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aut aut - Competenze linguistiche, rituali e trappole dell`interazione
Competenze linguistiche, rituali e trappole dell’interazione
di Fabio Quassoli
Questo saggio verte sulle tensioni alle quali vengono sottoposti alcuni “meccanismi” che, per
lo più tacitamente, assicurano uno svolgimento “ordinato” dell’interazione situata in contesti
caratterizzati dall’eterogeneità linguistico/culturale degli attori. Se parlare una lingua significa
interagire in modo appropriato attraverso uno strumento espressivo entro contesti significativi
e organizzati (Geertz 1987; Wittgenstein 1986), quando individui provenienti da culture
differenti si incontrano e interagiscono in una situazione strutturata1 si dovrebbero verificare
interruzioni e difficoltà di natura differente rispetto a quelle che pur costellano il fluire
dell’interazione tra due o più attori dello “stesso” ambiente culturale e linguistico.
Prendiamo le mosse dall’ipotesi che ogni transazione comunicativa si sviluppi lungo due
dimensioni: da un lato, la creazione, su un versante strettamente cognitivo, di un senso di
realtà esperito in comune attraverso l’attivazione di schemi cognitivi e di procedure
interpretative (Schütz 1979; Cicourel 1973; Leiter 1980), dall’altro, sul piano rituale e morale
dell’agire sociale, un fluire ordinato dell’interazione o, per meglio dire, un’apparenza di
ordine che, a dispetto delle continue infrazioni che la turbano, deve essere sostenuta da un
incessante lavoro di “riparazione rituale”. Ci riferiamo, in quest’ultimo caso, alle tecniche con
cui gli attori sociali cercano - con maggiore o minore successo - di coordinare le proprie
azioni e di trattarsi reciprocamente con una “corretta dose di appropriatezza rituale”,
interpretando le proprie e le altrui azioni come mosse di un interscambi ritualizzati2 che
pongono in primo piano il self degli attori e le tecniche attraverso le quali tali selves vengono
proiettati, sostenuti, messi in discussione o screditati (Goffman 1969; 1971; 1981; Garfinkel
1967; Fele 1991). Come per ogni altro aspetto della vita sociale tutti i partecipanti all’incontro
devono svolgere un lavoro, eminentemente rituale, di gestione delle relazioni sociali che
comprende le manifestazioni di deferenza reciproca e quelle, a esse parallele, di contegno,3 e
1 Gli esempi discussi nelle pagine che seguono sono tratti da una ricerca etnografica sull’interazione
comunicativa tra operatori italiani dei servizi sociali e utenti stranieri, svolta nel 1994, presso alcuni uffici
comunali e associazioni non-profit di Milano.
2 Con il termine “interscambio” intendiamo un insieme di azioni ciascuna delle quali si ricollega a quanto è
avvenuto in precedenza, può corrispondere o meno alle aspettative generatesi e richiede una risposta
conseguente e adeguata la quale, a sua volta, costituirà il riferimento per la mossa successiva (Goffman 1981).
3 Naturalmente, anche per i termini “deferenza” e “contegno” seguiamo le definizioni proposte da Goffman,
secondo il quale deferenza indica “quella componente dell’attività che funziona come strumento simbolico con il
quale si esprime regolarmente ad una persona il proprio apprezzamento nei suoi confronti o nei confronti di
qualcosa di cui questa persona è assunta come simbolo, estensione o agente. Questi segni di devozione
rappresentano il modo in cui l’attore celebra e conferma la sua relazione nei confronti del destinatario”. Il
contegno è, invece, “quell’elemento del comportamento cerimoniale dell’individuo tipicamente manifestato
mediante l’atteggiamento, il modo di vestire o di muoversi, e che serve a comunicare a coloro che sono in sua
presenza che egli è una persona che possiede certe qualità desiderabili o indesiderabili” (Goffman 1971: 83-83).
1
l’affermazione, attraverso il rispetto delle “buone maniere”, dell’importanza rituale dei propri
interlocutori. È l’arena del lavoro cooperativo di sostegno reciproco delle identità in
gioco - che consente ai partecipanti di presentare un determinato self in modo che gli eventi in
grado di generare informazioni screditanti vengano accuratamente tenuti sotto
controllo - delle modalità di esecuzione dei rispettivi ruoli sociali e del lavoro rituale che sta
alla base del rispetto reciproco che gli attori tributano alle proprie identità sociali.
Le due dimensioni sono strettamente intrecciate e il prodursi di comunicazioni efficaci sotto il
profilo della comprensione dei messaggi verbali scambiati – la costruzione di un’apparenza di
significati condivisi - si radica sempre in una trama di regole morali che orientano la condotta
rispetto a quelli che, volta per volta, vengono percepiti e fatti valere come standard vincolanti
di comportamento: come ricorda Garfinkel, il mantenimento di tali presupposti comunicativi
e l’apparenza di comprensione reciproca che ne scaturisce, rappresentano un obbligo morale
finalizzato a sostenere l’ordine rituale dell’interazione (Garfinkel 1967).
Vedremo, dunque, come presupposti, assunti e metodi interpretativi, che normalmente
risolvono l’ambiguità intrinseca dell’interpretazione di qualsiasi comunicazione o mossa
interazionale, vengano messi “sotto tensione” e come l’eterogeneità linguistica e le
“differenze culturali” rendano incerta la valutazione morale del comportamento. È nostro
obiettivo fare emergere un pezzo della trama normativa che struttura alcune specifiche
occasioni sociali di incontro e offrire uno spaccato del tipo di infrazioni che possono
verificarsi, delle strategie messe in campo per farvi fronte e degli esiti ottenuti, così come di
eventuali aporie cognitive o pragmatiche che si producono.
Da un lato, le interazioni che ci vedono impegnati quotidianamente si innestano su un tessuto
di regole implicite che applichiamo automaticamente senza bisogno di tematizzarle e di
ridefinirle ogni volta. Dall’altro, nell’interpretazione e nella spiegazione del comportamento
di coloro che interagiscono con noi, così come quel che concerne le nostre comunicazioni e i
nostri comportamenti, ci affidiamo, ancora una volta in modo tacito, a un insieme di
conoscenze, schemi interpretativi e procedure date per scontate che strutturano la percezione
del mondo sociale.
Ora, proprio questi elementi, che consentono di muoversi, senza eccessivi problemi e costi di
tipo cognitivo e affettivo, nelle normali interazioni sociali sono messi sotto tensione nel
momento in cui le attese da essi prodotte vengono smentite dall’azione di persone che
seguono regole e utilizzano schemi interpretativi differenti, o allorché il principale strumento
espressivo attraverso cui regoliamo e coordiniamo le interazioni che ci vedono coinvolti - il
linguaggio - fallisce nella sua funzione di rendere praticabile la costruzione di un mondo
“ordinato e percepito in comune”.
Una prima conseguenza di tali “strappi” interazionali (per il momento solamente ipotizzati) è
dato proprio dalla possibilità che questo mondo tacito di “pratiche”, “presupposti” e di
“conoscenze date per scontate” torni a essere tematizzato, e si manifestino sia l’aspetto
convenzionale di ciò che viene normalmente considerato “naturale”, sia l’importanza morale
e la cogenza simbolica di atti la cui centralità spesso non viene rilevata, poiché vengono
compiuti come gesti automatici. Proprio l’incontro con ciò che è inusuale e inatteso offre
l’opportunità di portare alla luce, chiarire, analizzare e riconsiderare, da un punto di vista
differente, una sfera che ha la solidità di un fatto sociale durkheimiano.
Abbiamo concentrato la nostra attenzione su quattro aspetti:
1.
Intoppi, equivoci e incomprensioni che si verificano nel corso dell’interazione.
2
2.
Modi in cui gli attori si mobilitano per porvi rimedio, ripristinando un’apparenza di
ordine e di consenso operativo su “ciò che sta accadendo”, e su quali siano i ruoli e le
identità in quel momento rilevanti.
3.
Modi in cui tali equivoci e difficoltà vengono interpretati e/o giustificati.
4.
Modi in cui le violazioni di un ordine interattivo (punto 1), influenzano, attraverso le
interpretazioni che di tali violazioni vengono date (punto 3), l’immagine reciproca degli
attori e viceversa.
Brevi cenni sul problema delle incomprensioni
È opportuno far precedere la descrizione degli aspetti rituali delle interazioni tra operatori
italiani - in genere, assistenti sociali donne - e utenti stranieri, da alcune considerazioni
generali sul problema dell’incomprensione.
Una prima questione concerne la percezione che le parti in gioco hanno di comprendersi
reciprocamente, o, per meglio dire, la costruzione di un’“apparenza” di mutua comprensione,
riguardo a ciò di cui si parla nel corso dei colloqui. Dal punto di vista dell’operatore italiano,
questo dipende, prevalentemente, dall’insufficiente padronanza della lingua italiana da parte
dell’utente straniero e dalla valutazione che di tale competenza linguistica si può dare: due
aspetti che condizionano in modo determinante la comunicazione sotto il profilo sia
“cognitivo” che “rituale”.
Sempre dal punto di vista dell’operatore, entra poi in gioco la valutazione del grado di
conoscenza di una serie di aspetti della società italiana che egli può attribuire al proprio
interlocutore e alle fonti di informazione “a portata di mano” che possono risultare utilizzabili
per una valutazione di questa conoscenza. L’interrogativo ruota attorno a che cosa, e in che
misura, si possa dare per scontato, cioè se la persona che si ha di fronte conosce ciò di cui si
sta parlando, e quali siano gli aspetti che devono essere approfonditi o esplicitati per
raggiungere una comunicazione efficace. Le difficoltà, in particolar modo laddove le
competenze linguistiche sono molto approssimative, sorgono non soltanto in riferimento
all’uso di termini e conoscenze tecniche, ma si ripresentano proprio sul terreno di “ciò che
tutti sanno” o che si può legittimamente dare per scontato che debbano sapere. Nascono, cioè,
in rapporto alle conoscenze locali, tra le quali possiamo annoverare anche l’ambiente della
pubblica amministrazione o l’organizzazione dei servizi pubblici, che costituiscono un
patrimonio in una certa misura condiviso dagli “autoctoni”, ma spesso si estendono alla
conoscenza di caratteristiche molto più generali dell’organizzazione sociale. La cosiddetta
“provincia di significato della vita quotidiana” sembra quindi rappresentare un dominio
condiviso solo parzialmente e questo rende estremamente difficoltosa la comprensione di ciò
di cui si parla senza dover esplicitare il significato di buona parte delle cose alle quali si
allude. Questo in linea teorica, poiché all’atto pratico il tentativo di tematizzare il “dato per
scontato” si infrange immediatamente contro ostacoli di natura cognitiva - una sorta di
regressio ad infinitum - e interazionale analoghi a quelli studiati da Garfinkel nei suoi
esperimenti sulla rottura delle apparenze normali (Garfinkel 1967).
Una terza questione, infine, ha a che fare più direttamente con il problema della
comprensione. Come è possibile capire se quanto detto viene capito e, nel caso in cui quel
3
che viene detto non viene capito, per quale motivo è oggetto di incomprensione?4 Quanto a
quest’ultimo punto, ciò che per noi è importante non è tanto la causa (ricostruita dai soggetti
osservati e/o dall’osservatore) che possa spiegare la mancata comprensione, quanto lo spettro
di ragioni che gli attori possono addurre per identificare un’incomprensione e per spiegarla
(Banks, Ge e Backer 1991). In quest’ottica non interessano le ragioni “profonde” che portano
due persone di cultura e lingua diversa a non comprendersi, ma lo spazio che
l’incomprensione occupa nell’esperienza degli attori e il modo in cui viene percepita,
descritta e affrontata.
Il cosiddetto “accordo cognitivo” viene, dunque, minato da due fattori critici che possiamo
riassumere in:
1. Difficoltà interpretative, dal punto di vista dell’operatore italiano, della competenza
linguistica estremamente variabile, e non facilmente appurabile, posseduta dagli utenti
stranieri e i riflessi che tali difficoltà provocano sulle strategie a disposizione per ridefinire
o ricostruire un ordine cognitivo ed espressivo.
2. Opacità relativa all’estensione del patrimonio di conoscenze di senso comune
relativamente agli argomenti toccati nel corso delle conversazioni e la conseguente
problematicità nel funzionamento dei presupposti taciti che fondano la possibilità di
costruire un’apparenza di comprensione reciproca e la realizzazione di un mondo percepito
in comune (Schütz 1979; Cicourel 1973).
Altri due aspetti, cui accenniamo brevemente, che evidenziano le difficoltà connesse alla
contestualizzazione di ciò che ciascuno dice e fa riguardano, da un lato, le difficoltà
incontrate - sia da parte dell’operatore sia dell’utente - nell’identificare socialmente il proprio
interlocutore a causa della problematicità nell’interpretazione delle informazioni che vengono
comunicate o che traspaiono sul conto dei partecipanti; dall’altro lato, i problemi di
definizione della situazione e di raggiungimento di un consenso operativo sull’interpretazione
degli elementi di contesto dell’interazione. Contesto, ruoli, compiti, e identità sociali
rilevanti - Dove ci troviamo? Chi siamo? In quale veste stiamo interagendo? ecc. - non
possono rientrare, infatti, nelle premesse tacite date per scontate, ma richiedono una costante
e difficoltosa ridefinizione e messa a punto.
Infine, la “non-trasparenza” (sarebbe meglio dire l’impressione di non-trasparenza) dei ruoli e
delle identità in gioco nel contesto locale - così come di quelli più generali - chiamano in
causa la terza componente del rapporto di servizio (Goffman 1968): quella “comunicativa” o
“cerimoniale”. Si tratta dell’insieme di atti comunicativi tramite i quali gli attori sociali
ridefiniscono incessantemente lo stato della loro relazione, i loro allineamenti provvisori, il
grado di coinvolgimento nella situazione che ritengono appropriato,5 i selves propri e altrui la
4
Si possono prefigurare tre situazioni tipo: una prima, in cui la mancata comprensione dipenda da alcuni termini
usati il cui significato non è conosciuto, o dalla particolare costruzione della frase che non è stata afferrata, una
seconda, per cui le cose di cui si parla, a prescindere dalla capacità di comprensione linguistica in senso stretto,
non siano conosciute dall’interlocutore, una terza, abbastanza frequente quando la risposta data è negativa, in cui
dire “non ho capito”, o più semplicemente farlo intendere, rappresenta un mezzo per reiterare la richiesta,
simulando di non comprendere le risposte che frustrano le aspettative e guadagnando tempo per mettere a punto
una strategia di gestione della delusione delle aspettative.
5 Quando usiamo il termine “coinvolgimento” non intendiamo riferirci alle implicazioni affettive delle
comunicazioni, ma, ancora una volta, a quelle espressive. Non ci interessa, infatti, analizzare le strategie
difensive (in senso psicologico o psicoanalitico) di gestione della partecipazione affettiva rispetto a ciò in cui
4
cui presenza nella situazione viene ritenuta consona e accettabile (si potrebbe dire legittima),
nonché le regole di rilevanza e di irrilevanza (Goffman 1969: 20) attraverso le quali viene
demarcato un confine tra quanto ha pieno diritto di cittadinanza all’interno dell’incontro e
quanto, al contrario, deve rimanere escluso da esso, disattivato. Anche in questo caso, la
chiave interpretativa che meglio descrive le modalità con cui i partecipanti all’incontro
scendono a patti con i vincoli e gli obblighi dell’interazione sociale, e le strategie che si
rendono disponibili, consiste nell’assenza di uno schema condiviso di comunicazione, o, dal
punto di vista dei presupposti soggettivi degli attori, l’impossibilità di dare per scontata
l’esistenza di un comune schema di comunicazione e comprensione che permetta di assumere
il fatto che le parole e le azioni verranno interpretate con lo stesso significato normalmente
attribuito a esse.
Gli esempi che seguono si incentrano proprio sugli ultimi due aspetti citati.
Competenza comunicativa, performance di ruolo e trattamento rituale
Per incominciare, volgiamo lo sguardo sulle difficoltà che entrano in gioco ogniqualvolta
faccia la sua comparsa nel corso del colloquio un lessico “professionale” - un gergo tecnico –
che rappresenta uno degli strumenti fondamentali attraverso cui coloro che fanno parte di
gruppi professionali sostengono la rappresentazione sociale della propria professione,
manifestano la propria competenza, esercitano un controllo sulle condizioni in cui si trovano a
operare e mostrano di essere, in buona sostanza, all’altezza del ruolo svolto (Strati 1985).
Nel momento in cui si riduce e diviene estremamente scivoloso l’ambito di riferimenti
comuni agli attori, che possono essere dati per scontati per comprendersi, si disattiva così
progressivamente uno degli strumenti simbolici di definizione di una linea ufficiale di
condotta e di difesa da forme di coinvolgimento non desiderate. Nulla vieta, naturalmente,
all’operatore, di perseverare in una strategia di presentazione del sé “di alto profilo” con largo
ricorso a strategie di idealizzazione positiva del proprio ruolo; facendo questo, tuttavia, si
corre il rischio che un dialogo già difficoltoso si trasformi in un soliloquio che presto o tardi
dovrà, comunque, fare i conti con sguardi attoniti e segnali di incomprensione sempre più
marcati.
È estremamente difficile afferrare l’effetto e le reazioni generate nell’interlocutore straniero
dal perseverare in un tipo di comunicazione che faccia largo uso di un linguaggio burocratico
che rappresenta uno dei gerghi maggiormente utilizzati dagli operatori. Nella maggioranza dei
commenti che abbiamo raccolto prevale una sensazione di grande distanza, freddezza,
disinteresse e chiusura, a cui si risponde in modi tipici. La reazione più diffusa vede l’utente
simulare di aver ricevuto il messaggio e di averlo capito, mostrando così, almeno
apparentemente, di riconoscere, di rispettare e di non voler intralciare la linea di azione
adottata dall’operatore. Si manifesta, allo stesso tempo, deferenza verso l’autorità e contegno
verso se stessi, preferendo una sconfitta sul piano cognitivo, al trasmettere informazioni
potenzialmente screditanti sul proprio self, o all’avventurarsi in un’impresa di chiarificazione
che può risultare molto minacciosa, dati gli intrecci tra capacità linguistiche, intese come
capacità di padroneggiare linguaggi specifici, e possibilità di partecipare al gioco cooperativo
che consente un’esecuzione non problematica dei ruoli sociali. Non si tratterebbe tanto, in
l’individuo si trova coinvolto e che possono essere tenute a tal punto sotto controllo da non essere scorte, quanto
mettere in luce i problemi che sorgono sul piano della simbolizzazione del coinvolgimento attraverso una
strumentazione segnica che ha un carattere intrinsecamente pubblico.
5
questo caso, di collisione tra codici espressivi di carattere rituale differente (codici “segnati”
dalla provenienza culturale), ma di conseguenze sul piano rituale di difficoltà di ordine
cognitivo ed espressivo, o meglio, dell’intrecciarsi continuo delle due dimensioni.
In ogni caso la strategia difensiva ha implicazioni negative non solo per l’utente, che non
ottiene le informazioni desiderate e/o non raggiunge l’obiettivo che si era proposto, ma anche
per l’operatore, che non può garantire l’efficacia operativa che il proprio ruolo esigerebbe.
Questo può essere colto, di norma, solo nel momento in cui l’interazione viene
osservata/ricostruita dall’esterno, poiché il tatto e il contro-tatto esercitati reciprocamente dai
due attori nei confronti di espressioni e di azioni che segnalano un episodio di mancata
comprensione sostengono - o forse impongono di sostenere - delle apparenze ritualmente
corrette che nascondano una comunicazione inefficace:
Succede che in molti casi si usino termini tecnici e giuridici particolari, si faccia
riferimento a istituti giuridici, a cose che ci sono in Italia e che, magari, non ci sono in
altri paesi; o, ancora, che i termini siano difficili da tradurre, non solo in senso linguistico.
Un tribunale dei minori, ad esempio, in Eritrea magari non sanno nemmeno che cosa sia.
Assieme a questa prima difficoltà ce n’è una seconda che nasce nel momento in cui tu vuoi
spiegare, per esempio, un concetto o un termine che non è stato capito, perché devi usarne
altri che non puoi dare per scontato che siano conosciuti. Come con le scatole cinesi, ne
continui a trovare di nuove. Cioè, si ha l’impressione che a un certo punto si faccia finta di
capirsi; e ti dirò di più; non so se è perché loro lavorano da vent’anni o giù di lì, ma a
volte non glielo spiegano neanche.
Da parte degli utenti non c’è praticamente reazione. Stanno zitti. Forse sono io che mi
faccio delle idee sbagliate e invece loro capiscono, per carità; però, se mi chiedessi di
spiegare bene che cosa è la prefettura non so se sarei capace di spiegartelo. Per questo mi
immagino come si possa trovare una straniero [...].
Da parte dello straniero non c’è una richiesta di chiarimento. E’ lo sguardo perso che ti
da la sensazione che non abbia capito. Lo sguardo perso o magari leggermente perplesso.
Nonostante questo si va avanti. Non c’è un tentativo di fermarsi e di dire: “no, un
momento ...”. Forse perché uno, a un certo punto, spera di capire più avanti, nel senso che
dice, “va be’, non ho capito questa parola, ma ho capito di che cosa stiamo parlando, e il
resto lo capirò”. Non si sta magari a spiegare, a chiedere parola per parola il significato,
anche perché forse loro sono abituati a non capire. Forse un po’ mettono nel conto che più
avanti tutto sarà chiaro.
L’importante è capire, per una madre che ha un bambino che sta qua da noi, dov’è e che
cosa ne sarà del suo bambino. Chi poi deciderà che cosa sarà del suo bambino - il giudice,
la polizia, il questore o chi per esso - non importa, perché loro sanno che comunque qui
c’è lo stato e che a questo devono ubbidire. La figura particolare in gioco, magari, non
interessa neanche tanto (assistente sociale tirocinante).
Sotto il profilo della competenza, l’agire di ruolo dell’operatore si caratterizza in almeno due
direzioni. Da un lato, c’è la competenza intesa come capacità di comprendere i problemi, di
tradurli nei termini di vincoli e di risorse a disposizione per la loro soluzione e di attivare
delle procedure più adatte allo scopo. In questo senso, la dimostrazione massima di
competenza ai propri occhi e agli occhi dell’utente è testimoniata dall’esaudire le sue
richieste, mediante l’utilizzo di tutte le risorse e le procedure a disposizione (canali ufficiali e
canali informali). Dall’altro, c’è la rappresentazione della competenza per cui, se dal punto di
vista dell’utente può essere indifferente il percorso seguito dall’operatore, purché egli riesca a
ottenere quanto desidera, per l’operatore ciò che si ottiene e il come lo si ottiene sono
entrambi ugualmente importanti.
6
Esiste, comunque, un aspetto di rappresentazione della propria capacità professionale che
racchiude in sé anche un’idea ben precisa di che cosa significhi “correttezza professionale” e
“agire in modo professionale”. In generale, una condizione imprescindibile risiede nel tenere,
e nel mostrare di saper tenere, la situazione sotto controllo. Ma, per mantenere l’interazione
sotto controllo è necessario cogliere e governare le coordinate di ciascun caso; comprendere il
problema nonostante le, talvolta, insuperabili barriere linguistiche. L’esempio ricorrente è
dato dalla frase di esordio con cui di frequente viene introdotta la richiesta: “posto per
dormire”, oppure, “io ... dormire”, “casa”, “no lavoro”, ecc. Essa segnala d’acchito le
difficoltà, che si presentano ovviamente in misura variabile e il cui grado rimane arduo da
appurare, cui va incontro l’utente nell’esporre autonomamente la propria situazione. Un tale
incipit richiede spesso un lavoro di indagine, non soltanto per approfondirne i dettagli, ma
anche per definirne gli elementi fondamentali. Il problema, una volta “chiarito”, deve essere
riformulato in termini “tecnici” secondo le linee fornite dalle procedure amministrative. Ogni
pratica di ricongiungimento famigliare, per esempio, abbisogna, per poter essere impostata
correttamente, di supplementi di informazione per determinare le condizioni in cui si trovano
il richiedente e la sua famiglia e questo implica che, tra le altre cose, venga comunicato
l’elenco di documenti necessari e venga spiegato l’iter che la pratica dovrà seguire per andare
a buon fine.6
Come abbiamo detto, un primo ostacolo per l’operatore è dato dalla “imprecisione” con cui
viene espressa la richiesta. Per comprenderne i contorni, prima dei dettagli, è infatti
necessario dare avvio a una sequenza di domande e risposte che, nella maggior parte dei casi,
devono essere ripetute più volte, in modi differenti e utilizzando un lessico e una costruzione
del periodo che si va progressivamente semplificando. La modalità comunicativa è inconsueta
e costringe l’operatore ad affidarsi ad un linguaggio “scorretto” da un punto di vista
grammaticale, sintattico e stilistico, e a forme di espressione che, dal punto di vista del
contegno personale, non sono consone né al ruolo svolto, né allo status più ampio di membro
competente. Esse mettono a repentaglio l’immagine che l’operatore cerca di fornire, o meglio,
proiettano un sé incompatibile sia con una versione idealizzata del proprio ruolo
professionale, sia con la dignità di comportamento che solitamente ci si aspetta da una
persona dotata di normali capacità espressive. Sintassi ridotta ai minimi termini, povertà
lessicale, enfatizzazione delle componenti paralinguistiche, sono in grado di produrre un
effetto tale da screditare la linea di condotta che viene associata alla performance
professionale di chi, d’altro canto, è nella posizione e nelle condizioni di esercitare un
notevole potere decisionale e discrezionale:
Se prendiamo il linguaggio, inteso come correttezza grammaticale, una cosa che io ho
visto spessissimo è che se tu usi delle frasi articolate - con delle subordinate, congiuntivi,
eccetera - non capiscono; l’impressione è che capiscano molto poco. Se a questo aggiungi
un minimo di terminologia giuridica, o che comunque ha a che vedere con
l’organizzazione della pubblica amministrazione, non capiscono niente, o capiscono poco
e rimangono allibiti e storditi.
6 C’è un’analogia con il colloquio diagnostico effettuato da un medico che trae le informazioni anamnestiche dal
racconto del paziente, che viene sollecitato con ripetute domande di approfondimento, per poi dare un quadro
sintetico della situazione espresso in termini medici: la diagnosi. Il processo è simile, fatto salvo che in molti
colloqui osservati il bisogno espresso dall’utente concerne una richiesta di informazioni più che un aiuto per
risolvere un problema.
7
La prima mossa è quella di ripetere lentamente, magari aumentando il tono di voce, come
si fa con un bambino o con uno un po’ “duro d’orecchie”. Viene amplificata anche la
gestualità, il paralinguistico, con gesti che non si sa nemmeno bene a che cosa alludano.
Quando poi questo primo tentativo non funziona, perché non è un problema di
individuazione delle singole parole, allora bisogna passare a una semplificazione, sia dei
termini difficili, sia della frase. Devi parlare come si parla nei film agli indiani e questo
pone dei problemi all’assistente sociale, proprio per il tipo di immagine di sé che sta
dando in quel momento. Pone delle difficoltà legate all’identificazione in un ruolo
professionale, o una cosa di questo genere.
Quando ci sono delle situazioni di questo tipo, allora è come se si regredisse, nel senso,
che si lasciano molto perdere i contenuti profondi e si va proprio alle cose molto spicciole,
molto semplici; per cui c’è quasi la consapevolezza di lavorare come a un livello inferiore
alle potenzialità. Non si riesce ad ottenere dal colloquio quello che si vuole saper. Se io
voglio fare un’indagine sociale sul nucleo famigliare, se non riesco proprio neanche a
capire quanti figli ha questo uomo, non posso neanche pretendere di capire il rapporto che
ha con questi figli. Per questo, forse, si ha la sensazione di un lavoro un po’ incompleto.
Incompleto perché ti sembra di essere riuscito ad ottenere molto poco, proprio in termini
di economia del lavoro, perché poi, alla fine, quando entri e stendi la relazione hai pochi
elementi. Non so se questo possa anche comportare un senso di frustrazione.
Rispetto, invece, all’espressione, all’uso di un linguaggio - cioè l’uso di tutto un
armamentario espressivo che definisce il ruolo: il modo in cui il medico fa il medico e
l’assistente sociale fa l’assistente sociale - mi sembra che ci sia una posizione un po’
rigida, nel senso che si dice una cosa una volta e se non viene capita, la si ripete una
seconda, però è come se il binario fosse lo stesso. Usi un sinonimo, ma il problema non è
lì, devi proprio cambiare dimensione, sforzarti di cambiare completamente codici e non mi
sembra che venga fatto molto spesso.
Da una parte, forse anche per incapacità, per cui si conosce un determinato bagaglio di
termini e si usa quello; se poi non vengono capiti li si ripete due volte o tre e poi si chiama
l’interprete. Non c’è molta elasticità. Dall’altra, che è ancora la stessa cosa, c’è proprio
una rigidità di schemi, e una sorta di difesa, per cui vengono usati determinati vocaboli
abbastanza collaudati, rispetto ai quali si è quasi possessivi.
Questo perché, se con la collega si usano frequentemente certi termini e gli si da anche un
taglio sociale, forse si è anche orgogliosi di questo, per cui si fa anche fatica ad
abbandonarli. E questo a discapito dell’efficacia della comunicazione.
Probabilmente, anzi forse sicuramente, sbagliano proprio perché, avendo una figura
abbastanza debole - perché in generale la figura dell’assistente sociale è considerata
abbastanza negativamente - loro ne soffrono. Anche all’interno dell’ospedale sono l’ultima
ruota del carro, per cui si legano tra di loro. Io ho notato questo. E in questo modo a mio
parere non fanno altro che peggiorare perché danno un’immagine un po’ inacidita e
saccente, ed è per questo che dicevo “possessivo”, perché credono di darsi un tono.
Per questo non so fino a che punto gli venga anche spontaneamente l’usare un linguaggio
difficile per far capire che il loro livello è di un certo tipo. Poi, magari, c’è anche chi lo fa
consapevolmente (assistente sociale tirocinante).
Nonostante le difficoltà e le limitazioni poste alle proprie potenzialità espressive, gli
adattamenti descritti dagli attori nelle interviste, e tante volte registrati nel periodo di
osservazione, possono essere pur sempre ridefiniti come un buon modo di svolgere con
efficacia il proprio lavoro, operando una mediazione tra esigenze pratiche e aspirazioni
professionali. Una buona competenza professionale, qualora venisse associata all’efficacia
con cui si conduce un colloquio, dovrebbe, infatti, comprendere anche la capacità e la
disponibilità a utilizzare modalità espressive che sarebbero ritenute indecorose in altre
situazioni:
Una prospettiva di questo genere, per quanto migliori sotto certi punti di vista la qualità della
comunicazione (intesa in senso ristretto come processo di trasmissione di informazioni),
8
richiede, tuttavia, di poter assumere che il proprio interlocutore sia in grado di percepirne i
contorni, i motivi e il valore. Quando, tuttavia, non si danno tali condizioni e quando
dall’utente non provengono segnali, per quanto confusi, di convergenza nell’interpretazione
di quanto sta accadendo, si rivela necessario per l’operatore sottolineare ed esplicitare il
significato con il quale le proprie azioni devono essere lette. Affinché tutto ciò non si riduca a
una scelta unilaterale e opaca, sotto il profilo della percezione delle identità in gioco, ci si
trova costretti a esplicitare, tematizzandolo, il piano “metacomunicativo” (Bateson 1976;
Watzlawick 1971).
Questo viene effettuato, sia sfruttando il canale non verbale (attraverso l’intonazione della
voce, commenti fatti con lo sguardo, un certo uso delle pause, ecc.), sia con veri e propri
commenti verbali realtivi a quanto si sta dicendo e a come lo si sta dicendo:
Gli dico che cos’è questo posto, che cosa sono io, che cosa posso fare per lui. Magari,
introduco spesso: “sarò chiara”, oppure, “per farmi capire dirò che”; dico proprio
“chiaro e tondo” che sto chiarificando, che sto semplificando. Se no loro rimangono
passivi, perché tu già chiarifichi tutto prima ancora che loro ti facciano capire che hanno
bisogno di un chiarimento. Parto, di solito, da una descrizione normale e nel momento in
cui loro non capiscono e chiedono un chiarimento, allora io dico: “va be’, allora, sarò
chiara ...”, “allora, cambierò termini”. Devo far capire che sto modificando il mio
atteggiamento, che mi sto adattando, perché altrimenti loro si trovano la ricetta bella e
pronta, senza la possibilità di fare uno sforzo. Se non si fa così, allora il livello cade.
Prima offro la possibilità di dirmi “non ho capito”. A quel punto dico, “va be’, sarò
chiara e cambierò i termini”.
Però faccio vedere che ho delle difficoltà, di solito, perché non voglio che sia così semplice
per loro. Si devono rendere conto che ci deve essere uno sforzo da parte di tutti e due,
dalla loro di capire e dalla mia di farmi capire. Per questo cerco di far capire che mi sto
sforzando, che cercherò di essere chiara; ripeto e ridico le cose più volte, mantenendo
però sempre quel distacco necessario in cui subentra l’istituzione.
Voglio evitare di scendere in un rapporto amichevole. Sarebbe come se tu stessi
descrivendo a un amico la strada per arrivare al bar. Allora devi cercare sempre di stare
da un’altra parte; far vedere che fai uno sforzo, che ti stai sforzando; quindi ribadisci
ancora perché tu sei lì, che cosa stai facendo per loro, qual è la loro domanda e che tu stai
traducendo in termini semplici, ma non nei minimi termini, quello che loro ti chiedono.
Tutte le volte bisogna farlo perché, se no, rischi sempre di entrare in un rapporto
scorretto. A volte ti chiamano: “Ah, XXX [nome proprio], sono io!”. Se non fai così loro ti
scambiano per l’amica sorridente che cerca di fargli capire. Ma mi sono resa conto che
non va bene; o meglio, che va bene perché loro fondamentalmente si sentono gratificati
quando sono trattati confidenzialmente; però, contemporaneamente, devi mantenere un
certo tono e per mantenere questo tono devi ribadire che ti stai sforzando; per cui
all’interno del rapporto devi mantenere un minimo di distanza (assistente sociale).
Scendere a patti comunicativi con l’utente sembra esporre, pertanto, a un duplice rischio: da
una parte, l’accorciamento della distanza sociale connessa all’impersonalità del rapporto
professionale di servizio, dall’altra la messa in discussione di una posizione di
sovraordinazione, nel momento in cui, rinunciando a utilizzare gli strumenti di
simbolizzazione linguistica più efficaci per adattarsi ai vincoli della condizione comunicativa,
si abbandona la propria “dignità professionale”. Tale rischio si evidenzia ogniqualvolta il
comportamento e l’atteggiamento dell’utente lasciano adito al sospetto che egli stia
ricercando un favore personale e un trattamento privilegiato, o vengano messe in discussione
l’autorità e - peggiore dei crimini - la professionalità con cui l’operatore sta svolgendo il
proprio lavoro.
9
Il ritorno a un tono di voce distaccato e a una terminologia sofisticata, che comunichino una
presa di distanza e una riaffermazione di potere, è, allora, immediato.
D’altra parte, l’operatore deve “ben guardarsi dalle insidie” che si nascondono dietro il “non
capisco” detto dall’utente: c’è sempre la possibilità che si tratti soltanto di una finzione:
Quando non ti vogliono dire le cose fingono di non capirti. Può anche capitare che ci sia
l’interprete, e che loro parlino esclusivamente con l’interprete perché dicono di non capire
l’italiano, ma quando c’è qualcosa che non va - mentre si sta parlando in italiano con
l’interprete e prima ancora che l’interprete traduca loro la domanda - lo capiscono al volo
e ti rispondono direttamente in italiano.
Per questa ragione è abbastanza chiaro il messaggio che lui capisce abbastanza l’italiano
Oppure, più semplicemente, quando, dopo avergli fatto una serie di domande a cui hanno
risposto, arrivi a una domanda sulla quale magari vogliono tergiversare, allora si
bloccano, non capiscono e di ti dicono: “cosa hai detto? non capisco, non capisco!”.
Ci sono delle domande a cui evidentemente non vogliono rispondere, ad esempio, le
domande sulla condizione lavorativa; quando non vogliono parlarne non capiscono mai
che cosa stai dicendo. Ti danno delle risposte che non c’entrano nulla, anche se magari
prima ti hanno dato delle risposte su altre cose, su quanti figli hanno o altro. Se tu gli dici
“adesso convivente?”, loro ti dicono: “che cos’è ‘convivente’? Un uomo, con marito?”.
Gli italiani non hanno la scappatoia della lingua. Loro invece ti possono dire “non
capisco”.
A volte questo succede anche con gli italiani, se non vogliono dirti delle cose. Loro però
hanno il vantaggio che dopo un po’ uno si scoraggia; dopo che gli hai proposto
quattrocento sinonimi e lui continua a dire di non capire ti dici “va, be’. È chiaro che non
lo vuole dire”. Non puoi neanche stare a perdere tutto il tuo tempo (assistente sociale).
Abbiamo già visto come dalle interviste risulti con una certa chiarezza che “fare capire di non
capire” sia una strategia utilizzata con una certa frequenza dagli utenti tutte le volte in cui
devono essere stornate le conseguenze negative di una delusione delle aspettative con cui si
sono presentati presso l’ufficio, quando viene annunciato qualcosa di poco gradevole, o
quando deve essere disattivato il significato potenzialmente offensivo del trattamento ricevuto
dagli operatori. Ma, che si tratti di una strategia messa in atto intenzionalmente o meno, non è
la cosa più importante. Ciò che conta è che la scelta tra le molteplici interpretazioni della
frase “non ho capito” dipende dal significato attribuito a un insieme di indizi (informazioni
sull’identità personale e sociale dell’utente, valutazione della sua competenza comunicativa,
sviluppo temporale della conversazione ecc.) che di per se stessi si caratterizzano per una
ambiguità irrimediabile.
Se finora ci siamo occupati dell’incomprensione sotto il profilo dell’attribuzione di un certo
grado di conoscenze condivise e di competenza comunicativa, è giunto il momento di
spostare l’attenzione su alcuni aspetti che mettono in evidenza complicazioni di altra natura,
che si riflettono sul piano rituale. Riprendiamo quanto detto sull’opacità costitutiva del non
comprendersi che discende dalla necessità di trovare i motivi per cui “ciò che ho detto non è
stato capito” e le cause che hanno impedito di cogliere il significato di “quel che è stato
detto”. Constatato come il velo linguistico faccia sì che la soluzione non sia spesso a portata
di mano, cerchiamo di approfondire le ripercussioni immediate sul piano rituale del tipo di
risposte che vengono date a tale domanda e che influenzeranno la mossa successiva
nell’interscambio comunicativo.
L’ambiguità che si produce continuamente in relazione alle capacità strettamente linguistiche
e alle più generali competenze comunicative rappresenta una continua fonte di imbarazzo per
10
entrambi gli attori. Essi, infatti, rischiano di impegnarsi in corsi di azione basati su false
premesse, riguardanti alcuni attributi dell’interlocutore che si riveleranno successivamente
infondati, e di dover porre rimedio alle conseguenze screditanti e offensive per tutti che il
palesarsi della fallacia di tali premesse genera.7 Prendiamo il caso, molto frequente, in cui
l’operatore in risposta alla manifestazione della mancata comprensione formuli una seconda
volta la frase e, nel tentativo di superare la barriera linguistica, si serva di una modalità
comunicativa “stereotipata”. Ci riferiamo - come si evince dalle stesse auto-descrizioni
contenute nelle interviste, oltre che dalla nostra esperienza di osservatori - all’uso di un tono
di voce alterato verso l’alto accompagnato da un ritmo di locuzione simile a quello che si usa
con chi ha problemi di udito o, in modo più addolcito, con i bambini: l’intonazione esprime
un’intenzione didattica o didascalica e le parole vengono sillabate secondo una cadenza lenta
e quasi priva di sfumature.
Ma facciamo un esempio:
O:
U:
O:
U:
O:
U:
O
Dovrebbe andare all’Ufficio di Collocamento e farsi rilasciare il “tesserino rosa”.
Uhm ... [nessun cenno di risposta].
Ha capito?
Ehm ... No.
Do-vrebbe andare all’U-fficio di Collo-ca-mento per il te-sse-ri-no ro-sa. Ha capito? [la frase viene
pronunciata lentamente, scandendo le sillabe e con il tono di voce che si utilizza spontaneamente con
le persone che hanno problemi di udito].
Ehm... No [il no viene detto mostrandosi dispiaciuto e scusandosi con lo sguardo per la propria
incapacità. Allo stesso tempo per tutta la durata della conversazione non si cessa mai di sottolineare la
propria concentrazione e la focalizzazione dell’attenzione su quanto sta accadendo e viene detto].8
Uffi-cio-di-Co-llo-ca-men-to-per-Te-sse-ri-no ro-sa [con un tono di voce ancora più alto,
enfatizzando i movimenti delle mani, le smorfie del vivo e avanzando con il busto verso l’utente].
In questo caso, il problema non risiede nell’incapacità di cogliere i fonemi di una lingua a
causa della velocità e del volume di voce con cui una frase viene pronunciata, ma nell’assenza
di un terreno di riferimento di significazione rispetto alle cose di cui si parla (“Ufficio di
Collocamento”, “tesserino rosa”) unitamente all’uso di termini abbastanza ricercati
(“rilasciare” al posto di “dare”). Oltre ad avere degli effetti pratici pressoché nulli, la risposta
data (riformulazione stereotipata) produce, pertanto, una serie di conseguenze negative che
vanno a intaccare in modo differente l’immagine delle due parti in causa.
Il rischio per l’utente è di sentirsi trattato “come uno stupido”,9 a causa del tono di voce con il
quale la frase viene pronunciata e della sua semplificazione estrema. In altri esempi, che non
riproduciamo, alla sillabazione si aggiunge anche il “classico” uso dei verbi coniugati
all’infinito. L’operatore, dal canto suo, rischia di trovarsi nella condizione di chi ha
involontariamente screditato l’immagine di prontezza, competenza comunicativa, affidabilità
e rispettabilità che il proprio interlocutore cerca di proiettare, e di dover porre, in qualche
maniera, rimedio all’incidente. Trattare qualcuno, seppur in buona fede, sulla base di false
premesse, oltre a creare un offensore e un offeso virtuali, è fonte di continuo imbarazzo.
7
Si tratta dei “passi falsi” di cui parla Goffman (1969).
L’esempio richiama quanto abbiamo detto circa la limitatezza e ambiguità delle informazioni che la situazione
di co-presenza e lo scambio verbale e mettono a disposizione di ciascun attore relativamente al proprio
interlocutore.
9 Ci riferiamo all’effetto espressivo prodotto e non, ovviamente, al fatto che vi sia una precisa intenzione
offensiva da parte dell’operatore.
8
11
Eccoci di fronte a un’ulteriore testimonianza dell’intreccio indissolubile che tiene uniti gli
aspetti cognitivi e rituali dell’interazione.
Per quanto banale possa sembrare, è un’esperienza che ricorre molto spesso nei racconti degli
stranieri che ne sottolineano, a seconda dei casi, gli aspetti ridicoli, grotteschi o offensivi.
Dalle testimonianze da noi raccolte risulta anche che questo inconveniente non rappresenta
certo una fonte di preoccupazione e di tensione trascurabile nel condizionare il clima dei
rapporti tra gli stranieri e gli uffici pubblici.10
La possibilità di incorrere in simili passi falsi rappresenta, in aggiunta, una discriminante
netta tra il rapporto che l’operatore può avere con un utente italiano e con un utente straniero.
Nel caso in cui fosse l’utente italiano a mostrare segni di mancata comprensione del
messaggio, l’elemento di disturbo verrebbe ricercato nell’insufficiente base di informazioni
condivise a disposizione: solamente la priorità assegnata alle difficoltà linguistiche dello
straniero rispetto a quelle conoscitive può produrre questo tipo di impasse comunicativa.
Si tenga conto, in aggiunta, di una delle caratteristiche del rapporto operatore-utente. Il primo,
a differenza del secondo, costituisce l’elemento che rimane fisso nel susseguirsi dei colloqui
ed è portato, di conseguenza, a tipizzare ciascuna situazione rispetto a quelle che l’hanno
preceduta e a quelle che la seguiranno. In aggiunta, il trovarsi esposto con una certa
frequenza - giornalmente e con persone differenti - a questo tipo di difficoltà fa sì che
l’attività di riparazione, che dovrebbe accompagnare questa involontaria offesa alla faccia
dell’utente (e che di per sé non risulterebbe agevole per ciò che abbiamo messo in luce
precedentemente), venga minimizzata o sia del tutto assente. Il “passo falso” tende così a
rientrare nei “normali incidenti che possono capitare con gli stranieri e che non meritano
alcuna considerazione”. Già, ma nulla assicura che l’altro sia consapevole di questo e
condivida tale opinione.
Anche il fatto di cogliere la necessità di costruire un terreno comune di riferimento non
annulla la possibilità di intraprendere corsi di azione basati su false premesse e fonti
10
Non si dimentichi il significato spregiativo, venato di razzismo che rievoca il periodo di dominazione
coloniale, insito nel rivolgersi ad uno straniero immigrato proveniente dai paesi del cosiddetto “terzo mondo”,
con un linguaggio che richiama il petit negre o il pidgin English usati dai colonizzatori e tante volte riproposto
attraverso i media (per una raffinata analisi dei risvolti sociali e psicologici della “colonizzazione linguistica” si
veda Fanon 1952).
Con “lingua-pidgin” si intende “un idioma, nato a certe condizioni dal contatto fra due lingue e dotato di
particolari caratteristiche di semplificazione, [utilizzato dai linguisti] per inquadrare i modi di apprendimento
dell’italiano dei migranti e il tipo di lingua che ne deriva.” (Vedovelli 1990: 215-216). Le affinità e le differenze
tra la lingua dei migranti e altre forme di apprendimento linguistico trovano una sintesi nel “modello di
interlingua come territorio di frontiera nel processo di apprendimento [che] permette di riunire sistemi e varietà
semplificate (interlingue, pidgin, foreigner talk, baby talk e altre minori) in un interlanguage continuum che
riunisce varietà diatopiche e distratiche” (ivi: 215-216).
Il pidgin-language, si caratterizza per semplificazione strutturale a livello morfosintattico con eliminazione di
elementi negli enunciati: caduta di forme verbali, riduzione della flessione, uso sovradeterminato di presente e di
infinito, mancanza di concordanze, uso di forme invariabili, eliminazione di parole funzionali (articoli,
proposizioni, ecc.), giustapposizione di elementi, scarsa strutturazione sintattica e alta strutturazione pragmatica,
raddoppiamento del predicato per dare l’idea di progressione dell’azione, ripetizione del nominale per indicare
una grande quantità, nonché per una forte dipendenza dal contesto, con rinvio a conoscenze previe e elevato uso
di deittici anche non verbali che suppliscono alla semplificazione strutturale. La strategia di generalizzazione si
sviluppa a livello fonologico - un elemento, ad esempio, viene ripetuto anche laddove non sia richiesto - e a
livello semantico, con una dilatazione abnorme nell’utilizzo di parole e conseguente dilatazione semantica. A
volte tale propensione si ribalta e si da una sostituzione di forme sintetiche con forme analitiche, mentre, meno
toccato dal processo di semplificazione sembra essere (fatta eccezione per i primissimi tempi) il livello
sintattico.
12
potenziali di imbarazzo. Spetta a Garfinkel l’aver dimostrato che l’estensione e le
caratteristiche della componente non tematizzata della comunicazione svolgono una funzione
metacomunicativa circa la relazione tra i parlanti (Garfinkel 1967), per cui il senso di quel
che viene detto non può essere colto prescindendo da ciò che si trascura di dire. La
valutazione di quello che può essere legittimamente dato per scontato è, inoltre, un delicato
banco di prova per la volontà e per la capacità degli attori di tenere nella giusta
considerazione il punto di vista dell’altro, di calarsi nei suoi panni: se dare troppo per
scontato può essere interpretato come una disattenzione verso il proprio interlocutore, o come
segno di una volontà di prevalere nei suoi confronti, ripetere ciò che tutti già sanno implica un
giudizio di svalutazione del suo livello di competenza. In tutti i casi, all’efficacia
comunicativa si sovrappone in modo indissolubile il piano del trattamento rituale in cui
devono essere onorate le prerogative dei selves che ciascun attore mette in gioco.
Per questo insieme di ragioni, il “dato per scontato” continua a essere l’aspetto cruciale
dell’interazione. Esplicitare ciò che potrebbe essere sottinteso, senza poter stabilire, se non
mediante un procedimento per tentativi ed errori che deve essere ripetuto ogni volta, quale sia
il giusto livello di semplificazione che consenta di comprendersi con una certa efficacia, apre
il varco all’eventualità di incorrere costantemente in una linea di condotta le cui premesse si
riveleranno infondate. Si verificherebbe, in questo caso, una situazione esattamente rovesciata
rispetto a quella prodotta artificialmente da Garfinkel nei suoi esperimenti di rottura delle
situazioni (Garfinkel 1967).
Detto questo, non vogliamo esagerare il potenziale offensivo che si estrinseca nel momento in
cui un attore viene trattato sulla base di attribuzioni non corrette riguardo alle conoscenze
linguistiche di cui dispone, ma sottolineare la facilità con cui possono insorgere episodi
imbarazzanti dovuti a un trattamento inadeguato nei confronti di un self che rimane pur
sempre in parte sconosciuto.
Vorremmo a questo punto incominciare a riflettere sulla relazione che è possibile stabilire tra
la dotazione di self di ciascun individuo - connessa alle sue molteplici collocazioni
socio-strutturali - e le caratteristiche del processo di interazione che ha luogo in un contesto
lavorativo. Stiamo parlando della complessità e della vivacità dell’interazione, analizzata dal
punto di vista della varietà di selves proiettati dai partecipanti che trovano, per quanto
temporaneamente, riconoscimento.11 Per l’ennesima volta, essa richiama l’importanza, per lo
svolgimento dell’interazione, del poter dare o meno per scontato che i partecipanti
all’incontro siano consapevoli dei ruoli in gioco (nei loro aspetti sia tecnico-funzionali che
espressivi) e delle modalità che dovrebbero presiedere alla loro esecuzione.
Ci siamo soffermati precedentemente sulla validità di queste assunzioni e su come questa
assicuri le condizioni per un’interpretazione sofisticata, dal punto di vista espressivo, del
proprio ruolo, attraverso la simbolizzazione della propria competenza professionale - oltre
che di altre qualità personali possedute - e la messa in scena di una versione idealizzata del
proprio sé sostenuta cooperativamente da tutti i partecipanti. Abbiamo, inoltre, cercato di
illustrare quali ostacoli vi si frappongano. Da un’altra prospettiva, queste stesse assunzioni
consentono di modulare e di rendere più articolata l’esecuzione del ruolo, prendendone le
distanze per mezzo di una scomposizione dell’immagine di sé che viene proiettata. Detto in
altri termini: moltiplicando i sé in gioco. Questo richiede l’inserimento di elementi estranei
alla rappresentazione ufficiale. L’operatore potrebbe, per esempio, “colludere”
11
Lo spunto è dato, naturalmente, dal lavoro di Goffman sull’esecuzione dei ruoli professionali e sociali che ha
messo in luce la centralità della “distanza” dal ruolo come concetto analitico e come meccanismo esplicativo
dell’agire di ruolo. Si veda, Goffman (1979: 81 sgg).
13
momentaneamente con il proprio interlocutore, concordando con lui sulla complessità,
indeterminatezza e irrazionalità delle procedure burocratiche, abbandonando
temporaneamente la linea ufficiale che prevede un trattamento impersonale e distaccato del
caso di fronte alla serietà e alla gravità di una situazione presentata, o, ancora, riuscendo a
scardinare attraverso l’ironia l’onnipresenza delle categorizzazioni e delle stereotipizzazioni
reciproche che vedono, da una parte, il “povero immigrato extracomunitario più o meno
disperato” e, dall’altra, l’operatore più o meno “buono, disponibile e generoso”.
A questo si oppongono, tuttavia, alcuni fattori che rendono piuttosto monotona, routinaria e
rigida l’interazione, costringendola entro binari decisamente “stereotipati”. Non è possibile,
infatti, dare per assodate le basi organizzative che consentono di articolare la presentazione
del self, inserendo anche elementi che sono in contraddizione con la linea ufficiale. Questo, in
primo luogo, perché vi è la consapevolezza della problematicità di una comune definizione
della situazione e dell’estrema ambiguità interpretativa attorno al significato di ciò che sta
accadendo, in secondo luogo perché non si può presumere che sia conosciuto il piano
ufficiale sul quale si dovrebbe sviluppare il rapporto e che, di conseguenza, si possa
apprezzare la manifestazione di distanza dal ruolo.
Di sicuro, non si può escludere che una certa trascuratezza nell’attenzione rituale reciproca,
con conseguente perdita di “vivacità” dell’interazione, si radichi anche in altri fattori
(atmosfera dell’ufficio, rapporti con i colleghi, ripetitività del lavoro svolto ecc.). Resta,
tuttavia, che quanto più l’orizzonte di senso comune e i presupposti condivisi vengono
ricostruiti - nel caso in cui per esempio ci si imbatte in un utente che manifesta una buona
padronanza della lingua italiana e un buon controllo della situazione - tanto più la
comunicazione si arricchirà di tutte quelle sfumature che la rendono complessa e interessante.
Paradossalmente, dunque, le stesse ragioni che mettono in crisi la difesa di una linea ufficiale,
formale, o professionale, di esecuzione dei propri compiti, si ripercuotono anche sulla
possibilità di vivacizzare l’incontro, mettendo in scena una sorta di balletto di selves. Ciò non
significa che non vengano fatti dei tentativi in tale direzione (più da parte degli operatori che
da parte degli utenti), ma che una volta effettuata una mossa di apertura da uno degli attori in
gioco, essa difficilmente verrà raccolta e sviluppata in una o più strutture di interscambio che
scavino una nicchia all’interno di una problematica e asfittica linea ufficiale, senza per questo
metterla radicalmente in discussione. Non neghiamo che vi possano essere ragioni, come dire,
strutturali, che si frappongono a tutto questo, così come un atteggiamento volutamente
“rigido” da parte di uno degli attori può impedire qualunque concessione a deviazioni
temporanee. Ma, per quella che è stata la nostra esperienza di osservatori, un causa deve
essere ricercata, e ritorniamo sempre allo stesso punto, nei problemi connessi all’uso del
linguaggio come lo strumento più raffinato a disposizione degli attori nella gestione
dell’interazione faccia a faccia.
Aspetti rituali dell’interazione: una panoramica
Per procedere nell’analisi e, cosa che in questa sede più ci preme, per una sistematizzazione
dei dati empirici relativi all’organizzazione degli elementi rituali dell’interazione, riteniamo
utile ricollegarci allo schema proposto da Brown e Levinson per l’analisi delle componenti
rituali del comportamento linguistico (Brown e Levinson 1978).
Proprio le difficoltà di natura linguistica, centrali sia per le questioni di ordine espressivo e
interpretativo, sia per l’impatto che producono sull’ordine rituale dell’interazione, rendono il
modello descrittivo di Brown e Levinson maggiormente indicato di altri che, per esempio,
14
facciano perno - in qualunque maniera le considerino - sulla variabilità e sulle specificità
culturali. Con questo non vogliamo suggerire una gerarchia di importanza tra ipotesi teoriche
differenti, né proporre alcun ordinamento di rilevanza delle “variabili”. Non vogliamo negare
il ruolo fondamentale che le differenze culturali possono giocare, bensì ribadire che, dal
nostro punto di vista, quel che conta non è tanto la valutazione dell’effetto prodotto
dall’intervento di fattori culturali per come essi possono venire identificati in astratto da un
osservatore, quanto piuttosto il modo in cui l’elemento culturale viene introdotto nelle
ricostruzioni (accounts) degli attori. Ci interessa il piano dell’interpretazione dell’interazione
dal punto di vista degli attori, dato che ogni riferimento alla differenziazione culturale gioca
un ruolo esplicito nel processo comunicativo solamente nel momento in cui viene
riconosciuto e utilizzato, in qualunque modo ciò possa avvenire, come un elemento entro uno
schema interpretativo dell’agire. L’attore, dunque, riconosce e introduce tale elemento
solamente attraverso un certo tipo di interpretazione del comportamento comunicativo del
proprio interlocutore che dovrà necessariamente incorporare una serie di assunzioni, di ipotesi
e di valutazioni della sua competenza comunicativa.
Un’esitazione nel pronunciare una frase, per intenderci, può essere interpretata in modi molto
diversi a seconda dei fattori considerati. Essa può indicare pudore, imbarazzo, disappunto
ecc., e chiamare in causa sistemi di regole e di aspettative culturalmente differenti. Allo stesso
modo, può essere imputata a conoscenze insufficienti (differenti presupposti di senso
comune), a difficoltà di vario grado nell’utilizzo del linguaggio e ad altro ancora. Ciascuna
interpretazione, del resto, oltre a ricombinare in vari modi tutti i “particolari indicali” ritenuti
significativi, implica ben precise assunzioni sulla capacità di ciascun attore di utilizzare a fini
comunicativi l’insieme degli strumenti espressivi (linguistici, paralinguistici e non verbali).
Sia che si cerchi di descrivere il punto di vista degli attori, sia che si opti per una
ricostruzione che faccia prevalere un punto di osservazione esterno al processo interattivo, il
modo in cui ciascuna specificità culturale entra in gioco dovrà essere sempre individuato
attraverso un procedimento interpretativo che si scontra inevitabilmente con le questioni
legate a ciò che provvisoriamente potremmo chiamare “decodifica dei messaggi a un livello
linguistico”. Questo in almeno due modi. Da una parte, ogniqualvolta uno degli attori registra
una anomalia nel comportamento linguistico del proprio interlocutore si imbatte nel problema
di come valutare tale anomalia, stabilendo, per esempio, in che misura la “violazione”
dell’ordine espressivo, perpetrata dal proprio interlocutore, debba essere attribuita all’uso di
una lingua che non viene padroneggiata piuttosto che a una scelta intenzionale, all’influsso di
abitudini e aspettative radicate nella cultura di origine, piuttosto che a un tentativo di
manipolazione esercitato consapevolmente. Dall’altra, una volta fatte delle assunzioni, queste
influenzeranno la percezione stessa delle anomalie espressive. Non solo, poiché
l’interpretazione data dipenderà, come speriamo di avere dimostrato in precedenza, da un
insieme di valutazioni relative a ciò che sinteticamente abbiamo definito come “competenza
linguistica e comunicativa” del proprio interlocutore.
Ogni aspetto culturalmente connotato viene introdotto nel contesto e viene percepito solo
attraverso le mediazioni di molteplici codici linguistici e comunicativi. Nel caso da noi
analizzato è degno di nota il fatto che qualunque elemento culturalmente connotato possa
essere inserito dallo straniero solo utilizzando un codice di comunicazione - la lingua
italiana - che non fa parte del suo background primario. Per questa ragione riteniamo che - sia
che ci si ponga dal punto di vista degli attori, sia che si adotti un punto di vista esterno - non
si possa dissociare la valutazione degli elementi culturali dall’interpretazione del
comportamento linguistico.
15
Ora, se pensiamo al linguaggio come al più sofisticato strumento a disposizione degli
individui per scambiarsi informazioni e per organizzare, nel senso di coordinare
funzionalmente e ritualmente, le interazioni, risulterà chiaro come i dubbi circa le capacità
degli attori di farne un uso appropriato si rifletteranno automaticamente sulla possibilità di
entrare in sintonia nel processo interattivo.
L’adozione delle differenti strategie, descritte dal modello di Brown e Levinson, per gestire le
implicazioni negative e minacciose che ogni atto effettuato può apportare alla “faccia” dei
partecipanti e all’ordine espressivo dell’incontro sociale, richiede, infatti, una conoscenza
approfondita della lingua parlata e, soprattutto, una capacità di adattare gli strumenti
linguistici di cui si è in possesso a ciascun contesto comunicativo, a ciascuna occasione
sociale, all’etichetta che in essa deve essere rispettata, ai ruoli ufficiali impersonati dai vari
attori (role-sets implicati) e all’ethos che la caratterizza.
Mano a mano che si passa dalle strategie comunicative più semplici a quelle più raffinate di
gestione delle complicazioni di ordine espressivo, sale sempre di più in primo piano la
capacità dell’attore di percepire l’insieme di obblighi e aspettative che devono essere
soddisfatte per non incorrere in involontarie “intrusioni” o, laddove esse non possano essere
evitate, di svolgere con successo i “giochi di faccia” (Goffman 1971) che consentono,
ripristinando condizioni accettabili per tutti, di superare impasse imbarazzanti il cui innesco
potrebbe condurre a una rottura drammatica della comunicazione.12 Questo savoir faire
consiste, in buona sostanza, nell’abilità con cui ciascuno di noi è in grado di avvalersi degli
strumenti espressivi (verbali e non verbali) per agire nel modo più opportuno, neutralizzando
i rischi a cui ogni comunicazione espone i partecipanti all’incontro.
Il primo problema, pertanto, in cui si imbatte l’utente straniero - tanto più quando non risiede
in Italia da lungo tempo e non parla fluentemente la lingua perché non ha avuto modo né di
approfondirne lo studio né di apprenderne l’uso in contesti differenziati - è quello di non
disporre (in misura variabile) degli strumenti interpretativi ed espressivi necessari. Prima
ancora di verificare sulla propria pelle la collisione di sistemi di regole differenti, quando non
opposti, che si radicano nelle differenze tra l’ambiente culturale di provenienza e quello di
emigrazione, egli deve riuscire in qualche modo a far sì che quanto è sua intenzione
comunicare coincida, sia sul piano della comprensione che su quello dell’appropriatezza delle
forme, con l’effetto prodotto dal dover utilizzare una strumentazione segnica (il linguaggio
nelle sue componenti informativa e performativa) che riesce a controllare solo parzialmente.
Le strategie più ricercate di controllo degli aspetti rituali dell’interazione, che in contesti
familiari vengono manipolate senza grande sforzo e spesso in modo inconsapevole, si
trasformano in un terreno estremamente scivoloso, se non in una risorsa inaccessibile. Lo
straniero, dunque, si trova costretto a esprimersi in modo improvvisato, goffo e, cosa più
12
L’ordinamento delle strategie per grado di complessità crescente proposto da Brown e Levinson prevede:
- no Face Threatening Action (FTA)
- off record
- on record,
- Conventionalized indirectness
- Without redressing, acting baldly
- Positive politeness
- Negative politeness (Brown e Levinson 1978: 73 sgg.)
Per una discussione inerente a quanto la struttura di aspettative in situazioni apparentemente banali possa essere
molto complessa e stratificato si vedano, per esempio, Goffman 1971; Schwartz e Jacobs 1987. Il significato,
infine, che attribuiamo ai termini “intrusione”, “offesa”, “violazione” è attenuato rispetto a quello inteso
comunemente e si riferisce alla mancata, o solo parziale, esecuzione dei rituali sociali che consentono stabilire
un contatto con una persona senza incrinare la sfera di sacralità che la circonda (Goffman 1971: 68).
16
importante, “diretto” e “piatto”, mettendo a repentaglio continuamente sia la propria faccia,
sia quella del proprio interlocutore. Tale difficoltà può giungere fino al punto in cui la
strategia meno pericolosa risulti essere l’evitare qualunque intervento che non sia strettamente
necessario (to go off record).
Il carattere “protettivo” di tali strategie si palesa in riferimento alla gestione dei problemi di
comprensione, che vedremo ora sotto una nuova luce. In presenza di evidenti difficoltà
interpretative (almeno per chi come noi osservava la situazione dall’esterno) ci ha colpito,
infatti, il numero davvero esiguo di tentativi da parte dell’utente di ritornare su quanto era
stato appena detto dall’operatore per chiedere spiegazioni, delucidazioni o, più
semplicemente, per limitarsi a segnalare di non aver capito. Come spiegare che persone di
nazionalità differente, che devono risolvere problemi a volte anche piuttosto delicati, non
cerchino di ottenere indicazioni più comprensibili, spiegazioni più esaurienti e una maggiore
completezza di informazione? Questo, si badi bene, anche in assenza di una sorta di
meta-messaggio che li inviti accettare la spiegazione per quella che è e a non richiedere
ulteriori chiarimenti, che non sarebbero in ogni caso forniti, e la cui richiesta, per di più,
risulterebbe particolarmente sgradita.13
Questo è forse questo un altro “sintomo” del fatto che la mancata comprensione di un
messaggio non può essere valutata su un piano eminentemente cognitivo, ma mette in gioco
elementi di natura diversa. L’evidenza e la frequenza di tale fenomeno, così come la costante
disattenzione mostrata dagli operatori in riferimento a esso, richiedono una riflessione sulle
ragioni che possono essere addotte per fare luce su di esso.
Le spiegazioni riportate dagli utenti e dai mediatori culturali con cui abbiamo discusso di
questa ricorrente mancata richiesta di specificazioni e chiarimenti possono essere riassunte in
alcune posizioni tipiche. Si verifica, in primo luogo, un trasferimento, a contesti culturalmente
e istituzionalmente differenti, di una sorta di “effetto Questura” che vede sommarsi, da un
lato, il timore derivante dall’eventualità che dall’esame della documentazione personale
vengano alla luce delle irregolarità nella propria posizione legale, e, dall’altro, una forte
deferenza e sottomissione nei confronti di chi è percepito come detentore del potere e
dell’autorità:
C’è la paura; c’è l’imbarazzo [l’intervistato sta parlando della Questura], ci sono persone
che non sanno scrivere per compilare il foglio, per chiedere il permesso di soggiorno e che
provano a cercare qualche straniero che gli compili il foglio che non sanno compilare.
Quando va in questura ha tutta questa paura perché non sa se fidarsi, se non fidarsi, se gli
danno questo permesso di soggiorno anche se non ha i documenti a posto.
E lì, per il modo con il quale glielo danno, se magari non ha capito niente, ha paura anche
di chiedere che gli ripetano le cose; di dire: “no, scusi, che cosa vuol dire questo?”. Ha
paura anche solo di chiedere, perché ha paura della persone. Queste sono cose che non
dovrebbero esserci (mediatore culturale).
Per ritornare al nostro ufficio, ci si sente scoraggiati, in alcuni casi, a causa di un’impressione
(più o meno giustificata) di distacco o di perentorietà nell’atteggiamento dell’operatore;
prevale una forma di rispetto e di deferenza nei suoi confronti che sembra dipendere dalla
forza con cui viene percepita l’autorità di cui è investito colui che agisce in rappresentanza
della pubblica amministrazione. Insistere con una richiesta di chiarimenti vorrebbe dire
13
Questa eventualità si verifica decisamente con maggiore frequenza, se non di norma, presso l’Ufficio
Stranieri della Questura.
17
“andare in cerca di guai”; meglio, allora, attendere e sperare che il proseguimento del
colloquio chiarisca quanto non è stato capito.
A questo si aggiunga che in molti casi l’esperienza di frequentazione degli uffici ha insegnato
all’utente che solo una grande disponibilità e un grosso sforzo da parte dell’operatore
potrebbero chiarire ciò che non è stato afferrato:
Questo è il problema da affrontare; c’è ancora, e ci sarà sempre e dappertutto paura di
chiedere, finché non si vedrà questa disponibilità delle persone, del personale degli uffici;
una disponibilità a dare un appoggio, a dare chiarimenti. Anche soltanto il fatto di
chiedere come si può raggiungere un luogo, perché non ci si ricorda la strada, fa paura
per lo stato in cui ci la persona si trova in quel momento. Magari quelli che non chiedono
hanno avuto altre volte il coraggio di farlo, ma si vede che molti di loro hanno avuto delle
esperienze sgradevoli. Magari, alcuni sono stati sbattuti fuori da un ufficio o sono stati
rimproverati.
Ad esempio, uno viene una volta e ti chiede una cosa e tu gliela dai. Poi, dopo cinque
minuti, torna ancora e dice: “non ho capito” e tu gli rispieghi la cosa; ma quando quella
stessa persone ti si ripresenta gli dici: “no, ehi, te ne vai da un’altra parte o no?”.
Anche se nel modo in cui viene data la spiegazione c’è qualcosa che non va, lui non sa
neanche come dirlo, non sa neanche come spiegarlo; ma lo sbaglio viene anche
dall’atteggiamento dell’altro [l’operatore] perché anche lui rimane all’oscuro e,
rimanendo tutti lì bloccati, nascono tutti questi casini; casini per cui, ad esempio, trovi
sempre uno straniero con la documentazione sballata, per una ragione o per l’altra,
perché una cosa l’ha fatta e non doveva farla e un’altra non l’ha fatta e invece doveva
(mediatore culturale).
L’effettuare tale richiesta significa riuscire a riformulare ciò che non è stato compreso in
termini che, da un lato, risultino comprensibili - consentano di proseguire nel discorso e di
raggiungere un chiarimento - dall’altro, non mettano in discussione la prestazione
dell’operatore. Proprio a questo servirebbero le formulazioni standardizzate raccolte da
Brown e Levinson sotto la definizione di negative and positive politeness, o l’esprimersi in
modo indiretto e convenzionale. Tali strategie permetterebbero di ridistribuire la
responsabilità dell’incidente verificatosi, neutralizzando le conseguenze offensive per la
faccia dell’operatore insite nel rendere manifesta una mancata comprensione del messaggio,
cosa che potrebbe implicare un giudizio negativo sul suo operato. Potrebbe essere fatto
riprendendo una parte di quanto è stato appena comunicato, riformulandolo con propri termini
e mostrando, in tal modo, di averlo afferrato, o, quantomeno, di avere fatto ogni sforzo per
afferrarlo, e di volerlo sottoporre al vaglio del proprio interlocutore.
Pensiamo all’effetto che fanno frasi del tipo: “Dunque, mi corregga se non ho capito bene,
quello che lei mi ha appena detto ...”, “Scusi, ma l’ufficio di cui sta parlando non è per caso
quello in via ...?”, “Che cosa intende, precisamente, quanto parla di ...?”, rispetto a un “mi
spiace, non ho capito” o a uno “scusi, non capire”, piuttosto che a uno sguardo carico di
perplessità accompagnato o da un “non capisco” detto scuotendo il capo, che, normalmente, si
possono ascoltare e osservare nei colloqui tra operatori e utenti. Ma pensiamo, ancora di più,
a quanto l’essere consapevoli della limitatezza dei propri mezzi linguistici possa paralizzare
chiunque. Il dover segnalare le proprie difficoltà di comprensione con mezzi espressivi
“parziali e approssimativi” rivelerebbe, infatti, la propria inadeguatezza comunicativa e
porrebbe lo straniero in una situazione potenzialmente umiliante, vergognosa o imbarazzante,
a causa della difficoltà nel mostrare una sufficiente padronanza di sé, rispettando gli standard
di performance che ciascuno si aspetta da se stesso e dagli altri.
18
Se la scelta di temporeggiare e di attendere gli sviluppi successivi del discorso richiama una
delle classiche procedure interpretative descritte da Garfinkel e dagli etnometodologi
(Garfinkel 1967), tutte le altre ragioni rimettono al centro dell’attenzione le strette
connessioni che, per tornare alle dimensioni analitiche dello “schema del rapporto di
servizio”, legano l’esecuzione di un compito e la capacità di tributare il corretto rispetto e la
giusta considerazione alle identità e ai ruoli coinvolti. Si crea, cioè, una sorta di trade-off tra
la necessità di raggiungere un obiettivo strumentale e il dover attraversare indenni le
molteplici trappole espressive cui ci si espone interagendo con gli altri. Tanto più si tende al
raggiungimento degli obiettivi prefissati, quanto più il percorso risulta complesso, poiché
maggiore deve essere l’attenzione profusa dagli attori nel controllare le implicazioni che ogni
atto comunicativo ha sull’ordine espressivo.14
Un ulteriore elemento di complicazione che interviene nella situazione studiata riguarda due
delle “variabili sociologiche” del modello di Brown e Levinson (1978: 99 sgg.) che, nel
nostro ufficio, presentano entrambe valori elevati: la “distanza sociale”, alta in un rapporto
impersonale di servizio sottoposto a un insieme di costrizioni normative, e il “potere
relativo”, altrettanto grande e distribuito in modo diseguale, dato che si basa sul controllo che
ciascun attore può esercitare sulle risorse a disposizione nella situazione.15
L’insieme di tali condizioni suggerisce, dunque, all’utente di evitare, ogniqualvolta sia
possibile, un’esposizione pericolosa del self in conseguenza di atti e comunicazioni che
potrebbero essere interpretate come inopportune e offensive.
Questo insieme di considerazioni viene riconosciuta dagli stessi operatori, anche se in modo
diversificato. Uno di essi, per esempio, afferma:
E poi loro sono molto più difesi. C’è molta più diffidenza nei nostri confronti rispetto
all’italiano. Io credo che dipenda dal fatto che sono provvisti di meno strumenti per
rapportarsi a noi, per cui gli facciamo più paura, anche rispetto all’italiano che viene qua
e, in qualche modo, è in grado di interagire. Certo non si è mai su di un piano di parità,
perché non esiste parità nemmeno con l’italiano. Tutti gli utenti, italiani e non, sono
comunque in una posizione down rispetto a noi; però lo straniero è, veramente, sprovvisto
degli strumenti comunicativi minimi (assistente sociale).
Quanto detto finora, trova conferma nel fatto che un tratto tipico degli atti comunicativi degli
utenti è quello di rispecchiare, involontariamente, le caratteristiche della strategia di azione
che, sempre Brown e Levison,16 definiscono con la locuzione to bald on record: “parla e
agisci, andando direttamente al punto senza inserire alcuna azione correttiva rispetto alle
14
C’è naturalmente un limite, che deve essere sempre definito contestualmente, oltre il quale considerazioni di
efficienza, urgenza o emergenza, impongono che si accantoni temporaneamente qualunque preoccupazione che
interferisca con l’esecuzione del compito (Brown e Levinson 1978). Ancora una volta, affinché questo sentiero
sia praticabile, si richiede, tuttavia, che si possa dare per scontato che una modifica del frame interazionale in
questa direzione, proposta da uno degli attori, venga colta dall’altro con questo preciso significato.
15 Non ci riferiamo alla possibilità che si verifichi una sorta di “rendita di posizione” attraverso un’erogazione
“particolaristica” delle risorse. Pensiamo piuttosto al controllo che può essere esercitato sul contesto
dell’interazione e alla distribuzione della conoscenza rilevante ai fini pratici e del potere decisionale. A questi
fattori, comuni a tutte le situazioni in cui i partecipanti siano della stessa nazionalità, si deve aggiungere la
posizione di vantaggio, per chi gioca in casa, derivante dalle difficoltà linguistiche del proprio interlocutore.
16 Continuiamo ad avvalerci del termine “strategia”, proposto da Brown e Levinson, pur risultando improprio
rispetto a mosse interazionali il cui carattere intenzionale, e quindi strategico, è quantomeno problematico, sia
dal punto di vista dell’interpretazione data dagli attori coinvolti, sia da quello di un osservatore esterno.
19
conseguenze rituali” (Brown e Levinson 1978: 99).17 E’ una strategia che i due autori
avvicinano alle massime conversazionali proposte da Grice (1978) e che prevede il sacrificio
delle attenzioni ritualizzate verso i selves, messi in “pericolo” dall’apertura di uno scambio
comunicativo, a tutto vantaggio della “efficienza operativa” della trasmissione di
informazioni: pratica che sembrerebbe adattarsi piuttosto bene al rapporto di servizio e ai
“casi in cui il canale è disturbato o in cui le difficoltà di comunicazione esercitano una
pressione affinché si parli con la massima efficienza” (Brown e Levinson 1978: 102).
Il non capirsi, il fatto di essere lì per spiegarsi e comunque non potersi intendere così
come si vorrebbe è un grande problema. Nel senso che la persona spiega la cosa una volta
e l’assistente sociale chiede, “non ho capito, me lo può rispiegare”. Lui, a quel punto, è
costretto a rispiegare una seconda volta e, magari, anche dopo questa seconda
spiegazione non ci si è ancora capiti bene; allora, a volte, mi accorgo che le assistenti
sociali alzano la voce; le vedo un po’ nervoso e dicono cose del tipo: “mi faccia un
disegno ... passiamo a qualche altra comunicazione”. C’è difficoltà proprio ad intendersi.
Per questo anche le domande sono molto più standard, proprio perché probabilmente il
messaggio che l’assistente sociale riceve è: “siccome c’è questo problema della lingua,
non si può andare più di tanto nel profondo”; perché le domande sono molto, molto più
superficiali. Anche l’uso del linguaggio è molto più semplice, più chiaro (assistente sociale
tirocinante).
È all’opera nell’ufficio, dunque, una sorta di tacita concessione da parte dell’operatore, per
cui, quando le difficoltà espressive sono evidenti (potremmo dire conclamate) e non sussiste il
dubbio che dietro di esse “si celi il perseguimento di altri obiettivi”, si può sorvolare sulla
mancata minimizzazione delle conseguenze espressive minacciose per la faccia:
Si hanno delle informazioni più dirette, perché spesso quando uno parla nella sua lingua
può girare attorno alle cose, può dirle in tanti modi diversi. Il fatto che l’altro non sappia
esprimersi in italiano fa sì che tu dia delle informazioni molto più dirette, che giri poco
intorno alle cose. Per ogni domanda c’è una risposta fissa, mentre, quando si parla la
stessa lingua, uno, magari, comincia a girarci intorno, a giocare un po’ con le parole.
Questo avviene da entrambe le parti, perché anche chi fa delle domande è costretto a fare
delle domande molto più dirette
Quando lo straniero parla italiano, ma non benissimo, non puoi fare più di tanto, devi
andare un po’ più piatto. Voglio dire che tante attenzioni, dire una parola piuttosto che
un’altra, tutte queste cose insomma, non le puoi avere (assistente sociale tirocinante).
Ciò che conta, in fondo, è capirsi, afferrare il problema e cercare di risolverlo. Questo non
significa che non si verifichino interazioni le quali contemplino un più sofisticato grado di
ritualizzazione, ma soltanto che si accetta di rinunciare temporaneamente a simili prerogative,
qualora non possano ragionevolmente trovare soddisfazione.
Altre volte, tuttavia, le particolari formulazioni utilizzate complicano le cose all’atto pratico e
rendono arduo mantenere la linea interpretativa adottata:
17
In alcuni casi, comunque, le richieste dirette ed esplicite sono attenuate da un uso a volte “improprio” di
forme di cortesia che mostrano, quantomeno, che il parlante cerca, anche se in modo un po’ maldestro, di
riconoscere gli attributi del proprio interlocutore.
20
Esempio 1: colloquio riguardante una richiesta di ferie per allontanarsi dal
quello previsto dal regolamento.
O:
U:
CPA
per un periodo più lungo di
Guardi, dobbiamo compilare la domanda e aspettare che la commissione decida.
Si, ma tu firmami il documento! [detto con tono fermo].
Esempio 2: colloquio per iscrizione alla lista di attesa per un posto nel CPA.
O:
U:
Tenga la ricevuta e si ripresenti tra un mese per vedere se c’è posto.
Tra un mese tu mi dai il posto?
Risulta difficile sorvolare sulla minimizzazione o sull’assenza del lavoro di faccia se, come
nei due esempi citati, la frase viene pronunciata in un modo secco e diretto, che può evocare
una sorta di sovvertimento della distribuzione dell’autorità e del potere, oltre che assottigliare
pericolosamente la distanza sociale che divide gli attori. Sono questi i casi in cui può sorgere
il sospetto che si stia “approfittando” della situazione per ottenere due obiettivi: il primo,
strumentale - consistente in un impegno personale da parte dell’operatore nel soddisfare la
domanda dell’utente - il secondo, simbolico - attraverso qualcosa di simile a quello che
Goffman definisce “l’impegno aggressivo del gioco di faccia per guadagnare punti” (Goffman
1971: 27 sgg.). D’altra parte, nulla può assicurare che dietro la violazione delle regole di
cortesia non si nascondano un’intenzione e una strategia consapevolmente adattate. Si è in
balia di interpretazioni, che sono sempre orientate rispetto a certi presupposti e rimangono
soggette a continua revisione sulla base dei particolari che emergono e si accumulano nel
corso dell’incontro.18
Si verifica, infine, un evento curioso. Quando la particolare formulazione linguistica con cui
viene effettuata una richiesta risulta potenzialmente molto offensiva e urtante, ma allo stesso
tempo non si intravede in essa alcuna intenzionalità, un modo per far fronte alle conseguenze
espressive negative per la propria faccia è quello di ridefinire la relazione in termini
paternalistici. Viene esercitata, così, verso “l’incauto offensore” una forma di benevolenza e
di comprensione che, sacrificando la distanza sociale, ripristina una relazione asimmetrica in
termini di potere.
Conclusioni
La nostra descrizione ribadisce la centralità e la pervasività della dimensione rituale
nell’analisi delle micro-interazioni quotidiane, dove con “rituale” intendiamo “un’attività che,
per quanto informale e secolare, rappresenta il modo in cui l’individuo deve controllare ed
evidenziare le implicazioni simboliche dei suoi atti alla diretta presenza di un oggetto che per
18
In merito a questa costante oscillazione interpretativa è opportuna una precisazione. La discussione che
abbiamo condotto finora sembrerebbe alludere a una condizione percepita dagli attori nei termini di una cronica
incertezza, quasi ci si trovasse sempre in mezzo a “sabbie mobili cognitive” senza disporre di nessun appiglio
per non essere travolti. In realtà, le cose non stanno affatto così, dato che una volta intrapresa una strada
interpretativa, qualunque siano i presupposti di partenza, essa sarà battuta fino in fondo anche in presenza di
elementi fortemente contraddittori. La linea di azione, una volta scelta, viene difficilmente abbandonata, mentre
è possibile solo ex-post, attraverso un procedimento riflessivo, rimettere in gioco interpretazioni alternative
disponibili. Dovrebbe essere intuitivamente evidente che l’effetto di stabilizzazione deriva, sia dalle
caratteristiche del “metodo documentario di interpretazione” che lo rendono simile ad una self-fulfilling
prophecy, sia dalle preoccupazioni legate al mantenimento di una coerenza espressiva e di una linea ferma di
azione.
21
lui assume un valore particolare” (Goffman, 1971: 62). Gli oggetti in questione sono le
identità - intese come selves costruiti e rappresentati situazionalmente - di coloro che
partecipano alla situazione sociale di interazione, la cui conferma dipende dal mutuo
riconoscimento delle regole dell’etichetta sociale e dal rispetto di un corretto comportamento
cerimoniale (l’insieme di atti espressivi - gesti, parole, segnali paraverbali, elementi segnici
della facciata personale, ecc. - tramite i quali gli attori regolano la propria posizione verso i
propri interlocutori e, più in generale, verso l’occasione sociale specifica). Solo grazie a tale
strumentazione segnica codificata, le persone possono definire e proteggere i territori rituali
del sé, mostrare di conoscere e di tenere in considerazione i ruoli e le identità rilevanti nella
situazione sociale di interazione, manifestare reciproco rispetto, considerazione e attenzione,
e creare, riaffermare o modificare le proprie relazioni, così come negare, screditare e mettere
in discussione i rispettivi selves.
Indipendentemente dal fatto che il lavoro di rappresentazione del self costituisca la vera posta
in gioco o soltanto un aspetto di interazioni inscrivibili entro una logica di tipo
tecnico/razionale, ogni attore sociale deve tributare al comportamento cerimoniale
un’attenzione costante, mostrando di saper riconoscere, controllare, rispettare, manipolare le
convenzioni che vigono in ogni particolare situazione e di utilizzarle come codici espressivi
per comunicare efficacemente con i propri interlocutori.
In genere, riusciamo a fare tutto questo affidandoci al linguaggio - o, per meglio dire, alle
modalità secondo le quali abbiamo appreso a regolare le nostre interazioni sociali con
strumenti linguistici - e alla possibilità di attribuire ai nostri interlocutori un certo grado di
competenza comunicativa. Il non poter contare su quest’ultima assunzione come risorsa
cruciale dell’interazione, assieme alla difformità degli strumenti espressivi posseduti, può
dunque spiegare i paradossi, le incomprensioni, il disagio e il senso di frustrazione che
sorgono nelle interazioni tra “stranieri” più efficacemente di presunte e astratte differenze
culturali, declinate in termini di valori, norme, abitudini e atteggiamenti.
22
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