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La differenza cristiana
Enzo Bianchi
La differenza
cristiana
© 2006 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
www.einaudi.it
ISBN 88-06-18359-1
Giulio Einaudi editore
Indice
P' 3 Premessa.
I. Una laicità del rispetto.
9 Laicità, una garanzia per la religione.
16 Le religioni, legittimate a esprimersi pubblicamente.
24 Chi minaccia il cristianesimo.
31 Quando i laici sono un'opportunità per i credenti.
38 L'etica? È un dono dell'esperienza.
II. La «differenza» cristiana.
44 Il cristiano non evade dalla storia.
50 La fede non si impone.
58 I cristiani? Non sono perseguitati.
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Siate profeti, ma non entrate in politica
73
II vero cristiano sa comunicare la gioia
III. Dialogare e accogliere l'altro.
81 Chiesa del dialogo, lo scisma sommerso.
87 Un solo Dio, molti modi per dirlo.
95 Ascoltiamo lo straniero, smetterà di essere estraneo.
102 Sei diverso da me, quindi ti accetto.
110 Epilogo. Pace, il sogno per cui combattere.
La differenza cristiana
Premessa.
Raccolgo queste riflessioni in una stagione
in cui nel nostro paese sembra ormai essere
diventata una realtà la temuta sfida tra
cattolici e laici, una sfida nutrita di spirito
di inimicizia, sicché per molti aspetti quello
scontro di civiltà che si cerca di scongiurare
a livello planetario pare invece consumarsi
all'interno stesso delle culture occidentali
con i connotati di uno scontro tra
etica religiosa ed etiche presenti in modo
plurimo nelle odierne società.
Ormai occorre riconoscerlo: abbiamo da
un lato una chiesa quasi quotidianamente
sotto accusa nei media da parte di un rigurgito
di laicismo e di anticlericalismo e
dall'altro, in modo simmetrico, la ripresa di
un atteggiamento antagonistico della chiesa
verso la società e la modernità, con un
susseguirsi martellante di accuse. C'è il rischio
che questo ingeneri nella chiesa il timore
di sentirsi assediata e, quindi, costretta
a esprimersi in modo difensivo, apologetico:
una chiesa non più capace di sostenere
nel pacifico confronto la sua collocazione
nella compagnia degli uomini.
Se in Europa, soprattutto in Francia, è
il cristianesimo a essere sovente sotto accusa,
in Italia invece è per ora la chiesa. La
polemica si è accresciuta notevolmente nell'ultimo
anno, ma la storia ci insegna che facilmente
l'anticlericalismo finisce anche per
delinearsi come avversione e ostilità al cristianesimo
stesso, soprattutto là dove quest'ultimo
si presenta sotto una sola forma
confessionale, privo di fatto del confronto
con altre declinazioni della medesima fede.
Di fronte alla rinascita dell'anticlericalismo
e al disagio di molti per una chiesa di nuovo
troppo presenzialista nella società italiana
con il suo privilegiare tematiche e linguaggi
di scontro, i cattolici dovrebbero riflettere
se l'anticlericalismo non si nutra di
clericalismo e riconoscere il rischio di trovarsi
ben presto in gravi difficoltà nel dialogo
e nel confronto con i non cristiani che
abitano la polis comune: ne patirebbe la stessa
evangelizzazione.
5
Va riconosciuto che il dialogo non è favorito
dalle difficoltà che i cristiani incontrano
nel presentare le loro «ragioni», soprattutto
in campo etico. Viviamo in una
società che si nutre di un nuovo ordine libertario,
peraltro pieno di contraddizioni
soprattutto nel definire la propria etica: ciascuno
è invitato a vivere secondo il proprio
desiderio, e ogni desiderio, se le risorse tecniche
e scientifiche lo consentono, va realizzato;
poi però si condannano gli esiti estremi
di alcuni di questi desideri e si resta
sconcertati, per esempio, di fronte agli abusi
sui minori o agli stupri individuali o di
gruppo. Così, si chiede una doverosa custodia
della terra e delle sue risorse, a volte
in nome di un ecologismo militante, ma
non sempre la stessa convinzione e risolutezza
è spesa in favore della custodia della
vita umana.
Sì, il discorso libertario permea la società
e assume i tratti di un nuovo conformismo
e i cristiani restano critici di fronte a
questa come ad altre forme di alienazione:
una libertà che non conosce limiti finisce
per attuare lo sfruttamento dell'altro, la sua
cosificazione. Ma questo è l'inferno, non
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un'assunzione di libertà! Purtroppo, in questa
loro fermezza critica, i cristiani non
sempre riescono a farsi ascoltare e capire:
appaiono dogmatici, fondamentalisti e non
solo a causa dell'incapacità di ascolto dei
loro interlocutori. È questione, infatti, di
un linguaggio che sia capace di manifestare
come il cristianesimo sia, in campo morale,
un umanesimo, come l'etica cristiana
sia un servizio alla libertà, alla dignità dell'uomo
e alla qualità della vita nella società,
come sia la ragione umana a essere sempre
esercitata nell'elaborazione di un ethos
per l'oggi.
I cristiani sono convinti che, per vivere
insieme, gli abitanti della polis, i «cittadini»,
debbano elaborare un ethos comune,
mai dissociando natura, humanitas e ragione;
i cristiani pensano che ci debba essere
una norma che fonda i diritti che competono
a qualsiasi uomo di fronte a qualsiasi
legge, pensano che in ogni essere umano, cristiano
o no, ci sia una legge, un ethos non
rivelato, non scritto, non codificato, ma veramente
presente ed eloquente. Se così non
fosse, in cosa consisterebbe l'universalità
dell'umano, che cosa accomunerebbe gli
uomini di tutti i tempi e di tutte le culture,
quale identità avrebbe «l'umano»?
Ecco, queste pagine vorrebbero essere
un tentativo di mettere in luce la chiesa come
possibile presidio di autentico umanesimo,
spazio di dialogo e di recupero di principi
condivisi, luogo di confronto tra etiche
e atteggiamenti individuali e sociali diversi
ma non per questo automaticamente contrapposti
ed escludentisi a vicenda. Sono pagine
che nascono dalla convinzione che fuori
della chiesa non c'è solo barbarie e vuoto
di principi e che, d'altro canto, la chiesa possiede
un patrimonio di sapienza umana e
spirituale che non è destinato a restare confinato
negli spazi del culto privato o nei
convincimenti di una setta, per quanto influente.
Sono riflessioni stimolate da eventi
ordinari ma che vorrebbero aiutare a
«pensare in grande», a cogliere nel frammento
qualcosa del tutto, a ridare dignità
e ampiezza di visione a prospettive troppo
spesso tentate di ripiegarsi su un angusto
cortile.
Sono sempre più convinto che oggi ai cristiani
sia richiesto quell'atteggiamento positivo,
rappacificato, descritto nella lettera
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«A Diogneto» nel II secolo: non rinneghino
nulla del vangelo, ma restino in mezzo
agli altri uomini con simpatia, senza separarsi
da loro, solidali, tesi a costruire insieme
una città più umana. Cristiani che sappiano
vivere come amici di tutti gli uomini,
senza cadere preda dell'angoscia o della
paura di essere minoranza, vero lievito e sale
nella pasta del mondo: così, nell'incontro
del cristiano con chi cristiano non è, entrambi
potranno esclamare: «Mai l'uno
senza l'altro!»
I.
Una laicità del rispetto
Laicità, una garanzia per la religione.
Cosa rendere a Cesare e cosa rendere a
Dio? Le parole di Gesù riportate dal vangelo
- «Date a Cesare quello che è di Cesare,
e a Dio quello che è di Dio» -, parole
pesanti come pietre, hanno attraversato
i secoli fino a oggi e sempre hanno mostrato
il loro spessore nelle comunità cristiane:
a queste parole sempre si ritorna, convinti
della loro verità e della loro qualità imperativa,
ma l'interpretazione deve essere
sempre rinnovata, in ogni situazione storica,
in ogni spazio politico.
Certo, guardando i secoli della cristianità
che sono succeduti all'epoca delle persecuzioni,
a lungo nella collaborazione tra impero
e chiesa si è dato a Cesare quello che
era di Dio e solo raramente si sono ascoltate
voci che profeticamente chiedessero all'impero
di non estendere la sua ingerenza
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là dove solo Dio era Signore. Così, se nell'Oriente
ortodosso il cesaropapismo ha significato
non solo alleanza fra trono e altare
ma anche sottomissione della chiesa allo
stato, in Occidente con il potere temporale
dei papi si è giunti fino a voler dare a Dio
ciò che spettava a Cesare. E con alle spalle
questo scenario plurisecolare che oggi si affronta
nuovamente il dibattito sulla laicità,
particolarmente vivace in Francia, ma presente
un po' in tutto l'Occidente europeo.
Va detto innanzitutto che la laicità, intesa
come principio di distinzione tra stato
e religioni, oggi non è solo accettata dai
cristiani, ma è divenuta un autentico contributo
che essi sanno dare all'attuale società,
soprattutto in questa fase di costruzione
dell'Europa: non c'è contraddizione tra
fedeltà alla chiesa e attaccamento all'istanza
di laicità.
Indubbiamente il concetto di laicità resta
fluido, e infatti qua e là si propugna una
neo-laicità che si fa carico di nuove esigenze
le quali misconoscono le peculiarità delle
religioni nella società. Si è però passati
gradualmente da una laicità di rifiuto o di
restrizione, il laicismo, a una laicità di
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rispetto o di neutralità positiva e questo cambiamento
è percepito dalle religioni come
un'acquisizione preziosa e feconda. Giovanni
Paolo II ha parlato di «giusta laicità»,
in cui tutti i cittadini possano sentirsi rappresentati,
a qualunque fede, etica e cultura
appartengano. All'inizio del 2004, nel discorso
agli ambasciatori accreditati presso
la Santa Sede il papa precisava che «si invoca
spesso il principio di laicità, in sé legittimo...
Ma distinzione (tra comunità di
credenti e stato) non vuol dire ignoranza.
La laicità non è il laicismo ! Essa non è altro
che il rispetto di tutte le fedi da parte
dello stato che assicura il libero esercizio
delle attività cultuali, spirituali, culturali e
caritative delle diverse comunità». Si tratta
cioè di accettare il fatto religioso nello
spazio pubblico, nella società, di non relegarlo
al privato, perché le religioni hanno
una dimensione sociale che non può essere
negata.
In una società pluralista, la laicità è un
luogo di comunicazione tra le religioni e di
garanzia per l'espressione delle diverse componenti
della società, non un luogo che vuole
contenerle o reprimerle. Se l'articolo 9
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della Convenzione europea dei diritti dell'uomo
del 1950 afferma che la libertà di
religione implica anche la possibilità di manifestare
questa religione individualmente
e collettivamente, in pubblico e in privato,
allora occorre essere molto prudenti quando
si legifera, come per esempio in Francia,
sui segni di appartenenza religiosa nello
spazio pubblico. Mi pare un controsenso
che si possano esibire in televisione enormi
croci ingemmate attorno al collo, quasi concorrenziali
a quelle pettorali dei vescovi, e
poi si impedisca agli alunni delle scuole di
portare una crocina al collo, o la kippà sul
capo o il velo islamico. Con ragione Dalil
Boubakeur, presidente del Consiglio francese
per il culto islamico, ha affermato che
il mondo religioso deve ridefinirsi con una
spiritualità che non si esprima in una forma
di feticismo, ma non spetta certo allo
stato guidare questa operazione o vietarla.
Se i segni di appartenenza non turbano l'ordine
pubblico o non offendono la dignità
altrui, intervenire per vietarli significherebbe
reprimere un aspetto della libertà religiosa.
Quanto ai cristiani, essi auspicano una
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pratica della laicità vigilante e accogliente.
Essi chiedono allo stato che, in nome della
laicità, difenda la libertà di coscienza, vegli
affinchè sia possibile una coesistenza sociale
pacifica tra le componenti della società,
si opponga a ogni forma di violenza utilizzata
per far prevalere idee e convinzioni
religiose, senza tuttavia dimenticare che lo
stato è laico, ma la società civile non lo è.
Il cardinal Sodano, Segretario di Stato,
ha saggiamente chiesto un «dialogo strutturato»
tra l'Unione Europea e le confessioni
religiose, un dialogo costante, formalmente
definito nei termini e nelle modalità,
sulle materie che riguardano la vita
delle chiese e delle confessioni religiose: sarebbe
uno strumento di ascolto reciproco
che permetterebbe di non marginalizzare le
religioni e di giungere a comuni valutazioni
dinamiche capaci di orientare un'efficace
legislazione valida per tutti. Così, per esempio,
non mi pare rispettosa della laicità
la pretesa di una menzione del nome di Dio
nella Costituzione europea - richiesta che
infatti le chiese non hanno avanzato - ma
è laicismo impedire la menzione delle radici
cristiane dell'Europa: queste appartengono
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alla verità storica che deve far parte
della memoria di una società. Noi restiamo
convinti che una formula capace di ricordare
nella Costituzione «i retaggi culturali,
religiosi e umanistici, tra cui soprattutto
il cristianesimo nelle sue diverse espressioni,
sovente in fecondo rapporto con la
civiltà ebraica e islamica» sarebbe stata non
solo necessaria ma anche altamente significativa
e da tutti accettabile.
A mio parere poi, una «giusta laicità» sarebbe
di grande giovamento alla vita ecclesiale
dei cristiani che proprio in essa potrebbero
trovare protezione contro l'utilizzo
della fede come «religione civile», contro
un uso strumentale della religione da parte
di quanti misconoscono nuovamente la distinzione
tra Dio e Cesare. Ci sono forze
politiche, infatti, che vogliono che la chiesa
assuma una posizione di rilievo e un ruolo
dominante all'interno di un determinato
contesto storico e, conseguentemente,
non mantenga viva la forza profetica, la memoria
eversiva del vangelo: auspicano cioè
un modello di cristianesimo remissivo e accomodante.
Così gli elementi stabili della
cultura religiosa sarebbero integrati nel
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sistema politico, le istituzioni religiose sarebbero
piegate alla mediazione, tanto necessaria
alla società secolarizzata: si avrebbe
una vicendevole strumentalizzazione dei
poteri religiosi, politici e sociali in grado di
dare compattezza alla società e di assicurare
la tenuta del sistema. Su questo occorre
che i cristiani siano vigilanti perché quando
forze politiche vogliono generosamente
offrire protezione giuridica o prestazioni finanziarie
alle chiese, in realtà operano per
il proprio tornaconto. È quanto ha osservato
anche il Ministro della Cultura della
Baviera rivolgendosi nel 1995 al congresso
dei teologi cattolici tenutosi a Monaco:
Ciò che lo stato garantisce alle chiese, in materia
giuridica o attraverso contributi finanziari
non costituisce un atto di beneficenza nei loro
confronti. Se si riflette un istante, ci si accorge
che lo stato, così facendo, favorisce se stesso.
Se la chiesa accettasse di svolgere questo
ruolo di religione civile, forse sarebbe più
potente, maggiormente capace di far presa
sulla gente, ma rinuncerebbe a comunicare
il vangelo, a farlo risuonare come «buona
notizia», parola che chiede conversione e
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rinuncia agli idoli societari, profezia liberante
per gli uomini e le donne del nostro
tempo.
Le religioni, legittimate a esprimersi pubblicamente.
Sono passati ormai cinque anni dalla
pubblicazione del libro Le christianisme en
accusation di René Remond, che aveva sorpreso
per la sua denuncia dell'instaurarsi in
Francia di una situazione ambigua: da un
lato un'indubbia crescita di interesse, quasi
una scoperta culturale del cristianesimo,
ma, d'altro lato, l'attestarsi di una sorta di
discredito, un levarsi di accuse se non un
processo nei confronti di un cattolicesimo
peraltro in declino a causa della secolarizzazione
sempre più invasiva. Secondo le acute
osservazioni di Remond, questo avveniva
perché era venuta meno l'armonia regnante
tra insegnamento morale cattolico e
valori riconosciuti dalla società, in quella
lunga stagione in cui gli imperativi tradizionali
della morale privata non erano messi
in discussione da nessuno.
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Oggi in Francia, in una situazione segnata
dall'indifferenza, una religione divenuta
minoritaria come la cattolica appare,
a una cultura che vuole e pratica la liberazione
dei costumi e che si è dotata di altri
giudizi morali sui comportamenti individuali,
un soggetto minaccioso che vorrebbe
impedire l'esercizio di libertà ormai ritenute
conquiste della civiltà occidentale.
Si può anche dire che l'importanza che il
fattore religioso sta inaspettatamente assumendo
ovunque - dopo che la modernità
materialista aveva dato per finita la religione
- generi nei «laici» un timore, facendo
risorgere un vecchio anticlericalismo. Sta
di fatto, però, che in Francia la laicità, così
tradizionale e caratteristica per quel paese,
mostra un'incapacità a evolversi e a tener
conto dell'evoluzione della religione e
dei suoi soggetti, finendo per assumere i
tratti di un laicismo che vuole assolutamente
relegare la religione nel privato, lasciandogli
soltanto uno spazio individuale
ed escludendolo da quello pubblico in cui
tutti costruiscono la polis.
Allora, per reazione, anche in Italia ci si
interrogò se non ci si trovasse nella condizione
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del cattolicesimo francese: da parte
mia intervenni negando che qui da noi si
andasse configurando una situazione di discredito
o di opposizione nei confronti del
cattolicesimo. Tuttavia, mi parve che il libro
di Remond arrivasse a intravedere un
conflitto che certamente avrebbe interessato
i paesi europei. Oggi possiamo dire che
in Francia, soprattutto dopo la legge sulla
laicità che manifesta una posizione laicista
assunta apertamente dallo stato nei confronti
delle religioni, si registra un urto.
Commentando questo fatto, il presidente
della Conferenza episcopale francese, il vescovo
Ricard, con grande sapienza ed equilibrio
ha detto che la chiesa francese
«non vuole negoziare un posto nella società,
non vuole trasformarsi in fortezza assediata
anche di fronte a ostilità, derisione,
aggressività... Non resterà muta né si lascerà
paralizzare, ma chiederà la possibilità
del riferimento pubblico alla fede e della
manifestazione della religione nella polis».
Questa affermazione mi pare cogliere il
vero problema: le religioni possono essere
accusate di proselitismo o di intolleranza o
di discriminazione quando esprimono in
19
pubblico le loro convinzioni etiche, il loro
sguardo sull'uomo e sul mondo? In una società
pluralista, in cui le differenti convinzioni
devono potersi manifestare e confrontare,
le religioni sono legittimate a esprimersi
pubblicamente senza diventare gruppi
di pressione e senza pretendere che le proprie
convinzioni debbano diventare legge
per gli altri che non fanno riferimento a una
fede? Oppure saranno per questo tacciabili
di operare discriminazioni? Ci sarà la possibilità
per i cristiani di dire pubblicamente
il loro disaccordo senza organizzarsi in
crociate e senza indurire la propria identità,
arroccandosi in un'opposizione ostile alla
società?
Da noi, negli ultimi anni, si è parlato e
scritto ovunque sulla laicità delle istituzioni
italiane ed europee e si è giunti a dipingere
come reale una situazione penalizzante
i cristiani che nei fatti in Italia non esiste.
In assenza di una salda identità cattolica, si
è giunti addirittura a parlare di una «inquisizione
laica», di discriminazione oggettiva
nei confronti della chiesa cattolica,
di ostracismo, di persecuzione... Affermazioni
simili, rincresce doverlo confessare,
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oltre a non essere aderenti alla realtà rischiano
di fomentare un vittimismo tra i
cristiani, di suscitare una nuova opposizione
di questi nei confronti della modernità,
e di far crescere la diffidenza dei laici nei
confronti del fatto religioso. La nostra società
è sempre più pluralista per religione,
morale, costumi: in essa il cristianesimo deve
vivere e collocarsi senza logiche di inimicizia
e di creazione di un avversario. In
verità, non siamo di fronte a nessuno scenario
da incubo, nessuna emarginazione né
dei cristiani, né dei cattolici, ma a una nuova
situazione in cui cristiani, appartenenti
ad altre religioni e «laici» devono vivere
il confronto su tematiche inedite. In questo
confronto, è fisiologico che appaiano
anche posizioni anticlericali e anticristiane,
ma ciò che si chiede è che esse restino lontane
dal pregiudizio, dal disprezzo e dall'intolleranza.
In una società pluralista, tutti sono esposti
al confronto e alla critica, tutti obbligati
a elaborare ragioni nell'agorà pubblica, e
i cristiani devono imparare a esprimersi in
termini che non siano né dogmatici, né soltanto
sostenuti dalla loro fede, devono usare
un linguaggio antropologico, tale da essere
comprensibile anche dagli altri e capace
di mostrare le «ragioni umane» che sostengono
le loro posizioni e le loro scelte. I
cristiani non possono condurre le loro battaglie
trincerandosi dietro i dogmi e usando
come arma la loro dottrina: è questione,
innanzitutto, di custodia della fede e delle
sue parole più proprie e, in secondo luogo,
di termini e di modalità di dialogo capaci
di mostrare che il cristianesimo è sempre al
servizio dell'umanizzazione di ogni persona
e della collettività, al servizio della costruzione
di un mondo più abitabile segnato
da giustizia, pace, rispetto del creato e
della dignità umana. Ci sono convinzioni
alle quali i cristiani non possono rinunciare
e sono quelle su cui si accende in questi
tempi il confronto: etica sessuale e matrimoniale,
aborto e eutanasia, bioetica... Con
forte determinazione, ma anche con umiltà,
i cristiani hanno il diritto di esprimere pubblicamente
le loro convinzioni in merito, di
proporle e di vederle recepite senza preconcetti
nel dibattito per la formazione delle
leggi.
Non dimentichiamoci che in una società
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pluralista che si vuole democratica, le leggi
si costruiscono con gli altri e che, sovente,
il legislatore può solo stabilire il male minore.
Se i principi e le scelte religiose diventassero
legge imposta agli altri, avremmo
un totalitarismo religioso non dissimile,
almeno nelle dinamiche di fondo, dai tanto
esecrati atteggiamenti teocratici e integralisti
di altri ambiti religiosi. Occorre allora
salvaguardare assolutamente la libertà
d'espressione di tutti, ma il confronto deve
avvenire con linguaggi sempre rispettosi
della dignità di ogni uomo, mai discriminatori
e dispregiativi: così, se secondo la
tradizione cristiana un determinato comportamento
contraddice alla dignità e alla
qualità della vita umana, i cristiani esprimeranno
la loro ferma opposizione, senza
però mai disprezzare o condannare gli individui
che assumono tali comportamenti
contraddicenti l'etica cristiana.
Esistono certo in Europa gruppi anticristiani
anche aggressivi e intolleranti, ma
non confondiamo la loro azione, a volte anche
efficace, con quella delle istituzioni comunitarie.
Le chiese nel nostro continente
non solo non subiscono alcun ostracismo da
23
parte delle istituzioni europee, ma sono anzi
partner rispettati e il loro ruolo specifico
è esplicitamente e giuridicamente riconosciuto
dalla stessa carta costituzionale.
I cristiani allora siano vigilanti, sappiano
risolutamente contribuire alla costruzione
della polis, fedeli all'ispirazione della
loro fede, sappiano proporre, dire e anche
personalmente vivere ciò che per loro è irrinunciabile
a causa del vangelo, ma sempre
senza arroganza e intolleranza. Se i cristiani
mostrassero tratti di clericalismo, se volessero
imporre a ogni costo i loro principi
in una società che è postcristiana, allora finirebbero
per contribuire ad alimentare l'inimicizia.
Quando alcuni cristiani negano
la possibilità di un'etica a chi non è credente
in Dio, quando vedono nella società
odierna solo frammentazione di valori, nichilismo
e cultura di morte, allora contribuiscono
non al confronto ma allo scontro
e acuiscono le lacerazioni interne alla stessa
comunità cristiana. Si è tanto parlato di
scontro di civiltà e culture ad extra, stiamo
attenti a non fomentarlo all'interno delle
nostre società: sarebbe anche questo un segno
della barbarie sempre più invadente.
24
Chi minaccia il cristianesimo.
«Questo è un tempo triste per chi non
possiede la verità e crede nel dialogo e nella
libertà», così si esprimeva recentemente
Gustavo Zagrebelsky. E io aggiungerei che
è un tempo triste anche per molti cattolici
che certo non pensano di possedere la verità
ma, pur mettendo la loro fede in Dio e
in Gesù Cristo che lo ha narrato, sanno che
la verità eccede sempre i credenti: questi la
ricercano con una conoscenza sempre limitata,
relativa, provvisoria, in attesa che si
manifesti pienamente con la Venuta del Signore.
Sì, è un tempo triste perché il cristianesimo
appare minacciato nel suo specifico,
e minacciato non da chi lo avversa o
addirittura lo perseguita bensì, come sovente
accade nella storia, dai credenti stessi.
Perché?
Innanzitutto perché sta emergendo - e
trova chi gli conferisce pieni diritti e legittimazione
- un cristianesimo finora inedito
(lo si può forse definire postcristiano)
che non ha più come fondamento e ispirazione
la parola di Dio contenuta nelle Scritture,
25
un cristianesimo che non vuole più essere
giudicato sul suo essere o meno «evangelo»,
un cristianesimo che preferisce essere
declinato come «religione civile», capace
di fornire un'anima alla società, una coesione
a identità politiche, diventando così
quella morale comune che oggi sembra deducibile
solo a partire dalle religioni. In quest'ottica
pare che l'unico interesse sia che
la chiesa rappresenti un elemento centrale
della vita della società, e poco importa se
questo significa che il vangelo perda il suo
primato, che non ci sia più possibilità di
profezia, che finiscano per prevalere logiche
di potere... Se è possibile un uso religioso
della politica e un uso politico della
religione attraverso una libera contrattazione,
perché rifiutarlo? Se la chiesa è una
riserva di etica, perché non lasciare che altri
vi attingano? E se la religione appare l'unico
legame della tradizione nazionale, perché
non usarla? Se l'imperatore invita a palazzo
e si mostra riconoscente verso il servizio
apprestato alla società dai cristiani,
perché disertare il palazzo? E se queste
scelte appaiono vincenti, perché mai averne
paura? Sì, non più la testimonianza
26
dell'amore di Dio per gli uomini, non più la
sua parola sono criterio di autenticità e comunione,
ma un progetto politico riguardante
la presenza e il peso della chiesa nella
società. La fede è così mondanizzata e la
chiesa politicizzata, a tal punto da essere ferita
nella sua qualità comunionale.
Son passati quasi quarantanni da quando
accogliemmo con gioia la pubblicazione
di un piccolo libro che chiedeva di guardare
alla crisi del cattolicesimo di allora - dovuta
soprattutto al misconoscimento del
primato della fede attraverso una
ideologizzazione politica - come al «caso serio»
(questo il titolo dello scritto di Hans Urs
von Balthasar): oggi la situazione pare ribaltata,
ma avremmo bisogno che risuonasse
nuovamente questo grido di allarme,
questo forte appello alla vigilanza in una situazione
che pare caratterizzata da torpore
e afasia da parte di molti cristiani. Sì,
emerge ormai un cristianesimo senza fede
intesa come quella adesione a Gesù Cristo
che si traduce in una sequela, in una vita
totalmente coinvolta nella sua vita fino, diciamolo
chiaramente, alla croce. Ciò che invece
conta ed è determinante non è più la
27
sequela - questa faticosa, esigente, perseverante
condotta di vita che si vuole secondo
il vangelo - bensì il riconoscimento
della civiltà cristiana, il saperne leggere e
difendere l'eredità storica e culturale, l'esaltazione
e la posta in rilievo dei suoi simboli.
Non importa più la coerenza tra quel
che si vive, personalmente e comunitariamente,
e le esigenze poste da Cristo ai suoi
discepoli in materia di sessualità, di matrimonio,
di capacità di condivisione, di giustizia,
di riconciliazione e di pace... in una
parola: non si guarda più se in una persona
sono presenti quelle «obbedienze» al vangelo
che «fanno» il cristiano, nonostante e
al di là delle fragilità umane che sempre lo
accompagneranno; si guarda invece alla capacità
di assumere il cristianesimo come
identità culturale, come istanza religiosa nel
pluralismo delle fedi, come possibilità di coesione
in un mondo frammentario e diviso.
Accanto a questo cristianesimo di cristiani
che difettano di sensus fidei e di
sensus ecclesiae (di senso della fede cristiana e
di senso della chiesa), c'è poi la presenza di
altri che si dicono atei, non credenti in Dio,
che non hanno mai avuto interesse per la
28
vita ecclesiale, che sovente hanno addirittura
deriso e disprezzato la fede cristiana,
ma che oggi si presentano come «nuovi alleati»,
capaci di convergere con visioni cattoliche
in materia di etica, provvidenziali
difensori dei valori e delle tradizioni cristiane.
Costoro, individuati alcuni anni fa
come intellettuali o politici cui i cattolici
potevano fare riferimento per un dialogo
fruttuoso, sono stati poi giudicati «vicini
alla chiesa» per le posizioni politiche assunte
e ora paiono divenuti quasi gli unici
partner del dialogo che i cattolici dovrebbero
tessere con i non credenti, più affidabili
di quegli autentici cristiani che, con faticosa
e fedele perseveranza, cercano di tradurre
il vangelo nella loro vita quotidiana
e nella compagnia degli uomini.
Così si costringe la chiesa ad assumere,
nei criteri di intervento e nei metodi, la logica
della lobby, del gruppo di pressione, e
si rischia di offuscare la sua forza profetica
e la sua trasparenza di serva del vangelo. È
un pericolo che molti paiono ignorare, ma
che altri non solo sembrano assecondare,
ma giudicare un'occasione provvidenziale da
sfruttare assumendo la logica aggressiva
29
dell'adunata e della battaglia. È forse questa
la via del dialogo che la chiesa ha scelto come
irreversibile con il Concilio Vaticano II?
No, su questa strada il dialogo con i laici,
i non cristiani, diventa una debole possibilità
e, di fatto, si costruiscono nuovi muri e
si rischia il ritorno a una situazione già conosciuta
e che credevamo alle spalle per sempre:
quella della contrapposizione tra clericali
e anticlericali, tra una parte dei credenti
tentati dall'arroganza e quei non credenti
che si nutrono di logiche laiciste. Abbiamo
bisogno, oggi più che mai, per evitare uno
scontro che si consumerebbe non tra grandi
religioni ma al loro interno e, nella stessa
area culturale, tra quanti credono e quanti
non credono, di una laicità dello stato riconosciuta
e confermata da tutti. L'allora
cardinale Ratzinger ha scritto che qualora si
tentasse «una teologizzazione della politica,
allora ci sarebbe una ideologizzazione della
fede [...] e la politica non si desume dalla
fede ma dalla ragione. In questo senso lo
stato dev'essere uno stato laico, profano nel
senso positivo».
Sì, lo stato deve essere laico e deve sapere
che la società civile, invece, laica non è:
30
per questo lo stato deve difendere la libertà
di coscienza e vigilare su una coesistenza
pacifica tra tutte le componenti della società,
opponendosi a ogni forma di violenza
utilizzata per promuovere convinzioni
religiose e morali. Tuttavia, senza fare della
sua laicità un'ideologia laicista, lo stato
deve promuovere quella che Ricceur chiamava
«laicità di confronto», una laicità capace
di rispetto per le religioni, le loro manifestazioni
pubbliche e le loro convinzioni,
proposte anche alla società nella dialettica
democratica: lo stato deve cioè svolgere un
ruolo attivo ispirato a una sua neutralità positiva,
capace di garantire il pluralismo e di
tutelare i diritti delle minoranze.
I laici, rinunciando a una laicità che sia
ideologia statale, sapranno praticare un dialogo
con i credenti, accogliendo il confronto
democratico con le loro istanze espresse
in termini etico-antropologici senza definirle
fondamentaliste, ma cogliendone invece
la possibile qualità di servizio all'uomo?
Sono disponibili ad accettare che le
esperienze religiose forniscano liberamente
un contributo specifico alla società e alla
democrazia? E i cattolici sono oggi in
31
grado di assumere questa laicità, di non temerla
ma, anzi, di saperla difendere? Io sono
convinto che molti tra i credenti e i laici
possano addirittura farsi sentinelle di questo
compito: sono tutti coloro che cercano
insieme agli altri uomini vie di pace, di giustizia
e di qualità della convivenza, sono
tanti uomini e donne mossi dalla «compassione»,
cioè dalla solidarietà attiva con chi
soffre, dal farsi carico anche delle fatiche
degli altri, dal condividere l'affascinante e
laboriosa ricerca di un mondo maggiormente
a misura d'uomo, che significa sostenibile
dai più deboli, dagli ultimi.
Quando i laici sono un'opportunità per i
credenti.
In questi ultimi tempi nel nostro paese il
dialogo e il confronto tra i cattolici e i non
cattolici ha subito un mutamento nella qualità
degli interlocutori, ma ha anche presentato
aspetti di scontro, di polemica e di
invettive reciproche che credevamo ormai
relegate nel passato, confinate nella logica
delle diatribe tra clericali e anticlericali. In
32
verità, nella seconda metà del secolo scorso,
lo scontro appariva più tra credenti e]
atei, schierati in aree politiche contrapposte,
ma nell'agorà odierna la militanza religiosa '
o atea ha poco rilievo e suscita poco
interesse perché ormai fede e non fede si situano
in modo diverso: i credenti oggi, in
larga maggioranza almeno, non hanno più la
connotazione della militanza combattiva,
bisognosa di un avversario, mentre d'altro
canto sono rarissimi i pensatori che impegnino
l'ateismo in una battaglia contro i
credenti.
È emersa una nuova categoria di non cattolici
che sono i «senza religione», persone
che dichiarano di non appartenere a nessuna
confessione religiosa, di non provare interesse
per la fede, e che si comportano di
conseguenza. Sono la grande massa degli indifferenti:
non prendono posizione contro
l'esistenza di Dio, - questo significherebbe
considerare la questione Dio come meritevole
di ricerca e di riflessione, - ma semplicemente
pensano che altre realtà debbano
catturare l'interesse e la cura degli uomini.
L'indifferenza, come tutte le forme di incredulità
e di fede, nasce e si sviluppa
33
attraverso dimensioni sociali, culturali e religiose
della nostra modernità. È la società
pluralista e democratica che permette l'organizzazione
di uno spazio pubblico di confronto
e di decisione in cui qualunque soggetto
è libero di intervenire o meno: ma
proprio la possibilità di presenza e di espressione
in una società pluralista di proposte e
confronti numerosi e contraddittori può generare
come reazione anche fenomeni di indifferenza.
Questo è l'orizzonte che i cristiani
trovano nella società in cui sono minoranza.
Gli indifferenti: ospiti inattesi, intrusi
indesiderati, presenza ingombrante di fronte
alla quale i cristiani sono tentati o di rimuoverla
con la nostalgia di un mondo popolato
di militanti contrapposti, oppure di
condannarla con giudizi sommari, unicamente
negativi, sovente venati di disprezzo:
gli indifferenti sarebbero soltanto il
frutto del relativismo filosofico e morale.
Di fronte a essi ecco per i cristiani la tentazione
del «ritorno delle certezze», dell'affermazione
dell'identità pura e dura.
Ma i cristiani dovrebbero chiedersi se, dipingendo
della società in cui vivono un'immagine
34
soltanto negativa e degna di condanna, ]
non si precludano di fatto un ascolto
e un'accoglienza del loro messaggio. L'ascolto
infatti necessita, per definizione, l'abbattimento
dei pregiudizi e delle immagini
preconcette dell'altro. Giovanni Paolo II
conosceva bene la situazione dell'Europa e
tuttavia al sinodo dei vescovi europei ha
ammonito:
È un luogo comune parlare di crisi dell'Europa,
ma noi non vogliamo lasciarci imprigionare
da questi schemi stretti e pessimistici di una cultura
di crisi.
Certo, qui il confronto e il dialogo diventano
difficili, e io resto convinto che l'unica
possibilità che i cristiani hanno sia di
mostrare loro la «differenza cristiana» con
la vita, il comportamento, la forma di
appartenenza alla polis. Ma è proprio all'interno
di questa maggioranza indifferente
che mi pare si collochino coloro che in Italia
si autodefiniscono e vengono chiamati i
«laici».
Costoro sono certamente non cristiani
- dato che non appartengono a una confessione
e non dichiarano la loro adesione
35
al credo cristiano - ma sono comunque interessati
a un dialogo con quei cristiani che
ammettono la laicità dello stato e delle istituzioni.
A volte qualcuno di loro può essere
tentato dal laicismo, cioè dal volere la religione
confinata nel privato, e trovare conveniente
rifugiarsi in schemi del passato, in
cui i ruoli contrapposti erano ben definiti e
fornivano ai rispettivi schieramenti rassicuranti
certezze. Altri ancora, con atteggiamento
sinceramente aperto al dialogo,
chiedono ai cristiani di stare nel mondo «come
se Dio non ci fosse», dimenticando però
che la formulazione ripresa da Dietrich
Bonhoeffer ha un significato ben diverso:
il teologo tedesco non asseriva certo che il
cristiano deve vivere «come se Dio non esistesse»
- il cristiano, infatti, vive sempre
davanti a Dio e con Dio, personalmente e
con la propria comunità ecclesiale - ma
piuttosto che il cristiano sa stare in un mondo
in cui Dio non informa più la cultura, sa
vivere tra gli uomini nel mondo in cui Dio
non è più una «ipotesi data». Nelle sue lettere
dal carcere, Bonhoeffer scriveva:
Noi non possiamo essere onesti senza riconoscere
che ci occorre vivere nel mondo etsi Deus
36
non daretur... Davanti a Dio e con Dio noi viviamo
senza l'ipotesi Dio... Si tratta cioè di vivere
davanti a Dio l'assenza di Dio.
Sovente gli interlocutori dei cristiani sembrano
attendere una chiesa che ascolti prima
di parlare, che accolga prima di giudicare,
che ami questo mondo prima di difendersene,
che si nutra di creatività piuttosto
che di paura, che sappia annunciare profeticamente
piuttosto che accusare.
Va comunque riconosciuto che questi
laici non tentati dal laicismo costituiscono
un'opportunità per la fede cristiana: nella
loro modestia di non appartenenti a religioni
ma interessati al confronto non brandiscono
l'ateismo contro i cristiani, non
hanno un ateismo trionfalista, e così richiedono
implicitamente umiltà al credente.
Sono questi laici che si interrogano assieme
ai credenti sul perché del male, della vita e
della morte, sono loro ad avere una passione
per l'umanizzazione e la qualità della vita
collettiva. Con questi laici occorrerebbe
che i cristiani sapessero instaurare un dialogo,
un confronto senza paure e senza aggressività:
in un ascolto reciproco che aiuti
sempre la società a trovare vie positive,
37
soprattutto in materia etica. Sono convinto
che questi laici siano capaci di elaborare
e assumere un'etica, anche se non hanno la
fede: per un cristiano, infatti, l'immagine di
Dio è presente in ogni uomo e quindi ogni
essere umano è capace di discernere il bene
e il male. Sono questi i laici con i quali
si può condividere la compassione per
l'uomo, la lotta per la libertà, la giustizia e
la pace.
Però i cristiani non chiedano ai non credenti
quello che essi non possono dare: non
chiedano atti di fede nelle loro proprie posizioni,
non chiedano di accogliere convinzioni
dogmatiche nella politica, ma sappiano
presentare il loro messaggio in termini
antropologici tali che i non credenti possano
percepire in essi la volontà e il progetto
del servizio reso all'uomo e alla società.
Certo la democrazia non ha bisogno di trovare
il suo fondamento in un credo religioso,
ma può e deve trovarlo nei principi della
libertà, della giustizia, della fraternità e
nei diritti degli individui e delle comunità.
Nel nostro Occidente, in cui saranno sempre
più presenti anche altre religioni, soprattutto
l'islam, questo confronto tra laici
38
e cristiani diviene sempre più urgente e
decisivo, non certo per una coalizione ad
excludendum, ma per l'edificazione di una
casa che sìa davvero comune a tutti quanti
la abitano. Si, la sfida decisiva per edificare
la società nella fatica del dialogo e non
nello scontro di culture, è proprio il confronto '
tra cristiani e non credenti: speriamo
che possa avvenire grazie alla laicità dello
stato.
L'etica? È un dono dell'esperienza.
La crisi della morale profilatasi alla fine
dell'Ottocento è divenuta, un secolo più
tardi, una vera e propria dissoluzione.
Dissoluzione dei valori resa manifesta nella caduta
dei grandi totalitarismi presentatisi
come portatori e restauratori di grandi valori
assoluti: i totalitarismi hanno caratterizzato
il Novecento come una grande lotta
tra valori etici contrapposti, ma il loro
crollo ha significato anche uno svuotamento
delle etiche prodotte in ambito non religioso.
Così oggi ci troviamo in una stagione
che, in riferimento all'etica, presenta tratti
39
paradossali: da un lato, con l'esaurirsi della
spinta propulsiva delle ideologie messianiche
secolarizzate, si constata una crisi delle
etiche cosiddette «laiche», d'altro lato
assistiamo a un'emergenza sempre più chiara
e solida di etiche connesse a una confessione
di fede le quali, tuttavia, proprio per
questo non possono aspirare, in una società
multireligiosa e multiculturale come l'attuale,
a una pretesa «universalità».
Ne consegue la percezione sempre più
profonda nella società odierna di un'incapacità
a elaborare valori fondamentali comuni.
Si pensi per esempio agli interrogativi
sollevati dalle nuove frontiere della ricerca
scientifica. Il pluralismo, infatti, è
elemento indispensabile per una democrazia
aderente alla libertà e allo stato di diritto,
elemento che pone l'accento sulla
molteplicità, la diversità, la complessità, la
concorrenza e la ricchezza di ciò che è offerto
per la scelta di ciascuno, ma che è per
contro impotente a produrre l'unità della
convivenza civile. Il rischio del pluralismo
è il relativismo, l'indifferenza, il trasformarsi
in una sorta di indifferentismo che
non consente di trovare principi comuni,
40
elementi di fondamento per un progetto
condiviso di polis, per una storia da costruire
insieme.
Sorge allora la domanda se sia ipotizzabile
un'«etica comunitaria» condivisibile
da uomini e donne nel pluralismo di fedi e
di culture. Da alcuni anni in tutta Europa,
soprattutto dov'è ancora significativamente
presente la confessione cattolica, si è avviato
questo dibattito sulla possibilità di
un'etica comune con i non cristiani e ci si
è chiesti se sia possibile un'etica laica o, meglio,
diverse etiche laiche. Però, non appena
ci si addentra a discuterne i contenuti,
riaffiorano subito rigidi schieramenti «confessionali»
che la dicono lunga sulla diffusa
impreparazione a condurre un dialogo
franco e autentico. Quando gli stessi cristiani
si arroccano su alcune puntuali convinzioni
derivate dal loro patrimonio di fede
e le assolutizzano, rischiano di dimenticare
che per la grande tradizione cristiana
l'esistenza umana trova il suo valore proprio
nella relazione con gli altri uomini: la
vita è relazione, sicché l'essere umano è tale
quando ha davanti a sé un «tu» che lo rimanda
al dialogo, alla comunione intesa come
41
solidarietà e partecipazione. Il primo
principio etico è l'alterità che, per i cristiani,
conosce queste declinazioni: io e il mio
prossimo (coloro con i quali vivo in stretto
contatto quotidiano), io e gli altri (quanti
condividono con me la storia, la terra, il
tempo), io e, tra gli altri, gli ultimi (quali
che siano le condizioni in cui si manifesta
e i nomi che riceve questo essere ultimi).
Del resto, se per un credente nel Dio rivelato
nella bibbia l'uomo è a immagine di
Dio, allora l'altro, il diverso, lo straniero è
in realtà parte di me, è costitutivo di me
stesso e della mia identità: io non sono senza
l'altro, così simile e così diverso da me.
Né va dimenticato che per gli stessi cristiani,
e da sempre, l'etica è elaborata anche
a partire dalla storia. Il vangelo, infatti,
ispira sì l'agire storico dei cristiani, ma
è nella stessa storia che diviene comprensibile
o meno. L'ethos non è dato una volta per
sempre, non è calato dall'alto né
normativamente contenuto nei libri, ma è costantemente
elaborato nella storia, nel cammino
fatto accanto e assieme ad altri uomini. Basterebbe
una lettura non fondamentalista
della Bibbia per rendersi conto, per esempio,
42
dell'apporto dell'etica egiziana e mesopotamica
alla sapienza di Israele, oppure '
dell'influenza dell'ethos greco visibile in diversi
passi degli scritti di san Paolo. Sì, l'etica
è esperienza e dono: per questo occorre
che le religioni - soprattutto quelle monoteistiche,
maggiormente tentate dall'esclusivismo
e dall'aggressività - elaborino un'etica ]
comune con chi è presente accanto a loro
nella polis, nello spazio sociale condiviso.
Certo, questa elaborazione comune richiederà
a tutti i soggetti di abbandonare
la sterile retorica attorno al dialogo e di affrontare
invece con realismo i rischi e le
difficoltà che ogni dialogo autentico comporta.
Richiederà la consapevolezza che
senza disponibilità all'accoglienza dell'altro
non si potrà mai avere costruzione comune,
ma solo contrapposizione di barricate
tanto più fragili quanto più erette «contro»
un interlocutore cui si è negato ascolto. Richiederà
di privilegiare il rispetto per le minoranze
e i loro diritti, non a scapito bensì
a solido fondamento dell'affermazione
della volontà della maggioranza. L'elaborazione
di un'etica condivisa richiederà cioè
l'accettazione preliminare di una volontà di
43
percorrere insieme un preciso cammino nella
storia: e accettare questo significa assumerne
anche i rischi, le impasses, le contraddizioni
che inevitabilmente contrassegnano
un confronto di tale spessore e portata:
richiederà insomma quella capacità di «rispondere»
di se stessi e degli altri che ha
nome responsabilità.
André Malraux ha scritto che il xx secolo
ha rappresentato la scoperta dei demoni
che sono in noi, delle profondità oscure ed
enigmatiche che ci abitano. La dura scoperta
di essere «stranieri a noi stessi», che è
una delle acquisizioni ereditate dal secolo
da poco concluso, la scoperta dei limiti della
razionalità e della fede stessa - entrambe
incapaci di rendere conto pienamente
dell'uomo e del mondo nel loro restare permeati
da una dimensione di tenebra, di
enigma - dovrebbe inculcare quell'umiltà
che è base di partenza di un'etica veramente
consensuale. Sprovvisti di certezze
e sicurezze assolute, noi tutti, laici e credenti,
forse veniamo preservati dall'arroganza
e possiamo aprirci all'incontro sul
terreno arduo ma affascinante dell'umano.
44
II.
La «differenza» cristiana.
Il cristiano non evade dalla storia.
Anche se le statistiche relative ai battezzati
o agli «avvalentisi» dell'insegnamento
della religione cattolica nella scuola pubblica
non lo sanciscono ancora, appare ormai
chiaro che anche in Italia i cristiani
vivono in condizione di minoranza: già da
tempo non si vive più in quello spazio di
cristianità caratterizzato dall'osmosi fra
chiesa e istituzioni sociali e politiche. Questo
dato si affianca alla mutata strutturazione
e composizione della società civile:
un pluralismo di fedi e culture ormai caratterizza,
e caratterizzerà sempre di più, le
nostre città e i nostri paesi. Come custodire
l'identità e approfondirla nel confronto
e nell'incontro con gli altri senza cadere in
atteggiamenti di chiusura preconcetta e di
rifiuto, di intolleranza e di rigetto? E come
vivere questa volontà di incontro, questo
45
desiderio di dialogo, senza cedere alla tentazione
del relativismo e abdicare alla propria
storia e tradizione? Il problema non riguarda
solo l'identità cristiana, ma anche
quella culturale di un popolo. In tutti e due
questi ambiti, si vedono oggi fiorire atteggiamenti
ispirati a paura, chiusura, difesa
di un'identità ritenuta immobile, definita
una volta per tutte (quasi che ogni identità,
personale e nazionale, non si costruisca storicamente
proprio attraverso l'incontro con
altri), fissa e immutabile.
La tentazione oggi presente nella compagine
ecclesiale, di fronte alla condizione
di minoranza che può spaventare e far temere
per il domani della fede e della chiesa,
pare quella di identificarsi con l'Occidente,
di declinarsi come «religione civile»
utile alla società sempre più frammentata
e smarrita. Può anche darsi che in questa
condizione la chiesa riesca a potenziare la
propria presenza e la propria influenza sulla
società, ma il prezzo da pagare sarebbe
altissimo: come si manterrebbe libera di rispondere
in ultima istanza solo al vangelo,
come potrebbe, in nome di questo, assumere
posizioni coraggiose o proferire parole
46
profetiche, anche se scomode per l'ordine
regnante? Soprattutto, questo atteggiamento
rischierebbe di svuotare la dimensione
escatologica propria della chiesa, il rimando
agli ultimi tempi, il relativizzare ogni realizzazione
all'attesa del ritorno di Cristo e
all'instaurazione della sua giustizia. Questo
«relativismo cristiano» è fondamentale alla
chiesa per non mondanizzarsi, per non
divenire cappellania dei potenti del mondo,
e per mantenersi nell'obbedienza al vangelo:
i cristiani sanno che la loro cittadinanza
è nei cieli, che sono in cammino verso la
città futura, che non hanno quaggiù una dimora
permanente. Quésto fa sì che essi possano
inoculare diastasi salutari nei dinamismi
della vita sociale, attestando la relatività
di ciò che può essere ritenuto assoluto,
e affermando sempre il primato della relazione
e della persona.
Di certo, nell'opera di edificazione della
polis che li accomuna agli altri uomini, i cristiani
non hanno certezze o ricette: il vangelo
non fornisce formule magiche in base
alle quali indicare la via che conduce infallibilmente
alla realizzazione degli obiettivi
di una polis. Nessuno sarà mai dispensato
47
dal portare, a proprio rischio e pericolo,
giudizi pratici sulle minacce incombenti,
sulle situazioni da affrontare e da analizzare,
sulle scelte da fare tra le possibilità offerte.
Si situa qui la responsabilità storica
di ogni credente e la sua obbedienza creativa
al vangelo eterno: il cristiano può vivere
la propria fede solo immergendosi nella
storia e nella sua opacità, nelle sue contraddizioni,
nelle sue problematiche, mai
evadendo dalla storia che è l'ambito del manifestarsi
della presenza di Dio.
Ma in questa immersione, la comunità
cristiana è chiamata a vivere una differenza
nella qualità delle relazioni, divenendo
quella comunità alternativa che, in una società
connotata da relazioni fragili, conflittuali
e di tipo consumistico, esprima la possibilità
di relazioni gratuite, forti e durature,
cementate dalla mutua accettazione e
dal perdono reciproco. È la «differenza»
cristiana, una differenza che chiede oggi alle
chiese di saper dare forma visibile e vivibile
a comunità plasmate dal vangelo: in
questa capacità di costruzione di una comunità,
il cristianesimo mostra la propria
eloquenza e il proprio vigore, e dà un
48
contributo peculiare alla società civile in cerca
di progetti e idee per l'edificazione di una
città veramente a misura d'uomo. Né si può
dimenticare che proprio con la capacità di
originare forme di vita comunitaria, inventando
strutture di governo ispirate a corresponsabilità,
rapporti di autorità vissuti come
servizio, il cristianesimo mostra la sua
vitalità storica e svolge un'importante diaconia
per la società civile.
Proprio la concezione della comunità come
corpo può aiutare la chiesa a indicare agli
uomini forme e modalità di comunicazione
che siano umane, umanizzate e tendenti al
rispetto dell'altro, del suo pensiero, della
sua diversità. Se da un lato la politica abbisogna
oggi di darsi spessore culturale, essa
necessita anche di ricevere e darsi spessore
morale ed etico. Il proprio della comunità
cristiana nelle attuali contingenze, il suo
compito profetico, consiste forse in un lavoro
di profondità e di lungo periodo che
getti le basi per una convivenza possibile e
praticabile, che dia senso, che apra al futuro
e che, suscitando attese e progettualità,
renda vivibile l'oggi.
La differenza cristiana diviene così
49
stimolo e fermento nella società perché ogni
parola e gesto profetico hanno ricadute sulla
compagine sociale. Tuttavia, se la parola
della chiesa dimenticasse la propria qualità
di eco della parola di Dio, se pretendesse di
fornire indicazioni tecniche sul piano economico
o di suggerire formule politiche, rischierebbe
di introdurre germi di contrapposizione
e divisione nella stessa comunità
cristiana. Per questa presenza e questo annuncio
profetico del vangelo occorrerà sempre
una testimonianza ispirata a dolcezza e
mitezza, ma capace di fermezza e di rigore.
Viviamo un tempo che può essere favorevole
alla collaborazione tra chiesa e istituzioni
politiche e sociali, viviamo in una
società non più confessionale e neppure
laicista, né caratterizzata dalla bipolarità laici-cattolici:
questo permette un'autentica
collaborazione, senza asservimenti o abdicazioni.
Sì, nell'opera di costruzione della
polis il cristiano collabora con le legittime
autorità, ma conserva la sua capacità di
parresia, di franchezza, di denuncia dell'illegalità,
dell'ingiustizia, dell'oppressione, nella
consapevolezza che oggi occorre documentazione,
competenza e acutezza di analisi
50
per discernere i processi che sono all'origine
di ingiustizie economiche, negazioni di
diritti umani, ineluttabilità di guerre. Il cristiano,
dunque, deve essere disposto a collaborare
e a fornire il proprio contribuito
positivo, ma deve assolutamente ricordare
che la fede gli impone di obbedire a Dio
piuttosto che agli uomini. Negli infiniti casi
in cui le scelte che si presentano sono quotidiane
e di non immediata decifrazione, il
cristiano è chiamato allora a operare in coscienza,
in umiltà e cercando, assieme agli
uomini e alle donne che vivono, sperano e
soffrono accanto a lui, il bene comune o, almeno,
il male minore.
La fede non si impone.
Ormai non passa giorno in cui qualche
cattolico non riesca a esprimere in modo
quasi ossessivo due proposizioni che per
molti sono convinzione assodata: la prima
vuole essere una diagnosi dell'attuale situazione
del mondo come società secolarizzata
che ha espulso Dio, che è indifferente
alla fede cristiana; la seconda appare
51
come una denuncia o una lamentela: i cristiani
sono sempre più estromessi dalla vita
della polis, il cristianesimo è sotto il fuoco
incrociato di accuse e di disprezzo, la
chiesa cattolica subisce un attacco che mostra
l'intolleranza di quanti non vogliono
che essa sia in grado di parlare e intervenire
pubblicamente. E così, giorno dopo
giorno, si accende sempre di più un conflitto
tra credenti cristiani e «laici» o non
religiosi.
Riguardo alla diagnosi sulla società attuale,
è indubbio che i cristiani, scopertisi
minoranza, abbiano trovato di fronte a sé
uomini e donne non solo appartenenti ad
altre religioni, ma anche non religiosi e perfino,
come ospiti inattesi, numerosi «indifferenti»:
si sono trovati cioè in una società
plurale nelle fedi, nelle culture, nelle etiche.
Una società che a molti cristiani appare
estranea a Dio e alla religione, incapace di
elaborare un'etica che non sia limitata alla
dimensione libertaria e a una «tolleranza»
che lascia solo spazio ai diritti individualistici
dei cittadini. Quello che nel Medioevo
era un esercizio ascetico, il disprezzo del
mondo - de contemptu mundi -, oggi pare
52
applicarsi non più alla realtà «terrena» contrapposta
a quella celeste, bensì a una società
non più cristiana. E' vero che la società
attuale e la sua cultura dominante, almeno
in Europa, sono ormai lontane dal cristianesimo
e che i valori ispirati dal vangelo e
custoditi dai cristiani appaiono sempre più
estranei agli orizzonti della nostra società;
è vero anche che il cristiano sa che c'è nel
suo «essere nel mondo senza essere del mondo»
una differenza, ma i cristiani dovrebbero
chiedersi come mai, pur essendo più
di un miliardo (un cristiano ogni cinque abitanti
del pianeta), la loro fede appare così
poco eloquente e così poco seducente per
gli uomini e le donne di oggi. Non è anche
per un difetto di coerenza tra quello che i
cristiani predicano e quello che vivono? Se
c'è assenza di Dio nella vita sociale oggi,
dovremmo chiederci quanto non dipenda
anche dai cristiani e dalla loro incapacità a
farsi comprendere e, in certi casi, dall'ambiguità
della loro testimonianza: come ha
riconosciuto a più riprese anche Giovanni
Paolo II, a volte è proprio la condotta dei
cristiani a essere causa di abbandono della
fede e di un conseguente ateismo. Davvero
53
i cristiani sono immuni da colpe in tal
senso, e tutta la responsabilità ricade sugli
altri?
Quanto poi alla denuncia di un cristianesimo
sul banco degli imputati o assediato,
se non addirittura perseguitato, occorre
essere onesti: è vero che in molti paesi
europei esiste un nuovo anticristianesimo
(è il titolo di un libro di René Remond), che
il Trattato di ateologia di Michel Onfray non
è tanto un'opera filosofica o di apologetica
dell'ateismo, quanto un libro intollerante
che alimenta odio verso i monoteismi e in
particolare verso la chiesa cattolica, pur tuttavia
quello che potremmo definire un pregiudizio
laicista anticattolico, presente in
paesi come la Francia e il Belgio, è assente
in Italia.
Accanto a posizioni che si vogliono neopagane o politeiste, ci sono anche innegabili
pretese di esclusione dei cristiani dalla
vita pubblica. Il responsabile della Santa
Sede per i rapporti con gli stati, monsignor
Giovanni Lajolo, ha sottolineato con molta
puntualità questa situazione, denunciando
le violazioni alla libertà religiosa nel mondo
e il tentativo di escludere i cristiani dalla
54
costruzione dell'Europa, ma in Italia risulta
stonato il coro di lamenti, che si leva
da autorevoli frazioni di cristiani credenti
e sovente dai cosiddetti «cristiani non credenti»,
sulla condizione dei cattolici, che
sarebbero diventati oggetto di ostilità in
quanto tali e bersaglio sistematico delle accuse
laiciste. Queste denunce paiono non
solo sproporzionate rispetto al dato reale,
ma anche offensive verso quei cristiani che
sono veramente osteggiati e perseguitati in
altri paesi del mondo. Ogni indebito appello
al vittimismo in realtà esonera dall'autocritica,
rimuove la necessità della conversione
e privilegia l'addebito di ogni problema
alla società, agli altri, alla cultura non
cristiana.
Del resto, non si dimentichi che anche
qualora la chiesa fosse veramente osteggiata,
questo farebbe parte delle beatitudini
promesse da Gesù ai suoi discepoli: secondo
il Nuovo Testamento è normale che la
comunità dei credenti incontri ostilità, ma
questo non fa che esaltare la sua libertà rispetto
ai poteri dominanti e agli idoli religiosi
che la seducono e la allontanano dal
suo unico Signore. E, comunque, a
55
un'aggressività ideologica non si risponde con
un'aggressività simmetrica, fosse pure in
nome di Dio.
Allora, anche la giusta rivendicazione da
parte dei cristiani del loro diritto a stare
nella compagnia degli uomini e nella società
quali cittadini impegnati assieme agli altri
nell'edificazione della polis, obbedendo alle
ispirazioni e alle esigenze del vangelo, finisce
per apparire pretesa ingiustificata e
pericolosa e svuota la possibilità che la chiesa
si faccia invece «presidio» a salvaguardia
di un umanesimo oggi fortemente minacciato
dalla barbarie. In verità i cristiani
non possono rinchiudere e custodire Dio
nel recinto delle opinioni private: devono
poter esprimere pubblicamente la propria
fede e l'etica che ne consegue, non cedendo
all'ipocrisia di chi nasconde ciò che inlui è speranza di cui deve rendere conto. Sì,
come ogni religione, il cristianesimo non
può essere confinato nella sfera privata, ma
è anche consapevole di non poter essere ridotto
a politica, né imposto come fede o come
etica in una società plurale, né può rivendicare
un posto centrale nella società.
Anche oggi, non possiamo negarlo, i cattolici
56
possono essere «tentati di praticare
metodi di intolleranza al servizio della verità»,
come ha lucidamente denunciato per il passato
Giovanni Paolo II; anche oggi si può
cedere alla violenza latente in un certo modo
di rivendicare le proprie convinzioni religiose.
Recentemente, papa Benedetto XVI
ha affermato che «noi cristiani abbiamo
l'obbligo di rispettarci e amarci reciprocamente
anche in ciò che ci distingue gli uni
dagli altri a causa delle nostre intime convinzioni
di fede»: essere se stessi, quindi,
contiene l'esigenza del riconoscimento dell'altro
e della sua diversità.
C'è una fierezza cristiana che i credenti
devono avere senza arrossire del vangelo,
ma questa non deve mai degenerare in orgoglio
e arroganza, così come c'è una saldezza
nelle proprie convinzioni di fede che
non deve scadere a sicurezza delle proprie
parole scagliate contro gli altri, delle proprie
posizioni schierate contro chi pensa diversamente.
Quando i cristiani perdono il
carattere della mitezza e dell'umiltà - segno
essenziale della qualità di discepoli di
Gesù di Nazaret che si è proclamato «mite
e umile di cuore» - allora sono essi stessi a
57
minacciare nel concreto proprio quel messaggio
che vorrebbero trasmettere agli altri
uomini.
Eppure ci sono ancora cristiani che ricordano
lo spirito e le raccomandazioni del
Concilio Vaticano II che quarantanni or
sono affermava:
La chiesa non pone le sue speranze nei privilegi
offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa stessa
rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente
acquisiti, ove constatasse che il loro
uso potesse far dubitare della sincerità della sua
testimonianza... E suo diritto predicare la fede
[...] e dare il suo giudizio morale [...] e questo
farà utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono
conformi al vangelo e al bene di tutti (Gaudium
et spes 76).
Per questo sarebbe di grande aiuto una
vera opinione pubblica nella chiesa, un dibattito
e un confronto serio tra i cristiani
nella libertà e nell'accoglienza reciproca.
Oggi invece il dibattito è quasi spento, le
voci sembrano tutte uniformi, pare improponibile
ciò che in passato era ritenuto una
ricchezza: la diversità e la pluralità delle
opinioni. Dov'è la parresia, il parlare franco,
questa virtù eminente tra quelle
58
cristiane, che rende profetica la voce della
chiesa? In questo clima, come non notare
il farsi silente di chi constata l'impraticabilità
di un dissenso leale, di chi teme che
ogni opinione diversa venga bollata come
contestazione della chiesa, mancanza di
amore per essa o addirittura connivenza
con il «nemico»?
Sì, il dialogo tra cristiani e non cristiani
richiede franchezza e umiltà all'interno della
propria communitas come nei rapporti reciproci:
senza di esse non si va da nessuna
parte, non si edifica nessuna casa comune,
non si elabora nessuna etica condivisa, e a
patirne è l'intera convivenza civile.
I cristiani? Non sono perseguitati.
La firma della Costituzione europea e il
processo della sua ratifica da parte dei singoli
stati ha riacceso il dibattito sulla storia
dell'Europa e ha risvegliato il rammarico di
molti credenti per la mancata menzione delle
radici cristiane nella carta costitutiva del
nostro continente. Si è preferito tacere una
verità storica, dimenticando che riconoscere
59
il proprio passato - con le sue luci e le sue
ombre - non significa identificarsi con esso:
così, menzionare che il cristianesimo ha
contribuito in modo determinante alla formazione
della cultura europea e dell'idea
stessa dell'Europa non sarebbe equivalso ad
affermare che ancora oggi il cristianesimo
fornisce un'identità collettiva all'Europa.
«Riconoscere la nostra appartenenza a una
società che vuole indagare i fondamenti della
propria legittimità - scrive Paul Ricceur costituisce un atto di veracità» e il percorso
può essere solo il risalire la lunga storia,
il «racconto» a più voci le cui radici affondano
nell'etica greca delle virtù, nella romanità,
nel cristianesimo - a volte in confronto-scontro
con l'ebraismo e con l'islam,
altre volte in tensione o rottura al proprio
interno -, nell'illuminismo... Forse si è avuto
il timore che dalla menzione delle radici
cristiane si fosse obbligati a dedurne che
l'Europa di oggi è cristiana e che al cristianesimo
deve ispirarsi.
Da più parti si sono fatte letture severe
sull'attuale condizione dell'Europa: timorosa
nella piena assunzione del proprio passato,
ma anche «stanca», con le sue
60
democrazie divenute matérialiste ed edoniste, affette
da nichilismo, incapaci di aprire un futuro
al continente. Il cardinal Ratzinger
parlava di un'Europa che «nonostante la
sua perdurante potenza politica ed economica,
viene vista sempre più come condannata
al declino e al tramonto», come fosse
«svuotata dall'interno». Sono giudizi duri,
che a volte cedono all'identificazione, semplicistica
e rischiosa, tra Europa e Occidente,
magari saldando entrambi con il cristianesimo;
ma non va dimenticato che oggi, a
differenza di un tempo, l'Europa ha un'enorme
risorsa: la capacità di essere critica.
Risorsa preziosa per un pensiero e una cultura
plurale e aperta al futuro: infatti, come
ha mostrato con chiarezza Hanna Arendt,
proprio l'acriticità ha dato origine ai totalitarismi.
Sì, è questa, nel bene e nel male,
l'Europa in cui viviamo tutti come cittadini
e i cristiani come discepoli di Gesù Cristo,
è questa l'Europa in cui dobbiamo assumere
precise responsabilità perché il suo
futuro sia a servizio dell'intera umanità e
contrassegnato dal dialogo, dal confronto
tra le diverse culture e religioni, dalla ricerca
della giustizia e della pace per tutti.
61
In questa Europa i cristiani non sono né
perseguitati, né assediati ma, anzi, sono invitati
a un confronto con la modernità, con
la complessità, con il pluralismo culturale,
religioso ed etico. Certo, i cristiani dovrebbero
avventurarsi in questo confronto fiduciosi
nella forza di impatto dell'umiltà
cristiana, non mettersi in concorrenza con
eventuali e momentanee arroganze di altre
religioni, dovrebbero essere pronti a rinunciare
a certi diritti e privilegi, acquisiti nel
passato ma che oggi costituiscono un ostacolo
per una proposizione credibile della loro
fede. La via kenotica, dell'umile abbassamento,
percorsa da Cristo è l'esempio che
i singoli cristiani e le chiese sono chiamati a
seguire. Secondo la bella espressione di Martin
Buber, «il successo non è uno dei nomi
di Dio», e quindi i cristiani non saranno ossessionati
dal dover ottenere risultati che
rispondono più a una logica di riconquista
che non a una comunicazione della fede come
il vangelo la vuole e la determina.
Qui si impone una precisazione sulla cosiddetta
«nuova evangelizzazione», quello
sforzo in cui si è da anni impegnata la chiesa
ma che non può assurgere a panacea che
62
sana i problemi della modalità di presenza
cristiana e del suo apporto all'edificazione
della polis europea. Nuova evangelizzazione
non significa imporre all'Europa il vangelo
e l'appartenenza alla chiesa, non si»
gnifica effettuare una retroevangelizzazione
che ci riporti a un Occidente cristiano
precedente la modernità, tanto meno significa
tentare un futuro confessionalistico
che non tenga conto dell'orizzonte ecumenico
assunto soprattutto dal concilio
dal pontificato cattolico di questi ultir
decenni.
È l'ora di uscire da ogni strettoia confessionale
[scrive il teologo Jùrgen Moltmann] per avanzare
insieme al largo. È l'ora dell'ecumenismo
per una nuova Europa, altrimenti le chiese diventeranno
religione del passato.
Evangelizzazione e dialogo dunque, perché
evangelizzare significa anche ascoltare
il mondo, ascoltare gli uomini e le donne di
oggi per poter annunciare loro la buona notizia
in un linguaggio comprensibile. Più
che mai valgono queste parole di Paolo VI:
La chiesa entra in dialogo con il mondo in cui
vive, la chiesa si fa parola, la chiesa si fa
63
messaggio, la chiesa si fa conversazione (Ecclesiam
suam 67).
La comunicazione della fede deve dunque
essere un processo spirituale che inizi
le persone al mistero della loro esistenza e
non un indottrinamento dogmatico e morale,
non deve forzare la porta delle case per
portare il suo messaggio, né tanto meno per
convertire qualcuno a qualsiasi prezzo.
La chiesa non può sentirsi e comportarsi
come una fortezza assediata, anche se all'orizzonte
europeo apparisse un atteggiamento
aggressivo da parte del mondo non
cristiano: fin dai suoi inizi, infatti, la chiesa
sa che l'ostilità nei confronti del messaggio
del vangelo non può essere né rimossa né
evitata. Nessuna tentazione di mobilitazione
di ordine politico, nessuna chiamata
in soccorso lanciata a quegli «atei devoti»
- o, meglio, «atei clericali» - che, da sempre
estranei o diffidenti verso il cristianesimo,
oggi lo scoprono come possibile strumento
utile a consolidare il loro posizionamento
nella società. I cristiani sappiano
anche evitare ogni manifestazione di integralismo
che crea per reazione diffidenza e
64
ostilità da parte dei laici: il nostro passato
e la laboriosa convivenza raggiunta dovrebbero
averci insegnato che laicismo e
clericalismo si nutrono a vicenda.
Quando i cristiani manifestano sfiducia
nella forza evangelica propria dell'umiltà
cristiana e dell'inermità della fede, quando
progettano una «religione civile» cercando
di instaurare presidi e tentando alleanze
strategiche con chiunque offra un appoggio
alla forza di pressione cristiana nei confronti
della società, allora confondono la
chiesa con il regno di Dio, progettano una
cristianità che appartiene al passato, che
non può essere risuscitata e che, soprattutto,
contraddice la buona notizia di Gesù.
Nella costruzione dell'Europa i cristiani
sono tuttavia convinti che la politica rimane
determinante anche per la vita dei credenti
nella società. Giovanni Paolo II, nel
1988, di fronte al Parlamento europeo confessava
che nei secoli della cristianità sovente
si era perduto di vista il principio proclamato
per la prima volta da Gesù della distinzione
essenziale tra politica e religione,
tra ciò che compete a Cesare e ciò che compete
a Dio. Negare o sminuire questa
65
distinzione è una tentazione costante, mai
vinta una volta per tutte, e colpisce sia i
«difensori» di Dio che quelli di Cesare: così
sempre troviamo quanti vorrebbero identificare
la fede cristiana con l'ordine politico,
auspicando di fatto uno stato confessionale
e quanti vorrebbero specularmente
un ordine politico sostenuto e garantito dalla
religione, con l'esito della «religione civile».
Le tensioni tra chiese e governi si accenderanno
sempre più se il principio di laicità
sarà minacciato su un versante da un
laicismo che non consente alle fedi la manifestazione
pubblica e, sull'altro, da una
nuova forma di confessionalismo che vorrebbe
imporre a una società etnicamente,
culturalmente ed eticamente plurale la propria
posizione di pensiero e di prassi come
esclusiva.
Siate profeti, ma non entrate in politica.
In questa stagione in cui le dinamiche del
rapporto tra chiesa e politica, tra cattolici
e laici, tra fede e impegno nella polis subiscono
mutamenti accelerati, mi pare che
66
stiamo assistendo all'accendersi di un
conflitto soprattutto sulla chiesa italiana e sui
suoi interventi nella società civile in cui si:
colloca. Si sono sentite accuse di ingerenza,
lamentele per sconfinamenti dell'autorità
ecclesiastica - misurati anche sulla normativa
del concordato tra Santa Sede e Stato
italiano -, accuse di integralismo o di fondamentalismo,
mentre da parte dei credenti
si è denunciato un laicismo intollerante che
sconfinerebbe in dittature dovute a minoranze
agguerrite ed efficaci. Sì, il conflitto
è in atto ma, a mio giudizio, lo è anche per
una certa confusione, una mancanza di chiarezza
su ciò che veramente è la chiesa e su
cosa essa può o non può fare.
Innanzitutto andrebbe ricordato che non
tutti i cittadini cristiani residenti in Italia
appartengono alla chiesa cattolica, alla quale,
in considerazione della sua consistenza
numerica nettamente maggioritaria, ci riferiamo
normalmente quando usiamo il termine
«chiesa». Inoltre occorrerebbe avere
chiara la distinzione tra chiesa come comunità
di tutti i cattolici e gerarchia ecclesiastica,
sovente chiamata in causa con il termine
inglobante di chiesa. La chiesa è una
67
comunità che per i credenti appare anche come
un «mistero», una realtà cioè non pienamente
visibile, non interamente spiegabile,
non esaurientemente rappresentabile
in quanto è realtà complessa, che si manifesta
nella sua essenza soprattutto quando
celebra la liturgia eucaristica. Questa realtàchiesa, su cui soprattutto si è focalizzata
l'attenzione teologica dell'ultimo secolo, ha
in essa una struttura di guida episcopale (è
«gerarchica», per usare il termine proprio)
coadiuvata da presbiteri e da altre figure
che svolgono compiti diversi ma tutti tendenti
all'edificazione e alla compaginazione
in comunione dell'insieme dei battezzati.
Questa «istituzione» - papa, vescovi,
presbiteri, monaci, religiosi... - non è la
chiesa se non assieme agli altri fedeli, i cosiddetti
cristiani «laici».
Ne consegue che questi ultimi sono chiamati
a partecipare a pieno titolo all'edificazione
della polis, anche attraverso l'arte
del governo come necessità societaria che
concerne pure i cristiani. Per questo, senza
esenzioni, senza fuga dalla società, si impegneranno
nella politica con gli altri uomini
e donne non cristiani, restando
68
tuttavia sempre fedeli al vangelo e alle sue ispirazioni.
Spetta proprio a loro, in questa
compagnia di umanità, lottare per la giustizia,
per la pace, per la riconciliazione, per
il rispetto e la qualità della vita e della convivenza.
Nella seconda metà del secolo scorso,
i cristiani nel nostro paese hanno mostrato
questa loro capacità e, nonostante limiti
e contraddizioni rispetto al vangelo,
hanno compiuto un servizio alla società italiana,
servizio di cui oggi si comincia ad apprezzare
la portata. Sì, i cristiani devono
contribuire a rendere la polis più abitabile
e devono intervenire affinchè tutta la politica
sia veramente un servizio all'uomo e alla
società.
E la gerarchia? Attualmente, dopo la stagione
del partito dei cattolici, i fedeli impegnati
in politica si trovano in una situazione
di diaspora, ricca di elementi positivi,
senza aver ancora elaborato nuove modalità
di manifestare il proprio contributo specifico
di cristiani, e sovente faticano a spiegare
le proprie ragioni nell'agorà segnata
dalla laicità in termini antropologici comprensibili
ai non cristiani. In questa situazione,
la tentazione della gerarchia può
69
essere quella di entrare direttamente nell'azione
politica e di sostituirsi a quell'azione
che invece spetta proprio ai semplici cristiani.
È a questo punto che la materia si fa
delicata, ma l'insegnamento del Vaticano II
dovrebbe costituire ormai un magistero consolidato.
Dice il concilio:
La chiesa non desidera affatto intromettersi
nella direzione della società terrena; essa non rivendica
a se stessa altra sfera di competenza se
non quella di servire amorevolmente e fedelmente,
con l'aiuto di Dio, gli uomini (Ad gentes 12).
In questa linea, alla fine del 2002, la
Congregazione per la dottrina della fede ha
emanato un documento sull'impegno dei
cattolici in politica, dove si afferma che
«non è compito della chiesa formulare soluzioni
concrete - e meno ancora soluzioni
uniche - per questioni temporali che Dio
ha lasciato al libero e responsabile giudizio
di ciascuno».
Ecco perché la saggezza della tradizione
e anche le norme del diritto canonico vietano
che vescovi e presbiteri entrino nell'azione
politica e possano essere eletti negli
organismi che reggono la polis. Spetta ai
70
semplici fedeli l'edificazione della città terrena,
spetta a loro il discernimento e la prassi
più idonea a rendere questo mondo più
umano e maggiormente segnato da giustizia
e pace, spetta a loro, nel confronto democratico
con gli altri uomini, compiere le
scelte politiche e giungere a legiferare. I pastori,
dal canto loro, quali «sentinelle» nella
chiesa, devono assolutamente ricordare
a tempo e fuori tempo le esigenze del vangelo
in materia etica, perché il cristianesimo
è una fede, ma una fede «pratica» da
cui derivano opzioni e comportamenti precisi
in ambito morale. Ma questa predicazione
resterà profetica, puntuale, fatta con
parresia e discernimento, con «mansuetudine
e dolcezza» come richiede l'apostolo
Pietro, mantenendosi sempre nello spazio
pre-economico e pre-politico: sarà cioè una
richiesta fondata sulle esigenze assolute del
vangelo, ma lascerà che la loro traduzione
nella prassi sia un cammino percorso dai fedeli,
che dovranno con fedeltà e sapienza
obbedire al vangelo e trovare realizzazioni
condivise, per quanto possibile, anche dai
non cristiani. Non spetta alle figure ecclesiali
della gerarchìa entrare nella tecnica,
71
nell'economia e nella politica per trovarvi
specifiche soluzioni, anche perché se il vangelo
è sempre unitario nell'ispirazione, le
soluzioni per la sua realizzazione nella storia
sono state e restano multiple e differenti.
Non soluzioni tecniche, non ricette politiche,
ma la voce dei pastori sarà tanto più
autorevole quanto più capace di essere voce
del vangelo e non di risposte tecniche in
merito all'attuazione delle esigenze evangeliche.
Ecco perché è sbagliato sostenere,
come qua e là si sente ripetere, che i vescovi
pagano le tasse e sono cittadini di uno stato,
liberi di entrare direttamente in politica
come tutti i cittadini. A volte anche gli
stessi laici ammettono questa logica, ma
proprio per il fatto che considerano la chiesa
come ogni altro gruppo presente nella società:
il problema riguarda in modo decisivo
la comunità cristiana la quale non troverebbe
più la figura del pastore capace di
suscitare l'unità della comunità e di rappresentarla
nel suo insieme. Un pastore che
faccia politica non lede le leggi di una democrazia
in cui la chiesa è una delle tante
realtà religiose, ma inocula nella comunità
72
cristiana fermenti di divisione, sicché la sua
cura del gregge non è più cura di comunione.
Scriveva il cardinal Martini:
Per l'annuncio profetico e coraggioso del vangelo,
a volte sono necessari «grandi silenzi», a
volte «una parola chiara», ma gli uni e l'altra dovrebbero
avere sempre e solo un'eloquenza profetica.
Questo pare teoricamente assodato, ed è
ribadito anche dal consenso ecclesiastico che vieta
ai ministri del culto la militanza politica, però
di fatto è costantemente contraddetto da parole
che non stanno nello spazio della profezia.
Certo, in Italia la chiesa è una delle componenti
essenziali della società civile, e in
essa i pastori devono parlare senza timidezza
né intimidazioni, ma un'autentica deontologia
pastorale chiede loro di fermarsi sul
terreno delle indicazioni profetiche, senza
spingersi a suggerire o, peggio, a esigere soluzioni
tecniche, sia economiche che politiche,
che devono invece essere vagliate e
scelte dai fedeli nel confronto con le altre
componenti, anche non religiose, della società.
Non si tratta di creare steccati, ma di
leggere con serenità e sapienza le diverse
competenze e i rispettivi spazi, altrimenti
un intervento, pur permesso dalle regole
73
democratiche, contraddice quel sensus
ecclesiae che richiede distinzione dei compiti.
Quando i pastori, mossi dai principi del
vangelo, intervengono nella società con la
predicazione e la parola senza avanzare il
diritto di dettare un'etica pubblica per tutti
i cittadini, essi chiedono di essere ascoltati,
consigliano, mettono in guardia, ma
non pretendono che la legge evangelica sia
tradotta in legge vincolante per tutti, se
non quando la coscienza di tutti è concorde
nel richiederlo: la chiesa accetta pacificamente
di entrare nell'azione e nell'agorà
con le proprie proposte, fa valere democraticamente
le proprie posizioni, ne mette in
luce le positività anche a livello antropologico
e sociale, ma non pretende di essere
l'unico criterio etico fondante la convivenza
civile.
Il vero cristiano sa comunicare la gioia.
Nel nostro orizzonte ci sono oggi due fenomeni
con cui l'evangelizzazione si trova
a fare i conti: l'indifferentismo della maggior
parte degli uomini delle nostre società
74
post-cristiane e il pluralismo religioso, dovuto
soprattutto alle migrazioni di credenti
di altre religioni nel nostro continente.
Entrambi mettono in crisi non solo le forme
e i modi, ma la stessa plausibilità dell'evangelizzazione:
sono fenomeni dolorosi
per la coscienza credente perché non la
contestano frontalmente, non la combattono
apertamente, ma affermano, con il loro
stesso esserci, che il cristianesimo può essere
insignificante e che si può vivere bene
anche senza di esso. L'indifferenza religiosa
pone la chiesa di fronte allo spettro della
propria possibile insignificanza e inutilità,
mentre il pluralismo religioso fa intravedere
al cristianesimo la possibilità di doversi
considerare una proposta tra le altre, senza
titoli di superiorità né, tanto meno, di assolutezza.
L'indifferenza di chi è deluso dalla fine
delle ideologie, l'indifferenza di ex credenti
frustrati nella loro attesa di un rinnovamento
ecclesiale, l'indifferenza dell'homo
technologicus convinto di poter dominare
tutto attraverso la tecnica appare ai cristiani
come enigmatica e grande nemica. Eppure,
li stimola a porsi domande salutari:
75
perché il cristianesimo ha cessato di essere
interessante agli occhi di molti? E i cristiani,
sono essi stessi davvero «evangelizzati»,
così da poter essere efficaci «evangelizzatori»?
Sanno davvero esprimere e comunicare
la loro peculiarità, la loro «differenza»?
Non dimentichiamo che l'indifferenza
cresce man mano che scompare la differenza!
Del resto, il cristianesimo è un'offerta,
non un'imposizione, e non pretende di avere
il monopolio della felicità, ma afferma di
trovarla nella vita secondo Gesù Cristo. Il
fatto che vi siano degli atei, allora, non fa
che rafforzare la scelta di libertà che sta alla
base di una vita cristiana. Il problema serio,
se mai, è che non siano i cristiani stessi
e le chiese a produrre atei con i loro atteggiamenti
disumani e intolleranti, con la pratica
dell'autosufficienza e del non ascolto.
Quanto al pluralismo religioso, occorre
non essere astratti: non si incontra mai
l'Islam o una religione, bensì uomini e donne
che appartengono a determinate tradizioni
religiose e per i quali questa appartenenza
è un aspetto di un'identità molteplice e non
monolitica. In questo «camminare accanto»,
in questo vivere gli uni a fianco degli altri,
76
i cristiani non devono imboccare vie apologetiche
né assumere atteggiamenti difensivi
o, peggio ancora, aggressivi, ma devono
saper creare spazi di vita e di accoglienza
in vista dell'edificazione di una polis non
semplicemente multiculturale e multireligiosa
ma interculturale e interreligiosa. Qui
più che mai i cristiani sono chiamati a creare
spazi comunitari a partire dalla loro capacità
di essere uomini e donne di comunione
e a rendere le loro chiese autentiche
«case e scuole di comunione» per tutti gli
uomini. Il cammino di evangelizzazione richiede
conoscenza dell'altro e della sua fede,
capacità «pentecostale» di parlare la lingua
dell'altro, di farsi prossimo in senso
evangelico di chi si è fatto vicino a noi fisicamente,
mostrando così di credere nell'unico
Padre e di riconoscere la fraternità universale.
Di fronte all'altro per lingua, etnia,
religione, cultura, usi alimentari e medici,
prima di evangelizzare occorre imparare
l'alfabeto con cui rivolgersi a lui, manifestando
concretamente una vicinanza e una
simpatia «cordiali». Solo in questo modo si
potrà «costruire una casa comune per l'umanità
nella quale Dio possa vivere».
77
Oggi ai cristiani è chiesto di non venir
meno al loro compito di annunciare il vangelo,
ma questo annuncio non può essere
disgiunto da una buona comunicazione, un
comportamento limpido, una pratica cordiale
dell'ascolto, del confronto e dell'alterità.
Sì, l'annuncio cristiano non deve avvenire
a ogni costo, né attraverso forme arroganti,
né con un'ostentazione di certezze
che mortificano o con splendori di verità
che abbagliano. Infatti, come ricordava già
Ignazio di Antiochia all'inizio del II secolo:
«il cristianesimo è opera di grandezza, non
di persuasione».
Paolo VI ha più volte chiesto alla chiesa,
in vista dell'evangelizzazione, di «farsi dialogo,
conversazione, di guardare con immensa
simpatia al mondo perché, se anche il
mondo sembra estraneo al cristianesimo, la
chiesa non può sentirsi estranea al mondo,
qualunque sia l'atteggiamento del mondo
verso la chiesa». Ecco perché occorre innanzitutto
che i cristiani siano loro stessi
«evangelizzati», discepoli alla sequela del
Signore piuttosto che militanti improvvisati:
così sapranno mostrare la «differenza»
cristiana. I cristiani non cerchino
78
visibilità a ogni costo, non rincorrano la sovraesposizione
per evangelizzare, non si
servano di strumenti forti di potere ma, custodendo
con massima cura, quasi con gelosia,
la Parola cristiana, sappiano innanzitutto
essere testimoni di quel Gesù che ha
raccontato Dio agli uomini con la sua vita
umana.
Il primo mezzo di evangelizzazione resta
la testimonianza quotidiana di una vita autenticamente
cristiana, una vita fedele al
Signore, una vita segnata da libertà, gratuità,
giustizia, condivisione, pace, una vita
giustificata dalle ragioni della speranza.
Questa vita improntata a quella di Gesù potrà
suscitare interrogativi, far nascere domande,
così che ai cristiani verrà chiesto di
«rendere conto della speranza che li abita»
e della fonte del loro comportamento. Per
questo servono uomini e donne che narrino
con la loro esistenza stessa che la vita
cristiana è «buona»: quale segno più grande
di una vita abitata dalla carità, dal fare
il bene, dall'amore gratuito che giunge ad
abbracciare anche il nemico, una vita di servizio
tra gli uomini, soprattutto i più poveri,
gli ultimi, le vittime della storia?
79
Teofilo di Antiochia, un vescovo del II secolo,
ai pagani che gli chiedevano «mostrami il
tuo Dio», ribaltava la domanda: «mostrami
il tuo uomo e io ti mostrerò il tuo Dio»,
mostrami la tua umanità e noi cristiani, attraverso
la nostra umanità, vi diremo chi è
il nostro Dio. I cristiani del xxi secolo possono
dire questo? Sanno mostrare una fede
che plasma la loro vita a imitazione di quella
di Gesù, fino a far apparire in essi la differenza
cristiana? La loro vita propone una
forma di uomo, un modo umano di vivere
che racconti Dio, attraverso Gesù Cristo?
Altrimenti, come potranno essere credibili
nell'annuncio di una «buona notizia»,
se la loro vita non riesce a manifestare anche
la «bellezza» del vivere? Nella lotta di
Gesù contro ciò che è inumano, nella lotta
dell'amore, c'è stato spazio anche per un'esistenza
umanamente bella, arricchita dalla
gioia dell'amicizia, circondata dall'armonia
della creazione e illuminata da uno sguardo
di amore su tutte le realtà più concrete di
un'esistenza umana. Perché anche le gioie
e le fatiche che il cristiano incontra ogni
giorno diventino eventi di bellezza occorre
una vita capace di cogliere sinfonicamente
80
la propria esistenza assieme a quella degli
altri e del creato intero.
Così, la vita del cristiano che vuole annunciare
Gesù come «uomo secondo Dio»
sarà anche, a imitazione di quella del suo
Signore, una vita felice, beata. Certo, non
in senso mondano e banale, ma felice nel
senso vero, profondo, perché la felicità è la
risposta alla ricerca di senso. Tale dovrebbe
essere la vita cristiana: liberata dagli idoli
alienanti come dalle comprensioni svianti
della religione, contrassegnata dalla speranza
e dalla bellezza. I grandi maestri della
spiritualità cristiana hanno sempre ripetuto:
«O il cristianesimo è filocalia, amore
della bellezza, via pulchritudinis, via della
bellezza, o non è»! E se è via della bellezza
saprà attirare anche altri su quel cammino
che conduce alla vita più forte della morte,
saprà essere narrazione vivente del vangelo
per gli uomini e le donne di questo
nostro tempo.
81
III.
Dialogare e accogliere l'altro.
Chiesa del dialogo, lo scisma sommerso.
Dal sinodo dei vescovi sul tema dell'eucaristia,
vissuto a Roma nell'ottobre 2005,
sono emerse anche due indicazioni che, seppur
di carattere procedurale, appaiono molto
significative. Innanzitutto, Benedetto
XVI ha voluto che ci fosse in conclusione
dei lavori di ogni giorno lo spazio per un libero
confronto tra i vescovi, con interventi
e reazioni spontanee, senza previa stesura
del testo; poi il papa ha stabilito che le
«proposizioni» finali, cioè le proposte emerse
dal confronto sinodale e destinate a essere
da lui riprese per l'elaborazione di una
sua «esortazione postsinodale», fossero rese
pubbliche integralmente subito, offrendole
così alla riflessione di tutti i cristiani.
Mi paiono segni di una direzione ben precisa:
non si ha paura di far conoscere la fatica,
il confronto e anche la pluralità di
82
posizioni che esiste nel corpo episcopale e,
quindi, si invita anche la chiesa nel suo
complesso ad approfondire, a ricercare, a
dibattere i problemi emergenti.
Lo ritengo un dato assai importante, soprattutto
nella stagione che stiamo vivendo.
In questi decenni dopo il concilio, infatti,
i cattolici hanno fatto indubbiamente grandi
passi nell'acquisizione di una maturità
della fede, di un'assiduità con la parola di
Dio contenuta nella bibbia, si muovono
sempre di più verso una «fede pensata» ed
è vistoso il loro impegno nel servizio agli ultimi
e ai poveri. Tuttavia, a giudizio di molti,
manca ancora qualcosa affinchè la comunione
ecclesiale sia davvero il respiro
della chiesa. Il giudizio di molti, all'interno
e all'esterno della chiesa, individua una
situazione a volte tranquilla, altre volte stagnante,
altre ancora silente, con un laicato
che non ha voce e appare soffrire di sottoesposizione.
Ci sono tante parole, forse
anche troppe parole, perché si sono moltiplicati
gli incontri ecclesiali con dimensioni
oceaniche, ma si sono rarefatti gli spazi
di dialogo e di confronto, privilegiando l'aspetto
del «vedere» rispetto all'ascoltare.
83
C'è ormai un'inflazione delle cosiddette
«testimonianze»: si enfatizza la presenza di
uomini e donne carismatici, li si esibisce invitandoli
a parlare di sé, della loro storia,
degli aspetti eclatanti delle loro vicende e
questo a scapito della riflessione, dell'attenzione
al feriale della vita cristiana, trascurando
la laboriosa fatica della ragionevolezza
della fede. In parallelo, sovente appaiono
dichiarazioni perentorie e sicure da
parte di organizzazioni ecclesiali, che tuttavia
assai raramente sono esito di un confronto
e di un dialogo interno.
Chi ha conosciuto il postconcilio ricorda
certo le forti tentazioni, cui a volte si è anche
ceduto, di contestazione e di contraddizione
della comunione ecclesiale, ma ricorda
anche il coraggio, la passione, la volontà
di esercitare la propria responsabilità
nella vita ecclesiale. A quella stagione, segnata
anche dalla conflittualità, è subentrato
non un vissuto di comunione più profondo
e praticato nel quotidiano, ma un appiattimento,
una stanchezza che a volte
lascia spazio alla tentazione di non partecipare
più al cammino ecclesiale. Va confessato:
esiste purtroppo quello che qualcuno
84
ha definito uno «scisma sommerso», la presenza
di cristiani che se ne vanno per la loro
strada.
A volte mi chiedo se, logoratisi per abuso
di passione per il confronto, i canali di
comunicazione non si siano intasati rendendo
impraticabile lo scambio dialogico
tra i cristiani e tra i fedeli e l'autorità ecclesiale.
Questo dato non dovrebbe rallegrare
nessuno, neanche chi come guida è
chiamato a svolgere un magistero, perché
questa acquiescenza non significa maggiore
obbedienza cristiana, né maggior senso
della comunione: appare piuttosto come pigrizia
spirituale, come mancanza di ricerca,
come delusione patita nel tentativo di
discernere volti della chiesa più conformi al
vangelo.
Eppure, paradossalmente, tutti vogliono
dialogare con tutti all'esterno della chiesa.
Ma una chiesa che pretende di comunicare,
di dialogare con i non cattolici e non si
mostra capace di avere dialogo al proprio
interno non è credibile: è una questione di
semplice coerenza. Paolo VI, quando affrontò
il tema del dialogo, lo considerò non
una strategia alla ricerca di maggiore
85
efficacia, ma un problema di fondo, di identità
della chiesa stessa. Se una parola deve essere
dialogo e confronto con chi non è cattolico,
questa parola deve esserlo già all'interno
del corpo, dell'organismo che vuole
dialogare e comunicare: per poter allargare
i cerchi del dialogo, è necessario promuoverlo
innanzitutto nello spazio ecclesiale,
all'interno della chiesa cattolica, tra i suoi
figli. Saper ascoltare tutti, dare la parola a
tutti e, quindi, parlare è ciò che caratterizza
uno spazio in cui è possibile il formarsi
di un'opinione pubblica, il recupero di quella
parresia, di quella franchezza e libertà di
parola che fa parte dello statuto cristiano.
Pio XII nel 1950 denunciava la mancanza
di opinione pubblica nella chiesa:
Là dove non appare nessuna manifestazione
di opinione pubblica, là dove si constata una sua
reale inesistenza [...] occorre vedervi un vizio,
un'infermità, una malattia della vita sociale. Così
anche in seno alla chiesa: essa, corpo vivente,
mancherebbe di qualcosa di vitale se l'opinione
ecclesiale mancasse, e questo sarebbe un difetto
che ricadrebbe sui pastori e sui fedeli.
Si, sui fedeli, perché non si assumono
questa responsabilità insita nel loro
86
battesimo, ma anche sui pastori che non la incoraggiano
o addirittura la ostacolano o la
rendono muta. Le parole di Pio XII sono
da riproporsi ancora oggi e ci interpellano,
perché non giova a nessuno far credere che
la vita ecclesiale funzioni in una unanimità
formale.
Una chiesa veramente «comunionale»
è anche quella in cui la libertà è vissuta e
assunta responsabilmente dal cristiano, il
quale percepisce come auspicata la propria
voce, anche qualora risuonasse differente.
Non credo di essere il solo a sognare delle
comunità e delle chiese in cui, senza scadere
nella divisione, senza essere preda del detestabile
spirito della contestazione e del
più attestato spirito della mormorazione, si
abbia il coraggio e la libertà di esprimere
anche un «dissenso leale» là dove non è richiesta
l'unità della fede. La chiesa non ha
nulla da perdere ma tutto da guadagnare se
riesce a mostrare che il prendere la parola,
prima di essere un rischio, è una responsabilità,
cioè un rispondere a un corpo di cui
si fa parte, a una comunione plurale costruita
giorno dopo giorno.
I vincoli di comunione che devono essere
87
rispettati all'interno della comunità cristiana
chiedono anche la pratica dell'obbedienza
ai pastori, ma non escludono mai
confronto e dialogo: quando si afferma che
la vita della chiesa non è riducibile a una
«democrazia» non si vuole affermare che
essa è autocrazia o monarchia, bensì che si
tratta di una realtà teologale in cui la presenza
dello Spirito crea il «senso della fede»
e dà la possibilità del discernimento
nella saldezza e nell'unità dell'intero corpo
ecclesiale. I cristiani sappiano impedire il
profilarsi di una loro caricatura, che li delinea
incapaci di pensare da se stessi: chi
esercita il diritto di parlare e chi ha il compito
di conferire ordine all'esercizio della
parola siano entrambi servi della parola e
della comunione. Ne trarrà beneficio non
solo la vita ecclesiale, ma ogni altro confronto
nella nostra società plurale.
Un solo Dio, molti modi per dirlo.
Fin dalle sue origini il cristianesimo è
plurale: l'unico Dio narrato da Gesù Cristo
può essere ridetto al mondo solo in una
88
pluralità di espressioni. Non a caso la chiesa
ha riconosciuto canonici quattro vangeli, e
non uno solo, e li ha accolti accanto a una
molteplicità di scritti del Nuovo Testamento
che rendono una testimonianza multiforme
all'«unico Signore, Gesù Cristo»
(iCor 8,6). Non la fissità di un libro, dunque,
ma la dinamicità di un evento suscitato
dallo Spirito Santo, che è la libertà di
Dio, è all'origine del cristianesimo. Questo
pluralismo di espressioni testuali, cui corrisponde
a livello storico e di fede un pluralismo
di espressioni ecclesiali, di concezioni
cristologiche, di usi liturgici, di accenti
spirituali, riflette l'inesauribilità del
mistero di Dio rivelato in Cristo Gesù e accolto
in culture diverse: schematicamente
potremmo parlare di Marco come del vangelo
romano, di Matteo come del vangelo
antiocheno, di Luca come del vangelo greco
e di Giovanni come del vangelo efesino.
Non solo, la bibbia cristiana comprende
al proprio interno anche le Scritture d'Israele
con cui pertanto nutrirà un dialogo
perenne: l'alterità è al cuore delle Scritture
della chiesa e il dialogo con altre espressioni
religiose è inscritto nella vocazione
89
originaria del cristianesimo. Lungi dall'essere
«religione del libro», il cristianesimo
si presenta come interpretazione vivente
- nella diversità dei tempi e dei luoghi, delle
etnie e delle culture - della vita, morte e
resurrezione di Gesù Cristo: interpretazione
che è il compito storico delle comunità
cristiane.
Fin dagli inizi, l'unico Cristo da così origine
a diversi cristianesimi: innanzitutto quello
giudeo-cristiano (proprio dei discepoli
provenienti dall'ebraismo) e quello etnicocristiano (composto da «pagani» convertiti
al cristianesimo). Nella storia, infatti,
Cristo è sempre il Cristo «creduto», connesso
inscindibilmente a comunità di credenti
che gli danno un volto e lo narrano
agli uomini loro contemporanei. Questo dato
fa si che il cristianesimo abbia in sé gli
antidoti naturali a due costanti tentazioni
di ogni religione «rivelata»: il fondamentalismo
e l'integralismo. Se, infatti, le stesse
Scritture ritenute canoniche rimandano
a una pluralità di tradizioni e di interpretazioni,
come sarà possibile una loro lettura
fondamentalista? Come non tener conto
nei propri giudizi e nei propri
90
comportamenti, di altri testi biblici, di altri punti
di vista, di altre pagine di storia scritte da
credenti di diverse tradizioni ecclesiali? Va
ricordato che la bibbia è un'autentica biblioteca
i cui testi sono stati redatti in un
arco di mille anni, in un'area geografica che
spazia da Gerusalemme a Babilonia fino a
Roma, e che sono stati scritti in ebraico,
aramaico e greco. Rileggere la Scrittura come
un insieme di comprensioni dell'unico
mistero, rileggere la storia dei credenti in
Cristo come un libro in cui le pagine luminose
si alternano e si intrecciano a quelle
più oscure conduce allora a una salutare
prudenza nel considerare il proprio punto
di vista come l'unico ammissibile.
Anche l'integralismo, - la rigida certezza
dei «puri e duri» che rigettano ogni alterità
fino a escluderla anche violentemente dai
propri orizzonti, - è minato alle radici dal
pluralismo fondante la fede cristiana: dalla
varietà degli scritti del Nuovo Testamento
e dal pluralismo delle espressioni di fede
della chiesa antica viene un appello a vivere
la propria fede non contro gli altri, ma in
costante ricerca di comunione, attraverso
l'unificazione interiore, la ricomposizione
91
fraterna dei conflitti e l'accoglienza del dono
offerto dalla diversità dell'altro.
Non si dimentichi che, in particolare attraverso
gli scritti di san Paolo, la chiesa ha
compreso se stessa attraverso la categoria
del corpo: come tale è formata da una pluralità
di membra differenti, che tali restano
ma che sono chiamate a collaborare, a
riconoscersi reciprocamente, confessando
di avere bisogno l'una dell'altra. La diversità
è costitutiva dell'unità ed è essenziale
alla comunione, così come l'alterità è essenziale
all'identità. La diversità nella chiesa
e tra le chiese appartiene all'humus del
cristianesimo e non va eliminata: sempre lo
stesso Spirito manifesterà, nelle diverse persone
e culture, comprensioni plurali, differenziate,
dell'unico volto di Cristo in cui risplende
la gloria dell'unico Dio Padre di
tutti.
Un'importante conseguenza, che discende
dalla percezione del modello della comunione
plurale come costitutivo del cristianesimo,
riguarda la concezione della
verità e il rapporto tra verità e definizioni
della verità. Per il Nuovo Testamento e la
chiesa nascente, la verità è la persona di
92
Cristo, mentre nella tradizione successiva
essa diviene sempre più un complesso dottrinale:
la verità prodotta e definita dalla
chiesa stessa. Così la definizione della verità
rischia di sostituirsi alla verità vivente,
Gesù Cristo risorto. Occorre percepire che
le definizioni della verità, ovviamente diverse
nei diversi contesti linguistici e culturali
(semitico e greco, orientale e occidentale,
europeo e africano...), stanno all'interno
del grande movimento della ricerca della
verità, dell'approssimazione - sempre imperfetta
- alla verità. Se a questa coscienza
umile si sostituisce la pretesa di possedere
la verità (confusa con la sua definizione)
si finisce in un imperialismo culturale,
in cui l'inculturazione del cristianesimo viene
fatta prevalere sul Cristo stesso e in cui
il rivestimento culturale assume maggiore
importanza del vangelo. Allora la violenza,
il fanatismo, l'intransigenza saranno inevitabilmente
in agguato.
La comunione plurale che discende dalla
rivelazione biblica dovrebbe anche aiutare
un ripensamento dell''universalismo, tendenza
che ha suscitato nella storia atteggiamenti
di violenza e persecuzione da parte
93
dei cristiani. Perché l'universalismo non
degeneri in totalitarismo, va pensato come
universale bisogno dell'altro e declinato come
vocazione all'esilio, alla diaspora, alla
dispersione tra le genti, le culture: la fede
cristiana non può coincidere con una cultura
o un'etnia o un sistema di pensiero. Essa
è transculturale e il suo lavoro di
inculturazione deve essere perciò accompagnato
da un'opera di deculturazione per non
rischiare di spacciare per vangelo ciò che è
forma culturale.
Ora, per dar spazio a questo pluralismo
vitale e vivificante occorrerà sempre più
imparare l'arte dell'ascolto. Non si tratta di
cercare nell'altro ciò che vi è di più simile
a me e al mio ambito religioso e culturale
- questa sarebbe la smentita più netta del
dialogo - bensì di cogliere l'altro e di accoglierne
l'alterità, cessando di vedere in
lui solo ciò che mi assomiglia e che riesco a
comprendere. Per questo un dialogo autentico
da spazio all'ascolto, che è vita insieme,
condivisione dei propri beni spirituali,
frequentazione reciproca per imparare i rispettivi
linguaggi espressivi, apprendimento
di ciò che di me e della mia tradizione
94
ferisce o risulta irricevibile all'altro. Così
può avvenire il lento processo di far cadere
le barriere dei pregiudizi (i giudizi pronunciati
prima dell'ascolto, dell'incontrc
del faccia a faccia con l'altro) e di conoscere
i veri punti di distanza. In questo senso è
sempre più importante imparare a pensare
con l'altro: pensare insieme gli stessi problemi
e affrontarli tenendo conto degli altri
aiuta a sprovincializzarsi, a uscire dalle logiche
particolaristiche, dagli atteggiamenti
di ripicca, di rivincita, di forza, di superiorità
che spesso intaccano i rapporti di dialogo
tra confessioni e religioni.
Il pluralismo cristiano non scade a relativismo
se non si dimentica che tra me e
l'altro, tra la mia chiesa e l'altra o le altre
chiese sempre deve regnare, come terzo salvifico,
Gesù Cristo. Il «terzo» è figura di
ciò che fa stare insieme mentre distingue;
accomuna mentre personalizza, e sempre
dilata sia l'uno che l'altro, li proietta ciascuno
fuori di sé, in un movimento di creatività
e vitalità. Per un corretto posizionamento
della chiesa e delle chiese nel mondo
e nella storia è fondamentale ricordare
il regno di Dio come «terzo» oltre la chiesa
95
e le chiese: esse infatti vivono del proprio
superamento nel Regno veniente. Se
accolgono questa dinamica, i cristiani sapranno
ritrovare la necessaria comunione
per essere parola eloquente di salvezza per
il mondo e per gli uomini, sapranno essere
continuo e armonico annuncio del futuro
del mondo in Dio. O, se si vuole, di Dio come
futuro del mondo.
Ascoltiamo lo straniero, smetterà di essere
estraneo.
Nella nostra società «occidentale», in seguito
dapprima all'urbanizzazione massiccia,
poi alla nascita dei quartieri residenziali
periferici e alla ricerca di ville e villette monofamiliari
nel verde, abbiamo assistito a
un progressivo «isolamento» delle nostre
case, ormai lontane parenti sia delle dimore
rurali aperte sui campi e alla sosta dei
viandanti, sia delle abitazioni di paese affacciate
su piazze e vie di convergenza e di
comunicazione, sia dei condomini popolari
dove l'affollamento andava di pari passo
con una spontanea solidarietà. Oggi la
96
dimora ideale pare essere una proprietà ben
delimitata da cinte, muri, siepi, cancelli,
protetta da sguardi indiscreti, difesa da porte
blindate, allarmi e congegni elettronici.
In un momento in cui la riflessione sulle
modalità e la qualità dell'accoglienza da riservare
agli stranieri che giungono tra di noi
si fa sempre più urgente, ci dovremmo interrogare
su come sia possibile che una nazione
e una società sviluppino prassi di ospitalità
e di inserimento del diverso nel proprio
tessuto culturale se i singoli, - persone
e nuclei familiari, - non sono più capaci, come
invece lo erano in una società più «arretrata»,
di aprire concretamente la porta
della propria casa al forestiero che bussa e
chiede magari solo di sedersi a tavola per
condividere un semplice pasto.
Non possiamo infatti dimenticare che le
case stesse appartengono al nostro «linguaggio»,
che anch'esse dicono la nostra disponibilità
o meno all'ospitalità e al dialogo.
Non si tratta di rinunciare ad avere un
luogo in cui poter vivere un certo silenzio,
una dimensione raccolta, singola o familiare
che sia («metti una siepe tra te e il vicino
di casa - diceva la sapienza antica - se
97
vuoi vivere bene con lui»), ma la qualità
della nostra vita sociale dipende anche dalla
nostra capacità di non trasformare questa
custodia dell'intimità in un'ossessione
offensiva degli altri o in una barriera invalicabile
che imprigiona per primo colui che
l'ha costruita. E ancora una volta il difficile
eppure fecondo equilibrio tra alterità e
identità a essere in gioco in quella che potrebbe
sembrare una semplice questione architettonica
o urbanistica. D'altronde chi
non si rende conto che oggi la ricerca della
sicurezza va di pari passo con la perdita della
tranquillità? Facciamo di tutto, e chiediamo
che lo stato tutto predisponga per la
nostra sicurezza, ma ci sentiamo e siamo
sempre meno tranquilli, perché la salvaguardia
a ogni costo di uno spazio «nostro»
non porta automaticamente con sé la serenità
nell'abitarlo, anzi, sovente si rivela un
ulteriore fattore ansiogeno.
Ed è li, sulla soglia, che avviene il primo
gesto di comunicazione: il saluto. Non qualcosa
di convenzionale, ma un segno, che radicato
in una determinata cultura, sia capace
di esprimere all'ospite che egli è il benvenuto
e che la sua venuta desta gioia.
98
Sappiamo per esperienza che non sempre
questo atteggiamento nasce spontaneo: l'estemporaneità
dell'arrivo, l'abitudine o la
diffidenza, oppure l'aspetto e il comportamento
del nuovo arrivato rischiano sovente
di indisporci verso la «novità». Ma non
dimentichiamo che si sceglie di ospitare chi
sopraggiunge prima ancora di conoscerlo,
prima di valutarlo, prima di discernere perché
è venuto ! La sua presenza è comunque
e sempre «occasione», tempo favorevole,
opportunità per vivere il mistero fecondo
dell'accoglienza, del riconoscerci capaci di
accogliere e della radice di questa capacità:
l'essere stati un giorno a nostra volta «accolti»,
accettati per il fatto stesso di essere
venuti all'esistenza.
E il saluto di benvenuto introduce l'ospite
non solo nella casa, ma nello spazio
privilegiato dell'accoglienza: l'ascolto. Si
tratta di ascoltare innanzitutto la «presenza»
dell'altro, prima ancora delle sue parole,
e cercare di percepire qual è il suo bisogno.
A volte chi è ospitato, soprattutto se
straniero, fatica a parlare, resta come incapace
di esprimersi, mostra di avere un altro
linguaggio. Ascoltarlo, allora, è compito
99
primario ed essenziale. Si tratta di ascoltare
quello che l'ospite vuole comunicare, e l'ascolto
autentico ha sempre una dimensione
di obbedienza, quasi di sottomissione; non
si può avviare un dialogo assalendo subito
di domande il nuovo arrivato, non possiamo
essere disponibili all'incontro solo se
avviene secondo i nostri schemi e desideri.
Allora, per ascoltare veramente, è necessario
far cessare dentro di sé ogni parola precedentemente
depositatasi, far tacere i rumori
interiori, creare uno spazio di silenzio
in cui la parola dell'altro possa risuonare
con chiarezza.
E' nell'ascolto che ci si confronta anche
con la paura, sentimento che non va rimosso,
bensì affrontato: non serve a nulla, infatti,
negare la paura; si tratta, invece, di
leggerla, di sottoporla a discernimento, unica
condizione per sperare di vincerla razionalmente.
La diversità tra l'ospitante e l'ospitato
è reale, e all'incontro tra i due si
giunge non sminuendola, ma accogliendola
come realtà che interpella, pone domande
cui si è chiamati a dare risposta, proprio nel
confronto tra la propria identità e quella
dell'ospite sconosciuto. Lo straniero cessa di
100
essere «estraneo» quando lo ascoltiamo, nella
sua irriducibile diversità, ma anche nella
sua umanità a noi comune. Si potrebbe dire
che entrambi gli «ospiti» (non a caso in
molte lingue il termine indica sia il soggetto
«attivo» che quello «passivo» dell'ospitalità)
devono innanzitutto mostrare la propria
condizione umana basilare, ascoltarla,
in modo che si apra la via della conoscenza
reciproca e del dialogo.
Ora, ascoltare non è mai atteggiamento
passivo: l'ascolto è attenzione e volontà di
una presenza che accoglie, e come tale abbisogna
di molte energie e di grande forza
di volontà. Ascoltare è far tacere se stessi
per dare peso, fiducia alla parola dell'altro.
L'altro non lo si ascolta mai invano, ma occorre
lasciarsi incontrare da lui: ascoltare
è ospitare l'altro dentro di noi, ritrarsi per
lasciare campo libero anche all'altro. Un
ascolto autentico richiede quindi che si rinunci
ai pregiudizi, e ognuno ne possiede
di fronte a ciò e a chi è sconosciuto. Purtroppo,
una tentazione costante, forse accentuatasi
in questi ultimi tempi di migrazioni
accelerate, è quella di giudicare l'ospite,
- che è una persona sconosciuta nel
101
suo carattere e nelle sue modalità di espressione,
- sulla base di tipizzazioni fondate su
criteri di giudizio popolari, ereditati da un
passato anche remoto, conseguenze di una
memoria collettiva non ancora purificata.
Occorre invece far tacere questo tipo di
«lettura» dell'altro, sospendere il giudizio e
impiegare tutte le energie, non solo quelle
intellettuali, per ascoltare l'ospite. È lui che
deve dire chi è, narrando se stesso, svelando
quello che intende svelare, custodendo
quello che ritiene prematuro far conoscere:
noi non dobbiamo definirlo a partire da paradigmi
e convinzioni della nostra fede, della
nostra cultura, della nostra visione politica.
Davvero, ascoltare non è semplicemente
un atteggiamento di orecchi, ma anche e
soprattutto un atteggiamento interiore.
Un'ospitalità di questo tipo - antica quanto
il mondo, specialmente nelle società
nomadiche o contadine - può sembrare oggi
un'utopia: tutto nelle nostre leggi, nei nostri
costumi, nella nostra gestione del tempo,
dello spazio e della proprietà sembra
andare nella direzione opposta. Eppure, se
saremo capaci di praticarla, a livello individuale
e collettivo, ne riceveremo un dono
102
inatteso: quasi inavvertitamente finiremo
per scoprire che facendo spazio all'altro
nella nostra casa e nel nostro mondo interiore,
la sua presenza non ci sottrarrà spazio
vitale, ma allargherà le nostre stanze e
i nostri orizzonti, così come la sua partenza
non lascerà un vuoto, ma dilaterà il nostro
respiro fino ad abbracciare il mondo
intero.
Sei diverso da me, quindi ti accetto.
Da decenni ormai vi è anche in Italia una
variegata presenza di immigrati musulmani,
anche se a lungo l'immaginario popolare
li ha considerati tutti «marocchini», eppure
sembra che di questa presenza e dei
problemi che essa pone alla nostra società
ci si sia accorti solo a partire dall'ii settembre
2001. E pensare che già alla fine degli
anni Cinquanta - ero all'epoca un giovane
militante in politica - vi era un serio
impegno di ricerca che guardava non solo
verso l'unità europea, ma anche al Mediterraneo,
al complesso rapporto tra l'Europa
e quel mondo arabo che allora stava
103
emergendo sulla scena internazionale come soggetto
politico autonomo nello sgretolarsi
della stagione coloniale.
Anni di immigrazione dai paesi musulmani
hanno prodotto in Italia, come già è
avvenuto in altri paesi d'Europa, reazioni
in costante oscillazione tra gli estremi di
un'ingenua generosità che sostiene un'incondizionata
apertura delle frontiere e una
rigida chiusura che si rifiuta di vedere il
problema o che pretende di risolverlo con
la forza. Così non si riesce ad avviare una
ricerca seria e attenta sul fenomeno, una riflessione
da parte dell'insieme della società
sui nodi e gli sviluppi che questa presenza
«altra» in mezzo a noi comporta e richiede:
si tratta non tanto di prevedere il futuro ma
di prepararlo. Gli interrogativi urgenti che
la situazione pone richiedono innanzitutto
l'onestà di ammetterli e la volontà di affrontarli,
condizioni indispensabili per cercare
poi vie di soluzione. La compresenza
di cittadini italiani e di immigrati quali
cambiamenti produce negli uni e negli altri?
Come avviene l'incontro delle differenze?
Come fronteggiare paure e rifiuti
verso una multiculturalità che molti vedono
104
avanzare in modo incontrollato? E ancora,
come credenti e istituzioni laiche affrontano
la novità di una presenza religiosa
diversa che appare si come minoranza,
ma corposa e manifesta, non più esile come
quelle finora conosciute di ebrei e protestanti,
peraltro appartenenti alla stessa tradizione
scritturistica?
Certo non è facile per una società monolitica
come la nostra accettare l'irrompere
di questa diversità religiosa e culturale e
la «cronaca» di questo incontro-scontro ce
lo ricorda ogni giorno: talora è questione
del velo islamico, talaltra della presenza del
crocifisso nelle aule scolastiche, oppure della
costruzione di nuove moschee, o ancora
della costituzione di classi composte unicamente
da allievi e allieve musulmane...
luoghi di frizione e di conflitto possono solo
aumentare se si continua a vivere nell'assenza
di un progetto che cerchi di individuare
una società sì multietnica e multiculturale,
ma anche capace di un confronto
e di un dialogo tali da non mortificare le diversità
ma anzi di potenziarle permettendo
loro di esprimersi nella rappacificazione e
in una cittadinanza comune.
105
Per questo va innanzitutto affermato un
no netto e definitivo all'assimiliazione che
vorrebbe rendere gli immigrati simili a noi,
negando le differenze. E la tentazione più
diffusa tra quella fetta di opinione pubblica
che alcuni amano definire «la gente»:
«gli immigrati - dicono costoro - sono
venuti a casa nostra, se non gli va bene vivere
come tutti gli altri, tornino a casa loro».
È chiaro che così facendo non si giunge a
nessuna cittadinanza comune, ma si
maschera di attaccamento alle tradizioni un
rifiuto dello straniero e della differenza che
questi comporta.
Un altro atteggiamento è quello di una
relativa tolleranza che non nega l'esistenza
degli immigrati né le differenze, ma che
auspica che ciascuno rimanga quello che è.
Quindi, inserimento di chi è diverso, ma in
una giustapposizione che impedisce la
conoscenza reciproca e l'incontro: è la logica
del ghetto, a volte accolta favorevolmente
anche da chi nel ghetto viene confinato.
Così, dietro una maschera di tolleranza si cela
un misconoscimento dell'altro, del suo essere
altro «per me», mentre ciascuno di noi
non può mai essere se stesso senza l'altro.
106
Il cammino da intraprendere dovrebbe
allora essere quello dell'integrazione: questa
riconosce e permette la differenza, ma chiede
che sia vissuta in un rapporto di alterità,
di scambio, in una logica di parità e di eguaglianza
che porta ciascuna delle parti a cambiamenti
fecondi per l'intera collettività.
L'integrazione, infatti, non solo permette
una crescita, una partecipazione attiva alla
vita sociale, ma suscita convergenze portatrici
di coesione e postula un futuro comune
in una società comune. Per questo l'integrazione
deve delineare condizioni e percorsi
per sfociare nella «cittadinanza» per
gli immigrati, situazione in cui è possibile
una reale e piena partecipazione alla vita
della polis con il riconoscimento di quei diritti
e doveri che sono comuni, appunto, a
tutti i cittadini. Ora, questo itinerario verso
la concittadinanza non passa solo attraverso
riconoscimenti giuridici, ma deve essere
intessuto giorno dopo giorno, in uno
scambio reciproco tra nativi e immigrati.
L'incontro con lo straniero, con chi ci è
estraneo, non è automatico: riconoscere
l'altro nella sua singolarità significa non solo
riconoscerne la dignità, ma anche accettarne
107
e rispettarne la libertà. Occorre fargli
spazio senza da un lato obbligarlo a ripudiare
ciò che porta con sé e lo definisce
- cultura, morale, religione... - e, dall'altro,
senza abdicare alla propria cultura; si
tratta di accogliere l'altro senza commisurarlo
a se stessi, assumendo il rischio di
mettere in gioco la propria identità e confrontarla
con quella dell'altro. Solo così si
può accendere il dialogo e fare l'esperienza
della conoscenza e della comprensione reciproca:
avventura straordinaria, in cui cadono
le false immagini che ci eravamo fatti
dell'altro, vengono smontate le caricature
e tolte le maschere permettendo all'altro
di definirsi e di porsi di fronte a noi nella
sua verità.
A questo punto sorge sovente un'obiezione,
sollevata da alcuni cristiani, ma soprattutto
da laici paladini dei cristiani che,
ogni volta che si parla di diritti dei musulmani,
invocano il principio della reciprocità:
«Noi lasciamo che costruiscano le loro
moschee accanto alle nostre chiese - osservano
questi zelanti difensori che magari
in chiesa non mettono mai piede - ma neiloro paesi non è consentito costruire
108
chiese...» Ma proprio chi non affievolisce la
propria fede cristiana, chi resta saldo nel
messaggio evangelico ricevuto, sa che lo statuto
del cristianesimo è sentirsi responsabili
dell'umanità senza pretendere reciprocità
alcuna, perché così si è comportato con
l'umanità il Dio della bibbia che ha avuto
una relazione asimmetrica con Israele, così
si è comportato Cristo con tutti coloro che
ha avvicinato e con la sua chiesa, così devono
comportarsi i cristiani con chi non
condivide la loro fede. I cristiani non dialogano
perché afflitti e contagiati dal relativismo
trionfante, ma perché il dialogo fa
parte del loro statuto costitutivo: farsi prossimo
dell'altro, ascoltare l'altro, fino a farsi
servo dell'altro.
Sì, non vi è altra via alla convivenza civile
che quella segnata da pace e da rispetto
reciproco e da una convergenza di sentimenti
riguardo alla vita sociale. E qui
occorre quella responsabilità che, come ricorda
Levinas, fin dal suo nascere è responsabilità
per l'altro: impresa non semplice
perché richiede un rapporto disinteressato
in cui appare la gratuità e il non cercare il
proprio interesse particolare bensì quello
109
comune. Sono atteggiamenti che non si improvvisano:
richiedono vigilanza, attenta riflessione,
disponibilità a cambiare, saldezza
di convinzioni. Solo così si potranno scongiurare
ghettizzazioni e contrapposizioni e
ci si potrà avviare, insieme, verso una società
e un mondo più abitabili.
110
Epilogo.
Pace, il sogno per cui combattere.
«Sognare il dolce sogno della pace»: chi
può dire di non nutrire o aver nutrito questo
desiderio così ben espresso dalle parole
di Kant? Credo nessuno, neppure tra quanti,
per realizzare quel sogno, sono fermamente
convinti di dover usare gli strumenti
della guerra. Eppure la pace continua a
essere relegata nel mondo dei «sogni», in
una «utopia» che non ha né luogo - come
vuole il suo nome - né tempo: la realtà ci
parla di guerre, di conflitti, di violenze che,
nel migliore dei casi, «sognano» sempre di
essere le ultime, pretendono di costituire le
dolorose e inevitabili premesse per una pace
duratura che tuttavia mai giungerà. Ma
davvero nulla si può inserire tra il sogno e
la realtà per rendere quest'ultima più simile
al primo? Davvero l'unica alternativa al
brusco risveglio da un bel sogno è il piombare
111
nell'angoscia di un incubo? No, forse
un esile spazio esiste, una fragile opportunità
è concessa tra l'illusione del sogno e la
tragica realtà delle cose: è l'ambito precario
dell'immaginazione, intesa non come fantasia
onirica bensì come respiro del pensiero,
come capacità di dare un volto a realtà
che non si vedono ma della cui esistenza
si è certi, nonostante tutto e contro ogni
evidenza.
«Immaginare la pace», questo il coraggioso
titolo di un Forum internazionale organizzato
dall'Accademia Universale delle
Culture nel dicembre 2002 a Parigi. Iniziativa
«visionaria» di un gruppo di intellettuali
dei cinque continenti presieduto da
Elie Wiesel che, fedeli a una loro pluriennale
tradizione, hanno voluto riunire per
un serrato dibattito testimoni e opinionisti
di varie culture e tendenze mettendoli a
confronto non solo tra di loro ma soprattutto
con un folto e appassionato pubblico
di giovani e studenti: una sorta di seminario
aperto, in cui educare alla convivenza
civile le nuove generazioni per aiutarle a
immaginare un altro mondo possibile. Sì,
nei giorni in cui si facevano più pressanti le
112
iniziative diplomatiche e più incalzanti i
preparativi militari per una guerra preventiva
all'Iraq, nei giorni in cui nulla veniva lasciato
all'immaginazione e tutto veniva pianificato
nei minimi dettagli da strateghi e
generali, accanto ai milioni di uomini e donne
che in tutto il mondo gridavano inascoltati
il loro desiderio di pace, vi era anche
chi non si rassegnava a rinunciare a
«pensare» vie nuove, a confrontare visioni
diverse, a progettare futuri più umani, a
scrutare orizzonti meno cupi.
Per singolare coincidenza, quelle parole
di speranza, pronunciate in un'ora buia per
l'umanità, hanno raggiunto il pubblico dei
lettori - attraverso la pubblicazione degli
atti, usciti in francese alla fine del 2003 proprio nei giorni in cui la cattura di Saddam
avrebbe voluto illudere molti che la
guerra aveva avuto ragione, che gli intricati
problemi che affliggono l'umanità si possono
sciogliere solo tranciando di netto il
loro nodo gordiano, che l'utopia della pace
è cosa da «anime belle» sdegnose di sporcarsi
le mani, disposte a lasciare ad altri il
lavoro sporco ma pronte poi a goderne i benefici.
Ora, leggere oggi quelle riflessioni
113
- e i dibattiti, a volte anche aspri, tra relatori
e pubblico - aiuta a tenere i piedi per
terra: infatti, come osservava uno dei partecipanti,
Paul Ricceur, «se dobbiamo immaginare
la pace è perché la guerra resta
l'accecante realtà». Storici, filosofi e sociologi
cercano allora di tracciare un percorso
storico del concetto e delle definizioni di
pace, mentre testimoni di aree lacerate dai
conflitti osano abbozzare una traduzione
nel quotidiano della pace possibile e inafferrabile:
pace tra i popoli, dialogo tra le
culture, viaggi verso l'altro si scontrano con
la violenza che abita ciascuno, con la degenerazione
degli antichi e moderni «codici
di guerra», con l'assenza di una cultura di
pace, con lo sconvolgimento di certezze
provocato dall'11 settembre.
Sì, «la pace appare oggi più che minacciata:
una visione dello spirito, forse persino
un'allucinazione, come una pellicola
translucida, un profumo volatile, l'ala di
un'ape, il sogno di un saggio che immagina
di essere una farfalla o di una farfalla che si
considera saggia», afferma Julia Kristeva.
E per questa scrittrice psicoanalista diventa
persino problematico «pensare la pace»,
114
perché «il discorso sulla vita ci fa difetto all'inizio
di questo terzo millennio... Molto
più che nello "scontro di civiltà", il deficit
della civilizzazione moderna risiede nella
nostra assenza di risposta alla domanda: cos'è
una vita? cosa significa "amare la vita"?»
Allora, conclude, «più che la coesistenza
pacifica tra religioni, è un'analisi radicale
delle loro logiche di vita che può
ancora salvarci».
In questo senso mi pare fondamentale
chiedersi come mai accade, - e il fenomeno
è talmente generalizzato a livello storico e
geografico che non si può negarne la caratteristica
di costante antropologica, indipendente
dalla specifica natura dei contendenti,
- che la religione, cioè quell'insieme
di convinzioni, norme di comportamento,
sentimenti e riti che mette in comunicazione
l'umano con il divino, inneschi pensieri
e azioni di guerra e non di pace? Nella dimensione
del divino non siamo abituati a
collocare l'anelito umano a una vita piena in
cui pace, giustizia, prosperità, salute, assenza
di dolore, gioia, amicizia possono trovare
la loro fonte e il loro culmine? Forse
la ragione fondamentale consiste nell'enorme
115
carica di «identità» e nella presunzione
di «verità» di cui le religioni sono portatrici.
Da un lato, infatti, è tale la loro capacità
di determinare, definire, identificare un
popolo, una nazione ma anche una famiglia,
un singolo, che finiscono per diventare il
«collante» ideale per qualunque impresa
che richieda all'uomo un superamento di se
stesso, nel bene come nel male: così, in nome
della religione, da «credente» riesco a
compiere gesti di abnegazione che mi sarebbero
preclusi come semplice essere umano,
ma anche gesti contro i miei simili che,
come uno di loro, mi ripugnerebbe compiere.
Sì, è la religione che mi fornisce la
ragione per cui vale la pena dare la vita affinchè
gli altri abbiano la vita, ma è la distorsione
della stessa religione che può portarmi
a dare la vita perché altri abbiano la
morte.
Dall'altro, intimamente legato all'identità
che la religione è in grado di offrire, vi
è il concetto di «verità». Ora, finché questa
«verità» viene cercata, scrutata, riconosciuta,
accolta come dono destinato all'umanità
intera, essa è parte integrante,
fondamento di quella «pace» come vita piena
116
che l'uomo ricerca. Ma quando la «verità»
viene concepita come possesso esclusivo,
come conquista da difendere e da imporre
agli altri, essa innesca l'ostilità verso
gli estranei e il «rigetto» verso i simili.
Capire la natura profonda di questi meccanismi
è essenziale per invertire il senso di
marcia delle enormi potenzialità insite nelle
religioni: convertirne le finalità, anzi ripristinare
il loro orientamento originale, teso
alla piena realizzazione dell'essere umano,
al ristabilimento di una condizione di
pace cosmica, fatta di armonia interiore,
di concordia con i propri simili, di serena
convivenza con tutte le creature, di amore
condiviso. Non ci sorprende allora che
la pace sia realtà difficile da costruire e delicata
da preservare, capiamo perché essa
richieda sforzo interiore e riflessione collettiva,
perché sia invece più veloce e pratico
ricorrere alle schematiche identificazioni
e contrapposizioni religiose in modo
che i «militanti» non debbano troppo riflettere
sulla bontà della loro causa e dei
mezzi scelti per perseguirla: se «Dio lo vuole»
i dubbi cadono e tutto è lecito, se «Dio
è con noi» è certamente contro i nostri
117
nemici, se «Dio benedice i nostri eserciti» la
guerra che combattiamo è «santa».
Immaginare la pace, allora, significa anche
liberarsi da questi schemi mentali, dare
spazio e possibilità di espressione all'altro,
alla sua identità e alla sua verità: immaginare
la pace significa, come ricorda ancora
Paul Ricceur, «non sognarla o allucinarla,
ma concepirla, volerla e sperarla. La pace,
infatti, in ultima istanza, è più dell'assenza
della guerra o della sospensione della
guerra: è un bene positivo, una condizione
di felicità che consiste nell'assenza di timore,
nella tranquillità dell'accettazione delle
differenze... Se si dovesse designare una
forma verbale che distingue l'immaginazione
della pace dal sogno, io la chiamerei l'ottativo
della tranquillità, nella calma accettazione
delle differenze su scala planetaria».
Quanta ostinata perseveranza, quanta paziente
tenacia, quanta lotta interiore richieda
questa «tranquillità» è ogni giorno
sotto gli occhi di ciascuno di noi.
---------Per leggere oltre, nel catalogo Einaudi:
AA. VV..
Lezioni Bobbio. Sette interventi su etica e politica
(fuori collana) 2006
È ancora possibile una chiesa che sia presidio di autentico
umanesimo, spazio di dialogo e di recupero di principi condivisi,
luogo di confronto tra etiche e atteggiamenti individuali
e sociali diversi? E la laicità dello stato sa essere l'ambito
in cui tutti, anche gli stranieri, si possono sentire accolti,
capiti e rispettati nella loro diversità di cultura e religione?
Una grande sfida attende oggi la nostra società complessa: la
quotidiana lotta contro il ritorno della barbarie e la scomparsa
di principi condivisi e fecondi di senso. Queste riflessioni
accolgono gli stimoli che vengono da eventi ordinari,
ma vorrebbero aiutare a «pensare in grande», a cogliere nel
frammento qualcosa del tutto, a ridare dignità e ampiezza di
visione a prospettive troppo spesso tentate di ripiegarsi su un
angusto cortile.
Enzo Bianchi (Castelboglione, Monferrato, 1943) è fondatore e
priore della Comunità Monastica di Bose. Direttore di «Parola,
Spirito e Vita», membro della redazione della rivista internazionale
di teologia «Concilium», è autore di numerosi testi sulla spiritualità
cristiana e sulla grande tradizione della chiesa, in dialogo
con il variegato mondo contemporaneo. Collabora a «La
Stampa», «Avvenire» e, in Francia, con il quotidiano «La Croix»
e i periodici «Panorama» e «La Vie». Per Einaudi ha curato Poesie
di Dio (2005) e Il libro delle preghiere (2005). Tra i suoi titoli
più recenti: Nuove Apocalissi (Milano 2003), Una vita differente
(Cinisello Balsamo 2005) e Vivere la domenica (Milano 2005).
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