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PREPOTENTI, BULLI E VIOLENTI A CASA E A SCUOLA Conoscerli

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PREPOTENTI, BULLI E VIOLENTI A CASA E A SCUOLA Conoscerli
ASSESSORATO ALLE POLITICHE SOCIALI, ALLA COOPERAZIONE SOCIALE E AL VOLONTARIATO
ASSESSORÂT AES POLITICHIS SOCIÂLS, AE COOPERAZION SOCIÂL E AL VOLONTARIÂT
PREPOTENTI, BULLI E VIOLENTI A CASA E A SCUOLA
Conoscerli, comprenderli e contrastarli
ATTI DEL CONVEGNO
VIII SETTIMANA PROVINCIALE DELLE SOLIDARIETÀ
15 - 16 Novembre 2006
Coordinamento Metodologico
Dott.ssa Loredana Ceccotti
Dirigente Area Politiche Sociali, Lavoro e Collocamento – Provincia di Udine
e-mail: [email protected]
Coordinamento Scientifico
Dott. Gelindo Castellarin
Psicologo consulente della Provincia di Udine
e-mail: [email protected]
Servizio Politiche Sociali
Via della Prefettura, 16 – 33100 UDINE
e-mail: [email protected]
2
PRESENTAZIONE
Viviamo tutti un tempo difficile, il tempo dell’incertezza! Se per le generazioni che ci hanno
preceduto il tempo futuro era il tempo della speranza e del progresso, ora l’orizzonte appare più
sfumato, difficile, complesso, alle volte disarticolato. La società tutta, ma anche le nostre comunità
locali, si interrogano sui temi forti della sicurezza percepita, sulle prospettive di lavoro per le nuove
generazioni, sulla frammentazione delle famiglie, sui nidi vuoti e sugli anziani soli. Non sempre le
risposte arrivano!
Le nuove generazioni, in particolare, subiscono il disorientamento degli adulti, la caduta dei valori,
l’irruzione nell’immaginario sociale dei miti di plastica del benessere esibito, ma vuoto, dell’apparire a
tutti i costi, sino al crimine della sopraffazione dei più deboli …così… piccoli bulli crescono nella
distrazione di molti.
In questa cornice, prospera il fenomeno del bullismo che attraversa le classi sociali, le classi
anagrafiche ed anche i sessi. Il bullismo non è un fenomeno nuovo, infatti ci sono sempre state le
angherie dei bulli nei confronti delle persone fragili, ciò che è nuovo oggi è lo scenario in cui il
bullismo prospera e si diffonde per imitazione e cioè i luoghi deputati all’educazione (le scuole di ogni
ordine ed i centri di aggregazione in genere). Ciò rappresenta un segnale preoccupante in quanto
evidenzia il venir meno da parte degli adulti (genitori ed educatori) delle funzioni maturative,
normative, di controllo e di contrasto sulle violenze agite dai bulli, spesso a loro volta vittime di
contesti familiari e sociali disgregati, impoveriti o svuotati di valori.
Anche quest’anno pubblichiamo gli Atti del Convegno annuale della Settimana Provinciale delle
Solidarietà 2006, che ha avuto come focus proprio il bullismo con il tema:“PREPOTENTI, BULLI
E VIOLENTI A CASA E A SCUOLA”: Conoscerli, comprenderli e contrastarli” e che ha visto
coinvolti, accanto ad un numeroso gruppo di esperti nazionali e locali, oltre 350 operatori del sociale,
insegnanti ed educatori.
L’Assessorato alle Politiche Sociali della Provincia di Udine, che ho l’onore di rappresentare, è
particolarmente sensibile alle tematiche del mondo giovanile e della solidarietà, promuovendo e
supportando diverse iniziative dirette ad affrontare le tematiche più attuali del disagio, della sofferenza
e dell’emarginazione. È in questa prospettiva che la Provincia di Udine , assieme agli operatori ed alle
associazioni del territorio, intende operare per dare alle giovani generazioni un futuro vivibile, un
futuro dove la speranza si consolidi in rapporti tra le persone ricchi di senso, di valore e di qualità.
L’Assessore alle POLITICHE SOCIALI
Adriano PIUZZI
3
INDICE
_____________________________________________________________________________
INTERVENTI INTRODUTTIVI
Prof. Marzio Strassoldo - Presidente della Provincia di Udine
pag. 7
Adriano Piuzzi - Assessore alle Politiche Sociali della Provincia di Udine
pag. 9
PRIMA SESSIONE
PSICO-SOCIOLOGIA DELLE VIOLENZE NELL’INFANZIA E
NELL’ADOLESCENZA
Dott. Ezio Bertossi, Dott.ssa E. Ramaglioni, Prof. Antonio Condini
Unità Operativa Autonoma di Neuropsichiatria dell’infanzia
e dell’adolescenza ULSS 16 Padova
“L’agire in adolescenza. Genesi ed evoluzione dei disturbi della condotta”
pag. 12
Dott.ssa Laura Cerone – Psicologa, Psicoterapeuta
Dott.ssa Fiammetta Biancolin – Sociologa Associazione
“IOTUNOIVOI Donne Insieme”, Udine
“Bullismo: male giovanile del ventunesimo secolo. Ma è vero?”
pag. 45
Dott. ssa Mara Lessio – Sostituto Commissario polizia di Stato,
Responsabile Ufficio Minori Divisione Anticrimine,
Questura di Udine
Dott.Ezio Gaetano – Vicequestore Aggiunto Polizia di Stato,
Questura di Udine
“Il fenomeno del bullismo nelle segnalazioni delle famiglie e delle scuole”
pag. 67
SECONDA SESSIONE
IL BULLISMO: TEORIE INTERPRETATIVE
Dott. Giovanni di Cesare – Psicologo didatta Centro Studi Terapia Familiare, Roma
“La cura della violenza”
pag. 70
Dott. Giuseppe Disnan – Psicologo, Psicoterapeuta,
Professore a contratto e docente master Università degli studi di Padova
“Genitorialità difficili: tra bambino, famiglia, scuola e servizi”
pag. 77
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TERZA SESSIONE
BULLI E VIOLENTI A SCUOLA
Prof. Daniele Fedeli – Ricercatore, Docente di Psicologia delle Disabilità
Università degli Studi di Udine
“Strategie d’intervento antibullismo: la costruzione della “safe school”
pag. 90
Dott.ssa Marina Camodeca – Ricercatrice di Psicologia dello Sviluppo,
Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti Pescara
“Modelli, comportamenti e dinamiche di gruppo nel bullismo a scuola”
pag. 111
Prof. Dino del Ponte – Dirigente Scolastico ed ex coordinatore settore handicap
e politiche giovanili,Ufficio Scolastico Provinciale di Udine
“Esperienze sul No Bullismo a scuola”
pag. 115
“Esperienze…”
pag. 119
QUARTA SESSIONE
ADOLESCENTI VIOLENTI A CASA
Dott. Francesco Milanese – Tutore Pubblico dei Minori Regione Friuli Venezia Giulia
“Ragazzi violenti? Percorsi di crescita difficili? Che fare? Capirli?
pag. 129
Dott. ssa Serena Casonato – Psicologa Psicoterapeuta familiare,
Centro solidarietà Giovani “Giovanni Micesio” onlus, Udine
“Violenze giovanili nelle famiglie. I percorsi di recupero”
pag. 137
Dott.ssa Ariella Stepancich – Direttore Ufficio Servizio Sociali Minorenni,
Trieste
“L’osservatorio del servizio Sociale penale Minorile”
pag. 143
5
INTERVENTI
INTRODUTTIVI
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Prof. Marzio Strassoldo
Presidente della Provincia di Udine
Un saluto cordiale da parte dell’Amministrazione Provinciale che ormai da otto anni
organizza la Settimana delle Solidarietà ed ogni volta affronta problemi rilevanti per la nostra
comunità.
E’ giusto che la Provincia di Udine si occupi di queste questioni e dei problemi che
coinvolgono singoli soggetti che si trovano in condizioni di bisogno e di fragilità perché si
tratta di questioni che non possono solo essere curate in casi eclatanti nelle singole realtà
comunali ma essendo comportamenti largamente diffusi, devono essere analizzati,
approfonditi, trovando soluzioni a livello di area vasta. Il problema non è risolto da singoli
interventi mirati da singole realtà comunali quando il territorio circostante continua ad essere
affetto da comportamenti devianti diffusi che qui andremo ad affrontare.
Oggi è stato scelto un tema di attualità, di rilevanza notevole. Non abbiamo più i militari, le
caserme sono svuotate ma ci sono comunque manifestazioni di comportamenti non corretti
nei confronti degli altri, comportamenti di violenza e di prepotenza. Per fortuna questi
atteggiamenti devianti non sono presenti in grande misura nella nostra regione, nella nostra
provincia dove vi è ancora una cultura dominante di rispetto delle norme, dell’ordinamento
giuridico e dei diritti degli altri.
Il tema pertanto è stato opportunamente scelto a cura degli organizzatori in questa settimana
che ha visto sempre grande pubblico e che si contraddistingue come momento di
aggiornamento e di formazione che si colloca in un ambito vasto che è quello di cui la
Provincia deve occuparsi.
Porto il saluto dell’intera Amministrazione provinciale e mi congratulo, con il Dott.
Castellarin, la Dott.ssa Ceccotti e con i loro collaboratori per avere sempre portato avanti
questo programma di vasto coinvolgimento e ringrazio gli operatori sociali, gli insegnanti,
tutti coloro che in qualche modo affrontano quotidianamente problemi di fragilità sociale, per
la partecipazione a questi incontri.
Non si tratta di incontri che si fanno solo per fare, di convegni accademici…l’ampia
partecipazione che ogni anno si manifesta dimostra come queste siano iniziative molto utili
per capire tutta una serie di comportamenti e di bisogni che si manifestano nella comunità e
per trovare le strade per prevenirli o sostenerne la cura. Comunque mi preme dire che anche
in questo caso è un problema di cultura: se non si interviene in tutti campi è difficile trovare
soluzioni in qualche segmento circoscritto, in comportamenti non corrispondenti ad una
corretta visione dei rapporti sociali.
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Anche la tolleranza dei graffiti su case private ed edifici pubblici, sono manifestazioni di
comportamenti che dimostrano che non vi è rispetto per gli altri, per il proprietario di quella
casa, o per quel dirigente scolastico di quella scuola o per quel funzionario pubblico che ha la
responsabilità di mantenere quel edificio a dimostrazione del fatto che i valori del rispetto
della norma e del diritto degli altri evidentemente non sono valori sufficientemente diffusi o
interiorizzati. Molto lavoro vi è ancora da fare in questa direzione; la Provincia cerca di fare il
suo con la collaborazione degli operatori della scuola, del sociale, delle istituzioni private e
del volontariato per creare un clima fortemente consolidato nel rispetto degli altri.
Quindi congratulazioni ancora e ci vedremo il prossimo anno per un nuovo tema di rilevanza
sociale a cui la Provincia insieme a tutti gli operatori ed istituzioni di vario livello potranno
dare contributi di sicuro interesse.
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Adriano Piuzzi
Assessore alle Politiche sociali della Provincia di Udine
Un cordialissimo saluto ma soprattutto un ringraziamento a quanti hanno permesso di
realizzare questo momento importante, momento che mi dà la possibilità di condividere con
tutti voi un tema di notevole rilevanza.
Io credo che in questo ringraziamento generale debba spendere una parola soprattutto per la
struttura a cui posso fare riferimento, la Dott.ssa Ceccotti, i suoi collaboratori, il Dott.
Castellarin consulente scientifico di questa settimana ma soprattutto a voi che siete gli
autentici protagonisti di questa giornata, un grazie agli operatori, ai relatori ed a tutte le
associazioni.
Siamo giunti alla 8^ edizione di questa manifestazione che si è rivelata una felice intuizione,
che si è concretizzata e consolidata nel tempo e radicata sul territorio. Il tema centrale di
questa settimana è di certo la solidarietà, una solidarietà vera senza infingimenti, l’unico vero
antidoto ai fenomeni di disgregazione che purtroppo caratterizzano il nostro tempo e sono
sicuramente individuabili negli egoismi e nella caduta dei valori.
Io vengo da una zona dove la solidarietà, nazionale ed internazionale, ha fatto miracoli. E mi
rivolgo soprattutto ai giovani dicendo che se non c’è futuro non ci sarà solidarietà. La
Provincia si sta muovendo coerentemente anche in riferimento alla Legge Regionale n. 6 del
2006 per un welfare di comunità dove venga esaltato il valore ed il ruolo della famiglia, la
centralità ed il ruolo delle comunità locali e la partecipazione attiva dei cittadini. L’ente di
area vasta ha come sua competenza primaria la programmazione del sistema integrato e la
definizione e l’attuazione dei piani di zona. In questo contesto rientra anche l’iniziativa della
Settimana delle Solidarietà Sociali.
Abbiamo trattato temi di grande importanza. Abbiamo dedicato un’attenzione speciale agli
anziani soprattutto a coloro che in questo momento sono particolarmente fragili ma abbiamo
saputo anche esaltare il ruolo dell’anziano come grande risorsa; grande interesse è stato
dimostrato anche per i temi legati alla famiglia; le ultime due giornate saranno dedicate alle
problematiche della disabilità. Credo che quando una comunità riesce ad affrontare queste
tematiche sia una comunità che vuole andare avanti, che vuole crescere, che vuole ritrovare
quei valori che hanno fatto grande il nostro Paese.
Il tema di oggi è di per sé significato “PREPOTENTI, BULLI E VIOLENTI A CASA E A
SCUOLA”: Conoscerli, comprenderli e contrastarli”.
Credo che in queste 3 parole sia racchiuso il senso di questo incontro. Noi ci ripromettiamo
oggi di raggiungere alcuni obiettivi:
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sensibilizzare gli operatori del sociale, della sanità e del mondo della scuola, fornire capacità
di lettura e di comprensione del fenomeno e di fornire modelli di intervento e di contrasto a
difesa dei bambini fragili e della comunità. Se avremo raggiunto questo obiettivo possiamo
dichiararci soddisfatti.
Io debbo richiamare alcune problematiche. Mi permetto alcune riflessioni a voce alta. Senza
avere la pretesa di dare lezioni, voglio fare alcune considerazioni di carattere amministrativo –
politico su questo fenomeno. Il bullismo si manifesta in modo diretto con il contrasto fisico e
verbale ma soprattutto nella forma indiretta dove si mira all’isolamento delle persone ed a una
intenzionale esclusione dal gruppo. Il bullismo non è un problema di pochi ma dell’intera
società che se ne deve fare carico, anche perché il clima di tensione e di insicurezza che si
instaura crea e creerà ancora dei problemi. Il bullismo è una questione che va affrontata il più
presto possibile e possibilmente risolta. Molti Stati hanno attivato politiche nazionali antibullismo. Le ricerche indicano una diffusione più generalizzata del bullismo nelle classi
elementari e nei primi anni delle scuole medie come fenomeno socio-relazionale e modalità
diffusa di soluzione dei conflitti. Con il crescere dell’età si assiste ad una diminuzione della
frequenza con una maggior radicalizzazione in un numero ristretto di casi come forma stabile
di disagio individuale. A livello sociale purtroppo l’autorevolezza degli adulti molto spesso
tende a ridursi sempre più nel tempo. Tra le altre motivazioni anche la precocità
adolescenziale tipica della nostra società fa si che comportamenti trasgressivi e certe
dinamiche di gruppo tra coetanei si presentino, appunto tra i giovanissimi.
La trasgressione sta diventando norma o quanto meno fa tendenza in una continua gara al
rialzo ed alla estremizzazione dei comportamenti. Ecco io credo che anche il Parlamento
debba occuparsi di questo fenomeno. Ad oggi non esiste nessun iniziativa a livello legislativo
che mira ad affrontare queste problematiche ed a tentare di risolvere i problemi stessi. Il mio
pertanto è un invito che va ai rappresentanti parlamentari, ai nostri produttori di diritto, a
coloro che ci forniscono gli strumenti necessari per giudicare con giustizia il male inflitto.
L’incredibile vuoto legislativo che riguarda questo aspetto ormai evidente della nostra società
favorisce la tolleranza del fenomeno ed una drammatica evoluzione dei suoi effetti. E mi
rivolgo senza infingimenti anche ai media: io credo che quello che è apparso ultimamente
anche sulla stampa locale non faccia bene ai giovani. Questo fenomeno va si contrastato,
circoscritto, ma bisogna fare molta attenzione perché i nostri giovani non sono certamente
quelli che a volte la stampa dipinge.
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PRIMA SESSIONE
Psico – sociologia delle violenze nell’infanzia e
nell’adolescenza
Presiede:
Dott.ssa SILVANA CREMASCHI
Referente U.O. di Neuropsichiatria dell'Infanzia
e dell'Adolescenza
Dipartimento di salute mentale A.S.S. n° 4 "Medio Friuli"
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L’AGIRE IN ADOLESCENZA:
GENESI ED EVOLUZIONE DEI DISTURBI DELLA CONDOTTA
Dott. Ezio Bertossi, Dott.ssa E. Ramaglioni, Prof. Antonio Condini
Unità Operativa Autonoma di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza
ULSS 16 Padova
La contrapposizione tra condotta agita e condotta mentalizzata in adolescenza è della massima
importanza. L’agire rappresenta a questa età una forma di espressione privilegiata dei
conflitti, delle angosce, delle pulsioni che si può manifestare nella vita quotidiana del ragazzo
“normale” assumendo connotati socialmente accettabili ma anche a livello psicopatologico
nei disturbi del comportamento, problematica che rappresenta uno dei motivi più frequenti di
consultazione psichiatrica in adolescenza. Infatti, ad un livello patologico, la sofferenza agita
è spesso sintomatica o di un limite delle capacità del ragazzo di esprimere verbalmente il suo
disagio o di una mancata capacità di elaborazione.
Rilievo fondamentale è che la condotta agita e la sofferenza ad essa sottesa, non
rappresentano un’entità nosografica rigida e definita ma vanno di volta in volta
contestualizzate nell’ambito di una costellazione sintomatologica che può richiamare quadri
sindromici anche molto diversi.
La complessità dell’approccio alle manifestazioni aggressive quindi risiede nel discriminare
normalità da patologia e, nel contesto di quest’ultima, riconoscere gli eventuali quadri
psicopatologici implicati. Infatti, il momento della diagnosi differenziale dell’aggressività
deve poter discernere un sintomo riconducibile a diverse condotte psicopatologiche che
rientrano nelle classificazioni sindromiche dei disturbi psichici e comportamentali. A tal
proposito i due principali manuali diagnostici utilizzati a livello internazionale, il DSM-IV TR
e l’ICD-10, non prevedono specificamente una diagnosi di disturbo aggressivo ma fanno
comparire il termine aggressività nei criteri di diversi quadri clinici per cui questa,
l’aggressività, si configura più come una dimensione transnosografica che non come un
elemento psicopatologico nucleare e strutturante.
Si distinguono quindi quadri psicopatologici in cui tra i criteri diagnostici è esplicitamente
annoverata la presenza di episodi di incapacità di resistere agli impulsi aggressivi,
comportamenti ostili e provocatori, gravi atti aggressivi o distruzione della proprietà o
violenza su animali o persone:
ƒ
Disturbi del controllo degli impulsi (disturbo esplosivo intermittente),
12
ƒ
Disturbi da comportamento dirompente (disturbo oppositivo-provocatorio, disturbo
della condotta e misto emozioni/condotta,
ƒ
Disturbi dell’adattamento con alterazione della condotta o mista emozioni/condotta.
In altri quadri psicopatologici l’aggressività è segnalata come caratteristica associata e non
prettamente come criterio diagnostico (la schizofrenia e gli altri disturbi psicotici; i disturbi
bipolari; il disturbo da deficit di attenzione/iperattività; i disturbi correlati a sostanze; il ritardo
mentale).
Infine, in altri disturbi l’aggressività può essere sottesa ad altre manifestazioni sintomatiche,
come per esempio le valenze suicidarie nei disturbi depressivi, l’irritabilità e
l’eteroaggressività manifestate dal bambino piccolo contro sentimenti depressivi, gli episodi
di intolleranza nel disturbo ossessivo-compulsivo, le crisi di angoscia nei disturbi
generalizzati dello sviluppo ecc…
Da un punto di vista prettamente fenomenologico dunque, l’alterazione comportamentale non
rappresenta di per sé un disturbo ma va contestualizzata nell’ambito di una costellazione
sintomatologica che può fare capo a quadri sindromici diversi.
Anche nella prospettiva psicodinamica l’aggressività e l’antisocialità sono considerate
espressione di una sofferenza che trova la sua esplicazione nell’ambito di diversi quadri
patogenetici. A questo proposito, Mahron (1980) classifica diverse tipologie di adolescenti
devianti, considerando le dimensioni psicopatologiche che sono alla base del conflitto
espresso in maniera agita.
Egli distingue gli adolescenti trasgressivi in:
ƒ
impulsivi, caratterizzati dalla imprevedibilità nel ricorso all’azione, tipica dei ragazzi
che manifestano un comportamento antisociale marcato, anche violento; l’atto
delinquenziale esprime una scarica violenta ed improvvisa di tensione intrapsichica,
per cui di fatto il pensiero non interviene a mediare tra impulso e comportamento
motorio. L’esperienza soggettiva di questi stati interni è quella di un’unica entità,
senza soluzioni di continuità;
ƒ
narcisistici, caratterizzati da una immagine negativa di sé. Questi adolescenti appaiono
ben adattati ma solo superficialmente, spesso come effetto di un atteggiamento
compiacente; in realtà mascherano una scarsa autostima e negli atti trasgressivi usano
e sottomettono gli altri per i propri fini, soprattutto per la regolazione interna
dell’immagine di sé. L’atto delinquenziale rappresenta il tentativo di raggiungere o
mantenere un’immagine di sé adeguata;
ƒ
depressi, caratterizzati dal bisogno e dalla richiesta di aiuto e sollecitudine di tipo
parentale. In questa categoria rientrano gli adolescenti “delinquenti per senso di colpa”
13
descritti da Freud, il cui comportamento deviante è finalizzato a sollecitare una
punizione inconsciamente desiderata e nelle cui modalità relazionali è evidente il
bisogno analitico di oggetti a cui attaccarsi ed appoggiarsi;
ƒ
passivi, caratterizzati da una emotività scarica, privi di alcun desiderio e speranza per
il futuro, autoesclusi dalle relazioni sociali; l’atto delinquenziale è finalizzato ad
evitare la disintegrazione psicotica, attivando emozioni forti nel tentativo di attenuare
il grave stato di desolazione interiore.
L’agire, soprattutto in adolescenza, è collegato fortemente ai numerosi compiti evolutivi che
si pongono dinanzi al ragazzo/a che cresce. Basti pensare alla crisi puberale con le
trasformazioni somatiche che ne derivano sia dal punto di vista sessuale-genitale che di
struttura fisica. L’adolescente si appropria della sua nuova corporeità spesso mettendola “alla
prova”.
In ambito di ruolo sociale l’adolescente inizia l’inserimento nel mondo adulto. La gestione
personale di spazi privati da gestire autonomamente favorisce concretamente l’agire. Spesso
l’interazione con gli adulti è ricercata dal ragazzo con strategie disfunzionali, basate su agiti
provocatori che hanno il compito di attirare l’attenzione su di sé, spesso provocando delle
risposte attuate sullo stesso piano. Il gruppo dei pari quindi, permette al ragazzo di esercitarsi
nella sperimentazione di un ruolo sociale; il gruppo può essere utilizzato come luogo di
esternalizzazione delle diverse parti di sé ma anche come “contenitore” pulsionale e
identificatorio. Allo stesso tempo il gruppo può avere anche una funzione in ambito
psicopatologico, soprattutto su un versante antisociale e può essere usato dagli adolescenti per
“rendere reale la propria sintomatologia potenziale” (Winnicott 1974).
L’acquisizione di un’intelligenza operativa formale dà all’adolescente la consapevolezza di un
nuovo potere del pensiero e lo usa come uno strumento che in sé non ha limiti e non è più
subordinato al reale. Non è raro che l’adolescente avverta il timore di perdersi nel pensiero
(depersonalizzazione) e si senta difensivamente spinto verso condotte agite che “mettono a
riposo” la mente. Agire è nell’adolescenza una necessità ed un diritto, come sostiene
Winnicott (1968), correlando “agire-avere idee”: infatti agire “e” avere idee può trasformarsi
in agire “o” avere idee; di conseguenza l’agire diventa un freno alla condotta mentalizzata e
l’azione non è più preparata dal pensiero ma deriva da fantasmi interni.
Compito evolutivo imprescindibile a quest’età è il superamento della seconda fase di
separazione-individuazione (Senise 1990). La minaccia di annichilimento nella diade madrebambino ed il desiderio di affermazione personale richiedono una presa di distanza che può
essere anche molto fisica. L’agito può servire per negare la passività che in quel momento
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l’adolescente sperimenta di fronte agli sconvolgimenti in atto ed evitare il dolore e la
depressione che potrebbero derivare dall’elaborazione del lutto conseguente la perdita degli
oggetti infantili (Marcelli 1983). La difficoltà a separarsi può diventare la causa di
comportamenti aggressivi in famiglia quando il legame con i genitori è di tipo simbiotico: si
tratta per lo più di ragazzi miti al di fuori delle pareti domestiche che scatenano tutta la loro
aggressività nel rapporto con i genitori, quasi a voler lacerare violentemente un cordone
ombelicale non ancora reciso. La sofferenza dell’adolescente derivata dall’ambivalenza
lacerante tra volontà di separarsi e angoscia di essere abbandonato, viene espressa
violentemente.
Le dinamiche identificatorie nella relazione del figlio adolescente con i propri genitori
rimangono per lungo tempo complesse e conflittuali; il comportamento violento del ragazzo
può rappresentare la manifestazione agita di desideri trasgressivi e tendenze aggressive
proprie dei genitori, l’esteriorizzazione di continui meccanismi di proiezione ed
identificazione proiettiva: il figlio si costruisce un’immagine negativa di sé quale gli viene
rimandata dai genitori che ritrovano nel figlio la loro stessa aggressività che li spaventa e li
rende ostili verso il figlio stesso. Anna Freud (1965) sottolinea il ruolo determinato dallo stile
educativo genitoriale nella genesi della trasgressività adolescenziale: l’incoerente alternarsi di
permissività eccessiva e limitazione ostile impedisce a questi ragazzi una stabile
interiorizzazione del controllo.
E’ ben nota la tesi di Winnicott secondo cui “crescere è per natura un atto aggressivo” e che
trova il suo apice nell’assassinio delle immagini parentali: tuttavia è necessario che i genitori
sopravvivano a tale distruzione. Il soggetto quindi distrugge un oggetto interno primitivo ma
l’oggetto esterno sopravvive alla distruzione. L’adolescente violento non riesce a superare la
fase di distruzione interiore degli oggetti infantili, rimanendo bloccato nella fase di
“relazione” e non giungendo all’ “uso” dell’oggetto reale. La distruzione che egli fantastica
deborda nella realtà e si confonde con la distruzione dell’oggetto reale; l’identità che va
costituendosi è impregnata di controllo onnipotente e negazione della dipendenza dagli altri:
per scongiurare la frammentazione l’oggetto è investito soltanto in funzione del sostegno
narcisistico del Sé. (Novelletto 2001).
Le ricadute psicopatologiche possono essere anche molto gravi. Kernberg (1987) descrive
l’elevato potenziale di violenza che si instaura nelle personalità caratterizzate dal terrore di
sentire il bisogno dell’oggetto e di esserne dipendenti, terrore che scatena il tentativo di
attaccare l’oggetto stesso e che si esprime nell’atteggiamento di indifferenza nei confronti
della vita e nell’assenza di legami.
15
Molte espressioni di violenza dell’adolescente con un disturbo di personalità possono essere
considerate come le prime tracce di una condizione interna a rischio di frammentazione, dalla
quale il ragazzo si difende tentando violentemente di riacquisire una certa coesione del Sé
(Monniello 2004).
In adolescenza, all’identità soggettiva ancora fragile si associa un progressivo venir meno del
senso di appartenenza familiare, non ancora sufficientemente sostituita dall’identità sociale
nascente, troppo incerta per poter costituire una base sicura dalla quale entrare in relazione
con il mondo; quando l’identità familiare e sociale sono contemporaneamente troppo fragili
ed incerte, l’atto aggressivo può essere utilizzato dall’adolescente come una sorta di surrogato
del processo di acquisizione di un’identità adulta.
Sono state indagate anche diverse caratteristiche della famiglia, per verificare quali variabili
risultino più strettamente associate ai comportamenti aggressivi nei figli. Gli studi indicano
come elemento dirimente nella genesi di comportamenti aggressivi e distruttivi, la capacità o
meno genitoriale di gestire le funzioni parentali; la struttura relazionale della “famiglia a
rischio” è caratterizzata da un basso grado di coinvolgimento genitoriale, spesso associato a
scarse capacità di controllo e assenza di regole familiari chiare e coerenti con conseguente
incapacità di gestire il conflitto generazionale: l’atteggiamento rigido ed estremamente
punitivo da parte dei genitori può facilitare l’atteggiamento esternalizzante su base aggressiva
del figlio (Wasserman et al. 1996, Stormshak et al. 2000). Il basso grado di coinvolgimento
parentale è il substrato per lo sviluppo di un attaccamento insicuro nel figlio e di
atteggiamenti di abbandono e di rifiuto da parte dei genitori: lo “stile relazionale
abbandonico” (neglecting) implica anche una scarsa sorveglianza, derivante da un’assenza di
preoccupazione nei confronti dei figli, che determina in loro la percezione della
deresposabilizzazione dei genitori (Maggiolini e Riva 1999, Vismara e Ammaniti 2005).
È stato anche molto approfondito il legame esistente tra gli adolescenti maschi e il padre
(Pietropolli Charmet 1990, Pietropolli Charmet 1995, Pietropolli Charmet e Riva 1994): in
queste famiglie il padre è spesso assente (per mancato riconoscimento del figlio, per
separazioni e divorzi, per malattie o morte) o estremamente ambivalente (figura debole,
psicologicamente depressa o malata, anche se spesso caricaturalmente autoritaria, il cui ruolo
non viene riconosciuto in famiglia, anche se detiene magari un potere formale). Proprio nella
fase in cui il ragazzo ha più bisogno del genitore dello stesso sesso per consolidare le proprie
acquisizioni, si scontra con l’allontanamento del padre e reagisce cercando di assumere su di
sé una pseudo-virilità maschile dai tratti stereotipati e caricaturali, estremo tentativo di ricerca
di un modello identificatorio.
16
Per quanto riguarda lo stato socio-economico della famiglia, i dati forniti dalle statistiche
ufficiali mostrano complessivamente un attenuarsi della correlazione tra condizioni socioculturali disagiate e devianza: nel contesto sociale urbano italiano la relazione tra devianza
minorile e marginalità socio-economica si è fatta, nell’ultimo decennio, più labile.
Un dato importante sembra risultare la numerosità della famiglia. La nascita di un fratello
determina una riorganizzazione psichica inconscia che si esprime in una complessità di
fantasie, rappresentazioni ed affetti, associata a una rinegoziazione delle precedenti relazioni
intrafamiliari (Algini 2003). I figli nati nella stessa famiglia sono posti di fronte a una doppia
situazione: da una parte il condividere “lo stesso nido” e quindi un’intimità evolutiva e una
sincronizzazione dei bisogni, che esige la stessa parte della stessa cosa nello stesso momento
(che viene chiamata positivamente sentimento innato di giustizia e negativamente gelosia);
dall’altra il sopportare una gerarchizzazione dei rapporti, legata all’età, allo statuto, al potere,
ai privilegi. L’elaborazione di questa doppia situazione consiste in una progressiva
dissociazione, dal fratello come simile a sé al fratello come differente da sé (Bourguignon
2003).
EPIDEMIOLOGIA
Non esistono dati incontrovertibili per quantificare la prevalenza dei disturbi della condotta.
La maggior parte degli studi epidemiologici riportano una prevalenza tra i 4 ed i 18 anni del
5-7% con un aumento in adolescenza al 7-10%. Molti ricercatori in Italia reputano
ragionevole stimare un dato al 5% e senza differenze significative tra i due sessi.
Qualunque sia il quadro clinico preso in considerazione i dati di prevalenza oggi disponibili in
Italia sono molto pochi, basati su popolazioni esigue o per lo più tratti da casistiche cliniche
quindi affatto affidabili per poter ragionevolmente inferire sull’intera popolazione di minori.
Fa eccezione la prima ricerca epidemiologica multicentrica italiana dei disturbi psichici tra
preadolescenti in età compresa tra i 10 ed i 14 anni, residenti in zone urbane. Si tratta del
progetto PriSMA (Progetto Italiano Salute Mentale Adolescenti). Del campione considerato è
risultato che il 9.1% ha soddisfatto i criteri per un disturbo psichico secondo la classificazione
DSM-IV. Nello specifico dei disturbi della condotta ne è risultato colpito l’1% della
popolazione considerata, senza differenze di rilievo tra i sessi.
LA PRESA IN CARICO TERAPEUTICA DELL’ADOLESCENTE CON DISTURBO
DELLA CONDOTTA
Gli approcci alla sofferenza agita adolescenziale possono essere molteplici: psichiatrici,
psicologici, psicoeducativi, socio-assistenziali, penali. In ogni caso è importante che chi ha a
che fare con questi ragazzi condivida l’opinione che la condotta esternalizzata rappresenta una
17
forma di comunicazione ed una manifestazione evidente, talora paradossale, di una sofferenza
interna per lo più non consapevole. Prioritario quindi è, ancor prima di pensare al “cosa fare”
per loro, il dare significato ed intelligibilità a questa modalità di espressione. Non a caso il
significato più profondo del termine “trattamento” rimanda proprio a una “modalità di
accogliere” e, indirettamente, anche all’idea di “elaborare”, due significati che rappresentano
in sé il filo conduttore di ogni intervento che venga pensato per questi adolescenti.
La complessità dei fattori eziopatogenetici, la frequente compresenza di quadri clinici,
l’associazione di situazioni sociali e familiari compromesse, la pervasività del disturbo
rispetto ai vari ambienti di vita sono elementi che insieme determinano la difficoltà e spesso
l’inefficacia dei trattamenti. La letteratura mostra la severità della prognosi di questi tipi di
disturbi, con recidive frequenti e tendenza alla sovrapposizione nel tempo di numerose
problematiche quali abuso di sostanze, delinquenza, antisocialità (Storm-Mathisen e Vaglum
1994, Offord e Bennett 1994, Vermeiren et al. 2000).
I parametri attualmente condivisi per il trattamento dei bambini e degli adolescenti con
disturbo della condotta, prevedono che la presa in carico debba avvenire necessariamente per
tempi lunghi e che debba coinvolgere sempre, oltre che il ragazzo, tutti gli ambiti in cui lo
stesso si trova a vivere. È il modello di approccio multimodale, o in rete, che si concretizza
nel confrontare proficuamente i vari contesti in cui il ragazzo vive (servizi neuropsichiatrici,
la scuola, i servizi sociali, i servizi educativi, le associazioni sportive, i gruppi parrocchiali…)
concertando progetti condivisi per lavorare in rete ognuno con le proprie specificità (Muratori
2004). L’approccio multimodale è sostenuto anche nei Paesi Anglosassoni (Henggeler 1999),
nell’ambito di terapie definite multisistemiche che cercano di agire sui differenti fattori che
contribuiscono all’emergere del comportamento deviante, prevedendo un livello di intervento
individuale, familiare, extrafamiliare, psicofarmacologico, condotti all’interno di una
medesima équipe.
Strutturare una modalità di “lavoro in rete” significa mettere in contatto figure professionali
distinte che, con il loro operare, realizzano un risultato integrato che è qualcosa di più della
semplice sommatoria dei singoli interventi separati. È importante sottolineare che i vari
soggetti dell’intervento non devono perdere la loro specificità (diverso ruolo istituzionale,
diversa formazione ecc…) confondendosi. Non è raro infatti sentire parlare di psicologi che
fanno gli educatori o di educatori che fanno gli psicoterapeuti. Interagire mantenendo la
propria identità è ciò che conferisce alla modalità di lavoro in rete la sua difficoltà ma anche,
e soprattutto, il suo valore. In questi termini forse, la definizione di “équipe
multiprofessionale” pare più adatta ed esplicita anche se perde il fascino della metafora che la
“rete” porta con sé. Quest’ultima richiama infatti l’immagine dei nodi, i soggetti coinvolti
18
nell’intervento, distinti tra loro (separatezza/identità dei protagonisti) ma collegati da dei fili,
la comunicazione e lo scambio, in grado assieme di coprire una superficie molto vasta, le
diverse dimensioni che compongono una persona, lasciando però dei buchi, regolari e
prevedibili, lo spazio fisico e mentale entro cui ogni adolescente può sperimentarsi e crescere
(Bertossi 2004).
Condiviso il modello d’approccio multimodale consideriamo ora separatamente i principali
tipi di intervento.
LA PSICOTERAPIA
La possibilità di basare la presa in carico terapeutica per adolescenti violenti esclusivamente
su un percorso psicoterapeutico individuale rimanda all’interrogativo realistico sulla
trattabilità di queste difficoltà nell’ambito di un setting analitico classico. Già Winnicott nel
1957, partendo dalle proprie riflessioni sul significato e sulle cause della delinquenza e della
tendenza antisociale, concludeva che “il trattamento analitico non è elettivo per questi tipi di
pazienti” e ciò ancor più nell’età adolescenziale. Le evidenze più recenti tendono a
confermare questa considerazione.
La scarsa motivazione personale ed il basso insight rendono critico il lavoro clinico con questi
ragazzi; essi presentano una scarsa attitudine alla mentalizzazione e alla simbolizzazione e
non sono in grado da soli di attribuire significato agli agiti; per questo motivo il tentativo di
interpretazione del significato affettivo del gesto richiede una specifica elaborazione
psicologica. La sospensione dell’azione a favore della mentalizzazione diventa obiettivo
fondante dell’intervento psicoterapico, finalizzato all’individuazione del significato simbolico
sotteso al comportamento (Maggiolini e Riva 1996).
Comprendere e tollerare la rabbia che pervade anche il terapeuta è un momento importante e
delicato, direttamente collegato all’emergere transferale nella relazione della rabbia
narcisistica; la risposta terapeutica diventa quindi fondamentale ma deve avvenire all’interno
di una consolidata protezione narcisistica, comunque sufficientemente aperta da tollerare
piccole dosi progressive di frustrazione.
Proprio perché la dinamica transferale possa mantenersi nei margini di tollerabilità, è utile
poter pensare di “aprire” lo spazio terapeutico, confrontandosi con modelli di intervento
articolati e quindi con la creazione di uno “spazio terzo”, esterno al setting individuale, che
assuma la funzione di mediatore e permetta un accesso alla simbolizzazione mediante
modalità vicarianti: da questo punto di vista il percorso psicoterapeutico può essere
efficacemente affiancato, da interventi di tipo educativo residenziali o semiresidenziali,
19
oppure trattamenti in ospedale, sia in regime di ricovero sia in regime di DH (Monniello
2004).
Alcune possibilità d’intervento sono state documentate per quanto riguarda le terapie
cognitivo-comportamentali e le terapie familiari ad orientamento sistemico determinando
miglioramenti sintomatologici sufficientemente duraturi nel tempo (Brestan e Eyberg 1998,
Farmer et al 2002, Van de Wiel et al. 2002).
Anche la terapia di gruppo è stata indagata e uno studio recente (Mager et al. 2005) ha
evidenziato che gli adolescenti in trattamento all’interno di un gruppo “omogeneo” mostrano,
durante la terapia e nel follow-up, comportamenti più adattati e meno disturbanti rispetto a
quelli in trattamento in un gruppo “non omogeneo”.
IL TRATTAMENTO FARMACOLOGICO
Non esiste ad oggi un farmaco specifico contro i comportamenti aggressivi, proprio perché le
condotte aggressive possono rientrare in un vasto quadro di disturbi con diversa patogenesi. In
questo contesto la valutazione diagnostica assume una valenza fondamentale, in quanto
determina la scelta a livello psicofarmacologico.
Tale approccio deve essere intrapreso nei casi in cui il disturbo determini una
compromissione significativa del funzionamento del paziente e/o del suo ambiente. Non
dovrebbe mai essere utilizzato come unico presidio terapeutico.
Esistono in letteratura molti studi, in aperto o in doppio cieco verso placebo, che hanno
approfondito il trattamento farmacologico dell’aggressività inquadrabile all’interno di un
disturbo della condotta in età evolutiva (Burke 2002, Frazier 2003). Molti sono i dati a favore
dell’utilizzo in questi disturbi degli stabilizzanti dell’umore come il Litio, l’Acido Valproico,
la Carbamazepina, dei neurolettici tipici (Aloperidolo) e atipici (Risperidone, Clozapina,
Olanzapina),
degli
stimolanti
(Metilifenidato),
degli
SSRI
(Citalopram,
Elopram,
Fluoxetina…) e di altre molecole.
È sufficientemente condiviso che il Risperidone appare utile nel trattamento dell’aggressività
impulsivo-reattiva, soprattutto se il soggetto presenta una parziale ma significativa alterazione
dell’esame di realtà, distorsioni percettive o del pensiero, se gli episodi di aggressività
appaiono circoscritti ed esplosivi, associati a fattori di stress e di sovraccarico, oppure se è
richiesto un rapido inizio dell’azione terapeutica.
In presenza invece di un comportamento aggressivo che presenta importanti caratteristiche
affettive quali sbalzi d’umore frequenti, irritabilità elevata, risposte eccessive alle normali
stimolazioni ambientali o un pattern bipolare è più indicato uno stabilizzante dell’umore quale
il valproato.
20
L’utilizzo di un SSRI va considerato quando sono evidenti sintomi di tipo depressivo-disforici
e/ ansiosi ed una volta escluse altre possibili diagnosi. Va sempre considerata la possibilità di
induzione di un’attivazione comportamentale o di uno stato maniacale (de Rènoche 2005).
Come nelle altre patologie di pertinenza neuropsichiatrica infantile la monoterapia alla dose
minima efficace è sempre preferibile. In selezionati casi è possibile ricorrere a delle
associazioni in articolare quando l’uso di uno stabilizzante, assieme ad un neurolettico già ad
alto dosaggio, può consentire la riduzione posologica di quest’ultimo.
Ad ogni modo l’uso dei farmaci va sempre considerato ed attuato con le cautele che deve
sempre avere un intervento di questo tipo. Mi riferisco in particolare alla necessaria ma spesso
troppo labile compliance che genitori ed adolescenti offrono e quindi ai rischi che un uso
incongruo dei farmaci può generare. Il significato del farmaco può inoltre essere vissuto, dal
ragazzo ma spesso dalla famiglia, come un’intrusione, un agito del clinico nei loro confronti.
Ciò genera un rapporto ambivalente, fatto di speranze, rabbia, richiesta, rifiuto verso la
molecola e chi la prescrive.
L’INTERVENTO PSICOEDUCATIVO
In adolescenza la revisione del rapporto con le norme di comportamento e con i sistemi di
valori appresi durante l’infanzia è parte costitutiva del processo di crescita: l’adolescente
mette in discussione le regole che gli sono state insegnate, per poterle fare proprie, per
modificarle, per accettarle o per rifiutarle.
L’intervento educativo domiciliare e le strutture educative di stampo residenziale o
semiresidenziale sono diventate negli ultimi anni una fondamentale risorsa pedagogica e
sociale nella gestione degli adolescenti violenti o trasgressivi, a cui è spesso necessario
ricorrere per affrontare il disagio che si manifesta nelle sue forme più allarmanti.
La comunità può essere vista come un’organizzazione all’interno della quale si costruiscono
relazioni rivolte alla promozione e allo sviluppo dell’identità personale e dei processi di
socializzazione del ragazzo; da questo punto di vista la comunità può assolvere a un ruolo di
supporto e di contenimento sul quale si basa lo sviluppo e la costruzione della personalità.
Le strutture semiresidenziali ricoprono fondamentalmente un ruolo di supporto nella gestione
di alcuni aspetti della vita quotidiana, È fondamentale che ci sia un’ampia partecipazione
genitoriale, disponibile al confronto ed alla messa in discussione.
Le strutture residenziali invece si presentano come un sistema relazionale alternativo alla
famiglia, all’interno del quale le relazioni primarie vengono sostituite dal rapporto con più
figure di riferimento e dove il confronto con i coetanei risulta prioritario rispetto a quanto può
21
verificarsi all’interno della famiglia, quando il gruppo di coetanei può entrare in conflitto con
il ruolo educativo che la famiglia pretende debba essere esclusivo (Scardaccione 2003).
L’attività operativa che le strutture educative possono attivare nei confronti dei minori
trasgressivi, deve prevedere una progettualità chiara su cui fondare gli interventi e valutare gli
obiettivi. In particolare gli interventi debbono articolarsi all’interno di determinate aree, quali
il confronto con le regole, lo sviluppo della sfera motivazionale, il rapporto con eventuali
sanzioni, la dimensione affettivo-relazionale. La comunità “…è uno spazio di cure fatto di
elementi empirici, di circostanze, di interrelazioni complesse che si intrecciano a partire da
un’infinità di compiti, di azioni, di parole, di emozioni e di vissuti…; in essa, contrariamente
al modello di cura fondato sulle rappresentazioni o sul processo associativo…, il
cambiamento passa attraverso l’oggetto esterno considerato non solo nelle sue funzioni
classiche (identificazioni) ma nelle funzioni di oggetto trasformativo…”. (Cahn 1987).
Nello specifico, coerentemente al concetto delineato da Winnicott di spazio transizionale,
metafora dello spazio terapeutico istituzionale ed alle successive applicazioni e sviluppi, è
d’uopo che un’istituzione per la presa in carico di adolescenti debba essere polivalente
configurandosi come un’area intermedia e terza che consenta all’adolescente di sentirsi
protagonista di una ricerca e fornisca occasioni per utilizzare il Servizio nel modo più
consono al suo attuale funzionamento psichico (teoria dell’“istituzione transizionale”). Questo
continuo lavoro autoanalitico rende possibile il configurarsi dell’Ospedale Diurno come “sito
analitico allargato”. (Monniello, Spano 2003).
L’OSPEDALIZZAZIONE
In presenza di comportamenti violenti in cui il ricorso alla forza fisica impedisce di fatto una
gestione ambulatoriale, l’ospedale diventa il luogo privilegiato dove contenere la crisi e
contemporaneamente programmare un percorso di approfondimento psicopatologico e
terapeutico.
L’ospedale si configura come un contenitore e come uno spazio all’interno del quale sia
possibile dare figurazione ai contenuti intrapsichici. La presenza di regolari spazi di
psicoterapia per il ragazzo e di sostegno psicologico per i genitori, favorisce la possibilità di
poter pensare ed esprimere con le parole le emozioni e gli affetti. Gli aspetti di cura e
protezione insiti nella strutturazione di un ambiente medico favoriscono il processo di
accettazione di un eventuale trattamento farmacologico.
La scelta del regime di ricovero oppure del day-hospital deve tenere conto di molteplici fattori
tra i quali, ad esempio, l’opportunità o meno di mantenere legami sociali e familiari; gli studi
22
di efficacia non hanno mostrato la superiorità di un intervento sull’altro (Erker et al.1993,
Leone et al. 1986).
LA FUNZIONE “TERAPEUTICA” PARENTALE
Numerosi studi sottolineano come il grado di attenzione e monitoraggio dei comportamenti
aggressivi da parte dei genitori, le modalità di interazione che rinforzano i comportamenti
aggressivi nei figli, la scarsa motivazione negli atteggiamenti prosociali, gli stili educativi
rigidi e coercitivi o al contrario l’assenza di contenimento e di limiti possono sviluppare o
esacerbare atteggiamenti aggressivi in famiglia (Wasserman et al. 1996, Snyder et al. 2005). È
dimostrato che le pratiche genitoriali possono essere predittive di comportamenti devianti e
che modificazioni di tali pratiche possono avere un impatto significativo sulla funzionalità dei
figli (Stormshak et al. 2000, Dishion and Andrews 1995).
Fattori di stress genitoriale come la conflittualità, le separazioni, i lutti modificano le modalità
interattive familiari, risultando determinanti nella strutturazione di comportamenti aggressivi
in problematiche socio-relazionali, insuccesso scolastico, abuso di sostanze.
È tuttavia fondamentale sottolineare come il successo di interventi su adolescenti con disturbo
della condotta è fortemente legato al lavoro che è possibile fare con i genitori. Anche nelle
situazioni più compromesse dal punto di vista sociale e che richiedono la messa in atto di
interventi più contenitivi (quelli residenziali e semiresidenziali) è prassi condivisa quella di
poter comunque lavorare, ove possibile, anche nella dimensione della genitorialità e non solo
come intervento di sostegno e monitoraggio. In tutti i casi il coinvolgimento parentale deve
essere sollecito e strutturato in modo preciso ma allo stesso tempo flessibile in modo da poter
tollerare le continue messe alla prova che i genitori, nel perpetuarsi di uno stile relazionale
transgenerazionale condiviso dai loro stessi figli, mettono in atto verso di noi. Il tollerare
accogliendo, significando non giudicando, tantomeno espellendo, può consentire alla coppia
genitoriale una risignificazione interna che può generare cambiamento nella dinamica
affettivo-relazionale del nucleo famigliare, adolescente agitato compreso.
L’opportunità di intraprendere un percorso così spesso difficile nasce anche dalla
consapevolezza che, per dirlo con, le parole di Braconnier: ”una legge che non conosce
eccezioni vuole che ad ogni colpa o pena della psiche corrisponda un lavoro che spetta all’Io.
Questa legge si applica evidentemente al lavoro del lutto. Ne risulta come corollario che ogni
lavoro rifiutato dall’Io peserà su altre spalle e altre persone. Nel frattempo il peso si
moltiplicherà”.
Meritano menzione, per i buoni risultati spesso riportati in letteratura, i programmi di Parent
(Management) Training. Essi sono nati proprio nel tentativo di dare una risposta concreta alle
23
disfunzionalità delle famiglie. Si tratta di un insieme di procedure con le quali i genitori
vengono aiutati a modificare i comportamenti propri e del loro figlio, grazie alla conoscenza
dei processi di interazione sociale e all’apprendimento di tecniche di correzione degli
atteggiamenti; i genitori vengono allenati a promuovere i comportamenti desiderabili nei figli
e allo stesso tempo minimizzarne i comportamenti maladattativi; inoltre vengono loro
suggerite strategie di disciplina più efficaci, compresi i rinforzi positivi e le punizioni
prevedibili e chiare (Van de Wiel et al. 2002).
I trattamenti basati sul Parent Training sono ad oggi considerati, nella pratica clinica, tra i più
efficienti nell’approccio ai disordini comportamentali, soprattutto se vengono seguiti da
entrambi i genitori ed iniziano precocemente (Kazdin et al. 1997, Brestan e Eyberg 1998,
Farmer et al. 2002).
STUDIO CLINICO
Un ulteriore approfondimento alla trattazione circa l’agire adolescente, può venire dal
considerare la casistica ambulatoriale afferente presso l’UOA di neuropsichiatria dell’infanzia
e dell’adolescenza dell’ULSS 16 della regione Veneto, presso cui lavoro. Tale studio è stato
condotto con la gentile collaborazione della neuropsichiatra infantile dott.ssa E. Ramaglioni.
Sono stati analizzate le caratteristiche dei casi di adolescenti pervenuti al nostro Servizio per
problematiche comportamentali (aggressività, impulsività e comportamento antisociale) da
gennaio 2001 a dicembre 2004, dal momento diagnostico alla presa in carico terapeutica, allo
scopo di studiare:
• Il
processo
d’inquadramento
diagnostico
(diagnosi
psichiatrica
vs
valutazione
psicodinamica);
• Il processo di formulazione del progetto terapeutico (intervento psicologico, intervento
educativo, intervento farmacologico, ricovero, trattamenti multidisciplinari);
• La compliance terapeutica ed i fattori che la influenzano;
• L’evoluzione clinica (ovvero l’efficacia degli interventi attuati)
RISULTATI E DISCUSSIONE
Il campione, che raggruppa tutte le situazioni con richiesta di consultazione per problematiche
comportamentali (aggressività, impulsività, condotte antisociali), conta 123 adolescenti tra gli
11 e i 19 anni con una maggioranza di maschi (69%). Questo rilievo è concorde ai risultati di
altri lavori nell’evidenziare come l’agito eterodiretto, specie quello aggressivo, sia una
modalità di espressione del disagio più frequente nei soggetti maschi rispetto alle femmine
24
che presentano più spesso problematiche di tipo somatico o affettivo (Ammaniti, 2002;
Loeber et al, 2000; Cohen et al, 1993; DSM-IV; Maughan et al, 2004).
Relativamente all’età del campione emerge una sostanziale omogeneità nelle varie fasce, con
un lieve decremento di numerosità nella fascia 17-19 anni; questo dato suggerisce una
diversità di espressione del disagio nei tardo adolescenti, forse per l’acquisizione di migliori
capacità di mentalizzazione dei conflitti con minore ricorso al sintomo comportamentale. Tale
dato, che conferma quelli derivati dagli studi casistici di adolescenti pervenuti ai nostri
ambulatori per varie problematiche (Gatta, Giovanatto, Condini, 2003; Gatta, Salviato,
Talamini, et al, 2004), è inoltre spiegabile alla luce di come è strutturata la Neuropsichiatria
territoriale e della collaborazione con la psichiatria dell’adulto dove viene portato avanti il
percorso di presa in carico dopo la maggiore età. La correlazione sesso-età ha evidenziato
come i maschi si distribuiscano prevalentemente nelle fasce d’età relative alla prima-media
adolescenza e le femmine alle fasce d’età relative alla media-tarda adolescenza.
Tra i dati relativi alla scolarizzazione va evidenziato il 5% di sospensione della frequenza
scolastica nonostante l’età di obbligo formativo; tale risultato conferma quanto riportato in
letteratura circa l’associazione tra insuccesso scolastico e disturbi comportamentali. (Gardner,
1971; Power et al, 1972; Bennet et al, 2003; Burke et al, 2002; Carroll et al, 2005).
I dati relativi all’accesso indicano che nel 26% dei casi la consultazione è stata richiesta
spontaneamente dalla famiglia (in un solo caso dall’adolescente), mentre è avvenuta su invio
nel 74% dei casi. Considerando anche che nel 95% dei casi la problematica comportamentale
era evidente da più di sei mesi, tali dati suggeriscono come ci sia, soprattutto da parte della
famiglia, ma anche dell’adolescente stesso, una difficoltà a considerare il sintomo
comportamentale come indicatore di disagio. Questi adolescenti vengono piuttosto considerati
“cattivi” anziché sofferenti e bisognosi di aiuto (Snyder et al, 2005).
Il livello culturale delle famiglie di provenienza è risultato basso nel 25% dei casi, medio nel
55% ed alto nel 20% confermando i dati della letteratura relativi all’Italia che mostra
complessivamente un attenuarsi della correlazione tra condizioni socioculturali disagiate e
devianza. Come anticipato in Italia, nel contesto socioculturale urbano, la relazione fra
trasgressività minorile e marginalità socioeconomica tende a farsi sempre più labile tra i
minori (Maggiolini e Riva, 2003).
L’urgenza della consultazione è stata suddivisa in oggettiva e soggettiva. Le richieste di
consultazione sono risultate urgenti nel 38% dei casi (di cui il 9% urgenza soggettiva e il 29%
urgenza oggettiva), mentre nel 62% era assente il carattere d’urgenza. Nelle fasce minori
d’età l’urgenza è di tipo soggettivo e quindi per lo più percepita come tale dai genitori
piuttosto che come condizione oggettiva valutata dagli operatori; mentre nelle fasce d’età
25
maggiori l’urgenza è stata rilevata principalmente come condizione oggettiva. Tale dato può
essere interpretato alla luce delle modalità con cui si manifesta il disordine comportamentale
che nella prima adolescenza tende ad esprimersi sotto forma per lo più di aggressività (agiti
aggressivi fisici e verbali) rispetto alla tarda adolescenza dove i comportamenti divengono più
strutturati in senso antisociale (uso di sostanze, vandalismo) (Maggiolini Riva, 2003).
Nel 72% dei casi è stata riportata una storia precedente d’eventi stressanti. Questi si
riferiscono a lutto familiare (10%), malattia fisica o mentale in famiglia (10%), conflittualità
e/o separazione della coppia genitoriale (17%), maltrattamento o abuso (5%), adozione (5%),
malattia fisica dell’adolescente (4%), stress scolastico (6%), associazione di due o più degli
eventi stressanti menzionati (15%). (20) Essi risultano collocarsi durante la prima infanzia (05 anni) nel 14% dei casi, durante la fase di latenza (6-10 anni) nel 14%, in preadolescenza e
adolescenza (dagli 11 anni) nel 16% dei casi. Nel 28% dei casi uno o più eventi stressanti
segnano la storia del paziente durante tutto il suo corso (deprivazione, malattia fisica/mentale
cronica di un familiare, malattia fisica del paziente stesso, conflittualità genitoriale)
costituendosi come condizione traumatica ripetuta. Si tratta quindi di fattori di rischio per lo
più attinenti all’ambito familiare e che si verificano nella maggioranza dei casi nel periodo
della prima-seconda infanzia.
I sintomi rilevati durante la consultazione sono stati solo in una piccola parte del campione
(3%) esclusivamente comportamentali. Nel 42% dei casi sono in associazione a sintomi
psicologici, nel 40% a sintomi psicologici e fisici e nel 4% a sintomi fisici (la restante
percentuale è relativa al rilievo di sintomi psicologici da soli o in associazione a sintomi
fisici). Tali dati, assieme a quelli relativi alla diagnosi formulata secondo la classificazione
ICD-10, confermano la dimensione transnosografica del sintomo comportamentale. Infatti si
rilevano disturbi della condotta (29%) e di personalità (22%), disturbi d’ansia (14%) e
affettivi (12%), disturbi psicotici (7%), disturbi alimentari (1%), ritardo mentale (7%) 2
diagnosi in comorbilità (2%). I disturbi di personalità sono risultati 17 di tipo borderline - di
cui uno in associazione con disturbo depressivo – 5 antisociale, 2 schizoide e 1 schizotipico; il
secondo caso di diagnosi in comorbilità corrisponde ad un disturbo ossessivo-compulsivo in
associazione a disturbo da uso di sostanze. (Romani, Di Scipio, Levi, 2003).
Dall’incrocio della variabile diagnosi con genere ed età emerge una prevalenza di disturbi
della condotta, disturbi psicotici, ritardo mentale e disturbi affettivi nei maschi rispetto alle
femmine. Nel sesso femminile prevalgono le diagnosi relative a disturbo di personalità in
particolare di tipo borderline. A tal proposito uno studio di Lester (2005) su adolescenti
violenti americani ipotizza che le condotte aggressive sarebbero più probabilmente un segno
di sofferenza nelle ragazze e pertanto correlate ad altri segni di disagio, compreso il
26
comportamento autolesivo (tipico del disturbo borderline di personalità). Circa l’età è
evidente una maggiore percentuale di disturbi della condotta nella fascia d’età 11-13 anni,
diagnosi che tende a diminuire con l’aumentare dell’età lasciando maggior spazio in tarda
adolescenza alla diagnosi di disturbo di personalità. Questo dato trova conferma in letteratura,
rafforzando il dato relativo all’evoluzione del disturbo di personalità in soggetti con pregressa
diagnosi di disturbo della condotta.
L’iter diagnostico, concordato con la famiglia e quindi secondo la sua disponibilità, non si è
concluso con la restituzione nel 16% dei casi. Nei restanti casi il progetto terapeutico
formulato ha previsto una psicoterapia strutturata individuale o di gruppo nel 18%, un
sostegno psicologico nel 20%, integrati a un intervento educativo semiresidenziale nell’11%
dei casi; quest’ultimo è stato proposto come intervento esclusivo nel 3% dei casi, nel 2% dei
casi è stato necessario un ricovero ospedaliero e/o un trattamento farmacologico, nel 12 % dei
casi l’iter diagnostico si è concluso con la proposta di un monitoraggio periodico della
situazione clinica del paziente. Conseguenza della variabilità del quadro clinico in cui la
condotta agita può rientrare è che l’approccio deve essere sempre multifocale e mirato alla
specifica organizzazione psicopatologica del paziente.
Nel 34% dei casi viene avviato un intervento di sostegno psicologico ai genitori.
CONCLUSIONI
In conclusione il nostro studio consente di affermare che le condotte agite in adolescenza,
motivo così frequente di richiesta di consultazione psicologico-psichiatrica in adolescenza, si
situano trasversalmente in ambito nosografico. Le diagnosi psichiatriche formulate con
maggior frequenza sono i disturbi della condotta e misti delle emozioni e della condotta, i
disturbi di personalità (soprattutto del cluster B).
Per una migliore comprensione e contestualizzazione di tali problematiche vanno considerati
altri fattori legati alla vita personale e familiare del paziente. La storia di questi adolescenti,
infatti, risulta ricca di eventi stressanti di varia gravità (dalla presenza anche numerosa di
fratelli alla storia di maltrattamento e abuso infantili) soprattutto appartenenti all’ambito
familiare. Tali stress possono presumibilmente essere collegati alle espressioni aggressive
agite dell’adolescente come aspetto strutturante la personalità - soprattutto laddove il trauma
si situi precocemente e come situazione ripetuta nella vita del soggetto - piuttosto che come
modalità reattiva di fronteggiare uno stimolo doloroso contingente alla fase evolutiva in atto e
difficilmente elaborabile mentalmente.
27
Da ciò deriva l’appropriatezza di un approccio terapeutico multiprofessionale integrato che
abbia caratteristiche di stabilità e contenimento di cui spesso la famiglia di questi ragazzi
manca.
In conclusione mi sembra importante sottolineare che il problema dell’agire in adolescenza,
connotato spesso con il termine di “bullismo”, meriterebbe, per una migliore comprensione,
ulteriori studi ed approfondimenti che consentano di valicare il limite dell’interpretazione
prettamente fenomenologia e socio-culturale del fenomeno. In quest’ottica solo una
prospettiva psicodinamica del sintomo può dare una dimensione finalmente “nuova” di vera
comprensione ed autentico cambiamento avvicinando, anche nel quotidiano dell’ambulatorio
del neuropsichiatra infantile, il concreto delle persone reali con la ricca tradizione teorica.
28
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30
REGIONE DEL VENETO
AZIENDA U.L.S.S. N. 16 - PADOVA
COD FISC. 00349050286
Unità Complessa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’adolescenza
Direttore prof. A. Condini
SETTIMANA PROVINCIALE
DELLE SOLIDARIETA’ 2006
VIIIa edizione
convegno
“prepotenti, bulli e violenti a casa e a scuola:
conoscerli, comprenderli e contrastarli”
Udine 15-16 Novembre 2006
“L’agire in adolescenza: genesi ed
evoluzione dei disturbi della condotta.”
dr. E. Bertossi
La complessità dell’approccio alle
manifestazioni aggressive risiede nel
discriminare “normalità” da “patologia” e
nel contesto di questa, riconoscere gli
eventuali quadri psicopatologici
implicati.
31
Quadri psicopatologici in cui tra i criteri diagnostici è
esplicitamente annoverata la presenza di episodi di
incapacità
incapacità di resistere agli impulsi aggressivi,
comportamenti ostili e provocatori, gravi atti aggressivi o
distruzione della proprietà
proprietà o violenza su animali o persone:
z
z
z
Disturbi del controllo degli impulsi (disturbo
esplosivo intermittente),
Disturbi da comportamento dirompente (disturbo
oppositivooppositivo-provocatorio, disturbo della condotta
e misto emozioni/condotta,
Disturbi dell’
dell’adattamento con alterazione della
condotta o mista emozioni/condotta.
Quadri clinici in cui l’l’aggressività
aggressività è segnalata come
caratteristica associata e non prettamente come criterio
diagnostico:
la schizofrenia e gli altri disturbi psicotici;
z i disturbi bipolari;
z il disturbo da deficit di
attenzione/iperattività;
z i disturbi correlati a sostanze;
z il ritardo mentale.
z
32
Disturbi in cui l’l’aggressività
aggressività può essere sottesa ad altre
manifestazioni sintomatiche. Ad esempio:
le valenze suicidarie nei disturbi depressivi,
l’irritabilità e l’eteroaggressività
manifestate dal bambino piccolo contro
sentimenti depressivi, gli episodi di
intolleranza nel disturbo ossessivocompulsivo, le crisi di angoscia nei disturbi
generalizzati dello sviluppo…
classificazione secondo Mahron (1980) delle diverse tipologie di
adolescenti devianti, considerando le dimensioni psicopatologiche
psicopatologiche alla
base del conflitto espresso in maniera agita (1):
impulsivi,
impulsivi, caratterizzati dalla imprevedibilità
imprevedibilità nel ricorso all’
all’azione,
tipica dei ragazzi che manifestano un comportamento antisociale
marcato, anche violento; l’l’atto delinquenziale esprime una scarica
violenta ed improvvisa di tensione intrapsichica, per cui di fatto
fatto il
pensiero non interviene a mediare tra impulso e comportamento
motorio; l’l’esperienza soggettiva di questi stati interni è quella di
un’
un’unica entità
entità, senza soluzioni di continuità
continuità.
narcisistici,
narcisistici, caratterizzati da una immagine negativa di sé
sé; questi
adolescenti appaiono ben adattati, ma solo superficialmente,
spesso come effetto di un atteggiamento compiacente. In realtà
realtà
mascherano una scarsa autostima e negli atti trasgressivi usano e
sottomettono gli altri per i propri fini, soprattutto per la regolazione
regolazione
interna dell’
dell’immagine di sé
sé. L’
L’atto delinquenziale rappresenta il
tentativo di raggiungere o mantenere un’
un’immagine di sé
sé adeguata.
33
classificazione secondo Mahron (1980) delle diverse tipologie di
adolescenti devianti, considerando le dimensioni psicopatologiche
psicopatologiche alla
base del conflitto espresso in maniera agita (2):
depressi,
depressi, caratterizzati dal bisogno e dalla richiesta di aiuto e
sollecitudine di tipo parentale;
parentale; in questa categoria rientrano gli
adolescenti “delinquenti per senso di colpa”
colpa” descritti da Freud,
Freud, il
cui comportamento deviante è finalizzato a sollecitare una
punizione inconsciamente desiderata e nelle cui modalità
modalità
relazionale è evidente il bisogno analitico di oggetti a cui
attaccarsi ed appoggiarsi.
passivi,
passivi, caratterizzati da una emotività
emotività scarica, privi di alcun
desiderio e speranza per il futuro, autoesclusi dalle relazioni
sociali; l’l’atto delinquenziale è finalizzato ad evitare la
disintegrazione psicotica, attivando emozioni forti nel tentativo
tentativo di
attenuare il grave stato di desolazione interiore.
AGITO
meccanismo di difesa sintomatico
nuove capacità mentali:
intelligenza operativa
formale
crisi puberale
COMPITI EVOLUTIVI
ADOLESCENZIALI
il gruppo dei pari
nuovo ruolo
sociale:
ingresso
nel mondo
degli adulti
superamento della seconda fase di
separazione-individuazione
34
prevalenza dei disturbi della condotta:
in letteratura
z Pochi studi sull’
sull’evoluzione nel tempo
z Pochi studi sugli adolescenti
Æ specifici per categorie diagnostiche (CD) o per
casistiche molto selezionate (adolescenti “delinquenti”
delinquenti”
riformati)
Æ followfollow-up a brevebreve-medio termine (6(6-8 mesi)
5-7% con un aumento in adolescenza al 77-10%.
Molti ricercatori reputano ragionevole stimare in
Italia un dato al 5% e senza differenze
significative tra i due sessi.
progetto PriSMA (Progetto Italiano Salute
Mentale Adolescenti):
prima ricerca epidemiologica multicentrica italiana dei disturbi psichici tra
preadolescenti in età
età compresa tra i 10 ed i 14 anni, residenti in zone
urbane.
z
z
z
z
Questo studio ha utilizzato i seguenti strumenti:
CBCL di Achenbach;
Achenbach;
Scheda sociodemografica che ha classificato secondo la categorizzazione di
Hollingshead le tipologie delle famiglie in relazione all’
all’occupazione dei genitori;
intervista semistrutturata DAWBA (Development
(Development and Well Being Assessment)
Assessment) di
Goodman,studiata
Goodman,studiata ed utilizzata specificamente per studi epidemiologici;
scale HoNOSCA,
HoNOSCA, HoNOSCAHoNOSCA-R e CC-GAS che valutano il funzionamento
complessivo del soggetto.
Del campione considerato è risultato che il 9.1% ha soddisfatto
i criteri per un disturbo psichico secondo la classificazione
DSMDSM-IV. Nello specifico dei disturbi della condotta ne è
risultato colpito l’1% della popolazione considerata,
senza differenze di rilievo tra i sessi.
35
La presa in carico terapeutica dell’
dell’adolescente
con disturbo della condotta
Prioritario è, ancor prima di pensare al “cosa fare”
per loro, il dare significato ed intelligibilità a ciò
che i ragazzi esprimono mediante l’agire.
Il significato più profondo del termine “trattamento”
rimanda proprio a una “modalità di accogliere” e
indirettamente anche all’idea di “elaborare”, due
significati che rappresentano in sé il filo
conduttore di ogni intervento pensato per questi
adolescenti.
La presa in carico terapeutica dell’
dell’adolescente
con disturbo della condotta
I parametri attualmente condivisi per il trattamento dei
bambini e degli adolescenti con DC prevedono che
la presa in carico :
z
z
deve avvenire necessariamente per tempi
lunghi;
deve coinvolgere sempre oltre che il
ragazzo, tutti gli ambiti in cui lo stesso si
trova a vivere.
modello di approccio multimodale
36
La presa in carico terapeutica dell’
dell’adolescente
con disturbo della condotta
modello di approccio multimodale
Mette a confronto proficuamente i vari
contesti in cui i ragazzo vive (servizi
(servizi
neuropsichiatrici,
neuropsichiatrici, la scuola, i servizi
sociali, i servizi educativi, le associazioni
sportive, i gruppi parrocchiali…
parrocchiali…)
concertando progetti condivisi per
lavorare in rete ognuno con le proprie
specificità
specificità!
modello di approccio multimodale
z
z
z
z
z
z
Psicoterapia
Farmacoterapia
Intervento psicoeducativo
Ospedalizzazione
Funzione terapeutica parentale
altro…
altro…
37
Farmacoterapia (1)
Esistono in letteratura molti studi, in aperto o in doppio
cieco verso placebo, sul trattamento farmacologico
dell’
dell’aggressività
aggressività inquadrabile all’
all’interno di un CD in età
età
evolutiva.
I farmaci più
più studiati nel CD sono:
z stabilizzanti dell’
dell’umore come il LITIO, l’l’ACIDO
VALPROICO, la CARBAMAZEPINA,
z neurolettici tipici (ALOPERIDOLO) e atipici
(RISPERIDONE, CLOZAPINA, olanzapina),
olanzapina),
z psicostimolanti (METILFENIDATO),
z SSRI (CITALOPRAM, elopram,
elopram, fluoxetina),
fluoxetina),
z altre molecole (PINDOLOLO, CLONIDINA).
Farmacoterapia (2)
z
Nell’
Nell’aggressività
aggressività impulsivoimpulsivo-reattiva, soprattutto se il soggetto presenta
una parziale ma significativa alterazione dell’
dell’esame di realtà
realtà,
distorsioni percettive o del pensiero, se gli episodi di aggressivit
à
aggressività
appaiono circoscritti ed esplosivi, associati a fattori di stress
stress e di
sovraccarico, oppure se è richiesto un rapido inizio dell’
dell’azione
terapeutica è spesso utilizzato il RISPERIDONE.
z
Nel comportamento aggressivo che presenta importanti caratteristiche
caratteristiche
affettive quali frequenti sbalzi d’
d’umore, irritabilità
irritabilità elevata, risposte
eccessive alle normali stimolazioni ambientali o un evidente pattern
pattern
bipolare è più
più indicato uno stabilizzante dell’
dell’umore quale il
VALPROATO.
z
L’utilizzo di un SSRI va considerato quando sono evidenti sintomi di
tipo depressivodepressivo-disforici e/o ansiosi ed una volta escluse altre possibili
diagnosi.
38
L’intervento psicoeducativo (1)
La comunità, sia intesa in senso di residenzialità
come di semiresidenzialità, “…è uno spazio di
cure fatto di elementi empirici, di circostanze, di
interrelazioni complesse che si intrecciano a
partire da un’infinità di compiti, di azioni, di parole,
di emozioni e di vissuti…; in essa, contrariamente
al modello di cura fondato sulle rappresentazioni
o sul processo associativo…, il cambiamento
passa attraverso l’oggetto esterno considerato
non solo nelle sue funzioni classiche
(identificazioni) ma nelle funzioni di oggetto
trasformativo…”. (Cahn 1987)
L’intervento psicoeducativo (2)
Coerentemente al concetto delineato da Winnicott di
spazio transizionale,
transizionale, metafora dello spazio
terapeutico istituzionale ed alle successive
applicazioni e sviluppi, l’l’istituzione per la presa in
carico di adolescenti deve essere polivalente e
configurarsi come un’
un’area intermedia e terza che
consente all’
all’adolescente di sentirsi protagonista di
una ricerca e fornisce occasioni per utilizzare il
Servizio nel modo più
più consono al suo attuale
funzionamento psichico (teoria dell’“
istituzione
dell’“istituzione
transizionale”
transizionale”).
Questo continuo lavoro autoanalitico rende possibile
il configurarsi dell’
dell’Ospedale Diurno come “sito
analitico allargato”
allargato”. (Monniello,
Monniello, Spano 2003).
39
La funzione “terapeutica” parentale
Il coinvolgimento parentale,
parentale, sin dal primo incontro,
deve essere sollecito e strutturato in modo preciso
ma allo stesso tempo flessibile in modo da poter
tollerare le continue messe alla prova che i genitori,
nel perpetuarsi di uno stile relazionale
transgenerazionale condiviso dai loro stessi figli,
mettono in atto verso di noi.
Il tollerare accogliendo, significando non giudicando
tantomeno espellendo, può consentire alla coppia
genitoriale una risignificazione interna che può
generare cambiamento nella dinamica affettivoaffettivorelazionale del nucleo famigliare, adolescente
agitato compreso.
Studio Clinico: gli obiettivi
z
Il processo d’inquadramento diagnostico (diagnosi
psichiatrica vs valutazione psicodinamica);
z
Il processo di formulazione del progetto terapeutico
(intervento psicologico, intervento educativo, intervento
farmacologico, ricovero, trattamenti multidisciplinari);
z
La compliance terapeutica ed i fattori che la
influenzano;
z
L’evoluzione clinica (ovvero l’efficacia degli interventi
attuati)
40
Casistica(1)
sesso (n=123)
30%
maschio
femmina
70%
Casistica(2)
fascia d'età (n=123)
24%
36%
11-13 anni
14-16 anni
17-19 anni
40%
41
precedenti eventi stressanti
lutto f amiliare
mal f is/ment in f am
stress scolastico
malattia f isica
evento stressante
conf littualità/separ
maltrattamento/abuso
adozione
due o più eventi str
non rif erito
0
10
20
30
Percentuale
età a cui tale evento si è verificato
prima inf anzia (0-5)
latenza (6-10)
preado e ado (=e>11)
età
trauma ripetuto
12
14
16
18
20
22
24
26
28
Percentuale
42
diagnosi (ICD 10)
9%
14%
sdr ansiose (f40/48)
dist. affettivi (f30/39)
16%
30%
dist.psicotici (f20/29)
dist.personalità (f60/61)
8%
23%
dist.condotta (f90/93)
RM,alt. svil. psicol.
(f70/79)
Conclusioni(1)
Importanza del processo d’
d’inquadramento diagnostico:
diagnostico
L’AGGRESSIVITÀ È UNA DIMENSIONE
TRANSNOSOGRAFICA PIUTTOSTO CHE UNA
SINGOLA DIAGNOSI.
In tale ottica assume particolare rilievo il
considerare:
Ætipologia del comportamento agito
Æarea psicopatologica sottostante
Æ storia di eventi stressanti
43
Conclusioni(2)
Importanza del processo di formulazione del progetto
terapeutico.
L’INTERVENTO TERAPEUTICO PIÙ INDICATO È
QUELLO MULTIMODALE INTEGRATO
L’intervento psicologico, individuale o di gruppo è risultato
indicato solo nei casi di disturbi ansiosi o depressivi lievi
Conclusioni(3)
L’evoluzione clinica a distanza necessita di
TEMPI MEDIO-LUNGHI PER IL CAMBIAMENTO
Essa inoltre dipende
dalla compliance terapeutica famigliare più che dal tipo di
intervento.
z varia a seconda del comportamento patologico:
¾ tempi più lunghi per i comportamenti sessuali, l’uso di
sostanze e l’antisocialità associata o meno ad
aggressività agita eterodiretta
¾ miglioramento clinico già a sei mesi (tempi più brevi)
per comportamenti relativi ad aggressività eterodiretta
da sola o associata ad aggressività autodiretta ed
impulsività/oppositivà/aggressività verbale
z
44
BULLISMO: MALE GIOVANILE DEL VENTUNESIMO SECOLO.
MA E’VERO?
Dott.ssa Laura Cerone , Psicologa e psicoterapeuta
Dott.ssa Fiammetta Biancolin, Sociologa Ass. “IOTUNOIVOI Donne Insieme” - Udine
Perché la nostra Associazione, che da anni si occupa di violenza a donne e bambini, con
particolare riferimento alla violenza domestica e al maltrattamento intrafamiliare, ha deciso di
effettuare una ricerca sul bullismo?
La risposta si colloca in una concomitanza di eventi temporali, strettamente connessi
all’attività quotidiana del Centro Antiviolenza.
Nel 2002 abbiamo deciso di effettuare una ricerca nelle scuole superiori della Regione (25
istituti superiori del territorio, 1064 questionari, gli intervistati erano per il 46,5% maschi e
per il 53,5% femmine), sempre in collaborazione con il Comune di Ampezzo, sulla
“Percezione della violenza domestica e stereotipi”, utilizzando il questionario elaborato e
fornitoci dalla dott.ssa Baldry dell’Università “La Sapienza” di Roma. All’interno del
questionario vi erano anche alcune domande relative al fenomeno del bullismo. In particolare
si indagava l’aver fatto prepotenze a scuola ad altri compagni, l’aver subito prepotenze,
l’essere stati crudeli nei confronti degli animali. In riferimento all’esperienza personale degli
intervistati sull’aver agito prepotenze il 32% aveva dichiarato di non aver mai attuato
comportamenti di questo tipo, il 13,3% spesso o molto spesso ed il 54,8% occasionalmente.
Rispetto all’esserne vittima, il 24,4% si era detto estraneo ad esperienze di bullismo, il 6,6%
aveva affermato di esserne stato vittima spesso, mentre il restante 56,3% occasionalmente.
Nello stesso tempo l’esperienza diretta che quotidianamente facevamo con minori vittime e/o
testimoni di violenza ci ha posto di fronte ad alcuni interrogativi riguardanti i loro vissuti.
Maria e Francesca, per esempio, due sorelle che frequentavano le scuole medie, avevano
comportamenti e vissuti differenti. Maria, carina, introversa e timida, aveva grosse difficoltà
di inserimento nel gruppo classe, tendeva ad isolarsi, si sentiva inadeguata rispetto alle
compagne di classe ed era diventata il loro bersaglio preferito: la schernivano quando
sbagliava e, quando era assente, non le passavano i compiti, o lo facevano parzialmente.
Maria non aveva alcun rapporto con i compagni maschi, anzi se ne teneva ben distante e
spesso a ricreazione rimaneva da sola. Per contro, dietro il suo aspetto apparentemente
tranquillo e rispettoso delle regole, covava una forte rabbia, soprattutto nei confronti della
madre. Francesca, invece, non aveva avuto difficoltà ad inserirsi a scuola, era esuberante,
45
veniva spesso ripresa dagli insegnanti ed aveva fatto “banda” proprio con le compagne di
classe della sorella.
Un altro minore, invece, Andrea, viveva costantemente in lotta con se stesso: da un lato la
consapevolezza che i suoi comportamenti prepotenti e aggressivi erano così simili a quelli
subiti da parte del padre e pertanto lui stesso “si odiava per questo”, dall’altro
rappresentavano l’unico modo che aveva per poter dire “io ci sono”.
Andrea è rimasto in bilico fintantoché la madre sembrava aver scelto di lottare per una vita
diversa per sé e i suoi figli, lontano dal marito violento, quando, invece, la donna ha cambiato
idea e ha scelto di “dare un’altra possibilità al marito”, Andrea lentamente ha smesso di
lottare con se stesso. Abbiamo saputo, in seguito, che dai comportamenti da bullo a scuola è
passato a compiere piccoli reati insieme ad altri amici.
Ci siamo chieste quanto questi vissuti fossero “solamente” dei minori da noi seguiti o se, ed in
che modo, appartenessero all’esperienza che i bambini/e e i ragazzi/e fanno quotidianamente
nel contesto scolastico, indipendentemente dall’essere o meno stati esposti alla violenza
domestica.
Da qui la nostra curiosità verso un’indagine ad ampio raggio che partisse però dalle scuole
medie ed elementari. Ci siamo guardate in giro e, partendo dalle ricerche nazionali, abbiamo
voluto utilizzare un questionario i cui risultati potessero essere comparati anche con altre
realtà. Abbiamo quindi utilizzato il questionario del professor Olweus, tradotto e adattato per
l’Italia da Fonzi, Menesini Genta e Costabile, dell’Università di Firenze.
Il passo successivo è stato quello di contattare la Direzione Scolastica Regionale per poter
condividere ed ottenere il patrocinio alla realizzazione della ricerca. Abbiamo quindi
contattato le scuole elementari e medie della Regione, inizialmente attraverso l’invio di una
lettera e successivamente attraverso il contatto diretto con i referenti per ciascun istituto.
Nel complesso hanno risposto positivamente 56 plessi scolastici così suddivisi: 33 per la
Provincia di Udine, 10 per quella di Pordenone, 7 per Gorizia e 6 per Trieste, per un totale di
2.651 questionari.
Rispetto alla metodologia utilizzata, il questionario è stato somministrato in forma anonima e
raccolto in busta chiusa. La compilazione da parte degli allievi è stata preceduta dalla
spiegazione del termine “prepotenze” utilizzato nel questionario al fine di evitare
fraintendimenti riguardo all’uso della parola e per sottolineare, attraverso degli esempi, le
caratteristiche distintive di tali atti: il perpetuarsi nel tempo, l’intenzionalità delle angherie,
l’asimmetria di potere tra chi agisce e chi subisce prepotenze. Nello specifico la definizione di
prepotenze utilizzata è stata la seguente: “diciamo che un ragazzo subisce delle prepotenze
quando un altro ragazzo, o un gruppo di ragazzi, gli dicono cose cattive e spiacevoli. È
46
sempre prepotenza quando un ragazzo riceve colpi, pugni, calci e minacce, quando viene
rinchiuso in una stanza, riceve bigliettini con offese e parolacce, quando nessuno gli rivolge
mai la parola e altre cose di questo genere. Questi fatti capitano spesso e chi subisce non
riesce a difendersi. Si tratta sempre di prepotenze anche quando un ragazzo viene preso in
giro ripetutamente e con cattiverie. Non si tratta di prepotenze quando due ragazzi, all’incirca
della stessa forza, litigano tra loro o fanno la lotta”1.
Inoltre, per poter dare voce a quei vissuti che rimangono inespressi e imbrigliati nel dato
quantitativo, abbiamo scelto di accompagnare l’illustrazione dei risultati della ricerca con
delle interviste, da noi costruite e somministrate, ai vari attori coinvolti nel fenomeno: una
vittima e un genitore, un bullo/a e un insegnante. Per quanto riguarda il bullo, abbiamo scelto
di ovviare alle oggettive difficoltà di individuare un bullo ed un suo genitore, attraverso
l’illustrazione di un caso da noi seguito.
Le interviste sono state costruite differenziando le domande in base ai destinatari, ma
lasciando alcune parti comuni riguardanti: la differenza tra conflitti e prepotenze, la tipologia
delle prepotenze agite/subite, la percezione del fenomeno all’interno della scuola, le
confidenze espresse e/o raccolte rispetto al fenomeno, le opinioni riguardanti le motivazioni
sottese al fenomeno, infine una parte riguardante i sentimenti provati nel rispondere al quesito
ed una breve riflessione. L’intervista è stata realizzata con il consenso degli intervistati e nel
rispetto della normativa vigente in materia di dati personali e sensibili. I risultati del nostro
lavoro, che verrà ora presentato dalla dott.ssa Biancolin, che ha collaborato con la nostra
Associazione per quanto riguarda la parte statistica e l’analisi dei dati, li lasciamo alla vostra
riflessione.
Si allega file di presentazione dei risultati.
1
Fonzi A., (1997), Il Bullismo in Italia, Giunti, Firenze, pp.6-7.
47
ALCUNI DATI PRECEDENTI
(1064 questionari, 46,5% M-53,5% F)
attuazione di comportamenti
di bullismo a scuola
vittime di comportamenti di
bullismo a scuola
5,3%
6,6%
8,0%
12,7%
24,4%
32,0%
Mai
30,6%
Quasi
mai
A volte
33,2%
23,1%
Spesso
Molto
spesso
24,2%
48
Associazione IOTUNOIVOI Donne Insieme
BULLISMO
MALE GIOVANILE
DEL VENTUNESIMO SECOLO
MA È VERO?
In collaborazione con il Comune di Ampezzo
IL BULLISMO È
Uno studente è oggetto di azioni
di bullismo, ovvero è prevaricato
o vittimizzato, quando viene
esposto, ripetutamente nel corso
del tempo, alle azioni offensive
messe in atto da parte di uno o
più compagni.
(Dan Olweus, 1993)
49
LA PREPOTENZA È
Un ragazzo subisce delle prepotenze da parte di un altro
ragazzo, o un gruppo di ragazzi quando:
•gli vengono dette cose cattive o spiacevoli,
•riceve colpi, pugni, calci e minacce,
•viene rinchiuso in una stanza,
•riceve bigliettini con offese e parolacce,
•nessuno gli rivolge mai la parola,
•viene preso in giro ripetutamente e con cattiveria.
Questi fatti capitano spesso e chi subisce non riesce a
difendersi.
Non si tratta di prepotenze quando due ragazzi, all’incirca
della stessa forza, litigano tra loro o fanno la lotta.
LA NOSTRA
RICERCA
50
IL CAMPIONE
(intervistati = 2651)
Appartenenza di genere
Ubicazione scuole
FEMMIN
E
48,0%
TS
12,9%
PN
20,9%
MASCHI
52,0%
GO
16,1%
UD
50,1%
IL CAMPIONE
(intervistati = 2651)
Scuola frequentata
Classe frequentata
50,0%
40,0%
26,8%
30,0%
20,3%
20,5%
16,6%
15,7%
20,0%
10,0%
III media
II media
I media
V elem.
0,1%
0,0%
IV elem.
ELEM
47,2%
III elem.
MEDIA
52,8%
51
PREPOTENZE SUBITE A SCUOLA
NELL'ULTIMO PERIODO DA PARTE
DI ALTRI RAGAZZI
NO
42,0%
SI
58,0%
PREPOTENZE E
APPARTENENZA DI GENERE
DEGLI INTERVISTATI
Maschi
Femmine
no
40,2%
no
43,7%
si
56,3%
si
59,8%
52
PREPOTENZE E RAPPORTO
CON I COETANEI
Prepotenze subite in
relazione alla propria
accettazione in classe
Prepotenze subite in
relazione al vissuto di
solitudine a ricreazione
25,8%
44,0%
56,0%
74,2%
subito prepotenze e non accettato
subito prepotenze e accettato
subito prepotenze e solitudine
subito prepotenze senza solitudine
CHI È LA VITTIMA?
Scuola frequentata
Fasce d'età
100,0%
100,0%
90,0%
90,0%
80,0%
70,0%
66,1%
80,0%
60,0%
60,0%
50,0%
50,0%
40,0%
40,0%
30,0%
30,0%
20,0%
20,0%
10,0%
10,0%
0,0%
1989-1993
66,3%
70,0%
55,5%
1994-1996
0,0%
50,5%
ELEM
MEDIE
53
TIPOLOGIE DI PREPOTENZE
SUBITE
Prepotenze subite
Macrotipologie di
prepotenze subite
9,0%
9,5%
29,9%
41,1%
29,0%
10,0%
19,0%
22,6%
29,9%
Offese razza e brutti nomi
Colpito fisicamente
Non rivolto la parola e derisione
Messo in giro storie
Rubato cose personali
Minacce
Prepotenza fisica
Offese razza e brutti nomi
Indifferenza e derisione
TIPOLOGIE DI PREPOTENZE
SUBITE
Femmine
Maschi
28,6%
31,2%
32,3%
49,7%
21,7%
36,5%
Offese razza e brutti nomi
Indifferenza e derisione
Prepotenza fisica
Offese razza e brutti nomi
Indifferenza e derisione
Prepotenza fisica
54
TIPOLOGIE DI PREPOTENZE
SUBITE
PN
GO
27,6%
32,5%
40,2%
29,0%
43,4%
27,2%
TS
UD
29,7%
35,5%
30,3%
34,8%
41,4%
28,4%
Offese razza e brutti nomi
Indifferenza e derisione
Prepotenza fisica
LUOGHI DELLE PREPOTENZE
19,8%
22,9%
4,0%
4,4%
5,9%
22,6%
9,8%
10,6%
Cortile
Corridoi
Corridoi-Aula
Corridoi-Cortile-Aula
Aula
Cortile-Aula
Corridoi-Cortile
Altro
55
LUOGHI DELLE PREPOTENZE
GO
PN
22,1%
37,9%
30,9%
47,0%
41,2%
20,9%
UD
TS
62,2%
28,0%
36,8%
41,1%
9,8%
22,1%
Interno alla scuola
Esterno alla scuola
Interno ed esterno alla scuola
FREQUENZA DELLE
PREPOTENZE SUBITE
Frequenza prepotenze
subite negli ultimi 6
giorni
Frequenza di prepotenze
subite negli ultimi 3 mesi
6,9%
12,6%
17,0%
39,3%
18,1%
43,3%
25,9%
1 volta
2 volte
3/4 volte
5/6 volte o più
36,8%
Solo 1/2 volte
Qualche volta
Diverse volte a settimana
Circa 1 volta a settimana
56
QUANTI IN CLASSE
SUBISCONO PREPOTENZE?
Fasce età
Scuola frequentata
100,0%
6 o più
20,6%
90,0%
80,0%
6 o più
26,9%
100,0%
90,0%
80,0%
70,0%
6 o più
27,1%
6 o più
17,40%
70,0%
60,0%
2-5 ragazzi
66,6%
50,0%
2-5 ragazzi
58,6%
60,0%
40,0%
50,0%
30,0%
40,0%
2-5 ragazzi
59,8%
2-5 ragazzi
69,3%
30,0%
1989-1993
0,0%
1 ragazzo
14,5%
20,0%
10,0%
0,0%
1 ragazzo
13,1%
1 ragazzo
13,3%
M E D IE
1 ragazzo
12,8%
1994-1996
10,0%
E LE M
20,0%
I VISSUTI RISPETTO ALLE
PREPOTENZE
Modi di sentirsi se
spettatori di prepotenze
Reazione di fronte a un
compagno di classe
vittima di bullismo
7,0%
12,0%
19,3%
25,6%
62,4%
73,7%
Penso sia spiacevole
Penso sia un po’ spiacevole
Non provo niente di particolare
Cerco di aiutarlo
Non faccio niente ma penso dovrei aiutarlo
Non faccio niente non sono affari miei
57
INTERVENTI DEI COMPAGNI
IN SITUAZIONI DI BULLISMO
11,1%
35,3%
19,9%
33,6%
Qualche volta
Non so
Quasi mai
Quasi sempre
COSA FANNO GLI INSEGNANTI?
Studenti che si sono
rivolti agli insegnanti
per denunciare
prepotenze
Intervento degli
insegnanti
Quasi
mai
15,9%
Si, l'ho
detto
42,1%
No, non
l'ho
detto
57,9%
Non so
17,7%
Quasi
sempre
38,4%
Qualche
volta
28,0%
58
E A CASA?
No, non
l'ho
detto
43,0%
Si, l'ho
detto
57,0%
IL PROFILO DELLA VITTIMA CHE
EMERGE DAI NOSTRI DATI
•
•
•
•
FEMMINA
9-11 ANNI DI ETÀ
SCUOLA ELEMENTARE
SUBISCE
PREPOTENZE
DIVERSE
IN
RELAZIONE
ALL’APPARTENENZA
DI
GENERE (prepotenze fisiche se maschio;
derisioni e violenza psicologica se femmina)
• SPESSO SOLA A RICREAZIONE
• SOLITAMENTE ISOLATA E POCO CERCATA
DAI COMPAGNI DI CLASSE
59
BULLI E PREPOTENZE AGITE
Presenza di bulli in
classe
NO
14,0%
Numero compagni di
classe che hanno fatto
prepotenze ad altri in
questo periodo
solo 1
ragazzo
14,5%
SI
86,0%
6 o più
ragazzi
23,0%
2-5
ragazzi
62,6%
PREPOTENZE: SE NE PARLA
DAVVERO?
Gli insegnanti hanno
parlato con i bulli delle
prepotenze da loro
agite su altri?
29,9%
70,1%
I genitori hanno parlato
con i figli delle
prepotenze che hanno
agito su altri?
SI
27,9%
NO
72,1%
60
GIUDIZIO SUI PREPOTENTI
Opinioni degli
studenti
9,2%
15,5%
15,6%
59,7%
Mi danno molto fastidio
Non so
E' difficile capirli
Posso capirli
CRITICHE ALLE PREPOTENZE E
GIUDIZIO SUI PREPOTENTI
6,0%
11,0%
14,8%
68,2%
Spiacevole
Spiacevole
Spiacevole
Spiacevole
subire
subire
subire
subire
prepotenze/posso capire i prepotenti
prepotenze/non so definire i prepotenti
prepotenze/difficile capire i prepotenti
prepotenze/fastidio verso i prepotenti
61
DISTACCO DALLE PREPOTENZE
E GIUDIZIO SUI PREPOTENTI
20,1%
30,7%
11,7%
37,4%
Non
Non
Non
Non
provare
provare
provare
provare
niente
niente
niente
niente
per
per
per
per
le
le
le
le
vittime/capire i prepotenti
vittime/non so definire i prepotenti
vittime/difficile capire i prepotenti
vittime/fastidio verso i prepotenti
IL PROFILO DEL BULLO CHE
EMERGE DAI NOSTRI DATI
• MASCHIO O FEMMINA IN EGUAL MISURA
inserito solitamente all’interno di un gruppetto
di coetanei (fra 2 e 5 ragazzi)
• 11-16 ANNI DI ETÀ
• SCUOLA MEDIA
• AGISCE PREPOTENZE SOPRATTUTTO IN
CLASSE VERSO I COMPAGNI
• EPISODICITÀ DELLE PREPOTENZE AGITE
NEGLI ULTIMI 2-3 MESI (1-2 VOLTE)
62
LE INTERVISTE
• Vittima: maschio, 12 anni
• Genitore: madre, 40 anni
• Insegnante:
donna, 53
scuola elementare
anni,
CHE COS’E’ UNA
PREPOTENZA?
• Vittima: è per esempio una presa in giro, una
minaccia, un qualcosa molto più sullo
psicologico, però a volte può arrivare al
contatto fisico
• Genitore: può essere fisica, proprio, quando
vengono messe le mani addosso..però anche
psicologica, con prese in giro oppure fare in
modo che un ragazzo venga messo da parte…
• Insegnante: ..è cercare di avere la meglio su
qualcuno che è più debole, cioè di usare la
propria forza, superiore in quel caso, fisica e
non solo fisica molte volte, per umiliare o
soggiogare qualcuno più debole
63
QUANDO UN COMPORTAMENTO
OSTILE DIVENTA PREPOTENZA?
• Vittima: quando per esempio, soprattutto in
una fase psicologica, viene ripetuto più volte
• Genitore: quando diciamo i ragazzi scherzano,
questo rientra nella normalità, però quando
vengono fatti scherzi pesanti ripetutamente,
oppure si va oltre lo scherzo, quella volta si
comincia ad avere l’impressione che la cosa stia
degenerando
• Insegnante:
quando
uno
incute
paura
nell’altro, cioè quando uno induce il compagno o
un altro bambino a non fare qualcosa che
magari farebbe
LE CONFIDENZE DELLA
VITTIMA
•
•
•
•
•
•
•
•
Ti sei mai confidato con qualcuno rispetto alle prepotenze subite? In
particolare, ne hai mai parlato con i tuoi compagni di classe? Si, non con i
miei compagni di classe, ma con un compagno di un’altra classe
Quale è stato il loro comportamento? Lui siccome aveva un amico nella mia
classe ha cercato diciamo di convincere questo mio compagno a
diciamo…avvicinarsi un po’ a me, questo è successo, ma lievemente..è una cosa
che diciamo non ha avuto tanto significato
Ne hai parlato con i tuoi insegnanti? Si, moltissime volte
Quale è stato il loro comportamento? Dicendomi di andare al posto, che era
una cosa passeggera e quindi di non tenerne conto. Più cercavo di arrivare ad un
discorso diciamo…adulto con questi professori, più questi mi dicevano che ero
uno molto sensibile, che si arrabbiava per poco, cose così
E con i tuoi genitori ne hai parlato? Si
Quale è stato il loro comportamento? Che mi hanno aiutato molto,
soprattutto mia madre che era rappresentante di classe e aveva portato questo
problema in consiglio, ed è stato discusso, con nessun risultato, ma lo stesso è
stato discusso
Di fronte ad episodi di prepotenze gli insegnanti tendono ad
intervenire? Per quanto mi riguarda no, però ci saranno sicuramente alcuni
professori che sarebbero intervenuti
Se intervengono quali provvedimenti adottano? Sicuramente possono
chiamare i genitori dell’alunno, parlare con i genitori che di conseguenza ne
parlino con l’alunno oppure con il preside, se è una cosa abbastanza frequente…
64
IL GENITORE DI FRONTE
ALLE PREPOTENZE
•
•
•
•
Suo figlio si è mai confidato con lei rispetto alle
prepotenze subite? Sempre
Com’è andata? Io l’ho ascoltato..ho cercato di dirgli
“guarda che in una certa misura queste cose succedono”
però quando effettivamente ho visto che la frequenza e
l’assiduità erano troppe, mi sono attivata
E gli insegnanti tendono ad intervenire? No, poi
dipende dall’insegnante
Se intervengono quali provvedimenti adottano? Ci
può essere un richiamo, so che non hanno molti modi
per intervenire..però ci potrebbe essere un avviso sul
libretto per genitori, poter instaurare una discussione in
classe, potrebbe servire secondo me
INSEGNANTE DI FRONTE
ALLE PREPOTENZE
•
•
•
Ha mai raccolto le confidenze di qualche alunno vittima
di prepotenze? Si, ma fra compagni è più facile che si
raccontino. Se hanno subito prepotenze non sempre riescono
a raccontarlo
Ha mai parlato con i suoi alunni in merito al verificarsi
di episodi di questo tipo? Si, però in maniera non
organica..la prepotenza dei nostri alunni non è sempre
cosciente..dovremmo limitarci al bambino e dire “tu sei
prepotente” e dare la colpa della prepotenza al bambino, ma
sappiamo bene che la colpa della prepotenza è a monte. E non
è che possiamo andare a parlare con la mamma e il papà. Noi
non possiamo chiedere niente che riguardi la famiglia, non
sappiamo più neanche l’età dei genitori per via della privacy
Di fronte ad episodi di prepotenze gli insegnanti quali
provvedimenti adottano? Non sono sempre gli stessi. Si
cerca di parlare tutti insieme, quando è possibile, cercando di
spiegare perché certi atteggiamenti non vanno bene
65
RITIENI SIA GIUSTO E/O UTILE
AGLI ALTRI PARLARE DI
BULLISMO?
• Vittima: si, senz’altro per conoscere il problema e
poi diciamo arrivare ad un discorso molto preciso
sull’argomento
• Genitore: sicuramente
• Insegnante: si…sta venendo fuori abbastanza
anche in televisione. È un fenomeno che secondo
me si sta allargando..comincia con le materne e
poi non finisce. È uno dei problemi che fa della
scuola, negli ultimi tempi, un luogo in cui non si
lavora più facilmente. Una volta era molto più facile
perché c’erano meno episodi di bullismo, erano
meno forti e meno valutati. Adesso sono numerosi
ed è uno dei problemi della scuola questo: la
disciplina, l’accettare le regole…è una delle basi
della scuola…un obiettivo che è difficile da
raggiungere…
COSA PROVA A
PARLARNE?
•
•
•
Vittima: beh…mi sento come a parlare di una cosa accaduta,
non molto importante, nel senso importante di scuola, per cui
abbastanza di civiltà, però lo stesso è una cosa che mi è
accaduta e che quindi appartiene al passato ormai
Genitore:
visto
che
sono
stata
colpita..provo
rabbia..personalmente ho fatto anche un esposto..ma non ho
visto grandi reazioni, non mi sembra di essere stata capita
Insegnante: sono contenta,..come insegnante questo è un
problema che sta venendo avanti, che forse c’era anche
prima, ma non si era capito…passando i cicli scolastici i
bambini sono cambiati molto, non come capacità…ma nel
comportamento nei confronti degli altri, degli insegnanti, della
scuola in generale..c’è questa mancanza generalizzata del
rispetto dell’altro. L’egocentrismo c’è sempre stato, ma un
conto è l’egocentrismo naturale, un altro è quello che porta
alla violenza e in questo periodo mi pare si stia evidenziando
proprio questo
66
IL FENOMENO DEL BULLISMO NELLE SEGNALAZIONI DELLE
FAMIGLIE E DELLE SCUOLE
Dott.ssa Mara Lessio, Sostituto Commissario Polizia di Stato,
Responsabile Ufficio Minori Divisione Anticrimine, Questura di Udine
Dott. Ezio Gaetano, Vicequestore Aggiunto Polizia di Stato, Questura di Udine
Le complesse problematiche dell’età minorile sono oggetto da tempo di attenzioni da parte
del Ministero dell’Interno, che nel 1996 oltre ad aver istituito in tutte le Questure gli Uffici
Minori, con compito specifico di monitoraggio sui diversi fenomeni e di interazioni con i
servizi socio-sanitari, scuola ed organi giudiziari, propone attività di coinvolgimento e di
avvicinamento all’istituzione da parte dei minori con concorsi di vario genere (disegni, temi,
sms…) educazione alla legalità, educazione stradale ecc.
Fondamentale il rapporto di collaborazione tra servizi socio-sanitari, scuola, enti di
volontariato e Polizia di Stato, rapporti che per la Questura di Udine sono oramai consolidati
nel tempo con interventi sia di carattere preventivo, sia di carattere sociale.
Si è tenuto da poco l’annuale incontro tra il Questore ed i Dirigenti scolastici, per un
consolidamento delle sinergie al fine di affrontare e trovare soluzione adeguate ai problemi
legati al mondo minorile.
Compiti dell’Ufficio Minori sono:
ƒ
Monitoraggio, Sorveglianza, Vigilanza ed Interventi sulle diverse problematiche
minorili;
ƒ
Lavoro in rete con servizi socio-sanitari, scuola e Tribunale per i Minorenni;
ƒ
Segnalazioni al Tribunale per i Minorenni di fatti-reato che coinvolgono minori,
nonché di situazioni di disagio e difficoltà;
ƒ
Violenze, abusi sessuali e maltrattamenti a danno dei minori, sfruttamento della
prostituzione e pornografia minorile, turismo sessuale;
ƒ
Sfruttamento del lavoro minorile;
ƒ
Sottrazione di minori;
ƒ
Uso o spaccio di sostanze stupefacenti ad opera o a danno di minori.
L’ufficio affronta problematiche delicate a soggetti in situazioni di particolare disagio, non
svolge diretta attività investigativa, che viene curata invece da unità specializzate della
Squadra Mobile.
67
Tra le problematiche di maggior attualità spicca il fenomeno del bullismo. Per bullismo si
intende un insieme di comportamenti ripetuti nel corso del tempo, di azioni offensive verbali
e fisiche, messe in atto da parte di una o più persone nei confronti di un’altra persona per
avere potere o dominarla.
Per quanto riguarda la realtà della nostra provincia, dall’osservazione dei fatti accaduti
fotografiamo una situazione non propriamente di bullismo ma di perpetrazione di prepotenze,
di singoli episodi di aggressioni a persone o cose. Tale fenomeno necessita di essere
monitorato attraverso la messa in atto di tutte le possibili strategie preventive tenendo conto
che non solo le vittime sono persone fragili, ma anche i minori che agiscono con prepotenza
sono persone bisognose d’aiuto in quanto utilizzano delle modalità inadeguate per comunicare
e per affrontare le loro difficoltà personali.
Siamo ancora in tempo per progetti concreti di recupero, bisogna pensare a spazi ricreativi per
gli adolescenti ove gli stessi possano rendersi protagonisti di esperienze positive, sfruttando
possibilità di espressioni artistiche quali: il ballo, la musica, il canto, il disegno … in strutture
ove possano accedervi in modo gratuito.
Spesso i disagi economici in cui versa la famiglia di appartenenza non consentono ai minori
di poter effettuare attività extrascolastiche, di ampliare le proprie conoscenze ed amicizie, di
essere seguiti in modo adeguato e il contesto (senza alternativa) nel quale sono costretti può
diventare causa scatenare di comportamenti devianti. Ed ecco la necessità di creare spazi con
facili possibilità di accesso, spazi nei quali si vivano momenti di solidarietà, di aiuto, di
condivisione.
68
SECONDA SESSIONE
Il bullismo: teorie interpretative
Presiede:
Dott.ssa CRISTINA BALDIN
Psicologa Èquipe Multidisciplinare Territoriale Distretto Est Cervignano del Friuli
A.S.S. n° 5 “Bassa Friulana”
69
LA CURA DELLA VIOLENZA
Dott. Giovanni Di Cesare
Psicologo didatta Centro Studi Terapia Familiare, Roma
LA PROSPETTIVA SISTEMICO-RELAZIONALE
Nella prospettiva sistemico-relazionale è possibile comprendere un fenomeno solo all’interno
di un contesto. Ogni fenomeno è espressione di un contesto di cui è parte integrante e da cui
emerge come qualità sistemica. In questa prospettiva ogni entità, ciascun individuo, ogni
famiglia, ogni servizio, ogni comunità, etc. è una organizzazione unitaria e plurima,
contemporaneamente composta di diverse parti e facente parte di sistemi più ampi.
Tali organizzazioni viventi sono quindi considerabili organizzazioni di diversi sé che nel
continuo mutamento delle proprie componenti e dei contesti di riferimento cercano di
mantenere la propria identità nel tempo. Sono pertanto organizzazioni fragili che si rinnovano
incessantemente cercando di darsi una coerenza nel tempo, una continuità, una possibilità di
controllo dei processi di differenziazione – integrazione da cui derivano.
Ciascuno di noi, come le nostre famiglie, i nostri servizi, le nostre comunità, è quindi
l’espressione mutevole, in cerca di coerenza, dei propri legami interni, dei legami tra le nostre
parti e contemporaneamente dei propri legami esterni, dei legami con altri individui, famiglie,
servizi, etc.
Noi pertanto siamo la continuità, l’integrità, la coerenza dei nostri legami intrapersonali,
interpersonali, sociali; è quanto intendiamo quando definiamo l’identità come un processo
costitutivamente relazionale. Un processo mai definito, di reciproca co-costruzione in gran
parte al di fuori della nostra consapevolezza.
Ma il contesto cambia, cambia continuamente e la sociologia attuale ci descrive il paesaggio
del mondo occidentale in modo inquietante.
IL CONTESTO ATTUALE
Da un lato si parla di età della tecnica in cui gli individui sono ridotti a funzionari parcellizzati
degli apparati tecnici, strumenti peraltro poco efficienti e quindi spesso da sostituire, di quei
mezzi tecnologici che da mezzi, grazie alla loro pervasività, sono divenuti fini totalmente al di
fuori di ogni controllo. Ciò crea vissuti collettivi di impotenza, di paura diffusa, di
disorientamento. E’ la cosiddetta epoca delle passioni tristi in cui non ci si aspetta più, per la
prima volta, che i propri figli abbiano un mondo migliore del nostro. E si crea una sorda
70
sottile
lotta
tutti
contro
tutti,
per
la
sopravvivenza,
con
una
valorizzazione
dell’individualismo, della competizione ed un disprezzo della dipendenza.
Tutto diventa transitorio, provvisorio, instabile, il lavoro, gli affetti, la casa, tutto si fa fluido,
“liquido”, senza forma.
Si configura pertanto un paesaggio complessivo di attacco ai legami intrapersonali,
interpersonali e sociali, in cui la ragione calcolante, efficientista tende a eliminare sia sul
piano interno come su quello esterno, ogni affettività, ogni soggettività, ogni corporeità che
non siano al servizio della propria prestazione.
Si vive sempre più soli, sempre più scissi, separati intimamente e relazionalmente.
LA VIOLENZA E L’ATTACCO AI LEGAMI
Un tale contesto provoca profonde conseguenze.
Ogni attacco ai legami che ci costituiscono infatti provoca dolore.
E’ la base del processo di costruzione di noi stessi, del processo di attaccamento, di creazione
dei nostri legami: è un sistema motivazionale a rinforzo negativo, molto più efficace sul piano
evolutivo. Attaccarci è un processo spontaneo; ogni attacco o minaccia ai legami provoca
dolore.
Perché noi siamo i nostri legami, una volta strappati non resta più nulla.
E cosa accade quando gli attacchi si fanno continui, cronici, quando il dolore si fa continuo,
eccessivo da essere tollerato e gestito? Interviene un meccanismo di difesa disperato che se da
un lato da sollievo, dall’altro aggrava la situazione: la scissione.
Il dolore troppo forte viene cancellato dalla coscienza, si dissocia, non è più percepito, non è
più ricordato, non è più presente nel paesaggio della mente individuale e collettiva.
Parallelamente la radice del dolore, il bisogno di legame, è negata, come sono negate la
compassione, l’empatia, la solidarietà, la speranza.
Parti sempre più ampie dei propri vissuti e dei propri bisogni non trovano più uno spazio e
sopravvivono in modo frammentato, incorporato, muto.
Tali frammentazioni o scissioni, incidono profondamente sul senso di continuità della propria
identità, che si disfa in un drammatico tentativo di sopravvivere al dolore.
L’impotenza, la perdita di controllo sul proprio mondo, interno ed esterno, producono
impotenza, fragilità, perdita di senso e di integrità.
La nostra identità individuale e collettiva viene a perdere, per “adattarsi”, la continuità,
l’integrità e la coerenza che le sono necessari. Questo adattamento è un sacrificio doloroso, un
amputazione continuativa di parti vive e bisognose, è una violenza.
71
I SIGNIFICATI DELLA VIOLENZA
La violenza contro se stessi e contro gli altri, specie se gratuita o legata a futili motivi, è
l’espressione di questo continuo tragico sacrificio collettivo.
La violenza, in altre parole, esprime, deriva da, e, contemporaneamente produce:
ƒ
la frammentazione e la “codificazione” di sé e dell’altro: non ci sono più soggetti ma
organismi, riducibili a cose;
ƒ
la negazione dell’empatia, della compassione e dei nostri bisogni di dipendenza
reciproca;
ƒ
la negazione e la minimizzazione delle conseguenze etiche del nostro agire, la
coscienza anche quella morale è “fatta a pezzi” e tacitata.
La violenza può quindi essere compresa a livello sociale ma anche a livello intra ed
interpersonale come una molteplicità di comunicazioni che segnalano la situazione di grave
sofferenza, che richiamano e richiedono un aiuto, un ascolto, un contenimento. Nella violenza
possiamo riconoscere una espressione paradossale del dolore che nega il dolore da cui deriva
e che provoca.
Si cerca di “recuperare” un qualche equilibrio agendo, scaricando, replicando, implicitamente
denunciando le violenze subite.
In questo quadro necessariamente semplicistico ed abbozzato la violenza co-evolve con un
contesto di attacco violento e apparentemente “naturale” ai legami che costituiscono la base
della nostra identità. La violenza si mantiene e si propaga quindi attraverso i nostri legami
biologici (gli unici per ora insostituibili, ma non per molto), attraverso le generazioni.
Ma il bullismo non ha nulla di biologico, di genetico, né di familiare.
IL BULLISMO
Mentre nelle famiglie maltrattanti vi sono evidenze drammatiche di questa tragica eredità che
si trasmette da genitori a figli, per il bullismo non ci sono tali evidenze.
Vi sono ovviamente tipologie familiari che sostengono e favoriscono l’emergere di
comportamenti connessi al bullismo.
Ad esempio i ragazzi che mostrano comportamenti da “bulli” spesso hanno ricevuto uno stile
educativo coercitivo e tollerante in climi affettivi freddi, ostili, anaffettivi. Sono famiglie con
pochi legami interni, famiglie “disimpegnate”, dove ognuno lotta per la sua propria
sopravvivenza o per il potere e implicitamente i genitori approvano le “prove di forza” che il
ragazzo realizza.
72
Parallelamente i ragazzi che mostrano comportamenti da “vittime” hanno ricevuto uno stile
educativo iperprotettivo, infantilizzante. Sono famiglie dai legami molto stretti, “invischiate”
che si chiudono in se stesse, negando ogni conflittualità e non venendo spesso a conoscere le
vicende sofferte dai loro figli.
Ma nonostante queste tipizzazioni familiari è bene ribadire che il bullismo non è un diretto
derivato delle dinamiche familiari.
Il cosiddetto bullismo si può infatti definire come l’insieme di comportamenti aggressivi,
violenti, di sopraffazione, insieme derivante da un contesto violento che non contiene, non
governa la violenza ma in qualche modo la istiga, la “permette”, l’alimenta.
Ma qual’è il contesto violento, dov’è questa violenza che il bullismo come sintomo da un lato
segnala ma dall’altro nasconde e rende invisibile?
Per cercare di dare una risposta è bene fare un passo indietro alle dinamiche familiari ed in
particolare alle dinamiche evolutive delle cosiddette famiglie maltrattanti.
DUE CONCETTI PER PROVARE A CAPIRE
In tali famiglie si possono riconoscere due fasi evolutive: in una prima fase il figlio è
triangolato, utilizzato, all’interno di dinamiche adulte. Un conflitto tra gli adulti (genitori,
nonni, zii, etc.) non rimane confinato nella dimensione generazionale adulta ma contamina la
generazione dei bambini che vengono “giocati” all’interno di dinamiche che non controllano e
di cui non sono ovviamente responsabili. Ma gli esseri umani imparano, sono fatti per
imparare e per automantenersi. Dopo un certo numero di anni il figlio vittima di dinamiche
maltrattanti impara a “governarle”, ad utilizzarle, a mantenerle. Non è ovviamente un
passaggio automatico, stiamo sempre parlando di possibilità probabilistiche, ma una tale
evoluzione da “vittima” a “persecutore” è una realtà clinica evidente in moltissime situazioni
trattate dai terapeuti sistemici. Quando avviene questa “metamorfosi” il gioco cambia e
spesso l’originario conflitto adulto non si vede più, scompare, talvolta non lo si ricorda
neanche più: rimane solo un ragazzo violento, incontrollabile che schiavizza e tormenta degli
adulti.
Una ultima notazione prima di tornare al bullismo: la “centralità del terzo”.
In queste dinamiche il significato del maltrattamento è spesso legato ad una comunicazione
verso un terzo assente; in altre parole si maltratta/ci si fa maltrattare per maltrattare/
richiamare un terzo che può essere della stessa generazione e/o di una precedente. Non è mai
una relazione solo duale, esiste sempre un terzo (almeno un terzo…) in relazione a cui il
conflitto può essere compreso.
73
Applicando le nozioni di due fasi evolutive e di centralità del terzo al fenomeno del bullismo
cosa ne traiamo? Cosa comprendiamo delle dinamiche violente di e tra i ragazzi?
Innanzitutto mi pare di poter dire che il bullismo possa essere assimilato alla seconda fase
evolutiva delle famiglie maltrattanti, quella in cui gli adulti appaiono inermi, attoniti,
increduli spettatori di violenze incomprensibili e incontenibili.
Ma se così è: qual è la prima fase? Quali sono le dinamiche violente, conflittuali tra gli adulti
che hanno coinvolto, richiamato, trascinato con sé i ragazzi? Le risposte ci vengono dalla
sociologia, dalla psicopedagogia, dalla storia.
LA SCUOLA MALTRATTATA E MALTRATTANTE
In quaranta anni la scuola pubblica da privilegio da conquistare è divenuta un obbligo da
tollerare. E’ stata svuotata di valori, risorse, investimento sociale. E’ stata espropriata di
senso, delegittimata a svolgere le sue funzioni. E’ stata devastata da processi di disgregazione
e frammentazione. In una parola è stata abbandonata. E’ come se la società l’avesse rinnegata,
rinnegando le finalità, la centralità, rinnegando i legami di dipendenza che la legano a lei.
Si può pertanto considerare violenza una scuola delegittimata, violenza una scuola
abbandonata, senza legami di senso e di identità.
Parallelamente ad un altro livello di complessità ciò si esprime in una classe insegnante
divisa, insicura, spaventata, che ha perso l’amore per il suo lavoro. Una classe che spesso ha
perso la propria dignità professionale riuscendo con sempre più fatica a riconoscersi in un
mandato di senso collettivo. Come i legami tra scuola e società si allentano, vengono
attaccati, erosi, così i legami tra gli insegnanti vengono scoraggiati; gli insegnanti si trovano a
viversi sempre più soli, delegittimati e screditati. I rapporti con le famiglie sono sempre più
conflittuali e/o di totale incomprensione reciproca. Ci si ignora ostentatamente, attribuendosi
reciprocamente la responsabilità di quanto avviene ai figli.
Parallelamente ancora, ad un altro livello di complessità, la metodologia didattica si è
atrofizzata, la ricerca e l’innovazione sopravvivono in alcune enclave, ma complessivamente
l’insegnamento è sempre più spersonalizzato e spersonalizzante.
In un contesto ormai totalmente modificato dai mass-media e dalle nuove tecnologie la
scuola, gli insegnanti, la metodologia didattica insegue ancora i contenuti d’apprendimento,
ancora si vincola al cosa mentre forse dovrebbe, potrebbe ritrovare le sue radici nel come e
nel chi essere.
E’ comunque una scuola maltrattata quella che assiste ai fenomeni di bullismo, vi sono
profondi conflitti tra gli adulti che precedono da decenni questa “improvvisa” ed
“incomprensibile” crescita del fenomeno.
74
IL BULLISMO COME SINTOMO
Possiamo quindi considerare il bullismo un sintomo che da un lato segnala, dall’altro copre,
nega, fa dimenticare i conflitti che lo precedono e che lo consentono.
Infatti utilizzando la nozione di “centralità del terzo” possiamo ipotizzare che nelle classi,
nelle scuole, trovino realtà i conflitti, le violenze, gli isolamenti, l’impotenza presenti negli
altri livelli sistemici. Possiamo quindi chiederci: per conto di chi e/o contro chi e/o per
richiamare chi, è agita la violenza dei bulli?
Dietro ad ogni episodio di bullismo vi sono conflitti cronicizzati, incancreniti, dimenticati.
Dietro ad ogni episodio di bullismo ci sono legami strappati, rinnegati, minacciati:
ƒ
a livello istituzionale tra società e scuola, tra scuola pubblica e privata, tra ministero e
provveditorati, tra scuola e le altre agenzie educative;
ƒ
a livello interpersonale e gruppale tra gli insegnanti, tra gli insegnanti e i ragazzi, tra le
famiglie e gli insegnanti, tra i cosiddetti esperti (psicologi, psicopedagogisti,
neuropsichiatri, etc.) e gli insegnanti, tra gli operatori della sicurezza ( vigili,
poliziotti, carabinieri, etc.) e gli altri attori sociali;
e vi sono naturalmente conflitti e legami strappati anche a livello intrapersonale in ciascuno di
noi.
L’analisi del fenomeno bullismo chiama quindi di nuovo in causa il mondo adulto, lo
richiama alle sue responsabilità educative, ma prima ancora lo richiama alla responsabilità
circa i conflitti al suo interno, conflitti che precedono, coltivano e consentono la violenza dei
ragazzi.
PER UNA SCUOLA DEI LEGAMI
Un tale richiamo deve coinvolgerci tutti in prima persona partendo dalla consapevolezza che
curare/avere cura dei violenti e delle loro vittime significa in primo luogo curare/avere cura
dei nostri legami intrapersonali ed interpersonali.
E’ un richiamo a quella continuità, coerenza, integrità dei nostri legami che sono il
fondamento della nostra identità sociale.
Legami che non sono mai dati una volta per tutte ma vanno coltivati, modificati, arricchiti nel
tempo. Legami tra le nostre parti piacevoli e spiacevoli, tra i nostri ricordi e le nostre
speranze, tra i nostri desideri e i nostri obblighi, tra i nostri amori e le forme del nostro odio.
75
E’ un percorso, lungo, difficile, un percorso formativo che non si può e non si deve fare da
soli anche se la responsabilità è e sarà sempre di ciascuno di noi, individualmente.
Occorre tornare e/o cominciare a coltivare i propri legami interni ed interpersonali, divenendo
o meglio riscoprendo, la propria vocazione a essere operatori di legame. Operatori che creano,
sviluppano, consolidano, coltivano legami, coltivando in questo meraviglioso modo se stessi.
La scuola infatti è sempre stata e tanto più, lo abbiamo gia detto, lo è oggi, un ambito di
costruzione non di saperi ma di persone, di gruppi, di comunità. Il sapere e il saper fare sono
sempre stati i veicoli, spesso i troppo inconsapevoli veicoli, del saper essere e del saper
diventare.
E’ una scuola dei legami quella che auspichiamo per noi e per i nostri figli.
Una scuola cui si deve restituire quel rispetto quasi sacrale circa il suo mandato e le finalità.
Una scuola che sappia pretendere e costruire dentro ed intorno a sé quel rispetto, quella
solidità, quella integrità che sono il presupposto ed il prodotto del suo operare.
Una scuola in cui siano centrali i legami tra gli insegnanti e la propria vocazione, tra gli
insegnanti e le famiglie, i ragazzi, gli altri operatori.
E’ solo ricreando, coltivando legami che si può contenere, accogliere, comprendere la
violenza.
Solo legando/legandosi alla propria violenza possiamo risultare credibili nel legare/legarsi ai
violenti. Non è l’isolamento, l’espulsione, il rifiuto, che possono avere cura delle angoscie
abbandoniche e delle storie che i violenti testimoniano.
E’ invece ricreando i legami e liberando i ragazzi da dinamiche che non gli appartengono che
potremo darci e dar loro un futuro diversi.
Un futuro da abitare, da condividere, da promuovere, in cui la reciproca accoglienza e la
reciproca compassione verso sé e verso gli altri siano i valori centrali.
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GENITORIALITA’ DIFFICILI: TRA BAMBINO, FAMIGLIA,
SCUOLA E SERVIZI
Dott. Giuseppe Disnan
Psicologo e psicoterapeuta, Professore a contratto e docente master
Università degli Studi di Padova
I figli non sono nostri
I vostri figli NON SONO I VOSTRI FIGLI,
sono i figli e le figlie della brama che la vita ha di sè.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e benché vivano con voi, NON VI APPARTENGONO.
Potete dar loro il vostro amore MA NON I VOSTRI PENSIERI,
poiché essi hanno i loro pensieri.
Potete custodire i loro corpi MA NON LE LORO ANIME,
poiché le loro anime abitano nella casa del domani, che voi non potete visitare neppure in
sogno.
Potete sforzarvi di essere simili a loro, MA NON CERCATE DI RENDERLI SIMILI A VOI,
poiché la vita non procede a ritroso e non perde tempo con il passato.
Voi siete gli archi da cui i vostri figli sono lanciati come frecce viventi:
L'arciere vede il bersaglio sul sentiero dell'infinito, e con la sua forza vi tende affinché le sue
frecce vadano rapide e lontane.
Fatevi tendere con gioia dalla mano dell'Arcere:
Poiché se Egli ama la freccia che vola, ama ugualmente l'immobilità dell'arco.
Questo notissimo e suggestivo brano di Gibran fa da contrappeso ad alcuni modelli di
psicologia dello sviluppo che dalla psicoanalisi agli studi sulla famiglia fino alla più recente
teoria dell’attaccamento - vogliono gettare un ponte non solo descrittivo ma a volte quasi
causale tra caratteristiche della genitorialità e sviluppo dei figli.
Schiacciare la complessità dei percorsi evolutivi entro le strette, a volte strettissime maglie di
una causalità e di un determinismo psicogenetico, significa mortificare la ricchezza dei
percorsi personali, relazionali e sociali che, se ricadono nelle leggi statistiche che identificano
criteri e percentuali di rischio, sono non di meno sempre aperti alla dinamica delle forze che
contraddistingue la conflittualità fisiologica a ogni processo.
77
La genitorialità condiziona ma non determina, la storia personale è fondamentale ma non
univoca nei suoi prodotti, esiti simili a partire da premesse anche molto diverse, risultati
diversissimi anche a partire da condizioni molto simili o persino apparentemente uguali. Chi
ha più figli resta spesso sbalordito dai loro diversi percorsi, tanto più se le aspettative si
costruiscono sulla semplificata premessa dei “genitori sempre uguali.”
Da prospettive diverse pare allora opportuno cercare dei significati anche e soprattutto in una
logica evolutiva e strutturale, ma mantenere un’apertura di giudizio libera da ipoteche troppo
vincolanti.
QUESTA NON MI È NUOVA
Violenza e aggressività, non ancora definite come bullismo (per una esauriente rassegna
bibliografica su questo tema rinviamo al sito curato dal centro studi del Gruppo Abele), sono
problematiche rilevanti già da lungo tempo nei paesi occidentali.
In un lavoro di ricerca che data ormai oltre mezzo secolo ma ancora talmente attuale da
meritarsi l’apertura dell’ultimo volume della Psichiatrie de l’enfant, Bowlby (1944) identifica
come fattori eziologici in un campione di minori seguiti per furti nella London Child
Guidance Clinic, sia la componente genetica, sia problemi di separazione precoce, relazioni
genitoriali disturbate, traumatismi più tardivi. Egli ne auspica una diagnosi già ai 3–5 anni, al
fine di garantire forme di intervento più precoci ed efficaci.
Tra gli psicoanalisti il tema della violenza e della delinquenza fu analizzato in particolare da
Aichhorn (Aichhorn 1951) che arrivava ad indicare all’educatore come affrontare il ragazzo.
“…deve dapprima allearsi con lui, comprendere che ha delle ragioni ed essere d’accordo sul
suo comportamento; nei casi più difficili, deve all’occasione fargli capire che egli stesso,
l’educatore, non si comporterebbe in maniera diversa. (…..) Egli deve far scattare anche in
questi educandi il transfert positivo”.
Nello stesso periodo un lavoro importante di Redl e Wineman ( 1951) dal significativo titolo
“Bambini che odiano” descriveva con molta ricchezza di particolari sia i contorni del
fenomeno che le strategie per cercare di intervenire sul piano terapeutico ed educativo,
insistendo sulla necessità di un sostegno all’Io molto ampio e prolungato, con misure che, più
che di tipo psicoterapeutico in senso stretto, devono indirizzarsi all’insieme dell’ambiente di
vita del bambino.
Più o meno negli stessi anni, sul versante sociologico Cohen ( 1955) parlava di “sottocultura
delinquente” e ne descriveva alcune caratteristiche utilizzando termini quali “malignità”,
“distruttività”, “edonismo immediato”, con riferimento soprattutto al formarsi delle bande
78
giovanili, e la ricerca di Glueck (in Guedeney 2006) pubblicata nel 1950 cercava delle
correlazioni tra caratteristiche famigliari e delinquenza giovanile.
Nei due decenni successivi l’elaborazione delle teorie cognitivo comportamentali di origine
comportamentistica, per opera soprattutto di Skinner, Bandura, Dollard e altri ( Battagliere
1992), puntavano sul modello dei comportamenti appresi per introdurre forme di intervento
correttive.
Attualmente sono le numerose ricerche sull’attaccamento che sembrano indicare una certa
correlazione tra attaccamenti precoci disorganizzati e tendenza al successivo sviluppo di
disturbi del comportamento.
I TERMINI BULLISMO E VIOLENZA DI PER SÈ NON SIGNIFICANO NULLA
Sebbene il concetto di bullismo sia legato a precise caratteristiche, che implicano una
necessità di circoscriverne i confini, per differenziarlo da altri fenomeni simili ma diversi
nella sostanza, non di rado questo termine ha assunto nell’uso quotidiano una dimensione che
lo estende molto al di là del legittimo.
Allo stesso modo parlare di violenza, aggressività o comportamenti violenti e/o aggressivi è
talmente descrittivo da essere equiparabile all’anoressia per chi salta qualche pasto o
all’esaurimento nervoso, chiave di volta per ogni tipo di disagio psicologico.
In un lavoro comparso sull’ultimo numero della rivista Richard e Piggle, numero dedicato in
gran parte a queste tematiche, Jeammet (2006), uno dei maggiori studiosi dell’adolescenza
propone una lettura differenziale di termini, cha è molto ricca sul piano descrittivo e
operativo: “Dobbiamo infatti differenziare violenza e aggressività. L’aggressività agita o
limitata alle fantasie di aggressione, riguarda l’oggetto, sia esso raggiunto direttamente
dall’attacco o riflesso masochisticamente sul soggetto stesso. La violenza invece è molto più
radicale e tende non più all’aggressione ma al diniego, alla distruzione del legame con
l’oggetto e alla negazione della dimensione soggettiva dell’altro. L’aggressività testimonia
un legame e, in gran parte, lo mantiene. Essa si iscrive – essendo connessa con la libido – in
un lavoro di legame, mentre la violenza traduce un movimento di de-oggettualizzazione, cioè
di perdita del legame con l’oggetto in una prospettiva di restauro e di protezione dell’identità
del soggetto. La violenza è un comportamento narcisistico di difesa dell’identità, a finalità
sostanzialmente anti-oggettuale”.
Sono diversi un comportamento occasionale da uno reiterato, uno compiuto in solitudine o
uno di gruppo, soprattutto sono diversi i vissuti che sottendono tali fenomeni e che rinviano a
strutture di personalità altrettanto distinte.
79
Non è solo l’effetto che va analizzato (ciò che accade alle vittime, all’ambiente, alle cose) ma
al contrario, ai fini soprattutto di una valutazione di prevenzione ed intervento, il profilo
psicologico – relazionale di chi mette in atto tali comportamenti.
Dietro comportamenti superficialmente simili coesistono funzionamenti sostanzialmente
diversi, per i quali l’indicazione per interventi terapeutici e/o educativi cambia di conseguenza
radicalmente.
Risorse egoiche, strutturazione del super-io, organizzazione delle difese, risorse emozionali e
relazionali sono fattori decisivi, sia pur in costante relazione con i fattori ambientali, e
determinano i livelli di resilienza e di compliance che fissano in modo spesso largamente
irreversibile gli spazi di trattabilità.
Non esiste una soluzione per tutti i problemi o per lo meno non quella che ci aspettiamo.
Sembra quasi un’ovvietà, ma non di rado un equivoco a questo livello è fonte di
fraintendimenti e conflitti. Saper valutare e delimitare i margini di intervento possibili, saper
prevedere con una sufficiente approssimazione i risultati ottenibili, saper selezionare gli
strumenti e le strategie idonee è ciò che dovremmo fare in un’ottica di realismo e di
professionalità. Mancare questi obiettivi significa esporsi al rischio del velleitarismo,
dell’impotenza, della frustrazione. Ma alla base di molti conflitti vi è proprio questo tipo di
scarto, che innesca forme di rivendicazione, accuse reciproche, sfide e provocazioni tra coloro
che si occupano della situazione problematica.
Tenendo conto di quanto detto in premessa, è di fondamentale importanza compiere una
valutazione approfondita in particolare per quanto attiene alle caratteristiche di funzionamento
psicologico del minore.
Questi elementi risultano differenziali sia quali criteri di scelta per un intervento immediato,
sia per una prognosi a medio-lungo periodo, sia per la gestione più complessiva degli aspetti
di contesto, ove un ruolo cruciale viene ovviamente svolto dalla famiglia.
Gli aspetti che vanno indagati sono in particolare:
ƒ
la presenza di problematiche significative nella storia precedente del minore, la cui
espressività può ovviamente esprimersi su versanti diversi da quelli puramente
comportamentali (collere ed instabilità precoci, oppositività insistita, forme di crudeltà
gratuita ecc.);
ƒ
la capacità di accettare la conflittualità, piuttosto che evacuarla e viverla
difensivamente in forma persecutoria;
ƒ
la capacità di tollerare la sofferenza e quindi di vivere il disagio sotto forma di
dispiacere, vergogna, senso di colpa con la conseguente spinta alla riparazione;
80
ƒ
la presenza di risorse, sia sul piano cognitivo che emozionale, per arginare il passaggio
all’atto immediato.
In molti casi il comportamento violento è una reazione difensiva nel tentativo di proteggersi
da vissuti depressivi; l’accesso a questi sentimenti viene ostacolato o bloccato dall’angoscia
che segnala il pericolo di non riuscire a sopportarli. L’ampiezza degli spazi di contatto con la
propria depressività segna quindi l’accessibilità ad una relazione analitica che consente una
relazione di aiuto e la possibilità di un sentire, anche se sofferente. L’esclusione di questa
parte spinge all’utilizzo di difese controdepressive rigide e impermeabili, che si sostanziano in
una rinuncia a percepire il bisogno, proprio e altrui, il ricorso al diniego e alla vera e propria
contraffazione del reale.
Nella maggior parte dei casi di bullismo e/o di comportamenti violenti, la dinamica nasce
però da fattori più gruppali che individuali, o meglio da disposizioni individuali che non si
configurano ancora in un registro psicopatologico ma, che, entro dinamiche di gruppo,
sintentizzano parti più fragili, o scisse, o semplicemente aderiscono a bisogni interni di
appartenenza e/o a pressioni esterne al conformismo.
Una valutazione analoga deve riguardare le famiglia, e in particolare il tipo di funzionamento
che caratterizza le relazioni al suo interno.
In un lavoro su queste tematiche (Fava Vizziello G., Disnan G., Colucci M.R. 1991) abbiamo
mostrato come la presenza/assenza di risorse in uno o più membri della famiglia non sia un
fattore predittivo ai fini dello sviluppo di un minore, ma siano piuttosto le caratteristiche del
funzionamento famigliare e i fantasmi prevalenti che lo caratterizzano a orientare i percorsi di
crescita.
Il lavoro di Guedeney e Dugravier (2006) apparso su La psichiatrie de l’enfant, offre una
rassegna esaustiva degli studi che hanno riguardato i fattori ambientali e famigliari che
concorrono a determinare lo svilupparsi di disturbi del comportamento nei minori: si va dalle
situazioni di basso livello culturale ed economico, ai percorsi dell’attaccamento, alla presenza
di psicopatologia (in particolare l’alcoolismo o la depressione post-partum).
Sono però le dinamiche attuali quelle che possono offrire maggiori evidenze ai fini della
individuazione delle risorse disponibili per la costruzione di un progetto di intervento.
Sebbene le tipologie abbiano tutti i loro limiti, vi sono comunque delle situazioni ricorrenti
nelle relazioni famigliari del bambino con disturbi del comportamento:
La collusione consapevole: in questi casi il o i genitori si schierano a difesa estrema del
figlio e non accettano alcun tipo di mediazione. La difesa riflette quella del bambino
(proiezione paranoide) e l’intesa con lui è costruita sulla base di una alleanza narcisistica e
l’altro viene vissuto di volta in volta con disprezzo, svalutazione e rabbia. Spesso vi sono
81
esperienze pregresse dei genitori che rivivono nel figlio le loro storie, e si presentano come
modelli di riuscita personale contro la minaccia delle istituzioni che si sono frapposte per
ostacolarla. Lo sfondo psicopatologico è in genere di tipo borderline-caratteropatico,
nell’adulto e a volte anche nel minore, non necessariamente esitanti in condotte francamente
delinquenziali o apertamente trasgressive, ma subdolamente ai margini nelle relazioni sociali
e nei comportamenti pubblici. Si possono creare alleanze fortissime tra i membri della
famiglia, in cui la coesione difensiva funge da collante potentissimo. Facciamo rientrare in
questa fattispecie anche le famiglie abusanti, in cui la violenza viene agita sul figlio e questi
diventa a sua volta violento. Anche in questi casi l’alleanza si salda a volte in modo perverso,
e la relazione aggressore-aggredito viene riscattata dalla vittima divenendo parte attiva di
questo circuito. L’unica risorsa è un ricorso al controllo sociale e il richiamo alla regolazione,
anche tramite forme di premio-punizione, spesso comunque di scarsa efficacia, evitando
l’instaurarsi di rigide dinamiche conflittuali a specchio che rinforzano i vissuti persecutori.
La collusione inconsapevole: si esprime attraverso forme di passività, accondiscendenza,
debolezza, tolleranza nella gestione educativa del minore. Poiché è impossibile non
comunicare, le carenze genitoriali fatte di silenzi, omissioni, blandi interventi educativi, sono
vissute come approvazione silente o vera e propria conferma. Di fronte alle richieste
istituzionali i genitori si pongono di volta in volta come “assenti”, “muro di gomma”,
ambigui, sprovveduti, vittime, ecc., in un registro comunque non di conflittualità ma di scarsa
o inadeguata interlocuzione. Il rischio è altissimo quando si trovano a fronteggiarsi minori che
hanno già sviluppato forti tratti di oppositività e anaffettività, e genitori con strutture di
personalità labili, depressive, e/o con ridotte prestazioni intellettive.
La resistenza inefficace: è quella che pongono in essere genitori con sufficienti risorse ma
spiazzati da minori che hanno organizzato un funzionamento al limite che si esprime nei tratti
che abbiamo già descritto: resistenza agli affetti, rigidità nelle strategie cognitive e relazionali,
tendenza insistente all’acting ecc.. L’inefficacia in questi casi è posta soprattutto dalle
particolari modalità relazionali del minore, che le ripropone con insistenza e non sembra in
grado di modificarsi significativamente né con l’intervento di sostegni positivi né con la
messa in atto di punizioni.
E’ solo in queste due ultime situazioni che vi sono possibilità di intervento più efficaci, ma
come si vede per valutarle è necessario mettere in bilancio tutti gli elementi in gioco, minore e
genitori, e la tipologia delle relazioni tra questi.
Quanto più il funzionamento del minore è improntato a modalità disfunzionali e si fonda su
una alterazione del mondo interno e delle strategie di relazione, tanto più gli adulti che vi si
82
relazionano a qualsiasi livello devono fare i conti con le proprie reazioni emotive
(controtransferali diremmo in sede terapeutica) che giocano un ruolo inevitabilmente cruciale.
I comportamenti di bullismo e quelli violenti o delinquenziali / trasgressivi in senso lato, se si
generano da una personalità già parzialmente ma solidamente organizzata in una
strutturazione borderline caratteropatica (che riusciamo a scorgere nei suoi esordi già in
bambini dell’età di latenza), comportano un distanziamento e isolamento affettivi e
meccanismi di difesa rigidamente improntati all’evitamento e al non riconoscimento dell’altro
come oggetto affettivo.
L’esperienza dell’adulto, genitore o insegnante, è di profonda frustrazione e impotenza, sia
perché non riesce a creare un’alleanza stabile con il minore, sia perché ogni tipo di proposta
sembra destinata al fallimento.
E’ una sensazione del tutto particolare, che riguarda esclusivamente i minori con questo tipo
di problematica: l’esperienza è quella di non potersi mai fidare, e che i momenti in cui vi è un
apparente avvicinamento e lo svilupparsi di una temporanea alleanza, prelude a un ulteriore
scacco e tradimento in cui il rapporto appare distrutto alla radice.
Le espressioni che gli adulti utilizzano in questi casi sono significativamente ricorrenti:
ƒ
X sembra non sentirsi mai a disagio;
ƒ
X non sta male se lo punisco;
ƒ
anche se gli prometto delle ricompense non cambia;
ƒ
sembra che dopo un attimo non pensi più a quanto è appena avvenuto;
ƒ
sembra voler sfidare, voler cercare lo scontro o la punizione.
Vi è in effetti a volte la sensazione di una ricerca insistita del limite massimo di resistenza
dell’adulto e/o di una sua reazione punitiva, come se il minore già sapesse inconsciamente
dove vuole arrivare e non riuscisse a fermarsi in tempo (che è proprio quanto alcuni ci dicono
e che corrisponde al concetto freudiano di “delinquente per senso di colpa”).
L’aggressività e la distruttività che vengono evacuate in forma sistematica ed indifferenziata
hanno un effetto devastante, in quanto non sono riassorbibili per essere rielaborate in forma di
reverie, per utilizzare un termine ed un concetto bioniani-winnicottiani. Lo scacco di questa
funzione ristrutturante che dovrebbe trasformare quanto vi è di in-elaborato e frammentario in
qualcosa di integro e buono restituibile come tale al bambino, comporta che si inneschino
controreazioni aggressive e di rifiuto, che sono complementari all’angoscia depressiva
dissociata cui si rivolgono.
83
Il genitore come l’educatore (ma a volte lo psicologo, il neuropsichiatria ecc. ) vengono
cortocircuitati entro questo meccanismo, e il risultato sono il rifiuto, l’allontanamento
l’espulsione.
Da parte della scuola vi è spesso una rabbia che spinge a spostare l’aggressività nei confronti
della famiglia, chiamata in causa come responsabile di non saper o di non essere stata in
grado di mettere in atto una relazione educativa adeguata, ponendo gli insegnanti nelle
condizioni attuali di impasse.
Da parte della famiglia, quando questa sia non patologica, l’impotenza nella relazione con il
figlio si somma con le rivendicazioni e la squalifica proveniente dalla istituzione scolastica,
che non è disposta appunto a credere agli sforzi che in realtà vengono compiuti.
Ciò chiude un circuito perverso di proiezioni in cui l’attacco del minore ha prodotto
aggressività libera che entra proiettivamente in circolo tra gli adulti che se ne occupano, con
le scissioni che altrettanto proiettivamente i movimenti aggressivi producono.
Si arriva a situazioni limite che sanciscono un vero e proprio fallimento della funzione
educativa, laddove la scuola chiama la famiglia di fronte a situazioni che ritiene di non poter
gestire, e “consegna” il figlio ai genitori perché se ne occupino loro. Ci è capitato di
intervenire in occasioni del genere per cercare di interrompere queste dinamiche perverse, per
effetto delle quali una madre ci diceva di vivere da tempo ossessionata dal possibile suono del
cellulare che poteva essere la chiamata dell’insegnante con la richiesta di ritirare il figlio di 7
anni dalla scuola a seguito dell’ennesimo atto di trasgressione, secondo un progetto
proposto/imposto dalla scuola stessa.
Nel lavoro di consulenza con la scuola siamo in questi casi fatti oggetto di richieste che hanno
carattere di urgenza, si esprimono in una forma di grande partecipazione emozionale, e
oscillano tra la richiesta di una restituzione puramente emozionale, che si concretizza nello
spazio per una espressione dell’ansia che viene proposto, a una fortemente operatoria, che
deve concretizzarsi nella definizione della problematica e nella indicazione di misure da
assumersi in classe e nei confronti della famiglia. ( Disnan G., Fava Vizziello G. 2005).
La situazione assume contorni ancora più drammatici in adolescenza: “Il grande potere
dell’adolescente si basa sulla sua possibilità di prendere iniziative che possono risultare
concretamente molto minacciose per i genitori: “ me ne vado”, “smetto di studiare”, “resto
incinta”, “frequento chi voglio”, “tengo il segreto”. Usa questo potere nella contrattazione
di ogni giorno, facendolo diventare il centro dei nuovi nuclei di conflittualità della relazione”
(Fava Vizziello G., Disnan G. 2003).
E ancora il già citato Jeammet: “Pur vedendo emergere in adolescenza un certo numero di
violenze, non si può far equivalere violenza e adolescenza. Non solo gli adolescenti sono
84
violenti. Bisogna stare in guardia di fronte alla tendenza degli adulti ad evacuare il problema
sui giovani, in modo completamente abusivo. Tuttavia, l’adolescenza resta un momento
privilegiato di insediamento di tali comportamenti, sia etero che auto-aggressivi.”
L’area degli interventi a questo livello si amplia, coinvolgendo spesso i servizi sociali, quelli
psicologici, strutture residenziali, forze dell’ordine.
Questa aumentata “potenza” dell’ex bambino ormai diventato ragazzino-ragazzo pone la
famiglia e i servizi di fronte a scelte che non possono essere più procrastinate, e a volte si
concretizzano in allontanamenti in strutture residenziali o semiresidenziali il cui valore,
efficacia e significatività sono molto diversi a seconda che si effettuino:
1) d’intesa con la famiglia, a volte su sua richiesta, in un progetto concordato di sostegno
alla genitorialità. Significa che non si connota la funzione genitoriale come cattiva ma
semmai come insufficiente di fronte al bisogno, che la si integra e non la si esautora,
che la si considera parte essenziale del progetto, in una alleanza tra adulti;
2) in una forma non punitiva o di rifiuto, ma nell’ottica di un aiuto a minore e famiglia.
In particolare è evidente che se alla base delle problematiche comportamentali vi sono
spesso, come detto, vissuti depressivi, il fantasma dell’abbandono/rifiuto non possa
non assumere rilevanza. La consapevolezza di ciò deve portare ad un lavoro di
elaborazione con il minore, così come con la famiglia che può viversi come cattiva in
quanto rifiutante, piuttosto che incapace.
Come si vede la genitorialità, in situazioni come quelle di cui ci occupiamo, si trova in una
situazione di scacco a più livelli:
1) si tratta di situazioni spesso poco permeabili all’intervento sia educativo che
terapeutico;
2) la rilevanza sociale e la visibilità pubblica delle condotte dei minori espongono le
famiglie ad una riprovazione sociale;
3) ciò crea spesso alleanze contrarie e rivendicazioni da parte di altre famiglie;
4) spinge le istituzioni a “scaricare“ sulla famiglia il compito di riportare a una condotta
adeguata il minore;
5) produce nel genitore una ferita narcisistica rilevante;
6) si protrae nel tempo per la difficile gestibilità e la frequente cronicità del problema;
7) coinvolge diverse istituzioni.
L’insieme di questi fattori produce, ove la genitorialità non sia apertamente collusiva con il
funzionamento deviante/trasgressivo del minore una impasse che non investe solo o
85
principalmente i genitori in quanto tali, ma che riguarda l’intera funzione della “genitorialità
allargata”.
Intendiamo riferirci al fatto che normalmente, accanto e al di là della funzione genitoriale
diretta, vi sono altre figure (in primis quelle educative afferenti alla scuola, ma accanto a
queste quelle sociali, o altre che operano nel settore ludico-ricreativo, sportivo, ecc.) che
svolgono una funzione genitoriale nei confronti dei minori che gli sono in varia forma affidati
(Fava Vizziello G., Disnan G. e al 1996).
Questo ruolo dovrebbe essere integrativo ma non sostitutivo di quello famigliare, anche se a
volte, nei casi di collocazione in strutture residenziali di accoglienza, si avvicina molto a
quello di una famiglia alternativa.
In ogni caso questa tipologia di problematiche risulta tra quelle che impongono a nostro
parere una scelta cruciale alle istituzioni, dalla quale dipende il tipo di gestione che ne viene
attuata e le conseguenze che ne derivano.
Partiamo dal presupposto che, se tutti gli adulti a contatto con il minore svolgono un qualche
tipo di funzione genitoriale, sebbene la famiglia sia quella più responsabile, proprio per
questo paradossalmente a volte ciò si dimostra uno svantaggio per la sua possibilità di
intervenire positivamente.
Ci riferiamo non solo alle situazioni in cui questa sia carente fin quasi all’impotenza, ma
anche a quelle in cui può proporre buone risorse generali, che entrano però in scacco di fronte
a conflittualità che sono giocate dal minore proprio all’interno della fantasmatica famigliare.
Ovviamente tali conflittualità per un effetto di transfert vengono traslocate, proiettate e
riprodotte anche altrove, ma la loro valenza in tal caso è comunque diversa, e consente una
diversa possibilità di gestione.
Entrano semmai in ballo in questo caso le reazioni degli adulti coinvolti che, come detto,
rimettono in gioco le proprie esperienze pregresse che sono più o meno attrezzate al confronto
con le problematiche in atto.
Diventa a questo punto cruciale la rete relazionale che a livello simbolico, ma con inevitabili
ripercussioni sul reale, si struttura intorno al minore.
In genere le istituzioni richiedono alla famiglia di collocarsi in una posizione di
collaborazione, che sul piano descrittivo, così come formulata, può rivestire i significati più
diversi.
In realtà la collaborazione varia a seconda delle risorse che sono in gioco, e le tipologie di
famiglia che abbiamo descritto sono espressione di genitorialità non omologabili.
Nella rappresentazione degli operatori ( insegnanti ad esempio) la rete simbolica può essere
rappresentabile in questo modo:
86
scuola
famiglia
minore
che significa pensare la famiglia su un piano paritetico rispetto alla scuola, con compiti e
risorse diverse ma con eguale qualità della funzione educativo/relazionale.
Alternativamente la rappresentazione può essere la seguente:
scuola
(famiglia)
minore
in cui la famiglia è di parziale supporto al ruolo della scuola, ma le cui risorse sono sentite
come instabili, non sempre sufficienti e/o adeguate.
Infine possiamo pensare a un modello di questo tipo:
scuola
famiglia
minore
in cui la famiglia viene assunta non solo come parte del sistema, il che è auspicabilmente una
costante, ma come elemento nei confronti del quale assumersi funzioni di presa in carico.
La famiglia che abbiamo definito a “resistenza inefficace” può essere collocata nei primi due
schemi descritti; la famiglia a “collusione inconsapevole” soprattutto nel secondo, quella a
“collusione consapevole” nel terzo.
Una risposta mirata al problema del bullismo e della violenza dei minori consiste quindi
nell’individuare i contorni delle genitorialità che li accompagnano, nel differenziarne risorse e
limiti, e nel collocarsi, come istituzioni, in una giusta posizione di collaborazione/confronto,
avendo per quanto possibile una visione realistica degli obiettivi raggiungibili e delle strategie
più indicate per raggiungerli.
Questo ci riporta alle premesse che avevamo posto, e che fanno da contorno e linea per la
scelta delle strategie; senza una attenzione precisa a questi fattori si rischiano aspettative
velleitarie ed inevitabili frustrazioni che scatenano spesso rabbie e conflitti tra e con
professionisti e famiglie, proprio in un’area dello sviluppo in cui aggressività distruttività e
violenza sono spesso in circolo in forme scarsamente elaborate ed instabili.
87
BIBLIOGRAFIA
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Redl F., Wineman D. (1951): “Children who hate”. Free Press Glencoe. Trad. It. . “Bambini
che odiano” Boringhieri Milano 1974
88
TERZA SESSIONE
Bulli e violenti a scuola
Presiede:
Prof. DINO DEL PONTE
Dirigente Scolastico ed ex coordinatore settore handicap e politiche giovanili
Ufficio Scolastico Provinciale di Udine
89
STRATEGIE D’INTERVENTO ANTIBULLISMO:
LA COSTRUZIONE DELLA “SAFE SCHOOL”
Prof. Daniele Fedeli
Ricercatore e Docente di Psicologia delle Disabilità Università degli Studi di Udine
Qual è il primo passo da compiere nell’affrontare il bullismo? Chi bisogna coinvolgere? Quali
strategie è opportuno adottare? È necessario anche il coinvolgimento dei genitori? Le
soluzioni trovate devono essere adattate all’ordine di scuola? Si tratta solo di alcune delle
domande che potremmo porci nel momento in cui decidiamo di risolvere il problema
‘bullismo’. La risposta, che sempre più scuole stanno iniziando a percorrere, si riassume
nell’espressione ‘Politica Scolastica Antibullismo’.
Cos’è in concreto la Politica Scolastica Antibullismo? Potremmo dire che consiste nell’atto
consapevole, deliberato e organizzato con cui la scuola, in tutte le sue componenti, stabilisce
che il bullismo non è accettabile in alcuna forma e che verranno attuate tutte le misure
preventive e rieducative necessarie a contrastarlo.
Possiamo attenderci che tutti gli insegnanti, i genitori e gli allievi siano immediatamente
d’accordo nel considerare il bullismo un problema reale e preoccupante? E nell’impegnarsi
attivamente contro di esso? Anche la persona più ottimista non potrà aspettarsi tanto dalla
vita. Cosa fare allora? La soluzione migliore sembra essere quella di partire con un gruppo
ristretto di persone molto motivate e già sensibili nei confronti del problema. Quali funzioni
avrebbe questo gruppo?
Fondamentalmente, il team antibullismo deve costituire il motore che attiva e guida tutto il
percorso di elaborazione della Politica Scolastica Antibullismo, soprattutto nelle fasi critiche.
In specifico, il team dovrebbe:
1. redigere la Politica Scolastica Antibullismo;
2. favorire il progressivo coinvolgimento di tutte le componenti scolastiche;
3. mantenere alta la motivazione;
4. supervisionare e rivedere l’intero programma;
5. fornire assistenza ai singoli casi.
Chi fa parte di questo team?. Un team efficace dovrebbe includere: 5-6 insegnanti; 2-3
genitori; 1-2 specialisti dei servizi territoriali; 1-2 studenti. Le funzioni e le responsabilità del
team richiedono una preparazione di base, che permetta ai componenti di acquisire le
conoscenze e le competenze necessarie ad affrontare il fenomeno ‘bullismo’ ed a guidare
90
l’intero processo scolastico. In questo ambito esistono esperienze differenti, che di volta in
volta sottolineano maggiormente i momenti di discussione o quelli di vero e proprio training.
Una volta costituito, il team antibullismo si trova di fronte un compito molto importante e
delicato, che consiste nell’analisi del problema ‘bullismo’ a scuola. Questo passo ha alcune
funzioni principali:
1. permette di avere una visione del fenomeno per come si verifica concretamente nei
suoi aspetti qualitativi e quantitativi;
2. fornisce una linea di base, ossia una stima iniziale del problema, con la quale
confrontare gli effetti dei vari interventi che verranno adottati;
3. infine, agisce come un potente motivatore al cambiamento per tutte le componenti
scolastiche: insegnanti, genitori, allievi, ecc.
Si tratta di un processo molto delicato e complesso, che richiede di prendere in esame molte
dimensioni, con differenti strumenti e chiamando in causa informatori diversi.
Essenzialmente, dovremmo poter raccogliere tre tipi di informazione:
1. frequenza degli episodi di bullismo;
2. tipologie e modalità (si tratta di bullismo fisico o verbale? Avviene in maniera
nascosta o in presenza di altri allievi? ecc.);
3. luoghi e momenti (in quali ambienti si manifesta più frequentemente? Ed in quali
momenti?) Ad esempio, se capita soprattutto nelle ultime ore della giornata potrebbe
essere utile una diversa organizzazione didattica, che eviti di relegare in quei momenti le
attività meno supervisionate dall’adulto.
I tre indicatori riguardano soprattutto l’estensione e la gravità del problema. Potremmo
tuttavia essere interessati ad includere anche alcuni indicatori relativi alle modalità con cui la
scuola affronta il bullismo, almeno nella percezione degli allievi. Ad esempio potremmo
raccogliere informazioni sulle persone alle quali si rivolgono gli allievi quando hanno un
problema di bullismo osservato o subito: insegnante, genitori, amici, ecc.
Questo dato è molto importante nel momento in cui progettiamo gli interventi antibullismo.
Infatti, qualora rilevassimo che nella grande maggioranza dei casi i ragazzi non si rivolgono
agli insegnanti, allora la nostra politica antibullismo dovrebbe prevedere un rafforzamento
delle relazioni allievo-insegnante.
Finora il lavoro è stato compiuto prevalentemente dal team antibullismo. A questo punto,
però, si tratta di allargare il coinvolgimento delle altre componenti della scuola, attraverso un
processo di sensibilizzazione al problema ‘bullismo’ e di motivazione al cambiamento.
Gli obiettivi di questa fase sono:
91
1. diffondere conoscenze corrette sul bullismo, sulle sue manifestazioni, sulle tipologie e
sulle possibili cause;
2. confutare falsi miti e credenze, che giustificano il bullismo;
3. informare sull’incidenza del problema a scuola. Si tratta cioè di riportare i dati emersi
nella fase precedente;
4. motivare una partecipazione allargata da parte degli insegnanti, degli allievi e
possibilmente delle famiglie. Inoltre, sarebbe opportuno un coinvolgimento anche di enti
ed istituzioni del territorio, in modo tale da creare una rete;
5. presentare il percorso antibullismo che si vuole intraprendere, con le ricadute positive
sia per il benessere emotivo che per l’apprendimento degli allievi;
6. inviare un segnale ai bulli. In altri termini, questa fase di sensibilizzazione manda un
messaggio chiaro ai soggetti aggressivi: “ci stiamo attrezzando per fermare il bullismo. Da
oggi non sarà più tollerata alcuna forma di aggressività a scuola”.
In che modo è possibile svolgere questa opera di sensibilizzazione? Anche in questo caso,
disponiamo di alcuni strumenti molto efficaci. Il primo passo consiste nell’organizzare
riunioni con gli insegnanti, attraverso cui favorire una diffusione progressiva delle conoscenze
in tutto il tessuto scolastico, nonché alzare il livello di guardia nei confronti del bullismo.
L’obiettivo di fondo, di questi incontri, è quello di raggiungere il massimo grado possibile di
coerenza educativa, attraverso la condivisione di almeno i seguenti punti:
1.
un vocabolario relativo al bullismo;
2.
alcune ipotesi esplicative;
3.
alcune strategie di gestione delle situazioni problematiche.
La maggior parte delle esperienze, condotte sia in Italia che all’estero, sottolineano che il
successo dei percorsi antibullismo è strettamente collegato al grado di coinvolgimento degli
studenti. Solo in questo modo, infatti, sarà possibile una relazione basata sulla collaborazione,
sul rispetto e sulla fiducia reciproca. Altrimenti, anche il percorso antibullismo sarà visto
come l’ennesimo armamentario di cui si dota l’insegnante per gestire, in modo unidirezionale,
la disciplina in classe.
Il coinvolgimento degli allievi comporta numerosi vantaggi:
ƒ
si sviluppa la consapevolezza del problema;
ƒ
aumenta la probabilità che gli allievi riferiscano gli episodi di bullismo, in quanto
avvertono che la scuola si sta organizzando in maniera efficace per aiutarli;
ƒ
viene favorita la proposta di soluzione da parte degli studenti stessi, incrementando
quindi la loro motivazione;
92
ƒ
si esercitano una serie di abilità di comunicazione e di confronto interpersonale,
attraverso la riflessione su cos’è il bullismo, come si manifesta, come si contrasta, ecc.
I gruppi possono essere costituiti inizialmente dagli allievi di una classe, in modo tale che sia
presente già un certo livello di conoscenza reciproca. In alcuni casi, però, quando la classe è
caratterizzata da fenomeni di bullismo, perpetrati da alcuni ragazzi, può essere utile anche
organizzare dei gruppi di discussione trasversali tra le classi. In questo modo, la piccola gang
viene smembrata e viene ridotto il potere di ciascuno dei suoi membri. Questi momenti di
discussione richiedono due accorgimenti molto rilevanti:
1.
in primo luogo, devono essere programmati con molta attenzione, senza lasciarli
all’improvvisazione o alla buona volontà del singolo insegnante. Infatti, questo passo
rappresenta il primo chiaro segnale che viene inviato ai ragazzi: bulli, vittime e
spettatori. Qualsiasi elemento di incertezza o confusione determinerà nei ragazzi un
senso di completa sfiducia, compromettendo tutto il percorso successivo;
2.
in secondo luogo, l’adulto deve essere in grado di gestire questi gruppi con elevata
competenza, evitando sia atteggiamenti eccessivamente direttivi ed autoritari, sia
comportamenti permissivi. Nel primo caso, infatti, la discussione si trasformerebbe in
una sorte di lezione o di interrogazione, annullando completamente la partecipazione
dei ragazzi; nel secondo caso, invece, il gruppo diventerebbe una sorta di ring, nel
quale i soggetti più aggressivi finirebbero col prevalere.
Attraverso una discussione guidata, in cui si alternano momenti di lavoro individuale, piccoli
gruppi e analisi collettiva, si cerca di evidenziare i seguenti punti:
ƒ
cos’è il bullismo;
ƒ
come si manifesta;
ƒ
quali sono le conseguenze del bullismo.
I genitori sono degli interlocutori molto importanti, in quanto il loro coinvolgimento
garantisce una piena coerenza educativa tra scuola e famiglia. Purtroppo, non sempre questi
rapporti sono positivi. Spesso, soprattutto in presenza di comportamenti problematici,
insegnanti e genitori si rimpallano le accuse di chi sia il responsabile. Questa situazione è la
conseguenza del fatto di affrontare il dialogo con la famiglia soprattutto nei momenti di crisi,
quando cioè il ragazzo ha compiuto qualche atto aggressivo. Viceversa un dialogo costruttivo
dovrebbe essere perseguito nei momenti di quiete, quando non sono presenti problemi
particolari e tutti i protagonisti hanno un tono emotivo più calmo e controllato.
È anche importante considerare il rapporto scuola-famiglia come una vera e propria
partnership educativa, nella quale nessuno ha un ruolo predominante o di accusa nei confronti
93
degli altri. Anche in questo caso, si tratta di un punto spesso delicato. Infatti, una lunga e
criticabile tradizione psicopedagogica individua nella famiglia l’origine di tutti i mali dei
ragazzi. Questa impostazione, ampiamente diffusa in passato nell’opinione pubblica, induce i
genitori su una posizione difensiva, che non facilita il rapporto con la scuola. Ovviamente, è
compito soprattutto degli insegnanti assumere un atteggiamento relazionale non giudicante
nei confronti della famiglia.
Lo strumento principale, per favorire questo rapporto, può consistere in una serie di incontri,
durante i quali:
1. vengono affrontate le principali tematiche del bullismo. Questa comunicazione
dovrebbe consistere di due componenti molto importanti. Da un lato, dovrebbe
evidenziare i danni che il bullismo può provocare, nonché l’incidenza del fenomeno. In
questo modo, si cerca di motivare anche le famiglie ad una maggiore attenzione nei
confronti di questo problema. Dall’altro lato, però, si dovrebbero indicare ai genitori le
numerose strategie, di cui si dispone attualmente, per sconfiggere il bullismo. In altri
termini, si tratta di indurre un atteggiamento positivo e proattivo. In caso contrario, di
fronte alla paura del bullismo ed alla percezione della sua ineluttabilità, potrebbe
comparire semplicemente un atteggiamento di inerzia operativa;
2. si illustra il processo antibullismo che la scuola sta costruendo. L’obiettivo è quello di
spiegare la logica e le ragioni di questo lavoro. Inoltre, devono essere esplicitate le
modalità di coinvolgimento dei genitori stessi nell’elaborazione e nell’implementazione
della politica scolastica.
Qualunque siano le modalità scelte per condurre tali incontri, l’obiettivo di fondo è quello di
rendere anche i genitori protagonisti di questo lavoro. A fini informativi, possono essere
utilizzate le diapositive allegate.
Il successo della politica scolastica antibullismo dipenderà in parte anche dalla capacità di
trovare risorse nel territorio. Al fine di raggiungere questo traguardo, possono essere
organizzate delle conferenze allargate a tutta la comunità di appartenenza, prevedendo
eventualmente inviti specifici ad alcuni enti significativi.
Se la fase di sensibilizzazione e di motivazione ha avuto successo, aumentando la
partecipazione degli insegnanti, dei genitori e degli allievi, è possibile finalmente dedicarsi
all’elaborazione concreta della Politica Scolastica Antibullismo. Viceversa, se quest’ultimo
documento viene redatto in assenza di un coinvolgimento allargato e motivato, allora il
rischio è quello di produrre semplicemente un altro pezzo di carta, che non verrà mai attuato e
che finirà in un cassetto.
94
Non esiste un unico modo di elaborare la Politica Scolastica Antibullismo. Né è possibile
fissare in maniera rigida le componenti di essa. Queste scelte dovranno essere compiute in
base alle caratteristiche della singola scuola ed in base alla gravità del problema. Il gruppo
incaricato di questo lavoro non dovrebbe preoccuparsi di elaborare una Politica Scolastica
Antibullismo immediatamente perfetta e completa. L’aspetto importante, infatti, non è tanto il
risultato finale, quanto il processo attivato. In altri termini, l’elemento veramente cruciale
risiede nell’aumento di consapevolezza sul problema, derivante dai differenti momenti di
discussione attivati.
In linea generale, il team nel suo lavoro deve rispettare fondamentalmente tre criteri:
1. le scelte devono essere finalizzate non tanto a stabilire la verità assoluta su quanto
avviene a scuola ed a punire i colpevoli di bullismo, quanto a risolvere i problemi. Infatti,
talvolta alcune opzioni operative, pur colpendo il bullo, non eliminano il problema di
passività della vittima, che continuerà a subire atti di prepotenza;
2. la precisione della Politica deve coniugarsi con una necessaria flessibilità, che
permetta di apportare eventuali modifiche. Una Politica troppo rigidamente fissata, infatti,
non sarebbe permeabile ad alcun miglioramento. D’altro canto, anche un’eccessiva
flessibilità aprirebbe la strada a continue incoerenze educative. La grande responsabilità
del team sarà allora quella di trovare un adeguato equilibrio tra queste due dimensioni;
3. infine, è importante che la Politica Scolastica Antibullismo preveda sempre due
componenti: una reattiva ed una proattiva. La componente proattiva comprende una serie
di interventi e di strategie educative di tipo preventivo, volte cioè a promuovere un clima
positivo e cooperativo nella scuola e nelle classi. In questo modo, si riduce la probabilità
di comparsa di comportamenti problematici. La componente reattiva, invece, implica
specifici interventi volti a gestire situazioni palesi di bullismo. L’obiettivo, in questo caso,
è quello di ridurre la durata degli episodi aggressivi, nonché le loro conseguenze. Una
Politica Scolastica Antibullismo che puntasse esclusivamente sulla componente proattiva
non sarebbe in grado di affrontare i momenti di crisi. D’altro canto, la presenza solamente
delle strategie reattive significherebbe vivere in un costante stato di emergenza.
Rispettate queste tre condizioni, il team antibullismo può utilmente raccogliere informazioni
su quanto è stato già fatto in altre scuole. A questo proposito, possono tornare utili
pubblicazioni, siti internet o il confronto con insegnanti e dirigenti di altre realtà.
Arriviamo infine ai contenuti ed ai capitoli della Politica Scolastica Antibullismo.
95
L’APPROCCIO EDUCATIVO GENERALE
Il primo capitolo dovrebbe definire la cornice concettuale entro cui collocare la parte
operativa della Politica Scolastica Antibullismo.
1A. Quali sono le finalità della scuola?
1B. Quale approccio educativo generale adottiamo?
LE REGOLE A SCUOLA
Il secondo ampio tema da definire è quello delle regole. In ambito scolastico, esistono
moltissime regole, formali ed informali. Molti problemi disciplinari nascono proprio
dall’infrazione di qualcuna di esse. Viene talvolta da chiedersi: se fosse proprio la regola a
provocare il problema di comportamento. In altri termini, siamo così sicuri che le regole siano
veramente funzionali?
2A. Quali regole adottiamo a scuola ed in classe?
2B. Quali e quante sanzioni e premi utilizziamo?
2C. Quali modalità utilizziamo per la diffusione delle regole?
LA DEFINZIONE DI BULLISMO
Precisati i valori di base e le regole generali di comportamento, si arriva al punto chiave, ossia
la definizione di bullismo.
3A. Cos’è il bullismo?
3B. Esistono delle forme di bullismo più gravi di altre?
3C. Quali differenze esistono tra il bullismo ed altri comportamenti problematici?
3D. Quando siamo oltre il bullismo?
LE STRATEGIE DI PREVENZIONE
Abbiamo già detto che la Politica Scolastica Antibullismo deve prevedere una componente
proattiva, ossia un insieme di strategie volte a promuovere comportamenti prosociali tra i
ragazzi. Infatti, gran parte della sfida al bullismo si gioca sul piano preventivo. Se perdiamo
questa occasione, difficilmente potremo raggiungere risultati soddisfacenti e duraturi.
4A. Che tipo di valori prosociali vogliamo promuovere a scuola ed in che modo?
4B. Come possiamo individuare ed intervenire sui gruppi a rischio?
4C. In che modo gli insegnanti e gli altri adulti possono mostrare agli allievi delle
modalità non aggressive di risoluzione dei conflitti?
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LE MODALITA’ DI RILEVAZIONE
Il quinto capitolo è molto importante, forse il più critico per il successo dell’intero percorso.
Infatti, si tratta di progettare ed attuare delle modalità di rilevazione e di individuazione dei
fenomeni di bullismo. Se questo sistema non funziona in maniera ottimale, qualsiasi strategie
educativa e riabilitativa risulterà inutile o addirittura dannosa.
5A. Chi può denunciare gli atti di bullismo?
5B.Con quali modalità gli allievi dovrebbero denunciare gli atti di bullismo?
5C. Cosa e come dovrebbe essere registrato?
5D.Chi è il responsabile di questo sistema?
5E.Come è possibile individuare le denunce false?
LE MODALITA’ DI RISPOSTA
Eccoci giunti al punto che attira maggiormente l’attenzione degli insegnanti, ossia le modalità
di risposta al bullismo. Anche in questo caso, dobbiamo affrontare una serie di questioni
molto delicate.
6A. Chi dovrebbe rispondere agli atti di bullismo?
6B. Quando e come si dovrebbe rispondere?
6C. È necessario predisporre modalità di risposta differenti per le diverse modalità di
bullismo?
6D. In che modo possiamo supportare le vittime?
6E. Cosa si dovrebbe fare se i fenomeni di bullismo persistono?
6F. Quando e come si dovrebbero coinvolgere i genitori?
I SISTEMI DI VERIFICA
La verifica dell’intera Politica Scolastica Antibullismo è fondamentale. A questo punto,
prevediamo i seguenti passaggi.
7A. In che modo si verificherà se la politica antibullismo funziona?
7B. Chi sarà coinvolto in questo processo?
7C. Cosa si dovrebbe fare se la politica antibullismo non funziona?
LE RISORSE E LE RESPONSABILITA’
Siamo giunti da ultimo ad uno dei punti che preoccupa maggiormente la dirigenza
scolastica, ossia le risorse necessarie. Dedichiamo allora qualche parola anche a questi
aspetti, precisando subito che non si tratta solamente di risorse economiche. Spesso, anzi,
risorse umane e flessibilità strutturale risultano ancora più decisive.
8A . Quali cambianti dovrebbero essere introdotti nella struttura e nelle routine
scolastiche?
97
8B. Quali cambiamenti dovrebbero essere introdotti nelle modalità di gestione della
disciplina?
8C. Quali e quante risorse sono necessarie per implementare una politica
antibullismo?
Esiste un rischio sempre in agguato: la Politica Scolastica Antibullismo può trasformarsi in un
semplice pezzo di carta, in un’affermazione di intenti priva di reali ricadute operative. E, nel
giro di poco tempo, finisce dimenticata o, peggio ancora, viene ricordata con delusione e
frustrazione. Per evitare questi rischi, è necessario non fermarsi dopo la redazione della
Politica, ma proseguire con altri passi fondamentali. L’applicazione delle strategie contenute
nella Politica Scolastica Antibullismo richiede ovviamente la padronanza, da parte di tutte le
componenti della scuola, di alcune abilità di base. A tal fine, dovrebbe essere prevista una
formazione allargata.
Oltre a questa formazione iniziale, dovrebbero essere previsti dei momenti specifici per i
nuovi insegnanti che arrivano a scuola nel corso degli anni. Ognuno di essi dovrebbe ricevere
informazioni approfondire sulla Politica Scolastica Antibullismo, nonché una formazione in
tal senso. In questo modo, è possibile garantire una buona coerenza educativa, nonostante
l’elevato tasso di mobilità che caratterizza la nostra scuola.
Inoltre, non dovrebbe essere trascurata neanche la possibilità di coinvolgere in questo
processo formativo i genitori, almeno nelle due fasi iniziali di conoscenza del problema.
Relativamente alla parte di acquisizione di abilità, potrebbe essere previsto un percorso
differenziato di Parent Training.
Un passo molto importante, sia per motivare tutte le componenti della scuola sia per ottenere
appoggi esterni, consiste nella fase di pubblicizzazione della Politica Scolastica Antibullismo.
Questo obiettivo può essere raggiunto attraverso un lancio iniziale (ad esempio, una
conferenza allargata alla comunità) ed una serie di strumenti (newsletter, sito internet della
scuola, incontri periodici, ecc.).
Affrontiamo a questo punto un argomento molto delicato, che soprattutto in passato ha indotto
alcune scuole a guardare con una certa preoccupazione la prospettiva di elaborare una Politica
Scolastica Antibullismo. C’è il timore, infatti, che dotarsi di specifici strumenti antibullismo
significhi implicitamente ammettere l’esistenza dello stesso, inducendo così alla fuga molte
famiglie. Purtroppo, si tratta di una paura giustificata, sebbene del tutto controproducente e
paradossale. Infatti, ogni giorno la cronaca ci riporta episodi di bullismo, che riguardano fasce
d’età sempre più giovani. Nessun contesto sociale o geografico sembra completamente esente
da questo problema. Dotarsi di una Politica Scolastica Antibullismo, allora, significa adottare
uno strumento per prevenire il fenomeno, anche laddove esso non esiste. Gli anni passati,
98
infatti, hanno mostrato che l’inerzia operativa può rappresentare un terreno molto fertile per
l’insorgenza di questa problematica. Basti pensare che solo 10-15 anni l’idea di babygang
sembrava confinata ai ghetti delle grandi città americane. Purtroppo, questo fenomeno sembra
ormai sbarcato anche da noi. Inoltre, la Politica Scolastica Antibullismo non deve essere vista
come uno strumento di repressione. Infatti, una sua parte rilevante consiste nella trasmissione
di una serie di abilità (prosociali, comunicative, emozionali, ecc.) che comunque migliorano il
benessere e la qualità della vita a scuola, a prescindere dalla presenza di bullismo.
La fase di diffusione della Politica Scolastica Antibullismo, allora, serve anche a dissipare
questi dubbi e ad illustrare le potenzialità educative del percorso intrapreso.
L’ultimo passo consiste nel monitoraggio continuo della Politica Scolastica Antibullismo. Ciò
significa che periodicamente dovremo verificare se gli episodi di aggressività diminuiscono,
si mantengono stabili o addirittura peggiorano. Quest’opera di controllo può essere effettuata
lungo un duplice canale:
1. da un lato, il sistema di rilevazione (vd. punto 5) permette di individuare
tempestivamente delle improvvise modificazioni nell’incidenza del bullismo. In tali casi,
ovviamente è necessario che il team antibullismo si attivi rapidamente per trovare una
risposta efficace;
2. dall’altro lato con cadenza almeno annuale dovremmo ripetere la rilevazione iniziale
(ad esempio, tramite il questionario agli studenti).
Cosa ci possiamo attendere da una Politica che funziona? Fondamentalmente, dovremmo
riscontrare un tasso di riduzione dei fenomeni di bullismo almeno del 20% l’anno. Tuttavia, è
necessario tenere sempre presenti due cautele. In primo luogo, è molto probabile che nei primi
tempi gli episodi di bullismo sembrino aumentare. Non si tratta tuttavia di un incremento
reale, quanto del fatto che più ragazzi sono disponibili a denunciare fenomeni di bullismo. In
altri termini, non bisogna allarmarsi di questo dato, in quanto segnala che la Politica sta
funzionando bene. Pertanto, la riduzione del bullismo dovremo verificarla a partire almeno
dal secondo anno.
In secondo luogo, il monitoraggio dovrebbe considerare più indici, senza limitarsi alla
semplice frequenza degli atti aggressivi. Nella tabella seguente sono riportati gli indicatori di
cambiamento più importanti.
99
Maggiore disponibilità a
denunciare atti di bullismo
Un elemento assolutamente da non trascurare riguarda il
numero di allievi che sono disposti a riferire all’adulto
gli atti di bullismo osservati o subiti. Questo indice,
infatti, testimonia il fatto che la Politica Scolastica
Antibullismo funziona in maniera ottimale e, soprattutto,
appare credibile agli occhi degli studenti.
Riduzione del numero degli
episodi di bullismo
Un secondo indicatore riguarda la riduzione della
frequenza degli atti di bullismo in un determinato arco
temporale.
Riduzione della durata dei
singoli episodi
Talvolta, è preferibile avere una stabilità nella frequenza
degli episodi, ma una riduzione nella loro durata. Infatti,
i danni emotivi e fisici per la vittima sono spesso
correlati alla continuità del bullismo. Pertanto, ridurre
questo indice significa limitare anche la gravità delle
conseguenze.
Minore numero di
spettatori passivi
La Politica dovrebbe agire anche sugli spettatori passivi.
Nel momento in cui un maggior numero di essi è
disponibile a denunciare gli episodi di bullismo o a
difendere la vittima, avremo compiuto un importante
passo avanti. Infatti, anche se il numero di bulli rimane
costante, questi ultimi avranno minori possibilità
d’azione.
Riduzione del fenomeno di
gruppo
In maniera del tutto simile, un indicatore di successo è
rappresentato dalla riduzione del fenomeno di gruppo
del bullismo.
Comparsa di
comportamenti prosociali
Gli ultimi indicatori sono di segno positivo. È importante
verificare la comparsa di comportamenti prosociali, che
possono rappresentare un argine importante nello
sviluppo del bullismo.
Miglioramento del
rendimento scolastico
Infine, il miglioramento nel rendimento scolastico degli
allievi può essere assunto quale indice, seppure indiretto,
della riduzione dei fattori stressogeni nella scuola,
compreso ovviamente il bullismo.
100
SETTIMANA PROVINCIALE
DELLE SOLIDARIETÁ
2006
“PREPOTENTI, BULLI E VIOLENTI
A CASA E A SCUOLA”:
Conoscerli, comprenderli e contrastarli”
Strategie d’intervento antibullismo:
la costruzione della ‘safe school’
Daniele Fedeli
Ricercatore e Docente di Psicologia delle Disabilità
Università degli Studi di Udine
Emergenza bullismo?
101
I nuovi volti del bullismo
Abbassamento della soglia d’età
Fenomeno di gruppo
Aumentata incidenza del sesso femminile
Bullismo contro soggetti deboli
Normalità
102
Verso una ‘safe school’
Formazione Team
Funzioni:
Coinvolgere tutte le componenti
Mantenere alta la motivazione
Fornire assistenza ai singoli casi
Supervisionare e rivedere l’intero programma
Composizione:
5-6 insegnanti
2-3 genitori
1-2 specialisti dei servizi territoriali
1-2 studenti (scuola superiore)
Training:
Acquisizione di conoscenze su cause, tipologie, ecc.
Acquisizione di strategie d’indagine e d’intervento
Verso una ‘safe school’
Formazione Team
Analisi del problema
Indagine sul bullismo
Indici
Analisi organizzativa
Frequenza
Tipologie e modalità
Luoghi e momenti
Strumenti Questionario per studenti
Rating scale per insegnanti
Analisi degli ambienti
Peer nomination
103
La Strathclyde Map
Verso una ‘safe school’
Formazione Team
Analisi del problema
Sensibilizzazione
Elaborazione P.S.A.
1. L’approccio educativo generale
2. Le regole a scuola
3. La definizione di bullismo
4. Le strategie per prevenire il bullismo
5. Le modalità di rilevazione
6. Le modalità di risposta al bullismo
7. Le risorse e le responsabilità
8. I sistemi di verifica del programma
104
Verso una ‘safe school’
Formazione Team
Analisi del problema
Sensibilizzazione
Elaborazione P.S.A.
Formazione allargata
Intervento antibullismo
Prevenzione
Gli interventi preventivi
Training
d’abilità
Modulo d’ingresso di
alfabetizzazione emozionale
Sensibilizzazione
al problema
Strutturazione dell’ambiente
interpersonale
Circle time
Cooperative
learning
Strutturazione dell’ambiente fisico
105
Gli interventi preventivi
Il modulo introduttivo di alfabetizzazione emozionale
Periodo: primo anno di ciascun ciclo scolastico.
Obiettivi: autoregolazione emozionale,
rapporti prosociali tra allievi,
atteggiamento cooperativo.
Modulo
avanzato (10h)
Modulo di
base (20h)
Verso una ‘safe school’
Formazione Team
Analisi del problema
Sensibilizzazione
Elaborazione P.S.A.
Formazione allargata
Intervento antibullismo
Prevenzione
Intervento sulla crisi
106
L’intervento sulla crisi
Ruolo centrale
degli allievi
4° quadrante
-Tribunali
antibullismo
1° quadrante
-Peer mentoring
-Peer counselling
-Peer mediation
Approccio
punitivo
Approccio
educativo
3° quadrante
-Contratti educativi
2° quadrante
-No blame approach
-Metodo dell’interesse
condiviso
Ruolo centrale
dell’insegnante
L’approccio senza colpevoli
Bullo
Vittima
Bullo
Vittima
Resoconto
Condivisione
empatica
Gruppo
Gruppo
Proposta di
soluzioni ed
assunzione di
responsabilità
107
La mediazione tra pari
step 1: collocazione del mediatore
step 2: approccio ai soggetti in conflitto
step 3: presentazione delle regole della mediazione
step 4: racconto del primo contendente
step 5: racconto del secondo contendente
step 6: generazione di soluzioni
step 7: valutazione e scelta della soluzione
step 8: incontro di verifica
La mediazione tra pari
Supervisore
(Insegnante o altra figura)
Responsabile
del gruppo 1
Responsabile
del gruppo 2
Mediatore
Mediatore
Mediatore
Mediatore
Mediatore
Mediatore
Mediatore
Mediatore
Incontri e
assistenza
quotidiani
Incontri
settimanali o
quindicinali di
supervisione
108
Verso una ‘safe school’
Formazione Team
Analisi del problema
Sensibilizzazione
Elaborazione P.S.A.
Monitoraggio
Formazione allargata
Intervento antibullismo
Prevenzione
Intervento sulla crisi
Il monitoraggio
1. Sistema di registrazione continua dei
fenomeni di bullismo
2. Indagine tramite questionario a cadenza
annuale
3. Riduzione fisiologica annuale: - 15/20%
4. Primo anno di applicazione: incremento
dei fenomeni riferiti
109
Il successo
1.
Riduzione degli atti di bullismo riportati (dopo il primo anno).
2.
Ridotta durata dei fenomenti di bullismo.
3.
Incremento della disponibilità a denunciare gli episodi di bullismo.
4.
Minore numero di spettatori passivi o complici.
5.
Riduzione del fenomeno di gruppo.
6.
Miglioramento dei progressi compiuti dagli allievi.
110
MODELLI, COMPORTAMENTI E DINAMICHE DI GRUPPO NEL
BULLISMO A SCUOLA
Dott.ssa Marina Camodeca
Ricercatrice di Psicologia dello Sviluppo,
Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti Pescara
La scuola costituisce un ambiente particolare e fondamentale nella vita di un bambino. Oltre
al notevole contributo che la scuola fornisce allo sviluppo cognitivo del bambino, che
apprende e impara, l’ambiente scolastico costituisce anche un contesto privilegiato per lo
sviluppo sociale, comportamentale, emotivo e morale.
A scuola aumentano per il bambino le possibilità di interagire con i pari, e quindi le
possibilità di comunicare, condividere, proporre, collaborare. Le relazioni diventano più
selettive, basandosi via via sulle affinità, sulla comunanza di interessi e di attività.
Inoltre, i pari contribuiscono alla formazione dell’autostima, alla costituzione del ruolo
sociale all’interno di un gruppo, alla conoscenza di sé, all’apprendimento di alcuni
comportamenti più adatti all’interazione.
È necessario pertanto prendere in esame le relazioni che si instaurano con i coetanei per poter
comprendere eventuali difficoltà del bambino, comportamenti scorretti, o addirittura sintomi
di patologie, e poter, in definitiva, mettere in atto interventi efficaci.
Nel presente lavoro, il focus è sul fenomeno del bullismo e della vittimizzazione a scuola. Il
problema del bullismo sta attirando sempre più l’attenzione di genitori, insegnanti, dirigenti
scolastici, psicologi e di chiunque lavori in ambito scolastico. I comportamenti e le dinamiche
di gruppo innescati da fenomeni di prepotenza si prestano particolarmente ad essere analizzati
per cercare di arginare il fenomeno o di indagare altri processi evolutivi.
Cerchiamo di capire bene cosa si intende con il termine “bullismo”, che è una traduzione,
ormai comunemente accettata, dell’inglese “bullying”. Secondo la definizione di Olweus
(1993), diciamo che un bambino subisce prepotenze quando viene esposto, ripetutamente e
per lungo tempo, ad azioni negative da parte di uno o più compagni. Il bullismo è una
particolare forma di aggressività, ed è importante capire la differenza tra i due fenomeni per
non commettere l’errore di confonderli. Per parlare di bullismo è necessario che l’azione
aggressiva sia intenzionale, ingiustificata, non provocata, mirata a fare del male, continuata
nel tempo e frequente e, soprattutto, che implichi una disparità di potere o forza tra il bullo e
la vittima.
111
Le azioni aggressive con cui il bullismo si manifesta possono assumere diverse forme e
possono essere azioni aggressive di tipo diretto fisico (es. prendere a calci, picchiare,
spingere…), diretto verbale (es. insultare, prendere a parolacce…), oppure indiretto (escludere
da un’attività, parlare dietro le spalle…).
In questo caso si parla anche di bullismo relazionale o psicologico, perché l’intento è quello di
danneggiare o controllare le relazioni con i pari.
I maschi e le femmine spesso si differenziano nell’uso delle due forme, soprattutto nei primi
anni della scuola dell’obbligo. Infatti, sembra che, mentre i maschi agiscono maggiormente
prepotenze di tipo diretto, le femmine sono più abili nel bullismo indiretto, anche a causa di
una diversa educazione e di un diverso ruolo sociale.
Riguardo ai luoghi e ai momenti in cui avvengono episodi di prepotenza, c’è da dire che i
bambini prediligono quelli in cui è minima la supervisione dell’adulto, cioè luoghi come i
bagni o i corridoi, e momenti come la ricreazione o l’entrata/l’uscita da scuola.
Il bullismo è un fenomeno di gruppo che coinvolge l’intera classe. Ecco perché è importante
prendere in esame i vari ruoli che ogni compagno assume per poter indagare le dinamiche
sociali che emergono. Oltre al bullo e alla vittima, infatti, sono coinvolti il seguace del bullo,
il difensore della vittima e l’esterno (Salmivalli et al., 1996). Possiamo quindi affermare che il
fenomeno del bullismo è determinato dalle caratteristiche personali di ogni bambino insieme
alle caratteristiche del contesto sociale.
Vediamo adesso quali sono le caratteristiche comportamentali, emotive, sociali dei soggetti
coinvolti e come queste possono influenzare l’intera dinamica:
ƒ
Bullo: utilizza forza e potere per raggiungere i propri scopi. È caratterizzato da
dominanza, distruttività e impulsività. In genere manca di empatia e di altre emozioni
morali, come il senso di colpa e la vergogna (Menesini et al., 2002). Ha un’attitudine
positiva verso l’aggressività e tende ad attribuire intenzioni ostili agli altri, anche in
assenza di elementi che potrebbero definire una reale intenzionalità (Camodeca &
Goossens, 2005). È spesso rifiutato dai compagni, ma può anche essere ammirato per
la sua forza o per le sue qualità di leader.
ƒ
Vittima passiva: è un bambino caratterizzato da debolezza e fragilità, che tende a
rispondere all’aggressione con il pianto o il ritiro in se stesso. Mostra timidezza,
passività, solitudine, manca di autostima, è in genere poco popolare nel gruppo dei
pari e ha pochi amici; presenta spesso sintomi di depressione (Hawker & Boulton,
2000).
ƒ
Vittima provocatrice (o bullo-vittima, o vittima aggressiva): presenta comportamenti
esternalizzati, quali distruttività, impulsività, iperattività. Risponde alle provocazioni
112
con aggressività, che però non risulta efficace per allontanare la molestia, ma
addirittura spinge il bullo ad essere ancora più spietato (Camodeca & Goossens,
2002). I bambini con questo profilo sono attivamente rifiutati dai compagni, hanno
meno amici di tutti e costituiscono il gruppo più a rischio per problemi di tipo sociale
o psicopatologico.
ƒ
Seguace del bullo: è il gregario, colui che ride alle bravate del bullo, che lo supporta,
lo incita, “tiene ferma” o “scova” la vittima. Mostra aggressività nei confronti della
vittima e debolezza nei confronti del bullo. Questi bambini possono nascondere una
fragilità di fondo che si esprime nell’incapacità di essere bulli e nel loro bisogno di
modelli forti da seguire. Sono in genere poco popolari nel gruppo dei pari.
ƒ
Difensore della vittima. È il compagno che più spesso aiuta la vittima e si schiera dalla
sua parte, sia in maniera attiva (es. scagliandosi contro il bullo), sia standole vicino e
consolandola, sia riferendo l’accaduto agli adulti. Il difensore è caratterizzato da
prosocialità, altruismo, empatia. È il bambino più popolare nel gruppo, con molti
amici che vorrebbero la sua compagnia.
ƒ
Esterno: è il bambino che “fa finta” di non sapere, che si allontana quando percepisce
che qualcosa non va o che un episodio di bullismo sta per avvenire. Riveste un ruolo
molto importante come “spettatore” e costituisce quella “maggioranza silenziosa” che,
non intervenendo attivamente, permette in modo indiretto che gli episodi di bullismo
continuino ad avvenire. È piuttosto timido e poco assertivo, ma abbastanza popolare
nel gruppo.
Il momento più critico per la stabilizzazione del bullismo e in cui questo raggiunge l’apice è
intorno agli 11 anni, quando avviene il passaggio dalla scuola elementare alla scuola media.
In questo periodo si ridefinisce la propria identità e si entra in una scuola nuova dove bisogna
farsi accettare e i ragazzi più grandi fungono da modello. Con l’età il bullismo fisico tende a
diminuire, mentre quello relazionale aumenta, anche grazie a maggiori capacità sociorelazionali e cognitive e ad una maggiore stigmatizzazione della violenza fisica. Sebbene il
numero totale di prepotenze agite e subite diminuisca con il passaggio alle scuole superiori, i
ragazzi che rimangono coinvolti faticano molto di più per uscirne e rischiano problemi di
maggiore gravità.
Tra le conseguenze principali cui va incontro chi mette in atto le prepotenze (bulli o seguaci)
possiamo annoverare comportamenti antisociali o problematici (es. assenze da scuola,
abbandono scolastico, delinquenza, vandalismo); rischio di disturbi psichiatrici, come disturbi
della condotta o disturbo del deficit dell’attenzione; abuso di sostanze (alcool, droga).
113
Soprattutto, è stata riscontrata una continuità tra bullismo nell’infanzia, delinquenza in età
giovanile e criminalità in età adulta (Baldry & Farrington, 2000).
Per quanto riguarda le vittime, sia passive che provocatrici, queste vanno incontro a problemi
emotivi (es. depressione, solitudine, ansia) e problemi sociali (es. isolamento sociale,
evitamento di alcuni luoghi e perdita di interesse nella scuola). Sono a rischio di sviluppare
scarse competenze interpersonali e un’immagine di sé negativa. Le vittime aggressive sono il
gruppo più a rischio per esclusione sociale, bassa accettazione nel gruppo, problemi
psicologici e comportamentali, sintomi psichiatrici e comportamenti antisociali.
Appare di estrema importanza dare l’attenzione dovuta ad un problema che si sta mostrando
di sempre più vasta portata. È necessario innanzitutto che le scuole e le famiglie prendano
coscienza del fenomeno e lavorino sulla prevenzione, anche nei casi in cui non si è in
presenza di episodi di bullismo, e considerando la sofferenza delle vittime, dei bulli e dei
bambini che osservano gli episodi.
Dal momento che il fenomeno coinvolge l’intera scuola, è necessario coinvolgere quante più
persone possibili nello sviluppo degli interventi: insegnanti, personale scolastico, esperti
esterni, genitori, adulti di riferimento, bambini stessi. Un intervento a livello scuola potrebbe
basarsi sulla costruzione di linee di intervento comuni per costituire una “politica
antibullismo” e di progetti mirati (es. sportello con lo psicologo scolastico, collaborazioni con
psicologi, università, esperti esterni), oltre che sull’osservazione e monitoraggio del problema,
e sulla necessaria collaborazione scuola-famiglia.
A livello classe, potrebbe essere utile formulare regole condivise e stabilire dei momenti di
confronto e discussione (es. “circle time”), promuovere atteggiamenti di supporto, e di
richiesta di aiuto all’adulto, potenziare i rapporti interpersonali e le amicizie (es. lavori di
gruppo, compiti, cooperazione, giochi di ruolo), evitando legami negativi e favorendo quelli
positivi. È importante cercare di fornire modelli positivi e prosociali, dare fiducia e stimolo
agli alunni, promuovere l’autostima, accogliere le emozioni positive e negative e favorire
l’espressione dei sentimenti (es. attraverso il disegno, il teatro, l’attività fisica, la musica, il
gioco).
In questo modo si può sperare che i bambini sentano il clima di fiducia e di accoglienza
intorno a loro. Scuola, famiglia, territorio, strutture esterne possono (e devono) lavorare
insieme per ridurre il disagio dei bambini in ogni campo questo si manifesti, per promuovere
il loro benessere, e aiutarli a crescere.
114
ESPERIENZE SUL NO BULLISMO A SCUOLA
Prof. Dino del Ponte
Dirigente Scolastico ed ex coordinatore settore handicap e politiche giovanili,
Ufficio Scolastico Provinciale di Udine
Un cordiale saluto a tutti ed uno particolare alla Provincia ed a coloro i quali tengono vivo
questo ormai tradizionale appuntamento annuale che affronta sempre problematiche educative
e sociali di grande attualità offrendo un significativo contributo a chi opera nel mondo del
sociale e dell’educazione e formazione consentendogli di appropriarsi di conoscenze e
strumenti efficaci.
Il bullismo è da qualche tempo un tema/problema di grande attualità che, spesso, si manifesta
all’interno dei circuiti scolastici.
Possiamo considerare la scuola come il setaccio in cui confluiscono tutte le problematiche
inerenti i rapporti sociali ed interpersonali, in particolare, quelli relativi ai soggetti in età
evolutiva, poiché la scuola è rimasto uno dei pochi luoghi in cui tutti i bambini e le bambine, i
ragazzi e le ragazze si possono incontrare, stare ed operare insieme giacché non esistono quasi
più altri spazi di aggregazione. Alcuni luoghi di socialità simbolicamente eccellenti come ad
esempio il quartiere, la strada sotto casa, la piazzetta etc… non si prestano più, come è
facilmente intuibile, ad essere punto di ritrovo aggregativo, altri, come ad esempio gli oratori
sono quasi scomparsi.
A mio avviso, pertanto, è quasi “normale” che certi comportamenti (come il bullismo) si
manifestino, in maniera anche eclatante proprio nell’ambiente scolastico; il fatto che si
manifestino proprio all’interno della Scuola non significa che questa ne sia la causa,
l’elemento determinante o scatenante. Certamente la Scuola non può assistere passivamente
alle manifestazioni di violenza, come non può restare passiva e disinteressarsi per qualsiasi
altro comportamento che contrasti con la sua “funzione educatrice”.
Per rispondere in modo efficace, non si può e non si deve, a mio avviso, affrontare le singole
problematiche che possono emergere, senza tener conto dell’universo-mondo che ruota
attorno all’individuo e della rete di rapporti in cui lo stesso si trova inserito e si muove.
L’intervento educativo non può prescindere da una visione unitaria del soggetto, che va
considerato in tutte le sue componenti: fisiche, cognitive, affettive, relazionali e sociali.
115
Intervenire su un aspetto trascurando gli altri sarebbe limitativo e produrrebbe risultati
scadenti
rischiando
di
confondere
contesti
e
soluzioni
(es.
problematiche
comportamentali/medicalizzazione).
Per quanto riguarda la violenza, il bullismo, come le condotte aggressive ed auto-aggressive,
sono strettamente correlate a fattori educativi ed in particolare a quelli inerenti il processo di
socializzazione, intesa come acquisizione di quelle abilità sociali quali l’interiorizzazione di
regole di comportamento che consentono al soggetto di inserirsi in maniera adeguata nel
proprio ambiente sociale, di essere accettato dal gruppo di appartenenza, di poter in esso
interagire in modo costruttivo e gratificante, per la realizzazione di sé nel rispetto dell’altro/i
(per ottenerne anche l’apprezzamento) in un clima e con un atteggiamento di reciprocità.
Ma la “socializzazione” non è, né si può pensare di ridurla, ad “un evento” o a una “unità di
apprendimento”: la socializzazione è un percorso a tappe che inizia al momento della nascita
e si snoda in tutto l’arco della vita, con ritmi di sviluppo certamente diversi a seconda dell’età
del soggetto.
Fattori che possono influire nella socializzazione:
ƒ
le persone “modello di riferimento” (gli Altri Significativi, in primis i genitori );
ƒ
i valori sociali presenti negli stessi modelli e da loro, anche inconsapevolmente,
trasmessi;
ƒ
il sistema di regole (di approvazione o disapprovazione, dei sì e dei no…) ed il grado
di rispetto, che si imprime alle stesse, che determina, o non determina, l’introiezione
delle stesse da parte del bambino;
ƒ
lo stile educativo che determina, o non determina, il superamento dell’innato
egocentrismo e del narcisismo (il superamento dell’egocentrismo è la condizione
essenziale per una effettiva socializzazione, che metta il bambino in condizione di
entrare in empatia con l’altro, di percepire le emozioni, la gioia e la sofferenza degli
altri, condizioni queste che non si riscontrano nel bullo!).
Per affrontare compiutamente il problema del bullismo (e anche di altri comportamenti in cui
si riscontra una mancanza di rispetto delle regole e degli “altri”) dobbiamo necessariamente
osservare come si presentano i modelli e le condizioni che dovrebbero promuovere la
socializzazione:
a) genitori: spesso in crisi di identità, sovraccarichi di compiti, di funzioni e oppressi da
ritmi che lasciano poco spazio per i figli; immersi in un flusso di stimoli mediatici che
presentano modelli contradditori, contrastanti e vacui;
b) valori sociali: quali sono i predominanti, quelli realmente vissuti e non solo proclamati?
il potere, l’avere, il consumare e l’”immagine-il modo per acquisire ciò che si desidera”;
116
c) il sistema di regole: ognuno si sente legittimato a darsi le proprie regole mentre “le
altre”, per quelle “comuni” si trova sempre una giustificazione per sentirsi in diritto di
poterle non rispettare;
d) lo stile educativo: caratterizzato, per lo più, da permissivismo, iper-protezione (dei figli),
o disinteresse o autoritarismo che, a volte, si presentano altalenanti.
e) i modelli televisivi (eroi ed eroine): caratterizzati dalla violenza, dalla prepotenza,
dall’aggressività e da confusi e alterati valori proposti a cui i bambini vengono esposti e i
cui messaggi possono creare distorisioni.
La scuola è spesso “desautorata” e “delegittimata” dalla TV e dai Media ed al contempo
sovraccaricata di aspettative e di richieste di surrogare le carenze di Altri o di trasmettere
valori e modelli comportamentali in netto contrasto con quelli in cui il bambino/a si trova
costantemente immerso. Si chiede alla Scuola di dare risposte immediate alle richieste della
famiglia, della Società, del mondo della produzione e/o dei servizi e qualora non fosse in
grado di dare le risposte attese in modo tempestivo, ne viene colpevolizzata!
In una situazione tale anche l’insegnante corre il rischio di deprimersi, di avvilirsi; si possono
generare in lui un senso di sfiducia e un calo dell’autostima, fattori nocivi prima di tutto per
se stesso e poi per l’efficacia del suo lavoro.
Cosa si può fare?
Innanzitutto tenere presente la complessità della situazione in cui si è chiamati ad operare ed
essere consapevoli che l’azione del singolo (la Scuola in questo caso) non può essere
risolutiva. Un sano realismo e la consapevolezza dei propri limiti potrebbero aiutare
l’insegnante a non deprimersi, a non scoraggiarsi, a mantenere alta l’autostima per poter
operare al meglio; nella consapevolezza della complessità, ad aprirsi e cercare di creare
progetti condivisi con tutti coloro che, direttamente o indirettamente, si occupano di
educazione e di formazione (in primis i genitori e le famiglie con cui si rende sempre più
urgente un rapporto di intesa e collaborazione che porti a modificare lo “stile educativo” di
cui accennato in precedenza).
Anche gli Operatori sociali dovrebbero agire in sinergia, ognuno nel proprio ambito,
nel rispetto reciproco dei ruoli e delle competenze, ma tutti protesi al raggiungimento
dell’obiettivo comune.
Diverse nostre Scuole operano da tempo in questo senso; colgo l’occasione per far presente
che la scuola friulana ha fatto significative ed importanti esperienze didattico-educative, in
diversi settori un po’ gelosamente ed un po’ pudicamente tenute riservate che meriterebbero
maggiore divulgazione!
117
Oggi saranno presentate alcune esperienze relative al tema affrontato da questo Convegno: le
esperienze del 3° Circolo di Udine, dell’Istituto “B.Stringher”, dell’ I.C. di Paularo e, tempo
permettendo, anche di altre. Ascoltiamole per cogliere quegli elementi utili che possono
essere “esportati” anche in altre realtà.
118
ESPERIENZE…
Margherita Garro
Insegnante Referente Progetto, Direzione Didattica 3° circolo Udine
“Veramente, in quel tempo, la borgata era un
pochetto cambiata. Avevano sfranto nel centro
sette , otto file di casette di sfrattati e di strade
e avevano tre quattro palazzoni nuovi, scuri e
grandi come monti, pieni di finestrelle con tanti
cortiletti, ingressi e scale, che toglievano il sole
alle altre casette ch’erano rimaste intorno e ai
lotti gialli come la fame.”
Pier Paolo Pasolini
“Una vita violenta” 1959
3° Circolo di Udine
Il progetto NASCE come risposta ad una realtà territoriale
segnalata come “area a rischio”
con problematiche complesse di disagio e di rischio
dispersione scolastica
RACCOGLIE progetti e azioni finalizzate
alla prevenzione del disagio,
al rinforzo dell’identità,
all’arricchimento culturale
119
Linee di azione e progetti: Focus 2006 - 2007
Progetto PREVENZIONE DISAGIO E INTEGRAZIONE STRANIERI
Progetto RECUPERO POTENZIAMENTO
Progetto ACCOGLIENZA Progetto Mediazione L2
Recupero del
disagio
Progetto INSIEME
P
GI rima
r
RA
RD ia
IN
I
ia
anz
Inf TE
R
FO
Vicini di casa
FEUERSTEIN
alunni
Rinforzo
Identità
personale
CORSI SERALI
Feuerstein
Primaria
tempo Pieno
FRIZ
Prevenzione
Arricchimento
culturale
GIORNALINO
scuola territorio
Progetto
FORMAZIONE FEDELI
EDUC. EMOZIONI
Progetto SPORT & GO
Progetto GENITORI
Progetto MUSICA
Progetto
LETTURA E
BIBLIOTECA
INFORMATICA
Visite d’Istruzione
Uscite in città
Soggiorni Verdi
LABORATORI
ESPRESSIVI
COME
PREVENIRE IL DISAGIO
(bullismo, aggressività, violenza, devianza)
AZIONI FORMATIVE ed EDUCATIVE
a lungo termine, rivolte all’intera classe o scuola, con le opportune strategie
SCUOLA della PROMOZIONE CULTURALE ad ALTO INVESTIMENTO DIDATTICO
Meno si fa da soli, più funziona:
costruzione di reti di coinvolgimento attivo con il territorio
promozione di processi di integrazione
Atteggiamento di tipo trasformativo, non supportivo
condivisione di obiettivi con le diverse agenzie formative
Cooperazione
120
SCUOLE
Infanzia Forte
Primaria T.P. FRIZ
Primaria Girardini
SMS Bellavitis
COMUNE Di Udine
Servizi Sociali
Servizio Minori
Servizi Culturali
e Ricreativi P.I.G.
Polizia municipale
AMBITO Socio
Assistenziale
N°4.5
Città Sane
ScuolaInfanzia
Infanzia
Scuola
M.FORTE
FORTE
M.
UNIVERSITA’ DI UDINE
Facoltà di Scienze
della Formazione
CSA di Udine
USR FVG
Provincia di Udine
RETE E
COLLABORAZIONI
SCUOLA TERRITORIO
Parrocchie
Associazioni
di volontariato
Società sportive
SCUOLAPRIMARIA
PRIMARIA
SCUOLA
TEMPOPIENO
PIENO
TEMPO
A.FRIZ
FRIZ
A.
SCUOLAPRIMARIA
PRIMARIA
SCUOLA
TEMPONORMALE
NORMALE
AATEMPO
E.GIRARDINI
GIRARDINI
E.
TEATRO G. Da Udine
C.S.S. C.E.C.
Biblioteca Joppi
ASS n° 4 Medio Friuli
Consultorio
familiare
Neuropsichiatria
infantile
La Nostra Famiglia
Cooperative
Aracon
Universis
ENAIP
SCUOLASECONDARIA
SECONDARIA
SCUOLA
DIPRIMO
PRIMOGRADO
GRADO
DI
E.F.BELLAVITIS
E.F.BELLAVITIS
RETEeecollaborazioni
collaborazioni
RETE
SCUOLATERRITORIO
TERRITORIO
SCUOLA
3°
CIRCOLO
diUdine
Udine
3° CIRCOLO di
concretamente
concretamente
UNIVERSITA’DI
DIUDINE
UDINE
UNIVERSITA’
Facoltàdi
diScienze
Scienze
Facoltà
dellaFormazione
Formazione
della
Formazioneee
Formazione
ricercaazione
azione
ricerca
docenti––alunni
alunni
docenti
Sperimentazione
Sperimentazione
dipercorsi
percorsi
di
diautoregolazione
autoregolazione
di
comportamentale
comportamentale
edemozionale
emozionale
ed
COMUNEDI
DIUDINE
UDINE
COMUNE
CIRCOSCRIZIONE
33CIRCOSCRIZIONE
AMBITO
AMBITO
SOCIOASSISTENZIALE
ASSISTENZIALE
SOCIO
N°4.5
N°4.5
UFFICIO
MINORI
UFFICIO MINORI
ProgettoINSIEME
INSIEMEcon
con
Progetto
agenziedel
delterritorio
territorio
leleagenzie
P.I.G.
P.I.G.
Laboratorinelle
nellescuole
scuole
Laboratori
ProgettoLuna
Lunapark
park
Progetto
ProgettoGIORNALINO
GIORNALINO
Progetto
ProgettoSPORT
SPORT&&GO
GO
Progetto
ASS44Medio
MedioFRIULI
FRIULI
ASS
Consultoriofamiliare
familiare
Consultorio
ProgettoGENITORI
GENITORI
Progetto
Laboratoriserali
serali
Laboratori
FEUERSTEINGenitori
Genitori
FEUERSTEIN
ProgettoMERENDA
MERENDA
Progetto
Progetto
Progetto
Andiamoaascuola
scuola
Andiamo
piedi
aapiedi
121
PROGETTO GENITORI
scuola e genitori insieme per costruire
progetto pluriennale in collaborazione con il
Consultorio familiare ASS n° 4
cicli di incontri serali
coordinati dalla dott.ssa Anna Signor
con la partecipazione dei docenti delle tre scuole
il valore dei mass media nel processo educativo
il valore del racconto e del raccontarsi in famiglia
il piacere di stare insieme
di generazione in generazione…
ieri figli, oggi anche genitori
PROGETTO FORMAZIONE E AGGIORNAMENTO
Collaborazione Scuola – Università di Udine
riqualificazione della professionalità docente
3° CIRCOLO di UDINE
2002 2003- Teorie della progettazione dott.ssa Nidia Batic
La gestione della classe e l’intelligenza emotiva
dott. Daniele Fedeli
2003 2004 - Osservare, riflettere, intervenire sui comportamenti problema
(incontri teorici e laboratori) dott. Daniele Fedeli
2004 2005 - Percorso di ricerca azione:
La gestione del comportamento problema
Sperimentazione di percorsi di autoregolazione
comportamentale ed emozionale dott. Daniele Fedeli
2005 2006 - La valutazione psicopedagogia del bambino
Sperimentazione “ Il portfolio delle competenze emozionali”
dott. Daniele Fedeli
2006 2007
Prosecuzione del percorso di formazione dott. Daniele Fedeli
Modulo introduttivo sull’alfabetizzazione emotiva
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Progetto Educazione emotiva
in collaborazione Università ed il dott. Fedeli
l’appello delle emozioni
la scatola delle emozioni
le maschere delle emozioni
paure reali, paure immaginarie
l’orologio delle emozioni
il termometro delle emozioni
la mimica delle emozioni
alchimia emotiva
emozioni e sentimenti
i virus mentali
il gioco degli acchiappa virus
il metodo delle tre colonne
un salvagente emotivo
tollerare le frustrazioni
fare e ricevere i complimenti
cominciare a piacersi
accettare se stessi
coltiva un cuore contento, ecc.
GIORNALINO SCUOLA TERRITORIO
GRUPPO di redazione
Docenti, Genitori, Agenzia P.I.G., Comune e 3° Circoscrizione
• Far dialogare Scuola e Famiglia per il benessere del
minore
• Far parlare i minori sulle tematiche più varie e sui bisogni
emergenti
• Integrare l’azione della scuola nel territorio di
appartenenza (scuola come centro di aggregazione)
•
•
•
•
Articoli su attività, progetti, percorsi, iniziative che si svolgono nelle 5
scuole raccontate dai bambini
Rubriche per dare visibilità ad Associazioni e persone che vivono ed
operano nel quartiere
3 - 4 numeri annuali
650 copie per ogni uscita distribuite alle famiglie di 5 scuole,
associazioni, negozi che collaborano
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VALIGETTA PRONTO INTERVENTO
strumenti e strategie di supporto per l’alunno
in collaborazione con le agenzie del territorio
Laboratori Feuerstein
Laboratori espressivi
Attività quotidiane di Educazione emozioni
Progetti sport - tornei tra le scuole
Progetto Insieme: scuola centro di aggregazione del territorio
Progetti socio educativi con educatori
Progetti su alunni con comportamenti disadattivi
Progetti su alunni e famiglie seguite dai Servizi sociali
Recupero potenziamento per piccoli gruppi
Laboratori L2 – Intercultura
Intensificazione uscite sul territorio,soggiorni verdi, ecc.
rete
Intensificazione
capillarità
sistematicità
continuità
disponibilità al cambiamento
stabilità
Tutte le esperienze accumulate, ogni iniziativa andata a buon
fine, tutte le relazioni aperte dalle attività proposte, saranno il
nostro patrimonio da salvare, da gestire come valore unico e
irripetibile.
Il percorso continua…
124
Pasquale D’Avolio
Dirigente Scolastico I.C. “Arta-Paularo”
L’esperienza realizzata a Paularo sul bullismo nell’anno scolastico 2002/2003 è per tanti
aspetti originale e …. singolare (in seguito ne spiegherò il senso).
Su suggerimento del Tutore dei minori, dott.sa Della Marina, mi fu proposto nel mese di
gennaio 2003 un Progetto da realizzarsi a scuola nell’arco di tempo di poche settimane, che
avrebbe dovuto coinvolgere non solo gli alunni ma l’intera comunità di Paularo.
Non era chiaro il motivo per cui fosse stato scelta proprio la scuola di Paularo, anche se era
stato escluso ogni collegamento tra la ricerca e i fatti riguardanti espressamente il paese
carnico. In effetti, in seguito scoprii, che gli alcuni non avevano accolto bene l’idea poiché
avevano pensato si volesse ancora una volta porre in evidenza l’immagine non proprio
positiva che il paese si porta dietro da tempo, in particolar modo dopo alcuni episodi, accaduti
nell’estate del 2002 di violenza riguardanti minorenni.
Non avevo trascurato la velata critica che qualche genitore mi aveva rivolto circa la mia non
sufficiente “autorità” esercitata nei confronti degli alunni.
Certi episodi di emarginazione o di vera e propria prepotenza tra i ragazzi (anche se non
gravi) testimoniavano come fosse l’”aria” del paese a influenzarli, per cui ero e sono convinto
che se la Scuola voleva raggiungere i suoi obiettivi formativi doveva interloquire con la gente
e l’occasione offerta poteva essere quella giusta.
Gli stessi docenti della Scuola Media manifestarono, tuttavia, qualche riserva soprattutto sui
tempi e sul modo in cui era stato presentato il progetto, un po’ calato dall’alto.
Non giovò molto, all’accoglienza del progetto, il fatto che un ricercatore dell’Università di
Padova si fosse presentato a Scuola, senza concordarlo prima, con un lungo questionario sul
bullismo da somministrare agli alunni; un questionario impegnativo, con alcune domande al
limite della riservatezza personale e familiare. Dopo il chiarimento con il docente ricercatore,
il questionario, che a suo dire si inseriva in una ricerca molto ampia sui ragazzi nel Triveneto,
fu compilato con la promessa che ci sarebbe stata una “restituzione” nell’arco di pochi mesi
con la possibilità di un dibattito, in merito, da svilupparsi con gli abitanti del paese.
Purtroppo, tutto ciò non è avvenuto.
Tornando al Progetto giustamente la dott.sa Della Marina sottolineò l’importanza di inserire
l’attività all’interno di un percorso didattico che comprendesse ad esempio lo studio e il
commento alla “Dichiarazione universale dei diritti del bambino”. Il testo fu distribuito ai
ragazzi e alle famiglie, alle quali fu anche illustrato lo scopo dell’esperienza chiedendo un
loro coinvolgimento. La risposta devo dire da parte delle famiglie fu positiva.
125
L’originalità del progetto consisteva nel fatto che il percorso didattico non era composto da
lezioni tradizionali bensì da incontri pomeridiani con un certo numero di allievi che dovevano
esercitarsi nell’allestimento di uno spettacolo, precisamente un teatro-forum, da rappresentare
successivamente. Ci si è avvalsi della collaborazione dell'Associazione Giolli, specializzata
nei teatro-forum, vale a dire una modalità di teatro nella quale i membri della comunità
diventano gli stessi attori di ciò che sì va a raccontare. In sostanza più che affrontare la
tematica del bullismo con lezioni o conferenze o dibattiti, si è provato a rappresentare scene di
vita quotidiana dove emerge la prepotenza sui più deboli, la derisione di gruppo e/o
l’indifferenza dei presenti. Il regista aveva predisposto un semplice canovaccio su cui venne
“costruito” dai ragazzi, provando e riprovando con l’aiuto di una animatrice, lo spettacolo.
Era una occasione non solo per “provare” ma anche un momento di riflessione al quale
parteciparono una decina di studenti di III Media. L’animatrice non si limitava a seguire i
ragazzi, ma intratteneva rapporti con la realtà esterna alla Scuola.
La serata finale, alla quale intervennero: la dott.sa Della Marina, il regista e gli operatori della
cooperativa Giolli, fu ampiamente pubblicizzata oltre che sulla stampa, anche nel paese.
L’Aula Magna era piena di giovani di tutte le età, ma anche di genitori, persone del paese,
parroco e autorità comunali. Le scene furono rappresentate oltre che dagli alunni anche da
persone presenti, che si prestarono volontariamente a “recitare” senza alcuna preparazione.
Per ogni scena, che rappresentava situazioni problematiche nei rapporti tra giovani o tra
giovani e adulti, tra genitori e figli, si potevano proporre versioni diverse a seconda degli
interpreti. Al termine della rappresentazione, sottolineata da applausi o dissensi, è iniziato un
dibattito in cui sono venute a galla le situazioni critiche del paese con una vivacità inaspettata.
Il “bullismo” venne quasi messo in seconda piano rispetto alle criticità nei rapporti umani, che
ognuno attribuiva a gruppi e istituzioni diverse. Non si può naturalmente parlare di “catarsi”
ma qualcosa di molto simile avvenne in quella sera.
La “singolarità” dell’esperienza risiede proprio in questo, nel fatto che essa non ebbe un
seguito nelle attività della Scuola, almeno con riferimento alla specifica tematica; fare progetti
specifici è quello che normalmente si chiede alle Scuole, ma la Scuola è di per sé un Progetto
che deve durare nel tempo. Da lì è nata comunque la proposta di un “Patto educativo
territoriale” che coinvolge tutte le associazioni del paese da tre anni. Ogni anno si propone un
“valore dell’anno” L’anno scorso si individuò come “valore” “la mitezza”. Ai bambini fu
chiesto di indicare una immagine o un animale che raffigurasse la mitezza e di motivarne la
scelta. L’animale prescelto fu il delfino e in seconda battuta il capriolo.
Una considerazione finale: nel leggere i commenti al grave episodio di Torino (il filmato sulle
percosse a un disabile a Scuola) mi hanno colpito due cose: in quella Scuola esisteva un
126
progetto specifico; in secondo luogo mi ha colpito l’affermazione di un docente: “ci mancano
insegnanti di sostegno!” Guai a fare del bullismo un’altra occasione per richiedere personale
aggiuntivo!
127
QUARTA SESSIONE
Adolescenti violenti a casa
Presiede:
Dott.ssa Sandra Fior
Psicologa Consultorio Familiare di Tolmezzo A.S.S. n° 3 “Alto Friuli”
128
RAGAZZI VIOLENTI? PERCORSI DI CRESCITA DIFFICILI?
CHE FARE? CAPIRLI?
Dott. Francesco Milanese
Tutore Pubblico dei Minori Regione Friuli Venezia Giulia
Mi è stato dato un titolo che racchiude svariati interrogativi, ciò forse perché ci si attende
molto da chi ricopre questa carica altisonante che evoca l'idea di una autorità superiore dal
potere risolutivo. Il Pubblico tutore dei minori non è una figura ancora molto conosciuta,
ritengo quindi sia opportuno spiegare chi è attraverso quello che fa. Non è un super eroe, un
super Pippo che risolve problemi e questioni che altri non sono in grado di risolvere.
Quando pensiamo ai temi della violenza che riguardano il mondo dell’adolescenza e
dell’infanzia, sia che il minore ne sia vittima o autore, pensiamo a qualcosa di insopportabile
di difficile tollerabilità. Il dolore dei bambini in una società che ha imparato solo da poco
tempo, da poche generazioni, ad avere a cuore il futuro dei propri figli, è un dolore
insopportabile e dunque diventa necessario ed urgente intervenire subito. Per questo ci si
rivolge al tutore dei minori: perché nel pensiero comune il tutore è quella figura/persona “che
risolve i problemi”.
Ciò non corrisponde al vero, il tutore dei minori sembra essere piuttosto “il minore dei tutori”,
cioè una figura dotata di scarsissimi poteri di intervento. È una figura di mediazione che ha
prevalentemente compiti legati alla segnalazione, ma non interviene nella strategia diretta
d’intervento. Tra i suoi compiti non vi è la presa in carico degli utenti, funzione questa tipica
dei servizi. Svolge invece una preziosa funzione di interlocuzione con il sistema organizzativo
dei sistemi territoriali e con il sistema della politica. È un organo del consiglio regionale che
dialoga con il legislatore, ovvero con chi ha la responsabilità politica della decisione (es.
responsabile del distretto, dirigente scolastico, responsabile di una comunità, ecc.) al fine di
favorire dei processi, delle pratiche virtuose: le migliori pratiche per attuare e promuovere i
diritti dell’infanzia.
Accanto a questi, che sono compiti di garanzia, gli sono affidati compiti di carattere
promozionale, che si esplicano in una costante attività di sviluppo e diffusione di una cultura
dell’infanzia e dell’adolescenza, che ne rispetti i diritti e che ne implementi al massimo i
valori di fondo.
Definito il compito istituzionale del tutore dei minori preme ragionare sugli aspetti culturali; a
tal fine si rende necessario parlare di alcuni modelli comportamentali o meglio stereotipi che
troviamo in circolazione. Lo stereotipo è una forma di riflesso culturale, provo a fare un
129
esempio: quale è il soggetto preferito della barzelletta, raffinato genere di letteratura orale da
bar? l'handicappato, l’ebreo, il nero, il carabiniere, ognuno di noi magari senza malizia, sa che
la barzelletta individua il dato comico nell'enfasi sul soggetto svantaggiato, o su ciò che è
considerato limite o difetto e dunque tutti noi contribuiamo a creare una forma di stereotipo.
Ma può succedere, e purtroppo succede, che dei ragazzi mettano in atto quanto veicolato dalla
barzelletta, salvo poi tutti quanti noi adulti ritrovarci nello stesso bar per interrogarci sul
perché di un simile comportamento, su quale tipo di cultura possa averlo generato.
Per trovare lo stereotipo non è indispensabile cercare il grande commentatore, la mente
raffinata, l’esperto che, sui quotidiani a tiratura nazionale, commenta un accadimento con
sapienza e pertinenza. Per produrlo è sufficiente l’autore dei comunicati delle pagine
nazionali dei quotidiani regionali, le attuali catene editoriali realizzate da alcuni uffici stampa
validi per tutta la produzione locale. Tali notizie definite “ansa” sembrano piuttosto tese a
produrre molta ansia: l’ansia che ci comunicano rispetto ai ragazzi è che essi sembrano
persone senza valori che confondono la realtà con la finzione, che traggono i valori
direttamente dalla televisione o dai video giochi. Se fossi un ragazzo di 17/18 anni mi
indignerei!
Quello che i ragazzi imparano lo apprendono da noi adulti, i ragazzi riproducono
enfatizzandole molte azioni che noi gli abbiamo fatto vedere. Qual’è dunque lo scandalo della
tortura cui i bulli sottopongono le vittime? Non vediamo torturati i civili in Somalia, da alcuni
soldati italiani?, non vediamo mai che cosa avviene nei telefilm che i ragazzi amano vedere
alla TV? Lo scandalo è forse rappresentato dal fatto che ora le loro azioni vengono riprese,
filmate? ma i filmati delle torture sono già stati realizzati dai nazisti, e poi in Somalia, e nelle
carceri Irachene dagli americani. Non c’è dunque niente di nuovo. E che la crudeltà umana sia
uno degli elementi contro i quali l’umanità lotta - ovvero gli uomini e le donne possono essere
tali nella misura in cui sanno combattere il loro essere crudeli - sta nel mito fondamentale
dell’umanità, per lo meno per quel che riguarda la sua parte occidentale e le sue grandi
religioni monoteiste: Caino ed Abele.
Non si tratta quindi di una cosa nuova: nuovo è semmai l’atteggiamento ipocrita di una
società adulta che ritiene di non avere alcuna responsabilità nei confronti delle culture dei
giovani. Pensiamo agli esempi che diamo in ordine alla legalità ed all'eroismo. Vi ricordate di
quell'orgoglioso top gun che giocava a volare con un aereo supertecnologico in giro per le
nostre valli alpine fino a tranciare i cavi di una funivia, far cadere venti persone, senza subire
alcun processo e continuando a fare il soldato, andando in missione onorata in Iraq o a
bombardare villaggi in Afghanistan! Mi colpisce che si continui a dire che i ragazzi sono
violenti! … e gli adulti?…no, gli adulti no! noi siamo assolti perché siamo dei veri
130
combattenti! È davvero giunto il momento di smetterla di dare la colpa ai ragazzi. Quando
qualcuno butta i sassi dal cavalcavia, i giornali dicono “sono delle ragazzate”, Pare che fare
delle cose stupide per noia e incoscienza sia tipico del ragazzo. I ragazzi sono imbecilli? ma
se io sono un ragazzo, mi ribellerei io sono una persona più seria degli annoiati imbecilli
quelli che fanno queste cose. Chi ha detto che queste sono ragazzate?
Ci sono degli stereotipi tremendi e dei paradossi tragici nella questione del rapporto tra
sistema della comunicazione/educazione/giovani generazioni. Io sono convinto che “Educare”
implica un' intenzionalità del comportamento e non è un atto moralistico. Anche quando ci
asteniamo stiamo educando, ossia stiamo rendendo irrilevanti i valori o disvalori che
proponiamo. Il problema legato alla comunicazione è legato ai videogiochi, alla TV, alla
necessità di regolamentarli senza dover per questo arrivare a forme di censura che ledono il
diritto alla libertà di espressione.
Nel momento in cui continuo a rivendicare il diritto alla libertà di espressione per l’adulto in
un modo incurante delle conseguenze che l’esercizio di tale diritto ha nei confronti del
comportamento percepito come intenzionalità comunicativa da parte dell’adolescente, non
posso non pormi delle domande.
Non è possibile regolamentare il sistema radio-televisivo? Tutti ritengono che si debba
autoregolamentare? Bene, e allora, che si autoregolamenti!, com’è che quel sistema attraverso
i
suoi
raffinati
commentatori,
accusa
i
ragazzi
di
apprendere
comportamenti
diseducativi/violenti dai film che vedono in TV, ma poi sono gli stessi commentatori che in
nome della libertà impediscono qualsiasi controllo o regolamentazione? Anche io sono
contrario alla censura, ma è radicalmente diverso limitare la libertà di espressione ed
organizzare un palinsesto con una intenzionalità educativa. L’intenzionalità educativa sta nel
fatto che quando io organizzo un palinsesto lo faccio sulla base dell’utenza, valutando orari e
spot pubblicitari in base ad essa. Chi dice che la libertà dell'utente sta nel fatto di poter
scegliere con il telecomando, si dimentica di dirci che il suo lavoro è esattamente il contrario:
è efficace quando ottiene il risultato contrario ossia ci tiene ancorati al programma. Dunque
esiste una precisa intenzionalità educativa dei palinsesti e su questo si deve discutere non in
astratto delle libertà, e del contrasto con la censura: oggi la programmazione educa il bambino
ad essere un consumatore, un fruitore del mondo, un soggetto irresponsabile di fronte al
mondo, che funziona come persona di successo se appare, se consuma, se si dimostra
vincente. Stiamo generando le persone meglio adattate ad una società mercantile e
competitiva.
I modelli culturali di questa società sono invece impostati sulla violenza predatoria. Se non
posso ottenere delle cose chiedendole, le prendo; se non ottengo giustizia, cambio le leggi; se
131
non riesco a conquistare il consenso, modifico le leggi elettorali. Che differenza c’è tra un
ragazzo che ruba la borsa ad una vecchina a Napoli e quello che stando in una banca vende le
azioni della Parmalat, mettendo in ginocchio decine di migliaia di vecchine, scippando loro
un’intera vita di pensioni? Qual’è la differenza? Semplice, il secondo non si fa acciuffare.
Qual è dunque il vero problema del giovane? Non è quello di scegliere tra un comportamento
giusto e uno sbagliato ma quello di… non farsi acchiappare!
La vera questione da affrontare dunque, è quali siano oggi i modelli culturali di riferimento
che noi offriamo ai nostri ragazzi. Bisogna avere più rispetto dei giovani, dei ragazzi,
riconoscerli titolari di diritto, avere qualcuno che formi in modo corretto una coscienza dei
loro comportamenti che, come ho già detto, non è un’attività moralistica, ma culturale ed
educativa.
E non dobbiamo stupirci quando i ragazzi, dimostrano la loro capacità di affrontare anche
situazioni difficili. Alcuni giorni fa ricorreva il quarantesimo anniversario dell’alluvione di
Firenze. Nell’occasione sono stati ricordati gli angeli del fango, i giovani di tutta Italia, di
mezzo mondo che sono andati a Firenze a tirare fuori i capolavori dell’arte … e tutti quanti a
dire, con una vena nostalgica, “che bravi quei ragazzi”. Ebbene, quella era la generazione
degli hippy che, al momento opportuno, ha saputo dimostrare di essere capace di grande
dedizione. Eppure la dedizione ha attraversato le generazioni giovanili anche dopo. Negli anni
70/80 i cosiddetti “anni di piombo” vengono ancora identificati come una stagione di giovani
violenti, eppure in quegli anni come oggi era possibile discutere sul tema della violenza e
della non violenza. Allora come oggi era possibile scegliere. Quanta parte della popolazione
giovanile è stata coinvolta effettivamente all’interno delle azioni del terrorismo e di tutte le
associazioni che lo hanno fiancheggiato? Si parla di alcune migliaia di persone. Ma in quegli
stessi anni, a partire dal 1972, a partire dal servizio civile degli obiettori di coscienza e poi più
in la con il Servizio civile per le ragazze e poi oggi con il servizio civile nazionale, e le
migliaia di associazioni di volontariato …. di quanti ragazzi stiamo parlando? Stiamo
parlando di centinaia di migliaia di persone che a venti anni hanno scelto tra violenza e non
violenza, tra dedizione alle persone, e dedizione alle armi. Però noi ci ostiniamo ancora a
parlare dei violenti, addirittura di una generazione degli anni di piombo.
Perché non parliamo del fatto che in questo Paese è nato il più numeroso movimento di
volontariato dell'Europa fatto di giovani che nel servizio civile si sono occupati di qualcuno in
sedia a rotelle, di qualche tossicodipendente, di bambini abbandonati o di ambiente e cultura
con lo sguardo teso e aperto ai destini di pace dell’umanità?
E allora perché non iniziamo a fare un’informazione sistematica sulle attività svolte dai
ragazzi, sulla quantità di tempo che dedicano attraverso il servizio civile, attraverso le realtà
132
del volontariato, attraverso le attività sportive. Noi abbiamo veramente cognizione delle
capacità dei ragazzi e dei giovani di investire su sfide significative e su valori? La capacità di
dedizione dei nostri ragazzi noi la conosciamo, o meglio, siamo in grado di riconoscerla
quando succede un avvenimento imprevisto, come in occasione di una calamità naturale?
Credo che l'educatore oggi debba aver voglia di spingere le persone a realizzare qualche cosa
per la quale valga davvero la pena di vivere e credo che il mondo abbia talmente tanto
bisogno di essere trasformato che di motivi per i quali valga la pena di vivere ce ne siano
ancora tantissimi.
Voglio approfondire un tema che ho toccato e che mi preoccupa moltissimo, riguarda il nostro
modello culturale di fondo, legato non solo all’aspetto sociale della violenza. Vi sono altre
questioni, in realtà, per certi versi, altrettanto gravi, che riguardano, da un’ottica più micro, le
storie personali di ciascuno di noi nel momento in cui non si riesce ad identificarsi con una
storia collettiva. Mi infastidisce quando semplificando si dice che la storia collettiva delle
generazioni attuali è una storia di generazioni bruciate, violente, di generazioni che non hanno
niente da dire. Io sono invece convinto che siamo noi a non saper ascoltare, il che è cosa
molto diversa.
Sono reduce da un convegno a Cordenons, nel corso del quale i ragazzi delle scuole medie
hanno presentato un lavoro da loro svolto relativamente al tema della raccolta differenziata
dei rifiuti. Con la semplicità dei ragazzini, ma con la competenza di chi ha fatto davvero un
lavoro serio, i ragazzi ci hanno spiegato che cos’è la plastica, come la si classifica, come la si
ricicla, ma soprattutto perchè oggi non è possibile riciclarla in maniera coerente essendo che i
produttori non appongono i marchi nel modo corretto per poterla successivamente
classificare. Sembrava di assistere ad un servizio delle Iene, ho suggerito di venderlo perché
era davvero ben fatto.
La cosa interessante era che l’insegnante esprimeva la sua soddisfazione perché i ragazzi
avevano dimostrato di essere responsabili. In realtà erano gli adulti che avevano dimostrato di
saperli ascoltare e, di conseguenza, i ragazzi avevano preso seriamente il fatto di essere stati
ascoltati. Spesso quando noi pensiamo a quello che ci devono dire i bambini o i ragazzi ci
sorge spontaneo un sorriso sulle labbra, perché non li prendiamo seriamente.
Vi racconto una altro episodio a cui ho assistito. Nell’ambito delle iniziative organizzate per
l’anniversario dell’approvazione della Convenzione dei diritti del fanciullo, intorno al 20 di
novembre, il Sindaco di un Comune riunisce ormai da alcuni anni il Consiglio comunale dei
ragazzi ed incontra i giovani. Questo Comune in particolare, per valutazione didattica, ha
scelto d’incontrare i ragazzi della seconda media. Il Sindaco, di anno in anno, viene
interpellato su problematiche del Comune, e le questioni ricorrenti sono di tipo ambientale, o
133
riguardano le infrastrutture scolastiche. Alle domande che gli venivano poste il Sindaco
rispondeva ogni anno che le richieste dei ragazzi sarebbero state prese in seria considerazione
con il prossimo anno, perché in questo momento mancavano i soldi, o c'erano altre priorità da
affrontare eccetera, eccetera. Alla fine, gli adulti, erano tutti tranquilli e contenti perché
avevano parlato dei diritti dei bambini. Il terzo anno in cui si ripeteva l’esperienza, quella alla
quale presi parte, alle stesse domande relative alle solite questioni, di fatto, sempre rimaste
irrisolte, il Sindaco iniziò a dare le stesse risposte, ad un certo punto si alza un ragazzo, 1
metro e 75, capelli rasta, e dice “scusi eh, non vorrei dire ma ce le ha già raccontate l’anno
scorso e l’anno prima ancora … ” il Sindaco sbianca e chiede “ma tu…. chi sei?” …
“beh..io.., sono un ripetente”…
Ecco svelata l'ipocrisia della finzione dell’ascolto dei ragazzi? non pensate anche voi che
questa sia come la fiaba del “Re nudo” solo in versione moderna? Dunque, teniamo presente
questa cosa perché è questo l’aspetto culturale di cui parlavo.
Smettiamola di dare addosso ai ragazzi, i ragazzi sono portatori di una cultura diversa, ma
sono anche figli della nostra, hanno il diritto la voglia e il bisogno di cambiare la società e di
essere liberati da alcuni problemi che gli stiamo creando noi adulti.
Un altro versante che suscita forte inquietudine è il passaggio alla violenza domestica, cioè
alla realtà familiare perché proprio qui si ritrova un aspetto più duro, più violento dei rapporti
che, come ho detto, risponde ad una cultura della predazione all’interno delle relazioni. Il
predatore è colui che rapina, ruba, sottrae senza chiedere l’autorizzazione. Lo stupro è in
fondo una predazione per antonomasia. Credo tuttavia che la violenza all’interno delle
relazioni familiari corrisponda ad un certo approccio culturale, ad una necessità culturale che
noi tutti abbiamo. Da un lato l’idea di una famiglia proprietaria ovvero di un territorio dove i
figli sono proprietà dei genitori, nasce dall'idea della famiglia fondata sui vincoli di sangue,
sul primato del sangue e non sugli affetti, per cui tu sei mio figlio e io di te faccio ciò che
voglio. Tutto questo genera una violenza dell’adulto sul bambino, sul giovane, ma questo
risponde ad una cultura predatoria molto diffusa, la riscontriamo nell’ambito di alcune
situazioni, anche tra loro diverse. Recentemente abbiamo assistito allo scandalo delle adozioni
di Madonna e di altri personaggi famosi, ovvero ad una situazione nella quale, con tutta
evidenza, abbiamo una predazione, seppur benedetta da tante migliaia di dollari. Credo poco
alle lacrime di commossa tenerezza messa in mostra per i fotografi che ne ha accompagnato il
ritorno a casa. Quel bambino vissuto come “tuo”, te lo sei comperato. Non hai atteso a quali
fossero i diritti in gioco, quello che conta è il tuo desiderio, la tua volontà, la tua proprietà.
Allo stesso modo funzionano certe situazioni della nostra normale società. Famiglie protettive
all'apparenza, in realtà proprietarie, che esercitano nei confronti dei figli degli straordinari
134
condizionamenti. Spesso sono i figli che realizzano i desideri di successo e le aspirazioni dei
genitori e per far questo sono piegati alle discipline familiari oppure vediamo gli eccessi di
protezione che non riconoscono la realtà effettiva della vita dei figli.
Noi adulti abbiamo tutta una serie di proiezioni sui ragazzi e quindi su ciò che loro devono
essere. Oggi è necessario fare un’operazione inversa: prima guardare al bambino e sulla base
del bambino cominciare ad inferire sulla famiglia, sulle sue capacità, sul suo compito sociale,
compito che noi attendiamo che la famiglia esegua. La famiglia ha quindi il compito di
presentare alla società dei cittadini che abbiano una personalità compiuta, formata, sviluppata,
multidimensionale.
É su questo terreno che si generano anche fortissime tensioni e lacerazioni, formidabili
patologie relazionali, addirittura delle patologie culturali, il nostro Paese è noto per essere il
paese delle adolescenze protratte fino ai 35 anni, è chiaro che in questa dimensione sociale
irrobustita di un certo mammismo, rischiamo di tenere i figli pressoché incatenati alle
relazioni familiari.
Il libro di Vera Slepoi “Legami di Famiglia” già nel titolo rende molto bene quest’idea, infatti
è molto importante porre l’accento nel modo giusto nella parola “legàmi/lègami”: è
sufficiente spostare l’accento perché il significato cambi totalmente. In realtà il meccanismo
dell’incatenamento deriva proprio dall’essere legato alla famiglia, ma non è qualsiasi legame
di famiglia quello che aiuta la persona a vedere sviluppata la propria personalità. Al contrario,
di fronte ad una famiglia concepita in termini esclusivamente proprietari, la reazione violenta
di chi si ribella a questa proprietà, a questo asservimento, è perfettamente comprensibile.
Così come si può capire che quando si vive in una famiglia fragile, anche se è animata da una
cultura proprietaria, una famiglia inconsistente, incongruente, frazionata,si apre lo spazio ad
una relazione fondata sul potere. Se non lo esercita il Capofamiglia qualcuno lo farà per lui
perché è paradossalmente necessario a quella famiglia, per quella cultura, che quel vuoto sia
riempito. Se quello è infatti il telaio culturale di riferimento, al momento in cui i genitori non
sono in grado di assolvere a questo compito lo fanno i figli, definiscono loro le gerarchie del
potere perché tutte le relazioni sono relazioni fondate su una forma di violenza all’interno
della famiglia il cui scopo è stabilire le gerarchie del potere. Anche se questo ci appare
terribile, in fondo è la battaglia a riempire un vuoto. Credo che questo sia molto importante
per capire in che modo ci rapportiamo con queste famiglie, in che termini ci possiamo
relazionare.
Viviamo in una società multiculturale, in cui i punti di riferimento culturali entro i quali
organizziamo i nostri valori sono molteplici, non multiculturali nel senso di multietnico ma
multiculturali perché abbiamo diverse culture familiari, diversi modelli di relazioni familiari,
135
differenti modelli di relazioni genitoriali e dentro a questa diversità il problema diventa
stabilire quale debba essere il criterio da seguire, perché pare sia diventato tutto relativo.
Ho detto pare, infatti non lo credo. Non credo tutto sia relativo in educazione, perché credo
alla educazione come intenzionalità dell'azione e dunque un criterio ce l’abbiamo ancora e sta
nella capacità di educare, mantenere ed istruire i figli secondo i loro talenti, le loro attitudini
ed ispirazioni, il che si traduce appunto nell’avere rispetto della loro struttura di personalità.
Dentro questa struttura di personalità si coglie infatti l’esigenza di avere dei ruoli normativi ed
affettivi, dei contenimenti e dei confini, di avere un confronto con l’intero sistema delle
relazioni complesse rappresentate dalla famiglia che è, in questo, metafora della società e
aiuta i giovani a stare dentro la società come cittadini.
Ci troviamo ad operare in mezzo a tanti modelli culturali e questi possono essere una
ricchezza solo se siamo in grado davvero di apprezzarne le differenze,le difformità, le
incertezze e i pericoli. Soprattutto come educatori questo aspetto è essenziale, perché
accettare di essere educatori prima che correttori, significa accettare che i comportamenti
degli adulti educano sempre anche quando li consideriamo diseducativi, perché educano a
valori diversi. Questo significa che la responsabilità educativa non è solo legata ai contenuti,
ma si esercita in tutti gli atteggiamenti di una società. Non si educa a qualche cosa che è
esterno e distante alla relazione educativa, ma si educa attraverso i valori che si cercano e se
vogliamo essere sicuri che i nostri ragazzi ci guardino e ci rispettino dobbiamo noi per primi
guardarli e rispettarli.
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VIOLENZE GIOVANILI NELLE FAMIGLIE:
I PERCORSI DI RECUPERO
Dott.ssa Serena Casonato
Psicologa Psicoterapeuta familiare,
Centro Solidarietà Giovani “Giovanni Micesio” onlus, Udine
Nell’attuale realtà sociale, caratterizzata da notevole complessità e da accentuate
differenziazioni economiche e culturali, la crescente molteplicità di modelli di riferimento
sottopone i giovani ad una serie di pressioni, aspettative, compiti a cui non sempre essi
riescono a far fronte senza segni di conflitto e di difficoltà d’adattamento.
In contrasto con la fruizione sempre maggiore di beni di consumo, si accentua il malessere
giovanile, connesso al mancato soddisfacimento di bisogni immateriali, quali il bisogno
d’identità, d’espressione personale, di realizzazione di sé.
I genitori oggi si scoprono in difficoltà. Si accorgono che la società va in direzione opposta a
quei valori nei quali vorrebbero educare i figli. Spesso non riescono ad ottenere rispetto e
considerazione, vedono i figli crescere indecisi e disorientati, faticano ad intendersi e a
dialogare sugli obiettivi importanti della vita.
Anche i genitori si sentono indifesi come i loro figli e hanno anch’essi bisogno di sentirsi
accettati, sostenuti, compresi. Le famiglie, oggi, si trovano, nelle comunicazioni che
avvengono nella società, nelle opinioni che si contrappongono, sottoposte e intrappolate in un
doppio messaggio dal quale sembra difficile uscire. Da una parte i genitori si vedono
addossata una grande responsabilità: si ribadisce, in ogni occasione, il ruolo centrale che la
famiglia svolge nelle diverse culture come pilastro fondamentale della società e struttura
portante dei processi d’innovazione e di cambiamento. Dall’altra, i genitori si sentono, però,
spesso soli e non riconosciuti nella loro funzione, vedendo fortemente ridotti lo spazio e
l’efficacia della loro azione per una molteplicità di motivi: la concorrenzialità dei massmedia, l’attrattiva di modelli culturali distanti dai valori familiari, il fascino seduttivo di stili
di vita sovente distorti e devianti.
Nella vita di tutti i giorni le famiglie si sentono smarrite e impotenti, perché non si
riconoscono realmente legittimate come soggetti del vivere sociale e sono concretamente
abbandonate a se stesse nella gestione della loro responsabilità educativa.
Inoltre, in un clima culturale di profondi mutamenti, i compiti tradizionali della famiglia, la
gestione della vita quotidiana, dei suoi ritmi e dei suoi bisogni, sono ridimensionati. Le
famiglie si trovano così a dover affrontare il compito, non facile, di ridisegnare forme, modi e
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significati del loro rapporto educativo coi figli, sollecitati da esigenze e da bisogni nuovi,
sempre più pressanti ed evidenti.
Di conseguenza si assiste, poi, sempre di più ad un cambiamento dei ruoli all’interno della
famiglia. Di fatto, il padre, spesso non è più percepito come un’autorità indiscussa e non fa da
tramite come un tempo tra famiglia e società. Se la figura del padre risulta più debole, anche
quella della madre è divenuta più problematica, in quanto non è più il padre a spezzare il
cordone ombelicale che tiene stretto il figlio a lei. Per la madre, allora può diventare più
difficile smettere di vedere il figlio come un bambino, concedendogli di sviluppare una
propria autonomia e un’identità matura.
Il nostro punto d’osservazione rispetto a tutto ciò, è il lavoro che costantemente portiamo
avanti con le famiglie che arrivano al nostro Servizio di Terapia Famigliare e l’intervento, a
diversi livelli, con i familiari dei giovani inseriti nel Programma Terapeutico della Comunità
Terapeutica Residenziale, struttura che accoglie giovani con problematiche di dipendenza e
doppia diagnosi.
Dall’analisi fatta, si rileva come la violenza (nelle sue diverse forme) possa essere vista come
un modo, seppur estremo, di chiedere aiuto; come segno di un’immensa solitudine o come
indice della fatica che i giovani/adolescenti debbono fare per nascere come soggetti sociali
sessuati, cioè per uscire dal ruolo di figlio, intimorito dalla prospettiva di doverlo rimanere per
sempre. La violenza entra così ed esplode contro la famiglia.
Deriva da una sorta di “patologia familiare” che si manifesta con il silenzio, con la difficoltà o
incapacità, tra genitori e figli, d’entrare nello stesso circuito comunicativo, che sta a
significare che ci si prende in considerazione e che circola il sentimento che “conto qualcosa
per persone che contano per me”.
Inoltre, la difficoltà d’educare empaticamente (non solo ti educo alla legalità, ma, insieme, ti
do affetto, ti faccio sentire accettato) e l’anaffettività possono diventare un messaggio per il
giovane che non si sente amato o che avrebbe bisogno di avere dei paletti, dei “no” empatici,
motivati ma assolutamente fermi. Non ricevendo tutto ciò, in un certo senso, il giovane rischia
d’“impazzire”, cresce senza saper distinguere il bene dal male e alla soglia dell’adolescenza
impara a sfogare la propria aggressività in modo alle volte esasperato. Mentre, se
l’adolescente, nel suo avanzare verso i genitori con aggressività, trova un argine, un confine,
un contenimento, una risposta affettiva calda e vigorosa insieme, è possibile, interiorizzando
tale esperienza, placare la sua angoscia, separarsi per costruire una sua propria identità libera
e adulta.
Nella violenza, invece, c’è confusione fra sé e altro da sé, non c’è separazione, non c’è
incontro, ma scontro e intrusione onnipotente e distruttiva.
138
I giovani violenti non riconoscono l’alterità dell’altro come persona, poiché essi stessi non
sono stati riconosciuti, e quindi distruggono l’altro come distruggono se stessi.
I comportamenti violenti dei ragazzi, allora, sono dei precisi “segnali” che ci vengono offerti,
ma che noi non riusciamo o, alle volte, non vogliamo interpretare.
L’intervento terapeutico che può essere svolto a diversi livelli (terapia familiare, gruppi di
sostegno per i genitori, terapie individuali), deve allora avere la funzione e la capacità di
trasformare la rabbia/conflitto/violenza con se stessi e con gli altri in occasione di dialogo.
Il disagio di molti giovani nasce molto prima che diventino giovani.
Nel momento dell’adolescenza viene solo scoperto quanto non è stato dato loro prima:
sicurezza, fiducia di sé, affetto, capacità di lottare per superare le difficoltà, capacità di
tollerare le frustrazioni, capacità di porsi in relazione.
L’intervento terapeutico deve essere il tramite attraverso cui il giovane (o adulto) violento può
essere aiutato a ricordare e rielaborare la sua sofferenza, e a comprendere la sofferenza
provocata negli altri. Di fatto, la dissociazione sperimentata nell’esperienza della violenza
inflitta o subita, che ha consentito i processi di rimozione ed il ripetersi della violenza, viene
interrotta nel momento in cui la persona si riappropria della sua sofferenza, inserendola nella
propria storia personale e familiare per ricercare un significato.
I percorsi di recupero, allora, devono essere intesi metaforicamente come delle attrezzate
palestre dove ci si allena per tornare a fare gli adulti, per tornare ad essere genitori, per
riscoprire le nostre responsabilità, anche e, soprattutto, quando ciò significa dire dei NO,
quando significa far scontrare i ragazzi con dei muri. Non si tratta di un ritorno al passato,
all’autoritarismo, ma significa allenarsi, anche se il percorso è ad ostacoli, al dialogo, alla
vicinanza, alla comprensione con rispetto dei ruoli reciproci.
Mi piace, in tal senso, ricordare una frase detta da un giovane in risposta al genitore che gli
proponeva d’essergli amico. Il figlio ci pensa un po’ e dice “Bene, adesso ho un amico in più,
ma non ho nessun padre!”. I ragazzi hanno tanti amici, ma soltanto due genitori e i genitori
non devono perdere il loro ruolo, come invece noi assistiamo quotidianamente nella nostra
pratica operativa.
Genitori che non si permettono di vivere il proprio ruolo e che si confondono nello spazio
vitale dei propri figli, creando quasi un’unica anima e corpo; impedendo l’affermazione di
quel “salto generazionale” tra genitori/figli così fondamentale nel processo di differenziazione
– distinzione dalla famiglia d’origine e tra generazioni diverse. Genitori che non riescono ad
interagire coi propri figli, intesi come portatori di capacità, competenze e bisogni che
inevitabilmente si differenziano ed evolvono a seconda delle diverse età.
139
I percorsi di recupero, allora, possono divenire occasione dove poter mettere in atto una sorta
d’educazione relazionale e familiare per sostenere la crescita affettiva e relazionale; dove la
ricostruzione di figure genitoriali credibili passa attraverso “l’educazione all’educazione”,
cioè guidare le famiglie, i genitori a seguire i propri figli tenendo conto dei loro bisogni, ma
anche e soprattutto delle loro capacità e competenze. Educazione intesa nel senso di
comunicare chi siamo e cosa vogliamo; se non comunico, se non dico quello che sono, resta
solo la sopraffazione dell’altro da me.
Sul versante, poi, dei giovani i percorsi di recupero devono essere intesi come momenti dove
loro riescono anche a riappropriarsi del loro tempo vissuto, inteso non più come
restringimento del tempo soggettivo, dove vi è una riduzione o addirittura scomparsa del
passato e del futuro, momenti questi essenziali per determinare una linea di sviluppo della
propria esistenza. Limitarsi al presente vuol dire non sapere d’essere inseriti in un flusso e
quindi non disporre di un senso di marcia adeguato. Percorsi di recupero per questi giovani
significa dare loro la possibilità di confrontarsi con modelli stabili, capaci d’accettare il
conflitto, poiché ciò significa anche accettare la relazione.
Molto spesso, invece, ci troviamo di fronte a dei ragazzi che possono essere paragonati a dei
ciechi che messi in una grande stanza, girano in tondo senza un muro che funga da punto di
riferimento. In tali condizioni chiunque sarebbe preso dal panico.
Al giorno d’oggi, poi, si parla molto dell’ascolto dei bambini/giovani, arrivando quasi a
mitizzarlo. L’ascolto è sì importante, ma lo è anche il dialogo che è una cosa completamente
diversa. L’ascolto, di fatto, è cercare ciò che il giovane ha dentro; il dialogo è, soprattutto,
costruire attraverso la comunicazione, costruire assieme a lui una serie di competenze,
ponendo l’attenzione soprattutto su quelle emotive. In tal senso, i percorsi di recupero
dovrebbero orientarsi sempre di più all’educare i giovani e le loro famiglie a sperimentare
quelle abilità necessarie per riconoscere, accettare ed esplicitare le proprie e altrui emozioni.
La violenza nelle famiglie, allora, può essere contrastata solo dimostrando apertura,
attenzione e senso di responsabilità: punti cardini di qualsiasi percorso di recupero.
Se i genitori, in particolare, non sono lasciati soli, se vengono loro offerti spazi di confronto e
di formazione, se si promuovono le loro competenze, la famiglia da problema può
trasformarsi in una formidabile risorsa per i figli e per la società.
Probabilmente siamo ancora molto lontani, nella realtà dei fatti, da questa dimensione,
proprio perché, in genere, si offre alla famiglia uno spazio di confronto quando ormai le
difficoltà sono già esistenti (v. gruppi genitori, gruppi d’auto mutuo aiuto, ecc.). Dobbiamo
forse ancora entrare nell’ordine d’idee che è più efficace, anche dal punto di vista di una
prevenzione di tipo primario, offrire alle famiglie più possibilità d’incontro e di confronto tra
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loro ma nell’ottica della normalità, non quando ormai bisogna correre ai ripari. Momenti e
spazi dove le famiglie (i genitori da soli, coi figli) possono avere la possibilità di raccontare e
di raccontarsi, condividendo con altri le loro esperienze, difficoltà, angosce, paure ma anche
risorse e possibilità di cambiamento.
La vita familiare così rivalutata e organizzata, ricostruisce il senso della comunità. Il bisogno
di comunità è, in fondo, un bisogno d’identità: identità personale e collettiva.
Resta il fatto che anche i “bambini o giovani cattivi” hanno un cuore, ma è quello violento
della realtà e dei loro cattivi maestri.
Per concludere vorrei presentarvi, brevemente, una storia che per certi aspetti può apparire
estrema, ma, per altri, molto significativa per i discorsi finora portati avanti.
Vorrei raccontarvi la storia di Igor (il nome è stato modificato per rispettare il diritto alla
privacy), 21 anni, con il quale sto portando avanti un percorso di valutazione per un eventuale
inserimento in comunità terapeutica.
Igor è di origini russe; all’età di 4 anni la madre, che divorzia dal padre (il padre di Igor
presentava delle difficoltà con l’alcool), decide di venire in Italia per seguire il suo nuovo
compagno e futuro marito.
Igor, dopo aver frequentato il primo anno di scuola materna in Russia, segue la madre in
Italia.
La nuova unione della signora non è tra le più felici, visto che anche il nuovo compagno
presenta dei problemi alcolcorrelati, sono stati riscontrati diversi episodi di violenza contro la
moglie. Sembra, inoltre, che Igor, in alcune occasioni, abbia dovuto assistere a dei rapporti
sessuali violenti tra i due.
Verso i 13 anni di Igor, la madre divorzia anche da questo uomo e si trova un altro compagno;
così, di nuovo, Igor segue la madre.
All’arrivo alle scuole superiori iniziano i primi incontri di Igor con le sostanze, alcool e
cannabinoidi, soprattutto, abusati a dosi massicce. C’è anche un’interruzione scolastica al
terzo anno, con passaggio ad un altro istituto.
All’età di 18 anni Igor commette il suo primo reato, violenza sessuale (palpeggiamenti) ai
danni di una minorenne. A distanza di poco tempo ne commette altri due (palpeggiamenti ai
danni di una minorenne ed episodi di masturbazione in luogo pubblico). A 20 anni commette
il terzo reato, quello più grave: violenza sessuale e sequestro di persona ai danni di una
bambina di tre anni e mezzo. Tutti i reati sono stati commessi sotto l’effetto di massicce dosi
di alcool e di cannabinoidi.
141
Dopo un periodo di permanenza in carcere, Igor ottiene gli arresti domiciliari dal secondo
marito della madre, ancora alcol dipendente. La madre ed il nuovo compagno non possono
andare a trovare Igor a causa dei cattivi rapporti esistenti con l’uomo.
La madre coinvolge il figlio nelle sue vicende e peregrinazioni amorose.
Costantemente e per lunghi periodi si reca in Russia, dalla propria madre, “abbandonando”
Igor a se stesso.
Un padre non esiste, anche se intorno a lui ruotano delle figure maschili.
Igor esiste, ha 21 anni, è un ragazzone alto oltre un metro e novanta con una faccia da
bambino e tanta, tanta rabbia in corpo
………….lascio a voi le altre riflessioni.
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L’OSSERVATORIO DEL SERVIZIO SOCIALE PENALE MINORILE
Dott.ssa Ariella Stepancich
Direttore Ufficio Servizio Sociale Minorenni, Trieste
Il mio vuole essere un contributo alla discussione sul bullismo e sulla violenza interfamiliare
da un particolare osservatorio quale è quello dell’Ufficio Servizio Sociale per i Minorenni
(U.S.S.M.).
L’U.S.S.M. è un servizio periferico del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia
Minorile che ha sede a Roma, istituito in ciascun capoluogo di distretto di Corte d’Appello o
sezione di Corte d’Appello, dove ha sede il Tribunale per i Minorenni. In Friuli Venezia
Giulia la direzione d’ufficio ha collocazione a Trieste dove operano, per le province di Trieste
e Gorizia, diverse figure professionali quali assistenti sociali, educatori, personale di Polizia
Penitenziaria.
E’ aperta una sezione staccata a Udine, competente territorialmente per le province di Udine e
Pordenone. L’Ufficio ha sempre privilegiato la vicinanza con il territorio di provenienza e di
vita dei minori e delle loro famiglie, al fine di stimolare collaborazioni e promuovere
iniziative con i Servizi, le Istituzioni e il Privato Sociale.
I servizi intervengono su di minori dai quattordici anni (al di sotto di tale età il minore è tout
court considerato penalmente non punibile per un reato commesso) ai diciotto anni, autori di
reato, arrestati o a piede libero o infraventunenni sottoposti ad una misura penale. In questi
casi si assicura un’attività di assistenza in ogni stato e grado del procedimento attivando
percorsi di crescita e di responsabilizzazione attraverso la valorizzazione delle risorse
personali, familiari, sociali ed ambientali, modulando gli interventi in funzione delle esigenze
educative del minore.
L’U.S.S.M. interviene su richiesta dell’Autorità Giudiziaria Minorile (Tribunale per i
Minorenni e Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni), che oltre ad avere
una funzione punitiva e sanzionatoria, ha necessariamente, per la propria doppia competenza,
penale e civile, una funzione di tutela.
In questo contesto di analisi del fenomeno del bullismo e di possibili soluzioni desidero porre
attenzione a quanto riscontrato nella pratica professionale: perfino nell’applicazione delle
misure penali limitative della libertà l’A.G. Minorile pone particolare attenzione, sancita dal
Nuovo Codice di Procedura Penale per i Minorenni n.448/88, ai processi educativi che cerca
di non interrompere, se sono in corso, o di stimolare e favorire, se sono inesistenti o appena
abbozzati. E’ importante la funzione educativa, direi genitoriale, esercitata dalla Magistratura
Minorile nei confronti del minore, quasi una longa manus dei propri genitori, autorevole,
143
competente, importante, che può entrare in gioco nella ricerca di risposte e di soluzioni ai
bisogni dei minori.
L’Ufficio ha quindi una vasta panoramica, oserei dire una totale panoramica, sui reati
commessi da minori anche se, per la quantità e la diversità di tipologia dei reati, più o meno
gravi, non viene operata una presa in carico di tutti i minori. Vengono seguiti i minorenni che
hanno commesso i reati più gravi o quelli che determinano un allarme sociale sia per l’età dei
minori (vengono privilegiati i ragazzi di età più giovane) che per le modalità di esecuzione
(es. i reati di gruppo). Comunque l’U.S.S.M. ha una consistente e consolidata esperienza nel
venire a contatto con situazioni di minori residenti su tutto il territorio regionale, e
nell’operare un’analisi sulle condizioni di vita dei giovani, sui disagi personali e sugli eventi
che li coinvolgono.
A questo punto è quasi superfluo dire che il nostro è un osservatorio privilegiato ed allo stesso
tempo anche parziale di una realtà, come quella degli argomenti in discussione, perché non
tutte le situazioni, in cui è stata commessa una trasgressione di una norma da parte di un
minore, si “arriva” al penale, ovviamente per molti motivi, in primis l’assenza di denuncia e
questo senza alcun giudizio di merito, se il ragazzo è imputabile, o, nel caso di minore
infraquattordicenne, proprio perché non imputabile, non passibile di giudizio (qui entrano in
gioco, su intervento del magistrato o del giudice, altri tipi di interventi di tipo civilistico).
Per questi motivi le segnalazioni di reato per minori in situazioni di gruppo sono insufficienti
a definire fenomeni di tipo sociale, sono addirittura fuorvianti, perchè arrivano alla nostra
attenzione comunque separati: lesioni, risse, danneggiamenti, violenza privata, percosse, e
altro. Un dato rilevante è costituito dalla sempre più spiccata diminuzione dell’età del minore
autore di reato, a riprova della precocità dei giovani riscontrata in altri campi, diciamo più
neutri e meno connotati da devianza.
Dalla nostra conoscenza è emerso comunque che non tutte le situazioni di reato di violenza in
gruppo costituiscono episodi di bullismo. Solo la conoscenza e l’approfondimento della
situazione attraverso i racconti dei ragazzi stessi possono far emergere situazioni di bullismo,
inteso come reiterazione di atti intimidatori, di violenza verso il debole che non è in grado di
sottrarsi e perpetua inconsapevolmente con il suo atteggiamento azioni di pesante
sopraffazione.
Per la percezione che si ha del bullismo, come fenomeno che determina un allarme, una
rilevanza sociale, approfondita in letteratura e/o riportata dai mass media, abbiamo riscontrato
poche situazioni in ambito scolastico (nell’ordine di unità), che vedono esclusivamente
coinvolti maschi.
144
All’esterno della scuola si ha invece un aumento di episodi di reiterata violenza di ragazze su
coetanee (fenomeno piuttosto eloquente perché la commissione di reati da parte di minori
femmine è significativamente inferiore dei minori maschi costituisce circa il 10% del totale).
Dalla mia esperienza lavorativa posso dire che questo tipo di reati si sono verificati anche in
altri periodi storici; non riscontriamo infatti un aumento nel numero degli episodi ma si è
modificata nel tempo l’attenzione o la copertura che ne viene data. Riscontriamo invece un
abbassamento della tolleranza del mondo adulto, anche se paradossalmente il modello
culturale non è dei più incoraggianti, visto che viene spesso premiata la prepotenza e la
furbizia.
Uno spazio a parte dovrebbe essere dato ai reati di gruppo di natura sessuale messi in atto da
minori. In generale si riscontra una maggiore sensibilizzazione del contesto significativo per i
minori vittime, in prevalenza femmine.
Proprio per questo modo di sentire generalizzato, purtroppo, e’ cambiata la percezione della
trasgressione e del disvalore dell’atto da parte del minore, un tempo molto più netti (il minore
era molto più consapevole di quello che stava succedendo). Il gruppo determina una
percezione distorta del coinvolgimento, si ha un ricordo molto sfalsato, molto diluito della
trasgressione, il gruppo rinforza le azioni del singolo anche se la denuncia penale e di
conseguenza la responsabilità rimangono individuali.
Dal punto di vista numerico il fenomeno che riguarda la commissione di reati da parte di
minori in prevalenza maschi su femmine non ha subito un aumento, come d’altronde per altri
reati contro la persona. Comunque anche qui si sta riscontrando però sempre un abbassamento
dell’età dei minori che vivono le esperienze fondamentali legate alla sessualità in modo
decisamente immaturo, fuorviato quando non è traumatico e traumatizzante. Tali esperienze
fondamentali mal riuscite hanno un effetto devastante sia per le vittime, già protette in quanto
vittime, sia per i minori autori di violenza sui quali si deve intervenire in modo consistente
soprattutto quando si trovano a essere sotto i riflettori della giustizia.
Un discorso a parte meritano gli atti violenti e ripetuti in famiglia da parte degli adolescenti.
La realtà dimostra che la violenza agita è stata assistita e respirata in precedenza o continua a
essere vissuta sulla propria pelle in altre forme.
Succede spesso, anche per l’uso di sostanze, che si abbassino i freni inibitori, che il ragazzo
tenga in ostaggio la famiglia, che il genitore si consegni letteralmente al figlio. Si hanno case
sfasciate in momenti di violenza devastante, violenza che si riversa anche sui componenti del
nucleo familiare. I reati gravissimi sono per fortuna sporadici.
Che fare? Questo è l’interrogativo che abbiamo sempre presente.
145
L’esperienza professionale ha dimostrato che non esiste una soluzione univoca alle varie
problematiche.
Può essere significativo e produttivo l’intervento della scuola ove si creino momenti informali
di confronto nel tempo extra curricolare in cui il ragazzo possa esprimersi abbastanza
liberamente.
E’ importante creare delle esperienze educative diverse, lavorare individualmente con i
ragazzi ma anche con il gruppo, attraverso l’educativa di strada (es. a Trieste anni fa è stato
attuato un progetto per la costruzione di un murales in un quartiere problematico).
I ragazzi hanno imparato gradatamente ad avere un rapporto più maturo con l’adulto, con
l’educatore e con i coetanei, diventando meno succubi ed hanno imparato a smorzare la loro
prepotenza, ad avere un ruolo più autonomo e responsabile.
L’intervento non può e non deve essere fatto solo con i minori, perché sarebbe insufficiente e
parzialmente inefficace.
I Servizi non risolvono da soli situazioni così complesse ma, essendo all’interno di un sistema
dinamico-relazionale, devono prevedere, se la famiglia si trova in difficoltà, il coinvolgimento
dei genitori stessi, della scuola e della comunità. Solo con la sinergia di queste realtà che
conoscono i ragazzi sotto aspetti molteplici, si può attuare un intervento significativo ed
efficace anche al di là dei limiti e delle risorse che sono sempre più generalizzate.
146
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