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Il seme del piangere

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Il seme del piangere
«IL SEME DEL PIANGERE»
DI GIORGIO CAPRONI
di Biancamaria Frabotta
Letteratura italiana Einaudi
1
In:
Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere
Vol. IV.II, a cura di Alberto Asor Rosa,
Einaudi, Torino 1996
Letteratura italiana Einaudi
2
Sommario
1.
L’irrazionale sgomento: genesi e storia del «Seme del piangere».
4
2.
La linea della vita.
9
3.
La sfida dell’ultimo esule: un tema sotterraneo.
13
4.
Bisogno di guida. Modelli e fonti di un «Io solo».
15
5.
Lo scandalo dell’usuale: o lo stile della vita.
17
6.
Nota bibliografica.
18
Letteratura italiana Einaudi
3
1. L’irrazionale sgomento: genesi e storia del «Seme del piangere».
Riecheggiando un famoso verso del Seme del piangere Giuseppe De Robertis immortalò quel libro in una formula critica lapidaria ed estensibile a quasi tutta l’opera di Caproni. Il segreto della meritata fama che toccò alla raccolta dedicata dal
poeta alla madre defunta, fu colto in «un che di popolare e di sapiente insieme»1.
Io parlo di segreto, ma già questa parola, di ascendenza agostiniana e petrarchesca, è un po’ deviante se applicata a un libro che, soprattutto nella sezione dei Versi livornesi, appare così trasparente da risultare quasi allarmante. Tale è la fragilità
fisiologica della sua natura, perfino metrica, che a trattarlo senza la dovuta delicatezza si rischia di mandarlo in pezzi. Eppure proprio là dove fluisce più persuasiva la sua melodia comunicativa, il lettore intuisce un’insondabilità di fondo, la regola di un gioco sempre enigmatico, anche se accessibile a tutti. Raccontarne la
genesi e la storia significa anche accostarsi a questo segreto, ma non mi si fraintenda. Non si tratta di cogliere il poeta in contropiede, di smascherarne i trucchi,
sebbene Caproni, almeno fino alla svolta delle Stanze della funicolare, a suo modo
civettasse anche lui con la poetica delle «finzioni» così diffusa nel gusto degli anni Trenta e Quaranta. La mia speranza, al contrario, è proprio quella di non dover
tradire il testo nella sua letteralità di opera insieme sapiente e popolare.
Il seme del piangere2 celebra un sentimento archetipico, se è vero che l’amore
filiale si manifesta ovunque con la ricorrenza di una costante antropologica. Nelle prime poesie di Caproni la figura della madre è assente, a meno che nella spensierata lavorante di Ballo a Fontanigorda e nei «canti delle giovinette | chine sull’ago» (Alla giovinezza, vv. 4-5, p. 40) non si voglia riconoscere una protorappresentazione di Annina Picchi, «finissima sarta» e ricamatrice. Dal momento che la plaquette del 19383 fu scritta per festeggiare le nozze con Rina Rettagliata, celebrate
proprio quell’anno, non si andrebbe al di là di una reminiscenza puramente inconscia. Se lo paragoniamo a Come un’allegoria4 del resto, la raccoltina con cui
Caproni esordisce due anni prima, Ballo a Fontanigorda non registra scarti stilistici di rilievo. Eppure il matrimonio era intervenuto a liberarlo di un peso. Prima di
conoscere Rina, Giorgio aveva disperatamente amato una giovane donna genovese, Olga Franzoni, precocemente rapita da una setticemia fulminante. Lo shock fu
1 AA.VV., Alcuni scritti sulla poesia di Caproni, in G. CAPRONI, Poesie 1932-1986, Milano 1989, pp. 785-88. La
citazione è a p. 788 (cfr. la recensione di G. DE ROBERTIS, «Il seme del piangere» (1959), in ID., Altro Novecento, Firenze 1962, pp. 484-88). Questa raccolta ricalca quasi fedelmente la precedente edizione di G. CAPRONI, Tutte le
poesie, Milano 1983, che però non comprendeva Il conte di Kevenhüller pubblicato nel 1986.
2 La prima edizione di Il seme del piangere apparve presso Garzanti, Milano 1959. Le citazioni sono tratte da ID.,
Poesie 1932-1986 cit.
3 ID., Ballo a Fontanigorda, Genova 1938.
4 ID., Come un’allegoria, Genova 1936.
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«Il seme del piangere» di Giorgio Caproni - Biancamaria Frabotta
violento, tanto che Giorgio le dedica d’impeto la sua opera prima; poi sembrò
quasi dimenticarla, ma inequivocabili sintomi sarebbero presto riaffiorati alla superficie di un temperamento già di per sé malinconico e propenso ad avvelenarsi
anche le più innocenti gioie. In una poesia ormai ben lontana dal candore adolescenziale dei primi versi, Olga tornerà nelle vesti del fantasma persecutorio che
scuote i sonetti di Anniversario, scritti e pubblicati in piena guerra5.
La prima edizione di Cronistoria, con una funzione di spartiacque fra le sue due
parti, contiene un congedo in prosa dai genitori che nelle successive riedizioni dell’opera sarà soppresso, forse per un moto di pudore dell’autore verso sentimenti
che riguardano anni tanto lontani. Infatti a rileggere col senno di poi quelle paginette si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un vero e proprio grumo psicologico
che qui il poeta, sopraffatto dall’uomo, non riesce ancora a domare letterariamente.
Al padre Attilio, Giorgio si rivolge con una confidenza virile, «senza rossore», forte di un reciproco affetto che non suscita rimorsi, né pone condizioni. Attilio, che ama solo la musica e la matematica, non dà alcun peso alle parole, tanto
meno a quelle della poesia e di fronte alla passione del figlio non sottilizza, né recrimina. La loro differenza sarà la premessa di una dolce libertà, la stessa goduta
«sulle piane degli Archi a Livorno, dove fischiando e senza tristezza» i due aspettavano che «il giorno si allentasse per ritornare coi cacciatori di lepri»6. Ben altra
musica risuona nel congedo dalla madre. I toni sono soffocati, penitenziali, quasi
sconnessi. Son poche frasi, ma rigurgitanti di sensi di colpa e di rimorsi. Madre e
figlio si assomigliano sin troppo e come nel parlatorio di un carcere duro le loro
immagini si riflettono nel vetro di un’atavica interdizione. Non può non colpire la
diversa ambientazione dei due colloqui. Il mondo col padre è un mondo all’aperto, allietato da una serena flânerie al riparo da qualsiasi pericolo reale. Come vuole la più vieta tradizione simbolica invece il regno delle madri è «un interno», già
quasi infero, minaccioso, non redento. Ancora fin nel bel mezzo dei Lamenti7. il
complesso parentale è sostanzialmente lo stesso. Il figlio si sente solo, abbandonato. La mano del padre, ormai vecchio e infiacchito dalla guerra, non ha più la
forza di una guida sicura, ma l’eco del suo «tranquillo passo nella | sera degli Archi a Livorno» (I lamenti, III, vv. 5-6, p. 123) non si è ancora spenta. Come in
Cronistoria Livorno è ancora la città del padre, ma è la struttura stessa del sonetto, così contratta e intrigata, a gridare la verità di un’angoscia altrimenti inesprimibile. Si tratti di Olga o della mater dolorosa, il lutto per l’«amore morto» non
trova altra forma se non un «canto chiuso».
5
ID., Cronistoria, Firenze 1943.
Ibid., p. 74.
7 Il ciclo dei Lamenti sarà pubblicato nella sezione Gli anni tedeschi, in ID., Il passaggio d’Enea, Firenze 1956.
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«Il seme del piangere» di Giorgio Caproni - Biancamaria Frabotta
Nel 1960, appena un anno dopo Il seme del piangere, Caproni scrive per la
«Fiera letteraria» un elzeviro intitolato La motopompa8. Anna Picchi è morta nel
1950 ed è sepolta in Sicilia in un camposanto lambito dalle acque del Loreto, un
piccolo fiume delle Madonie. Accanto a lei giace un’ignota giovinetta del luogo,
morta ventenne. Una motopompa, esaltando con la sua monotona regolarità il silenzioso scorrere del fiume, suscita pensieri di eternità; favorisce libere associazioni e, come dal lago nero dell’inconscio, estrae a forza acqua dal sottosuolo.
Giorgio si abbandona alla rêverie di un’autocitazione, Quale debole siepe fu l’amore!, ultimo dei sonetti di Anniversario. Questa volta è il poeta che si consente
ciò che all’uomo non sarebbe permesso e si trastulla nella bizzarra fantasia di
aver scritto quella «canzone | umanamente chiusa» (vv. 2-3, p. 114) non per Olga, ma per la sconosciuta fanciulla che il caso ha affiancato alla madre nell’eterno riposo. Il gioco delle sovrapposizioni così si complica di un nuovo elemento;
non più solo Olga e Annina, ma, con la complicità di un volto mai visto e solo sognato, prende forma la fisionomia di una creatura tutta da inventare: un’altra
Annina, anch’essa estranea alla memoria e imperscrutabile nel suo mistero di impossibile fidanzata, di madre non ancora madre. Solo per lei in realtà la motopompa della poesia infaticabile lavora. Attraverso analoghe circumnavigazioni
Caproni tornerà a contemplare in Livorno il suo luogo originario, la sua città madre che, come capita a tanti, coincide con la città della madre. Anche Stanze della funicolare (il poemetto intendo e non il libro)9 sarà una tappa di questa fantasia d’avvicinamento.
Fu lo stesso Caproni a suggerire, in un’intervista del 1975, di leggere in chiave freudiana la metafora del tunnel da cui sbuca la funicolare del Righi10. La città
di Genova, scoscesa e verticale, domina ancora incontrastata nella topografia
mentale di Caproni e le sue scenografie ampie e movimentate invitano a escursioni; brevi, ma pregnanti transiti simbolici. A Genova Caproni dedicherà le sue
composizioni più complesse e mature, da Le biciclette a Il passaggio d’Enea, stanze edificate per documentare un personalissimo piano regolatore che sa assoggettare anche la metrica alla coscienza etica e civile. Caproni non fu certo un neorealista, né un fedele seguace dell’engagement, o meglio ingabbiamento, secondo la
sua ironica traduzione della teoria sartriana, ma nella robusta impalcatura del suo
classicismo postbellico le pulsioni troppo veementi vengono non dico represse,
ma trattenute al fondo, piallate con rude perizia artigianale. Magari dai piani infe8
ID., Il Taccuino dello svagato. La motopompa, in «La Fiera letteraria», 11 dicembre 1960.
Il poemetto comparve prima in ID., Stanze della funicolare, Roma 1952, e poi in ID., Il passaggio d’Enea cit.
10 Cfr. Molti dottori nessun poeta nuovo. A colloquio con G. Caproni, a cura di J. Insana, in «La Fiera letteraria», 19
gennaio 1975.
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riori dove sono state relegate, premono, si agitano, trapelano in alcuni tortuosi
cenni che solo coevi racconti, come Il gelo della mattina11 per esempio, renderanno espliciti, ma la ganga tiene e si rapprende in una mirabile costruzione sintattica che è anche e soprattutto costrizione etica. Per avvistare i primi cedimenti bisogna arrivare al ’50, al ’52, quando, forse estenuato dalle fatiche del cantiere o
anche presago dell’inevitabile logoramento del tópos genovese, un po’ per gioco,
un po’ sul serio Caproni cominciò a scrivere cartoline in versi. Le imbucava alla
svelta, indirizzandole quasi sempre ad amici di gioventù che si accontentavano di
una voce intonata alla sordina della nostalgia o, come lui amava dire, «sul cantino» del violino. Non si trattò di un ingenuo sfogo del privato vilipeso, dal momento che le cartoline finirono tutte, o quasi, nell’appendice del Passaggio d’Enea
del 1956 e preparano il lettore a una garbata, ma perentoria uscita da quella malinconica epopea. Il poeta fa finta di niente, ma alla chetichella pronuncia parole
pesanti come pietre, come la spietata antitesi fra Genova, «città fina» e Roma «enfasi e orina» (A Tullio, vv. 5 e 13, p. 169), o, ancora peggio: «Lascerò così Genova: | entrerò nella tenebra» (A Rosario, vv. 21-22, p. 170).
Nelle tenebre del regno delle madri Giorgio invece entrerà prima ancora di
abbandonare la sua erta città in salita che, dopo la bicicletta, il treno, il tram, la
funicolare, gli dona l’ebbrezza dell’ultimo viaggio genovese sull’ascensore di Castelletto. Scritta dopo aver appreso dai medici che la madre, gravemente ammalata, ha ormai i giorni contati, L’ascensore chiude, violando di colpo una lunga reticenza, un libro tutto intento a cogliere nella catabasi di Enea il senso più riposto della legge paterna. La vita fin’ora tenuta a distanza, ora che ne è minacciata
la stessa matrice originaria, travolge ogni esitazione e mette a nudo in tutta la sua
vulnerabilità il seme stesso della perdita e del lutto. L’ascensore è la prima epifania della madre-fidanzata e anche il primo testo di puro godimento fluidamente
narrativo eppure del tutto libero dal quotidiano ricatto della prosa. La voce che
la detta è sempre in salita, ma la fatica non si avverte e nessuna stecca la incrina e
proprio perché racconta un sogno nell’attimo stesso del risveglio, prima che la
realtà vi aggiunga le sue inevitabili correzioni. Anzi la prepotenza del dolore e la
prodigiosa prossimità della morte fanno vacillare le ultime remore. Il Paradiso
non è una promessa, come accade ai mortali, ma una certezza a portata di mano:
«Quando mi sarò deciso | d’andarci, in paradiso | ci andrò con l’ascensore | di
Castelletto» (vv. 5-8, p. 175). Già Sbarbaro aveva colto il fascino incantatorio di
quel luogo: «A questo balcone spalancato su Genova si potrebbe, un’ora come
questa, aspettare l’Amore»12. La leggenda di Annina nasce in presenza di questo
11
12
G. CAPRONI, Il gelo della mattina, Caltanissetta 1952 (poi in ID., Il labirinto, Milano 1984).
C. SBARBARO, L’opera in versi e in prosa, Milano 1985, p. 307.
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panorama senza confini e nel preciso momento in cui «la luce nera del mare» (v.
15) deflagra nelle «candide luci» (v. 26, p. 176) di un litorale che sembra già
quello sprofondato nella intermittente memoria infantile. mito di Livorno è appena oltre la soglia della coscienza e Caproni, affezionato simbolo pregnante della «porta» sempre socchiusa nell’interminabile fuga di corridoi della sua opera,
apre così un varco alla disperazione afasica del lutto. Il passaggio d’Enea si chiude con due anticipi del futuro Seme del piangere: Per mia madre, Anna Picchi e
Idem. La seconda poesia della coppia non è una novità assoluta; con il titolo La
ricamatrice e insieme con un altro testo, All’antica, era stata pubblicata su una rivista di Parma13. Il primo a entusiasmarsi per le due «canzoncine» fu proprio Attilio Bertolucci naturalmente che da allora cominciò una dolce pressione sull’amico perché portasse a termine il suo nuovo libro, adattissimo alla collana di
poesia di Garzanti da lui diretta.
Se le informazioni che Caproni aggiunge nella Nota al vallecchiano Passaggio
d’Enea sono attendibili, Per mia madre, Anna Picchi e Idem risalgono al 1954 e,
sempre seguendo le indicazioni del poeta che alla prima delle due canzonette assegnerà poi l’onore di un titolo eponimo, possiamo legittimamente isolarle dal
contesto per rintracciarvi il nucleo generativo del Seme del piangere. È una scelta carica di conseguenze, dal momento che in un breve giro di versi cruciali il lutto che il libro elaborerà si sintetizza nella precisione di un ricordo circoscritto,
ma nitido:
Sperduto sul Voltone,
o nel buio d’un portone,
che lacrime nel bambino
che, debole come un cerino,
tutto l’intero giorno
aveva girato Livorno!
(vv. 3-8, p. 227).
Il piccolo Giorgio ha smarrito la madre nelle nebbie di un passato lontano, ma
non tanto da non ribalzar fuori, intatto e pungente al primo importuno colpo di
vento. Non c’è sentore di libertà, né di avventura in questa esperienza. L’angoscia
della perdita è senza rimedio, come i bambini sanno benissimo perché è lì che il
Tempo si fa palpabile, materializzandosi in una distanza incolmabile. Senza più
l’antidoto delle immemori passeggiate col padre, mano nella mano, nel regolare
intervallo degli Archi cittadini, i Versi livornesi amplificheranno l’eco di quel primo singhiozzo nella sacca uterina di una città-madre che si slabbra fino alla vastità in bianco e nero della piazza del Voltone ancora più immensa nella percezio13
G. CAPRONI, Due canzoncine per mia madre: All’antica, La ricamatrice, in «Il Raccoglitore», 5 luglio 1956.
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ne infantile. Proprio in questa poesia possiamo segnalare una delle pochissime varianti apportate nella tarda revisione delle Poesie del 1983. Nell’edizione del 1959
il distico d’apertura era lievemente diverso: «Quanta Livorno d’acqua | nera e di
panchina bianca»14. In seguito Caproni opererà una piccola inversione in sede
d’enjambement fra aggettivo e sostantivo e nel secondo verso modificherà la punteggiatura: «Quanta Livorno, nera | d’acqua e – di panchina – bianca!» (vv. 1-2, p.
227). Il ritocco è minimo, ma sufficiente a trasformare uno schizzo impressionistico nella trasfigurazione di un sogno ad occhi aperti; la stampina ottocentesca, da
città sparita, per intenderci, cede il posto alla ierofania di una città dell’anima. Livorno non poteva e non doveva essere altro che questo.
Non sappiamo, allo stato attuale delle ricerche, quando e come Caproni decise di ricorrere al supporto dantesco per il titolo del suo libro. Sono piccole curiosità, a volte non meramente filologiche, che forse l’acquisizione di altri documenti, come diari o epistolari, potranno soddisfare. Per ora ci limitiamo a riferire un
cenno rapido e un po’ criptico che si legge in un articolo del 1957, a proposito de
Le ceneri di Gramsci. Pasolini è un poeta che «canta», ma che «non vuole restare
incantato, quasi una sua Beatrice, ammonitolo a por giù il seme del piangere (il
proprio irrazionale sgomento) lo avesse esortato a non lasciarsi sopraffare dalla
voce delle sirene e a tender bene l’orecchio alle altre»15. Anche per merito di Pasolini, e il più anziano amico glielo riconoscerà volentieri, il «canto chiuso» del
suo recente passato fu violato e infine dissigillato. La libertà del Seme del piangere, il suo «irrazionale sgomento» si fonda anche su questo indiretto debito. Ma allora come interpretare il sibillino monito di Beatrice? Quel suo piglio così severo
e intimidatorio? A chi, o contro chi, o per conto di chi è pronunciato?
2. La «linea della vita».
In un’intervista del 1965 Caproni confidò di aver cominciato a nutrire un orrore
crescente per gli artifici concettuali e retorici che distraggono la poesia dalla linea
della vita16.
Forse solo dieci anni più tardi, ossessionato come sarà dall’idea fissa della
«reversibilità» di una storia circolare, questo atto di fede gli sarebbe parso troppo
ottimista. La geometria del Seme del piangere è infatti lineare, in ossequio alla
scansione cronologica della vita di Annina a Livorno. Il libro, sempre a detta del
suo autore, fu un fiore posto sulla tomba della madre; nacque spontaneamente da
14
ID., Il seme del piangere, ed. 1959 cit., p. 55. E cfr. inoltre ID., Il passaggio d’Enea cit., p. 187.
ID., Le ceneri di Gramsci, in «La Fiera letteraria», 21 luglio 1957.
16 Cfr. ID., Il mestiere di poeta, a cura di F. Camon, Milano 1965 (poi Milano 1982).
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qualche vecchia foto, da scarni racconti casalinghi e non avrebbe mai potuto tollerare l’impaccio di una ossatura troppo pesante, troppo arzigogolata. La sua
struttura, magra e agile, lo dimostra, ma sulle tombe i fiori marciscono precocemente e con loro l’effimera durata della pietà che ha ispirato l’omaggio. Il Seme
del piangere è un fiore ancora oggi fragrante. È forse nell’esilità della sua costruzione il segreto della sua vitalità? A rileggerlo tutto d’un fiato (e difficile è resistere alla tentazione di ricominciare ogni volta da capo) ci si accorge che la protagonista della sua minuta epopea provinciale, Annina, non invecchia mai, O vive, perennemente giovane e splendente, o muore e con lei si inabissa nelle tenebre ogni
stessa consistenza dell’essere che in Annina, come anche in Livorno, si manifesta
copiosamente. Caproni ne è ben consapevole quando scrive:
Ora io di Livorno ho una immagine che appartiene alla geografia e alla mitologia della
mia infanzia. Ed è perciò del tutto inutile il dirmi che Livorno è quasi totalmente a pezzi, io sapendo bene che la mia Livorno nessun bombardiere può averla toccata, cioè che
esisterà sempre, finché esisto io, questa città malata di spazio nella mia mente17.
L’assenza di confini, il senso tutto mentale dell’illimitato, ammalano Livorno,
ma la preservano dalla storia ad essa sempre esiziale, così come il tempo, se rinchiuso nel recinto soggettivo del ricordo, ucciderebbe anche Annina. Il poeta
vuole salvare entrambi dalla fine e allora dovrà fare a meno di un fine, inventando
una struttura insieme a-topica e a-temporale. Si pongono così le basi di un libro
veramente utopico, in cui la realtà e il principio del piacere non si intralciano, ma
miracolosamente si sorreggono a vicenda. Annina è un personaggio inventato dal
vero, se mi si passa il paradosso. È, come ogni inventio poetica che sopravvive alla sua occasione, memoria senza ricordi e la narratio, nonostante la ovvietà del
raccontino in versi, è già in sé binaria e asimmetrica nella sua sbilenca regola di
trama e di sogno. Dopo i troppi bombardamenti che hanno dissestato la struttura
della lirica moderna si avverte qui qualcosa di meno coartante di un progetto restaurativo, ma neppure la passiva obbedienza a una fantasticheria puramente privata. Certo, si può citare Proust, come fa Ugo Dotti nel suo bel saggio sul «contemporaneo» Caproni, abbandonandosi a riflessioni collaterali che solo in apparenza possono essere scambiate per divagazioni18. È vero: Caproni già nel 1951 ha
licenziato la sua traduzione di Le temps retrouvé19 e anche noi, alla ricerca di una
genesi più intima, siamo responsabili di aver aperto la porta a ogni possibile epifania, reale o solo supposta. Ma sentiamo insieme che Caproni non scrive per incoraggiare la supplenza del soggetto deficitario nel tempo dei ricordi involontari,
17
ID., Io genovese di Livorno, in «L’Italia socialista», 22 febbraio 1948.
Cfr. U. DOTTI, Giorgio Caproni, in «Belfagor», XXXIII (1978), 6, pp. 681-96.
19 Cfr. M. PROUST, Le temps retrouvé, 1927 (trad. it. di G. Caproni, Il tempo ritrovato, Torino 1951).
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bensì, al contrario, inventa leggiadre scenografie per rimediare alla sofferenza delle incoercibili memorie. In Cronistoria il talento poetico era biasimato come una
perversa tendenza del lato materno del carattere. Ora la femminea inclinazione a
sostituire la tetra realtà con i suoi luminosi fantasmi è invocata a risanare la vita
distrutta, come il farmaco sull’organismo malato, purché sia somministrato con
costanza e a piccole dosi, perché non risulti letale: insomma in strofe elementari e
semplificate al massimo, in rime «chiare e in -are». Siamo agli antipodi del regime
stilistico di Proust. Proprio sgominando gli artifici della ridondanza, gli effetti
della pinguedine sintattica intrinseci alla bulimia della prosa proustiana, la linea
della vita ripagherà i sacrifici di una dieta così ascetica e una dieta sortisce i suoi
effetti solo se è sostenuta da una ferma volontà. Il primo gesto dei Versi livornesi
(Perch’io...: «...perch’io, che nella notte abito solo», v. 1, p. 195), è tutt’altro che
involontario, nel suo sommesso rimando a Cavalcanti, signore di queste regioni
dell’Anima ai suoi tempi almeno meno diroccate e franose. Se veramente desidera la resurrezione di Annina e di Livorno, il poeta dovrà essere disposto, a missione ultimata, a perdere anche la sua Anima, a congedarla da sé per sempre. Così il
«seme del piangere» troverà quasi senza sforzo il ritmo fisiologico delle coppie di
rime baciate o alterne che più di altre rievocano il gioco infantile della sparizione
allo specchio, il freudiano fort-da. Il viaggio dell’«Io solo», così tanto più scabro
del suo prototipo romantico, procede con moto sinusoidale dritto verso il cuore,
ma è dalla mente che parte. La piena emotiva dei Versi livornesi non potrebbe mai
sfociare nella sua lapidaria finale Iscrizione: «la rima in cuore e amore» (v. 4, p.
232; lectio facilior di un’insospettabile fonte dantesca, Inferno III, 132; XX, 6),
senza quel pianto «che [...] bagna la mente» (Perch’io..., v. 8, p. 195).
Nella linea della vita l’Io rinuncia alle sue pretese, alla sua sovranità ed è l’Anima che, ricordando e raccontando, restituisce alla madre morta il corpo snello
di Annina. La struttura stessa del libro ne risentirà; non basta il ricorso alle facoltà
razionali di solito mobilitate a questo fine. Il miracolo di un’Anima che racconta
non si attua senza l’ausilio della «preghiera». Fra le due parentesi della Preghiera,
la prima e l’ultima, senza arroganza dialogano l’Io, troppo «empirico» ed egoista
per alzare la voce e l’Anima, sulla cui consistenza ontologica sarebbe sacrilego addirittura indagare. Qui si innesta la funzionalità del titolo dantesco, ribadito dall’esergo purgatoriale e dal severo monito di Beatrice che, contro l’«irrazionale
sgomento» dell’Io, innalza la gradazione alcoolica del distillato emotivo dei versi
perché essi siano degni del paradiso che li attende. Infatti Beatrice non dialoga,
non attende risposte e fra i suoi toni sublimi e il balbo parlare dell’Io si intrufola
un’anima minuscola e antropomorfica che fuma sigarette e rapida vola sulle ruote
di una bicicletta. A lei si devono gli innegabili effetti narrativi e ne sono subito
coinvolti i tempi del discorso che, come poi le rime, si alterneranno fra i cauti otLetteratura italiana Einaudi
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tativi dell’Io e la nostalgica ripresa degli imperfetti che prolungano il passato già
morto nella semplice quanto capiente lingua della durata. Acquista primaria importanza la dispositio dei testi, ovvero il loro ultimo e immodificabile montaggio
in quel film in bianco e nero che è Il seme del piangere. Non a caso nel volume del
1989 le varianti più significative vanno a intaccare proprio l’ordine e la sequenza.
I Versi livornesi ruberanno al Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee20, dove annaspano come due naufraghi caduti dal ponte del Seme, gli «alberati» distici di Sulla strada di Lucca e le quartine del bellissimo Urlo: «In cielo,
in mare, in terra | che urlo, scoppiata la guerra...» (vv. 15-16, p. 213). Nella sua
versione definitiva quest’urlo, dove gli urrah per il fidanzamento di Annina si mescolano al grido d’allarme delle sirene di guerra, prepara Ad portam inferi, piazzata al centro della raccolta, come un insidioso trabocchetto in cui inciampa l’Anima nella sua travolgente corsa verso Annina. La precedono in realtà, a far bene i
conti mai superflui in questioni strutturali, tredici canzonette di lode, intonate
senza «né ombra né sospetto» (p. 203) e subito dopo Eppure... cerca di riprendere quota, dopo il vuoto d’aria di Ad portam inferi, verso le sette canzonette conclusive, ancora aeree, ma già intristite dall’uggia del «seme del piangere». Il passo
del viaggio dunque non discende dalle celesti armonie del Paradiso promesso, ma
resta zoppo, asimmetrico e lo slancio creaturale dell’Anima non si riprende più
dal rovinio sulla soglia di un Erebo virgilianamente e colpevolmente pagano. Il
cristiano ricorso al Purgatorio di Dante può solo propagandare la sua funzione pedagogica e allegorica in un testo che la reminiscenza classica aveva sbilanciato verso pericolose latitudini infernali. Nonostante la gentile intercessione del «parlato»
e della finzione narrativa, il tempo è ora quello «sbarrato» dall’orologio rotto di
Annina. Il luogo, anzi i luoghi fin’ora giulivi e irresponsabili dell’ékfrasis livornese, si inscrivono nel cerchio mortale della caccia tragica di Atteone che fugge inseguito dal «cane del suo rimorso» (v. 80, p. 216). Il programma della resurrezione è sconvolto, la linea della vita, fratturata e sgomenta.
La seconda sezione del libro, Altri versi, titolo quanto mai generico e dimesso, dalla revisione senile esce ancora più ridimensionato. Caproni, evidentemente preoccupato di non turbare troppo l’unità tematica del libro elimina alcune
traduzioni-imitazioni: D’estate come d’inverno da Jacques Prévert, La chiamavano Lou e Le campane da Apollinaire e Arbolé, arbolé da Lorca. Anche Litania
scompare, il lungo rosario celebrante le lodi di Genova che verrà spostato in coda al Passaggio d’Enea, mentre un’altra esigua «cartolina» genovese, dedicata al
pittore ligure Rolando Monti, è soppressa del tutto. Ciò che resta è una miscella20
G. CAPRONI, Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, Milano 1965.
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nea di sentimenti postumi al congedo dall’Anima pronunciato a chiare lettere e
senza pudore nell’Ultima preghiera: «Dille chi ti ha mandato: | suo figlio, il suo
fidanzato. | D’altro non ti richiedo. | Poi, va’ pure in congedo» (vv. 80-83, p.
231). Frastornato il poeta si guarda intorno e dentro e non incontra altro che sopravvissuti. Ecco il padre, in cui si riflette, come in uno specchio crudele, lo
squallore di una desolata simmetria (Treno). Ecco Rina, marginale e quotidiana e
la Pasqua cristiana o quella laica del primo maggio appaiono sbiadite parodie
della resurrezione di Annina (Due appunti). Anche Genova, ancora fino a ieri sovrana indisturbata, si sfalda in una stanca ritualità di maniera (Andando a scuola
e Divertimento). Fra tutti questi altri versi spicca solo, in funerea evidenza, la nera sagoma del «becolino», lunga imbarcazione da carico un tempo in uso a Livorno. Il becolino varca già l’aria più mesta e opaca del Congedo del viaggiatore
cerimonioso. Come un nuovo Caronte (i mezzi di trasporto in Caproni non vanno quasi mai per acqua), un’anima ormai «debole» (v. 46, p. 243) e un po’ equivoca conduce il suo prezioso carico di ricordi nella morta gora di un ultimo approdo. In un tempo «incerto», in uno spazio «amorfo» (cfr. vv. 1-2, p. 242) la
profezia si consuma nell’anafora dei pochi verbi (piangevo, sentivo) che intridono con monotona regolarità di pioggia l’autunno del mito livornese di Caproni.
La voce si fa afona; il tono cantilenante; la sintassi sinuosa come una biscia. La
geografia infantile non rivive se non nel tempo mitico che ogni ritorno abolisce.
Chi, tornando, sfida il divieto, non troverà che rovine e rottami. La prosopopea
del luogo natío ha solo due strade davanti a sé: o è visione, luminoso fantasma
della fantasia; o è ripetizione, macabra e barocca. Nei Versi livornesi Livorno è la
dimora del fantasma di Annina e risplende di luce riflessa. Il becolino è la sua impura «trasmutazione» (v. 43, p. 243) in un buio porto di spettri, fra i quali vagola il replicante di quel bimbo che col suo pianto aveva dato vita alla docile regressione verso le origini di ciò che gli adulti chiamano poesia, o vita e che Caproni aveva sposato in distici di nozze felici: «Sii magra e sii poesia | se vuoi essere vita» (vv. 12-13, p. 204). La sentenza pronunciata nel Becolino è opposta, invece, e sanziona un divorzio: «Piangevo senza saper dire | il seme del mio morire» (vv. 53-54, p. 244). Il ritorno alle origini, inizialmente festoso, nasconde a valle l’affluenza di un sentimento ben diverso.
3. La sfida dell’ultimo esule: un tema sotterraneo.
Il tema, o i temi di un libro di poesia, a seconda che esso sia concepito secondo
una struttura monocentrica o policentrica, coincidono con il senso stesso del libro, da non confondere con il suo significato. È un messaggio complesso e unitario che difficilmente si può sezionare in un sistema di concetti secondari, o peggio
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semplificare in una sorta di reductio ad unum incompatibile con la qualità polisemica del linguaggio poetico. Per Giovanni Raboni la poesia di Caproni vive attorno a tre temi: la città, la madre, il viaggio, congiunti in una stretta compenetrazione dal tema dell’esilio che ne costituisce il comun denominatore21. Al fondo dell’ininterrotta canzonetta scritta «per gioco» e «con fuoco», prolifera un «anello di
temi» che nell’opera si svela nel titolo dantesco e nella criptocitazione della famosa ballatetta dell’esilio di Guido Cavalcanti. L’omaggio così tributato ai due esuli
eccellenti della nostra tradizione poetica non è certo un dotto correttivo alla banalità di un tema troppo consunto dall’uso. Intanto la tradizione invocata agisce
come un fondamento bipolare, lirico ed estrosamente eretico, nel caso di Cavalcanti, narrativo e rigorosamente ortodosso in quello di Dante. Il punto sembra
ancora un altro però e riguarda il substrato utopico di una poesia che non si accontenta più di disporsi «come un’allegoria», ma si prodiga per restituire al simbolismo contemporaneo almeno l’ombra, l’alone fantasmatico che nell’allegoria
premoderna corrispondeva tout court con una verità extraletteraria, una poesia
intesa come «cosa creata». In questo senso i tre agenti della vicenda, l’Io, l’Anima
e Annina, viaggiano verso il loro futuro, inevitabile esilio col volto rivolto all’indietro, verso l’originario statuto che ne certificò la nascita in quanto persone e
non personaggi. Solo in un viaggio reale come quello auspicato dall’ammonizione
di Beatrice nel XXXI canto del Purgatorio, il Soggetto moderno, estenuato dalle
vicissitudini di una storia ormai annosa, può mettersi da parte e lasciare in sua vece libera voce e volo a quell’anima infantile e femminile cui «la terra» ha sempre
opposto una strenua «guerra». Non a caso è sempre Dante a ispirare questa rima
ricorrente in tutta l’opera di Caproni. Il poeta, incurante della sua struggente
inattualità, prega perché il miracolo accada. La sua preghiera, allegorica e metaletteraria (nel senso che si leva al di là della letteratura) è certo «schietta», ma ben
consapevole che «l’errore | è pronto a stornare il cuore» (vv. 9-10, p. 204). Dunque, coerentemente al titolo, la storia del Seme del piangere, il suo tema sotterraneo, è una vicenda di purgazione che l’ultimo degli esuli rinnova contro l’errore
della poesia contemporanea: la sua vacua astrazione, la sua rinunciataria pochezza di ombra perduta fra le ombre. Solo il pentimento autentico, nutrendo di lacrime il seme della vita, restituirà l’esule a quella che, parafrasando un felice neologismo coniato da Contini per Zanzotto, dovremo chiamare la «matria» perduta,
la trepidante matrice capace di far tornare claire la camera oscura che da troppo
tempo ipnotizza lo sguardo malinconico dei poeti occidentali. Ed è così che un tema, fra tutti il più comune, si trasforma in una sfida sapienziale.
21 Cfr. G. RABONI, Introduzione a G. CAPRONI, L’ultimo borgo. Poesie (1932-1978), Milano 1980 (poi in
A.A.VV., Alcuni scritti sulla poesia di Caproni cit., pp. 793-98).
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4. Bisogno di guida. Modelli e fonti di un «Io solo».
Il seme del piangere si chiude con una canzonetta, A Ferruccio Ulivi e con il sonetto La palla. I versi dedicati a Ulivi, è lo stesso Caproni a rivelarcelo, sono i più antichi del libro e nacquero «all’improvviso» per celebrare l’incontro con Betocchi
a Firenze, poco dopo la morte di Annina. Siamo nel 1950. Firenze è una città di
«lucore» e proprio nella sua «aria fina fina» (vv. 10 e 1, p. 245), si stagliano, quasi
ad araldica clausola del libro, i nomi dei due poeti: «E, acuti vetri o vere | sillabe,
a lungo tocchi | l’unghia tua questo Giorgio | cui recasti Betocchi» (vv. 13-16, p.
245). Nonostante per ragioni anagrafiche Caproni appartenga alla generazione
dell’ermetismo, quel movimento di pensiero e di poesia non lo coinvolse e non lo
convinse mai fino in fondo. A parte qualche iniziale debito con Gatto e De Libero, forse inconsapevolmente presi a modello di virtuosismo sintattico, il cromosoma dell’oscurità modernistica gli era del tutto estraneo. In Betocchi invece, nella
sua creaturale religiosità primitiva, Caproni riconobbe presto una affinità di temi
e di stili, una fraternità d’intenti che gli permise di nutrirsi di quei succhi vitali,
senza incorrere nelle letali esalazioni dell’angoscia dell’influenza, più acuta naturalmente nei confronti di coloro che incombevano con il loro ingombrante esempio sui poeti della terza generazione. Ungaretti e Montale erano ancora lì fra loro,
vivi e vegeti maestri, e nessuno poté in realtà evitare di attraversare la loro ombra;
neppure Caproni che rivolse ad entrambi omaggi tutt’altro che formali22. Verso
Saba Caproni mantenne invece una cauta reticenza e per la morte del poeta triestino si abbandonò a una confessione di curiosa ambivalenza affettiva, se si fa caso alle date. Correva l’anno di grazia 1957 e Il seme del piangere, forse quasi ultimato, avrebbe di lì a poco dimostrato quanto fossero ancora vivi in Caproni gli
echi dell’appassionato triangolo fra il malinconico poeta di Trieste e una donna, la
sua «anima» scissa e «Lina la cucitrice»:
Vi era (rimane) tra noi (Saba merita anche questo omaggio) un freudiano rapporto da
padre a figlio: una salutare antipatia e venerazione, che quanto più ce lo allontana tanto
più ci avvicina a lui, di modo che se da parte nostra, con le ragioni dell’intelletto ci sarebbe difficile anteporlo a certi altri poeti del Novecento, con le ragioni del cuore lo abbracciamo senza averlo mai visto e riconosciuto… appunto come si abbraccia il padre23.
Non solo Caproni è preoccupato di fugare ogni sospetto di epigonismo puntualmente confermato da alcuni critici dopo la pubblicazione del Seme del pian22 Per quanto riguarda Ungaretti si veda G. CAPRONI, Il Taccuino del vecchio, in «Forum italicum», VI (1972), 2,
pp. 244-46. Per Montale Caproni scrisse vari articoli, fra i quali è da segnalare ID., Montale poeta vate, in «Letteratura», XIV (1966), 79-81, pp. 267-69.
23 ID., Ora che U. Saba è partito, in «La Fiera letteraria», 15 settembre 1957.
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gere. Le ragioni del cuore si accampano in favore di Saba, un poeta-padre dunque, uno schermo letterario su cui proiettare, con inconscia improntitudine, l’amore per la libera melodia sentimentale di una tradizione ottocentesca. E ottocentesca potrebbe apparire la leggenda della livornese Annina, sposa felice di
Attilio nella figurativa festa di un paesaggio finalmente ricomposto dal figlio ormai pacificato. Ma Livorno, a differenza di Trieste, ha subito l’oltraggio di un
bombardamento, storico oltre che psichico e il cuore non basta a risanare le ferite. Occorre anche l’ausilio della mente e nessuno meglio di Betocchi, con la sua
sapienza allegorica velata di naïveté, con la sua fedeltà a una toscanità primigenia, quando si forgiavano i miti angelici delle origini stesse dell’italianità poetica,
può ora offrire a Caproni il suo fraterno soccorso. Attraverso la sua mediazione,
l’esule Caproni, dimentico dei più moderni commerci dell’Io così familiari a Saba che vi si aggira «come un levantino», risalirà la catena patrilineare della tradizione fino a Cavalcanti e a Dante, come in un grande esorcismo purificatorio.
Con loro si vola alto, oltre l’incesto delle rime e del bel canto, verso il Paradiso
dove primo non fu il verbum, ma la luce. Con l’aiuto dei padri e non contro di loro agisce l’Anima. Il tramite di questa sfida così utopica nella sua inattualità è appunto Betocchi. Pochi ricordano che il tema della «caccia tragica», per esempio,
che già affiora nel Seme del piangere e che nelle raccolte successive di Caproni
tornerà con l’insistenza di una metafora ossessiva, lo si incontra per la prima volta in una prosa del 1953, La lepre24, in stretta connessione con alcuni versi di Betocchi, guarda caso, intitolati Alla mamma25. Nel 1956 Caproni recensì le Poesie
di Betocchi con argomenti rivolti più che altro a sottolineare un’affinità26. Il poeta toscano che, notiamolo di sfuggita, fu tra i primi a segnalare in Come un’allegoria l’avvento di un nuovo poeta, gli fornisce il pretesto per polemizzare contro
l’eccesso di simbolismo della lirica contemporanea che al culto dell’indeterminato e della musica atonale ha infine sacrificato «ogni razionale (o rivelata) verità
comune»27. A questa rinuncia Betocchi non ci sta. «Operaio del verso» piuttosto
che intellettuale, egli va alla ricerca di una sostanza che sia «cosa creata», «oggetto» da restituire a simboli ormai così dimidiati e tautologici, da fomentate solo i risvolti ingannevoli di un processo mentale che dovrebbe rafforzare la conoscenza, non minarne i fondamenti. Così Caproni intende la «verità comune» a
lui e a Betocchi, le «vere sillabe» di una poesia scritta per l’intera comunità umana, non per la ristretta cerchia di una società letteraria. In un’ottica rigorosa24
ID., La lepre, in «L’Approdo», II (1953), 3, pp. 7-9.
C. BETOCCHI, Tutte le poesie, Milano 1984, p. 284.
26 G. CAPRONI, Realtà vince il simbolo nella poesia di Betocchi, in «La Fiera letteraria», 23 dicembre 1956.
27 Ibid.
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mente cristiana, la teoria dell’arte come rispecchiamento, senza questa premessa
metafisica, è destinata a vacillare come un colosso poggiato su piedi d’argilla. Caproni ne è perfettamente al corrente. Il realismo non ha senso fuori di un sistema
coerentemente ontologico e la rima, «avamposto della poesia», come la battezzò
Betocchi28 o è il veicolo di equivalenze matematicamente allegoriche, colonnato
su cui saldare l’architrave del tempio o fatuo, fragile ricettacolo dell’artificio
simbolico. In Dante tutto si tiene perché la ragione si erge sulla verità rivelata.
Non ci sono equivoci e ogni atto di conoscenza è anche atto di fede. Le ragioni
della mente inopinatamente si intrecciano di nuovo con quelle del cuore e se il
moto involontario di quel muscoletto, la fede appunto, non vuole pulsare all’unisono con il resto, cos’altro potrà fare il poeta «onesto», di nuovo irrimediabilmente «Io solo», se non inoltrarsi nell’intrigo delle ipotesi e delle parentesi? Nel
labirinto delle false alternative fra verità razionali e verità rivelate? Fra il dannato Cavalcanti e il redento Dante? Fra gli «acuti vetri» e le «vere sillabe»? Caproni, coerentemente alla sua scelta di realtà rischia di rimanere intrappolato nella
rete allegorica che si è intessuta attorno all’insipienza di un ricordo infantile che,
non io si dimentichi, io ho posto a fondamento dell’intera costruzione. Per rimediare all’eccesso di «sapienza» solo un’opposizione stilistica nitidamente «popolare» può riequilibrare il gioco linguistico della creazione. E un gioco, o poco
più, sembra infine l’abbrivio, quasi da filastrocca, dell’ipnotica versificazione di
queste canzonette.
5. Lo scandalo dell’usuale: o lo stile della vita.
È sul piano della lingua e dello stile che quella che un poeta come Mandel'štam,
alle prese con Dante, chiama l’infantilità nativa della lingua italiana, ostenta tutta la sua sapienza. Il tono colloquiale, persuasivo, febbrile sceglie sempre l’espressione più semplice ed usuale. Gli artifici, a parte quello sovrano delle rime,
sono lasciati in disparte, se solo mettessero a repentaglio la libertà del gioco ritmico. L’alfabetiere del Seme del piangere si vale quasi esclusivamente di vocali:
chiare o acute rincorse di assonanze, quando la rima vien meno; scarse allitterazioni; metafore rare come cammei. Assoluta è invece la precisione del dettaglio
visivo e la vivacità toponomastica esalta ogni immagine nell’eternità struggente
dei fotogrammi. È una poesia che indossa la dignitosa eleganza dei poveri e
quando si inorgoglisce in una neoclassica leggiadria subito si stempera nel sermo
communis. Nessuno come Caproni è esperto nell’arte musicale delle variazioni al
28
ID., Diario della poesia e della rima, in ID., Tutte le poesie cit., p. 498.
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tema. La retorica del Seme non è poi molto diversa da quella più piena e ridondante dei libri precedenti. Resistono infatti le interiezioni e le interrogazioni retoriche, ma vengono alleggerite nel tono della sorpresa, popolare, ma mai popolaresco. Nel brusio collettivo, nel sussurro mattutino della città laboriosa, mai
plumbea o nebbiosa, ma «tutta invenzione», si odono le spezzature ritmiche e le
inarcature di sempre. Solo sono già state sapientemente sdrammatizzate, adeguate al timbro di un’«altra» realtà. Gli enjambement, pure frequenti, non obbediscono al sofisticato ossimoro di metro e sintassi tipico dei sonetti, per esempio,
ma si incontrano solo là dove la voce si impunta, si incanta sulla sua stessa pronuncia; resta per un attimo sospesa per continuare e riprendersi, quasi dopo un
impercettibile sospiro. A volte la voce è talmente presa dall’empito della lode
che non vuole indugiare; allora si ha l’impressione, assai liberatoria, che il poeta
non si soffermi mai troppo, neppure per selezionare il lessico, per renderlo più
appropriato. Si tratta di un effetto naturalmente messo a punto, ma mai illusionistico, mai allusivo. Anche le parentesi di ermetica memoria non hanno una
funzione preziosa, ma esprimono un abbassamento della voce, un più arguto
ammiccare alla spontaneità del dettato. Sarebbe azzardato affermare che il poeta
usa le prime parole che gli vengono a tiro, ma certo acquistano sulla sua bocca (e
a bella posta uso un termine corporeo) un’andatura così spedita, come solo capita con esperienze native, colte per così dire allo stato sorgente. Se insomma il Seme del piangere nasce da un luttuoso ricordo infantile, la felicità riafferma i suoi
vilipesi diritti proprio nell’invisibile trionfo dello stile, quando il duro tirocinio
dell’apprendimento si confonde con il gioco della scoperta. Basterebbe osservare il lieto balletto dei verbi e dei sostantivi, ora goffamente ripetuti, ora favolosamente giustapposti o scambiati, ora baldanzosamente agganciati all’aurea catenina delle rime, per cogliere, volta per tutte, l’irripetibile dono del seme della vita
che si fa poesia.
6. Nota bibliografica.
La prima edizione del Seme del piangere fu pubblicata da Garzanti, Milano 1959.
Oggi si legge in Poesie 1932-1986, Milano 1989, pp. 191-247. Le numerose recensioni che seguirono alla sua pubblicazione sono elencate nella Bibliografia critica
curata da R. Venturelli in appendice al volume miscellaneo offerto al poeta dal
Comune di Genova in occasione del suo settantesimo compleanno: Genova a
Giorgio Caproni, a cura di G. Devoto e S. Verdino, Genova 1982. A queste indicazioni vanno aggiunte quelle reperibili nella Bibliografia, a tutt’oggi la più aggiornata, raccolta a completamento del volume di A. DEI, Giorgio Caproni, Milano 1992. Trascegliendo fra i contributi cosiddetti «militanti» vorrei segnalare
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quelli che, oltrepassando un valore puramente cronachistico, testimoniano l’immediata fortuna critica del Seme del piangere. Sono certamente ancora oggi da
leggere: C. BETOCCHI, Livorno: un poeta e una madre, in «Il popolo», 28 luglio
1959 (si veda anche ID., Sulla poesia di Giorgio Caproni. da «Il seme del piangere»
a «Il muro della terra» (1976), in ID., Confessioni minori, Firenze 1985); G. DE
ROBERTIS, Recensione al Seme del piangere, in «La Nazione», 5 settembre 1959
(poi, rielaborato insieme ad altri articoli, in ID., Altro Novecento, Firenze 1962, e
in G. CAPRONI, Poesie 1932-1986 cit.); P. CITATI, Recensioni a Il seme del
piangere, in «L’Illustrazione italiana», n. 11 (1959), e in «Il Punto», 14 novembre
1959; G. PAMPALONI, Giorgio Caproni quasi un poemetto, in «L’Approdo letterario», V (1959), n. 8 (si veda anche ID., Nota a G. CAPRONI, Tutte le poesie,
Milano 1983, pp. 627-32).
Della bibliografia caproniana, arricchitasi nel corso degli anni di numerosi
saggi, ritratti complessivi e monografie, che vanno infittendosi dopo la morte del
poeta, mi limito a segnalare un elenco essenziale dei contributi più stimolanti relativi a Il seme del piangere: P. BIGONGIARI, «Il lamento che il petto ti esplora»
(1959), in ID., Poesia italiana del Novecento, Milano 1960, pp. 223-29; M. FORTI, «Il Seme del piangere», in ID., Le proposte della poesia, Milano 1963, pp. 13740; G. BÁRBERI SQUAROTTI, Giorgio Caproni, in AA.VV., Letteratura italiana. I contemporanei, III, Milano 1969, pp. 699-714, in particolare pp. 700-4, e
ID., Giorgio Caproni, in Letteratura italiana. Il Novecento, diretta da G. Grana,
Milano 1979, IX, pp. 8449-63; S. RAMAT, Giorgio Caproni (1973), in Dizionario
critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca, I, Torino 19862, pp. 506-9;
A. DOLFI, Caproni e l’afasia del segno (1975), in ID., In libertà di lettura, Roma
1990, pp. 57-69; cfr. anche ID., Il «Singspiel» di Caproni (1981), ibid., pp. 71-75,
e ID., Caproni, la cosa perduta e la malinconia, in AA.VV., Il mio nome è sofferenza. Le forme e la rappresentazione del dolore, a cura di F. Rosa, Trento 1993, pp.
323-346; G. RABONI, Caproni al limite della salita, in «Paragone», XXVIII
(1977), 334, pp. 112-16; cfr. anche ID., Introduzione a G. CAPRONI, L’ultimo
borgo. Poesie (1932-1978), Milano 1980, pp. 5-13, poi in AA.VV., Alcuni scritti
sulla poesia di Caproni, in G. CAPRONI, Poesie 1932-1986 cit., pp. 793-98; P. V.
MENGALDO, Giorgio Caproni, in Poeti italiani del Novecento, a cura di P. V.
Mengaldo, Milano 1978, pp. 699-704; U. DOTTI, Giorgio Caproni, in «Belfagor», XXXIII (1978), 6, pp. 681-96; A. GIRARDI, Metri di Giorgio Caproni
(1979), in ID., Cinque storie stilistiche, Genova 1987, pp. 99-134; V. SERENI,
Giorgio Caproni, in Poesia italiana del Novecento, diretta da P. Gelli e G. Lagorio,
Milano 1980, II, pp. 609-11; A. BARBUTO, Giorgio Caproni. Il destino d’Enea,
Roma 1980, pp. 125-42; Genova a Giorgio Caproni, cit. (in questo volume si segnala il saggio di C. VITIELLO, Ritmo e linguaggio nel «Seme del piangere» di
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Caproni, pp. 121-29); L. TASSONI, Appunti sul canzoniere di Caproni, in «Paragone», XIXXIII (1982), 392, pp. 72-76; G. L. BECCARIA Caproni, la poesia, e
oltre (1984), in AA.VV., Alcuni scritti sulla Poesia di Caproni cit., pp. 809-12; S.
VERDINO, Caproni, la rima, in «Alfabeta», n. 72 (1985); M. MARCHI, Capoversi sul «Seme del piangere» (1985), in ID., Pietre di paragone, Firenze 1991, pp. 9097; L. SURDICH, Giorgio Caproni. Un ritratto, Genova 1990; A. DEI, Giorgio
Caproni cit.; W. CREMONTE, In margine ai «Versi livornesi» di Caproni, in
«Lengua», n. 12 (1992), pp. 57-65; B. FRABOTTA, Giorgio Caproni Il poeta del
disincanto, Roma 1993.
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