PREPOTENTI, BULLI E VIOLENTI A CASA E A SCUOLA Conoscerli
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PREPOTENTI, BULLI E VIOLENTI A CASA E A SCUOLA Conoscerli
ASSESSORATO ALLE POLITICHE SOCIALI, ALLA COOPERAZIONE SOCIALE E AL VOLONTARIATO ASSESSORÂT AES POLITICHIS SOCIÂLS, AE COOPERAZION SOCIÂL E AL VOLONTARIÂT PREPOTENTI, BULLI E VIOLENTI A CASA E A SCUOLA Conoscerli, comprenderli e contrastarli ATTI DEL CONVEGNO VIII SETTIMANA PROVINCIALE DELLE SOLIDARIETÀ 15 - 16 Novembre 2006 Coordinamento Metodologico Dott.ssa Loredana Ceccotti Dirigente Area Politiche Sociali, Lavoro e Collocamento – Provincia di Udine e-mail: [email protected] Coordinamento Scientifico Dott. Gelindo Castellarin Psicologo consulente della Provincia di Udine e-mail: [email protected] Servizio Politiche Sociali Via della Prefettura, 16 – 33100 UDINE e-mail: [email protected] 2 PRESENTAZIONE Viviamo tutti un tempo difficile, il tempo dell’incertezza! Se per le generazioni che ci hanno preceduto il tempo futuro era il tempo della speranza e del progresso, ora l’orizzonte appare più sfumato, difficile, complesso, alle volte disarticolato. La società tutta, ma anche le nostre comunità locali, si interrogano sui temi forti della sicurezza percepita, sulle prospettive di lavoro per le nuove generazioni, sulla frammentazione delle famiglie, sui nidi vuoti e sugli anziani soli. Non sempre le risposte arrivano! Le nuove generazioni, in particolare, subiscono il disorientamento degli adulti, la caduta dei valori, l’irruzione nell’immaginario sociale dei miti di plastica del benessere esibito, ma vuoto, dell’apparire a tutti i costi, sino al crimine della sopraffazione dei più deboli …così… piccoli bulli crescono nella distrazione di molti. In questa cornice, prospera il fenomeno del bullismo che attraversa le classi sociali, le classi anagrafiche ed anche i sessi. Il bullismo non è un fenomeno nuovo, infatti ci sono sempre state le angherie dei bulli nei confronti delle persone fragili, ciò che è nuovo oggi è lo scenario in cui il bullismo prospera e si diffonde per imitazione e cioè i luoghi deputati all’educazione (le scuole di ogni ordine ed i centri di aggregazione in genere). Ciò rappresenta un segnale preoccupante in quanto evidenzia il venir meno da parte degli adulti (genitori ed educatori) delle funzioni maturative, normative, di controllo e di contrasto sulle violenze agite dai bulli, spesso a loro volta vittime di contesti familiari e sociali disgregati, impoveriti o svuotati di valori. Anche quest’anno pubblichiamo gli Atti del Convegno annuale della Settimana Provinciale delle Solidarietà 2006, che ha avuto come focus proprio il bullismo con il tema:“PREPOTENTI, BULLI E VIOLENTI A CASA E A SCUOLA”: Conoscerli, comprenderli e contrastarli” e che ha visto coinvolti, accanto ad un numeroso gruppo di esperti nazionali e locali, oltre 350 operatori del sociale, insegnanti ed educatori. L’Assessorato alle Politiche Sociali della Provincia di Udine, che ho l’onore di rappresentare, è particolarmente sensibile alle tematiche del mondo giovanile e della solidarietà, promuovendo e supportando diverse iniziative dirette ad affrontare le tematiche più attuali del disagio, della sofferenza e dell’emarginazione. È in questa prospettiva che la Provincia di Udine , assieme agli operatori ed alle associazioni del territorio, intende operare per dare alle giovani generazioni un futuro vivibile, un futuro dove la speranza si consolidi in rapporti tra le persone ricchi di senso, di valore e di qualità. L’Assessore alle POLITICHE SOCIALI Adriano PIUZZI 3 INDICE _____________________________________________________________________________ INTERVENTI INTRODUTTIVI Prof. Marzio Strassoldo - Presidente della Provincia di Udine pag. 7 Adriano Piuzzi - Assessore alle Politiche Sociali della Provincia di Udine pag. 9 PRIMA SESSIONE PSICO-SOCIOLOGIA DELLE VIOLENZE NELL’INFANZIA E NELL’ADOLESCENZA Dott. Ezio Bertossi, Dott.ssa E. Ramaglioni, Prof. Antonio Condini Unità Operativa Autonoma di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza ULSS 16 Padova “L’agire in adolescenza. Genesi ed evoluzione dei disturbi della condotta” pag. 12 Dott.ssa Laura Cerone – Psicologa, Psicoterapeuta Dott.ssa Fiammetta Biancolin – Sociologa Associazione “IOTUNOIVOI Donne Insieme”, Udine “Bullismo: male giovanile del ventunesimo secolo. Ma è vero?” pag. 45 Dott. ssa Mara Lessio – Sostituto Commissario polizia di Stato, Responsabile Ufficio Minori Divisione Anticrimine, Questura di Udine Dott.Ezio Gaetano – Vicequestore Aggiunto Polizia di Stato, Questura di Udine “Il fenomeno del bullismo nelle segnalazioni delle famiglie e delle scuole” pag. 67 SECONDA SESSIONE IL BULLISMO: TEORIE INTERPRETATIVE Dott. Giovanni di Cesare – Psicologo didatta Centro Studi Terapia Familiare, Roma “La cura della violenza” pag. 70 Dott. Giuseppe Disnan – Psicologo, Psicoterapeuta, Professore a contratto e docente master Università degli studi di Padova “Genitorialità difficili: tra bambino, famiglia, scuola e servizi” pag. 77 4 TERZA SESSIONE BULLI E VIOLENTI A SCUOLA Prof. Daniele Fedeli – Ricercatore, Docente di Psicologia delle Disabilità Università degli Studi di Udine “Strategie d’intervento antibullismo: la costruzione della “safe school” pag. 90 Dott.ssa Marina Camodeca – Ricercatrice di Psicologia dello Sviluppo, Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti Pescara “Modelli, comportamenti e dinamiche di gruppo nel bullismo a scuola” pag. 111 Prof. Dino del Ponte – Dirigente Scolastico ed ex coordinatore settore handicap e politiche giovanili,Ufficio Scolastico Provinciale di Udine “Esperienze sul No Bullismo a scuola” pag. 115 “Esperienze…” pag. 119 QUARTA SESSIONE ADOLESCENTI VIOLENTI A CASA Dott. Francesco Milanese – Tutore Pubblico dei Minori Regione Friuli Venezia Giulia “Ragazzi violenti? Percorsi di crescita difficili? Che fare? Capirli? pag. 129 Dott. ssa Serena Casonato – Psicologa Psicoterapeuta familiare, Centro solidarietà Giovani “Giovanni Micesio” onlus, Udine “Violenze giovanili nelle famiglie. I percorsi di recupero” pag. 137 Dott.ssa Ariella Stepancich – Direttore Ufficio Servizio Sociali Minorenni, Trieste “L’osservatorio del servizio Sociale penale Minorile” pag. 143 5 INTERVENTI INTRODUTTIVI 6 Prof. Marzio Strassoldo Presidente della Provincia di Udine Un saluto cordiale da parte dell’Amministrazione Provinciale che ormai da otto anni organizza la Settimana delle Solidarietà ed ogni volta affronta problemi rilevanti per la nostra comunità. E’ giusto che la Provincia di Udine si occupi di queste questioni e dei problemi che coinvolgono singoli soggetti che si trovano in condizioni di bisogno e di fragilità perché si tratta di questioni che non possono solo essere curate in casi eclatanti nelle singole realtà comunali ma essendo comportamenti largamente diffusi, devono essere analizzati, approfonditi, trovando soluzioni a livello di area vasta. Il problema non è risolto da singoli interventi mirati da singole realtà comunali quando il territorio circostante continua ad essere affetto da comportamenti devianti diffusi che qui andremo ad affrontare. Oggi è stato scelto un tema di attualità, di rilevanza notevole. Non abbiamo più i militari, le caserme sono svuotate ma ci sono comunque manifestazioni di comportamenti non corretti nei confronti degli altri, comportamenti di violenza e di prepotenza. Per fortuna questi atteggiamenti devianti non sono presenti in grande misura nella nostra regione, nella nostra provincia dove vi è ancora una cultura dominante di rispetto delle norme, dell’ordinamento giuridico e dei diritti degli altri. Il tema pertanto è stato opportunamente scelto a cura degli organizzatori in questa settimana che ha visto sempre grande pubblico e che si contraddistingue come momento di aggiornamento e di formazione che si colloca in un ambito vasto che è quello di cui la Provincia deve occuparsi. Porto il saluto dell’intera Amministrazione provinciale e mi congratulo, con il Dott. Castellarin, la Dott.ssa Ceccotti e con i loro collaboratori per avere sempre portato avanti questo programma di vasto coinvolgimento e ringrazio gli operatori sociali, gli insegnanti, tutti coloro che in qualche modo affrontano quotidianamente problemi di fragilità sociale, per la partecipazione a questi incontri. Non si tratta di incontri che si fanno solo per fare, di convegni accademici…l’ampia partecipazione che ogni anno si manifesta dimostra come queste siano iniziative molto utili per capire tutta una serie di comportamenti e di bisogni che si manifestano nella comunità e per trovare le strade per prevenirli o sostenerne la cura. Comunque mi preme dire che anche in questo caso è un problema di cultura: se non si interviene in tutti campi è difficile trovare soluzioni in qualche segmento circoscritto, in comportamenti non corrispondenti ad una corretta visione dei rapporti sociali. 7 Anche la tolleranza dei graffiti su case private ed edifici pubblici, sono manifestazioni di comportamenti che dimostrano che non vi è rispetto per gli altri, per il proprietario di quella casa, o per quel dirigente scolastico di quella scuola o per quel funzionario pubblico che ha la responsabilità di mantenere quel edificio a dimostrazione del fatto che i valori del rispetto della norma e del diritto degli altri evidentemente non sono valori sufficientemente diffusi o interiorizzati. Molto lavoro vi è ancora da fare in questa direzione; la Provincia cerca di fare il suo con la collaborazione degli operatori della scuola, del sociale, delle istituzioni private e del volontariato per creare un clima fortemente consolidato nel rispetto degli altri. Quindi congratulazioni ancora e ci vedremo il prossimo anno per un nuovo tema di rilevanza sociale a cui la Provincia insieme a tutti gli operatori ed istituzioni di vario livello potranno dare contributi di sicuro interesse. 8 Adriano Piuzzi Assessore alle Politiche sociali della Provincia di Udine Un cordialissimo saluto ma soprattutto un ringraziamento a quanti hanno permesso di realizzare questo momento importante, momento che mi dà la possibilità di condividere con tutti voi un tema di notevole rilevanza. Io credo che in questo ringraziamento generale debba spendere una parola soprattutto per la struttura a cui posso fare riferimento, la Dott.ssa Ceccotti, i suoi collaboratori, il Dott. Castellarin consulente scientifico di questa settimana ma soprattutto a voi che siete gli autentici protagonisti di questa giornata, un grazie agli operatori, ai relatori ed a tutte le associazioni. Siamo giunti alla 8^ edizione di questa manifestazione che si è rivelata una felice intuizione, che si è concretizzata e consolidata nel tempo e radicata sul territorio. Il tema centrale di questa settimana è di certo la solidarietà, una solidarietà vera senza infingimenti, l’unico vero antidoto ai fenomeni di disgregazione che purtroppo caratterizzano il nostro tempo e sono sicuramente individuabili negli egoismi e nella caduta dei valori. Io vengo da una zona dove la solidarietà, nazionale ed internazionale, ha fatto miracoli. E mi rivolgo soprattutto ai giovani dicendo che se non c’è futuro non ci sarà solidarietà. La Provincia si sta muovendo coerentemente anche in riferimento alla Legge Regionale n. 6 del 2006 per un welfare di comunità dove venga esaltato il valore ed il ruolo della famiglia, la centralità ed il ruolo delle comunità locali e la partecipazione attiva dei cittadini. L’ente di area vasta ha come sua competenza primaria la programmazione del sistema integrato e la definizione e l’attuazione dei piani di zona. In questo contesto rientra anche l’iniziativa della Settimana delle Solidarietà Sociali. Abbiamo trattato temi di grande importanza. Abbiamo dedicato un’attenzione speciale agli anziani soprattutto a coloro che in questo momento sono particolarmente fragili ma abbiamo saputo anche esaltare il ruolo dell’anziano come grande risorsa; grande interesse è stato dimostrato anche per i temi legati alla famiglia; le ultime due giornate saranno dedicate alle problematiche della disabilità. Credo che quando una comunità riesce ad affrontare queste tematiche sia una comunità che vuole andare avanti, che vuole crescere, che vuole ritrovare quei valori che hanno fatto grande il nostro Paese. Il tema di oggi è di per sé significato “PREPOTENTI, BULLI E VIOLENTI A CASA E A SCUOLA”: Conoscerli, comprenderli e contrastarli”. Credo che in queste 3 parole sia racchiuso il senso di questo incontro. Noi ci ripromettiamo oggi di raggiungere alcuni obiettivi: 9 sensibilizzare gli operatori del sociale, della sanità e del mondo della scuola, fornire capacità di lettura e di comprensione del fenomeno e di fornire modelli di intervento e di contrasto a difesa dei bambini fragili e della comunità. Se avremo raggiunto questo obiettivo possiamo dichiararci soddisfatti. Io debbo richiamare alcune problematiche. Mi permetto alcune riflessioni a voce alta. Senza avere la pretesa di dare lezioni, voglio fare alcune considerazioni di carattere amministrativo – politico su questo fenomeno. Il bullismo si manifesta in modo diretto con il contrasto fisico e verbale ma soprattutto nella forma indiretta dove si mira all’isolamento delle persone ed a una intenzionale esclusione dal gruppo. Il bullismo non è un problema di pochi ma dell’intera società che se ne deve fare carico, anche perché il clima di tensione e di insicurezza che si instaura crea e creerà ancora dei problemi. Il bullismo è una questione che va affrontata il più presto possibile e possibilmente risolta. Molti Stati hanno attivato politiche nazionali antibullismo. Le ricerche indicano una diffusione più generalizzata del bullismo nelle classi elementari e nei primi anni delle scuole medie come fenomeno socio-relazionale e modalità diffusa di soluzione dei conflitti. Con il crescere dell’età si assiste ad una diminuzione della frequenza con una maggior radicalizzazione in un numero ristretto di casi come forma stabile di disagio individuale. A livello sociale purtroppo l’autorevolezza degli adulti molto spesso tende a ridursi sempre più nel tempo. Tra le altre motivazioni anche la precocità adolescenziale tipica della nostra società fa si che comportamenti trasgressivi e certe dinamiche di gruppo tra coetanei si presentino, appunto tra i giovanissimi. La trasgressione sta diventando norma o quanto meno fa tendenza in una continua gara al rialzo ed alla estremizzazione dei comportamenti. Ecco io credo che anche il Parlamento debba occuparsi di questo fenomeno. Ad oggi non esiste nessun iniziativa a livello legislativo che mira ad affrontare queste problematiche ed a tentare di risolvere i problemi stessi. Il mio pertanto è un invito che va ai rappresentanti parlamentari, ai nostri produttori di diritto, a coloro che ci forniscono gli strumenti necessari per giudicare con giustizia il male inflitto. L’incredibile vuoto legislativo che riguarda questo aspetto ormai evidente della nostra società favorisce la tolleranza del fenomeno ed una drammatica evoluzione dei suoi effetti. E mi rivolgo senza infingimenti anche ai media: io credo che quello che è apparso ultimamente anche sulla stampa locale non faccia bene ai giovani. Questo fenomeno va si contrastato, circoscritto, ma bisogna fare molta attenzione perché i nostri giovani non sono certamente quelli che a volte la stampa dipinge. 10 PRIMA SESSIONE Psico – sociologia delle violenze nell’infanzia e nell’adolescenza Presiede: Dott.ssa SILVANA CREMASCHI Referente U.O. di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza Dipartimento di salute mentale A.S.S. n° 4 "Medio Friuli" 11 L’AGIRE IN ADOLESCENZA: GENESI ED EVOLUZIONE DEI DISTURBI DELLA CONDOTTA Dott. Ezio Bertossi, Dott.ssa E. Ramaglioni, Prof. Antonio Condini Unità Operativa Autonoma di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza ULSS 16 Padova La contrapposizione tra condotta agita e condotta mentalizzata in adolescenza è della massima importanza. L’agire rappresenta a questa età una forma di espressione privilegiata dei conflitti, delle angosce, delle pulsioni che si può manifestare nella vita quotidiana del ragazzo “normale” assumendo connotati socialmente accettabili ma anche a livello psicopatologico nei disturbi del comportamento, problematica che rappresenta uno dei motivi più frequenti di consultazione psichiatrica in adolescenza. Infatti, ad un livello patologico, la sofferenza agita è spesso sintomatica o di un limite delle capacità del ragazzo di esprimere verbalmente il suo disagio o di una mancata capacità di elaborazione. Rilievo fondamentale è che la condotta agita e la sofferenza ad essa sottesa, non rappresentano un’entità nosografica rigida e definita ma vanno di volta in volta contestualizzate nell’ambito di una costellazione sintomatologica che può richiamare quadri sindromici anche molto diversi. La complessità dell’approccio alle manifestazioni aggressive quindi risiede nel discriminare normalità da patologia e, nel contesto di quest’ultima, riconoscere gli eventuali quadri psicopatologici implicati. Infatti, il momento della diagnosi differenziale dell’aggressività deve poter discernere un sintomo riconducibile a diverse condotte psicopatologiche che rientrano nelle classificazioni sindromiche dei disturbi psichici e comportamentali. A tal proposito i due principali manuali diagnostici utilizzati a livello internazionale, il DSM-IV TR e l’ICD-10, non prevedono specificamente una diagnosi di disturbo aggressivo ma fanno comparire il termine aggressività nei criteri di diversi quadri clinici per cui questa, l’aggressività, si configura più come una dimensione transnosografica che non come un elemento psicopatologico nucleare e strutturante. Si distinguono quindi quadri psicopatologici in cui tra i criteri diagnostici è esplicitamente annoverata la presenza di episodi di incapacità di resistere agli impulsi aggressivi, comportamenti ostili e provocatori, gravi atti aggressivi o distruzione della proprietà o violenza su animali o persone: Disturbi del controllo degli impulsi (disturbo esplosivo intermittente), 12 Disturbi da comportamento dirompente (disturbo oppositivo-provocatorio, disturbo della condotta e misto emozioni/condotta, Disturbi dell’adattamento con alterazione della condotta o mista emozioni/condotta. In altri quadri psicopatologici l’aggressività è segnalata come caratteristica associata e non prettamente come criterio diagnostico (la schizofrenia e gli altri disturbi psicotici; i disturbi bipolari; il disturbo da deficit di attenzione/iperattività; i disturbi correlati a sostanze; il ritardo mentale). Infine, in altri disturbi l’aggressività può essere sottesa ad altre manifestazioni sintomatiche, come per esempio le valenze suicidarie nei disturbi depressivi, l’irritabilità e l’eteroaggressività manifestate dal bambino piccolo contro sentimenti depressivi, gli episodi di intolleranza nel disturbo ossessivo-compulsivo, le crisi di angoscia nei disturbi generalizzati dello sviluppo ecc… Da un punto di vista prettamente fenomenologico dunque, l’alterazione comportamentale non rappresenta di per sé un disturbo ma va contestualizzata nell’ambito di una costellazione sintomatologica che può fare capo a quadri sindromici diversi. Anche nella prospettiva psicodinamica l’aggressività e l’antisocialità sono considerate espressione di una sofferenza che trova la sua esplicazione nell’ambito di diversi quadri patogenetici. A questo proposito, Mahron (1980) classifica diverse tipologie di adolescenti devianti, considerando le dimensioni psicopatologiche che sono alla base del conflitto espresso in maniera agita. Egli distingue gli adolescenti trasgressivi in: impulsivi, caratterizzati dalla imprevedibilità nel ricorso all’azione, tipica dei ragazzi che manifestano un comportamento antisociale marcato, anche violento; l’atto delinquenziale esprime una scarica violenta ed improvvisa di tensione intrapsichica, per cui di fatto il pensiero non interviene a mediare tra impulso e comportamento motorio. L’esperienza soggettiva di questi stati interni è quella di un’unica entità, senza soluzioni di continuità; narcisistici, caratterizzati da una immagine negativa di sé. Questi adolescenti appaiono ben adattati ma solo superficialmente, spesso come effetto di un atteggiamento compiacente; in realtà mascherano una scarsa autostima e negli atti trasgressivi usano e sottomettono gli altri per i propri fini, soprattutto per la regolazione interna dell’immagine di sé. L’atto delinquenziale rappresenta il tentativo di raggiungere o mantenere un’immagine di sé adeguata; depressi, caratterizzati dal bisogno e dalla richiesta di aiuto e sollecitudine di tipo parentale. In questa categoria rientrano gli adolescenti “delinquenti per senso di colpa” 13 descritti da Freud, il cui comportamento deviante è finalizzato a sollecitare una punizione inconsciamente desiderata e nelle cui modalità relazionali è evidente il bisogno analitico di oggetti a cui attaccarsi ed appoggiarsi; passivi, caratterizzati da una emotività scarica, privi di alcun desiderio e speranza per il futuro, autoesclusi dalle relazioni sociali; l’atto delinquenziale è finalizzato ad evitare la disintegrazione psicotica, attivando emozioni forti nel tentativo di attenuare il grave stato di desolazione interiore. L’agire, soprattutto in adolescenza, è collegato fortemente ai numerosi compiti evolutivi che si pongono dinanzi al ragazzo/a che cresce. Basti pensare alla crisi puberale con le trasformazioni somatiche che ne derivano sia dal punto di vista sessuale-genitale che di struttura fisica. L’adolescente si appropria della sua nuova corporeità spesso mettendola “alla prova”. In ambito di ruolo sociale l’adolescente inizia l’inserimento nel mondo adulto. La gestione personale di spazi privati da gestire autonomamente favorisce concretamente l’agire. Spesso l’interazione con gli adulti è ricercata dal ragazzo con strategie disfunzionali, basate su agiti provocatori che hanno il compito di attirare l’attenzione su di sé, spesso provocando delle risposte attuate sullo stesso piano. Il gruppo dei pari quindi, permette al ragazzo di esercitarsi nella sperimentazione di un ruolo sociale; il gruppo può essere utilizzato come luogo di esternalizzazione delle diverse parti di sé ma anche come “contenitore” pulsionale e identificatorio. Allo stesso tempo il gruppo può avere anche una funzione in ambito psicopatologico, soprattutto su un versante antisociale e può essere usato dagli adolescenti per “rendere reale la propria sintomatologia potenziale” (Winnicott 1974). L’acquisizione di un’intelligenza operativa formale dà all’adolescente la consapevolezza di un nuovo potere del pensiero e lo usa come uno strumento che in sé non ha limiti e non è più subordinato al reale. Non è raro che l’adolescente avverta il timore di perdersi nel pensiero (depersonalizzazione) e si senta difensivamente spinto verso condotte agite che “mettono a riposo” la mente. Agire è nell’adolescenza una necessità ed un diritto, come sostiene Winnicott (1968), correlando “agire-avere idee”: infatti agire “e” avere idee può trasformarsi in agire “o” avere idee; di conseguenza l’agire diventa un freno alla condotta mentalizzata e l’azione non è più preparata dal pensiero ma deriva da fantasmi interni. Compito evolutivo imprescindibile a quest’età è il superamento della seconda fase di separazione-individuazione (Senise 1990). La minaccia di annichilimento nella diade madrebambino ed il desiderio di affermazione personale richiedono una presa di distanza che può essere anche molto fisica. L’agito può servire per negare la passività che in quel momento 14 l’adolescente sperimenta di fronte agli sconvolgimenti in atto ed evitare il dolore e la depressione che potrebbero derivare dall’elaborazione del lutto conseguente la perdita degli oggetti infantili (Marcelli 1983). La difficoltà a separarsi può diventare la causa di comportamenti aggressivi in famiglia quando il legame con i genitori è di tipo simbiotico: si tratta per lo più di ragazzi miti al di fuori delle pareti domestiche che scatenano tutta la loro aggressività nel rapporto con i genitori, quasi a voler lacerare violentemente un cordone ombelicale non ancora reciso. La sofferenza dell’adolescente derivata dall’ambivalenza lacerante tra volontà di separarsi e angoscia di essere abbandonato, viene espressa violentemente. Le dinamiche identificatorie nella relazione del figlio adolescente con i propri genitori rimangono per lungo tempo complesse e conflittuali; il comportamento violento del ragazzo può rappresentare la manifestazione agita di desideri trasgressivi e tendenze aggressive proprie dei genitori, l’esteriorizzazione di continui meccanismi di proiezione ed identificazione proiettiva: il figlio si costruisce un’immagine negativa di sé quale gli viene rimandata dai genitori che ritrovano nel figlio la loro stessa aggressività che li spaventa e li rende ostili verso il figlio stesso. Anna Freud (1965) sottolinea il ruolo determinato dallo stile educativo genitoriale nella genesi della trasgressività adolescenziale: l’incoerente alternarsi di permissività eccessiva e limitazione ostile impedisce a questi ragazzi una stabile interiorizzazione del controllo. E’ ben nota la tesi di Winnicott secondo cui “crescere è per natura un atto aggressivo” e che trova il suo apice nell’assassinio delle immagini parentali: tuttavia è necessario che i genitori sopravvivano a tale distruzione. Il soggetto quindi distrugge un oggetto interno primitivo ma l’oggetto esterno sopravvive alla distruzione. L’adolescente violento non riesce a superare la fase di distruzione interiore degli oggetti infantili, rimanendo bloccato nella fase di “relazione” e non giungendo all’ “uso” dell’oggetto reale. La distruzione che egli fantastica deborda nella realtà e si confonde con la distruzione dell’oggetto reale; l’identità che va costituendosi è impregnata di controllo onnipotente e negazione della dipendenza dagli altri: per scongiurare la frammentazione l’oggetto è investito soltanto in funzione del sostegno narcisistico del Sé. (Novelletto 2001). Le ricadute psicopatologiche possono essere anche molto gravi. Kernberg (1987) descrive l’elevato potenziale di violenza che si instaura nelle personalità caratterizzate dal terrore di sentire il bisogno dell’oggetto e di esserne dipendenti, terrore che scatena il tentativo di attaccare l’oggetto stesso e che si esprime nell’atteggiamento di indifferenza nei confronti della vita e nell’assenza di legami. 15 Molte espressioni di violenza dell’adolescente con un disturbo di personalità possono essere considerate come le prime tracce di una condizione interna a rischio di frammentazione, dalla quale il ragazzo si difende tentando violentemente di riacquisire una certa coesione del Sé (Monniello 2004). In adolescenza, all’identità soggettiva ancora fragile si associa un progressivo venir meno del senso di appartenenza familiare, non ancora sufficientemente sostituita dall’identità sociale nascente, troppo incerta per poter costituire una base sicura dalla quale entrare in relazione con il mondo; quando l’identità familiare e sociale sono contemporaneamente troppo fragili ed incerte, l’atto aggressivo può essere utilizzato dall’adolescente come una sorta di surrogato del processo di acquisizione di un’identità adulta. Sono state indagate anche diverse caratteristiche della famiglia, per verificare quali variabili risultino più strettamente associate ai comportamenti aggressivi nei figli. Gli studi indicano come elemento dirimente nella genesi di comportamenti aggressivi e distruttivi, la capacità o meno genitoriale di gestire le funzioni parentali; la struttura relazionale della “famiglia a rischio” è caratterizzata da un basso grado di coinvolgimento genitoriale, spesso associato a scarse capacità di controllo e assenza di regole familiari chiare e coerenti con conseguente incapacità di gestire il conflitto generazionale: l’atteggiamento rigido ed estremamente punitivo da parte dei genitori può facilitare l’atteggiamento esternalizzante su base aggressiva del figlio (Wasserman et al. 1996, Stormshak et al. 2000). Il basso grado di coinvolgimento parentale è il substrato per lo sviluppo di un attaccamento insicuro nel figlio e di atteggiamenti di abbandono e di rifiuto da parte dei genitori: lo “stile relazionale abbandonico” (neglecting) implica anche una scarsa sorveglianza, derivante da un’assenza di preoccupazione nei confronti dei figli, che determina in loro la percezione della deresposabilizzazione dei genitori (Maggiolini e Riva 1999, Vismara e Ammaniti 2005). È stato anche molto approfondito il legame esistente tra gli adolescenti maschi e il padre (Pietropolli Charmet 1990, Pietropolli Charmet 1995, Pietropolli Charmet e Riva 1994): in queste famiglie il padre è spesso assente (per mancato riconoscimento del figlio, per separazioni e divorzi, per malattie o morte) o estremamente ambivalente (figura debole, psicologicamente depressa o malata, anche se spesso caricaturalmente autoritaria, il cui ruolo non viene riconosciuto in famiglia, anche se detiene magari un potere formale). Proprio nella fase in cui il ragazzo ha più bisogno del genitore dello stesso sesso per consolidare le proprie acquisizioni, si scontra con l’allontanamento del padre e reagisce cercando di assumere su di sé una pseudo-virilità maschile dai tratti stereotipati e caricaturali, estremo tentativo di ricerca di un modello identificatorio. 16 Per quanto riguarda lo stato socio-economico della famiglia, i dati forniti dalle statistiche ufficiali mostrano complessivamente un attenuarsi della correlazione tra condizioni socioculturali disagiate e devianza: nel contesto sociale urbano italiano la relazione tra devianza minorile e marginalità socio-economica si è fatta, nell’ultimo decennio, più labile. Un dato importante sembra risultare la numerosità della famiglia. La nascita di un fratello determina una riorganizzazione psichica inconscia che si esprime in una complessità di fantasie, rappresentazioni ed affetti, associata a una rinegoziazione delle precedenti relazioni intrafamiliari (Algini 2003). I figli nati nella stessa famiglia sono posti di fronte a una doppia situazione: da una parte il condividere “lo stesso nido” e quindi un’intimità evolutiva e una sincronizzazione dei bisogni, che esige la stessa parte della stessa cosa nello stesso momento (che viene chiamata positivamente sentimento innato di giustizia e negativamente gelosia); dall’altra il sopportare una gerarchizzazione dei rapporti, legata all’età, allo statuto, al potere, ai privilegi. L’elaborazione di questa doppia situazione consiste in una progressiva dissociazione, dal fratello come simile a sé al fratello come differente da sé (Bourguignon 2003). EPIDEMIOLOGIA Non esistono dati incontrovertibili per quantificare la prevalenza dei disturbi della condotta. La maggior parte degli studi epidemiologici riportano una prevalenza tra i 4 ed i 18 anni del 5-7% con un aumento in adolescenza al 7-10%. Molti ricercatori in Italia reputano ragionevole stimare un dato al 5% e senza differenze significative tra i due sessi. Qualunque sia il quadro clinico preso in considerazione i dati di prevalenza oggi disponibili in Italia sono molto pochi, basati su popolazioni esigue o per lo più tratti da casistiche cliniche quindi affatto affidabili per poter ragionevolmente inferire sull’intera popolazione di minori. Fa eccezione la prima ricerca epidemiologica multicentrica italiana dei disturbi psichici tra preadolescenti in età compresa tra i 10 ed i 14 anni, residenti in zone urbane. Si tratta del progetto PriSMA (Progetto Italiano Salute Mentale Adolescenti). Del campione considerato è risultato che il 9.1% ha soddisfatto i criteri per un disturbo psichico secondo la classificazione DSM-IV. Nello specifico dei disturbi della condotta ne è risultato colpito l’1% della popolazione considerata, senza differenze di rilievo tra i sessi. LA PRESA IN CARICO TERAPEUTICA DELL’ADOLESCENTE CON DISTURBO DELLA CONDOTTA Gli approcci alla sofferenza agita adolescenziale possono essere molteplici: psichiatrici, psicologici, psicoeducativi, socio-assistenziali, penali. In ogni caso è importante che chi ha a che fare con questi ragazzi condivida l’opinione che la condotta esternalizzata rappresenta una 17 forma di comunicazione ed una manifestazione evidente, talora paradossale, di una sofferenza interna per lo più non consapevole. Prioritario quindi è, ancor prima di pensare al “cosa fare” per loro, il dare significato ed intelligibilità a questa modalità di espressione. Non a caso il significato più profondo del termine “trattamento” rimanda proprio a una “modalità di accogliere” e, indirettamente, anche all’idea di “elaborare”, due significati che rappresentano in sé il filo conduttore di ogni intervento che venga pensato per questi adolescenti. La complessità dei fattori eziopatogenetici, la frequente compresenza di quadri clinici, l’associazione di situazioni sociali e familiari compromesse, la pervasività del disturbo rispetto ai vari ambienti di vita sono elementi che insieme determinano la difficoltà e spesso l’inefficacia dei trattamenti. La letteratura mostra la severità della prognosi di questi tipi di disturbi, con recidive frequenti e tendenza alla sovrapposizione nel tempo di numerose problematiche quali abuso di sostanze, delinquenza, antisocialità (Storm-Mathisen e Vaglum 1994, Offord e Bennett 1994, Vermeiren et al. 2000). I parametri attualmente condivisi per il trattamento dei bambini e degli adolescenti con disturbo della condotta, prevedono che la presa in carico debba avvenire necessariamente per tempi lunghi e che debba coinvolgere sempre, oltre che il ragazzo, tutti gli ambiti in cui lo stesso si trova a vivere. È il modello di approccio multimodale, o in rete, che si concretizza nel confrontare proficuamente i vari contesti in cui il ragazzo vive (servizi neuropsichiatrici, la scuola, i servizi sociali, i servizi educativi, le associazioni sportive, i gruppi parrocchiali…) concertando progetti condivisi per lavorare in rete ognuno con le proprie specificità (Muratori 2004). L’approccio multimodale è sostenuto anche nei Paesi Anglosassoni (Henggeler 1999), nell’ambito di terapie definite multisistemiche che cercano di agire sui differenti fattori che contribuiscono all’emergere del comportamento deviante, prevedendo un livello di intervento individuale, familiare, extrafamiliare, psicofarmacologico, condotti all’interno di una medesima équipe. Strutturare una modalità di “lavoro in rete” significa mettere in contatto figure professionali distinte che, con il loro operare, realizzano un risultato integrato che è qualcosa di più della semplice sommatoria dei singoli interventi separati. È importante sottolineare che i vari soggetti dell’intervento non devono perdere la loro specificità (diverso ruolo istituzionale, diversa formazione ecc…) confondendosi. Non è raro infatti sentire parlare di psicologi che fanno gli educatori o di educatori che fanno gli psicoterapeuti. Interagire mantenendo la propria identità è ciò che conferisce alla modalità di lavoro in rete la sua difficoltà ma anche, e soprattutto, il suo valore. In questi termini forse, la definizione di “équipe multiprofessionale” pare più adatta ed esplicita anche se perde il fascino della metafora che la “rete” porta con sé. Quest’ultima richiama infatti l’immagine dei nodi, i soggetti coinvolti 18 nell’intervento, distinti tra loro (separatezza/identità dei protagonisti) ma collegati da dei fili, la comunicazione e lo scambio, in grado assieme di coprire una superficie molto vasta, le diverse dimensioni che compongono una persona, lasciando però dei buchi, regolari e prevedibili, lo spazio fisico e mentale entro cui ogni adolescente può sperimentarsi e crescere (Bertossi 2004). Condiviso il modello d’approccio multimodale consideriamo ora separatamente i principali tipi di intervento. LA PSICOTERAPIA La possibilità di basare la presa in carico terapeutica per adolescenti violenti esclusivamente su un percorso psicoterapeutico individuale rimanda all’interrogativo realistico sulla trattabilità di queste difficoltà nell’ambito di un setting analitico classico. Già Winnicott nel 1957, partendo dalle proprie riflessioni sul significato e sulle cause della delinquenza e della tendenza antisociale, concludeva che “il trattamento analitico non è elettivo per questi tipi di pazienti” e ciò ancor più nell’età adolescenziale. Le evidenze più recenti tendono a confermare questa considerazione. La scarsa motivazione personale ed il basso insight rendono critico il lavoro clinico con questi ragazzi; essi presentano una scarsa attitudine alla mentalizzazione e alla simbolizzazione e non sono in grado da soli di attribuire significato agli agiti; per questo motivo il tentativo di interpretazione del significato affettivo del gesto richiede una specifica elaborazione psicologica. La sospensione dell’azione a favore della mentalizzazione diventa obiettivo fondante dell’intervento psicoterapico, finalizzato all’individuazione del significato simbolico sotteso al comportamento (Maggiolini e Riva 1996). Comprendere e tollerare la rabbia che pervade anche il terapeuta è un momento importante e delicato, direttamente collegato all’emergere transferale nella relazione della rabbia narcisistica; la risposta terapeutica diventa quindi fondamentale ma deve avvenire all’interno di una consolidata protezione narcisistica, comunque sufficientemente aperta da tollerare piccole dosi progressive di frustrazione. Proprio perché la dinamica transferale possa mantenersi nei margini di tollerabilità, è utile poter pensare di “aprire” lo spazio terapeutico, confrontandosi con modelli di intervento articolati e quindi con la creazione di uno “spazio terzo”, esterno al setting individuale, che assuma la funzione di mediatore e permetta un accesso alla simbolizzazione mediante modalità vicarianti: da questo punto di vista il percorso psicoterapeutico può essere efficacemente affiancato, da interventi di tipo educativo residenziali o semiresidenziali, 19 oppure trattamenti in ospedale, sia in regime di ricovero sia in regime di DH (Monniello 2004). Alcune possibilità d’intervento sono state documentate per quanto riguarda le terapie cognitivo-comportamentali e le terapie familiari ad orientamento sistemico determinando miglioramenti sintomatologici sufficientemente duraturi nel tempo (Brestan e Eyberg 1998, Farmer et al 2002, Van de Wiel et al. 2002). Anche la terapia di gruppo è stata indagata e uno studio recente (Mager et al. 2005) ha evidenziato che gli adolescenti in trattamento all’interno di un gruppo “omogeneo” mostrano, durante la terapia e nel follow-up, comportamenti più adattati e meno disturbanti rispetto a quelli in trattamento in un gruppo “non omogeneo”. IL TRATTAMENTO FARMACOLOGICO Non esiste ad oggi un farmaco specifico contro i comportamenti aggressivi, proprio perché le condotte aggressive possono rientrare in un vasto quadro di disturbi con diversa patogenesi. In questo contesto la valutazione diagnostica assume una valenza fondamentale, in quanto determina la scelta a livello psicofarmacologico. Tale approccio deve essere intrapreso nei casi in cui il disturbo determini una compromissione significativa del funzionamento del paziente e/o del suo ambiente. Non dovrebbe mai essere utilizzato come unico presidio terapeutico. Esistono in letteratura molti studi, in aperto o in doppio cieco verso placebo, che hanno approfondito il trattamento farmacologico dell’aggressività inquadrabile all’interno di un disturbo della condotta in età evolutiva (Burke 2002, Frazier 2003). Molti sono i dati a favore dell’utilizzo in questi disturbi degli stabilizzanti dell’umore come il Litio, l’Acido Valproico, la Carbamazepina, dei neurolettici tipici (Aloperidolo) e atipici (Risperidone, Clozapina, Olanzapina), degli stimolanti (Metilifenidato), degli SSRI (Citalopram, Elopram, Fluoxetina…) e di altre molecole. È sufficientemente condiviso che il Risperidone appare utile nel trattamento dell’aggressività impulsivo-reattiva, soprattutto se il soggetto presenta una parziale ma significativa alterazione dell’esame di realtà, distorsioni percettive o del pensiero, se gli episodi di aggressività appaiono circoscritti ed esplosivi, associati a fattori di stress e di sovraccarico, oppure se è richiesto un rapido inizio dell’azione terapeutica. In presenza invece di un comportamento aggressivo che presenta importanti caratteristiche affettive quali sbalzi d’umore frequenti, irritabilità elevata, risposte eccessive alle normali stimolazioni ambientali o un pattern bipolare è più indicato uno stabilizzante dell’umore quale il valproato. 20 L’utilizzo di un SSRI va considerato quando sono evidenti sintomi di tipo depressivo-disforici e/ ansiosi ed una volta escluse altre possibili diagnosi. Va sempre considerata la possibilità di induzione di un’attivazione comportamentale o di uno stato maniacale (de Rènoche 2005). Come nelle altre patologie di pertinenza neuropsichiatrica infantile la monoterapia alla dose minima efficace è sempre preferibile. In selezionati casi è possibile ricorrere a delle associazioni in articolare quando l’uso di uno stabilizzante, assieme ad un neurolettico già ad alto dosaggio, può consentire la riduzione posologica di quest’ultimo. Ad ogni modo l’uso dei farmaci va sempre considerato ed attuato con le cautele che deve sempre avere un intervento di questo tipo. Mi riferisco in particolare alla necessaria ma spesso troppo labile compliance che genitori ed adolescenti offrono e quindi ai rischi che un uso incongruo dei farmaci può generare. Il significato del farmaco può inoltre essere vissuto, dal ragazzo ma spesso dalla famiglia, come un’intrusione, un agito del clinico nei loro confronti. Ciò genera un rapporto ambivalente, fatto di speranze, rabbia, richiesta, rifiuto verso la molecola e chi la prescrive. L’INTERVENTO PSICOEDUCATIVO In adolescenza la revisione del rapporto con le norme di comportamento e con i sistemi di valori appresi durante l’infanzia è parte costitutiva del processo di crescita: l’adolescente mette in discussione le regole che gli sono state insegnate, per poterle fare proprie, per modificarle, per accettarle o per rifiutarle. L’intervento educativo domiciliare e le strutture educative di stampo residenziale o semiresidenziale sono diventate negli ultimi anni una fondamentale risorsa pedagogica e sociale nella gestione degli adolescenti violenti o trasgressivi, a cui è spesso necessario ricorrere per affrontare il disagio che si manifesta nelle sue forme più allarmanti. La comunità può essere vista come un’organizzazione all’interno della quale si costruiscono relazioni rivolte alla promozione e allo sviluppo dell’identità personale e dei processi di socializzazione del ragazzo; da questo punto di vista la comunità può assolvere a un ruolo di supporto e di contenimento sul quale si basa lo sviluppo e la costruzione della personalità. Le strutture semiresidenziali ricoprono fondamentalmente un ruolo di supporto nella gestione di alcuni aspetti della vita quotidiana, È fondamentale che ci sia un’ampia partecipazione genitoriale, disponibile al confronto ed alla messa in discussione. Le strutture residenziali invece si presentano come un sistema relazionale alternativo alla famiglia, all’interno del quale le relazioni primarie vengono sostituite dal rapporto con più figure di riferimento e dove il confronto con i coetanei risulta prioritario rispetto a quanto può 21 verificarsi all’interno della famiglia, quando il gruppo di coetanei può entrare in conflitto con il ruolo educativo che la famiglia pretende debba essere esclusivo (Scardaccione 2003). L’attività operativa che le strutture educative possono attivare nei confronti dei minori trasgressivi, deve prevedere una progettualità chiara su cui fondare gli interventi e valutare gli obiettivi. In particolare gli interventi debbono articolarsi all’interno di determinate aree, quali il confronto con le regole, lo sviluppo della sfera motivazionale, il rapporto con eventuali sanzioni, la dimensione affettivo-relazionale. La comunità “…è uno spazio di cure fatto di elementi empirici, di circostanze, di interrelazioni complesse che si intrecciano a partire da un’infinità di compiti, di azioni, di parole, di emozioni e di vissuti…; in essa, contrariamente al modello di cura fondato sulle rappresentazioni o sul processo associativo…, il cambiamento passa attraverso l’oggetto esterno considerato non solo nelle sue funzioni classiche (identificazioni) ma nelle funzioni di oggetto trasformativo…”. (Cahn 1987). Nello specifico, coerentemente al concetto delineato da Winnicott di spazio transizionale, metafora dello spazio terapeutico istituzionale ed alle successive applicazioni e sviluppi, è d’uopo che un’istituzione per la presa in carico di adolescenti debba essere polivalente configurandosi come un’area intermedia e terza che consenta all’adolescente di sentirsi protagonista di una ricerca e fornisca occasioni per utilizzare il Servizio nel modo più consono al suo attuale funzionamento psichico (teoria dell’“istituzione transizionale”). Questo continuo lavoro autoanalitico rende possibile il configurarsi dell’Ospedale Diurno come “sito analitico allargato”. (Monniello, Spano 2003). L’OSPEDALIZZAZIONE In presenza di comportamenti violenti in cui il ricorso alla forza fisica impedisce di fatto una gestione ambulatoriale, l’ospedale diventa il luogo privilegiato dove contenere la crisi e contemporaneamente programmare un percorso di approfondimento psicopatologico e terapeutico. L’ospedale si configura come un contenitore e come uno spazio all’interno del quale sia possibile dare figurazione ai contenuti intrapsichici. La presenza di regolari spazi di psicoterapia per il ragazzo e di sostegno psicologico per i genitori, favorisce la possibilità di poter pensare ed esprimere con le parole le emozioni e gli affetti. Gli aspetti di cura e protezione insiti nella strutturazione di un ambiente medico favoriscono il processo di accettazione di un eventuale trattamento farmacologico. La scelta del regime di ricovero oppure del day-hospital deve tenere conto di molteplici fattori tra i quali, ad esempio, l’opportunità o meno di mantenere legami sociali e familiari; gli studi 22 di efficacia non hanno mostrato la superiorità di un intervento sull’altro (Erker et al.1993, Leone et al. 1986). LA FUNZIONE “TERAPEUTICA” PARENTALE Numerosi studi sottolineano come il grado di attenzione e monitoraggio dei comportamenti aggressivi da parte dei genitori, le modalità di interazione che rinforzano i comportamenti aggressivi nei figli, la scarsa motivazione negli atteggiamenti prosociali, gli stili educativi rigidi e coercitivi o al contrario l’assenza di contenimento e di limiti possono sviluppare o esacerbare atteggiamenti aggressivi in famiglia (Wasserman et al. 1996, Snyder et al. 2005). È dimostrato che le pratiche genitoriali possono essere predittive di comportamenti devianti e che modificazioni di tali pratiche possono avere un impatto significativo sulla funzionalità dei figli (Stormshak et al. 2000, Dishion and Andrews 1995). Fattori di stress genitoriale come la conflittualità, le separazioni, i lutti modificano le modalità interattive familiari, risultando determinanti nella strutturazione di comportamenti aggressivi in problematiche socio-relazionali, insuccesso scolastico, abuso di sostanze. È tuttavia fondamentale sottolineare come il successo di interventi su adolescenti con disturbo della condotta è fortemente legato al lavoro che è possibile fare con i genitori. Anche nelle situazioni più compromesse dal punto di vista sociale e che richiedono la messa in atto di interventi più contenitivi (quelli residenziali e semiresidenziali) è prassi condivisa quella di poter comunque lavorare, ove possibile, anche nella dimensione della genitorialità e non solo come intervento di sostegno e monitoraggio. In tutti i casi il coinvolgimento parentale deve essere sollecito e strutturato in modo preciso ma allo stesso tempo flessibile in modo da poter tollerare le continue messe alla prova che i genitori, nel perpetuarsi di uno stile relazionale transgenerazionale condiviso dai loro stessi figli, mettono in atto verso di noi. Il tollerare accogliendo, significando non giudicando, tantomeno espellendo, può consentire alla coppia genitoriale una risignificazione interna che può generare cambiamento nella dinamica affettivo-relazionale del nucleo famigliare, adolescente agitato compreso. L’opportunità di intraprendere un percorso così spesso difficile nasce anche dalla consapevolezza che, per dirlo con, le parole di Braconnier: ”una legge che non conosce eccezioni vuole che ad ogni colpa o pena della psiche corrisponda un lavoro che spetta all’Io. Questa legge si applica evidentemente al lavoro del lutto. Ne risulta come corollario che ogni lavoro rifiutato dall’Io peserà su altre spalle e altre persone. Nel frattempo il peso si moltiplicherà”. Meritano menzione, per i buoni risultati spesso riportati in letteratura, i programmi di Parent (Management) Training. Essi sono nati proprio nel tentativo di dare una risposta concreta alle 23 disfunzionalità delle famiglie. Si tratta di un insieme di procedure con le quali i genitori vengono aiutati a modificare i comportamenti propri e del loro figlio, grazie alla conoscenza dei processi di interazione sociale e all’apprendimento di tecniche di correzione degli atteggiamenti; i genitori vengono allenati a promuovere i comportamenti desiderabili nei figli e allo stesso tempo minimizzarne i comportamenti maladattativi; inoltre vengono loro suggerite strategie di disciplina più efficaci, compresi i rinforzi positivi e le punizioni prevedibili e chiare (Van de Wiel et al. 2002). I trattamenti basati sul Parent Training sono ad oggi considerati, nella pratica clinica, tra i più efficienti nell’approccio ai disordini comportamentali, soprattutto se vengono seguiti da entrambi i genitori ed iniziano precocemente (Kazdin et al. 1997, Brestan e Eyberg 1998, Farmer et al. 2002). STUDIO CLINICO Un ulteriore approfondimento alla trattazione circa l’agire adolescente, può venire dal considerare la casistica ambulatoriale afferente presso l’UOA di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ULSS 16 della regione Veneto, presso cui lavoro. Tale studio è stato condotto con la gentile collaborazione della neuropsichiatra infantile dott.ssa E. Ramaglioni. Sono stati analizzate le caratteristiche dei casi di adolescenti pervenuti al nostro Servizio per problematiche comportamentali (aggressività, impulsività e comportamento antisociale) da gennaio 2001 a dicembre 2004, dal momento diagnostico alla presa in carico terapeutica, allo scopo di studiare: • Il processo d’inquadramento diagnostico (diagnosi psichiatrica vs valutazione psicodinamica); • Il processo di formulazione del progetto terapeutico (intervento psicologico, intervento educativo, intervento farmacologico, ricovero, trattamenti multidisciplinari); • La compliance terapeutica ed i fattori che la influenzano; • L’evoluzione clinica (ovvero l’efficacia degli interventi attuati) RISULTATI E DISCUSSIONE Il campione, che raggruppa tutte le situazioni con richiesta di consultazione per problematiche comportamentali (aggressività, impulsività, condotte antisociali), conta 123 adolescenti tra gli 11 e i 19 anni con una maggioranza di maschi (69%). Questo rilievo è concorde ai risultati di altri lavori nell’evidenziare come l’agito eterodiretto, specie quello aggressivo, sia una modalità di espressione del disagio più frequente nei soggetti maschi rispetto alle femmine 24 che presentano più spesso problematiche di tipo somatico o affettivo (Ammaniti, 2002; Loeber et al, 2000; Cohen et al, 1993; DSM-IV; Maughan et al, 2004). Relativamente all’età del campione emerge una sostanziale omogeneità nelle varie fasce, con un lieve decremento di numerosità nella fascia 17-19 anni; questo dato suggerisce una diversità di espressione del disagio nei tardo adolescenti, forse per l’acquisizione di migliori capacità di mentalizzazione dei conflitti con minore ricorso al sintomo comportamentale. Tale dato, che conferma quelli derivati dagli studi casistici di adolescenti pervenuti ai nostri ambulatori per varie problematiche (Gatta, Giovanatto, Condini, 2003; Gatta, Salviato, Talamini, et al, 2004), è inoltre spiegabile alla luce di come è strutturata la Neuropsichiatria territoriale e della collaborazione con la psichiatria dell’adulto dove viene portato avanti il percorso di presa in carico dopo la maggiore età. La correlazione sesso-età ha evidenziato come i maschi si distribuiscano prevalentemente nelle fasce d’età relative alla prima-media adolescenza e le femmine alle fasce d’età relative alla media-tarda adolescenza. Tra i dati relativi alla scolarizzazione va evidenziato il 5% di sospensione della frequenza scolastica nonostante l’età di obbligo formativo; tale risultato conferma quanto riportato in letteratura circa l’associazione tra insuccesso scolastico e disturbi comportamentali. (Gardner, 1971; Power et al, 1972; Bennet et al, 2003; Burke et al, 2002; Carroll et al, 2005). I dati relativi all’accesso indicano che nel 26% dei casi la consultazione è stata richiesta spontaneamente dalla famiglia (in un solo caso dall’adolescente), mentre è avvenuta su invio nel 74% dei casi. Considerando anche che nel 95% dei casi la problematica comportamentale era evidente da più di sei mesi, tali dati suggeriscono come ci sia, soprattutto da parte della famiglia, ma anche dell’adolescente stesso, una difficoltà a considerare il sintomo comportamentale come indicatore di disagio. Questi adolescenti vengono piuttosto considerati “cattivi” anziché sofferenti e bisognosi di aiuto (Snyder et al, 2005). Il livello culturale delle famiglie di provenienza è risultato basso nel 25% dei casi, medio nel 55% ed alto nel 20% confermando i dati della letteratura relativi all’Italia che mostra complessivamente un attenuarsi della correlazione tra condizioni socioculturali disagiate e devianza. Come anticipato in Italia, nel contesto socioculturale urbano, la relazione fra trasgressività minorile e marginalità socioeconomica tende a farsi sempre più labile tra i minori (Maggiolini e Riva, 2003). L’urgenza della consultazione è stata suddivisa in oggettiva e soggettiva. Le richieste di consultazione sono risultate urgenti nel 38% dei casi (di cui il 9% urgenza soggettiva e il 29% urgenza oggettiva), mentre nel 62% era assente il carattere d’urgenza. Nelle fasce minori d’età l’urgenza è di tipo soggettivo e quindi per lo più percepita come tale dai genitori piuttosto che come condizione oggettiva valutata dagli operatori; mentre nelle fasce d’età 25 maggiori l’urgenza è stata rilevata principalmente come condizione oggettiva. Tale dato può essere interpretato alla luce delle modalità con cui si manifesta il disordine comportamentale che nella prima adolescenza tende ad esprimersi sotto forma per lo più di aggressività (agiti aggressivi fisici e verbali) rispetto alla tarda adolescenza dove i comportamenti divengono più strutturati in senso antisociale (uso di sostanze, vandalismo) (Maggiolini Riva, 2003). Nel 72% dei casi è stata riportata una storia precedente d’eventi stressanti. Questi si riferiscono a lutto familiare (10%), malattia fisica o mentale in famiglia (10%), conflittualità e/o separazione della coppia genitoriale (17%), maltrattamento o abuso (5%), adozione (5%), malattia fisica dell’adolescente (4%), stress scolastico (6%), associazione di due o più degli eventi stressanti menzionati (15%). (20) Essi risultano collocarsi durante la prima infanzia (05 anni) nel 14% dei casi, durante la fase di latenza (6-10 anni) nel 14%, in preadolescenza e adolescenza (dagli 11 anni) nel 16% dei casi. Nel 28% dei casi uno o più eventi stressanti segnano la storia del paziente durante tutto il suo corso (deprivazione, malattia fisica/mentale cronica di un familiare, malattia fisica del paziente stesso, conflittualità genitoriale) costituendosi come condizione traumatica ripetuta. Si tratta quindi di fattori di rischio per lo più attinenti all’ambito familiare e che si verificano nella maggioranza dei casi nel periodo della prima-seconda infanzia. I sintomi rilevati durante la consultazione sono stati solo in una piccola parte del campione (3%) esclusivamente comportamentali. Nel 42% dei casi sono in associazione a sintomi psicologici, nel 40% a sintomi psicologici e fisici e nel 4% a sintomi fisici (la restante percentuale è relativa al rilievo di sintomi psicologici da soli o in associazione a sintomi fisici). Tali dati, assieme a quelli relativi alla diagnosi formulata secondo la classificazione ICD-10, confermano la dimensione transnosografica del sintomo comportamentale. Infatti si rilevano disturbi della condotta (29%) e di personalità (22%), disturbi d’ansia (14%) e affettivi (12%), disturbi psicotici (7%), disturbi alimentari (1%), ritardo mentale (7%) 2 diagnosi in comorbilità (2%). I disturbi di personalità sono risultati 17 di tipo borderline - di cui uno in associazione con disturbo depressivo – 5 antisociale, 2 schizoide e 1 schizotipico; il secondo caso di diagnosi in comorbilità corrisponde ad un disturbo ossessivo-compulsivo in associazione a disturbo da uso di sostanze. (Romani, Di Scipio, Levi, 2003). Dall’incrocio della variabile diagnosi con genere ed età emerge una prevalenza di disturbi della condotta, disturbi psicotici, ritardo mentale e disturbi affettivi nei maschi rispetto alle femmine. Nel sesso femminile prevalgono le diagnosi relative a disturbo di personalità in particolare di tipo borderline. A tal proposito uno studio di Lester (2005) su adolescenti violenti americani ipotizza che le condotte aggressive sarebbero più probabilmente un segno di sofferenza nelle ragazze e pertanto correlate ad altri segni di disagio, compreso il 26 comportamento autolesivo (tipico del disturbo borderline di personalità). Circa l’età è evidente una maggiore percentuale di disturbi della condotta nella fascia d’età 11-13 anni, diagnosi che tende a diminuire con l’aumentare dell’età lasciando maggior spazio in tarda adolescenza alla diagnosi di disturbo di personalità. Questo dato trova conferma in letteratura, rafforzando il dato relativo all’evoluzione del disturbo di personalità in soggetti con pregressa diagnosi di disturbo della condotta. L’iter diagnostico, concordato con la famiglia e quindi secondo la sua disponibilità, non si è concluso con la restituzione nel 16% dei casi. Nei restanti casi il progetto terapeutico formulato ha previsto una psicoterapia strutturata individuale o di gruppo nel 18%, un sostegno psicologico nel 20%, integrati a un intervento educativo semiresidenziale nell’11% dei casi; quest’ultimo è stato proposto come intervento esclusivo nel 3% dei casi, nel 2% dei casi è stato necessario un ricovero ospedaliero e/o un trattamento farmacologico, nel 12 % dei casi l’iter diagnostico si è concluso con la proposta di un monitoraggio periodico della situazione clinica del paziente. Conseguenza della variabilità del quadro clinico in cui la condotta agita può rientrare è che l’approccio deve essere sempre multifocale e mirato alla specifica organizzazione psicopatologica del paziente. Nel 34% dei casi viene avviato un intervento di sostegno psicologico ai genitori. CONCLUSIONI In conclusione il nostro studio consente di affermare che le condotte agite in adolescenza, motivo così frequente di richiesta di consultazione psicologico-psichiatrica in adolescenza, si situano trasversalmente in ambito nosografico. Le diagnosi psichiatriche formulate con maggior frequenza sono i disturbi della condotta e misti delle emozioni e della condotta, i disturbi di personalità (soprattutto del cluster B). Per una migliore comprensione e contestualizzazione di tali problematiche vanno considerati altri fattori legati alla vita personale e familiare del paziente. La storia di questi adolescenti, infatti, risulta ricca di eventi stressanti di varia gravità (dalla presenza anche numerosa di fratelli alla storia di maltrattamento e abuso infantili) soprattutto appartenenti all’ambito familiare. Tali stress possono presumibilmente essere collegati alle espressioni aggressive agite dell’adolescente come aspetto strutturante la personalità - soprattutto laddove il trauma si situi precocemente e come situazione ripetuta nella vita del soggetto - piuttosto che come modalità reattiva di fronteggiare uno stimolo doloroso contingente alla fase evolutiva in atto e difficilmente elaborabile mentalmente. 27 Da ciò deriva l’appropriatezza di un approccio terapeutico multiprofessionale integrato che abbia caratteristiche di stabilità e contenimento di cui spesso la famiglia di questi ragazzi manca. In conclusione mi sembra importante sottolineare che il problema dell’agire in adolescenza, connotato spesso con il termine di “bullismo”, meriterebbe, per una migliore comprensione, ulteriori studi ed approfondimenti che consentano di valicare il limite dell’interpretazione prettamente fenomenologia e socio-culturale del fenomeno. In quest’ottica solo una prospettiva psicodinamica del sintomo può dare una dimensione finalmente “nuova” di vera comprensione ed autentico cambiamento avvicinando, anche nel quotidiano dell’ambulatorio del neuropsichiatra infantile, il concreto delle persone reali con la ricca tradizione teorica. 28 BIBLIOGRAFIA Algini M.L. (2003). “Il riso di Hans”. In AA.VV. Fratelli. Borla, Roma, 2003. American Psychiatric Association (1994). “Diagnostic and statistical manual of mental disordersfourth edition”. (DSM-IV). Washington D.C., 1994. Ammaniti M (2001). “Manuale di psicopatologia dell’infanzia”. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002. Bennet K.J., Brown K.S., Boyle M. et al (2003) “Does low reading achievement at school entry cause conduct problems?”. Soc Sci Med, 56(12): 2443-8 Bertossi E: “Approccio multidisciplinare al disagio psichico presso un servizio semiresidenziale per adolescenti: studio clinico di una casistica e valutazione metodologica”. tesi di laurea 16 dicembre 2004. 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Bertossi La complessità dell’approccio alle manifestazioni aggressive risiede nel discriminare “normalità” da “patologia” e nel contesto di questa, riconoscere gli eventuali quadri psicopatologici implicati. 31 Quadri psicopatologici in cui tra i criteri diagnostici è esplicitamente annoverata la presenza di episodi di incapacità incapacità di resistere agli impulsi aggressivi, comportamenti ostili e provocatori, gravi atti aggressivi o distruzione della proprietà proprietà o violenza su animali o persone: z z z Disturbi del controllo degli impulsi (disturbo esplosivo intermittente), Disturbi da comportamento dirompente (disturbo oppositivooppositivo-provocatorio, disturbo della condotta e misto emozioni/condotta, Disturbi dell’ dell’adattamento con alterazione della condotta o mista emozioni/condotta. Quadri clinici in cui l’l’aggressività aggressività è segnalata come caratteristica associata e non prettamente come criterio diagnostico: la schizofrenia e gli altri disturbi psicotici; z i disturbi bipolari; z il disturbo da deficit di attenzione/iperattività; z i disturbi correlati a sostanze; z il ritardo mentale. z 32 Disturbi in cui l’l’aggressività aggressività può essere sottesa ad altre manifestazioni sintomatiche. Ad esempio: le valenze suicidarie nei disturbi depressivi, l’irritabilità e l’eteroaggressività manifestate dal bambino piccolo contro sentimenti depressivi, gli episodi di intolleranza nel disturbo ossessivocompulsivo, le crisi di angoscia nei disturbi generalizzati dello sviluppo… classificazione secondo Mahron (1980) delle diverse tipologie di adolescenti devianti, considerando le dimensioni psicopatologiche psicopatologiche alla base del conflitto espresso in maniera agita (1): impulsivi, impulsivi, caratterizzati dalla imprevedibilità imprevedibilità nel ricorso all’ all’azione, tipica dei ragazzi che manifestano un comportamento antisociale marcato, anche violento; l’l’atto delinquenziale esprime una scarica violenta ed improvvisa di tensione intrapsichica, per cui di fatto fatto il pensiero non interviene a mediare tra impulso e comportamento motorio; l’l’esperienza soggettiva di questi stati interni è quella di un’ un’unica entità entità, senza soluzioni di continuità continuità. narcisistici, narcisistici, caratterizzati da una immagine negativa di sé sé; questi adolescenti appaiono ben adattati, ma solo superficialmente, spesso come effetto di un atteggiamento compiacente. In realtà realtà mascherano una scarsa autostima e negli atti trasgressivi usano e sottomettono gli altri per i propri fini, soprattutto per la regolazione regolazione interna dell’ dell’immagine di sé sé. L’ L’atto delinquenziale rappresenta il tentativo di raggiungere o mantenere un’ un’immagine di sé sé adeguata. 33 classificazione secondo Mahron (1980) delle diverse tipologie di adolescenti devianti, considerando le dimensioni psicopatologiche psicopatologiche alla base del conflitto espresso in maniera agita (2): depressi, depressi, caratterizzati dal bisogno e dalla richiesta di aiuto e sollecitudine di tipo parentale; parentale; in questa categoria rientrano gli adolescenti “delinquenti per senso di colpa” colpa” descritti da Freud, Freud, il cui comportamento deviante è finalizzato a sollecitare una punizione inconsciamente desiderata e nelle cui modalità modalità relazionale è evidente il bisogno analitico di oggetti a cui attaccarsi ed appoggiarsi. passivi, passivi, caratterizzati da una emotività emotività scarica, privi di alcun desiderio e speranza per il futuro, autoesclusi dalle relazioni sociali; l’l’atto delinquenziale è finalizzato ad evitare la disintegrazione psicotica, attivando emozioni forti nel tentativo tentativo di attenuare il grave stato di desolazione interiore. AGITO meccanismo di difesa sintomatico nuove capacità mentali: intelligenza operativa formale crisi puberale COMPITI EVOLUTIVI ADOLESCENZIALI il gruppo dei pari nuovo ruolo sociale: ingresso nel mondo degli adulti superamento della seconda fase di separazione-individuazione 34 prevalenza dei disturbi della condotta: in letteratura z Pochi studi sull’ sull’evoluzione nel tempo z Pochi studi sugli adolescenti Æ specifici per categorie diagnostiche (CD) o per casistiche molto selezionate (adolescenti “delinquenti” delinquenti” riformati) Æ followfollow-up a brevebreve-medio termine (6(6-8 mesi) 5-7% con un aumento in adolescenza al 77-10%. Molti ricercatori reputano ragionevole stimare in Italia un dato al 5% e senza differenze significative tra i due sessi. progetto PriSMA (Progetto Italiano Salute Mentale Adolescenti): prima ricerca epidemiologica multicentrica italiana dei disturbi psichici tra preadolescenti in età età compresa tra i 10 ed i 14 anni, residenti in zone urbane. z z z z Questo studio ha utilizzato i seguenti strumenti: CBCL di Achenbach; Achenbach; Scheda sociodemografica che ha classificato secondo la categorizzazione di Hollingshead le tipologie delle famiglie in relazione all’ all’occupazione dei genitori; intervista semistrutturata DAWBA (Development (Development and Well Being Assessment) Assessment) di Goodman,studiata Goodman,studiata ed utilizzata specificamente per studi epidemiologici; scale HoNOSCA, HoNOSCA, HoNOSCAHoNOSCA-R e CC-GAS che valutano il funzionamento complessivo del soggetto. Del campione considerato è risultato che il 9.1% ha soddisfatto i criteri per un disturbo psichico secondo la classificazione DSMDSM-IV. Nello specifico dei disturbi della condotta ne è risultato colpito l’1% della popolazione considerata, senza differenze di rilievo tra i sessi. 35 La presa in carico terapeutica dell’ dell’adolescente con disturbo della condotta Prioritario è, ancor prima di pensare al “cosa fare” per loro, il dare significato ed intelligibilità a ciò che i ragazzi esprimono mediante l’agire. Il significato più profondo del termine “trattamento” rimanda proprio a una “modalità di accogliere” e indirettamente anche all’idea di “elaborare”, due significati che rappresentano in sé il filo conduttore di ogni intervento pensato per questi adolescenti. La presa in carico terapeutica dell’ dell’adolescente con disturbo della condotta I parametri attualmente condivisi per il trattamento dei bambini e degli adolescenti con DC prevedono che la presa in carico : z z deve avvenire necessariamente per tempi lunghi; deve coinvolgere sempre oltre che il ragazzo, tutti gli ambiti in cui lo stesso si trova a vivere. modello di approccio multimodale 36 La presa in carico terapeutica dell’ dell’adolescente con disturbo della condotta modello di approccio multimodale Mette a confronto proficuamente i vari contesti in cui i ragazzo vive (servizi (servizi neuropsichiatrici, neuropsichiatrici, la scuola, i servizi sociali, i servizi educativi, le associazioni sportive, i gruppi parrocchiali… parrocchiali…) concertando progetti condivisi per lavorare in rete ognuno con le proprie specificità specificità! modello di approccio multimodale z z z z z z Psicoterapia Farmacoterapia Intervento psicoeducativo Ospedalizzazione Funzione terapeutica parentale altro… altro… 37 Farmacoterapia (1) Esistono in letteratura molti studi, in aperto o in doppio cieco verso placebo, sul trattamento farmacologico dell’ dell’aggressività aggressività inquadrabile all’ all’interno di un CD in età età evolutiva. I farmaci più più studiati nel CD sono: z stabilizzanti dell’ dell’umore come il LITIO, l’l’ACIDO VALPROICO, la CARBAMAZEPINA, z neurolettici tipici (ALOPERIDOLO) e atipici (RISPERIDONE, CLOZAPINA, olanzapina), olanzapina), z psicostimolanti (METILFENIDATO), z SSRI (CITALOPRAM, elopram, elopram, fluoxetina), fluoxetina), z altre molecole (PINDOLOLO, CLONIDINA). Farmacoterapia (2) z Nell’ Nell’aggressività aggressività impulsivoimpulsivo-reattiva, soprattutto se il soggetto presenta una parziale ma significativa alterazione dell’ dell’esame di realtà realtà, distorsioni percettive o del pensiero, se gli episodi di aggressivit à aggressività appaiono circoscritti ed esplosivi, associati a fattori di stress stress e di sovraccarico, oppure se è richiesto un rapido inizio dell’ dell’azione terapeutica è spesso utilizzato il RISPERIDONE. z Nel comportamento aggressivo che presenta importanti caratteristiche caratteristiche affettive quali frequenti sbalzi d’ d’umore, irritabilità irritabilità elevata, risposte eccessive alle normali stimolazioni ambientali o un evidente pattern pattern bipolare è più più indicato uno stabilizzante dell’ dell’umore quale il VALPROATO. z L’utilizzo di un SSRI va considerato quando sono evidenti sintomi di tipo depressivodepressivo-disforici e/o ansiosi ed una volta escluse altre possibili diagnosi. 38 L’intervento psicoeducativo (1) La comunità, sia intesa in senso di residenzialità come di semiresidenzialità, “…è uno spazio di cure fatto di elementi empirici, di circostanze, di interrelazioni complesse che si intrecciano a partire da un’infinità di compiti, di azioni, di parole, di emozioni e di vissuti…; in essa, contrariamente al modello di cura fondato sulle rappresentazioni o sul processo associativo…, il cambiamento passa attraverso l’oggetto esterno considerato non solo nelle sue funzioni classiche (identificazioni) ma nelle funzioni di oggetto trasformativo…”. (Cahn 1987) L’intervento psicoeducativo (2) Coerentemente al concetto delineato da Winnicott di spazio transizionale, transizionale, metafora dello spazio terapeutico istituzionale ed alle successive applicazioni e sviluppi, l’l’istituzione per la presa in carico di adolescenti deve essere polivalente e configurarsi come un’ un’area intermedia e terza che consente all’ all’adolescente di sentirsi protagonista di una ricerca e fornisce occasioni per utilizzare il Servizio nel modo più più consono al suo attuale funzionamento psichico (teoria dell’“ istituzione dell’“istituzione transizionale” transizionale”). Questo continuo lavoro autoanalitico rende possibile il configurarsi dell’ dell’Ospedale Diurno come “sito analitico allargato” allargato”. (Monniello, Monniello, Spano 2003). 39 La funzione “terapeutica” parentale Il coinvolgimento parentale, parentale, sin dal primo incontro, deve essere sollecito e strutturato in modo preciso ma allo stesso tempo flessibile in modo da poter tollerare le continue messe alla prova che i genitori, nel perpetuarsi di uno stile relazionale transgenerazionale condiviso dai loro stessi figli, mettono in atto verso di noi. Il tollerare accogliendo, significando non giudicando tantomeno espellendo, può consentire alla coppia genitoriale una risignificazione interna che può generare cambiamento nella dinamica affettivoaffettivorelazionale del nucleo famigliare, adolescente agitato compreso. Studio Clinico: gli obiettivi z Il processo d’inquadramento diagnostico (diagnosi psichiatrica vs valutazione psicodinamica); z Il processo di formulazione del progetto terapeutico (intervento psicologico, intervento educativo, intervento farmacologico, ricovero, trattamenti multidisciplinari); z La compliance terapeutica ed i fattori che la influenzano; z L’evoluzione clinica (ovvero l’efficacia degli interventi attuati) 40 Casistica(1) sesso (n=123) 30% maschio femmina 70% Casistica(2) fascia d'età (n=123) 24% 36% 11-13 anni 14-16 anni 17-19 anni 40% 41 precedenti eventi stressanti lutto f amiliare mal f is/ment in f am stress scolastico malattia f isica evento stressante conf littualità/separ maltrattamento/abuso adozione due o più eventi str non rif erito 0 10 20 30 Percentuale età a cui tale evento si è verificato prima inf anzia (0-5) latenza (6-10) preado e ado (=e>11) età trauma ripetuto 12 14 16 18 20 22 24 26 28 Percentuale 42 diagnosi (ICD 10) 9% 14% sdr ansiose (f40/48) dist. affettivi (f30/39) 16% 30% dist.psicotici (f20/29) dist.personalità (f60/61) 8% 23% dist.condotta (f90/93) RM,alt. svil. psicol. (f70/79) Conclusioni(1) Importanza del processo d’ d’inquadramento diagnostico: diagnostico L’AGGRESSIVITÀ È UNA DIMENSIONE TRANSNOSOGRAFICA PIUTTOSTO CHE UNA SINGOLA DIAGNOSI. In tale ottica assume particolare rilievo il considerare: Ætipologia del comportamento agito Æarea psicopatologica sottostante Æ storia di eventi stressanti 43 Conclusioni(2) Importanza del processo di formulazione del progetto terapeutico. L’INTERVENTO TERAPEUTICO PIÙ INDICATO È QUELLO MULTIMODALE INTEGRATO L’intervento psicologico, individuale o di gruppo è risultato indicato solo nei casi di disturbi ansiosi o depressivi lievi Conclusioni(3) L’evoluzione clinica a distanza necessita di TEMPI MEDIO-LUNGHI PER IL CAMBIAMENTO Essa inoltre dipende dalla compliance terapeutica famigliare più che dal tipo di intervento. z varia a seconda del comportamento patologico: ¾ tempi più lunghi per i comportamenti sessuali, l’uso di sostanze e l’antisocialità associata o meno ad aggressività agita eterodiretta ¾ miglioramento clinico già a sei mesi (tempi più brevi) per comportamenti relativi ad aggressività eterodiretta da sola o associata ad aggressività autodiretta ed impulsività/oppositivà/aggressività verbale z 44 BULLISMO: MALE GIOVANILE DEL VENTUNESIMO SECOLO. MA E’VERO? Dott.ssa Laura Cerone , Psicologa e psicoterapeuta Dott.ssa Fiammetta Biancolin, Sociologa Ass. “IOTUNOIVOI Donne Insieme” - Udine Perché la nostra Associazione, che da anni si occupa di violenza a donne e bambini, con particolare riferimento alla violenza domestica e al maltrattamento intrafamiliare, ha deciso di effettuare una ricerca sul bullismo? La risposta si colloca in una concomitanza di eventi temporali, strettamente connessi all’attività quotidiana del Centro Antiviolenza. Nel 2002 abbiamo deciso di effettuare una ricerca nelle scuole superiori della Regione (25 istituti superiori del territorio, 1064 questionari, gli intervistati erano per il 46,5% maschi e per il 53,5% femmine), sempre in collaborazione con il Comune di Ampezzo, sulla “Percezione della violenza domestica e stereotipi”, utilizzando il questionario elaborato e fornitoci dalla dott.ssa Baldry dell’Università “La Sapienza” di Roma. All’interno del questionario vi erano anche alcune domande relative al fenomeno del bullismo. In particolare si indagava l’aver fatto prepotenze a scuola ad altri compagni, l’aver subito prepotenze, l’essere stati crudeli nei confronti degli animali. In riferimento all’esperienza personale degli intervistati sull’aver agito prepotenze il 32% aveva dichiarato di non aver mai attuato comportamenti di questo tipo, il 13,3% spesso o molto spesso ed il 54,8% occasionalmente. Rispetto all’esserne vittima, il 24,4% si era detto estraneo ad esperienze di bullismo, il 6,6% aveva affermato di esserne stato vittima spesso, mentre il restante 56,3% occasionalmente. Nello stesso tempo l’esperienza diretta che quotidianamente facevamo con minori vittime e/o testimoni di violenza ci ha posto di fronte ad alcuni interrogativi riguardanti i loro vissuti. Maria e Francesca, per esempio, due sorelle che frequentavano le scuole medie, avevano comportamenti e vissuti differenti. Maria, carina, introversa e timida, aveva grosse difficoltà di inserimento nel gruppo classe, tendeva ad isolarsi, si sentiva inadeguata rispetto alle compagne di classe ed era diventata il loro bersaglio preferito: la schernivano quando sbagliava e, quando era assente, non le passavano i compiti, o lo facevano parzialmente. Maria non aveva alcun rapporto con i compagni maschi, anzi se ne teneva ben distante e spesso a ricreazione rimaneva da sola. Per contro, dietro il suo aspetto apparentemente tranquillo e rispettoso delle regole, covava una forte rabbia, soprattutto nei confronti della madre. Francesca, invece, non aveva avuto difficoltà ad inserirsi a scuola, era esuberante, 45 veniva spesso ripresa dagli insegnanti ed aveva fatto “banda” proprio con le compagne di classe della sorella. Un altro minore, invece, Andrea, viveva costantemente in lotta con se stesso: da un lato la consapevolezza che i suoi comportamenti prepotenti e aggressivi erano così simili a quelli subiti da parte del padre e pertanto lui stesso “si odiava per questo”, dall’altro rappresentavano l’unico modo che aveva per poter dire “io ci sono”. Andrea è rimasto in bilico fintantoché la madre sembrava aver scelto di lottare per una vita diversa per sé e i suoi figli, lontano dal marito violento, quando, invece, la donna ha cambiato idea e ha scelto di “dare un’altra possibilità al marito”, Andrea lentamente ha smesso di lottare con se stesso. Abbiamo saputo, in seguito, che dai comportamenti da bullo a scuola è passato a compiere piccoli reati insieme ad altri amici. Ci siamo chieste quanto questi vissuti fossero “solamente” dei minori da noi seguiti o se, ed in che modo, appartenessero all’esperienza che i bambini/e e i ragazzi/e fanno quotidianamente nel contesto scolastico, indipendentemente dall’essere o meno stati esposti alla violenza domestica. Da qui la nostra curiosità verso un’indagine ad ampio raggio che partisse però dalle scuole medie ed elementari. Ci siamo guardate in giro e, partendo dalle ricerche nazionali, abbiamo voluto utilizzare un questionario i cui risultati potessero essere comparati anche con altre realtà. Abbiamo quindi utilizzato il questionario del professor Olweus, tradotto e adattato per l’Italia da Fonzi, Menesini Genta e Costabile, dell’Università di Firenze. Il passo successivo è stato quello di contattare la Direzione Scolastica Regionale per poter condividere ed ottenere il patrocinio alla realizzazione della ricerca. Abbiamo quindi contattato le scuole elementari e medie della Regione, inizialmente attraverso l’invio di una lettera e successivamente attraverso il contatto diretto con i referenti per ciascun istituto. Nel complesso hanno risposto positivamente 56 plessi scolastici così suddivisi: 33 per la Provincia di Udine, 10 per quella di Pordenone, 7 per Gorizia e 6 per Trieste, per un totale di 2.651 questionari. Rispetto alla metodologia utilizzata, il questionario è stato somministrato in forma anonima e raccolto in busta chiusa. La compilazione da parte degli allievi è stata preceduta dalla spiegazione del termine “prepotenze” utilizzato nel questionario al fine di evitare fraintendimenti riguardo all’uso della parola e per sottolineare, attraverso degli esempi, le caratteristiche distintive di tali atti: il perpetuarsi nel tempo, l’intenzionalità delle angherie, l’asimmetria di potere tra chi agisce e chi subisce prepotenze. Nello specifico la definizione di prepotenze utilizzata è stata la seguente: “diciamo che un ragazzo subisce delle prepotenze quando un altro ragazzo, o un gruppo di ragazzi, gli dicono cose cattive e spiacevoli. È 46 sempre prepotenza quando un ragazzo riceve colpi, pugni, calci e minacce, quando viene rinchiuso in una stanza, riceve bigliettini con offese e parolacce, quando nessuno gli rivolge mai la parola e altre cose di questo genere. Questi fatti capitano spesso e chi subisce non riesce a difendersi. Si tratta sempre di prepotenze anche quando un ragazzo viene preso in giro ripetutamente e con cattiverie. Non si tratta di prepotenze quando due ragazzi, all’incirca della stessa forza, litigano tra loro o fanno la lotta”1. Inoltre, per poter dare voce a quei vissuti che rimangono inespressi e imbrigliati nel dato quantitativo, abbiamo scelto di accompagnare l’illustrazione dei risultati della ricerca con delle interviste, da noi costruite e somministrate, ai vari attori coinvolti nel fenomeno: una vittima e un genitore, un bullo/a e un insegnante. Per quanto riguarda il bullo, abbiamo scelto di ovviare alle oggettive difficoltà di individuare un bullo ed un suo genitore, attraverso l’illustrazione di un caso da noi seguito. Le interviste sono state costruite differenziando le domande in base ai destinatari, ma lasciando alcune parti comuni riguardanti: la differenza tra conflitti e prepotenze, la tipologia delle prepotenze agite/subite, la percezione del fenomeno all’interno della scuola, le confidenze espresse e/o raccolte rispetto al fenomeno, le opinioni riguardanti le motivazioni sottese al fenomeno, infine una parte riguardante i sentimenti provati nel rispondere al quesito ed una breve riflessione. L’intervista è stata realizzata con il consenso degli intervistati e nel rispetto della normativa vigente in materia di dati personali e sensibili. I risultati del nostro lavoro, che verrà ora presentato dalla dott.ssa Biancolin, che ha collaborato con la nostra Associazione per quanto riguarda la parte statistica e l’analisi dei dati, li lasciamo alla vostra riflessione. Si allega file di presentazione dei risultati. 1 Fonzi A., (1997), Il Bullismo in Italia, Giunti, Firenze, pp.6-7. 47 ALCUNI DATI PRECEDENTI (1064 questionari, 46,5% M-53,5% F) attuazione di comportamenti di bullismo a scuola vittime di comportamenti di bullismo a scuola 5,3% 6,6% 8,0% 12,7% 24,4% 32,0% Mai 30,6% Quasi mai A volte 33,2% 23,1% Spesso Molto spesso 24,2% 48 Associazione IOTUNOIVOI Donne Insieme BULLISMO MALE GIOVANILE DEL VENTUNESIMO SECOLO MA È VERO? In collaborazione con il Comune di Ampezzo IL BULLISMO È Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni. (Dan Olweus, 1993) 49 LA PREPOTENZA È Un ragazzo subisce delle prepotenze da parte di un altro ragazzo, o un gruppo di ragazzi quando: •gli vengono dette cose cattive o spiacevoli, •riceve colpi, pugni, calci e minacce, •viene rinchiuso in una stanza, •riceve bigliettini con offese e parolacce, •nessuno gli rivolge mai la parola, •viene preso in giro ripetutamente e con cattiveria. Questi fatti capitano spesso e chi subisce non riesce a difendersi. Non si tratta di prepotenze quando due ragazzi, all’incirca della stessa forza, litigano tra loro o fanno la lotta. LA NOSTRA RICERCA 50 IL CAMPIONE (intervistati = 2651) Appartenenza di genere Ubicazione scuole FEMMIN E 48,0% TS 12,9% PN 20,9% MASCHI 52,0% GO 16,1% UD 50,1% IL CAMPIONE (intervistati = 2651) Scuola frequentata Classe frequentata 50,0% 40,0% 26,8% 30,0% 20,3% 20,5% 16,6% 15,7% 20,0% 10,0% III media II media I media V elem. 0,1% 0,0% IV elem. ELEM 47,2% III elem. MEDIA 52,8% 51 PREPOTENZE SUBITE A SCUOLA NELL'ULTIMO PERIODO DA PARTE DI ALTRI RAGAZZI NO 42,0% SI 58,0% PREPOTENZE E APPARTENENZA DI GENERE DEGLI INTERVISTATI Maschi Femmine no 40,2% no 43,7% si 56,3% si 59,8% 52 PREPOTENZE E RAPPORTO CON I COETANEI Prepotenze subite in relazione alla propria accettazione in classe Prepotenze subite in relazione al vissuto di solitudine a ricreazione 25,8% 44,0% 56,0% 74,2% subito prepotenze e non accettato subito prepotenze e accettato subito prepotenze e solitudine subito prepotenze senza solitudine CHI È LA VITTIMA? Scuola frequentata Fasce d'età 100,0% 100,0% 90,0% 90,0% 80,0% 70,0% 66,1% 80,0% 60,0% 60,0% 50,0% 50,0% 40,0% 40,0% 30,0% 30,0% 20,0% 20,0% 10,0% 10,0% 0,0% 1989-1993 66,3% 70,0% 55,5% 1994-1996 0,0% 50,5% ELEM MEDIE 53 TIPOLOGIE DI PREPOTENZE SUBITE Prepotenze subite Macrotipologie di prepotenze subite 9,0% 9,5% 29,9% 41,1% 29,0% 10,0% 19,0% 22,6% 29,9% Offese razza e brutti nomi Colpito fisicamente Non rivolto la parola e derisione Messo in giro storie Rubato cose personali Minacce Prepotenza fisica Offese razza e brutti nomi Indifferenza e derisione TIPOLOGIE DI PREPOTENZE SUBITE Femmine Maschi 28,6% 31,2% 32,3% 49,7% 21,7% 36,5% Offese razza e brutti nomi Indifferenza e derisione Prepotenza fisica Offese razza e brutti nomi Indifferenza e derisione Prepotenza fisica 54 TIPOLOGIE DI PREPOTENZE SUBITE PN GO 27,6% 32,5% 40,2% 29,0% 43,4% 27,2% TS UD 29,7% 35,5% 30,3% 34,8% 41,4% 28,4% Offese razza e brutti nomi Indifferenza e derisione Prepotenza fisica LUOGHI DELLE PREPOTENZE 19,8% 22,9% 4,0% 4,4% 5,9% 22,6% 9,8% 10,6% Cortile Corridoi Corridoi-Aula Corridoi-Cortile-Aula Aula Cortile-Aula Corridoi-Cortile Altro 55 LUOGHI DELLE PREPOTENZE GO PN 22,1% 37,9% 30,9% 47,0% 41,2% 20,9% UD TS 62,2% 28,0% 36,8% 41,1% 9,8% 22,1% Interno alla scuola Esterno alla scuola Interno ed esterno alla scuola FREQUENZA DELLE PREPOTENZE SUBITE Frequenza prepotenze subite negli ultimi 6 giorni Frequenza di prepotenze subite negli ultimi 3 mesi 6,9% 12,6% 17,0% 39,3% 18,1% 43,3% 25,9% 1 volta 2 volte 3/4 volte 5/6 volte o più 36,8% Solo 1/2 volte Qualche volta Diverse volte a settimana Circa 1 volta a settimana 56 QUANTI IN CLASSE SUBISCONO PREPOTENZE? Fasce età Scuola frequentata 100,0% 6 o più 20,6% 90,0% 80,0% 6 o più 26,9% 100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 6 o più 27,1% 6 o più 17,40% 70,0% 60,0% 2-5 ragazzi 66,6% 50,0% 2-5 ragazzi 58,6% 60,0% 40,0% 50,0% 30,0% 40,0% 2-5 ragazzi 59,8% 2-5 ragazzi 69,3% 30,0% 1989-1993 0,0% 1 ragazzo 14,5% 20,0% 10,0% 0,0% 1 ragazzo 13,1% 1 ragazzo 13,3% M E D IE 1 ragazzo 12,8% 1994-1996 10,0% E LE M 20,0% I VISSUTI RISPETTO ALLE PREPOTENZE Modi di sentirsi se spettatori di prepotenze Reazione di fronte a un compagno di classe vittima di bullismo 7,0% 12,0% 19,3% 25,6% 62,4% 73,7% Penso sia spiacevole Penso sia un po’ spiacevole Non provo niente di particolare Cerco di aiutarlo Non faccio niente ma penso dovrei aiutarlo Non faccio niente non sono affari miei 57 INTERVENTI DEI COMPAGNI IN SITUAZIONI DI BULLISMO 11,1% 35,3% 19,9% 33,6% Qualche volta Non so Quasi mai Quasi sempre COSA FANNO GLI INSEGNANTI? Studenti che si sono rivolti agli insegnanti per denunciare prepotenze Intervento degli insegnanti Quasi mai 15,9% Si, l'ho detto 42,1% No, non l'ho detto 57,9% Non so 17,7% Quasi sempre 38,4% Qualche volta 28,0% 58 E A CASA? No, non l'ho detto 43,0% Si, l'ho detto 57,0% IL PROFILO DELLA VITTIMA CHE EMERGE DAI NOSTRI DATI • • • • FEMMINA 9-11 ANNI DI ETÀ SCUOLA ELEMENTARE SUBISCE PREPOTENZE DIVERSE IN RELAZIONE ALL’APPARTENENZA DI GENERE (prepotenze fisiche se maschio; derisioni e violenza psicologica se femmina) • SPESSO SOLA A RICREAZIONE • SOLITAMENTE ISOLATA E POCO CERCATA DAI COMPAGNI DI CLASSE 59 BULLI E PREPOTENZE AGITE Presenza di bulli in classe NO 14,0% Numero compagni di classe che hanno fatto prepotenze ad altri in questo periodo solo 1 ragazzo 14,5% SI 86,0% 6 o più ragazzi 23,0% 2-5 ragazzi 62,6% PREPOTENZE: SE NE PARLA DAVVERO? Gli insegnanti hanno parlato con i bulli delle prepotenze da loro agite su altri? 29,9% 70,1% I genitori hanno parlato con i figli delle prepotenze che hanno agito su altri? SI 27,9% NO 72,1% 60 GIUDIZIO SUI PREPOTENTI Opinioni degli studenti 9,2% 15,5% 15,6% 59,7% Mi danno molto fastidio Non so E' difficile capirli Posso capirli CRITICHE ALLE PREPOTENZE E GIUDIZIO SUI PREPOTENTI 6,0% 11,0% 14,8% 68,2% Spiacevole Spiacevole Spiacevole Spiacevole subire subire subire subire prepotenze/posso capire i prepotenti prepotenze/non so definire i prepotenti prepotenze/difficile capire i prepotenti prepotenze/fastidio verso i prepotenti 61 DISTACCO DALLE PREPOTENZE E GIUDIZIO SUI PREPOTENTI 20,1% 30,7% 11,7% 37,4% Non Non Non Non provare provare provare provare niente niente niente niente per per per per le le le le vittime/capire i prepotenti vittime/non so definire i prepotenti vittime/difficile capire i prepotenti vittime/fastidio verso i prepotenti IL PROFILO DEL BULLO CHE EMERGE DAI NOSTRI DATI • MASCHIO O FEMMINA IN EGUAL MISURA inserito solitamente all’interno di un gruppetto di coetanei (fra 2 e 5 ragazzi) • 11-16 ANNI DI ETÀ • SCUOLA MEDIA • AGISCE PREPOTENZE SOPRATTUTTO IN CLASSE VERSO I COMPAGNI • EPISODICITÀ DELLE PREPOTENZE AGITE NEGLI ULTIMI 2-3 MESI (1-2 VOLTE) 62 LE INTERVISTE • Vittima: maschio, 12 anni • Genitore: madre, 40 anni • Insegnante: donna, 53 scuola elementare anni, CHE COS’E’ UNA PREPOTENZA? • Vittima: è per esempio una presa in giro, una minaccia, un qualcosa molto più sullo psicologico, però a volte può arrivare al contatto fisico • Genitore: può essere fisica, proprio, quando vengono messe le mani addosso..però anche psicologica, con prese in giro oppure fare in modo che un ragazzo venga messo da parte… • Insegnante: ..è cercare di avere la meglio su qualcuno che è più debole, cioè di usare la propria forza, superiore in quel caso, fisica e non solo fisica molte volte, per umiliare o soggiogare qualcuno più debole 63 QUANDO UN COMPORTAMENTO OSTILE DIVENTA PREPOTENZA? • Vittima: quando per esempio, soprattutto in una fase psicologica, viene ripetuto più volte • Genitore: quando diciamo i ragazzi scherzano, questo rientra nella normalità, però quando vengono fatti scherzi pesanti ripetutamente, oppure si va oltre lo scherzo, quella volta si comincia ad avere l’impressione che la cosa stia degenerando • Insegnante: quando uno incute paura nell’altro, cioè quando uno induce il compagno o un altro bambino a non fare qualcosa che magari farebbe LE CONFIDENZE DELLA VITTIMA • • • • • • • • Ti sei mai confidato con qualcuno rispetto alle prepotenze subite? In particolare, ne hai mai parlato con i tuoi compagni di classe? Si, non con i miei compagni di classe, ma con un compagno di un’altra classe Quale è stato il loro comportamento? Lui siccome aveva un amico nella mia classe ha cercato diciamo di convincere questo mio compagno a diciamo…avvicinarsi un po’ a me, questo è successo, ma lievemente..è una cosa che diciamo non ha avuto tanto significato Ne hai parlato con i tuoi insegnanti? Si, moltissime volte Quale è stato il loro comportamento? Dicendomi di andare al posto, che era una cosa passeggera e quindi di non tenerne conto. Più cercavo di arrivare ad un discorso diciamo…adulto con questi professori, più questi mi dicevano che ero uno molto sensibile, che si arrabbiava per poco, cose così E con i tuoi genitori ne hai parlato? Si Quale è stato il loro comportamento? Che mi hanno aiutato molto, soprattutto mia madre che era rappresentante di classe e aveva portato questo problema in consiglio, ed è stato discusso, con nessun risultato, ma lo stesso è stato discusso Di fronte ad episodi di prepotenze gli insegnanti tendono ad intervenire? Per quanto mi riguarda no, però ci saranno sicuramente alcuni professori che sarebbero intervenuti Se intervengono quali provvedimenti adottano? Sicuramente possono chiamare i genitori dell’alunno, parlare con i genitori che di conseguenza ne parlino con l’alunno oppure con il preside, se è una cosa abbastanza frequente… 64 IL GENITORE DI FRONTE ALLE PREPOTENZE • • • • Suo figlio si è mai confidato con lei rispetto alle prepotenze subite? Sempre Com’è andata? Io l’ho ascoltato..ho cercato di dirgli “guarda che in una certa misura queste cose succedono” però quando effettivamente ho visto che la frequenza e l’assiduità erano troppe, mi sono attivata E gli insegnanti tendono ad intervenire? No, poi dipende dall’insegnante Se intervengono quali provvedimenti adottano? Ci può essere un richiamo, so che non hanno molti modi per intervenire..però ci potrebbe essere un avviso sul libretto per genitori, poter instaurare una discussione in classe, potrebbe servire secondo me INSEGNANTE DI FRONTE ALLE PREPOTENZE • • • Ha mai raccolto le confidenze di qualche alunno vittima di prepotenze? Si, ma fra compagni è più facile che si raccontino. Se hanno subito prepotenze non sempre riescono a raccontarlo Ha mai parlato con i suoi alunni in merito al verificarsi di episodi di questo tipo? Si, però in maniera non organica..la prepotenza dei nostri alunni non è sempre cosciente..dovremmo limitarci al bambino e dire “tu sei prepotente” e dare la colpa della prepotenza al bambino, ma sappiamo bene che la colpa della prepotenza è a monte. E non è che possiamo andare a parlare con la mamma e il papà. Noi non possiamo chiedere niente che riguardi la famiglia, non sappiamo più neanche l’età dei genitori per via della privacy Di fronte ad episodi di prepotenze gli insegnanti quali provvedimenti adottano? Non sono sempre gli stessi. Si cerca di parlare tutti insieme, quando è possibile, cercando di spiegare perché certi atteggiamenti non vanno bene 65 RITIENI SIA GIUSTO E/O UTILE AGLI ALTRI PARLARE DI BULLISMO? • Vittima: si, senz’altro per conoscere il problema e poi diciamo arrivare ad un discorso molto preciso sull’argomento • Genitore: sicuramente • Insegnante: si…sta venendo fuori abbastanza anche in televisione. È un fenomeno che secondo me si sta allargando..comincia con le materne e poi non finisce. È uno dei problemi che fa della scuola, negli ultimi tempi, un luogo in cui non si lavora più facilmente. Una volta era molto più facile perché c’erano meno episodi di bullismo, erano meno forti e meno valutati. Adesso sono numerosi ed è uno dei problemi della scuola questo: la disciplina, l’accettare le regole…è una delle basi della scuola…un obiettivo che è difficile da raggiungere… COSA PROVA A PARLARNE? • • • Vittima: beh…mi sento come a parlare di una cosa accaduta, non molto importante, nel senso importante di scuola, per cui abbastanza di civiltà, però lo stesso è una cosa che mi è accaduta e che quindi appartiene al passato ormai Genitore: visto che sono stata colpita..provo rabbia..personalmente ho fatto anche un esposto..ma non ho visto grandi reazioni, non mi sembra di essere stata capita Insegnante: sono contenta,..come insegnante questo è un problema che sta venendo avanti, che forse c’era anche prima, ma non si era capito…passando i cicli scolastici i bambini sono cambiati molto, non come capacità…ma nel comportamento nei confronti degli altri, degli insegnanti, della scuola in generale..c’è questa mancanza generalizzata del rispetto dell’altro. L’egocentrismo c’è sempre stato, ma un conto è l’egocentrismo naturale, un altro è quello che porta alla violenza e in questo periodo mi pare si stia evidenziando proprio questo 66 IL FENOMENO DEL BULLISMO NELLE SEGNALAZIONI DELLE FAMIGLIE E DELLE SCUOLE Dott.ssa Mara Lessio, Sostituto Commissario Polizia di Stato, Responsabile Ufficio Minori Divisione Anticrimine, Questura di Udine Dott. Ezio Gaetano, Vicequestore Aggiunto Polizia di Stato, Questura di Udine Le complesse problematiche dell’età minorile sono oggetto da tempo di attenzioni da parte del Ministero dell’Interno, che nel 1996 oltre ad aver istituito in tutte le Questure gli Uffici Minori, con compito specifico di monitoraggio sui diversi fenomeni e di interazioni con i servizi socio-sanitari, scuola ed organi giudiziari, propone attività di coinvolgimento e di avvicinamento all’istituzione da parte dei minori con concorsi di vario genere (disegni, temi, sms…) educazione alla legalità, educazione stradale ecc. Fondamentale il rapporto di collaborazione tra servizi socio-sanitari, scuola, enti di volontariato e Polizia di Stato, rapporti che per la Questura di Udine sono oramai consolidati nel tempo con interventi sia di carattere preventivo, sia di carattere sociale. Si è tenuto da poco l’annuale incontro tra il Questore ed i Dirigenti scolastici, per un consolidamento delle sinergie al fine di affrontare e trovare soluzione adeguate ai problemi legati al mondo minorile. Compiti dell’Ufficio Minori sono: Monitoraggio, Sorveglianza, Vigilanza ed Interventi sulle diverse problematiche minorili; Lavoro in rete con servizi socio-sanitari, scuola e Tribunale per i Minorenni; Segnalazioni al Tribunale per i Minorenni di fatti-reato che coinvolgono minori, nonché di situazioni di disagio e difficoltà; Violenze, abusi sessuali e maltrattamenti a danno dei minori, sfruttamento della prostituzione e pornografia minorile, turismo sessuale; Sfruttamento del lavoro minorile; Sottrazione di minori; Uso o spaccio di sostanze stupefacenti ad opera o a danno di minori. L’ufficio affronta problematiche delicate a soggetti in situazioni di particolare disagio, non svolge diretta attività investigativa, che viene curata invece da unità specializzate della Squadra Mobile. 67 Tra le problematiche di maggior attualità spicca il fenomeno del bullismo. Per bullismo si intende un insieme di comportamenti ripetuti nel corso del tempo, di azioni offensive verbali e fisiche, messe in atto da parte di una o più persone nei confronti di un’altra persona per avere potere o dominarla. Per quanto riguarda la realtà della nostra provincia, dall’osservazione dei fatti accaduti fotografiamo una situazione non propriamente di bullismo ma di perpetrazione di prepotenze, di singoli episodi di aggressioni a persone o cose. Tale fenomeno necessita di essere monitorato attraverso la messa in atto di tutte le possibili strategie preventive tenendo conto che non solo le vittime sono persone fragili, ma anche i minori che agiscono con prepotenza sono persone bisognose d’aiuto in quanto utilizzano delle modalità inadeguate per comunicare e per affrontare le loro difficoltà personali. Siamo ancora in tempo per progetti concreti di recupero, bisogna pensare a spazi ricreativi per gli adolescenti ove gli stessi possano rendersi protagonisti di esperienze positive, sfruttando possibilità di espressioni artistiche quali: il ballo, la musica, il canto, il disegno … in strutture ove possano accedervi in modo gratuito. Spesso i disagi economici in cui versa la famiglia di appartenenza non consentono ai minori di poter effettuare attività extrascolastiche, di ampliare le proprie conoscenze ed amicizie, di essere seguiti in modo adeguato e il contesto (senza alternativa) nel quale sono costretti può diventare causa scatenare di comportamenti devianti. Ed ecco la necessità di creare spazi con facili possibilità di accesso, spazi nei quali si vivano momenti di solidarietà, di aiuto, di condivisione. 68 SECONDA SESSIONE Il bullismo: teorie interpretative Presiede: Dott.ssa CRISTINA BALDIN Psicologa Èquipe Multidisciplinare Territoriale Distretto Est Cervignano del Friuli A.S.S. n° 5 “Bassa Friulana” 69 LA CURA DELLA VIOLENZA Dott. Giovanni Di Cesare Psicologo didatta Centro Studi Terapia Familiare, Roma LA PROSPETTIVA SISTEMICO-RELAZIONALE Nella prospettiva sistemico-relazionale è possibile comprendere un fenomeno solo all’interno di un contesto. Ogni fenomeno è espressione di un contesto di cui è parte integrante e da cui emerge come qualità sistemica. In questa prospettiva ogni entità, ciascun individuo, ogni famiglia, ogni servizio, ogni comunità, etc. è una organizzazione unitaria e plurima, contemporaneamente composta di diverse parti e facente parte di sistemi più ampi. Tali organizzazioni viventi sono quindi considerabili organizzazioni di diversi sé che nel continuo mutamento delle proprie componenti e dei contesti di riferimento cercano di mantenere la propria identità nel tempo. Sono pertanto organizzazioni fragili che si rinnovano incessantemente cercando di darsi una coerenza nel tempo, una continuità, una possibilità di controllo dei processi di differenziazione – integrazione da cui derivano. Ciascuno di noi, come le nostre famiglie, i nostri servizi, le nostre comunità, è quindi l’espressione mutevole, in cerca di coerenza, dei propri legami interni, dei legami tra le nostre parti e contemporaneamente dei propri legami esterni, dei legami con altri individui, famiglie, servizi, etc. Noi pertanto siamo la continuità, l’integrità, la coerenza dei nostri legami intrapersonali, interpersonali, sociali; è quanto intendiamo quando definiamo l’identità come un processo costitutivamente relazionale. Un processo mai definito, di reciproca co-costruzione in gran parte al di fuori della nostra consapevolezza. Ma il contesto cambia, cambia continuamente e la sociologia attuale ci descrive il paesaggio del mondo occidentale in modo inquietante. IL CONTESTO ATTUALE Da un lato si parla di età della tecnica in cui gli individui sono ridotti a funzionari parcellizzati degli apparati tecnici, strumenti peraltro poco efficienti e quindi spesso da sostituire, di quei mezzi tecnologici che da mezzi, grazie alla loro pervasività, sono divenuti fini totalmente al di fuori di ogni controllo. Ciò crea vissuti collettivi di impotenza, di paura diffusa, di disorientamento. E’ la cosiddetta epoca delle passioni tristi in cui non ci si aspetta più, per la prima volta, che i propri figli abbiano un mondo migliore del nostro. E si crea una sorda 70 sottile lotta tutti contro tutti, per la sopravvivenza, con una valorizzazione dell’individualismo, della competizione ed un disprezzo della dipendenza. Tutto diventa transitorio, provvisorio, instabile, il lavoro, gli affetti, la casa, tutto si fa fluido, “liquido”, senza forma. Si configura pertanto un paesaggio complessivo di attacco ai legami intrapersonali, interpersonali e sociali, in cui la ragione calcolante, efficientista tende a eliminare sia sul piano interno come su quello esterno, ogni affettività, ogni soggettività, ogni corporeità che non siano al servizio della propria prestazione. Si vive sempre più soli, sempre più scissi, separati intimamente e relazionalmente. LA VIOLENZA E L’ATTACCO AI LEGAMI Un tale contesto provoca profonde conseguenze. Ogni attacco ai legami che ci costituiscono infatti provoca dolore. E’ la base del processo di costruzione di noi stessi, del processo di attaccamento, di creazione dei nostri legami: è un sistema motivazionale a rinforzo negativo, molto più efficace sul piano evolutivo. Attaccarci è un processo spontaneo; ogni attacco o minaccia ai legami provoca dolore. Perché noi siamo i nostri legami, una volta strappati non resta più nulla. E cosa accade quando gli attacchi si fanno continui, cronici, quando il dolore si fa continuo, eccessivo da essere tollerato e gestito? Interviene un meccanismo di difesa disperato che se da un lato da sollievo, dall’altro aggrava la situazione: la scissione. Il dolore troppo forte viene cancellato dalla coscienza, si dissocia, non è più percepito, non è più ricordato, non è più presente nel paesaggio della mente individuale e collettiva. Parallelamente la radice del dolore, il bisogno di legame, è negata, come sono negate la compassione, l’empatia, la solidarietà, la speranza. Parti sempre più ampie dei propri vissuti e dei propri bisogni non trovano più uno spazio e sopravvivono in modo frammentato, incorporato, muto. Tali frammentazioni o scissioni, incidono profondamente sul senso di continuità della propria identità, che si disfa in un drammatico tentativo di sopravvivere al dolore. L’impotenza, la perdita di controllo sul proprio mondo, interno ed esterno, producono impotenza, fragilità, perdita di senso e di integrità. La nostra identità individuale e collettiva viene a perdere, per “adattarsi”, la continuità, l’integrità e la coerenza che le sono necessari. Questo adattamento è un sacrificio doloroso, un amputazione continuativa di parti vive e bisognose, è una violenza. 71 I SIGNIFICATI DELLA VIOLENZA La violenza contro se stessi e contro gli altri, specie se gratuita o legata a futili motivi, è l’espressione di questo continuo tragico sacrificio collettivo. La violenza, in altre parole, esprime, deriva da, e, contemporaneamente produce: la frammentazione e la “codificazione” di sé e dell’altro: non ci sono più soggetti ma organismi, riducibili a cose; la negazione dell’empatia, della compassione e dei nostri bisogni di dipendenza reciproca; la negazione e la minimizzazione delle conseguenze etiche del nostro agire, la coscienza anche quella morale è “fatta a pezzi” e tacitata. La violenza può quindi essere compresa a livello sociale ma anche a livello intra ed interpersonale come una molteplicità di comunicazioni che segnalano la situazione di grave sofferenza, che richiamano e richiedono un aiuto, un ascolto, un contenimento. Nella violenza possiamo riconoscere una espressione paradossale del dolore che nega il dolore da cui deriva e che provoca. Si cerca di “recuperare” un qualche equilibrio agendo, scaricando, replicando, implicitamente denunciando le violenze subite. In questo quadro necessariamente semplicistico ed abbozzato la violenza co-evolve con un contesto di attacco violento e apparentemente “naturale” ai legami che costituiscono la base della nostra identità. La violenza si mantiene e si propaga quindi attraverso i nostri legami biologici (gli unici per ora insostituibili, ma non per molto), attraverso le generazioni. Ma il bullismo non ha nulla di biologico, di genetico, né di familiare. IL BULLISMO Mentre nelle famiglie maltrattanti vi sono evidenze drammatiche di questa tragica eredità che si trasmette da genitori a figli, per il bullismo non ci sono tali evidenze. Vi sono ovviamente tipologie familiari che sostengono e favoriscono l’emergere di comportamenti connessi al bullismo. Ad esempio i ragazzi che mostrano comportamenti da “bulli” spesso hanno ricevuto uno stile educativo coercitivo e tollerante in climi affettivi freddi, ostili, anaffettivi. Sono famiglie con pochi legami interni, famiglie “disimpegnate”, dove ognuno lotta per la sua propria sopravvivenza o per il potere e implicitamente i genitori approvano le “prove di forza” che il ragazzo realizza. 72 Parallelamente i ragazzi che mostrano comportamenti da “vittime” hanno ricevuto uno stile educativo iperprotettivo, infantilizzante. Sono famiglie dai legami molto stretti, “invischiate” che si chiudono in se stesse, negando ogni conflittualità e non venendo spesso a conoscere le vicende sofferte dai loro figli. Ma nonostante queste tipizzazioni familiari è bene ribadire che il bullismo non è un diretto derivato delle dinamiche familiari. Il cosiddetto bullismo si può infatti definire come l’insieme di comportamenti aggressivi, violenti, di sopraffazione, insieme derivante da un contesto violento che non contiene, non governa la violenza ma in qualche modo la istiga, la “permette”, l’alimenta. Ma qual’è il contesto violento, dov’è questa violenza che il bullismo come sintomo da un lato segnala ma dall’altro nasconde e rende invisibile? Per cercare di dare una risposta è bene fare un passo indietro alle dinamiche familiari ed in particolare alle dinamiche evolutive delle cosiddette famiglie maltrattanti. DUE CONCETTI PER PROVARE A CAPIRE In tali famiglie si possono riconoscere due fasi evolutive: in una prima fase il figlio è triangolato, utilizzato, all’interno di dinamiche adulte. Un conflitto tra gli adulti (genitori, nonni, zii, etc.) non rimane confinato nella dimensione generazionale adulta ma contamina la generazione dei bambini che vengono “giocati” all’interno di dinamiche che non controllano e di cui non sono ovviamente responsabili. Ma gli esseri umani imparano, sono fatti per imparare e per automantenersi. Dopo un certo numero di anni il figlio vittima di dinamiche maltrattanti impara a “governarle”, ad utilizzarle, a mantenerle. Non è ovviamente un passaggio automatico, stiamo sempre parlando di possibilità probabilistiche, ma una tale evoluzione da “vittima” a “persecutore” è una realtà clinica evidente in moltissime situazioni trattate dai terapeuti sistemici. Quando avviene questa “metamorfosi” il gioco cambia e spesso l’originario conflitto adulto non si vede più, scompare, talvolta non lo si ricorda neanche più: rimane solo un ragazzo violento, incontrollabile che schiavizza e tormenta degli adulti. Una ultima notazione prima di tornare al bullismo: la “centralità del terzo”. In queste dinamiche il significato del maltrattamento è spesso legato ad una comunicazione verso un terzo assente; in altre parole si maltratta/ci si fa maltrattare per maltrattare/ richiamare un terzo che può essere della stessa generazione e/o di una precedente. Non è mai una relazione solo duale, esiste sempre un terzo (almeno un terzo…) in relazione a cui il conflitto può essere compreso. 73 Applicando le nozioni di due fasi evolutive e di centralità del terzo al fenomeno del bullismo cosa ne traiamo? Cosa comprendiamo delle dinamiche violente di e tra i ragazzi? Innanzitutto mi pare di poter dire che il bullismo possa essere assimilato alla seconda fase evolutiva delle famiglie maltrattanti, quella in cui gli adulti appaiono inermi, attoniti, increduli spettatori di violenze incomprensibili e incontenibili. Ma se così è: qual è la prima fase? Quali sono le dinamiche violente, conflittuali tra gli adulti che hanno coinvolto, richiamato, trascinato con sé i ragazzi? Le risposte ci vengono dalla sociologia, dalla psicopedagogia, dalla storia. LA SCUOLA MALTRATTATA E MALTRATTANTE In quaranta anni la scuola pubblica da privilegio da conquistare è divenuta un obbligo da tollerare. E’ stata svuotata di valori, risorse, investimento sociale. E’ stata espropriata di senso, delegittimata a svolgere le sue funzioni. E’ stata devastata da processi di disgregazione e frammentazione. In una parola è stata abbandonata. E’ come se la società l’avesse rinnegata, rinnegando le finalità, la centralità, rinnegando i legami di dipendenza che la legano a lei. Si può pertanto considerare violenza una scuola delegittimata, violenza una scuola abbandonata, senza legami di senso e di identità. Parallelamente ad un altro livello di complessità ciò si esprime in una classe insegnante divisa, insicura, spaventata, che ha perso l’amore per il suo lavoro. Una classe che spesso ha perso la propria dignità professionale riuscendo con sempre più fatica a riconoscersi in un mandato di senso collettivo. Come i legami tra scuola e società si allentano, vengono attaccati, erosi, così i legami tra gli insegnanti vengono scoraggiati; gli insegnanti si trovano a viversi sempre più soli, delegittimati e screditati. I rapporti con le famiglie sono sempre più conflittuali e/o di totale incomprensione reciproca. Ci si ignora ostentatamente, attribuendosi reciprocamente la responsabilità di quanto avviene ai figli. Parallelamente ancora, ad un altro livello di complessità, la metodologia didattica si è atrofizzata, la ricerca e l’innovazione sopravvivono in alcune enclave, ma complessivamente l’insegnamento è sempre più spersonalizzato e spersonalizzante. In un contesto ormai totalmente modificato dai mass-media e dalle nuove tecnologie la scuola, gli insegnanti, la metodologia didattica insegue ancora i contenuti d’apprendimento, ancora si vincola al cosa mentre forse dovrebbe, potrebbe ritrovare le sue radici nel come e nel chi essere. E’ comunque una scuola maltrattata quella che assiste ai fenomeni di bullismo, vi sono profondi conflitti tra gli adulti che precedono da decenni questa “improvvisa” ed “incomprensibile” crescita del fenomeno. 74 IL BULLISMO COME SINTOMO Possiamo quindi considerare il bullismo un sintomo che da un lato segnala, dall’altro copre, nega, fa dimenticare i conflitti che lo precedono e che lo consentono. Infatti utilizzando la nozione di “centralità del terzo” possiamo ipotizzare che nelle classi, nelle scuole, trovino realtà i conflitti, le violenze, gli isolamenti, l’impotenza presenti negli altri livelli sistemici. Possiamo quindi chiederci: per conto di chi e/o contro chi e/o per richiamare chi, è agita la violenza dei bulli? Dietro ad ogni episodio di bullismo vi sono conflitti cronicizzati, incancreniti, dimenticati. Dietro ad ogni episodio di bullismo ci sono legami strappati, rinnegati, minacciati: a livello istituzionale tra società e scuola, tra scuola pubblica e privata, tra ministero e provveditorati, tra scuola e le altre agenzie educative; a livello interpersonale e gruppale tra gli insegnanti, tra gli insegnanti e i ragazzi, tra le famiglie e gli insegnanti, tra i cosiddetti esperti (psicologi, psicopedagogisti, neuropsichiatri, etc.) e gli insegnanti, tra gli operatori della sicurezza ( vigili, poliziotti, carabinieri, etc.) e gli altri attori sociali; e vi sono naturalmente conflitti e legami strappati anche a livello intrapersonale in ciascuno di noi. L’analisi del fenomeno bullismo chiama quindi di nuovo in causa il mondo adulto, lo richiama alle sue responsabilità educative, ma prima ancora lo richiama alla responsabilità circa i conflitti al suo interno, conflitti che precedono, coltivano e consentono la violenza dei ragazzi. PER UNA SCUOLA DEI LEGAMI Un tale richiamo deve coinvolgerci tutti in prima persona partendo dalla consapevolezza che curare/avere cura dei violenti e delle loro vittime significa in primo luogo curare/avere cura dei nostri legami intrapersonali ed interpersonali. E’ un richiamo a quella continuità, coerenza, integrità dei nostri legami che sono il fondamento della nostra identità sociale. Legami che non sono mai dati una volta per tutte ma vanno coltivati, modificati, arricchiti nel tempo. Legami tra le nostre parti piacevoli e spiacevoli, tra i nostri ricordi e le nostre speranze, tra i nostri desideri e i nostri obblighi, tra i nostri amori e le forme del nostro odio. 75 E’ un percorso, lungo, difficile, un percorso formativo che non si può e non si deve fare da soli anche se la responsabilità è e sarà sempre di ciascuno di noi, individualmente. Occorre tornare e/o cominciare a coltivare i propri legami interni ed interpersonali, divenendo o meglio riscoprendo, la propria vocazione a essere operatori di legame. Operatori che creano, sviluppano, consolidano, coltivano legami, coltivando in questo meraviglioso modo se stessi. La scuola infatti è sempre stata e tanto più, lo abbiamo gia detto, lo è oggi, un ambito di costruzione non di saperi ma di persone, di gruppi, di comunità. Il sapere e il saper fare sono sempre stati i veicoli, spesso i troppo inconsapevoli veicoli, del saper essere e del saper diventare. E’ una scuola dei legami quella che auspichiamo per noi e per i nostri figli. Una scuola cui si deve restituire quel rispetto quasi sacrale circa il suo mandato e le finalità. Una scuola che sappia pretendere e costruire dentro ed intorno a sé quel rispetto, quella solidità, quella integrità che sono il presupposto ed il prodotto del suo operare. Una scuola in cui siano centrali i legami tra gli insegnanti e la propria vocazione, tra gli insegnanti e le famiglie, i ragazzi, gli altri operatori. E’ solo ricreando, coltivando legami che si può contenere, accogliere, comprendere la violenza. Solo legando/legandosi alla propria violenza possiamo risultare credibili nel legare/legarsi ai violenti. Non è l’isolamento, l’espulsione, il rifiuto, che possono avere cura delle angoscie abbandoniche e delle storie che i violenti testimoniano. E’ invece ricreando i legami e liberando i ragazzi da dinamiche che non gli appartengono che potremo darci e dar loro un futuro diversi. Un futuro da abitare, da condividere, da promuovere, in cui la reciproca accoglienza e la reciproca compassione verso sé e verso gli altri siano i valori centrali. 76 GENITORIALITA’ DIFFICILI: TRA BAMBINO, FAMIGLIA, SCUOLA E SERVIZI Dott. Giuseppe Disnan Psicologo e psicoterapeuta, Professore a contratto e docente master Università degli Studi di Padova I figli non sono nostri I vostri figli NON SONO I VOSTRI FIGLI, sono i figli e le figlie della brama che la vita ha di sè. Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi, e benché vivano con voi, NON VI APPARTENGONO. Potete dar loro il vostro amore MA NON I VOSTRI PENSIERI, poiché essi hanno i loro pensieri. Potete custodire i loro corpi MA NON LE LORO ANIME, poiché le loro anime abitano nella casa del domani, che voi non potete visitare neppure in sogno. Potete sforzarvi di essere simili a loro, MA NON CERCATE DI RENDERLI SIMILI A VOI, poiché la vita non procede a ritroso e non perde tempo con il passato. Voi siete gli archi da cui i vostri figli sono lanciati come frecce viventi: L'arciere vede il bersaglio sul sentiero dell'infinito, e con la sua forza vi tende affinché le sue frecce vadano rapide e lontane. Fatevi tendere con gioia dalla mano dell'Arcere: Poiché se Egli ama la freccia che vola, ama ugualmente l'immobilità dell'arco. Questo notissimo e suggestivo brano di Gibran fa da contrappeso ad alcuni modelli di psicologia dello sviluppo che dalla psicoanalisi agli studi sulla famiglia fino alla più recente teoria dell’attaccamento - vogliono gettare un ponte non solo descrittivo ma a volte quasi causale tra caratteristiche della genitorialità e sviluppo dei figli. Schiacciare la complessità dei percorsi evolutivi entro le strette, a volte strettissime maglie di una causalità e di un determinismo psicogenetico, significa mortificare la ricchezza dei percorsi personali, relazionali e sociali che, se ricadono nelle leggi statistiche che identificano criteri e percentuali di rischio, sono non di meno sempre aperti alla dinamica delle forze che contraddistingue la conflittualità fisiologica a ogni processo. 77 La genitorialità condiziona ma non determina, la storia personale è fondamentale ma non univoca nei suoi prodotti, esiti simili a partire da premesse anche molto diverse, risultati diversissimi anche a partire da condizioni molto simili o persino apparentemente uguali. Chi ha più figli resta spesso sbalordito dai loro diversi percorsi, tanto più se le aspettative si costruiscono sulla semplificata premessa dei “genitori sempre uguali.” Da prospettive diverse pare allora opportuno cercare dei significati anche e soprattutto in una logica evolutiva e strutturale, ma mantenere un’apertura di giudizio libera da ipoteche troppo vincolanti. QUESTA NON MI È NUOVA Violenza e aggressività, non ancora definite come bullismo (per una esauriente rassegna bibliografica su questo tema rinviamo al sito curato dal centro studi del Gruppo Abele), sono problematiche rilevanti già da lungo tempo nei paesi occidentali. In un lavoro di ricerca che data ormai oltre mezzo secolo ma ancora talmente attuale da meritarsi l’apertura dell’ultimo volume della Psichiatrie de l’enfant, Bowlby (1944) identifica come fattori eziologici in un campione di minori seguiti per furti nella London Child Guidance Clinic, sia la componente genetica, sia problemi di separazione precoce, relazioni genitoriali disturbate, traumatismi più tardivi. Egli ne auspica una diagnosi già ai 3–5 anni, al fine di garantire forme di intervento più precoci ed efficaci. Tra gli psicoanalisti il tema della violenza e della delinquenza fu analizzato in particolare da Aichhorn (Aichhorn 1951) che arrivava ad indicare all’educatore come affrontare il ragazzo. “…deve dapprima allearsi con lui, comprendere che ha delle ragioni ed essere d’accordo sul suo comportamento; nei casi più difficili, deve all’occasione fargli capire che egli stesso, l’educatore, non si comporterebbe in maniera diversa. (…..) Egli deve far scattare anche in questi educandi il transfert positivo”. Nello stesso periodo un lavoro importante di Redl e Wineman ( 1951) dal significativo titolo “Bambini che odiano” descriveva con molta ricchezza di particolari sia i contorni del fenomeno che le strategie per cercare di intervenire sul piano terapeutico ed educativo, insistendo sulla necessità di un sostegno all’Io molto ampio e prolungato, con misure che, più che di tipo psicoterapeutico in senso stretto, devono indirizzarsi all’insieme dell’ambiente di vita del bambino. Più o meno negli stessi anni, sul versante sociologico Cohen ( 1955) parlava di “sottocultura delinquente” e ne descriveva alcune caratteristiche utilizzando termini quali “malignità”, “distruttività”, “edonismo immediato”, con riferimento soprattutto al formarsi delle bande 78 giovanili, e la ricerca di Glueck (in Guedeney 2006) pubblicata nel 1950 cercava delle correlazioni tra caratteristiche famigliari e delinquenza giovanile. Nei due decenni successivi l’elaborazione delle teorie cognitivo comportamentali di origine comportamentistica, per opera soprattutto di Skinner, Bandura, Dollard e altri ( Battagliere 1992), puntavano sul modello dei comportamenti appresi per introdurre forme di intervento correttive. Attualmente sono le numerose ricerche sull’attaccamento che sembrano indicare una certa correlazione tra attaccamenti precoci disorganizzati e tendenza al successivo sviluppo di disturbi del comportamento. I TERMINI BULLISMO E VIOLENZA DI PER SÈ NON SIGNIFICANO NULLA Sebbene il concetto di bullismo sia legato a precise caratteristiche, che implicano una necessità di circoscriverne i confini, per differenziarlo da altri fenomeni simili ma diversi nella sostanza, non di rado questo termine ha assunto nell’uso quotidiano una dimensione che lo estende molto al di là del legittimo. Allo stesso modo parlare di violenza, aggressività o comportamenti violenti e/o aggressivi è talmente descrittivo da essere equiparabile all’anoressia per chi salta qualche pasto o all’esaurimento nervoso, chiave di volta per ogni tipo di disagio psicologico. In un lavoro comparso sull’ultimo numero della rivista Richard e Piggle, numero dedicato in gran parte a queste tematiche, Jeammet (2006), uno dei maggiori studiosi dell’adolescenza propone una lettura differenziale di termini, cha è molto ricca sul piano descrittivo e operativo: “Dobbiamo infatti differenziare violenza e aggressività. L’aggressività agita o limitata alle fantasie di aggressione, riguarda l’oggetto, sia esso raggiunto direttamente dall’attacco o riflesso masochisticamente sul soggetto stesso. La violenza invece è molto più radicale e tende non più all’aggressione ma al diniego, alla distruzione del legame con l’oggetto e alla negazione della dimensione soggettiva dell’altro. L’aggressività testimonia un legame e, in gran parte, lo mantiene. Essa si iscrive – essendo connessa con la libido – in un lavoro di legame, mentre la violenza traduce un movimento di de-oggettualizzazione, cioè di perdita del legame con l’oggetto in una prospettiva di restauro e di protezione dell’identità del soggetto. La violenza è un comportamento narcisistico di difesa dell’identità, a finalità sostanzialmente anti-oggettuale”. Sono diversi un comportamento occasionale da uno reiterato, uno compiuto in solitudine o uno di gruppo, soprattutto sono diversi i vissuti che sottendono tali fenomeni e che rinviano a strutture di personalità altrettanto distinte. 79 Non è solo l’effetto che va analizzato (ciò che accade alle vittime, all’ambiente, alle cose) ma al contrario, ai fini soprattutto di una valutazione di prevenzione ed intervento, il profilo psicologico – relazionale di chi mette in atto tali comportamenti. Dietro comportamenti superficialmente simili coesistono funzionamenti sostanzialmente diversi, per i quali l’indicazione per interventi terapeutici e/o educativi cambia di conseguenza radicalmente. Risorse egoiche, strutturazione del super-io, organizzazione delle difese, risorse emozionali e relazionali sono fattori decisivi, sia pur in costante relazione con i fattori ambientali, e determinano i livelli di resilienza e di compliance che fissano in modo spesso largamente irreversibile gli spazi di trattabilità. Non esiste una soluzione per tutti i problemi o per lo meno non quella che ci aspettiamo. Sembra quasi un’ovvietà, ma non di rado un equivoco a questo livello è fonte di fraintendimenti e conflitti. Saper valutare e delimitare i margini di intervento possibili, saper prevedere con una sufficiente approssimazione i risultati ottenibili, saper selezionare gli strumenti e le strategie idonee è ciò che dovremmo fare in un’ottica di realismo e di professionalità. Mancare questi obiettivi significa esporsi al rischio del velleitarismo, dell’impotenza, della frustrazione. Ma alla base di molti conflitti vi è proprio questo tipo di scarto, che innesca forme di rivendicazione, accuse reciproche, sfide e provocazioni tra coloro che si occupano della situazione problematica. Tenendo conto di quanto detto in premessa, è di fondamentale importanza compiere una valutazione approfondita in particolare per quanto attiene alle caratteristiche di funzionamento psicologico del minore. Questi elementi risultano differenziali sia quali criteri di scelta per un intervento immediato, sia per una prognosi a medio-lungo periodo, sia per la gestione più complessiva degli aspetti di contesto, ove un ruolo cruciale viene ovviamente svolto dalla famiglia. Gli aspetti che vanno indagati sono in particolare: la presenza di problematiche significative nella storia precedente del minore, la cui espressività può ovviamente esprimersi su versanti diversi da quelli puramente comportamentali (collere ed instabilità precoci, oppositività insistita, forme di crudeltà gratuita ecc.); la capacità di accettare la conflittualità, piuttosto che evacuarla e viverla difensivamente in forma persecutoria; la capacità di tollerare la sofferenza e quindi di vivere il disagio sotto forma di dispiacere, vergogna, senso di colpa con la conseguente spinta alla riparazione; 80 la presenza di risorse, sia sul piano cognitivo che emozionale, per arginare il passaggio all’atto immediato. In molti casi il comportamento violento è una reazione difensiva nel tentativo di proteggersi da vissuti depressivi; l’accesso a questi sentimenti viene ostacolato o bloccato dall’angoscia che segnala il pericolo di non riuscire a sopportarli. L’ampiezza degli spazi di contatto con la propria depressività segna quindi l’accessibilità ad una relazione analitica che consente una relazione di aiuto e la possibilità di un sentire, anche se sofferente. L’esclusione di questa parte spinge all’utilizzo di difese controdepressive rigide e impermeabili, che si sostanziano in una rinuncia a percepire il bisogno, proprio e altrui, il ricorso al diniego e alla vera e propria contraffazione del reale. Nella maggior parte dei casi di bullismo e/o di comportamenti violenti, la dinamica nasce però da fattori più gruppali che individuali, o meglio da disposizioni individuali che non si configurano ancora in un registro psicopatologico ma, che, entro dinamiche di gruppo, sintentizzano parti più fragili, o scisse, o semplicemente aderiscono a bisogni interni di appartenenza e/o a pressioni esterne al conformismo. Una valutazione analoga deve riguardare le famiglia, e in particolare il tipo di funzionamento che caratterizza le relazioni al suo interno. In un lavoro su queste tematiche (Fava Vizziello G., Disnan G., Colucci M.R. 1991) abbiamo mostrato come la presenza/assenza di risorse in uno o più membri della famiglia non sia un fattore predittivo ai fini dello sviluppo di un minore, ma siano piuttosto le caratteristiche del funzionamento famigliare e i fantasmi prevalenti che lo caratterizzano a orientare i percorsi di crescita. Il lavoro di Guedeney e Dugravier (2006) apparso su La psichiatrie de l’enfant, offre una rassegna esaustiva degli studi che hanno riguardato i fattori ambientali e famigliari che concorrono a determinare lo svilupparsi di disturbi del comportamento nei minori: si va dalle situazioni di basso livello culturale ed economico, ai percorsi dell’attaccamento, alla presenza di psicopatologia (in particolare l’alcoolismo o la depressione post-partum). Sono però le dinamiche attuali quelle che possono offrire maggiori evidenze ai fini della individuazione delle risorse disponibili per la costruzione di un progetto di intervento. Sebbene le tipologie abbiano tutti i loro limiti, vi sono comunque delle situazioni ricorrenti nelle relazioni famigliari del bambino con disturbi del comportamento: La collusione consapevole: in questi casi il o i genitori si schierano a difesa estrema del figlio e non accettano alcun tipo di mediazione. La difesa riflette quella del bambino (proiezione paranoide) e l’intesa con lui è costruita sulla base di una alleanza narcisistica e l’altro viene vissuto di volta in volta con disprezzo, svalutazione e rabbia. Spesso vi sono 81 esperienze pregresse dei genitori che rivivono nel figlio le loro storie, e si presentano come modelli di riuscita personale contro la minaccia delle istituzioni che si sono frapposte per ostacolarla. Lo sfondo psicopatologico è in genere di tipo borderline-caratteropatico, nell’adulto e a volte anche nel minore, non necessariamente esitanti in condotte francamente delinquenziali o apertamente trasgressive, ma subdolamente ai margini nelle relazioni sociali e nei comportamenti pubblici. Si possono creare alleanze fortissime tra i membri della famiglia, in cui la coesione difensiva funge da collante potentissimo. Facciamo rientrare in questa fattispecie anche le famiglie abusanti, in cui la violenza viene agita sul figlio e questi diventa a sua volta violento. Anche in questi casi l’alleanza si salda a volte in modo perverso, e la relazione aggressore-aggredito viene riscattata dalla vittima divenendo parte attiva di questo circuito. L’unica risorsa è un ricorso al controllo sociale e il richiamo alla regolazione, anche tramite forme di premio-punizione, spesso comunque di scarsa efficacia, evitando l’instaurarsi di rigide dinamiche conflittuali a specchio che rinforzano i vissuti persecutori. La collusione inconsapevole: si esprime attraverso forme di passività, accondiscendenza, debolezza, tolleranza nella gestione educativa del minore. Poiché è impossibile non comunicare, le carenze genitoriali fatte di silenzi, omissioni, blandi interventi educativi, sono vissute come approvazione silente o vera e propria conferma. Di fronte alle richieste istituzionali i genitori si pongono di volta in volta come “assenti”, “muro di gomma”, ambigui, sprovveduti, vittime, ecc., in un registro comunque non di conflittualità ma di scarsa o inadeguata interlocuzione. Il rischio è altissimo quando si trovano a fronteggiarsi minori che hanno già sviluppato forti tratti di oppositività e anaffettività, e genitori con strutture di personalità labili, depressive, e/o con ridotte prestazioni intellettive. La resistenza inefficace: è quella che pongono in essere genitori con sufficienti risorse ma spiazzati da minori che hanno organizzato un funzionamento al limite che si esprime nei tratti che abbiamo già descritto: resistenza agli affetti, rigidità nelle strategie cognitive e relazionali, tendenza insistente all’acting ecc.. L’inefficacia in questi casi è posta soprattutto dalle particolari modalità relazionali del minore, che le ripropone con insistenza e non sembra in grado di modificarsi significativamente né con l’intervento di sostegni positivi né con la messa in atto di punizioni. E’ solo in queste due ultime situazioni che vi sono possibilità di intervento più efficaci, ma come si vede per valutarle è necessario mettere in bilancio tutti gli elementi in gioco, minore e genitori, e la tipologia delle relazioni tra questi. Quanto più il funzionamento del minore è improntato a modalità disfunzionali e si fonda su una alterazione del mondo interno e delle strategie di relazione, tanto più gli adulti che vi si 82 relazionano a qualsiasi livello devono fare i conti con le proprie reazioni emotive (controtransferali diremmo in sede terapeutica) che giocano un ruolo inevitabilmente cruciale. I comportamenti di bullismo e quelli violenti o delinquenziali / trasgressivi in senso lato, se si generano da una personalità già parzialmente ma solidamente organizzata in una strutturazione borderline caratteropatica (che riusciamo a scorgere nei suoi esordi già in bambini dell’età di latenza), comportano un distanziamento e isolamento affettivi e meccanismi di difesa rigidamente improntati all’evitamento e al non riconoscimento dell’altro come oggetto affettivo. L’esperienza dell’adulto, genitore o insegnante, è di profonda frustrazione e impotenza, sia perché non riesce a creare un’alleanza stabile con il minore, sia perché ogni tipo di proposta sembra destinata al fallimento. E’ una sensazione del tutto particolare, che riguarda esclusivamente i minori con questo tipo di problematica: l’esperienza è quella di non potersi mai fidare, e che i momenti in cui vi è un apparente avvicinamento e lo svilupparsi di una temporanea alleanza, prelude a un ulteriore scacco e tradimento in cui il rapporto appare distrutto alla radice. Le espressioni che gli adulti utilizzano in questi casi sono significativamente ricorrenti: X sembra non sentirsi mai a disagio; X non sta male se lo punisco; anche se gli prometto delle ricompense non cambia; sembra che dopo un attimo non pensi più a quanto è appena avvenuto; sembra voler sfidare, voler cercare lo scontro o la punizione. Vi è in effetti a volte la sensazione di una ricerca insistita del limite massimo di resistenza dell’adulto e/o di una sua reazione punitiva, come se il minore già sapesse inconsciamente dove vuole arrivare e non riuscisse a fermarsi in tempo (che è proprio quanto alcuni ci dicono e che corrisponde al concetto freudiano di “delinquente per senso di colpa”). L’aggressività e la distruttività che vengono evacuate in forma sistematica ed indifferenziata hanno un effetto devastante, in quanto non sono riassorbibili per essere rielaborate in forma di reverie, per utilizzare un termine ed un concetto bioniani-winnicottiani. Lo scacco di questa funzione ristrutturante che dovrebbe trasformare quanto vi è di in-elaborato e frammentario in qualcosa di integro e buono restituibile come tale al bambino, comporta che si inneschino controreazioni aggressive e di rifiuto, che sono complementari all’angoscia depressiva dissociata cui si rivolgono. 83 Il genitore come l’educatore (ma a volte lo psicologo, il neuropsichiatria ecc. ) vengono cortocircuitati entro questo meccanismo, e il risultato sono il rifiuto, l’allontanamento l’espulsione. Da parte della scuola vi è spesso una rabbia che spinge a spostare l’aggressività nei confronti della famiglia, chiamata in causa come responsabile di non saper o di non essere stata in grado di mettere in atto una relazione educativa adeguata, ponendo gli insegnanti nelle condizioni attuali di impasse. Da parte della famiglia, quando questa sia non patologica, l’impotenza nella relazione con il figlio si somma con le rivendicazioni e la squalifica proveniente dalla istituzione scolastica, che non è disposta appunto a credere agli sforzi che in realtà vengono compiuti. Ciò chiude un circuito perverso di proiezioni in cui l’attacco del minore ha prodotto aggressività libera che entra proiettivamente in circolo tra gli adulti che se ne occupano, con le scissioni che altrettanto proiettivamente i movimenti aggressivi producono. Si arriva a situazioni limite che sanciscono un vero e proprio fallimento della funzione educativa, laddove la scuola chiama la famiglia di fronte a situazioni che ritiene di non poter gestire, e “consegna” il figlio ai genitori perché se ne occupino loro. Ci è capitato di intervenire in occasioni del genere per cercare di interrompere queste dinamiche perverse, per effetto delle quali una madre ci diceva di vivere da tempo ossessionata dal possibile suono del cellulare che poteva essere la chiamata dell’insegnante con la richiesta di ritirare il figlio di 7 anni dalla scuola a seguito dell’ennesimo atto di trasgressione, secondo un progetto proposto/imposto dalla scuola stessa. Nel lavoro di consulenza con la scuola siamo in questi casi fatti oggetto di richieste che hanno carattere di urgenza, si esprimono in una forma di grande partecipazione emozionale, e oscillano tra la richiesta di una restituzione puramente emozionale, che si concretizza nello spazio per una espressione dell’ansia che viene proposto, a una fortemente operatoria, che deve concretizzarsi nella definizione della problematica e nella indicazione di misure da assumersi in classe e nei confronti della famiglia. ( Disnan G., Fava Vizziello G. 2005). La situazione assume contorni ancora più drammatici in adolescenza: “Il grande potere dell’adolescente si basa sulla sua possibilità di prendere iniziative che possono risultare concretamente molto minacciose per i genitori: “ me ne vado”, “smetto di studiare”, “resto incinta”, “frequento chi voglio”, “tengo il segreto”. Usa questo potere nella contrattazione di ogni giorno, facendolo diventare il centro dei nuovi nuclei di conflittualità della relazione” (Fava Vizziello G., Disnan G. 2003). E ancora il già citato Jeammet: “Pur vedendo emergere in adolescenza un certo numero di violenze, non si può far equivalere violenza e adolescenza. Non solo gli adolescenti sono 84 violenti. Bisogna stare in guardia di fronte alla tendenza degli adulti ad evacuare il problema sui giovani, in modo completamente abusivo. Tuttavia, l’adolescenza resta un momento privilegiato di insediamento di tali comportamenti, sia etero che auto-aggressivi.” L’area degli interventi a questo livello si amplia, coinvolgendo spesso i servizi sociali, quelli psicologici, strutture residenziali, forze dell’ordine. Questa aumentata “potenza” dell’ex bambino ormai diventato ragazzino-ragazzo pone la famiglia e i servizi di fronte a scelte che non possono essere più procrastinate, e a volte si concretizzano in allontanamenti in strutture residenziali o semiresidenziali il cui valore, efficacia e significatività sono molto diversi a seconda che si effettuino: 1) d’intesa con la famiglia, a volte su sua richiesta, in un progetto concordato di sostegno alla genitorialità. Significa che non si connota la funzione genitoriale come cattiva ma semmai come insufficiente di fronte al bisogno, che la si integra e non la si esautora, che la si considera parte essenziale del progetto, in una alleanza tra adulti; 2) in una forma non punitiva o di rifiuto, ma nell’ottica di un aiuto a minore e famiglia. In particolare è evidente che se alla base delle problematiche comportamentali vi sono spesso, come detto, vissuti depressivi, il fantasma dell’abbandono/rifiuto non possa non assumere rilevanza. La consapevolezza di ciò deve portare ad un lavoro di elaborazione con il minore, così come con la famiglia che può viversi come cattiva in quanto rifiutante, piuttosto che incapace. Come si vede la genitorialità, in situazioni come quelle di cui ci occupiamo, si trova in una situazione di scacco a più livelli: 1) si tratta di situazioni spesso poco permeabili all’intervento sia educativo che terapeutico; 2) la rilevanza sociale e la visibilità pubblica delle condotte dei minori espongono le famiglie ad una riprovazione sociale; 3) ciò crea spesso alleanze contrarie e rivendicazioni da parte di altre famiglie; 4) spinge le istituzioni a “scaricare“ sulla famiglia il compito di riportare a una condotta adeguata il minore; 5) produce nel genitore una ferita narcisistica rilevante; 6) si protrae nel tempo per la difficile gestibilità e la frequente cronicità del problema; 7) coinvolge diverse istituzioni. L’insieme di questi fattori produce, ove la genitorialità non sia apertamente collusiva con il funzionamento deviante/trasgressivo del minore una impasse che non investe solo o 85 principalmente i genitori in quanto tali, ma che riguarda l’intera funzione della “genitorialità allargata”. Intendiamo riferirci al fatto che normalmente, accanto e al di là della funzione genitoriale diretta, vi sono altre figure (in primis quelle educative afferenti alla scuola, ma accanto a queste quelle sociali, o altre che operano nel settore ludico-ricreativo, sportivo, ecc.) che svolgono una funzione genitoriale nei confronti dei minori che gli sono in varia forma affidati (Fava Vizziello G., Disnan G. e al 1996). Questo ruolo dovrebbe essere integrativo ma non sostitutivo di quello famigliare, anche se a volte, nei casi di collocazione in strutture residenziali di accoglienza, si avvicina molto a quello di una famiglia alternativa. In ogni caso questa tipologia di problematiche risulta tra quelle che impongono a nostro parere una scelta cruciale alle istituzioni, dalla quale dipende il tipo di gestione che ne viene attuata e le conseguenze che ne derivano. Partiamo dal presupposto che, se tutti gli adulti a contatto con il minore svolgono un qualche tipo di funzione genitoriale, sebbene la famiglia sia quella più responsabile, proprio per questo paradossalmente a volte ciò si dimostra uno svantaggio per la sua possibilità di intervenire positivamente. Ci riferiamo non solo alle situazioni in cui questa sia carente fin quasi all’impotenza, ma anche a quelle in cui può proporre buone risorse generali, che entrano però in scacco di fronte a conflittualità che sono giocate dal minore proprio all’interno della fantasmatica famigliare. Ovviamente tali conflittualità per un effetto di transfert vengono traslocate, proiettate e riprodotte anche altrove, ma la loro valenza in tal caso è comunque diversa, e consente una diversa possibilità di gestione. Entrano semmai in ballo in questo caso le reazioni degli adulti coinvolti che, come detto, rimettono in gioco le proprie esperienze pregresse che sono più o meno attrezzate al confronto con le problematiche in atto. Diventa a questo punto cruciale la rete relazionale che a livello simbolico, ma con inevitabili ripercussioni sul reale, si struttura intorno al minore. In genere le istituzioni richiedono alla famiglia di collocarsi in una posizione di collaborazione, che sul piano descrittivo, così come formulata, può rivestire i significati più diversi. In realtà la collaborazione varia a seconda delle risorse che sono in gioco, e le tipologie di famiglia che abbiamo descritto sono espressione di genitorialità non omologabili. Nella rappresentazione degli operatori ( insegnanti ad esempio) la rete simbolica può essere rappresentabile in questo modo: 86 scuola famiglia minore che significa pensare la famiglia su un piano paritetico rispetto alla scuola, con compiti e risorse diverse ma con eguale qualità della funzione educativo/relazionale. Alternativamente la rappresentazione può essere la seguente: scuola (famiglia) minore in cui la famiglia è di parziale supporto al ruolo della scuola, ma le cui risorse sono sentite come instabili, non sempre sufficienti e/o adeguate. Infine possiamo pensare a un modello di questo tipo: scuola famiglia minore in cui la famiglia viene assunta non solo come parte del sistema, il che è auspicabilmente una costante, ma come elemento nei confronti del quale assumersi funzioni di presa in carico. La famiglia che abbiamo definito a “resistenza inefficace” può essere collocata nei primi due schemi descritti; la famiglia a “collusione inconsapevole” soprattutto nel secondo, quella a “collusione consapevole” nel terzo. Una risposta mirata al problema del bullismo e della violenza dei minori consiste quindi nell’individuare i contorni delle genitorialità che li accompagnano, nel differenziarne risorse e limiti, e nel collocarsi, come istituzioni, in una giusta posizione di collaborazione/confronto, avendo per quanto possibile una visione realistica degli obiettivi raggiungibili e delle strategie più indicate per raggiungerli. Questo ci riporta alle premesse che avevamo posto, e che fanno da contorno e linea per la scelta delle strategie; senza una attenzione precisa a questi fattori si rischiano aspettative velleitarie ed inevitabili frustrazioni che scatenano spesso rabbie e conflitti tra e con professionisti e famiglie, proprio in un’area dello sviluppo in cui aggressività distruttività e violenza sono spesso in circolo in forme scarsamente elaborate ed instabili. 87 BIBLIOGRAFIA Aichhorn A. (1951) : "Verwahrloste jugend“. Verlag Vienna Trad. It. “Gioventù disadattata” Città Nuova Roma 1978 Battagliese G. “ L’allievo aggressivo” Masson Milano 1993. Bowlby J. (1944) : “Fourty-four juvenile thieves: their characters and home-life”. In International Journal of Psychanalysis XXV trad. Francese “Quarante –quatre jeunes voleurs: leur personnalitè et leur vie familiale". In La psychiatrie de l’enfant vol. XLIX 1/2006. Cohen A.K. (1955) : “Delinquent boys, the culture of gang”. Free Press Glencoe Illinois. Trad. 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La risposta, che sempre più scuole stanno iniziando a percorrere, si riassume nell’espressione ‘Politica Scolastica Antibullismo’. Cos’è in concreto la Politica Scolastica Antibullismo? Potremmo dire che consiste nell’atto consapevole, deliberato e organizzato con cui la scuola, in tutte le sue componenti, stabilisce che il bullismo non è accettabile in alcuna forma e che verranno attuate tutte le misure preventive e rieducative necessarie a contrastarlo. Possiamo attenderci che tutti gli insegnanti, i genitori e gli allievi siano immediatamente d’accordo nel considerare il bullismo un problema reale e preoccupante? E nell’impegnarsi attivamente contro di esso? Anche la persona più ottimista non potrà aspettarsi tanto dalla vita. Cosa fare allora? La soluzione migliore sembra essere quella di partire con un gruppo ristretto di persone molto motivate e già sensibili nei confronti del problema. Quali funzioni avrebbe questo gruppo? Fondamentalmente, il team antibullismo deve costituire il motore che attiva e guida tutto il percorso di elaborazione della Politica Scolastica Antibullismo, soprattutto nelle fasi critiche. In specifico, il team dovrebbe: 1. redigere la Politica Scolastica Antibullismo; 2. favorire il progressivo coinvolgimento di tutte le componenti scolastiche; 3. mantenere alta la motivazione; 4. supervisionare e rivedere l’intero programma; 5. fornire assistenza ai singoli casi. Chi fa parte di questo team?. Un team efficace dovrebbe includere: 5-6 insegnanti; 2-3 genitori; 1-2 specialisti dei servizi territoriali; 1-2 studenti. Le funzioni e le responsabilità del team richiedono una preparazione di base, che permetta ai componenti di acquisire le conoscenze e le competenze necessarie ad affrontare il fenomeno ‘bullismo’ ed a guidare 90 l’intero processo scolastico. In questo ambito esistono esperienze differenti, che di volta in volta sottolineano maggiormente i momenti di discussione o quelli di vero e proprio training. Una volta costituito, il team antibullismo si trova di fronte un compito molto importante e delicato, che consiste nell’analisi del problema ‘bullismo’ a scuola. Questo passo ha alcune funzioni principali: 1. permette di avere una visione del fenomeno per come si verifica concretamente nei suoi aspetti qualitativi e quantitativi; 2. fornisce una linea di base, ossia una stima iniziale del problema, con la quale confrontare gli effetti dei vari interventi che verranno adottati; 3. infine, agisce come un potente motivatore al cambiamento per tutte le componenti scolastiche: insegnanti, genitori, allievi, ecc. Si tratta di un processo molto delicato e complesso, che richiede di prendere in esame molte dimensioni, con differenti strumenti e chiamando in causa informatori diversi. Essenzialmente, dovremmo poter raccogliere tre tipi di informazione: 1. frequenza degli episodi di bullismo; 2. tipologie e modalità (si tratta di bullismo fisico o verbale? Avviene in maniera nascosta o in presenza di altri allievi? ecc.); 3. luoghi e momenti (in quali ambienti si manifesta più frequentemente? Ed in quali momenti?) Ad esempio, se capita soprattutto nelle ultime ore della giornata potrebbe essere utile una diversa organizzazione didattica, che eviti di relegare in quei momenti le attività meno supervisionate dall’adulto. I tre indicatori riguardano soprattutto l’estensione e la gravità del problema. Potremmo tuttavia essere interessati ad includere anche alcuni indicatori relativi alle modalità con cui la scuola affronta il bullismo, almeno nella percezione degli allievi. Ad esempio potremmo raccogliere informazioni sulle persone alle quali si rivolgono gli allievi quando hanno un problema di bullismo osservato o subito: insegnante, genitori, amici, ecc. Questo dato è molto importante nel momento in cui progettiamo gli interventi antibullismo. Infatti, qualora rilevassimo che nella grande maggioranza dei casi i ragazzi non si rivolgono agli insegnanti, allora la nostra politica antibullismo dovrebbe prevedere un rafforzamento delle relazioni allievo-insegnante. Finora il lavoro è stato compiuto prevalentemente dal team antibullismo. A questo punto, però, si tratta di allargare il coinvolgimento delle altre componenti della scuola, attraverso un processo di sensibilizzazione al problema ‘bullismo’ e di motivazione al cambiamento. Gli obiettivi di questa fase sono: 91 1. diffondere conoscenze corrette sul bullismo, sulle sue manifestazioni, sulle tipologie e sulle possibili cause; 2. confutare falsi miti e credenze, che giustificano il bullismo; 3. informare sull’incidenza del problema a scuola. Si tratta cioè di riportare i dati emersi nella fase precedente; 4. motivare una partecipazione allargata da parte degli insegnanti, degli allievi e possibilmente delle famiglie. Inoltre, sarebbe opportuno un coinvolgimento anche di enti ed istituzioni del territorio, in modo tale da creare una rete; 5. presentare il percorso antibullismo che si vuole intraprendere, con le ricadute positive sia per il benessere emotivo che per l’apprendimento degli allievi; 6. inviare un segnale ai bulli. In altri termini, questa fase di sensibilizzazione manda un messaggio chiaro ai soggetti aggressivi: “ci stiamo attrezzando per fermare il bullismo. Da oggi non sarà più tollerata alcuna forma di aggressività a scuola”. In che modo è possibile svolgere questa opera di sensibilizzazione? Anche in questo caso, disponiamo di alcuni strumenti molto efficaci. Il primo passo consiste nell’organizzare riunioni con gli insegnanti, attraverso cui favorire una diffusione progressiva delle conoscenze in tutto il tessuto scolastico, nonché alzare il livello di guardia nei confronti del bullismo. L’obiettivo di fondo, di questi incontri, è quello di raggiungere il massimo grado possibile di coerenza educativa, attraverso la condivisione di almeno i seguenti punti: 1. un vocabolario relativo al bullismo; 2. alcune ipotesi esplicative; 3. alcune strategie di gestione delle situazioni problematiche. La maggior parte delle esperienze, condotte sia in Italia che all’estero, sottolineano che il successo dei percorsi antibullismo è strettamente collegato al grado di coinvolgimento degli studenti. Solo in questo modo, infatti, sarà possibile una relazione basata sulla collaborazione, sul rispetto e sulla fiducia reciproca. Altrimenti, anche il percorso antibullismo sarà visto come l’ennesimo armamentario di cui si dota l’insegnante per gestire, in modo unidirezionale, la disciplina in classe. Il coinvolgimento degli allievi comporta numerosi vantaggi: si sviluppa la consapevolezza del problema; aumenta la probabilità che gli allievi riferiscano gli episodi di bullismo, in quanto avvertono che la scuola si sta organizzando in maniera efficace per aiutarli; viene favorita la proposta di soluzione da parte degli studenti stessi, incrementando quindi la loro motivazione; 92 si esercitano una serie di abilità di comunicazione e di confronto interpersonale, attraverso la riflessione su cos’è il bullismo, come si manifesta, come si contrasta, ecc. I gruppi possono essere costituiti inizialmente dagli allievi di una classe, in modo tale che sia presente già un certo livello di conoscenza reciproca. In alcuni casi, però, quando la classe è caratterizzata da fenomeni di bullismo, perpetrati da alcuni ragazzi, può essere utile anche organizzare dei gruppi di discussione trasversali tra le classi. In questo modo, la piccola gang viene smembrata e viene ridotto il potere di ciascuno dei suoi membri. Questi momenti di discussione richiedono due accorgimenti molto rilevanti: 1. in primo luogo, devono essere programmati con molta attenzione, senza lasciarli all’improvvisazione o alla buona volontà del singolo insegnante. Infatti, questo passo rappresenta il primo chiaro segnale che viene inviato ai ragazzi: bulli, vittime e spettatori. Qualsiasi elemento di incertezza o confusione determinerà nei ragazzi un senso di completa sfiducia, compromettendo tutto il percorso successivo; 2. in secondo luogo, l’adulto deve essere in grado di gestire questi gruppi con elevata competenza, evitando sia atteggiamenti eccessivamente direttivi ed autoritari, sia comportamenti permissivi. Nel primo caso, infatti, la discussione si trasformerebbe in una sorte di lezione o di interrogazione, annullando completamente la partecipazione dei ragazzi; nel secondo caso, invece, il gruppo diventerebbe una sorta di ring, nel quale i soggetti più aggressivi finirebbero col prevalere. Attraverso una discussione guidata, in cui si alternano momenti di lavoro individuale, piccoli gruppi e analisi collettiva, si cerca di evidenziare i seguenti punti: cos’è il bullismo; come si manifesta; quali sono le conseguenze del bullismo. I genitori sono degli interlocutori molto importanti, in quanto il loro coinvolgimento garantisce una piena coerenza educativa tra scuola e famiglia. Purtroppo, non sempre questi rapporti sono positivi. Spesso, soprattutto in presenza di comportamenti problematici, insegnanti e genitori si rimpallano le accuse di chi sia il responsabile. Questa situazione è la conseguenza del fatto di affrontare il dialogo con la famiglia soprattutto nei momenti di crisi, quando cioè il ragazzo ha compiuto qualche atto aggressivo. Viceversa un dialogo costruttivo dovrebbe essere perseguito nei momenti di quiete, quando non sono presenti problemi particolari e tutti i protagonisti hanno un tono emotivo più calmo e controllato. È anche importante considerare il rapporto scuola-famiglia come una vera e propria partnership educativa, nella quale nessuno ha un ruolo predominante o di accusa nei confronti 93 degli altri. Anche in questo caso, si tratta di un punto spesso delicato. Infatti, una lunga e criticabile tradizione psicopedagogica individua nella famiglia l’origine di tutti i mali dei ragazzi. Questa impostazione, ampiamente diffusa in passato nell’opinione pubblica, induce i genitori su una posizione difensiva, che non facilita il rapporto con la scuola. Ovviamente, è compito soprattutto degli insegnanti assumere un atteggiamento relazionale non giudicante nei confronti della famiglia. Lo strumento principale, per favorire questo rapporto, può consistere in una serie di incontri, durante i quali: 1. vengono affrontate le principali tematiche del bullismo. Questa comunicazione dovrebbe consistere di due componenti molto importanti. Da un lato, dovrebbe evidenziare i danni che il bullismo può provocare, nonché l’incidenza del fenomeno. In questo modo, si cerca di motivare anche le famiglie ad una maggiore attenzione nei confronti di questo problema. Dall’altro lato, però, si dovrebbero indicare ai genitori le numerose strategie, di cui si dispone attualmente, per sconfiggere il bullismo. In altri termini, si tratta di indurre un atteggiamento positivo e proattivo. In caso contrario, di fronte alla paura del bullismo ed alla percezione della sua ineluttabilità, potrebbe comparire semplicemente un atteggiamento di inerzia operativa; 2. si illustra il processo antibullismo che la scuola sta costruendo. L’obiettivo è quello di spiegare la logica e le ragioni di questo lavoro. Inoltre, devono essere esplicitate le modalità di coinvolgimento dei genitori stessi nell’elaborazione e nell’implementazione della politica scolastica. Qualunque siano le modalità scelte per condurre tali incontri, l’obiettivo di fondo è quello di rendere anche i genitori protagonisti di questo lavoro. A fini informativi, possono essere utilizzate le diapositive allegate. Il successo della politica scolastica antibullismo dipenderà in parte anche dalla capacità di trovare risorse nel territorio. Al fine di raggiungere questo traguardo, possono essere organizzate delle conferenze allargate a tutta la comunità di appartenenza, prevedendo eventualmente inviti specifici ad alcuni enti significativi. Se la fase di sensibilizzazione e di motivazione ha avuto successo, aumentando la partecipazione degli insegnanti, dei genitori e degli allievi, è possibile finalmente dedicarsi all’elaborazione concreta della Politica Scolastica Antibullismo. Viceversa, se quest’ultimo documento viene redatto in assenza di un coinvolgimento allargato e motivato, allora il rischio è quello di produrre semplicemente un altro pezzo di carta, che non verrà mai attuato e che finirà in un cassetto. 94 Non esiste un unico modo di elaborare la Politica Scolastica Antibullismo. Né è possibile fissare in maniera rigida le componenti di essa. Queste scelte dovranno essere compiute in base alle caratteristiche della singola scuola ed in base alla gravità del problema. Il gruppo incaricato di questo lavoro non dovrebbe preoccuparsi di elaborare una Politica Scolastica Antibullismo immediatamente perfetta e completa. L’aspetto importante, infatti, non è tanto il risultato finale, quanto il processo attivato. In altri termini, l’elemento veramente cruciale risiede nell’aumento di consapevolezza sul problema, derivante dai differenti momenti di discussione attivati. In linea generale, il team nel suo lavoro deve rispettare fondamentalmente tre criteri: 1. le scelte devono essere finalizzate non tanto a stabilire la verità assoluta su quanto avviene a scuola ed a punire i colpevoli di bullismo, quanto a risolvere i problemi. Infatti, talvolta alcune opzioni operative, pur colpendo il bullo, non eliminano il problema di passività della vittima, che continuerà a subire atti di prepotenza; 2. la precisione della Politica deve coniugarsi con una necessaria flessibilità, che permetta di apportare eventuali modifiche. Una Politica troppo rigidamente fissata, infatti, non sarebbe permeabile ad alcun miglioramento. D’altro canto, anche un’eccessiva flessibilità aprirebbe la strada a continue incoerenze educative. La grande responsabilità del team sarà allora quella di trovare un adeguato equilibrio tra queste due dimensioni; 3. infine, è importante che la Politica Scolastica Antibullismo preveda sempre due componenti: una reattiva ed una proattiva. La componente proattiva comprende una serie di interventi e di strategie educative di tipo preventivo, volte cioè a promuovere un clima positivo e cooperativo nella scuola e nelle classi. In questo modo, si riduce la probabilità di comparsa di comportamenti problematici. La componente reattiva, invece, implica specifici interventi volti a gestire situazioni palesi di bullismo. L’obiettivo, in questo caso, è quello di ridurre la durata degli episodi aggressivi, nonché le loro conseguenze. Una Politica Scolastica Antibullismo che puntasse esclusivamente sulla componente proattiva non sarebbe in grado di affrontare i momenti di crisi. D’altro canto, la presenza solamente delle strategie reattive significherebbe vivere in un costante stato di emergenza. Rispettate queste tre condizioni, il team antibullismo può utilmente raccogliere informazioni su quanto è stato già fatto in altre scuole. A questo proposito, possono tornare utili pubblicazioni, siti internet o il confronto con insegnanti e dirigenti di altre realtà. Arriviamo infine ai contenuti ed ai capitoli della Politica Scolastica Antibullismo. 95 L’APPROCCIO EDUCATIVO GENERALE Il primo capitolo dovrebbe definire la cornice concettuale entro cui collocare la parte operativa della Politica Scolastica Antibullismo. 1A. Quali sono le finalità della scuola? 1B. Quale approccio educativo generale adottiamo? LE REGOLE A SCUOLA Il secondo ampio tema da definire è quello delle regole. In ambito scolastico, esistono moltissime regole, formali ed informali. Molti problemi disciplinari nascono proprio dall’infrazione di qualcuna di esse. Viene talvolta da chiedersi: se fosse proprio la regola a provocare il problema di comportamento. In altri termini, siamo così sicuri che le regole siano veramente funzionali? 2A. Quali regole adottiamo a scuola ed in classe? 2B. Quali e quante sanzioni e premi utilizziamo? 2C. Quali modalità utilizziamo per la diffusione delle regole? LA DEFINZIONE DI BULLISMO Precisati i valori di base e le regole generali di comportamento, si arriva al punto chiave, ossia la definizione di bullismo. 3A. Cos’è il bullismo? 3B. Esistono delle forme di bullismo più gravi di altre? 3C. Quali differenze esistono tra il bullismo ed altri comportamenti problematici? 3D. Quando siamo oltre il bullismo? LE STRATEGIE DI PREVENZIONE Abbiamo già detto che la Politica Scolastica Antibullismo deve prevedere una componente proattiva, ossia un insieme di strategie volte a promuovere comportamenti prosociali tra i ragazzi. Infatti, gran parte della sfida al bullismo si gioca sul piano preventivo. Se perdiamo questa occasione, difficilmente potremo raggiungere risultati soddisfacenti e duraturi. 4A. Che tipo di valori prosociali vogliamo promuovere a scuola ed in che modo? 4B. Come possiamo individuare ed intervenire sui gruppi a rischio? 4C. In che modo gli insegnanti e gli altri adulti possono mostrare agli allievi delle modalità non aggressive di risoluzione dei conflitti? 96 LE MODALITA’ DI RILEVAZIONE Il quinto capitolo è molto importante, forse il più critico per il successo dell’intero percorso. Infatti, si tratta di progettare ed attuare delle modalità di rilevazione e di individuazione dei fenomeni di bullismo. Se questo sistema non funziona in maniera ottimale, qualsiasi strategie educativa e riabilitativa risulterà inutile o addirittura dannosa. 5A. Chi può denunciare gli atti di bullismo? 5B.Con quali modalità gli allievi dovrebbero denunciare gli atti di bullismo? 5C. Cosa e come dovrebbe essere registrato? 5D.Chi è il responsabile di questo sistema? 5E.Come è possibile individuare le denunce false? LE MODALITA’ DI RISPOSTA Eccoci giunti al punto che attira maggiormente l’attenzione degli insegnanti, ossia le modalità di risposta al bullismo. Anche in questo caso, dobbiamo affrontare una serie di questioni molto delicate. 6A. Chi dovrebbe rispondere agli atti di bullismo? 6B. Quando e come si dovrebbe rispondere? 6C. È necessario predisporre modalità di risposta differenti per le diverse modalità di bullismo? 6D. In che modo possiamo supportare le vittime? 6E. Cosa si dovrebbe fare se i fenomeni di bullismo persistono? 6F. Quando e come si dovrebbero coinvolgere i genitori? I SISTEMI DI VERIFICA La verifica dell’intera Politica Scolastica Antibullismo è fondamentale. A questo punto, prevediamo i seguenti passaggi. 7A. In che modo si verificherà se la politica antibullismo funziona? 7B. Chi sarà coinvolto in questo processo? 7C. Cosa si dovrebbe fare se la politica antibullismo non funziona? LE RISORSE E LE RESPONSABILITA’ Siamo giunti da ultimo ad uno dei punti che preoccupa maggiormente la dirigenza scolastica, ossia le risorse necessarie. Dedichiamo allora qualche parola anche a questi aspetti, precisando subito che non si tratta solamente di risorse economiche. Spesso, anzi, risorse umane e flessibilità strutturale risultano ancora più decisive. 8A . Quali cambianti dovrebbero essere introdotti nella struttura e nelle routine scolastiche? 97 8B. Quali cambiamenti dovrebbero essere introdotti nelle modalità di gestione della disciplina? 8C. Quali e quante risorse sono necessarie per implementare una politica antibullismo? Esiste un rischio sempre in agguato: la Politica Scolastica Antibullismo può trasformarsi in un semplice pezzo di carta, in un’affermazione di intenti priva di reali ricadute operative. E, nel giro di poco tempo, finisce dimenticata o, peggio ancora, viene ricordata con delusione e frustrazione. Per evitare questi rischi, è necessario non fermarsi dopo la redazione della Politica, ma proseguire con altri passi fondamentali. L’applicazione delle strategie contenute nella Politica Scolastica Antibullismo richiede ovviamente la padronanza, da parte di tutte le componenti della scuola, di alcune abilità di base. A tal fine, dovrebbe essere prevista una formazione allargata. Oltre a questa formazione iniziale, dovrebbero essere previsti dei momenti specifici per i nuovi insegnanti che arrivano a scuola nel corso degli anni. Ognuno di essi dovrebbe ricevere informazioni approfondire sulla Politica Scolastica Antibullismo, nonché una formazione in tal senso. In questo modo, è possibile garantire una buona coerenza educativa, nonostante l’elevato tasso di mobilità che caratterizza la nostra scuola. Inoltre, non dovrebbe essere trascurata neanche la possibilità di coinvolgere in questo processo formativo i genitori, almeno nelle due fasi iniziali di conoscenza del problema. Relativamente alla parte di acquisizione di abilità, potrebbe essere previsto un percorso differenziato di Parent Training. Un passo molto importante, sia per motivare tutte le componenti della scuola sia per ottenere appoggi esterni, consiste nella fase di pubblicizzazione della Politica Scolastica Antibullismo. Questo obiettivo può essere raggiunto attraverso un lancio iniziale (ad esempio, una conferenza allargata alla comunità) ed una serie di strumenti (newsletter, sito internet della scuola, incontri periodici, ecc.). Affrontiamo a questo punto un argomento molto delicato, che soprattutto in passato ha indotto alcune scuole a guardare con una certa preoccupazione la prospettiva di elaborare una Politica Scolastica Antibullismo. C’è il timore, infatti, che dotarsi di specifici strumenti antibullismo significhi implicitamente ammettere l’esistenza dello stesso, inducendo così alla fuga molte famiglie. Purtroppo, si tratta di una paura giustificata, sebbene del tutto controproducente e paradossale. Infatti, ogni giorno la cronaca ci riporta episodi di bullismo, che riguardano fasce d’età sempre più giovani. Nessun contesto sociale o geografico sembra completamente esente da questo problema. Dotarsi di una Politica Scolastica Antibullismo, allora, significa adottare uno strumento per prevenire il fenomeno, anche laddove esso non esiste. Gli anni passati, 98 infatti, hanno mostrato che l’inerzia operativa può rappresentare un terreno molto fertile per l’insorgenza di questa problematica. Basti pensare che solo 10-15 anni l’idea di babygang sembrava confinata ai ghetti delle grandi città americane. Purtroppo, questo fenomeno sembra ormai sbarcato anche da noi. Inoltre, la Politica Scolastica Antibullismo non deve essere vista come uno strumento di repressione. Infatti, una sua parte rilevante consiste nella trasmissione di una serie di abilità (prosociali, comunicative, emozionali, ecc.) che comunque migliorano il benessere e la qualità della vita a scuola, a prescindere dalla presenza di bullismo. La fase di diffusione della Politica Scolastica Antibullismo, allora, serve anche a dissipare questi dubbi e ad illustrare le potenzialità educative del percorso intrapreso. L’ultimo passo consiste nel monitoraggio continuo della Politica Scolastica Antibullismo. Ciò significa che periodicamente dovremo verificare se gli episodi di aggressività diminuiscono, si mantengono stabili o addirittura peggiorano. Quest’opera di controllo può essere effettuata lungo un duplice canale: 1. da un lato, il sistema di rilevazione (vd. punto 5) permette di individuare tempestivamente delle improvvise modificazioni nell’incidenza del bullismo. In tali casi, ovviamente è necessario che il team antibullismo si attivi rapidamente per trovare una risposta efficace; 2. dall’altro lato con cadenza almeno annuale dovremmo ripetere la rilevazione iniziale (ad esempio, tramite il questionario agli studenti). Cosa ci possiamo attendere da una Politica che funziona? Fondamentalmente, dovremmo riscontrare un tasso di riduzione dei fenomeni di bullismo almeno del 20% l’anno. Tuttavia, è necessario tenere sempre presenti due cautele. In primo luogo, è molto probabile che nei primi tempi gli episodi di bullismo sembrino aumentare. Non si tratta tuttavia di un incremento reale, quanto del fatto che più ragazzi sono disponibili a denunciare fenomeni di bullismo. In altri termini, non bisogna allarmarsi di questo dato, in quanto segnala che la Politica sta funzionando bene. Pertanto, la riduzione del bullismo dovremo verificarla a partire almeno dal secondo anno. In secondo luogo, il monitoraggio dovrebbe considerare più indici, senza limitarsi alla semplice frequenza degli atti aggressivi. Nella tabella seguente sono riportati gli indicatori di cambiamento più importanti. 99 Maggiore disponibilità a denunciare atti di bullismo Un elemento assolutamente da non trascurare riguarda il numero di allievi che sono disposti a riferire all’adulto gli atti di bullismo osservati o subiti. Questo indice, infatti, testimonia il fatto che la Politica Scolastica Antibullismo funziona in maniera ottimale e, soprattutto, appare credibile agli occhi degli studenti. Riduzione del numero degli episodi di bullismo Un secondo indicatore riguarda la riduzione della frequenza degli atti di bullismo in un determinato arco temporale. Riduzione della durata dei singoli episodi Talvolta, è preferibile avere una stabilità nella frequenza degli episodi, ma una riduzione nella loro durata. Infatti, i danni emotivi e fisici per la vittima sono spesso correlati alla continuità del bullismo. Pertanto, ridurre questo indice significa limitare anche la gravità delle conseguenze. Minore numero di spettatori passivi La Politica dovrebbe agire anche sugli spettatori passivi. Nel momento in cui un maggior numero di essi è disponibile a denunciare gli episodi di bullismo o a difendere la vittima, avremo compiuto un importante passo avanti. Infatti, anche se il numero di bulli rimane costante, questi ultimi avranno minori possibilità d’azione. Riduzione del fenomeno di gruppo In maniera del tutto simile, un indicatore di successo è rappresentato dalla riduzione del fenomeno di gruppo del bullismo. Comparsa di comportamenti prosociali Gli ultimi indicatori sono di segno positivo. È importante verificare la comparsa di comportamenti prosociali, che possono rappresentare un argine importante nello sviluppo del bullismo. Miglioramento del rendimento scolastico Infine, il miglioramento nel rendimento scolastico degli allievi può essere assunto quale indice, seppure indiretto, della riduzione dei fattori stressogeni nella scuola, compreso ovviamente il bullismo. 100 SETTIMANA PROVINCIALE DELLE SOLIDARIETÁ 2006 “PREPOTENTI, BULLI E VIOLENTI A CASA E A SCUOLA”: Conoscerli, comprenderli e contrastarli” Strategie d’intervento antibullismo: la costruzione della ‘safe school’ Daniele Fedeli Ricercatore e Docente di Psicologia delle Disabilità Università degli Studi di Udine Emergenza bullismo? 101 I nuovi volti del bullismo Abbassamento della soglia d’età Fenomeno di gruppo Aumentata incidenza del sesso femminile Bullismo contro soggetti deboli Normalità 102 Verso una ‘safe school’ Formazione Team Funzioni: Coinvolgere tutte le componenti Mantenere alta la motivazione Fornire assistenza ai singoli casi Supervisionare e rivedere l’intero programma Composizione: 5-6 insegnanti 2-3 genitori 1-2 specialisti dei servizi territoriali 1-2 studenti (scuola superiore) Training: Acquisizione di conoscenze su cause, tipologie, ecc. Acquisizione di strategie d’indagine e d’intervento Verso una ‘safe school’ Formazione Team Analisi del problema Indagine sul bullismo Indici Analisi organizzativa Frequenza Tipologie e modalità Luoghi e momenti Strumenti Questionario per studenti Rating scale per insegnanti Analisi degli ambienti Peer nomination 103 La Strathclyde Map Verso una ‘safe school’ Formazione Team Analisi del problema Sensibilizzazione Elaborazione P.S.A. 1. L’approccio educativo generale 2. Le regole a scuola 3. La definizione di bullismo 4. Le strategie per prevenire il bullismo 5. Le modalità di rilevazione 6. Le modalità di risposta al bullismo 7. Le risorse e le responsabilità 8. I sistemi di verifica del programma 104 Verso una ‘safe school’ Formazione Team Analisi del problema Sensibilizzazione Elaborazione P.S.A. Formazione allargata Intervento antibullismo Prevenzione Gli interventi preventivi Training d’abilità Modulo d’ingresso di alfabetizzazione emozionale Sensibilizzazione al problema Strutturazione dell’ambiente interpersonale Circle time Cooperative learning Strutturazione dell’ambiente fisico 105 Gli interventi preventivi Il modulo introduttivo di alfabetizzazione emozionale Periodo: primo anno di ciascun ciclo scolastico. Obiettivi: autoregolazione emozionale, rapporti prosociali tra allievi, atteggiamento cooperativo. Modulo avanzato (10h) Modulo di base (20h) Verso una ‘safe school’ Formazione Team Analisi del problema Sensibilizzazione Elaborazione P.S.A. Formazione allargata Intervento antibullismo Prevenzione Intervento sulla crisi 106 L’intervento sulla crisi Ruolo centrale degli allievi 4° quadrante -Tribunali antibullismo 1° quadrante -Peer mentoring -Peer counselling -Peer mediation Approccio punitivo Approccio educativo 3° quadrante -Contratti educativi 2° quadrante -No blame approach -Metodo dell’interesse condiviso Ruolo centrale dell’insegnante L’approccio senza colpevoli Bullo Vittima Bullo Vittima Resoconto Condivisione empatica Gruppo Gruppo Proposta di soluzioni ed assunzione di responsabilità 107 La mediazione tra pari step 1: collocazione del mediatore step 2: approccio ai soggetti in conflitto step 3: presentazione delle regole della mediazione step 4: racconto del primo contendente step 5: racconto del secondo contendente step 6: generazione di soluzioni step 7: valutazione e scelta della soluzione step 8: incontro di verifica La mediazione tra pari Supervisore (Insegnante o altra figura) Responsabile del gruppo 1 Responsabile del gruppo 2 Mediatore Mediatore Mediatore Mediatore Mediatore Mediatore Mediatore Mediatore Incontri e assistenza quotidiani Incontri settimanali o quindicinali di supervisione 108 Verso una ‘safe school’ Formazione Team Analisi del problema Sensibilizzazione Elaborazione P.S.A. Monitoraggio Formazione allargata Intervento antibullismo Prevenzione Intervento sulla crisi Il monitoraggio 1. Sistema di registrazione continua dei fenomeni di bullismo 2. Indagine tramite questionario a cadenza annuale 3. Riduzione fisiologica annuale: - 15/20% 4. Primo anno di applicazione: incremento dei fenomeni riferiti 109 Il successo 1. Riduzione degli atti di bullismo riportati (dopo il primo anno). 2. Ridotta durata dei fenomenti di bullismo. 3. Incremento della disponibilità a denunciare gli episodi di bullismo. 4. Minore numero di spettatori passivi o complici. 5. Riduzione del fenomeno di gruppo. 6. Miglioramento dei progressi compiuti dagli allievi. 110 MODELLI, COMPORTAMENTI E DINAMICHE DI GRUPPO NEL BULLISMO A SCUOLA Dott.ssa Marina Camodeca Ricercatrice di Psicologia dello Sviluppo, Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti Pescara La scuola costituisce un ambiente particolare e fondamentale nella vita di un bambino. Oltre al notevole contributo che la scuola fornisce allo sviluppo cognitivo del bambino, che apprende e impara, l’ambiente scolastico costituisce anche un contesto privilegiato per lo sviluppo sociale, comportamentale, emotivo e morale. A scuola aumentano per il bambino le possibilità di interagire con i pari, e quindi le possibilità di comunicare, condividere, proporre, collaborare. Le relazioni diventano più selettive, basandosi via via sulle affinità, sulla comunanza di interessi e di attività. Inoltre, i pari contribuiscono alla formazione dell’autostima, alla costituzione del ruolo sociale all’interno di un gruppo, alla conoscenza di sé, all’apprendimento di alcuni comportamenti più adatti all’interazione. È necessario pertanto prendere in esame le relazioni che si instaurano con i coetanei per poter comprendere eventuali difficoltà del bambino, comportamenti scorretti, o addirittura sintomi di patologie, e poter, in definitiva, mettere in atto interventi efficaci. Nel presente lavoro, il focus è sul fenomeno del bullismo e della vittimizzazione a scuola. Il problema del bullismo sta attirando sempre più l’attenzione di genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, psicologi e di chiunque lavori in ambito scolastico. I comportamenti e le dinamiche di gruppo innescati da fenomeni di prepotenza si prestano particolarmente ad essere analizzati per cercare di arginare il fenomeno o di indagare altri processi evolutivi. Cerchiamo di capire bene cosa si intende con il termine “bullismo”, che è una traduzione, ormai comunemente accettata, dell’inglese “bullying”. Secondo la definizione di Olweus (1993), diciamo che un bambino subisce prepotenze quando viene esposto, ripetutamente e per lungo tempo, ad azioni negative da parte di uno o più compagni. Il bullismo è una particolare forma di aggressività, ed è importante capire la differenza tra i due fenomeni per non commettere l’errore di confonderli. Per parlare di bullismo è necessario che l’azione aggressiva sia intenzionale, ingiustificata, non provocata, mirata a fare del male, continuata nel tempo e frequente e, soprattutto, che implichi una disparità di potere o forza tra il bullo e la vittima. 111 Le azioni aggressive con cui il bullismo si manifesta possono assumere diverse forme e possono essere azioni aggressive di tipo diretto fisico (es. prendere a calci, picchiare, spingere…), diretto verbale (es. insultare, prendere a parolacce…), oppure indiretto (escludere da un’attività, parlare dietro le spalle…). In questo caso si parla anche di bullismo relazionale o psicologico, perché l’intento è quello di danneggiare o controllare le relazioni con i pari. I maschi e le femmine spesso si differenziano nell’uso delle due forme, soprattutto nei primi anni della scuola dell’obbligo. Infatti, sembra che, mentre i maschi agiscono maggiormente prepotenze di tipo diretto, le femmine sono più abili nel bullismo indiretto, anche a causa di una diversa educazione e di un diverso ruolo sociale. Riguardo ai luoghi e ai momenti in cui avvengono episodi di prepotenza, c’è da dire che i bambini prediligono quelli in cui è minima la supervisione dell’adulto, cioè luoghi come i bagni o i corridoi, e momenti come la ricreazione o l’entrata/l’uscita da scuola. Il bullismo è un fenomeno di gruppo che coinvolge l’intera classe. Ecco perché è importante prendere in esame i vari ruoli che ogni compagno assume per poter indagare le dinamiche sociali che emergono. Oltre al bullo e alla vittima, infatti, sono coinvolti il seguace del bullo, il difensore della vittima e l’esterno (Salmivalli et al., 1996). Possiamo quindi affermare che il fenomeno del bullismo è determinato dalle caratteristiche personali di ogni bambino insieme alle caratteristiche del contesto sociale. Vediamo adesso quali sono le caratteristiche comportamentali, emotive, sociali dei soggetti coinvolti e come queste possono influenzare l’intera dinamica: Bullo: utilizza forza e potere per raggiungere i propri scopi. È caratterizzato da dominanza, distruttività e impulsività. In genere manca di empatia e di altre emozioni morali, come il senso di colpa e la vergogna (Menesini et al., 2002). Ha un’attitudine positiva verso l’aggressività e tende ad attribuire intenzioni ostili agli altri, anche in assenza di elementi che potrebbero definire una reale intenzionalità (Camodeca & Goossens, 2005). È spesso rifiutato dai compagni, ma può anche essere ammirato per la sua forza o per le sue qualità di leader. Vittima passiva: è un bambino caratterizzato da debolezza e fragilità, che tende a rispondere all’aggressione con il pianto o il ritiro in se stesso. Mostra timidezza, passività, solitudine, manca di autostima, è in genere poco popolare nel gruppo dei pari e ha pochi amici; presenta spesso sintomi di depressione (Hawker & Boulton, 2000). Vittima provocatrice (o bullo-vittima, o vittima aggressiva): presenta comportamenti esternalizzati, quali distruttività, impulsività, iperattività. Risponde alle provocazioni 112 con aggressività, che però non risulta efficace per allontanare la molestia, ma addirittura spinge il bullo ad essere ancora più spietato (Camodeca & Goossens, 2002). I bambini con questo profilo sono attivamente rifiutati dai compagni, hanno meno amici di tutti e costituiscono il gruppo più a rischio per problemi di tipo sociale o psicopatologico. Seguace del bullo: è il gregario, colui che ride alle bravate del bullo, che lo supporta, lo incita, “tiene ferma” o “scova” la vittima. Mostra aggressività nei confronti della vittima e debolezza nei confronti del bullo. Questi bambini possono nascondere una fragilità di fondo che si esprime nell’incapacità di essere bulli e nel loro bisogno di modelli forti da seguire. Sono in genere poco popolari nel gruppo dei pari. Difensore della vittima. È il compagno che più spesso aiuta la vittima e si schiera dalla sua parte, sia in maniera attiva (es. scagliandosi contro il bullo), sia standole vicino e consolandola, sia riferendo l’accaduto agli adulti. Il difensore è caratterizzato da prosocialità, altruismo, empatia. È il bambino più popolare nel gruppo, con molti amici che vorrebbero la sua compagnia. Esterno: è il bambino che “fa finta” di non sapere, che si allontana quando percepisce che qualcosa non va o che un episodio di bullismo sta per avvenire. Riveste un ruolo molto importante come “spettatore” e costituisce quella “maggioranza silenziosa” che, non intervenendo attivamente, permette in modo indiretto che gli episodi di bullismo continuino ad avvenire. È piuttosto timido e poco assertivo, ma abbastanza popolare nel gruppo. Il momento più critico per la stabilizzazione del bullismo e in cui questo raggiunge l’apice è intorno agli 11 anni, quando avviene il passaggio dalla scuola elementare alla scuola media. In questo periodo si ridefinisce la propria identità e si entra in una scuola nuova dove bisogna farsi accettare e i ragazzi più grandi fungono da modello. Con l’età il bullismo fisico tende a diminuire, mentre quello relazionale aumenta, anche grazie a maggiori capacità sociorelazionali e cognitive e ad una maggiore stigmatizzazione della violenza fisica. Sebbene il numero totale di prepotenze agite e subite diminuisca con il passaggio alle scuole superiori, i ragazzi che rimangono coinvolti faticano molto di più per uscirne e rischiano problemi di maggiore gravità. Tra le conseguenze principali cui va incontro chi mette in atto le prepotenze (bulli o seguaci) possiamo annoverare comportamenti antisociali o problematici (es. assenze da scuola, abbandono scolastico, delinquenza, vandalismo); rischio di disturbi psichiatrici, come disturbi della condotta o disturbo del deficit dell’attenzione; abuso di sostanze (alcool, droga). 113 Soprattutto, è stata riscontrata una continuità tra bullismo nell’infanzia, delinquenza in età giovanile e criminalità in età adulta (Baldry & Farrington, 2000). Per quanto riguarda le vittime, sia passive che provocatrici, queste vanno incontro a problemi emotivi (es. depressione, solitudine, ansia) e problemi sociali (es. isolamento sociale, evitamento di alcuni luoghi e perdita di interesse nella scuola). Sono a rischio di sviluppare scarse competenze interpersonali e un’immagine di sé negativa. Le vittime aggressive sono il gruppo più a rischio per esclusione sociale, bassa accettazione nel gruppo, problemi psicologici e comportamentali, sintomi psichiatrici e comportamenti antisociali. Appare di estrema importanza dare l’attenzione dovuta ad un problema che si sta mostrando di sempre più vasta portata. È necessario innanzitutto che le scuole e le famiglie prendano coscienza del fenomeno e lavorino sulla prevenzione, anche nei casi in cui non si è in presenza di episodi di bullismo, e considerando la sofferenza delle vittime, dei bulli e dei bambini che osservano gli episodi. Dal momento che il fenomeno coinvolge l’intera scuola, è necessario coinvolgere quante più persone possibili nello sviluppo degli interventi: insegnanti, personale scolastico, esperti esterni, genitori, adulti di riferimento, bambini stessi. Un intervento a livello scuola potrebbe basarsi sulla costruzione di linee di intervento comuni per costituire una “politica antibullismo” e di progetti mirati (es. sportello con lo psicologo scolastico, collaborazioni con psicologi, università, esperti esterni), oltre che sull’osservazione e monitoraggio del problema, e sulla necessaria collaborazione scuola-famiglia. A livello classe, potrebbe essere utile formulare regole condivise e stabilire dei momenti di confronto e discussione (es. “circle time”), promuovere atteggiamenti di supporto, e di richiesta di aiuto all’adulto, potenziare i rapporti interpersonali e le amicizie (es. lavori di gruppo, compiti, cooperazione, giochi di ruolo), evitando legami negativi e favorendo quelli positivi. È importante cercare di fornire modelli positivi e prosociali, dare fiducia e stimolo agli alunni, promuovere l’autostima, accogliere le emozioni positive e negative e favorire l’espressione dei sentimenti (es. attraverso il disegno, il teatro, l’attività fisica, la musica, il gioco). In questo modo si può sperare che i bambini sentano il clima di fiducia e di accoglienza intorno a loro. Scuola, famiglia, territorio, strutture esterne possono (e devono) lavorare insieme per ridurre il disagio dei bambini in ogni campo questo si manifesti, per promuovere il loro benessere, e aiutarli a crescere. 114 ESPERIENZE SUL NO BULLISMO A SCUOLA Prof. Dino del Ponte Dirigente Scolastico ed ex coordinatore settore handicap e politiche giovanili, Ufficio Scolastico Provinciale di Udine Un cordiale saluto a tutti ed uno particolare alla Provincia ed a coloro i quali tengono vivo questo ormai tradizionale appuntamento annuale che affronta sempre problematiche educative e sociali di grande attualità offrendo un significativo contributo a chi opera nel mondo del sociale e dell’educazione e formazione consentendogli di appropriarsi di conoscenze e strumenti efficaci. Il bullismo è da qualche tempo un tema/problema di grande attualità che, spesso, si manifesta all’interno dei circuiti scolastici. Possiamo considerare la scuola come il setaccio in cui confluiscono tutte le problematiche inerenti i rapporti sociali ed interpersonali, in particolare, quelli relativi ai soggetti in età evolutiva, poiché la scuola è rimasto uno dei pochi luoghi in cui tutti i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze si possono incontrare, stare ed operare insieme giacché non esistono quasi più altri spazi di aggregazione. Alcuni luoghi di socialità simbolicamente eccellenti come ad esempio il quartiere, la strada sotto casa, la piazzetta etc… non si prestano più, come è facilmente intuibile, ad essere punto di ritrovo aggregativo, altri, come ad esempio gli oratori sono quasi scomparsi. A mio avviso, pertanto, è quasi “normale” che certi comportamenti (come il bullismo) si manifestino, in maniera anche eclatante proprio nell’ambiente scolastico; il fatto che si manifestino proprio all’interno della Scuola non significa che questa ne sia la causa, l’elemento determinante o scatenante. Certamente la Scuola non può assistere passivamente alle manifestazioni di violenza, come non può restare passiva e disinteressarsi per qualsiasi altro comportamento che contrasti con la sua “funzione educatrice”. Per rispondere in modo efficace, non si può e non si deve, a mio avviso, affrontare le singole problematiche che possono emergere, senza tener conto dell’universo-mondo che ruota attorno all’individuo e della rete di rapporti in cui lo stesso si trova inserito e si muove. L’intervento educativo non può prescindere da una visione unitaria del soggetto, che va considerato in tutte le sue componenti: fisiche, cognitive, affettive, relazionali e sociali. 115 Intervenire su un aspetto trascurando gli altri sarebbe limitativo e produrrebbe risultati scadenti rischiando di confondere contesti e soluzioni (es. problematiche comportamentali/medicalizzazione). Per quanto riguarda la violenza, il bullismo, come le condotte aggressive ed auto-aggressive, sono strettamente correlate a fattori educativi ed in particolare a quelli inerenti il processo di socializzazione, intesa come acquisizione di quelle abilità sociali quali l’interiorizzazione di regole di comportamento che consentono al soggetto di inserirsi in maniera adeguata nel proprio ambiente sociale, di essere accettato dal gruppo di appartenenza, di poter in esso interagire in modo costruttivo e gratificante, per la realizzazione di sé nel rispetto dell’altro/i (per ottenerne anche l’apprezzamento) in un clima e con un atteggiamento di reciprocità. Ma la “socializzazione” non è, né si può pensare di ridurla, ad “un evento” o a una “unità di apprendimento”: la socializzazione è un percorso a tappe che inizia al momento della nascita e si snoda in tutto l’arco della vita, con ritmi di sviluppo certamente diversi a seconda dell’età del soggetto. Fattori che possono influire nella socializzazione: le persone “modello di riferimento” (gli Altri Significativi, in primis i genitori ); i valori sociali presenti negli stessi modelli e da loro, anche inconsapevolmente, trasmessi; il sistema di regole (di approvazione o disapprovazione, dei sì e dei no…) ed il grado di rispetto, che si imprime alle stesse, che determina, o non determina, l’introiezione delle stesse da parte del bambino; lo stile educativo che determina, o non determina, il superamento dell’innato egocentrismo e del narcisismo (il superamento dell’egocentrismo è la condizione essenziale per una effettiva socializzazione, che metta il bambino in condizione di entrare in empatia con l’altro, di percepire le emozioni, la gioia e la sofferenza degli altri, condizioni queste che non si riscontrano nel bullo!). Per affrontare compiutamente il problema del bullismo (e anche di altri comportamenti in cui si riscontra una mancanza di rispetto delle regole e degli “altri”) dobbiamo necessariamente osservare come si presentano i modelli e le condizioni che dovrebbero promuovere la socializzazione: a) genitori: spesso in crisi di identità, sovraccarichi di compiti, di funzioni e oppressi da ritmi che lasciano poco spazio per i figli; immersi in un flusso di stimoli mediatici che presentano modelli contradditori, contrastanti e vacui; b) valori sociali: quali sono i predominanti, quelli realmente vissuti e non solo proclamati? il potere, l’avere, il consumare e l’”immagine-il modo per acquisire ciò che si desidera”; 116 c) il sistema di regole: ognuno si sente legittimato a darsi le proprie regole mentre “le altre”, per quelle “comuni” si trova sempre una giustificazione per sentirsi in diritto di poterle non rispettare; d) lo stile educativo: caratterizzato, per lo più, da permissivismo, iper-protezione (dei figli), o disinteresse o autoritarismo che, a volte, si presentano altalenanti. e) i modelli televisivi (eroi ed eroine): caratterizzati dalla violenza, dalla prepotenza, dall’aggressività e da confusi e alterati valori proposti a cui i bambini vengono esposti e i cui messaggi possono creare distorisioni. La scuola è spesso “desautorata” e “delegittimata” dalla TV e dai Media ed al contempo sovraccaricata di aspettative e di richieste di surrogare le carenze di Altri o di trasmettere valori e modelli comportamentali in netto contrasto con quelli in cui il bambino/a si trova costantemente immerso. Si chiede alla Scuola di dare risposte immediate alle richieste della famiglia, della Società, del mondo della produzione e/o dei servizi e qualora non fosse in grado di dare le risposte attese in modo tempestivo, ne viene colpevolizzata! In una situazione tale anche l’insegnante corre il rischio di deprimersi, di avvilirsi; si possono generare in lui un senso di sfiducia e un calo dell’autostima, fattori nocivi prima di tutto per se stesso e poi per l’efficacia del suo lavoro. Cosa si può fare? Innanzitutto tenere presente la complessità della situazione in cui si è chiamati ad operare ed essere consapevoli che l’azione del singolo (la Scuola in questo caso) non può essere risolutiva. Un sano realismo e la consapevolezza dei propri limiti potrebbero aiutare l’insegnante a non deprimersi, a non scoraggiarsi, a mantenere alta l’autostima per poter operare al meglio; nella consapevolezza della complessità, ad aprirsi e cercare di creare progetti condivisi con tutti coloro che, direttamente o indirettamente, si occupano di educazione e di formazione (in primis i genitori e le famiglie con cui si rende sempre più urgente un rapporto di intesa e collaborazione che porti a modificare lo “stile educativo” di cui accennato in precedenza). Anche gli Operatori sociali dovrebbero agire in sinergia, ognuno nel proprio ambito, nel rispetto reciproco dei ruoli e delle competenze, ma tutti protesi al raggiungimento dell’obiettivo comune. Diverse nostre Scuole operano da tempo in questo senso; colgo l’occasione per far presente che la scuola friulana ha fatto significative ed importanti esperienze didattico-educative, in diversi settori un po’ gelosamente ed un po’ pudicamente tenute riservate che meriterebbero maggiore divulgazione! 117 Oggi saranno presentate alcune esperienze relative al tema affrontato da questo Convegno: le esperienze del 3° Circolo di Udine, dell’Istituto “B.Stringher”, dell’ I.C. di Paularo e, tempo permettendo, anche di altre. Ascoltiamole per cogliere quegli elementi utili che possono essere “esportati” anche in altre realtà. 118 ESPERIENZE… Margherita Garro Insegnante Referente Progetto, Direzione Didattica 3° circolo Udine “Veramente, in quel tempo, la borgata era un pochetto cambiata. Avevano sfranto nel centro sette , otto file di casette di sfrattati e di strade e avevano tre quattro palazzoni nuovi, scuri e grandi come monti, pieni di finestrelle con tanti cortiletti, ingressi e scale, che toglievano il sole alle altre casette ch’erano rimaste intorno e ai lotti gialli come la fame.” Pier Paolo Pasolini “Una vita violenta” 1959 3° Circolo di Udine Il progetto NASCE come risposta ad una realtà territoriale segnalata come “area a rischio” con problematiche complesse di disagio e di rischio dispersione scolastica RACCOGLIE progetti e azioni finalizzate alla prevenzione del disagio, al rinforzo dell’identità, all’arricchimento culturale 119 Linee di azione e progetti: Focus 2006 - 2007 Progetto PREVENZIONE DISAGIO E INTEGRAZIONE STRANIERI Progetto RECUPERO POTENZIAMENTO Progetto ACCOGLIENZA Progetto Mediazione L2 Recupero del disagio Progetto INSIEME P GI rima r RA RD ia IN I ia anz Inf TE R FO Vicini di casa FEUERSTEIN alunni Rinforzo Identità personale CORSI SERALI Feuerstein Primaria tempo Pieno FRIZ Prevenzione Arricchimento culturale GIORNALINO scuola territorio Progetto FORMAZIONE FEDELI EDUC. EMOZIONI Progetto SPORT & GO Progetto GENITORI Progetto MUSICA Progetto LETTURA E BIBLIOTECA INFORMATICA Visite d’Istruzione Uscite in città Soggiorni Verdi LABORATORI ESPRESSIVI COME PREVENIRE IL DISAGIO (bullismo, aggressività, violenza, devianza) AZIONI FORMATIVE ed EDUCATIVE a lungo termine, rivolte all’intera classe o scuola, con le opportune strategie SCUOLA della PROMOZIONE CULTURALE ad ALTO INVESTIMENTO DIDATTICO Meno si fa da soli, più funziona: costruzione di reti di coinvolgimento attivo con il territorio promozione di processi di integrazione Atteggiamento di tipo trasformativo, non supportivo condivisione di obiettivi con le diverse agenzie formative Cooperazione 120 SCUOLE Infanzia Forte Primaria T.P. FRIZ Primaria Girardini SMS Bellavitis COMUNE Di Udine Servizi Sociali Servizio Minori Servizi Culturali e Ricreativi P.I.G. Polizia municipale AMBITO Socio Assistenziale N°4.5 Città Sane ScuolaInfanzia Infanzia Scuola M.FORTE FORTE M. UNIVERSITA’ DI UDINE Facoltà di Scienze della Formazione CSA di Udine USR FVG Provincia di Udine RETE E COLLABORAZIONI SCUOLA TERRITORIO Parrocchie Associazioni di volontariato Società sportive SCUOLAPRIMARIA PRIMARIA SCUOLA TEMPOPIENO PIENO TEMPO A.FRIZ FRIZ A. SCUOLAPRIMARIA PRIMARIA SCUOLA TEMPONORMALE NORMALE AATEMPO E.GIRARDINI GIRARDINI E. TEATRO G. Da Udine C.S.S. C.E.C. Biblioteca Joppi ASS n° 4 Medio Friuli Consultorio familiare Neuropsichiatria infantile La Nostra Famiglia Cooperative Aracon Universis ENAIP SCUOLASECONDARIA SECONDARIA SCUOLA DIPRIMO PRIMOGRADO GRADO DI E.F.BELLAVITIS E.F.BELLAVITIS RETEeecollaborazioni collaborazioni RETE SCUOLATERRITORIO TERRITORIO SCUOLA 3° CIRCOLO diUdine Udine 3° CIRCOLO di concretamente concretamente UNIVERSITA’DI DIUDINE UDINE UNIVERSITA’ Facoltàdi diScienze Scienze Facoltà dellaFormazione Formazione della Formazioneee Formazione ricercaazione azione ricerca docenti––alunni alunni docenti Sperimentazione Sperimentazione dipercorsi percorsi di diautoregolazione autoregolazione di comportamentale comportamentale edemozionale emozionale ed COMUNEDI DIUDINE UDINE COMUNE CIRCOSCRIZIONE 33CIRCOSCRIZIONE AMBITO AMBITO SOCIOASSISTENZIALE ASSISTENZIALE SOCIO N°4.5 N°4.5 UFFICIO MINORI UFFICIO MINORI ProgettoINSIEME INSIEMEcon con Progetto agenziedel delterritorio territorio leleagenzie P.I.G. P.I.G. Laboratorinelle nellescuole scuole Laboratori ProgettoLuna Lunapark park Progetto ProgettoGIORNALINO GIORNALINO Progetto ProgettoSPORT SPORT&&GO GO Progetto ASS44Medio MedioFRIULI FRIULI ASS Consultoriofamiliare familiare Consultorio ProgettoGENITORI GENITORI Progetto Laboratoriserali serali Laboratori FEUERSTEINGenitori Genitori FEUERSTEIN ProgettoMERENDA MERENDA Progetto Progetto Progetto Andiamoaascuola scuola Andiamo piedi aapiedi 121 PROGETTO GENITORI scuola e genitori insieme per costruire progetto pluriennale in collaborazione con il Consultorio familiare ASS n° 4 cicli di incontri serali coordinati dalla dott.ssa Anna Signor con la partecipazione dei docenti delle tre scuole il valore dei mass media nel processo educativo il valore del racconto e del raccontarsi in famiglia il piacere di stare insieme di generazione in generazione… ieri figli, oggi anche genitori PROGETTO FORMAZIONE E AGGIORNAMENTO Collaborazione Scuola – Università di Udine riqualificazione della professionalità docente 3° CIRCOLO di UDINE 2002 2003- Teorie della progettazione dott.ssa Nidia Batic La gestione della classe e l’intelligenza emotiva dott. Daniele Fedeli 2003 2004 - Osservare, riflettere, intervenire sui comportamenti problema (incontri teorici e laboratori) dott. Daniele Fedeli 2004 2005 - Percorso di ricerca azione: La gestione del comportamento problema Sperimentazione di percorsi di autoregolazione comportamentale ed emozionale dott. Daniele Fedeli 2005 2006 - La valutazione psicopedagogia del bambino Sperimentazione “ Il portfolio delle competenze emozionali” dott. Daniele Fedeli 2006 2007 Prosecuzione del percorso di formazione dott. Daniele Fedeli Modulo introduttivo sull’alfabetizzazione emotiva 122 Progetto Educazione emotiva in collaborazione Università ed il dott. Fedeli l’appello delle emozioni la scatola delle emozioni le maschere delle emozioni paure reali, paure immaginarie l’orologio delle emozioni il termometro delle emozioni la mimica delle emozioni alchimia emotiva emozioni e sentimenti i virus mentali il gioco degli acchiappa virus il metodo delle tre colonne un salvagente emotivo tollerare le frustrazioni fare e ricevere i complimenti cominciare a piacersi accettare se stessi coltiva un cuore contento, ecc. GIORNALINO SCUOLA TERRITORIO GRUPPO di redazione Docenti, Genitori, Agenzia P.I.G., Comune e 3° Circoscrizione • Far dialogare Scuola e Famiglia per il benessere del minore • Far parlare i minori sulle tematiche più varie e sui bisogni emergenti • Integrare l’azione della scuola nel territorio di appartenenza (scuola come centro di aggregazione) • • • • Articoli su attività, progetti, percorsi, iniziative che si svolgono nelle 5 scuole raccontate dai bambini Rubriche per dare visibilità ad Associazioni e persone che vivono ed operano nel quartiere 3 - 4 numeri annuali 650 copie per ogni uscita distribuite alle famiglie di 5 scuole, associazioni, negozi che collaborano 123 VALIGETTA PRONTO INTERVENTO strumenti e strategie di supporto per l’alunno in collaborazione con le agenzie del territorio Laboratori Feuerstein Laboratori espressivi Attività quotidiane di Educazione emozioni Progetti sport - tornei tra le scuole Progetto Insieme: scuola centro di aggregazione del territorio Progetti socio educativi con educatori Progetti su alunni con comportamenti disadattivi Progetti su alunni e famiglie seguite dai Servizi sociali Recupero potenziamento per piccoli gruppi Laboratori L2 – Intercultura Intensificazione uscite sul territorio,soggiorni verdi, ecc. rete Intensificazione capillarità sistematicità continuità disponibilità al cambiamento stabilità Tutte le esperienze accumulate, ogni iniziativa andata a buon fine, tutte le relazioni aperte dalle attività proposte, saranno il nostro patrimonio da salvare, da gestire come valore unico e irripetibile. Il percorso continua… 124 Pasquale D’Avolio Dirigente Scolastico I.C. “Arta-Paularo” L’esperienza realizzata a Paularo sul bullismo nell’anno scolastico 2002/2003 è per tanti aspetti originale e …. singolare (in seguito ne spiegherò il senso). Su suggerimento del Tutore dei minori, dott.sa Della Marina, mi fu proposto nel mese di gennaio 2003 un Progetto da realizzarsi a scuola nell’arco di tempo di poche settimane, che avrebbe dovuto coinvolgere non solo gli alunni ma l’intera comunità di Paularo. Non era chiaro il motivo per cui fosse stato scelta proprio la scuola di Paularo, anche se era stato escluso ogni collegamento tra la ricerca e i fatti riguardanti espressamente il paese carnico. In effetti, in seguito scoprii, che gli alcuni non avevano accolto bene l’idea poiché avevano pensato si volesse ancora una volta porre in evidenza l’immagine non proprio positiva che il paese si porta dietro da tempo, in particolar modo dopo alcuni episodi, accaduti nell’estate del 2002 di violenza riguardanti minorenni. Non avevo trascurato la velata critica che qualche genitore mi aveva rivolto circa la mia non sufficiente “autorità” esercitata nei confronti degli alunni. Certi episodi di emarginazione o di vera e propria prepotenza tra i ragazzi (anche se non gravi) testimoniavano come fosse l’”aria” del paese a influenzarli, per cui ero e sono convinto che se la Scuola voleva raggiungere i suoi obiettivi formativi doveva interloquire con la gente e l’occasione offerta poteva essere quella giusta. Gli stessi docenti della Scuola Media manifestarono, tuttavia, qualche riserva soprattutto sui tempi e sul modo in cui era stato presentato il progetto, un po’ calato dall’alto. Non giovò molto, all’accoglienza del progetto, il fatto che un ricercatore dell’Università di Padova si fosse presentato a Scuola, senza concordarlo prima, con un lungo questionario sul bullismo da somministrare agli alunni; un questionario impegnativo, con alcune domande al limite della riservatezza personale e familiare. Dopo il chiarimento con il docente ricercatore, il questionario, che a suo dire si inseriva in una ricerca molto ampia sui ragazzi nel Triveneto, fu compilato con la promessa che ci sarebbe stata una “restituzione” nell’arco di pochi mesi con la possibilità di un dibattito, in merito, da svilupparsi con gli abitanti del paese. Purtroppo, tutto ciò non è avvenuto. Tornando al Progetto giustamente la dott.sa Della Marina sottolineò l’importanza di inserire l’attività all’interno di un percorso didattico che comprendesse ad esempio lo studio e il commento alla “Dichiarazione universale dei diritti del bambino”. Il testo fu distribuito ai ragazzi e alle famiglie, alle quali fu anche illustrato lo scopo dell’esperienza chiedendo un loro coinvolgimento. La risposta devo dire da parte delle famiglie fu positiva. 125 L’originalità del progetto consisteva nel fatto che il percorso didattico non era composto da lezioni tradizionali bensì da incontri pomeridiani con un certo numero di allievi che dovevano esercitarsi nell’allestimento di uno spettacolo, precisamente un teatro-forum, da rappresentare successivamente. Ci si è avvalsi della collaborazione dell'Associazione Giolli, specializzata nei teatro-forum, vale a dire una modalità di teatro nella quale i membri della comunità diventano gli stessi attori di ciò che sì va a raccontare. In sostanza più che affrontare la tematica del bullismo con lezioni o conferenze o dibattiti, si è provato a rappresentare scene di vita quotidiana dove emerge la prepotenza sui più deboli, la derisione di gruppo e/o l’indifferenza dei presenti. Il regista aveva predisposto un semplice canovaccio su cui venne “costruito” dai ragazzi, provando e riprovando con l’aiuto di una animatrice, lo spettacolo. Era una occasione non solo per “provare” ma anche un momento di riflessione al quale parteciparono una decina di studenti di III Media. L’animatrice non si limitava a seguire i ragazzi, ma intratteneva rapporti con la realtà esterna alla Scuola. La serata finale, alla quale intervennero: la dott.sa Della Marina, il regista e gli operatori della cooperativa Giolli, fu ampiamente pubblicizzata oltre che sulla stampa, anche nel paese. L’Aula Magna era piena di giovani di tutte le età, ma anche di genitori, persone del paese, parroco e autorità comunali. Le scene furono rappresentate oltre che dagli alunni anche da persone presenti, che si prestarono volontariamente a “recitare” senza alcuna preparazione. Per ogni scena, che rappresentava situazioni problematiche nei rapporti tra giovani o tra giovani e adulti, tra genitori e figli, si potevano proporre versioni diverse a seconda degli interpreti. Al termine della rappresentazione, sottolineata da applausi o dissensi, è iniziato un dibattito in cui sono venute a galla le situazioni critiche del paese con una vivacità inaspettata. Il “bullismo” venne quasi messo in seconda piano rispetto alle criticità nei rapporti umani, che ognuno attribuiva a gruppi e istituzioni diverse. Non si può naturalmente parlare di “catarsi” ma qualcosa di molto simile avvenne in quella sera. La “singolarità” dell’esperienza risiede proprio in questo, nel fatto che essa non ebbe un seguito nelle attività della Scuola, almeno con riferimento alla specifica tematica; fare progetti specifici è quello che normalmente si chiede alle Scuole, ma la Scuola è di per sé un Progetto che deve durare nel tempo. Da lì è nata comunque la proposta di un “Patto educativo territoriale” che coinvolge tutte le associazioni del paese da tre anni. Ogni anno si propone un “valore dell’anno” L’anno scorso si individuò come “valore” “la mitezza”. Ai bambini fu chiesto di indicare una immagine o un animale che raffigurasse la mitezza e di motivarne la scelta. L’animale prescelto fu il delfino e in seconda battuta il capriolo. Una considerazione finale: nel leggere i commenti al grave episodio di Torino (il filmato sulle percosse a un disabile a Scuola) mi hanno colpito due cose: in quella Scuola esisteva un 126 progetto specifico; in secondo luogo mi ha colpito l’affermazione di un docente: “ci mancano insegnanti di sostegno!” Guai a fare del bullismo un’altra occasione per richiedere personale aggiuntivo! 127 QUARTA SESSIONE Adolescenti violenti a casa Presiede: Dott.ssa Sandra Fior Psicologa Consultorio Familiare di Tolmezzo A.S.S. n° 3 “Alto Friuli” 128 RAGAZZI VIOLENTI? PERCORSI DI CRESCITA DIFFICILI? CHE FARE? CAPIRLI? Dott. Francesco Milanese Tutore Pubblico dei Minori Regione Friuli Venezia Giulia Mi è stato dato un titolo che racchiude svariati interrogativi, ciò forse perché ci si attende molto da chi ricopre questa carica altisonante che evoca l'idea di una autorità superiore dal potere risolutivo. Il Pubblico tutore dei minori non è una figura ancora molto conosciuta, ritengo quindi sia opportuno spiegare chi è attraverso quello che fa. Non è un super eroe, un super Pippo che risolve problemi e questioni che altri non sono in grado di risolvere. Quando pensiamo ai temi della violenza che riguardano il mondo dell’adolescenza e dell’infanzia, sia che il minore ne sia vittima o autore, pensiamo a qualcosa di insopportabile di difficile tollerabilità. Il dolore dei bambini in una società che ha imparato solo da poco tempo, da poche generazioni, ad avere a cuore il futuro dei propri figli, è un dolore insopportabile e dunque diventa necessario ed urgente intervenire subito. Per questo ci si rivolge al tutore dei minori: perché nel pensiero comune il tutore è quella figura/persona “che risolve i problemi”. Ciò non corrisponde al vero, il tutore dei minori sembra essere piuttosto “il minore dei tutori”, cioè una figura dotata di scarsissimi poteri di intervento. È una figura di mediazione che ha prevalentemente compiti legati alla segnalazione, ma non interviene nella strategia diretta d’intervento. Tra i suoi compiti non vi è la presa in carico degli utenti, funzione questa tipica dei servizi. Svolge invece una preziosa funzione di interlocuzione con il sistema organizzativo dei sistemi territoriali e con il sistema della politica. È un organo del consiglio regionale che dialoga con il legislatore, ovvero con chi ha la responsabilità politica della decisione (es. responsabile del distretto, dirigente scolastico, responsabile di una comunità, ecc.) al fine di favorire dei processi, delle pratiche virtuose: le migliori pratiche per attuare e promuovere i diritti dell’infanzia. Accanto a questi, che sono compiti di garanzia, gli sono affidati compiti di carattere promozionale, che si esplicano in una costante attività di sviluppo e diffusione di una cultura dell’infanzia e dell’adolescenza, che ne rispetti i diritti e che ne implementi al massimo i valori di fondo. Definito il compito istituzionale del tutore dei minori preme ragionare sugli aspetti culturali; a tal fine si rende necessario parlare di alcuni modelli comportamentali o meglio stereotipi che troviamo in circolazione. Lo stereotipo è una forma di riflesso culturale, provo a fare un 129 esempio: quale è il soggetto preferito della barzelletta, raffinato genere di letteratura orale da bar? l'handicappato, l’ebreo, il nero, il carabiniere, ognuno di noi magari senza malizia, sa che la barzelletta individua il dato comico nell'enfasi sul soggetto svantaggiato, o su ciò che è considerato limite o difetto e dunque tutti noi contribuiamo a creare una forma di stereotipo. Ma può succedere, e purtroppo succede, che dei ragazzi mettano in atto quanto veicolato dalla barzelletta, salvo poi tutti quanti noi adulti ritrovarci nello stesso bar per interrogarci sul perché di un simile comportamento, su quale tipo di cultura possa averlo generato. Per trovare lo stereotipo non è indispensabile cercare il grande commentatore, la mente raffinata, l’esperto che, sui quotidiani a tiratura nazionale, commenta un accadimento con sapienza e pertinenza. Per produrlo è sufficiente l’autore dei comunicati delle pagine nazionali dei quotidiani regionali, le attuali catene editoriali realizzate da alcuni uffici stampa validi per tutta la produzione locale. Tali notizie definite “ansa” sembrano piuttosto tese a produrre molta ansia: l’ansia che ci comunicano rispetto ai ragazzi è che essi sembrano persone senza valori che confondono la realtà con la finzione, che traggono i valori direttamente dalla televisione o dai video giochi. Se fossi un ragazzo di 17/18 anni mi indignerei! Quello che i ragazzi imparano lo apprendono da noi adulti, i ragazzi riproducono enfatizzandole molte azioni che noi gli abbiamo fatto vedere. Qual’è dunque lo scandalo della tortura cui i bulli sottopongono le vittime? Non vediamo torturati i civili in Somalia, da alcuni soldati italiani?, non vediamo mai che cosa avviene nei telefilm che i ragazzi amano vedere alla TV? Lo scandalo è forse rappresentato dal fatto che ora le loro azioni vengono riprese, filmate? ma i filmati delle torture sono già stati realizzati dai nazisti, e poi in Somalia, e nelle carceri Irachene dagli americani. Non c’è dunque niente di nuovo. E che la crudeltà umana sia uno degli elementi contro i quali l’umanità lotta - ovvero gli uomini e le donne possono essere tali nella misura in cui sanno combattere il loro essere crudeli - sta nel mito fondamentale dell’umanità, per lo meno per quel che riguarda la sua parte occidentale e le sue grandi religioni monoteiste: Caino ed Abele. Non si tratta quindi di una cosa nuova: nuovo è semmai l’atteggiamento ipocrita di una società adulta che ritiene di non avere alcuna responsabilità nei confronti delle culture dei giovani. Pensiamo agli esempi che diamo in ordine alla legalità ed all'eroismo. Vi ricordate di quell'orgoglioso top gun che giocava a volare con un aereo supertecnologico in giro per le nostre valli alpine fino a tranciare i cavi di una funivia, far cadere venti persone, senza subire alcun processo e continuando a fare il soldato, andando in missione onorata in Iraq o a bombardare villaggi in Afghanistan! Mi colpisce che si continui a dire che i ragazzi sono violenti! … e gli adulti?…no, gli adulti no! noi siamo assolti perché siamo dei veri 130 combattenti! È davvero giunto il momento di smetterla di dare la colpa ai ragazzi. Quando qualcuno butta i sassi dal cavalcavia, i giornali dicono “sono delle ragazzate”, Pare che fare delle cose stupide per noia e incoscienza sia tipico del ragazzo. I ragazzi sono imbecilli? ma se io sono un ragazzo, mi ribellerei io sono una persona più seria degli annoiati imbecilli quelli che fanno queste cose. Chi ha detto che queste sono ragazzate? Ci sono degli stereotipi tremendi e dei paradossi tragici nella questione del rapporto tra sistema della comunicazione/educazione/giovani generazioni. Io sono convinto che “Educare” implica un' intenzionalità del comportamento e non è un atto moralistico. Anche quando ci asteniamo stiamo educando, ossia stiamo rendendo irrilevanti i valori o disvalori che proponiamo. Il problema legato alla comunicazione è legato ai videogiochi, alla TV, alla necessità di regolamentarli senza dover per questo arrivare a forme di censura che ledono il diritto alla libertà di espressione. Nel momento in cui continuo a rivendicare il diritto alla libertà di espressione per l’adulto in un modo incurante delle conseguenze che l’esercizio di tale diritto ha nei confronti del comportamento percepito come intenzionalità comunicativa da parte dell’adolescente, non posso non pormi delle domande. Non è possibile regolamentare il sistema radio-televisivo? Tutti ritengono che si debba autoregolamentare? Bene, e allora, che si autoregolamenti!, com’è che quel sistema attraverso i suoi raffinati commentatori, accusa i ragazzi di apprendere comportamenti diseducativi/violenti dai film che vedono in TV, ma poi sono gli stessi commentatori che in nome della libertà impediscono qualsiasi controllo o regolamentazione? Anche io sono contrario alla censura, ma è radicalmente diverso limitare la libertà di espressione ed organizzare un palinsesto con una intenzionalità educativa. L’intenzionalità educativa sta nel fatto che quando io organizzo un palinsesto lo faccio sulla base dell’utenza, valutando orari e spot pubblicitari in base ad essa. Chi dice che la libertà dell'utente sta nel fatto di poter scegliere con il telecomando, si dimentica di dirci che il suo lavoro è esattamente il contrario: è efficace quando ottiene il risultato contrario ossia ci tiene ancorati al programma. Dunque esiste una precisa intenzionalità educativa dei palinsesti e su questo si deve discutere non in astratto delle libertà, e del contrasto con la censura: oggi la programmazione educa il bambino ad essere un consumatore, un fruitore del mondo, un soggetto irresponsabile di fronte al mondo, che funziona come persona di successo se appare, se consuma, se si dimostra vincente. Stiamo generando le persone meglio adattate ad una società mercantile e competitiva. I modelli culturali di questa società sono invece impostati sulla violenza predatoria. Se non posso ottenere delle cose chiedendole, le prendo; se non ottengo giustizia, cambio le leggi; se 131 non riesco a conquistare il consenso, modifico le leggi elettorali. Che differenza c’è tra un ragazzo che ruba la borsa ad una vecchina a Napoli e quello che stando in una banca vende le azioni della Parmalat, mettendo in ginocchio decine di migliaia di vecchine, scippando loro un’intera vita di pensioni? Qual’è la differenza? Semplice, il secondo non si fa acciuffare. Qual è dunque il vero problema del giovane? Non è quello di scegliere tra un comportamento giusto e uno sbagliato ma quello di… non farsi acchiappare! La vera questione da affrontare dunque, è quali siano oggi i modelli culturali di riferimento che noi offriamo ai nostri ragazzi. Bisogna avere più rispetto dei giovani, dei ragazzi, riconoscerli titolari di diritto, avere qualcuno che formi in modo corretto una coscienza dei loro comportamenti che, come ho già detto, non è un’attività moralistica, ma culturale ed educativa. E non dobbiamo stupirci quando i ragazzi, dimostrano la loro capacità di affrontare anche situazioni difficili. Alcuni giorni fa ricorreva il quarantesimo anniversario dell’alluvione di Firenze. Nell’occasione sono stati ricordati gli angeli del fango, i giovani di tutta Italia, di mezzo mondo che sono andati a Firenze a tirare fuori i capolavori dell’arte … e tutti quanti a dire, con una vena nostalgica, “che bravi quei ragazzi”. Ebbene, quella era la generazione degli hippy che, al momento opportuno, ha saputo dimostrare di essere capace di grande dedizione. Eppure la dedizione ha attraversato le generazioni giovanili anche dopo. Negli anni 70/80 i cosiddetti “anni di piombo” vengono ancora identificati come una stagione di giovani violenti, eppure in quegli anni come oggi era possibile discutere sul tema della violenza e della non violenza. Allora come oggi era possibile scegliere. Quanta parte della popolazione giovanile è stata coinvolta effettivamente all’interno delle azioni del terrorismo e di tutte le associazioni che lo hanno fiancheggiato? Si parla di alcune migliaia di persone. Ma in quegli stessi anni, a partire dal 1972, a partire dal servizio civile degli obiettori di coscienza e poi più in la con il Servizio civile per le ragazze e poi oggi con il servizio civile nazionale, e le migliaia di associazioni di volontariato …. di quanti ragazzi stiamo parlando? Stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone che a venti anni hanno scelto tra violenza e non violenza, tra dedizione alle persone, e dedizione alle armi. Però noi ci ostiniamo ancora a parlare dei violenti, addirittura di una generazione degli anni di piombo. Perché non parliamo del fatto che in questo Paese è nato il più numeroso movimento di volontariato dell'Europa fatto di giovani che nel servizio civile si sono occupati di qualcuno in sedia a rotelle, di qualche tossicodipendente, di bambini abbandonati o di ambiente e cultura con lo sguardo teso e aperto ai destini di pace dell’umanità? E allora perché non iniziamo a fare un’informazione sistematica sulle attività svolte dai ragazzi, sulla quantità di tempo che dedicano attraverso il servizio civile, attraverso le realtà 132 del volontariato, attraverso le attività sportive. Noi abbiamo veramente cognizione delle capacità dei ragazzi e dei giovani di investire su sfide significative e su valori? La capacità di dedizione dei nostri ragazzi noi la conosciamo, o meglio, siamo in grado di riconoscerla quando succede un avvenimento imprevisto, come in occasione di una calamità naturale? Credo che l'educatore oggi debba aver voglia di spingere le persone a realizzare qualche cosa per la quale valga davvero la pena di vivere e credo che il mondo abbia talmente tanto bisogno di essere trasformato che di motivi per i quali valga la pena di vivere ce ne siano ancora tantissimi. Voglio approfondire un tema che ho toccato e che mi preoccupa moltissimo, riguarda il nostro modello culturale di fondo, legato non solo all’aspetto sociale della violenza. Vi sono altre questioni, in realtà, per certi versi, altrettanto gravi, che riguardano, da un’ottica più micro, le storie personali di ciascuno di noi nel momento in cui non si riesce ad identificarsi con una storia collettiva. Mi infastidisce quando semplificando si dice che la storia collettiva delle generazioni attuali è una storia di generazioni bruciate, violente, di generazioni che non hanno niente da dire. Io sono invece convinto che siamo noi a non saper ascoltare, il che è cosa molto diversa. Sono reduce da un convegno a Cordenons, nel corso del quale i ragazzi delle scuole medie hanno presentato un lavoro da loro svolto relativamente al tema della raccolta differenziata dei rifiuti. Con la semplicità dei ragazzini, ma con la competenza di chi ha fatto davvero un lavoro serio, i ragazzi ci hanno spiegato che cos’è la plastica, come la si classifica, come la si ricicla, ma soprattutto perchè oggi non è possibile riciclarla in maniera coerente essendo che i produttori non appongono i marchi nel modo corretto per poterla successivamente classificare. Sembrava di assistere ad un servizio delle Iene, ho suggerito di venderlo perché era davvero ben fatto. La cosa interessante era che l’insegnante esprimeva la sua soddisfazione perché i ragazzi avevano dimostrato di essere responsabili. In realtà erano gli adulti che avevano dimostrato di saperli ascoltare e, di conseguenza, i ragazzi avevano preso seriamente il fatto di essere stati ascoltati. Spesso quando noi pensiamo a quello che ci devono dire i bambini o i ragazzi ci sorge spontaneo un sorriso sulle labbra, perché non li prendiamo seriamente. Vi racconto una altro episodio a cui ho assistito. Nell’ambito delle iniziative organizzate per l’anniversario dell’approvazione della Convenzione dei diritti del fanciullo, intorno al 20 di novembre, il Sindaco di un Comune riunisce ormai da alcuni anni il Consiglio comunale dei ragazzi ed incontra i giovani. Questo Comune in particolare, per valutazione didattica, ha scelto d’incontrare i ragazzi della seconda media. Il Sindaco, di anno in anno, viene interpellato su problematiche del Comune, e le questioni ricorrenti sono di tipo ambientale, o 133 riguardano le infrastrutture scolastiche. Alle domande che gli venivano poste il Sindaco rispondeva ogni anno che le richieste dei ragazzi sarebbero state prese in seria considerazione con il prossimo anno, perché in questo momento mancavano i soldi, o c'erano altre priorità da affrontare eccetera, eccetera. Alla fine, gli adulti, erano tutti tranquilli e contenti perché avevano parlato dei diritti dei bambini. Il terzo anno in cui si ripeteva l’esperienza, quella alla quale presi parte, alle stesse domande relative alle solite questioni, di fatto, sempre rimaste irrisolte, il Sindaco iniziò a dare le stesse risposte, ad un certo punto si alza un ragazzo, 1 metro e 75, capelli rasta, e dice “scusi eh, non vorrei dire ma ce le ha già raccontate l’anno scorso e l’anno prima ancora … ” il Sindaco sbianca e chiede “ma tu…. chi sei?” … “beh..io.., sono un ripetente”… Ecco svelata l'ipocrisia della finzione dell’ascolto dei ragazzi? non pensate anche voi che questa sia come la fiaba del “Re nudo” solo in versione moderna? Dunque, teniamo presente questa cosa perché è questo l’aspetto culturale di cui parlavo. Smettiamola di dare addosso ai ragazzi, i ragazzi sono portatori di una cultura diversa, ma sono anche figli della nostra, hanno il diritto la voglia e il bisogno di cambiare la società e di essere liberati da alcuni problemi che gli stiamo creando noi adulti. Un altro versante che suscita forte inquietudine è il passaggio alla violenza domestica, cioè alla realtà familiare perché proprio qui si ritrova un aspetto più duro, più violento dei rapporti che, come ho detto, risponde ad una cultura della predazione all’interno delle relazioni. Il predatore è colui che rapina, ruba, sottrae senza chiedere l’autorizzazione. Lo stupro è in fondo una predazione per antonomasia. Credo tuttavia che la violenza all’interno delle relazioni familiari corrisponda ad un certo approccio culturale, ad una necessità culturale che noi tutti abbiamo. Da un lato l’idea di una famiglia proprietaria ovvero di un territorio dove i figli sono proprietà dei genitori, nasce dall'idea della famiglia fondata sui vincoli di sangue, sul primato del sangue e non sugli affetti, per cui tu sei mio figlio e io di te faccio ciò che voglio. Tutto questo genera una violenza dell’adulto sul bambino, sul giovane, ma questo risponde ad una cultura predatoria molto diffusa, la riscontriamo nell’ambito di alcune situazioni, anche tra loro diverse. Recentemente abbiamo assistito allo scandalo delle adozioni di Madonna e di altri personaggi famosi, ovvero ad una situazione nella quale, con tutta evidenza, abbiamo una predazione, seppur benedetta da tante migliaia di dollari. Credo poco alle lacrime di commossa tenerezza messa in mostra per i fotografi che ne ha accompagnato il ritorno a casa. Quel bambino vissuto come “tuo”, te lo sei comperato. Non hai atteso a quali fossero i diritti in gioco, quello che conta è il tuo desiderio, la tua volontà, la tua proprietà. Allo stesso modo funzionano certe situazioni della nostra normale società. Famiglie protettive all'apparenza, in realtà proprietarie, che esercitano nei confronti dei figli degli straordinari 134 condizionamenti. Spesso sono i figli che realizzano i desideri di successo e le aspirazioni dei genitori e per far questo sono piegati alle discipline familiari oppure vediamo gli eccessi di protezione che non riconoscono la realtà effettiva della vita dei figli. Noi adulti abbiamo tutta una serie di proiezioni sui ragazzi e quindi su ciò che loro devono essere. Oggi è necessario fare un’operazione inversa: prima guardare al bambino e sulla base del bambino cominciare ad inferire sulla famiglia, sulle sue capacità, sul suo compito sociale, compito che noi attendiamo che la famiglia esegua. La famiglia ha quindi il compito di presentare alla società dei cittadini che abbiano una personalità compiuta, formata, sviluppata, multidimensionale. É su questo terreno che si generano anche fortissime tensioni e lacerazioni, formidabili patologie relazionali, addirittura delle patologie culturali, il nostro Paese è noto per essere il paese delle adolescenze protratte fino ai 35 anni, è chiaro che in questa dimensione sociale irrobustita di un certo mammismo, rischiamo di tenere i figli pressoché incatenati alle relazioni familiari. Il libro di Vera Slepoi “Legami di Famiglia” già nel titolo rende molto bene quest’idea, infatti è molto importante porre l’accento nel modo giusto nella parola “legàmi/lègami”: è sufficiente spostare l’accento perché il significato cambi totalmente. In realtà il meccanismo dell’incatenamento deriva proprio dall’essere legato alla famiglia, ma non è qualsiasi legame di famiglia quello che aiuta la persona a vedere sviluppata la propria personalità. Al contrario, di fronte ad una famiglia concepita in termini esclusivamente proprietari, la reazione violenta di chi si ribella a questa proprietà, a questo asservimento, è perfettamente comprensibile. Così come si può capire che quando si vive in una famiglia fragile, anche se è animata da una cultura proprietaria, una famiglia inconsistente, incongruente, frazionata,si apre lo spazio ad una relazione fondata sul potere. Se non lo esercita il Capofamiglia qualcuno lo farà per lui perché è paradossalmente necessario a quella famiglia, per quella cultura, che quel vuoto sia riempito. Se quello è infatti il telaio culturale di riferimento, al momento in cui i genitori non sono in grado di assolvere a questo compito lo fanno i figli, definiscono loro le gerarchie del potere perché tutte le relazioni sono relazioni fondate su una forma di violenza all’interno della famiglia il cui scopo è stabilire le gerarchie del potere. Anche se questo ci appare terribile, in fondo è la battaglia a riempire un vuoto. Credo che questo sia molto importante per capire in che modo ci rapportiamo con queste famiglie, in che termini ci possiamo relazionare. Viviamo in una società multiculturale, in cui i punti di riferimento culturali entro i quali organizziamo i nostri valori sono molteplici, non multiculturali nel senso di multietnico ma multiculturali perché abbiamo diverse culture familiari, diversi modelli di relazioni familiari, 135 differenti modelli di relazioni genitoriali e dentro a questa diversità il problema diventa stabilire quale debba essere il criterio da seguire, perché pare sia diventato tutto relativo. Ho detto pare, infatti non lo credo. Non credo tutto sia relativo in educazione, perché credo alla educazione come intenzionalità dell'azione e dunque un criterio ce l’abbiamo ancora e sta nella capacità di educare, mantenere ed istruire i figli secondo i loro talenti, le loro attitudini ed ispirazioni, il che si traduce appunto nell’avere rispetto della loro struttura di personalità. Dentro questa struttura di personalità si coglie infatti l’esigenza di avere dei ruoli normativi ed affettivi, dei contenimenti e dei confini, di avere un confronto con l’intero sistema delle relazioni complesse rappresentate dalla famiglia che è, in questo, metafora della società e aiuta i giovani a stare dentro la società come cittadini. Ci troviamo ad operare in mezzo a tanti modelli culturali e questi possono essere una ricchezza solo se siamo in grado davvero di apprezzarne le differenze,le difformità, le incertezze e i pericoli. Soprattutto come educatori questo aspetto è essenziale, perché accettare di essere educatori prima che correttori, significa accettare che i comportamenti degli adulti educano sempre anche quando li consideriamo diseducativi, perché educano a valori diversi. Questo significa che la responsabilità educativa non è solo legata ai contenuti, ma si esercita in tutti gli atteggiamenti di una società. Non si educa a qualche cosa che è esterno e distante alla relazione educativa, ma si educa attraverso i valori che si cercano e se vogliamo essere sicuri che i nostri ragazzi ci guardino e ci rispettino dobbiamo noi per primi guardarli e rispettarli. 136 VIOLENZE GIOVANILI NELLE FAMIGLIE: I PERCORSI DI RECUPERO Dott.ssa Serena Casonato Psicologa Psicoterapeuta familiare, Centro Solidarietà Giovani “Giovanni Micesio” onlus, Udine Nell’attuale realtà sociale, caratterizzata da notevole complessità e da accentuate differenziazioni economiche e culturali, la crescente molteplicità di modelli di riferimento sottopone i giovani ad una serie di pressioni, aspettative, compiti a cui non sempre essi riescono a far fronte senza segni di conflitto e di difficoltà d’adattamento. In contrasto con la fruizione sempre maggiore di beni di consumo, si accentua il malessere giovanile, connesso al mancato soddisfacimento di bisogni immateriali, quali il bisogno d’identità, d’espressione personale, di realizzazione di sé. I genitori oggi si scoprono in difficoltà. Si accorgono che la società va in direzione opposta a quei valori nei quali vorrebbero educare i figli. Spesso non riescono ad ottenere rispetto e considerazione, vedono i figli crescere indecisi e disorientati, faticano ad intendersi e a dialogare sugli obiettivi importanti della vita. Anche i genitori si sentono indifesi come i loro figli e hanno anch’essi bisogno di sentirsi accettati, sostenuti, compresi. Le famiglie, oggi, si trovano, nelle comunicazioni che avvengono nella società, nelle opinioni che si contrappongono, sottoposte e intrappolate in un doppio messaggio dal quale sembra difficile uscire. Da una parte i genitori si vedono addossata una grande responsabilità: si ribadisce, in ogni occasione, il ruolo centrale che la famiglia svolge nelle diverse culture come pilastro fondamentale della società e struttura portante dei processi d’innovazione e di cambiamento. Dall’altra, i genitori si sentono, però, spesso soli e non riconosciuti nella loro funzione, vedendo fortemente ridotti lo spazio e l’efficacia della loro azione per una molteplicità di motivi: la concorrenzialità dei massmedia, l’attrattiva di modelli culturali distanti dai valori familiari, il fascino seduttivo di stili di vita sovente distorti e devianti. Nella vita di tutti i giorni le famiglie si sentono smarrite e impotenti, perché non si riconoscono realmente legittimate come soggetti del vivere sociale e sono concretamente abbandonate a se stesse nella gestione della loro responsabilità educativa. Inoltre, in un clima culturale di profondi mutamenti, i compiti tradizionali della famiglia, la gestione della vita quotidiana, dei suoi ritmi e dei suoi bisogni, sono ridimensionati. Le famiglie si trovano così a dover affrontare il compito, non facile, di ridisegnare forme, modi e 137 significati del loro rapporto educativo coi figli, sollecitati da esigenze e da bisogni nuovi, sempre più pressanti ed evidenti. Di conseguenza si assiste, poi, sempre di più ad un cambiamento dei ruoli all’interno della famiglia. Di fatto, il padre, spesso non è più percepito come un’autorità indiscussa e non fa da tramite come un tempo tra famiglia e società. Se la figura del padre risulta più debole, anche quella della madre è divenuta più problematica, in quanto non è più il padre a spezzare il cordone ombelicale che tiene stretto il figlio a lei. Per la madre, allora può diventare più difficile smettere di vedere il figlio come un bambino, concedendogli di sviluppare una propria autonomia e un’identità matura. Il nostro punto d’osservazione rispetto a tutto ciò, è il lavoro che costantemente portiamo avanti con le famiglie che arrivano al nostro Servizio di Terapia Famigliare e l’intervento, a diversi livelli, con i familiari dei giovani inseriti nel Programma Terapeutico della Comunità Terapeutica Residenziale, struttura che accoglie giovani con problematiche di dipendenza e doppia diagnosi. Dall’analisi fatta, si rileva come la violenza (nelle sue diverse forme) possa essere vista come un modo, seppur estremo, di chiedere aiuto; come segno di un’immensa solitudine o come indice della fatica che i giovani/adolescenti debbono fare per nascere come soggetti sociali sessuati, cioè per uscire dal ruolo di figlio, intimorito dalla prospettiva di doverlo rimanere per sempre. La violenza entra così ed esplode contro la famiglia. Deriva da una sorta di “patologia familiare” che si manifesta con il silenzio, con la difficoltà o incapacità, tra genitori e figli, d’entrare nello stesso circuito comunicativo, che sta a significare che ci si prende in considerazione e che circola il sentimento che “conto qualcosa per persone che contano per me”. Inoltre, la difficoltà d’educare empaticamente (non solo ti educo alla legalità, ma, insieme, ti do affetto, ti faccio sentire accettato) e l’anaffettività possono diventare un messaggio per il giovane che non si sente amato o che avrebbe bisogno di avere dei paletti, dei “no” empatici, motivati ma assolutamente fermi. Non ricevendo tutto ciò, in un certo senso, il giovane rischia d’“impazzire”, cresce senza saper distinguere il bene dal male e alla soglia dell’adolescenza impara a sfogare la propria aggressività in modo alle volte esasperato. Mentre, se l’adolescente, nel suo avanzare verso i genitori con aggressività, trova un argine, un confine, un contenimento, una risposta affettiva calda e vigorosa insieme, è possibile, interiorizzando tale esperienza, placare la sua angoscia, separarsi per costruire una sua propria identità libera e adulta. Nella violenza, invece, c’è confusione fra sé e altro da sé, non c’è separazione, non c’è incontro, ma scontro e intrusione onnipotente e distruttiva. 138 I giovani violenti non riconoscono l’alterità dell’altro come persona, poiché essi stessi non sono stati riconosciuti, e quindi distruggono l’altro come distruggono se stessi. I comportamenti violenti dei ragazzi, allora, sono dei precisi “segnali” che ci vengono offerti, ma che noi non riusciamo o, alle volte, non vogliamo interpretare. L’intervento terapeutico che può essere svolto a diversi livelli (terapia familiare, gruppi di sostegno per i genitori, terapie individuali), deve allora avere la funzione e la capacità di trasformare la rabbia/conflitto/violenza con se stessi e con gli altri in occasione di dialogo. Il disagio di molti giovani nasce molto prima che diventino giovani. Nel momento dell’adolescenza viene solo scoperto quanto non è stato dato loro prima: sicurezza, fiducia di sé, affetto, capacità di lottare per superare le difficoltà, capacità di tollerare le frustrazioni, capacità di porsi in relazione. L’intervento terapeutico deve essere il tramite attraverso cui il giovane (o adulto) violento può essere aiutato a ricordare e rielaborare la sua sofferenza, e a comprendere la sofferenza provocata negli altri. Di fatto, la dissociazione sperimentata nell’esperienza della violenza inflitta o subita, che ha consentito i processi di rimozione ed il ripetersi della violenza, viene interrotta nel momento in cui la persona si riappropria della sua sofferenza, inserendola nella propria storia personale e familiare per ricercare un significato. I percorsi di recupero, allora, devono essere intesi metaforicamente come delle attrezzate palestre dove ci si allena per tornare a fare gli adulti, per tornare ad essere genitori, per riscoprire le nostre responsabilità, anche e, soprattutto, quando ciò significa dire dei NO, quando significa far scontrare i ragazzi con dei muri. Non si tratta di un ritorno al passato, all’autoritarismo, ma significa allenarsi, anche se il percorso è ad ostacoli, al dialogo, alla vicinanza, alla comprensione con rispetto dei ruoli reciproci. Mi piace, in tal senso, ricordare una frase detta da un giovane in risposta al genitore che gli proponeva d’essergli amico. Il figlio ci pensa un po’ e dice “Bene, adesso ho un amico in più, ma non ho nessun padre!”. I ragazzi hanno tanti amici, ma soltanto due genitori e i genitori non devono perdere il loro ruolo, come invece noi assistiamo quotidianamente nella nostra pratica operativa. Genitori che non si permettono di vivere il proprio ruolo e che si confondono nello spazio vitale dei propri figli, creando quasi un’unica anima e corpo; impedendo l’affermazione di quel “salto generazionale” tra genitori/figli così fondamentale nel processo di differenziazione – distinzione dalla famiglia d’origine e tra generazioni diverse. Genitori che non riescono ad interagire coi propri figli, intesi come portatori di capacità, competenze e bisogni che inevitabilmente si differenziano ed evolvono a seconda delle diverse età. 139 I percorsi di recupero, allora, possono divenire occasione dove poter mettere in atto una sorta d’educazione relazionale e familiare per sostenere la crescita affettiva e relazionale; dove la ricostruzione di figure genitoriali credibili passa attraverso “l’educazione all’educazione”, cioè guidare le famiglie, i genitori a seguire i propri figli tenendo conto dei loro bisogni, ma anche e soprattutto delle loro capacità e competenze. Educazione intesa nel senso di comunicare chi siamo e cosa vogliamo; se non comunico, se non dico quello che sono, resta solo la sopraffazione dell’altro da me. Sul versante, poi, dei giovani i percorsi di recupero devono essere intesi come momenti dove loro riescono anche a riappropriarsi del loro tempo vissuto, inteso non più come restringimento del tempo soggettivo, dove vi è una riduzione o addirittura scomparsa del passato e del futuro, momenti questi essenziali per determinare una linea di sviluppo della propria esistenza. Limitarsi al presente vuol dire non sapere d’essere inseriti in un flusso e quindi non disporre di un senso di marcia adeguato. Percorsi di recupero per questi giovani significa dare loro la possibilità di confrontarsi con modelli stabili, capaci d’accettare il conflitto, poiché ciò significa anche accettare la relazione. Molto spesso, invece, ci troviamo di fronte a dei ragazzi che possono essere paragonati a dei ciechi che messi in una grande stanza, girano in tondo senza un muro che funga da punto di riferimento. In tali condizioni chiunque sarebbe preso dal panico. Al giorno d’oggi, poi, si parla molto dell’ascolto dei bambini/giovani, arrivando quasi a mitizzarlo. L’ascolto è sì importante, ma lo è anche il dialogo che è una cosa completamente diversa. L’ascolto, di fatto, è cercare ciò che il giovane ha dentro; il dialogo è, soprattutto, costruire attraverso la comunicazione, costruire assieme a lui una serie di competenze, ponendo l’attenzione soprattutto su quelle emotive. In tal senso, i percorsi di recupero dovrebbero orientarsi sempre di più all’educare i giovani e le loro famiglie a sperimentare quelle abilità necessarie per riconoscere, accettare ed esplicitare le proprie e altrui emozioni. La violenza nelle famiglie, allora, può essere contrastata solo dimostrando apertura, attenzione e senso di responsabilità: punti cardini di qualsiasi percorso di recupero. Se i genitori, in particolare, non sono lasciati soli, se vengono loro offerti spazi di confronto e di formazione, se si promuovono le loro competenze, la famiglia da problema può trasformarsi in una formidabile risorsa per i figli e per la società. Probabilmente siamo ancora molto lontani, nella realtà dei fatti, da questa dimensione, proprio perché, in genere, si offre alla famiglia uno spazio di confronto quando ormai le difficoltà sono già esistenti (v. gruppi genitori, gruppi d’auto mutuo aiuto, ecc.). Dobbiamo forse ancora entrare nell’ordine d’idee che è più efficace, anche dal punto di vista di una prevenzione di tipo primario, offrire alle famiglie più possibilità d’incontro e di confronto tra 140 loro ma nell’ottica della normalità, non quando ormai bisogna correre ai ripari. Momenti e spazi dove le famiglie (i genitori da soli, coi figli) possono avere la possibilità di raccontare e di raccontarsi, condividendo con altri le loro esperienze, difficoltà, angosce, paure ma anche risorse e possibilità di cambiamento. La vita familiare così rivalutata e organizzata, ricostruisce il senso della comunità. Il bisogno di comunità è, in fondo, un bisogno d’identità: identità personale e collettiva. Resta il fatto che anche i “bambini o giovani cattivi” hanno un cuore, ma è quello violento della realtà e dei loro cattivi maestri. Per concludere vorrei presentarvi, brevemente, una storia che per certi aspetti può apparire estrema, ma, per altri, molto significativa per i discorsi finora portati avanti. Vorrei raccontarvi la storia di Igor (il nome è stato modificato per rispettare il diritto alla privacy), 21 anni, con il quale sto portando avanti un percorso di valutazione per un eventuale inserimento in comunità terapeutica. Igor è di origini russe; all’età di 4 anni la madre, che divorzia dal padre (il padre di Igor presentava delle difficoltà con l’alcool), decide di venire in Italia per seguire il suo nuovo compagno e futuro marito. Igor, dopo aver frequentato il primo anno di scuola materna in Russia, segue la madre in Italia. La nuova unione della signora non è tra le più felici, visto che anche il nuovo compagno presenta dei problemi alcolcorrelati, sono stati riscontrati diversi episodi di violenza contro la moglie. Sembra, inoltre, che Igor, in alcune occasioni, abbia dovuto assistere a dei rapporti sessuali violenti tra i due. Verso i 13 anni di Igor, la madre divorzia anche da questo uomo e si trova un altro compagno; così, di nuovo, Igor segue la madre. All’arrivo alle scuole superiori iniziano i primi incontri di Igor con le sostanze, alcool e cannabinoidi, soprattutto, abusati a dosi massicce. C’è anche un’interruzione scolastica al terzo anno, con passaggio ad un altro istituto. All’età di 18 anni Igor commette il suo primo reato, violenza sessuale (palpeggiamenti) ai danni di una minorenne. A distanza di poco tempo ne commette altri due (palpeggiamenti ai danni di una minorenne ed episodi di masturbazione in luogo pubblico). A 20 anni commette il terzo reato, quello più grave: violenza sessuale e sequestro di persona ai danni di una bambina di tre anni e mezzo. Tutti i reati sono stati commessi sotto l’effetto di massicce dosi di alcool e di cannabinoidi. 141 Dopo un periodo di permanenza in carcere, Igor ottiene gli arresti domiciliari dal secondo marito della madre, ancora alcol dipendente. La madre ed il nuovo compagno non possono andare a trovare Igor a causa dei cattivi rapporti esistenti con l’uomo. La madre coinvolge il figlio nelle sue vicende e peregrinazioni amorose. Costantemente e per lunghi periodi si reca in Russia, dalla propria madre, “abbandonando” Igor a se stesso. Un padre non esiste, anche se intorno a lui ruotano delle figure maschili. Igor esiste, ha 21 anni, è un ragazzone alto oltre un metro e novanta con una faccia da bambino e tanta, tanta rabbia in corpo ………….lascio a voi le altre riflessioni. 142 L’OSSERVATORIO DEL SERVIZIO SOCIALE PENALE MINORILE Dott.ssa Ariella Stepancich Direttore Ufficio Servizio Sociale Minorenni, Trieste Il mio vuole essere un contributo alla discussione sul bullismo e sulla violenza interfamiliare da un particolare osservatorio quale è quello dell’Ufficio Servizio Sociale per i Minorenni (U.S.S.M.). L’U.S.S.M. è un servizio periferico del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia Minorile che ha sede a Roma, istituito in ciascun capoluogo di distretto di Corte d’Appello o sezione di Corte d’Appello, dove ha sede il Tribunale per i Minorenni. In Friuli Venezia Giulia la direzione d’ufficio ha collocazione a Trieste dove operano, per le province di Trieste e Gorizia, diverse figure professionali quali assistenti sociali, educatori, personale di Polizia Penitenziaria. E’ aperta una sezione staccata a Udine, competente territorialmente per le province di Udine e Pordenone. L’Ufficio ha sempre privilegiato la vicinanza con il territorio di provenienza e di vita dei minori e delle loro famiglie, al fine di stimolare collaborazioni e promuovere iniziative con i Servizi, le Istituzioni e il Privato Sociale. I servizi intervengono su di minori dai quattordici anni (al di sotto di tale età il minore è tout court considerato penalmente non punibile per un reato commesso) ai diciotto anni, autori di reato, arrestati o a piede libero o infraventunenni sottoposti ad una misura penale. In questi casi si assicura un’attività di assistenza in ogni stato e grado del procedimento attivando percorsi di crescita e di responsabilizzazione attraverso la valorizzazione delle risorse personali, familiari, sociali ed ambientali, modulando gli interventi in funzione delle esigenze educative del minore. L’U.S.S.M. interviene su richiesta dell’Autorità Giudiziaria Minorile (Tribunale per i Minorenni e Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni), che oltre ad avere una funzione punitiva e sanzionatoria, ha necessariamente, per la propria doppia competenza, penale e civile, una funzione di tutela. In questo contesto di analisi del fenomeno del bullismo e di possibili soluzioni desidero porre attenzione a quanto riscontrato nella pratica professionale: perfino nell’applicazione delle misure penali limitative della libertà l’A.G. Minorile pone particolare attenzione, sancita dal Nuovo Codice di Procedura Penale per i Minorenni n.448/88, ai processi educativi che cerca di non interrompere, se sono in corso, o di stimolare e favorire, se sono inesistenti o appena abbozzati. E’ importante la funzione educativa, direi genitoriale, esercitata dalla Magistratura Minorile nei confronti del minore, quasi una longa manus dei propri genitori, autorevole, 143 competente, importante, che può entrare in gioco nella ricerca di risposte e di soluzioni ai bisogni dei minori. L’Ufficio ha quindi una vasta panoramica, oserei dire una totale panoramica, sui reati commessi da minori anche se, per la quantità e la diversità di tipologia dei reati, più o meno gravi, non viene operata una presa in carico di tutti i minori. Vengono seguiti i minorenni che hanno commesso i reati più gravi o quelli che determinano un allarme sociale sia per l’età dei minori (vengono privilegiati i ragazzi di età più giovane) che per le modalità di esecuzione (es. i reati di gruppo). Comunque l’U.S.S.M. ha una consistente e consolidata esperienza nel venire a contatto con situazioni di minori residenti su tutto il territorio regionale, e nell’operare un’analisi sulle condizioni di vita dei giovani, sui disagi personali e sugli eventi che li coinvolgono. A questo punto è quasi superfluo dire che il nostro è un osservatorio privilegiato ed allo stesso tempo anche parziale di una realtà, come quella degli argomenti in discussione, perché non tutte le situazioni, in cui è stata commessa una trasgressione di una norma da parte di un minore, si “arriva” al penale, ovviamente per molti motivi, in primis l’assenza di denuncia e questo senza alcun giudizio di merito, se il ragazzo è imputabile, o, nel caso di minore infraquattordicenne, proprio perché non imputabile, non passibile di giudizio (qui entrano in gioco, su intervento del magistrato o del giudice, altri tipi di interventi di tipo civilistico). Per questi motivi le segnalazioni di reato per minori in situazioni di gruppo sono insufficienti a definire fenomeni di tipo sociale, sono addirittura fuorvianti, perchè arrivano alla nostra attenzione comunque separati: lesioni, risse, danneggiamenti, violenza privata, percosse, e altro. Un dato rilevante è costituito dalla sempre più spiccata diminuzione dell’età del minore autore di reato, a riprova della precocità dei giovani riscontrata in altri campi, diciamo più neutri e meno connotati da devianza. Dalla nostra conoscenza è emerso comunque che non tutte le situazioni di reato di violenza in gruppo costituiscono episodi di bullismo. Solo la conoscenza e l’approfondimento della situazione attraverso i racconti dei ragazzi stessi possono far emergere situazioni di bullismo, inteso come reiterazione di atti intimidatori, di violenza verso il debole che non è in grado di sottrarsi e perpetua inconsapevolmente con il suo atteggiamento azioni di pesante sopraffazione. Per la percezione che si ha del bullismo, come fenomeno che determina un allarme, una rilevanza sociale, approfondita in letteratura e/o riportata dai mass media, abbiamo riscontrato poche situazioni in ambito scolastico (nell’ordine di unità), che vedono esclusivamente coinvolti maschi. 144 All’esterno della scuola si ha invece un aumento di episodi di reiterata violenza di ragazze su coetanee (fenomeno piuttosto eloquente perché la commissione di reati da parte di minori femmine è significativamente inferiore dei minori maschi costituisce circa il 10% del totale). Dalla mia esperienza lavorativa posso dire che questo tipo di reati si sono verificati anche in altri periodi storici; non riscontriamo infatti un aumento nel numero degli episodi ma si è modificata nel tempo l’attenzione o la copertura che ne viene data. Riscontriamo invece un abbassamento della tolleranza del mondo adulto, anche se paradossalmente il modello culturale non è dei più incoraggianti, visto che viene spesso premiata la prepotenza e la furbizia. Uno spazio a parte dovrebbe essere dato ai reati di gruppo di natura sessuale messi in atto da minori. In generale si riscontra una maggiore sensibilizzazione del contesto significativo per i minori vittime, in prevalenza femmine. Proprio per questo modo di sentire generalizzato, purtroppo, e’ cambiata la percezione della trasgressione e del disvalore dell’atto da parte del minore, un tempo molto più netti (il minore era molto più consapevole di quello che stava succedendo). Il gruppo determina una percezione distorta del coinvolgimento, si ha un ricordo molto sfalsato, molto diluito della trasgressione, il gruppo rinforza le azioni del singolo anche se la denuncia penale e di conseguenza la responsabilità rimangono individuali. Dal punto di vista numerico il fenomeno che riguarda la commissione di reati da parte di minori in prevalenza maschi su femmine non ha subito un aumento, come d’altronde per altri reati contro la persona. Comunque anche qui si sta riscontrando però sempre un abbassamento dell’età dei minori che vivono le esperienze fondamentali legate alla sessualità in modo decisamente immaturo, fuorviato quando non è traumatico e traumatizzante. Tali esperienze fondamentali mal riuscite hanno un effetto devastante sia per le vittime, già protette in quanto vittime, sia per i minori autori di violenza sui quali si deve intervenire in modo consistente soprattutto quando si trovano a essere sotto i riflettori della giustizia. Un discorso a parte meritano gli atti violenti e ripetuti in famiglia da parte degli adolescenti. La realtà dimostra che la violenza agita è stata assistita e respirata in precedenza o continua a essere vissuta sulla propria pelle in altre forme. Succede spesso, anche per l’uso di sostanze, che si abbassino i freni inibitori, che il ragazzo tenga in ostaggio la famiglia, che il genitore si consegni letteralmente al figlio. Si hanno case sfasciate in momenti di violenza devastante, violenza che si riversa anche sui componenti del nucleo familiare. I reati gravissimi sono per fortuna sporadici. Che fare? Questo è l’interrogativo che abbiamo sempre presente. 145 L’esperienza professionale ha dimostrato che non esiste una soluzione univoca alle varie problematiche. Può essere significativo e produttivo l’intervento della scuola ove si creino momenti informali di confronto nel tempo extra curricolare in cui il ragazzo possa esprimersi abbastanza liberamente. E’ importante creare delle esperienze educative diverse, lavorare individualmente con i ragazzi ma anche con il gruppo, attraverso l’educativa di strada (es. a Trieste anni fa è stato attuato un progetto per la costruzione di un murales in un quartiere problematico). I ragazzi hanno imparato gradatamente ad avere un rapporto più maturo con l’adulto, con l’educatore e con i coetanei, diventando meno succubi ed hanno imparato a smorzare la loro prepotenza, ad avere un ruolo più autonomo e responsabile. L’intervento non può e non deve essere fatto solo con i minori, perché sarebbe insufficiente e parzialmente inefficace. I Servizi non risolvono da soli situazioni così complesse ma, essendo all’interno di un sistema dinamico-relazionale, devono prevedere, se la famiglia si trova in difficoltà, il coinvolgimento dei genitori stessi, della scuola e della comunità. Solo con la sinergia di queste realtà che conoscono i ragazzi sotto aspetti molteplici, si può attuare un intervento significativo ed efficace anche al di là dei limiti e delle risorse che sono sempre più generalizzate. 146