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L`ARTE E LA PRIMA GUERRA MONDIALE

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L`ARTE E LA PRIMA GUERRA MONDIALE
L’ARTE E LA PRIMA GUERRA MONDIALE
a cura della prof.ssa maria enza scerrino
L’eredità del Risorgimento
Nell’Ottocento, l’idea di Nazione era particolarmente cara ai popoli non ancora politicamente
uniti, quindi sarà soprattutto in Italia e in Germania che l’idea nazionale troverà molti assertori. La
nostra penisola, con i moti popolari e le guerre del Risorgimento ricucì la propria unità territoriale,
fra lacrime e sangue, nel 1861 (sebbene la presa di Roma avverrà nel 1870), mentre la Germania,
con un percorso meno cruento, si strinse attorno alla Prussia per giungere alla sua unità territoriale
quasi dieci anni più tardi, il 18 gennaio 1871, quando nella Sala degli Specchi, a Versailles, Luigi di
Baviera dichiarò Guglielmo I imperatore di Germania.
Guglielmo I imperatore di Germania( Versailles)
Altare della Patria ( Vittoriano)
Alla fine del secolo l’eredità del Risorgimento opera ancora, un esempio eloquente, in campo
artistico, è il Vittoriano, opera di Giuseppe Sacconi del 1885-1911, dedicata a Vittorio Emanuele II,
che diventerà l’Altare della Patria nel 1921 quando accoglierà il Milite Ignoto. Le scelte stilistiche di
Sacconi erano in linea con quelle a lui contemporanee, infatti il monumento corrisponde alle
scelte classiche dell’epoca e quella nuova architettura rappresentava molto bene gli ideali
romantici che si celavano nell’idea stessa di nazione, anche se, quando i lavori saranno ultimati , lo
strascico del romanticismo politico era tutto superato e anche le esperienze artistiche erano già
cambiate. In Germania c’era già stato l’espressionismo, in Francia c’era il cubismo e in Italia all’Art
Nouveau e al divisionismo si era sostituito il futurismo che rappresentava il gusto dominante.
Quando Vittorio Emanuele III lo inaugurò, nel 1911, l’opera sembrò molto lontana dalla nuova
sensibilità artistica proiettata verso la modernità, ma anche verso la tragedia della prima guerra
mondiale.
Il Vittoriano(Roma)
Lo scacchiere europeo
L’impero austro- ungarico, in uno scacchiere europeo che vedeva una Germania e un’Italia unite,
si presentava allora come un residuo dell’assetto successivo al Congresso di Vienna. E’ vero che
non era l’unico impero d’Europa, se pensiamo che la Germania era un impero e anche l’Inghilterra
aveva creato un impero coloniale, ma quello tedesco riuniva solo tedeschi e quello inglese si
estendeva nel mondo, non nel vecchio continente. Gli ungheresi, invece, così come i boemi e i
bosniaci, non volevano stare con gli austriaci, come pure gli italiani di Trento e Trieste che volevano
riunire il loro territorio a quello della nazione appena nata.
L’assassinio di Sarajevo
Francesco Ferdinando d’Austria e la moglie Sofia
Com’è noto a tutti, ciò che fece precipitare gli eventi fu l’assassinio di Sarajevo, dovuto alla crisi
dei Balcani. Ad armare la mano di Gavrilo Princip, l’omicida, fu l’organizzazione rivoluzionaria nota
come Giovane Bosnia che voleva portare la Bosnia e l’Erzegovina verso l’indipendenza
dall’impero, per unirsi alla Serbia e unire i popoli di lingua e cultura slava. Il 28 giugno 1914,
approfittando della lentezza dell’auto del corteo imperiale su cui erano i sovrani, l’attentatore
esplose due colpi di pistola che colpirono a morte l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando,
erede al trono, e la consorte, la principessa Sophie von Hoenberg. Il fatto provocò la risposta
dell’impero che dichiarò guerra alla Bosnia, innestando una reazione di schieramenti ormai
inevitabili.
I sovrani d’Austria
Cause che provocarono la guerra
La Serbia, infatti, sappiamo che voleva unificare i Balcani. La Russia, da una parte vedeva nella
guerra un modo per distrarre il popolo da quei problemi che da lì a poco sfoceranno nella
rivoluzione sovietica del 1917, dall’altra cercava l’occasione di riprendere in mano la questione
balcanica nella quale aspirava a divenire il punto di riferimento per i paesi di cultura slava, cioè il
Panslavismo. La Francia dal canto suo ancora risentiva della disfatta di Sedan del 1870, quando fu
sconfitta dalla Prussia e vedeva nella guerra l’opportunità di uscire fuori dall’isolamento e stringere
alleanza con la Russia contro la Prussia. La Gran Bretagna a sua volta, anche se da lontano, voleva
ridimensionare il ruolo della Germania perché temeva che potesse assumere un ruolo di guida nel
quadro europeo. Anche la Germania, che mantenne l’alleanza con l’Austria- Ungheria, si voleva
servire della guerra per mantenere l’isolamento della Francia. Per l’Italia il processo fu graduale e,
per un anno, si mantenne fuori dal conflitto mentre già all’interno si delineavano le correnti
interventiste che spingevano a una risoluzione bellica. Queste spinte interventiste erano il risultato di
quella riflessione sull’idea di nazione che era nata nel secolo precedente con l’unità d’Italia e che
non aveva avuto risoluzione perché Trento e Trieste restavano ancora territori dell’Austria.
L’Italia entra in guerra
Il 26 aprile 1915 l’Italia, che in base all’accordo della Triplice Alleanza sarebbe dovuta intervenire a
fianco della Germania e Austria-Ungheria, ottenne, con il patto segreto di Londra, l’impegno della
Triplice Intesa (Francia, Russia, Gran Bretagna) di ottenere, in caso di vittoria, quei territori che
l’Italia rivendicava, non dovendo nulla alla Triplice Alleanza, in quanto non c’erano le condizioni
per schierarsi a fianco perché non era stata l’Austria ad essere attaccata ma ad attaccare per
prima. Per questo motivo il 23 maggio 1915 l’ambasciatore italiano a Vienna, il duca D’Avarna,
consegnò al ministero degli Esteri dell’impero austro-ungarico la dichiarazione di guerra.
La rivista satirica “ l’Asino”
Per capire quanto l’idea che la guerra avrebbe risolto il problema di Trento e Trieste basti pensare
che anche il giornale satirico “ L’Asino”, di fede socialista non potè resistere alla tentazione di
trasformarsi in interventista, scoprendosi anche fascista, per poi assumere nuovamente posizioni
anti-fasciste, cosa che, ovviamente, determinò la sua chiusura nel 1925 quando si delineava già la
dittatura fascista di Mussolini. Il giornale, attraverso l’ironia, rappresentava il sentire della gente, di
tutti quelli che avevano le idee nella testa ma non osavano dire, non per nulla il sottotitolo della
testata spiegava chi era l’Asino, “E’ il popolo: utile, paziente e bastonato”. I fondatori furono, nel
1892, Guido Poldracca e Gabriele Galantara di fede socialista, vicini a Filippo Turati e Andrea
Costa, fondatori, nel 1892, del Partito socialista italiano.
Rivista satirica di Guido Poldracca e Gabriele Galantara 1892
L’interventismo dei Futuristi
I cantori di quel periodo storico furono proprio i futuristi, le idee che alimentavano le scelte
interventiste degli anni della guerra derivavano dal pensiero e dagli slogan futuristi apparsi per la
prima volta il 20 febbraio 1909 sul giornale “Le Figaro”, il più noto, scritto al punto 9, dice: “Noi
vogliamo glorificare la guerra –sola igiene del mondo- il militarismo, il patriottismo, le belle idee per
cui si muore”, come scriveva Filippo Tommaso Marinetti nel Manifesto Futurista, a cui seguì il
“Manifesto Tecnico della letteratura futurista ”che fissa i nuovi canoni della letteratura, che sono:









Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi come nascono
Usare il verbo all’infinito per dare il senso della durata, della continuità della vita
Abolire l’aggettivo, perchè presuppone una pausa, una meditazione
Abolire l’avverbio in quanto conserva alla frase una unità di tono
Abolire la punteggiatura, per indicare le direzioni si utilizzano i segni della matematica e i
segni musicali ( + - = : < >)
Dall’analogia, si passa ad una gradazione di analogie più vaste
All’ordine si contrappone il disordine, all’intelligenza viene sostituita l’intuizione
Bisogna introdurre tre elementi nuovi nella letteratura fino ad allora trascurati: Il rumore- il
peso- l’odore. Bisogna avvicinarsi al nuovo mondo delle macchine.
Dalla distruzione della sintassi si giunge alle “Parole in libertà”
Zang Tumb Tumb, romanzo futurista di Filippo Tommaso Marinetti
Il Futurismo è azione
L’idea dell’azione è insita nel futurismo e la troviamo sia negli studi sul movimento di Umberto
Boccioni e Giacomo Balla che nelle opere di tema politico, come il dipinto di Carlo Carrà “I
funerali dell’anarchico Galli” del 1911 che si trova al MOMA, Museum of Modern Art di New
York. E’ una delle prime opere futuriste di Carrà, in essa emerge un forte dinamismo e la
scomposizione del movimento. L’uso del colore risente della tecnica divisionista di
accostamento di colori complementari. L’azione assordante e tumultuosa si propaga
confusamente sulla tela dove si riconoscono i contorni di figure umane a piedi e a cavallo.
L’episodio rappresentato, di cui Carrà fu testimone, è quello dei tumulti che
accompagnarono i funerali dell’anarchico Galli ucciso durante uno sciopero nel 1904.
I funerali dell’anarchico Galli, Carlo Carrà 1911
Umberto Boccioni
Sempre legato al divisionismo è l’opera “Rissa in galleria” del 1910 di Umberto Boccioni che fa
parte della collezione della Pinacoteca di Brera a Milano. L’opera fu realizzata in una fase
della pittura di Boccioni già idealmente futurista, anche se stilisticamente è ancora lontana
dai moduli futuristi. Il soggetto è una rissa davanti a un caffè della Galleria Vittorio Emanuele II
di Milano. E’ sera e, sotto la luce dei nuovi lampioni elettrici, una folla disordinata si assiepa
intorno alla scena. Il vero soggetto però è più vasto: è la città nella sua interezza che esplode
di modernità e movimento, protagonisti sono la luce e il dinamismo. La luce, prima
protagonista, inonda la scena, vibrante di cromatismi cangianti, fondati sulla tecnica del
divisionismo che aveva appreso da Giacomo Balla. Alla luce si somma il movimento, in una
fusione tra la folla sovraeccitata e la vibrazione della città intorno. Rissa in galleria è una
testimonianza storica di quello che doveva essere il fervore di Milano alle soglie della Grande
Guerra, evidenziando i contrasti di una metropoli in profondo cambiamento.
Rissa in galleria, Umberto Boccioni 1910
Il tema bellico nella pittura
Fu quando scoppiò il conflitto in Europa e coinvolse anche l’Italia che il tema bellico irruppe
nella pittura futurista, la guerra, allora, diventò azione concreta ed è per questo che il pittore
Gino Severini, nel 1915, dipinse la “Sintesi plastica dell’idea guerra” che si trova a Monaco.
L’opera sintetizza in un’unica visione plastica: la presenza dell’aeronautica, nell’ala di un
aereoplano, della marina, nell’ancora di una nave e della fanteria nella ruota di un treno e di
un cannone, mentre all’angolo è la data di inizio della guerra:1914. L’artista si dedicò al
soggetto bellico anche in altre opere che prendevano in considerazione sia l’aspetto eroico
come in “Treno blindato in azione”di stampo futurista, nella tonalità del grigio-verde, richiamo
ai soldati, e nelle superfici spezzettate che danno dinamismo alla pittura, ma anche in opere
a soggetto umanitario e più intimista come nell’opera “Il treno dei feriti” del 1915 che,
nonostante la forte stilizzazione futurista , lascia intravedere il soggetto attraverso segni ben
definiti come la Croce rossa o il velo delle infermiere crocerossine.
Treno blindato in azione (G. Severini)
Sintesi plastica dell’idea guerra (Severini)
Il treno dei feriti (Severini)
La Prima guerra mondiale “Guerra moderna”
Il primo conflitto mondiale fu la prima guerra moderna, non solo perché vennero utilizzati
mezzi inediti come gli aerei dell’aviazione o i sottomarini della marina e ordigni nuovi come le
bombe a mano, le mine e i gas nervini, ma perché fu documentata con le fotografie e i
filmati. Tutte le nazioni si dotarono di raccolte documentarie, anche l’Italia. Le fotografie
ritraevano i soldati al fronte, in trincea nei momenti di guerra, oppure gli effetti dei
bombardamenti o le cerimonie ufficiali. Oltre a questo mezzo di ripresa, il conflitto fu seguito
da mezzi di informazione come le riviste. Fra queste fu importante la rivista “La Tradotta,
giornale settimanale della III Armata”, che utilizzava il mezzo delle vignette con il commento o
il dialogo per fare satira sulle vicende della guerra. I disegnatori erano quelli che avevano
dato vita al” Corriere dei Piccoli” e che adesso mettevano la loro arte a disposizione
dell’ideale patriottico per sostenere il morale dei militi e fare una bonaria satira politica.
L’ironia ebbe un ruolo importante nella diffusione del messaggio politico, legato alla
propaganda delle idee della prima guerra mondiale.
F
Giornale settimanale della III Armata
Maschere antigas
Ritrattisti di guerra
Accanto all’illustrazione e alla stampa periodica ci fu una larga produzione artistica tesa a
documentare le vicende belliche e la condizione di vita dei soldati. Fra gli artisti più efficaci
nella rappresentazione, quasi fotografica, ci fu il pittore Lodovico Pogliaghi, che si formò
all’Accademia di Belle Arti di Brera. Era stato tra i protagonisti della decorazione del Vittoriano
e, all’età di quasi 60 anni, non esitò a partire per il fronte, arruolandosi come soldato- pittore e
seppe documentare le vicende sul fronte orientale, come mostra la bella tela “Postazione
degli alpini sulle Alpi durante la prima guerra mondiale”, oggi al Museo del Risorgimento al
Vittoriano, realizzato con un’attenzione quasi miniaturistica.
Postazione degli alpini sulle Alpi, Lodovico Pogliaghi (disegno)
Alpini sulle Alpi (fotografia)
Mario Sironi, pittore-soldato
Il più importante fra i pittori-soldati fu Mario Sironi, che ritrasse commilitoni e ufficiali disegnati a
matita o colorati ad acquerello. Egli utilizza anche la caricatura, realizzata con un tratto
graffiante e incisivo che a volte utilizza anche per creare personaggi nuovi, come la
“Scimmietta di Montallo,” satirica rappresentazione del soldato austriaco, accostato a una
scimmia furba e dispettosa, ma ciecamente rispettosa degli ordini, incubo delle truppe
italiane che si dovevano guardare dalla precisione dei cecchini.
Mario Sironi Chiaro di luna
Mario Sironi La scimmietta di Montallo
Mario Sironi, come tanti altri futuristi, il 23 maggio 1915, giorno della dichiarazione di guerra, si
arruolò nel Battaglione volontario ciclisti. Ben presto abbandonò il rigore futurista e cominciò
ad affiorare in lui una graffiante ironia che lo renderà celebre fra i soldati. Egli utilizzò tutte le
tecniche artistiche, dalla china alla xilografia, al collage, all’olio, alla tempera, fino ad arrivare
alla realizzazione delle vignette satiriche, come quella intitolata “Chiaro di luna” fatta per il
periodico “Gli avvenimenti”, che raffigura l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe con il
feldmaresciallo tedesco che, come due innamorati, si abbracciano su una panchina al
chiaro di luna, non accorgendosi che la falce nel cielo è quella della Morte che tiene la
rancola dietro di loro. L’immagine sintetizza la miopia delle scelte austriache e tedesche. I
personaggi scambiano per una romantica luna la falce che la morte ha levato al cielo in un
movimento che precederà quello che reciderà (metaforicamente) le loro teste.
L’arte dei vincitori
Il Vittoriano
Monumento ai caduti Madonna della salute
Monumento ai caduti Favara
Il giorno 4 novembre del 1918, alle ore 12,00, il generale Armando Diaz, capo del comando
supremo dell’esercito italiano, diramò il bollettino della vittoria che iniziava con queste
parole:” La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto la guida di S.M. il Re, l’Esercito italiano,
inferiore per numero e mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore
condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta”. Fu per la giovane nazione italiana il
coronamento di un sogno, la gioia fu unanime e, inevitabilmente, le premesse romantiche
della “religione della patria” ebbero dei riflessi sulla produzione artistica post bellica. Il primo
gesto fu la trasformazione, nel 1921, del Vittoriano, in sacrario al Milite Ignoto, facendolo
diventare l’Altare della Patria. Fu così che, su questo esempio, ogni città, ogni borgo della
Nazione volle ricordare i propri eroi con piccoli o grandi monumenti ai caduti che
punteggiano, come fiori su un prato, il suolo sacro della penisola. Furono così coinvolti artisti e
architetti di varia estrazione, tutti uniti da un comune intento celebrativo.
I Monumenti ai Caduti in Italia
Le tipologie furono le più varie, dal semplice obelisco con lo stemma della città a un
monumento vero e proprio, come quello di Maser vicino Treviso, del 1923, di Angelo Rossetto,
che rappresenta un’allegoria della Patria e del Caduto collocate su schegge di roccia che
alludono alle Alpi. Questo è un modello che ebbe notevole successo lungo la penisola, o
come quello di Vincenzo Jerace a Veroli (Frosinone) in cui il monumento è stato trasformato in
una fontana con l’allegoria della Patria che dà da bere al soldato che accoglie la sua
acqua, per dire come “solo il sacrificio per la patria può togliere la sete di giustizia e di vittoria
alla quale anelano gli italiani”. E così da nord a sud ogni paese ebbe il suo sacrario che, nella
versione più semplice fu la lastra di marmo con i nomi dei caduti composti in lettere di bronzo
o incisi nel marmo
Monumento ai caduti Maser , Angelo Rossetto
Monumento ai Caduti Ostuni
Il Monumento ai Caduti di Castelbuono
Anche Castelbuono ha voluto onorare i propri caduti con un monumento imponente
collocato nel centro della Piazza Parrocchia, all’interno di una villetta circondata dal verde
degli alberi e da una ringhiera in ferro in stile liberty su cui è posta una targa dove si legge:
“Rosario e Giuseppe Marzullo fu Raimondo, quale umile omaggio ai martiri della nuova
religione della Patria diletta, 1927”. Sono i nomi dei committenti, il monumento è stato
realizzato dallo scultore palermitano Antonio Ugo nel 1927 e rappresenta la statua bronzea di
un milite che in una mano impugna il pugnale , mentre con l’altra mostra, levata, una vittoria
alata verso cui è rivolto il suo sguardo fiero. Accanto alla scultura si trova un vecchio
cannone appartenuto all’esercito austriaco, che porta la data 1916. Molti furono i soldati
castelbuonesi, caduti nella guerra, che non fecero più ritorno alle loro case, fra questi alcuni si
distinsero e meritarono di essere ricordati particolarmente attraverso l’intitolazione di alcune
vie di Castelbuono con i loro nomi, fra questi il Capitano Pietro Di Garbo, il Tenente Ernesto
Forte, Il Tenente Luigi Cortina, il Tenente Giovanni Schicchi i cui nomi sono incisi nella lapide.
Monumento ai Caduti Castelbuono 1927 Antonio Ugo
Lapide dei Caduti della Prima Guerra mondiale( Castelbuono)
Il lungo elenco dei caduti della Grande Guerra trova posto nel Palazzo Comunale, in una
lapide di marmo su cui sono incisi i nomi di tutti i nostri soldati morti nel primo conflitto
mondiale. Ogni anno, il 4 novembre, il popolo di Castelbuono commemora questo evento
con un corteo che, dalla Casa Comunale e accompagnato dalla Banda, depone una
corona davanti al monumento per ricordare e tenere viva la memoria di ciò che è stato e di
tutti coloro che hanno lasciato al fronte la loro giovane vita, come viene narrato in una
pagina della “ Trementina” scritta da Angela Sottile nel giornale “Supra u ponti, ”maggio 2012.
Testo:
Un gigante solitario, testa alta. Cuore alto. Il respiro basso e lento.
La voce muta.
Vincenzo non parla più. Non parla di quello che ha visto nè di quello che ha perso. Non ha
motivo di farlo perchè la sua storia è scritta in ogni muscolo di quel corpo di bronzo e di pelle
indurita dalla fatica, incisa dalle lance, segnata dalle scaglie appuntite di una o cento o mille
bombe a mano. La si può leggere dal collo al fianco, dall’ombelico al piede; scorre violenta
dentro le vene portando con sè parole naufraghe, scorre come l’Isonzo e le sue furie, gli stivali
pieni d’acqua rossa, gli schizzi sui visi accesi, la calma sui visi spenti.
Le gocce di quell’acqua amara scivolano ancora e per sempre, attraversano un corpo
vestito di coraggio. Nel silenzio di un giardino, nel cuore di un anziano, dentro uno spazio di
umanità sacra, nascono e crescono i fiori della storia. Di seta e di spine. Reperti di vita e di
morte. La fontana suona una musica lontana: se l’ascolti, senti le trombe, senti gli inni, senti i
tamburi.
Matteo era alto ed era sposato. Quel giorno, come tutti gli altri giorni, il riflesso della luce nei
suoi occhi aveva la forma di sua moglie. E mentre il fumo violento di un’esplosione lo investiva,
lui sentiva non il puzzo della carne bruciata, non l’odore acre del sudore che evaporava dalle
divise, ma un profumo fresco di donna, tra i panni puliti, un profumo di sapone di marsiglia e di
minestrone caldo.
Tra i cespugli un cannone. Belva fredda, pesante, dalla proboscide di metallo e il respiro di
ruggine, dentro la gabbia nel giardino delle promesse diplomatiche.
Giuseppe era un muratore. Ovunque andava, portava con sè il suo innato senso pratico,
conservato in una valigia degli attrezzi e in un cappellino parasole. Aveva delle mani grandi e
callose, forti come i muri che innalzava. E mentre crollavano i muri di quella stanza di
ospedale abbandonato, dove lui e qualche altro soldato improvvisato avevano trovato
riparo, pensò che quelle pareti di pastafrolla, lui, le avrebbe costruite sicuramente meglio.
Rosario era padre. Per un mese o poco più. Poi il cartellino, le lacrime, le carezze intense, un
addio, un arrivederci. La porta chiusa nel silenzio di un’alba arrivata troppo presto. La
camminata inerte e lo sguardo inerme di chi non ha scelta. Poi la sagoma di una casa e di un
paese lasciati alle spalle, ingoiata dall’orizzonte; vomitata da un altro orizzonte in un giorno
senza data, come dono ultimo, riverbero di memoria, in onore di una vita inciampata per
strada.
Antonio aveva finito gli studi; aveva sedici anni. Gli piaceva leggere: con sè, dentro lo zaino
militare, aveva un libro di poesie divorato da una lettura curiosa e avida. Il fisico atletico, i
muscoli freschi, i capelli lisci e i brufoli sulla fronte. Una voglia di superarsi e superare ogni
confine. Di superare, anche, geograficamente, il confine. Per sentirsi grande, per sentirsi utile.
Per sentirsi eroe. E quel brivido che gli aveva attraversato la schiena, il giorno della partenza,
quando, trasferiti tutti i sogni del cassetto in una sacca di tela, aveva oltrepassato la soglia di
casa e iniziato il suo avventuroso viaggio, quello stesso, identico, brivido, lo aveva sentito
attraversargli la schiena a un giorno dal ritorno. Come formiche o api o termiti sottopelle. Solo
più caldo, più umido. Più violento. A un giorno da sua madre.
Il gigante solitario sta. Semplicemente, è. Lo sguardo netto, deciso. E’ uomo. E’ fantasma. E’
ricordo. Eroe senza nome. Si erge, monumentale, portando in mano una vittoria che, prima
che dei popoli o delle fazioni, è dell’umanità intera. La vita, libera. Quella evoluzione del
cammino che fa sì che i fili spinati e le trincee diventino inferriate di metallo, che l’acqua di un
fiume di confine diventi allegro zampillare, che le torrette di avvistamento siano, adesso,
basamento e altare, che le nuvole di fumo nero siano cespugli fioriti, che i rumori della guerra
siano pacifico cinguettare. Che sia sempre accesa la fiamma del ricordo. Che bruci e
perturbi l’aria quando è troppo ferma.
La vita insegna a saper morire. La morte insegna a saper vivere.
Antonio Ugo, Monumento ai Caduti
scultura in bronzo, 1927
Piazza Parrocchia, Castelbuono
La voce dei poeti nella prima guerra mondiale
Un avvenimento come la guerra del 1915-18 non poteva essere posta sotto silenzio dai poeti
che l’hanno vissuta direttamente o indirettamente, perciò molti sono quelli che hanno scritto
in materia, cogliendone i vari aspetti secondo il proprio modo di sentire e la propria indole.
Le liriche più note sono certamente quelle di Giuseppe Ungaretti. In tema sono perciò “Sono
una creatura” in cui le immagini di un monte imprendibile come il “Monte San Michele”, dove
la vita di trincea si alternava a battaglie sanguinose, si connettono al sentimento di lenta
agonia che si concretizza nella frase finale: “La morte/ si sconta/ vivendo.” In “San Martino del
Carso”, invece, lo spettacolo del paese devastato suggerisce a Ungaretti il paragone con il
proprio cuore in cui “nessuna croce manca”. In “Fiumi,” infine, ancora sulla vita di trincea, il
poeta, abbandonato in una dolina, ripercorre la sua vita attraverso il ricordo dei fiumi che gli
sono stati vicini.
Giuseppe Ungaretti
SONO UNA CREATURA
Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916
Giuseppe Ungaretti soldato
Come questa pietra
Del S. Michele
Così fredda
Così dura
Così prosciugata
Così refrattaria
Così totalmente
Disanimata
Come questa pietra
È il mio pianto
Che non si vede
La morte
Si sconta
Vivendo.
Il poeta paragona sé alla dura e fredda pietra del monte S. Michele. Come la roccia del
monte è prosciugata e senz'anima così il pianto del poeta stenta a trovare sfogo nelle
lacrime. Ecco il commento di F. Puccio:
«La forza interiore e la calda umanità di un uomo che dinnanzi alle brutture della guerra non ha mai smesso di amare
e di vivere in sé il dolore altrui; la storia di un uomo che ha assimilato sul corpo e sullo spirito le forme del paesaggio
carsico. Un paesaggio arido, brullo, arso, impermeabile e disumanizzante che gli è rimasto scolpito nel cuore e gli ha
prosciugato anche le lagrime per piangere» (pag. 444-445).
SAN MARTINO SUL CARSO
Valloncello dell’albero isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
È il mio cuore
Il paese più straziato
In questa poesia il poeta esprime tutto il suo dolore per la perdita dei commilitoni e lo strazio
per la rovina di cui è testimone. A ogni assenza, a ogni voragine procurata dai combattimenti,
corrisponde una cicatrice indelebile nel suo cuore.
VEGLIA
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un’intera nottata
Buttato vicino
A un compagno
Massacrato
Con la bocca
Digrignata
Volta al plenilunio
Con la congestione
Delle sue mani
Penetrata
Nel mio silenzio
Ho scritto
Lettere piene d’amore
Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.
Il poeta ha accanto un soldato morto, con le mani congelate e la bocca digrignante volta
verso la luce della luna. Nonostante questa situazione penosa e terrificante, il poeta scrive
una lettera d’amore, attaccato alla vita come non mai. Nella drammaticità della situazione,
percepisce solo la propria volontà di vivere, che prevale su tutto. Anche questa consuetudine
con la tragedia induce una riflessione sull'umanità/disumanità della situazione.
Luciano Folgore, pseudonimo di Omero Vecchi, poeta futurista, è autore di “Sveglia
sentinella,” poesia che rende molto bene, con i suoi versi brevi e ritmati, la sensazione di chi
lotta per il sonno.
Sveglia Sentinella (Luciano Folgore)
Sentinella notturna
lassù
taciturna
sopra la roccia scabra.
Vent’anni,
viso bianco,
occhi di fanciullo febbrile,
e la mano che stringe
il fucile;
e il pensiero che si perde
nell’immensità della notte.
Stanchezza di piombo
per tutte le membra
dopo un giorno di lotte.
Trincea
Il sonno è d’intorno
morbidamente muto
come un tentatore velluto
che accarezza le palpebre.
Passano lembi di visione
dinanzi alle pupille
pesanti,
figure oscillanti,
profili sonnolenti,
tormenti di visi
che non si definiscono
mai.
Ecco i velari del sogno!
Troppo dolce dormire
anche su letti di pietra!
Gambe che s’abbandonano
sotto fardelli di torpore...
ma uno stormire d’abeti,
ma un fresco di vento
che palpita fra due’
capelli biondi,
snebbia un istante
Breve canzoniere di guerra
la pesantezza accasciante
e un brivido di volontà
ridà
la rigidità
alla sagoma snella
di questa sentinella
della Patria.
Il nemico è là dietro.
Bisogna guardare,
bisogna ascoltare,
lucidamente.
Ma ancora il fumo del sonno
che monta.
Stelle filanti nei cieli,
veli di verde lontano,
pensieri e frammenti:
sua madre che veglia...
il pozzo
un singhiozzo...
quel compagno caduto...
con una palla in fronte...
due bimbi in un cortile
Trincea
del paese...
un vaso di maggiorana...
e lei... lontana...
vestita di bianco...
fresca come una fontana...
Oh, finalmente!
Scalpiccii
rotolii di sassi
parole sconnesse;
bisbigli:
un altro prende il tuo posto
e tu che discendi a dormire
con un saluto all’Italia
laggiù.
Una chiara ripulsa alla guerra è la lirica di Corrado Alvaro “A un compagno,” in cui il poeta
chiede a un commilitone di scrivere per lui una lettera ai propri genitori quando sarà morto. La
frase “che mi seppelliranno con tanta /carne di madre in compagnia” ben rappresenta, nella
sua crudezza, la ferocia del combattere. Questo testo mostra il coraggio di denunciare la
mostruosità della guerra, anche la più giusta e per le motivazioni più nobili.
A un compagno (Corrado Alvaro)
Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
la tua lettera sarà creduta
mia e sarà benvenuta.
Così la morte entrerà
e il fratellino la festeggerà.
Non dire alla povera mamma
che io sia morto solo.
Dille che il suo figliolo
più grande, è morto con tanta
carne cristiana intorno.
Breve canzoniere di guerra
Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
non vorranno sapere
se sono morto da forte.
Vorranno sapere se la morte
sia scesa improvvisamente.
Dì loro che la mia fronte
è stata bruciata là dove
mi baciavano, e che fu lieve
il colpo, che mi parve fosse
il bacio di tutte le sere.
Dì loro che avevo goduto
tanto prima di partire,
che non c’era segreto sconosciuto
che mi restasse a scoprire;
che avevo bevuto, bevuto
tanta acqua limpida, tanta,
e che avevo mangiato con letizia,
che andavo incontro al mio fato
quasi a cogliere una primizia
per addolcire il palato.
Dì loro che c’era gran sole
pel campo, e tanto grano
che mi pareva il mio piano;
che c’era tante cicale
che cantavano; e a mezzo giorno
pareva che noi stessimo a falciare,
con gioia, gli uomini intorno.
Dì loro che dopo la morte
è passato un gran carro
tutto quanto per me;
che un uomo, alzando il mio forte
petto, avea detto: Non c’è
uomo più bello preso dalla morte.
Che mi seppellirono con tanta
tanta carne di madri in compagnia
sotto un bosco d’ulivi
che non intristiscono mai;
che c’è vicina una via
ove passano i vivi
Breve canzoniere di guerra
cantando con allegria.
Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
la tua lettera sarà creduta
mia e sarà benvenuta.
Così la morte entrerà
e il fratellino la festeggerà.
Croci di legno ( Diego Valeri)
Croci di legno, nude su la nuda,
terra che copre i morti nella gloria;
croci che la battaglia e la vittoria
pianta con le bandiere ovunque va;
siepe di croci a guardia d’una gente,
trincee di tombe a guardia d’un amore;
croci di legno confitte nel cuore,
di tutta la straziata umanità
Viatico (Clemente Rebora)
O ferito giù nel valloncello,
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri,
tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire
e conforto ti sia
Trincea
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento,
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio
Grazie, fratello.
Gabriele D’Annunzio scrive della guerra nei “Canti della guerra latina,” malgrado abbia
partecipato attivamente al conflitto, le sue liriche però non ebbero molta presa, forse perchè
troppo ridondanti e perciò di non grande immediatezza. La sincerità di sentimenti del poeta è
evidente nel “Cantico per l’ottava della vittoria” in cui il poeta esprime l’amarezza per una
vittoria mutilata e la volontà della riscossa presente nella Canzone di Sernaglia “Ma se
nessuno grida, io grido. Oserò se altri non osa” che lo porterà all’impresa di Fiume.
Infine la “Leggenda del Piave” di Giovanni Gaeta. Il poeta ebbe l’ispirazione per questo inno
quando il Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, narrando che il Piave aveva
lasciato passare gli italiani nel 1914, esclamò: “Anche il Piave è con noi”. Questo inno fu il solo
ad accompagnare la salma del Milite Ignoto alla sua ultima dimora in Campidoglio
Trasporto della salma del Milite Ignoto al Campidoglio(Roma)
La leggenda del Piave, analisi del testo
I STROFA:
Il Piave: “NON PASSA LO STRANIERO”.
2. STROFA:
Ma: “RITORNA LO STRANIERO”.
3. STROFA:
E: “INDIETRO VA’ STRANIERO!”
4. STROFA:
E NE’ OPPRESSI, NE’ STRANIERO
Nella notte tra il 23 e il 24 maggio del 1915 l’Italia entrava in guerra: era l’occasione per
completare il processo di unità nazionale e liberare il Trentino e la Venezia Giulia dal dominio
austriaco. Il nostro esercito, nel marciare coraggioso e silenzioso verso la frontiera con l’Austria,
passò sul fiume Piave, che espresse poeticamente la sua gioia con il tripudio delle onde.
24 ottobre del 1917, il nemico ruppe il fronte orientale italiano a Caporetto; tutte le nostre forze
ebbero l’ordine di arretrare onde evitare l’accerchiamento. Le perdite furono pesanti e ad esse si
accompagnarono le polemiche.
Si dovettero richiamare le riserve e arruolare i giovani di 18 anni, classe 1899, che per il valore ed il
coraggio dimostrato meritarono l’appellativo di “classe di ferro”. Il Piave divenne il simbolo della
Patria che fu difesa con rinnovata determinazione sotto la guida del Gen. Armando Diaz.
Immagini di soldati sul Piave
Il Piave (1) mormorava
calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il 24 maggio: (2)
l’esercito marciava
per raggiunger la frontiera
e far contro il nemico (3) una barriera....
Muti passaron quella notte e fanti
tacere bisognava e andare avanti!
S’udiva intanto dalle amate sponde,
sommesso e lieve il tripudiar (4) dell’onde
Era un presagio (5) dolce e lusinghiero (6)
il Piave mormorò:
"Non passa lo straniero!"
Ma in una notte trista (7)
si parlò di un fosco evento (8)
e il Piave udiva l’ira e lo sgomento (9)
Ahi quanta gente ha vista
venir giù lasciare il tetto
poi che il nemico irruppe a Caporetto (12)
Profughi ovunque! Dai lontani monti
venivano a gremir tutti i suoi ponti (13)
S’udiva allo dalle violate (14) sponde
sommesso e triste il mormorio de l’onde:
come un singhiozzo in quell’autunno nero
Il Piave mormorò :
"Ritorna lo straniero!"
E ritornò il nemico
per l’orgoglio e per la fame: (15)
volea sfogare tutte le sue brame (16)
vedeva il piano aprico (17)
di lassù voleva ancora
sfamarsi e tripudiare (18) come allora
"No" disse il Piave "No" dissero i fanti
"Mai più il nemico faccia un passo avanti!"
Si vide il Piave rigonfiar le sponde!
E come i fanti combattevan l’onde
Rosso del sangue del nemico altero (19)
Il Piave comandò:
"Indietro va straniero!"
Indietreggiò il nemico
fino a Trieste, fino a Trento
e la Vittoria sciolse le ali al vento
Fu sacro il patto antico: (20)
tra le schiere furon visti
risorgere Oberdan, Sauro, Battisti (21)
L’onta cruenta e il secolare errore
infranse alfin l’italico valore (22)
Sicure l’Alpi libere le sponde
E tacque il Piave: si placaron l’onde
Sul patrio suolo, vinti i torvi imperi (23)
la pace non trovò
né oppressi né stranieri .
Note:
1 Sul Piave si fermarono le truppe italiane dopo la disfatta di Caporetto e qui si organizzò l’offensiva
finale
2 E’ il 24 maggio del 1915 quando le prime truppe italiane varcarono il confine ed ebbero inizio le
ostilità contro l’Austria
3 il nemico : gli Austriaci
4 lo sciacquio delle onde sembra un rumore festoso
5 presagio : presentimento
6 lusinghiero : piacevole, allettante
7 trista: sventurata
8 fosco evento: oscuro Si riferisce alla ritirata di Caporetto del 24 ottobre 1917 quando le truppe
austro-tedesche sfondarono il fronte italiano nell’alta Valle dell’Isonzo
9 l’ira e lo sgomento : la rabbia per la sconfitta e lo sgomento per dover abbandonare le loro case
e le loro terre
10 soldati e popolazione civile scendono dalle valli invase
11 il tetto: la propria casa
12 Caporetto: cittadina ai piedi del Monte Nero a nord di Gorizia
13 i profughi si affollavano sui ponti per attraversare il fiume e riparare al sicuro
14 violate : profanate dal ritorno dello straniero
15 gli Austriaci erano spinti dall’orgoglio di riconquistare le terre da cui erano stati cacciati durante
le guerre di indipendenza, ma anche dalla fame; gli Imperi Centrali infatti circondati da nazioni
nemiche, scarseggiavano di viveri
16 vendicarsi delle sconfitte e rialzare il proprio prestigio
17 piano aprico: la pianura aperta esposta al sole
18 tripudiare: esultare
19 altero: orgoglioso e superbo
20 fu esaudita la speranza dei patrioti e dei martiri dell’unità d’Italia
21 riferimento ai patrioti Guglielmo Oberdan morto nel 1882 , Nazario Sauro e Cesare Battisti
uccisi nel 1916
22 il valore dei soldati italiani abbatte la secolare dominazione straniera
23 dopo aver vinto gli Imperi Centrali non vi sono più stranieri in Italia e nemmeno oppressi
La canzone del Piave, conosciuta anche come La leggenda del Piave, è una delle più celebri
canzoni patriottiche italiane. Il brano fu scritto nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (noto
con lo pseudonimo di E.A. Mario).
Durante la seconda guerra mondiale, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, il governo italiano la
adottò provvisoriamente come inno nazionale, in sostituzione della Marcia Reale[1][2]. La
monarchia italiana era infatti stata messa in discussione per aver consentito l'instaurarsi della
dittatura fascista[3]. La canzone del Piave ebbe la funzione di inno nazionale italiano fino al 12
ottobre 1946, quando fu sostituita da Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele
Novaro[4].
Il testo
Le quattro strofe - che terminano tutte con la parola "straniero" - hanno quattro specifici argomenti:
1.
La marcia dei soldati verso il fronte (appare come una marcia a difesa delle frontiere,
mentre fu l'Italia ad attaccare l'impero asburgico)
2.
La ritirata di Caporetto
3.
La difesa del fronte sulle sponde del Piave
4.
L'attacco finale e la conseguente vittoria
Nella prima strofa, il fiume Piave assiste al concentramento silenzioso di truppe italiane, citando la
data dell'inizio della Prima guerra mondiale per il Regio Esercito italiano. Ciò avvenne la notte tra il
23 e 24 maggio 1915, quando L'Italia dichiarò guerra all'Impero austro-ungarico e sferrò il primo
attacco contro l'Imperial regio Esercito, marciando dal presidio italiano di Forte Verena
dell'Altopiano di Asiago, verso le frontiere orientali. La strofa termina poi con l'ammonizione: Non
passa lo straniero, riferita, appunto, agli austro-ungarici.
Tuttavia, come racconta la seconda strofa, a causa della disfatta di Caporetto, il nemico cala fino
al fiume e questo provoca sfollati, profughi da ogni parte.
La terza strofa racconta del ritorno del nemico con il seguito di vendette di ogni guerra, e con il
Piave che pronuncia il suo "no" all'avanzata dei nemici e la ostacola gonfiando il suo corso, reso
rosso dal sangue dei nemici. Benché arricchita di spunti patriottico-retorici, l'improvvisa e copiosa
piena del Piave costituì davvero un ostacolo insormontabile per l'esercito austriaco, ormai agli
sgoccioli con gli approvvigionamenti e il sostegno di truppe di riserva.
Nell'ultima strofa si immagina che una volta respinto il nemico oltre Trieste e Trento, con la vittoria
tornassero idealmente in vita i patrioti Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro e Cesare Battisti, tutti
uccisi dagli austriaci.
Lettere dal fronte
Lettera del caporale francese Henry Floch
alla moglie(1917)
Mia cara Lucia,
Quando questa lettera ti sarà pervenuta, io sarò morto fucilato. Ecco perché:
Il 27 novembre, verso le 5 di sera, dopo due ore di violento bombardamento, in una trincea della
prima linea, mentre stavamo finendo la nostra zuppa, dei tedeschi sono penetrati nella trincea e
mi hanno fatto prigioniero con due miei compagni.
Io sono riuscito ad approfittare di un momento di rissa e di disordine per scappare dalle
mani dei tedeschi.
Ho poi seguito i miei compagni e ho raggiunto le nostre linee. A causa di ciò, sono stato accusato
di abbandono del posto in presenza di nemici.
Siamo passati in ventiquattro davanti al Consiglio di Guerra. Sei sono stati condannati a morte, tra
questi sei ci sono io. Non sono più colpevole degli altri, ma c’è bisogno di un esempio.
Il mio portafogli ti arriverà con quello che c’è dentro.
Ti devo fare i miei ultimi saluti in fretta, con le lacrime agli occhi, l’anima in pena. Io ti domando
umilmente in ginocchio perdono per tutta la tristezza che ti causerò e per l’imbarazzo nel quale ti
metterò….
Mia piccola Lucia, ancora una volta, scusa.
Mi confesserò all’istante e spero di rivederti in un mondo migliore.
Muoio innocente del crimine di abbandono del posto che mi è imputato. Se invece di scappare
fossi rimasto prigioniero dei tedeschi, avrei avuto la vita salva. E’ il destino.
Il mio ultimo pensiero è a te, fino alla fine.
Henry Floch
LETTERA DI UN SOLDATO IN TRINCEA.
22 luglio 2014 alle ore 7:30
Caro padre,
sono qui in trincea, sull’Ortigara, ormai da dieci giorni. Le condizioni di vita sono durissime e il clima
invernale qui è molto rigido. Il generale Cadorna con noi è molto severo, non fa che darci
comandi. Se qualcuno non li svolge come vien detto, subito una fucilata al petto. Questo
accadde al mio migliore amico Emilio che aveva ammutinato ai comandi del generale. Questi,
livido dalla rabbia, impugnò il suo fucile e me lo diede costringendomi ad ucciderlo. Perché
dovevo farlo? Era il mio migliore amico. L’unico amico con cui strinsi una vera amicizia. Ci
aiutavamo a vicenda e durante le freddi notti in trincea ci raccontavamo il resoconto della
giornata, paure e segreti. A volte, la quieta atmosfera notturna in trincea si interrompeva con le
nostre risate. Oh, che momenti indimenticabili avevo vissuto con Emilio. Immaginavamo la fine di
questo interminabile conflitto, immaginavamo un futuro migliore, immaginavamo che una volta
rientrati in patria avremmo aperto un ristorante, si, l’avremmo chiamato l’Italia Vincitrice! Perché è
questo il sogno di ogni italiano! Un sogno che vede soldati italiani riprendersi i territori persi durante
le lunghe e sanguinose battaglie precedenti, un sogno che vede la scacciata degli Stranieri da
una terra che non gli è madre, un sogno che vede finalmente l’Italia unita!
Non volevo farlo,ma non avevo altra scelta. Impugnai il fucile, puntai. Un rimbombo frastornate
echeggiò su tutto il fronte. Emilio era morto. Vedevo il suo fragile corpo accasciarsi. La sua
immacolata camicia bianca era ormai sporca di sangue. Era il sangue di un innocente. In un primo
momento, sentii come un pugnale invisibile perforare la mia anima, solo in quell’attimo mi resi
conto che avevo ucciso anche una parte di me.
Bravo! mi disse Cadorna. Questo è il giusto comportamento di un vero soldato!. Ma non ero affatto
felice. Una volta che tutti lasciarono il campo, mi diressi da Emilio. Non volevo lasciarlo. Presi il suo
corpo ormai in fin di vita. Non molto lontano dal fronte scavai una piccola fossa; lì ci deposi Emilio.
In quel momento, insieme al suo corpo, seppelìì anche i nostri sogni ed una parte della mia vita.
Ho ammazzato il mio migliore amico … IO! La persona di cui si fidava, io l’ho ucciso, ho ammazzato
una parte di me! Chi potrà mai perdonarmi, se io stesso mi condanno! Chi? Chi mi ridarà la mia
innocenza? Chi? Vorrei svegliarmi, scoprire che era solo un sogno … mi sto illudendo … è la realtà,
la dura realtà! Vorrei dare di nuovo un senso alla mia vita … ma come? Cosa potrò mai fare?
Ancora adesso padre caro ho paura, ho paura di non poter più rivedere voi, e mia madre. Come
faccio a continuare a combattere con un peso che porto ancora tuttora? Come un chiodo
piantato nell’anima e che non si potrà strappare mai più! Mi sento perso senza nessuno accanto.
La paura invade i miei pensieri. Se avessi affrontato faccia a faccia Cadorna? Cosa mi sarebbe
successo? Cosa mi avrebbe riservato in serbo? Sarei mai tornato sano e salvo a casa? Avrei mai
potuto riabbracciare i miei cari? Avrei mai sperato un futuro migliore?
Padre, madre, pregate per me, pregate Dio affinché benedica la battaglia di noi Italiani. Se non
dovessi tornare, avrei una richiesta, che dopo la mia morte mi sia concesso di riunirmi a voi.
Nonostante tutto farò il mio dovere fino all’ultimo.
Lettera del sottotenente Aldo Lepri datata 14 novembre 1915 ore 19. Morirà di tifo un mese dopo.
«Dopo due giorni di febbre sono arrivato in trincea. Quale disastro! Il maggiore è ferito gravemente
alla testa; Verdiani è ferito; è stato trovato il cadavere di Zallocco morto la sera del 10…sono solo
ormai: non ho più una persona cara vicino a me. Ormai è destinato che debba lasciar la vita su
questo Carso che tanto m'ha fatto soffrire… Gnatelli dorme là nella sua buca; una croce con una
piccola iscrizione ricorda come il nostro caro estinto sia morto gloriosamente alla testa del suo
plotone contro ai funesti reticolati della trincea dei morti. Piove ancora. Brillerà ancora un raggio di
sole in questa mia triste esistenza? Solo il rumore della pioggia e il crepitio della fucileria rispondono.
Cosa faranno il babbo e la mamma in questo momento?»Vi saluto. Vostro figlio
1 luglio 1915
Carissimi Genitori,
state allegri stassera parto per dare al nemico la prova del nostro valore alpino. [...]
Mamma, se morirò non piangere, tante altre madri in questo momento piangono
i loro cari figli caduti per la patria.
Vattene fiera e altera nel tuo dolore di aver dato l’unico tuo figlio alla patria. Se invece tutto mi
andrà
bene ti scriverò appena potrò. [...]
Papà, tu sei un uomo, hai più esperienza di me, comprenderai tu al pari mio cosa voglia dire
guerra. Parto stassera sono di 1a linea, sarò fra i primi.
Non ho paura, no, la immagine tua unita a quella della mia mamma mi servirà di guida e di
coraggio. Sta bene. Vincerò. Se non ne uscirò illeso da questo combattimento, sii sempre di
conforto alla mamma, consolala sempre e abbine cura, a tè l’affido [...]».
Immagini fotografiche sulle condizioni di vita nelle trincee
Tracce di una trincea oggi
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