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RESIDENZE INQUIETE GRENELLE NARRALIA NARRALIA 1 Nuovi autori per storie incredibili; brevi racconti per introdurvi nel mondo della narrativa che piace a Grenelle. Grandi scrittori vi faranno piombare in universi solo accennati, che non dimenticherete facilmente. Buona lettura. © 2015 Edizioni Grenelle Tutti i diritti riservati. ISBN 978-88-99370-00-8 www.edizionigrenelle.com [email protected] AA.VV. RESIDENZE INQUIETE Gli autori Nanni Lorca Omar Corelli Iller Ascari Classe 1988, romano, si professa inventore del genere domestic pulp. La sua scrittura è un sapiente mélange di stile granguignolesco e irresistibile verve comica. Collabora con numerose riviste letterarie on line e cartacee. Suo è il racconto che dà il nome alla raccolta. Leggetelo: una risata ve lo rivelerà. Pittore di formazione, biologo d’elezione, scrive con rigore e visionarietà. Riservato e misterioso, costruisce una personale tassonomia del fantastico dopo lunghe passeggiate in campagna. È così che ha scritto “Paloma”, secondo racconto del volume. Francese di origini italiane, collezionista di lavori notturni, ambienta le sue storie nella luce mediterranea, la stessa che illumina il racconto “Dentro il paesaggio”. Ugo Flametti Pascal Effendi Attore e autore teatrale, grande viaggiatore e, soprattutto, scrittore fenomenale che non potevamo lasciarci sfuggire. Esordisce in Narralia con una storia incredibile, “Cabana”, forsennata e psichedelica. Tenetevi forte. Trentenne di origini armene, trapiantato in Italia per studiare architettura. Grande affabulatore, talento letterario assoluto, a lui è affidata l’ultima storia, “L’etimo familiare”, una sorprendente vicenda in cui i legami familiari sono passati al vaglio di un’ironia tagliente, che rivela un narratore completo, ironico e profondo. RESIDENZE INQUIETE di Nanni Lorca Residenze inquiete E ra un triste, sfavillante settembre. Si stava seduti ai tavolini di un bar, racimolando i soldi per il conto di una decina di aperitivi. Niente di che, la solita salutatio tra ritornanti. Dei bravi ragazzi, partiti dopo la scuola come esseri fondamentalmente desideranti, senza idee se non quella di non tornare, se la spassavano durante le vacanze nelle case paterne. Il rito, ben oliato negli anni, consumava allora le sue ultime mosse. Con delle varianti. Qualche pargolo che sgambettava sopra e sotto un tavolo, qualcuno che approfittava dell’ultimo momento per fare, a mezza voce, un annuncio: “Ah, poi sapete ragazzi, io mi sposo” “Tu? E con chi?” “Come con chi, con Carla, ve la ricordate Carla, vero?”. E via discorrendo. C’era anche lo spazio per la comunicazione di un ulteriore allontanamento: “Sapete, il lavoro non va troppo bene, i tempi sono magri assai, sono dieci anni che sto a 1000 km da casa, tanto vale mettercene un altro di zero e a dicembre saranno 10.000: vado in Australia, la nuova meta”. Eravamo trentenni disorientati, calati sul palco della vita senza un ruolo preciso, vagamente individuati da una fatale data di nascita: la fine di un secolo. Eravamo le stanche comparse di uno spettacolo troppe volte replicato, prevedibile e 8 Residenze inquiete noioso, che il pubblico ormai disertava. I nostri dialoghi erano lo specchio informe delle nostre anime senza scorza, prive anche del minimo senso di appartenenza, votate al culto di un’insoddisfazione personale del tutto edonistica. Come un tale miracolo di sconfortante egoismo si sia potuto produrre, in persone di così basso lignaggio, è, per me, tuttora un mistero. Eravamo niente, i nostri padri erano niente, ma, chissà perché, credevamo di essere destinati a qualcosa di notevole. Ognuno di noi, in cuor suo, recitava questo mantra: “Mio papà, in fondo, se ci penso bene, solo questo mi ha insegnato, a pretendere qualcosa di meglio per me, per me solo, anche e soprattutto rispetto a lui, anche a dispetto di lui”. Nessuna cultura e una poco realistica percezione di sé avevano forgiato un esercito di incompetenti; grazie a Dio in rapida estinzione. Certo, eravamo super istruiti, avevamo viaggiato, visto e conosciuto cose che i nostri nonni non avrebbero mai immaginato, ma la verità era che non sapevamo fare niente, eravamo dei completi fallimenti. Volete un esempio? Eccolo. Mario, trent’anni suonati, laurea in psicologia, dottorato al M.I.T., ricercatore provetto, con pubblicazioni poderosissime sulle più autorevoli e inutili riviste scientifiche d’oltreoceano. Inanellava disastrose esperienze sentimentali una dopo l’altra, con altrettanto penose dipendenze da droghe sintetiche. Ai tempi del liceo era uno stronzetto senza palle, uno di quei pusillanimi che ti stavano attaccati quel tanto che bastava a fare il proprio comodo – di solito il tempo di capire se avevi o no da fumare – per poi schiodarsi con la stessa velocità di uno stronzo che scompare nel cesso. Egli, l’homo marius intendo, era la straordinaria, ributtante dimostrazione che la parola “merito” è di certo più adeguata a reclamizzare un detergente intimo che a valorizzare un individuo e il suo lavoro. Giuro che davvero non capivo quale talento potesse aver sviluppato questo tizio negli anni dell’università, quale empatia e capacità 9 Residenze inquiete di penetrazione della psiche potessero avergli instillato quelle migliaia di pagine lette, quelle centinaia di ore di laboratorio, e poi il pluriennale, servile discepolato presso un emerito professore. Ciò che trovavo però ancora più incredibile era dove trovasse il tempo, questo giovane uomo in carriera, proiettato verso l’empireo accademico, per tornare a far visita alla sua città d’origine. Mi interrogavo, invariabilmente ogni anno, incrociandolo per strada, sul perché sentisse l’esigenza di continuare a santificare le feste nel posto dove in fondo aveva passato solo un terzo della sua vita; in una casa che magari non conservava più neanche la sua cameretta. E poiché ignoranza chiama follia, questo disgraziato dottorino decideva pure di portarsi dietro, ad ogni sortita, la sventurata compagna di turno, per farla battezzare dalla proverbiale accoglienza familiare e per mandare definitivamente in confusione la nonnetta, costretta nel ruolo di simpatica snocciolatrice di gaffe. A lei sola era concesso dimostrare il profondo dispetto per il nipote poligamo, forse addirittura convertito a quella strana religione negra, tutta caffetani e barbe abramitiche, urlante dalle torri del deserto. “Loro però sanno trattare le donne”, sentenziava la vecchina. Le conversazioni con questo dottorino erano delle centrifughe decennali, dei tritacarne emozionali; una rutilante galleria di revenants, evocati in serie e di fretta, veniva a ributtarti di forza al liceo, nei bagni fumosi, nei corridoi puzzolenti, sul linoleum bruciato delle palestre. Il compito immane era quello di ricordarsi di persone e cose fortunatamente dissolte da una memoria che aveva già incominciato a perdere il conto degli anni. Era assai penoso doversi aggiornare, fingere interessamento ed essere perfino benauguranti con questo figliol prodigo. Se poi non fosse abbastanza, la testa di cazzo aveva anche bisogno d’essere confortato: perché era stata dura 10 Residenze inquiete trasferirsi, cambiare vita, arrivare fin dove era arrivato. “Ma scusa, dov’è che sei arrivato di preciso?” avrei voluto domandargli. Nel mezzo di questo piagnisteo di solito mi distraevo: era un errore fatale! Non capivo mai quando il discorso virava, quando lo sguardo di Marietto si rivolgeva verso di me e prendeva a considerarmi con interesse, con un misto di pena e commozione. Perciò, di solito, non sentivo arrivare la fregatura grossa, la beffa fetida, non vedevo che la dinamica del monologo stava mutando, fatalmente, ai miei danni. Eccolo, quel fenomeno di egotismo del tuo vecchio compagno di liceo, che se ne usciva con un: “Ma insomma, alla fine non mi posso lamentare, sono soddisfatto. E tu, invece, come va?” Io? Invece? Come va? Andrebbe molto meglio se non fossi costretto a rivederti, anno dopo anno, lo stesso stronzo di sempre, solo più rigonfio di autostima, ben strutturato e a proprio agio nella rete fatta di attestazioni di stima e traguardi raggiunti oltre confine. Sarei l’uomo più sereno del circondario, una bolla ambulante di paciosità, se non mi ritornassi tra le palle, magari all’incrocio di un viottolo deserto, scelto apposta per le sue qualità misantropiche (fioca illuminazione e pesante odore di urina). Andrebbe molto meglio se la sbronza che inizia a crepitarmi in testa – la stessa da quando avevamo la sfortuna di risiedere nella stessa città – riuscisse a evitarmi di riconoscerti. Oh, se l’occhietto mio sbilenco d’alcool potesse non afferrare la tua figura malnata. Dovevate vederlo come avanzava, il Marietto nostro. Si vedeva subito che i suoi passi abitavano altre strade, di solito. Non capivo bene cosa fosse. Era forse una dimestichezza tutta diversa con il paesaggio urbano, oppure una certa superiore statura a conferirgli una sorta di scivolosità superficiale. Planava sul pavé come un pavone sgambettante, rapidissimo. Il suo passo non si soffermava sul bordo di una pozza atavica, 11 Residenze inquiete come il vostro maledicente narratore. I suoi affusolati stivaletti non avevano l’andatura claudicante delle nostre pesanti scarpe di montagna. Tutta la sua figura era il risultato ammirevole di un’evoluzione metropolitana sviluppatasi in tempi da record. E poi c’erano i suoi vestiti. Abiti che da noi non si trovavano. Per forza, che senso avrebbe, per i derelitti locali, sfoggiare un cappottino very british nella desolazione dello struscio sabatino, quando la piazza era sferzata da venti gelidi e anche i cani randagi sparivano? Neanche la tua faccia, a guardala bene, c’entrava molto in questa cornice. Ti eri fatto più affilato, mascelluto; certo la palestra ti aveva modellato a dovere, e le creme poi avevano fatto miracoli per risolvere quel rossore che ti chiazzava le guance. Non ti facevi mancare proprio nulla, tu. Forse non te ne rendevi conto, ma perfino la grana della tua epidermide sollevava l’indiscreta attenzione dei tuoi conterranei. Forse invece lo sapevi, e ti sottoponevi con pazienza e sottile godimento a quell’agnizione. In fondo ti piaceva farti soppesare, riuscivi anche in questa situazione a spuntare un’insperata vittoria, a scardinare l’incredulità dei locali: “Possibile che sia lui, com’è cambiato!” dicevano. Allora perché, dopo averci fatto l’onore di manifestare il tuo trionfo, perché non li riportavi in Massachusetts, quei tuoi bei connotati? Perché continuavi a sostare dalle nostre parti inutilmente? Certo per farmi impazzire. Giusto la gastrite mi avvertiva che era inutile cercare di evitarti o meglio di non riconoscerti, mentre ti avvicinavi dal fondo della strada. Accidenti a te che non rispettavi neanche le abitudini dei nativi, di quei pochi idioti che avevano capito il proprio fallimento anche senza disperdersi ai quattro angoli del pianeta. Che sia maledetto il treno, l’aereo, la macchina, che ti riportava tra di noi, a gremire il corso il giorno di Natale, o la sera del santo patrono. Che sia stramaledetto quell’unico pensiero che ti veniva in mente in quelle occasioni: quanto era ricca la tua 12 Residenze inquiete terra, quanto era bello il tuo paese. Ti concedevi questo languore intatto, ingollando profondi respiri della magica atmosfera festaiola, in cui tutto sembrava apparecchiato solo per te. Guardavi i tuoi amici: non aspettavano che un tuo cenno per far venire incontro i vecchi tempi. Cedevi anche con loro alla tentazione di una dolcissima confidenza: “Sì, mi piacerebbe ritornare un giorno, per provare a cambiare le cose, ci sarebbe tanto da fare qui, tanto da lavorare”. Ma crepa, caro il mio principino, specie di Salina redivivo. Ecco, questi ultimi filamenti di bile erano per te, erano il mio personale addobbo per il tuo ritorno. Spero non ti sia dispiaciuto che li abbia appoggiati qui, sul tuo piumino. Questo sì che sarebbe stato un comportamento corretto, coerente col mio cuore, con quello che davvero provavo per tutti quelli come te. Invece ti attendevo ansioso, ti accoglievo fraternamente, sorbivo le tue stronzate, ascoltavo i tuoi aneddoti e ti offrivo anche da bere, brutto spilorcio figlio di puttana. Io non ero un tipo incazzoso, un frustrato, un represso. Non mi pentivo delle mie non scelte; non arrivavo neanche a chiedere, in una forma ipotetica, un’alternativa di questi ultimi dieci anni. Ero sereno, a patto che questo mio modesto equilibrio non venisse devastato dall’eccezionale mobilitazione per questi transfughi dei cazzi loro. Non rimuginavo in continuazione come facevano quegli squallidi arrivisti, quei parassiti omnidotati, campioni di vampirizzazione del prossimo. Professionisti dei sensi di colpa e della loro inoculazione a terzi. Gente che, dopo l’intervento compassionevole della dimenticanza, ti rinfacciavano sgarri, truffe, insulti. Volevano confonderti, riscuotere interessi per inezie avvenute in anni che non credevo di aver mai vissuto. A quanto ammontassero i mastodontici crediti che ‘sti pezzenti esigevano, lo ignoravo. Ma state certi che non avrebbero estorto un centesimo della mia pace, un centimetro del mio equilibrio. E che cazzo! 13 Residenze inquiete Quella mattina mi svegliai prestissimo, con un atroce mal di testa. Da quando avevo passato i trenta le sbronze mi calpestavano sempre più implacabili: non importava quanto tardi avessi fatto, quanto avessi bevuto, discusso; quanto mi fossi incazzato. Alle sette ero già in piedi, apparentemente pronto per riabilitarmi dalle viziose ore trascorse, per giunta con un po’ d’appetito. In realtà mi sentivo tremendamente svogliato. Abbandonarmi e scomparire, ecco cosa avrei dovuto fare. Invece, infinitamente confidente in una rapida ripresa, mi rimettevo in piedi e dondolante mi avviavo al cesso. Le cose mi sfuggivano attorno in una cornice sonora ronzante. Un abbraccio ci sarebbe voluto, ma l’ufficio risorse umane aveva subito un duro colpo ultimamente, perciò mi toccava accostare le braccia livide al freddo fiore di porcellana che spuntava solitario nel bagno e concedermi con lui un profondo lamento. Gorgogliavo, pallido e gonfio, nel suo cuore, fiducioso che non una sola confessione sarebbe uscita da quelle pareti smaltate. Bastava poco e ogni dolore veniva soffocato in uno scroscio. Un bell’anticipo sulla decomposizione, non c’era da sbagliarsi. Ubriacarsi, ormai, per me, era una sorta di esercizio spirituale, un istruttivo amplesso col fastidio del mio corpo. Nausea, abulìa, orrore per le cose – per la loro luce, ancor prima che per il mondo (idea vaga e discutibile comunque) – ecco cosa m’aspettava al risveglio. E dovevo ringraziare il Mario di turno per il mio stato. Bisognava concedersi sempre una seconda chance quando la fortuna non girava. Uno se ne tornava a casa, giusto un po’ brilletto, svicolando per la parte vecchia della città, e d’improvviso veniva importunato dall’entusiasmo di un conoscente che aveva avuto un’unica positiva intuizione in passato: scomparire. Il suo trasporto emotivo era tanto più ridicolo in quanto non commisurato né alla bellezza, né all’astinenza dal luogo in questione: la nostra squallida cittadina. Insomma, questo genere di parvenu, che 14 Residenze inquiete si atteggiava a rampollo della più disinvolta e riuscita specie, questo tacchino ben pasciuto, tutto fiero del posto nel mondo apparecchiatogli dal paparino, veniva a molestarvi nel cuore della notte, mentre racimolavate pensieri tosti fra le sconnessure del marciapiedi. Ce n’era abbastanza per dare di matto. La serata era bella e rovinata, avevi voglia a fumare cicche, per liberarti del saporaccio di quelle parole estorte a forza dal prontuario dell’educazione parrocchiale: non c’era verso. Non ti restava che riavvolgere il nastro, fare dietrofront e tornare al bancone che avevi appena salutato. Il resto della notte era un mistero triste. Per miracolo, riuscivo a scardinare la porta difettosa di casa e a buttarmi sul letto, pronto a partire per i sogni senza storia degli ubriachi, sotto il basso continuo del russare. Il relitto che mi ritrovavo tra i piedi, dopo poche ore, era reso ancora più misero dalla luce del sole: le costole, scricchiolanti più di una chiglia in secca, erano stremate dal mantice sibilante del respiro; la testa, innervosita da pensieri borbottanti più di un albero alla mercé di venti non sfruttabili, era squassata dalla penosa deriva di quel po’ di materia grigia sopravvissuta. Dovevo avere delle alghe avviticchiate ai piedi, sennò non mi spiegavo la difficoltà a camminare. E che dire di quel tremore costante? Le dita saltellavano cercando di avvitare la caffettiera. In quali marosi mi ero perso? Quali cordami insaponati mi impedivano di risalire alla cabina di avvistamento, per dare un po’ di prospettiva al mio sguardo, un senso a un’altra giornata che sembrava già compromessa? Queste prove cui mi sottoponevo, ingollando preventivamente diversi sorsi di bevande fermentate e distillate, non le facevo mica per piacere, sapete; era per paura che mi spingevo oltre la porta di casa appena le ombre, allungandosi sotto le macchine, conducevano i lavoratori alle loro case. Era per depotenziare la morte del suo aspetto terribile che assumevo 15 Residenze inquiete questo farmaco, per costringermi a passare un altro giorno scrutando l’orizzonte per vedere cosa mi aspettava. E sia chiaro, lo sapevo benissimo che non mi aspettava proprio niente ormai; ce l’avevo davanti ogni giorno il disgusto del tempo, ne avevo le tasche piene dei suoi spiccioli fuori corso. La chiamereste una soluzione questa? Eppure, questo dolore quotidiano avevo deciso che mi spettava, almeno all’imbrunire. Non era questione di voglia, di disposizione, di genio; non era possibile passare di mano, ormai. Era un fatto, direi, naturale: il cielo si stingeva di luce, il traffico raggiungeva il suo orgasmo, il passo degli umani si faceva più strascicato, stremato dopo l’ennesima stanca lotta per il salario quotidiano? Era segno che dovevo andare. Nel lasso di tempo tra il risveglio della mia gola secca e la maturazione delle insegne commerciali verso il giusto grado di iridescenza, si scatenava per me l’inferno: esso assumeva invariabilmente le sembianze del mio monolocale ammobiliato. Ritrovarmi ancora lì, solo e derelitto fra quelle poche cose, per di più unte e sbocconcellate da immemorabili squassi e bagordi, era davvero insopportabile. La prospettiva di passare ancora lunghe ore di veglia fra quelle quattro squallide mura adombrava sulla mia faccia tutta una serie di insani propositi. Meglio uscire, dunque, senza aspettarmi nulla di nuovo dall’aria gelida, pronta a mordermi il naso appena fuori il portone. Ma quando il mondo assumeva un aspetto più remissivo, e la parola diffidava delle sue forze, ero pronto ad andare, senza cruccio, al mio patibolo. Era un percorso smemorato quello da casa al bar, scarico di pensieri, di pretese, di tensioni. Era come andare in gita sotto il proprio letto: tepore e paura convivevano con una quantità sorprendente di oggetti dimenticati. Bastavano pochi passi, in realtà: qualche centinaio di metri di un serpeggiante acciottolato tinto del lucore della notte; una grande svolta, la forte discesa all’ombra di un muraglione coi segni druidici del 16 Residenze inquiete nord, e poi scale, scale, scale. Un piccolo dislivello mi separava dai ruderi immersi in un’atmosfera spettrale. Stratificazioni di luminarie parrocchiali, natalizie, residui dell’ultimo giubileo, penzolavano rachitiche a mezz’aria. Era dall’intensità luminosa dello spazio che m’accorgevo d’essere prossimo alla destinazione. La luce dei lampioni da resinosa diventava sempre più evanescente. La mia era una via crucis dello sguardo. Il cristallino era continuamente ferito da fanali, insegne e lampioni. La limpidezza si perdeva, un po’ di più, ad ogni passo. Mi riprendevo da queste impercettibili bruciature come da piccoli colpi del caso, riconferme delle tristi regole della storia. Sentivo le palpebre ingrossarsi, ingrommarsi di memorie, pieghettarsi un po’ di più ad ogni nuova entrata della realtà attraverso le fessurine degli occhi. Nonostante tutto, questa pratica, che qualcuno liquida superficialmente come autodistruttiva, si sosteneva in virtù di una stringente disciplina. Non vi tedierò con la diffusa spiegazione dell’impianto teorico della faccenda del bere. Non è il caso di fare l’apologia dell’alcoolismo, e non perché mi pare sconveniente, o addirittura immorale. Il fatto è che chi beve non cerca consensi, giustificazioni, o plausi: è così, un modo di sedare la violenta intrusione delle cose, quel continuo flusso che filtra e stride nell’anima. Bere è sigillare i buchi, tappare le crepe: un’ottima colla tra il disastro del futuro e il terrore della memoria. Vi basti sapere che la regola fondamentale, l’unica avvertenza a questa elementare e millenaria posologia che ci eravamo dati era il tempo. Tempo cronologico – state tranquilli, niente metafisica –, quello che intercorreva tra la prima ingollata e il diffondersi di un caldo benessere, in grado di dare senso, per la prima volta, alla parola “casa”. Poi tempo meteorologico: c’era da tenere sempre d’occhio il barometro da queste parti, perché si stabiliva una curiosa relazione tra le basse nubi che tappavano il nostro cielo e il nostro “dentro” – 17 Residenze inquiete anche questa volta nessuno psicologismo, si tratta di un luogo ben localizzabile nelle trippe. “Il cielo scuro sopra di me, un vuoto mortale dentro di me”. Poteva suonare così l’altisonante motto di noi solitari bevitori. Bevitori, sì, assuntori serissimi e professionali di tutte le conseguenze, così come delle poche passeggere gioie, del bere. Per niente santi, nessuna mistica della dannazione, né incontri straordinari sotto i ponti. Per nulla goliardici, buontemponi, caciaroni, ci spingevamo di bar in bar alla spicciolata. Ci si ritrovava lì, è vero, ma come per caso; ce ne accorgevamo all’ultimo che quei gomiti piagati dalla psoriasi erano di Gigi, che quello sguardo fisso sulla lunga coda di cenere della sua cicca era di Alberto e che Gianni… Gianni era in bagno. 18