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Il Netturbino
Quel lavoro in realtà lo divertiva. Non un grande impiego, assolutamente poco retribuito, ma di
certo lui lo rendeva più nobile di molti altri. Fin da quando era piccolo aveva deciso che il suo
compito sarebbe stato quello di mantenere pulito il mondo, di preservarlo dall'incuranza delle
“bestie”. Quando Antoine utilizzava il termine “bestie” ovviamente non si riferiva agli animali ma
intendeva taluni esseri umani, anche se ad ascoltarlo pareva non ne salvasse nessuno, gli unici a suo
dire degni di tale titolo. Il posto in cui eravamo cresciuti aveva sicuramente incentivato questo suo
modo di vedere il mondo ed io in effetti non potevo dargli torto. Le strade esibivano
quotidianamente il più barbaro e selvaggio esempio di smaltimento indiscriminato di rifiuti. Oltre ai
regolari bidoni, stracolmi di sacchetti tanto che la gente aveva incominciato ad ammassare le buste
tutt'attorno, capitava di vedere frigoriferi abbandonati in bella vista pieni di rifiuti, lavatrici o
mobilia a cui era toccato il medesimo destino, auto incendiate e chi più ne ha più ne metta. Di cose
strane sicuramente se ne vedevano. Ad esempio, tutte le volte che Antoine tornava dal mare,
raccontava puntualmente di aver visto volare uno o più sacchetti dell'immondizia da una macchina
in corsa. Mi capitò anche di condividere con lui il “piacere” di uno di questi momenti. Eravamo in
macchina assieme, ormai già grandicelli, quando due grossi palloni di plastica, uno blu ed uno
bianco, sbucarono dal finestrino lato guidatore di quella che ci precedeva, seguiti da una mano
maschile parecchio abbronzata. Aveva peli neri sul dorso decisamente folti, tanto che riuscivo a
vederli anche in movimento da quella distanza, ed un anello al dito che luccicava alla luce del sole.
Arrivati ad una curva rallentò e, con un movimento fluido, tirò fuori anche il braccio, lanciando i
sacchetti con gesto meccanico. Mi fece pensare ad una catapulta. Le due buste sorvolarono la
vettura di quell'uomo ed andarono a schiantarsi due o tre metri dentro la banchina. Una delle due si
squarciò facendo fuoriuscire il contenuto, ma non riuscii a capire cosa fosse. Non scorderò mai lo
sguardo che si dipinse sul volto del mio amico, un misto di rabbia feroce e assoluta impotenza. Io
non sapevo neanche cosa pensare, tanto mi era sembrato assurdo quell'episodio.
Parecchi anni dopo, finiti gli studi, mi trasferii in un'altra città.
Quando tempo dopo tornai da quelle parti, decisi di incontrarlo. Non ci vedevamo da una vita ed era
l'unico a cui fossi rimasto davvero legato. Era una persona brillante, si laureò in antropologia ma,
terminato il percorso universitario, decise di non proseguire su quella strada. Mantenne il suo
proposito, seppur nel piccolo, trovando impiego come netturbino.
Il giorno in cui andai a trovarlo era una magnifica giornata di sole. Sul lungomare soffiava il vento
ed i gabbiani svolazzavano sopra i bar in cerca di cibo facile. Alcuni atterravano e passo dopo passo
arrivavano fin sotto i tavolini. Io bevevo una birra aspettando l'autobus e mi godevo l'inizio della
primavera. La vuotai poco prima che arrivasse. Il tragitto sarebbe durato almeno mezz'ora ed io non
mi ero portato niente da fare, così presi ad osservare i miei compagni di viaggio. Una strana donna
sonnecchiava accanto a me. Nonostante la temperatura portava un colbacco di lana. Aveva le
braccia incrociate e il volto austero il cui pallore era ancor più messo in risalto incastonato com'era
tra il giubbotto ed il cappello, entrambi neri. Gli occhi erano di un bel verde muschio. Il resto del
suo vestiario consisteva in pantaloni militari ed anfibi. Avrà avuto circa quarant'anni, o almeno tanti
ne dimostrava. Due posti davanti a lei stava seduto un avvocato. Lo avevo capito ascoltando
frammenti di una telefonata. Aveva una ampia chierica che si apriva sulla testa e parlottava
gesticolando. Probabilmente stava ripassando un'arringa. Aveva un'abito lungo ed ampio tanto da
sembrare già togato e pronto per l'aula. Prima di scendere chiese scherzosamente alla donna con il
colbacco se provenisse dalla russia. La donna scese un paio di fermate dopo, l'espressione del volto
non era cambiata di una virgola. Poco dopo arrivai anche io.
Antoine abitava proprio davanti a quelle che dovevano essere le rovine di un antico mercato
pubblico romano, era la prima volta che capitavo da quelle parti. Di quel luogo sapevo che venne
erroneamente chiamato tempio a causa del ritrovamento della statuetta di una divinità Egizia
durante gli scavi. Tutti i palazzi nei pressi dei ruderi avevano un ristorante al piano terra con i
tavolini all'aperto in modo da godere della vista e dell'aria primaverile. Ai piani superiori si
trovavano le abitazioni. Quando uscii dal autobus notai una coppia di gabbiani in cima ad una delle
tre colonne del mercato rimaste in piedi. Era stretta da una gabbia metallica, probabilmente
qualcosa l'aveva distrutta ed era stata pazientemente ricomposta. Da quella sommità, i due uccelli
troneggiavano su una grande piazza rettangolare incassata da spesse mura di mattoni rossi che
salivano di tre o quattro metri a seconda dei punti. Al centro c'era un piccolo piazzale circolare,
rialzato e delimitato dai monconi di quelli che un tempo dovevano essere i pilastri di un colonnato
più basso, lo si poteva dedurre dal loro minor spessore. Sulle tre più alte invece, oltre ai due
gabbiani, si vedevano dei segni lasciati dall'acqua che spesso saliva considerevolmente,
sommergendo il resto. C'erano altri pennuti, in tutto potevano essere una cinquantina, spuntavano
qua e la tra le colonne mozzate, le pareti corrose ed i capitelli spaccati che si trovavano sparsi nella
piazza come sassi nell'universo. Tutt'attorno i ristoranti aperti offrivano ai clienti il piacere di quella
stessa vista, oltre a cospicui piatti di pesce. Sembrava dicessero di mangiare, e di farlo anche
abbondantemente. In effetti venne fame anche a me. Fui tentato di sedermi ad uno di quei tavoli ed
ordinare ma ricordai di essere li per Antoine e così iniziai a cercare il suo indirizzo, col proposito di
proporgli di tornarvi assieme a lui per cena. L'ingesso dell'abitazione dava direttamente sulla strada.
Superata la porta, salii una stretta scalinata, molto ripida, che mi fece pensare al cunicolo di un
formicaio. Lì dentro la temperatura era più bassa di almeno tre o quattro gradi. Arrivato in cima
trovai un'altra porta, a vederla sembrava molto pesante e robusta. Quando bussai, il contatto delle
nocche sulla superficie produsse un tonfo appena percettibile, quindi pigiai il campanello. Mi aprì
Antoine, evidentemente invecchiato. Indossava i pantaloni di una tuta ed una maglietta stinta. Non
lo abbracciai, nonostante fosse mio desiderio, perché il suo volto sconsigliava di farlo. Limitai il
saluto stringendogli calorosamente il braccio con la mano. Poco dopo sedevamo uno di fronte
all'altro su di un terrazzino subito sopra i ristoranti, ci si accedeva dalla cucina. Riuscivano a starci
due uomini seduti ed un tavolino tondo, lasciando spazio sufficiente per muoversi e transitare
comodamente all'interno. Antoine riempì due bicchieri di un fresco e gradevole rosso frizzante.
Bevemmo in silenzio i primi due poi, a metà del terzo, sentii nuovamente la sua voce. Dopo tutti
quegli anni fu come ascoltare una canzone che rievoca periodi nostalgici.
-È stato facile arrivare?
-Molto! Direi anche piacevole, l'autobus era vuoto.
-Strano.. – fissò per un attimo il suo bicchiere – di solito sembra un carro bestiame.
-Bello qui dove vivi, la vista è magnifica..
-Sì è vero, un panorama di tutto rispetto. Inoltre ho sempre adorato l'antica Roma.
-Anche i gabbiani sono pittoreschi..
-Già, peccato che quei fottuti strillino contemporaneamente tutte le mattine all'alba. Te lo immagini
il chiasso? Peggio che avere un gallo sul comodino.
-Non deve essere piacevole..
-No davvero - vuotò in un sorso il bicchiere che teneva in mano – riescono a farti saltare i nervi
anche quando sei già sveglio - versò nuovamente del vino, poi si alzò e tornò con una ciotola di
olive piccanti e delle patatine.
-Questa città è piena di gatti – esclamai quando fu di ritorno – come fanno quei gabbiani a viversela
così serenamente?
-Scherzi? - chiese lui sinceramente stupito – ho visto pochi animali altrettanto aggressivi. Pensa che
una volta stavo qui in piedi a fumare quando uno di loro aggredì selvaggiamente un piccione, lo
uccise e se lo mangiò. Sono pericolosi e competitivi. I gatti, in particolar modo quelli domestici, si
guardano bene dallo stargli vicino.
-Cazzo! Non lo avrei mai detto.
-Io lo sapevo ma non ci ho mai voluto credere. Poi un bel mattino assisto a questa carneficina e non
posso far altro che cambiare idea – afferrò un'oliva, lanciandosela poi in bocca con un rapido gesto.
Io sgranocchiai qualche patatina. Quando finì la bottiglia, Antoine si alzò per sciacquarla e
recuperarne una piena. Quel vino era davvero buono, volevo sapere il nome ma dimenticai di
chiederlo. Portò anche un tagliere con sopra un pezzo di caciotta intero ed un coltello affilato
piantato di fianco. Mi è sempre piaciuto mangiare il formaggio in quel modo, così mi rallegrai della
sua scelta.
-Sono stato licenziato- affermò lui secco, senza alcuna coloritura emotiva, come se mi avesse
appena comunicato il risultato di una partita calcistica di scarso interesse. Non dissi nulla e lui andò
avanti.
-La scorsa settimana stavo facendo il solito giro di raccolta serale. Era mercoledì e prendevamo la
carte in una piazza a breve distanza da qui, vicino ai resti dell'anfiteatro. Da non credere, ma adesso
fanno addirittura la differenziata. Da queste parti non esistono i bidoni e forse non è una cosa così
sbagliata, se ci fossero probabilmente ci butterebbero dentro le cose a casaccio. Per ovviare, ogni
persona riceve un calendario che differenzia i giorni a seconda del tipo di rifiuto da smaltire. I
sacchetti devono essere lasciati ogni sera davanti al portone del palazzo e poi noi passiamo a
prelevarli, assicurandoci sempre che nessuno abbia fatto il furbo e ti assicuro che capita ogni notte.
– si accese una sigaretta e riprese a parlare mentre la teneva ancora in bocca - Comunque, finite le
abitazioni in piazza, girammo in un vicolo da tempo bloccato a causa di alcuni lavori per puntellare
un edificio pericolante. Io non guidavo. Arrivammo fino dove potevamo prendendo tutti i sacchi,
poi aiutai il mio collega a fare marcia indietro. Poco prima di risalire sul furgone mi resi conto di
averne dimenticato uno proprio dove la strada veniva interrotta dai lavori. Probabile che ce lo
avessero messo nel frattempo, non stetti a pensarci troppo su e andai di corsa a recuperarlo. Giusto
il tempo di caricarmelo sulla spalla e sentii come un borbottio animalesco venire dall'ombra, appena
oltre le transenne del cantiere. Mi sono avvicinato scoprendo che si trattava di uno di quei cani
ridicoli, molto piccoli e dal pelo lungo. Appena mi vide mostrò i denti, doveva essere spaventato.
Mi resi conto che aveva la zampa bloccata da un grosso asse di legno. C'era un punto in cui la
recinzione era sollevata, probabilmente anche il cane aveva utilizzato quel passaggio. Provai ad
infilarci il braccio per liberarlo, ma era troppo lontano, quindi tornai verso l'inizio della strada dove
mi ricordai di aver visto per terra dei tubi di ferro abbandonati sufficientemente lunghi. L'unico
modo, pensai, fosse infilarne uno sotto la trave e provare a far leva. Tuttavia, non scoprii mai se
avrebbe funzionato perché al mio ritorno il mostriciattolo era sparito. Lì attorno non lo si vedeva,
perciò mollai il tubo e recuperai il sacco poi ritornai verso il furgone. Poco prima di svoltare, lo
stesso cane spuntò svelto, ben nascosto dall'oscurità, dalla rientranza di un ingresso carraio e mi
aggredì ad un piede. Per lo spavento, colpii fortemente una macchina con il ginocchio. Non ho idea
di come fosse arrivato fin li, comunque mi colse di sorpresa e riuscì a mordermi, per poi ritrarsi a
distanza di sicurezza immediatamente dopo. Convinto si fosse reso conto dell'evidente svantaggio
in cui si trovava, mi limitai a guardarlo incredulo qualche secondo per poi voltarmi e proseguire
verso il furgone. Non mi diede neanche il tempo di fare tre passi. Lo sentii latrare istericamente
mentre nuovamente si avventava su di me mirando ai polpacci. Fui pronto questa volta e, sbattendo
un piede a terra, riuscii a farlo indietreggiare prima che riuscisse ad affondare il colpo. Lo affrontai
a viso aperto, stavolta deciso a capire che intenzioni avesse. Quello stronzetto ringhiava e faceva le
finte. Stetti qualche minuto a guardarlo minaccioso senza fare niente, reggevo ancora in mano il
sacco. Gli occhi di quella specie di topo peloso brillavano acuminati nella penombra, riflettendo la
luce dei pochi lampioni accesi. Ad un certo punto avvertii un intenso bruciore al collo. Strofinando
frettolosamente con la mano feci cadere a terra un mozzicone ancora acceso, probabilmente caduto
da uno dei balconi soprastanti ma, quando guardai, non riuscii a vedere nessuno. Quando cercai di
incrociare nuovamente lo sguardo del mio avversario, era sparito di nuovo. Tutto in pochi istanti.
Mi guardai attorno confuso ma quello sembrava davvero sparito. Dopo dieci minuti che stavo in
piedi da solo come uno scemo, tornai finalmente al furgone. Il mio collega mi chiese perché ci
avessi messo così tanto e, dopo le dovute spiegazioni, esplose in una grassa risata.
Il mio amico guardò l'ennesima bottiglia vuotata sul tavolo e si alzò per andare a sostituirla, quando
tornò aveva con se anche una brocca piena d'acqua. Intanto un gabbiano volò in cerchio un paio di
volte sopra gli scavi, poi si allontanò in direzione del mare.
-Scusa, ho finito il rosso. Sciacquiamo bicchieri e palato con un po' d'acqua fresca e proviamo
questa falanghina.
Facemmo come aveva detto. Mentre versavo il liquido dorato nel bicchiere si sprigionò un profumo
che mi ricordò l'estate.
-Scusa – dissi prima di assaggiare il vino – non ho ben capito cosa centri questa storia con il tuo
licenziamento.
-Non c'è nessun nesso in effetti – assaporò un po' di vino e, dall'espressione goduta, capii che era di
suo gradimento – il giro si concluse in maniera tranquilla tuttavia, dopo quell'episodio, era come se
fossi totalmente inebetito. Quando il mattino dopo mi svegliai stavo allo stesso modo. Stavo seduto
sul letto in camera e guardavo le mie cose. Ad ognuna di esse riuscivo a ricondurre un ricordo, un
utilizzo, ma in qualche modo le sentivo estranee. Non sapevo bene che farci né perché avevo scelto
di possederle. O meglio, ricordavo il motivo, ma anche questo appariva come estraneo alla mia
persona. Non riuscivo a riconoscerle come mie scelte, nonostante ricordassi perfettamente ogni
momento un cui avevo deciso per una cosa piuttosto che per un'altra. Percorsi il tragitto per andare
a lavoro a piedi, non me la sentivo di prendere la macchina, né di salire su un autobus pieno di
persone. Mi dovetti fermare in due o tre punti perché non mi rendevo conto di quanto tragitto avessi
già percorso e necessitai di tempo per riconoscere strade ed edifici normalmente familiari. Non
molto tempo, secondi direi, ma per la familiarità che normalmente ho con quelle strade erano
comunque troppi. Mi prese una leggera ansia ed accelerai il passo. Era cominciato tutto nel vicolo,
ma non avevo assolutamente idea del perché quella fesseria mi stesse facendo un simile effetto.
Quando arrivai a lavoro venni convocato dal capo e dopo pochi minuti ero stato licenziato. Ad
essere precisi non mi è stato rinnovato il contratto, ma la sostanza non cambia. Comunque, non
appena ricevetti la notizia, fu come quando la professoressa ti becca che sei nel tuo mondo durante
la lezione. Magari quella ti ha chiamato due o tre volte prima che tu la sentissi, ti accorgi che una
cinquantina di occhi ti stanno perforando nel più assoluto silenzio e inizi a sudare freddo.
Totalmente incapace anche solo di proferire parola. La mia reazione al licenziamento fu
pressappoco questa. Ero di nuovo me stesso, senza un posto di lavoro certo, ma adesso mi trovavo
nuovamente in accordo con il vissuto della mia persona. Quando tornai a casa, libero finalmente di
riflettere un po, non riuscivo a togliermi dalla testa l'idea che entrare in quel vicolo la sera prima
avesse innescato qualcosa, come una concatenazione di eventi apparentemente slegati che sono
culminati nel mio licenziamento. Una parte di me è fortemente convinta che se non fossi andato a
recuperare quel sacchetto avrei ancora il mio lavoro. Ed invece sono tornato in quel vicolo,
entrando in una sorta di tunnel dimensionale che mi ha transitato in un'altra realtà perfettamente
identica dove però sono stato licenziato. Il mio ottundimento probabilmente era dovuto al transito
tra le due dimensioni. Il licenziamento era il punto di arrivo nella mia nuova realtà, da quel
momento tutto riprese la sua consueta forma.
Restai per un po in silenzio bevendo vino. Non ero sicuro ci fosse davvero una risposta a quello che
mi era stato appena raccontato. Sembrava la classica serie di sfortunati eventi culminata nella
maniera peggiore, ma dargli una risposta del genera mi sembrò semplicistico ed un po' irrispettoso.
Anche a me erano capitate cose simili senza che poi ci stessi a fare queste elucubrazioni quasi
assurde.
-Credi davvero che possa essere successa una cosa del genere?
-Certo che no! Ma, come ti ho già detto, non riesco a non sentire la presenza di un nesso.
-Ti dispiace per il lavoro?
-In realtà non così tanto..
-Allora forse una parte di te non consapevole conosceva già la strada da prendere e non hai fatto
altro che percorrere i tuoi passi.
-Anche questa è una teoria assurda.
-Si, lo so. Probabilmente è solo stata una pessima giornata Antoine, senza girarci troppo attorno.
-Non credo..
-Ammesso sia vero che esistano realtà parallele, teoricamente non c'è modo di comunicarvi.
-Trasmigrazione di coscienza! Così passiamo da un universo all'altro. I corpi nelle due realtà si
polarizzano e consentono il passaggio. La coscienza di uno finisce nel corpo dell'altro, che
ovviamente è identico, infatti la maggior parte delle volte non ci si accorge di nulla. L'episodio che
ti ho raccontato è stato probabilmente un'eccezione.
-Sei sbronzo vero? - lo guardo negli occhi, lui ride sommesso e mi manda a fanculo – cosa farai
adesso?- si alzò in piedi e spense la sigaretta.
-Ora ti porto in un buon ristorante!
Andammo in uno di quelli che dava sulle rovine. Aveva sedie a forma di trono fatte di bambù
intrecciati, sopra c'erano cuscini spessi e morbidi. Ci portarono una caraffa di vino bianco con pezzi
di pesche gialle e svariati antipasti. Le luci soffuse lasciavano intravedere solo i ruderi, non si
riusciva a guardare oltre. Mi sentivo piacevolmente stordito, come un poppante tra le braccia della
madre. Non ho idea di quanto restammo seduti, probabilmente ore. Parlammo di tutto. Mi risvegliai
il giorno dopo sul suo divano, strappato al sonno dall'aroma di caffè che veniva su. Lo bevemmo
assieme in cucina, poi un'altro in un bar poco lontano da casa. Era pieno di dolci meravigliosi,
alcuni traboccanti crema pasticciera e adornati di amarene, altri più semplici, ma non avevo molta
fame. Nessuno dei due proferì più parola sul licenziamento. Quando mi salutò alla fermata
dell'autobus disse che ci saremo rivisti presto e mi strinse in un lungo abbraccio, poi si allontanò e
sparì in una via che si apriva tra i ristoranti. Io salii sul pullman ed andai a sedere agli ultimi posti.
Appoggiai la testa al finestrino ed iniziai a guardare un punto non meglio definito all'orizzonte.
Poco alla volta tutta la realtà attorno a me perse di ogni interesse, poi di consistenza, infine sparì ed
io sprofondai dolcemente nei miei pensieri.
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