magro in questi casi non è perseguito come un ideale di bellezza, né come un'icona feticistica, ma come una fortezza che rende più sicura la posizione di un soggetto leso dalla forclusione del Nome del Padre. Il rifiuto anoressico stabilizza così il soggetto mantenendo a una distanza di sicurezza la minaccia del godimento maligno e invasivo dell'Altro. E il caso di Lina, giovane anoressica, che di fronte all'irascibilità impetuosa del padre, musicista frustrato, e alla relazione di identificazione narcisistica tra la madre e sua sorella gemella, si trova gettata in una zona desertica, in una terra di nessuno. La supplenza paterna esercitata dal nonno materno si esaurisce traumaticamente per la morte improvvisa di quest'ultimo. Da allora il modo per difendersi dall'irruzione erratica della violenza paterna può avvenire solo attraverso lo scudo della difesa anoressica. I confini tra il soggetto e l'oggetto sembrano dissolversi: Lina deve fare sputare le cicche da chi le sta vicino - soprattutto ai genitori - perché il loro solo odore può farla ingrassare. Teme di essere avvelenata durante il sonno. Teme che quando le sue amiche mangiano la pizza lei possa assorbire le stesse calorie. Farsi appiccicare la pelle sulle ossa cancellando la differenza tra l'osso e la carne diventa allora la sua versione delirante dell'anoressia che punta a preservare una identità soggettiva costantemente minacciata dal godimento dell'Altro. "Se la pelle aderisce perfettamente alle ossa", dichiara Lina, "io divento una mummia e le mummie non hanno più paura di nulla". IL RIFIUTO COME APPETITO DI MORTE Questa ultima declinazione del rifiuto ci mantiene ancora nella zona della clinica delle anoressie psicotiche. Lacan aveva definito nel 1938 il desiderio anoressico come un desiderio della larva, come un "appetito di morte". 17 Negli stessi anni una famosa paziente di Binswanger, Ellen West, definiva la sua anoressia-bulimia come una "brama di morte". 18 A cosa siamo messi di fronte in questi casi disperati dove il soggetto ap17. Vedi J. Lacan ,1 complessi familiari, cit., p. 35. 18. Vedi L. Binswanger, Il caso di Ellen West e altri saggi, tr. it. Bompiani, Milano 1973, p. 108. pare come impegnato in una corsa rovinosa verso la sua propria distruzione? Siamo messi di fronte a un soggetto che ha smesso di interrogare l'Altro, che scioglie ogni legame con l'Altro, che si sconnette dall'Altro e che vuole senza mezzi termini andare dritto verso la morte anche se non nella modalità diretta del passaggio all'atto suicidano ma in quello di un suo differimento mortifero. L'appetito di morte che anima molte pazienti anoressiche a struttura psicotica, la brama di morte che attraversa Ellen West, non domanda alcun segno d'amore, non si rivolge a nessuno, non vuole entrare in alcuna dialettica con l'Altro, non agisce sull'Altro, ma sospinge al di fuori della scena del mondo, verso la chiusura di sé, verso la chiusura nel proprio mondo, verso la distruzione della vita. Ci affacciamo qui sul nesso che unisce profondamente, nella clinica delle psicosi, melanconia e anoressia. Se il riferimento al tratto isterico dell'anoressia aveva spinto Lacan a teorizzare la disgiunzione tra il piano del soddisfacimento dei bisogni e quello del soddisfacimento del desiderio, il riferimento alla dimensione melanconica sottolinea invece la perdita del sentimento della vita che accompagna certe forme radicali di anoressia. Per Freud la melanconia si definisce come lo scioglimento del legame tra Eros e Thanatos. In essa la pulsione di morte si manifesta nella sua purezza devastatrice. "Desiderio della larva", scrive Lacan:19 non c'è ricerca di un'immagine ideale di se stessa, non c'è feticismo della immagine, non c'è appello indirizzato verso l'Altro, non c'è strategia ricattatoria, non c'è nemmeno difesa dal godimento invasivo dell'Altro. Solo un abbandono, una sconnessione, una disinserzione dal campo dell'Altro, una pura volontà di morte. Ciò che la clinica insegna spietatamente è che vi sono casi dove il soggetto del desiderio sembra davvero non esistere, dove il desiderio sembra davvero morto, dove la vita sembra davvero non desiderare più di vivere. Il problema allora non è quello di come separare il desiderio dalla domanda, di come preservare la sua eccentricità rispetto al piano dei bisogni, ma come introdurre nella vita almeno un pò di desiderio... almeno un po', quel poco che consente alla vita di continuare a esistere. Per questa ragione il rifiuto come rifiuto della vita, come spinta alla morte, come appetito di morte, indica una separazione non solo dalla domanda dell'Altro ma anche dall'icona sociale dell'anoressia. Stiamo parlando della dimensione più mortifera, nichilistica, psicotica dell'anoressia che l'industria della moda occulta strategicamente. Quando la spinta alla morte domina in questo modo imperioso l'insegna sociale, l'icona del corpo ma19. Vedi J. Lacan, I complessi familiari, cit., p. 16. grò, non è più in grado di preservare l'identità narcisistica del soggetto alienandolo a un significante sociale capace di stabilizzarne l'essere perché l'anoressia come appetito di morte è separazione anche da quel significante. Il soggetto non può che mostrarsi come corpo morto, corpo mostro, corpo devitalizzato, corpo-cadavere. Solo che questa devitalizzazione non è l'effetto del taglio significante sul corpo, ma è legato a una esteriorità del significante che non incide più sul corpo. In questo modo il corpo anoressico si separa dalla sua stessa immagine contemplando il proprio orrore, contemplando la sua riduzione a oggetto scarto, a oggetto rifiuto, cadendo dalla scena del mondo per richiudersi nel proprio mondo. Questa volontà di morte mostra la faccia in ombra del potere anoressico della volontà. La volontà di volontà è sempre una volontà di morte. E questo mi sembra essere uno degli insegnamenti più fondamentali dell'anoressia: una separazione senza lutto, senza debito, senza alienazione, può produrre solo catastrofe. Una identità senza divisione può generare solo follia. Una libertà che nega l'esistenza dell'Altro può provocare solo distruzione. Un governo di sé che vuole eliminare il desiderio può provocare solo la morte. L'ICONA ANORESSICA DEL C O R P O MAGRO UNA NUOVA RELIGIONE Il nostro tempo è il tempo della liquefazione dei legami, dell'alcatorietà di tutti i legami, dei legami liquidi.1 Questa tesi sociologica ha avuto una grande fortuna ed è divenuta quasi un luogo comune nella decifrazione della Civiltà ipermoderna. Essa s'impone come una evidenza che anche la psicopatologia dei nuovi sintomi conferma ampiamente. Tuttavia questa lettura del disagio ipermoderno in termini di liquefazione dei legami deve a mio giudizio essere integrata e controbilanciata con un fenomeno altrettanto evidente com'è quello della solidificazione del soggetto in identificazioni molecolari che, pur sganciandolo dalla dimensione sociale del legame, lo installano come una monade chiusa, autosufficiente, compatta e senza desideri. Questa dimensione solida dell'identificazione al sintomo è in primo piano nella clinica dell'anoressia e contrasta con la liquidità del legame ipermoderno che invece possiamo considerare esprimersi esemplarmente nella diffusione epidemica del panico. La tesi che intendo esporre qui è che, nell'epoca dei legami liquidi e della caduta degli ideali di stabilità e di permanenza, l'anoressia contemporanea tende a configurarsi come una nuova forma solida di religione.2 Si tratta per un verso di una religione della cura di sé, della cura igienista per il proprio corpo, condotta alle sue conseguenze estreme e paradossali - la cura di sé, quando si unilateralizza, non può infatti che 1. Vedi Z. Bauman, Modernità liquida, cit.; Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, tr. it. Laterza, Bari 2004; e Vita liquida, tr, it. Laterza, Bari 2006. 2. Un fine studioso come Piero Camporesi, nelle sue ricerche intomo all'alimentazione e alle sue trasformazioni storicosociali, aveva intuito questo carattere "assoluto" del culto igienista del corpo nell'epoca contemporanea. Vedi P. Camporesi, Il governo del corpo, Garzanti, Milano 1995. ribaltarsi nel suo contrario; non a caso, occorre ricordare, Freud introduce la pulsione di morte come radicalizzazione delle cosiddette "pulsioni dell'io o di autoconservazione".3 Questa nuova religione adotta l'immagine del corpo magro come un'insegna identificatoria feticizzata, facendone un vero e proprio idolo. Affinché questa rappresentazione ideale di sé si realizzi è necessaria una mobilitazione totale, iperattiva, del soggetto. In questo senso, come scrive Rocco Ronchi, il corpo anoressico è un "corpo mobilitato", il che significa, paradossalmente, "un corpo sotto stress e un corpo trionfante" in tutta l'ambivalenza e la contraddizione che questo comporta: il corpo anoressico è un corpo asservito e, simultaneamente, un corpo in grado di affermare una padronanza di sé proprio attraverso questo stesso asservimento.4 In questa chiave di lettura l'igienismo estremista del regime anoressico è un sintomo del discorso del padrone contemporaneo che prescrive un falso paradigma (light) di salute del corpo. Ma in realtà tale igienismo costeggia e flirta segretamente con la morte. Il culto esaltato del proprio corpo si rovescia nel suo contrario, ovvero nella sua più totale mortificazione. Come abbiamo visto il principio di prestazione del programma sociale della Civiltà ipermoderna esige che il corpo si robotizzi in nome della salute e del suo ideale normativo, anche se questa robotizzazione del corpo è tendenzialmente contraria alla vita. In effetti, quella anoressica è una religione del corpo che, oltre a esaltare la dimensione della cura di sé spinta all'estremo paradossale della distruzione di sé, si presenta soprattutto come una religione estetica del corpo. Ed è in particolare su questo secondo aspetto del corpo anoressico che intendo proporre alcune riflessioni a partire dalla constatazione clinica che l'anoressia non è mistica ma piuttosto autistica. Nel senso più generico che possiamo dare a questi termini; mentre, infatti, la mistica si definisce come l'esperienza di incontro con l'alterità più radicale dell'Altro, l'autismo anoressico indica al contrario un ripiegamento narcisistico, una chiusura del soggetto in se stesso, nella sua autoconservazione paradossalmente dissipativa, nel rafforzamento a 3. Vedi S. Freud, Aldilà del principio di piacere, cit. Il paradosso di una tendenza all'autoconservazione che sbocca in una tendenza autodistruttiva per effetto di una incentivazione della tendenza autoconservativa si trova sviluppato ampiamente in R. Esposito, lmmunitas. Protezione e negazione della vita. Einaudi, Torino 2002. 4. Vedi R. Ronchi, "Bellezza e usura. Come fabbricarsi un corpo non nazista?", in G. Mierolo, M.T. Rodriguez (a cura di), Il disagio della bellezza, Franco Angeli, Milano 2006, p. 27. Di qui la prossimità, sottolineata sempre da Ronchi, tra l'estetica anoressica del corpo e quella fascista. Vedi anche S. Sontag, "Fascino fascista", tr. it. in Sotto il segno di Saturno, Einaudi, Torino 1982. senso unico del proprio Io. Per questa ragione fondamentale ho teorizzato l'idea della posizione anoressica del soggetto come uno pseudomisticismo? La religione fanatica dell'anoressia contemporanea non è una religione dell'anima, ma una religione dell'immagine del corpo; dell'immagine del corpo magro elevata (abusivamente) alla dignità dell'icona. Nondimeno questa icona non ha più nulla a che fare con la funzione autenticamente mistica dell'icona sacra, ovvero con la tensione tra visibile e invisibile, con l'apertura all'irrappresentabile, all'impossibile da immaginare, che essa comporta. Da un punto di vista religioso il mistero dell'icona consiste in effetti nel porre il problema di come possa esistere una rappresentazione dell'irrappresentabile, una modalità per evocare e aprire verso l'assoluto attraverso un'immagine finita. L'icona anoressica del corpo magro non apre invece ad alcuna trascendenza. E un'icona speculare dell'Io senza alcun rapporto con lo sguardo di Dio. Quest'ultimo viene sostituito dallo schermo narcisistico dello specchio. Il rapporto mistico con la volontà dell'Altro viene rimpiazzato dal rapporto estetizzante dell'Io con la sua propria immagine narcisisticospeculare. L'icona del corpo magro si pone in se stessa come un assoluto in totale evidenza che esclude l'incontro con l'alterità dell'Altro. Piuttosto, l'anoressica ricerca allo specchio lo Stesso; la propria identità ingessata nel sembiante sociale del corpo magro. L'IPNOSI ANORESSICA L'immagine del corpo magro è un valore assoluto e, al tempo stesso, è un valore integralmente mondanizzato. Più precisamente, si tratta di una immagine che sembra dissociarsi dal soggetto, assumendo i tratti dell'idolo, di un'immagine ideale che, staccandosi dal corpo lo ipnotizza. La relazione del soggetto anoressico con la propria immagine è, in effetti, una relazione ipnotica nel senso in cui Lacan la descrive nel Seminario XI: l'ideale è confuso con l'oggetto del godimento. Si tratta di una nuova servitù, ma non nei confronti di un puro ideale ma di un Ideale incarnato nell'immagine del proprio corpo. In questo senso possiamo parlare di una mescolanza paradossale tra lo sguardo e la voce come comandi superegoici: lo sguardo severo e la voce morale s'intrecciano e convergono sull'immagine del corpo mostrandone costantemente l'i5. Vedi M. Recalcati, Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze e psicosi, cit., pp. 72-83. nadeguatezza rispetto all'idea esaltata del corpo magro. L'immagine, in altre parole, assume il valore di un dover essere spietato e fanatico. In questa nuova religione estetica, l'ideale del corpo magro si feticizza, diventa idolo. Il sacrificio morale e la spinta ascetica trovano così una loro compensazione in questa trasformazione del corpo in una fortezza, in un vuoto feticizzato. L'esperienza estatica dell'immagine si accompagna effettivamente all'ebbrezza tossica provocata dal vuoto del corpo. Il corpo vuoto dell'anoressia non ospita la mancanza ma è un vuoto che in realtà è un pieno di godimento. Il godimento anoressico è in effetti godimento del vuoto, godimento della desensibilizzazione, dello spegnimento delle passioni, godimento nirvanico. Tuttavia il Nirvana anoressico non ha nulla a che fare con il Nirvana mistico. Se quest'ultimo ìndica la possibilità di staccare la dimensione spirituale dalla passione dell'Io, il Nirvana anoressico è invece il frutto di un'ipnosi che l'Io (ideale) esercita sul soggetto. Lo staccarsi dagli interessi sensibili non avviene - come invece accade nell'ascesi mistica - nel nome di una disidentificazione dall'Io e dai suoi prestigi immaginari, ma nel nome di un suo rafforzamento estremo. Il Nirvana anoressico è godimento del dominio sulle passioni, è godimento della privazione, godimento dell'annullamento di ogni godimento. Ma esasperando la passione di non avere più passioni l'anoressia finisce per diventare prigioniera della sua stessa volontà di dominio. E ciò che nota Freud quando mostra come la pulsione di controllo conduca a una vertigine, a una esperienza di spossessamento, di smarrimento: nell'apice del governo di sé, il soggetto si sente come trascinato via, perduto, rapito. L'idolo della sua ipnosi lo cattura e lo sequestra; il soggetto appare come ridotto a oggetto ipnotizzato dal suo stesso ideale. CORPO POSTUMANO L'icona del corpo magro offre supporto all'identità narcisistica rendendo possibile una iscrizione sociale al soggetto. In questo caso l'adattamento all'equivalenza sociale bellezza-magrezza offre al soggetto l'illusione di un'identità solida. E ciò che spingeva già negli anni Sessanta Hilde Bruch a individuare nell'industria della moda la causa della diffusione epidemica dell'anoressia. Ciò che vale la pena sottolineare è che la bellezza dell'industria della moda è una bellezza che tende all'anonimato, all'universale, allo stereotipo, e che dunque ben si presta a diventare un rifugio per i soggetti psicotici. Diversamente, la bellezza come tale è ciò che rivela il più proprio del soggetto; è una virtù del particolare più che dell'universale. L'icona anoressica resta invece sul lato dell'universale, mentre il particolare viene come cancellato, così come vengono cancellati i rilievi e le forme sessuali del corpo. 6 Il corpo magro è infatti un corpo unisex. Il suo culto divora i rilievi, le forme, i tratti particolari del corpo femminile. Il suo universale è l'universale della morte: gli scheletri appaiono in effetti tutti uguali, come una massa omogenea riunita dal suo essere al di là della vita. Ciò che appare nel corpo emaciato, negli scheletri anoressici, è la democrazia austera della morte, la pialla che rende, come diceva Totò, gli esseri umani tutti uguali. In questo senso la bellezza spettrale del corpo magro costeggia il reale della morte. Altro paradosso dell'anoressia contemporanea: la scelta dell'anoressia avviene a partire da un'esigenza di differenziazione, di rifiuto del conformismo dell'universale, ma questa differenziazione ricade in realtà in una nuova massificazione. Le anoressiche sono seriali, identiche le une alle altre, anonime, cloni di uno stesso stereotipo di bellezza, prive di un principio autentico di soggettivazione del proprio corpo come mostra efficacemente l'opera artistica di Vanessa Beecroft.7 Dunque se il soggetto può rivendicare inizialmente uno statuto di eccezione, questa rivendicazione finisce per segregarlo in un essere in classe, comunitaristico-socialistico, che cancella ogni differenza. La diffusione epidemica dell'anoressia finisce per degradare nella dimensione alienata di un sintomo sociale l'esigenza di unicità che aveva animato in origine la scelta dell'anoressia. Il regime estetico dell'anoressia è rigidamente quantitativo: esso si fonda sulla riduzione dei volumi e dei rilievi. La bellezza si disumanizza, si rende artificiale, inumana, anonima, universale, socialistica. Il principio dell'estetica anoressica è autogenerativo. La mummificazione 6. Questa feticizzazione dello stereotipo dell'equivalenza bellezza-magrezza è stato l'autentico bersaglio critico della lodevole iniziativa del ministro delle Politiche giovanili Giovanna Melandri nei suoi manifesti indirizzati all'industria e alla cultura della moda. Vedi G . Melandri, Come un chiodo, Donzelli, Roma 2007. 7. Tutta l'opera di Vanessa Beecroft, rimeditando originalmente la lezione di Andy Warhol, insiste su questo motivo della serializzazione dei corpi anoressici, sul loro tratto anonimo, privo di particolarità, conformistico, massificato. Soprattutto in certe sue prime performance questa serialità dei corpi viene unita alla dimensione silenziosa e apatica della loro apparizione. I corpi massificati sono corpi isolati, senza alcun legame tra loro, irrigiditi nell'alienazione al loro sembiante sociale, sono corpi-marca, corpi che, anziché essere rivestiti dalle marche del significante, si costituiscono essi stessi come marche sociali. Sull'opera di Vanessa Beecroft in relazione a questi temi, vedi Chantal Nava, Il libro è il corpo. Il testo della femminilità tra psicoanalisi, arte e disturbi alimentari (tesi sostenuta presso DAMS dell'Università di Bologna, 2007-2008), Sara Ubbiali, Anoressia e feticismo in Vanessa Beecroft (tesi sostenuta presso la facoltà di Psicologia dell'Università di Bergamo, 2007-2008) e Nisia Cosenza, Corpi invisibili: il disagio anoressico e l'arte di Vanessa Beecroft (tesi sostenuta presso la facoltà di Psicologia dell'Università di Pavia, 2008-2009). del corpo risponde a un'esigenza narcisistica assoluta: il corpo appare come plasmato, fabbricato, creato dal soggetto. In questo senso il corpo anoressico è un corpo postumano: non è un corpo che si costituisce come luogo dell'Altro - è la tesi di Lacan: il corpo umano è il luogo dell'Altro in quanto dipende dai tagli significanti che lo costituiscono - , ma è un corpo fabbricato autisticamente dal soggetto. Incrociamo qui la distinzione proposta da Gunther Anders tra homo faber e homo creator. Quest'ultimo non si limiterebbe più - diversamente òaWhomo faber - a trasformare la natura a partire dalle esigenze della ragione, ma sarebbe capace di creare prodotti che non esistono in natura, dunque sarebbe in grado di creare una "seconda natura". 8 In questo senso il fantasma anoressico è un fantasma che si organizza intorno al miracolo folle di una separazione dall'Altro che nega ogni forma di alienazione. Il suo rifiuto dell'Altro manifesta pienamente questo fantasma autotrofico: la separazione radicale da ogni forma di domanda che si realizza attraverso la manovra anoressica conduce il soggetto a rifiutare il corpo pulsionale in quanto tale. Quello anoressico è infatti un corpo innaturale, fetale, unisex, postumano, prodotto di una perversione speciale della volontà. Il corpo anoressico in quanto corpo postumano non è un corpo semplicemente regredito al di qua della sessuazione, non è un corpo infantilizzato; piuttosto esso si pone non al di qua ma al di là della sessuazione. Una mia paziente affermava, osservando compiaciuta la propria magrezza spettrale: "Il mio corpo è il corpo di un marziano". E continuava: "E come se la sessualità non appartenesse più alla dimensione del mio corpo, come se mi fosse semplicemente estranea". Un corpo al di là della dimensione umana della sessualità, non infantile ma extraumano, autotrofico, assorbito nell'illusione disperata di una autonomia assoluta nei confronti dell'Altro, è un corpo che non può più essere inteso ricorrendo alla figura clinica dell'isteria. Nel corpo isterico il significante ingravida l'anatomia; il corpo isterico, insistono Freud e Lacan, è un fatto di linguaggio. Nel corpo anoressico si tratta invece di una mineralizzazione del corpo come effetto di una inclinazione olofrastica del significante che, anziché costituirsi come ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante, finisce per inghiottire l'essere del soggetto in un'identità monolitica. Il corpo anoressico si pone infatti come un corpo pietrificato proprio perché la funzione rap8. Su questa distinzione, vedi G. Anders, "Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale", tr. it. in L'uomo è antiquato, voi. 2, Bollati Boringhieri, Torino 2003. presentativa del significante - al centro nella clinica classica dell'isteria pare compromessa. Mineralizzazione, robotizzazione, devitalizzazione; il corpo anoressico rifiuta la dimensione del corpo come luogo dell'Altro. In primo piano compare piuttosto una sorta di glaciazione del corpo pulsionale, una deprivazione del corpo, un suo rifiuto estremo. Il suo iperattivismo solo apparentemente entra in contrasto con questa tendenza; l'iperattività del corpo mobilitato permanentemente mira a raggiungere uno stato di desensibilizzazione, di anestesia, di azzeramento delle emozioni, mira, cioè, a raggiungere, al colmo della sua esercitazione attivistica, l'assenza, lo spegnimento della vita. Con l'espressione "rifiuto del corpo", come abbiamo già avuto modo di sottolineare, Lacan ha interrogato le declinazioni contemporanee dell'isteria, irriducibili alla categoria freudiana classica della "compiacenza somatica" (della conversione isterica). Questa categoria gli appariva insufficiente per rendere conto di una radicalizzazione contemporanea della psicopatologia del corpo. Mentre con essa Freud aveva esaltato il carattere simbolico del sintomo isterico, la sua integrale permeabilità al significante, la sua plasticità simbolica, con la categoria di rifiuto del corpo Lacan intende indicare un certo declino del potere del simbolo, un certo grado di opposizione del corpo al significante. Il rifiuto del corpo è infatti il rifiuto del corpo come luogo dell'Altro. E rifiuto del corpo dell'Altro (sesso) e, dunque, del proprio corpo in quanto corpo marcato dal sesso, ma solo in quanto è rifiuto più radicale della condizione strutturale che istituisce il corpo dell'essere umano a partire dall'azione dell'Altro, a partire dal trattamento che il significante esercita sul corpo biologico. Il corpo pulsionale non è infatti il corpo naturale ma il suo pervertimento causato dalla presa del linguaggio. In questo senso il corpo umano è il luogo dell'Altro in quanto, appunto, fabbricato dal significante. Ma nel rifiuto del corpo si contesta precisamente questa subordinazione del corpo all'Altro del linguaggio. Anche da questo punto di vista l'anoressia contemporanea appare come una nuova religione: essa pone l'immagine del corpo magro come un assoluto sganciandola illusoriamente dalla presa dell'Altro. Illusoriamente, perché in realtà è proprio l'Altro sociale a incentivare, paradossalmente, questo nuovo culto dell'immagine del corpo come sganciata da ogni legame con l'Altro. DUE METAMORFOSI DELLA BELLEZZA: IL CORPO-FETICCIO E IL CORPO-MOSTRO La metamorfosi anoressica del corpo avviene seguendo due direzioni tra loro complementari che hanno come tratto comune una perversione fondamentale del soggetto, ovvero l'uso dell'esposizione del corpo magro al fine di operare una cancellazione della castrazione; l'esposizione della bellezza stereotipata e spettrale del corpo magro propone un'immagine del corpo disgiunta dalla dialettica del desiderio. La prima di queste direzioni è quella che sostiene il corpo magro come marca sociale della bellezza. Il canone della bellezza contemporanea è un canone di autosufficienza. In questo senso il corpo magro è il corpo feticizzato narcisisticamente. E una incarnazione della bellezza che pare annullare il particolare delle forme nell'universale dell'insegna, della marca sociale di una bellezza standard che anziché sostenere il desiderio vi si oppone. In effetti, il modello paradossale della bellezza anoressica consiste proprio nell'offrire un'immagine narcisistica del corpo che annulla il desiderio anziché animarlo. E ciò che Lacan aveva attribuito al cosiddetto narcisismo primario teorizzato da Freud, in quanto, appunto, narcisismo asservito alla tendenza del soggetto alla fusione mortifera. Nella bellezza anoressica del corpo magro come icona sociale, la bellezza si sottrae al circuito dello scambio simbolico con l'Altro e si erige come una fortezza vuota. E bellezza che si contempla attraverso la gabbia di una specularizzazione massificata, rivolta a quello specchio anonimo offerto dall'Altro sociale contemporaneo che esalta le virtù estetiche dell'icona standard del corpo magro. Questa specularizzazione non è sostenuta dallo sguardo particolarizzante del desiderio dell'Altro; è piuttosto una specularizzazione feticizzata, inanimata, privata della funzione umanizzante che Lacan riconosce allo sguardo dell'Altro. Si tratta cioè di una bellezza che anziché nutrire il desiderio dell'Altro nutre sterilmente se stessa. "Il mondo si è ridotto a uno specchio", dichiarava laconicamente una mia paziente. Questa riduzione esprime un potere di gelificazione dell'estetica anoressica sul desiderio dell'Altro. E, se si vuole, la natura ipnotica della bellezza anoressica. La neutralizzazione del desiderio manifesta pienamente il carattere postumano del corpo anoressico. L'immagine speculare rimpiazza quella dell'Altro sesso profilandosi come nuovo partner (inumano) del soggetto. Ma non si tratta, come ho già detto, di una immagine erotizzata positivamente, attraversata dal desiderio dell'Altro; essa appare piutto- sto come un'immagine statuaria, pietrificata, gelificata. Siamo qui di fronte a una trasfigurazione della funzione della bellezza così come è stata interpretata da Lacan. Mentre la bellezza vela il reale del corpo rivestendolo e rendendolo disponibile alla dialettica del desiderio (il velo della bellezza è un supporto del desiderio), nell'anoressia la velatura del corpo si ispessisce sino a diventare un muro contrario al desiderio-, non è una velatura ma una muratura, non è un supporto del desiderio ma una sua devitalizzazione radicale. La seconda direzione della metamorfosi anoressica del corpo è quella relativa alla dimensione mostruosa del corpo. In questo caso l'icona sociale del corpo magro come icona della bellezza ipermoderna rivela il suo fondo osceno: il corpo magro è il corpo-mostro. L'anoressia conduce l'ideale sociale della bellezza incarnata nel corpo magro al suo punto estremo, al punto dove questo ideale si rovescia nel suo contrario prefigurando il mostruoso, il reale brutto al di là della velatura dell'immagine ideale. In questo senso l'anoressia è una patologia dell'immagine del corpo che mostra il punto dove l'immagine si scuce dal corpo divenendo essa stessa la manifestazione del reale osceno, del brutto dell'esistenza, dell'oggetto (a) secondo Lacan. Non è più il soggetto che viene riunito dalla buona forma dell'immagine, ma è l'immagine che, divenendo persecutoria nel suo carattere superegoico, guarda il soggetto riducendolo a oggetto, assediandolo, imponendosi come sguardo assillante, come una concrezione dell'oggetto piccolo (a), dunque frammentando, sfibrando, devastando e non unificando il soggetto. Mentre l'icona sociale del corpo magro preserva l'immagine come difesa dal reale - per quanto trasformi la velatura della bellezza in una muratura che annulla il desiderio - , il corpo mostro anziché ricoprirlo rivela proprio il reale brutto dell'esistenza. Il corpo-mostro non può essere più inteso ricorrendo all'idea dell'immagine velo, dell'immaginecopertura ma è un acting out del corpo che infrange l'immagine-velo facendo apparire in un brusco cortocircuito, in modo traumatico, il reale brutto dell'esistenza, il suo osso irriducibile. Il corpo-mostro fa emergere in superficie ciò che dovrebbe restare velato: l'orrore osceno della morte. In questo senso il corpo magro come mostruosità è il corpo come apparizione della Cosa che fa cadere i sembianti sociali, compreso quello della bellezza feticizzata del corpo magro; l'ostentazione pubblica del corpo-mostro è trauma, punto di angoscia della visione. Il corpomostro è il corpo sbucciato dal suo involucro e scoperto come puro scheletro. Esso ci pone di fronte a una vera e propria topologia dell'orrore; l'interno brutto devasta la superficie dell'immagine, annienta il suo valore protettivo imponendosi come oggetto reale, come una incarnazione diretta della morte. Qui non si tratta più di murare il desiderio ma di produrre angoscia in chi guarda; il corpo-mostro attualizza infatti una strategia perversa che è finalizzata a produrre angoscia nell'Altro. A catturare il suo sguardo proprio per il tramite dell'angoscia. Questa ostentazione spettacolarizzata ed esibizionista dell'orrore rivela la vera natura del culto ipermoderno del corpo: ciò che si cela in modo inquietante nella preoccupazione sociale per la salute del corpo è la tendenza alla morte. L'eccesso della pulsione di morte, che il programma della Civiltà tende a addomesticare, ritorna così al centro della scena. "Non sopporto gli eccessi del corpo, le sue smanie", mi diceva una paziente. "Ciò che voglio è ripulire il mio corpo, renderlo forte e compatto come l'acciaio", affermava, incarnando così la terribile aspirazione (mortifera) dell'igienismo ipermoderno. CORPO, ANGOSCIA E ANORESSIA VERSO UNA ZONA DI INCANDESCENZA Un luogo comune ritiene che la riflessione di Lacan escluda di considerare la dimensione degli affetti e quella del corpo a vantaggio di una formalizzazione strutturalista dell'esistenza del soggetto. In realtà, anche intorno a questi temi, Lacan resta profondamente legato a Freud nel ritenere in psicoanalisi centralissimo il riferimento al corpo pulsionale, al corpo libidico-erogeno come corpo irriducibile a quello biologico dell'organismo naturale. Sopra questa irriducibilità egli lavora costantemente a partire dall'ipotesi strutturalista del primato dell'ordine della Cultura su quello della Natura; primato che però non esclude affatto il reale del corpo, ma lo sussume necessariamente nelle forme simboliche della Civiltà sino a snaturarne ogni destinazione biologicoistintuale. E questo il valore altamente simbolico e umanizzante che Lacan assegna in funzione e campo della parola e del linguaggio al rito della sepoltura, il quale indica la disgiunzione tra il corpo reale divenuto cadavere e la sua sopravvivenza eternizzata dalla funzione simbolica del sepolcro.1 Tuttavia, se nel corso degli anni Cinquanta Lacan aveva affrontato il problema del corpo accentuando la sua appartenenza all'ordine simbolico, dunque la sua subordinazione strutturale all'eterogeneità della catena significante, al carattere normativo e transindividuale del discorso 1. Vedi J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, eie., p. 313. Più avanti in Radiofonia e televisione, Lacan giocherà con il termine inglese corpse (che significa cadavere, carogna) per indicare che il corpo umano, il corpo pulsionale, è un corpo, diversamente da quello animale, negativizzato, mortificato, corpsificato appunto, dall'azione letale del significante. Vedi J. Lacan, Radiofonia e televisione, cit., p. 10. dell'Altro e delle sue Leggi, nei primi anni Sessanta la sua riflessione sembra privilegiare il vertice dell'angoscia, nell'ambito di un rinnovamento complessivo del suo insegnamento marcato dalla svolta inaugurata col Seminano VII sull'Etica della psicoanalisi (1959-1960), la quale decreta il passaggio dall'autonomia e dalla superiorità del grande Altro dell'ordine simbolico alla centralità scabrosa ed extrasignificante della grande Cosa del godimento. Siamo qui al centro di un passaggio chiave dell'insegnamento di Lacan che evidenzia non tanto la subordinazione dell'uomo al potere disantropico della combinatoria significante, quanto la sua prossimità inquietante a una zona, interna al linguaggio, ma esclusa dal linguaggio e sulla quale il linguaggio stesso non ha potere di presa e di articolazione. Si tratta di quella "zona incandescente" del reale, irriducibile tanto al significante quanto all'immagine; zona oscura del godimento irrappresentabile, del terrificante, dell'irrespirabile, dell'eccesso impossibile da governare. L'estraneità di questa zona incandescente non è un'estraneità prelinguistica, non è l'estraneità dell'ai di qua (che non esiste) del linguaggio. Piuttosto si tratta di una estraneità immanente al linguaggio che possiamo incontrare attraverso alcune esperienze limite, tra le quali quella dell'affetto di angoscia manifesta una assoluta particolarità. Del reale prima del linguaggio nessuno può a rigore dire nulla; ciò che si rivela nell'angoscia non è al di qua del linguaggio ma concerne il corpo pulsionale come corpo che patisce del significante pur essendo non riducibile al significante. Questo affetto "che non mente", come afferma ripetutamente Lacan a proposito dell'angoscia, ha il potere di scardinare la subordinazione strutturalista del corpo al linguaggio non perché, come ritiene in generale la filosofia fenomenologica, rivelerebbe lo statuto "precategoriale", "vissuto", "esistenziale", del corpo, ma perché indica l'impossibilità per il significante di sussumere in modo integrale il reale. L'esperienza dell'angoscia ci introduce infatti alla non coincidenza di significante e reale, al loro bordo reciproco e alla loro irriducibile eterogeneità. SDOPPIAMENTO FREUDIANO DEL CORPO Freud incontra il soggetto dell'inconscio nel corpo isterico che sfida il sapere universale della scienza medica ponendosi come enigma insolubile, resistente a qualunque applicazione meccanicistica della legge della causalità organica che governa gli eventi di natura. Il corpo isterico manifesta un'eccedenza del corpo del soggetto (dell'inconscio) rispetto al suo funzionamento universale di tipo anatomico-macchinico. Questa eccedenza concerne, per Freud, la doppia esistenza del corpo stesso: la sua esistenza libidica e la sua esistenza biologica. Questo statuto sdoppiato del corpo umano può apparire solidale con una concezione fenomenologica del corpo in quanto segnala l'irriducibilità del corpo-soggetto dal corpo inteso come cosa-fisica, come superficie estesa quantificabile e sottomessa al regime causale delle scienze della natura. E ciò che Schopenhauer anticipa in II mondo come volontà e rappresentazione con la distinzione tra corpo-rappresentazione e corpo-volontà e che costituirà la matrice filosofica della distinzione stabilita da Husserl, e ripresa ampiamente dalla psichiatria fenomenologica, tra Kòrper (corpo-cosa) e Leib (corpo vissuto): il corpo non è un solido dotato di certe proprietà volumetriche ma è innanzitutto una manifestazione vissuta della vita, una espressione fondamentale dell'esistenza. Da questo punto di vista non è tanto sullo statuto sdoppiato del corpo libidico che insisterà la fenomenologia husserliana e posthusserliana, ma sull'impossibilità di separare astrattamente il corpo dalla intenzionalità che necessariamente lo anima. Una delle grandi tesi che si incontrano nella concezione fenomenologica del corpo è che l'intenzionalità non esiste se non incarnata in un corpo e, a sua volta, che il corpo è sempre la manifestazione incarnata di una intenzionalità. Nello sdoppiamento freudiano tra corpo libidico e corpo biologico emerge però qualcosa di diverso rispetto al rifiuto fenomenologico del dualismo tra intenzionalità e corporeità. In Freud, infatti, la nozione di pulsione non si limita a indicare una zona limite tra lo psichico e il somatico, dunque a manifestare la dimensione "psichicamente" espressiva del corpo e quella necessariamente incarnata dello psichico, ma si lega in modo extrafenomenologico alla nozione di libido. La corporeità freudiana è, in effetti, una corporeità libidico-pulsionale più che una corporeità vissuta di tipo fenomenologico-esistenziale. Un esempio elementare può forse aiutarci a cogliere questa differenza. In I disturbi visivi psicogeni nell'interpretazione psicoanalitica2 Freud ci introduce allo sdoppiamento del corpo attraverso una riflessione intorno alla pulsione scopica. Nei disturbi cosiddetti psicogeni della vi2. Ad avere attirato l'attenzione su questo scritto minore sono i testi di P-L. Assoun, Leçons de psychanalyse sur le regard et la voix, Anthropos, Paris 1995 e J-A. Miller, "Biologia lacaniana ed eventi del corpo", tr. it. in La psicoanalisi, 28, pp. 69-74. Il testo freudiano si trova in S. Freud, Opere, cit., vol. 6, pp. 289-295. sta, ciò che si evidenzia è che la funzionalità macchinica dell'occhio come puro organo anatomico finalizzato alla visione viene decisamente squilibrata e alterata da un eccesso di investimento libidico inconscio. Si tratta di una interferenza pulsionale che sconvolge la dimensione semplicemente percettiva della visione. Nel suo disturbo psicogeno l'organo-occhio che risponde al funzionamento anatomico-universale del corpo-macchina ci lascia intravedere la funzione dell'organo-libidico, dunque del godimento specifico della pulsione scopica che trascende nettamente il piano della funzione anatomica. Il sintomo isterico - il disturbo psicogeno della visione - si produce precisamente a causa di questa interferenza dell'investimento libidico sulla funzione organica del corpo-macchina. Mentre infatti l'occhio come organo della visione sembra orientare naturalmente il soggetto nel mondo, dunque sembra rispondere alle esigenze specifiche delle cosiddette "pulsioni dell'Io" (le quali, ci ricorda Freud, sono innanzitutto "pulsioni di autoconservazione"), il suo disturbo isterico sottolinea l'avvento di un piacere inopportuno e supplementare (anticonservativo), in grado di deviare la funzione naturale della visione dal puro ambito percettivo per esaltarne invece la valenza libidica. Questo piacere supplementare - che Freud nomina col termine Schaulust (letteralmente: piacere di vedere) risulta irriducibile all'ordine edonistico-conservativo dell'organismo ed esibisce con forza lo sdoppiamento tra il corpo biologico e quello libidico. Infatti, la visione attraversata dal piacere di vedere non risponde più a una finalità vitale di tipo percettivo, ma a una finalità libidica a essa sovrapposta, la quale però finisce per scompaginare la finalità naturale stessa della percezione disturbandola sintomaticamente. L'ostacolo nell'attività percettiva del corpo manifesta quindi l'incidenza snaturante della pulsione. In questo senso, secondo Lacan, il soggetto isterico è il soggetto che meglio manifesta la struttura divisa del soggetto. Il corpo si trova trascinato in due direzioni opposte: nella direzione vitale della funzione percettiva e in quella iperedonistica di un godimento che disturba la visione perché vi ha introdotto l'interferenza di un piacere clandestino:3 se la pulsione sessuale parziale che si serve del guardare - il piacere sessuale del guardare - ha attirato su di sé a causa delle sue eccessive pretese la reazione difensiva delle pulsioni dell'Io, cosicché le rappresenta3. Questa distinzione viene articolata da Jacques-Alain Miller come opposizione tra due corpi irriducibili: il corpo epistemico e il corpo libidico. Vedi J-A. Miller, "Biologia lacaniana ed eventi del corpo", cit., p. 74. zioni nelle quali si esprime la sua aspirazione cadono preda della rimozione e vengono tenute lontane dalla coscienza, la relazione dell'occhio e della vista con l'Io e la coscienza in generale ne risulta disturbata.4 I DUE CORPI LACANIANI È a partire da questa esistenza sdoppiata del corpo teorizzata da Freud che Jacques Lacan formulerà la propria dottrina dei "due corpi".5 Il corpo - incorporeo - del linguaggio e il corpo vivente dell'organismo biologico. Dove il secondo cade preda nella rete diffusa del primo subendo una trasformazione simbolica. Il corpo vivente viene cioè modellato dall'azione culturale del significante che lo snatura imponendogli appunto i suoi caratteri più umani (taglio del cordone ombelicale, dei capelli, svezzamento, educazione sfinteriale, cure igieniche ecc.). Più precisamente, la relazione tra questi due corpi è pensata da Lacan come una relazione di incorporazione-, il corpo-organismo incorpora il corpo simbolico del linguaggio. Questa incorporazione mette in opera quella alienazione significante alla quale è obbligato l'essere parlante e che ha come uno dei suoi effetti maggiori la produzione del corpo pulsionale: il corpo naturale è obbligato a perdere la sua unità e a lasciare il posto al corpo pulsionale, ovvero a un corpo frammentato, snaturato, costituito come localizzazioni plurime (perverse e polimorfe per Freud) del godimento. Per un verso il corpo pulsionale è un corpo che ha al suo centro una perdita, un elemento sottratto; è un corpo in meno rispetto al corpo istintuale, è un corpo in perdita di godimento. Nei termini esposti nel Seminario XI il corpo appare come fabbricato, tagliato dal significante ed è precisamente a partire da questo suo essere "intaccato dal significante" che può costituirsi come un corpo pulsionale, dunque come corpo sessuale, libidico, come un corpo diverso dal corpo-organismo della biologia e della scienza positivistica, ma anche come un corpo diverso da quell'unità precategoriale, precedente ogni distinzione metafisica tra anima e corpo, che intende essere il corpo vissuto della fenomenologia. Per il corpo tagliato dal significante non è più centrale il problema della distinzione o dell'unione dell'anima col corpo - come ritiene invece ancora la fenomenologia auspicando il superamento di questa antitesi meta4. S. Freud, Disturbi visivi psicogeni nell'interpretazione 5. Vedi J. Lacan, Radiofonia e televisione, cit., p. 9. psicoanalitica, cit., p. 293. fisica - , ma è il suo rapporto con l'esteriorità del grande Altro (la combinatoria significante, il linguaggio, le leggi della Cultura), dalla quale dipende e a cui si deve la perdita di una delle sue parti come fattore costituente della sua stessa esistenza. Per questa ragione Lacan insiste nell'affermare che il corpo pulsionale è il corpo che si costituisce attorno a un vuoto centrale: attorno al vuoto centrale della Cosa. L'azione del linguaggio ha infatti provocato la perdita di una parte del godimento del corpo, una perdita che si iscrive nella carne del corpo. Il corpo biologico si umanizza solo attraverso il taglio simbolico, mediante la "cesoiata" ("coup de risalile")6 del significante che lo negativizza pulsionalizzandolo. In questo caso non è più dominante la problematica fenomenologica di come lo psichico e il carnale si implichino vicendevolmente, ma come l'umano si produca solo a partire da una significantizzazione della carne, dunque da una sua perdita parziale e irreversibile. Per questa ragione Lacan può affermare che il corpo è tout court il "luogo dell'Altro". Esso è il luogo dell'Altro perché è costituito dai tagli significanti che lo devitalizzano e che, in questa stessa operazione di mortificazione simbolica, lo iscrivono in un ordine di senso irriducibile al regno animale, al corpo istintuale, all'esistenza di un organismo originario al di qua del linguaggio. Nella teoria lacaniana dei due corpi, il corpo simbolico del linguaggio precede l'avvento del corpo pulsionale essendo piuttosto la condizione materiale della sua produzione. La marca essenziale che il linguaggio imprime sul corpo del soggetto consiste in una sottrazione di godimento, in una sua spogliazione negativizzante. L'azione del significante sul corpo si configura, afferma Lacan, come una rapina simbolica: il corpo è svuotato di godimento dall'azione di rapina dell'Altro.1 Si tratta di un'idea fondamentale abbozzata da Lacan già nel corso del Seminario VII e che viene ripresa nel Seminario XI allorché il corpo pulsionale viene descritto come un montaggio che si costruisce sul fondamento del vuoto localizzato nelle zone erogene; bordature del corpo dove il godimento pulsionale si realizza non come appropriazione dell'oggetto, ma come condensazione circoscritta del godimento stesso attorno alla lacuna aperta negli orifizi erogeni causata dalla perdita dell'oggetto. Su questa idea Lacan non è mai venuto meno: per esistere come corpo pulsionale il corpo necessita del taglio significante, della sua azione letale. La sottrazione di godimento - la negativizzazione del corpo - è la 6. Vedi J. Lacan, "Petit discours à l'ORTF", in Autres Ecrits, Seuil, Paris, p. 224. 7. Vedi J. Lacan, Radiofonia e televisione, cit., p. 20. condizione di esistenza vitale del soggetto. La Cosa deve essere perduta e il suo resto, il famoso oggetto (a), deve localizzarsi nel quadrilatero degli oggetti pulsionali (orale, anale, scopico, vocale) il cui fondamento è costituito dalla castrazione simbolica, ovvero dalla rinuncia al godimento integrale, assoluto e incestuoso - fuori simbolico - della Cosa. Non si perda di vista l'intensità della dialettica tra la vita e la morte che qui è in gioco: la rapina simbolica del corpo - la sua mortificazione operata dal significante concede al corpo vivente del soggetto la possibilità, altrimenti preclusa, dell'erotizzazione del desiderio. In questo movimento la vita e la morte - freudianamente: Eros e Thanatos - restano annodati in modo fecondo. Nel caso in cui la castrazione simbolica non sia operativa, come avviene per esempio nella clinica delle psicosi, questo annodamento si scioglie - è ciò che Freud definiva "disimpasto" o "defusione" pulsionale - e il soggetto subisce una mortificazione non simbolica ma reale che mina alle radici il suo stesso "sentimento della vita". Esso si trova così inondato da un godimento in eccesso, abusivo, distruttivo, mortificante appunto, che anziché localizzarsi nelle zone erogene, anziché essere circoscritto attraverso i bordi del corpo, dilaga ovunque, provocando una frammentazione del corpo, una sua disintegrazione mortifera. L'oscillazione tra megalomania schizofrenica e ipocondria, sulla quale lo stesso Freud indugia in Introduzione al narcisismo, può essere citata qui come una forma paradigmatica di questa presenza invasiva di un godimento non ancorato e dunque non normato dalla castrazione simbolica che invece permette la vita del desiderio grazie alla mortificazione significante del godimento in eccesso. Jacques-Alain Miller ha proposto di differenziare in due modalità operative distinte l'azione del corpo incorporeo del linguaggio sul corpo vivente attraverso le categorie distinte di "significantizzazione" e di "corporeizzazione". Con la prima egli sintetizza l'azione letale del significante sull'organismo che è, come abbiamo visto, un'azione di negativizzazione del godimento e di elevazione simbolica del corpo vivente. Il significante mentre desertifica il corpo dal godimento lo rende umano, lo eleva a corpo staccato dal corpo animale dell'istinto. La classica triade lacaniana bisogno, domanda, desiderio si presta a riassumere bene questa operazione di riduzione del godimento e di elevazione simbolica del corpo: dal bisogno al desiderio, lungo la via della domanda, il corpo del soggetto si rivela irriducibile alla spinta istintuale. Diversamente dal bisogno, il desiderio implica infatti che la soddisfazione non si esaurisca mai nel consumo dell'oggetto ma si mantenga sospesa al desiderio dell'Altro. La corporeizzazione indica invece 0 modo col quale il significante "entra nel corpo". In questo senso essa può essere definita come "il rovescio della significantizzazione". 8 Mentre nella prima operazione il corpo-bisogno, il corpo-organismo, viene elevato alla dialettica del desiderio attraverso una perdita di godimento, attraverso una sua fondamentale negativizzazione, nell'operazione di corporeizzazione è il significante che, entrando nel corpo, lo plasma, lo rende corpo-godimento, corpo vivente, corpo abitato da un plus di godimento. Mentre con la significantizzazione il corpo si svuota di godimento, la corporeizzazione indica il suo motivo complementare; il corpo diventa sostanza godente attraverso l'azione stessa del significante che lo attraversa. Con questa differenziazione Miller intende problematizzare la dottrina lacaniana dei due corpi mostrando come il significante non solo svuoti il corpo di godimento ma vi operi anche una sua iscrizione fondamentale, nel senso che è proprio l'azione del significante a rendere il corpo una sostanza che gode. In altri termini la corporeizzazione del significante consiste nell'effetto di scrittura che il significante esercita sulla superficie corporea. Questa operazione non annulla la prima l'operazione di significantizzazione - ma ne evidenzia l'altra faccia, ovvero come il significante stesso possa farsi veicolo del godimento, possa introdurre - e non solo sottrarre - del godimento nel corpo vivente. Il riferimento alla corporeizzazione diventa tanto più interessante quando in un'epoca come la nostra viene meno una corporeizzazione ritualizzata collettivamente e il soggetto si trova alle prese con la necessità di accedere a pratiche della corporeizzazione efficaci senza l'ausilio fondamentale del significante edipico che subisce, nell'epoca del godimento globalizzato, un'eclissi storica e clinica inevitabile. COMPIACENZA SOMATICA E RIFIUTO DEL CORPO NELL'ISTERIA Il corpo isterico è il corpo che più evidenzia il carattere irriducibile del corpo pulsionale rispetto al corpo biologico. La sua anatomia fantasmatica mostra tutta la distanza che separa il corpo libidico dall'organismo naturale. Non casualmente è proprio dal corpo isterico che Freud estrae il soggetto dell'inconscio. Anziché rispondere alle leggi universali del corpo biologico-naturale esso appare come interamente organizzato dalla rimozione: diversamente dalla nevrosi ossessiva dove il materiale rimosso ritorna nella forma del pensiero coatto, del disturbo com8. J-A. Miller, "Biologia lacaniana ed eventi del corpo", cit.. p. 97. pulsivo della cogitazione, del suo contorcimento ruminativo, nell'isteria il rimosso ritorna attraverso le manifestazioni del corpo. In questo il corpo isterico è un teatro dove il corpo parla. La nozione freudiana di "compiacenza somatica", che inquadra classicamente i fenomeni psicopatologici di "conversione isterica", definisce precisamente questa disponibilità del corpo a essere ingravidato dall'intrusione del simbolo. Le sue espressioni sintomatiche (paralisi, accessi di tosse, vomiti, contorsioni, irrigidimenti, svenimenti, disturbi visivi, pseudogravidanze ecc.) sono manifestazioni di linguaggio metaforiche, cifrature enigmatiche del desiderio inconscio che si dispiegano invocando transferalmente la loro interpretazione nell'Altro. Sono, più semplicemente, messaggi criptati in attesa di decifrazione; messaggi, dunque, indirizzati all'Altro, strutturalmente sotto transfert. La clinica classica dell'isteria illustra le modalità con le quali il desiderio inconscio rimosso ritorna convertito in un disturbo considerato dal DSM come "somatoforme". La conversione è in questo caso conversione di un desiderio inconscio rimosso in un'alterazione solo apparentemente organica, poiché l'organo che si presta a questa operazione di traduzione cifrata (diversamente dalla lesione psicosomatica) non è patologicamente compromesso. Le isteriche che popolano il grande affresco psicopatologico degli Studi sull'isteria di Freud e di Breuer sono le protagoniste di questa potenza espressiva del soggetto dell'inconscio. Per questo Lacan può scrivere che nel sintomo isterico la verità inconscia si iscrive "in lettere di sofferenza nella carne del soggetto",9 e per questo egli lo identifica con una metafora nella quale un significante ha preso il posto di un significato rimosso. In primo piano, come si vede, è qui ancora l'azione del significante che si impone su quella meramente biologica dell'organo del corpo vivente. Tuttavia, pur essendo un puro fenomeno di linguaggio, la metafora sintomatica si trova in presa diretta sul corpo. Per un verso infatti (a livello del registro immaginario) il corpo isterico si presenta come un corpo stratificato che condensa differenti identificazioni (il corpo isterico gioca costantemente con le identificazioni), per un altro verso invece (a livello del registro simbolico) esso resta il luogo privilegiato per il ritorno della verità dall'esilio della sua rimozione.10 Certamente questa verità è muta e resta tale fintantoché non trova la sua decifrazione, anche se la sua decifrazione non è mai una semplice esplicazione del significato trattenuto 9. Vedi J. Lacan, Funzione e catnpo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit., p. 299. 10. Vedi J. Lacan, "Intervista", tr. it. in La psicoanalisi, 10,1991, p. 12. dalla condensazione metaforica poiché, come già Freud aveva indicato, le significazioni che si addensano nel sintomo isterico sono sempre plurime e sovradeterminate. In questo senso la metafora sintomatica è una rivelazione della verità ma solo nella forma della sua costante sottrazione. Il senso vi è imprigionato fino a quando la parola analitica non lo libera attraverso la sua interpretazione simbolica. Il corpo isterico è imbevuto di senso e per questa ragione è sensibile alla parola. La concezione lacaniana del sintomo come imprigionamento del senso incontra nella tesi della compiacenza somatica di Freud la sua traduzione più eloquente: il significante rimosso trova nel corpo un luogo di espressione privilegiato ed enigmatico. Nell'articolo sui disturbi psicogeni della visione è chiaro che l'alterazione della percezione visiva manifesta la verità inconfessabile del "piacere di guardare". In questo caso l'operazione dell'interpretazione analitica deve rispondere al sintomo isterico invertendo il passaggio dal reale al simbolico; se, infatti, il sintomo di conversione traduce un conflitto reale in una simbolizzazione metaforica, l'interpretazione analitica riconduce tale simbolizzazione al nucleo reale (di godimento libidico) che contiene permettendone lo scioglimento. Nel corso del Seminario XVII titolato II rovescio della psicoanalisi, Lacan propone di ripensare la figura freudiana della "compiacenza somatica" in quella di "rifiuto del corpo". 11 Mentre con la nozione di compiacenza somatica Freud metteva in valore, come abbiamo visto, la capacità semanticamente espressiva del corpo isterico, la nozione lacaniana di "rifiuto del corpo", come abbiamo già ricordato, sembra interrogare più radicalmente i limiti di questa capacità. Il passaggio dalla compiacenza al rifiuto sembra accentuare il corpo non tanto come luogo simbolico-espressivo ma come luogo di un godimento maligno, inerte e ripetitivo, refrattario a ogni traduzione significante. La nozione lacaniana di rifiuto del corpo solo parzialmente ricopre quella freudiana della compiacenza somatica e precisamente laddove entrambe queste figure realizzano il corpo isterico come rifiuto nei confronti della rappresentazione medico-universalistica del corpo come macchina biologica. Il punto di continuità tra queste due versioni del corpo consiste nella sovversione del corpo come ingranaggio definito da un sapere istintualenaturalistico per far valere invece le ragioni del soggetto dell'inconscio. Nei disturbi psicogeni della visione, per riprendere il nostro esempio, viene rifiutata la funzione biologico-anatomica dell'organo-occhio a causa del godimento libidico condensato nella zona erogena della pul11. Vedi J. Lacan, Il seminario. Libro XVU, cit., p. 112. sione scopica. In questa sua prima accezione il rifiuto del corpo lacaniano si mantiene concettualmente solidale con la compiacenza somatica freudiana: nel corpo isterico ciò che conta è il corpo come fenomeno di linguaggio, come incarnazione particolare del significante e non il sapere naturale che lo guida in quanto corpo animale. In evidenza è qui ancora una volta la disgiunzione tra la finalità di godimento, iperedonistica, del corpo (piacere della visione) e quella "naturale", "universale", "funzionale" del corpo biologico, nel senso che l'accentuazione della prima comporta la deviazione, dunque il rifiuto, della seconda. Tuttavia la nozione di "rifiuto del corpo" descrive anche il corpo isterico come rifiuto del corpo dell'Altro (non solo di quello del partner, ma anche del bambino, del padre, della donna, dell'uomo). Questo rifiuto intende rivoltarsi oppositivamente alla Legge della castrazione: il soggetto rifiuta il proprio corpo come corpo sessuato, come corpo subordinato alla norma simbolica della castrazione, differenziato sessualmente, tagliato dal significante. Più precisamente, il corpo isterico - per quanto sia strutturato su questo taglio - si rivolta a questo stesso taglio; è un corpo insubordinato nei confronti della supremazia simbolica del significante fallico, il quale sancisce l'operatività della castrazione simbolica differenziando i sessi. Il corpo isterico protesta dunque contro questa supremazia; e può protestare sino all'estremo, cioè sino a rifiutare il carattere sessuale del corpo stesso. Questa particolare declinazione del corpo isterico non è assente in Freud, ma Lacan gli conferisce uno statuto speciale proprio nel momento in cui il suo insegnamento, come avviene nel corso degli anni Sessanta, s'interroga non tanto sul potere simbolico della parola, dunque sul sintomo come metafora della verità inconscia del soggetto, ma sui suoi limiti. In questo senso si può mettere in tensione la nozione di "compiacenza somatica" che eleva il corpo a luogo della parola con il "rifiuto del corpo" che sembra indicare invece un attrito di altro genere tra il corpo e il luogo simbolico dell'Altro. Mentre infatti la compiacenza somatica manifesta positivamente il desiderio inconscio del soggetto - sebbene filtrato e contorto dalla rimozione - , rivolgendolo come messaggio da decifrare all'Altro, il rifiuto del corpo è innanzitutto rifiuto dell'Altro del significante; è rifiuto del significante padrone che presiede l'identificazione fondamentale del soggetto perché - e in questo consiste la sua continuità con la compiacenza somatica - questo rifiuto è l'unico modo di possedere il desiderio dell'Altro.12 12. Il corpo isterico è posseduto dal desiderio dell'Altro e non dall'identificazione al signifi- IL RIFIUTO DEL CORPO E IL CORPO COME RIFIUTO Nella clinica contemporanea il rifiuto isterico del corpo sembra radicalizzarsi torcendosi contro se stesso; diventando rifiuto del corpo nelle forme estreme di una sua degradazione distruttiva, di un vero e proprio attacco al corpo. Il corpo martoriato dell'anoressica, marchiato da piercing e tatuaggi, ricoperto da tagli reali (come nelle esperienze estreme dei cutters), mascolinizzato nell'attività frenetica ed estenuante dell'esercizio fisico o esibito senza veli nella sua mostrazione pornografica, ridotto a oggetto di sevizie e di attività masochistiche più varie, trasfigurato dall'uso sempre più illimitato e perverso della chirurgia estetica, sconvolto dalla chimica anestetizzante e ipereccitante delle nuove droghe, schiacciato dal consumo compulsivo, bulimizzato, obesizzato, attraversato da continue somatizzazioni, esposto a pratiche pulsionali devastanti e suicidane, costantemente angosciato dalla "mancanza della mancanza", dall'eccesso di godimento, sono configurazioni del corpo nello spazio dell'ipermodernità che evidenziano il narcisismo nichilistico che lo avvolge. Sono, cioè, configurazioni del "rifiuto del corpo" nell'epoca della crisi del simbolico e del trionfo dell'oggetto reale di godimento. Questa radicalità inusitata delle espressioni patologiche del corpo nell'epoca contemporanea sembra sganciare nettamente la manifestazione somatica dalla simbologia ermeneutica del corpo isterico. Il rifiuto del corpo non sembra più indicare la ribellione del desiderio soggettivo e della sua particolarità irriducibile nei confronti del sapere universale del discorso medico e del corpo naturale, né le sue manifestazioni espressive sembrano presiedute dal regime significante della conversione isterica che elevava il disturbo somatico alla dignità poetica della metafora, a un messaggio cifrato in attesa della sua decifrazione. Si tratta piuttosto di un acting out dell'orrore nel quale il corpo anziché rifiutarsi antagonisticamente alla Legge fallica (come avviene nell'isteria classica) si realizza esso stesso come rifiuto, come scarto, come rigetto, come oggetto (a). Il riferimento all'anoressia contemporanea può essere evocato qui come un vero e proprio paradigma: il rifiuto isterico del corpo sembra estremizzarsi sino a capovolgersi nel suo contrario; esso non è più rifiuto del corpo biologico (come macchina e come sapere universale) per far esistere il particolare del desiderio inconscio, ma è rifiuto del desiderio inconscio in un acting out del corpo privo di mediacante padrone verso il quale, invece, si rifiuta. Vedi J-A. Miller, "Conversation sur les embrouilles du corps", in Ornicar?, 50,2003, p. 259. zioni simboliche. Il suo esito è quello di mostrare il reale del corpo al di là dell'immagine. E cosa sarebbe un corpo al di là dell'immagine se non un puro reale orrorifico, mostruoso, insensato, se non la rivelazione dell'esistenza nella sua "nuda vita", come protuberanza insignificante e priva di senso? Nell'esperienza umana dell'angoscia Lacan isola proprio l'incontro con questo corpo reale che perde il suo rivestimento immaginario e si mostra come corpo estraneo a se stesso. Diversamente dal corpo isterico il corpo anoressico non è aperto sull'Altro, non interroga il suo desiderio, non sfida l'Altro del sapere universale, ma è un corpo che si è chiuso su se stesso in una modalità autotrofica che finisce per escludere, anziché invocare, l'Altro del desiderio. RIVESTIRE IL CORPO L'angoscia, secondo una delle celebri definizioni proposte da Lacan nel corso del Seminario X, è l'affetto che segnala il tempo nel quale la "mancanza viene a mancare". 13 Con questa definizione chiave egli sottolinea come l'apparizione dell'angoscia non sia tanto in relazione all'esperienza della separazione o dell'abbandono - matrici freudiane dell'angoscia, per il quale, in fondo, l'angoscia è sempre associata alla castrazione - , ma all'incontro con un eccesso, un troppo, un impossibile da evitare che abita il più proprio del soggetto. Se freudianamente l'affetto dell'angoscia segnala nel corpo l'esperienza della perdita, lacanianamente essa si presenta come esperienza di una prossimità eccessiva col reale, con quel reale dell'esistenza che i veli dell'immaginario e del simbolico tendono invece a schermare. In effetti, in questo Seminario, Lacan non si limita a sottrarre il reale del corpo pulsionale al dominio del significante, ma ritorna criticamente anche sulla sua prima e fondamentale teoria immaginaria del corpo formulata col celebre stadio dello specchio, nella quale il corpo umano è innanzitutto il corpo rivestito da un'immagine. 14 Con la teoria dello stadio dello specchio come formatore della funzione dell'io, Lacan ci introduceva, ben prima della sua svolta strutturalista e della sua teoria dei "due corpi", alla differenza tra il corpo come puro organismo vivente e il corpo umano. In questo contesto ciò che istituisce il corpo nella sua unità e nella sua identità differenziata è il suo essere riveli. Vedi J. Lacan, Il seminario. Libro X, cit., p. 47. 14. Vedi J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell'io, cr. it. in Scritti, cit., pp. 87-94; Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud (1954-1955), tr. it. Einaudi, Torino 1978. stito dall'immagine. Senza l'abito dell'immagine non si dà esperienza possibile del corpo come identità vivente. Lacan precisa giustamente che questo rivestimento immaginario del corpo non avviene per una qualche maturazione evolutiva delle facoltà diacritico-cognitive o più genericamente percettive, ma scaturisce dall'incontro con la funzione plasmatrice dell'immagine speculare. Il potere morfogeno che Lacan le attribuisce15 consiste in effetti nel riconoscimento della sua azione assimilatrice che conferisce all'essere del soggetto una immagine riconoscibile. L'esercizio compiuto di questa azione comporta però uno sdoppiamento del soggetto che può ritrovare se stesso solo nell'alterità dell'immagine, nella sua esteriorità irraggiungibile. Questo significa che lo sdoppiamento provocato dall'azione dell'immagine speculare non implica affatto associare l'identità del soggetto con un rispecchiamento cognitivo poiché non si dà alcuna identità del soggetto se non, come precisa Lacan stesso, in una "linea di finzione". Il rischio, in altre parole, è di intendere la costituzione dell'immagine del corpo come un processo dialettico che implicherebbe una identità del soggetto solo virtuale che in un tempo secondo si possa dispiegare oggettivamente nell'immagine speculare per poi, alla fine del processo, consentire al soggetto di riconoscervisi in un movimento superiore di conoscenza. Questo modello dialettico non è del tutto pertinente nella costituzione dello stadio dello specchio, che rimarca invece una sorta di primato dell'esteriorità dell'immagine sulla interiorità soggettiva. In altre parole, non c'è un soggetto interiore che in un movimento di conoscenza progressivo rintracci se stesso nell'alterità dell'immagine speculare, ma c'è innanzitutto la potenza esteriore dell'immagine che cattura e plasma un soggetto che esiste solo attraverso questa immagine. Questo significa che ciò che definiamo come il "nostro corpo" è già da sempre aspirato in un'immagine esterna che lo cattura in una sorta di fascinazione idealizzata. Questa alienazione immaginaria eccede lo schema dialettico della conoscenza ed esalta il carattere eterodeterminato del corpo. Senza l'apporto dell'immagine dell'altro il corpo non viene all'essere, ma anche con questo apporto la sua venuta all'essere porta con sé una "significazione mortale" insuperabile, perché l'immagine che mi costituisce mi è da sempre e per sempre "sottratta", ovvero non potrò mai coincidere con il suo Ideale. Questa scissione interna è ciò che la dialettica intende riassorbire e che invece Lacan mantiene come una divergenza reale impossibile da recuperare nel sapere.16 15. Vedi J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, tr. it. in Scritti, eie., p. 185. 16. Il testo decisivo che definisce le ragioni profonde della presa di distanza di Lacan da Hegel è J. Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio, in Scritti, cit., pp. 795-831. Resta la questione clinica relativa a cosa accade al corpo se privato della sua immagine. Per Lacan è la figura del corps morcelé, del corpo in frammenti, che evidenzia questo impatto catastrofico. Nel soggetto schizofrenico, spiega Lacan, non c'è "accesso all'immaginario", nel senso che l'immagine speculare non inquadra il corpo in confini definiti, non produce una forma sufficientemente buona e compiuta che possa arginare, delimitare e unificare il corpo pulsionale. Per questa ragione il corpo schizofrenico tende a dissolvere i suoi confini, a smembrarsi, a disgregarsi, a confondersi con quello dell'altro, a disunirsi, a perdere i suoi pezzi. Il corpo schizofrenico è dunque un corpo senza immagine. Gli organi non stanno insieme, le membra si disarticolano, la massa della carne non si lascia rivestire stabilmente dall'immagine, non resta fissata allo scheletro (come avveniva per una mia paziente anoressica psicotica) ma deborda da tutti i lati. Senza la virtù unificante dell'immagine speculare non si dà corpo ma solo carne sfatta. Per questo è così frequente incontrare nei soggetti schizofrenici allucinazioni che investono il corpo e che lo riducono a massa amorfa, a putridume, a protuberanza insignificante. In un caso clinico raccontato da Agostino Racalbuto un paziente schizofrenico sente la sua lingua in bocca essere fatta di merda.17 Non dobbiamo recintare la costituzione dell'immagine del corpo umano nell'ambito meramente etologico della risposta dell'organismo animale alla percezione del simile. L'assunzione di una immagine narcisistica del proprio corpo, preciserà in seguito Lacan, dipende essenzialmente dall'incrocio tra lo specchio e lo sguardo dell'Altro, o, più semplicemente, dalla risposta dell'Altro all'apparizione della "mia" immagine.18 Il vero specchio non è l'oggetto speculare ma lo sguardo, o come direbbero, seppure in contesti diversi, Winnicott e Lévinas, il volto della madre, il volto dell'Altro. Questo significa che la condizione affinché un corpo possa rivestirsi di un'immagine in modo sufficientemente stabile - senza che, come accade ai soggetti psicotici, l'immagine del corpo possa improvvisamente abbandonare il corpo - è la risposta amorevole dello sguardo dell'Altro, la quale permette al soggetto stesso di percepire la propria immagine come sufficientemente amabile. Le percezioni del proprio corpo come estraneo, inadeguato, derelitto, inconsistente, brutto, indegno sono in rapporto al modo con il quale lo sguardo dell'Altro ha risposto all'incontro con il corpo reale del 17. Vedi A. Racalbuto, Tra il fare e il dire, cit., p. 84. 18. Vedi J. Lacan, Nota sulla relazione diDanielLagache, tr. it. in Scritti, cit., p. 674. soggetto. Prima che dall'abito, il corpo è rivestito dallo sguardo dell'Altro. L'umanizzazione dell'immagine del corpo proprio avviene come effetto del riconoscimento dell'Altro. Quando questa risposta non avviene, le identificazioni è come se mancassero di un supporto basale, o, come direbbe Lacan, "costituente"; di qui la loro alcatorietà, il loro carattere pulviscolare e la loro proliferazione immaginaria quale la possiamo reperire nella clinica delle psicosi, ma anche in certi fenomeni più vicini all'isteria come quelli di depersonalizzazione o ancora, per fare un solo altro esempio, nelle personalità cosiddette "come se", dove il ricambio continuo e camaleontico d'abito identificatorio cela in realtà un vuoto narcisistico fondamentale e inestinguibile. IL CORPO PULSIONALE E L'EFFRAZIONE DELL'IMMAGINE Nella teoria dello stadio dello specchio l'immagine speculare svolge due funzioni tra loro intrecciate: quella di delimitare il corpo del soggetto differenziandolo dagli altri corpi, conferendogli una sua propria unità specifica, e quella di ricoprire, schermandolo, il reale del corpo, il suo carattere ontologicamente informe includendo, se si vuole, i suoi oggetti pulsionali in un contenitore adeguato, come accade con l'esperimento, più volte commentato da Lacan, del vaso di fiori rovesciato.19 In questo senso l'immagine è sempre associata al simbolo del velo che riveste il reale brutto e scabroso dell'esistenza. Tuttavia, questo reale informe non precede affatto il linguaggio, non è l'in-sé sartriano che si situa al di qua del taglio del significante, perché esso implica proprio questo taglio essendo un suo prodotto: il reale brutto dell'esistenza può emergere solo se ritagliato dall'azione del significante. Non è il reale primordiale di una Cosa che viene prima dell'Altro, ma è l'incontro con quella parte dell'esistenza che l'azione del significante non è in grado di assorbire esaustivamente e che in certe congiunture particolari può improvvisamente, con effetti d'angoscia, emergere. Si tratta, dunque, di una zona dell'essere irriducibile al significante che però può rivelarsi solo in seguito all'azione del significante, come una sorta di suo scarto interno. E solo attraverso il significante che infatti possiamo isolare ciò che lo trascende. Altrimenti apriremmo le porte a una metafisica dell'originario come al di qua del linguaggio, metafisica che effettivamente ispira una gran parte della psicoanalisi contemporanea. 19. Ibidem, pp. 699-679. La tesi che Lacan sviluppa ampiamente nel Seminano X dedicato all'angoscia è dunque che la rete significante non è in grado di ricoprire tutto il corpo reale del soggetto e che l'angoscia segnala che qualcosa del corpo pulsionale può fare la sua apparizione perturbando la cornice stabilizzante dell'immagine speculare. Un contrasto tra la funzione pacificante dell'immagine e la sua alterazione inquietante sembra così investire il soggetto. La centralità dell'affetto dell'angoscia in rapporto al corpo consiste proprio nell'introdurre nella forma ideale e narcisistica dell'immagine di sé una "perturbazione" fondamentale: 20 ciò che angoscia è la impossibilità di includere nel recinto ben definito di quell'immagine l'oggetto pulsionale, ovvero un oggetto che non può essere sussunto in nessuna immagine, l'oggetto che Lacan nomina come oggetto piccolo (a). Più precisamente, se l'immagine narcisistica agisce come una difesa dal reale della pulsione ("il campo speculare", afferma Lacan, "è il campo in cui il soggetto è maggiormente difeso rispetto all'angoscia"),21 l'angoscia ci segnala l'emergenza di questo reale con il conseguente destabilizzarsi della funzione pacificante dell'immagine narcisistica. Il soggetto, come avviene per esempio nelle crisi dismorfofobiche di certi adolescenti, non si riconosce più nella sua immagine, che gli si erge di fronte come l'immagine di un estraneo.22 Provo a proporre una situazione esemplare ispirata dalle riflessioni lacaniane sull'angoscia. Un soggetto è di fronte allo specchio quando nota una piccola macchia scura apparire in un angolo del suo volto. Lo sguardo si arresta su di essa, vi indugia, non riesce ad abbandonarla. Piuttosto l'amplifica e in questa amplificazione sembra trascinare con sé l'immagine del volto nel suo insieme, disfacendola, scardinando la sua cornice consueta, alterandola. Una pozza nera occupa adesso da sola lo schermo e l'unità dell'immagine rappresentativa dell'io è perduta; c'è solo la macchia, il fondo scuro della macchia che dilaga. A questo punto però ciò che l'immagine del volto sembrava confinare in un dettaglio (insignificante o prezioso) appare in tutta evidenza, in un'evidenza accecante. Ora vedo solo la macchia. Anzi, più precisamente, 20. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro x, cit., p. 94. 21. Ibidem, p. 386. 22. Si p u ò pensare alla dismorfofobia adolescenziale come al segnale di una difficoltà profonda del soggetto a integrare nel campo narcisistico il reale delle trasformazioni puberali del corpo che finisce per scompaginare l'immagine speculare e la sua funzione identificatoria. L'anoressia, almeno per certi versi, radicalizza il fallimento di questa dialettica: ciò che il soggetto vede ritornare nella carne in eccesso e che inquina l'idealizzazione narcisistica del corpo magro è il reale della pulsione che non si integra nel soggetto ma che riappare solo sotto forma di un eccesso maledetto, impossibile da cancellare e che angoscia il soggetto. ora che il volto è divenuto esso stesso "macchia" è la macchia stessa che mi guarda e guardandomi mi angoscia.23 Questo rovesciamento della direzione dello sguardo è ciò che secondo Lacan accompagna l'affetto dell'angoscia: la negativizzazione del reale - la sua significantizzazione nell'immagine unitaria del volto - deve impedire alla macchia di impadronirisi dell'immagine. E un argine immaginario di fronte alla presenza incombente del reale. Quando però, come afferma Lacan, viene a "mancare la mancanza", quando l'oggetto della pulsione che doveva restare ricoperto dal velo immaginario fa la sua apparizione sulla scena, l'immagine narcisistica risulta irrimediabilmente corrosa, alterata; essa non occulta più il reale brutto del corpo ma lo rivela perché ciò che adesso appare - la macchia come indice dell'irriducibilità del corpo pulsionale al campo narcisistico - non sarebbe mai dovuto apparire. Ma cosa segnala, più precisamente, l'apparizione angosciante della macchia? Cos'è questa macchia? E forse l'indice di un corpo carnale che precede il linguaggio? E una dimensione patetico-affettiva della corporeità che viene prima del significante? La risposta che con Lacan possiamo dare non segue questa direzione perché ritiene che questa macchia abbia a che fare con un frammento di esistenza reale ritagliato dal significante più che con l'incontro di un reale al di qua del significante. In questo senso l'angoscia, precisa Lacan, è un "fenomeno di bordo": 24 esso evidenzia il limite dell'immagine speculare e dell'azione del significante, ma non potrebbe concepirsi senza l'immagine speculare o senza l'azione del significante.25 Il passaggio dalla teoria dell'immagine come forma ideale del corpo e dell'immagine come velo sul reale che Lacan sviluppa nella sua concettualizzazione dello stadio dello specchio, a quella del corpo come impossibile da specularizzare, teorizzata nel Seminario X, mostra come l'immagine narcisistica del corpo non possa ricoprire senza resti il reale 23. Nel Seminario XI è ciò che Lacan attribuisce alla misteriosa figura anamorfica del teschio che appare nella celebre opera di Holbein titolata Gli ambasciatori. N o n è il fruitore che coglie l'immagine ma è il movimento anamorfico dell'immagine che fa sorgere, nell'immagine stessa, lo sguardo come uno sguardo che viene dall'Altro e che fissa il soggetto nella posizione di oggetto guardato. Ciò che fa macchia non necessariamente deve invadere il campo della visione anche se provoca un rovesciamento della visione. Il teschio degli Ambasciatori, così come, per citare un esempio che fa Lacan nel Seminario x, la presenza di un piccolo neo sul corpo che mi attira, guardandomi, ben più dello stesso sguardo della mia partner, sono esempi di "dettagli" che finiscono per imporsi alla visione, per rovesciare in m o d o perturbante l'intenzionalità dello sguardo che si trova a essere guardato più che a guardare. Vedi J. Lacan, llSeminario. Libro X, cit., pp. 275-276. 24. Ibidem, p. 117. 25. Come fenomeno di bordo l'angoscia lacaniana sembra escludere la psicosi ed eleggere invece a suo modello clinico la figura della nevrosi. L'angoscia panica che s'incontra frequentemente in soggetti psicotici indicherebbe allora non tanto un fenomeno di bordo, ma l'assenza radicale di bordatura del reale e sarebbe qualitativamente eterogenea alla dimensione lacaniana dell'angoscia. dell'esistenza. L'affetto dell'angoscia esibisce precisamente questo scarto, svelando impudicamente il carattere aspeculare dell'oggetto (a) col quale Lacan definisce nella sua algebra quel residuo pulsionale del corpo che eccede i confini dell'immagine del corpo. Quando il soggetto è confrontato alla funzione macchia dell'immagine, per utilizzare i termini del Seminario XI, scopre che l'immagine non è tanto ciò che avvolge l'oggetto piccolo (a), ma ciò che produce l'emergenza dell'oggetto piccolo (a), ovvero una presenza impossibile da specularizzare. In questo senso l'angoscia possiede la facoltà di "produrre" l'oggetto piccolo (a) come oggetto irrappresentabile. Mentre la teoria dello stadio dello specchio assegnava al campo immaginario il compito di rivestire narcisisticamente il reale pulsionale del corpo, ora Lacan pare rovesciare tale funzione: da velo ideale che ricopre il reale a squarcio nel simbolico che annuncia il reale. L'immagine che ci guarda non è l'immagine che vela il reale, ma l'immagine che angoscia perché presentifica il reale. Niente è angosciante, ci ricorda Lacan, come l'apparizione di un'immagine che rovescia lo sguardo, come il trovarci improvvisamente esposti al nostro stesso sguardo che ci guarda come uno sguardo estraneo.26 E ciò che l'anoressica sperimenta di fronte allo specchio: l'immagine del suo corpo è sempre inadeguata al suo ideale, al punto che sembra che gli eccessi di carne guardino il soggetto generando in esso un effetto di angoscia. L'immagine perturbante, anziché consentire la nostra identificazione in una unità ideale, come avveniva nello stadio dello specchio con l'immagine narcisistico-speculare, genera il doppio come automa, figura irriducibile alla simmetria narcisistica, parte di me stesso che sfugge a me stesso, oggetto impossibile da recuperare, spaesante, oggetto che mi divide perché, come spiega Lacan, la separazione non è tanto separazione in esteriorità dall'altro, ma sépartition,21 dunque partizione interna, scissione che attraversa il soggetto. Si pensi al corpo del bambino. Lacan accentua la separazione non come in rapporto alla differenziazione dalla madre, ma come perdita dell'involucro della placenta o del seno, come perdita di un pezzo del proprio stesso essere.28 L'esigenza che il reale del corpo pulsionale sia velato dall'immagine non è solo una esigenza puramente difensiva. L'essere parlante può umanizzare il proprio corpo attraverso lo specchio dell'Altro, il suo sguardo, il suo riconoscimento simbolico. E innanzitutto l'Altro ad attribuire un senso umano al reale bruto della vita biologica, è solo l'Al26. Ibidem, p. 96. 27. Ibidem, p. 256. 28. Ibidem, p. 271. tro che può riscattare la "muffa dell'esistenza"29 conferendole un senso. Allo stesso modo agisce la funzione di velo dell'immagine che circonda e assegna una "buona forma" possibile al reale informe dell'esistenza. Se manca questa azione simbolica e immaginaria dell'Altro, il soggetto rischia di appiattirsi sul reale, si perde in una coincidenza mortifera con l'oggetto scarto, con l'oggetto palea dell'esistenza, come accade esemplarmente nella melanconia dove a occupare la scena è non tanto l'emergenza dell'oggetto (a) come "fenomeno di bordo" ma la sua coincidenza con l'esistenza del soggetto, il quale s'identifica integralmente con l'oggetto perduto divenendo lui stesso "oggetto perduto". Ma in questo caso non è più in funzione l'oggetto che causa il desiderio, ma annullamento del desiderio in un godimento antivitale e distruttivo. L'identificazione con la macchia non è più una esperienza transitoria, un fenomeno di bordo appunto, ma finisce per coincidere con l'essere stesso del soggetto. E questo anche il caso, come ci ricorda Lacan, della madre dello schizofrenico che percepisce suo figlio in grembo come un puro oggetto reale, un corpo estraneo, un oggetto scarto, dunque come l'inverso di un oggetto fallicizzato dal desiderio della madre; piuttosto un oggetto impossibile da simbolizzare, un rifiuto dell'esistenza.30 29. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro li. L'io nella teoria di Freud e nella tecnica psicoanalitica (1954-I955)',u. it. Einaudi, Torino 1991, p. 295. 30. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro X, cit., p. 129. PANICO E ANORESSIA LA VERITÀ DEL PANICO Quando lo psicoanalista riflette intorno alle forme psicopatologiche del disagio non lo fa scindendo queste forme dalla condizione più generale della realtà umana. Questo significa che per la psicoanalisi la psicopatologia non si costruisce mai come una collezione di deviazioni rispetto a una supposta situazione ideale di normalità. Al contrario, il grande merito della psicoanalisi applicata alla psicopatologia consiste nel ritenere che le cosiddette "malattie mentali" rivelino, anziché alterazioni della norma, le verità e le passioni fondamentali dell'esistenza umana. In questa prospettiva, per esempio, l'isteria, se seguiamo Freud e Lacan, rivelerebbe la tendenza strutturalmente metonimica del desiderio, il suo carattere permanentemente insoddisfatto, il suo essere costitutivamente desiderio d'Altro; la schizofrenia, il carattere discordante, scisso, frammentato del corpo reale, che, privato dell'apporto benefico dell'immagine narcisistica, viene vissuto dal soggetto come puro caos pulsionale; la paranoia, l'autonomia dell'ordine simbolico, il carattere transindividuale del linguaggio che parla il soggetto più che essere parlato da lui; l'anoressia, l'eterogeneità ineliminabile tra il soddisfacimento istintuale dei bisogni e l'appagamento simbolico del desiderio. E potremmo proseguire elencando tutte le forme del disagio cosiddetto mentale, vecchie e nuove. E il panico? Quale sarebbe la verità relativa all'essere parlante che esso ci rivelerebbe? Il panico fa emergere la verità della nostra condizione esistenziale di abbandono, di inermità, di Hilflosigkeit, come direbbe Freud, che nessun Altro, nessun ordine di senso, ha il potere di riscattare integralmente. Il panico ci rivela, in altre parole, l'inconsistenza dell'Altro, la sua impossibilità di ricoprire senza scarti il reale della morte, del sesso e della pulsione.1 Ma anche il limite della funzione del narcisismo, il suo bordo reale, ciò che la velatura dell'immagine non può ricoprire mai del tutto. In questo ultimo senso la clinica del panico resta un capitolo specifico della clinica psicoanalitica dell'angoscia. Quest'ultima, come abbiamo visto, perturba l'immagine narcisistica del soggetto segnalando l'emergenza di un oggetto pulsionale - la tesi di Lacan, diversamente da quella di Freud, è che l'angoscia non è senza oggetto - eterogeneo al campo speculare.2 L'epoca del panico è l'epoca del declino del Padre e della sua evaporazione. Pensiamo alla scena con la quale Freud stesso nella sua Psicologia delle masse accosta l'esperienza del panico: la morte del capo in battaglia genera uno sbandamento nelle truppe come la perdita della fede sgretola il legame di un gruppo religioso.3 E il panico. In questi casi accade, scrive Freud, che la massa si sparpagli come "una lacrima di Batavia" alla quale è stata spezzata la punta. Le lacrime di Batavia, ci spiega sempre Freud, sono delle gocce di vetro che resistono a qualunque sollecitazione se vengono colpite nella loro parte centrale, ma se si spezza la punta "esplodono in minutissimi frammenti". 4 Quando viene a mancare la funzione orientativa e verticale dell'Ideale la tenuta dei legami tra i membri dei rispettivi gruppi entra fatal1. Questa idea del panico come rivelazione del reale dell'esistenza alla deriva, senza riparo, senza sostegno, abbandonata, è a mio giudizio il p u n t o cardinale di un recente lavoro di Roberto Pozzetti; vedi R. Pozzetti, Sema confini. Considerazioni psicoanalitiche sulle crisi di panico, Franco Angeli, Milano 2007. Uno dei meriti più alti di questo libro consiste nell'elevare il soggetto d a p alla dignità di un simbolo della contemporaneità. Più in dettaglio la proposta clinica maggiormente avvincente che esso suggerisce consiste nel considerare l'attacco di panico come un "ritorno dell'isteria". Sullo sfondo la necessità di non confondere la struttura psicotica con la dimensione più ampia della follia, sostenuta dall'insegnamento di Lacan e ribadita da uno dei suoi allievi più interessanti qual è Claude Maleval (vedi Folies hystériques et psychoses dissociatives, Payot, Paris 1981). La proposta di Pozzetti non esige di ridurre necessariamente il soggetto d a p alla struttura clinica dell'isteria, ma afferma una sorta di primato elettivo dell'isteria nella clinica del panico. Si tratterebbe, in altre parole, di introdurre l'esistenza di un altro genere di isteria rispetto a quello più noto che è stato descritto da Freud e che trova nel fenomeno simbolico di conversione - o di "compiacenza somatica" - il suo perno simbolico maggiore. "Il problema fondamentale di questo altro genere di isteria", scrive Pozzetti, "che eccede la dimensione metaforica del sintomo per sfociare piuttosto nell'attacco di panico come forma parossistica di una sorta di attacco isterico, consiste in una fragilità dell'immagine del corpo". Da questo punto di vista la clinica del panico si presenta come un capitolo importante della clinica del vuoto. Al suo centro non troviamo più tanto la facoltà espressiva dell'inconscio ma una pulsione che appare slegata investendo direttamente il corpo nelle sensazioni di imprigionamento, soffocamento, percezione di catastrofe imminente, sensazione terrificante della morte e della follia. Nella stessa direzione si muovono i contributi presenti in U. Zuccardi-Merli (a cura di), Il soggetto alla deriva. Depressioni e attacchi di panico, Franco Angeli, Milano 2005. 2. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro X, cit., p. 171. 3. Vedi S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'io, tr. it. in Opere, cit., pp. 282-288. 4. Ibidem, p. 287. mente in crisi. L'epoca ipermoderna non è più l'epoca del Padre a cavallo, a capo delle truppe, ma l'epoca che registra il suo tonfo, l'epoca del suo tramonto e della sua caduta irreversibile. La funzione paterna appare degradata dal programma della Civiltà ipermoderno che sembra misconoscere perversamente la funzione stessa della Legge, ovvero l'apporto benefico giocato dalla castrazione simbolica nella strutturazione del desiderio umano. Se si considera la funzione paterna come quella funzione che rende possibile a un soggetto annodare insieme la Legge al desiderio, o, se si preferisce, a tenere insieme la dimensione libidica della pulsione con quella culturale dell'Ideale dell'Io,5 si può cogliere immediatamente tutta la cascata di effetti psicopatologici che questo tramonto comporta. Seguendo questo crinale iperedonistico, il narcisismo sembra dissociarsi dall'Ideale dell'Io e configurarsi come pura spinta autistica al godimento, come una declinazione possibile della pulsione di morte dando spazio a una clinica dove in primo piano sono sintomi caratterizzati dal ritiro narcisistico, dalla sconnessione dall'Altro, dall'antiamore, dal godimento monadico, dal rifiuto dell'Altro. E probabilmente nessuna figura della nuova clinica, come quella del soggetto panicato - del soggetto DAP - , è in grado di sintetizzare lo stato critico in cui si trova la nostra Civiltà e i suoi effetti sul soggetto; disorientamento, spaesamento, perdita dei confini, assenza di un centro di gravità permanente, sradicamento, sbriciolamento dei punti di riferimento simbolici, evaporazione degli Ideali, smarrimento collettivo: in un parola, appunto, "panico". Il nostro tempo non è solo il tempo, come si esprimeva Junger, della "Mobilitazione Totale", 6 del potere della tecnica che trasforma ogni ente del mondo in una mera risorsa d'uso e che accelera convulsivamente il tempo della vita abolendo ogni possibile forma autentica di esperienza, ma è anche il tempo del panico, è il tempo di una paralisi narcisistica che accresce la difficoltà di accedere a una soggettivazione autentica. E il tempo, come abbiamo già scritto, di una eclissi, di uno smarrimento e di un congelamento del desiderio. Più precisamente, il tempo del panico è il tempo di un arresto, di una sospensione traumatica del suo scorrimento ordinario, più che quello di una sua fibrillazione maniacale. La nostra epoca non è solo l'epoca della Mobilitazione To5. E questa la "funzione pacificante" dell'Ideale dell'Io come prodotto dell'Edipo secondo Lacan. Vedi J. Lacan, L'aggressività in psicoanalisi, cit., p. 111. 6. Vedi E. Jiinger, "La mobilitazione totale", tr. it. in Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997, pp. 113 sgg. Riprendo questo riferimento da un ispirato intervento di Rocco Ronchi, Bellezza e usura, cit., pp. 17-32. tale, ma anche quella del panico diffuso, dell'epidemia del panico. Il nostro tempo non è solo il tempo dell'intensificazione delle sensazioni e del consumo compulsivo, ma è anche il tempo che si rivela come bloccato, pietrificato, sospeso. Il nostro tempo non è solo il tempo alterato della circolarità frenetica del discorso del capitalista, il quale, come affermava Lacan, esige superegoicamente che tutto si consumi, ma è anche il tempo del crollo e dello sprofondamento, della evaporazione del Padre, direbbe ancora Lacan, tempo della caduta e della paralisi che ritroviamo al centro nell'esperienza del panico. In questo senso il panico, come la depressione,7 rivela l'altra faccia, la faccia in ombra, della dimensione maniacale del tempo ipermoderno. Essi sono i sintomi più puri, in senso marxista secondo Lacan, del discorso del capitalista. Sintomi come "ritorno della verità come tale nelle faglie del sapere", 8 come disvelamento di ciò che il discorso del capitalista vuole mantenere nell'oblio. Mentre questa maniacalità sembra consumare rapidamente, sino a dissolverla, ogni possibile forma di esperienza nell'inseguimento costante e assillante del nuovo, la diffusione epidemica delle crisi di panico fa invece riaffiorare la fatticità dell'esistenza, la sua inermità costitutiva, la sua gravità, quello stato di abbandono, di Hilflosigkeit con il quale Freud descriveva la condizione primaria del bambino privo di difese ed esposto senza riparo alcuno a ciò che Lacan definiva come il "dolore di esistere".9 Da cosa dipende la diffusione epidemica del panico? Non si può forse dire del panico quello che oggi si potrebbe dire del trauma? La loro diffusione non dipende forse dal declino del grande Altro, dalla sua inesistenza? Più esiste il grande Altro e più, in effetti, la vita appare dotata di senso, sostenuta da un fondamento, garantita, e viceversa, più il sistema dell'Altro grande declina più la vita appare come sprovvista di senso e in preda al caos. Una catastrofe naturale senza il senso attribuitogli dalla provvidenza appare ancora più traumatica, cruda e terribile di quanto già non sia. Il senso è infatti una barriera nei confronti del carattere terrificante e bruto del reale. Ebbene l'effetto maggiore del declino del grande Altro è quello di mettere a nudo questo reale scabroso dell'esistenza mostrando l'aleatorietà del senso. Una vita nel panico è, in effetti, una vita che fatica a trovare il suo senso. 7. Per lo sviluppo della depressione come la faccia in ombra del discorso del capitalista, vedi le pagine seguenti. Più in generale, vedi F. Lolli, L'ombra della vita. Psicoanalisi della depressione, Bruno Mondadori, Milano 2005; Depressione, Bollati Boringhieri, Torino 2009. 8. Vedi J. Lacan, Del soggetto finalmente in questione, tr. it. in Scritti, cit., p. 227. 9. Vedi J. Lacan, Kant con Sade. tr. it. in Scritti, cit., p. 777. L'ESPERIENZA DEL PANICO L'esperienza del panico non scaturisce dal confronto con l'enigma del desiderio dell'Altro, come avviene invece nel caso dell'angoscia, ma segnala il crollo improvviso di tutte quelle difese che ci consentono di tracciare simbolicamente i confini della nostra identità e di attribuirle una certa consistenza. L'attacco di panico è l'irruzione sulla scena del soggetto di qualcosa che non può più essere contenuto nell'involucro dell'immagine narcisistica del proprio corpo. Il suo effetto maggiore è una esperienza di estraneazione, di distacco, di perdita di se stessi. Ciò che è in gioco è il fallimento delle difese soggettive nei confronti del reale che, attraverso l'attacco di panico, emerge in tutta la sua violenza. Il collasso improvviso delle difese e del senso stesso dell'identità che la presenza dei confini simbolici rende possibile produce uno scombussolamento dell'immagine narcisistica del soggetto. Per questo il panico tende ad associarsi quasi sempre a un vissuto depressivo. In questa congiuntura di panico e depressione possiamo cogliere il ribaltamento della tendenza maniacale del discorso sociale contemporaneo: l'essere nel divertimento illimitato, alla ricerca compulsiva di un godimento fuori Legge, sospinti coattivamente verso la moltiplicazione incessante di "nuove sensazioni ed esperienze", come promette una celebre agenzia di viaggi oggi di moda, si rivela improvvisamente come un fumogeno psichico, dissolto il quale resta solo la vertigine dolorosa del sentirsi non appartenere a nulla, abbandonati e senza scampo, alla deriva. Per questo, giustamente, la paura della morte o della follia possono essere isolate come le paure fondamentali del soggetto DAP: nel rischio imminente di morire o di impazzire si palesa la condizione alla deriva dell'esistenza la cui emergenza improvvisa sconvolge ogni argine difensivo. L'ANORESSIA E IL RIFIUTO NARCISISTICO DELL'ALTRO L'anoressia è l'altra grande epidemia sociale della nostra epoca. Possiamo pensare a queste due figure della psicopatologia contemporanea come a due diverse rappresentazioni del disagio della Civiltà ipermoderna. Possiamo pensarle come due diverse declinazioni del legame sociale nell'epoca dominata dal discorso del capitalista. Due diverse declinazioni del rifiuto narcisistico dell'Altro che caratterizza il soggetto contemporaneo. Come abbiamo ampiamente visto l'anoressia offre l'immagine di un soggetto-fortezza, di uno Stato barricato, senza in- conscio, indiviso, chiuso in se stesso, autistico. I suoi confini sono rigidi, pietrificati, impermeabili. Non esiste scambio, porosità, permeabilità, transito. La sua identificazione non è liquida ma solida. Questo irrigidimento dei confini dell'identità dà luogo a un fondamentalismo narcisistico tanto esaltato quanto, come accade per tutti i fondamentalismi, mortifero. In questo senso la patologia anoressica mostra bene l'effetto intossicante e nichilistico che può provocare l'irrigidimento delle frontiere dell'Io. Essa appare come una sorta di dispositivo di immunizzazione, come il trionfo narcisistico dell'Io ideale che esclude la contaminazione con l'Altro (pensiamo, solo per fare un esempio, ai rituali e alle pratiche disciplinari di purificazione del corpo a cui si votano sistematicamente le anoressiche). Tuttavia, la difesa strenua del proprio confine identitario finisce per far ammalare il soggetto. In questo l'anoressia mostra una verità di fondo della clinica psicoanalitica: ci si ammala non tanto per una caduta dell'Io ma per un eccessivo rafforzamento della sua identità. Se il programma anoressico, nel suo narcisismo mortifero, edifica la soggettività come una fortezza vuota, una trincea disperata, una muratura del soggetto, l'esperienza imprevedibile del panico mostra, al contrario, il soggetto come un'architettura in decomposizione, precaria, liquida. E interessante riflettere sul contrasto tra anoressia e panico perché esso ci conduce al cuore di uno dei problemi maggiori della contemporaneità, ovvero alla difficoltà di abitare un'identità contaminata, di praticare la caduta catastrofica dei vecchi confini simbolici, di articolare l'esperienza dell'identità con quella della differenza, la solidità con la liquidità. L'architettura liquida e in decomposizione del panico appare in contrappunto rispetto al carattere scultoreo, tombale, compatto, solido della fortezza anoressica. Nell'anoressia, infatti, c'è forma senza forza, o, meglio, c'è una forma (idealizzazione narcisistica dell'immagine del corpo magro), che punta ad annientare la forza pulsionale, a estirparne alla radice l'alterità. Si tratta di una forma narcisistica che manifesta una paradossale forza antivitale. In questo senso l'anoressia è veramente una malattia del Super-io come manifestazione della "coltura pura della pulsione di morte".10 Al contrario, nel panico c'è disgregazione, sfarinamento, sbriciolamento, evaporazione della forma. C'è il precipitare di ogni forma nell'informe. In primo piano non è qui il valore narcisistico dell'identificazione idealizzante, come accade invece nell'anoressia, ma una forza che, non potendosi integrare in una forma, 10. Vedi S. Freud, L'Ioel'Es, tr. it. in Opere, cit., voi. 9, p. 515. annichilisce il soggetto. L'esperienza del panico è infatti l'esperienza di un corpo caotico che si dissocia dal soggetto sovrastandolo. Di qui il timore di morire o di impazzire. Se l'anoressia è l'esercizio superegoico del controllo del corpo che esige la sua sterilizzazione progressiva, nel panico è il corpo pulsionale come tale che emerge drammaticamente squarciando lo schermo dell'identificazione ideale, segnalando al soggetto che l'erogeneità libidica del corpo non può essere integrata senza resti nel campo narcisistico dell'immagine. Il rifiuto dell'Altro non assume in questo caso le caratteristiche dell'opposizione attiva, della negazione di ogni domanda rivolta all'Altro, come avviene invece nell'anoressia, ma quello di una risposta angosciata del soggetto di fronte a un reale - quello del corpo pulsionale - che emerge scompaginando l'ordine stabilito. Mentre l'anoressia, attraverso il rifiuto dell'Altro, costruisce una identità narcisistica arroccata su se stessa, sterile, impermeabile, compatta, il panico è l'esperienza di una caduta dei confini identitari, di un cedimento dell'identità, di un suo sfilacciamento. Nondimeno, l'effetto ultimo della crisi di panico è proprio quello di separare il soggetto dallo scambio con l'Altro, di isolarlo, di rafforzare procedure fobico-difensive che siano in grado di riparare il soggetto dall'imprevedibilità del "ritorno" del corpo erogeno. Per questo il soggetto panicato tende a costruire una sorta di città nella città, una topografia alternativa, una mappatura soggettiva dei percorsi praticabili, dunque un uso fobico della territorializzazione, affinché possa, grazie alla barriera fobica, prevenire lo scatenamento della crisi. Siamo in questi casi di fronte al tentativo di trattare fobicamente l'elemento ingovernabile e angosciante che si vorrebbe poter localizzare per ridurne la dimensione spaventosa. Sia l'anoressia che il panico adottano, in effetti, delle procedure fobiche per arginare l'angoscia. Nel panico esse, come abbiamo appena ricordato, assumono spesso i tratti di vere e proprie topografie. Una nuova città entra nella città. Percorsi possibili si differenziano da percorsi impossibili. Percorsi escludono la minaccia, dove invece altri la alimentano. La città si spartisce così secondo i criteri di una logica segregativa: esistono luoghi frequentabili e altri (quelli dove l'altro si ammassa) che bisogna evitare (autostrade, supermercati, cinema, stadi, piazze, mercati ecc.). Questa nuova topografia fobica evidenzia un appello all'ordine simbolico di fronte a una difficoltà del soggetto a soggettivare la propria separazione dall'Altro. Nell'anoressia e nel panico l'esperienza clinica mostra la presenza costante di un desiderio materno che imprigiona, soffoca, e che non permette la separazione. Si tratta di un desiderio can- nibalico, asfissiante, non svezzato. Più radicalmente, panico e anoressia possono essere definite come delle risposte del soggetto al desiderio dell'Altro nel suo versante più inquietante. Risposte al desiderio che l'Altro dirige verso di me e che mi sospende al suo enigma indecifrabile, riducendomi a essere un suo oggetto di godimento. Ma mentre l'anoressia è una manovra che punta, per negazione, a produrre uno spazio di soggettivazione, un modo per trovare una via di fuga da un Altro eccessivamente ingombrante, per il soggetto panicato la percezione drammatica è che non esista alcuna via di fuga possibile. Qui troviamo un altro paradigma essenziale del panico. Non solo lo smarrimento del confine simbolico, la sua deterritorializzazione, la caduta dell'identità narcisistica, la perdita dei binari consolidati dell'Altro, ma anche la sensazione dell'imbottigliamento, agorafobica, dell'essere chiuso, intrappolato nel corpo, senza via d'uscita, simile a quella, per Freud scaturigine del sentimento del perturbante (Unheimlich), dell'essere sepolti vivi. In un sogno un paziente DAP racconta di essere al cinema. Improvvisamente lo schermo si incendia. Il fuoco aggredisce violentemente la sala e lui si dà alla fuga cercando l'uscita di sicurezza più vicina. Ma quell'uscita di sicurezza è chiusa. Non può uscire. Ne cerca e ne trova un'altra. Ma anche questa è chiusa. L'incendio nel frattempo divampa. Allora si sveglia assalito dal panico. In questo incubo l'impossibilità di evasione lega il soggetto alla sua posizione di insufficienza, di derelizione, alla sua inermità strutturale. Il panico non solo registra l'allentamento del legame libidico ma anche la sensazione di essere ridotti al proprio corpo, di essere imprigionati, incatenati al proprio corpo. Nella scena del sogno, dunque nel confronto del soggetto panicato con un troppo pieno che invade lo spazio della rappresentazione fantasmatica (il cinema) e rende impossibile sia la visione che la fuga, possiamo trovare riunite due diverse definizioni che Lacan ha formulato dell'angoscia: essere ridotti, appunto, al proprio corpo (senza fantasma) ed essere di fronte alla mancanza della mancanza, alla sua saturazione occlusiva che impedisce ogni movimento di separazione. 11 DUE SCENE Venezia è stata per Mario la città dove ha avuto la sua prima crisi di panico. E accaduto mentre si trovava sul vaporetto che lasciava alle 11. Vedi J. Lacan, La terza, cit., p. 33; Il Seminario. Libro X, eie., p. 47. spalle la città per dirigersi in aperta laguna, nel momento in cui si stava allontanando dai riferimenti simbolici abitudinari che animano la terra ferma. Nel corso della sua vita Mario ha sempre dato priorità all'assicurazione dei propri beni (l'assicuratore è anche la sua professione) rispetto all'assunzione soggettiva del proprio desiderio. La sua domanda costante era: "Come posso assicurare la mia vita dal rischio della precarietà?". Da bambino la madre esercitava un controllo adorante sul suo corpo. Tutto doveva funzionare come un orologio. La sua condizione di figlio unico e avuto tardi amplificava questo stato fusiónale con la madre di fronte a un padre il cui modo di essere al mondo si esprimeva come un elogio della rinuncia in cambio della sicurezza. Il panico irrompe nella sua storia in seguito a un matrimonio al quale il soggetto si consegna come se fosse un contratto assicurativo tra gli altri. La vita matrimoniale ben presto lo espone però a perturbazioni che non aveva previsto. In particolare lo espone a quelle della domanda d'amore infinita della sua compagna che lo confronta con la sua difficoltà a reggere l'impatto angosciante con la contingenza del desiderio dell'Altro. La crisi di panico veneziana si innesca in questa congiuntura soggettiva precisa. Fenomenicamente essa avviene mentre il vaporetto sembra perdersi nella nebbia della laguna e lentamente si eclissavano le insegne conosciute della città. Il panico si scatena nel tempo del passaggio dalla terra ferma all'indistinto della laguna, dalla stabilità necessaria della sua vita amministrata, con i suoi confini ben stabiliti, le sue regole e il suo ordine imperturbabile, all'assenza di confine, all'alcatorietà, alla perturbazione introdotta dal senza limite della domanda d'amore femminile.12 E Milano e non Venezia, per un'altra paziente, il teatro dove si è scatenata l'anoressia. Lucia vi si era trasferita per ragioni di studio. L'incontro con la grande città, la separazione dalla sua famiglia, l'impatto con lo stile di vita "anoressoide" delle sue compagne e della grande metropoli la sospingono verso la scelta anoressica. Una sorella maggiore e più amata dai genitori le aveva da sempre rubato la scena, facendola sentire un'esclusa. Aveva così lasciato presto la famiglia anche per verificare quanto la sua assenza fosse in grado di aprire una mancanza nel 12. Non sempre però, come ci è stato confermato dall'incubo del cinema incendiato, la fenomenologia del panico ha a che fare con l'incontro, con l'assenza di confini simbolici o con il loro smarrimento. Congiunture di scatenamento tipiche sono anche quelle dove il soggetto fa esperienza dell'intrappolamento, dell'impossibilità di separazione, dell'essere, appunto, senza vie d'uscita. In entrambe le circostanze ciò che resta comune è comunque l'esperienza dell'assenza di protezione, di garanzia, dunque l'incontro con quella che Lacan chiamerebbe la mancanza o l'inesistenza dell'Altro grande che rivela al soggetto la sua inermità strutturale. suo Altro familiare che sembrava non avere attenzioni per lei. Lucia agisce così l'allontanamento dalla famiglia come una sorta di acting out della separazione, di una separazione senza soggettivazione. Questa separazione drastica dall'Altro comporta però la necessità di trovare un nuovo luogo di iscrizione. Assimilarsi alle sue nuove compagne avrebbe significato porre rimedio a questo ennesimo sradicamento e alla sensazione depressiva costante di non sentirsi mai voluta dall'Altro. In questa giovane donna l'anoressia sorge per un'istanza di identificazione conformista, per una spinta socialistica, assimilativa, per una difficoltà a tenere insieme separazione e soggettivazione. L'effetto maggiore dell'anoressia è però quello di segregare il soggetto, di separarlo progressivamente da ogni forma di legame e, dunque, di accentuare il suo stato di solitudine rafforzando paradossalmente il godimento mortifero del suo sentirsi un'esclusa. In questo senso la solitudine anoressica può prestarsi bene a esprimere la nuova psicologia delle masse dell'epoca ipermoderna. E la solitudine delle grandi città, è la solitudine che viene sperimentata nel sentirsi anonimo tra la gente, in serie, è la solitudine per eccesso di assimilazione. Come notano Hannah Arendt e Adorno nella psicologia delle masse contemporanee, diversamente da quella freudiana, non è più in primo piano il senso di appartenenza, l'uniforme, la divisa identificatoria, il legame libidico cementato dal capo, ma un senso di profonda estraneità nei confronti dell'Altro. Essere nella massa non salva affatto dalla solitudine ma l'accentua. E uno degli insegnamenti di Lucia: la separazione senza soggettivazione resta prigioniera nell'alienazione conformista, nello specchio narcisistico di un Io ideale sganciato dal desiderio. La solitudine contemporanea non si produce per separazione dal discorso sociale stabilito ma per un eccesso di immedesimazione, a causa della spinta a voler essere come gli altri, all'obbedire al regime omogeneo dei sembianti sociali. Nondimeno, in questa solitudine il soggetto può reperire, come accade nel caso di Lucia, una inedita soddisfazione narcisistica. Attraverso la divisa anoressica gli pare finalmente di consistere, di esistere, di sentire che può fare finalmente a meno di tutto perché non domanda più nulla all'Altro! La frustrazione dell'esclusione viene assunta attivamente fino a diventare un godimento paradossale dell'esclusione che ripara Lucia dal rischio dell'incontro con il desiderio dell'Altro e, di conseguenza, con la possibilità di incontrare nuovamente il suo rifiuto traumatico. VOLONTÀ E ANGOSCIA L'anoressia è una patologia della volontà, una malattia del Super-io, è una esasperazione masochistica della Legge. Non casualmente Freud, a proposito del funzionamento del Super-io, insiste nel mostrare come in esso la passione morale tenda a diventare perversamente una passione erogena. L'anoressia indica un'operazione stoica di rafforzamento ascetico dell'impassibilità del corpo per accentuazione della volontà dell'Io. In termini psicoanalitici si tratta di un rafforzamento narcisistico dell'Io, di una apologia esaltata dell'Ego. Questa apologia manifesta un'esigenza di padronanza che contrasta nettamente con altre forme del disagio ipermoderno dove in primo piano, come accade per esempio nelle dipendenze patologiche, è la spinta all'abbandono mortifero nel godimento, è la dimensione di una vera e propria schiavitù nei confronti della sostanza. Se l'anoressia è una ipertrofia della volontà, le dipendenze patologiche segnalano piuttosto una sua caduta, un suo indebolimento estremo. Il potere della sostanza è infatti infinitamente più forte di quello della volontà. Al contrario l'anoressia si configura come un'accentuazione del volontarismo morale dell'Io, come un'esasperazione della sua padronanza. La passione che la muove è la passione paradossale per una Legge severa e inumana che le consente di coltivare l'ideale feticizzato del corpo magro. Tuttavia, il sacrificio della pulsione diventa in se stesso un nuovo modo di godimento, nel senso che l'anoressia eleva masochisticamente il sacrificio a una meta inedita della pulsione. La sua deriva mortifera si produce così all'inverso rispetto a quella tossicomanica; mentre nella tossicomania impera il mito di un godimento assoluto e immediato della sostanza, per il quale la vita stessa si sacrifica, nell'anoressia il godimento è costantemente differito, sospeso e il sacrificio della vita diventa esso stesso una forma estrema di godimento. Come passione della volontà, l'anoressia è una definizione fondamentalista dei confini dell'Io. La sua architettura, come abbiamo sottolineato, vuole essere compatta, solida. Una mia paziente diceva che le ossa erano la sua anima. Compattezza, solidità minerale, pietrificazione del soggetto: l'orientamento anoressico è rigido, inflessibile, imparentato con la morte. Il soggetto anoressico è l'opposto di un soggetto liquido. E un soggetto solidificato, agganciato saldamente all'identificazione idealizzante del corpo magro. L'estetica prende il posto dell'etica; la volontà si piega alle esigenze estetiche del corpo come se questo fosse un nuovo idolo sociale. Ma questo nuovo idolo - l'ideale del cor- po magro - non è affatto in grado di orientare il soggetto nella vita e nelle sue scelte. Esso non si rivolge al desiderio dell'Altro ma erige una barriera finalizzata a distruggerlo. Per questa ragione la fortezza anoressica impedisce l'esperienza del transito e della contaminazione. La sua pratica del corpo resta rigidamente disciplinare. Esige lo spianamento di tutti i rilievi erogeni del corpo, il rifiuto del corpo come rifiuto del proprio corpo in quanto erotico-sessuale e rifiuto del corpo dell'Altro in quanto corpo animato da un desiderio. Da questo punto di vista possiamo considerare l'attacco di panico come il vero rovescio dell'anoressia. Nell'attacco di panico infatti i confini dell'Io si smarriscono e la volontà dell'Ego si dissolve. Mentre il soggetto anoressico è un soggetto follemente morale, cioè determinato da un dover essere inflessibile, spietato, ipernarcisistico, il soggetto DAP è, all'opposto, un soggetto disorientato, in caduta libera, un soggetto in perdita di padronanza. L'Io, anziché rafforzarsi narcisisticamente, si spezza, va in frantumi, si annichilisce. Se l'anoressia è un'apologia dell'Ego, il soggetto DAP è un'apologia dello sbandamento dell'Ego, della sua decomposizione. Ma, diversamente dalla tossicomania, questo sbandamento non è causato dal potere magico di una sostanza chimica, quanto piuttosto da una perdita letterale dell'orientamento; niente sembra più annodare il soggetto al quadro della realtà. Da questo punto di vista il panico è piuttosto affine alla bulimia, in quanto, come la bulimia, indica un deragliamento della padronanza dell'Io. Tuttavia, diversamente dalla bulimia, che evidenzia l'apparire dell'oggetto pulsionale nella forma evidente dell'oggetto orale, il deragliamento del panico non è in linea diretta con l'oggetto pulsionale. Mentre la bulimia implica un oggetto pulsionale determinato come è l'oggetto orale, l'attacco di panico è senza oggetto. E piuttosto il corpo pulsionale in quanto tale che emerge come causa del picco del panico, più che un oggetto localizzabile della pulsione. Inoltre, sempre diversamente dalla bulimia, nell'attacco di panico in primo piano non è tanto la sregolatezza della pulsione quanto l'angoscia di abbandono. Il soggetto non è sommerso dalla spinta acefala della pulsione ma dal reale del suo corpo nella sua nuda esistenza. Per questo panico e depressione si possono incontrare facilmente in uno stesso soggetto. Anche nella depressione l'esperienza che il soggetto ha del proprio corpo è, come nel panico, priva di veli; è un'esperienza dell'essere-scarto, del rifiuto, del corpo privato di ogni significazione fallica. Il panico sarebbe, dunque, una sorta di angoscia senza oggetto; non è l'emergere dell'oggetto della pulsione che lo provoca, quanto l'emergere della nostra esistenza come abbandonata nel mondo, senza riparo, esposta all'assenza di senso della vita. Il reale del panico non è tanto il reale del godimento pulsionale rimosso, ma il reale del corpo erogeno come tale, nella sua esistenza di fatto. IL CORPO INGOVERNABILE Il corpo è in primo piano nella clinica dell'anoressia come in quella dei DAP. Tuttavia non siamo di fronte a rappresentazioni simboliche, a metafore sintomatiche, a fenomeni di conversione, a espressioni metaforiche del soggetto dell'inconscio come avveniva nei classici quadri della nevrosi isterica. Il corpo reale appare qui come preso da una tensione tra governabilità e ingovernabilità. Nell'anoressia in primo piano è la spinta della volontà a governare il corpo; nel panico la manifestazione dell'ingovernabilità del corpo pulsionale. In psicoanalisi l'elemento ingovernabile non viene dall'esterno ma dall'interno. O più precisamente è interno-esterno, estimo direbbe Lacan, al soggetto. L'elemento ingovernabile è per Freud innanzitutto l'elemento pulsionale, il quale viene descritto letteralmente come ciò da cui non si può fuggire. In questo senso il "nemico" è sempre innanzitutto interno. Uno degli esempi canonici forniti da Freud è quello del piccolo Hans di fronte alle sue prime erezioni che gli rivelano il carattere autonomo, interno-esterno, appunto, dell'organo sessuale. E suo, appartiene al suo corpo, ma non lo può governare a piacimento, poiché esso gode di una sua autonomia e si impone come una sorta di essere indipendente. Le erezioni avvengono, infatti, come indifferenti alla volontà, fuori controllo. Questo desta nel piccolo Hans una sensazione diffusa di angoscia. Dove l'angoscia segnala una presenza, un eccesso di presenza, che non può essere localizzata, controllata, governata dall'azione dell'Io. Il panico, in questo senso, è il rovescio della paura, poiché se la paura implica la determinazione localizzata del suo oggetto, il panico provoca una delocalizzazione dell'oggetto d'angoscia: la crisi è sempre imminente, costantemente in agguato, sempre possibile. Ci sono soggetti DAP che hanno avuto una sola crisi ma questa è stata sufficiente per generare una vera e propria corruzione della temporalità. Il loro avvenire appare come traumatizzato da ciò che è già avvenuto, magari solo una volta, ma potrebbe ancora ripetersi. Solo l'eventualità potenziale della crisi scatena il panico, non necessariamente la ripetizione effettiva della crisi. Cosa fare dunque di fronte all'angoscia del corpo pulsionale? L'ano- ressica lo esorcizza proiettandolo difensivamente sull'oggetto-cibo, mentre il DAP lo rovescia all'esterno nella forma di un vero e proprio attacco al corpo, un terremoto che prende e sconvolge il corpo come dal di fuori. E la stessa sensazione che ritroviamo nell'attacco bulimico, per il quale la fame non è mai del soggetto, ma sopraggiunge come una scossa esterna, come una fame che mangia il soggetto. Per Lacan l'ingovernabile tende a prendere due forme fondamentali: quella del desiderio dell'Altro, dunque l'impossibilità di normare universalmente il carattere enigmatico del desiderio dell'Altro, di ridurre il suo quoziente di imprevedibilità. E quella del corpo pulsionale, del corpo che eccede la rete simbolico-immaginaria della realtà. Ebbene, la perdita drammatica dei confini che incontriamo come esperienza centrale nelle crisi di panico rivela il carattere strutturalmente ingovernabile del desiderio dell'Altro e della sua matrice pulsionale. Il panico mostra precisamente le crepe dell'ordine simbolico, di un ordine che non è in grado di garantire un governo assoluto sul reale del corpo erogeno. I DUE VOLTI DEL DISAGIO IPERMODERNO Anoressia e panico sono le epidemie probabilmente oggi più diffuse, insieme a quella depressiva, perché illustrano qualcosa di essenziale della degradazione contemporanea del legame sociale. Per questa ragione il loro insegnamento clinico ha una rilevanza speciale. Sappiamo come l'anoressia sia una manovra di separazione dall'Altro; il soggetto si rende oggetto ma solo per introdurre una differenza tra se stesso e l'Altro. Più precisamente, seguendo Lacan, l'anoressica utilizza l'oggetto-niente come oggetto separatore, come punto perno per sganciarsi dalla domanda asfissiante dell'Altro. Questo motivo teorico della clinica dell'anoressia conosce oggi un'amplificazione inusitata se si considera che l'Altro sociale ipermoderno è un Altro che anziché introdurre il soggetto al carattere costituente della castrazione simbolica, lo assilla nella forma di una domanda incalzante che tende ad annullare il desiderio soggettivo. L'Altro ipermoderno è un Altro asfissiante perché non sopporta la mancanza e punta a estinguerla per generarne complusivamente altre (pseudomancanze) fittizie. L'Altro ipermoderno è un Altro non svezzato. In questo senso l'anoressia può configurarsi come una separazione dalla domanda convulsa dell'Altro attraverso il rifiuto che agisce come scudo del desiderio. Il soggetto si arrocca nel suo nien- te, nientificando in questo modo l'Altro. Si tratta però di un'opposizione che resta avviluppata alla realtà che contesta: l'anoressica resta cioè presa totalmente nei sembianti del discorso sociale che vorrebbe poter criticare. La sua protesta è in questo senso solo di facciata. Nel panico, invece, ciò di cui il soggetto fa esperienza è innanzitutto la perdita dell'Altro. Dunque la perdita della topografia simbolica della polis e dei suoi confini, la perdita del sostengo simbolico dell'Altro. Il corpo che perde la vista, collassa, soffoca, non si controlla, suda, trema, segnala il distacco traumatico del soggetto dall'Altro. Il panico è, in questo senso, una esperienza di sconnessione dall'Altro come l'anoressia. Tuttavia, mentre la sconnessione dell'anoressia avviene nella forma di una separazione voluta, decisa, agita con volontà, nel panico essa si mostra come catastrofe, abbandono, deriva, perdita degli ormeggi. Per questo anoressia e panico sono, nel loro rapporto con la domanda dell'Altro, agli antipodi. L'anoressica vuole separarsi dalla domanda dell'Altro in quanto tale - non domanda niente - , mentre il DAP incarna silenziosamente una domanda d'aiuto disperata, una domanda colma d'angoscia che insiste nel rivolgersi all'Altro. Anoressia e panico mostrano così i due versanti opposti della crisi dell'Edipo nella contemporaneità. Nell'anoressia in primo piano è una solidificazione narcisistica dell'Ideale. Grazie a questa solidificazione, il soggetto si pone come indiviso. Il DAP invece mostra il declino della funzione dell'Ideale, il suo sbriciolamento sintomatico. Il soggetto non è affatto indiviso ma lacerato da una divisione oggettiva che lo attraversa: sfondamento dell'ordine simbolico, smarrimento, caduta del'Io. Anoressia e panico - lo sbriciolamento del confine o il suo irrigidimento tossico - non sono però delle semplici alternative. Questo è un insegnamento che si può facilmente trarre dalla pratica clinica, constatando come il trattamento efficace di un'anoressia possa dare luogo al panico e viceversa, stati ricorrenti di panico possano essere come sopiti da una scelta anoressica. Tutto ciò significa che l'anoressia si profila sempre come un possibile trattamento dell'angoscia. Il soggetto anoressico è privo di divisione, indiviso appunto. L'apatia anoressica può per questa ragione configurarsi come una soluzione dell'angoscia, come lo sono del resto la tossicomania o le altre forme di dipendenza patologica. Non il panico però perché, diversamente da altre forme contemporanee del sintomo, non offre un rimedio all'angoscia, ma ne realizza piuttosto lo scatenamento. E questo motivo clinico conferisce all'attacco di panico uno statuto speciale nel contesto dei nuovi sintomi della Civiltà che lo accosta probabil- mente alla definizione lacaniana più classica di sintomo come ciò che divide il soggetto. L'attacco di panico non si configura infatti nè come un rimedio, né come una soluzione, né come una protesi o un rafforzamento dell'Io. Esso è piuttosto un'esplosione di angoscia che segnala il fallimento delle difese. In questo senso non è un annullamento del soggetto dell'inconscio ma una sua manifestazione selvaggia. Anche la sua similitudine con la bulimia va ridimensionata perché la scarica bulimica provvede a sanare il soggetto dall'angoscia o a compensarne la domanda d'amore frustrata, mentre l'attacco di panico manifesta un collasso del soggetto, un suo sprofondamento nell'abisso dell'angoscia. L'IDEALE DI AUTONOMIA E IL SOSTEGNO ANACLITICO Non si capirebbe nulla dell'attuale diffusione epidemica di panico e anoressia se non si considerasse lo sfondo sociale della crisi epocale della funzione orientativa del Padre edipico. Tuttavia, questa diffusione segnala altresì un'altra caratteristica generale della psicopatologia contemporanea: i sintomi tendono a diventare dei puntelli immaginari per identificazioni orizzontali in grado di istituire nuove forme di comunità aggregantisi sulla uniformazione identitaria al simile.13 Anche in questo senso panico e anoressia illustrano le due facce dell'Altro contemporaneo. L'anoressia quella dell'Altro del mercato che soffoca il soggetto con l'offerta illimitata di oggetti di consumo provocando nel soggetto una risposta di rifiuto, quella dell'Altro come domanda convulsa di consumo, quella dell'Altro non-svezzato del discorso del capitalista, mentre il DAP illustra la dimensione inconsistente dell'Altro, la sua evaporazione simbolica, il suo sfaldamento, la sua assenza. In altri termini, mentre l'anoressia illustra la faccia dell'Altro divorante, il panico illustra il limite dell'Altro, la sua inconsistenza, la sua dissoluzione nella nebbia della laguna. Per questa ragione se l'anoressia punta a realizzare una distanza dall'Altro - il suo essere è chiuso, separato, esterno al circuito degli scambi simbolici - , il soggetto DAP domanda insistentemente la presenza anaclitica dell'Altro. Di qui, se si vuole, anche la diversa natura dell'associazionismo DAP e di quello anoressico - che sono due fenomeni sociali oggi in grande evidenza. 14 13. P e r un a p p r o f o n d i m e n t o di questi temi, rinvio al mio L'omogeno e il suo rovescio, cit. 14. Le associazioni di soggetti anoressico-bulimici e di soggetti DAP proliferano nella realtà sociale. In Italia le più conosciute sono l'ABA (Associazione per lo studio e la ricerca dell'anoressia, della bulimia e dei disordini alimentari) e la LIDAP (Lega italiana disturbi di attacchi di panico). Quello dei DAP si sostiene sulla ricerca dell'altro anaclitico, dell'altro come punto di appoggio, come sostegno, come difesa dall'abbandono, mentre le anoressiche si raggruppano intorno all'Ideale narcisistico del corpo magro, alla sua insegna feticizzata, all'ideale impossibile di un corpo staccato dall'Altro. Da qui anche la diversa docilità del soggetto al trattamento analitico; mentre il soggetto DAP p u ò trovare nel transfert, abbastanza rapidamente, un Altro che lo sorregga nel suo essere al m o n d o e, dunque, sottrarsi alle crisi di panico (destinate nella cura a dare luogo ad altre formazioni sintomatiche), il soggetto anoressico tende a porsi come tenacemente ostile al lavoro analitico perché attraverso l'anoressia esso guadagna quella solidità che il soggetto DAP invece perde con l'attacco di panico. Questa diversità nella risposta al trattamento ci conduce a stabilire una ulteriore differenziazione tra panico e anoressia. Nel caso della monosintomaticità anoressico-bulimica ciò che costituisce il perno del legame gruppale è l'Ideale anoressico del corpo magro e i suoi effetti di falsa padronanza narcisistica, nel caso del panico, invece, i soggetti si riuniscono a partire dal tratto comune della paura, dell'insicurezza: sull'elevazione di un argine che possa difendere dalla ripetizione degli attacchi... In gioco vi è il pericolo relativo della pulsione debordante, a un'esperienza terrorizzante che non ha un volto ben raffigurabile; forse questo però può avere un effetto di coagulazione del gruppo.15 In questo senso la funzione del piccolo gruppo monosintomatico è quella di incarnare un "accompagnatore" che sia in grado di ridurre la minaccia incombente dell'assenza di confine. Come ricorda Pozzetti, l'etimologia del termine tedesco Hilflosigkeit deriva infatti da Hilf, che traduce "aiuto", e da los che traduce "perdita". 1 6 "Perdita di aiuto" significherebbe d u n q u e l'essenza del panico, laddove invece il gruppo può funzionare come un ristabilimento del soccorritore, una possibilità di reintrodurre un Altro che sappia sostenere e non abbandonare il soggetto. Mentre l'anoressica illustra cosa p u ò diventare un'identificazione senza il sostegno della testimonianza paterna, d u n q u e senza l'unione del desiderio con la Legge, il DAP illustra la ricerca affannosa di una identificazione possibile di fronte al suo sbriciolamento narcisistico. Per questo conosciamo l'effetto pacificante che p u ò avere per un sog15. R. Pozzetti, Senza confini, cit., p. 177. 16. Ibidem, p. 179. getto DAP l'incontro con una diagnosi psichiatrica di attacco di panico. In questo caso il discorso della scienza medica, attraverso l'etichetta diagnostica "DAP", offre al soggetto un punto di appoggio identificatorio che rimedia la caduta delle insegne immaginarie provocata dall'attacco di panico. PARTE TERZA SINTOMI CONTEMPORANEI Vili LE NUOVE FORME DEL SINTOMO CONSIDERAZIONI METAPSICOLOGICHE E CLINICHE L'EPOCA DELLA CLINICA DEGLI STATI AL LIMITE André Green ha situato giustamente la problematica della personalità borderline o, se si preferisce, dei cosiddetti "stati al limite" all'interno di una trasformazione storica più generale della clinica psicoanalitica. Gli stati al limite non definiscono solo una nuova categoria diagnostica ma impongono alla psicoanalisi un aggiornamento radicale del proprio impianto clinico e metapsicologico. Mentre il metodo freudiano aveva avuto come suo fondamento psicopatologico l'idea della "nevrosi come negativa della perversione", l'attualità della clinica psicoanalitica - nella quale la categoria di "stato al limite" gioca un ruolo di primo piano - ci sospinge verso una problematizzazione di questo fondamento. "Senza mettere in dubbio la validità del modello della nevrosi", si chiede Green, "non si può forse pensare oggi che la sua funzione di riferimento non è più così evidente?". 1 La tesi della nevrosi come negativa fantasmatica della perversione - un nevrotico, secondo una formula classica di Freud, si limita a fantasticare ciò che un perverso invece mette in atto - deve essere necessariamente ricalibrata. Basti considerare come nell'attualità la funzione dell'inibizione - centrale nella problematica classica delle nevrosi - abbia lasciato il posto a una disinibizione generalizzata, a una tendenza socialmente sempre più diffusa al passaggio all'atto privo di pudore, all'esibizione, al godimento come nuovo imperativo sociale, all'assenza di vergogna e di senso di colpa (altri due temi centrali nella clinica della nevrosi). 1. Vedi A. Green, Psicoanalisi degli stati limite. La follia privata, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1991, p. 65. La crisi contemporanea del riferimento all'ordine simbolico e alla Legge edipica che lo sostiene rende dunque la psicopatologia sempre più associata alla dimensione reale dell'"agire" compulsivo e sempre meno a quella simbolica della rimozione. In questo senso, a mio giudizio, ha ragione Green a sostenere che oggi "il modello implicito della nevrosi e della perversione si fonda sulla psicosi", 2 se con questa affermazione ci si riferisce alla psicosi come a una posizione del soggetto caratterizzata da un deficit strutturale dell'azione simbolica, da una non operatività del significante a contenere il reale maligno del godimento, dalla tendenza di questo godimento non castrato - non regolato dalla funzione normativa della castrazione - a invadere abusivamente il soggetto. Da questo punto di vista un merito indubbio del lavoro di Green consiste nell'aver emancipato la categoria dello "stato al limite" da un approccio riduttivamente psicopatologico per farne invece una questione storico-epocale della clinica psicoanalitica: quale coordinate metapsicologiche inquadrano la nuova clinica psicoanalitica, la clinica dei sintomi contemporanei, se il suo fondamento non è più quello offerto dalla clinica classica delle nevrosi e dell'Edipo? 3 Lo stesso lavoro di Otto Kernberg sulle personalità borderline utilizza ampiamente il riferimento a meccanismi di difesa arcaici tipici della psicosi per inquadrare questa nuova categoria psicopatologica (scissione, identificazione proiettiva ecc.), sottolineando anch'egli, a suo modo, come la clinica della rimozione sia divenuta insufficiente a inquadrare in modo adeguato fenomeni complessi che caratterizzano la clinica contemporanea. 4 Con la teorizzazione di Kernberg lo stato al limite non in2. Ìbidem. 3. La specificità del lavoro clinico di Green sugli stati al limite consiste nel considerare l'angoscia che contraddistingue i pazienti borderline - angoscia non di castrazione, precisa Green, ma di "separazione e di intrusione" - non tanto in relazione alla dimensione del desiderio - dimensione che, come abbiamo più volte ripetuto, resta centrale nella clinica classica delle nevrosi - ma, più bionianamente, su quella della "formazione del pensiero ". Per esempio, con la categoria di "psicosi bianca" Green intende definire proprio la condizione di una "psicosi senza psicosi", di una psicosi senza fenomeni elementari (deliri, allucinazioni, passaggi all'atto), dove il funzionamento psicotico del soggetto si manifesta per la via negativa di un "vuoto di pensiero", di una difficoltà di simbolizzazione dell'assenza dell'oggetto, della non-Cosa, la quale comporta, proprio perché non simbolizzata, l'esistenza costante "di un oggetto intrusivamente presente". Se, infatti, nella clinica delle nevrosi il punto pivot attorno a cui gravitano le produzioni sintomatiche è l'angoscia di castrazione, nella clinica degli stati-limite questo diventa, secondo Green, l'angoscia di separazione e l'angoscia di intrusione. E se, nella clinica delle nevrosi, seguendo l'insegnamento di Freud, il conflitto che divide il soggetto è quello tra Legge e desiderio, tra principio di realtà e principio di piacere, negli stati-limite il conflitto diventa piuttosto quello tra pulsione e pensiero. Vedi A. Green, J-L. Donnet, La psicosi bianca, tr. it. Boria, Roma 1992. Un riconoscimento dell'importanza del lavoro di Green in questo senso si può trovare anche da parte lacaniana. Vedi, per esempio, JeanJacques Rassial, LeSujet en état limite, Denoel, Paris 1999. 4. Vedi O . Kernberg, Sindromi marginali e narcisismo patologico, tr. it. Boringhieri, Torino 1978. tende più riflettere il carattere instabile del soggetto al confine tra nevrosi e psicosi, ma indica una nuova organizzazione strutturale del soggetto che rinuncia alla funzione simbolica della rimozione adottando meccanismi di difesa più primitivi, fondati sulla centralità della scissione. Questa nuova organizzazione della personalità spinge la riflessione psicoanalitica in generale - al di là della diversità delle sue correnti teoriche - a considerare l'epoca della clinica contemporanea come un'epoca che non trova più nel riferimento al complesso edipico quel "complesso nucleare" che orientava, al di là della nevrosi del soggetto, il programma di un'intera Civiltà. Per Green, infatti, i casi al limite mettono addirittura in questione "la pertinenza della metapsicologia acquisita attraverso lo studio delle nevrosi" (egli parla a proposito dell'esigenza di formulare, dopo le due topiche freudiane, una "terza topica") 5 e riferendosi all'ultimo Freud teorico della pulsione di morte, indica un luogo possibile dove reperire le coordinate teoriche fondamentali per edificare una nuova topica del soggetto in grado di inquadrare i fenomeni clinici introdotti dalla problematica degli stati al limite.6 CLINICA SIMBOLICA E CLINICA DEL REALE Negli stati al limite i fenomeni sintomatici non sono strutturati simbolicamente in quanto metafore della verità rimossa del soggetto e del suo ritorno cifrato, poiché in essi prevale, anziché la dialettica simbolica rimozione-ritorno del rimosso, l'instabilità affettiva, il passaggio all'atto, l'utilizzo di meccanismi di difesa arcaici, l'inclinazione depressiva, l'angoscia diffusa, l'impulsività, la presenza di stati crepuscolari pseudodeliranti, come indici fenomenici di una crisi della facoltà della simbolizzazione sintomatica, del sintomo come costruzione soggettiva, come metafora del soggetto dell'inconscio, ma si potrebbe anche dire, più in generale, del funzionamento dell'inconscio come tale. Un fatto è certo: il modello metapsicologico di riferimento per intendere gli stati al limite e, più in generale, tutte le nuove forme del sintomo (anoressie, bulimie, dipendenze, tossicomanie, depressioni, attacchi di panico) non può più essere quello dedotto dalla nevrosi e dalla clinica della rimozione, ma deve riferirsi piutto5. A. Green, "L'analista, la simbolizzazione e l'assenza nel setting analitico", in Psicoanalisi degli stati limite, cit., p. 82. 6. Ibidem, p. 32. E innanzitutto all'insegnamento di Melanie Klein e di Jacques Lacan che va riconosciuto il merito di non aver rigettato come astrattamente speculativa la nozione freudiana di pulsione di morte, ma di averne fatto un concetto chiave non solo della teoria ma della pratica clinica della psicoanalisi, oggi indispensabile per cogliere certi fenomeni radicali della psicopatologia. sto alla clinica della psicosi, dunque a una clinica che segnala l'inadeguatezza della dialettica della simbolizzazione e i suoi scacchi. Questo privilegio del riferimento alla clinica delle psicosi non deve però essere assunto nel senso in cui, per esempio, Laplanche e Pontalis definiscono il borderline come una categoria che designa delle schizofrenie latenti - dunque delle psicosi strutturali nascoste da nevrosi fenomeniche - / ma in quello assai più radicale per cui la rimozione stessa non sembra più essere il processo fondamentale nella costituzione dell'inconscio. Per certi versi è possibile sostenere che questa estensione della psicosi nella clinica contemporanea sia una tesi di fondo che contribuisca a unire i due grandi modelli a confronto nella psicoanalisi dopo Freud: quello strutturalista e quello evolutivista-oggettuale. 8 Se Green può teorizzare la centralità della questione borderline come segno di un superamento della clinica classica della nevrosi, l'insegnamento dell'ultimo Lacan, che si sviluppa nel corso degli anni Settanta, sospinge già verso una generalizzazione della forclusione, ovvero verso un rovesciamento del privilegio freudiano accordato alla clinica della nevrosi. Per l'ultimo Lacan, infatti, la forclusione non si limita più a definire il processo causale specifico in gioco nella psicosi, ma diventa la condizione stessa dell'essere umano che, in quanto essere nel linguaggio, in quanto "parlessere", non è mai, per legge della struttura, in grado di offrire una simbolizzazione integrale del reale del godimento. Questa generalizzazione della forclusione - evidenziata con rigore dalla lettura milleriana di Lacan - conduce a considerare la psicosi come il vero paradigma della clinica psicoanalitica, poiché il limite della rappresentazione simbolica, messo in evidenza dalla clinica del soggetto borderline, non è altro che quel limite che il linguaggio incontra nella sua operazione di significantizzazione del reale: questa operazione, infatti, non può realizzarsi esaustivamente perché il reale del godimento si sottrae a una messa in forma simbolica esaustiva. Di qui la centralità della clinica della psicosi che, diversamente dalla clinica della nevrosi che resta una clinica simbolica perché istituita sul carattere linguistico-retorico della rimozione e sul fondamento normativo dell'Edipo, è sempre una clinica 7. Ecco la definizione di borderline proposta da Laplanche e Pontalis: "Termine nato perlopiù per designare affezioni psicopatologiche situate al limite tra nevrosi e psicosi, di solito delle schizofrenie latenti che presentano una sintomatologia ad andamento nevrotico" (J. Laplanche, JB. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, tr. it. Laterza, Bari 1968, p. 63). 8. Vedi M. Recalcati, Introduzione alla psicoanalisi contemporanea. Bruno Mondadori, Milano 2003, cap. 1. 9. Vedi J-A. Miller, "Forclusione generalizzata", tr. it. in I paradigmi del godimento. Astrolabio, Roma 2001, pp. 189-194. del reale non governato dalla castrazione simbolica e dunque paradossalmente più prossimo alla verità della struttura. Un altro aspetto che investe la problematica della personalità borderline e che tocca una dimensione assolutamente attuale della clinica psicoanalitica è quello delYanalizzabilità. I soggetti borderline sono soggetti analizzabili, sono soggetti che possono trarre beneficio dall'applicazione terapeutica della psicoanalisi o sono invece soggetti inanalizzabili, ostili per struttura al trattamento analitico, "antianalizzandi"? 10 Tossicomani, depressi, anoressico-bulimici sono soggetti che possono trarre un beneficio terapeutico dall'applicazione della psicoanalisi? In effetti, la clinica contemporanea, che è, come abbiamo visto, una clinica contrassegnata da una caduta della centralità della rimozione e del suo fondamento edipico, è una clinica che è obbligata a problematizzare il criterio stesso dell'analizzabilità. In questo senso lo stato al limite si scolla da una semplice identificazione categoriale di tipo psicopatologico per definire la problematica stessa dell'applicazione terapeutica della psicoanalisi nell'epoca della Civiltà ipermoderna. E interessante allora l'ipotesi avanzata da Jean Pierre Lebrun e da Christian Demoulin secondo i quali la clinica degli stati al limite non può essere intesa se non viene rapportata agli effetti del discorso del capitalista e al "mondo senza limiti" che esso presuppone. Un soggetto senza un'identificazione stabile, incapace di operare una soggettivazione effettiva del suo desiderio, le cui scelte d'oggetto appaiono fluttuanti, per il quale l'agire prende il posto della simbolizzazione e l'esistenza appare schiava di diverse dipendenze patologiche, un soggetto privo del sostegno della castrazione simbolica, senza senso del limite, senza sintomi come formazioni simboliche dell'inconscio, un soggetto così, tanto euforico quanto vuoto, senza facoltà di regolare le proprie pulsioni, privo dello schermo inconscio del fantasma, incapace di soggettivare le proprie scelte, in balia della potenza acefala dell'Es, non è forse quello stesso soggetto che ritroviamo nella posizione di agente nel materna lacaniano del discorso del capitalista? "Non bisogna allora considerare che il borderline non è nient'altro che il soggetto libero del discorso del capitalista, prodotto dell'inversione dei rapporti tra il soggetto e il significante padrone, funzionante sulla forclusione della castrazione e sul rigetto dell'amore?" 11 10. Così Joyce McDougall definisce il soggetto della clinica contemporanea; vedi J. McDougall, Teatri del corpo. Un approccio psicoanalitico ai disturbi psicosomatici, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1990. 11. Vedi C. Demoulin, L'amour dans le discours du capitaliste, cit., p. 253; J-P. Lebrun, Un mondesans limite, cit., in particolare pp. 173-181. Un soggetto di questo genere, privo di qualunque centro di gravità, può ancora rispondere positivamente al dispositivo psicoanalitico? Il potere della parola su cui si fonda l'esperienza dell'analisi può intervenire ancora con efficacia su sintomi che sono in realtà pure pratiche di godimento, scariche pulsionali, passaggi all'atto, o sintomi-atto come teorizza McDougall? 12 Uno degli effetti dirompenti sulla psicopatologia del discorso del capitalista è quello di aver contribuito a ridurre il valore della dimensione della parola. I pazienti senza inconscio sono precisamente quei pazienti che parlano ma senza dare alcun valore a ciò che dicono, sono quei pazienti che ritengono, come dichiarava non senza un certo orgoglio un giovane tossicomane, che le parole sono "aria fritta". Tutta la psicopatologia degli stati cosiddetti al limite mette in questione proprio la possibilità del soggetto di accedere a una qualche forma di simbolizzazione. In questo senso si tratta più di una clinica del reale che non del simbolico. In un suo lavoro Antonio Ferro - operando una congiunzione interessante tra il modello teorico bioniano e la concezione winnicottiana dello sviluppo psichico - interroga proprio questo punto relativo alla fragilità della simbolizzazione nei pazienti gravi proponendo una nuova classificazione della "patologia psichica" che si basa non tanto sui criteri differenziali della diagnosi strutturale - come avviene, per esempio, in Freud e in Lacan - , ma sulla corrispondenza stabilita tra l'ordine della patologia psichica e il livello di funzionamento dell'attività di pensiero. 13 Ferro isola tre patologie fondamentali: una patologia determinata da una carenza della funzione alfa (che per Bion è la funzione del pensiero e della simbolizzazione), una patologia determinata da uno sviluppo inadeguato del rapporto tra elementi alfa e capacità rappresentativa della mente (come se la pellicola di un film si impressionasse ma non riuscisse a ordinarsi in una trama ordinata, secondo una metafora proposta dallo stesso Ferro) e infine una patologia determinata da accumuli di eventi traumatici. In questa classificazione l'elemento discriminante concerne la possibilità di operare o meno la trasformazione delle impressioni emotive originarie (elementi beta nel linguaggio di Bion) nella loro rappresentazione simbolica (resa possibile, sempre nel linguaggio bioniano, dalla funzione alfa). Le patologie narcisistiche o di tipo borderline si riferirebbero al secondo genere patologico, ovvero al genere che si caratte12. Vedi J. McDougall, Teatri dell'io. Illusione e verità sulla scena psicoanalitica, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1988, p. 83. 13. Vedi A. Ferro, Fattori di malattia, fattori di guarigione, Raffaello Cortina, Milano 2002. rizza per una carenza non tanto della funzione alfa come tale ma della capacità del soggetto di finalizzarla in un modo corretto e non persecutorio. Per questo, come nota giustamente Ferro, in questi casi l'interpretazione semantica genera nel soggetto più un sentimento di minaccia che uno di crescita.14 Il problema che i cosiddetti stati al limite pongono alla psicoanalisi investe con forza questa precarizzazione della facoltà simbolica in un'epoca nella quale - a causa del dominio del discorso del capitalista - l'esubero di elementi beta viene costantemente amplificato dalla circolazione impazzita di oggetti-impressioni-stimoli che non sono coordinati con una funzione simbolico-rappresentativa adeguata, come se fossero oggetti non inclusi in una trama narrativa condivisa, in un testo simbolico o, come direbbe Paul Ricoeur, in un "racconto". Si tratta piuttosto di oggetti-impressioni-stimoli scorporati da ogni testualità simbolica, caotici, denarrativizzati. In questa prospettiva Ferro sembra collocare le patologie degli stati al limite come patologie che segnalano una difficoltà nella trasformazione degli elementi beta in elementi alfa, ovvero degli oggetti-impressioni-stimoli "in immagini visive della pellicola di pensiero". 15 Un tratto caratteristico della clinica contemporanea come clinica del reale non è dunque proprio il limite dell'azione del simbolico in quanto tale? Non è la nostra un'epoca nella quale la funzione normativa dell'ordine simbolico, del grande Altro, declina, si sfilaccia, s'indebolisce, lasciando il soggetto privo di riferimenti ideali costituenti? Non è la nostra l'epoca dove a questo declino corrisponde una proliferazione dell'immaginario e del reale che appaiono come sciolti dalla funzione di annodamento svolta dall'azione del simbolico? Da questa eclissi della funzione strutturante del grande Altro non scaturisce forse una nuova clinica non più centrata sul conflitto tra l'esigenza pulsionale e gli ideali sociali, quanto sul primato incondizionato dell'oggetto di godimento (droga, cibo, immagine, psicofarmaco, bottiglia ecc.) e dell'identificazione adesiva ai sembianti sociali? Questa crisi del carattere strutturante dell'Altro simbolico - di cui le ricerche psicologiche e sociologiche sulla crisi del padre nell'epoca contemporanea sono solo uno dei tanti esiti possibili - viene messa in 14. Ibidem, p. 4. 15. Per questa via egli unifica le malattie psicosomatiche, i comportamenti senza pensiero (agiti caratteropatici) e le allucinazioni come diverse modalità di evacuazione senza simbolizzazione di quei "fatti indigeriti" che secondo Bion è compito della funzione alfa ruminare sino alla loro digestione simbolica effettiva. Ìbidem, p. 41. particolare risalto proprio dagli stati cosiddetti al limite, i quali denunciano clamorosamente la decadenza della funzione di limite ancora garantito dall'Ideale edipico. 16 Più precisamente, questa crisi della funzione normativa del limite che caratterizza l'Altro simbolico contemporaneo può tradursi sia come difficoltà del potere rappresentativo del simbolo di fronte a patologie che si arroccano su un godimento narcisistico e refrattario a ogni dialettica con l'Altro, sia come limite che la psicoanalisi stessa, in quanto prassi simbolica, incontra nel trattamento di queste patologie. Questo indebolimento del potere del simbolico e, conseguentemente, dell'operazione di simbolizzazione-rappresentazione su cui si fonda l'esperienza dell'analisi è effettivamente segnalato, pur se in modi diversi, da molti autori ed è diventato un problema cruciale della clinica psicoanalitica contemporanea: le nuove forme del disagio della Civiltà si caratterizzano per la presenza di una crisi della virtù simbolica della parola e per una spinta al godimento dai tratti mortiferi che sembra opporsi a ogni operazione possibile di simbolizzazione. Di conseguenza, il lavoro psicoanalitico appare obbligato a fronteggiare questa opacità senza senso del reale. Ed è proprio nei pressi di questa zona opaca ed estrema della nuova clinica che vediamo convergere percorsi teorico-clinici tra loro assai diversi. Il carattere olofrastico e antimetaforico col quale già Lacan contraddistingueva "tutta una serie di casi" (psicosomatica, debilità, psicosi),17 la tendenza a ridurre la simbolizzazione a pure "equazioni" di cui parlava Hanna Segai,18 l'idea della prevalenza del "pensiero operatorio" sulla funzione simbolica della scuola psicosomatica di Marty riprese originalmente da Joyce McDougall nel concetto di sintomi-atti,19 ciò che Winnicott sottolineava attraverso quei pazienti che non sono in grado di strutturare un transfert simbolico riducendo la realtà fantasmatica del proprio Altro alla presenza reale dell'analista, ma senza alcun transfert simbolico (per certi pazienti, scrive Winnicott, lo psicoanalista non rappresenta la madre, ma è la madre),20 la concezione di Green e di Kernberg dello sta16. Si tratta d u n q u e di estendere la categoria di stato al limite per definire non tanto una categoria di soggetti o un tipo di personalità, ma, in considerazione del declino dell'Altro simbolico, la stessa clinica psicoanalitica contemporanea tout court (dunque non un tipo di personalità). L'idea della clinica psicoanalitica come clinica borderline è abbozzata in M. Recalcati, Clinica del vuoto, cit. 17. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro XI, cit., p. 241. 18. Vedi H. Segai, "Alcune note sulla formazione del simbolo", tr. it. in Casi clinici, Il Pensiero Scientifico, Roma 1980. 19. Vedi P. Marty, M. de M'Uzan, C. David, Linvestigation psychosomatique. Sept observations cliniques, PUF, Paris 1972; J. McDougall, Teatri del corpo, cit.; Teatri dell'io, cit. 20. D.W. Winnicott, "Gli aspetti metapsicologici e clinici della regressione nell'ambito della situazione analitica", tr. it. in Dalla pediatria alla psicoanalisi, tr. it., Martinelli, Firenze 1975. to-limite come accentuazione dei meccanismi psicotici di difesa fondati sulla scissione,21 l'ipotesi della Kristeva per la quale la nuova clinica è una clinica dell'assenza di rappresentazione e della morte psichica del soggetto,22 le tesi di Jacques-Alain Miller e Eric Laurent che definiscono la clinica contemporanea come la clinica dell'inesistenza dell''Altro,23 la ricerca di Racalbuto e la loro convergenza con le mie intorno alla clinica contemporanea come clinica del vuoto,24 lo sviluppo della clinica borderline attraverso la riflessione sull'area traumatica di Antonello Correale, 25 l'ampia riflessione di Jean-Pierre Lebrun intorno al "mondo senza limite" 26 sono tutti indici problematici di questa nuova frontiera della ricerca psicoanalitica. Con una differenziazione necessaria però tra coloro che insistono nel porre l'esperienza del reale come limite della rappresentazione, come un non-ancora pensato, come una difficoltà interna del pensiero simbolico a ordinare il caos che lo concerne (corrente bioniana-winnicottiana) e coloro che invece isolano il reale come esperienza di un godimento maligno, vincolato al potere della ripetizione (pulsione di morte), che si manifesta strutturalmente come una spinta intrattabile dal simbolico (corrente lacaniana). LA NUOVA CLINICA COME CLINICA BORDERLINE L'attualità storica della clinica degli ultimi vent'anni mette dunque sempre più in evidenza quadri sintomatici che difficilmente sembrano compatibili con la distinzione strutturale classica, introdotta da Freud, di nevrosi e psicosi. E questo non solo in riferimento ai cosiddetti stati al limite. La clinica psicoanalitica classica - quella che nasce con gli Studien iiber Hysterie (1892-1895) di Sigmund Freud - è una clinica costruita nel suo fondamento sul valore metaforico del sintomo, sulla dialettica rimozione-ritorno del rimosso da cui il sintomo scaturisce e sul carattere normativo dell'Edipo. Fu questo l'insegnamento storico dell'isteria: il corpo diventa il teatro di una messa in scena significante, diventa un corpo che parla, che si costituisce come un vero e proprio di21. Vedi A. Green, Psicoanalisi degli stati limite, cit. 22. Vedi J. Kristeva, Le nuove malattie dell'anima, tr. it. Boria, Roma 1998. 23. Vedi J-A. Miller, L'Autre quin'existepas et ses comitéd'ethique, cit. 24. Vedi A. Racalbuto, Tra il fare e il dire, cit.; M. Recalcati, Clinica del vuoto, cit. Questa "strana" convergenza è stata sottolineata da E. Lo Monaco in Clinica del vuoto: per una clinica psicoanalitica dei sintomi contemporanei, tesi sostenuta presso la facoltà di Psicologia dell'Università di Padova (2005). 25. Vedi A. Correale, Area traumatica e campo istituzionale. Boria, Roma 2006. 26. Vedi J-P. Lebrun, Un monde sans limite, cit. scorso e attraverso il quale ciò che era stato esiliato (rimosso) può fare ritorno anche se in una forma simbolicamente cifrata. Per Freud infatti il sintomo, in quanto formazione dell'inconscio, tiene il posto di qualcos'altro (è un "sostituto"), di qualcosa che ha subito l'esercizio della rimozione e che però, non potendo essere cancellato, ritorna, appunto, secondo forme enigmatiche, imprevedibili e sconosciute al soggetto stesso. Il sintomo è esattamente un modo in cui il rimosso ritorna ordinato simbolicamente, strutturato, costruito come una metafora. Il sintomo nevrotico è infatti, innanzitutto, un fenomeno di senso, un fenomeno di linguaggio retoricamente compiuto. E ciò che condurrà, come abbiamo visto, Lacan a proporre l'equivalenza del sintomo analitico con la figura retorica della metafora facendone classicamente "il significante di un significato rimosso". 27 Il lavoro analitico nella clinica delle nevrosi è un lavoro di decifrazione della cifra enigmatica della verità del soggetto dell'inconscio incarnata nel sintomo. Dunque la sua condizione di possibilità è che vi sia un rapporto di omologia tra il sintomo e l'interpretazione. Se, infatti, il sintomo è un significante che sta al posto di qualcos'altro e se il soggetto pone nel sintomo la propria verità rimossa, allora sarà compito dell'analista, tramite l'interpretazione semantica, indicare il valore significante che il sintomo stesso assume per il soggetto. Più precisamente, nella dialettica della cura, ciò che trasforma il sintomo in una metafora che attende la sua decifrazione è il motore del transfert. Il transfert è infatti ciò che, dialettizzando l'appello contenuto nel sintomo (rivolgendo cioè questo appello all'analista), rende il sintomo stesso psicoanalizzabile. Quando però nel Seminario XI, dedicato a I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Lacan introduce il concetto di olofrase a proposito delle psicosi, dell'insufficienza mentale ("debilità") e dei fenomeni psicosomatici, ci segnala implicitamente la possibilità dell'esistenza di un'altra clinica rispetto a quella delle nevrosi la quale è, come abbiamo visto, una clinica della metafora, del significante, del simbolo, del desiderio inconscio e della sua rimozione. Si tratta per Lacan di una clinica che segnala un'impasse nel funzionamento simbolico-rappresentativo del significante, dunque della funzione stessa del soggetto dell'inconscio. Nell'olofrase, infatti, l'efficacia metaforica del significante sintomatico è messa in crisi in quanto, come avviene per esempio nella psicosi, il soggetto non è rappresentato dal significante ma vi si trova incollato, pietrificato, senza alcuna possibilità di separazione. 27. J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit., p. 274. L'olofrase è infatti una figura retorica che, al contrario della metafora, non rappresenta nulla, non veicola alcun messaggio, ma segnala piuttosto il fallimento dell'azione rappresentativa della metafora. Un'olofrase è una parola-frase, una frase che però risulta non scomponibile, congelata, fissata. Lacan la definisce come una solidificazione della catena significante che immobilizza il discorso. In essa il soggetto non è rappresentato da un significante per un altro singificante ma vi si trova incluso come un "monolito". Il punto è che questo monolito non è metaforico, non metaforizza il soggetto ma lo inchioda a una identificazione assoluta. Il soggetto resta incatenato all'Altro, fa uno con l'Altro. L'olofrase annulla così la separazione tra il soggetto e l'Altro e l'intervallo che separa tra loro i significanti. Per chiarire la funzione antisimbolica dell'olofrase, Lacan si riferisce, oltre alla psicosi28 e alla debilità, 29 anche al fenomeno psicosomatico. Soffermiamoci su quest'ultimo esempio. Non essendo un fenomeno di linguaggio il fenomeno psicosomatico non ha la natura simbolica del sintomo isterico, non corrisponde al processo della conversione somatica propria del corpo isterico, non è un fenomeno simbolico perché implica il reale del corpo, la sua lesione, più che la sua disposizione espressiva. Questo non significa che un fenomeno psicosomatico non abbia un senso; significa piuttosto che questo senso anziché prendere la via della metafora s'incarna direttamente nel corpo, cortocircuita col reale del corpo senza alcuna mediazione simbolica producendosi direttamente come lesione, come avviene, per esempio, nel caso dell'ulcera. Qui il sintomo non funziona come un significante che rappresenta una significazione rimossa del soggetto ma diviene una sorta di "numero" silenzioso, indecifrabile, una sorta di fissazione quantitativa di godimento che incrina il potere rappresentativo della metafora sintomatica fissando il soggetto a una ripetizione priva di senso.30 La nuova clinica come clinica del reale si caratterizza dunque per questa assenza di fondo, o estrema debolezza, della metafora sintomatica. Si pensi anche agli esempi dell'anoressia, della bulimia, della tossicomania o della depressione. In modi differenti ricorre in tutte queste 28. Sull'olofrase psicotica, rinvio a M. Recalcati, Lultima cena, cit., pp. 190-286. 29. Sull'olofrase debile, con particolare riferimento alla disabilità, vedi F. Lolli, L'ingorgo del corpo, F r a n c o Angeli, Milano 2005; Percorsi minori dell'intelligenza, F r a n c o Angeli, Milano 2007. 30. Vedi J. Lacan, "Conferenza sul sintomo", tr. it. in La psicoanalisi, 2, 1983. Per un approfondimento della clinica del fenomeno psicosomatico, vedi N. Ranieri, La lesione psicosomatica: per una clinica psicoanalitica del corpo al di là dell'isteria (in corso di pubblicazione presso Bruno Mondadori). posizioni soggettive uno stesso motivo di fondo: il soggetto è vincolato olofrasticamente all'Altro, pietrificato nel suo rapporto col significante e, di conseguenza, il significante stesso sembra non rappresentarlo più per un altro significante inchiodandolo a una fissità esistenziale che impoverisce il desiderio. In altri termini, ciò che si incontra nei nuovi sintomi è un difetto essenziale nella soggettivazione della separazione. Al posto del sintomo e del suo valore metaforico troviamo o la dipendenza cieca dalla sostanza (bulimia, tossicomanie) o un'identificazione senza dialettica, assoluta, mortifera (anoressia, depressione, fenomeno psicosomatico). Per esempio, l'olofrase anoressica tende ad assumere i caratteri dell'identificazione idealizzante al corpo magro che non rivela alcun messaggio cifrato se non il carattere ipnotico e infatuato - antidialettico - di quell'identificazione. L'olofrase bulimica o obesa assume i caratteri di una dipendenza assoluta dall'oggetto-cibo: il soggetto non è in grado di introdurre una separazione sublimatoria dall'oggetto che sovrasta la sua vita come un'ombra malefica. Nell'oscillazione anoressico-bulimica non si dà sintomo come metafora ma incollamento olofrastico del soggetto all'identificazione idealizzante (anoressia) o alla dipendenza dall'oggetto pulsionale (bulimia). Il punto chiave però è che né lo strapotere dell'Es che si manifesta nella dipendenza pulsionale dalla sostanza (il cibo, la droga, l'alcol), né quella che abbiamo definito un'identificazione solida, priva di dialettica e di soggettivazione, sono in grado di assumere per il soggetto il valore enigmatico del sintomo nevrotico. Esse s'impongono piuttosto come evidenze fuori discussione: il tossicomane è un tossicomane, l'anoressica è un'anoressica, il depresso è un depresso. La funzione enigmatica del sintomo metaforico viene sostituita da una nominazione identitaria assicurata dal sintomo stesso. Il soggetto non si pone come diviso, come spiazzato dal ritorno del rimosso nelle formazioni dell'inconscio, come incalzato da un desiderio indistruttibile che non governa, quanto piuttosto come identificato monoliticamente (olofrasticamente) alla propria pseudoidentità di tossicomane, di anoressica o di depresso. È, come abbiamo visto, ciò che Lacan definisce come "tratto uniano" (unien). Attraverso la sostanza 0 tossicomane prova infatti a "farsi" - come si dice nel linguaggio comune tra tossicomani; "farsi" è darsi una consistenza a prescindere dall'Altro - , a realizzarsi come un Uno che annulla ogni differenza con l'Altro, a "umanizzarsi", appunto. La schiavitù della dipendenza dalla droga non apre infatti nel soggetto la dimensione della mancanza ma punta, una volta trasformata in vuoto, semplicemente a otturarla. Così nella compulsione a ripetere delle abbuffate bulimiche non avviene alcuna costruzione metaforica: in primo piano è solo la spinta acefala della pulsione che esige di godere, sospingendo verso un godimento al di là del principio di piacere, in eccesso, distruttivo, mortifero. In queste forme contemporanee del disagio della Civiltà, non è più in primo piano la rimozione del desiderio inconscio e il suo ritorno simbolico, quanto piuttosto il rischio di una cancellazione radicale del soggetto dell'inconscio come tale. Una inclinazione olofrastica sembra infatti pervadere la psicopatologia contemporanea nel suo insieme. IL GODIMENTO SMARRITO E LA SCISSIONE VERTICALE Esiste un contesto sociale entro il quale si colloca la clinica psicoanalitica dei nuovi sintomi. E quello determinato dall'affermazione del discorso del capitalista. Questo contesto può essere riassunto efficacemente con una ispirata formula lacaniana che si trova in Televisione. Lacan definisce il godimento contemporaneo come un godimento smarrito ("égaré"). Restiamo un momento su questa formulazione. Che cosa significa "godimento smarrito"? Sappiamo che l'azione della struttura, l'azione del grande Altro comporta che il godimento sia situato per il soggetto come godimento separato, come godimento in perdita, staccato dal soggetto, separtito. E infatti l'azione dell'Altro del linguaggio che ha il compito primario di separare il soggetto dal godimento. Quando Lacan afferma che il godimento contemporaneo è un godimento smarrito è per mostrare che questo godimento tende, come lui stesso si esprime, a non essere più "situato dall'Altro". 31 Il godimento smarrito è dunque un godimento privato della sua bussola edipica, della bussola fallica, della bussola della castrazione simbolica, è un godimento che pone il soggetto in una posizione di schiavitù perché anziché essere separato gli aderisce addosso come una colla. Uno strumento prezioso per raffinare le coordinate teoriche della nuova clinica come clinica del godimento smarrito è rappresentato dall'ultimo libro di Massimo De Carolis.32 La sua tesi di fondo ruota attorno a ciò che esso nomina come "paradosso antropologico". Di cosa si tratta? Si tratta, innanzitutto, di una definizione della condizione umana. La forma di vita umana, diversamente da quella animale, è abitata, sostiene De Carolis, da una doppia esigenza. Da una parte essa esi31. J. Lacan, Radiofonia e televisione, cit., p. 90, 32. Vedi M. De Carolis, Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi ca, Quodlibet, Macerata 2008. e dissociazione psichi- ge protezione, rifugi sicuri, ordine e confini stabili, limitazioni, mentre dall'altra essa è apertura, rischio, slancio, spinta verso la "contingenza illimitata". La soluzione di questo paradosso non può essere la scelta di una delle due opzioni a scapito dell'altra perché il rischio è che "l'apertura a una contingenza illimitata porti al collasso di ogni aspettativa e di ogni istituzione duratura" o che, dall'altra parte, "il bisogno di protezione imponga al mondo l'ottusa ripetitività di un finto ambiente, eretto a scopo difensivo contro il mondo". 33 Piuttosto l'indicazione di De Carolis è quella di pensare a una inclusione topologica dei due anelli di cui si compone il paradosso antropologico in modo tale che l'esigenza umana di tracciare un limite, di rivestire il reale scabroso della contingenza attraverso il simbolico, di provare a ordinare (anche se mai integralmente) il caos che l'assilla sappia però sempre preservare la spinta a esistere (per usare un'espressione di Bion nei Seminari brasiliani),™ l'apertura illimitata dell'esistenza al mondo, come sua risorsa immanente. La dimensione permanente di questo paradosso, tale da coincidere con la nostra stessa esistenza, consiste nel pensare a questa scissione, a questa duplice tendenza della realtà umana, come impossibile da risolvere una volta per tutte. In questo modo De Carolis, a mio giudizio, non solo si aggancia a una tradizione filosofica che trova in Essere e tempo di Heidegger un riferimento essenziale (sebbene De Carolis stesso non risparmi a Heidegger la critica decisiva di non essere riuscito a coniugare adeguatamente la natura ontologico-esistenziale di questa apertura illimitata con la dimensione politica), ma si congiunge altresì al lavoro di ridefinizione del soggetto che ha impegnato psicoanalisti come Lacan e Bion. Quando Lacan definisce il soggetto come alienazione e separazione, dunque come agganciato fatalmente ai significanti che lo hanno determinato e che lo identificano e, al tempo stesso, come movimento di separazione da questa identificazione, come desiderio, apertura all'Altro, movimento di soggettivazione continuo, oppure quando Bion definisce l'esistenza come presa nel conflitto tra narcisismo - affermazione della propria differenza - e socialismo - affermazione della propria appartenenza a un gruppo - , ribadendo il fatto che c'è patologia quando a prevalere è solo una tendenza sull'altra poiché entrambe queste tendenze sono proprie della condizione umana, ci troviamo nel bel mezzo del paradosso antropologico descritto da De Carolis. L'aspetto più avvincente del libro consiste nel proporre un paradig33. Ibidem, p. 157. 34. Espressione recentemente messa in valore dal bel libro di E. Gaburri, L. Ambrosiano, La spinta a esistere. Note cliniche sulla sessualità oggi. Boria, Roma 2008. ma capace di descrivere la discontinuità tra l'epoca moderna e quella postmoderna o ipermoderna. Questo paradigma trova uno dei suoi fondamenti nella cosiddetta personalità multipla che è una delle figure più caratteristiche della psicopatologia contemporanea. In esse ciò che emerge è un modello di scissione verticale che si oppone decisamente al modello della scissione orizzontale che definisce la versione classica della clinica delle nevrosi. Il binomio rimozione-ritorno del rimosso è costruito sul paradigma di una scissione orizzontale. La topica freudiana separa infatti orizzontalmente, distinguendo un alto da un basso, l'Io dall'Es, il luogo dell'identità della coscienza da quello caotico delle pulsioni. Questa topica, fa notare De Carolis, presiede anche la concezione moderna dello Stato come vertice rispetto alla base costituita dalla moltitudine del popolo. All'Io e allo Stato la topica moderna assegna, in fondo, compiti eguali: unificare il molteplice in un'identità capace di sottomettere le spinte centrifughe e refrattarie all'unità. Le forme di vita contemporanee sono però inassimilabili a questa topica ed esigono una sua riformulazione. La scissione orizzontale e la distinzione gerarchica che essa comporta tra sopra e sotto devono lasciare spazio a una scissione verticale. 35 Questa nuova topica, quella della scissione verticale, non implica più la distinzione netta tra un sopra e un sotto, ma solo una serie che separa irreversibilmente, dunque senza alcuna possibilità di intersezione, ovvero di ritorno di ciò che è stato separato, come invece avviene nel processo inconscio della rimozione, mondi, micromondi, nicchie, parti scisse. La rimozione delle pulsioni e la subordinazione alla Legge, proprie della topica classica della modernità, lasciano così il posto alla dissociazione come erosione della consistenza di ogni principio unificatore. Se la dissociazione può rientrare, almeno per un verso, nella dialettica propria del paradosso antropologico in quanto modalità difensiva rispetto all'indistinto e all'illimitato - il soggetto si protegge dal flusso indifferenziato degli stimoli generando una nicchia operativa sua propria ed è capace di dissociazioni felici, come quella del gioco, che rendono possibile la sua non omologazione ai principi normativi universali - , il suo fallimento patologico consiste nel far prevalere sull'esigenza della distinzione - che anima i processi che De Carolis definisce di "dissociazione felice" quella di una monade antitetica alla costruzione di un mondo comune. Potremmo citare qui l'esempio della vita anoressica per incarnare que35. A questo proposito il riferimento psicopatologico di De Carolis è A. Goldberg, La mente che si sdoppia. La scissione verticale in psicoanalisi e in psicoterapia, tr. it. Astrolabio, Roma 2001. sta forma di dissociazione patologica, dove la nicchia protettiva di cui l'essere umano ha necessità diventa una forma di vita antitetica a quella del mondo, risolvendo patologicamente il paradosso antropologico attraverso la mutilazione secca della spinta verso la contingenza illimitata senza la quale la vita smarrisce se stessa, divenendo solo una forma triste di sopravvivenza. CARATTERISTICHE PSICOPATOLOGICHE DELLE NUOVE FORME DEL SINTOMO36 Sforziamoci di ritornare ancora sulla dimensione psicopatologica della nuova clinica provando a isolare e a ordinare in una serie ricapitolativa i punti che la differenziano dalla clinica classica della nevrosi. a) II nuovo sintomo non si configura più come una metafora, ovvero non si istituisce più sulla centralità della coppia rimozione-ritorno del rimosso. E il punto che abbiamo appena visto. La destituzione dell'equivalenza sintomo=metafora significa, tra l'altro, che nei nuovi sintomi prevalgono l'immaginario e il reale sul funzionamento del simbolico. Alla metafora si sostituisce la tendenza olofrastica. Come abbiamo già visto l'olofrase è una parola-frase che cancella l'articolazione significante assorbendola in un blocco semantico indistinto. L'olofrase è un'antimetafora perché, se la metafora si fonda sul principio simbolico della sostituzione, parlare di una inclinazione olofrastica dei sintomi contemporanei è un modo per sottolinearne la fondamentale carenza simbolica. Se il sintomo come metafora è una manifestazione dell'inconscio strutturato come un linguaggio, il sintomo nella sua inclinazione olofrastica rivela piuttosto un cattivo funzionamento dell'inconscio. E più radicalmente, un sintomo in assenza di inconscio. Nella prevalenza dell'olofrase sulla metafora tocchiamo qualcosa di davvero essenziale della nuova clinica: in essa l'inconscio sembra abolito perché le sue formazioni - in cui rientra la nozione psicoanalitica di sintomo sembrano semplicemente impossibili. In questo senso si può affermare che l'inclinazione olofrastica delle nuove forme del sintomo tende a separare il sintomo dall'inconscio, dunque a disgiungere il sintomo dal problema della sua verità inconscia. Le conseguenze per la pratica della 36. Come ho ricordato nell'Introduzione è a H u g o Freda che si deve la formulazione di questo concetto di "nuove forme del sintomo" che egli ha studiato nel campo specifico delle tossicodipendenze. Vedi H . Freda, Psicoanalisi e tossicomania, tr. it. Bruno Mondadori, Milano 2001. psicoanalisi sono molteplici: i soggetti della nuova clinica non pongono all'analista un problema relativo al senso enigmatico - dunque alla verità - che il sintomo conterrebbe ma, casomai, l'esigenza angosciata di trovare una regolazione del sintomo più funzionale, più egosintonica. In questa prospettiva un soggetto bulimico può chiedere semplicemente all'analista di recuperare la sua forza anoressica senza volerne sapere nulla del senso del suo sintomo bulimico. b) Il nuovo sintomo implica una identificazione solida (accentuazione dell'alienazione) o una compulsione pulsionale (accentuazione della separazione) a scapito della loro congiunzione articolata. La dialettica alienazione-separazione che Lacan ha situato come centrale nel processo di costituzione del soggetto si frattura accentuando unilateralmente uno dei due poli che la regolano. L'accentuazione dell'alienazione si evidenzia in particolare nella tendenza del soggetto ad assimilarsi al buon ordine dei sembianti sociali, a realizzare identificazioni rigide, conformiste, mimetiche ai significanti dell'Altro. Il valore della nominazione identitaria dei sintomi contemporanei rientra in questa logica. L'accentuazione della separazione caratterizza invece quei soggetti che appaiono schiavi della coazione pulsionale, del godimento compulsivo, dello strapotere dell'Es, di una spinta mortifera e distruttiva che li separa dal legame sociale in quanto tale. Se l'accentuazione dell'alienazione ingessa identitariamente il soggetto - è il caso, per esempio, dell'identificazione idealizzante dell'anoressia - , l'accentuazione della separazione lo sgancia dall'Altro, lo sospinge verso il mare morto di un godimento senza desiderio - è il caso, per fare un altro esempio, delle tossicomanie. c) Il campo dei nuovi sintomi è il campo dell'antiamore: il soggetto non sposta nel campo dell'Altro l'oggetto perduto, non si pone come soggetto abitato da una mancanza a essere; non c'è transfert primario dell'oggetto nel campo dell'Altro perché l'oggetto tende a ristagnare sul soggetto. Con l'espressione "transfert primario" 37 Lacan ha individuato il fondamento del transfert analitico in senso stretto. Perché un soggetto possa avere la possibilità di sviluppare un transfert analitico è necessario che sia avvenuto il transfert primario. Ma cos'è il trasfert primario? E la collocazione nel campo dell'Altro di quella parte di essere (oggetto piccolo a) che il soggetto ha perduto a causa dell'azione dell'Altro. Questa azione - l'azione del linguaggio - è infatti un'azione di separazione, nel senso che separa il soggetto da una parte del 37. Vedi J. Lacan, La direzione della cura, cit., p. 613. suo godimento, da una parte del suo essere. La condizione del transfert primario è dunque ciò che Lacan, come abbiamo visto, nel Seminario X definisce come la separtizione del soggetto. Se invece l'oggetto non si stacca dal soggetto e non si trasferisce nel campo dell'Altro, non si dà alcuna separtizione del corpo e s'impone la dipendenza dall'oggetto come difficoltà di soggettivare la perdita dell'oggetto, come difficoltà di realizzare una autentica soggettivazione della separazione. Questo significa che il transfert primario è ostacolato e che il soggetto non si è separato dall'oggetto di godimento. L'oggetto piccolo (a) non è stato spostato, non si è trasferito, dislocato nel campo dell'Altro. E, di conseguenza, il desiderio del soggetto non si dirige verso il campo dell'Altro, non si muove alla ricerca dell'oggetto perduto, non si attiva in direzione del desiderio dell'Altro. Allora possiamo dire che c'è assenza o deficit di transfert primario. Il solo oggetto di transfert (selvaggio) possibile è l'oggetto stesso della dipendenza patologica. Una lista di partner inumani si allunga, rinnovata di continuo dalle astuzie del discorso del capitalista: droga, alcol, cibo, psicofarmaco, immagine ideale del proprio corpo, computer. E la lista degli oggetti che illudono il soggetto di sanare, attraverso il loro consumo compulsivo, la sua mancanza a essere. E la lista degli oggetti antiamore. Essi sono tali perché anziché essere in rapporto alla mancanza, la occultano. In tutti questi casi non c'è amore di transfert ma solo odio di transfert. E per questa ragione che nella clinica dell'anoressia l'erotizzazione del transfert tende a comportare frequentemente il rischio della rottura del legame analitico. Più in generale la constatazione inevitabile è che la necessità della presenza assoluta dell'oggetto, del partner inumano, blocca il movimento del transfert primario e rende difficile, quando non impossibile, l'installazione del soggetto supposto sapere che per Lacan è la condizione fondamentale della dialettica propria del transfert analitico. d) Nelle nuove forme del sintomo l'oggetto non è causa di angoscia ma rimedio dell'angoscia. Non è oggetto né del fantasma, né del desiderio inconscio, ovvero non è in rapporto alla divisione del soggetto e alla sua mancanza a essere. Piuttosto l'oggetto che domina nei nuovi sintomi è l'oggetto-immagine o l'oggetto-godimento come otturatore della mancanza a essere. In questo senso non è un oggetto in rapporto al desiderio, non è un oggetto che funziona come ciò che causa il desiderio, ma un oggetto che è in rapporto solo al godimento. E non avendo relazione col desiderio non è nemmeno in rapporto all'angoscia che, secondo Lacan, è la sola traduzione soggettiva possibile dell'oggetto causa del desiderio.38 Non è in rapporto all'angoscia perché si candida a essere un rimedio parziale dell'angoscia. I nuovi sintomi sono tentativi di soluzione della angoscia più che manifestazioni dell'angoscia come fondamento del desiderio. e) Nelle nuove forme del sintomo, il sintomo non tende a esprimere la particolarità irriducibile del soggetto ma sancisce piuttosto la sua alienazione ai sembianti sociali. Freud aveva insistito sul sintomo nevrotico come indice dell'irriducibilità della singolarità rispetto al programma universale della Civiltà. Il sintomo nevrotico sorge dal conflitto strutturale tra desiderio e Legge, tra principio di piacere e principio di realtà, tra l'esigenza della pulsione e quella del Super-io sociale rappresentandone la formazione (instabile) di compromesso. In esso, nel disadattamento alla realtà che il sintomo nevrotico produce, si manifesta tutta l'eccentricità della particolarità rispetto a ogni universalità. Nelle nuove forme del sintomo invece la particolarità soggettiva viene sacrificata a una omogeneità immaginaria che la assimila alienandola in un falso universale. In altri termini il sintomo non è più indice della divisione soggettiva, dell'inconciliabilità tra il programma del desiderio e il programma della Civiltà, ma è ciò che tende ad appianare ogni forma di divisione. Non è ciò che scuote e mette in crisi l'identificazione narcisistica del soggetto al proprio Io, ma appare come un rafforzamento del proprio Io, una condizione essenziale della sua solidità immaginaria. Abbiamo chiamato questa dimensione dei nuovi sintomi "monosintomatica" per evidenziare come il sintomo anziché esprimere il conflitto tra il programma inconscio del desiderio e quello della Civiltà e agire come un sostegno della differenza singolare riduca questa differenza all'identificazione indifferenziata al gruppo dei simili, alla propria comunità d'appartenenza, al conformismo dell'identificazione a massa.39 f) Nelle nuove forme del sintomo, il sintomo non è l'indice di una invenzione singolare, di una simbolizzazione non comune, di un lavoro del soggetto dell'inconscio ma tende a porsi come indice di una ripetizione del medesimo, del comune, dello Stesso. Nelle patologie dell'identificazione questo avviene nella forma di una subordinazione del soggetto all'insegna sintomatica, mentre nelle patologie compulsive avviene nella forma di una coazione a ripetere dello Stesso godimento secondo una legge inesorabile, una necessità spietata che sembra annichilire ogni contingenza creativa. E ciò che si evidenzia esemplarmente nella clini38. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro x, cit., p. 109. 39. Vedi M. Recalcati, L'omogeneo e Usuo rovescio, cit. ca delle cosiddette dipendenze patologiche: il soggetto è schiavo di una temporalità bloccata, uguale a se stessa, di un tempo fissato alla ripetizione uniforme dello Stesso godimento. g) he nuove forme del sintomo sono caratterizzate da quello che definiamo provocatoriamente "in assenza di inconscio". Mentre il sintomo nevrotico è una formazione dell'inconscio le nuove forme del sintomo mostrano il rischio di una estinzione del soggetto dell'inconscio. Perché? Perché il luogo del soggetto dell'inconscio appare colonizzato dall'Es. Nella spinta pulsionale, nella tendenza alla scarica, nel passaggio all'atto senza pensiero, nell'esigenza imperiosa del soddisfacimento immediato che caratterizzano i nuovi sintomi si registra un collasso del soggetto dell'inconscio. Il reale si impone nella sua dimensione acefala come pura spinta a godere, come pulsione di morte. Il soggetto dell'inconscio in quanto soggetto del desiderio è annientato dalla marea montante di un godimento senza soddisfazione che s'impone al comando di un Super-io sadiano inflessibile. La pulsione non si aggancia al desiderio ma agisce secondo una spinta che trascina il soggetto verso la propria dissipazione etica. Narcinismo è l'espressione che Colette Soler ha utilizzato per definire questa degradazione del soggetto del desiderio: si tratta di un cinismo abbinato al narcisismo che rifiuta ogni forma di sodalizio con l'Altro e che cancella, di conseguenza, quella dimensione di apertura verso l'Altro che secondo Lacan caratterizza il movimento eteroclito del desiderio. Gli effetti del narcinismo definiscono la melanconia caratteristica della nostra epoca: isolamento, distruzione molecolare del legame, sconnessione, disinserzione, rifiuto dell'Altro. IL C O R P O A L L A M O D A INTORNO AD ALCUNI NUOVI SINTOMI FEMMINILI IL DOVERE DEL CORPO ALLA MODA Il corpo alla moda è il corpo che una donna deve avere per esistere come donna di fronte al sistema del grande Altro contemporaneo e al suo sguardo onnipervasivo. Sottolineo i due verbi: dovere e avere. Il dovere chiama in gioco il Super-io, qualcosa del quale invece le donne dovrebbero, almeno secondo Freud, essere prive. L'avere è invece in opposizione all'essere e per Lacan definisce in particolare il modo della sessuazione maschile, cioè la relazione dell'uomo col fallo. Posso allora esprimere più semplicemente la mia tesi di fondo: la sessuazione femminile è attualmente sempre più confusa con quella maschile e questa confusione genera nuovi sintomi femminili. AVERE UN CORPO Le donne parlano attraverso il corpo. E il grande insegnamento dell'isteria. Freud leggeva questa possibilità di parlare attraverso il corpo o di fare del proprio corpo una scena, un discorso, una scrittura, un tratto peculiare del rapporto delle donne con il loro inconscio. Mentre la nevrosi ossessiva, elettivamente maschile, agisce come una barricata nei confronti del corpo e dell'inconscio - l'ossessivo si vorrebbe puro Io, spirito senza corpo, pura forma senza forza, pura volontà di controllo senza cedimenti, né mancanze - , le donne hanno un rapporto elettivo con l'isteria, nel senso che vivono la mancanza come costitutiva del rapporto con il loro corpo. Questa mancanza è legata certamente anche al fatto che il sesso femminile non è visibile, non appare, non può specchiarsi, non trova facilmente il suo posto nell'immagine. Tuttavia il suo fondamento più sostanziale, come ricorda Lacan, è che per Freud non esiste un significante in grado di rappresentare la femminilità, poiché il solo significante che esiste nell'inconscio è quello fallico. Per questa ragione si può affermare che la specularizzazione femminile è sempre inadeguata o, meglio, illustra come la costituzione dell'immagine del proprio corpo sia sempre sbilanciata, incompiuta, detotalizzata. E ciò che fa orrore all'ossessivo il cui programma è avverso alla sessuazione femminile: esso vorrebbe espellere ogni mancanza dal corpo, cementificare il suo essere, purificare, emendare il proprio corpo, macchinizzarlo, renderlo asetticamente strumentale. L'isterica realizza invece il corpo come un corpo-teatro, un corpo dove il desiderio inconscio prende la parola. E proprio per questo il corpo sfugge, manca sempre di qualcosa, non è mai del tutto a disposizione del soggetto. Il corpo femminile incarna allora l'alterità del corpo in quanto tale. Per questa ragione le donne parlano con il corpo e attraverso il loro corpo. Nel doppio senso: il corpo prende la parola nei sintomi e le donne sono sensibili a una auscultazione particolare del loro corpo che parla. La figura clinica dell'isteria non insegna solo che il corpo parla e parla là dove soffre, nei sintomi, nelle cifrature enigmatiche scritte sulla carne del corpo, ma anche che il corpo sfugge sempre a ogni disegno di padronanza dell'Io. Il corpo isterico rivela, infatti, una plasticità camaleontica, metamorfica, imprevedibile che l'Io non può affatto governare. Questo aspetto del corpo isterico ci pone di fronte non a una patologia ma a una verità: il corpo non è mai una proprietà del soggetto. È l'illusione filosofica di una certa fenomenologia pensare che io sono il mio corpo e che il mio corpo è ciò che io più profondamente sono, ovvero pensare che io non ho ma sono il mio corpo} Contro questa identificazione di soggetto e corpo la psicoanalisi insegna che, in realtà, non posso mai far coincidere il mio essere con il mio corpo. O, se si preferisce, che il corpo è sempre mio ma solo nella forma di non essere mai del tutto mio. Il corpo non è mai al mio servizio, non è mai riducibile allo strumento che io sono, non risponde ai comandi della mia volontà, come 1. P e r essere giusti con la fenomenologia, n o n bisogna misconoscere lo sforzo di autori c o m e Merleau-Ponty di interrogare, al di là di una sbrigativa identificazione di c o r p o ed esistenza, il carattere ambiguo del r a p p o r t o del soggetto con il c o r p o proprio, il quale n o n è mai del tutto "proprio ". Su questo vedi M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, tr.it. Bompiani, Milano 1993. U n c o m m e n t o lucido della posizione merleau-pontyana che segue la direzione di una problematizzazione, interna alla tradizione fenomenologica, della nozione di corpo p r o p r i o si trova in F. Leoni, Senso e crisi. Del corpo, del mondo, del ritmo, Edizioni e t s , Pisa 2005. Più in generale sul tema del corpo, dello stesso autore, vedi anche Habeas corpus. Sei genealogie del corpo occidentale. Bruno M o n d a d o r i , Milano 2008. coglie, non senza una certa quota di angoscia, il piccolo Hans esposto alle prime ingovernabili erezioni del suo "fapipì". Il corpo pulsionale, il corpo della psicoanalisi, manifesta una eccentricità di fondo; il mio corpo è un corpo che non è mai proprio mio, il mio corpo non è mai del tutto un corpo proprio. E ciò che illustrano senza equivoci il dolore, la malattia e la morte, ma anche l'eccitazione sessuale. Ed è per questa ragione che i momenti in cui ci dimentichiamo del corpo sono i momenti di maggiore leggerezza e di abbandono. Solo quando il corpo tace, nel silenzio vitale dei suoi organi,2 posso permettermi di non pensare al mio corpo, posso sentirmi unito al mio corpo, posso sperimentare una coincidenza con il mio essere del tutto particolare: mi posso abbandonare nel mio corpo, nel suo silenzio vitale, perché non lo sento più come un'alterità ingovernabile che incombe, ma come la stoffa del mio stesso essere. Su questa linea di pensiero Lacan ha definito il corpo umano come il luogo dell'Altro.3 Cosa significa? Due cose essenzialmente. Primo significato: il corpo è fabbricato, prodotto, concepito dall'Altro. E il risultato di una serie stratificata di condizionamenti culturali, di tagli simbolici, di operazioni di linguaggio. L'essere umano, in questo senso, è destinato ad abitare un corpo che non ha scelto e che risulta da una serie di prese discorsive e di assoggettamenti alle leggi dell'Altro. Da questo punto di vista il soggetto non è il suo corpo ma lo abita, non lo è ma lo ha. Secondo significato: il soggetto ha il suo corpo senza però che questo mai gli appartenga, o meglio, senza averne il governo. La psicoanalisi insiste proprio su questo punto: il soggetto ha un corpo ma non ha il governo del suo corpo. Ha il "suo" corpo senza mai averlo davvero, senza possederlo, senza che sia davvero mai proprio il "suo". Questo avere non definisce dunque mai una relazione di proprietà ma, casomai, di improprietà. Allora, per riprendere la formula di Lacan, il corpo è il luogo dell'Altro anche nel senso che mi sfugge, che è l'indice di un Altro interno, di un'alterità interna, di una presenza che mi fa esistere, ma che posso vivere solo come una eccentricità indomabile. In questo senso l'ultimo Lacan può porre a giusto titolo l'inconscio dalla parte del corpo recuperando un punto centrale della riflessione di Freud sul corpo pulsionale in quanto ingovernabile. Porre, dunque, come fa Lacan, il corpo come il luogo dell'Altro significa, per un verso, sostenere che il corpo umano è fabbricato dal si2. "La salute è la vita nel silenzio degli organi", recita la famosa formula del chirurgo francese René Leriche (1936). 3. Vedi J. Lacan, Radiofonia e televisione, cit., p. 20. gnificante, dai condizionamenti culturali, dalle leggi dell'Altro alle quali esso è necessariamente assoggettato e, per un altro verso, sostenere che il corpo, pur essendo mio, pur avendo io con il corpo una relazione d'avere, di proprietà esistenziale, di coincidenza d'essere, per esprimerci ancora più radicalmente, è però anche ciò che si manifesta come un'alterità inassimilabile, come, appunto, il luogo dell'Altro impossibile da governare. L'INGOMBRO FALLICO Possiamo considerare che questa alterità ingovernabile del corpo sia una matrice sensibile dei sintomi femminili? La clinica psicoanalitica accerta con regolarità che il disagio femminile sceglie come suo luogo privilegiato di manifestazione il corpo. Il corpo e la sua ingovernabilitàalterità diventa un sintomo insistente nelle donne. Perché? Perché questa maggiore affinità del corpo col femminile o, rovesciando la prospettiva, perché questa maggiore affinità del femminile col corpo? Perché, come pensava lo stesso Freud, le donne essendo senza Super-io, senza coscienza morale, sarebbero più predisposte a sprofondare nell'abisso senza fondo del corpo? Ricordiamo che per Freud il soggetto del disagio della civiltà è fondamentalmente l'uomo. E l'uomo che paga il prezzo della rinuncia pulsionale imposto dal programma della Civiltà, è l'uomo che soffre di Super-io, non la donna. 4 La prospettiva lacaniana fa fare un giro nuovo al discorso freudiano. Per Lacan non avere il fallo non è una condizione di minorità della donna rispetto alla sessuazione maschile. Per certi versi egli rovescia la prospettiva freudiana dell'invidia del pene. Il fallo non è il simbolo del potere quanto piuttosto di una certa idiozia, di un ostacolo, di un ingombro del soggetto. Diversamente dalla sessuazione maschile, quella femminile non sarebbe affatto ingombrata dal fallo.5 Cosa significa? Perché Lacan insiste sull'idea che il fallo possa essere un ingombro? Nella sessuazione maschile il fallo immaginario indica il prestigio dell'avere. Ma può anche indicare il rapporto particolare che l'uomo ha con il suo proprio corpo, nel senso che un uomo può trattare il suo 4. La eco hegeliana di questa posizione freudiana è evidente. Nella sua lettura di Antigone, per esempio, Hegel insiste nel porre Antigone come espressione della Legge del particolare-familiare irrisolvibilmente in attrito con quella pubblica della città e delle sue Leggi universali. 5. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), tr. it. Einaudi, Torino 1983. In generale sulla riflessione di Lacan sulla femminilità rinvio a un testo fondamentale com'è quello di C. Soler, Quel che Lacan diceva delle donne, tr. it. Franco Angeli, Milano 2005. corpo come se fosse un fallo. Accade, per esempio, nel culto maschile, tipicamente ipermoderno, dei muscoli, del corpo palestrato, prestazionale. Certo, anche il fallo può manifestare una sua irrequietezza, una sua alterità. Accade con una quota di angoscia, come abbiamo già ricordato, al piccolo Hans quando scopre che il suo "fapipì" sfugge al governo della sua coscienza. Ma fondamentalmente il fallo resta uno strumento a disposizione dell'uomo. L'uomo non è ma ha il fallo; la sua posizione è davvero quella del proprietario. E proprio in questo senso l'ingombro fallico è sempre il rovescio della castrazione. Ma cosa significa utilizzare il metro fallico come organizzatore del proprio godimento? Significa che il godimento del corpo maschile è tendenzialmente limitato, organizzato, computabile, circoscritto dall'organo fallico. Significa anche che nella sessuazione maschile il godimento sessuale è delimitato e ordinato dalla funzione simbolica della castrazione. Il godimento fallico in quanto godimento localizzato dell'organo è un godimento misurato e misurabile. Esso tende idraulicamente alla scarica. Il suo modello è quello del picco orgasmatico e della detumescenza. Non è, precisa Lacan, godimento dell'ai di là del fallo, non è godimento non-tutto fallico. Piuttosto può essere compulsivo, può tendere alla ripetizione monotona, seriale, macchinica come accade nel Casanova di Federico Fellini, dove l'accentuazione sapiente delle movenze meccaniche e ripetitive delle prestazioni sessuali del suo protagonista mettono in scena non solo il carattere fissato del fantasma maschile ma anche il suo fatale imparentamento con la dimensione più mortifera della coazione a ripetere. La condizione fallica della sessuazione maschile consiste per l'uomo nel limitare, localizzare, circoscrivere l'esperienza del godimento del corpo. La sua passione è una passione tendenzialmente accumulativa. E questo attaccamento all'avere produce una certa ebetudine, una forma particolare di idiozia. Non a caso Lacan ha definito il godimento maschile della masturbazione il godimento dell'idiota. L'uomo vincolato al prestigio immaginario del fallo si stacca con fatica dalla dimensione dell'avere restandone piuttosto irretito sino all'inebetimento... È ciò che fa infuriare certe donne. Descrivendomi l'ennesimo litigio che la contrapponeva al proprio partner, una giovane donna nel pieno del suo furore argomentativo - il cui contenuto consisteva nel rimproverare il suo partner di essere troppo attaccato alle cose e poco disponibile a dare segni del suo amore - e dopo aver minacciato di lasciare il suo convivente, non può che restare sbigottita di fronte alla calma olimpica con la quale il destinatario del suo discorso le chiede un momento di tregua per sistemare le "presine" della cucina che gli apparivano insopportabilmente in disordine... Quando Lacan parla del godimento fallico come di un ingombro intende sottolineare come nella sessuazione maschile si tenda a fare del corpo (del soggetto e dell'Altro) una proprietà. La nevrosi ossessiva è elettivamente maschile perché è una nevrosi che è fondata sull'avere, sul tormento dell'avere e che trova il suo paradigma nell'avaro di Molière: il godimento meschino dell'accumulazione prevale sulla trascendenza del desiderio. Il corpo femminile, al contrario, non è affatto ingombrato dal godimento fallico. Questo non significa che sia escluso dal godimento fallico, ovvero che non possa accedere al godimento dell'organo, ma che, in ogni caso, questo godimento, il godimento dell'organo, non inebetisce il soggetto, non diventa un assillo, non è condizionante il desiderio, non assorbe massivamente l'essere del soggetto. Per questo nella sessuazione femminile l'essere si pone al di là dell'avere, aldilà della misura fallica del godimento. L'assenza dell'ingombro fallico emancipa totalmente la problematica della sessualità femminile dal paradigma freudiano dell'invidia. Il non-tutto fallico del godimento femminile è un'occasione e non una malattia o un handicap. Non è una ferita narcisistica, ma un'apertura a un godimento eccedente la misura fallica, emancipato dall'avere, non ingombrato dall'esigenza mortifera della ripetizione cumulativa. LA POVERTÀ FALLICA COME RICCHEZZA A questo punto del nostro ragionamento possiamo accostare un punto sensibile nel rapporto tra la donna e il proprio corpo. Abbiamo sostenuto che la sessuazione femminile espone il soggetto più radicalmente all'improprietà del suo corpo rispetto alla sessuazione maschile. La sessuazione femminile prende corpo dalla mancanza del fallo, dal non avere il fallo. Questo implica una povertà e una ricchezza insieme. Essere senza ingombro fallico espone la donna all'indeterminatezza del corpo, all'angoscia del non governo del proprio corpo, alla sua oscurità, al carattere enigmatico della sua identità e dei suoi confini, a una instabilità permanente della sua specularizzazione narcisistica. Questa indeterminatezza può rendere una donna più dipendente dall'amore dell'Altro; senza l'avere fallico, per essere diventa essenziale poter rintracciare nell'Altro la risposta alla propria domanda d'amore. La donna è afflitta da un meno fallico e in questo senso è più povera e può ap- parire come più esposta alla depressione, soprattutto alle depressioni legate al fallimento del discorso amoroso, in quanto la perdita d'amore è una perdita d'essere che riattiva il non avere di fondo della donna, ovvero la traccia reale della castrazione scritta anatomicamente sul proprio corpo. Tuttavia, questo meno è anche un più. La donna senza l'ingombro fallico non solo è più povera, più angosciata relativamente alla natura della propria identità, più esposta alla dipendenza dalla domanda d'amore, ma è anche più alleggerita, priva di ingombri, più aperta alla contingenza e alle sue sorprese. La povertà del non avere fallico si rovescia così in una ricchezza di fondo: il godimento femminile è un godimento che si apre a una soddisfazione senza limiti, non localizzabile all'organo, non riducibile alla misura fallica. L'essere povera, senza avere, senza il prestigio immaginario della dotazione fallica si trasforma in una condizione di apertura potenziale all'essere assai più ricca, perché meno fissata all'accumulazione ripetitiva del godimento fallico. In ragione della particolarità di questa dialettica tra povertà e ricchezza che anima la sessuazione femminile, Lacan ha accostato il godimento della donna a quello del mistico. Nel mistico non accade forse la stessa emancipazione dall'incubo fallico dell'avere? Il godimento mistico è un godimento al di là dell'Uno, al di là della misura, al di là dell'avere, al di là dell'uniformità ripetitiva del godimento fallico. E un'altra soddisfazione, è un Altro godimento rispetto a quello ingombrato dal fallo. La figura del gatto colpiva Freud perché è una figura capace di tenere insieme la grazia e la forza, la bellezza e l'indipendenza. Egli ne faceva un'espressione paradigmatica della femminilità; la padronanza plastica della forza pulsionale, la realizzazione felice della donna. L'uomo sarebbe invece un animale più simile al cane. Ha bisogno di cure, di madre, di padroni. E un animale che rinuncia alla pulsione per obbedienza del Super-io; è un buon servitore del discorso del padrone; la sua selvaticità appare integralmente domata dalla Civiltà. LA DEGENERAZIONE IPERMODERNA DELLA VITA AMOROSA Il corpo alla moda è il corpo femminile che appare ingombrato dall'avere. I sintomi della femminilità nell'epoca ipermoderna sono sintomi che hanno come comune denominatore la riduzione del carattere infinito e improprio del corpo femminile al corpo definito dalla sessuazione maschile, al corpo caratterizzato dall'ingombro fallico. L'a- pertura infinita della donna al di là del fallo sembra ripiegarsi nel cerchio ristretto dell'avere-fallico. In questo senso preciso il corpo alla moda è il corpo che bisogna avere per essere. Con una nota aggiuntiva: senza passare dal desiderio dell'Altro. Il corpo alla moda è il corpo che non si tocca, che non entra nel circuito dello scambio sessuale. E il corpo che funziona come insegna identificatoria; è il corpo che risponde al discorso del capitalista, ovvero a quel discorso che eleva il fantasma maschile del possesso dell'oggetto di godimento a sistema. Per questa ragione, come è stato notato da più parti, la degenerazione della vita amorosa non è più una prerogativa esclusiva dell'uomo. Freud l'aveva pensata come tipica della sessuazione maschile: l'uomo sceglie la propria donna, la donna che ama, sul modello inconscio della madre e sceglie la donna con la quale godere sul modello della prostituta. In questo modo egli scinde la dimensione dell'amore da quella del godimento stabilendo una loro presenza alternativa. E questa quella che Freud definisce la più comune degenerazione della vita amorosa dell'uomo. Attualmente questa scissione tra godimento e amore non solo caratterizza anche la psicologia della vita amorosa femminile, ma è divenuta una vera e propria pedagogia della postmodernità. Il sesso senza amore è apertamente teorizzato dagli spiriti cosiddetti liberi come una virtù. Esso segnalerebbe la liberazione della sessualità dal senso di colpa dopo secoli di oppressione. Segnalerebbe il corpo come luogo di sperimentazioni sessuali positive e autonome nei confronti delle responsabilità che comporta necessariamente la scelta d'amore. Rispetto a questi entusiasmi edonistici la psicoanalisi si mantiene in una posizione apertamente critica. L'esperienza clinica ci insegna che la disgiunzione di sesso e amore, se viene eletta a metodo, produce solo ricambio metonimico di partner ma in questo ricambio continuo dell'oggetto ciò che il soggetto non può non constatare è che... l'insoddisfazione resta la medesima! L'oggetto trionfa sotto la forma del partner da consumare, ma in questa consumazione non c'è soddisfazione ma solo ripetizione della stessa insoddisfazione: la logica chiusa dell'accumulazione fallica si sostituisce a quella aperta del non-tutto della sessuazione femminile. SINTOMI DELLA MATERNITÀ Un altro effetto della generalizzazione ipermoderna della degenerazione della vita amorosa è un rifiuto sempre più diffuso della maternità che colpisce molte donne. La maternità non è più il modo attraverso il quale una donna si riappropria del fallo assente (secondo la lettura freudiana dell'equivalenza bambino=fallo), ma è diventata per molte donne un handicap che ostacola la carriera e l'affermazione di sé, dunque un motivo di svalorizzazione fallica. E un modo per cancellare la potenza fallica della donna. Anche la clinica medica dell'infertilità conferma che si moltiplicano casi di infertilità femminile senza che vi siano danni organici. L'ingombro fallico si manifesta qui come impossibilità di accesso della donna alla maternità poiché la maternità corrompe l'immagine fallica della donna proposta dal discorso sociale dominante. Ritroviamo qui una verità del discorso freudiano sulla maternità: per avere il fallobambino bisogna non averlo, solo a questa condizione il fallo-bambino può offrire una contropartita significativa alla castrazione simbolica. Diversamente l'immagine della donna fallica è un'immagine che nega la castrazione perché tende a sopprimere la differenza sessuale, l'impossibilità di essere l'Uno e l'Altro sesso. In questo senso possiamo indicare come esemplare quei casi dove la maternità viene essa stessa esibita come l'espressione di una potenza fallica. L'esibizione ostentata dei ventri gravidi è un fenomeno assolutamente contemporaneo. Ciò che viene esibito non è tanto il bambino-fallo, ma il corpo della donna che ha il fallo o della donna-madre che manifesta una autoconsistenza chiusa su se stessa, senza implicare il terzo, dunque prescindendo dall'esistenza o meno del padre, rigettando la castrazione e la differenza sessuale che essa implica. L'ingombro fallico prende qui la forma del ventre gravido esibito come fallo immaginario o del figlio generato da sola. Un'ultima attuale versione aberrante della maternità è quella della mérversion.b Si tratta di una trasformazione dell'Altro sociale che colloca quest'ultimo nella posizione della madre che con solerzia risponde ai bisogni del bambino senza tener conto della necessità di preservare uno spazio di mancanza affinché il bambino possa soggettivare il proprio desiderio. Nel regime ipermoderno della mérversion l'Altro anticipa il tempo dell'emergenza del desiderio soggettivo asfissiando il soggetto con l'offerta continua delle proprie cure.7 L'Altro sociale è un Altro che tende a soddisfare la domanda senza però preoccuparsi di costituire uno spazio insaturo che renda possibile l'emergere della singolarità del desi6. Vedi P. Lebrun, Le perversioni ordinaire, cit., p. 261. 7. Un approfondimento originale di questa prospettiva riferita al funzionamento del cosiddetto Welfare si trova in L. Bazzicalupo, "La diseguaglianza oblativa: soggettivazione/assoggettamento", in E. de Concilis (a cura di), Dopo Foucault. Genealogie del postmodernismo, Mimesis, Milano 2007, pp. 177-213. derio. In questo senso esso eredita il modello dell'onnipotenza materna. L'Altro sociale della mérversion è un Altro non svezzato che rigetta il trauma del padre, dunque che rifiuta l'esperienza della separazione. DEPRESSIONI FEMMINILI Le depressioni femminili segnalano tendenzialmente l'effetto della caduta fallimentare della domanda d'amore. Senza l'amore il dolore di esistere è più forte e la vita è esposta al suo reale più brutto. Nelle donne c'è una sensibilità speciale nei confronti del discorso amoroso che dipende dalla presenza reale della castrazione e dalla relativa esigenza di "curare" questa ferita attraverso l'amore, attraverso l'essere-amata. 8 L'intruppamento femminile attuale sul lato della sessuazione maschile sembra ridurre questa importanza della funzione dell'amore. Tuttavia, quello che lo psicoanalista può notare è che il prezzo dell'affermazione fallica a cui molte donne sembrano votarsi è una delle ragioni che spiegano la diffusione crescente della depressione femminile. Non si tratta però più di una depressione che riflette la frustrazione della domanda d'amore o la perdita di un oggetto d'amore, ma di una nuova forma di depressione che riflette più semplicemente l'assenza della domanda d'amore come tale. Molte donne depresse sono donne che si sono immolate al prestigio immaginario del fallo, al principio di prestazione che sostiene l'assimilazione dell'essere all'avere, al carattere incalzante della dimensione competitiva che definisce il discorso del capitalista. Ma vivere senza amore è contrario alla logica della sessuazione femminile. Possiamo ascoltare allora in seduta donne che si sono dedicate senza riserve alla competizione fallica e si sentono svuotate, fuori da se stesse, estranee al mondo che hanno scelto e per il quale hanno spesso sacrificato la propria vita. L'ingombro fallico le ha assimilate alla ebetudine propria della sessuazione maschile. In questo senso la depressione femminile tende oggi ad assumere delle forme meno acute e più croniche; le forme di una insoddisfazione triste, di un allontanamento conformista dalla singolarità del proprio desiderio. E l'effetto dell'ingombro fallico; è la depressione per eccesso di avere. 8. Uno sviluppo di questa tesi si trova in C. Soler, Quel che Lacan diceva delle donne, cit., pp. 78-85. LE ANORESSIE L'anoressia rinforza invece, come abbiamo visto ampiamente nella seconda parte di questo libro, il corpo come territorio di conquista, come corpo proprio, come corpo disciplinato e controllato, come corpostrumento. Essa assimila il corpo a un idolo fallico. Ma qui il fallo non è più uno strumento del godimento del corpo dell'Altro (come accade nella sessuazione maschile), ma identifica l'essere del soggetto. E strumento di affermazione prestazionale. Mentre nella posizione femminile, secondo Lacan, essere il fallo, identificarsi al significante fallico, significa essere ciò che causa il desiderio dell'Altro, ciò che identificandosi alla mancanza dell'Altro in quanto tale suscita il desiderio dell'Altro, l'essere il fallo dell'anoressia significa essere la sola, una sola, l'Una da sola che consiste di se stessa senza affatto incarnare la mancanza dell'Altro causandone il desiderio. In questo senso l'anoressia nell'epoca dell'amore liquido, dei legami fluidi con l'Altro, mostra la faccia in ombra della liquidità ipermoderna. Il legame con il proprio corpo è per lei l'unico legame solido che conta. Non c'è liquidità ma cristallizzazione del legame. L'anoressia è la glaciazione del carattere liquido del discorso amoroso ipermoderno. Si tratta di una forma di igienismo spinto all'estremo. L'igienismo mortifero, come si esprimeva una mia giovane paziente, del "bisogno di non avere più bisogni". La cristallizzazione del corpo anoressico prova a riparare patologicamente la liquidità strutturale dell'identificazione femminile. Il sesso femminile non si specchia, non si può riflette, non può prendere una forma visibile, è forcluso dall'immaginario. Per questo Freud poneva nel fallo il solo significante possibile per entrambi i sessi. Di fronte alla difficoltà di questa identificazione l'anoressia sembra invece poter offrire una soluzione inedita: il mio corpo è il mio scheletro. Questo significa che l'indeterminatezza dell'identificazione sessuale viene risolta attraverso una pietrificazione dell'identità unisex. Il corpo magro come nuova icona sociale assume il valore immaginario di un fallo potente sebbene sterile, o, meglio, potente proprio in quanto votato drasticamente alla sterilità. GLI ATTACCHI AL CORPO Esiste una serie di sintomi tipicamente femminili che possiamo rubricare sotto la figura lacaniana del rifiuto del corpo. Essi possono prendere le forme di passaggi all'atto autolesivi, somatizzazioni varie, crisi di panico o crisi bulimiche, altre forme di dipendenze (da droghe, da alcol), usi compulsivi della sessualità, ripetute operazioni di chirurgia estetica, tagli, piercing, depilazioni dolorose, maltrattamenti infantili o passaggi all'atto uxoricidi, sino a casi estremi di suicidio... Insomma sotto la categoria del rifiuto del corpo possiamo radunare tutta una clinica dell'acting out femminile del corpo oggi estremamente diffuso. Questa nozione, come già sappiamo, è stata proposta da Lacan per completare quella più classica, di matrice freudiana, di conversione o di compiacenza somatica nel quadro di un rinnovamento della clinica dell'isteria. Si tratta del rifiuto del proprio corpo e del corpo dell'Altro, del rifiuto del corpo "proprio" in quanto alterità che sfugge a ogni governo possibile e del corpo dell'Altro in quanto luogo di angoscia. Come abbiamo visto, nella sessuazione femminile questa alterità del corpo emerge in tutta la sua opacità in quanto la misura fallica non è in grado di rappresentare questa stessa alterità. Per questa ragione Freud aveva definito la sessualità femminile come un "continente nero" impossibile da colonizzare attraverso la forza omogenea del principio fallico. Tuttavia il rifiuto del corpo assume un carattere apertamente patologico laddove si riferisce al rifiuto della differenziazione sessuale del corpo o, se si preferisce, al rifiuto della differenza sessuale come tale. In questa declinazione il rifiuto del corpo è una modalità di rifiuto della castrazione. La contestazione del primato del fallo non è solo contestazione della misura fallica, della riduzione dell'essere del soggetto all'avere fallico, ma anche della castrazione che il fallo in quanto simbolo di un godimento limitato, regolato, sanzionato dalla Legge, rappresenta. Il rifiuto del corpo diventa allora rifiuto della mortificazione del godimento che il godimento fallico, come godimento promosso dall'azione del linguaggio implica necessariamente. L'assunzione soggettiva della castrazione, diversamente dal rifiuto del corpo, renderebbe possibile il ritrovamento del godimento perduto prodotto dall'azione simbolica della castrazione, nell'incontro con l'Altro in quanto partner sessuale. E, invece, nella clinica del rifiuto del corpo femminile, al posto di questo incontro abbiamo l'esperienza della negazione del corpo nella sua alterità sessuale. In questo caso si potrebbe dire che la dimensione del rifiuto del significante fallico (del fallo simbolico) come significante della castrazione preserva il corpo dalla differenza sessuale anche se questo rifiuto si esprime attraverso un attacco distruttivo rivolto al corpo. La clinica del rifiuto del corpo è una clinica di acting out che colpiscono nel reale il corpo con tagli reali ma solo per sottrarlo al taglio simbolico della castrazione. Un altro aspetto di questo attacco al corpo si manifesta in una sessualità che essendosi, come abbiamo visto poc'anzi, sganciata dal discorso amoroso, avviene nella forma di ripetuti passaggi all'atto del corpo, dove la scarica pulsionale si separa dalle parole, dalle attese e dalle fantasie che invece offrono la cornice fantasmatica indispensabile per evitare che la pulsione sessuale scivoli verso la pulsione di morte. Il consumo perverso del corpo sessuale rende attualissima la versione sadiana del godimento: "Prestatemi la parte del vostro corpo che può soddisfarmi un istante, e godete, se ciò vi piace, di quella del mio che può esservi gradevole". 9 Il corpo femminile per un verso entra sul mercato del fantasma feticistico maschile offrendosi come corpo da godere, come corpo scomposto, fatto a pezzi, feticizzato, ma per un altro verso - e questo definisce il carattere inedito di questo uso femminile del corpo - contende all'uomo la sua stessa ossessione feticistica: trasformare perversamente il corpo dell'Altro in un "pezzo", in uno strumento, in un puro oggetto di godimento. Nelle donne l'uso compulsivo della sessualità, sempre più diffuso, dunque diffuso come negli uomini eterosessuali e negli omosessuali, sembra fare a meno della cornice offerta dal fantasma, si sgancia dalle parole e dalle fantasie e sembra puntare semplicemente a evadere l'angoscia più che a sostenersi sul desiderio dell'Altro. Come accade in un certo uso tipicamente maschile della sessualità, la scarica pulsionale viene adoperata per raggiungere un godimento d'organo immediato che cancella il desiderio e la quota di angoscia che esso comporta. Questa assimilazione fallico-feticistica della vita sessuale femminile è un frutto bacato dell'iperedonismo contemporaneo e non il prodotto di una liberazione effettiva della sessualità e dell'erotismo. Piuttosto, si tratta di una pratica del sesso - molto diffusa soprattutto tra i giovani adolescenti - che riduce il corpo a mero strumento di godimento. Il godimento senza confine del corpo femminile - quello che Lacan definiva come Altro godimento per differenziarlo dal godimento fallico in quanto godimento circoscritto dell'organo - ha come condizione il lasciarsi andare, il perdersi, l'abbandonarsi ma solo sullo sfondo di una soggettivazione della castrazione. Al contrario l'agire sessuale di molte donne non raggiunge affatto questo Altro godimento, ma resta impigliato nella più comune degradazione della vita sessuale maschile: godere del pezzo staccato del corpo, godere della scarica pulsionale sganciata da ogni discorso amoroso. Allora il lasciarsi andare, il 9. J. Lacan, IlSeminario. Libro va, cit., p. 257. perdersi, l'abbandonarsi, anziché condurre all'infinito dell'Altro godimento non tutto fallico, finisce per diventare una manifestazione della pulsione di morte. In certe giovani adolescenti l'estremo libertinismo sessuale si mescola apertamente a comportamenti a rischio dove il consumo della sessualità non è affatto una manifestazione della vitalità del desiderio ma della sua dissipazione, non è una liberazione del proprio corpo ma il suo rifiuto. LE SOLITUDINI La solitudine femminile può configurarsi come una risposta alternativa a questo rifiuto del corpo. Questa scelta per molte donne non consiste semplicemente nello slegarsi dall'Altro, nell'elevare l'assenza come partner, ma nel separarsi da quella logica avida del consumo e di appropriazione che anima la sessuazione maschile e, più in generale, il dicorso del capitalista. In questo senso essa è affine alla logica stessa della sessuazione femminile che, come abbiamo visto, non si fonda sul principio fallico dell'avere, ma sull'impossibilità di identificare il godimento femminile attraverso una misura standard, universale, omogenea. La scelta della solitudine, quando è autentica, avviene sempre salvaguardando la particolarità del soggetto di fronte alle sue aggregazioni anonime e desoggettivanti. Un universo crescente di donne sembra davvero scegliere l'assenza di partner come condizione per accostare il mistero della sessuazione femminile. Anziché diventare la sola per un uomo, esse scelgono di essere non le sole, ma sole. Questa scelta è una scelta che comporta la rinuncia all'avere: avere il fallo, avere un uomo, avere prestigio, riconoscimenti ecc. Per questa via di separazione la scelta della solitudine può avvicinare una donna, accostandola all'assenza, dunque a una verità profonda della struttura: non esiste un significante in grado di rappresentare esaustivamente l'essere del soggetto; non esiste un significante capace di delimitare il godimento femminile; non esiste La donna in senso universale. La forza di certe donne che oggi scelgono questa via è quella di saper rendere l'assenza di un significante capace di dire cosa una donna è, uno stato di sospensione senza però angoscia. Ecco perché la solitudine in questa epoca di legami liquidi, apparenti, molecolari, effimeri, privi di stabilità e di orientamento, nell'epoca dell'obbligazione alla festinazione maniacale collettiva, può esercitare un fascino speciale su molte donne. Si tratta di un nuovo sintomo femminile? Lasciare perdere gli uomini, lasciare perdere il godi- mento fallico, lasciare tutto e tutti? È questo effettivamente un modo possibile di declinare l'apertura femminile all'infinito del non-tutto fallico? Possiamo giudicare moralisticamente questa tensione come cinica o antisociale? L'analisi dimostra che il tempo della solitudine s'impone sempre come un tempo fondamentale in ogni percorso di soggettivazione. Separarsi dalla domanda dell'Altro per assumere il proprio desiderio definisce un passaggio esistenziale che esige una quota inevitabile di solitudine. In questo senso possiamo affermare che la solitudine è l'inverso dell'isolamento. La scelta femminile per la solitudine non è dettata dal voler essere la sola per l'Altro. Essa significa piuttosto la possibilità di assumere la propria lesione e la propria insufficienza come costitutiva. Per questa ragione la solitudine resta il fondamento etico di ogni legame autentico. Per una donna accettare questo passaggio può risultare particolarmente difficile perché è la presenza dell'Altro - il segno d'amore - che può confortare la sua assenza di avere. Tuttavia, proprio perché la solitudine alleggerisce il rapporto della donna con l'ingovernabilità extrafallica del suo godimento, del suo corpo inconscio, essa può esercitare per alcune un forte fascino con implicita anche una certa quota di illusione relativa al porre la solitudine come una risoluzione finale (impossibile) della disarmonia strutturale tra i sessi e dell'inesistenza del rapporto sessuale. E vero: l'analisi tende a ridurre le aspettative femminili (infinite) della domanda d'amore non perché assume l'amore come una mera illusione narcisistica (questa era la prospettiva di Freud), ma perché ritiene che senza questa riduzione del carattere infinito e idealizzante della domanda d'amore non vi sia possibilità alcuna per una donna di incontrare un amore reale.10 La spinta alla solitudine che troviamo in certe donne sembra essere una risposta anoressizzante alla girandola degli oggetti-gadget promossi dal discorso del capitalista. Ma la tendenza alla separazione assoluta, all'abbandono e alla deriva appartiene alla sessuazione femminile in quanto tale, in quanto eccedente l'ormeggio stabile garantito dalla misura fallica. Sfuggendo al drenaggio fallico del godimento la sessuazione femminile può essere una via per operare un trattamento sublime della solitudine. E questa un'altra ragione che portava Lacan a fare convergere il godimento femminile con quello mi10. Sul lato della sessuazione maschile il problema mi pare invece essere quello di come rendere possibile l'amore per l'Altro di fronte a un fantasma che invece orienta la vita nella direzione cinica dell'affermazione dell'Uno fallico, dunque del prestigio dell'avere che esclude l'incontro con la mancanza. stico: fare del buco impossibile da rappresentare, di questo niente che abita il corpo della donna, la condizione di una creazione non omogenea e singolare. Gennie Lemoine ricorda che da bambina il suo gioco preferito era quello di ricalcare con forza, sino a strapparli, i fogli di una pagina. Si trattava ogni volta di andare oltre i limiti, di non arrestarsi mai, di andare sino in fondo. Col tempo questo gioco venne sostituito con un altro un po' più complesso. Si trattava di tagliare i pezzi di stoffa alla ricerca del proprio abito ideale. Ma quale è il proprio abito ideale? Esiste? E possibile tagliare il nostro abito ideale prendendo lo spunto da un abito che già esiste? No, l'abito ideale, il nostro abito ideale, non esiste mai a priori, non ha un modello preconfezionato al quale riferirsi, non ha un originale al quale ispirarsi. Nemmeno una madre sarà mai l'abito ideale di una donna. Si tratta piuttosto, scrive Gennie Lemoine, per ciascuna donna "di tagliare nel magma per generare una forma; prima del taglio non c'è niente; dopo c'è solo una forma, un tratto e un resto inassimilabile". 11 11. G. Lemoine-Luccioni, Psicoanalisi della moda, tr. it. Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 19. Vedi anche della stessa autrice, Il taglio femminile: saggio psicoanalitico sul narcisismo, tr. it. Edizioni delle donne, Roma 1977. LA C L I N I C A D E L L A M A S C H E R A E LE N U O V E PATOLOGIE DELL'IDENTIFICAZIONE IL CAMERIERE DI SARTRE In alcune giustamente celebri pagine di L'essere e il nulla di Sartre incontriamo una nozione particolare di maschera. Mi riferisco a quelle pagine che, nell'ambito della teoria sartriana della malafede (mauvaise foi), immortalano la figura compita ed estraniante del garçon de Café. Un cameriere si muove rapido e solerte tra i tavolini di un Caffè, accoglie e serve i clienti con gentilezza ed efficienza senza tralasciare nulla. E un cameriere impeccabile. Tuttavia qualcosa di eccessivo e di caricaturale si manifesta nell'aderire integralmente di questo soggetto alla sua funzione sociale e professionale. C'è qualcosa di troppo nel suo "fare" il cameriere. Cos'è di troppo? Cosa sta facendo questo cameriere impeccabile? A quale logica risponde la sua azione meccanica? Risposta di Sartre: gioca. Ma a quale gioco così serio, serissimo, gioca? Risposta di Sartre: questo cameriere gioca a essere.1 Troviamo qui una prima significazione della maschera. Ma cosa significa, dunque, giocare a essere? Non troviamo forse in questa formulazione un'indicazione preziosa per intendere un possibile uso clinico della maschera? Giocare a essere significa infatti negare quell'essere di mancanza che l'essere parlante è. Giocare in malafede a essere significa porsi come un soggetto compatto, identico a se stesso, senza fessure. Siamo di fronte a una sorta di metamorfosi: l'essere umano, la realtà umana, l'essere del soggetto che non è mai ciò che è ma che patisce di una divisione strutturale e costituente che lo separa irreversibilmente da se stesso, la realtà umana che è, come insegna anche Lacan, "mancanza a essere", at1. J-P. Sartre, L'essere e il nulla, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1980, pp. 100-101. traverso la malafede della maschera si pone come una sufficienza d'essere, come un essere che è ciò che è, come un essere compatto, solido, come una identità tautologica che non lascia iati: un cameriere non è altro che un cameriere. Nella sua identificazione rigida alla maschera sociale che lo rappresenta viene infatti soppressa quella mancanza a essere che invece strutturalmente determina l'essere del soggetto: esso è semplicemente ciò che è. E l'automa senza desiderio della sua funzione. In primo piano compare qui un'identità che sembra annullare ogni differenza tra l'essere del soggetto e il suo sembiante sociale. E questa dunque una nozione "clinica" di maschera che possiamo estrarre da Sartre: la maschera è quella funzione immaginaria che cancella ogni divisione del soggetto e che sopprime ogni differenza tra l'essere del soggetto e il suo sembiante? In altri termini, la funzione maestra del significante - che è quella di rappresentare un soggetto per un altro significante in modo tale che l'essere del soggetto risulti ogni volta irrappresentabile per un solo significante - sembra messa in questione perché questa versione della maschera mina l'azione rappresentativa del significante in quanto non si presenta come un velo della verità ma come l'essere proprio del soggetto. Il cameriere di Sartre ci indica un altro utilizzo della maschera rispetto a quello che possiamo trovare classicamente in Freud. Nel testo freudiano mascherare è un'attività dell'inconscio. Le formazioni dell'inconscio appaiono infatti come delle cifrature enigmatiche, come mascherature del desiderio del soggetto (Freud dixit: "Il raffiguramento del sogno è una mascheratura"). Nel caso del cameriere di Sartre siamo invece di fronte a una maschera che non rappresenta il soggetto, per esempio, per un'altra maschera, come insegna il gioco isterico delle identificazioni o quello della trama stratificata del sogno che rappresenta il soggetto lungo una catena labirintica di rinvii e condensazioni significanti (e come insegna la struttura stessa del soggetto che, come tale, ovvero in quanto non identico a se stesso, è sempre mascherato), ma lo realizza come indiviso, lo incarna come essere, lo ipostatizza. È questa la ragione di fondo dell'omaggio che Lacan riserva alla clinica delle "personalità come se" di Helene Deutsch, nella quale i soggetti non hanno accesso al gioco del significante se non per la via fittizia di un'imitazione esteriore. 3 2. Questa soppressione implica l'affermazione, in sé delirante, del soggetto come uno, come indiviso. Bisogna, infatti, ricordare che questa è una delle definizioni che Lacan ci offre della follia: "Se il soggetto umano non è più diviso, è folle". Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro V (19571958), tr. it. Einaudi, Torino 2004, p. 441. 3. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro III. Le psicosi (1954-1955), tr. it. Einaudi, Torino 1985, p. 299. La nostra tesi è che questa incarnazione ipostatizzata dell'identità, questa identificazione solida, sia una versione della maschera che attraversa la clinica contemporanea, la clinica delle cosiddette nuove forme del sintomo. L'emarginazione del soggetto diviso che in tale clinica si produce è in effetti l'indice di una sua dimensione psicotica di fondo che può trovare anche nella clinica della psicosi in senso stretto una sua declinazione esemplare, 4 anche se però non vi si può ridurre: il sintomo come metafora - come ritorno del rimosso, come "significante di un significato rimosso" secondo la celebre e classica definizione di Lacan non è più centrale nell'anoressia, nella bulimia, nelle tossicomanie, negli attacchi di panico e nelle depressioni perché risulta sempre più centrale la tendenza ad agire, scavalcando la mediazione del simbolo, una spinta compulsiva al godimento mortifero che recide ogni possibile dialettica con l'Altro. Il fondo psicotico della clinica contemporanea riguarda in effetti proprio questa debolezza crescente del simbolo nella sua funzione di argine nei confronti del reale del godimento (effetto del declino della funzione normativa dell'ideale edipico) che va di pari passo con i ritorni di questo reale sul corpo del soggetto. Anoressia, bulimia, tossicomania, attacchi di panico e depressioni mostrano la forza devastatrice di questi ritorni e il loro motivo comune: la parola è surclassata dal godimento come evento del corpo non regolato dalla castrazione simbolica. UNA CLINICA DELLA MASCHERA L'insegnamento che si può trarre, in particolare, dalla clinica dell'anoressia è che la clinica contemporanea sia più una clinica della maschera che una clinica del sintomo. Il binomio "rimozione-ritorno del rimosso", che configura il carattere classico del sintomo come metafora del soggetto, sembra lasciare il posto al binomio "maschera-angoscia". In altre parole, in primo piano non è più tanto il sintomo come indice del desiderio inconscio, della sua indistruttibilità e della sua rimozione, ma la necessità di trattare difensivamente un'angoscia che sembra totalmente sganciata dalla dimensione inconscia del desiderio per investire invece il problema narcisistico dell'identità soggettiva come tale. 4. Si pensi in particolare alla funzione dell'iperidentificazione al sintomo che caratterizza quelle che Jacques-Alain Miller ha definito "psicosi ordinarie", ma anche al valore assoluto che può assumere l'identità rigida dell'Io nella paranoia. Vedi J-A. Miller (a cura di), La psicosi ordinaria, tr. it. Astrolabio, Roma 2000. Sulla paranoia come rifiuto della divisione vedi le pagine successive. Il binomio rimozione-ritorno del rimosso come base concettuale della nozione classica di sintomo ha, infatti, come suo protagonista principale il desiderio inconscio. Diversamente il binomio mascheraangoscia individua come protagonista una esperienza di assenza di desiderio, di nirvanizzazione del soggetto, una sua narcotizzazione radicale e disegna l'orizzonte inquietante di un al di là del principio del desiderio, dunque di un al di là del soggetto dell'inconscio come tale. In altre parole, questa desensibilizzazione della soggettività ipermoderna si produce non più per una emendazione delle passioni e degli stimoli secondo una linea di ascesi verticale - come avveniva invece nella prospettiva mistica del Nirvana - ma attraverso una loro accentuazione immaginaria. Lo spegnimento nirvanico del soggetto non avviene attraverso il distacco dall'oggetto del godimento ma per la via di un'"ipersazietà" paradossale: 5 il Nirvana contemporaneo si produce dall'incalzare dell'offerta maniacale dell'oggetto di godimento, che sospinge il soggetto verso una zona di godimento senza desiderio, di anestesia generata per eccesso di stimolazioni, offrendo l'illusione di annullare l'angoscia che attraversa il soggetto. Mentre il desiderio inconscio implica divisione e disequilibrio nei rapporti tra il soggetto e il programma della Civiltà, la clinica contemporanea, come clinica della maschera, come clinica dell'identificazione solida, riattualizza una nozione di "follia" non schreberiana, senza rottura dei rapporti del soggetto con la realtà; una follia provocata dalla cancellazione della soggettività in un suo iperadeguamento conformistico all'ordine sociale stabilito. In questi casi l'estinzione nirvanica del desiderio avviene attraverso una esasperazione dell'alienazione ai sembianti sociali anziché attraverso una loro dissoluzione critica.6 Nel binomio "rimozione-ritorno del rimosso" il sintomo tende a smascherare il soggetto dalle sue identificazioni immaginarie; il sintomo nevrotico non è, infatti, sul lato dell'identità ma piuttosto su quello della divisione, della frattura dell'identità, della non-coincidenza. In 5. Il termine ( Ubersatheit) è utilizzato da Helene Deutsch in "Bonheur, satisfaction et extase", in Les introuvables, Seuil, Paris 2000. 6. Jacques-Alain Miller ha definito una volta la psicosi (schreberiana) come una disintegrazione dei sembianti sociali, come un loro "fallimento" (vedi "La natura dei sembianti", corso svolto al Dipartimento di psicoanalisi dell'Università di Parigi vili, tr. it. in La psicoanalisi, 12, 1992, p. 159). Si p u ò aggiungere a questo proposito che il "fallimento dei sembianti" nella psicosi p u ò prendere sia la via della corrosione, disintegrazione (psicosi delirante), sia quella dell'identificazione rigida e compensatoria al sembiante sociale o professionale. Possiamo ritrovare qui una schematizzazione di Winnicott che distingue la psicosi come "perdita di contatto con la realtà" (psicosi delirante) dalla psicosi come perdita di contatto col proprio essere soggettivo, come separazione dall'inconscio (vedi D.W. Winnicott, Gioco e realtà, cit., pp. 121-122). questo senso esso espone la verità rimossa del soggetto al di là della maschera sociale di cui quest'ultimo può ricoprirsi. Il sintomo nevrotico non indica affatto la maschera ma la verità della maschera, o, se si preferisce, il cedimento della maschera, il suo scollamento dall'essere del soggetto. In questo senso molto generale si può affermare che il sintomo nevrotico sia l'operatore che favorisce la non-sovrapposizione tra l'essere del soggetto e il suo sembiante sociale. Possiamo per questa ragione trovare una clinica della maschera anche nel campo delle nevrosi. La maschera può offrire qui - come avviene nella nevrosi ossessiva una rappresentazione statuaria del soggetto (identità tra sintomo e carattere), oppure può prestarsi a sostenere l'enigma del desiderio dell'Altro, come avviene nell'isteria. Ma nel campo delle nevrosi l'uso della maschera si sostiene sempre sulla differenza tra l'essere del soggetto e il suo sembiante sociale. In questo modo mentre lo spirito di serietà dell'ossessivo può provare a compattare questo iato, l'isterica lo valorizza massimamente giocando con la verità e con le proprie identificazioni; può, per esempio, travestire il suo corpo fallicizzandolo, oppure rifiutarlo per sfidare la Legge fallica del padrone. Il suo essere è, infatti, alla ricerca di un abito identificatorio adeguato a partire da una insufficienza della sua specularizzazione narcisistica. Anche la nozione di "mascherata" (mascarade) di Lacan riflette questa possibilità dell'essere femminile di giocare nevroticamente con la maschera. La stessa arte femminile dell'abbigliarsi si basa tutta sulla differenza tra l'essere del soggetto e il suo sembiante sociale. Quest'arte ci insegna che il soggetto può introdursi nella mascherata in modo non patologico solo se relativizza la funzione stessa della maschera che indossa. Si può, infatti, giocare con la maschera solo se la maschera non coincide con l'essere del soggetto. Come ci ha fatto notare Gennie Lemoine, l'arte dell'abbigliarsi presuppone che il vestito non sia mai tagliato una volta per tutte: l'arte dell'abbigliarsi presuppone, in altre parole, la non identificazione del soggetto col proprio abito che rende possibile la capacità simbolica di abitare il vuoto rendendolo sublime. In questo senso lo stile è la soggettivazione dell'abito, mentre indossare perennemente la stessa divisa tende alla negazione dello stile soggettivo per produrre solo uniformismo conformista. Lo nota Gennie Lemoine: vi sono abiti tagliati una volta per tutte o, come si dice, non-tagliati, sono gli abiti immutabili come la veste dell'accademico o la toga dell'avvocato; sono gli abiti che fanno divisa,7 come quello indossato dal cameriere di Sartre. 7. Vedi G. Lemoine-Luccioni, Psicoanalisi della moda, cit., p. 21. Nella clinica contemporanea il soggetto non è alla ricerca di un abito che lo includa nel campo del desiderio dell'Altro, ma di un abito che lo faccia esistere. In questo caso non è più il soggetto che cerca un abito per vestire il proprio corpo, ma la ricerca dell'abito è ispirata dall'esigenza di fare esistere un corpo. La maschera è qui una cristallizzazione dell'identificazione, una cancellazione del margine di gioco che mantiene separato l'essere dal sembiante. La clinica contemporanea - che è sempre meno una clinica della rimozione e sempre più una clinica della difesa - tende effettivamente a configurarsi come una clinica della maschera. Deutsch, Winnicott, Evelyne Kestemberg e Bollas, in modi differenti, hanno indicato, come vedremo meglio, una traiettoria clinica che non possiamo non considerare: il soggetto contemporaneo rifiuta la divisione; la sua patologia maggiore è la sua estraniata normalità, è la sua separazione dall'inconscio. L'anoressia non è infatti una malattia nevrotica ma una "soluzione normotica" (come direbbe Bollas),8 ovvero una soluzione della divisione soggettiva attraverso l'identificazione all'ideale sociale del corpo magro. Deutsch e Winnicott, in particolare, mettono in risalto il carattere difensivo dell'adesione desoggettivata alla maschera. La loro clinica dell'io come maschera sociale ("personalità come se" o "falso Sé") mette proprio in rilievo questo punto di grande attualità della clinica contemporanea: l'identificazione sembra sganciarsi dalla dialettica edipica e non avere più alcun rapporto col desiderio inconscio. Essa appare piuttosto nella forma robotizzata di una maschera che annichilisce la creatività soggettiva, che distrugge, come si esprime Bollas, il "fattore soggettivo". Per poter verificare questa incidenza clinica della maschera, si può pensare a titolo di paradigma a certe nuove tossicomanie: il soggetto usa la sostanza come tonico maniacale per garantire la tenuta della maschera egoica che gli consente di stare al mondo. L'uso contemporaneo della droga contiene sempre meno una critica estrema al programma della Civiltà, profilandosi piuttosto come puro artificio chimico per convalidare l'identità della maschera sociale. Il consumo della droga non corrode più in questi casi l'essere dei sembianti sociali ma punta a adattare il soggetto al nuovo "principio di prestazione" imposto dal discorso sociale dominante. 8. Vedi C. Bollas, Lombra dell'oggetto, cit., pp. 142-163. AL DI LÀ DELLA CLINICA DELLA RIMOZIONE: DEUTSCH E WINNICOTT Seguendo percorsi di ricerca autonomi e differenziati, Helene Deutsch e Donald Winnicott giungono, a partire dal loro lavoro clinico con pazienti gravi, a definire una posizione del soggetto irriducibile alla clinica nevrotica della rimozione. Si tratta di una clinica che implica una nuova organizzazione del sintomo. In questi quadri psicopatologici ("personalità come se" o "falso Sé"), il sintomo non risponde più alle coordinate fondamentali dell'Edipo freudiano, ovvero non è più una "formazione di compromesso" tra l'istanza inconscia del desiderio - la sua esigenza di soddisfacimento - e la barriera imposta dall'incidenza della Legge simbolica. In altri termini il sintomo, come abbiamo già fatto notare, non sembra più localizzare il conflitto tra il particolare del soggetto e il programma universale della Civiltà, né costituire l'attività sessuale sostitutiva del soggetto (come indicava la dottrina freudiana), ma si configura in una coincidenza clinicamente inedita col carattere stesso del soggetto, con la sua personalità, con la sua identità. Mentre infatti il sintomo nevrotico è un fattore di divisione della soggettività, in quanto incarna proprio ciò che la soggettività tende a mantenere lontano da se stessa (il reale della pulsione), e, dunque, manifesta indirettamente la verità del desiderio inconscio, ciò che le ricerche cliniche di Deutsch e di Winnicott incontrano è, in definitiva, un nuovo statuto del sintomo. Anziché costituire un fattore di divisione del soggetto e anziché localizzare la conflittualità del desiderio rispetto al programma della Civiltà, le "personalità come se" e le personalità "falso Sé" mettono piuttosto in evidenza una sintomatizzazione della personalità o, per essere più precisi, una nuova funzione del sintomo che si esplica come istanza di unificazione e di solidificazione dell'identità del soggetto più che come agente della sua divisione. In altre parole Deutsch e Winnicott mettono in luce una configurazione del sintomo che accentua la sua prossimità con la difesa più che con la rimozione. 9 Per Winnicott, infatti, il "falso Sé" è a tutti gli effetti una difesa, ovvero una organizzazione della personalità che tende a riparare il soggetto dall'angoscia più che una simbolizzazione cifrata del desiderio inconscio. 9. Mentre la rimozione implica il desiderio inconscio e il suo ritorno nelle forme simboliche che caratterizzano le formazioni dell'inconscio come tali (sogno, sintomo, lapsus, atto mancato ecc.), la difesa, già in Freud, configura il sintomo come argine nei confronti dell'inconscio poiché si profila come un trattamento possibile dell'angoscia. Vedi S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, tr. it. in Opere, cit., voi. 10. Anche la categoria delle "personalità come se" di Helene Deutsch tende a sviluppare questa problematica del carattere difensivo del sintomo. In particolare la Deutsch mette in valore la dimensione identificatoria che caratterizza le "personalità come se", nel senso che in questi soggetti l'identificazione tende ad assumere un carattere rigido, adesivo e desoggettivato. La povertà di vitalità e di creatività soggettiva che la Deutsch segnala come elemento basale delle "personalità come se" scaturisce infatti da un'identificazione massiccia a delle maschere sociali che precludono un rapporto autentico del soggetto col suo proprio desiderio. La prima impressione che queste persone danno di sé è quella di una completa normalità. Sono intellettualmente integre e dotate, e mostrano una grande comprensione per le questioni intellettuali e emozionali; ma quando seguono uno dei loro non frequenti slanci verso una attività creativa, il risultato consiste in un'opera che è buona da un punto di vista formale, ma che è sempre la ripetizione spasmodica, anche se abile, di un prototipo senza la minima traccia di originalità.10 Questo ritratto sintetico della "personalità come se" proposto dalla Deutsch mostra chiaramente la discrepanza che si genera tra l'assimilazione falsamente adattata del soggetto al principio di realtà e l'assenza di creatività che rende il soggetto simile a un "attore tecnicamente preparato ma che manca della scintilla necessaria per rendere la sua interpretazione realistica". Da un lato troviamo un'alta capacità di adattamento alla vita sociale ma, dall'altro, un impoverimento estremo della vita soggettiva. Nondimeno la Deutsch mette in rilievo come questa assenza di soggettività e di creatività non possa più essere interpretata attraverso la griglia della clinica della rimozione (non è assimilabile, per esempio, a un'inibizione ossessiva o a ipercompensazioni nevrotiche di tipo reattivo) perché dietro alla maschera di una personalità ben adattata non c'è letteralmente nulla: il soggetto "come se" è un soggetto vuoto. In questa logica la clinica della rimozione lascia il posto a un "disinvestimento oggettuale" che riduce l'identificazione edipica a un mero rispecchiamento speculare, imitativo, finalizzato a includere adattivamente il soggetto nei confronti dell'ambiente che lo circonda. La "grande plasticità" e "prontezza" con le quali il soggetto si modella sullo. H. Deutsch, "Alcune forme di disturbo emozionale e la loro relazione con la schizofrenia", tr. it. in AA.vv., Il sentimento assente, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 53-54. l'altro mostrano in realtà la sua inconsistenza: le identificazioni si moltiplicano perché non avviene mai alcuna autentica "trasformazione interna". Il soggetto sperimenta le sue identificazioni come simili a quelle di un "robot" che esegue meccanicamente dei programmi assegnati. Per questo, nota la Deutsch, questi soggetti sono anche tendenzialmente predisposti a aderire conformisticamente a gruppi sociali, morali o religiosi, ovvero a ricercare nelle insegne collettive dei supporti narcisistici capaci di sopperire all'assenza del carattere strutturante dell'identificazione edipica. In questi casi l'identificazione non è più in rapporto al desiderio inconscio (come, per esempio, dimostra la clinica dell'isteria) ma alla pura necessità di sentirsi esistere, di non essere già morto, di essere qualcuno, insomma all'esigenza di colmare un sentimento diffuso di vuoto. 11 Queste riflessioni della Deutsch offrono un approfondimento importante della problematica clinica della compensazione difensiva del vuoto narcisistico che attraversa i soggetti protagonisti della clinica dell'identificazione solida. E sempre su questa stessa linea di pensiero che incrociamo il contributo di Winnicott. In che cosa consiste l'ipotesi winnicottiana del "falso Sé"? Winnicott ce lo presenta, appunto, come un soggetto vuoto, aspirato dalle convenzioni, subordinato alla domanda dell'Altro, ingessato in identificazioni rigide, annullato nella sua capacità creativa. In sintesi il falso Sé indica un soggetto perso in un'alienazione immaginaria che separando il soggetto dal suo proprio essere alienandolo - in realtà lo preserva da una angoscia profonda di annientamento. Questa alienazione costituisce l'altra faccia della medaglia del soggetto psicotico. Mentre, in effetti, nella psicosi classica - quella schreberiana che si manifesta come rottura drammatica dei rapporti del soggetto con la realtà - il soggetto appare come invaso da un godimento ingovernabile e persecutorio che finisce per gettarlo all'esterno della scena del mondo richiudendolo autisticamente in un proprio mondo (delirante), l'alienazione del falso Sé è un'alienazione che non allontana il soggetto dal mondo poiché non è generata da una rottura 11. La diffusione contemporanea di patologie monosintomatiche (anoressie-bulimie, depressioni, attacchi di panico, tossicomanie) che tendono a costituire inedite gruppalità sociali autosegregantesi conferma questa intuizione clinica della Deutsch: la predisposizione all'identificazione omogeneo-gruppale ha come suo fondamento il declino storico-epocale dell'Edipo o, se si preferisce, l'inesistenza dell'Altro. Su questo tema mi permetto di rinviare a M. Recalcati, L'omogeneo e il suo rovescio, cit. Anche Gilles Lipovetsky ha messo in evidenza questa tendenza, per esempio, quando mostra che questi raggruppamenti tra simili non sono affatto un'alternativa al narcisismo egoico ma lo confermano nella forma di un "narcisismo collettivo", nel senso che, come scrive, "il narcisismo non si caratterizza solo per l'autoassorbimento edonista ma anche attraverso il bisogno di raggrupparsi con degli esseri 'identici'". Vedi G. Lipovetsky, L'ère du vide, cit., p. 22. dei rapporti del soggetto con la realtà ma da una sua eccessiva adesività e dagli effetti di svuotamento soggettivo che questa comporta. Winnicott illustra con chiarezza il suo punto di vista nei termini seguenti: Vi sono persone che possono essere malate in senso psichiatrico per via di un precario senso della realtà. Per equilibrare questo, si dovrebbe asserire che vi sono altri che sono così fermamente ancorati alla realtà percepita oggettivamente da essere malati nella direzione opposta, di non essere in contatto con il mondo soggettivo e con l'approccio creativo alla realtà.12 Mentre il presidente Schreber - assunto da Freud come paradigma della psicosi - ci offriva una rappresentazione della psicosi come esplosione, disgregazione, squartamento della soggettività e come negazione radicale della realtà, il soggetto vuoto di cui parlano Deutsch e Winnicott implica un'altra declinazione possibile della psicosi. Diversamente dal paradigma schreberiano questo soggetto sembra volgere la negazione non tanto sul principio di realtà, ma su di sé, sulla propria vitalità creativa, sul proprio inconscio. Se per Schreber è la realtà che si eclissa di fronte a uno straripare della soggettività delirante, per il falso Sé winnicottiano è il soggetto che si eclissa di fronte a un adattamento impersonale e totalmente alienato alla realtà. Nelle personalità falso Sé questa eclissi del soggetto, questo suo intorpidimento e svuotamento radicale, si controbilancia paradossalmente, come Winnicott fa magistralmente notare, con un ispessimento narcisistico dell'Io, con un rafforzamento difensivo della sua pseudoidentità. Il soggetto falso Sé è, in effetti, un soggetto che adotta la sua maschera sociale come se fosse la sua identità. Ma questa identità è fittizia perché essa annulla - come ci ricorda precisamente Winnicott sia la capacità di "vivere creativamente" sia quella di "sentirsi reali". Questa ipostasi dell'identità del Sé si rivela dunque come una mera copertura difensiva di cui il soggetto ha bisogno per non essere annientato dall'angoscia. 13 12. D.W. Winnicott, Gioco e realtà, cit., pp. 121-122. 13. In generale la concezione winnicottiana delle psicosi ha come suo punto basale un difetto della capacità della madre di configurare per il bambino un ambiente sufficientemente buono, ovvero in grado di sostenere ("holding") il bambino nella sua soggettività più particolare. Questa capacità materna trova il suo fondamento nella "preoccupazione materna primaria": una madre deve sperimentare questa preoccupazione per poter sostenere il proprio bambino e sopportare di essere oggetto del suo amore spietato e di saper sopravvivere a esso, poiché solo per la via stretta di questo passaggio attraverso l'aggressività e la distruzione il bambino può verificare che l'oggetto è in grado di sopravvivere alla sua avidità distruttiva e dunque rendere possibile una prima fondamentale demarcazione tra l'area del Me e quella del Non-me, tra l'interno e l'esterno, tra la sog- Questo accento particolare sulla necessità di un'organizzazione difensiva di fronte all'agonia primitiva costituisce il presupposto decisivo per comprendere la costituzione del falso Sé. Infatti il falso Sé è un'organizzazione della personalità che funziona come una difesa rispetto a un'angoscia primitiva non bonificata dalla preoccupazione materna primaria. Questa nuova difesa, nata originariamente per difendere il soggetto dal rischio di una frammentazione psicotica, si rivela in realtà come una "nuova minaccia al nucleo del Sé". E questo in effetti il carattere controfinalistico della maschera del falso Sé: sorta come una difesa dall'angoscia si ribalta nel suo esatto contrario, ovvero in una minaccia angosciante. In questo senso Winnicott, nell'articolo forse più significativo dedicato al falso Sé, titolato La distorsione dell'Io..., sottolinea come in questi soggetti il sentimento dell'essere fasulli s'incrementi paradossalmente proprio in rapporto al loro apparente successo sociale: Il mondo può osservare un successo accademico ad alti livelli, e può trovare difficile di credere nello stato di reale malessere dell'individuo in questione che si sente "fasullo" quanto più ha successo. Quando individui del genere distruggono se stessi in un modo o nell'altro, invece di mantenere le promesse, questo inevitabilmente produce un senso di stupore in coloro che avevano riposto grandi speranze in quella persona.14 Il falso Sé indica un effetto di distorsione della soggettività dovuto a un suo sviluppo totalmente condizionato dall'esigenza di compiacere il m o n d o esterno. Perseguendo permanentemente questa esigenza il soggetto finisce per modellarsi sulla domanda dell'Altro perdendosi in quanto Sé stesso. La difesa dall'agonia primitiva in cui il soggetto si è trovato esposto senza poter beneficiare del supporto dell 'holding materno scatena una scissione interna che ha una natura profondamente diversa dalla rimozione freudiana: anziché limitarsi a difenderlo dal rischio dell'annientamento, il Sé "socializzato" si sgancia dal "vero Sé". La particolare rigidità delle identificazioni che presiedono lo sviluppo del falso Sé sulla quale insiste Winnicott ricorda il modo col quale Helene Deutsch descriveva la "personalità come se": l'identificazione imprigiona il soggetto in una maschera sociale falsamente adattata. gettività e l'oggettività. Nello sviluppo psicotico del soggetto questa demarcazione non ha potuto determinarsi perché la madre non ha saputo sostenere il bambino e sopravvivere alla sua distruzione aggressiva: il bambino resta allora in preda ad "agonie primitive" che rivelano la sua assenza di "centro di gravità"e di "continuità dell'essere". Queste agonie sono infatti agonie di "frammentazione dell'essere", di "dissoluzione", di "annientamento", di "sparizione", di "disintegrazione", di "depersonalizzazione". 14. D.W. Winnicott, Gioco e realtà, cit., p. 179. LA MASCHERA COME DIFESA: KESTEMBERG E BOLLAS Su una linea di pensiero affine, che insiste nel porre la maschera identificatoria come una difesa nei confronti del rischio di una scompensazione psicotica, si orienta anche la ricerca di Evelyne Kestemberg sulla cosiddetta "psicosi fredda". Ella propone di distinguere due modi d'essere della psicosi: un modo dove prevale una organizzazione "alloerotica" (paranoia, schizofrenia, psicosi deliranti), e un modo dove prevale un'organizzazione "autoerotica" (anoressia mentale, certe forme di mania e di melanconia). Questi due diversi modi d'essere differenziano due forme fondamentali della psicosi: la psicosi delirante e la psicosi "fredda".15 Lo studio dell'anoressia - assunta come paradigma della psicosi senza delirio - l'aveva condotta a teorizzare l'esistenza di modi d'essere psicotici che senza presentare fenomeni eclatanti (allucinazioni e deliri) si caratterizzavano per una sorta di irrigidimento soggettivo di tipo narcisistico finalizzato a riparare il soggetto dal rischio, avvertito come impossibile da sopportare, della perdita. Dunque, per dirla con Green, si trattava di "psicosi senza psicosi", dove il culto feticistico dell'ideale del corpo magro proprio del soggetto anoressico sembrava, in effetti, assorbire tutto il mondo delle relazioni cosiddette oggettuali; autoerotismo, autismo, esclusione dello scambio sessuale, negazione dell'alterità dell'oggetto sembravano contraddistinguere una psicosi il cui tratto dominante era appunto quello del congelamento libidico del soggetto}13 In questo contesto teorico la "relazione feticistica" all'oggetto indica una modalità di relazione che garantisce una sorta di permanenza narcisistica del soggetto poiché lo difende dal trauma impossibile da simbolizzare della perdita dell'oggetto e dell'angoscia che essa produce. La relazione primaria madre-bambino viene concepita come una sorta di continuità d'essere che include l'oggetto e che dunque non lo rappresenta come distinto dal soggetto. Questa continuità sarebbe, secondo la Kestemberg, all'origine della strutturazione stabile del Sé.17 L'oggetto narcisistico-feticistico facilita la costituzione della soggettività attraverso l'esercizio di una funzione speculare di "duplicazione" del soggetto necessaria per esistere. Nella psicosi questa duplicazione diventa la condizione vitale per reggere il rischio di una frattura della sua continuità d'essere. L'eco15. Vedi E. Kestemberg. La psychose froide, PUF, Paris 2001. 16. Vedi E. Kestemberg, J. Kestemberg, S. Decobert, La faim et le corps, cit. Uno studio interessante su questi temi è quello di E. Chauvet, J-L. Chauvet, "Evelyne Kestemberg: les psychoses froides ", in Psychoses li. Aux frontières de la clinique et de la théorie, Revue française de psychanalyse, PUF, Paris 1999, pp. 11-37. 17. E. Kestemberg, La psychose froide, cit., p. 97. nomia delirante della psicosi manifesta una sorta di regressione all'oggetto narcisistico feticizzato come difesa dall'angoscia di castrazione. Nondimeno, questo ricorso all'oggetto-feticcio viene definito dalla Kestemberg come una tendenza non solo psicotica. E il soggetto come tale - "quale che sia la sua organizzazione psichica" - che ha bisogno di ricorrere a questo oggetto, anche nelle forme "minime" dell'oggetto portafortuna. In altre parole, anche nell'ambito delle relazioni oggettuali più "mature" perdurano delle modalità particolari, precocemente instaurate, di autoerotismo primario dove l'oggetto, incluso nel soggetto, non percepito distintamente, può esserne escluso, rigettato all'esterno e custodire lo statuto di garante narcisistico del soggetto.18 Nelle psicosi fredde questa regressione, "questa fuga all'indietro", questo utilizzo difensivo dell'oggetto feticcio è essenziale per ridurre l'intensità dell'angoscia, dunque è un fattore fondamentale per la sopravvivenza stessa del soggetto che trascina però con sé un "godimento trionfante" (jouissance triomphantè), una "ebbrezza dell'immortalità" (,ivresse d'immortaliti) il cui carattere mortifero non deve sfuggirci. Per questa ragione la strada maestra che ha condotto la Kestemberg verso la teorizzazione della psicosi fredda è stata proprio la strada clinica dell'anoressia: l'euforia megalomanica, l'esaltazione narcisistica e l'investimento libidico dell'immagine del corpo magro come oggetto feticistico che ritroviamo nel soggetto anoressico definiscono in effetti la dimensione generale della psicosi fredda. Un ulteriore sviluppo delle elaborazioni teoriche intorno alle psicosi senza delirio e, più in particolare, della funzione della maschera sociale come compensazione di una struttura soggettiva non strutturata attraverso l'Edipo si può trovare anche in Christopher Bollas, e, più precisamente, nel concetto di "malattia normotica" che questi articola in L'ombra dell'oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato per indicare un disturbo che non può più essere inquadrato ricorrendo alla nozione freudiana di sintomo perché coincide con lo stile di vita stesso del soggetto: una persona normotica è qualcuno di anormalmente normale. Troppo stabile, sicuro, tranquillo, estroverso. E totalmente disinteressato alla vita soggettiva e tende a badare solo alla materialità degli oggetti, alla loro realtà concreta o ai dati relativi ai fenomeni concreti.19 18. Ibidem, p. 99. 19. C. Bollas, Lombra dell'oggetto, cit., p. 143. Si tratta, come si vede, di una sorta di esteriorizzazione della soggettività che preclude l'accesso a ogni creatività. Una nuova forma di alienazione psichica viene così a configurarsi: "il soggetto tenta inconsciamente di diventare un oggetto nel mondo degli oggetti".20 Questa tendenza a "realizzarsi" come oggetto - tendenza che conduce Bollas ad affermare paradossalmente che questi soggetti sembrano in realtà "non essere nati" - riflette una carenza della funzione alfa, teorizzata da Bion come funzione deputata a sostenere le trasformazioni delle impressioni e delle esperienze emotive in configurazioni pensabili. L'attacco alla funzione alfa - che per Bollas contraddistingue quella malattia particolare che definisce "normotica" - espone il soggetto a un rischio di morte psichica; esso si riversa nel mondo degli oggetti per sfuggire al vuoto che lo abita. La personalità normotica è omogenea al discorso del capitalista così come Lacan lo formalizza: il soggetto non è più animato dal desiderio come espressione della mancanza a essere, ma sembra sospinto incessantemente verso oggetti che sembrano (illusoriamente) promettere l'estinzione del vuoto. Per questo Bollas definisce il normotico come colui che vive "medicandosi" con "oggetti concreti". 21 Come per il falso Sé winnicottiano, anche per il soggetto normotico si è verificata una distorsione dello sviluppo psichico del bambino. L'Altro genitoriale ha ostacolato l'espressione della soggettività particolare del bambino reagendo positivamente solo alle manifestazioni compiacenti del falso Sé. Questo ha comportato una sorta di soppressione degli elementi creativi del bambino e un suo modellamento artefatto sulle esigenze di normalizzazione dei genitori. Come nel caso del falso Sé anche nella personalità normotica il soggetto sembra collocarsi agli antipodi della rottura psicotica con la realtà del mondo; in primo piano anche in questo caso non è - come nel caso della psicosi - un'esasperazione dell'elemento soggettivo ma una assoluta assenza di questo elemento nella vita psichica. Se, infatti, il soggetto psicotico alla Schreber è immerso nelle sue produzioni deliranti e, di conseguenza, si sgancia dalla realtà, nella malattia normotica il soggetto è assorbito altrettanto integralmente dagli oggetti concreti e dalla necessità di preservare il proprio comportamento come adeguato agli stereotipi sociali. In questa prospettiva Bollas può affermare che, mentre lo psicotico precipita nella profondità, il normotico precipita nella superficialità.22 Questo precipitare nella superficialità finisce per contaminare lo statuto di soggetto della personalità normotica e ap20. Ibidem, p. 145. 21. Ibidem, p. 149. 22. Ibidem, p. 154. piattirlo sull'insensibilità asettica propria degli oggetti concreti. Ciò che è importante rimarcare è che in questa trasformazione dello statuto del soggetto è l'esistenza stessa dell'inconscio che sembra estinguersi. Per il normotico l'inconscio diventa un "arcaismo", perché per lui l'esperienza del desiderio è totalmente preclusa in quanto tutto il suo essere si riversa sulla "cura per i fenomeni concreti": In questa cura per i fenomeni concreti, il normotico è diventato un oggetto, sia per sé che per gli altri, un oggetto senza soggetto, un oggetto vivo e felice in un mondo concreto. Questa persona fa pensare che la sua mente, in particolare l'inconscio, sia un arcaismo, qualcosa che è bene abbandonare nell'interesse del progresso umano.23 DUE PARADIGMI CLINICI: PANICO E ANORESSIA La maschera che aspira il soggetto in una identità cristallizzata della quale parlano diversamente Deutsch, Winnicott, Kestemberg e Bollas e sulla quale si sostiene quella parte della clinica del vuoto che si interessa delle nuove patologie dell'identificazione p u ò essere pensata come l'effetto di uno stallo sociale del discorso del padrone o, più precisamente, come uno smarrimento della virtù strutturante dell'identificazione edipica. Questo svuotamento dell'Ideale tende a incarnarsi in due paradigmi clinici. Tali sono a mio giudizio il paradigma dell'anoressia e quello del panico. Si tratta in effetti di due malattie epidemiche nella società contemporanea. L'imbarazzo degli studi epidemiologici a quantificarne la reale diffusione segnala l'emergenza sociale di questa problematica. Perché dunque i paradigmi dell'anoressia e del panico? Che cosa ci insegna la loro diffusione epidemica? Essa pone in luce la centralità del binomio clinico, irriducibile alla logica simbolica della rimozione, angoscia-maschera. Nel caso dell'anoressia la maschera è accentuata nel suo valore cristallizzato. Essa riempie lo spazio lasciato vuoto dall'Ideale edipico. Nell'anoressia la divisione del soggetto è riassorbita da una passione assoluta per l'immagine del proprio corpo. "Il solo mondo che mi interessa è quello del mio corpo" mi diceva una donna anoressica illustrando efficacemente l'effetto di questa riduzione radicale. Questa riduzione narcisistica del mondo al corpo assicura il soggetto sulla contingenza del desiderio: l'Io s'impone come il governatore illusorio dell'essere pulsionale. In realtà 2). Ibidem, p. 163. questo corpo-mondo è segregato in una dimensione immaginaria dove la differenza sessuale è esclusa. Il governo dell'Io ideale prova a recuperare il vuoto di Legge simbolica lasciato dal Padre. Ma questo avviene al prezzo di una solidificazione dell'identificazione. L'insegna identificatoria del corpo magro assorbe il soggetto in una modalità integralista. E per questa ragione che l'anoressia contemporanea si presenta, nell'epoca della morte di Dio, come una nuova religione: una religione del corpo che eleva il corpo alla dignità della Cosa secondo un movimento di ascesi folle perché senza l'Altro. La volontà anoressica è infatti il rovesciamento esatto della volontà del mistico: il mistico abbandona la propria volontà perché sia fatta quella dell'Altro, mentre lo pseudomisticismo dell'anoressia contemporanea nega l'Altro perché sia fatta la volontà dell'Io. Diversamente da questa solidificazione dell'identificazione idealizzante, nel panico c'è caduta, crollo, sbriciolamento dell'Ideale, smobilitazione dell'identificazione. Il soggetto è in balìa dell'ingovernabilità liquida della vita pulsionale. In questo senso, il panico si deve situare sul lato del fallimento della difesa, della sua effrazione, del suo scompaginamento, come per certi versi accade nell'attacco bulimico dove il reale della pulsione emerge dissestando il controllo anoressico dell'Io. In questo senso mentre la maschera anoressica si profila come un trattamento a suo modo efficace dell'angoscia, il panico è una manifestazione radicale dell'angoscia che fa cadere la maschera conducendo il soggetto di fronte all'emergenza pura del reale. Nel panico l'insegna identificatoria registra, anziché un suo rafforzamento immaginario, una sua solidificazione ipostatico-narcisistica, come avviene nell'anoressia, un declino, una polverizzazione, uno sbriciolamento. Nell'attacco di panico (ma anche nella depressione secondo una modalità fenomenologicamente diversa) l'insegna identificatoria si manifesta per una sorta di eclissi, di decadimento fondamentale. Il soggetto non trova nulla che lo rappresenti nell'Altro, 0 quale si desolidifica, smarrisce la sua funzione di orientamento, lasciando il soggetto di fronte alla sua impossibilità di raggiungere una determinazione simbolica. Lasciando il soggetto in balìa della vitalità pulsionale non negativizzata dall'azione del significante. 24 Mentre l'anoressia opera per realizzare una determinazione narcisistica che possa restituire al soggetto stesso una padronanza (immaginaria) sul suo corpo pulsionale, il soggetto DAP è un sog24. N o n è un caso che nel trattamento, individuale o di gruppo, il soggetto DAP ricerchi inizialmente la costruzione di argini fobici in grado di ritagliare simbolicamente l'espansione indeterminata e catastrofica dell'angoscia. getto in perdita secca di padronanza perché in esso l'insegna identificatoria è collassata e non può più orientare il soggetto. Del resto l'esperienza clinica ci insegna che l'oscillazione fenomenologica tra anoressia e panico può incontrarsi frequentemente. Quando un soggetto anoressico allenta la sua tensione restrittiva, quando cioè si scuce dall'identificazione monolitica all'insegna idealizzante del corpo magro, possono infatti apparire gli attacchi di panico che segnalano proprio il passaggio traumatico dall'insegna dell'identificazione narcisistica dell'anoressia al disorientamento radicale che scaturisce dall'incontro con il suo tracollo e con l'emergenza della pulsione. Il carattere esemplare della diffusione epidemica di anoressia e panico investe il destino della versione edipica del significante padrone nell'epoca del discorso del capitalista. L'anoressia illustra l'operazione di autogoverno dell'Io che prova a rimpiazzare il declino dell'Imago paterna attraverso una separazione che avviene solo nella forma integralista di una negazione tout court dell'Altro, mentre il panico, all'altro capo di questa polarizzazione, illustra gli effetti catastrofici della polverizzazione del Nome del Padre, di ciò che, come sappiamo, Lacan, proprio in riferimento al processo di universalizzazione-globalizzazione del mondo, ha definito precisamente come una "evaporazione del Padre". L'IMPERO DELLA SOSTANZA NOTE SUL SOGGETTO TOSSICOMANE L'INTOSSICAZIONE GENERALIZZATA La prospettiva psicopatologica che ispira la nostra ricerca clinica in ha come uno dei suoi punti teorici di fondo l'idea che il disagio psichico sia annodato alle declinazioni storico-sociali del programma della Civiltà.1 Il presupposto generale di questa idea è che la psicologia individuale, come già ricordava Freud in Psicologia delle masse e analisi dell'io, non esiste se non come astrazione, poiché essa si dà solo come una psicologia sociale. Questo significa che ogni considerazioni psicologistica dell'individuo come monade chiusa, separata dal campo delle relazioni sociali, come un "mondo interno" contrapposto a un cosiddetto "mondo esterno", è assolutamente insufficiente per intendere le figure e le trasformazioni della psicopatologia. JONAS La clinica della tossicomania ci permette di illustrare significativamente questi presupposti teorici. Innanzitutto a partire dalla considerazione di un'evidenza come quella della sua diffusione epidemica nelle società a capitalismo avanzato. Questa diffusione segnala come il nostro tempo non solo tenda a produrre comportamenti tossicomanici, ma si configuri esso stesso come un tempo intossicato. Considerare l'intossicazione non solo un fatto della psicologia individuale ma anche un fatto della psicologia sociale (per continuare a usare in modo ancora schematico queste due categorie) mi pare necessario per orientare una riflessione critica intorno 1. Si vedano a titolo esemplificativo i volumi: U. Zuccardi Merli (a cura di), Il soggetto alla deriva. Depressioni e attacchi di panico, cit.; G . Mierolo, M.T. Rodríguez, Il disagio della bellezza, cit.; C. Oggionni (a cura di), Solitudini contemporanee. Franco Angeli, Milano 2007; R. Pozzetti, Senza confini. Considerazioni psicoanalitiche sulle crisi di panico, cit.; F. Giglio (a cura di), Divertiti! Imperativo presente. Abuso di sostanze, psicoanalisi e discorso del capitalista. Franco Angeli, Milano 2008. Per JONAS, vedi www.jonasonlus.it. alla diagnosi differenziale della tossicomania. L'operazione diagnostica deve essere, infatti, preliminarmente centrata sul programma della Civiltà ipermoderna e su come questo programma generi fenomeni di intossicazione che non si possono ridurre ai comportamenti tossicomanici, anche se questi possono prestarsi a rappresentarne la tendenza più profonda e a trovare in esso il loro terreno di coltura più proprio. Sul problema della diagnosi differenziale, il nostro punto di partenza è molto semplice: noi riteniamo che sia fondamentale sdoppiare la questione diagnostica, ponendo da una parte la diagnosi come diagnosi del programma contemporaneo della Civiltà nella sua incidenza sulla diffusione epidemica delle tossicodipendenze, e, dall'altra, la diagnosi come diagnosi differenziale applicata al soggetto tossicomane. Affermare che il nostro tempo è un tempo intossicato o, se si preferisce, sostenere l'idea che la diffusione epidemica di comportamenti tossicomanici sia da porre in stretta relazione con una intossicazione generalizzata del discorso sociale o, ancora, pensare che l'intossicazione non sia solo un'esperienza soggettiva, circoscritta ai soggetti che consumano droghe, ma che sia il nostro tempo, il tempo della Civiltà ipermoderna, a essere profondamente intossicato, e che, di conseguenza, l'intossicazione sia innanzitutto un'esperienza collettiva e non solo individuale, pone con forza il problema di una diagnosi teorica del programma contemporaneo della Civiltà. Per provare a riassumere in modo sintetico il nostro modo di intendere questa intossicazione generalizzata, mi farò guidare da due citazioni che hanno avuto per il nostro lavoro di ricerca la funzione di bussole teoriche. Una la conosciamo già. E di Jacques Lacan e si trova in un'intervista televisiva degli anni Settanta, nella quale egli definisce il modo di godimento prevalente della società contemporanea come un godimento smarrito? Soffermiamoci ancora su questa espressione. Cosa significa porre il godimento della Civiltà ipermoderna come un godimento smarrito? Significa fondamentalmente ritenere che la pratica pulsionale e, più in generale, il problema stesso della soddisfazione non sia più ancorato, agganciato, abbonato, a una Legge simbolica che ne definisca l'orientamento. Il godimento smarrito è un godimento privo della bussola fallica o, se si preferisce, non castrato, non regolato dalla castrazione simbolica, non limitato, arginato, orientato appunto, dalla funzione normativa della castrazione. Il godimento smarrito è una declinazione del godimento che non si coniuga più con l'Ideale ma che ne 2. Vedi J. Lacan, Radiofonia e televisione, cit., p. 90. ha, piuttosto, usurpato il posto. La Legge edipica, ma più in generale, la funzione stessa dell'Ideale non sembra più in grado di orientare i comportamenti dei soggetti, favorendo la costruzione del fantasma e, di conseguenza, il godimento ne risulterebbe smarrito, senza centro di gravità, disperso, alla deriva. La seconda citazione è di uno psicoanalista italiano, recentemente e prematuramente scomparso. Si tratta di Agostino Racalbuto. In una sua riflessione sulla tossicomania ha avuto modo di definire il nostro tempo come contrassegnato da uno "spazio psichico drogato", dove, nella sua prospettiva, drogato vuol dire precisamente: troppo pieno di oggetti, dunque intossicato da un eccesso di presenza di oggetti di godimento, da ciò che definisce un "uso concreto dell'oggetto" e da un esercizio difensivo della "realtà percettivo-motoria come controinvestimento rispetto a una realtà psichica interna collassata o pericolosa, ad alto potenziale distruttivo", nel quale "l'agito prende il posto del pensato". 3 Lo spazio psichico drogato di cui parla Racalbuto non coincide con lo spazio mentale individuale. Si isola piuttosto una tendenza generale della psicopatologia contemporanea: l'agito surclassa il pensato, la tendenza alla scarica prevale sulla necessità che si dia tempo per depositare l'esperienza, la spinta all'evacuazione senza elaborazione simbolica s'impone come una modalità diffusa di funzionamento della soggettività ipermoderna che appare come privo di soggetto dell'inconscio. In termini freudiani si potrebbe dire che la funzione della rimozione - la cui attività è costitutiva del sintomo nevrotico classico - è stata sostituita dalla funzione della scissione o della difesa (o della scissione come difesa, se seguiamo le indicazioni di Melanie Klein), nella quale in primo piano non è più il conflitto tra il desiderio inconscio e la sua rimozione, ma, appunto, sono forme verticali di scissione che disegnano una nuova topica dello psichico ancora da pensare e nelle quali ciò con cui il soggetto si confronta non è l'istanza del desiderio, ma un vuoto fondamentale che annichilisce il suo stesso sentimento della vita.4 La nostra idea di fondo è che, dagli anni Settanta a oggi, si è verificata una trasformazione inedita di quello che Freud definiva "Super-io sociale" e cioè del comandamento morale che orienta i legami sociali all'interno di una Civiltà. Sino agli anni Settanta il comandamento morale del Super-io sociale aveva assunto le forme del dovere morale, del sollen Sein kantiano, di quella che Freud definiva come la "morale civile" dell'uomo 3. Á. Racalbuto, Ilsetting analitico e la persona dell'analista, cit., pp. 296,306 e 298. 4. Su questi temi, mi permetto di rinviare a M. Recalcati, Clinica del vuoto, cit., ma anche a A. Racalbuto, Tra Ufare e il dire, cit., e a M. De Carolis, Il paradosso antropologico, cit. occidentale; il fulcro di questo comandamento prevedeva che l'accesso alla Civiltà - il prezzo da pagare per l'incivilimento dell'uomo - avvenisse a condizione di un sacrificio di godimento, di una "rinuncia pulsionale": solo la rinuncia al godimento immediato rendeva, per Freud, l'uomo degno di essere civile, dunque di appartenere a una comunità. In questo contesto la funzione fondamentale giocata dall'Ideale era quella di offrire al soggetto - come una sorta di contropartita rispetto alla rinuncia del godimento immediato richiesta dal programma della Civiltà - una bussola identificatoria: non oltrepassare la barriera dell'incesto implicava sì un sacrificio di godimento ma permetteva anche al soggetto di assumere dal Padre quelle insegne identificatorie che gli consentivano di desiderare e di progettare la propria vita al di là del corpo (perduto) della madre. In altre parole: rinunciare al godimento immediato consentiva la possibilità di progettare e di desiderare al di là del consumo diretto dell'oggetto. La nostra convinzione è che questo imperativo del Super-io sociale freudiano, questo comandamento morale che imponeva la rinuncia al godimento immediato come condizione per l'iscrizione del soggetto nel campo della Civiltà, sia irreversibilmente tramontato. Al suo posto emerge oggi un nuovo imperativo, una nuova configurazione del Super-io sociale, una nuova declinazione del dover essere. Mentre in passato il dovere era in opposizione al godimento, oggi il godimento è divenuto una forma inaudita e paradossale di dovere. La Legge che orienta il programma ipermoderno della Civiltà eleva sadicamente il godimento a imperativo superegoico: Devi godere! Il dovere non è più in opposizione al godimento ma è stato assorbito dal godimento, il quale agisce socialmente come una nuova forma di obbligazione, come un'obbligazione, appunto, a continuare compulsivamente a godere. La dimensione smarrita del godimento ipermoderno, o, se si preferisce, la dimensione generalizzata dell'intossicazione contemporanea, trova qui una sua possibile formulazione: il dovere non implica più il sacrificio del godimento ma s'impone come godimento compulsivo, agito, addizionale, come spinta continua verso il nuovo godimento, o della necessità del nuovo in quanto forma ipermoderna del godimento. Questa spinta esaurisce il campo dell'esperienza a favore dell'incentivazione di dispositivi chimici e tecnologici sempre più raffinati finalizzati ad amplificare il godimento della nuova sensazione. Il culto della nuova sensazione s'impone sul carattere formativo dell'esperienza. Perché vi sia esperienza è, infatti, necessario un lasso di tempo entro il quale può avvenire l'elaborazione simbolica. Il tempo intossicato della Civiltà ipermoderna stravolge la dimensione dell'esperienza - la quale esige memoria, ritenzione, pensiero, sublimazione insomma, una sospensione dell'agire che permetta un'articolazione e una sedimentazione del tempo e dei suoi effetti - in favore del carattere istantaneo della sensazione e del culto esaltato del suo rinnovamento continuo. Notava giustamente Agamben che in questa distruzione del tempo dell'esperienza, l'odierna tossicomania di massa trova il suo terreno di coltura più proprio. 5 Essa riflette lo spirito più inquietante del discorso del capitalista: la promessa che la moltiplicazione delle sensazioni, degli oggetti-gadget, dell'oggetto di godimento possa dare soddisfazione. In questa promessa la metamorfosi prende il posto della trasformazione o, se si preferisce, la trasformazione, come risultato di un lungo processo formativo che si snoda nel tempo e che implica memoria, si riduce a una metamorfosi, cioè, come scrive Marco Francesconi, a un "mutamento totale" che "non ha più legami con quanto precedeva" e che "cancella il passato". In questo senso se una autentica trasformazione implica sempre, come riteneva lo stesso Bion, un elemento di costanza, l'attuale diffusione di cambiamenti metamorfici segnala, oltre alla cancellazione del rapporto con il proprio passato e la propria storia, anche l'illusione di "un superamento magico dell'angoscia". 6 Poniamo dunque una nostra prima tesi: il soggetto tossicomane è un prodotto sociale del discorso del capitalista, ovvero di quel discorso che dissolvendo ogni credenza nella funzione orientativa dell'Ideale impone come solo contenuto della soddisfazione il consumo (infelicemente) infinito dell'oggetto di godimento che la potenza tecnologica della produzione e del mercato rendono illimitatamente disponibile. Possiamo allora evidenziare le tre caratteristiche principali della tossicomania come malattia-paradigma del discorso del capitalista: - si tratta di una pratica e di una tecnica pulsionale che dissocia l'acme del godimento dallo scambio con l'Altro sesso; il godimento tossicomanico è, infatti, un godimento monadico che separa il soggetto dall'Altro; è un godimento senza amore, un godimento che, rigettando il limite simbolico introdotto dalla castrazione, assume fatalmente le forme della distruzione, dell'odio per se stessi; 5. G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell'esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 2001, p. 8. 6. L'opposizione tra metamorfosi e trasformazione è una proposta interessante sviluppata da Marco Francesconi e utile per intendere certi fenomeni della nuova clinica, tra i quali quello della tossicomania. Vedi M. Francesconi, "Tra-mutazioni antropologiche", in Psiche. Rivista di cultura psicoanalitica, 2,2008, pp. 115-135. - si tratta di una cultura del godimento che genera appartenenza e senso d'identità; il soggetto tossicomane attraverso il culto della trasgressione e del godimento clandestino rintraccia una nominazione inedita della sua soggettività; la tossicomania non è solo una pratica pulsionale ma anche il fondamento materiale di una nuova nominazione sociale; "sono un tossicomane" fornisce al personaggio del tossicomane una carta d'identità inedita che rafforza un narcisismo deficitario; - si tratta di una modalità di trattamento dell'angoscia relativa alla problematica dell'assunzione soggettiva del proprio desiderio o a quella di sbarrare un godimento dell'Altro maligno e persecutorio. La pratica tossicomanica non è solo una pratica che consente di raggiungere un godimento non intaccato dalla castrazione, ma è anche una pratica di difesa dall'angoscia. LA SOGGETTIVITÀ IPERMODERNA COME MONADE DI GODIMENTO Suddivido il mio ragionamento sulla diagnosi differenziale della tossicomania in due grandi capitoli. Il primo concerne una riflessione sulla posizione del soggetto nell'epoca ipermoderna della nostra Civiltà che prolunga la diagnosi preliminare sulla natura del legame sociale nel tempo dell'intossicazione generalizzata. Il secondo riguarda invece, più da vicino, la dimensione psicopatologica e pone la questione di come intendere la diagnosi differenziale nella pratica clinica con i soggetti tossicomani. Cominciamo dalla posizione della soggettività ipermoderna. Anche qui vorrei farmi guidare da due citazioni. Per la prima mi riferisco all'aforisma 97 dei Minima moralia di Adorno titolato, assai significativamente, Monade. In queste pagine Adorno s'interroga sulla monade come declinazione recente della soggettività o, se si vuole, come una sua metamorfosi tardocapitalista. La monade indica in effetti uno stato d'essere chiuso in se stesso, sconnesso dai legami sociali, isolato, autosufficiente, narcisisticamente compatto; indica, in altri termini, la dimensione dell'individuo nell'epoca del trionfo del discorso del capitalista. La tesi forte di Adorno è relativa all'opposizione tra individualismo e soggettività. Il paradosso del discorso del capitalista consiste a suo giudizio in un'affermazione illimitata dell'individuo che finisce, ribaltandosi nel suo contrario, per decretare la soppressione della soggettività. L'individuo "scatenato", afferma Adorno, per il quale tutto diventa possibile, surclassa il legame del soggetto con la polis; il suo potere viene celebrato al posto di quello degli dei.7 La differenziazione tra individuo e soggetto resta cruciale anche per l'insegnamento di Lacan. Il soggetto non è un individuo, innanzitutto perché non è indiviso, ma è costitutivamente diviso. Questa divisione del soggetto implica, al tempo stesso, la sua solitudine, ma anche, diversamente dalla monade individualistica, la sua non-autosufficienza, dunque il suo legame con l'Altro, la sua costituzione eteroclita. Come mancanza a essere, causata dall'azione dell'Altro, il soggetto si rivolge verso il campo dell'Altro per curarla, per lenirla. In questo senso, Lacan può affermare che il desiderio del soggetto è sempre desiderio dell'Altro. Qui tocchiamo il punto forse più sensibile della differenziazione tra soggetto e individuo: come mancanza a essere e desiderio il soggetto, diversamente dalla consistenza immaginaria dell'individuomonade, è aperto sull'Altro, dunque è l'antimonade per eccellenza. Mentre l'individuo-monade si pone come fatto da sé, come sostanza autoconsistente, il soggetto animato dal desiderio è "transindividuale", è strutturalmente determinato dall'Altro. Ecco allora una seconda tesi: l'epoca contemporanea è l'epoca dell'eclissi del desiderio e dell'affermazione della monade del godimento.8 Questo significa che in nessun modo la clinica della tossicomania è una clinica del desiderio, è una clinica che implica la soggettività desiderante. Come paradigma della soggettività ipermoderna, la soggettività tossicomanica, come vedremo meglio in seguito, è piuttosto una soggettività che rinuncia al desiderio o che non può, per ragioni strutturali, accedervi.9 Mentre il desiderio si nutre della mancanza e manifesta la dimensione più propria del soggetto, il suo carattere "indistruttibile" secondo Freud, ciò che predomina nella clinica della tossicomania è la 7. Vedi T.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 176. 8. Uno sviluppo più ampio di questi temi si trova in M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, cit. 9. A mio giudizio, l'errore di f o n d o della lettura proposta da Umberto Galimberti del fenomeno tossicomanico consiste precisamente in questo, ovvero nell'intendere il soggetto tossicomane come un soggetto di desiderio. La nostra prospettiva rovescia questo presupposto; non è la soggettività tossicomanica a mostrare il carattere insaziabile del desiderio e la sua relazione con la mancanza, ma il contrario: la soggettività tossicomanica è una negazione del soggetto del desiderio e della mancanza che lo costituisce. La sua aspirazione di f o n d o è un'aspirazione rovinosa al godimento e non al desiderio, è puro odio per se stessi. Il soggetto tossicomane ipermoderno è un soggetto senza inconscio perché è sconnesso dal desiderio. In questo senso ha ragione Galimberti a proporre il nichilismo come chiave di accesso generale al problema della tossicomania. Vedi U. Galimberti, L'ospite inquietante. Il nichilismo e igiovani, Feltrinelli, Milano 2007, p. 70. compulsività coatta del godimento, l'impossibilità di sopportare la mancanza, l'urgenza immediata del soddisfacimento e della scarica. In questo senso, assai efficacemente, Bion ha proposto di definire il tossicomane come colui che non sa aspettare.10 Se il programma della Civiltà ipermoderna si regge sull'eclissi del desiderio, questo significa che l'alienazione - che concerne strutturalmente l'essere nella Civiltà - assume le forme ciniche di una chiusura del desiderio in un godimento monadico. In effetti la monade contemporanea è una monade di godimento-, il desiderio si lascia ipnotizzare, non tanto allo sguardo invasato del leader, ma da un inedito totalitarismo dell'oggetto. L'ombra dell'oggetto di godimento cade melanconicamente sul desiderio. L'attacco al legame avviene nella forma di un nuovo assunto di base: l'affermazione della solitudine inumana del godimento. In questo senso Jacques-Alain Miller aveva proposto di definire la tossicomania - come figura psicopatologica paradigmatica della nostra epoca - come un "antiamore": 11 il soggetto non ricerca più nel campo dell'Altro l'oggetto perduto ma si lega a senso unico con un oggetto-sostanza inumano (la droga) che gli permette di fare a meno dell'Altro e di porsi come una monade che consiste solo stessa, che si fa da sé in un miraggio di autosufficienza. L'affermazione del godimento monadico della soggettività ipermoderna non va confuso con l'autoerotismo. Mentre nell'autoerotismo la pratica pulsionale resta connessa al fantasma inconscio essendone una manifestazione privilegiata, dunque resta connessa all'azione della castrazione, sebbene nella forma di una sua negazione immaginaria, il godere monadico appare invece tendenzialmente sconnesso dal fantasma inconscio e dalla castrazione. Si tratta di un godimento che non esige la scenografia del fantasma, di un godimento meccanico, evacuativo appunto, legato all'esigenza indifferibile della scarica motoria, sganciato dall'inconscio, pura manifestazione dello strapotere dell'Es. Nel mondo dei giovani adolescenti contemporanei si constata quanto la pratica autoerotica per eccellenza, com'è quella della masturbazione, tenda a essere disertata a causa del prevalere di pratiche pulsionali che non richiedono il passaggio attraverso un'organizzazione fantasmatica (qual è quella, per esempio, del consumo di droghe), oppure a dissociarsi integralmente dall'autoerotismo per assumere la forma più semplice e coatta del passaggio all'atto compulsivo. Il punto chiave è che la fanta10. Vedi W.R. Bion, Cogitations-Pensieri, cit., p. 133. 11. Vedi J-A. Miller, "L'Autre qui n'existe pas et ses comités d'éthique (1996-1997)", cit., seduta del 26 marzo 1997 (inedito). sia che erotizzando il corpo prepara all'incontro con l'Altro sesso viene soppressa da una spinta che esige il raggiungimento del godimento senza più ricorrere alla costruzione fantasmatica. Il problema è che l'assorbimento senza fantasma nell'oggetto di godimento (si pensi anche, per fare un altro esempio, alle dipendenze dai computer) espone la realtà psichica in quanto tale al rischio di un collasso interno. NARCISISMO, PSICOSI E PERVERSIONE NELLA SOGGETTIVITÀ TOSSICOMANICA Il nostro lavoro nella clinica dell'anoressia e, più in generale, nei cosiddetti disturbi del comportamento alimentare (DCA) ha assunto come uno dei suoi capisaldi teorici l'idea che non esista una diagnosi strutturale di anoressia (di bulimia, obesità ecc.) ma che il fenomeno del disturbo del comportamento alimentare ricopra sempre differenti strutture della personalità. Dunque la nostra tesi è che una corretta impostazione della diagnosi differenziale debba necessariamente tenere conto di come la monocromaticità del fenomeno psicopatologico (quello del DCA), anziché palesare la struttura soggettiva, tenda invece a occultarla e di come, conseguentemente, per rendere efficace una corretta diagnosi differenziale sia necessario ricondurre tale monocromaticità al tratto cromatico differenziale delle diverse strutture di personalità. Avanzavamo queste tesi nel corso della prima metà degli anni Novanta,12 quando nel campo della clinica dei disturbi dell'alimentazione si tendeva ancora a porre l'anoressia mentale come una diagnosi psicopatologica a sé stante. In quello della tossicomania si era appena introdotta la problematica della doppia diagnosi con la quale, giustamente, si è posto il problema dell'insufficienza clinica della categoria diagnostica di tossicomania assunta come categoria autonoma. Quello che l'esperienza insegna nel campo della tossicomania, come anche in quello dei disturbi del comportamento alimentare, è che è impossibile concepire la diagnosi come una reductio ad unum. Si devono piuttosto riconoscere diverse strutture di personalità che possono presentare gli stessi fenomeni sintomatici. Il problema della diagnosi differenziale sarà allora quello di come dedurre da una serie di fenomeni apparentemente 12. Vedi M. Recalcati, Lultima cena: anoressia e bulimia, cit.; M. Recalcati (a cura di), Il corpo ostaggio, Boria, Roma 1998; M. Recalcati, Clinica del vuoto, cit. Questa ricerca si trova esposta in una sintesi in M. Recalcati, U. Zuccardi-Merli, Anoressia, bulimia e obesità, Bollati Boringhieri, Torino 2006. monocordi, genericamente standard, il tratto differenziale della struttura di personalità. Tutto questo, ovviamente, non per il gusto di classificare nosograficamente i soggetti, all'insegna di una regressione della clinica psicoanalitica alla clinica psichiatrica più tradizionale, ma per dirigere più efficacemente il processo della cura. Dunque non ci accontentiamo di definire un soggetto dipendente, o tossicodipendente, ma cerchiamo di osservare nel dettaglio i tratti soggettivi che caratterizzano questa o quella tossicomania per arrivare a una diagnosi strutturale e differenziale di personalità. Perché è importante poter ordinare in questo modo la prospettiva della diagnosi differenziale? Abbiamo già risposto a questa domanda: non per classificare zoologicamente i soggetti ma per rendere il più efficace possibile la cura e per evitare di rendere il trattamento più devastante della malattia stessa, come a volte purtroppo accade. Il nostro esempio clinico di riferimento resta quello dell'anoressia mentale. In questa clinica si vede bene che un trattamento che trascuri l'importanza strategica della diagnosi differenziale della struttura di personalità e che si concentri unilateralmente sull'estirpazione del cosiddetto disturbo dell'alimentazione, puntando esclusivamente al ripristino di un comportamento corretto dell'alimentazione, rischia di provocare dei gravi danni al soggetto. Un soggetto può, per esempio, guarire dall'anoressia, tornare a mangiare in modo regolare, ma può anche sentirsi, proprio per questo, proprio perché ha perduto l'identità posticcia che gli offriva l'anoressia, disperato e produrre passaggi all'atto gravemente autolesivi, oppure, ancora più clamorosamente, può scompensarsi psicoticamente manifestando deliri e allucinazioni. L'appetito è guarito ma il soggetto è più malato di prima, quando non è perduto. Ebbene questo insegnamento può essere trasferito integralmente alla clinica delle tossicodipendenze. Per evitare di appiattire la diagnosi a una mera descrizione oggettiva dei comportamenti cosiddetti disturbati, bisogna dunque avere una nozione complessa di sintomo e non una nozione che lo riduce a un mero disfunzionamento della macchina del pensiero o del corpo. La nostra tesi di fondo, attualmente condivisa dalla comunità scientifica che si occupa di questo argomento, è che la tossicodipendenza, come del resto l'anoressia cosiddetta mentale, non faccia mai diagnosi a sé. Non esiste a rigore la diagnosi di soggetto tossicodipendente o, detto in altri termini, la tossicodipendenza non è in se stessa una struttura della personalità, come invece lo sono la psicosi, la nevrosi e la perversione. Tuttavia, la posizione del soggetto tossicomane ha una sua specificità che, a nostro giudizio, oltrepassa decisamente la cornice classica della clinica della nevrosi. Come si accennava all'inizio, la clinica della tossicomania appare decentrata rispetto al binomio nevrotico rimozione-ritorno del rimosso. Questo significa che la clinica della tossicomania tende a oltrepassare l'orizzonte edipico della clinica della nevrosi. E questa un'altra nostra tesi di fondo: esistono nelle tossicomanie motivi clinici che evocano un al di là della concezione classica del sintomo nevrotico come formazione di compromesso tra l'istanza del desiderio inconscio e quella della sua interdizione e come espressione metaforico-linguislica del ritorno del rimosso e che sono più prossimi alla clinica della psicosi, del narcisismo e della perversione.13 Analizziamo più da vicino i riferimenti alla psicosi, al narcisismo e alla perversione che possiamo ritrovare nella clinica della tossicomania. Quale sarebbe, dunque, il tratto psicotico della tossicodipendenza? Fondamentalmente il suo realismo, ovvero la debolezza della costruzione metaforica del sintomo. La tossicomania ribalta il principio fondamentale che sancisce la funzione del simbolo secondo Lacan: se il simbolo inaugura la sua esistenza uccidendo quella della Cosa del godimento, il tossicomane sembra imporre la potenza sostanziale della Cosa come ciò che uccide il simbolo. Questo significa che, come nelle psicosi, nella tossicomania riscontriamo un deficit simbolico e, come sosteneva Racalbuto, il prevalere di oggetti concreti, reali, non mentalizzati. L'esperienza della droga non è il simbolo di nulla, ma una pura pratica di godimento pulsionale. Il tratto psicotico della clinica della tossicomania è legato al fatto che l'esperienza della parola, del simbolo, del linguaggio non sono mai sufficienti a metabolizzare l'esperienza realistica della sostanza. La forza con la quale questa esperienza si impone distrugge in effetti ogni forma, ogni attività di sublimazione, essendo essa stessa, come la definiva Ferenczi con riferimento all'alcolismo, un'antisublimazione. Da questo punto di vista, come avviene nell'esperienza psicotica dell'allucinazione, si verifica un collasso del simbolo e una prevalenza abusiva e devastante del reale, del non-simbolizzato, di un godimento che si rifiuta all'azione bonificatrice e negativizzante della castrazione simbolica. Nel tossicomane la parola non solo non fa presa sulla Cosa del godimento, ma dissolve il senso stesso della sua funzione. L'esercizio della parola non ha alcun valore, il suo rapporto con la 13. Questo non significa ovviamente affermare che il tossicomane sia necessariamente perverso, psicotico o narcisista. Quello che si vuole evidenziare è la presenza di motivi clinici che trascendono decisamente la cornice canonica della clinica della nevrosi e che possiamo ritrovare più facilmente nella clinica della psicosi, del narcisismo e della perversione. parola è inconsistente perché egli non crede affatto alla parola, ma solo al potere della sostanza di godimento. Ebbene questo declassamento della parola, questa non credenza nel suo potere, è rivelatrice della non credenza del tossicomane nei confronti dell'Altro in generale. E non si può non segnalare come questo elemento sia decisivo nel problematizzare l'efficacia del trattamento analitico che è fondato proprio sul potere della parola. Come orientare allora il processo della cura tenendo conto della non credenza tossicomanica nei confronti della parola e, più in generale, nei confronti dell'Altro?14 14. La crucialità clinica di questa d o m a n d a esigerebbe u n o spazio adeguato di cui n o n dispon i a m o in questa sede. Si osservi p e r ò che una delle critiche più f r e q u e n t i alla psicoanalisi riguarder e b b e p r o p r i o la sua inefficacia nel t r a t t a m e n t o delle patologie gravi, per esempio, a p p u n t o , di quella tossicomanica. U n testo esemplare da q u e s t o p u n t o di vista è quello di Jean-Jacques Déglon dal titolo provocatoriamente p r o g r a m m a t i c o " C o m e le teorie psicoanalitiche h a n n o ostacolato il t r a t t a m e n t o efficace della tossicodipendenza e contribuito alla m o r t e di migliaia di person e " (tr. it. in C. Meyer, a cura di, Il libro nero della psicoanalisi, Fazi, R o m a 2006). I n q u e s t o articolo l'autore n o n si limita a esporre la sua opinione, del t u t t o discutibile, circa gli "straordinari vantaggi" che l'uso del m e t a d o n e a v r e b b e c o m p o r t a t o nel t r a t t a m e n t o delle tossicodipendenze, m a denuncia gli psicoanalisti per aver ritardato l'uso di sostanze sostitutive con una opposizione ideologica, la quale sarebbe stata la causa di una vera e propria "catastrofe u m a n a " e avrebbe p o s t o sulla coscienza della psicoanalisi stessa "migliaia di m o r t i " . Il carattere inverosimile di questa tesi si c o m m e n t a da sé. N o n esiste ovviamente nessuna correlazione causale tra le m o r t i per tossicodip e n d e n z a e l'atteggiamento di alcuni psicoanalisti ostili alle terapie sostitutive. Tuttavia, questa tesi i n t e n d e p r o p o r r e con virulenza critica u n a immagine caricaturale della psicoanalisi applicata alla clinica delle tossicodipendenze: l'analista silenzioso, ingessato nella sua neutralità, applicatore a u t o m a t i c o della regola delle associazioni libere e dell'ascolto l i b e r a m e n t e fluttuante e che di f r o n t e all'angoscia del tossicomane in crisi di astinenza si limiterebbe a chiedere di parlare del pad r e o della m a d r e . . . A c o n t r a d d i r e il pensiero di D é g l o n esiste p e r ò una letteratura psicoanalitica ampia, la quale ritiene totalmente sconsiderato a d o t t a r e il setting analitico classico nel trattamento delle tossicodipendenze e che non si schiera affatto ideologicamente c o n t r o l'uso del m e t a d o n e o di altre terapie farmacologiche sostitutive. N o n solo. Il fatto che la clinica delle tossicodipendenze costringa la psicoanalisi ad applicare "fuori s t a n d a r d " i suoi strumenti terapeutici è un fatto ormai condiviso dalla comunità analitica. P e r n o n parlare della necessità del t r a t t a m e n t o istituzionale e di un legame stretto di collaborazione con il discorso medico-farmacologico. La stessa cosa vale ovviamente per la clinica delle psicosi o per la clinica dei disturbi gravi dell'alimentazione (anoressie, bulimie, obesità). G i u s t a m e n t e , a titolo paradigmatico, nella sua prefazione al Libro nero della psicoanalisi Catherine Meyer evoca il p r o b l e m a del t r a t t a m e n t o delle patologie gravi. Vogliamo sapere, scrive, c o m e fare con l'anoressia? C o m e fare con tutti quei disturbi, c o m e la depressione o la schizofrenia, di cui la psicoanalisi n o n p u ò occuparsi? E b b e n e si informi su c o m e la psicoanalisi in questi ultimi vent'anni ha dato il suo c o n t r i b u t o i m p o r t a n t e al t r a t t a m e n t o delle patologie gravi costringendosi a modificare la sua applicazione tradizionale, sfidando, per esempio, la scommessa del lavoro in é q u i p e e nel c a m p o istituzionale. N o n o s t a n t e q u e s t o r i n n o v a m e n t o int e m o , Déglon continua a offrirci un cliché dello psicoanalista fuori dal m o n d o , barricato nel suo studio, senza una significativa esperienza clinica dei casi gravi, capace solo di inventarsi fantasiose teorie patogenetiche. Ma cosa n e sa del lavoro q u o t i d i a n o che molti psicoanalisi, tra i quali il sottoscritto, svolgono in istituzioni che si o c c u p a n o della cura delle d i p e n d e n z e gravi e che sono tenuti a o p e r a r e con estremo pragmatismo, p r o p o n e n d o una applicazione della psicoanalisi alla terapeutica che nulla ha a che vedere con gli stereotipi di cui egli ci parla? N e s s u n o di noi in j o n a s orienta la cura privilegiando il vertice classico della cura analitica, ovvero quello dell'interpretazione semantica, p e r c h é nessuna interpretazione semantica, ossia u n ' i n t e r p r e t a z i o n e orientata sul senso rimosso del soggetto dell'inconscio, potrà ridurre la d i p e n d e n z a di u n soggetto dalla sostanza. L'inefficacia dello s t r u m e n t o dell'interpretazione semantica deriva da una ragione strutturale legata al fatto che la tossicomania non è un sintomo, n o n è organizzata c o m e una metafora, n o n è una formazione dell'inconscio, d u n q u e n o n è suscettibile a essere modificata dall'esercizio dell'in- In che cosa consisterebbe il secondo tratto, quello della perversione? Quale rapporto esisterebbe tra la clinica della tossicomania e la clinica della perversione? Sviluppo il mio ragionamento a partire da una premessa relativa alla definizione della nozione di perversione. L'orientamento della psicoanalisi tende nell'attualità a criticare l'appiattimento della categoria di perversione su quella delle cosiddette aberrazioni sessuali o dei comportamenti sessuali abnormi. L'uso che propongo di perversione non ha nulla a che vedere con questa dimensione "trasgressiva" del comportamento sessuale (ma quale sarebbe poi una vita sessuale cosiddetta "normale"?). Essa si caratterizza per due sue caratteristiche di fondo. La prima: la perversione come posizione del soggetto definisce (come, in fondo, pensava già Freud) il rifiuto della castrazione, il rifiuto dell'esperienza del limite del godimento, l'aggiramento della castrazione simbolica e l'affermazione della possibilità di raggiungere un godimento puro, non castrato, originario, illimitato. Dunque la prima caratteristica della perversione consiste nel rigettare l'esperienza della castrazione come esperienza del limite del godimento. La tossicomania esemplificherebbe, allora, proprio questa spinta incestuosa a godere che rifiuta ogni esperienza di interdizione simbolica. La seconda caratteristica della perversione che voglio mettere in luce riguarda Y apologia del rimedio nei confronti della castrazione. La denegazione perversa della castrazione si accompagna clinicamente alla scelta di oggetti-feticci, di partner inumani contigui, che consentono al soggetto di rimediare, appunto, all'angoscia che scaturisce dalla castrazione simbolica. Nella riflessione freudiana sul feticismo l'oggetto che rimpiazza il buco della castrazione ha la proprietà di essere asessuato. Ebbene il tratto perverso della tossicomania riprende proprio questa funzione che Freud assegnava all'oggetto-feticcio come oggetto asessuato: riparare il soggetto dalla vista della castrazione, otturare la sua faglia angosciante, rassicurandolo sulfatto che a può essere un godimento non esposto alla castrazione. terpretazione. Il soggetto tossicomane non è sensibile alla decifrazione del senso. Lo strumento della decifrazione analitica, che funziona egregiamente nel campo della clinica della nevrosi, non funziona affatto con i tossicomani. Cosa facciamo allora? Intanto sottolineiamo con forza mai sufficiente l'importanza del campo istituzionale. Questo significa, diversamente da quel che ingenuamente o maliziosamente pensa Déglon, che la psicoanalisi non è un'alternativa al campo istituzionale ma una possibilità supplementare per il campo istituzionale. Il nostro giudizio di fondo è che il trattamento delle tossicodipendenze non p u ò essere, tendenzialmente, sganciato da un campo istituzionale. In questo senso il trattamento comunitario è sempre molto più efficace di qualunque trattamento psicoterapeutico della parola, di qualunque trattamento simbolico perché il trattamento comunitario è in grado di operare più efficacemente un taglio nel reale del godimento della sostanza che lo psicoanalista difficilmente è in grado di produrre. Perseguire l'illusione che la parola sia più forte della sostanza non è un errore della psicoanalisi in quanto tale, ma può essere, caso mai, l'errore di certi psicoanalisti! Cosa vuol dire tutto questo? Nella pratica tossicomanica l'oggetto di godimento non è né il corpo dell'Altro, né nel corpo dell'Altro, ma un oggetto-sostanza che prescinde dall'Altro e dallo scambio sessuale e che rende possibile un godimento non esposto alle turbolenze, ai rischi, ai drammi inevitabili che invece fatalmente comporta il legame con l'Altro sesso. Da questo punto di vista noi affermiamo che la tossicomania non è un sintomo nevrotico, ma una pratica pulsionale di tipo perverso, in quanto non implica un godimento fallico, sessuale, limitato e orientato dall'azione della castrazione simbolica, ma il godimento unilaterale di una sostanza asessuata, il godimento uniano, come lo definisce Lacan, il godimento dell'Uno senza scambio con l'Altro. Il che ci porta al cuore di una nuova clinica, che a J O N A S chiamiamo la clinica dei partner inumani del godimento, quale è, appunto, la clinica dell'anoressia, della bulimia, dell'alcolismo, della depressione. Dove i partner del soggetto sono partner inumani (cibo, bottiglia, psicofarmaci...) che permettono una prossimità alla Cosa del godimento che rimedia alla castrazione simbolica e che però, al tempo stesso, annichilisce la dimensione strutturalmente precaria del desiderio. E questo, se si vuole, il tratto autistico della tossicomania: il godimento ristagna nel corpo del soggetto, non entra nel circuito dello scambio simbolico, si fissa alla dipendenza da una sostanza. Ecco infine il terzo e ultimo tratto, quello del narcisismo, che differenzia la clinica della tossicomania dalla clinica classica della nevrosi. Il riferimento al narcisismo meriterebbe anch'esso uno sviluppo più ampio. Mi limito a segnalare quello che ai miei occhi appare come il motivo più evidente di convergenza tra clinica del narcisismo e clinica della tossicomania. Partiamo da una considerazione evidente: la tossicomania è una pratica pulsionale, ovvero una pratica del godimento (potenza chimica della sostanza) che però offre al soggetto anche una vestigia identitaria, un abito narcisistico da indossare. Questo abito trasforma il soggetto tossicomane in un personaggio dotato di un'identità narcisistica. L'appartenenza al gruppo dei tossicomani, per esempio, produce non solo godimento ma anche un effetto di nominazione. Attraverso l'esperienza della droga il soggetto può raggiungere una pseudoidentità resa possibile dalla comunanza immaginaria con altri soggetti simili che fanno uso delle stesse sostanze stupefacenti. In questo modo la tossicodipendenza diventa una etichetta identificatoria che solidifica un'identità narcisisticamente fragile. Secondo una celebre immagine proposta da Olievenstein, si può immaginare che la tenuta narcisistica del soggetto tossicomane sia strutturalmente deficitaria e che lo specchio, anziché restituire al soggetto la pro- pria immagine ideale, appaia come uno "specchio infranto" che solo la droga può provare a cementare.15 Ebbene, la funzione narcisistica della droga risponde a questa finalità di supplemento narcisistico, ma non tanto per gli effetti diretti della sostanza sul corpo, quanto per gli effetti di nominazione che l'uso della droga comporta, laddove il soggetto tossicomane vive la sua dipendenza dalla sostanza come una forma di identificazione, di neoidentità, come qualcosa che nomina il suo proprio essere.16 In questo senso possiamo davvero intendere gli effetti secondari della droga come effetti di rafforzamento di un narcisismo non strutturato sufficientemente. Il personaggio del tossicomane subentra a un soggetto che non osa assumere il proprio desiderio. Al posto di questa assunzione troviamo uno stereotipo di soggettività vincolata, appunto, a un copione, a rituali, a codici di comportamento definiti, nei quali la spinta alla trasgressione diventa una sorta di principio di normalità, di divisa necessaria per dare corpo alle gesta del personaggio tossicomane. Dunque, essere un tossicomane, definirsi tossicomane, nominarsi, rappresentarsi come un tossicomane attraverso il proprio sintomo offre al soggetto l'illusione di una consistenza identitaria che prova a supplire la difficoltà del soggetto ad assumere creativamente il proprio desiderio. LA BIFORCAZIONE NEVROSI-PSICOSI Se non esiste una diagnosi al singolare della tossicomania è perché la tossicomania non è una struttura di personalità. Questo significa che potranno esistere usi soggettivi differenti delle droghe che implicano, appunto, strutture di personalità differenti.17 Non nel senso che a un certo uso corrisponderebbe meccanicamente una struttura di personalità, ma in quello più complesso che a partire dalla differenza soggettiva dell'uso della droga si possono ricavare indici significativi per diagnosticare strutture di personalità differenti. Un determinato uso della droga può in effetti riflettere strutture di personalità differenti, può, per esempio, evidenziare una difesa del soggetto dal rischio che corni l Vedi C. Olievenstein, Il destino del tossicomane, tr. it. Boria, Roma 1993, pp. 90-100. Vedi anche C. Olievenstein, Droga. Un grande psichiatra racconta trentanni con i tossicodipendenti, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2001. 16. E il lavoro di H u g o Freda che ha particolarmente insistito sull'importanza degli effetti di nominazione nella clinica della tossicomania. Vedi H. Freda, Psicoanalisi e tossicomania, cit. 17. Questa riflessione dovrebbe essere completata da una riflessione sulla diffusione dei diversi tipi di droghe e di come queste diverse sostanze (cocaina, ecstasy, eroina ecc.) si prestino più facilmente a certi usi soggettivi piuttosto che ad altri. porterebbe l'assunzione singolare del suo desiderio (nevrosi), oppure porre in risalto la sua necessità di difendersi dalla pressione persecutoria del godimento dell'Altro (psicosi). Tuttavia, anche in questa biforcazione, si può notare come il riferimento per il soggetto non sia affatto il suo proprio desiderio inconscio ma la sua difficoltà a tollerare l'angoscia. Freudianamente l'esperienza dell'angoscia può essere in relazione sia a un troppo di presenza, a un "ingorgo libidico", a un difetto di presenza, dunque causata dall'assenza dell'oggetto amato, ed entrambe queste declinazioni si possono ritrovare nella clinica della tossicomania che, da questo punto di vista, è meno una clinica del desiderio e più una clinica dell'angoscia. L'angoscia della presenza e l'angoscia dell'assenza o della perdita dell'oggetto definiscono, in effetti, una oscillazione tipica del soggetto tossicomane. In molti casi clinici noi vediamo che l'uso della droga non è affatto dominato dalla cosiddetta ricerca del piacere, ma si profila come un'esperienza di difesa dal godimento e dell'angoscia che esso comporta. Si tratta, se si vuole, di usare il godimento della sostanza per difendersi da un Altro godimento ben più minaccioso e incombente. Nelle storie di tossicomani psicotici si può vedere bene come l'uso della sostanza intervenga come un cemento che permette di tenere insieme un'identità che altrimenti rischierebbe facilmente la scompensazione. In questi casi la sostanza può non essere un fattore di slatentizzazione delle psicosi - come in altre circostanze invece può accadere - , ma un fattore di compensazione della psicosi. Allo stesso modo, in soggetti nevrotici, possiamo osservare come l'uso della sostanza possa essere una difesa rispetto all'angoscia che suscita nel soggetto l'idea di poter desiderare, di essere incalzati dal desiderio dell'Altro, di essere assoggettati al desiderio e, dunque, di poter perdere o non possedere ciò che si desidera, di essere in balìa del desiderio dell'Altro e delle sue oscillazioni enigmatiche. In questi casi il ricorso alla droga diventa una difesa dall'incontro angosciante con il desiderio dell'Altro, dove l'angoscia è qui suscitata non tanto dall'invadenza del godimento dell'Altro, ma dall'impossibilità di assicurarsi definitivamente la presenza del desiderio dell'Altro, dell'essere esposti alla sua irriducibile alcatorietà. Come si vede, in entrambe queste possibilità, l'uso della droga non risponde mai alle esigenze del desiderio, ma sempre a quelle del godimento, o nel senso che viene posto come un'alternativa meno dispendiosa e meno angosciante del desiderio, o come una difesa radicale dal desiderio stesso. In ogni caso, dobbiamo confermare che in nessun modo il soggetto tossicomane è un soggetto di desiderio. USI SOGGETTIVI DELLA SOSTANZA Questa linea di demarcazione - quella che distingue la difficoltà di assunzione del proprio desiderio dalla necessità di difendersi dall'incombenza del godimento dell'Altro - resta per la nostra pratica cruciale e orienta la diagnosi differenziale del soggetto tossicomane. La differenziazione degli usi delle sostanze può costituire un terreno specifico della diagnosi strutturale perché ci aiuta a sgombrare il campo dall'idea che esista una sola personalità tossicomanica. L'uso al plurale della sostanza introduce il fattore singolare come irrevocabile: non esiste una diagnosi univoca di personalità tossicomanica ma esistono usi plurali delle sostanze che illustrano diverse declinazioni strutturali della figura psicopatologica della tossicomania. Propongo allora, a titolo esemplificativo, di distinguere almeno quattro possibili usi soggettivi della droga: l'uso analgesico, l'uso autoerotico, l'uso separativo e l'uso normotico o ordinario. Il primo uso, l'uso analgesico, è l'uso sul quale anche Freud ha molto insistito, pensando però non tanto al profilo del tossicomane, quanto a quello dell'alcolista. La tesi di Freud è che il consumo della sostanza risponde sempre a una certa funzione analgesica, nel senso che la sostanza agisce come un rimedio nei confronti del dolore dell'esistenza e del disagio della Civiltà. Essa è assimilabile a uno "scacciapensieri" (Sorgenbrecher), a un farmaco che "ripara" la vita dalle offese del reale.18 Da questo punto di vista, la droga è sempre in generale un'esperienza antidepressiva che può raggiungere vere e proprie punte di maniacalità. Quando mettiamo in luce l'aspetto analgesico dell'uso della sostanza vogliamo mettere in luce il modo col quale la sostanza contrasta artificialmente la tendenza strutturalmente depressiva del soggetto. Il secondo uso è quello che potremmo definire come autoerotico. Abbiamo già visto a proposito del riferimento alla perversione l'incidenza del partner asessuato o inumano incarnato, nella tossicomania, nell'oggetto-sostanza. L'uso di sostanze narcotizzanti già per Freud poteva rispondere all'esigenza di compensare una vita sessuale insoddisfacente. Più precisamente, l'autoerotismo nell'esperienza del consumo di droga tende a sostituire l'esperienza del godimento fallico, dunque del godimento sessuale, normato dalla castrazione simbolica e 18. "Con l'aiuto dello scacciapensieri sappiamo dunque di poterci sempre sottrarre alla pressione della realtà e trovare riparo in un m o n d o nostro, che ci offre condizioni sensitive migliori. E noto che proprio questa caratteristica degli inebrianti ne costituisce in pari tempo il pericolo e la dannosità" (S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., voi. 10, p. 570). implicato nella relazione con l'Altro sesso. Il riferimento al godimento fallico deve essere qui considerato seriamente in quanto nella nostra prospettiva la tossicomania resta una patologia maschile, legata, appunto, alla mancata assunzione della competenza fallica. Questa difficoltà di assunzione può riflettere benissimo una difficoltà di ordine nevrotico a coniugare efficacemente la pulsione al desiderio, oppure può essere l'indice di una assenza forclusiva del Nome del Padre che lascia il soggetto senza alcun riferimento simbolico per procedere in questa operazione di soggettivazione della propria sessualità. In ogni caso è sempre decisivo il momento in cui il soggetto è chiamato ad assumere la propria competenza fallica. Spesso nelle congiunture di scatenamento della tossicomania il soggetto chiamato ad assumere soggettivamente il proprio desiderio fallisce in questo compito e si rivolge alla droga come a una sorta di alternativa a quella assunzione. Assumere la propria competenza fallica o assumere un sostituto di questa competenza, cioè assumere la droga al posto di una non avvenuta assunzione fallica; assumere la droga per non assumere la funzione fallica perché la funzione fallica è ovviamente esposta all'angoscia di castrazione, ovvero al rischio del fallimento, all'imprevedibilità ingovernabile del legame con l'Altro sesso. In questo senso la formula principale con la quale Lacan ha definito la posizione della soggettività del tossicomane e la funzione dell'oggetto-droga coglie perfettamente nel segno. "Non c'è altra definizione della droga che questa - afferma: è ciò che permette di rompere il matrimonio con il fapipì". 19 Questo significa, appunto, che l'assunzione della droga mira a sciogliere il legame del soggetto con il fallo e con la castrazione che questo comporta. Significa proporre un divorzio tra il soggetto e il fallo in modo tale che il soggetto sia disimpegnato da ogni difficoltà relativa alla sua assunzione. Per questa ragione, per questa prevalenza della problematica dell'assunzione soggettiva del fallo, la tossicomania resta a nostra avviso una patologia elettivamente maschile tanto quanto l'anoressia resta, all'inverso, una patologia elettivamente femminile.20 Per esempio, è frequente rilevare 19. Vedi J. Lacan, "Discours de clóture aux J o u m é e s des Cartels (Avril 1975)", in Lettres de l'Ecole Freudienne, 18,1976. 20. Questa tesi non è contraddetta dalla presenza di soggetti tossicomani di sesso femminile o dalla presenza di sintomi pseudoanoressici in soggetti maschili, in quanto essa sostiene l'esistenza di una affinità fondamentale tra il fantasma specifico della sessuazione maschile (che è un fantasma di appropriazione e di consumo dell'oggetto di godimento) e quello della sessuazione femminile (che è un fantasma che mira al di là del godimento fallico, verso la dimensione più radicale dell'amore). Dove, evidentemente, come indica Lacan, la sessuazione non va confusa con il dato anatomico della sessualità, ma indica piuttosto il tempo inconscio della scelta soggettiva del sesso che p u ò contraddire o che comunque prescinde dall'oggettività biologica del sesso. come l'inizio dell'uso delle sostanze possa avvenire di fronte a una delusione amorosa o, più frequentemente ancora, di fronte all'incognita che comporta il salto verso l'Altro sesso. Rispetto alle turbolenze dei legami affettivi, rispetto alle difficoltà inaggirabili che investono l'incontro con l'Altro sesso, la scelta della droga si profila come un'alternativa che risparmia al soggetto l'angoscia della prestazione fallica e il rischio della perdita dell'oggetto. La droga è, infatti, come la bottiglia per l'alcolista o il cibo per il soggetto bulimico, un partner inumano che assicura una presenza senza domanda e, soprattutto, senza desiderio. In questo senso la posizione del soggetto tossicomane riflette l'orientamento di fondo del fantasma maschile che esige la presenza anaclitica dell'oggetto e il suo consumo libidico; l'uso autoerotico della droga trova qui la sua giustificazione di fondo in quanto espressione di un godimento freudianamente "sostitutivo" al godimento sessuale. Tuttavia, diversamente dal godimento autoerotico in senso stretto, come quello relativo alla pratica masturbatoria, il quale si nutre del fantasma inconscio del soggetto, la pratica tossicomanica si pone come senza fantasma, dunque in assenza di erotismo vero e proprio. Niente di erotico, dunque, nel godimento tossicomanico, il quale resta vincolato più a Thanatos che a Eros, essendo godimento che genera mortificazione del corpo e distruzione. Questa avvertenza nell'uso dell'aggettivo "autoerotico" ci deve spingere a porre l'accento sull'"auto", sull'assenza della dimensione eteroclita del desiderio, sull'affermazione del godimento chiuso della monade, del godimento dell'Uno senza l'Altro, più che sull'erotismo. Il terzo uso che vorrei mettere in evidenza è l'uso separativo della droga. Questo uso si riscontra frequentemente nella clinica della psicosi e nell'uso dell'eroina in particolare. In primo piano è l'esperienza della sostanza come esperienza di un eccesso di godimento che stacca il soggetto dalla sua inserzione sulla scena del mondo, che, in altri termini, separa il soggetto dalla sua appartenenza alienata ai sembianti sociali. In questo senso c'è una profonda affinità tra questo uso della sostanza - che trova, ripetiamolo, nel consumo dell'eroina il suo paradigma - e la scelta della psicosi che è una scelta radicale di rifiuto dell'alienazione nei significanti dell'Altro. Se nel caso dell'uso autoerotico in primo piano, come abbiamo appena visto, c'è la dissociazione del soggetto dal fallo e, di conseguenza, dall'angoscia di castrazione, in questo caso in primo piano c'è la tendenza ad arginare la dipendenza angosciante e persecutoria dall'Altro - familiare o sociale - separandosi da ogni forma di legame e, conseguentemente, di alienazione. La separazione non avviene qui nella forma "classica" della perdita dell'oggetto, come per esempio può accadere in un'esperienza di lutto (l'esperienza di lutto è, infatti, un'esperienza di separazione che implica la perdita dell'oggetto), ma avviene per un eccesso di presenza dell'oggetto, di asfissia, di troppo, che può generare, appunto, un effetto di caduta, di slegame, di sconnessione, di separazione, ma anche, più semplicemente, di anestetizzazione del corpo e delle sue sensazioni. E ciò che definisce il "Nirvana contemporaneo", ovvero quello stato di assenza di passioni e di sensazioni che viene provocato non tanto da una progressiva ascesi, da un lento distacco dalle passioni del corpo (come avviene nella tradizione induista classica), ma da una iperstimolazione violenta del corpo, come quando il volume della musica è così alto da generare una sensazione di assenza di suono, di silenzio paradossale. In questo senso l'uso separativo si può congiungere con quello analgesico. E quello che per esempio possiamo ritrovare anche nella clinica della bulimia quando nel momento dell'abbuffata, dunque all'apice del pieno addizionale della sostanza, cioè al culmine dell'alienazione, possiamo verificare il prodursi di un movimento di separazione; il soggetto al colmo del godimento si stacca da ogni legame con l'Altro neutralizzando ogni emozione e ogni fattore di perturbazione. Questo motivo della clinica della tossicomania è molto interessante perché pone il problema del colmo del godimento, non solo come esperienza di fusione, di totalizzazione, di simbiosi mortifera, di ritorno al seno materno, ma anche come raggiungimento di uno spazio di svezzamento traumatico, di separazione, di divaricazione dall'Altro che può essere realizzato senza l'ausilio del simbolo, ma solo mediante un movimento del corpo, un troppo pieno addizionale del corpo capace di generare una separazione del soggetto dall'Altro.21 L'ultimo uso soggettivo delle droghe sul quale vorrei soffermarmi è quello che definirei normotico o ordinario 22 Come abbiamo avuto modo di vedere, Christopher Bollas ha definito nella figura della personalità normotica una nuova patologia della contemporaneità. Si tratterebbe di una personalità che soffrirebbe non tanto del sentimento di non integrazione nel sistema sociale, ma, al contrario, di un eccesso di adesività acritica e impersonale al sistema, dunque di un eccesso di 21. Un riferimento teorico chiarificatore p u ò essere la categoria clinica della "ipersazietà" che Helene Deutsch ha isolato attraverso il commento di una serie di casi clinici. Vedi H. Deutsch, "Bonheur, satisfaction et extase", cit. 22. Il termine "normotico" fa volutamente riferimento al lavoro di Christopher Bollas sulla personalità normotica. Vedi C. Bollas, Uombra dell'oggetto, cit., pp. 142-163. Il termine "ordinario" si rifa invece alla definizione di "tossicomanie ordinarie" proposta da U. Zuccardi Merli (vedi "Introduzione", in II soggetto alla deriva, cit.). identificazione all'Altro sociale e ai suoi sembianti. Un uso normotico o ordinario della sostanza-droga risponde quindi non tanto all'esigenza di separazione dall'Altro - come accade nell'uso separativo - ma a quella di una sua perfetta immedesimazione conformista. Mentre allora la funzione separativa della droga trova nell'eroina il suo prototipo, quella normotica o ordinaria lo trova nella cocaina che, tra tutte le droghe, è forse quella che meglio si presta a piegarsi alle esigenze del principio di prestazione che regge il discorso della Civiltà ipermoderna. Diversamente dall'eroina, la cocaina non favorisce alcuna separazione dal discorso dell'Altro ma favorisce nel soggetto quell'eccitazione che gli consente di adattarsi meglio e più rapidamente alle esigenze del sistema. In questo senso la cocaina è la droga che agisce come una vera e propria protesi narcisistica dell'Io. Non è l'esperienza del collasso dell'Io, come per esempio avviene con l'uso dell'eroina, non è l'esperienza della perdita del controllo, di cedimento della volontà, di separazione per ipersazietà, di abbandono. Nel consumo analgesico e separativo della droga non troviamo al centro il principio di prestazione, ma caso mai il principio del Nirvana, nel senso freudiano del termine, ovvero come principio di narcotizzazione della vitaP In questi casi la soggettività tossicomanica tende a manifestarsi come una soggettività alla deriva. Sul lato del principio di prestazione, invece, il soggetto cocainomane illustra l'uso normotico o ordinario della droga. Al centro abbiamo, come avviene per il soggetto anoressico attraverso l'identificazione idealizzante all'anoressia, un rafforzamento dell'Io e delle sue capacità prestazionali. Il soggetto dell'inconscio viene disattivato, ciò che emerge è un soggetto aspirato dal Super-io sociale, inautentico, totalmente riverso sulla domanda dell'Altro. In questo senso il cinismo del cocainomane è perfettamente coincidente con il cinismo del discorso del capitalista.24 Più in generale l'uso normotico o ordinario delle droghe sembra caratterizzare in modo specifico l'epoca ipermoderna. L'idea della droga come esperienza euristica, come viaggio inconscio o come espressione 23. Più precisamente, Freud definisce il principio di Nirvana come una narcotizzazione del principio di piacere, ovvero del principio che orienta la vita. Vedi S. Freud, Il problema economico del masochismo, cit., p. 5. 24. E questo un punto ben evidenziato da Umberto Galimberti: "Mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti, la cocaina induce il soggetto a superare se stesso, senza essere mai se stesso, ma solo una risposta agli altri, alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omogeneizzazione alle norme di socializzazione richieste dalla nostra società a cui fanno più comodo robot automatizzati e automi impersonali che soggetti capaci di essere se stessi" (U. Galimberti, L'ospite inquietante, cit., p. 85). di una cultura antagonista a quella dominante, sembra lasciare il posto all'idea della droga come potenziamento chimico-artificiale delle competenze pseudofalliche del soggetto. Alla figura del tossicomane come ribelle o derelitto della società, come figura ai margini della Legge e del discorso, emerge nello spazio ipermoderno la figura di una soggettività tossicomanica normotica, ordinaria, ben adattata, conformista, in pace con il sistema del grande Altro, incardinata nei meccanismi della Legge e del potere.25 Questo nuovo volto del tossicomane non cancella la tossicomania come espressione pura della pulsione di morte, del soggetto alla deriva, ma pone il problema di una sorta di biforcazione che sembra attraversare il mondo delle tossicomanie contemporanee: da una parte droghe il cui consumo è sostenuto dal principio di prestazione, dall'altra droghe il cui consumo è sostenuto dal principio del Nirvana contemporaneo. Da una parte soggettività tossicomani che tendono a usare le droghe come amplificazione maniacalizzante delle loro capacità prestazionali, in linea con la direzione di fondo del discorso del capitalista, dall'altra soggettività tossicomani che rifiutano il discorso dell'Altro, che non tollerano il principio di alienazione e che, di conseguenza, usano le droghe per catapultarsi al di fuori di ogni legame possibile con l'Altro, per distruggere ogni forma erotica di legame.26 25. N o n ci si deve allora stupire che la circolazione della cocaina faccia regolarmente la sua apparizione nei circuiti del potere politico ed economico. 26. Questa oscillazione dalla prestazione alla deriva trova nel campo istituzionale una sorta di incarnazione controtransferale nelle dinamiche che solitamente accompagnano il lavoro degli operatori. Nella mia esperienza di supervisore presso il SERT di Bologna ho notato prodursi una oscillazione particolarmente insidiosa nell'atteggiamento dei curanti tra una tendenza ad agire seguendo la logica spontanea di un maternage illimitato, del prendersi cura del paziente senza porre alcun genere di taglio, di discontinuità colludendo così con la tendenza alla cronicizzazione della dipendenza. In questa prima oscillazione l'operatore vive la sensazione di essere in balia di un soggetto alla deriva. L'altro polo dell'oscillazione è invece costituito dal rovescio della medaglia del maternage cronicizzante, ovvero da quegli atteggiamenti fondamentalmente evacuativi, espulsivi, manifestazioni di un rifiuto di fondo del reale scabroso incarnato dal paziente. Di fronte a queste due risposte sintomatiche degli operatori che riflettono l'oscillazione del soggetto tossicomane tra prestazionismo e deriva abbandonica la psicoanalisi p u ò dare il suo contributo, per esempio, mostrando la necessità di rompere la tendenza cronicizzante del maternage introducendo la possibilità di realizzare dei tagli nel processo della cura che provino a sottrarre l'operatore (o l'équipe) da quella sorta di ipnosi spontanea che collude controtransferalmente con la dipendenza patologica del soggetto, o p p u r e quello di ridare il giusto entusiasmo all'équipe nella lettura del caso clinico che a volte viene completamente trascurata dal prevalere di informazioni meramente quantitative o dall'urgenza di dover rispondere a congiunture particolarmente drammatiche. Questa riabilitazione della storia clinica p u ò essere un contrappeso positivo alla tendenza dell'equipe a rispondere sempre e solo alle contingenze più critiche. Interrogarsi solo su come tamponare queste contingenze cancella la dimensione storica e clinica del caso, la sua singolarità più propria alla quale invece l'équipe deve darsi la possibilità di appassionarsi nuovamente. Una lettura del cosiddetto caso clinico orientata dalla psicoanalisi p u ò diventare u n o strumento fondamentale per provare a produrre il soggetto, o a isolare dove si è manifestato del soggetto, anche in quelle storie cliniche dove il soggetto sembra non apparire in nessuna forma. La sensibilità della psicoanalisi consiste proprio in questo: saper produrre il soggetto laddove nessuno sarebbe disposto a scommettere Nondimeno, si deve anche notare come in questa alternativa radicale vi sia un punto sotterraneo di convergenza paradossale; in entrambe le posizioni, nell'allentamento del legame sociale come nell'accentuazione delle performance e delle capacità egoiche di stare maniacalmente nel legame sociale, prevale una comune spinta mortifera ^annientamento del desiderio. E questo, in ultima istanza, il punto che unifica le diverse tossicomanie: cancellare l'angoscia che comporta la singolarizzazione del proprio desiderio mediante il consumo di una sostanza di godimento che alimenta l'illusione di una forza non intaccata dalla castrazione. In realtà la clinica psicoanalitica sa che laddove si dà forza non legata alla castrazione simbolica e, dunque, non legata al desiderio, si dà solo pulsione di morte. sulla sua esistenza. Ma questo non significa, come invece pensano i suoi detrattori, fare appello ingenuamente all'inconscio del soggetto, perché questa è, quasi sempre, la cosa peggiore che si possa fare con un soggetto tossicodipendente. Piuttosto il lavoro da fare sarebbe quello di provare a ricostruire, laddove possibile, un soggetto dell'inconscio senza d a m e per scontata l'esistenza. DEPRESSIONI CONTEMPORANEE IL CARATTERE STRUTTURALE DELLA DEPRESSIONE E LA SUA DECLINAZIONE PLURALE La clinica dell'anoressia ci ha insegnato che i cosiddetti nuovi sintomi non si prestano a una declinazione diagnostica singolare semplicemente perché non sono strutture soggettive alla stessa stregua di nevrosi, psicosi e perversione. L'uso del plurale s'impone dunque come un criterio minimo per evitare una confusione teorica che rischierebbe di disperdere il rigore della diagnosi differenziale in una moltiplicazione artificiosa delle strutture cliniche. D'altra parte non ci accontentiamo nemmeno di una diagnostica fenomenica che finirebbe per invalidare la nozione stessa di struttura in una sorta di volatilizzazione descrittiva dei fenomeni sintomatici. Un principio che resta orientativo della nostra pratica è quello relativo alla distinzione tra fenomeno e struttura. Come per l'anoressia e per gli attacchi di panico, anche nella clinica delle depressioni occorre porre in valore l'uso teorico e pratico del plurale. Non esiste la depressione ma esistono le depressioni, affetti, tratti depressivi che possiamo ritrovare in differenti strutture cliniche. Esistono depressioni nevrotiche e depressioni psicotiche, depressioni centrate sulla svalorizzazione fallica, legate a un cedimento dell'immagine narcisistica dell'Io ideale (depressioni nevrotiche) e depressioni centrate invece sulla mortificazione fallica, legate a un radicale dissesto della costituzione dell'Ideale dell'Io (depressioni psicotiche).1 1. Su questa distinzione mi permetto di rinviare al mio Clinica del vuoto: anoressie, ze, psicosi, cit., in particolare pp. 59-71. dipenden- Questi brevi cenni alla problematica della diagnosi differenziale ci conducono a distinguere il carattere strutturale della depressione dall'idea della depressione come struttura. Quest'ultima può essere in senso stretto ridotta alla melanconia psicotica. Altrimenti, a rigore, la depressione come struttura non esiste poiché, appunto, esistono solo affetti depressivi al plurale che la diagnosi differenziale deve poter ricondurre alle diverse strutture cliniche. LA MUFFA DELL'ESISTENZA Non è la depressione come struttura che si deve porre in risalto quanto il carattere strutturale della depressione come dimensione transclinica della depressione stessa. Il carattere strutturale della depressione caratterizza l'idea lacaniana di soggetto. Il soggetto diviso di Lacan non è infatti il soggetto suddiviso della ragione filosofica classica, non è il soggetto di Platone (suddiviso tra l'anima razionale, irascibile e concupiscibile) o di Aristotele (suddiviso tra anima intellettiva, sensitiva e vegetativa), né il soggetto lacerato della tradizione giudaico-cristiana (tra anima immortale e corpo passionale naturale), ma quel soggetto che ha proprio nella divisione, nella sua non coincidenza, nella sua disidentità, il proprio essere. La "mancanza a essere" è, in questo senso, la dimensione simbolicamente cruciale di questa divisione "costituente". La sua espressione più scabrosamente reale la troviamo in ciò che Lacan nomina in Kant con Sade come "dolore di esistere", dunque come qualcosa di assai più radicale della "mancanza a essere". Mentre infatti quest'ultima dà luogo al desiderio - è alla radice del desiderio - , rivelando la divisione soggettiva come manifestazione della metonimia del desiderio, il dolore di esistere scopre invece la vita come disgiunta dal senso, scopre il reale dell'esistenza come irriducibile ai sembianti immaginari e simbolici che ordinano la realtà stabilita dal discorso comune. Mentre la mancanza a essere esibisce la divisione del soggetto nella forma del desiderio, il dolore di esistere rivela questa divisione come "muffa", "lesione", "necessità stupida" dell'esistenza. Ancora: mentre il desiderio dà senso all'esistenza, il dolore di esistere manifesta la vita come pura disgiunzione dal senso, come "nuda vita", secondo l'espressione di Agamben. Lacan riprende Freud proprio su questo punto: Non crediate che la vita sia una dea esaltante sorta per arrivare alla forma più bella, che ci sia nella vita la minima forza di compimento e di progresso. La vita è un rigonfiamento, una muffa, non è caratterizzata da nient'altro che - come altri oltre a Freud hanno scritto - dalla sua attitudine alla morte. 2 Cosa ci dice qui - attraverso Freud - Lacan? Ci dice che la vita non è una bella forma, una buona immagine, un'espressione del senso, ma un non-senso, un "rigonfiamento", una "muffa". Ci dice che la vita non è una "forza di compimento e di progresso" ma una spinta alla morte che contrasta con ogni concezione ideale dello sviluppo evolutivo. La funzione narcisistica dell'immagine e quella simbolica del senso cercano di rimediare e di ricoprire il reale brutto e scabroso dell'esistenza, ma la vita nel suo reale non può essere sublimata né dalla specularizzazione narcisistica, né dalla presa del senso. Lacan insiste sul fatto che la vita nel suo reale è disgiunta sia dall'idealità dell'immagine sia dall'ordine simbolico del senso. Nel suo reale la vita: è una deviazione, un'ostinata deviazione, per se stessa transitoria e caduca e sprovvista di senso... Un senso è un ordine che sorge. Una vita insiste per entrarci, ma esso esprime forse qualcosa di completamente al di là di questa vita, poiché quando andiamo alla radice di questa vita, non troviamo nient'altro che la vita congiunta alla morte. 3 Se, dunque, l'anoressia illumina, specie nella sua declinazione isterica, il lato desiderante della divisione soggettiva - esaltando l'irriducibilità della dialettica del desiderio a quella della domanda e del bisogno - , la depressione manifesta il lato leso, la lacerazione reale della divisione soggettiva, la piaga, la muffa dell'esistenza, il suo rigonfiamento "sprovvisto di senso" come irriducibile a ogni immagine ideale del soggetto. Da questo punto di vista la dimensione strutturale della depressione concerne Val di qua del desiderio, la sua radice antivitale, la congiuntura ultima, come si esprime Lacan, della vita alla morte. Non a caso Freud definiva la melanconia come un disimpasto radicale tra Eros e Thanatos, dunque come una manifestazione della pura attività della pulsione di morte che finisce per annientare il sentimento stesso della vita. 2. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro II. cit., p. 295. 3. Ibidem. UNA BIFORCAZIONE STRUTTURALE Questa congiuntura della vita alla morte è il cuore transclinico della depressione, la sua base strutturale che trova nella melanconia una esibizione drammatica: il soggetto è ridotto a oggetto-scarto, a oggetto-rifiuto, al reale bruto della muffa dell'esistenza, al suo rigonfiamento privo di senso. Dove c'è affetto depressivo, dunque anche nella clinica delle depressioni nevrotiche, c'è sempre emergenza di questa lesione reale dell'esistenza che nessun senso e nessuna immagine possono davvero guarire. Ciò che in questi casi costituisce la differenza diagnostica è la possibilità del soggetto di ritornare, grazie al lavoro del lutto, a una soggettivazione possibile di questa emergenza traumatica del reale. In questo senso Freud in Lutto e melanconia insisteva nell'opporre la possibilità psichica del lavoro del lutto all'affetto melanconico come segno dell'impossibilità di accedere a questo lavoro a causa di una identificazione pervicacemente adesiva all'oggetto perduto. Il carattere strutturale della depressione confronta il soggetto con il suo statuto di oggetto-scarto. Ma nella melanconia il soggetto resta schiacciato dall'ombra dell'oggetto - non può separarsene perché, paradossalmente, vi coincide - , mentre nelle depressioni nevrotiche in primo piano è la difficoltà del soggetto ad assumere il proprio desiderio con decisione. Il carattere epidemico delle depressioni contemporanee sottolinea precisamente questa difficoltà: il soggetto patisce l'occlusione del desiderio come effetto di un discorso sociale orientato perversamente (l'oggetto-gadget richiude artificiosamente la castrazione del soggetto rinnegandola) e maniacalmente (l'euforia del divertissement sembra abolire la responsabilità del soggetto nei confronti del proprio desiderio). Oppure sperimenta la separazione dall'Altro, la svalorizzazione della sua propria immagine, l'inconsistenza immaginaria degli oggetti privati del bagliore del loro fondamento fallico, il vuoto di senso che campeggia tra le fila degli oggetti di godimento che il discorso del capitalista esibisce nel loro falso splendore.4 Mentre nelle depressioni nevrotiche il soggetto è alle prese con una difficoltà ad assumere la vitalità del proprio desiderio a causa di una sua svalorizzazione fallico-narcisistica, nelle depressioni psicotiche il soggetto affonda nella mortificazione fallica; al centro non è più il rapporto con la propria mancanza a essere, ma con un vuoto amorfo, fuori 4. Su questi ultimi aspetti vedi l'ottimo articolo di P. Skriabine, "La dépression, bon heur du sujet?", in Revue de la Cause freudienne, 35, 1997. dialettica, impossibile da simbolizzare.5 Diversamente dalle depressioni nevrotiche nella melanconia non è in gioco l'annullamento del desiderio o la compensazione fallico-narcisistica dell'angoscia di castrazione, ma l'annullamento del "sentimento stesso della vita".6 Il fondamento di questa biforcazione fondamentale della clinica delle depressioni si può reperire in una serie di indicazioni che Lacan ci fornisce al termine del suo Seminario X dedicato al tema AeW'Angoscia dove viene distinta, con rinnovato rigore, la dimensione depressiva del lutto, che si mantiene in rapporto alla perdita dell'oggetto come supporto narcisistico dell'immagine ideale del soggetto, dunque a un processo di deidealizzazione, da quella più propriamente melanconica per la quale in gioco non è tanto la rovina dell'immagine ideale del soggetto ma l'emergere della sua più bruta coincidenza con l'oggetto (a), il quale anziché situarsi nel campo dell'Altro s'incolla al soggetto (melanconia) o manifesta, come avviene nella mania, un suo non funzionamento di fondo che riduce la vitalità del desiderio alla metonimia pura della catena significante senza alcuna possibilità di una significazione autenticamente soggettiva che potrebbe prodursi solo retroattivamente grazie a un capitonamento della metonimia del significante.7 L'emergenza dell'oggetto (a), che nella melanconia attraversa e sgretola la maschera dell'immagine, scaturisce da una identificazione non all'Ideale ma allo scarto. E questa sua emergenza che finisce per annullare la vitalità del desiderio e che Freud descrive a suo modo in Lutto e melanconia quando ci offre l'immagine, ormai divenuta classica, dell'ombra dell'oggetto che cade sull'Io. Mentre nella depressione nevrotica il soggetto è dolorosamente obbligato a ricostituire la propria immagine fallico-narcisistica solo mediante un lavoro di riduzione dell'idealizzazione dell'oggetto perduto, nella melanconia, come afferma Lacan, seguendo Freud, è "l'oggetto che trionfa", 8 anche se quest'oggetto non è più rivestito dall'immagine, presentificandosi invece come un puro reale impossibile da specularizzare. 5. L'opposizione tra una clinica del vuoto e una clinica della mancanza che ho cercato di sviluppare a partire dalla clinica dell'anoressia nel mio Clinica del vuoto: anoressie, dipendenze e psicosi trova qui il suo punto di partenza concettuale. Serge Cottet, come ho già avuto m o d o di ricordare, abbozza questa opposizione proprio a partire dalla clinica della depressione, distinguendo, appunto, una clinica della mancanza (nevrosi) da una clinica del vuoto (psicosi). Più specificatamente, secondo la ripresa di Lacan proposta da Cottet, dobbiamo distinguere una depressione come stato d'animo legato a una chiusura provvisoria dell'inconscio da una depressione che si istituisce sul rigetto radicale del soggetto dell'inconscio. Vedi S. Cottet, "Gai savoir et triste vérité", in Revuede la Cause freudienne, 35,1997, pp. 33-36. 6. Vedi J. Lacan, Una questione preliminare a ogni possibile trattamento delle psicosi, cit., p. 555. 7. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro x, cit., p. 368. 8. Ibidem, p. 367. L'affetto depressivo scaturisce dalla mancanza a essere nel senso che la perdita di un oggetto d'amore o, più in generale, di un oggetto narcisisticamente significativo che assolveva una funzione di compensazione immaginaria di questa stessa mancanza, produce l'effetto di una sua apertura destabilizzante: il soggetto si trova di fronte alla sua mancanza a essere senza alcuna difesa, al punto che tale mancanza può dare luogo alla percezione della superfluità insensata dell'esistenza in quanto tale. Venendo meno la funzione compensatrice dell'immagine narcisistica sostenuta dall'oggetto idealizzato, la lesione della mancanza si riapre e innesca l'affetto depressivo. Ritroviamo qui qualcosa che unisce, pur nella loro differenza irriducibile, le depressioni nevrotiche a quelle psicotiche: l'affetto depressivo implica sempre una sfasatura della compensazione narcisistica che sostiene il soggetto. Solo che mentre nella nevrosi questa compensazione è di tipo fallico-narcisistico, nella psicosi si tratta di una compensazione dell'Edipo assente, dunque di una compensazione immaginaria della significazione fallica forclusa. Nel caso delle nevrosi l'affetto depressivo sorgerebbe allora dallo scarto tra l'Io e il suo rivestimento narcisistico, dunque da una inadeguatezza dell'essere del soggetto rispetto al proprio Ideale (che però implica l'avvenuta costituzione dell'Ideale dell'Io), mentre nel caso delle psicosi esso scaturirebbe dalla mortificazione fallica del soggetto, dunque dall'azzeramento della funzione stessa del fallo che potrà trovare solo nell'euforia maniacale e in un iperattivismo pseudofallico un estremo rimedio immaginario. L'angoscia di morte e la tendenza suicidaria che caratterizzano la depressione psicotica non implicano però affatto la costituzione dell'Ideale dell'Io quanto piuttosto, per usare una formulazione divenuta celebre con la quale Lacan definisce la posizione di fondo del soggetto psicotico, una "regressione topica allo stadio dello specchio". Senza il sostegno, non solo immaginario ma simbolico dell'Ideale dell'Io, l'Io ideale non può che diventare fatalmente una figura della morte. 9 LA DEPRESSIONE È UN NUOVO SINTOMO? La depressione è un nuovo sintomo? La risposta a questa domanda non può che essere duplice. Per un verso la depressione si configura effettivamente come un "nuovo sintomo", per un altro no. Non è un nuo9. Vedi J. Lacan, Una questione preliminare, cit., p. 564. vo sintomo in quanto la depressione accompagna da sempre l'essere dell'esistenza, essendo un affetto attraverso il quale l'esistenza è confrontata con se stessa, con la propria fragilità ontologica, con la sua muffa, con la lesione reale che l'attraversa. Per un altro verso però può apparire come un "nuovo sintomo" in quanto esiste nella Civiltà ipermoderna una diffusione epidemica della depressione dai caratteri inediti che, quantomeno, impone che si torni a interrogare il nesso causale tra questa diffusione e la natura del legame sociale nell'epoca del dominio del discorso del capitalista. La spinta a una relazione con l'oggetto di godimento staccato dall'Altro, "smarrito" come lo ha definito Jacques Lacan, facilita infatti la chiusura monadica del soggetto favorendo l'affetto depressivo come espressione di un isolamento imposto dall'imperativo sociale al godimento. La depressione filosofica del secolo XIX (Schopenhauer, Leopardi) sembra infatti lasciare il passo a una depressione che nell'attualità si svela come l'altra faccia di una maniacalità altrettanto diffusa. Di fondo potrebbe valere la tesi seguente: mentre il secolo della depressione filosofica confronta il soggetto con l'esperienza del limite e dell'inconsistenza dell'universo - in questo senso la malinconia è una componente per certi versi ineliminabile dell'attitudine teoretica come tale - in contrappunto critico con "le magnifiche sorti e progressive" legate all'avanzata del mito capitalista della rivoluzione industriale e della ragione tecnologica, la depressione contemporanea sembra invece legata acriticamente a una circolazione impazzita del godimento. Essa ha il suo focus non tanto nell'esperienza del nulla, dell'assenza di fondamento, del limite della ragione tecnologica, ma in un troppo pieno o, se si preferisce, in un vuoto che non ha più niente di metafisico perché è in realtà l'effetto rovesciato del pieno del godimento. Più propriamente, nelle depressioni contemporanee l'affetto depressivo sorge come un prodotto paradossale di una agitazione maniacale diffusa. Non è in rapporto alla mancanza a essere ma alla sua abrogazione, alla "mancanza della mancanza", come direbbe Lacan. L'esorcismo della mancanza a essere praticata dal discorso del capitalista, che promette falsamente di congiungere il soggetto diviso con l'oggetto del godimento, finisce per annullare anche il desiderio che da quella mancanza scaturisce. L'effetto principale di questo annullamento è un'angoscia depressiva - legata alla "mancanza della mancanza" - che, diversamente dall'angoscia depressiva teorizzata dalla Klein, non è affatto legata a un lavoro riparativo nei confronti dell'oggetto d'amore, quanto all'insostenibilità di una vita consegnata integralmente al godimento. Le depressioni contemporanee non si producono più per un venir meno dell'oggetto d'amore, dunque da un'assenza dell'oggetto, ma da un eccesso di presenza dell'oggetto di godimento che cala sul soggetto la sua colla spessa. Sono depressioni da confort, da routine, depressioni che scaturiscono all'apice maniacale del divertissement. Il loro fondamento non è più la separazione del soggetto ma il suo isolamento autistico in una alienazione irrigidita ai sembianti che sembra annullare ogni iato tra l'essere e il sembiante consolidando piuttosto l'essere del soggetto nell'identità senza divisioni di una maschera sociale che sembra cancellare la singolarità del desiderio. LA ROTTURA DELLO SPECCHIO I quotidiani giapponesi della fine degli anni Novanta registravano nelle pagine di cronaca la diffusione inquietante di suicidi di uomini d'affari disperati dall'andamento critico del sistema economico. Uomini intorno ai cinquant'anni, per lo più manager, decidevano di togliersi la vita gettandosi sotto ai treni. Per il pragmatismo giapponese uno degli effetti non trascurabili di questo fenomeno erano i frequenti ritardi che paralizzavano il traffico delle grandi città. Una compagnia di treni escogitò il rimedio dei cosiddetti "specchi antisuicidio" che cominciarono ad apparire nelle stazioni ferroviarie. Vedere la propria immagine allo specchio avrebbe dovuto opporre una sorta di barriera narcisistica estrema nei confronti dei propositi suicidari degli uomini d'affari che avevano perso tutto il loro avere.10 Possiamo pensare che il fondamento teorico degli specchi antisuicidio si trovi nell'ipotesi classica del postfreudismo formulata da Judith Jacobson per la quale la depressione segnala un fondamentale impoverimento narcisistico dell'Io.11 La funzione dello specchio dovrebbe invece poter garantire, nell'emergenza drammatica di uno sfaldamento della funzione costituente dell'Ideale, una iniezione di narcisismo provvidenziale in un soggetto che si percepisce come svuotato di ogni valore fallico e prossimo a uscire dalla scena del mondo. Questo uso dello specchio evidenzia in effetti un tratto essenziale della clinica della depressione: nel soggetto depresso si reperisce come costante uno sfaldamento, una erosione, una caduta dell'I10. Vedi P. Pons, "Dans les gares japonaises, des miroirs anti-suicide face aux désespérés", in Le Monde, 9 giugno 2000, cit. in G. Morel, "Spectres et idéaux: les images qui aspirent", in Clinique du suicide, érès, Ramonville Saint-Agne 2002. 11. Vedi J. Jacobson, La depressione. Studi comparativi degli stati normali, nevrotici e psicotici, tr. it. Martinelli, Firenze 1977. deale. Nondimeno l'uso degli specchi antisuicidio non può non apparirci decisamente ingenuo; esso implica una nozione troppo elementare di narcisismo che finisce quantomeno per confondere l'immagine reale con l'immagine ideale. Lo scarto tra l'Io e l'Io ideale è infatti uno dei centri della clinica della depressione. La depressione anoressica lo illustra con precisione drammatica: essa segnala la non coincidenza tra l'Io e l'Ideale irraggiungibile del corpo magro. L'immagine riflessa non agisce qui come un'iniezione di narcisismo, ma, al contrario, come ciò che provoca l'affetto depressivo in quanto si presentifica come sempre inadeguata rispetto all'immagine idealizzata del corpo magro. Lacan tocca questo aspetto alienante dell'immagine speculare quando gli attribuisce la funzione di fare apparire al soggetto la sua "significazione mortale"; se infatti l'immagine ideale appare al soggetto come da "sempre sottratta", impossibile da raggiungere, ebbene allora in questa costituzione strutturalmente sfasata dell'immagine - in "questa discordanza primordiale fra l'Io e l'essere" - 12 il soggetto potrà leggere anche il suo destino mortale, il suo limite insuperabile, la sua non-identità fondamentale. L'immagine narcisistica dell'Io ideale istituisce la dimensione dell'Io nella quale l'incontro col reale dell'esistenza viene aggirato e rivestito da un involucro immaginario, da una "buona forma". La significazione mortale dell'immagine è cioè bilanciata dalla sua funzione falliconarcisistica. Se noi non ci vediamo per quel nudo reale che noi stessi siamo, se noi non ci vediamo come una assurda muffa (come invece può accadere letteralmente in certi deliri melanconico-ipocondriaci),13 è perché il reale della nostra nuda vita è stato sufficientemente ricoperto, nascosto, sottratto alla vista, abbigliato dal rivestimento fallico-narcisistico dell'immagine del corpo. E questa l'origine non solo dell'Io ma anche, come fa notare Lacan, del "sentimento stesso della vita", il quale, appunto, è un effetto della significazione fallica dell'immagine del soggetto. Cosa rende in effetti un soggetto amabile? In termini analitici l'amabilità di un soggetto dipende dalla sua specularizzazione che non si compie mai nel rapporto puramente narcisistico del soggetto con la propria immagine, ma implica a fondamento di questo processo l'intervento dello sguardo dell'Altro, che guida e certifica simbolicamente l'identificazione narcisistica. Il suo prodotto è l'Io ideale che, avvolgendo il reale del corpo, gli offre, come scrive Lacan, una "buona forma", una identità immaginaria che significa positivamente il reale bruto e informe 12. J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, tr. ic. in Scritti, cit., p. 181. 13. Ma anche in certe esperienze esistenziali radicali come quella che viene raccontata in J-P. Sartre, La nausea, tr. it. Mondadori, Milano 1976. dell'esistenza occultandolo. La formazione dell'Io si produce dalla significazione retroattiva dell'esistenza resa possibile dall'Io ideale. Nondimeno l'Io ideale si costituisce a sua volta solo grazie all'intervento dell'Altro il quale situa il luogo dell'Ideale dell'Io, dal quale appunto, come precisa Lacan, il soggetto può cogliersi come effettivamente amabile. Il valore fallico che ricopre la nuda vita, che negativizza la muffa dell'esistenza - la quale, come tale, deve poter apparire nello specchio solo come mancanza -,1A dipende dal desiderio dell'Altro e dai suoi segni. La vita biologica non è da sé sufficiente - come dimostra la melanconia grave - a fornire il sentimento della vita. Un soggetto melanconico è vivo ma non è animato in nessun modo dal sentimento della vita che risulta al contrario come colpito da una forclusione radicale. L'immagine fallica del soggetto non si è costituita perché l'Altro del melanconico è un Altro che non è animato dal desiderio. Non a caso Freud nelle Nevrosi di traslazione, in una evocazione mitica, associa la melanconia all'epoca filogenetica della glaciazione.15 In effetti la glaciazione della vita definisce l'esatto contrario del movimento del riconoscimento speculare e dei suoi effetti di rivestimento narcisistico del corpo del soggetto; la vita spogliata da ogni supporto fallico appare come una vita senza vita, gelata, priva del calore umano della vita.16 "IO NON SONO NIENTE" Lacan ha attribuito alla funzione significante dell'immagine il potere di costituire il soggetto come un Io. Questa costituzione non avviene per una qualche forma di maturazione cognitivo-percettiva ma, come 14. Come abbiamo già notato, l'angoscia allo specchio sorge quando, al posto dell'immagine fallica che significantizza il reale bruto dell'esistenza, tale reale irrompe perturbando il campo narcisistico, abolendo la mancanza, rendendo cioè la mancanza mancante: "L'Unheimlich (il perturbante) è ciò che appare nel posto in cui dovrebbe stare meno phi, la mancanza... Q u a n d o qualcosa appare lì, significa dunque, se posso esprimermi così, che viene a mancare la mancanza... se improvvisamente non c'è più mancanza, è in quel m o m e n t o che comincia l'angoscia" (J. Lacan, Il Seminario. Libro x, cit., p. 47). 15. Vedi S. Freud, Sintesi delle nevrosi di traslazione, tr. it. in Complementi Opere (1885-1938), Bollati Boringhieri, Torino 1993. Anche Pierre Fédida insiste particolarmente su questo tema della glaciazione come tratto specifico dell'esperienza depressiva. Vedi P. Fédida, Il buon uso della depressione, tr. it. Einaudi, Torino 2002. 16. E questo il nucleo drammatico in evidenza nella figura del "musulmano" commentata da Agamben come figura estrema dell'esperienza del campo di sterminio. La sua oscenità scabrosa consiste proprio nella rivelazione che sotto all'immagine dell'uomo, al di qua dello schermo immaginario della sua rappresentazione narcisistica, c'è l'orrore della morte, lo sguardo senza vita del morto vivente. Vedi G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998. ho già ricordato, grazie alla funzione simbolica dello sguardo dell'Altro che attribuisce un valore particolare - amabile - all'immagine del soggetto. E solo grazie al sostegno di questo sguardo terzo rispetto a quello fissato della coppia speculare che si rende possibile per il soggetto una specularizzazione narcisistica in grado di operare una sorta di sublimazione positiva della "stupida necessità" della sua esistenza. L'immagine dell'Io ideale viene così a ricoprire il reale informe della muffa della nuda vita offrendogli una forma benefica. La tesi sviluppata da MarieClaude Lambotte a proposito della melanconia è che questa funzione di sostegno dello sguardo materno nel soggetto melanconico sia drasticamente mancata. Al suo posto troviamo piuttosto un'assenza dello sguardo, uno "sguardo non-guardante", uno sguardo che attraversa il soggetto senza circoscriverlo simbolicamente, uno specchio vuoto, senza riflesso.17 L'immagine del corpo non ne risulta vivificata ma al contrario appare come gelata e prigioniera di questo sguardo assente. Sul soggetto cade l'ombra di un Altro perfetto, un "ideale assoluto" dispotico e intransigente. Nei nostri termini lo sguardo severo del Superio assorbe e inghiotte l'Ideale dell'Io. Mentre infatti quest'ultimo, come Lacan ha più volte sottolineato, consente di realizzare una sorta di compromesso pacificante tra il narcisismo del desiderio e la Legge simbolica che guida il soggetto al di là dell'immaginario, il Super-io incarna invece lo sguardo giudicante e la voce irresponsabile di un dovere inumano, impossibile da soddisfare. Nella melanconia psicotica possiamo trovare effettivamente questo vuoto arcaico che subentra a una specularizzazione narcisistica mancata del soggetto. Lo sguardo dell'Altro non ha istituito un Ideale dell'Io sufficientemente strutturato perché si è manifestato al soggetto solamente come sguardo severo e intransigente. All'onnipotenza di questo sguardo corrisponde dunque una fragilità estrema dell'Ideale dell'Io. E ciò che rende il soggetto melanconico identificato allo scarto, al rifiuto, alla certezza dell'"io non sono niente". 18 Diversamente, nella depressione nevrotica la perdita dell'oggetto narcisistico scompensa il soggetto confrontandolo col reale della propria divisione, con la muffa della 17. M-C. Lambotte, II discorso melanconico, tr. it. Boria, Roma 1999, p. 285. "Défaillance speculare" (p. 247), "onnipotenza di un modello ideale inaccessibile" (p. 248), "fissità vuota" (p. 282), "impossibile specularizzazione" (p. 285), "sensazione di annientamento" (p. 489), "identificazione con il niente" (p. 498), "scomparsa del desiderio" (p. 500), "diserzione del desiderio dell'Altro" (p.633), "cornice senza quadro, specchio senza riflesso" (p. 633) indicano per la Lambotte la dialettica chiusa del soggetto melanconico che si trova senza il sostegno dello sguardo amorevole animato dal desiderio dell'Altro. 18. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro Vili. Il transfert (1960-1961), tr. it. Einaudi, Torino 2008, p. 459. sua esistenza, mettendo cioè a soqquadro la funzione rassicurante dell'avere fallico nei confronti del nudo reale, ma non intacca l'essere del soggetto. La perdita dell'avere e dei suoi effetti immaginari di rafforzamento fallico (perdita di un lavoro prestigioso, fine o arresto della carriera, percezione dell'estinzione della giovinezza, fallimento professionale, perdita della reputazione, malattia, abbruttimento dell'immagine del proprio corpo) e i suoi effetti destabilizzanti sull'essere del soggetto restano alla base della depressione nevrotica. E ciò che incontriamo ancora più radicalmente nella perdita di un oggetto d'amore (un marito, una moglie, un figlio, un padre, una madre, un amico), perché mentre nell'esperienza dell'essere amati il nostro essere riceveva una conferma narcisistica vitale da parte dell'Altro, nell'esperienza della perdita dell'oggetto d'amore sperimentiamo, al contrario, un invalidamento fondamentale, una frana, una ferita narcisistica, un buco nell'essere. L'essere amati, l'avere un senso a partire dallo sguardo dell'Altro, si può ribaltare improvvisamente nel suo contrario. Senza l'amore la nostra esistenza si trova di nuovo confrontata con il suo reale brutto, con ciò che Lacan ha nominato come disgiunzione della vita dal senso. E per questa ragione che una delle congiunture di innesco più frequenti della depressione è, appunto, la crisi o la fine di una relazione amorosa. Ciò dà ragione della distribuzione epidemiologica della depressione che segnala una forte prevalenza femminile. In effetti anoressia e depressione appaiono come malattie affini al femminile in quanto il fantasma che le sostiene non è un fantasma centrato sull'oggetto, dunque sulla sua appropriazione fallica, ma sull'essere in quanto tale. La ferita amorosa produce più effetti depressivi nella donna che nell'uomo perché la donna più difficilmente si accontenta di rimediare tale ferita attraverso il recupero di un prestigio di tipo fallico-narcisistico. Piuttosto, la radicalità del discorso amoroso espone le donne - non ipnotizzate, né ingombrate in partenza dal miraggio dell'avere fallico a patire maggiormente questa ferita, a percepirne il carattere difficilmente rimarginabile. Nello scacco depressivo il soggetto si ritrova dunque come senza immagine, come "una cornice senza quadro, uno specchio senza riflesso" direbbe la Lambotte, ridotto dunque all'oggetto scarto, costretto a ripetere la sfasatura strutturale tra l'immagine ideale di sé e la sua stupida esistenza. Il venire meno della cura di sé e del proprio corpo testimonia drammaticamente la ripetizione di questa sfasatura: il soggetto percepisce il proprio corpo come se non fosse più rivestito narcisisticamente dall'immagine. Non è solo l'oggetto perduto, ma insieme all'og- getto, come ha fatto notare giustamente Freud in Lutto e melanconia, è l'essere del soggetto che non si ritrova più, che si svuota, apparendo smarrito, senza guida, perduto lui stesso. E tuttavia, nel caso delle depressioni nevrotiche, questa frana dell'essere non intacca mai radicalmente l'essere del soggetto, nel senso che l'affetto depressivo non si pone come verità ultima sull'essere, ma tende a essere metabolizzato dal lavoro simbolico del lutto. La possibilità di trattare la perdita dell'oggetto attraverso il lavoro del lutto mantiene il soggetto in una certa distanza dall'oggetto perduto. Il lavoro simbolico del lutto è infatti un lavoro attorno al reale della perdita finalizzato a soggettivare la separazione dall'oggetto che non c'è più. Nella melanconia psicotica invece questa via appare preclusa poiché la degradazione del soggetto a oggetto è strutturale e non contingente; il soggetto è oggetto perduto (oggetto-scarto, oggetto-rifiuto) nel suo reale e dunque non può procedere lungo la via della separazione simbolica se non distruggendo l'oggetto che esso stesso è diventato nel passaggio all'atto suicidano. "VILTÀ MORALE" O "FORCLUSIONE ETICA" Riprenderò rapidamente la biforcazione tra depressioni nevrotiche e melanconia psicotica sostenuta da Lacan già nel Seminario sviKAngoscia e riformulata aforismaticamente in Televisione. Per un verso, secondo Lacan, la depressione è assenza di coraggio nei confronti del rischio dell'esistenza e del desiderio. Essa può indicare non un rigetto ma una chiusura provvisoria dell'inconscio. Il soggetto sceglie la melma del godimento (del rimpianto, dell'autorimprovero, della autodistruzione, della mortificazione, del lamento inconsolabile) piuttosto di affrontare la contingenza rischiosa del desiderio dell'Altro. E ciò che sospinge Lacan a definire in Televisione la depressione una "viltà morale".19 Questa definizione dell'affetto depressivo mette l'accento sulla responsabilità etica di un soggetto che non intende proseguire nell'assunzione etica del proprio desiderio. La sua viltà morale lo preserva dalla soggettivazione della perdita. Non procedendo in direzione di una simbolizzazione della perdita (nel lavoro del lutto secondo Freud) resta impigliato in una esasperazione solo immaginaria della colpa. La viltà morale consiste nell'opposizione ostinata al carattere irreversibile della perdita. In questo senso la depressione patologica rappresenta, come ci 19. Vedi J. Lacan, Radiofonia e televisione, cit., p. 83. ha indicato Freud, una stasi del lavoro del lutto: il soggetto non vuole separarsi dall'oggetto perduto. Esige piuttosto la sua eternizzazione immaginaria come alternativa all'eternizzazione che la struttura impone al movimento del desiderio. E questa, se si vuole, una dimensione generale della depressione: non è il desiderio ma è l'oggetto perduto a essere eternizzato. Diversamente, il senso di colpa implica necessariamente una divisione soggettiva, dunque il confronto col carattere eternizzante (metonimico) del desiderio. La divisione introdotta nel soggetto dal senso di colpa ha un carattere eminentemente etico: il soggetto della colpa è un soggetto che è in grado di riconoscersi eticamente come responsabile del proprio desiderio. Ma è proprio questa responsabilità ciò che la viltà depressiva rifiuta. In questo essa si trova sulla stessa linea della psicosi e della perversione: il criterio etico della responsabilità soggettiva viene aggirato e ripudiato. È l'esempio paradigmatico della paranoia: nessun lavoro come il lavoro paranoico agisce in contrasto con il lavoro dell'inconscio e con il lavoro analitico. Nessun lavoro come il lavoro paranoico realizza un rigetto radicale dell'inconscio. L'irresponsabilità antietica del paranoico consiste nel citare a giudizio sempre l'Altro, a imputare all'Altro la causa del proprio male, come avviene in modo esemplare nell'accusa querulomaniacale: è l'Altro che è colpevole, è l'Altro che è nell'ingiustizia e che abusa illegittimamente del suo potere, è l'Altro che gode impunemente. Anche nella perversione il soggetto non riconosce colpa alcuna. E senza vergogna e senza pudore; il desiderio si sgancia dalla Legge per trasformarsi in una pura volontà di godimento. Mentre nella dialettica del desiderio nevrotico il senso di colpa segnala la tensione sempre presente tra il desiderio e la Legge, nel soggetto perverso il desiderio è abolito in una apatia che è interamente al servizio del godimento. Per questa ragione il senso di colpa - come indice della divisione soggettiva - è una sorta di prerequisito dell'analizzabilità di un soggetto. Possiamo pensare che la clinica psicoanalitica della nevrosi sia in generale una clinica del senso di colpa, una clinica della soggettivazione della colpa, mentre possiamo porre la clinica del soggetto paranoico come una difesa o una mobilitazione per sostenere un'accusa inderogabile di fronte alla colpa imperdonabile dell'Altro e quella della perversione come una clinica dell'assenza pura di senso di colpa. Nella melanconia, diversamente dalla nevrosi, dalla paranoia e dalla perversione, non abbiamo alcuna soggettivazione della colpa, né il suo rigetto sull'Altro, né la sua negazione, ma solo una sua amplificazione immaginaria che sfocia in una certezza di indegnità che concerne il sog- getto stesso nel suo reale. La possibilità della soggettivazione della colpa è esclusa; il soggetto è ridotto a oggetto di un'autoaccusa da cui non può fuggire. E preda di un Super io feroce, è colpevole per sempre, è destinato alla rovina. Per questa ragione Freud ha potuto definire la melanconia un "delirio morale". 20 Nelle situazioni più estreme solo il passaggio all'atto suicidano può consentire di realizzare una separazione possibile dalla colpa. In questi casi però il soggetto si trova ridotto a oggetto che esce obbligatoriamente dalla scena del mondo. In questo senso, come Lacan ha indicato, la melanconia è in se stessa un "suicidio dell'oggetto", mentre la depressione nevrotica indica solitamente una difficoltà nel procedere nell'elaborazione simbolica della perdita dell'oggetto che concerne il lavoro del lutto. L'ultimo Freud lega il senso di colpa al giudizio severo del Super-io. Da questo punto di vista, dal punto di vista del Super-io, il soggetto è sempre colpevole. Più precisamente, Freud in II disagio della civiltà giunge a dire che mentre gli impulsi libidici si trasformano in sintomi, quelli aggressivi tendono ad alimentare il senso di colpa. E la grande ragione clinica della Klein: l'aggressività è in un rapporto fondamentale con la colpa. In II disagio della civiltà Freud elabora un dottrina inaudita del senso di colpa: il Super-io sociale comanda la rinuncia alla pulsione in cambio della iscrizione nel programma della Civiltà, ma più si obbedisce al comandamento superegoico più il senso di colpa aumenta. E questo il circolo vizioso del Super-io freudiano: più si obbedisce al suo comando più ci si sente colpevoli. Questo significa - ben al di là della prospettiva aristotelica che concepisce la colpa come una mera incoerenza nel governo dell'Io - che non è la censura che interdice il piacere, ma che, paradossalmente, è proprio l'attività di censura che nutrendo il Super-io diventa essa stessa una fonte estrema di godimento. In questo senso il rimprovero del Super-io non è un'attività della coscienza morale ma si manifesta come un prodotto dell'Es. E questo il grande interrogativo clinico sollevato dall'ultimo Freud: di quale colpa si tratta a livello inconscio? Nel Seminario VII Lacan affronta direttamente questo problema. La sua risposta è che si è colpevoli non tanto in rapporto al dovere stabilito dal Super-io, ma in rapporto al desiderio inconscio come tale. La colpa etica consiste precisamente nell'allontanarsi dal proprio desiderio. Ogni volta che si cede sul proprio desiderio c'è senso di colpa inconscio. In questo senso la risoluzione della colpa implica necessariamente 20. Vedi S. Freud, Lutto e melanconia, tr. it. in Opere, cit., voi. 8, p. 105. l'accesso a un'etica del desiderio deciso. Altrimenti il cedimento sul proprio desiderio comporta, nella clinica delle nevrosi, l'affetto depressivo. Dunque la depressione in generale non sorge solo in rapporto alla perdita dell'oggetto, come pensava Freud, ma anche alla rinuncia rispetto al proprio desiderio, alla sottomissione alla logica del sacrificio per il sacrificio imposta dal moralismo del Super-io. L'epoca ipermoderna, essendo l'epoca dell'eclissi del desiderio, è l'epoca della diffusione epidemica della depressione. In queste nuove forme dell'affetto depressivo in primo piano non c'è più la perdita dell'oggetto e la difficoltà a procedere verso la sua simbolizzazione, quanto piuttosto la presenza ingombrante dell'oggetto coi suoi effetti di intorpidimento del desiderio inconscio. La felicità maniacale ipermoderna animata dal discorso del capitalista trova così nella diffusione epidemica della depressione la sua verità rimossa. Per questo Lacan ci tiene a sottolineare sempre come l'etica del desiderio non coincida con l'etica della felicità. La prospettiva etica della psicoanalisi non ha come ideale l'armonizzazione psicologica del soggetto, Xhomo felix. E questo un punto sul quale Lacan non smette di martellare: la via del desiderio non è la via del Bene. Piuttosto l'esperienza dell'analisi insegna che per accedere al desiderio si deve rinunciare a un pezzo di godimento. Ma questa rinuncia non ha nulla a che fare con la rinuncia imposta dal comando severo del Super-io. Esiste infatti una rinuncia simbolica che costituisce la condizione del desiderio perché separa il soggetto dal godimento immediato, ed esiste una rinuncia (quella imposta dal Superio) che alimenta se stessa in modo circolare. Quest'ultima è la rinuncia a fondamento della depressione; è una rinuncia che diventa tanto più esigente quanto più obbliga alla rinuncia. Questa è in effetti l'irrazionalità radicale del Super-io. Esso non è affatto l'istanza morale che ordina le pulsioni. La sua irrazionalità consiste nel prescrivere il godimento della Legge. Per questo più proibisce e più, paradossalmente, alimenta il senso di colpa. Il soggetto che cede sul proprio desiderio e che segue il comando del Super-io non è un soggetto pacificato ma un soggetto mortificato. Quando si rinuncia al desiderio per soddisfare il Super-io non c'è la pace ma il tormento continuo del senso di colpa. Il Super-io è un'istanza appetitiva che vuole sempre di più, che non si accontenta mai. È un'istanza ingorda e insaziabile. Per la psicoanalisi, dunque, la colpa sorge come effetto etico del tradimento del proprio desiderio. La sua risoluzione non può dunque avvenire se non attraverso la realizzazione di una nuova alleanza del sog- getto col proprio desiderio. Nella depressione come viltà morale il soggetto cede sul proprio desiderio e obbedisce al comando superegoico. Nella melanconia psicotica invece è la dimensione stessa del desiderio che viene compromessa; non è il soggetto che cede sul proprio desiderio inconscio, ma è il soggetto che resta come tagliato fuori dal desiderio e che rigetta l'inconscio in quanto tale. In termini freudiani è l'idea della melanconia come esperienza di una "ferita", di una "emorragia", di un "buco (Loch) nello psichico". 21 La viltà morale del soggetto lascia qui il posto a una forclusione etica del senso di colpa: il soggetto melanconico non ha avuto mai accesso alla vitalità del desiderio inconscio, dunque non può assumersene radicalmente la responsabilità. Non c'è viltà di fronte al desiderio ma abolizione del desiderio. Ne deriva che la stessa dimensione etica della responsabilità - dalla quale scaturisce il senso di colpa - viene forclusa. Se nella psicosi la forclusione del Nome del Padre si manifesta come confronto del soggetto con l'imago di un padre folle, identificato alla Legge - come accade per il padre educatore del presidente Schreber - , nel caso della melanconia la forclusione della vitalità del desiderio e della sua soggettivazione possibile comporta un ritorno nel reale della responsabilità simbolica forclusa. Questo ritorno del reale avviene nella forma di un delirio di colpevolezza, di autoaccusa e di indegnità che, diversamente dal senso di colpa che troviamo al centro delle depressioni nevrotiche, non è affatto una manifestazione del soggetto dell'inconscio ma una sua forma di rigetto. La castrazione, non essendo simbolicamente operativa, ritorna direttamente nel reale nella forma assiomatica di una certezza di indegnità: "Io non sono niente". La muffa dell'esistenza emerge come sganciata dall'immagine narcisistica e dall'ordine del senso e si afferma come scarto immondo. Ma questa certezza delirante dell'indegnità immaginarizza integralmente la nozione di responsabilità; al delirio paranoico che si regge suW!assioma di innocenza (è sempre l'Altro ad avere la colpa), quello melanconico sostituisce l'assioma, altrettanto assoluto, dell'indegnità che però, essendo fuori discorso, risulta del tutto impossibile da soggettivare; anch'esso, come quello dell'innocenza paranoica, rigetta ogni assunzione soggettiva della responsabilità etica nei confronti del proprio desiderio inconscio. 21. Vedi S. Freud, Minuta G (1894), tr. it. in Lettere a Fltess (1887-1904), 1986, pp. 128-129. Boringhieri, Torino PARANOIA E AMBIVALENZA IL LAVORO PARANOICO COME ANTILUTTO L'ASSIOMA PARANOICO: "TUTTO È SEGNO" La psicopatologia psicoanalitica isola nella paranoia una delle sue figure fondamentali. Per Freud e per Lacan in essa si manifesta un rifiuto radicale del soggetto dell'inconscio, una sua negazione sistematica, un atteggiamento di non credenza, di Ungaluben, per utilizzare il termine freudiano ripreso e valorizzato da Lacan. Di qui la famosa assimilazione proposta da Freud della filosofia a una sorta di paranoia riuscita, laddove, come avviene nel lavoro del delirio paranoico, essa si troverebbe impegnata nel perseguire il compito totalizzante di raggiungere una concezione del mondo esaustiva, priva di iati, compatta e inscalfibile, fondata su di una certezza assoluta, fuori discussione, resistente a ogni dialettica simbolica. L'assioma delirante della paranoia viene definito esemplarmente da Lacan nella formula: "tutto è segno". 1 Questo assioma è delirante perché comporta la soppressione del non-senso dal registro dell'esperienza. "Tutto è segno" significa infatti che il senso è ovunque, che l'interpretazione paranoica del mondo non conosce zone indicibili, dimensioni escluse dal suo ordine rigido, luoghi di non-senso, ma realizza piuttosto 10 sforzo supremo di ricondurre tutto il reale, se non al razionale come avrebbe desiderato Hegel, comunque al senso. In questa operazione di riduzione sistematica prende corpo la concezione paranoica del mondo 11 cui carattere totalizzante non deve sfuggire: per il paranoico la verità è una certezza che esclude il dubbio e la divisione del soggetto e, in questo senso, essa nega il soggetto dell'inconscio.2 In ciò consiste la sua assimila1. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro III, cit., p. 12. 2. E questa, del resto, una delle ragioni che sospingerà Lacan all'individuazione di un nucleo zione a una filosofia della totalità o, se si preferisce, più freudianamente, essa rivela il carattere intrinsecamente delirante di ogni filosofia che ambisce a raggiungere una visione senza falle del mondo, dunque una piena identificazione tra l'Idea e la realtà, tra il pensiero e l'Essere.3 In questa prospettiva di fondo il lavoro psicoanalitico costituisce una alternativa radicale al lavoro paranoico. Se quest'ultimo non può operare che per contrapposizioni unilaterali, prive di dialettica, per opposizioni irriducibili, in pieno regime separativo, 4 quello psicoanalitico, riportando incessantemente al soggetto ogni forma di proiezione dell'oggetto cattivo, del kakon dell'essere, all'esterno, mostra il carattere inaggirabile dell'implicazione dell'uno (amico) all'altro (nemico), ovvero l'impossibilità di eludere il carattere bastardo di questa implicazione. In questo senso non ha torto Lacan quando indica nell'esperienza analitica una sorta di "paranoia guidata" che interroga tutto come se fosse segno di qualcos'altro, ma senza mai permettere al soggetto di rigettare sull'Altro, ovvero sul nemico elevato a persecutore, il nucleo scabroso dell'esistenza, il suo essere di godimento (come accade invece nel delirio propriamente paranoico). Piuttosto l'introiezione simbolica dell'analisi riconduce il kakon dell'essere, in un movimento etico di assunzione, alla responsabilità singolare del soggetto. Per questa ragione mentre il lavoro paranoico distrugge il soggetto dell'inconscio rigettandolo sulla cattiva intenzione dell'Altro, proiettando il suo kakon nell'Altro, Lacan ha avuto modo di definire l'esperienza dell'analisi come una soggettivazione possibile del proprio kakon più arcaico.5 AMBIVALENZA O DELIRIO DI PERSECUZIONE L'opposizione tra paranoia e ambivalenza può orientare una riflessione anche politica intorno alla paranoia. Abbiamo affermato che nel lavoro paranoico il soggetto dell'inconscio è rigettato, e con esso ogni esperienza soggettiva della divisione. La divisione appare invece nella paranoico fondamentale nella costituzione stessa dell'Io, ovvero della certezza in se stesso, nella propria identità. Avrò m o d o di ritornare su questo punto nelle pagine seguenti. 3. Conviene ricordare che questa identificazione è al centro della definizione arendtiana della vocazione totalitaria del pensiero ideologico. Vedi H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. Edizioni di Comunità, Torino 1999, pp. 628 sgg. 4. Per la definizione di "regime separativo" e per la logica complessiva che lo ispira mi riferisco al lavoro di Giovanni Bottiroli e alla sua ripresa originale della teoria lacaniana dei tre registri. Per questo si veda in particolare, G. Bottiroli, Teoria dello stile, La Nuova Italia, Firenze 1992; e J. Lacan, Arte, linguaggio e desiderio, tr. it. Sestante, Bergamo 2002. 5. Vedi J. Lacan, L'aggressività in psicoanalisi,li. it. in Scritti, cit., p. 109. forma esteriore di una oggettività evidente e concerne la discriminazione tra il bene e il male, tra l'amico e il nemico, tra il proprio e l'improprio, tra l'amore e l'odio, tra il puro e l'impuro. Il conflitto non attraversa il soggetto paranoico - come accade invece nell'esperienza dell'ambivalenza freudiana, dove all'opposizione dei contrari subentra una loro fondamentale ibridazione - , ma viene costantemente proiettato all'esterno, dunque separato difensivamente dal soggetto. Se nella paranoia c'è esperienza del conflitto essa non è mai un'esperienza intrasoggettiva ma intende rispondere sempre a un criterio indiscutibilmente oggettivo: da una parte l'identità costituita dell'Io paranoico, dall'altra la localizzazione esteriore dell'alterità come manifestazione del Male dal quale è necessario difendersi. Da questo punto di vista la paranoia esige la soppressione del carattere strutturale della categoria freudiana di ambivalenza. Con questa categoria Freud non ha inteso descrivere tanto o solo una patologia dell'affettività, quanto la condizione stessa dell'affettività, di un'affettività determinata dal soggetto dell'inconscio che inevitabilmente entra in attrito con ogni regime separativo che disgiunge arbitrariamente gli opposti. Alla luce della categoria freudiana dell'ambivalenza non esiste, infatti, da una parte l'amore e dall'altra l'odio, ma solamente l'uno nell'altro, l'uno alla radice dell'altro e viceversa. Attraverso la lente dell'ambivalenza non è più così facile separare l'odio dall'amore, il nemico dall'amico, il bene dal male, come vorrebbe invece fare il soggetto paranoico, perché l'"impasto" o la "fusione pulsionale" {Triebmischung), come direbbe Freud, che annoda l'uno all'altro emerge come irriducibile costringendo a un collasso critico ogni concezione meramente separativa degli opposti. Da questo punto di vista il lavoro della paranoia si pone in alternativa al riconoscimento soggettivo dell'ambivalenza esasperando le opposizioni, localizzando sempre nell'Altro il kakon dell'essere, dunque sopprimendo l'ambivalenza in nome di una certezza delirante che dipana ogni ombra: il persecutore è oggettivamente e indubitabilmente sempre l'Altro.6 Per questo da un punto di vista psicopatologico la paranoia implica strutturalmente il delirio di persecuzione-, il mondo intero si organizza a partire dall'idea delirante della necessità di difendersi da una volontà di distruzione - persecutoria - animata dall'Altro. Anziché soggettivare 6. Questo movimento si evidenzia soprattutto quando questo Altro abita nel corpo stesso dell'istituzione che il lavoro paranoico intende difendere. La pratica stalinista delle cosiddette "purghe" assume qui tutto il suo valore di paradigma. Il pericolo per la volontà paranoica proviene sempre, in maniera privilegiata, dall'interno. Anche la storia delle istituzioni psicoanalitiche, non solo quella degli stati totalitari, della Chiesa o dei partiti politici, potrebbe offrire molto materiale interessante da questo punto di vista. l'ambivalenza - come avviene invece nel lavoro psicoanalitico - il lavoro paranoico annuncia il suo problema di fondo e la sua soluzione irreversibile. Il problema: come organizzare una difesa efficace di fronte al rischio sempre imminente di una frammentazione dell'identità? La soluzione: identificare nella volontà di godimento dell'Altro la fonte unica di ingiustizia, sofferenza e disagio in modo tale da poterne contrastare efficacemente la malvagità inguaribile e contagiosa. Per questa ragione, in senso stretto, il paranoico non può accedere al lavoro psicoanalitico come lavoro sul soggetto dell'inconscio - il quale presupporrebbe un soggetto diviso, dunque gettato neli'ambivalenza. Al lavoro simbolico sull'ambivalenza il paranoico preferisce invece l'esercizio del sospetto nei confronti dei possibili segni della cattiva volontà dell'Altro. Lo stile politico della paranoia trova qui una sua manifestazione elettiva: tutto ciò che si muove nell'Altro in discontinuità rispetto all'ordine stabilito è vissuto come una minaccia potenziale. Questo spiega l'attitudine diffidente del paranoico e il suo transfert tendenzialmente negativo - dunque sospettoso - sull'Altro. Per questa ragione gli apparati di polizia sono costituenti di ogni regime totalitario. Più precisamente, la sorveglianza diventa paranoica quando si sostiene sull'esigenza di verificare l'oggettività del suo sospetto fondamentale al di là di qualunque prova di realtà. Nel senso che il sospetto paranoico anticipa - e costruisce in questa stessa anticipazione - i segni che lo confermerebbero. Ogni regime totalitario tende in effetti ad assumere l'assioma paranoico - "tutto è segno" - come il presupposto delle proprie pratiche inquisitorie. Il delirio paranoico di persecuzione si situa così al lato opposto di quello melanconico di colpevolezza; mentre quest'ultimo è, come abbiamo visto, un "delirio morale" centrato su di una amplificazione immaginaria del senso di colpa che finisce per schiacciare il soggetto in una mortificazione irreversibile, attribuendo cioè a lui stesso la causa della rovina di tutte le cose, il delirio paranoico si centra su di un assioma di innocenza e di purezza, poiché la colpa viene rigettata a senso unico sulla malvagità dell'Altro. 7 In questo senso la certezza delirante della paranoia non ricopre tanto la divisione del soggetto - la quale resta invece forclusa - bensì una sua frammentazione schizofrenica fondamentale, ovvero il rischio sempre presente del tracollo, dello smembramento e della perdita di identità. Dunque la rigidità della personalità paranoica - come del resto quella di certi gruppi sociali o di certe istituzioni - non riflette alcuna di7. Sull'innocenza paranoica in rapporto all'assioma di indegnità melanconico è fondamentale lo studio di C. Soler, "Innocence paranoïaque et indignité mélancolique", in L'inconscient à ciel ouvert de la psychose, Presses Universitaires du Mirail, Toulouse 2008, pp. 51-62. visione, quanto piuttosto uno stato latente di frammentazione che proprio questa rigidità egoica deve poter compensare il più efficacemente possibile. Per questa ragione la passione dell'odio per l'Altro occupa un posto centrale nella paranoia tanto quanto la sua idealizzazione infatuata. Ma l'oscillazione altalenante dall'una all'altra posizione - dall'aggressione all'idealizzazione - appare nella logica paranoica priva di mediazioni, scissa verticalmente. Non è qui in gioco alcuna ambivalenza se non l'esigenza di preservare il carattere monolitico e totalmente autoreferenziale di ciascuna delle due posizioni. Questa dimensione rigidamente separativa della difesa paranoica ci conduce a riprendere in considerazione la matrice teorica della riflessione freudiana intorno alla passione dell'odio proprio perché è in tale passione che prende corpo il fondamento ultimo di ogni delirio di persecuzione. In nome della necessità della difesa del suo spazio vitale, il soggetto paranoico si impegna in una pratica di distruzione, a sua volta persecutoria, dell'Altro. Si tratta di un passaggio dalla posizione del perseguitato all'attività del persecutore che non segnala tanto una possibile ambivalenza della paranoia, ma il suo essere intrappolata in una identificazione speculare all'Altro che non consente un autentico movimento soggettivo ma solo un'oscillazione brusca da uno stato all'altro. Nondimeno, questo passaggio dal perseguitato al persecutore si profila anche come la soluzione paranoica nei confronti dell'alterità cattiva del godimento dell'Altro. Le vicissitudini delle tirannie possono illustrare eloquentemente questo rovesciamento. Non si tratta di ambivalenza affettiva, ma di un'altalena immaginaria che rigetta sull'Altro l'infamia e il kakon dell'essere a cui in un primo tempo il soggetto era identificato. 8 Piuttosto questo resta avvolto nell'immaginario, prigioniero dello specchio. Per queste ragioni Lacan, come vedremo più avanti, porrà in risalto questa fissazione del soggetto a un narcisismo mortifero considerandola come una condizione strutturale della paranoia. IL RIFIUTO DELLO STESSO Una teoria freudiana dell'odio conduce inevitabilmente a una problematizzazione critica delle cosiddette filosofie della differenza che 8. Il riferimento alla biografia di Hitler, ma anche più in generale alla genesi dell'ideologia nazista, può essere qui assunto come esemplare. Il popolo tedesco, come oggetto perseguitato e umiliato dalle democrazie liberali-borghesi e dai potenti gruppi economici ebraici, dopo la sconfitta della prima guerra mondiale e il conseguente tracollo economico si ribalta in una attività di persecuzione ostile e delirante nei confronti dei suoi "persecutori". pongono nel rifiuto dell'Altro e della sua alterità la radice ultima dell'odio. 9 La tesi di Freud corregge questa prospettiva mostrando innanzitutto che l'alterità dell'Altro è immanente allo Stesso e che dunque l'odio è innanzitutto rifiuto radicale dello Stesso. L'odio gli appare primordialmente una sorta di risposta somatica del corpo finalizzata a separarsi da ciò che introduce nell'apparato psichico un turbamento ingovernabile. In questo senso l'odio si configura come un agente della separazione. Tuttavia, la parte di sé espulsa, in quanto appartiene all'essere pulsionale del soggetto, non può mai essere espulsa integralmente. L'oggetto sul quale converge l'odio è dunque quel pezzo d'essere del soggetto, la sua punta più scabrosa (il suo essere pulsionale, appunto) che il soggetto non è disposto a riconoscere come proprio. L'odio diviene così una modalità per localizzare nell'Altro ciò che contrasta con la rappresentazione ideale, narcisistica dello Stesso. Se l'oggetto odiato diviene l'indice dell'impurità del proprio essere pulsionale, allora a rigore non c'è odio per la differenza ma solo per lo Stesso, nel senso che l'autentico oggetto d'odio è sempre l'essere pulsionale che il soggetto è per se stesso. L'oggetto espulso è cioè l'eccentricità (impossibile da espellere) della pulsione. E la pulsione come eccentrica al programma naturale dell'istinto, come perversione, snaturamento dell'istinto. Questo motivo teorico ci costringe a precisare l'interpretazione lacaniana del razzismo proposta in Televisione. La tesi di Lacan è che la ragione ultima del rifiuto razzista si trovi nel rifiuto del godimento dell'Altro e dei modi particolari coi quali esso si manifesta al fine di imporvi il nostro; il razzismo è un odio per il modo di godimento dell'Altro.I0 Nell'odio razziale si tratta di un odio che congiunge l'Altro a un tratto malvagio iscritto biologicamente, riferito appunto all'appartenenza a una razza.11 Non è per caso che Hitler tendeva a identificarsi a un grande medico col compito epocale di guarire la Germania dai virus che ne contaminavano la purezza razziale originaria.12 Nondimeno, se non vogliamo tralasciare la lezione freudiana, siamo 9. Su tutti i temi solo accennati in questo paragrafo, mi permetto di rinviare al mio Sull'odio, cit., pp. 33-74. 10. Vedi J. Lacan, Radiofonia e televisione, cit., p. 90. 11. In questo senso Simona Forti riconduce le riflessioni di Foucault intorno alla biopolitica a quelle di H a n n a h Arendt sul totalitarismo. E il principio biologico della razza che disegna l'ideale totalitaristico di fondazione di una umanità nuova. Vedi S. Forti, Il totalitarismo. Laterza, Bari 2003, pp. 108 sgg. 12. Roberto Esposito ha sottolineato la presenza costante nella propaganda nazista del paradigma di immunizzazione che si traduce nell'assimilazione del regime a un regime medico-biologico capace di trattare tutte quelle malattie, in particolare quelle relative alla contaminazione razziale, che possono far ammalare il corpo del popolo tedesco. Vedi R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. 115-157. sospinti a completare la tesi di Lacan sostenendo che il rifiuto razzista, fondamentalmente paranoico, del godimento dell'Altro è una manifestazione del rifiuto per l'alterità dell'Altro propria dello Stesso. La differenziazione ostile dei modi particolari di godimento riflette la difficoltà del soggetto di assumere il proprio essere pulsionale come radicalmente eccentrico. In questo senso l'identificazione del nemico con il fuori, con un oggetto esterno, contiene sempre, per la psicoanalisi, una frangia d'illusione. Innanzitutto, l'identificazione proiettiva tra l'esterno straniero e il nemico definisce la posizione di fondo del soggetto nei confronti dell'alterità sorgente di perturbazioni ingovernabili. E questo, in effetti, come avremo modo di vedere ampiamente in seguito, il fondamento dello stile politico della paranoia, cioè del lavoro paranoico di abolizione-proiezione-localizzazione del nemico (pulsionale) interno all'esterno. Ma è anche il fondamento della tesi principale di Lacan che fa della paranoia una strategia finalizzata a identificare il godimento con il luogo dell'Altro.u Per questo lo stile politico della paranoia consiste nel rendere assoluta l'ostilità verso il nemico in quanto Altro terrificante, Altro impuro, in quanto, appunto, Altro che gode. Esso identifica l'Altro a una volontà minacciosa (e persecutoria) da scongiurare. Anziché sostenere il principio freudiano che lo straniero è immanente al soggetto, è connesso al soggetto dell'inconscio, il lavoro paranoico insiste nell'attribuirgli i caratteri di una trascendenza nemica, ricompattando conseguentemente il soggetto in una identità chiusa e senza dialettica. ODIO E AMBIVALENZA L'odio paranoico è odio per il simile, non è un odio per la differenza. Lo stile politico della paranoia sorge dalla fascinazione dello specchio. L'odio solido, l'odio puro, - l'odio come "passione dell'essere" secondo Lacan - pare invece catalizzarsi intorno all'imperfezione dell'essere. E questo lo spigolo reale della sua natura. L'odio puro, l'odio non-paranoico, è odio per il grande Altro che non ci ripara con la dovuta efficacia dalla contingenza senza senso dell'esistenza. Tuttavia, sia nell'uno che nell'altro caso - nell'odio paranoico come nell'odio puro - ciò che viene rifiutato come insopportabile è la divisione che intacca l'essere del soggetto. Per Freud uno dei nomi propri di questa divisione, come 13. Vedi J. Lacan, "Présentation des Mémoires d'un névropathe", in Autres écrits, Seuil, Paris 2001, p. 215. abbiamo visto, è quello di "ambivalenza". Come ho già avuto modo di far notare questa categoria ha un rilievo decisivo nella psicoanalisi. Essa non indica semplicemente un disturbo della vita affettiva, né tantomeno una incoerenza etica, quanto piuttosto la traccia indelebile dell'inconscio sulla vita del soggetto. Per questa ragione Freud ha insistito nel porre l'ambivalenza come una dimensione strutturale dell'affettività umana. Lungi dal rivelare una qualche patologia dell'affetto essa fa emergere la sua natura più intima. L'affetto è cioè contrassegnato da una ambivalenza inaggirabile che sconcerta ogni partizione rigida del bene e del male, dell'amore e dell'odio, del buono e del cattivo. E ciò che in modo aforismatico Lacan esprime quando congiunge la necessità dell'amore con quella della mutilazione dell'oggetto amato.14 Più precisamente, per Freud l'ambivalenza segnala la traccia che l'intervento della Legge simbolica genera nell'essere parlante. Dove c'è Legge c'è ambivalenza, contrasto, timore della sua forza e spinta trasgressiva a oltrepassare i suoi bordi. La Legge rovina lo stato di innocenza come stato di natura impossibile e introduce alla divisione come esperienza del soggetto.15 Questo significa, in termini freudiani, che l'istituzione del legame sociale avviene sulla rinuncia del godimento e che questa rinuncia implica necessariamente un odio-amore nei confronti del programma della Civiltà che per un verso ci umanizza, ma per un altro verso ci spoglia del nostro godimento imponendoci la forzatura di una "rinuncia pulsionale". L'ambivalenza definisce dunque il carattere strutturalmente diviso del soggetto e non un suo vizio. L'odio viene prima dell'amore - come afferma Freud - anche perché nascere in seno alla legge dell'Altro del linguaggio implica sempre un certo rifiuto della perdita di godimento che questa nascita impone necessariamente. Questo rifiuto è per un verso costituente il soggetto. E questa la dimensione freudiana delYAusstossung: è per il tramite dell'espulsione, dello sputare, del dire "no! ", che il soggetto costituisce la sua differenza dall'Altro. Alla luce della categoria dell'ambivalenza, la distinzione tra amico e nemico non può più definirsi secondo uno schematismo biunivoco. L'ambivalenza impone infatti che il regime separativo che, appunto, separa rigidamente, per scissioni verticali, il nemico dall'amico, venga in14. "Ti amo, ma poiché inspiegabilmente amo in te qualcosa più di te - l'oggetto (a) - ti mutilo" (vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro XI, cit., p. 272). 15. E questa l'appropriazione lacaniana della famosa tesi paolina secondo la quale è la Legge che istituisce il peccato, ma anche della sua lettura di Timore e tremore di Kierkegaard e dell'interpretazione che in esso si compie del mito biblico del peccato originale. orinato irreversibilmente. La questione non è quella dell'opposizione di amico-nemico (fondamento della fondazione paranoica tanto dell'istituzione quanto del legame gruppale dominata, secondo Bion, dall'assunto di base di attacco e fuga), ma come l'amico ospiti il nemico e viceversa. Il problema, in altri termini, non è la loro discriminazione ma la loro mescolanza irriducibile. La teoria freudiana dell'ambivalenza impone questo cortocircuito problematico che, al contrario, la difesa paranoica vorrebbe escludere: il corpo estraneo è il corpo proprio.16 In effetti, a rigore, l'odio paranoico è un trattamento politico dell'ambivalenza finalizzato alla sua estirpazione chirurgica. Per questa ragione il nemico deve assumere i caratteri dell'assolutamente diverso, dell'estraneo, dello straniero. Questi caratteri enfatizzano strategicamente la sua differenza per giustificare la sua soppressione. Nondimeno, questa enfatizzazione maschera la natura fatalmente simile dello straniero. Ciò a cui punta lo stile politico della paranoia è scindere lo Stesso dall'Altro facendo dell'Altro il luogo di un godimento maligno dal quale lo Stesso è chiamato a proteggersi. La difesa dello Stesso avviene così per irrigidimento del suo confine, mentre l'ambivalenza mostra che i confini (tra amico e nemico) sono necessariamente intricati. Nella paranoia non c'è, infatti, ambivalenza ma risoluzione dell'ambivalenza senza alcuna simbolizzazione; risoluzione dell'ambivalenza per negazione unilaterale. La difesa paranoica dell'identità punta a rendere impraticabile ogni contaminazione con l'alterità. Il confine non è poroso ma s'inspessisce sterilmente e privata del suo transito verso l'Altro la fortezza dell'identità da difendere si svuota irrimediabilmente. La difesa paranoica fa ammalare - il soggetto come le istituzioni - per rafforzamento dell'identico. Ogni movimento simbolico di recupero dell'oggetto-nemico come effetto di una politica dello Stesso lascia il posto all'infiammazione immaginaria della persecuzione difensiva nei confronti della supposta potenza persecutoria dell'Altro. L'inimicizia assoluta che anima l'odio paranoico non affronta dovutamente il paradosso che la condiziona, ovvero il riconoscimento dell'oggetto nemico come manifestazione esteriore dell'ambivalenza interna che il soggetto non intende assumere come propria. L'ambivalenza che secondo Freud contrassegna il rapporto con l'oggetto non è vissuta nella paranoia, ma viene negata attraverso una scissione netta: da una parte l'Io ideale del soggetto, incorrotto nella sua astratta purez16. Una straordinaria testimonianza di questa tesi si trova in J-L. Nancy, Lintruso, nopio, Napoli 2000. tr. it. Cro- za, dall'altra la malvagità impura dell'Altro. In questo senso la paranoia si profila dunque come un trattamento inflessibile dell'ambivalenza. Il suo regime separativo la conduce a una interpretazione fatalmente immaginaria dell'ordine simbolico. La discriminazione tra il bene e il male, tra il buono e il cattivo, tra l'amico e il nemico, risulta priva di mediazioni. E ciò che ritroviamo nella riflessione bioniana sull'assunto di base di "attacco e fuga": il legame gruppale dominato da questo assunto è un legame che si irrigidisce difensivamente sull'opposizione interno-esterno, amico-nemico, familiare-estraneo. L'effetto di questo irrigidimento è uno svuotamento della creatività che viene sacrificata alla difesa dell'identità minacciata.17 La minaccia dello straniero incombe e il gruppo, anziché soggettivare lo straniero come il "proprio" kakon, lo proietta all'esterno, lo esternalizza sull'oggetto odiato. Più massiccia è la proiezione e più massiccia deve essere la scissione che mantiene distante il gruppo dal suo kakon e che, di conseguenza, arresta il movimento di crescita creativa del gruppo stesso. Siamo qui di fronte a una legge che definisce il funzionamento complessivo di ogni istituzione e di ogni legame sociale e che pone un problema generale: come è possibile tracciare il confine dell'identità senza esteriorizzare sull'Altro-nemico l'ambivalenza, dunque la divisione costitutiva dell'identità? L'appartenenza è essenziale per definire un'identità ma laddove essa tende a irrigidirsi (paranoicamente), sfocia inevitabilmente in una chiusura nei confronti dell'Altro e, dunque, in un suo progressivo isterilimento. DEFINIZIONI DELLA PARANOIA Possiamo reperire in Freud due tesi fondamentali intorno alla paranoia. La prima afferma che la paranoia è un modo patologico di difesa. La seconda tende a porre la paranoia in alternativa al lavoro del lutto, ovvero come una forma radicale di negazione della esperienza della perdita e del senso di colpa a essa connesso che invece normalmente accompagna, appunto, il lavoro del lutto. Il contributo di Lacan si può condensare in tre tesi altrettanto fondamentali. La prima, che abbiamo già esplorato, evidenzia il carattere costitutivo della paranoia nella formazione dell'Io, la seconda pone la paranoia come una strategia che identifica il godimento al luogo dell'Alvi. Vedi W.R. Bion, Esperienze coi gruppi, tr. it. Armando, Roma 1971. tro e, infine, la terza tesi definisce la paranoia come sonorizzazione dello sguardo e come congelamento del desiderio. In generale il riferimento alla figura clinica della paranoia ha in Freud e in Lacan un valore che trascende il piano della mera psicopatologia. Se per Freud il suo privilegio clinico derivava dal fatto che essa mostrava in atto un processo difensivo alternativo a quello della rimozione, caratterizzato dunque non tanto dal lavoro simbolico dell'inconscio ma da un suo rigetto fondamentale, per Lacan il privilegio clinico della paranoia consiste nel farne, come accadde per Freud con la perversione a proposito della sessualità infantile, una condizione strutturale della soggettività. Non solo Lacan si rifiuta di considerare la paranoia una sorta di carattere psicologico, ma attraverso essa reperisce il tempo inaugurale di istituzione dell'identità. L'Io, infatti, si struttura come fondamentalmente paranoico, ovvero vincolato e asservito alla propria immagine in quanto immagine dell'altro. Come abbiamo già accennato, Freud e Lacan pongono in rilievo, l'uno la dimensione rigidamente difensiva della paranoia, l'altro la sua funzione costitutiva dell'identità dell'Io. 18 Ora, il punto è che non si tratta di versioni alternative della paranoia ma di due suoi aspetti altrettanto decisivi: difesa dell'identità e sua organizzazione rigida, ovvero delirante poiché, come Lacan ricorda in più occasioni, la vera follia non è nello smarrimento dell'identità dell'Io, ma nel credersi davvero un Io, nel porsi come una identità senza divisioni,19 sono in realtà due facce di una stessa medaglia. L'insistenza di Freud sulla difesa paranoica come alternativa alla sequenza inconscia rimozione-ritorno del rimosso s'interseca con la tesi di Lacan circa l'ipertrofia dell'identità immaginaria dell'Io. E proprio in quanto rimane prigioniero del suo "io" che il soggetto paranoico non opera attraverso il filtro simbolico della rimozione ma attraverso forme irrigidite di proiezione. Questo significa che ciò che esso non è in grado di accettare di sé - dunque ciò che contrasta con l'immagine ideale di sé, con la propria infatuazione megalomanica non si palesa per la via cifrata delle formazioni linguistiche dell'inconscio (sintomo, lapsus, sogno, atto mancato), ma viene abolito all'interim. In realtà l'ampio e ricchissimo lavoro di Lacan sulla fissazione narcisistica del soggetto paranoico trova la sua matrice nella tesi di Freud secondo cui "i soggetti paranoici portano con sé una fissazione allo stadio narcisistico" (Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia tia paranoides) descritto autobiograficamente (demen- (Caso clinico del presidente Schreber), tr. it. in Opere, cit., voi. 6, p. 398). 19. "Conviene osservare", scrive ironicamente Lacan su questo punto, "che se un uomo che si crede re è un pazzo, un re che si crede un re non lo è da meno" (Discorso sulla causalità psichica, tr. it. in Scritti, cit., pp. 164-165). no. Manca qui il tempo della soggettivazione e ciò che è stato abolito all'interno può ritornare eventualmente sul soggetto solo come una percezione esterna, come una risposta diretta e persecutoria del reale. Questa doppia chiave di lettura della paranoia - fissazione narcisistica e proiezione difensiva - riassume il contributo freudiano e lacaniano ed evidenzia già lo stile politico generale del discorso paranoico: la fissazione narcisistica alla propria identità dà luogo a una relazione con l'alterità marcata da una difesa rigida che abolendo il godimento insopportabile che abita il soggetto lo proietta nel luogo dell'Altro: l'impossibile da soggettivare, dunque l'alterità propria del soggetto come alterità maligna che non entra nel simbolico, ritorna direttamente nel reale. IL FONDAMENTO PARANOICO DELL'IO L'insistenza di Lacan sulla dimensione strutturale della paranoia rivela una ragione filosofica determinante che investe il problema dell'identità: l'identificazione dell'Io - la sua identità - implica la discriminazione dell'altro come ritiene un certo cognitivismo, anche psicoanalitico? Oppure, come insiste nell'affermare Lacan, l'Io è per struttura un altro? La prima tesi porrebbe la nascita dell'identità come un fenomeno maturativo-evolutivo: lo sviluppo stadiale delle facoltà cognitive condurrebbe alla distinzione dell'interno dall'esterno, del me dal non-me dell'io dall'altro. L'alterità dell'altro apparirebbe come il risultato di un processo di maturazione evolutiva. Diversamente, la seconda tesi, che è quella di Lacan, considera che l'alterità accompagni da sempre la costituzione dell'identità, ovvero che l'Io, dunque il luogo principe dell'identità, sia in realtà, in se stesso, un altro. Per Lacan solo se si insiste nel porre lo scandalo di questa disidentità costitutiva dell'Io si può accostare la spinta aggressiva che caratterizza lo stile politico della paranoia. L'altro che rende possibile la costituzione dell'identità viene da fuori e trascina il soggetto in un vortice di identificazioni. E l'altro speculare; esso è amato narcisisticamente in quanto ideale, ma in quanto la sua natura resta esteriore, irraggiungibile, sempre necessariamente altra, esso si rivela anche come nemico irriducibile. La natura della paranoia consiste precisamente nel porre l'altro più prossimo come nemico, l'ideale esteriorizzato di sé come il proprio persecutore. Questa tesi sulla natura paranoica dell'Io consente a Lacan di accostare il problema della spinta aggressiva attraverso il binomio aggressività-fascinazione. Questo binomio complessifica criticamente il bino- mio classico, postfreudiano, aggressività-frustrazione. Mentre quest'ultimo proponeva una interpretazione sociologistica dell'aggressività come risposta a un'aspettativa delusa (Versagung) o come reazione a un limite esterno vissuto come opprimente, il binomio aggressività-fascinazione mostra invece che l'aggressività umana scaturisce dalla prossimità con l'altro, ovvero dall'essere catturati nell'immagine dell'altro, dall'erotizzazione narcisistica di questa immagine. Abbiamo così da una parte l'idea della risposta aggressiva come risposta per la sopravvivenza e dall'altra l'idea di una aggressività eccedente, senza rapporto con l'esigenza della vita di difendersi, ma snaturata, pervertita, sedotta e imprigionata nell'immagine dell'altro. Questa aggressività è fondamentalmente paranoica perché non rientra affatto nelle cornici edonistiche del principio di piacere, ma risponde a una fascinazione narcisistica irresistibile, più forte della difesa naturale dei confini dell'identità. Essa si nutre non dell'oppressione ma della seduzione speculare. Quali implicazioni etiche ha porre la costituzione dell'Io come fondamentalmente paranoica? La relazione immaginaria con il simile è marcata da una forma radicale di rivalità erotizzata. La natura paranoica dell'Io sorge dalla fissazione del soggetto all'immagine idealizzata dell'altro. Lacan ha ritratto questa fissazione nel suo celebre stadio dello specchio. Lo specchio offre al bambino la possibilità di costituire la propria identità attraverso un'immagine - la propria - che egli percepisce come quella di un altro ideale. Lacan insiste nel correlare la discordanza reale del corpo del bambino - tra i sei e i diciotto mesi di vita - con lo splendore narcisistico che riveste la sua immagine speculare, nel senso che questo splendore compensa e risolve in una "buona forma" ciò che il soggetto vive come frammentato e privo di unità (il proprio corpo reale). Il sorgere dell'Io (moi) avviene dunque su questa "linea di finzione", ovvero sulla sfasatura tra l'ai di qua e l'ai di là dello specchio, tra la frammentazione (schizofrenica) del corpo reale e l'unità narcisistica dell'Io ideale. Nei confronti di quest'ultima il soggetto è animato da una erotizzazione rivaleggiante. Per un verso infatti l'immagine Ideale dell'Io è erotizzata in quanto attribuisce all'Io il carattere statuario di un'identità senza lesioni, per un altro verso questa stessa immagine innesca una rivalità aggressiva in quanto essa mi sfugge, si dà come da sempre "sottratta" nel senso che l'essere del soggetto non potrà mai congiungervisi. Ebbene, questa oscillazione tra erotizzazione e aggressività è al centro della dimensione narcisistica della paranoia. Essa si struttura proprio in questa alienazione del soggetto (]e) in ciò che chiamiamo Io {moi). Un'altra osservazione: questa immagine Ideale dell'Io non si produce per evoluzione stadiale di determinate facoltà, né concerne un potere di sintesi trascendentalmente determinato; non c'è, in altri termini, una maturazione progressiva dell'Io. La tensione strutturalistica del suo pensiero conduce Lacan a definire l'Io come qualcosa che viene da fuori, che aspira dall'esterno il soggetto anziché costituirne aristotelicamente il suo culmine evolutivo (l'attualizzazione di una potenzialità). Ora, questa idea del carattere esteriore dell'immagine dell'Io porta con sé una serie notevole di implicazioni. Tra queste, mi pare opportuno soffermarmi su quella che più investe la questione della paranoia costitutiva dell'Io, ovvero la questione della riduzione delT'To" a oggetto immaginario. Questa riduzione sovverte in realtà il centralismo narcisistico dell'Io rivelandone la posizione derivata. L'Io è un oggetto significa che l'Io non può vantare alcun privilegio, alcuna padronanza. La sua identità è una stratificazione di identificazioni, è un'identità alienata. Questa matrice sdoppiata dell'identità radicalizza sino a sovvertirlo l'hegelismo manifesto dello stadio dello specchio: il due non si ricompone mai nell'uno. Tale sdoppiamento rivela il fatto che l'Io non è affatto una potenzialità che raggiunge la sua attualizzazione ma il frutto di una presa dell'immagine dell'altro, di una vera e propria cattura irreversibilmente alienante: una intrusione - quella dell'immagine dell'altro - viene dunque a costituire l'identità propria del soggetto, la quale è da sempre un'identità disidentica, un'identità espropriata dall'Altro. L'immagine è mia propria e al tempo stesso dell'altro. E questo il suo statuto sdoppiato. Essa consente di riconoscermi ma proprio perché essa mi aspira dal di fuori di questo riconoscimento, essa è già un'espropriazione. L'essere del soggetto è derubato dall'altro. Si tratta, infatti, di un'intrusione che non può non alterare costitutivamente questa stessa identità. E per questa ragione che, venendo dall'immagine dell'altro, venendo da fuori, l'identità dell'Io è sempre altra a se stessa. Di qui tutto il valore che Lacan ha sempre assegnato all'aforisma rimbaudiano: l'"io è un Altro". E tra l'Io e l'Altro scorre una tensione erotico-aggressiva. E questo il succo della costituzione paranoica dell'Io lacaniano. 20 Nella paranoia, infatti, il soggetto accede all'integrazione speculare idealizzante - diversamente dalla schizofrenia, dove il corpo del soggetto resta senza abito immaginario, frammentato, a pezzi - , ma questo accesso s'irrigidisce in una fissazione: il soggetto paranoico è immerso nello specchio e 20. Se Freud aveva messo in evidenza la dimensione perversa polimorfa della sessualità umana, Lacan evidenzia la costituzione paranoica dell'Io. In entrambi queste opzioni si può notare come la psicopatologia anziché illustrare supposti deficit dello sviluppo illumini qualcosa di essenziale della natura umana. nei suoi giochi illusori. L'altro riflesso è il proprio ideale ma, in quanto tale, è anche il proprio rivale irriducibile. L'immagine dell'altro non permette infatti alcuna conciliazione. In questo carattere irriducibile dell'immagine dell'altro, in questa impossibilità di conciliazione, Lacan introduce nel registro immaginario la dimensione del reale come, appunto, l'impossibile da assorbire nell'unità narcisistica dell'immagine. LA PARANOIA COME DIFESA PATOLOGICA Riprendiamo sinteticamente la tesi freudiana che assimila la paranoia a un modo patologico di difesa. Il modello simbolicamente più adeguato di difesa per Freud è la rimozione, poiché la rimozione - come movimento che allontana dalla coscienza tutto ciò che risulta incompatibile con la rappresentazione ideale che la coscienza ha di sé - non separa irreversibilmente il materiale psichico che rimuove, ma rende possibile un movimento di ritorno del rimosso e, dunque, una sua possibile integrazione simbolica nel campo del soggetto. Questo ritorno del rimosso - sogno, lapsus, atto mancato, sintomo - , come sappiamo, avviene secondo forme linguistiche, per la via di una cifratura enigmatica che impegna il soggetto a riconoscere come proprio ciò che aveva allontanato da sé come improprio. Nella difesa paranoica invece ciò che il soggetto vive come improprio, inassimilabile all'immagine ideale di sé, viene direttamente espulso, esteriorizzato, proiettato fuori di sé in modo tale da renderne impossibile qualunque integrazione successiva, dunque qualunque soggettivazione simbolica. Anzi, lo specifico della difesa paranoica consiste proprio nell'abolire ogni continuità tra l'essere del soggetto e ciò da cui il soggetto si difende. Nel mostrare che il godimento cattivo che il delirio paranoico colloca nell'Altro non ha nulla a che vedere con l'essere del soggetto. Si tratta, come si vede, di una difesa rigida, fondata su di uno schema separativo, alternativa all'esperienza della divisione - del conflitto intrapsichico, direbbe Freud - che invece caratterizza l'esperienza soggettiva dell'ambivalenza. Anzi, Freud precisa che si tratta innanzitutto di una vera "abolizione" di ciò che nel campo del soggetto è vissuto dal soggetto stesso come godimento insopportabile. E questa abolizione che è all'origine del movimento difensivo della proiezione; essa non implica affatto - come accade invece nella rimozione - il ritorno simbolico del rimosso quanto piuttosto il sospetto continuo che qualcosa di ciò che è stato abolito all'interno possa ritornare dall'esterno. Scrive precisamente Freud: Non era giusta l'affermazione secondo cui la percezione internamente repressa verrebbe proiettata all'esterno; la verità è piuttosto un'altra: ciò che era stato abolito dentro di noi, a noi ritorna dal di fuori.21 Dove occorre notare che proprio questo ritorno dall'esterno - nel reale dirà successivamente Lacan - rende impossibile al soggetto di soggettivare l'elemento estraneo che "ritorna" come suo proprio. Il ritorno, in altre parole, non avviene attraverso la mediazione del soggetto, ma s'impone da fuori, con la stessa evidenza "oggettiva" di una percezione. Per questa ragione, la difesa paranoica si oppone a ogni esperienza possibile dell'ambivalenza. Il suo punto fermo, la sua credenza fondamentale, è nell'Io, nella identità monolitica dell'Io, nell'Io identico a se stesso. Il rifiuto dell'inconscio, il suo rigetto fondamentale, garantisce al soggetto paranoico l'esclusione del godimento insopportabile che lo attraversa. Il sospetto che questo godimento esiliato possa fare ritorno motiva la funzione del sospetto paranoico: bisogna evitare che l'escluso possa attentare alla stabilità narcisistica dell'Io. Per questo, in generale, l'ispirazione paranoica diventa sempre più assillante verso il nemico potenziale interno. Da questo punto di vista, ovvero dal punto di vista dell'ideale assoluto di una posizione purista che rifiuta la contaminazione con l'alterità, la paranoia ci appare come la vera follia dell'uomo: l'errore patologico del paranoico è infatti, come abbiamo visto, quello di credersi "quel che è", di credersi un "Io".22 Questa tesi della paranoia come strategia difensiva patologica del soggetto è avanzata da Freud già negli anni 1895-1896. Diversamente dalla schizofrenia che esprime un rapporto col reale privo di difese - il soggetto schizofrenico non ha bordi, il suo corpo non è riparato da nessun confine, ma esposto alla frammentazione - , nella paranoia il reale cattivo e sregolato, viene abolito, rigettato e identificato con l'Altro. Per Freud è qui in gioco un rifiuto del godimento pulsionale che attraversa il soggetto. Un rifiuto speciale però, distinto dal disgusto isterico e dal giudizio 21. S. Freud, Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente, cìt., p. 396. E il commento a questo passaggio che consente a Lacan di teorizzare che nella psicosi "ciò che è rigettato dal simbolico riappare nel reale" (J. Lacan, Il Seminario. Libro III. cit., pp. 55 e 102). 22. J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, cit., p. 165. Occorre ricordare che per Freud la paranoia è regressione allo stadio narcisistico, mentre la schizofrenia regredisce all'autoerotismo. Nel primo caso ciò che è in rilievo è il rapporto con l'immagine, dunque con l'identità immaginaria di sé, mentre nel secondo il godimento del corpo. D u n q u e nella paranoia la libido alimenta smisuratamente l'Io (la paranoia è sempre tendenzialmente megalomanica); nella schizofrenia invece c'è dispersione, frammentazione del soggetto perché il significante ideale dell'identità (l'Ideale dell'Io) non esercita la sua funzione rappresentativa. morale dell'ossessivo - i quali sono rifiuti dialettici in quanto ciò che rifiutano ritorna nella forma simbolica del rimosso, il quale dunque non viene separato irreversibilmente dal soggetto. Un rifiuto caratterizzato da una proiezione all'esterno di ciò che il soggetto abolisce in quanto inassimilabile all'interno. Mentre infatti il disgusto isterico e il giudizio morale ossessivo contengono in sé il desiderio che intendono cancellare (il sintomo nevrotico è in questo senso, freudianamente, una manifestazione cifrata, di compromesso, del desiderio inconscio), nella difesa paranoica il desiderio inconscio viene semplicemente rigettato. Più precisamente, Freud isola come centrale nella difesa paranoica il meccanismo dell'Unglauben, della non credenza. Tale meccanismo consiste nell'attribuire all'Altro l'esperienza del godimento che ha invece contrassegnato il soggetto. La non credenza paranoica è cioè il contrario del senso di colpa nevrotico, il quale manifesta la divisione etica del soggetto. Nella paranoia al contrario non v'è alcuna divisione soggettiva, nessun senso di colpa, nessuna vergogna, nessun pudore, quanto piuttosto certezza (delirante) della propria innocenza poiché la colpa viene imputata sistematicamente all'Altro. Dunque non è il soggetto che imputa a se stesso il proprio atto e l'orrore del suo godimento - come avviene nelle nevrosi - , ma esso rovescia sull'Altro il proprio kakon, incontra il proprio kakon nelle forme dell'altro simile. In questo modo si verifica un cambiamento di stato del rimprovero che, diversamente da quel che accade nelle nevrosi, non tormenta più il soggetto, ma lo assedia dall'esterno, gli arriva contro come una potenza estranea.23 Il meccanismo dell' Unglauben è infatti sostenuto da un rifiuto di credere (Versagung Glaubens) all'azione nevroticamente difensiva del senso di colpa. Se nella nevrosi il senso di colpa è l'indice di una manifestazione rovesciata (rimossa) del desiderio inconscio, nella paranoia questa operazione è sostituita da un'azione difensiva ben più radicale, perché non è una difesa che mostra dialetticamente ciò da cui si difende (lo mostra nel senso che la difesa, come affermava Lacan, è già in sé una manifestazione del desiderio), ma è una difesa che si separa da ciò da cui si difende. Definiamo allora, seguendo Freud, "difesa paranoica" quella difesa che non intende credere che vi sia una qualche forma di continuità tra il soggetto e ciò da cui egli si difende, ma che piuttosto esteriorizza sullo straniero, sul nemico, sull'Altro persecutore ciò che non può simbolizzare come "proprio". La non credenza paranoica è, infatti, una forma di espulsione: l'Unglauben è una forma radicale di non 23. Nella paranoia il soggetto finisce così per tormentare l'Altro, accusato di essere l'agente del tormento; la clinica ci mostra infatti come inesorabilmente il soggetto perseguitato diventi a sua volta il soggetto persecutore. soggettivazione, è manifestazione di un integralismo narcisistico che esclude ogni contaminazione col carattere straniero del godimento. Il sentimento paranoico nei confronti dell'Altro persecutore consiste dunque in un rovesciamento speculare: il godimento inconscio del soggetto (per Freud l'omosessualità) ritorna sul soggetto nella forma invertita del godimento maligno dell'Altro, nella forma dell'Altro che gode, appunto, persecutoriamente del soggetto. Ma l'Altro che gode è ciò che il soggetto non è in grado di soggettivare del proprio kakon. Dunque il godimento ritorna solo nella forma rovesciata dell'avidità minacciosa dell'Altro persecutore; ritorna, diversamente dal rimosso, dall'esterno; è, come sottolinea Lacan, ritorno nel reale di ciò che non è stato simbolizzato. La non credenza si accompagna così alla certezza assoluta sul male dell'Altro, sulla sua corruzione 24 e, simultaneamente, a una sorta di idealizzazione narcisistica del soggetto. Per questa ragione Freud sottolinea come la paranoia si accompagni tendenzialmente a una dimensione megalomanica, che costituisce la copertura immaginaria del godimento espulso e localizzato nell'Altro nemico e persecutore. Ma questo ingrandimento dell'Io, questa sua espansione illimitata che troviamo al centro del delirio megalomanico, mostra una volta di più il carattere transitivista dell'identificazione paranoica all'altro. Nella megalomania, infatti, il soggetto, a conferma della sua fissazione narcisistica, viene assimilato integralmente all'altro idealizzato, coincide, in altre parole con questo altro. La difesa paranoica comporta che tutto quello che eccede l'orizzonte immaginariamente compatto dell'Io diventi il luogo di un'impurità da rigettare. Lo stile politico della paranoia è dunque quello di una patologia dell'identità; più precisamente, di una patologia dell'identità che scaturisce dal rafforzamento estremo della difesa dell'identità. Il circolo paranoico si sviluppa effettivamente tra questi due poli, quello di una difesa patologica dell'identità e quello di una escrescenza dell'identità come esito estremo di questa difesa.25 Questo circolo può trovare un suo paradigma nella lettura sartriana dell'antisemitismo, dove 24. E, in effetti, la via dell'assoluto che conduce Lacan ad assimilare la paranoia alla scienza, quando attribuisce proprio alla scienza il meccanismo paranoico dell'Unglauben. Anche la scienza, che pure è animata da una volontà di sapere, come lo stile politico della paranoia, non ne vuole in realtà sapere nulla della Cosa del godimento che, come tale, è una pura eccedenza di non senso. Lo stile paranoico della scienza consiste infatti nel ritenere che tutto faccia segno, che il senso sia dappertutto, che il sapere coincida col reale. 25. Da questo punto di vista la strategia politica della paranoia ricade nel funzionamento paradossale che Roberto Esposito ha illustrato nel paradigma immunologico, nel quale la protezione della vita si capovolge nel suo contrario per un eccesso di attivismo. Vedi R. Esposito, Immunitas, cit.; Bios, cit. non casualmente l'accento cade sul fantasma di consistenza dell'antisemita. Un fantasma che, nei termini dell'ontologia sartriana, ritroviamo alla radice ultima del desiderio umano come désir d'etre, come desiderio di essere Dio, ovvero desiderio impossibile di essere una "pietra cosciente", un essere che abbia al tempo stesso l'attributo della permanenza, della compattezza autistica dell'in sé e, insieme, quello dinamico della coscienza di sé. Di questo desiderio l'antisemita esibisce il lato più estremo: la consistenza della pietra gli conferisce il diritto di esistere senza mancanze. Di contro l'ebreo presentifica l'orrore dell'erranza e della contingenza irredimibile dell'esistenza. L'antisemita, rifiutando quell'orrore e questa contingenza esige l'essere, esige la consistenza dell'essere. Il suo odio è, nel modo più radicale, una "passione dell'essere", secondo un'espressione di Lacan, nel senso che si rivela come un desiderio di metamorfosi: il desiderio dell'antisemita è infatti quello di scongiurare l'aleatorietà contingente dell'esistenza, è quello di esistere come un Uno granitico, come una "roccia spietata". 26 LA PARANOIA COME ANTILUTTO Freud e Lacan accostano questa tensione tra l'aleatorietà instabile dell'essere e la tendenza alla consistenza, interrogando la clinica differenziale delle psicosi, ovvero il rapporto tra schizofrenia e paranoia. In effetti, il fantasma paranoico è un fantasma di difesa nei confronti dell'instabilità dell'essere (instabilità che in psicoanalisi prende il nome di godimento). Il ricorso alla figura di un Altro come legislatore assoluto, sovraindividuale, garante ultimo della verità è, in questo senso, un tema costante nella paranoia. 27 Nell'insegnamento classico di Freud, schizofrenia e paranoia dividono il campo delle psicosi. Lacan intende questa divisione come una tensione che attraversa l'essere del soggetto: la frammentazione schizofrenica del corpo in frammenti trova nel delirio paranoico una sua forma possibile di trattamento, perché nel delirio paranoico il soggetto 26. Vedi J-P. Sartre, Lantisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, tr. it. Mondadori, Milano 1990, p. 53. 27. Il narcisismo paranoico rivela la sua potenza mortifera nell'appello a un grande Altro assoluto, garante di una verità e di una giustizia altrettanto assolute. In Rousseau questa esigenza dà luogo a una versione dell'Altro della Legge identificato a quello della volontà generale, universale, irriducibile alle vicissitudini del particolare. Su questo tema vedi l'eccellente studio di C. Soler, "Rousseau, le symbole", in L'aventure litteraire ou la psychose inspirée, Edition du Champ lacanien, Paris 2004, pp. 20-48. può approssimarsi a una consistenza capace di esorcizzare il rischio della frammentazione schizofrenica. Questa oscillazione tra frammentazione (dissoluzione schizofrenica) e compattamento (irrigidimento paranoico) vale la pena di essere sottolineata. La paranoia si profila da questa angolatura come una cura radicale della frammentazione, una cura che però non può guarire veramente dalla frammentazione, anche se può introdurre il soggetto in una forma di vita e di legame sociale possibile. Nondimeno, la consistenza del soggetto paranoico dipende solo dall'Altro. Questo Altro può assumere la forma di un ideale del soggetto divenuto il suo nemico irriducibile, oppure divenire una Causa assoluta alla quale votarsi, o anche assimilarsi a un sapere capace di offrire una spiegazione rigorosa e senza lacune del mondo. E quest'ultima versione dell'ideale a motivare l'affinità, menzionata più volte da Freud, tra filosofia e paranoia. La concezione del mondo (Weltanschauung) s'impone nella paranoia come tentativo di tenere fermo l'ordine delle cose di fronte all'abisso di una deriva senza argini. Deriva nella quale molti tiranni paranoici finiscono inevitabilmente per ricadere. In ogni caso, se nella frammentazione schizofrenica il soggetto resta nell'impossibilità di stabilizzare la frana dissolutiva del mondo, nella costruzione sistematica della paranoia la certezza delirante sembra offrire un fondamento sicuro all'ordine del mondo. In questo senso ritroviamo in opera ì'Unglauben paranoica: il richiamo a una verità assoluta, ontologicamente definita, impossibile da smentire, rigetta il caos della vita.28 Da questo punto di vista, una lettera di Freud a Jung ci pare paradigmatica. Si tratta di una lettera del 1908: la paranoia viene descritta come un rovesciamento del lutto. Mentre nell'esperienza comune del lutto la libido perde il suo oggetto, all'inverso, nella paranoia, la libido si staccherebbe irreversibilmente dall'oggetto perduto vantando una sorta di autonomia narcisistica, frutto in realtà di un rigetto del dolore psichico che ogni esperienza di perdita comporta. 29 Si tratta di un pas28. E questa la ragione che giustifica il potere seduttivo e aggregativo su soggetti comunemente nevrotici - d u n q u e assillati dal dubbio e dall'incertezza - dei paranoici, non a caso così frequentemente a capo di sette pseudoreligiose o di paniti politici, capaci di organizzare attorno a essi e alla propria fede granitica nei confronti di un Altro assoluto e identitario, intere comunità. 29. Vedi Lettere tra Freud e Jung (1906-191}), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 41. Questa formula di Freud riecheggia con evidenza nella definizione lacaniana del lutto come " rovescio della forclusione". Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro vi. Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), tr. it. in La psicoanalisi, 5, 1987, p. 97. Se infatti nel lutto la perdita è reale e il suo trattamento p u ò essere simbolico, nella forclusione è l'ordine stesso del simbolico che si trova in perdita, poiché viene a mancare quel significante che ne garantisce la tenuta (il N o m e del Padre) e l'oggetto, anziché essere perduto, ritorna direttamente nel reale con effetti catastrofici. saggio chiave per intendere lo stile politico della paranoia: anziché attraversare simbolicamente la perdita reale dell'oggetto, la difesa paranoica opera nel senso di una scissione della libido dall'oggetto, opponendo alla perdita reale dell'oggetto un suo non volerne sapere radicale (Unglauben). Il risultato di questa operazione è il ritorno dell'oggetto perduto nella forma maligna di una volontà persecutoria che sopraggiunge dall'esterno e che minaccia una perdita reale. Questa idea della paranoia come rovesciamento del lutto ha dato luogo alla dottrina fomariana della guerra come trattamento paranoico del lutto}0 E nel lavoro di Fornari che l'aggressività paranoica appare descritta come un antilutto. Essa istituisce il presupposto dello scatenamento della violenza e della guerra e consiste in uno spostamento proiettivo del reale terrificante, inelaborabile simbolicamente, nel vicino nemico, accusato di aver causato la perdita e la morte dei cari a noi prossimi. La violenza aggressiva viene cioè al posto di un lavoro del lutto impossibile da compiere; l'oggetto perduto viene trasformato in un oggetto sottratto dal godimento vorace dell'Altro. Gli antropologi ci ricordano, in effetti, che la tribù che subisce il trauma di una perdita tende ad attribuire alle manovre aggressive dello sciamano di un'altra tribù la colpa di questo evento doloroso. Il conflitto bellico sorge sulla base di questo spostamento proiettivo; la contingenza dell'esistenza viene trasformata in volontà di godimento maligna dell'Altro, il cui solo trattamento, se si evita la strettoia difficile del lavoro del lutto, può essere la violenza o la guerra. In questo senso l'odio paranoico è sempre strutturalmente allucinato. L'allucinazione, freudianamente, è una reazione possibile alla perdita dell'oggetto, dunque alla costituzione lesa della soggettività umana; è una reazione che manifesta la non negativizzazione significante della Cosa (per Lacan, la forclusione dell'operazione metaforica del Nome del Padre). Freud la definisce come una modalità per raggiungere per "via breve" l'oggetto perduto. "Via breve" è qui un'espressione che meriterebbe di essere soppesata. In Freud il lavoro del lutto implica - come più in generale quello di ogni sublimazione - tempo. Non esiste possibilità di "via breve" perché un lavoro del lutto giunga al suo compimento. L'allucinazione è in questo senso un'alternativa estrema al lavoro del lutto. Essa è assenza di lavoro: cortocircuito di reale e simbolico, presentificazione della Cosa, ritorno nel reale di ciò che non è stato simbolizzato, secondo la celebre formula di Lacan. Lo stile politico della paranoia rigetta l'esperienza della perdita. 30. In particolare, vedi F. Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 1970. La paranoia, come l'allucinazione, è una alternativa secca al lutto. Ma mentre l'allucinazione s'impone al soggetto invadendolo abusivamente, la paranoia è un'alternativa militante, fideistica, al lutto. Si tratta di imputare all'Altro la causa del Male sostenendo il postulato delirante della propria totale innocenza. Ma l'odio paranoico resta anch'esso prigioniero dell'immagine. Per questo al colmo dell'aggressività paranoica, colpendo l'altro, il nemico, il soggetto colpisce se stesso.31 Ancora una volta è lo specchio che spadroneggia. 32 31. È questo il valore paradigmatico che il giovane Lacan attribuisce al passaggio all'atto criminale di Aimée. Vedi J. Lacan, Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, tr. it. Einaudi, Torino 1980. 32. Si p u ò opporre alla teoria fornariana della guerra come trattamento solo paranoico del lutto la teoria della guerra sviluppata da Schmitt in La teoria del partigiano. Se infatti Fomari insiste nel porre la guerra come una alternativa paranoica al lutto, d u n q u e come la negazione di ogni elaborazione simbolica della perdita reale che il lavoro del lutto comporta, Schmitt pone invece il conflitto bellico amico-nemico come essenza della dimensione simbolica del politico. Lo sforzo di Schmitt è infatti quello di far rientrare la dimensione reale della guerra nel campo simbolico del diritto. In questo m o d o egli sembra voler nebulizzare il reale scabroso della guerra nella dimensione simbolica del conflitto dichiarato e praticato tra eserciti regolari. Schmitt sembra cioè pensare che questa canalizzazione del conflitto nella relazione amico-nemico definisca l'essenza stessa del politico. La figura storica del partigiano rappresenterebbe da questo punto di vista una falsa eccedenza. La sua irregolarità si rivelerebbe solo formale perché l'obiettivo del partigiano non sarebbe in realtà diverso da quello dell'esercito regolare: si tratta di difendere i propri confini, la propria identità nazionale, dal nemico aggressore. Nondimeno in questa formalizzazione simbolica del conflitto il nemico irregolare riceve una dignità che lo identifica come combattente regolare. La logica del partigiano scivolerebbe verso un'eccedenza ingovernabile solo con Lenin e Mao, i quali svincolerebbero l'odio dall'ordine simbolico della difesa della propria patria per universalizzarlo nella nozione di lotta di classe. In questo caso, affrancandosi dalla dimensione localizzata del confine, l'odio si depassionaIizzerebbe, diventerebbe assoluto, apatico, prescindendo dall'esigenza tellurica della difesa del confine. Lenin e Mao sarebbero in questo senso assimilabili all'imperativo universale al godimento praticato da Sade. Lenin, come rivoluzionario di professione, sarebbe il rappresentante di un odio apatico, depsicologizzato, di un'ostilità pura, il fautore di un'inimicizia assoluta. Senza entrare nel merito del giudizio storico-politico che questa ricostruzione implica, possiamo chiederci se la teoria schmittiana dell'inimicizia assoluta sia discontinua rispetto alla logica dell'odio paranoico. O, ancora più direttamente, se la teoria del partigiano sia una teoria della paranoia, ovvero se l'inimicizia assoluta che il partigiano nella sua versione più radicale introduce rifletta lo stile politico della aggressività paranoica. Ciò che sembra sfuggire a Schmitt è che l'inimicizia assoluta, in realtà, si genera da un uso inflessibile e immunizzante del confine. La psicoanalisi insegna che è l'eccessiva fortificazione dell'identità, non il suo indebolimento, all'origine della malattia individuale e dei gruppi sociali. La difesa del confine, celebrata da Schmitt come essenza del politico, tralascia di considerare i fenomeni di ipertrofia paranoica dell'identità che essa potenzialmente tende a innescare. Il confine resta per lui una definizione rigida che gli consente di localizzare il nemico. Si perde qui la questione sollevata da Fornari relativamente alla funzione paranoica dell'ostilità come lavoro del lutto mancato. Alla luce della psicoanalisi il nemico-staniero è innanzitutto un nome del soggetto, d u n q u e uno straniero interno al soggetto. Alla coppia oppositiva amico-nemico la psicoanalisi sostituisce una topologia che mostra l'annodamento dell'uno nell'altro. N o n a caso le tesi di uno "stato nello stato" e di un "territorio straniero intemo" costituiscono le definizioni freudiane più ispirate dell'inconscio. In questa prospettiva l'etica della psicoanalisi impone di rendere la questione del nemico non tanto una questione di determinazione topografica esterna, dunque di confini, ma di ambivalenza topologica; il nemico è cioè in una relazione di rovesciamento costante con l'amico. VediC. Schmitt, La teoria del partigiano, tr. it. Adelphi, Milano 2005. IDENTIFICARE IL GODIMENTO AL LUOGO DELL'ALTRO Nel 1966 Lacan definisce l'essenza della paranoia come un'identificazione del godimento al luogo dell'Altro.33 E questo il modo col quale Lacan sintetizza la sua inesauribile meditazione sul caso freudiano del presidente Schreber. Si tratta di una definizione della paranoia che sposta l'accento dall'idea di una costituzione paranoica dell'Io alla dimensione paranoica del legame con l'Altro. Che tipo di esperienza caratterizza il legame sociale nella paranoia? L'esperienza fondamentale dell'Altro che possiamo reperire nel delirio paranoico di Schreber è l'esperienza di un Dio voluttuoso che getta arbitrariamente il soggetto in una passività assoluta. Il Dio schreberiano non è infatti il Dio che garantisce l'ordine del mondo ma è un Dio che gode abusivamente delle sue creature, sottoponendole senza ragione ai suoi capricci. Schreber è preso in questo vortice, nel vortice del godimento che Dio realizza di lui come suo oggetto, è soggiogato dalla volontà di godimento dell'Altro. Ciò che, tra gli altri innumerevoli aspetti, è notevole in questo delirio è la trasformazione traumatica di Dio come principio ordinatore del mondo a Dio come luogo di un godimento sregolato. In altre parole, il luogo dell'Altro - che strutturalmente ordina il quadro della realtà e che negativizza il godimento riconducendolo alla Legge del linguaggio - diventa il luogo dove si addensa il godimento maligno. La paranoia si confronta con questo genere di Altro; non con l'Altro come principio della castrazione simbolica del godimento ma con un Altro abitato da un eccesso di godimento, da una volontà oscura di godere.34 Questo è il significato più fondamentale nella definizione lacaniana della paranoia come identificazione del godimento al luogo dell'Altro. Ma quali implicazioni ha questa tesi nel modo paranoico di intendere il legame sociale? La prima è quella che pone l'Altro come il luogo costante di una minaccia. L'Altro vuole godere del soggetto; l'Altro vuole il mio Male. Questa è la verità fondamentale della paranoia. D'altra parte la fabbricazione di un Altro assoluto non espone solo il soggetto alla persecuzione ma può diventare per il soggetto paranoico la ragione ultima che giustifichi la sua presenza nel mondo. Due grandi paranoici come Rous33. VediJ. Lacan, Présentation, cit., p. 215. 34. Da questo p u n t o di vista è possibile praticare una lettura paranoica della figura dell'Altro nella letteratura kafkiana. L'Altro del Castello o del Processo, così come l'Altro della Legge nel racconto La colonia penale o, ancora, la figura tirannica del padre nella celebre Lettera al padre indicano il iuogo dell'Altro come il luogo di una volontà oscura, capricciosa, beffarda e persecutoria. E in questo senso che Lacan può affermare che nella paranoia il luogo dell'Altro tende a identificarsi con il godimento. seau e Hitler 35 si mostrano egualmente aspirati - sebbene con esiti incomparabili - dalla stessa passione, owero quella di costruire un Altro assoluto, universale, integralmente emancipato dalle scorie del particolare e rispetto al quale il soggetto può orientare senza incertezze la propria vita, sacrificandovi il proprio essere; un Altro della Giustizia o della Causa. LA SONORIZZAZIONE DELLO SGUARDO E IL CONGELAMENTO DEL DESIDERIO'6 Ciò che anima lo stile politico della paranoia non è certamente il desiderio quanto piuttosto la sua abolizione. Il rapporto paranoico con l'Altro non è animato dalla mancanza a essere ma si polarizza attorno a un'identità cristallizzata. Per questo, in generale, si può rilevare una tendenza di tutti gli apparati istituzionali a un funzionamento paranoico che li spinge a interpretare ogni elemento di novità come qualcosa di potenzialmente pericoloso per il loro ordine e per la loro stessa sopravvivenza. Mentre il desiderio contrasta ogni tendenza omeostatica, tanto nel soggetto quanto negli apparati istituzionali, la paranoia esige rigorosamente la difesa della propria identità monolitica. Il congelamento del desiderio a cui si riferisce Lacan, come a una caratteristica basale della paranoia, allude precisamente a questa funzione. La relazione paranoica con l'Altro esclude il desiderio, dunque esclude ogni possibile dialettica tra il soggetto e l'Altro perché il luogo dell'Altro, come abbiamo visto, è, nell'interpretazione paranoica del mondo, innanzitutto un luogo abitato da una volontà di godimento maligna. Diversamente dal soggetto diviso della nevrosi che crede all'Altro - che crede sintomaticamente al Nome del Padre - , il paranoico è radicalmente nella non credenza. Per questa ragione l'esperienza del desiderio - la quale implica necessariamente un legame con l'Altro - gli è preclusa. Il soggetto, in altre parole, si pone come una identità chiusa 35. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi vista, l'inclinazione della paranoia verso la dimensione del potere. In fondo ogni regime totalitario funziona secondo una logica paranoica che erige un Altro assoluto che si impone sulle singolarità plurali. Ciò che Erich Fromm aveva decifrato come l'inclinazione sadomasochista di Hitler andrebbe ripensato privilegiando la prospettiva della paranoia. Nella esaltazione infatuata della Natura e nell'ideologia della razza ariana che ne deriva, Hitler rintraccia il fondamento di un Altro senza faglie che trova nello stato totalitario la sua incarnazione politica. Su questo punto, vedi E. Fromm, Fuga dalla libertà, tr. it. Edizioni di Comunità, Milano 1978. 36. Queste due definizioni lacaniane della paranoia si trovano nel Seminario titolato R.S.I. (1973-74), seduta dell'8 aprile 1974 (inedito). Devo questa indicazione a L. Izcovich, Les paranoiaques et lapsychanalyse, Edition du Champ lacanien, Paris 2004. in se stessa, monolitica, assoluta che respinge ogni forma di contaminazione e di transito con l'Altro. Questa pietrificazione soggettiva può coincidere con l'identificazione totale a una missione, a un compito, a un appello inaggirabile, come avviene per esempio in Hitler nel periodo della stesura di Mein Kampf dove dichiara che la voce della grande Germania lo ha incaricato di una missione di redenzione alla quale non può sottrarsi. In questo senso, la dimensione strutturale del congelamento del desiderio può oscillare verso una amplificazione immaginaria, di tipo megalomanica, del soggetto e della sua spinta a realizzarsi come un Uno chiuso.37 La psicologia del paranoico esige infatti di ottenere un posto di eccezione rispetto all'insieme, come avviene per ogni tiranno. Il congelamento del desiderio è per Lacan alla base della sonorizzazione dello sguardo come esperienza centrale della paranoia. Ma che cosa significa sonorizzazione dello sguardo? Essa significa innanzitutto ricondurre lo sguardo alla volontà feroce del Super-io. Lo sguardo dell'Altro persecutore è vissuto nella paranoia come un Panopticon inesorabile. Il soggetto non può sfuggirvi. Questa è l'esperienza che accomuna i paranoici, anche se tale sguardo può incarnarsi diversamente: in quello particolare del vicino di casa, del capoufficio o della propria madre, come in quello universale della Storia, della Natura o del Partito. Lo sguardo dell'Altro diventa in ogni caso il luogo di una irruzione reale del godimento. Non è lo sguardo simbolico che accompagna il riconoscimento del desiderio del soggetto, ma è lo sguardo che non cessa mai di assillare persecutoriamente il soggetto. Si tratta di ciò di cui Freud parla a proposito del Super-io quando lo definisce come uno sguardo al quale non sfugge nulla, nemmeno le intenzioni; uno sguardo che attraversa il soggetto da parte a parte. 38 Nel programma paranoico di invertire specularmente la relazione tra l'essere l'oggetto passivo della persecuzione per diventare l'agente di un'attività persecutoria, lo sguardo continua a mantenere la sua centralità. Sentirsi sempre sottoposto allo sguardo dell'Altro può ribaltarsi nel sottoporre sempre l'Altro al proprio sguardo. L'eccezionalità megalomanica di questo programma consiste nell'essere comunque colui che fa esistere il grande Altro come luogo di una potenza inumana, di una potenza che ignora la mancanza. In questo senso se l'odio paranoi37. Una tesi sviluppata da Izcovich è che il desiderio paranoico non p u ò appoggiarsi sulla mancanza simbolica - a causa della forclusione del N o m e del Padre - ma solo sulla mancanza immaginaria. Di quila sua oscillazione strutturale verso la megalomania. VediL. Izcovich, op. cit., p. 327. 38. S. Freud. Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), tr. it. in Opere, cit., voi. 8, pp. 172-173. co è una manifestazione di una versione patologica dell'identità che nega l'inaggirabilità dell'ambivalenza, esso si rivela come una passione destinata a consumarsi tristemente in se stessa. E ciò che avevano notato con acume i padri della Chiesa quando definivano l'odio invidioso come una tristezza per il bene altrui.39 Il godimento dell'odio è un godimento della rovina e della distruzione. Non è un godimento agganciato al desiderio ma un godimento senza desiderio. Esso non ha oggetto perché non si accontenta della distruzione del nemico in quanto il suo nemico è la vita stessa, è la vita come lesione, come imperfezione dell'essere. Per questo Lacan, recuperando l'ultimo insegnamento di Melanie Klein intorno al carattere costituente dell'invidia, assimilerà la passione dell'odio all'invidia della vita in quanto tale.40 Esiste allora un trattamento che non sia paranoico dell'ambivalenza freudiana? Quando Lacan definisce la psicoanalisi una esperienza di soggettivazione del proprio kakon più arcaico non s'impegna forse proprio in questa direzione? 41 Non dobbiamo allora porre in netta opposizione la politica della psicoanalisi e la politica della paranoia? La psicoanalisi implica un'assunzione etica dell'ambivalenza; essa lavora in direzione di una nominazione possibile dell'ambivalenza. Al contrario la difesa paranoica annulla l'ambivalenza rigettando sul nemico odiato la colpa della perdita e dello scacco della vita. Questo motiva l'impossibilità che la paranoia possa dire alcunché sull'esperienza dell'amore che come tale gli è fatalmente preclusa. E questa una verità che la clinica suffraga inesorabilmente: nella paranoia non è possibile l'esperienza dell'amore perché v'è solamente l'altalena immaginaria tra persecuzione e idealizzazione erotomaniacale, la quale non è un'esperienza d'amore ma quella di una certezza delirante che consiste nel sentirsi amati dall'oggetto, dunque in un rovesciamento apparente della posizione paranoica pura. Ma in ogni caso l'erotomania non ha nulla a che vedere con l'amore in quanto la certezza che l'altro mi ami autorizza l'erotomane a perseguitare l'oggetto sino al limite estremo dell'attentato alla sua stessa vita. Come nella paranoia, anche nell'erotomania è l'odio la vera sorgente dell'idealizzazione amorosa. 39. Vedi Tommaso d'Aquino, limale, a cura di F. Fiorentino, Bompiani, Milano 2001, p. 883. 40. Vedi M. Klein, Invidia e gratitudine, tr. it. Martinelli, Firenze 1969. J. Lacan, Il Seminario. Libro VII. Letica della psicoanalisi, cit. L'espressione "invidia della vita" si trova a p. 301. Ma la stessa nozione freudiana di ambivalenza non ci sospinge forse verso questa zona estrema dell'invidia della vita? L'ambivalenza non è in fondo ambivalenza verso la vita stessa? N o n è questa la tesi estrema di Freud? Eros e Thanatos, nel loro impasto strutturale, non sono forse nomi freudiani dell'amico-nemico come un solo nodo, come il nodo scabroso della vita contro se stessa? 41. Vedi J. Lacan, L'aggressività in psicoanalisi, cit., p. 109. ALOPECIA DELLA PAROLA OSSERVAZIONI SU UN CASO DI FENOMENO PSICOSOMATICO IL FENOMENO PSICOSOMATICO Presento alcune osservazioni teorico-cliniche a partire da un caso clinico che lamenta come sua maggior evidenza sintomatica un fenomeno psicosomatico di alopecia. Si tratta di Ramona, giovane donna di 23 anni, che decide di iniziare un lavoro su di sé a partire dall'aggravamento di una alopecia inizialmente circoscritta a una zona della cute della testa e che successivamente si è estesa a tutti i peli del corpo. Questa estensione risulta a Ramona insopportabile. Quando al telefono mi chiede un appuntamento mi precisa con angoscia le sue difficoltà a uscire di casa da quando non ha più "nemmeno un capello in testa". Solo l'estrema disperazione la costringe a farlo con la speranza di poter guarire. Quando ci incontriamo in seduta, si presenta con un cappello che ricopre una testa completamente glabra. Non ha sopracciglia e ci tiene a informarmi che non ha più alcun pelo in tutta la superficie del suo corpo. Il suo abito nero contrasta con il pallore lunare della sua pelle. Le sue parole si scandiscono lente e si articolano tra loro con fatica, quasi abbiano un peso. Rimango colpito da una forte impressione di morte che accompagna quella sua presenza irreale. UNA CLINICA EXTRAMETAFORICA Come abbiamo già avuto modo di ricordare, Lacan indica nel Seminario XI il fenomeno psicosomatico, accanto alla psicosi e alla debilità, come l'espressione di una clinica extrametaforica che, anziché fondarsi sull'equivalenza classica tra sintomo e metafora, stabilita in Funzione e campo dove si definisce il sintomo come "il significante di un significato rimosso", si regge sulla natura asemantica dell'olofrase che abolendo l'intervallo tra i significanti (S, e S ) finisce per fagocitarne le differenze in un monolito inespressivo. In questo senso possiamo affermare che la clinica dei fenomeni psicosomatici è una clinica in deficit di soggetto dell'inconscio. Con questo riferimento a una clinica dell'olofrase opposta a una clinica della metafora possiamo, seguendo Lacan, introdurci nella clinica psicoanalitica del fenomeno psicosomatico operando un'ulteriore differenziazione tra la somatizzazione in senso stretto e la compiacenza somatica o i fenomeni di conversione somatica attivi nella clinica dell'isteria. Mentre nel caso del fenomeno di conversione isterica il corpo del soggetto appare come integralmente attraversato dal linguaggio (è la scoperta iniziale di Freud: nell'isteria il corpo parla! ), essendo il sintomo la manifestazione somatica di un conflitto inconscio di ordine psichico, nel caso del fenomeno psicosomatico il corpo espone una lesione muta, mostra un segno privo di significazione, un reale refrattario al potere del simbolico, una cifra che resta indecifrabile, una lettera che non si lascia tradurre in nessuna lingua. In questo senso Lacan assimilava, nella conferenza di Ginevra del 1975 dedicata al Sintomo, il fenomeno psicosomatico al numero, dunque a un elemento puramente quantitativo, economico, disgiunto dalla qualità differenziale e diacronica del significante.1 Se nel caso dei sintomi di conversione è il simbolico che fa intrusione nell'organo reale, nel caso dei fenomeni psicosomatici è la lesione reale dell'organo che sembra scorporarsi dall'azione simbolica del significante. Questa diversa articolazione del rapporto tra il registro del reale e quello del simbolico comporta che nei fenomeni di conversione il corpo risulti sensibile all'interpretazione analitica di tipo semantico, mentre in quelli di somatizzazione esso rimanga tendenzialmente indifferente. La contrazione olofrastica appare infatti inchiodata su una lesione reale che il simbolico non è in grado di metabolizzare, mentre nella conversione somatica isterica l'organo somatico agisce come un significante che veicola una significazione rimossa, inconscia, che si tratta di decifrare. Questa condizione della lesione psicosomatica come scorporata dal simbolico è stata definita efficacemente da Joyce McDougall come un fenomeno di désaffectation, dove un affetto in eccesso viene, appunto, allontanato, "disaffezionato" dal mondo psichico del soggetto.2 1. Vedi J. Lacan, Conferenza sul sintomo, cit., p. 13. 2. Vedi J. McDougall, Teatri del corpo, cit., pp. 99-100. Il trattamento analitico del fenomeno psicosomatico punterà dunque a scongelare preliminarmente la contrazione olofrastica, a trascinare la fissazione reale del godimento verso la sponda del senso, verso una metonimia significante possibile. Se infatti la condensazione ( Verdichtung) come formazione dell'inconscio capitona la fuga metonimica del senso offrendogli una articolazione metaforica, nel caso dell'olofrase psicosomatica si deve provare a operare secondo un processo inverso: metonimizzare la condensazione fuori senso della lesione somatica al fine di spostare la fissazione di godimento, di mobilizzarne la sua tendenza mortifera. Questo non significa riassorbire il carattere extrametaforico della lesione psicosomatica, ma riposizionare il soggetto nei confronti di questa lesione. In questo senso la metonimizzazione del fenomeno psicosomatico restituisce a una articolazione significante possibile la pietrificazione priva di articolazioni dell'olofrase. Ma questo non significa che la lesione si riassorba necessariamente in una reintegrazione immaginaria del corpo. Nel caso del fenomeno psicosomatico la costellazione significante appare come un'Atlantide sommersa dalla persistenza della lesione somatica. Nondimeno si tratta di provare a reincludere l'Altro rievocando nel lavoro psicoanalitico il terreno significante da dove è emerso il fenomeno psicosomatico e verificando se questa rievocazione è in grado di riabilitare uno scambio rinnovato tra il significante e il godimento. Se l'insegnamento di Lacan insiste nel mostrare l'eterogeneità tra il corpo psicosomatico e il corpo isterico è per sottolineare come nel primo vi sia assenza del soggetto dell'inconscio mentre nel secondo caso esso è all'opera attivamente. Ma cosa significa sostenere l'assenza di inconscio nel fenomeno psicosomatico? Significa sostenere che se i sintomi di conversione traducono il soggetto dell'inconscio somaticamente o, se si preferisce, investono il corpo di significazioni psichiche inconsce, i fenomeni psicosomatici si manifestano a causa di un'assenza di significazione inconscia, appaiono al posto di una significazione mancata o resasi impossibile. Per questa ragione non è nel sogno che ritroveremo il loro modello metapsicologico quanto piuttosto nel passaggio all'atto, nell'agire in cortocircuito con il corpo, o meglio, nelle somatizzazioni come forme di passaggio all'atto del corpo, di sintomi-atto. 3 Non è casuale che riferendosi al rapporto del bambino con la coppia 3. Questa ipotesi del fenomeno psicosomatico come passaggio ali atto del corpo, come sintomo-atto, accomuna il lavoro di J. McDougall e quello di François Ansermet. Vedi, rispettivamente: Teatri del corpo, cit.; Teatri dell'io, cit., e Clinica dell'origine. Il bambino tra medicina epsicoanalisi. Franco Angeli, Milano 2003, pp. 157-171. genitoriale, Lacan evochi i processi infantili di somatizzazione come la modalità più tipica di espressione del sintomo della coppia stessa. 4 In questo caso il corpo del bambino si presta non a tradurre, ma a incarnare nel reale, una verità "disconosciuta" della relazione tra i suoi genitori che non trova altre forme di espressione. Scrive Lacan: Il sintomo somatico offre la massima garanzia - scrive Lacan - a questo disconoscimento; esso è la risorsa inesauribile, secondo i casi, per testimoniare della colpevolezza, per servire da feticcio, per incarnare un primordiale rifiuto.5 Nella somatizzazione del b a m b i n o c'è la traduzione espressiva di una significazione inconscia - la verità disconosciuta, rimossa, taciuta della coppia genitoriale - , ma questa traduzione avviene come se il b a m b i n o rappresentasse, per così dire, non il proprio inconscio, ma l'inconscio del suo Altro familiare. Ciò che si evidenzia, non solo nelle somatizzazioni infantili ma più in generale nella logica che governa i fenomeni psicosomatici in generale, è dunque un difetto di metaforizzazione, un funzionamento lacunare della simbolizzazione che dipende innanzitutto da una separazione difettosa del soggetto dal godimento silenzioso della pulsione di morte. Traumi, incollamenti fusionali di tipo immaginario, marche indelebili di godimento, insomma qualcosa che non si è mai scritto nell'inconscio - che non è stato rimosso - e che ritorna erraticamente fissandosi solo nella lesione del soma. Da questo punto di vista il problema della somatizzazione non concerne affatto una inclinazione specifica del pensiero (cosiddetta "concreta" o "operatoria") che non consentirebbe l'accesso a una mentalizzazione più evoluta, quanto piuttosto una inerzia del reale del godimento che si disgiunge dalle possibilità di presa del significante anche in soggetti che dimostrano una buona inserzione nel linguaggio e dunque una confidenza positiva col significante. Infatti la clinica ci insegna che la costruzione di una costellazione significante congelata nell'olofrase psicosomatica non necessariamente produce effetti di trasformazione sul fenomeno psicosomatico in sé. Piuttosto l'asse del corpo e quello della parola insistono nel mantenersi reciprocamente estranei. Quello che si constata sia nel caso il soggetto mostri una difficoltà nel suo rapporto con la dimensione simbolica della parola, sia in quello che si riveli inve4. Vedi J. Lacan, Due note sul bambino, cit., pp. 22-23. Il lavoro già citato di Ansermet approfondisce questa indicazione di Lacan assimilando il fenomeno psicosomatico all'agire infans o meglio, considerando il bambino stesso un caso psicosomatico in quanto tale. 5. Ìbidem, p. 23. ce a suo agio in questo rapporto, è una difficoltà strutturale del significante a interferire sul godimento fissato alla somatizzazione e sui suoi eventuali molteplici tornaconti primari e secondari. Il lavoro analizzante, anche quando avviene, non sembra intaccare il nucleo di godimento incistato nel corpo estraneo della somatizzazione. Nondimeno la direzione della cura non può evitare di considerare la possibilità di una significazione retroattiva della somatizzazione stessa a partire da una sua iniziale metonimizzazione, anche se questo non significa che una cura psicoanalitica possa ridurre la lesione psicosomatica: l'obbiettivo principale della cura non è quello di riassorbire la lesione, ma di permetterne una soggettivazione inedita. UN PRIMA METONIMIZZAZIONE L'assenza dei capelli diventa sin dalle prime sedute il focus del discorso di Ramona. Il lavoro analitico si orienta come una lenta metonimizzazione del monolito olofrastico dell'alopecia senza però alimentare la domanda immaginaria relativa alla possibilità di un recupero dei capelli perduti che inizialmente sembrava invece animare la paziente. Lo scongelamento discorsivo dell'olofrase avviene lentamente, dissociandosi dall'urgenza della domanda immaginaria di aiuto. Più che promettere la restituzione dei capelli perduti, il lavoro analitico può evidenziare il carattere sovradeterminato del significante "capelli". Questo significante, ricorrente nel discorso di Ramona, si presenta sin dalle prime sedute come una sorta di cifra, di crocevia semantico, di addensamento di significazioni inconsce che viene lentamente sottoposto al lavoro dell'associazione libera per provare a metonimizzare la contrazione olofrastica della somatizzazione. Una serie di significati emergono simili a quelli che si srotolano nella catena dell'associazione libera relativa all'interpretazione di un sogno.6 Più precisamente esse sembrano dispiegarsi seguendo tre linee direttrici. Una prima serie significante si snoda a partire dal valore narcisistico attribuito alla "gloria" della sua chioma. I capelli erano, infatti, la "parte del suo corpo" che Ramona amava di più e che non smetteva di contemplare. Ricorda il sentimento di piacere narcisistico che provava sin da bambina nel farli crescere i più lunghi possibile e nell'ammirarli allo 6. Una delle tesi della McDougall è che il fenomeno psicosomatico stia al posto di un "sogno mancato", ovvero, se posso tradurre nei miei termini, che esso trovi il suo fondamento in un'assenza di lavoro inconscio di cifratura. Vedi J. McDougall, Teatri del corpo, cit., p. 72. specchio. Questo piacere si nutriva dello sguardo del padre che ai capelli di sua figlia assegnava un valore speciale. "Sono orgoglioso dei tuoi capelli", le diceva frequentemente. La seconda linea associativa riguardava l'essere oggetto delle violenze paterne. Il valore fallico-narcisistico dei capelli si univa così immediatamente a quella dello "sfregio". La prima perdita di capelli di cui Ramona sembra ricordarsi avviene infatti nel corso di un litigio feroce col padre. Siamo nel tempo dell'adolescenza; una volta il padre l'afferrò bruscamente per i capelli trascinandola a terra. Questi episodi di violenza brutale del padre si ripetevano in famiglia non solo nei suoi confronti ma anche nei confronti della madre e della sorella minore. Con la nascita di quest'ultima, che avviene quando Ramona ha cinque anni, ella si sente cancellata dal padre, il quale dedicherà le sue attenzioni solo alla nuova venuta. Sorse in quella circostanza il sentimento profondo di essere uno scarto, di non valere nulla, di essere superflua. Emerge una serie di scene infantili che hanno come tema la violenza paterna e l'identificazione di Ramona alla madre come oggetto del godimento sadico del padre. L'essere colpita, malmenata, offesa e insultata dal padre ripete in realtà una traccia acustica della scena primaria di Ramona nella quale udì il padre urlare alla madre, nel corso di un rapporto sessuale: "Godi e taci! ". Non è dunque casuale che la congiuntura di scatenamento dell'alopecia si verificò allorché Ramona venne abbandonata dal primo e unico compagno all'età di 18 anni sentendosi come "violentata". Le caratteristiche di questo rapporto ripetevano evidentemente i tratti della relazione paterna. Questa ripetizione ancorava Ramona alla posizione materna, alla posizione dell'oggetto umiliato e costretto al silenzio. L'S1 traumatico del "godi e taci! " che il padre imponeva alla madre trovava nel rapporto di Ramona col suo ragazzo una replica letterale. Quando fu abbandonata, apparve una primissima manifestazione di alopecia che colpì una zona circoscritta della cute della testa. La perdita del ragazzo sadico e della sua posizione di oggetto umiliato lasciò il posto alla perdita dei capelli. Infine una terza serie di concatenazioni significanti mostrò l'incidenza immaginaria di un'altra zona del corpo, precisamente del naso. Ramona rivela nel corso della cura che i capelli non erano solo una "parte del corpo preziosa in sé", ma le servivano anche per nascondere "l'oscenità del suo naso". Dall'adolescenza in avanti racconta di aver sempre fatto fatica ad accettare la protuberanza scabrosa del suo naso. Quando un ragazzo che le piaceva le disse che aveva un naso orrendo smise addirittura di andare a scuola per non farsi vedere. Da allora l'os- sessione per il "naso brutto" non la lasciò più. Mi confidò che era soprattutto per il naso e non per l'assenza di capelli che recentemente non riusciva più a uscire di casa. LA DIALETTICA MENOMAZIONECOMPENSAZIONE (FALLICA?) In un sogno Ramona si rappresenta come una testa di Medusa con al posto dei serpenti una miriade di fili di ferro. Il filo di ferro le fa pensare a qualcosa di compatto e di morto insieme. Ramona rivela che da bambina voleva essere un maschio. Faceva la pipì come loro mimando col pugno chiuso la presenza nel suo corpo del pene assente, giocava ai loro giochi, voleva indossare sempre i pantaloni, rifiutava gli abiti chiaramente femminili e i loro colori. Più avanti negli anni, verso l'età prepuberale, aveva sviluppato un interesse morboso per tutti i generi di protesi del corpo che ricoprivano una qualche menomazione fisica: parrucche, apparecchi dentistici, occhiali, stampelle. Una volta a scuola aveva chiesto di poter utilizzare le stampelle di una compagna fingendo di avere un piede rotto. In un'altra occasione aveva insistito coi suoi genitori per poter mettere lo stesso apparecchio dentistico di una sua compagna di classe. Giocava frequentemente con le parrucche della madre. Voleva portare gli occhiali della sorella minore sebbene non avesse alcun problema di vista. Le protesi dovevano colmare una menomazione del suo corpo così come i capelli dovranno rimediare l'oscenità del naso. A sospingere verso questo ultimo passaggio fu l'incontro traumatico e angosciante con il giudizio del ragazzo desiderato sul suo naso brutto. Il sentimento di vergogna che la paralizzava relativa alla sporgenza orribile del suo naso evidenziava il suo corpo come impossibile da coprire, da rivestire, da velare, come manifestazione nel reale della sua castrazione. IL VELO SULLA CASTRAZIONE O SULLA MORTE? L'apparizione dell'alopecia sembrò sconvolgere questa dialettica tra la castrazione del corpo e la necessità di una protesi che ne riparasse l'imperfezione. Con la lesione dell'alopecia si manifestò direttamente nel reale ciò che prima appariva solo a livello immaginario (naso brutto). Il venire meno della "parte del corpo" narcisisticamente più inve- stita rendeva assai più visibile il naso brutto, spogliandola del velo fallico e facendola sentire senza alcun valore, senza alcun riparo, gettandola nell'angoscia. Si trattava dunque per Ramona di trovare un'altra compensazione immaginaria che le garantisse una possibile identità narcisistica. Come compensare la caduta dei capelli? Come ridare valore narcisistico al proprio corpo esibito come manifestamente corrotto dall'alopecia? Di qui lo sviluppo di un interesse particolare per le proprie unghie che da allora cura con grande meticolosità e metodo. Le unghie appaiono come la parte del suo corpo che sembra reintrodurre nel soggetto un valore fallico riparandolo, almeno parzialmente, dall'angoscia dell'essere senza alcun valore. In questa fase della cura mi sembrò che la dialettica tra menomazione e compensazione fallica trovasse nel culto delle unghie una tappa ulteriore: la caduta dei capelli viene compensata dalla crescita delle unghie. Le unghie appaiono come una fallicizzazione del corpo che lo sottrae al sentimento paralizzante di vergogna alla quale la costringeva l'apparizione senza veli del naso e dell'alopecia. In realtà emerse ben presto una nuova serie significante. "La mia passione per le unghie non è estranea a quella per i miei capelli" mi preciserà in una seduta Ramona. Ma questo non tanto per la funzione di velo che esse assolvono sulla castrazione del soggetto, ma per il rapporto speciale che intrattengono con la morte. La dialettica fallica tra menomazione e compensazione si spalancò così su qualcosa di ulteriore. Ricordò che da bambina era rimasta molto colpita da una frase sentita mentre era dal parrucchiere: "Sia i capelli che le unghie continuano a crescere anche dopo la morte del corpo". Ricordò allora anche la frase lapidaria del primo dermatologo che la visitò: "I tuoi capelli, le disse, nascono già morti". Questa rilevanza della morte nel discorso di Ramona cambiò radicalmente la mia visione del caso. Fui costretto a ripensare quella che mi era apparsa come una dialettica menomazione-compensazione fallico-immaginaria in un'altra prospettiva. Si chiarì come l'oscuramento dell'oscenità del naso aveva per Ramona un valore secondario rispetto alla sua attrazione primaria verso la protesi come manifestazione di un oggetto morto. Quella attrazione non si limitava a esprimere solo un rimedio immaginario nei confronti della propria castrazione - dunque non solo un modo per prolungare la sua identificazione virile attraverso l'uso "feticizzato" di un oggetto protesico - , ma anche un'attrazione più radicale verso la cosa morta, verso l'oggetto morto, privo di vita, che sembrava catturare Ramona in una spinta alla morte irresistibile. Mi spiegò come le parole traumatiche del padre rivolte alla madre ("taci e godi! ") contene- vano in realtà una minaccia di morte, la stessa di quando temette di essere veramente uccisa dalle aggressioni violente del suo fidanzato. Da bambina giocava a bruciacchiare i suoi capelli. Li osservava, presa da una strana fascinazione, rattrappire, nascere morti come le disse il dermatologo. Mi confidò che l'idea di riacquisire i suoi capelli l'angosciava tanto quanto l'idea di non averli più. "Se ritornassero", mi dice, "rischierei di perderli nuovamente e questo mi risulterebbe impossibile da sopportare". Dopo l'insorgenza dell'alopecia sua madre rischiò di morire a causa di un tumore. Il trattamento chemioterapico le fece perdere quasi tutti i capelli. Si disse tra sé e sé che, se sua madre fosse morta, lei l'avrebbe raggiunta immediatamente. Fece un voto a Dio: "Resterò sempre senza capelli purché mia madre possa continuare a vivere". Ma non era questo il solo motivo che legava sua madre alla morte. Nella genealogia materna la pratica dell'interruzione di gravidanza sembrava essere un vero e proprio metodo contraccettivo. Col tempo Ramona mi rivelò che la madre aveva abortito ben quattro volte, sua nonna dodici e la sorella di sua madre sette. Le parole del dermatologo ("i suoi capelli nascono già morti") e il gioco infantile del bruciacchiare i capelli si congiungono al mistero di una potenza antivitale delle donne-madri della famiglia. Alla violenza del padre nei confronti delle donne di casa viene contrapposta la violenza delle donne-madri che decidono impunemente della vita e della morte dei loro frutti. IL VOTO DEL SILENZIO Il lavoro analitico intorno a questo potere antivitale delle donne riportò alla luce un ricordo fondamentale. Intorno ai sei anni Ramona va in visita a un monastero di clausura. Resta colpita dalla madre superiora. Il suo viso, incorniciato dal velo della clausura, le appare come privo di capelli, calvo, ma dotato anche di una forza e di una determinazione assoluta. Il voto di clausura, la rinuncia a vivere con gli altri, la scelta dell'isolamento totale le sembrarono un segno di potenza. La madre superiora le apparve come un essere speciale, autosufficiente, privo di desideri, senza mancanze. Ma la cosa che le rimase più impressa fu la regola del silenzio che regnava nel monastero. Era vietato parlare. Il voto del silenzio le sembrava qualcosa di forte e terribile insieme. Il giorno successivo a scuola convinse alcune sue compagne ad applicare la regola del silenzio in classe. Solo l'impossibilità oggettiva di protrarre a lungo questa posizione la sospinse a ricercare rimedio nelle protesi. L'incontro con la madre-morte incarnata nella suora di clausura le indicò che la soluzione del problema del desiderio e del godimento era nelY identificazione alla cosa morta. L'anticipazione della perdita scongiurava il pericolo della perdita; il voto del silenzio si presentava come una soluzione più efficace e più radicale delle protesi. La scelta fondamentale di Ramona sembra dunque realizzarsi con la visita al monastero di clausura. E la scelta della morte, della clausura, del silenzio, della distruzione del desiderio. E la spinta alla morte che rovescia la dialettica fallica di menomazione-compensazione narcisistica verso un monismo mortifero difficile da decifrare diagnosticamente. Il voto del silenzio come voto di morte produce una fascinazione per la feticizzazione mortifera che darà luogo in seguito alla fascinazione per le protesi. L'oggetto morto cancella l'angoscia. Essere narcisisticamente il fallo, la vergine morta, la sorella morta, la madre-morte la conduce a rimediare drasticamente (col rifiuto della vita e della parola) alla propria castrazione. L'identificazione alle donne è qui identificazione a un principio antivitale assoluto. Il suo fantasma s'innesta su una sorta di fantasma transindividuale che concerne le donne della famiglia: il gruppo delle donne che decide della vita e della morte. UN'ALOPECIA DELLA PAROLA Lo scambio tra il significante e il godimento sembra verificarsi allorché la crescita dei primi capelli che ricoprono parzialmente la testa ancora calva di Ramona conduce la paziente stessa a rinchiudersi in un silenzio sempre più ostinato. E un silenzio che nessuna interpretazione e nessun'altra operazione analitica, sul tempo della seduta, o su altro, sembra poter dialettizzare. Questa alopecia della parola controbilancerà una lenta e solo parziale guarigione dall'alopecia psicosomatica. Nondimeno questo silenzio ostinato sospingerà Ramona a interrompere la sua cura dopo tre anni di lavoro. La sua vita sociale nel frattempo si era rianimata e il suo corpo sembra rivivificato. Con una lettera lasciatami sotto la porta dello studio mi comunica la decisione di interrompere il trattamento. Nella lettera mi ringrazia per la pazienza che ho avuto con lei e per il tempo che le ho dedicato. Ora non è più angosciata per i capelli, ma non sopporta più di dover parlare in seduta. La perdita parziale del godimento silenzioso fissato alla somatizzazione, causato dalla messa in movimento della catena significante, la smuove dalla sua identificazione alla cosa morta, ma non senza un contraccolpo transferale. L'azione del simbolico viene contrastata preservando il proprio essere fuori dal transfert. Il soggetto non vuole abbandonare senza resti la sua posizione silenziosa, non vuole rinunciare alla potenza antivitale delle madri-morte. Mi scriverà anche che ha bisogno di sapere se potrà tornare quando ne sentirà nuovamente la necessità. Le risponderò per lettera scrivendole che la mia porta per lei sarà sempre aperta. IL T R A T T A M E N T O P S I C O A N A L I T I C O DI FRONTE ALLE NUOVE FORME DEL SINTOMO DIFENDERE IL SOGGETTO DELL'INCONSCIO La clinica dei cosiddetti "nuovi sintomi", come abbiamo ampiamente visto, è una clinica che sembra configurarsi come una clinica al di là del principio del desiderio, irriducibile alla clinica del soggetto diviso, una clinica in assenza di soggetto dell'inconscio. Nell'epoca ipermoderna il discorso del capitalista, nella sua promozione assillante dell'oggetto-gadget come soluzione illusoria della "mancanza a essere" che abita il soggetto, e il discorso della scienza nella sua promozione del sapere specialistico come soluzione asettico-pragmatica del problema della verità, realizzano una tendenziale cancellazione del soggetto dell'inconscio. I nuovi sintomi si configurano come un effetto particolare di questo movimento avverso all'inconscio essendo essi stessi dei prodotti specifici del discorso del capitalista nel suo intreccio spettrale col discorso della scienza. Possiamo evocare a titolo esemplare il fenomeno clinico della tossicomania, il quale è, al tempo stesso, l'effetto di un'offerta di mercato e l'effetto di un avanzamento del sapere scientifico-tecnologico (produzione industriale della sostanza-droga). Come incide la nuova psicopatologia sulla pratica della psicoanalisi? Quali sono le difficoltà specifiche che le nuove forme del sintomo pongono all'azione dello psicoanalista? Se esse si manifestano come sintomi-atti, tendenza alla evacuazione, pratiche pulsionali prive di pensiero, e se, proprio per questa loro configurazione, sembrano mettere all'angolo ogni terapia della parola configurandosi come forme radicali di antiamore, come l'espressione del fallimento dell'operazione simbolica della parola, come può la psicoanalisi che è, appunto, una talking cure, una cura parlata, intervenire con efficacia nel loro trattamento? Come si può raggiungere un soggetto che sembra slacciarsi da ogni rapporto con la verità del suo inconscio per tuffarsi senza incertezze nelle spirali del godimento? Come si può perseguire l'obbiettivo della ricostituzione di una possibile alleanza tra il soggetto e il suo desiderio inconscio? Quando parliamo di "nuova questione preliminare" definiamo precisamente quel campo di operazioni che sono necessarie per rendere possibile una applicazione della psicoanalisi alla terapeutica delle nuove forme del sintomo. Questo significa che la questione preliminare al trattamento dei nuovi sintomi non può non implicare una politica culturale più ampia in grado di contrastare la tendenza alla cancellazione del soggetto dell'inconscio; tale questione sarà così animata, da un punto di vista politico, dall'esigenza di difendere, di fare esistere di nuovo, di mantenere ancora vivo il soggetto dell'inconscio. In questa prospettiva molto generale la nuova questione preliminare investe un programma di applicazione della psicoanalisi nel campo sociale poiché si tratta di intervenire preliminarmente - al di là dell'orizzonte ristretto della dimensione terapeutica disegnato dalla stanza dell'analisi - nell'ambito dei legami sociali, del loro sfondo culturale, delle sue pieghe e delle sue articolazioni, per contribuire attivamente a difendere l'esistenza del soggetto dell'inconscio. Si tratta, se si vuole, del compito basilare che le istituzioni di psicoanalisi applicata alla terapeutica, sorte in questi ultimi anni, si possono assumere. 1 La loro politica e la loro stessa esistenza vogliono contribuire a rinnovare l'esistenza del soggetto dell'inconscio facendo uscire la psicoanalisi dalla dimensione ovattata del suo "splendido isolamento". In effetti, come insegnano le origini stesse della psicoanalisi, un cambiamento significativo dell'offerta può realizzare, almeno potenzialmente, l'evento possibile di una nuova domanda di cura che non chiuda la porta al soggetto dell'inconscio. In altre parole, si tratta di pensare la nuova questione preliminare nel giunto che implica la soggettività al discorso sociale. Come fare esistere un programma di difesa del soggetto dell'inconscio nell'epoca dominata dalle psicoterapie a orientamento cognitivo-comportamentale che impongono un concetto di effetto terapeutico ridotto al ripristino delle funzioni cosiddette normali del soggetto (appetito, umore, pensiero ecc.)? Come salvaguardare quello spazio di libertà singolare che il soggetto dell'inconscio esprime di fronte al montare del delirio scientista della misura1. E sulla scia di questo programma che abbiamo creato in Italia nel gennaio del 2003 Jonas: centro di ricerca psicoanalitica per i nuovi sintomi ( www.jonasonlus.it). zione e della medicalizzazione universale del concetto di salute? Come opporre una resistenza attiva alla riduzione del desiderio al godimento ripetitivo della pulsione di morte che abita il discorso del capitalista? La prima nuova configurazione del trattamento preliminare concerne dunque la sua estensione al campo sociale. Si tratta di sostenere il programma del soggetto dell'inconscio come una teoria critica in atto rispetto al programma universalistico dello scientismo e del discorso del capitalista. Se infatti ai tempi di Freud l'inconscio era l'inaudito, lo scandaloso, la peste che scombussolava l'ordine borghese della polis, oggi appare piuttosto confinato nei territori arcaici e prescientifici della superstizione. La resistenza sociale al soggetto dell'inconscio non assume più le forme - descritte ai suoi tempi da Freud - del rifiuto scandalizzato, del cordone sanitario nei confronti della "peste", quanto piuttosto quelle di uno scetticismo disincantato. Mentre infatti l'isteria freudiana celebrava la verità del soggetto dell'inconscio, i nuovi sintomi, come abbiamo ampiamente visto, sembra che ne neghino cinicamente l'esistenza. Un programma di psicoanalisi applicata al sociale si impone allora come un'urgenza: come introdurre nuovi significanti per continuare a fare esistere il soggetto dell'inconscio? DUE PROSPETTIVE Lacan ha sviluppato la cosiddetta questione preliminare a partire dalla clinica delle psicosi, dunque dalla clinica di un soggetto che, a causa della forclusione del Nome del Padre, è nell'impossibilità di operare una mediazione simbolica che faccia perno sulle virtù risanatrici della castrazione edipica e sulla sua facoltà di schermare il reale incandescente del godimento. Nella psicosi non c'è infatti rimozione, dunque realizzazione simbolica del soggetto dell'inconscio, ma un ritorno direttamente nel reale di ciò che non può essere simbolizzato. Diversamente, nella clinica delle nevrosi il reale del godimento subisce un trattamento preliminare attraverso l'operatività della metafora paterna, la quale può essere effettivamente considerata come un trattamento preliminare del godimento riuscito: il suo risultato è una castrazione del godimento (della madre) che apre simbolicamente il luogo del soggetto come luogo differenziato, separato, come luogo possibile del desiderio. La clinica della psicosi si fonda invece sul fallimento di questo trattamento preliminare del godimento, sulla forclusione dell'azione simbolica del Nome del Padre come azione capace di regolare il godimento dell'Altro materno. È proprio a causa del fallimento di questo trattamento a livello della struttura del soggetto che Lacan propone la necessità teorica e clinica di un trattamento preliminare nell'ambito della cura delle psicosi. Poiché il trattamento del godimento primordiale esercitato dalla metafora paterna non ha potuto avvenire, a causa, appunto, della forclusione del Nome del Padre, nelle psicosi si tratta di rendere possibile una regolazione del godimento in assenza dell'efficacia simbolica del trattamento offerta dalla metafora paterna. Non è possibile infatti applicare al soggetto psicotico il metodo classico della psicoanalisi delle nevrosi (quello dell'associazione libera) perché non c'è soggetto dell'inconscio, ma piuttosto un Es senza inconscio, lo "strapotere dell'Es" come diceva Freud, la sregolazione incandescente del godimento, la pulsione di morte allo stato puro. E molto importante rammentare questa origine della questione preliminare in Lacan perché, come abbiamo visto, la clinica contemporanea ci confronta con una debolezza strutturale della metafora paterna e con gli effetti dei ritorni del godimento nel reale che rendono irriducibili i nuovi sintomi al regime significante della metafora. Anche in questo senso è la clinica delle psicosi che può offririci una bussola di orientamento nella clinica contemporanea: perché si possa provare a riabbonare il soggetto all'inconscio è necessario un trattamento preliminare del godimento per ridurre i suoi effetti più devastanti e mortiferi. La seconda direzione teorica che Lacan ci suggerisce rispetto alla problematica del trattamento preliminare riguarda la dialettica della cura come tale. A questo proposito il trattamento preliminare si configura come trattamento della domanda. Perché vi sia applicazione della psicoanalisi è infatti necessario che vi sia una preliminare soggettivazione della domanda di cura. Con un problema aggiuntivo che la clinica contemporanea impone perché i nuovi sintomi appaiono più come soluzioni del problema che come problemi che esigono una soluzione. Di conseguenza, nell'applicazione della psicoanalisi alla terapeutica dei nuovi sintomi è necessario produrre un passaggio dall'ipotesi che vi sia una domanda di trattamento alla necessità di operare un trattamento preliminare della domanda perché una cura possa davvero svilupparsi.2 Se, infatti, anoressia e tossicomania sono, come altri nuovi sintomi, un tentativo di autoterapia, di soluzione del problema della mancanza a essere, una domanda di trattamento risulterebbe impossibile, perché il vero trattamento sa2. E questa l'indicazione preziosa con la quale H u g o Freda sintetizza il mutamento in atto nel trattamento preliminare dei nuovi sintomi: dalla domanda di trattamento al trattamento della domanda. Vedi H. Freda, Psicoanalisi e tossicomania, cit., pp. 73-82. rebbe già in atto e coinciderebbe con il sintomo stesso. Per questa ragione bisogna operare preliminarmente un passaggio discorsivo dalla domanda di trattamento (impossibile) al trattamento della domanda perché una domanda di trattamento diventi effettivamente possibile. In questo contesto l'insistenza di Lacan sull'importanza della pratica dei colloqui preliminari - la cui assenza pregiudica, nel rigore del suo giudizio, la dignità stessa della prassi analitica in quanto tale - 3 mette in risalto in generale l'impossibilità di considerare comunque - ben al di là della clinica della psicosi - il soggetto dell'inconscio come un organo, un oggetto empirico o come un dato di natura. Per questa ragione, egli sottolinea come lo psicoanalista faccia parte del concetto stesso dell'inconscio, nel senso che, se lo psicoanalista non viene incluso (nel transfert) nell'inconscio del soggetto viene meno l'idea stesso del soggetto dell'inconscio. Perché un lapsus o un sogno siano trattati come formazioni dell'inconscio, necessitano di un Altro a cui indirizzare il loro messaggio e lo psicoanalista è l'incarnazione di questo Altro. Il presupposto essenziale per l'esistenza del soggetto dell'inconscio è infatti l'offerta dell'ascolto analitico che prepara l'inclusione dell'analista nel concetto stesso di inconscio in quanto ne costituisce la "destinazione" ultima. La problematica del trattamento preliminare nel processo della cura analitica procede, da un punto di vista generale, proprio col rendere operativa questa inclusione di fronte alla difficoltà di trattare sintomi che si rifiutano a ogni scambio simbolico con l'Altro. Se torniamo alla prospettiva teorica di Lacan dobbiamo porre una differenziazione netta tra il trattamento preliminare nella clinica della psicosi e quello che investe la clinica della nevrosi: mentre la questione preliminare nell'ambito della clinica della psicosi pone in rilievo la necessità di una regolazione (preliminare) del reale del godimento che supplisca l'assenza forclusiva del Nome del Padre, il trattamento preliminare nel processo della cura nelle nevrosi mette in evidenza la dimensione della domanda in quanto punto di mediazione e di articolazione sensibile tra il sintomo e il transfert. 4 Più precisamente, i colloqui preliminari mirano a una trasformazione della domanda d'aiuto, animata dall'urgenza e solitamente angosciata, in una domanda che possa funzionare come un punto pivot capace di mediare e articolare dialetticamente il sintomo 3. Per esempio nella conferenza di Ginevra del 4 ottobre 1975 quando afferma: "Nell'analisi chi lavora è proprio la persona che viene a formulare una domanda di analisi. A condizione che non l'abbiate messa subito sul divano, nel qual caso è una fregatura. E indispensabile che questa domanda abbia veramente preso forma prima che voi la facciate stendere", cit., pp. 14-15. 4. Conviene precisare che nel primo caso il trattamento preliminare coincide con la cura stessa, mentre nel secondo caso funziona come tempo d'entrata nella cura. al transfert. Nella clinica classica delle nevrosi è infatti il sintomo che causa la domanda orientandola verso un possibile transfert. Proviamo a dettagliare meglio. Il trattamento preliminare nella clinica classica della nevrosi consiste nel realizzare una doppia trasformazione della domanda. Questa doppia trasformazione riceve nell'insegnamento di Lacan due nomi distinti. La prima è definita nella formula delia "rettificazione dei rapporti del soggetto col reale", la seconda in quella dell'isterizzazione del discorso? La prima mette in valore una trasformazione etica della domanda, la seconda una sua trasformazione euristica. La prima ha il suo paradigma nella figura hegeliana dell'anima bella che si estranea dai fatti del mondo che la coinvolgono presupponendosi falsamente (e colpevolmente) come senza responsabilità rispetto a tutto ciò che avviene nel mondo. E ciò che Hegel teorizza come scissione tra il giudizio e l'azione.6 Dal punto di vista clinico è la posizione del soggetto che si dichiara innocente rispetto alla sofferenza che patisce e che imputa all'Altro la causa di tutti i suoi mali. La trasformazione etica della domanda consisterebbe allora, in questo caso, nell'indicare al soggetto la parte che egli ha nel fabbricare e preservare le condizioni della sua sofferenza. Dunque nel far lavorare nel soggetto la dimensione etica della colpa, nel riconoscerlo come soggetto implicato nel suo sintomo, responsabile della sofferenza di cui si lamenta e che tende invece ad attribuire immaginariamente all'Altro. La seconda trasformazione della domanda a cui punta il trattamento preliminare e che chiamiamo "trasformazione euristica" mette invece in valore la dimensione dinamica della verità nella dialettica della cura. Si tratta di trasformare la domanda di aiuto in una domanda di sapere intorno alla verità del proprio desiderio inconscio. Mentre, infatti, la domanda d'aiuto implica sempre il riferimento a un oggetto immaginario - ovvero a una soluzione positiva del male offerta dall'Altro - sottomettendo la volontà di sapere, che dovrebbe invece animare il soggetto impegnato in un'analisi, alla volontà di guarire senza volerne sapere nulla del significato del suo sintomo, la domanda di analisi implica che la volontà di sapere ponga come suo oggetto non il benessere ma il raggiungimento della verità custodita nel proprio sintomo. L'operazione preliminare in questo caso consisterà allora nell'aprire nel soggetto un'interrogazione sulla causa della sua sofferenza che non si richiuda immediatamente, per esempio in una "fuga nella guarigione" come avrebbe detto Freud, ma che mobiliti 5. La prima trova il suo luogo testuale privilegiato in ha direzione della cura e i principi del suo potere, cit., mentre la seconda è tematizzata nel Seminario XVII. Il rovescio della psicoanalisi, cit. 6. Vedi G.W.F. Hegel, Fenomenologìa dello spirito, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1976, cit., voi. 2 , p . 191. invece una vera e propria ricerca euristica della verità. In questo senso in una psicoanalisi conta di più voler sapere la verità della causa della sofferenza sintomatica che estirparla immediatamente. La volontà di sapere deve cioè sovverire la volontà di guarire. Ed è in questo rovesciamento che possiamo misurare tutta la distanza che separa la clinica psicoanalitica dalla clinica medica. Se per quest'ultima il paziente vuole semplicemente guarire dal suo sintomo lasciando tutto il sapere nelle mani del medico, nella cura analitica il paziente s'impegna a voler sapere la causa della sua sofferenza subordinando a questo sapere l'eventuale guarigione che avverrà solo in "sovrappiù", come si esprimeva Lacan. Questo rovesciamento è precisamente ciò che Lacan chiama isterizzazione del discorso; il discorso del soggetto viene calamitato da un'esigenza di decifrazione e di sapere che trascende il piano immediato della domanda di cura come domanda di risoluzione terapeutica dei sintomi. Mentre il soggetto animato dalla domanda immaginaria si attende che sia l'Altro a trattare la sua questione, con l'isterizzazione del discorso è il soggetto che si interroga sulla sua questione supponendo non che l'Altro la risolva al suo posto ma che possegga la chiave - il sapere supposto - che gli manca per raggiungere la verità del suo sintomo. LA DIMENSIONE PSICOTICA DELLA NUOVA CLINICA Come abbiamo accennato in Questione preliminare a ogni possibile trattamento della psicosi Lacan problematizza la possibilità di un'applicazione della cura analitica alle psicosi. La dimensione del trattamento preliminare si configura così come una condizione che deve essere soddisfatta al fine di ridurre i ritorni di godimento nel reale che invadono il soggetto psicotico. In altre parole, ogni possibile trattamento preliminare della psicosi implica il tentativo di una attivazione del fattore Nome del Padre - dunque di ciò che ne può supplire l'assenza forclusiva come istanza regolativa del godimento. In questo senso si può affermare che la domanda del soggetto psicotico sia sempre una domanda di Nome del Padre, ovvero di quel significante di cui il soggetto non dispone per regolare il proprio godimento.' La centralità acquisita nell'attualità dalla questione preliminare de7. La questione che a questo punto si apre relativamente alla posizione dell'analista nella cura delle psicosi riguarda la difficoltà di come rispondere alla domanda di N o m e del Padre dello psicotico senza però occupare la posizione di un Altro non sbarrato che presentificherebbe la volontà di godimento dell'Altro e che esporrebbe il transfert al rischio di una virata paranoica. riva proprio dal fatto che la clinica dei sintomi contemporanei si manifesta come una clinica al di là della rimozione, in deficit di simbolico, come una clinica del passaggio all'atto più che una clinica della cifratura inconscia del rimosso. In questa predominanza dell'agire rispetto alla simbolizzazione, in questo strapotere dell'Es, in questo Es senza inconscio, la clinica contemporanea sembra svelare il suo fondo psicotico; il che non significa affatto appiattire diagnosticamente i sintomi contemporanei alla struttura della psicosi, secondo uno schematismo inevitabilmente riduttivo, quanto piuttosto riconoscere che la clinica della rimozione - della quale il sintomo come formazione dell'inconscio è il prodotto simbolico eminente - non può pretendere di assorbire una clinica - com'è appunto quella contemporanea - contrassegnata piuttosto dallo sfaldamento del carattere simbolico del sintomo e dai ritorni erratici di godimento nel reale. LA DOMANDA CONVULSA La nuova questione preliminare s'impone innanzitutto come una riflessione sullo statuto contemporaneo della domanda di cura. L'epoca del discorso del capitalista è in effetti l'epoca nella quale impera la domanda immaginaria dell'oggetto come domanda compulsiva, avida, in uno stato continuo di fibrillazione. La domanda che circola nella Civiltà ipermoderna è infatti una domanda che si presenta come costantemente elettrizzata, convulsa, sganciata dalla dialettica del desiderio. Si tratta di una domanda che non integrandosi col desiderio si rivolge non al desiderio dell'Altro ma alla dimensione più immediata dell'oggetto di godimento. Ne deriva che la dialettica del desiderio inconscio viene ostacolata. Come ci ha insegnato Lacan la dialettica del desiderio si sostiene sul fondamento della radice eteroclita del desiderio stesso, nel senso che il desiderio "viene dall'Altro" 8 e all'Altro si rivolge in quanto il desiderio dell'uomo è sempre, in ultima istanza, desiderio dell'Altro desiderio. Questo significa che la dialettica del desiderio è costitutivamente "sotto transfert", aperta, orientata, spalancata sull'Altro perché è nell'Altro che il soggetto del desiderio ricerca l'oggetto piccolo (a) come condensatore di quella parte d'essere dalla quale il soggetto si è separato a causa dell'azione alienante del significante. In questa dialettica il desiderio appare articolato alla domanda, pur 8. Vedi J. Lacan, Del Trieb diFreud, tr. it. in Scritti, cit., p. 857. risultandone irriducibile. È, precisamente, come spiega Lacan, il "resto" della domanda, nel senso che ogni soddisfazione della domanda porta con sé un nucleo di insoddisfazione che manifesta il carattere infinito, senza misura, del desiderio. La domanda convulsa che abita il discorso del capitalista non sembra più una domanda che si mantiene in rapporto al desiderio; la domanda convulsa non attinge la sua forza al desiderio come "resto". Essa è piuttosto elettrizzata dall'oggetto di godimento e dal fascino ipnotico della marca che nel discorso del capitalista ipermoderno è ciò che misura il potere causativo dell'oggetto-feticcio ben al di là del suo valore di scambio. 9 Questo genere di domanda non è animata dalla mancanza a essere che abita il soggetto ma è il discorso del capitalista che la genera producendo sia il vuoto d'oggetto (creando infinite pseudomancanze), sia l'oggetto capace (illusoriamente) di riempirlo. Operando una dissoluzione permanente dell'oggetto di consumo proprio laddove lo offre come soluzione di ogni male, il discorso del capitalista crea il presupposto strutturale per un attorcigliamento della domanda su se stessa, per una sua convulsione permanente. E il paradigma essenziale fornito dalla bulimia: il desiderio risulta ricoperto, schiacciato, assimilato integralmente alla domanda e, proprio per questo, collassato, trascinato via da un godimento mortifero che sembra annullare il soggetto (secondo un movimento di alienazione che rovescia l'azione separativa introdotta dalla manovra anoressica).10 In fondo il paradigma della bulimia mostra il carattere paradossale della domanda convulsa che anima lo scenario ipermoderno: è l'oggetto che mostra ciò che manca al soggetto e non la mancanza del soggetto a guidare il soggetto verso l'oggetto secondo l'andamento della metonimia del desiderio. Le leggi attuali del mercato non tengono conto del desiderio del soggetto, ma solo della necessità di produzione di nuovi oggetti. L'astuzia del discorso del capitalista consiste nel produrre nuove pseudomancanze per incrementare il movimento della produzione senza tener conto di una eventuale soggettivazione della domanda. E quello che mi ha insegnato una paziente che si recava al supermercato non per cercare ciò che mancava nelle sue dispense, ma per farsi indicare dall'offerta del supermercato come agenzia commerciale della domanda convulsa ciò che le mancava. "Vado al supermercato", diceva, "per vedere ciò che mi manca". 9. Su questa incidenza della "marca" nella costituzione dell'oggetto di consumo vedi L. Minestroni, L'alchimia della marca. Fenomenologia di un moltiplicatore di valore, Franco Angeli, Milano 2002. 10. Non è d u n q u e solo un dato statistico quello che indica una diminuzione delle anoressie cosiddette restrittive di fronte al dilagare epidemico del rovesciamento bulimico dell'anoressia. LA DOMANDA MELANCONICA La domanda convulsa non è l'unica declinazione della domanda contemporanea. Possiamo isolarne anche un'altra configurazione fondamentale, quella della domanda melanconica, o, se si preferisce, del carattere melanconico della domanda ipermoderna. Che cosa indica infatti clinicamente l'affetto melanconico? Segnala innanzitutto un cortocircuito della assenza dell'oggetto con la sua presenza assillante. Come abbiamo visto, il soggetto melanconico patisce l'impossibilità di separarsi dall'oggetto perduto, l'impossibilità di dimenticare l'oggetto che non c'è più. L'elemento dominante del quadro melanconico più che l'assenza e la perdita dell'oggetto è una sua presenza eccessiva, incalzante, una presenza che non arretra, che non si lascia dimenticare. Nell'affetto melanconico, come afferma la celebre tesi freudiana, "l'ombra dell'oggetto cade sull'Io". Questo significa che il soggetto melanconico è invaso dall'oggetto perduto, dall'oggetto assente o, se si preferisce, significa che l'oggetto perduto, e assente è assolutamente presente nella forma dell'impossibilità del soggetto di separarsi da lui, di dimenticarlo, di staccarlo da se stesso. Per questa impasse della separazione Freud poneva la melanconia come il rovescio del lutto; l'oggetto è troppo presente e impedisce al soggetto di procedere verso la simbolizzazione della sua perdita avvinghiandolo pervicacemente a se stesso. Questa presenza incombente dell'oggetto perduto, che cronicizza il lutto rendendo impossibile il suo compimento simbolico, si accompagna a una sorta di ritiro del soggetto dal mondo. Il ritiro libidico provocato dalla fissazione all'oggetto perduto sembra azzerare la domanda in un apparente contrasto con la sua convulsione provocata dal discorso del capitalista. In realtà la domanda melanconica è domanda insistente dell'oggetto impossibile, dell'oggetto assente. E domanda ostinata dell'oggetto che non c'è, dell'oggetto perduto, dell'oggetto svanito. Questa sua insistenza ostinata finisce però per dissolvere il mondo degli oggetti mostrando il suo volto spettralmente effimero. Si tratta di una dissolvenza che trascina con sé anche il soggetto. Mentre nella domanda convulsa impazza il potere dell'oggetto di consumo, la sagoma dell'oggetto-gadget, la moltiplicazione artificiosa dell'offerta, nella domanda melanconica il soggetto si eclissa e il tutto si svela come niente.11 In questo senso è la domanda melanconica a rivelare la ve11. Nel Seminario XVII Lacan fa notare come "niente è tutto" sia la formula adeguata a mostrare l'inconsistenza strutturale dell'Altro. Possiamo pensare che nella domanda melanconica questa for- rità ultima della domanda convulsa. La dimensione melanconica della domanda contemporanea mostra bene le conseguenze dello scacco della simbolizzazione dell'oggetto perduto. Essa finisce per promuovere una specie di separazione del soggetto dalla domanda, una rottura del legame, una chiusura autistica del soggetto, un rifiuto dell'Altro. In fondo non c'è differenza tra vivere per consumare tutto verificando che niente nell'attività convulsa del consumo può davvero soddisfare e isolarsi, separarsi dall'Altro, rifiutare tutto perché tutto è niente. UN NUOVO TRANSFERT Nella nuova clinica e nelle nuove configurazioni della domanda nel campo sociale, la triade classica sintomo-domanda-transfert che caratterizzava il tempo del preliminare nella conduzione della cura delle nevrosi, si complessifica sino a disarticolarsi. Questa disarticolazione è generata dal fatto che i nuovi sintomi non manifestano tanto il soggetto diviso, ma si configurano, come abbiamo ampiamente visto, come un trattamento della divisione soggettiva. Questo trattamento assume toni perversi in quanto avviene attraverso l'oggetto inanimato, ovvero attraverso un uso perverso-feticistico dell'oggetto che intende ricoprire il buco della castrazione. Più specificatamente, nella nuova clinica, il sintomo non è più sul lato della divisione del soggetto, ma sembra collocarsi su quello dell'insegna identificatoria, dunque sul piano di un'identificazione non isterica, non legata alla dialettica del desiderio. Questa identificazione è piuttosto un'identificazione che solidifica il soggetto che diventa il suo sintomo. Ebbene proprio questo genere di identificazione rende difficilmente praticabile sia l'operazione della rettifica soggettiva, sia l'isterizzazione del discorso analizzante come manovre preliminari dell'entrata nella cura. Se, infatti, il sintomo appare sul lato dell'insegna identificatoria, se esso si configura come una fissazione al tratto identificatorio o all'oggetto di godimento, esso non potrà articolarsi facilmente alla domanda, poiché la domanda implica al suo centro la mancanza a essere del soggetto, dunque la sua divisione e non la sua solidificazione irrigidita. Questa nuova caratterizzazione del sintomo ha come effetto maggiore quello di impedire lo sviluppo del transfert. Se il sintomo non è mula si ribalti invece nel "tutto è niente" che mostra l'azione distrutti ice della |>UIM»III- .li stato puro, ma anche l'inganno fondamentale sul quale si regge il discorso del c.ipiialiM.i M I M E .ilio ciò che destabilizza l'omeostasi del soggetto ma ciò che la assicura è difficile che dal sintomo si animi il movimento del transfert come appello a un soggetto supposto sapere decifrare il significato enigmatico della sofferenza sintomatica. Gli effetti più evidenti di questa paralisi del transfert simbolico investono lo statuto della parola che, anziché collocarsi al centro della dialettica del desiderio, appare come svuotata di senso, superflua, impotente. Infatti, fintanto che il transfert risulta impedito dalla presenza inerte dell'oggetto del godimento o fissato all'identificazione all'insegna sintomatica, non c'è spazio né per la parola, né per il suo ascolto. Piuttosto la dialettica della parola, come quella del desiderio, appare cancellata dalla potenza di questo transfert orientato non sul sapere ma fissato aii'insegna-oggetto. Il solo transfert che conta è quello sul valore ideale dell'identificazione sintomatica o sull'oggetto di godimento, come mostra, a titolo esemplificativo, la clinica dell'anoressia-bulimia. Non c'è transfert sul soggetto supposto sapere perché il transfert è calamitato dall'ideale del corpo magro o dalla potenza dell'oggetto-cibo. Questo transfert selvaggio ostruisce la possibilità di un transfert simbolico e impone una nuova strategia del trattamento preliminare. RETTIFICARE L'ALTRO Come operare in questo nuovo contesto dominato dal transfert selvaggio sull'oggetto di godimento e sul valore idealizzante dell'insegna sintomatica? Come rendere possibile un'applicazione efficace della psicoanalisi alla terapeutica dei nuovi sintomi? La nuova clinica rimarca in modo spietato i limiti dell'interpretazione semantica nel processo della cura. La pratica bulimica o quella tossicomanica, la chiusura depressiva o la pietrificazione anoressica non sono infatti formazioni dell'inconscio nel senso classico del termine, non si organizzano come una cifratura significante, non sono metafore del soggetto, ma si presentano come pratiche pulsionali, come pure tecniche di godimento, come identificazioni solide che contrastano il soggetto dell'inconscio. Di fronte a tali pratiche e a tali tecniche di godimento, di fronte a tali identificazioni monolitiche, l'esercizio dell'interpretazione analitica deve constatare inevitabilmente la sua impotenza, ovvero l'esistenza di una disomogeneità fondamentale tra l'organizzazione non linguistica del sintomo e l'azione linguistico-simbolica dell'interpretazione. Anche laddove il soggetto sembra riuscire a simboliz- zare efficacemente la propria storia si nota che questa simbolizzazione non interferisce efficacemente con la dimensione sintomatica, la quale sembra persistere come assolutamente inscalfibile. Parola e godimento, detto in altri termini, viaggiano per linee parallele venendo a mancare il punto di verticalizzazione della parola sul godimento e, di conseguenza, l'efficacia stessa della sua azione terapeutica. Quello che in fondo è un elemento di struttura - ossia la differenziazione tra il piano simbolico del significante e quello reale del godimento - nella nuova clinica si trova radicalmente amplificato imponendo alla applicazione terapeutica della psicoanalisi una inevitabile riarticolazione. Questa riarticolazione deve comportare innanzitutto una valorizzazione particolare della cosiddetta relazione terapeutica rispetto all'azione semantica dell'interpretazione. Si tratta di preparare le condizioni che possono rendere efficace un'interpretazione: occorre operare preliminarmente una rettificazione dell'Altro anziché del soggetto. Come abbiamo visto in precedenza Lacan ha insistito nel porre nella rettificazione del soggetto la condizione basica per l'inizio di una cura analitica. Cosa significa allora rettificare l'Altro? Non si tratta di un capovolgimento della teoria lacaniana dell'entrata nella cura? Non siamo di fronte a un altro modo di intendere la cosiddetta questione preliminare? Con l'espressione "rettificare l'Altro" propongo di definire il compito preliminare dell'analista nei termini di una incarnazione di un Altro diverso da quello reale che il soggetto ha incontrato nella sua storia e che si presenta come un Altro incapace di operare con la propria mancanza. Con questa nuova incarnazione si tratta innanzitutto di dire "sì! " al soggetto, dunque di incarnare un Altro che sappia non escludere, non cancellare, non rifiutare, non azzittire, non riempire, non soffocare, non incalzare, non tormentare il soggetto. Questa nuova configurazione dell'Altro consente una implicazione del soggetto in un nuovo legame possibile con l'Altro. In questo senso si può affermare che la rettificazione dell'Altro è finalizzata a implicare il soggetto in un legame, ovvero in una relazione di transfert con l'Altro. Se la pratica dei colloqui preliminari nella clinica classica della nevrosi insisteva nel mettere in rilievo la rettificazione della posizione del soggetto, dunque un mutamento radicale della domanda come effetto di un'assunzione della responsabilità soggettiva, la nuova clinica ci impone un mutamento radicale dell'offerta: quale Altro siamo in grado di offrire al soggetto? Quale Altro-partner siamo in grado di essere per un soggetto alle prese con un troppo di godimento che sembra spegnere il potere della parola e annullare l'esistenza stessa dell'inconscio? Nell'epoca ipermoderna dove non esiste un Altro in grado di sostenere simbolicamente il peso dell'esistenza, dobbiamo provare a reintrodurre il soggetto in una dialettica vivibile con l'Altro. La rettificazione dell'Altro è una manovra essenziale del preliminare che si orienta in questa direzione. Non è un caso che la teoria winnicottiana dell'holding - che indica una operazione analitica irriducibile a quella dell'interpretazione semantica - si sviluppi proprio nel contesto del lavoro clinico con pazienti gravi, schizoidi o cosiddetti borderline, comunque eccentrici alla clinica classica della nevrosi. Neil 'holding, che nessuno standard è in grado di determinare riduttivamente in una tecnica prefissata, l'analista è chiamato ad agire col proprio essere. Si tratta di un movimento che anticipa e può rendere possibile lo sviluppo del transfert sull'asse simbolico. Questo sviluppo esige nella nuova clinica un "sì!" preliminare al soggetto che possa introdurre un Altro diverso dall'Altro (traumatico per eccessiva presenza o per eccessiva assenza) che il soggetto ha incontrato nella propria storia. APPENDICI M E D I T A Z I O N I SULLA P U L S I O N E DI M O R T E - COSA SCANDALIZZA ANCORA DI FREUD? L'epoca contemporanea non è l'epoca di Antigone, ma l'epoca del libertino; non è l'epoca del tragico, ma quella dell'iperedonismo. Mi chiedo: nell'epoca della disinibizione generalizzata, del godimento come nuovo imperativo sociale, nell'epoca della gadgettizzazione della vita, cosa di Freud resta ancora davvero tanto scabroso? Nessuno scandalo quando si parla di sessualità infantile, del senso simbolico dei sogni, di complesso edipico, di desiderio inconscio, di lapsus. .. La nostra epoca è in fondo l'epoca della psicoanalisi. Nessuno scandalo. Questi contributi di Freud sono stati ampiamente metabolizzati dalla cultura contemporanea. Eppure resta qualcosa di Freud che continua a mostrarsi irriducibile, indigesto, non assimilabile. Irriducibilità spigolosa che si accentua se si considera come un altro tratto della Civiltà ipermoderna - intrecciato paradossalmente a quello del godimento come nuovo imperativo - sia quello del culto positivo della salute, dell'ideologia igienista del benessere, dell'elogio della cura di sé. Perché per Freud non è il Bene (essere) la meta della vita, ma la morte. Lo afferma esplicitamente in Al di là del principio di piacere. E la sua ultima parola, è la sua parola più scandalosa. Questa parola è qualcosa di Freud che continua a incarnare, anche per la stessa comunità degli analisti che si riconoscono come freudiani, la "pietra dello scandalo" della sua dottrina. Non è il Freud teorico della sessualità, non quello dell'Edipo o dell'interpretazione dei sogni, ma il Freud teorico della morte co* Testo di una conferenza tenuta a Madrid il 6 maggio 2006 in occasione del centenario della nascita di Freud presso il Círculos de Bellas Artes all'interno di un ciclo seminariale, curato da Jorge Alemán, dal titolo Freudarquéologo. 291 me meta della vita. È il Freud che contesta il benessere come scopo della pulsione, è il Freud teorico del Todestrieb. Conosciamo l'ostilità che questo concetto ha suscitato già dal suo apparire e che continua a suscitare nel postfreudismo, considerato per lo più come una mera speculazione filosofica o come una proiezione del fantasma personale di Freud. Solo Melanie Klein e Jacques Lacan non hanno rinunciato a seguire Freud lungo questa via tortuosa. La pulsione di morte non è forse il vero archè di Freud? Non è proprio attraverso questa nozione che prende forma l'archeologia freudiana del soggetto? Non dobbiamo vedere all'opera proprio in questo concetto, nel concetto di pulsione di morte, il Freud archeologo più radicale? In questo breve intervento vi proporrò cinque meditazioni sulla pulsione di morte; cinque meditazioni sulla pietra dello scandalo destinata per Freud stesso a divenire la pietra angolare della dottrina psicoanalitica; cinque meditazioni sul concetto più indigesto e meno assimilabile di Freud che sono, al tempo stesso, cinque meditazioni sul concetto freudiano di archeologia. PRIMA MEDITAZIONE: L'INCONSCIO COME SOVVERSIONE E L'INCONSCIO COME DISSIPAZIONE La nozione di archeologia convoca immediatamente in Freud la nozione di inconscio. Ma quale inconscio? Permettetemi di andare al cuore della questione il più semplicemente possibile. E il mio stile. C'è un solo inconscio freudiano o non dovremo piuttosto parlare, quantomeno, di due inconscifreudiani? E il tema della mia prima meditazione: il concetto di pulsione di morte ci obbliga a uno sdoppiamento dell'inconscio. Si può notare come già lo sdoppiamento metapsicologico delle topiche che Freud ha avvertito come necessario indichi, tra le altre, una sua evidente difficoltà a definire l'inconscio: l'inconscio non si può ridurre alla provincia del desiderio, alla coincidenza col rimosso. Freud procede verso la seconda topica - Io, Es, Super-io - perché l'esperienza clinica lo ha confrontato con un altro volto dell'inconscio, irriducibile a quello di una provincia psichica separata e autonoma da quella della coscienza. Si tratta di un volto irriducibile a quello dell'inconscio come luogo di iscrizione del desiderio rimosso. Questo altro inconscio è associato alla figura dell'Es; è l'inconscio come spinta pulsionale pura, è l'inconscio come pulsione di morte. Restiamo su questo sdoppiamento dell'inconscio freudiano. Il so- gno era stato per Freud la via regia per incontrare l'inconscio come luogo del desiderio rimosso. Il trauma e la tendenza alla ripetizione che esso provoca diventano invece la via regia per incontrare l'Es come luogo della pulsione di morte. Il tempo del trauma non è affatto il tempo evanescente del sogno; il tempo del trauma non è il tempo che dura una sola notte, ma è il tempo che si ripete uguale a se stesso. È un tempo senza possibilità di oblìo e senza possibilità di lutto. Nella ripetizione ritorna un frammento di reale, qualcosa che non è stato simbolicamente elaborato, una traccia impossibile da cancellare. I soldati traumatizzati, diversamente dalle isteriche, non soffrono a causa della rimozione ma a causa di una fissazione psichica inconscia al male del trauma. Il loro problema non è la dimenticanza ma l'impossibilità di dimenticare. Dobbiamo constatare che esiste una eterogeneità tra questi due inconsci. Tra l'inconscio come luogo del desiderio rimosso e l'inconscio come luogo della pulsione di morte, tra l'inconscio come Wunsch e l'inconscio come Es. Cosa indica questa eterogeneità? Siamo di fronte a un punto vertiginoso del pensiero di Freud. Esso non annulla l'inconscio come luogo del desiderio rimosso nell'inconscio come pulsione di morte, ma vuole provare a tenerli insieme, pur nella loro inassimilabilità. Da una parte abbiamo l'esperienza, per usare un termine che sarà impiegato da Lacan, di una sovversione del soggetto. L'idea dell'inconscio come desiderio rimosso riduce drasticamente il potere deliberativo della coscienza. L'Io non è più padrone in casa propria. Si tratta di un effetto di decentramento, di scissione orizzontale, di divisione del soggetto. Coscienza e psichico, afferma Freud, non si sovrappongono mai completamente; c'è dello psichico irriducibile alla coscienza e ai suoi attributi. Paul Ricoeur ha descritto efficacemente questo movimento come un rovesciamento dell'epochè fenomenologica: con Freud il problema non è più quello - com'era per Husserl - di una riduzione dell'essere alla coscienza, ma di una riduzione dell'essere della coscienza. L'effetto di decentramento del soggetto evidenzia una scissione che non si può curare; la scissione strutturale, topica, tra la coscienza e l'inconscio. Questa scissione non autorizza però nessun irrazionalismo. L'inconscio non ha rapporti con l'irrazionale, essendo il luogo di una ragione che si svela innanzitutto come facoltà di significazione. E questa la natura ermeneutico-semiotica dell'inconscio freudiano. L'inconscio non è lo schizofrenico, l'insensato, il sotterraneo delle passioni, il primitivo, ma il luogo dove dimora il desiderio più proprio del soggetto. La sua struttura, dirà in seguito Lacan, è quella di un linguaggio. Resta però da interrogare quello che lo stesso Lacan, nel Seminario Appendici definisce come il "secondo passo di Freud". Si tratta del passo che lo conduce dal desiderio inconscio in quanto rimosso verso la potenza oscura della ripetizione, verso l'abisso del Todestrieb. E, dicevamo, l'esperienza clinica che lo obbliga a questa seconda versione dell'inconscio: i pazienti, constata Freud, "non vogliono guarire! ". La scissione in gioco non è più qui quella relativa al decentramento del soggetto. Siamo obbligati a integrare Veffetto sovversione con un effetto di dissipazione. La nozione di pulsione di morte solleva infatti lo scandalo della tendenza degli esseri umani a perseguire il proprio Male, a rifiutare ogni etica edonistica che aristotelicamente si vorrebbe fondare sul primato razionale del principio del piacere. E quello che scopre Freud in questa sua seconda navigazione del continente inconscio: il principio di piacere non è in grado di definire il telos pulsionale dell'uomo. La dimensione semiotico-ermeneutica dell'inconscio come volontà di significazione deve lasciare il posto alla dimensione etica dell'inconscio come irriducibile a ogni edonismo naturalistico. Il suo registro non è più quello semioticoermeneutico del senso ma quello pulsionale del godimento. Se l'effetto di sovversione è un effetto di decentramento che scardina la coscienza come centro psicologico e ontologico del soggetto, l'effetto di dissipazione mostra che il soggetto non solo è diviso, ma è strutturalmente contro se stesso. In altri termini, i due inconsci di Freud ci obbligano a pensare in modo diverso la Spaltung soggettiva. La Spaltung come non-identità, differenziazione topica, discriminazione di istanze, di province, come disidentità fondamentale del soggetto e la Spaltung come dimensione di autoaggressione, tendenza verso la morte, dissipativa, ripetizione rovinosa, scandalo della vita che è contro se stessa. In questo caso il problema dell'identità è sopraffatto dal problema della vita e della morte, o meglio, dal problema della vita come corsa cieca verso la morte. XVII, SECONDA MEDITAZIONE: DUE ARCHEOLOGIE Se abbiamo rintracciato due tesi di Freud sull'inconscio - l'inconscio come luogo del desiderio rimosso e l'inconscio come luogo della pulsione di morte - e i suoi due effetti maggiori - l'effetto di sovversione e l'effetto di dissipazione - vi propongo ora di verificare l'esistenza di due archeologie freudiane. Una prima archeologia la possiamo ricavare dall'idea della psicoanalisi come scienza delle tracce, come Spiirenwiessenschaft, per usare un'espressione felice di Freud. La traccia vale qui come sintomo, nel senso in cui Lacan lo definisce: "significante di un significato rimosso". La traccia freudiana è sempre una traccia significante. Essa implica sullo sfondo l'idea dell'inconscio come "città sepolta". La traccia non è solo significante ma è anche il frammento di una totalità che l'analisi deve poter ricostruire. In questo senso l'archeologia freudiana scivola verso l'archivio, ovvero verso l'idea che - come afferma letteralmente Freud - "nello psichico tutto si conserva". L'archeologia freudiana è un'archeologia antiquaria, direbbe Nietzsche. Tutto è già scritto; l'avvenire è alle spalle, rinchiuso nell'archivio. E l'idea freudiana che l'azione del passato sia simile a quella di un motore immobile. L'archeologia freudiana si configura così come un archeologia-archivio. Questa archeologia-archivio rivela tutta la centralità della dimensione della memoria. E il lato platonico-idealistico di Freud: la memoria è la sola cura. Non a caso l'opposizione di memoria e ripetizione è centrale nell'esperienza freudiana della psicoanalisi: ciò che non si ricorda e non si elabora tende fatalmente a ripetersi. E questo il vero Karma freudiano. Tuttavia, bisogna rilevare che l'archeologia-archivio di Freud non è ingenua come può sembrare. Basti pensare a una nozione come quella di "ricordo di copertura" per indicare come la memoria stessa sia già un'interpretazione del passato più che una sua semplice conservazione archivistica. Freud stesso insisterà sempre di più nel separare la verità dei fatti dalla verità storica, nel distinguere la dimensione del fattuale da quella storica. In lui è già chiara la consapevolezza che il problema di una analisi non è mai accedere all'esattezza del ricordo, ma produrre la verità storica di un soggetto, ovvero una costruzione retroattiva della memoria. Per questo l'ultimo Freud sospinge con decisione la rimemorazione verso la costruzione, giungendo in fondo a pensare alla memoria non più come un baule dal quale si possono attingere i ricordi, ma come qualcosa che è compito dell'analisi riuscire a produrre. In questo senso già in Freud, almeno per un verso, la memoria d'archivio lascia il posto alla soggettivazione retroattiva del passato. La teoria freudiana della costruzione problematizza ogni archeologia dell'origine. I frammenti del passato del soggetto trovano un loro ordine nella costruzione dell'analista. La costruzione come attività dell'analista offre una possibile ritotalizzazione della storia del soggetto non tanto a partire dai suoi ricordi, ma dalle lacune dei suoi ricordi connettendo tra loro i frammenti sparsi del passato. Questa attività di connessione ristruttura retroattivamente la storia del soggetto conferendole un senso inedito. Ma sarà Lacan a forzare veramente l'archeologia-archivio in una archeologia critica. Non si guarisce perché si ricorda, ma si ricorda perché si guarisce, affermerà in La direzione della cura. Questo significa che l'archeologia non deve dare luogo a una versione ontologica dell'inconscio, ma preservare l'inconscio come una nuova possibile scrittura, come non-ancora-realizzato come dirà precisamente Lacan nel Seminario XI. Il rischio di cadere in una concezione ontologica dell'inconscio è lo scivolamento fatale del Freud archeologo. Non è però un caso che già in Freud l'immagine dell'analista-archeologo debba essere messa in tensione, con l'immagine dell'analista-chimico. Se l'archeologia concerne l'archivio - la conservazione del passato - la chimica - come scienza dei legami - concerne il transfert. La chimica è evocata da Freud - e non l'archeologia - quando c'è in gioco il movimento scabroso del transfert. Il transfert non è quindi solo ripetizione di ciò che è stato, ma è innanzitutto un legame inedito. Esso non implica solo scavo archeologico ma manipolazione di sostanze pericolose, rischio di combinazioni inedite, di esplosioni attuali, di incandescenze. Per questa ragione l'insegnamento di Lacan ha insistito così tanto sulla necessità di non confondere transfert e ripetizione, ovvero di non fare del transfert la semplice ripetizione dell'archivio, la messa in atto del passato, la riedizione di ciò che è già stato, ma considerarlo come una possibilità inedita per il soggetto. Il punto però è che la nozione dell'archeologia-archivio non esaurisce l'archeologia freudiana. C'è anche una seconda nozione di archeologia a cui bisogna prestare attenzione. C'è in Freud, a partire da Al di là del principio di piacere, l'idea di un'archeologia immanente alla vita, di una tendenza al ritorno, all'archè, che assume talvolta anche accenti cosmologici e biologici misteriosi. Si tratta per Freud dell'esistenza di una tendenza regressiva che accomuna non solo gli esseri umani ma tutti gli esseri viventi. Si tratta di un oltrepassamento dell'archivio come luogo di conservazione verso l'idea della conservazione come meta pulsionale. In questo modo Freud sposta la dimensione della memoria verso il suo limite estremo, ovvero verso la ripetizione. Cosa vuole dire, infatti, fare della conservazione una meta della pulsione? Significa pensare che la pulsione trascini la vita verso la sua origine impossibile, verso la sua dimensione inerte, verso la morte. Significa affermare che "la meta di tutto ciò che è vivo è la morte". Siamo, se si vuole, al cuore del pessimismo freudiano: la pulsione non è aspirazione al perfezionamento - precisa Freud - , ma una spinta alla distruzione, alla dissipazione della vita. La natura della pulsione non è progressiva ma conservativa; l'archeologia non è solo archeologia-archivio ma archeologia pulsionale. Quali implicazioni etiche possiamo allora trarre da questa seconda archeologia? Innanzitutto che gli esseri viventi non sono per il nuovo. Freud mette in luce la tendenza fondamentalmente omeostatica dell'apparato psichico. La pulsione di morte è "più pulsionale" (triebhafter) perché incarna questa spinta verso l'archè nel modo più radicale possibile. Essa sospinge la vita verso la morte, riconduce l'inquietudine della vita all'inerzia del non vivente. L'inconscio come dissipazione, come ripetizione di un godimento traumatico, è in questo senso al di là del principio di piacere. Il soggetto non è un seme che si sviluppa secondo una teleologia positiva; non è l'attualizzazione aristotelica di una potenzialità. Piuttosto, la vita del soggetto risponde a una temporalità strutturalmente divaricata. Per un verso Freud riconosce, infatti, un andamento progressivo della pulsione - la pulsione è un "fattore che spinge al cambiamento e allo sviluppo" - , ma per l'altro verso la pulsione si mostra come risucchiata all'indietro, attratta verso una meta inconciliabile con la vita, "espressione della natura conservatrice degli esseri viventi". Ritroviamo questa immagine della temporalità divaricata al cuore della teoria freudiana della libido: l'evoluzione stadiale è costantemente contraddetta dalle fissazioni libidiche che ritardano, ostacolano, interferiscono, perturbano ogni idea lineare, progressiva, del suo sviluppo. L'implicazione etica maggiore di questa nuova versione della temporalità consiste nell'implicare la spinta alla morte nella vita. Nel non disgiungere la vita dalla morte; nel pensare il soggetto come un essere per la morte. Nel pensare che l'orizzonte dell'essere parlante è quello dell'ai di là del principio di piacere. Per questa ragione la vita non è il luogo di una teleologia progressiva. L'archeologia pulsionale è piuttosto priva di telos. Essa non va però confusa con un arcaismo, con un naturalismo biologico dell'istinto. La guerra è per Freud il fenomeno più drammatico e più eloquente che manifesta la tendenza distruttiva della pulsione di morte come essenzialmente umana. Solo gli esseri umani provocano la guerra come puro fenomeno di distruzione, come dispendio inutile, sganciato totalmente dall'esigenza naturale della sopravvivenza. Più precisamente l'archeologia pulsionale di Freud mostra che la spinta conservativa della pulsione contrasta con ogni programma di incivilimento dell'essere umano. Mostra che un resto pulsionale, un più pulsionale, un triebhafter direbbe Freud, non si lascia governare dal programma della Civiltà. Si tratta di un resto che contrasta con ogni ideologia del progresso e della liberazione. La forza critica di Freud consiste nel porre l'illuminismo occidentale di fronte a questo resto. E per Freud non c'è possibilità di comunità umana se non includendo questo impossibile da governare; se non assumendo l'ambivalenza fondamentale che mantiene la vita legata alla morte. TERZA MEDITAZIONE: CONSERVAZIONE E DISTRUZIONE L'essere umano non vuole il proprio Bene, o, come si direbbe oggi, non vuole il proprio benessere. E la tesi etica maggiore che possiamo ricavare dalla pulsione di morte di Freud. È una tesi che, come abbiamo già visto, gli viene imposta innanzitutto dall'esperienza clinica: gli uomini non vogliono guarire, non rinunciano facilmente al loro attaccamento al sintomo, al godimento del sintomo. Si tratta di una tesi che avvicina fortemente Freud a Schopenhauer, il quale introduce con forza nella sua filosofia questa separazione primaria tra l'Essere e il Bene. L'Essere non si manifesta come governato dal Bene. E il motivo centrale della metafisica del godimento di Schopenhauer: l'essere è ripetizione, ripetizione priva di senso, ripetizione senza senso di godimento. Freud precisa: ripetizione senza senso di godimento al di là del principio di piacere. La nozione di pulsione di morte - Todestrieb - non può essere tradotta semplicemente con Thanatos. Thanatos significa morte. Todestrieb indica invece letteralmente "pulsione di morte". Questo significa che ciò che interessa maggiormente Freud non è il mistero della morte come mistero metafisico, ma la spinta pulsionale degli uomini alla dissipazione al di là delle barriere protettive del principio di piacere, alla distruzione di sé e di ogni legame con l'Altro. A Freud interessa la morte come pulsione di perdita della vita. Questa è, a mio giudizio, la radice profondamente schopenhaueriana di Freud. E in Schopenhauer che il principio originario che muove gli esseri umani non ha un fine ultimo, è senza telos, è irriducibile a qualunque etica valoriale. L'archè di Schopenhauer è senza telos, il suo universo è un universo disabitato da Dio. È l'universo della volontà di vita che vuole se stessa, che vuole se stessa sino alla sua distruzione. Non è allora un caso che nella parte finale di Al di là del principio di piacere Freud dichiari di essere approdato nel porto della filosofia di Schopenhauer. Freud non giunge alla pulsione di morte solo per la via della ripetizione e della coazione a ripetere. Ciò che è ancora più misterioso è come Freud estragga la pulsione di morte dalla sua riflessione sull'Io. Il Todestrieb scaturisce infatti dalla radicalizzazione della pulsione di autoconservazione, delle pulsioni cosiddette dell'Io. La pulsione di morte pone il problema di cosa unisce conservazione e distruzione, o, se preferite, autoconservazione e autodistruzione. Freud, infatti, giunge alla pulsione di morte anche attraverso la radicalizzazione della sua riflessione sul narcisismo. La difesa estrema della propria identità, il rafforzamento dell'identità narcisistica, conduce alla distruzione della vita. Al contrario, se la vita cede alla propria protezione, se esce da se stessa, se non difende narcisisticamente il compattamento della propria identità, allora c'è possibilità di un legame vitale con l'Altro. In questa prospettiva le cellule tumorali vengono evocate da Freud come profondamente narcisistiche. Lo sviluppo ipertrofico dell'identico si rovescia contro se stesso. Possiamo trovare qui un'idea fondamentale della psicoanalisi: c'è malattia non quando c'è indebolimento dell'identità, ma quando si produce un suo rafforzamento estremo. E questo un tema molto diffuso nell'attualità: come qualcosa di vitale per l'organismo può trasformarsi nel suo contrario? Per Freud, in effetti, il luogo dell'identità è un luogo strutturalmente suicidano come mostra il gesto di Narciso. Le riflessioni contemporanee sul paradigma immunologico - da Jean-Luc Nancy sino a Roberto Esposito - mostrano precisamente come l'immunizzazione possa rovesciarsi in una aggressione interna, in una distruzione di sé anziché in un sistema di protezione della vita. Freud nella nozione di pulsione di morte pone già questo problema: la malattia sorge per irrigidimento dell'identità, per rifiuto della contaminazione; l'esigenza narcisistica di rafforzare la protezione della vita sconfina nella pulsione di morte. QUARTA MEDITAZIONE: IL SOGGETTO IN ECLISSI Conosciamo il gioco del fort-da che Freud commenta in Al di là del principio di piacere. Il piccolo Ernst, nipotino di Freud, quando viene lasciato solo da sua madre, mette in scena un gioco che consiste nell'allontanare da sé un rocchetto - accompagnando questo movimento con l'esclamazione fori, "via! " - per poi farlo riapparire in un secondo tempo - accompagnando questo movimento con l'esclamazione "da!", qui. Questo gioco è divenuto un topos della dottrina psicoanalitica, al centro di numerosi commenti. Per esempio, Lacan e Winnicott lo hanno letto e riletto, ma la mia impressione è che qualcosa di elementare e di fondamentale di quel gioco sia stato amputato. Ciò che viene amputato è proprio l'archeologia pulsionale che costituisce il fondamento del gioco. Lacan e Winnicott, seppur in modi diversi, ne hanno fatto il paradigma della funzione del simbolo che, nella sua oscillazione tra assenza e presenza, annienta la Cosa e consente al soggetto di rovesciare una situazione di passività - il bambino è abbandonato dalla madre - in una di attività - il bambino decide attraverso il gioco i tempi della separazione dalla madre. Quello che però in queste pur straordinarie letture viene meno è a mio giudizio il movimento spezzato del fort-da. Il gioco, osserva infatti Freud, è esibito dal piccolo Ernst come costituito da un tempo solo e raramente si realizza compiutamente nei suoi due movimenti, come fort-da. Inoltre, osserva sempre Freud, il tempo che si ripete non è quello della riapparizione, come sarebbe lecito attendersi seguendo la logica del principio di piacere. Il tempo che si ripete non è il tempo del ritrovamento, della padronanza, della ricomparsa dell'oggetto. Il tempo che si ripete a senso unico è invece il tempo della perdita, della separazione, della sparizione, dell'abbandono. Ciò che si ripete dunque non è il fort-da ma essenzialmente il Fort, cioè il tempo di separazione e di sparizione dell'oggetto, il tempo della dissipazione. Quello che davvero contrasta con il principio di piacere, dunque con la lettura del gioco come esercizio di padronanza del simbolo sull'oggetto naturale, del padroneggiamento attraverso una sublimazione simbolica di un'esperienza in sé spiacevole, è che del gioco nella sua doppia scansione è solo la prima a essere ripetuta insistentemente. Insomma il gioco consiste nell'atto della ripetizione del gettare come atto del gettarsi via. E a questo punto vertiginoso che Freud vuole condurci. Nel punto dove il gioco del piccolo Ernst s'incontra in modo inaudito col gesto estremo di Antigone. Freud ci conduce non tanto verso il funzionamento del simbolo, come credono Winnicott e il Lacan di Funzione e campo, ma al punto della sua rottura. Al piccolo Ernst non viene in mente di trascinare il rocchetto come se fosse una carrozza, nota sempre Freud. L'esperienza della separazione implica, infatti, un taglio, una perdita, una rottura del filo che lega il soggetto all'Altro. E necessario passare dal fort, dal gettare via. Il movimento della soggettivazione non si può disgiungere da quello della separazione. E in Antigone non troviamo forse l'accentuazione estrema di questo nesso di soggettivazione e separazione? Non troviamo forse un fort senza ritorno? Un gettare via? Un gettarsi via? "Ciò che", come afferma Lacan, "nella vita può preferire la morte?". Non è, in effetti, Antigone la figura che consente a Lacan di indicarci quel punto estremo dove l'assunzione del proprio desiderio può rovesciarsi nella sua dissipazione distruttiva più radicale? Il punto estremo dove il desiderio si rivela, nella sua purezza, come desiderio di morte? Non è questo il punto che Freud ci fa incontrare nel gioco del fort-da? La sua archeologia pulsionale non riporta forse il soggetto alla zona incandescente della Cosa? Non mostra la sua attrazione fatale verso la sua propria dissoluzione? Insomma, il fort - il tempo dell'allontanamento e della sparizione - appare in Freud più pulsionale del tempo della riapparizione e dell'avvicinamento. Questo significa che il tempo del desiderio umano come tale è sempre il tempo di una separazione, di una sparizione, di un allontanamento... Il tempo del desiderio è sempre un tempo in cui è implicato un gettarsi... Un gettarsi via, potremmo chiederci? E quale sarebbe allora il confine fragile che separa il gettarsi nel desiderio dal gettarsi via? Non è questo il confine tracciato nell'oscillazione del fortda? Non è il confine che attraversa Antigone? Il gioco appare spezzato, costituito da un tempo solo; il tempo del ritorno, della riappropriazione di sé, non è garantito dall'Altro, non accompagna necessariamente, come pensava invece Hegel, il tempo dell'allontanamento e della sparizione. Per questa ragione Freud ritrova la verità ultima del fort-da nell'osservare il piccolo Ernst farsi sparire davanti allo specchio. Il tempo della sparizione non è, infatti, solo quello della sparizione dell'oggetto, ma soprattutto il tempo della sparizione del soggetto. L'unità del simbolo si frattura irreversibilmente. L'archeologia del fort-da evidenzia il fort come traccia indelebile del soggetto. Il soggetto è strutturalmente preso in un movimento di eclissi; gettare via l'oggetto è gettarsi via con lui. Per Freud questa è l'essenza della pulsione di morte. Ma questo movimento senza ritorno del fort non è qualcosa che indica una tendenza di fondo della vita stessa alla sua propria rovina, al godimento senza argine? Non dobbiamo ritrovare qui il più pulsionale della pulsione di morte? Per questa ragione Freud la definisce effettivamente come una forza diabolica, demoniaca, eccedente ogni tenativo di governo razionale. Si tratta di una vera e propria archeologia pulsionale: questa coazione appare a Freud "più originaria", "più elementare", "più pulsionale" di quel "principio di piacere di cui non tiene in nessun conto". È sulla traccia di questo plus, di questo triehhafter che Lacan potrà formulare il suo oggetto "più di godere", come oggetto che non si lascia assorbire nel campo del senso. Ma è anche ciò che condurrà lo stesso Lacan ad affermare che ogni pulsione è, in quanto tale, affine alla zona della morte. QUINTA MEDITAZIONE: LA CLINICA CONTEMPORANEA COME CLINICA DELLA PULSIONE DI MORTE Se questo è vero - se la forza dell'archeologia di Freud consiste nel mostrarci non tanto il potere del simbolo ma la sua frattura interna, la sua impotenza a dominare la spinta della pulsione di morte - che cosa resta da fare? E su questo punto che le strade di Freud e di Schopenhauer si distanziano. Freud non abbandona il mondo, non abbandona la nozione etica di responsabilità, non sceglie la via dell'ascesi nichilistica. Piuttosto prova a ripensare l'etica proprio a partire dal Male della pulsione di morte. Possiamo sognare il Male, desiderarlo, tendere a raggiungere il cuore nero della Cosa al di là di ogni Legge? Cosa significa allora porsi il problema della responsabilità etica a partire, non tanto dalla volontà dell'Io, ma dalla forza acefala dell'Es? Siamo forse responsabili dei nostri sogni si chiedeva Freud? E cosa significherebbe assumerci la responsabilità di qualcosa che è senza misura e che ci trascende? Per Freud la pulsione di morte è un antilutto. La morte non viene assunta soggettivamente, ma agita. Vi sarebbe negli esseri umani la tendenza a godere senza limite, al di là del principio di piacere, al di là della barriera biologica della difesa della vita. Per questa ragione la clinica psicoanalitica non è solo una clinica del soggetto del desiderio, ma è anche e soprattutto una clinica della pulsione di morte. Essere responsabili dei propri sogni, come Freud sintetizza la posizione etica del soggetto, non implica la censura ma il sapere. Non la negazione ideale della pulsione di morte, ma il confronto con essa. E ciò che intende dire Lacan quando teorizza il principio dell'etica analitica come non indietreggiare rispetto al proprio desiderio. La straordinaria attualità clinica di Freud consiste nell'istituire una clinica dell'ai di là del principio di piacere. Qui possiamo misurare tutta la distanza che c'è tra Freud e i postfreudiani, anche quelli più illuminati a noi contemporanei. Mentre inizialmente il fronte era compatto nel ripudiare la nozione di pulsione di morte oggi vengono proposti alcuni tentativi per reincluderla nel corpo della dottrina psicoanalitica. Ma come? La pulsione di morte è fatta equivalere al "non ancora pensato", ovvero a ciò che costituisce il limite negativo della pensabilità, della rappresentazione simbolica. La tendenza è così quella di svuotarla, di smaterializzarla, di addomesticarla, riducendola appunto solo a un negativo del pensiero che attende il suo pensiero adeguato. Ci sarebbe pulsione di morte solo in negativo, quando appunto non c'è pensiero. Ciò che questa rivisitazione bioniana della pulsione di morte non considera è la sostanza di godimento che la pulsione di morte comporta, il suo carattere "più pulsionale". In questo senso la clinica freudiana è già una clinica del godimento. Essa ci indica come lo squilibrio che il godimento introduce strutturalmente nel principio di piacere possa manifestarsi secondo due vie distinte. Per la via traumatica dell'eccesso pulsionale che sfonda la cornice omogenea del principio di piacere. La clinica delle dipendenze si offre qui come paradigma. E una clinica dello strapotere dell'Es. Ma anche per una via sottrattiva, per la via del principio del Nirvana che tende invece a realizzare una narcotizzazione del principio di piacere. Addizione e sottrazione, eccesso e narcotizzazione, passaggio all'atto e ritiro libidico, scarica pulsionale e nirvanizzazione indicano i due poli di un'economia del godimento che definisce il soggetto ipermoderno e che già in Freud trova una sua prima teorizzazione. Il suo comune denominatore è il carattere erogeno del masochismo. E ciò che risulta semplicemente impensabile alle terapie cognitivo-comportamentiste. Come può la macchina-corpo sabotarsi? Votarsi alla sua dissipazione? Come si può voler godere del proprio Male? Come si può pensare il soggetto come tendenza alla dissipazione senza contraddire la sua immagine informatica di cui si nutre il cognitivismo contemporaneo? E nel non tacere questa tendenza, questa "fedeltà indesiderata" al proprio Male che Freud consegna alla psicoanalisi il compito di essere una sentinella del reale. Un'etica della psicoanalisi sarebbe un'etica in grado di sostituire a questa fedeltà indesiderata, la fedeltà soggettivata al proprio desiderio. L'ECLISSI D E L D E S I D E R I O E IL T O T A L I T A R I S M O POSTIDEOLOGICO LE IDEOLOGIE DEL BENESSERE E L'ANTIEDONISMO DEL DESIDERIO "Desiderio" è una delle parole chiave della psicoanalisi. La psicoanalisi è più di una terapeutica proprio perché evoca la dimensione etica del desiderio come dimensione eccedente a qualunque psicologia o sociologia dell'adattamento, dunque a qualunque pratica orientata a ripristinare il cosiddetto benessere del soggetto. Per questa ragione Lacan, in chiusura del suo Seminario dedicato all'Etica della psicoanalisi, insiste nel collocare il desiderio in una zona di incandescenza rispetto alla quale il Bene può operare solamente come una barriera protettiva. Bene e desiderio non sono, in effetti, termini omogenei. Innanzitutto nel senso più elementare per cui il fine del desiderio non può essere a priori identificato col Bene. Lo dimostra tragicamente la figura di Antigone, la quale, per rimanere fedele al proprio desiderio - dare sepoltura al fratello Polinice morto in battaglia - , si lascia murare viva, si separa dalla città dei vivi, dunque rinuncia a ogni Bene, a ogni benessere, scegliendo la propria morte. La passione del suo desiderio sconfina verso la distruzione di sé; ella è aspirata dalla morte, in un al di là inquietante; al di là di ogni principio di conservazione e di protezione della vita.1 Lo possono testimoniare altrettanto efficacemente i soggetti della nuova clinica che sembrano abbandonare le loro vite alla deriva, 1. Il commento lacaniano della figura di Antigone si trova in J. Lacan, Il Seminario. Libro VII, cit., pp. 309-361. Su questi temi relativi all'Antigone di Lacan, mi permetto di rinviare ai miei Sull'odio, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 3-32 e "Il parricidio lacaniano di Hegel: dal desiderio di desiderio al desiderio puro, dalla disalienazione all'alienazione significante", in F. Biagi Chai, M. Recalcati (a cura di), Lacan e il rovescio della filosofia. Franco Angeli, Milano 2007. 305 schiavi di un godimento che non lascia tregua e che appare manifestatamene contrario alla vita. Lacan può isolare, attraverso Antigone, un aspetto radicale del desiderio che pare scardinare ogni sua versione dialettica. L'inflessibilità ostinata di cui Antigone dà prova, sino al limite estremo della sua stessa morte, introduce a quel nocciolo puro del desiderio che Lacan imparenta con la pulsione di morte di Freud. L'ombra di Antigone cala così sull'immagine del desiderio come effervescenza vitale, ma anche, e soprattutto, sul desiderio come desiderio sociale di riconoscimento, come desiderio dell'Altro, secondo una formula divenuta ormai classica nell'insegnamento lacaniano. La forza terribile del desiderio di Antigone sembra, infatti, rompere radicalmente con l'Altro del riconoscimento; ella si situa volontariamente al di là dell'Altro, fuori dalla Comunità dei parlanti, in una zona "irrespirabile", pietrificata nella sua solitudine, segregata, murata viva. A Lacan non sfugge certo il carattere suicidano del rifiuto di Antigone. Da questo punto di vista non si deve commettere l'errore di identificare Antigone all'etica del desiderio sostenuta dalla psicoanalisi. Antigone ci segnala piuttosto la dimensione antiedonistica del desiderio, ovvero quel rischio di distruzione e di sconfinamento sempre imminente che ogni scelta per il proprio desiderio comporta. In altre parole, il fondamentalismo dell'Antigone di Lacan ci conduce di fronte al rapporto del desiderio con l'impossibilità: impossibilità di adattarsi al principio di realtà - il desiderio è per principio in contrasto con la realtà - , ma anche e soprattutto impossibilità di adattarsi al principio di piacere, se si intende aristotelicamente con questo termine un principio di armonia in grado di integrare il soggetto al suo ambiente senza lacerazioni. Ricorrendo alla figura tragica di Antigone e procedendo contro Aristotele, Lacan intende sottrarre il desiderio da ogni sua configurazione naturalistica, mostrando piuttosto l'eccedenza ingovernabile che lo caratterizza. Il principio del Bene funziona come una barriera protettiva, soprattutto rispetto a questa eccedenza. Esso prescrive l'adattamento all'esistente, riduce il Bene stesso a un servizio utilitaristico, al "servizio dei beni", come lo definisce Lacan, dunque a un principio edonistico finalizzato a garantire il funzionamento omeostatico, senza discontinuità, dell'apparato psichico. L'apologia ipermoderna del carattere utilitaristico del Bene - del Bene ridotto a benessere - dimentica la funzione essenzialmente protettiva che esso esercita nei confronti del desiderio. Il culto diffuso della salute e dei suoi diritti è un aspetto di questa dimenticanza. Esaltare il co- siddetto "benessere" significa cancellare il reale incandescente da cui il desiderio sorge e, di conseguenza, consegnare la sua eccentricità alla normatività universale della cosiddetta "salute". Proprio per questo l'ideale igienista della salute tende a occultare e a denegare l'irresistibile potere della spinta al godimento nocivo che contrassegna gli esseri umani in quanto tali e l'intemperanza (antiaristotelica) di fondo che contraddistingue il desiderio. 2 Tale ideale tende a escludere l'implicazione del desiderio col soggetto dell'inconscio e a enfatizzare un criterio falsamente naturale e armonico del benessere. Al contrario il carattere inconscio del desiderio sfida ogni prescrizione salutistica, manifestandosi come un punto di resistenza di fronte a ogni integrazione universale. Per questo il desiderio, oltre a non poter essere oggetto di misurazione, è anche refrattario a ogni principio di adattamento alla realtà. Non c'è possibilità alcuna di addomesticare il desiderio. Non a caso nel corso del suo insegnamento Lacan ha messo in guardia in modi diversi sul carattere totalitario che può assumere la nozione stessa di "realtà" allorché essa viene evocata come un principio a cui il soggetto cosiddetto morale è destinato a sottomettersi. L'ironia di Lacan nei confronti del principio di realtà non si limita solamente a problematizzare una riduzione impropria dell'etica della psicoanalisi a una psicologia dell'ammaestramento libidico dai fini moralizzatori, ma implica, più profondamente, la messa in evidenza della funzione di sembiante sociale (dunque di velo) che la nozione di "realtà" assolve nei confronti del reale. La categoria di "realtà" viene, in effetti, evocata strategicamente proprio per schermare il carattere osceno e senza senso del reale. Ed è per questa ragione che Lacan associa alla nozione di realtà quella di fantasma, nel senso che il fantasma è la condizione soggettiva che rende possibile un rapporto con la realtà capace di contenere e circoscrivere difensivamente il non senso del reale. Ne deriva che si rende possibile un'esperienza del reale, del reale come ciò che definisce l'esistenza del soggetto nella sua nuda vita, solamente al di là di ogni principio di realtà, ovvero solo se quella solidarietà tra realtà e fantasma che consente alla realtà stessa di essere inquadrata in una cornice sufficientemente stabile si scuce. 2. Spesso questa contraddizione caratterizza in modo esemplare i soggetti cosiddetti anoressico-bulimici, i quali da una parte s'impegnano a perseguire un ideale salutista radicale (digiuni, diete, culto dei cibi sani e dell'attività fisica ecc.) e dall'altra constatano l'impossibilità di raggiungere questo ideale di salute, contraddicendolo sistematicamente nelle abbuffate disastrose nelle quali si smarriscono. E superfluo aggiungere che più inflessibile è l'Ideale salutista-igienista (anoressico) che il soggetto persegue, più potente sarà l'attrazione fatale verso il godimento nocivo (bulimico). Su questi temi vedi la Parte II di questo libro. IL TOTALITARISMO COME "CATASTROFE INTERIORE"3 Lungi dal prospettare un'omologazione normalizzante all'autorità del principio di realtà - obbiettivo perseguito, come abbiamo visto, da quella robotizzazione del soggetto cui puntano oggi le terapeutiche cognitivo-comportamentali - , l'etica della psicoanalisi intende difendere il rapporto del desiderio con il reale come impossibile, senza però cedere a nessuna retorica della liberazione. Il desiderio in quanto freudianamente "indistruttibile" non è, infatti, ciò che va liberato ma, piuttosto, ciò che non può essere aggirato. In questo senso il desiderio è imparentato col reale. La dimensione spessa, densa, opaca del desiderio consiste, infatti, proprio nella sua inaggirabilità. Allontanarsi dal proprio desiderio insterilisce la vita schiacciandola sotto il peso del sacrificio e della rinuncia superegoica che, come ha dimostrato Lacan, seguendo Freud, anziché predisporre alla soddisfazione, alimenta circolarmente se stessa in modo esponenziale, ovvero nutrendo la rinuncia con la rinuncia, facendo della rinuncia stessa una sorta di inedita quanto paradossale meta pulsionale. Ebbene, questa dimensione imperativa della rinuncia superegoica - il cui retro è costruito dal comando, altrettanto imperativo, del godimento - 4 contrasta radicalmente con l'imperativo etico del desiderio, il quale non esige affatto la rinuncia, ma di essere assunto soggettivamente. La vera colpa, l'unica possibile nella prospettiva della psicoanalisi, come Lacan non si stanca di ripetere nel Seminario VII, scaturisce infatti dallo scansare l'incontro col proprio desiderio abdicando alla sua Legge. L'esperienza del desiderio non è dunque solo l'esperienza di un'eccentricità ingovernabile, ma è anche, per Lacan, l'esperienza di una particolarità irriducibile, "indistruttibile", inaggirabile. Questo significa innanzitutto che non esiste una misura universale per il desiderio. Essendo un "assoluto particolare", 5 il desiderio respinge l'omologazione, la comparazione, l'uniformazione; esso resta disomogeneo alla sua radice. Nell'epoca contemporanea dove la misura ha sostituito la questione della verità, dove, come ci ricorda Heidegger, il mondo è ridotto a mero calcolabile, a un'oggettività semplicemente presente sottoposta al 3. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro VII, cit., p. 401. 4. Occorre ricordare qui che per Lacan il Super-io si manifesta sia attraverso la forma kantiana del dovere per il dovere, sia in quella sadiana del dovere di godere. Vedi J. Lacan, Kant con Sade, in Scritti, cit., pp. 764-791. 5. L'espressione è di J-A. Miller, in Extimite ( 1985-19X6), Corso svolto presso il Dipartimento di psicoanalisi dell'Università di Parigi vili, lezione del 4/12/1985 (inedito). dominio tecnico-strumentale, dove, in altri termini, il discorso del padrone esige la riduzione dei soggetti alla dimensione uniforme della macchina, il desiderio diventa una sentinella dell'inconscio in quanto respinge con forza ogni tentativo di una sua misurazione quantitativa esercitando, rispetto alla ragione strumentale, una funzione critica proprio laddove si espone come un impossibile da misurare. Per questo Lacan ha potuto affermare che se anche esistesse una misura del desiderio essa non potrebbe che essere "infinita". Che cosa significa dunque porre il desiderio come impossibile da misurare? Che cosa significa porre la sua misura come "infinita"? Quali effetti ha questa tesi rispetto alle ideologie del benessere? Innanzitutto significa constatare che non è possibile adattare il desiderio a qualunque norma a esso esterna: se si procede secondo l'obbiettivo di un'omologazione del desiderio a un criterio standard di normalità o di salute si sopprime inevitabilmente il tratto singolare del desiderio in quanto inconscio. Piuttosto, la misura infinita del desiderio ci costringe a verificare la distanza che separa il desiderio del soggetto da ogni criterio di normalità naturale o psicologica: la misura infinita del desiderio respinge ogni ideale naturalistico di via mediana alla felicità, respinge le sirene dell'ideologia del benessere. Non c'è una giusta misura del desiderio, non c'è, afferma Lacan, la possibilità di misurare cosa sia il giusto rapporto col reale, che cosa sia universalmente "felicità", 6 perché la felicità non può mai assumere un valore prescrittivo-normativo, universalmente valido. Quando invece questo avviene - e avviene nella nostra Civiltà attraverso il tam-tam della medicalizzazione pubblicitaria della salute - siamo a un passo, afferma sempre Lacan, da quella "catastrofe interiore" che chiamiamo totalitarismo. Per Lacan la dimensione totalitaria del legame sociale si definisce precisamente come quella dimensione dove l'esigenza del Bene viene fatta valere come una misura universale. Egli apre in questo senso una prospettiva inedita che considera il principio generale del totalitarismo non tanto in relazione al Male, ma all'esigenza morale e sociale di dare una misura al desiderio, di definire cosa sia davvero "un giusto rapporto col reale". In altri termini, l'essenza del totalitarismo sembra emergere nelle pagine finali dell'Etica della psicoanalisi, come una volontà esigenziale dell'Altro di poter imporre una misura universale alla particolarità assoluta del desiderio. Questa prospettiva individua una sorta di filo rosso che attraversa il totalitarismo nella sua versione storica di re6. Vedi J. Lacan, Il Seminario. Libro VII, cit., p. 379. Appendici girne fondato sul terrore e il totalitarismo contemporaneo, postideologico, che non implica l'esistenza di un uso né terroristico, né disciplinare del potere, quanto piuttosto un governo orizzontale della vita attraverso il sapere iperspecialistico e le pratiche tecnico-scientifiche che ne derivano. Lacan si sforza di estrarre la nozione di totalitarismo non da una riflessione sul carattere maligno del potere totalitario, ma sul principio del Bene come barriera nei confronti del reale e sulla esigenza morale della misura universale della felicità. La morale totalitaria, la "morale del potere", come la chiama Lacan, è, nella sua essenza, una morale del "servizio dei Beni". Essa si sostiene sulla volontà di fare ilBene dell'Altro. Più precisamente: di fare il Bene del desiderio dell'Altro. Ed è proprio in questa volontà del potere di fare il bene dell'Altro che s'insedia il totalitarismo come "catastrofe interiore". Incaricarsi di fare il bene dell'Altro significa, infatti, imporre al desiderio dell'Altro una misura, il che significa imporre sempre la nostra misura. In questa imposizione della misura del Bene, o, se si preferisce, in questo uso morale del Bene come misura universale della felicità, consiste per Lacan l'essenza del totalitarismo. Non si tratta semplicemente di ridurre il dissenso nei confronti del governo della città - dunque di operare, anche se con strumenti violenti e autoritari, ancora all'interno di un quadro tradizionale fondato sulla lotta politica tra maggioranza e minoranza - , ' ma di mostrare, secondo una pedagogia morale folle, qual è davvero il giusto rapporto col reale, puntando cioè a definire quale deve essere per tutti la condizione di vita del desiderio. "Catastrofe interiore" è il nome che usa Lacan per sintetizzare l'effetto di questa imposizione; si tratta di quella "catastrofe interiore" che sorge quando si vuole imporre il Bene universale al particolare del desiderio dell'Altro. Nella tragedia di Antigone è questa la parte giocata da Creonte: egli vuole preservare il Bene universale della Comunità. Ma il suo errore è precisamente quello di voler fare spietatamente il Bene di tutti finendo per piegare a sua volta la Legge a questo eccesso universalistico, facendola cioè debordare dal suo stesso limite.8 Per Lacan l'essenza del totalitarismo consiste dunque nel rifiutare di7. E ciò che secondo le analisi di Hannah Arendt differenzia i regimi autoritari (come lo stesso fascismo) da quelli totalitari che non si limitano a ridurre con la forza i diritti dell'opposizione, ma modificano l'assetto della stessa dialettica politica intervenendo a livello della vita in quanto tale, ovvero perseguendo, attraverso l'esercizio del terrore, la realizzazione di un'Umanità sovraindividuale che s'impone tirannicamente sulle esistenze reali. Vedi H. Arendt, Le origini del totalitarismo. cit., p. 636. 8. VediJ. Lacan, Il Seminario- Libro VII. cit.. pp. 326-327. ritto di cittadinanza al particolare del desiderio, alla sua irriducibilità e inaggirabilità, nel nome di un Bene universale che si imporrebbe come misura del desiderio. In questa imposizione il soggetto dell'inconscio come differenza assoluta si trova fatalmente annullato. L'esperienza del legame totalitario è in questo senso preciso l'esperienza catastrofica di una eclissi del desiderio. Lo diceva a suo modo Hannah Arendt quando definiva il totalitarismo come l'esperienza dell'abolizione violenta del singolare, come l'esperienza della negazione feroce e terroristica della pluralità irriducibile degli uomini nel nome di una Causa universale elevata a un dover essere assoluto e spietato in cui ritroviamo quei caratteri superegoici che Freud attribuiva alla voce del Padre arcaico. Hannah Arendt poteva così completare l'analisi freudiana dell'identificazione a massa sviluppata in particolare in Psicologia delle masse e analisi dell'Io,9 mostrando come la gregarizzazione del soggetto nei regimi totalitari si consumi nella forma estrema di una subordinazione del singolare alle esigenze redentrici dell'Universale. E questo il principio base di ogni fondamentalismo: la verità assoluta della Causa si impone sul destino delle vite singolari rendendo quest'ultimo solo un puro accidente. Ciò che conta in modo assoluto è l'Ideale della Causa che ispira il disegno della Natura o della Storia e rispetto alla quale le vite particolari appaiono come protuberanze insignificanti, come semplici "cose", al massimo strumenti da utilizzare. Per questa ragione Arendt definiva l'essenza terroristica del potere totalitario come una perversione politica che giunge a invertire il principio etico fondamentale per il quale "non l'Uomo ma solo gli uomini abitano la terra", affermando invece l'esistenza mostruosa di "un unico Uomo di dimensione gigantesche" che fa letteralmente "sparire la pluralità degli uomini". 10 IL PADRE IPNOTICO Nelle analisi di Freud e di Arendt l'essenza del totalitarismo come fenomeno storico sembra dunque consistere fondamentalmente nella soppressione della singolarità nel nome di un potere superiore, di una Causa identificata a una verità assoluta che non lascia spazio alla deviazione singolare del desiderio. In questo senso Freud, sempre nella Psicologia delle masse e analisi dell'io insiste nel porre a fondamento del le9. Vedi S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'io, cit. 10. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 637-63 8. game totalitario una certa versione (aberrante) della funzione paterna. Nel termini della sua metapsicologia si tratta di una declinazione superegoica della Legge. Per Freud la genesi del Super-io non si produce semplicemente dall'interiorizzazione soggettiva del carattere eventualmente autoritario dei genitori, o del padre in particolare, ma si realizza attraverso un'identificazione inconscia al Super-io stesso dei genitori. 11 Il fatto che Freud insista su questa genesi totalmente immaginaria del Super-io, come versione sadica e patologica della Legge, sta a indicare che la posta in gioco nel legame totalitario non è una semplice riedizione dei meccanismi edipici, quanto piuttosto una loro alterazione profonda. Il padre edipico non è affatto il fondamento del Padre-Fùhrer. Non è in questo padre che bisogna rintracciare la genesi del legame totalitario, ma in quella degenerazione della figura del padre che Freud ha nominato come Super-io. Non c'è, infatti, alcuna proporzione tra la severità di un padre reale e il Super-io di un figlio. Anzi, Freud fa notare come il Super-io sia il frutto di questa stessa sproporzione e l'indice dell'introduzione nel soggetto di una Legge che gli è strutturalmente eccedente. Per questo egli ricorda che il Super-io si costituisce per progressive interiorizzazioni dell'esteriorità, compresa l'esteriorità delle generazioni precedenti; in questo modo esso "diventa il veicolo della tradizione e di tutti i giudizi di valore imperituri che per questa via si sono trasmessi di generazione in generazione". 12 La costituzione del Super-io trascende dunque la dialettica edipica della vita psichica: il soggetto è abitato da una Legge dell'eccesso che si radica in una dimensione transindividuale nelle generazioni che lo hanno preceduto. Questo significa che esso non dipende tanto dalla realtà dell'educazione ricevuta, ma da una trasmissione più opaca, legata a sedimentazioni transgenerazionali e storiche, a passività stratificate. Le "ideologie del Super-io" - per utilizzare una formula proposta da Freud e poco meditata - 1 3 sono il prodotto della incidenza del "passato reale" come passato non tutto simbolicamente metabolizzabile dal soggetto. In altre parole, il Super-io costituisce ciò che lega il reale alla Legge, o, se si preferisce, ciò che manifesta il nocciolo reale della Legge laddove essa si pone come violentemente imperativa. Per questo il godimento della massa trae origine dall'identificazione collettiva al Super-io incarnato fanaticamente nel leader. E, infatti, il meccanismo del11. Vedi S. Freud, introduzione 9, p. 179. 12. Ibidem. 13. Ibidem, p. 180. alla psicoanalisi (nuova serie dilezioni), tr. it. in Opere, cit., voi. l'ipnosi che per Freud struttura il legame della massa, l'identificazione, come direbbe Bion, conformista "a massa". Per Freud si tratta di un'ipnosi verticale che ha come suo perno lo sguardo onnipotente del capo il cui potere di fascinazione si radica nello sguardo severo del Padre primigenio e nella sua amplificazione superegoica. Il padre ipnotico offre senso all'esistenza includendola nel grande corpo omogeneo della Comunità, garantendole un rifugio, ma richiedendo anche come prezzo per questa iscrizione la cessione di ogni facoltà critica di giudizio, ovvero una delega in bianco sul proprio desiderio. La posizione di appartenenza al grande corpo omogeneo della Comunità sottrae dal rischio e dall'angoscia della soggettivazione, ma come contropartita esige il sacrificio del proprio desiderio. La dipendenza conformista al capo come incarnazione della Causa consente all'individuo di fare esistere un Altro pieno, senza mancanza, un Altro dell'Altro direbbe Lacan, a scapito però della sua differenza singolare che, come affermava Hannah Arendt, si trova surclassata dalla sua integrazione in un Universale spietato. Nella logica totalitaria il particolare assoluto del desiderio costituisce un piccolo e insignificante orto narcisistico della soggettività che deve essere spianato senza pietà e tentennamenti nel nome della militanza collettiva e cieca per la Causa.14 Il padre ipnotico pone così il soggetto di fronte a una potenza oscura che se per un verso garantisce la vita e il suo senso, per un altro esige il sacrificio del suo nome proprio, del suo pensiero, della sua libertà di giudizio. Tutto ciò che riguarda il particolare del soggetto viene indicato come una scoria narcisistica da cui affrancarsi. In questa senso l'appartenenza alla Comunità non è in rapporto col desiderio soggettivo, ma vi si oppone in un'alternatività rigida: il socialismo dell'universale - direbbe Bion - abolisce totalmente il narcisismo del singolare. 15 Resta il fatto che il padre ipnotico non incarna la Legge edipica ma solo una sua aberrazione perversa. Il suo sguardo, diversamente da quello del 14. Nei sistemi totalitari la rivendicazione da parte di un militante o di un dirigente di partito di un proprio pensiero assume sempre le caratteristiche di una minaccia interna da scongiurare. Avere un pensiero proprio è un fatto di per sé ostile all'universalità della Causa. Per questo si tratta di una pretesa che viene subito stigmatizzata come un fenomeno narcisistico: servi la rivoluzione o servi te stesso? È l'accusa che gli epurati dai partiti totalitari si sono sentita rivolgere. Mi ha molto impressionato quando, nel corso di un dibattito svoltosi in seno alla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, nelle cui file ho militato per diversi anni, una mia collega si rivolse a me utilizzando in realtà uno stilema assai noto: "il tuo desiderio serve la Causa analitica o serve il tuo fantasma?". Ovviamente per quella collega non c'erano dubbi sulla risposta, ma soprattutto sul fatto che il suo desiderio in quanto totalmente dedito alla Causa dovesse essere la misura giusta per decidere se il mio fosse giusto o sbagliato. 15. Su questi temi bioniani, vedi l'interessante lavoro di E. Gaburri, L. Ambrosiano, Ululare coi lupi. Conformismo e rêverie, cit. padre edipico che è uno sguardo che, come diceva Freud, sa chiudere i propri occhi, sa sospendere l'applicazione omogenea della Legge perché sa ospitare l'eccezione, è uno sguardo che legge tutto, che non conosce opacità, densità, zone di oscurità, schermi, diaframmi, è uno sguardo persecutorio, costantemente presente, uno sguardo che legge sin dentro le intenzioni; è lo sguardo terribile del Super-io descritto da Freud. L'identificazione a massa che questo sguardo onnipresente produce è un'identificazione al Super-io alternativa a quella all'Ideale dell'Io; mentre, infatti, quest'ultima rende possibile una trasmissione del desiderio attraverso la Legge, l'identificazione al Super-io sembra operare al di fuori di ogni normativa simbolica, nell'ambito esclusivo di una fascinazione mortifera che può solo generare un'assimilazione anonima all'imperativo sadico della Legge. In questo caso - che costituisce il fondamento di ogni legame totalitario - siamo di fronte a una distorsione della funzione paterna che, anziché unire la Legge col desiderio10 (il "no!" del divieto col "sì!" della libertà), le disgiunge inflessibilmente, generando la mostruosità di una Legge per principio antagonista al desiderio. Storicamente, la psicoanalisi - e la cultura del Novecento che a essa si è ispirata - ha dato un contributo decisivo nel decostruire criticamente la dimensione valoriale-ontologica dei grandi ideali tradizionali, partecipando in prima linea nel rendere possibile il prolungamento dell'attitudine critica della ragione laica - affermatasi con la grande stagione della filosofia dei lumi - nella lotta contro ogni forma di oscurantismo. La sua critica ironica nei confronti degli Ideali metafisici della tradizione occidentale è stata per certi versi spietata e non ha risparmiato nemmeno l'Ideale (teologico) del Padre. Se la versione storica dei totalitarismi si è manifestata come una ipertrofia delirante del Padre ordalico, del Padre ipnotico, del padre primigenio, questo è avvenuto, ed è la tesi scabrosa che Lacan sviluppa nei suoi Complessi familiari del 1938 (sic!), proprio nel momento in cui con Freud la psicoanalisi registrava in Occidente una crisi irreversibile dell'Imago paterna e della sua autorità simbolica come fondamento della funzione orientativa dell'Ideale. Le grandi e nefaste utopie totalitarie tra le due guerre mondiali prendevano corpo proprio nel momento in cui la funzione simbolica guida del Padre veniva meno; il posto lasciato vuoto dalla funzione simbolica del padre (in declino) veniva così occupato, secondo un movimento di compensazione immaginaria, dallo sguardo folle e invasato del leader. In altri termini, il declino storico e sociale dell'Imago pater16. Vedi J. Lacan, L'aggressività in psicoanalisi, tr. it. in Scritti, cit., p. 111. na e della sua autorità simbolica, ha reso possibile l'invocazione totalitaristica del Führer come supplenza maligna di quella mancanza dell'Altro che la psicoanalisi aveva registrato come evento che avrebbe definito il nuovo orizzonte epocale dell'Occidente. La mancanza dell'Altro anziché diventare una risorsa collettiva per istituire una Comunità capace di ospitare la differenza e il particolare assoluto del desiderio è stata così esorcizzata nelle forme più terribili. Lo spettro del Führer e dei regimi totalitari si è imposto sulle ceneri della funzione edipica del padre come una esasperazione inquietante e patologica di ciò che avrebbe voluto restaurare. LA RIDUZIONE DISINCANTATA DELL'IDEALE Senza più assumere le forme brutali di interventi violenti apertamente repressivi il principio della difesa della salute pubblica è divenuto attualmente un nuovo Universale che esige la mobilitazione politicoscientifica delle società cosiddette postideologiche. In Foucault esso ricade sotto l'orbita dell'imperativo di "difendere la società! ", che giustifica il ricorso a strategie di controllo sempre più capillari. In gioco è l'esercizio paranoide del potere: garantire la sicurezza dell'insieme del corpo sociale innanzitutto dai suoi pericoli interni. Senza voler correre il rischio di assimilare in nessun modo le forme storiche della violenza totalitaria con quelle dei sistemi liberali-democratici, è possibile notare come attualmente il governo della città, della popolazione, della salute, della vita sociale, risponda comunque a una esigenza di tutela generalizzata che finisce per esasperare lo stato di controllo e di ingerenza dell'azione politica del potere nella sfera più privata della vita. E quello che Foucault ha definito biopotere. Nondimeno, tutto ciò avviene, e può avvenire, solo in un'oscillazione problematica, sconosciuta all'epoca dei totalitarismi storici. L'epoca ipermoderna non è solo l'epoca del controllo, ma anche quella del suo allentamento cinico, dell'assenza di centro e di garanzia, della caduta e della compromissione di ogni istanza di controllo. Come ha fatto notare criticamente Giovanni Bottiroli, un'applicazione eccessivamente schematica del paradigma foucaultiano della biopolitica e del biopotere rischia di risultare forzatamente riduttiva nella lettura della Civiltà ipermoderna. In questo senso Bottiroli utilizza criticamente il concetto paradossale di "dispositivo indisciplinare", non governato da alcun centro verticale, oscillante, aleatorio, privo di sguardo: lo sguardo pannottico ha perso il proprio punto di sostegno ed è diventato instabile: danza come un turacciolo sulle onde, oppure galleggia in una deriva di indifferenza.17 Si tratta allora di cogliere questa doppiezza del potere ipermoderno come essenziale nella definizione di un eventuale totalitarismo postideologico. Da una parte esso si sostiene su di una pratica orizzontale del controllo che mostra la capacità di incidenza capillare del potere sulle forme stesse dell'organizzazione della vita, dall'altra, il tracollo dell'Ideale e della sua esaltazione ideologica ha generato uno scompaginamento del legame sociale e uno smarrimento diffuso dove è la Legge stessa che sembra aver perduto ogni sua autorità simbolica. E la stessa doppiezza che possiamo ritrovare anche nell'igienismo ipermoderno che per un lato esaspera l'attenzione degli individui verso la loro salute, verso le cure del proprio corpo, verso l'obbedienza scrupolosa delle prescrizioni medico-sanitarie, mentre per un altro lato vede la proliferazione di patologie nichilistiche, manifestazioni di un godimento mortifero e di una anarchia distruttiva delle pulsioni. 18 Controllo e assenza di controllo si rincorrono dunque seguendo una circolarità paradossale. Per un verso ha ragione Foucault quando mostra come il potere tenda a manifestarsi come una volontà di manipolazione della vita che renderebbe obsolete le distinzioni tra pubblico e privato, tra il particolare del soggetto e l'universale della polis pretendendo di raggiungere una definizione essenziale di cosa è vita e di cosa non lo è, di cosa è umano e di cosa non lo è.19 Dall'altra parte però la caduta del potere orientativo dell'Ideale genera una fragilizzazione diffusa dei dispositivi istituzionali. Le agenzie che dovrebbero controllare la vita (si pensi oggi solo alla Scuola e alle Istituzioni sanitarie) sembrano non essere più in grado di controllare n e m m e n o se stesse. Piuttosto esse patiscono di una crisi profonda della loro significatività simbolica. 20 La clinica contemporanea mette in evidenza proprio questo disorientamento di fondo dei le17. G. Bottiroli, "Non sorvegliati e impuniti. Sulla funzione sociale dell'indisciplina", in M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 135. 18. Doppiezza segnalata anche da G. Lipovetsky come un tratto fondamentale della Civiltà ipermoderna. Vedi G. Lipovetsky, Les temps hypermodernes, cit., p. 54. 19. Per questa ragione, come ci ricorda Simona Forti, Foucault dispiega l'essenza del potere biopolitico come razzista, ovvero capace di definire "i confini dell'umano: di ciò che è incluso e di ciò che è escluso, di volta in volta, nel grande corpo dell'umanità, nell'organismo dell'Iper-Umanità". Vedi S. Forti, "Il G r a n d e Corpo politico della totalità: immagini e concetti per pensare il totalitarismo", in M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, cit., p. 33. 20. E ciò che Mauro Magatti teorizza come discrepanza tra funzioni e significati. Vedi M. Magatti, La libertà immaginaria, cit. gami sociali: la diffusione epidemica di panico e depressione offre sinteticamente il ritratto di un potere che per un verso agisce sulla vita attraverso strategie di controllo che invadono sempre più la sfera cosiddetta privata e, dall'altra, si rivela però semplicemente assente, impotente ad arginare l'angoscia e a restaurare quei quadri normativo-ideali del passato che lo sviluppo storico e politico di questo stesso potere ha contribuito a decostruire. TOTALITARISMO DELL'OGGETTO La deriva cinico-pragmatica è una faccia fondamentale del totalitarismo postmoderno. Questa deriva evidenzia che il rapporto con l'Ideale è stato sostituito dal rapporto diretto con l'oggetto di consumo: l'oggetto piccolo (a) surclassa la funzione orientativa dell'Ideale. 21 Proviamo però a entrare più nel merito di questo nuovo primato dell'oggetto di godimento nel contesto del disagio della Civiltà ipermoderna. Questo primato in realtà lascia per un verse inalterata la dimensione ipnotica che caratterizza per Freud il legame totalitario, solo che ne rovescia e ne elimina gli effetti di identificazione ideale. Vediamo dapprima il rovesciamento dell'ipnosi. Mentre nell'identificazione a massa che caratterizza il legame col Padre ipnotico situato nella funzione di Ideale collettivo è l'Ideale a esercitare una cattura immaginaria e a occultare in questa cattura la spinta oscena al godimento che in realtà lo contrassegna, il nuovo totalitarismo dell'oggetto di godimento soverchia l'Ideale realizzando una ipnosi a rovescio dove non è l'Ideale ma l'oggetto di godimento che produce l'effetto suggestivo. Questa ipnosi dell'oggetto prende il posto dell'ipnosi del Padre e apre il campo a una nuova versione dell'ipnosi collettiva rispetto a quella studiata da Freud in Psicologia delle masse: l'ipnosi non si produce più come convergenza dell'oggetto del desiderio (a) con l'oggetto dell'identificazione (I), ma per la via di una loro dissociazione radicale. Uno dei paradossi di questa situazione è che è proprio intorno a questa dissociazione che il programma della Civiltà contemporaneo s'incrocia con quello della psicoanalisi. Lacan ha, infatti, definito l'azione dell'analisi come "un'ipnosi a rovescio", come un'azione capace di dissociare l'Ideale (I) dall'og21. Questa tesi è stata proposta da Jacques-Alain Miller in L'Autre qui «'existe pas et ses comités d'étbique (1996-1997), Corso svolto presso il dipartimento di psicoanalisi di Parigi vili (inedito). In questa prospettiva si muove anche il lavoro di J-P. Lebrun, Un monde sans limite, érès, Toulouse2009. getto piccolo (a), in modo tale da offrire al soggetto la possibilità di una separazione del suo desiderio da ogni cattura narcisistica nell'Ideale. 22 Questa convergenza anti-idealizzante della deriva cinico-pragmatica del programma della Civiltà con quello della psicoanalisi deve farci riflettere e pone un interrogativo etico di fondo: esiste una differenza tra la dissociazione dall'Ideale provocata dal primato dell'oggetto piccolo (a) nel campo sociale e quella ottenuta dall'operazione analitica? Dobbiamo qui provare a porre una distanza etica fondamentale tra la disidealizzazione propria del programma della Civiltà contemporaneo e quello proprio del programma della psicoanalisi. La prima è ancora una forma, sebbene rovesciata, di ipnosi, nel senso che il rapporto di puro godimento con l'oggetto genera una paradossale idealizzazione della deidealizzazione, o, se si preferisce, un'inedita feticizzazione dell'oggetto che punta a evitare l'incontro col reale leso e contingente dell'esistenza. Al contrario, la dissociazione tra oggetto piccolo (a) e Ideale prodotta dal lavoro psicoanalitico non pone affatto l'oggetto nella posizione ipnotica dell'Ideale in quanto non persegue alcun Ideale di compiutezza, né di cancellazione del reale leso e contingente dell'esistenza. Piuttosto l'etica della psicoanalisi assegna a un soggetto separato dall'asservimento nei confronti dell'Ideale il compito di assumere soggettivamente ciò che causa il proprio desiderio particolare. Se infatti il transfert immaginario tende a riproporre un movimento suggestivo di tipo ipnotico che fa convergere sull'analista l'Ideale e l'oggetto del desiderio - secondo la definizione che Freud propone in Psicologia delle masse della relazione tra il capo e la massa - , l'operazione analitica tende invece a disfare questa convergenza, muovendosi in controtendenza rispetto a ogni idealizzazione e isolando così l'oggetto causa del desiderio come matrice della differenza soggettiva. Il secondo aspetto che caratterizza l'affermazione ipermoderna dell'oggetto di godimento è relativo alla perdita degli effetti di identificazione ideale che l'ipnosi totalitaria rendeva possibile. Attualmente il godimento cinico dell'oggetto non offre dei guadagni in termini di identificazione paragonabili a quelli che si producevano nell'identificazione alla massa ideologizzata. Piuttosto il rovesciamento dell'ipnosi sprofonda il soggetto nel suo isolamento e nella sensazione diffusa di inesistenza. L'effetto inebriante dell'oggetto si consuma nell'istante stesso del suo consumo. Poi regna, come diceva una mia paziente buli22. La pagina chiave dove è articolata l'operazione analitica come "rovescio dell'ipnosi" si trova in J. Lacan, Il Seminario. Libro XI, cit., p. 277. mica dopo l'agitazione frenetica dell'abbuffata, "il buio della solitudine e l'assenza di desideri". C'è un abisso tra questi effetti e quelli che provocava l'inquadramento della vita nel grande corpo sociale della massa totalitaria. Grazie al disincanto generalizzato che ha fatto decadere la funzione guida dell'Ideale, la nuova ipnosi sociale non avviene più per adesione acritica alla voce imperativa dell'Ideale superegoico (come accadeva ancora alla massa freudiana), ma per una sorta di fascinazione silenziosa esercitata dall'oggetto di godimento. Il soggetto si vuole libero di godere, irreversibilmente emancipato dall'ombra lugubre dell'Ideale, alleggerito dall'incombenza del dover essere, avverso a ogni pratica sublimatoria. La morale civile della rinuncia e del dovere come freno al godimento lascia il posto al dovere del godimento o, se si preferisce, al dover godere. Il totalitarismo postideologico non è una visione del mondo ma la caduta di ogni possibile visione del mondo. Esso schiaccia la vita sul presente, sull'immediatezza del godimento presente, e in questo modo, fatalmente, la svuota. Se nei totalitarismi ideologici di vecchio stampo le masse elettrizzate dall'Ideale erano le protagoniste della storia, oggi le masse sono masse di consumatori elettrizzate in modo intermittente dall'oggetto di godimento nella più totale alcatorietà delle significazioni. Esse non solo non sono più protagoniste della storia; nel loro mondo manca il senso stesso della storia, della radice, del debito simbolico. La disponibilità illimitata dell'oggetto di godimento non agisce come un freno alla alcatorietà dei legami ma tende a liquefare ogni sforzo comunitario. Il disagio contemporaneo della giovinezza può essere richiamato qui come un riferimento clinico importante. Ciò che domina è una offerta di godimento sganciata dal desiderio; è il nichilismo del godimento che non è contrastato dallo slancio del desiderio. Questa eclissi del desiderio mi pare essere veramente l'aspetto clinicamente più rilevante del nuovo disagio della Civiltà. Ma come si spiega, come accade che per il soggetto ipermoderno l'accesso al desiderio sia divenuto così problematico? MEDICALIZZARE IL DESIDERIO? Il versante compulsivo del godimento dell'oggetto - sostenuto dal Super-io sociale che obbliga al godimento come nuovo dovere collettivo - promette la felicità senza passare dalla perdita dell'oggetto; allude a una assicurazione sul godimento che allontana lo spettro della castra- zione. L'esistenza si trova così protetta dalla sua irrimediabile contingenza e dal suo carattere mortale, ma paga il prezzo di questa protezione nei termini di un indebolimento della facoltà di desiderare. L'eclissi del desiderio è in effetti il tratto decisivo del totalitarismo postmoderno. Come abbiamo visto lo sguardo folle del Padre primordiale, ricuperato in quello invasato dei Fiihrer dai regimi totalitari, non trova più, nell'epoca del disincanto generalizzato, un'iscrizione sociale praticabile, almeno in Occidente. 23 Piuttosto esso pare combinarsi in modo inedito con la fascinazione ipnotica provocata dal sapere anonimo e strumentale dello scientismo e dell'oggetto di godimento che la globalizzazione del mercato ha reso illimitatamente disponibile. Senza ricorrere all'uso barbaro della forza, il potere biopolitico anima le procedure asettiche della valutazione e sostiene il potere grigio del sapere iperspecialistico, determinando l'incidenza delle pratiche tecnico-scientifiche sul governo della vita. Esso non assume più le forme brutali della censura o dell'interdizione repressiva, ma quelle falsamente progressive di una quantificazione generalizzata della vita. Questa spinta alla misura ha però come effetto fatale l'eclissi del desiderio. Pochi discorsi come quello medico-tecnologico hanno il potere di ridurre il soggetto a una macchina senza desiderio. Pochi discorsi come quello medico-tecnologico hanno il potere di ridurre il corpo vivente del soggetto e la sua particolarità irriducibile a un oggetto anonimo tra gli altri. Non a caso Lacan ha potuto affermare che questa riduzione, e la sensazione di imprigionamento che ne deriva, è all'origine dell'esperienza dell'angoscia.24 In questo caso le procedure del totalitarismo scientista si assimilano paradossalmente, come vedremo meglio fra poco, a quelle del cinismo del godimento. In entrambe, infatti, il desiderio come particolare assoluto del soggetto viene evacuato. E il paradosso deW'igienismo ipermoderno: la difesa della salute diventa protocollare e sembra imporsi come un nuovo obbligo sociale, come un inedito imperativo al Bene. Ma esiste una giusta misura, una misura salutare, per il desiderio? Si può medicalizzare il desiderio? La psicoanalisi sa che quando la salute è 23. Una considerazione a parte meriterebbe il fondamentalismo contemporaneo che, in effetti, tende a ricuperare un Altro senza mancanza, un padre ipnotico, ordalico, nella figura di un Dio folle che ordina la lotta a morte contro gli infedeli e rende la relazione con la Causa un rapporto di alienazione assoluta. Questo rigurgito non è ovviamente senza rapporto con la "evaporazione del Padre" e con l'affermazione cinica del potere dei mercati. La nozione di "universalismo", che in Lacan anticipa quella più attuale di globalizzazione, non esclude, infatti, un possibile ritorno del reale nelle forme di un'apologia del Padre ordalico proprio in un contesto che ne forclude l'esistenza. VediJ. Lacan, Nota sul padre e l'universalismo, cit. 24. "L'angoscia è il sentimento che sorge dal sospetto di essere ridotti al proprio corpo". Vedi J. Lacan, "La terza", in La psicoanalisi, 12,1993, p. 33. contro il desiderio può dare luogo solamente a una pedagogia mortifera. Come quella che il padre di Schreber imponeva a suo figlio (divenuto poi celebre Presidente di Corte d'appello e grande paranoico) nella forma di esercizi ginnici da camera che consideravano il corpo come un puro strumento da plasmare al fine di renderlo adeguato all'ideale virile della forza e della salute! L'errore di fondo dello scientismo contemporaneo è quello di non tener conto adeguatamente della dimensione irriducibile della singolarità.25 Nondimeno, proprio nello spingere la strategia valutativa al suo estremo, il suo prodotto paradossale diventa lo scandalo del soggetto come ciò che buca lo schematismo della valutazione scientista, come ciò che non è valutabile, non comparabile, irriducibile alla misura. Così la singolarità cancellata dalla spinta valutativa dello scientismo, forclusa dagli strumenti della tecnica e dei saperi specialistici, ritorna nel reale, risorge di continuo ai bordi di quel discorso e del suo delirio di misurazione come resto, residuo intrattabile, frammento di reale che non si riesce a addomesticare. Come abbiamo visto precedentemente la tendenza totalitaria postideologica trova uno dei suoi campi privilegiati di espressione nell'ambito delle pratiche della cura. La medicina iperspecializzata fornisce in effetti un esempio significativo di come il sapere che risponde all'ideologia universalistica dello scientismo contemporaneo finisca per cancellare il riferimento alla clinica come dimensione concreta dove si produce l'atto della cura (diagnosi, terapia, prognosi). Il processo della cura viene dissolto in protocolli anonimi, standard, computerizzati, che riducono la relazione terapeutica a un'applicazione spersonalizzata di una tecnica senza soggetto. La stessa concezione della salute, sostenuta con vigore dall'igienismo contemporaneo, dimentica la dimensione strutturalmente lesa della realtà umana e si propone come un grande 25. Si p u ò rintracciare nella clinica contemporanea del disagio psichico una serie infinita di esempi. Mi limiterò a farne uno solo. Si tratta dell'esempio dell'anoressia cosiddetta mentale. Il sistema di classificazione diagnostica dsm elenca una serie di sintomi e di comportamenti la cui presenza renderebbe oggettivamente plausibile una diagnosi di anoressia. Esso non si sofferma però di fronte al vero problema che investe una diagnosi clinica di anoressia. E cioè che al di là dell'evidenza fenomenica con la quale essa tende a imporsi, si tratta di discriminare ogni volta il significato dell'anoressia per quel soggetto particolare e non la sua, più o meno adeguata, corrispondenza a criteri classificatori quantitativi. Tutto ciò non si limita ovviamente a un discorso intorno ai limiti di ogni classificazione universale dei comportamenti umani. Da una diagnosi meramente comportamentale di anoressia deriva, infatti, una terapeutica. E se l'azione terapeutica trascura il significato particolare dell'anoressia per un soggetto e si limita a procedere in maniera protocollare, ponendosi cioè come obbiettivi-standard il ripristino di un peso e di un appetito nella norma, può anche accadere che il soggetto guarisca dall'anoressia, ma solo per porre termine alla sua vita con un passaggio all'atto suicidano! L'intervento terapeutico finalizzato al recupero della normalità del peso e della funzione dell'appetito p u ò dirsi oggettivamente riuscito, ma il soggetto è morto! mito redentore dell'umanità ipermoderna. Se l'Ideale non governa più il Super-io sociale, è il principio di prestazione a reggere l'imperativo sociale contemporaneo, nel cui ambito ricadono paradossalmente le stesse pratiche salutiste. II culto della prestazione trova in effetti una delle sue espressioni più significative nel rifiuto del carattere ontologicamente precario della realtà umana. Esso da luogo a una forzatura dei tempi della vita che cancella gli intervalli e le pause necessarie. La castrazione simbolica viene aggirata da una compulsione prestazionale che implica sempre più il corpo stesso. In questa compulsione, la proliferazione della cultura del corpo, della cultura della Salute come dovere prioritario, unisce la matrice positivista dello scientismo contemporaneo (manipolazione chimico-tecnologica) con quella ideologia del "benessere" che esalta 0 ritorno ingenuo alla natura e alla sua armonia e che ispira tutte le varie culture new age. Nondimeno il tratto in ombra dell'igienismo contemporaneo consiste nell'asservimento della vita alla produzione. L'esaltazione dell'ideale della salute viene sistematicamente contraddetto dalle esigenze del discorso del capitalista di generare profitto. Sarebbe facile fornire innumerevoli esempi di questo paradosso. Uno, molto eloquente nella sua semplicità, è quello della campagna contro il fumo che non impedisce allo Stato di essere produttore di sigarette. Il loro involucro trattiene infatti il contenuto più evidente di questo paradosso: evocare il danno potenziale senza rinunciare alla loro produzione. L'evocazione della salute come principio primo trascura e rimuove la dimensione inquieta dell'esistenza e il desiderio nutrendosi dell'illusione di animare un corpo in salute, non intaccato dal fallimento e dall'incombenza della morte. Il rischio che l'esasperazione della pratiche mediche comporta è infatti quello di negare la dimensione umana del limite e, dunque, di praticare perversamente il rifiuto della castrazione. UN LINGUAGGIO SENZA SOGGETTO La tendenza totalitaria postideologica trova nel linguaggio un suo campo di applicazione privilegiato. Il linguaggio della macchina s'impone su quello vivente, diventandone il modello d'efficienza. La sua tendenza alla semplificazione diventa un esempio per il pensiero. La sua univocità subentra all'equivocità dell'inconscio. Condizione che mostra, secondo Lacan, la fatale commistione tra la follia e lo spirito scientista il quale abroga la dimensione particolare del soggetto - la for- elude, come avviene, appunto, nelle psicosi - nell'uso codificato delle sue categorizzazioni formali. Questa omologazione standard di un linguaggio robotizzato, sganciato dal soggetto (sempre più parlato e sempre meno parlante), spoglia la dimensione soggettiva della parola della sua forza creativa ed espressiva. Disgiunge la parola dal desiderio svuotandola, riducendola a una replica esteriore del codice anonimo e universale del grande Altro. Rocco Ronchi ha avuto modo di esplorare questa tendenza totalitaria del linguaggio iperspecialistico, che finisce per schiacciare la parola del soggetto in una tecnica robotica, a partire dall'evocazione della neolingua del popolo di Oceania della grande metafora orwelliana di 1984. Nello sforzo di rintracciare le modalità di fabbricazione di una lingua totalitaria, egli però non si limita alla fantasia politica di Orwell, ma ci ricorda, attraverso le memorie di un filologo, Victor Klemperer, un ebreo che è riuscito a scampare allo sterminio nazista del suo popolo, quanto l'azione concreta del totalitarismo abbia investito la struttura stessa del linguaggio. "Il nazismo", ci spiega, "s'insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso singole parole, locuzioni, forme delle frasi ripetute milioni di volte", realizzando una vera e propria "perversione totalitaria della lingua" ,26 Cosa è in gioco in questo processo? Si tratta di trasformare il linguaggio e la possibilità polisemica che esso consente in un codice neutro, identico a se stesso, integralmente desoggettivato. Questa riduzione del linguaggio a codice neutro, identico a se stesso, dunque senza rapporto con il piano della enunciazione soggettiva, definisce la dimensione totalitaria del linguaggio, la sua meccanizzazione robotica che manifesta, secondo Ronchi, il carattere al fine comico di ogni lingua totalitaria. In questo senso la realizzazione più pura della neolingua è l'ocoparlare, come spiega Orwell stesso nell'Appendice a 1984 titolata I principi della neolingua. Per le finalità della vita quotidiana era indubbiamente necessario, o almeno lo era talvolta, riflettere prima di parlare, ma un membro del partito, quando viene sollecitato a emettere un giudizio etico o politico, doveva essere in grado di sputar fuori le opinioni corrette con lo stesso automatismo con cui una mitragliatrice spara i suoi proiettili.27 La definizione lacaniana della psicosi come disarticolazione del rapporto tra linguaggio e parola, come alienazione della parola nel sistema 26. Vedi R. Ronchi, "Parlare in neolingua. Come si fabbrica una lingua totalitaria?", in Forme contemporanee del totalitarismo, cit., pp. 44-60. 27. G. Orwell, 1984, tr. it. Mondadori, Milano 1983, p. 339. transindividuale del linguaggio, come "linguaggio senza dialettica" e, dunque, "senza parola", 28 ci conduce al cuore dell'alterazione totalitaria della lingua. Possiamo allora davvero evocare una dimensione psicotica della neolingua, la quale si fonda, appunto, sulla riduzione della parola del soggetto a una espressione modulare, priva di qualunque soggettivazione creativa, dunque sulla forclusione del soggetto in quanto tale. Orwell lo dichiara espressamente: "La neolingua era intesa non a estendere, ma a diminuire le possibilità del pensiero". 29 La neolingua di Orwell esprime questa disgiunzione tra parola e linguaggio nella sua finalità ultima e metafisica: come rendere impronunciabile la critica? Come impedire un pensiero divergente dal conformismo della mentalità di gruppo? Come annullare la possibilità stessa che vi sia un fenomeno - come sarebbe quello del pensiero critico - di singolarizzazione dell'esistenza? Tecnicamente si tratta di un particolare processo di impoverimento e di elementarizzazione del linguaggio che rende semplicemente impossibile pensare in modo divergente dal principio imposto dal sistema dell'Altro. Così, per esempio, commenta Orwell: "La parola libero esisteva ancora in Neolingua ma poteva essere usata solo in frasi come: 'Questo cane è libero da pulci', oppure 'Questo campo è libero da erbacce'". 30 La neolingua è dunque una lingua che esclude la parola in quanto evento soggettivo, procedendo in una forclusione radicale del soggetto nelle oggettivazioni del discorso che sopprimono la devianza strutturale della parola. Per Orwell la neolingua è ciò che rende impossibile qualunque pensiero divergente dalla realtà. Per questo la parola "psicoreato" omologa semplicemente tutto ciò che non si può dire, ovvero il bordo opaco della neolingua, quel reale scabroso che essa vorrebbe ferocemente abolire. IL REGNO ASSOLUTO DELLE COSE Il totalitarismo postmoderno è dunque un totalitarismo del godimento, un totalitarismo dell'oggetto di godimento. Questo godimento, dissociato dall'Ideale, fuori dai binari della Legge simbolica della castrazione, è necessariamente un "godimento smarrito", come lo ha defi28. Vedi J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, eie., pp. 273274. 29. G. Orwell. 19X4, ric., p. 332. 30. G . O r w e l l , ¡9X4, cit., p. 331. nito Jacques Lacan, 31 è cioè un godimento che confina i soggetti in un nuovo isolamento. Mentre nelle sue forme storiche del totalitarismo la Comunità s'imponeva inghiottendo nella sua trascendenza le pluralità individuali, nelle sue forme postmoderne la Comunità sembra parcellizzarsi in atomi di godimento senza connessione tra loro. In effetti, già Freud e Adorno, tra gli altri, avevano notato come l'isolamento fosse una caratteristica paradossale proprio del legame di massa, il punto in cui l'affermazione estrema dell'individualismo borghese coincideva con la sua negazione paradossale. 32 Ma nella società dominata da ciò che Lacan ha definito come discorso del capitalista l'isolamento diventa un prodotto dell'eclissi del desiderio causata dalla circolazione impazzita del godimento. L'otturazione illusoria della mancanza a essere ridotta a vuoto empirico - nella epidemia bulimica contemporanea, per esempio, a puro vuoto anatomico dello stomaco - tende a cancellare l'esperienza della mancanza come risorsa e condizione per il desiderio. Il desiderio sorge, infatti, come slancio generato da una mancanza e percorre il bordo che costeggia l'assenza della Cosa prodotta dall'azione negativizzante del significante. Diversamente, il cinismo contemporaneo sembra voler saltare o bruciare addirittura la distanza dalla Cosa che il simbolo introduce. Per questo esso sembra ridurre il godimento al consumo ripetitivo, immediato e solitario - a circuito chiuso - dell'oggetto. A conferma di questo valga l'ulteriore considerazione che questo circuito si produce prescindendo dal carattere sessuato del partner; l'oggetto di godimento si presentifica come un partner inumano che consente di prescindere dallo scambio sessuale e dalla sua contingenza inevitabile. Ciò che effettivamente unisce scientismo e cinismo è dunque il fatto che l'oggetto di godimento cala la sua ombra sul desiderio. L'oggettività delle cose s'impone senza parole sugli uomini, trasformando il mondo in un grande contenitore di "cose valutabili". E la tesi che, relativamente all'ideologia contemporanea della valutazione, Jean-Claude Milner sviluppa in La politique des choses: i soggetti nella loro incomparabile particolarità vengono ridotti dall'ideologia scientista della valutazione a oggetti di una misura universale. Ne deriva il trionfo delle cose a scapito della libertà soggettiva. Ritroviamo qui la funzione puramente ipnotica dell'oggetto: sono le cose che decidono al posto degli uomini.'3 31. Vedi J. Lacan, Radiofonia e televisione, cit., p. 90. 32. Il riferimento freudiano maggiore resta Psicologia delle masse e analisi dell'io, cit. Per Adorno si veda invece, tra gli altri riferimenti possibili: T.W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, cit. 33. Vedi J-C. Milner, La politique des choses, cit., p. 20. È questa, in effetti, una Legge che sembra orientare il Padrone contemporaneo nella sua esigenza di imporre asetticamente il proprio controllo sulla vita; controllo che, come abbiamo visto, giunge sino a intaccare la dimensione stessa della lingua. Il nuovo paradigma della lingua è divenuto, infatti, quello tecnologico delle macchine ed esalta l'univoco contro l'equivoco ( che invece è il registro più proprio - come ha insegnato Freud - del funzionamento dell'inconscio). Ed è proprio in questo movimento di esclusione e di eclissi dell'inconscio che il totalitarismo postmoderno sembra ricollegarsi alla sua stagione storica più antica e più atroce: non era forse il programma dei regimi totalitari quello di ridurre la pluralità equivoca degli uomini a "cose"? Di assimilare tutto - la storia, la politica, gli uomini stessi - al "regno assoluto delle cose"? 34 In questo senso per Milner non c'è discontinuità ma continuità tra "l'uomo del partito" che giustificava ogni suo atto, anche il più efferato, nel nome della Causa Ideale e l'"uomo dei dossier" che riconduce all'universale appiattito della valutazione la dimensione unica e irriproducibile della singolarità. 35 E tuttavia questo passaggio dall'"uomo di partito" all'"uomo dei dossier" - mostra la diversa declinazione dell'ipnosi sociale contemporanea rispetto a quella propria della psicologia freudiana delle masse: nell'attualità non esiste più lo sguardo terribile e carismatico del dittatore che aggrega le masse ponendosi come un Ideale dell'Io collettivo. In generale, non è più l'Ideale a regolare i legami sociali. Nondimeno la pluralizzazione postmoderna dell'Uno Ideale preserva del fenomeno ipnotico la sua dinamica intrinseca, ma rovesciando il suo vertice sulla molteplicità degli oggetticose. Nell'orizzonte disabitato dall'Ideale è l'oggetto che, infatti, si erige a nuovo agente ipnotico, vuoi nella forma scientista del "regno assoluto delle cose", vuoi in quella cinico-pragmatica di un cortocircuito con l'oggetto piccolo (a) che anziché animare il desiderio lo costringe verso un'eclissi spettrale. In entrambi i casi nel luogo singolare del desiderio - dunque nel luogo dell'oggetto perduto che causa il desiderio troviamo il potere ipnotico dell'oggetto che promette di sanare ogni mancanza. 34. Ibidem, p. 23. 35. Ibidem, p. 29. BIBLIOGRAFIA ADORNO, T.W., Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa. Tr. it. Einaudi, Torino 1979. AGAMBEN, G., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Einaudi, Torino 1995. AGAMBEN, G., Quel che resta di Auschwitz. Larchivio e il testimone. 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Viaro Conversazione e terapia 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 14. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. B. Camdessus I nostri genitori invecchiano E. Weiss Struttura e dinamica della mente umana F. Tustin Protezioni autistiche nei bambini e negli adulti J. Chasseguet-Smirgel L'ideale dell'Io B . J o s e p h Equilibrio e cambiamento psichico H . Segai Sogno, fantasia e arte R.A. G o r d o n Anoressia e bulimia M. Balint Lamore primario A. G r e e n Psicoanalisi degli stati limite A . F r e u d Lezioni a Harvard A. A. Semi Dal colloquio alla teoria A. F e r r o La tecnica nella psicoanalisi infantile M . D . Kahn, K . G . Lewis (a cura di) Fratelli in terapia D. Anzieu L'epidermide nomade e la pelle psichica O . Flournoy Latto di passaggio. Sul modo di terminare l'analisi L. Nissim Momigliano, A. Robutti (a cura di) L'esperienza condivisa L. G r i n b e r g , D . Sor, E. 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Bollas Cracking Up A. Correale, L. Rinaldi (a cura di) Quale psicoanalisi per le psicosi? V. Cigoli Intrecci familiari J. McDougall Eros D. Kingdon, D. Turkington Psicoterapia della schizofrenia D.W. Winnicott bambini J. Sandler, A.U. D r e h e r Che cosa vogliono gli psicoanalisti? G. Cecchin, G. Lane, W. Ray Verità e pregiudizi G . Benedetti La psicoterapia come sfida esistenziale W.J. Doherty Scrutare nell'anima P. Watzlawick, G . Nardone (a cura di) Terapia breve strategica S.R. Shuchter, N. Downs, S. Zisook La depressione 103. M. Selvini Palazzoli, S. Cirillo, M. Selvini, A.M. Sorrentino Ragazze anoressiche e bulimiche 104. L. Horwitz, G.O. Gabbard,J.G. Alien, S.H. Frieswyk, D.B. Colson, G.E. Newsom, L. Coyne Psicoterapia su misura 105. V.L. Schermer, M. Pines (a cura di) Il cerchio di fuoco 106. N.P. Nielsen Pillole o parole? 107. J. e N. Symington II pensiero clinico diBion 108. A. Ferruta, G. Foresti, E. Pedriali, M. Vigorelli (a cura di) La comunità 109. 110. 111. 112. 113. 114. 115. 116. 117. 118. 119. 120. 121. 122. 123. 124. terapeutica M. Malacrea Trauma e riparazione F. Corrao Orme, voi. I, Contributi alla psicoanalisi F. Corrao Orme, voi. II, Contributi alla psicoanalisi di gruppo M . P Arrigoni, G.L. Barbieri Narrazione e psicoanalisi M. Ceruti, G. Lo Verso (a cura di) Epistemologia e psicoterapia J. Riviere II mondo interno A. Bateman,J. Holmes La psicoanalisi contemporanea G. Berti Ceroni, A. Correale (a cura di) Psicoanalisi e psichiatria P.M. Crittenden Attaccamento in età adulta A. Ferro La psicoanalisi come letteratura e terapia F. Bercelli, P. Leonardi, M. Viaro Cornici terapeutiche A. Semerari (a cura di) Psicoterapia cognitiva del paziente grave O.F. Kernberg Le relazioni nei gruppi G . Di Chiara Sindromi psicosociali F. deZulueta Dal dolore alla violenza. Seconda edizione G.O. Gabbard, E.P. Lester Violazioni del setting 125. 126. 127. 128. 129. 130. 131. 132. 133. 134. 135. 136. 137. 138. 139. 140. 141. 142. 143. 144. 145. 146. 147. 148. 149. 150. 151. 152. 153. 154. 155. 156. 157. 158. 159. 160. 161. 162. 163. 164. 165. 166. 167. 168. J.M. Reisman Storia della psicologia clinica L. C a n o i n i La luna nel pozzo A. Ferro Teoria e tecnica nella supervisione psicoanalitica E. Funari IIfalso Mozart G . Pietropolli Charmet I nuovi adolescenti E. Scabini, V. Cigoli 11 famigliare R. Lorenzini, S. Sassaroli La mente prigioniera P. Bertrando, D. Toffanetti Storia della terapia familiare C. Bollas II mistero delle cose A.A. Semi Introduzione alla metapsicologia J.V. Fisher L'ospite inatteso M. Ammaniti (a cura di) Manuale di psicopatologia dell'infanzia J. Manzano, F. Palacio Espasa, N. Zilkha Scenari della genitorialità L. Solano Tra mente e corpo G . Liotti Le opere della coscienza C. Bollas Isteria A. Molino (a cura di) Psicoanalisi e buddismo L. Nissim Momigliano L'ascolto rispettoso N. McWilliams II caso clinico V. Lingiardi I!alleanza terapeutica F. Dalai Prendere il gruppo sul serio M.W. Battacchi Vergogna e senso di colpa S. Orefice La sfiducia e la diffidenza A. Ferro Fattori di malattia, fattori di guarigione S. Cirillo, M. Selvini, A.M. Sorrentino (a cura di) La terapia familiare nei servizi psichiatrici S. Mitchell II modello relazionale M.R. M o r o Genitori in esilio M. Ammaniti (a cura di) Manuale di psicopatologia dell'adolescenza F. Di Maria, G . L o Verso (a cura di) Gruppi R. Fisch, K. Schlanger Cambiare l'immutabile J.-M. Q u i n o d o z I sogni che voltano pagina L. Rinaldi (a cura di) Stati caotici della mente M. Selvini Palazzoli, L. Boscolo, G . Cecchin, G . Prata Paradosso e controparadosso D. Lopez, L. Zorzi Terapia psicoanalitica delle malattie depressive A. Saraval (a cura di) L'illusione: una certezza S. Corbella Storie e luoghi del gruppo S. Mitchell I!amore può durare? A. A. Semi La coscienza in psicoanalisi G . Di Chiara Curare con la psicoanalisi A. Ferro II lavoro clinico J. H o l m e s Psicoterapia per una base sicura P. Rigliano Doppia diagnosi A. G r e e n Idee per una psicoanalisi contemporanea M. Selvini Reinventare la psicoterapia 169. 170. 171. 172. 173. 174. 175. 176. 177. 178. 179. 180. 181. 182. 183. 184. 185. 186. 187. 188. 189. 190. 191. 192. 193. 194. 195. 196. 197. 198. 199. 200. 201. 202. 203. 204. 205. 206. 207. 208. 209. M.J. Horowitz Sindromi di risposta allo stress S. Marinelli II gruppo e l'anoressia F. Palacio Espasa Depressione di vita, depressione di morte G.A. Kelly La psicologia dei costrutti personali E. Razzini Lo psicodramma psicoanalitico P. Fonagy, M. Target Psicopatologia evolutiva J . M . M a l d o n a d o - D u r à n Infanzia e salute mentale R. Meares Intimità e alienazione S.Cirillo Cattivi genitori G . O . G a b b a r d Introduzione alla psicoterapia psicodinamica S. Missonnier La consultazione terapeutica perinatale P. Barbetta Anoressia e isteria J. Chasseguet-Smirgel II corpo come specchio del mondo M. Selvini Palazzoli L'anoressia mentale A. Ferro Tecnica e creatività O . Codispoti, A. Simonelli (a cura di) Narrazione e attaccamento nelle patologie alimentari O.F. Kernberg Narcisismo, aggressività e autodistruttività nella relazione psicoterapeutica F. D e Masi Vulnerabilità alla psicosi N. McWilliams Psicoterapia psicoanalitica G . Lo Coco, G . L o Verso La cura relazionale F. G a m b i n i Freud e Lacan in psichiatria P. Rigliano, M. Graglia (a cura di) Gay e lesbiche in psicoterapia G . Stanghellini Psicopatologia del senso comune S. Sassaroli, R. Lorenzini, G . M . Ruggiero (a cura di) Psicoterapia cognitiva dell'ansia M . H . Stone Pazienti trattabili e non trattabili L. Cancrini L'oceano borderline L. Barone, F. Del C o r n o (a cura di) La valutazione dell'attaccamento adulto P.M. B r o m b e r g Clinica del trauma e della dissociazione A. F e r r o Evitare le emozioni, vivere le emozioni O . Renik Psicoanalisi pratica per terapeuti e pazienti C. Maffei Borderline T.H. O g d e n L'arte della psicoanalisi B. Golse L'essere-bebé G . Lo Coco, C. P r e s t a n o , G . L o Verso (a cura di) Inefficacia clinica delle psicoterapie di gruppo F. Gazzillo, M. Silvestri Sua maestà Masud Khan R. Lorenzini, B. Coratti La dimensione delirante S. Dazzi, F. M a d e d d u Devianza e antisocialità G . Pietropolli C h a r m e t , A. Piotti Uccidersi M. Giannantonio, S. Lenzi II disturbo di panico S. A. Merciai, B. Cannella La psicoanalisi nelle terre di confine E. Riva Adolescenza e anoressia 210. 211. 212. 213. 214. V. Cigoli, G . Tamanza L'Intervista clinica generazionale P. Rigliano, E. Bignamini (a cura di) Cocaina P.M. B r o m b e r g Destare il sognatore S. Bordi Scritti T. Jaffa, B. M c D e r m o t t (a cura di) I disturbi alimentari nei bambini e negli adolescenti 215. G . Stanghellini, M. Rossi M o n t i Psicologia del patologico 216. A. Maggiolini Ruoli affettivi e psicoterapia