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Bibbia e filosofia

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Bibbia e filosofia
LE IDEE BIBLICHE CHE HANNO INFLUITO SUL
PENSIERO OCCIDENTALE
se” e le cose “furono”. E come tutte le cose del
mondo, Dio creò direttamente anche l'uomo: «Dio
disse: "Facciamo l'uomo" [...]». E Dio non usò alcunché di preesistente, come il Demiurgo platonico, né si avvalse di "intermedi" nella creazione. Egli produsse tutto dal nulla.
Con questa concezione della creazione "dal nulla",
veniva ad essere recisa alla base la maggior parte
delle aporie che da Parmenide in poi avevano travagliato l'ontologia greca. Dal "nulla" hanno origine
tutte le cose, senza distinzione. Dio crea liberamente, ossia con un atto di volontà, a motivo del
bene. Egli produce le cose come "dono" gratuito. Il
creato è dunque un positivo. La Bibbia insistentemente, parlando della creazione, sottolinea:
«E Dio vide che ciò era buono». La concezione
platonica del Timeo, che pure sostiene che il Demiurgo plasmò il mondo a motivo del bene, è qui
presentata su un piano nuovo e in un contesto assai più coerente.
Il creazionismo si imporrà come la soluzione per
eccellenza del problema antico del come e perché
dall'Uno derivano molti e dall'infinito il finito. La
stessa connotazione che Dio dà di se medesimo
parlando a Mosè: «Io Sono Colui che Sono», verrà
interpretata, in un certo senso, come la chiave per
intendere ontologicamente la dottrina della creazione: Dio è l'Essere per sua stessa essenza, la
creazione è una partecipazione di essere: Dio è
l'essere, le cose create non sono ma hanno
l'essere (lo hanno ricevuto per partecipazione).
1. Dal politeismo greco al monoteismo cristiano
La filosofia dei Greci era giunta a concepire l'unità
del divino come l'unità di una sfera che essenzialmente ammetteva nel proprio ambito una pluralità
di entità, di forze e di manifestazioni, a differenti
gradi e livelli gerarchici. Non era quindi giunta a
concepire l'unicità di Dio, e, per conseguenza, non
aveva mai sentito come un dilemma la questione
se Dio fosse uno o molti, e quindi era rimasta
sempre al di qua di una concezione monoteistica.
Solo con la diffusione del messaggio biblico nell'Occidente si impone la concezione del Dio uno e
unico. E la difficoltà per l'uomo di giungere a questa concezione è dimostrata dallo stesso comandamento divino «Non avrai altro Dio fuori di me» (il
che significa che il monoteismo non è affatto una
concezione spontanea) e dalle continue ricadute
nell'idolatria (che implica sempre una concezione
politeistica) del popolo stesso degli Ebrei, attraverso cui è stato trasmesso questo messaggio. E con
questa concezione del Dio unico, infinito in potenza, radicalmente diverso da tutto il resto, nasce
una nuova e radicale concezione della trascendenza, e crolla qualunque possibilità di considerare
come "divino" nel senso forte del termine qualunque altra cosa.
Anche i massimi pensatori della Grecia, Platone e
Aristotele, avevano considerato come "divini" (o
addirittura come dèi) gli astri, e Platone aveva
chiamato "Dio visibile" il cosmo e "Dèi creati" gli
astri, e nelle Leggi aveva dato avvio a quella religione astrale, basata proprio su tali presupposti.
La Bibbia recide in tronco ogni forma di politeismo
e di idolatria, ma anche qualsiasi compromesso di
quel genere. Leggiamo nel Deuteronomio: «E
quando alzerai gli occhi verso il cielo e vedrai il Sole, la Luna, le stelle, cioè tutto l’esercito del cielo,
non lasciarti trascinare, non prostrarti innanzi a essi e non rendere loro un culto». L’unicità del Dio
biblico comporta una trascendenza assoluta, che
pone Dio come totalmente altro da tutte le cose
in una maniera del tutto impensabile nel contesto
dei filosofi greci.
3. La concezione antropocentrica della Bibbia
Fra i filosofi greci la concezione antropocentrica
non ebbe se non una portata alquanto limitata.
Troviamo tracce di essa nei Memorabili di Senofonte che, naturalmente, sono una eco di idee socratiche. E, successivamente, troviamo interessanti sviluppi a questo riguardo nella Stoà di Zenone e
di Crisippo. Ma Zenone e Crisippo erano di origine
semitica, sicché è stata avanzata l’ipotesi che
l’antropocentrismo da essi professato fosse
nient’altro che una eco di idee bibliche, che proveniva dal loro patrimonio culturale etnico. In ogni
caso, l’antropocentrismo non fu una cifra del pensiero greco che, al contrario, in generale, si presentò sempre come fortemente cosmocentrico.
Uomo e cosmo sono strettamente congiunti e mai
contrapposti radicalmente, anche perché il cosmo
è, per lo più, concepito come dotato di anima e di
vita come l’uomo. E, per quanto grandi possano
essere stati i riconoscimenti della dignità e della
grandezza dell’uomo fatti dai Greci, essi si iscrivono sempre in un generale orizzonte cosmocentrico. L’uomo, nella visione ellenica, non è la realtà
più elevata del cosmo.
Nella Bibbia, per contro, più che come un momento del cosmo, ossia come una fra le cose del cosmo, l’uomo è visto come creatura privilegiata di
Dio, fatta “ad immagine” di Dio stesso, e, quindi,
dominatore e signore di tutte le altre cose create
per lui. Ad esempio, nella Genesi si legge: «Dio
disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, se-
2. La creazione dal nulla
Abbiamo visto quali e quanti siano stati i vari tipi di
soluzioni proposte dai Greci per quanto concerne il
problema dell’origine degli esseri: da Parmenide,
che risolveva il problema stesso con la negazione
di ogni forma di divenire, ai Pluralisti, che parlavano di "riunione" o "combinazione" di elementi eterni, a Platone, che parlava di un Demiurgo e di una
attività demiurgica, ad Aristotele, che parlava dell’attrazione di un Motore Immobile, agli Stoici, che
proponevano una forma di monismo panteistico.
Il messaggio biblico, invece, parla di "creazione",
proprio in limine: «In principio Dio creò il cielo e la
terra». E lo creò mediante la sua “parola”. Dio “dis1
condo la nostra somiglianza, e abbia dominio sui
pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame,
su tutte le fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”». E il Salmo 8 dice in maniera
paradigmatica: «Quando contemplo i tuoi cieli,
opera delle tue dita, la Luna e le stelle che Tu hai
fissato; che mai è l’uomo, mi dico, perché ti ricordi
di lui, e il figlio dell’uomo, perché ti interessi di lui?
Anzi, lo hai reso poco da meno di Dio; di gloria e
splendore lo hai coronato. Lo hai fatto signore delle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi
piedi: pecore e armenti tutti quanti, perfino le bestie selvatiche, gli uccelli dei cieli e i pesci del mare, che corrono i sentieri del mare».
E poiché l'uomo è fatto a immagine e somiglianza
di Dio, così deve sforzarsi in tutti i modi di “assimilarsi a Lui”. Già il Greco parlava di “assimilazione
a Dio”, ma riteneva di poterla raggiungere con l’intelletto, con la conoscenza. La Bibbia addita, invece, nella volontà lo strumento dell’assimilazione.
Assimilarsi a Dio, santificarsi, significa fare la volontà di Dio, ossia volere il volere di Dio. Ed è proprio questa capacità di fare liberamente la volontà
di Dio che pone l’uomo al di sopra di tutte le cose.
Socrate e Platone avevano parlato di “DioProvvidenza”: il primo a livello intuitivo, il secondo
in riferimento al Demiurgo che costruisce e governa il mondo. Aristotele ignora questo concetto, così
come lo ignora la maggior parte dei filosofi greci,
eccetto gli Stoici. Ma gli Stoici possono aver ricavato tale concezione, ancora una volta, dall’originario bagaglio culturale che affondava le sue radici
nell’origine semitica dei fondatori del Portico. Certo
è che, in ogni caso, la Provvidenza dei Greci non
riguarda mai il singolo uomo; e la Provvidenza
stoica, poi, coincide addirittura con il Fato, ed è
nient’altro che l’aspetto razionale della Necessità
con cui il logos produce e governa tutte le cose.
Invece, non solo la Provvidenza biblica è propria di
un Dio che è in sommo grado personale, ma si dirige, oltre che sul creato in generale, anche e in
particolare sui singoli uomini: e proprio sui più umili
e sui più bisognosi, e sugli stessi peccatori (si ricordino le parabole del "figliol prodigo" e della "pecorella smarrita"). Ecco uno dei passi più famosi e
significativi al riguardo, tratto dal Vangelo di Matteo: «Non vi affannate per la vostra vita, di quel che
mangerete, né per il vostro corpo, di che vi vestirete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più
del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano né mietono né raccolgono in granai, eppure il Padre celeste li nutre! Non valete voi più di essi? E chi di voi, affannandosi, può aggiungere un
cubito solo alla lunghezza della sua vita? E per il
vestito, di che vi affannate? Osservate i gigli del
campo, come crescono: non lavorano né filano, ma
vi dico che neppure Salomone, in tutta la sua gloria, fu mai vestito come uno di essi. Se, dunque,
Dio veste così l’erba del campo, che oggi è e domani si butta nel forno, quanto di più farà per voi,
gente di poca fede? Non vi affannate, dunque, e
non dite: “che cosa mangeremo?” o “che cosa berremo?” o “di che cosa vestiremo?”. Di tutto questo
si preoccupano i pagani, ma il vostro Padre celeste
sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate
innanzi tutto il suo regno e la sua giustizia, e tutte
queste cose vi saranno date in più. Non vi affannate dunque per il domani; il domani si affannerà di
se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».
E con altrettanta efficacia scrive Luca: «Se uno di
voi ha un amico e va da lui a mezzanotte per dirgli:
“Amico, prestami tre pani, poiché un amico mio è
arrivato da un viaggio e non ho cosa offrirgli” e se
l’altro di dentro gli risponde: “Non darmi noie, la
porta è ormai chiusa, e i miei bambini sono a letto
con me; non posso alzarmi per darteli!”, io vi dico
che, anche se non si leva per darglieli come amico,
si leverà per dargliene quanti gliene abbisognano,
almeno a motivo della sua importunità. Ed io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete,
bussate e vi sarà aperto. Chiunque, infatti, chiede
riceve; chi cerca trova; a chi bussa sarà aperto».
Ma anche nell’Antico Testamento questo senso di
totale fiducia nella Provvidenza divina è presente
nella stessa dimensione e nella stessa portata,
come si desume, ad esempio, dal Salmo 91: «Col
dire: “II Signore è il mio rifugio” hai preso l’Altissimo a tua difesa; non ti accadrà alcun male, né fla-
4. Il rispetto dei comandamenti divini: la virtù e
il peccato
Il Greco aveva inteso la legge morale come la legge della physis, la legge della natura stessa: una
legge che si impone, ad un tempo, a Dio e all’uomo, in quanto non è stata posta da Dio, ma ad essa Dio stesso è vincolato. Il concetto di un Dio che
dà la legge morale (un Dio “nomoteta”) è estraneo
a tutti i filosofi greci.
Per contro, il Dio biblico dà all’uomo la legge come
“comando”. Dapprima la dà direttamente ad Adamo e ad Eva e, successivamente, Dio “scrive” direttamente i comandamenti.
La virtù (il bene morale supremo) diventa l’ubbidienza ai comandamenti di Dio, e questa coincide
con la “santità”, virtù che risultava invece collocata
in secondo piano nella visione “naturalistica” dei
Greci. Il peccato (il male morale supremo) diventa,
per contro, una disubbidienza a Dio, e quindi si dirige contro Dio, in quanto va contro i suoi comandamenti.
La vita del Cristo, la sua passione e la sua morte si
svolgono per intero sotto il segno del fare la volontà del Padre che lo ha mandato. Lo scopo supremo della vita, l’amore di Dio, è fatto coincidere, anche nel Nuovo Testamento, col fare la volontà di
Dio, col seguire Cristo che ha attuato a perfezione
quella volontà.
L’antico “intellettualismo” greco resta in tal modo
interamente capovolto in un “volontarismo”. Il “volere di Dio” è la legge morale e “volere il volere di
Dio” è la virtù dell’uomo.
La buona volontà (il cuore puro) diventa la nuova
cifra dell’uomo morale.
5. II concetto di Provvidenza nella Bibbia
2
gello alcuno si avvicinerà alla tua dimora; perché
ai suoi angeli ha dato per te ordine di custodirti in
tutti i tuoi passi. Essi ti porteranno in palmo di mano, perché non inciampi il tuo piede nella pietra.
Camminerai sul leone e sulla vipera, e calpesterai
il leoncello e il serpente. Essendo a me affezionato, Io lo scamperò, lo trarrò in salvo, perché riconosce il mio Nome. Appena m’invoca Io lo esaudirò, sarò con lui nell’avversità, lo libererò e lo farò
onorato. Lo farò pago di lunga vita, e partecipe
della Mia salute».
È, questo, un messaggio di sicurezza totale, destinato a travolgere le fragili sicurezze umane che i
sistemi dell'età ellenistica avevano costruito, giacché nessuna sicurezza può essere assoluta se non
ha un aggancio preciso ad un Assoluto, e l’uomo
sente il bisogno appunto di questo tipo di sicurezza
totale.
essere solo con lui nella somiglianza della sua
morte, lo diventeremo altresì nella somiglianza della sua risurrezione; poiché, sappiamo bene, il nostro vecchio uomo fu crocifisso con Lui, affinché
fosse distrutto il corpo dominato dal peccato e noi
non si fosse più schiavi del peccato. Ora chi è morto è affrancato dal peccato. Se con Cristo siamo
morti, crediamo che con Lui parimenti vivremo,
ben consci però che Cristo, una volta risuscitato
dai morti, più non morrà, non avendo più la morte
alcun dominio su di Lui. Chi è morto, è morto al
peccato una volta per sempre: e chi vive, vive ormai per Iddio. Così voi pure consideratevi morti al
peccato, ma vivi per Dio in Cristo Gesù. Il peccato,
dunque, non regni più nel vostro corpo mortale sì
da piegarvi alle sue voglie, né vogliate offrire le vostre membra quali armi d’ingiustizia al servizio del
peccato; offrite invece a Dio voi stessi, come vivi risorti dalla morte, donate le vostre membra quali
armi di giustizia al servizio di Dio. Poiché il peccato
non eserciterà più il suo dominio sopra di voi, non
essendo voi sotto la legge, ma sotto la grazia».
L’incarnazione di Cristo, la sua passione espiatrice
dell’antico peccato che ha fatto ingresso nel mondo con Adamo e la sua risurrezione riassumono il
senso del messaggio cristiano: e questo sconvolge
interamente i quadri del pensiero greco. I filosofi
greci avevano parlato di una colpa originaria, desumendo il concetto dai misteri orfici e avevano in
qualche modo collegato il male, che l’uomo soffre
in sé, a questa colpa. Ma, in primo luogo, erano
rimasti ben lontani dallo spiegare la natura di questa colpa; in secondo luogo, erano rimasti convinti
che “naturalmente” il ciclo delle nascite (la metempsicosi) avrebbe cancellato la colpa negli uomini
comuni; che i filosofi avrebbero potuto liberarsi dalle conseguenze di quella colpa per virtù di conoscenza, quindi per forza umana, ossia in maniera
autonoma.
Il nuovo messaggio, oltre a mostrare la realtà ben
più sconvolgente della colpa originaria, che è una
ribellione contro Dio, rivela come nessuna forza di
natura o di umano intelletto avrebbe potuto riscattare l’uomo. Occorrevano l’opera di Dio stesso fattosi uomo e la partecipazione dell’uomo alla passione di Cristo in una dimensione che al Greco era
rimasta quasi del tutto ignota: la dimensione della
“fede”.
6. La disubbidienza a Dio riscattata dalla passione di Cristo
In base a quanto detto, risulta chiaro anche il senso del “peccato originale”. Esso è, come ogni peccato, disubbidienza, e, precisamente, la disubbidienza al comando originario di non mangiare il
frutto “dell'albero della conoscenza del bene e del
male”. La radice di tale disubbidienza è stata la
superbia dell’uomo, il non tollerare limitazione alcuna, il non volere avere i vincoli del bene e del
male (dei comandi), e, quindi, il voler essere come
Dio. Dio aveva detto: «Dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne dovete mangiare,
affinché non moriate». La tentazione del maligno
insinua: «No, non morirete! Anzi, Dio sa che nel
giorno in cui voi ne mangerete si apriranno i vostri
occhi e diverrete come dèi, conoscitori del bene e
del male». E alla colpa di Adamo ed Eva, che cedono alla tentazione trasgredendo il comando divino, consegue, come punizione divina, la cacciata
dal Paradiso terrestre con le relative conseguenze.
Fanno così ingresso nel mondo il male, il dolore e
la morte, l’allontanamento da Dio. E in Adamo tutta
l’umanità ha peccato; con Adamo il peccato ha fatto ingresso nella storia degli uomini e con il peccato tutte le sue conseguenze. Scrive Paolo: «[...] per
opera di un solo uomo il peccato entrò nel mondo
e attraverso il peccato la morte; così la morte passò su tutti gli uomini, perché tutti peccarono [...]».
Dal peccato originale e da tutte le sue conseguenze l’uomo da solo non avrebbe potuto salvarsi. E
come un dono fu la creazione, un dono fu l’antica
“alleanza” sancita e più volte tradita dall’uomo, un
dono, il più grande, fu anche il riscatto: Dio si è fatto uomo e con la sua passione e morte ha riscattato l’umanità dal peccato, e con la risurrezione ha
sconfitto la morte stessa, conseguenza del peccato. Scrive Paolo nella Lettera ai Romani: «[...] Non
sapete forse che tutti noi che fummo battezzati in
Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte?
Fummo, col battesimo, sepolti con lui nella morte,
affinché, come Cristo fu risuscitato da morte dalla
potenza gloriosa del Padre, così noi pure vivessimo di una vita nuova. Se infatti siamo diventati un
7. Il valore della fede e la partecipazione al Divino
La filosofia greca aveva svalutato la fede o credenza (pistis) dal punto di vista conoscitivo. Essa
riguardava le cose sensibili, mutevoli, ed era,
quindi, una forma di opinione (dóxa). L’ideale della
filosofia greca è l'epistéme, la conoscenza. E tutti i
pensatori greci additavano nella conoscenza la virtù per eccellenza dell’uomo e la realizzazione dell’essenza dell’uomo stesso.
Il nuovo messaggio richiede all’uomo proprio un
trascendimento di questa dimensione, capovolgendo i termini del problema e ponendo la fede al
di sopra della scienza.
3
Il che non significa che la fede non abbia un suo
valore conoscitivo: ma si tratta di un valore conoscitivo di natura del tutto differente rispetto alla conoscenza della ragione e dell’intelletto, e, comunque, di un valore conoscitivo che si impone solo a
chi possiede quella fede. Come tale, essa costituisce una vera e propria “provocazione” rispetto all’intelletto e alla ragione.
Sulle conseguenze di siffatta provocazione diremo
più avanti. Prima è necessario coglierne il senso in
generale. È ancora Paolo che nella Prima lettera ai
Corinzi lo rivela nella maniera più suggestiva: «La
predicazione della croce è certamente una follia
per coloro che si perdono, ma per coloro che sono
sulla via della salvezza, per noi, essa è la forza di
Dio. Sta infatti scritto: “Distruggerò la saggezza dei
saggi, e rigetterò l’intelligenza degli intelligenti”.
Dov’è il sapiente? Dov’è il letterato? Dove il sofista
di questo secolo? Non ha forse Iddio resa folle la
saggezza di questo mondo? Dacché, infatti, il
mondo non seppe con la sua saggezza conoscere
Iddio nelle manifestazioni della sapienza divina,
Iddio si compiacque di salvare i credenti mediante
la stoltezza della predicazione. E dato che i Giudei
reclamano miracoli e i Greci vanno in cerca di sapienza, noi, all’opposto, predichiamo un Cristo crocefisso, oggetto di scandalo per i Giudei e follia per
i pagani, ma per quelli che sono chiamati, siano
essi Giudei o Greci, un Cristo che è potenza di Dio
e sapienza di Dio. Poiché la follia di Dio è più sapiente degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte degli uomini. Infatti, considerate tra voi, o fratelli,
quelli che egli ha chiamato: non molti sono i sapienti secondo l’estimazione terrena; non molti i
potenti; non molti i nobili. Ciò che invece è stolto
per il mondo, Iddio lo scelse per confondere quello
che è forte; scelse ciò che per il mondo non ha nobiltà e valore, ciò che non esiste, per ridurre al nulla ciò che esiste, affinché nessuna creatura possa
vantarsi dinanzi a Dio. È per sua scelta che voi siete in Cristo Gesù, colui che, per opera di Dio, divenne per noi sapienza e insieme giustizia e santificazione e redenzione, affinché, come sta scritto:
Colui che si gloria, si glori nel Signore. E io, o fratelli, quando venni da voi, non venni ad annunziarvi la testimonianza di Dio con elevatezza di eloquio
o di sapienza; infatti mi proposi di non saper altro
in mezzo a voi all’infuori di Gesù Cristo, e Gesù
Cristo crocefisso. Mi presentai a voi in uno stato di
debolezza, di timore e di tremore; e la mia parola e
la mia predicazione non si appoggiavano sugli argomenti persuasivi della saggezza umana, bensì
sull’efficacia dimostrativa dello Spirito e della potenza divina affinché la vostra fede non si fondasse sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di
Dio. Noi esponiamo, sì, la sapienza ai cristiani perfetti; non però la sapienza di questo mondo e dei
prìncipi di questo mondo, votati alla distruzione.
Esponiamo una sapienza di Dio velata dal mistero,
sapienza rimasta occulta, che Dio, prima dell’origine dei tempi, preparò per la nostra gloria; sapienza
che nessuno dei prìncipi di questo mondo conobbe, poiché non avrebbero messo in croce il Signore della gloria, se l’avessero conosciuta. Come
dice la scrittura: “quello che occhio non vide e orecchio non udì e in mente d’uomo non venne;
quello che Iddio preparò per coloro che lo amano”,
Dio lo rivelò appunto a noi per opera dello Spirito.
Lo Spirito infatti sonda ogni cosa, persino le profondità di Dio. Chi, infatti, tra gli uomini conosce i
pensieri dell’uomo, all’infuori dello spirito dell’uomo
che è in lui? Così, parimenti, le cose di Dio nessuno le conosce, tranne lo Spirito di Dio. Ora noi non
abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, onde poter conoscere i doni
che Dio ci ha elargiti. E di questo altresì parliamo,
non con parole che insegna la sapienza umana,
ma con quella che insegna lo Spirito, adattando a
cose spirituali, parole spirituali. L’uomo terreno non
accoglie le cose proprie dello Spirito di Dio; per lui,
infatti, sono stoltezza, e non le può intendere, perché solo in modo spirituale si apprezzano. L’uomo
spirituale, all’opposto, esamina ogni cosa, ma da
nessuno egli è esaminato. Chi infatti ha conosciuto
lo Spirito del Signore, sì da poter insegnare a lui?
Ma quanto a noi, noi possediamo il pensiero di
Cristo».
Da questo messaggio eversivo di tutti gli schemi
tradizionali nasce addirittura una nuova antropologia (già largamente anticipata nel Vecchio Testamento). L’uomo non risulta più semplicemente
corpo e anima (dove per anima s’intende ragione
e intelletto), cioè a due dimensioni, ma a tre dimensioni: corpo, anima e spirito, dove lo spirito è
esattamente questa partecipazione al divino tramite la fede, l’apertura dell’uomo alla Parola divina e
alla divina Sapienza che lo riempie di una nuova
forza e gli dà, in un certo senso, una nuova statura
ontologica.
La nuova dimensione della fede, dunque, è la dimensione dello Spirito in senso biblico. I Greci avevano conosciuto la dimensione del noús, non
quella del pnèuma. Sarà questa, invece, la dimensione dei Cristiani.
8. L’eros greco, l’amore (agàpe) cristiano e la
grazia
II pensiero greco, in uno dei suoi vertici più significativi, ha creato, soprattutto con Platone, la teoria
dell’eros. Ma Eros non è Dio, perché è desiderio di
perfezione, tensione mediatrice che rende possibile la salita dal sensibile al soprasensibile, forza che
tende ad acquistare la dimensione del divino.
L’Eros greco è mancanza e possesso in una strutturale connessione intesa in senso dinamico e,
perciò, è forza acquisitiva ed ascensiva, che
s’accende soprattutto alla luce della bellezza.
Di ben altra natura è il nuovo concetto biblico di
amore (agàpe). L’amore non è in primo luogo “salita” dell’uomo, ma “discesa” di Dio verso gli uomini.
Non è “acquisto”, ma “dono”. Non è qualcosa di
motivato dal valore dell’oggetto cui si dirige ma, al
contrario, qualcosa di spontaneo e di gratuito.
Mentre per il Greco è l’uomo che ama, e non Dio,
per il Cristiano è soprattutto Dio che ama, e l’uomo
può amare nella dimensione del nuovo amore solo
operando una radicale rivoluzione interiore e as4
similando il proprio comportamento a quello di Dio.
L’amore cristiano è veramente senza limiti, infinito:
Dio ama gli uomini fino al sacrificio della Croce;
ama l’uomo anche nelle sue debolezze. Anzi, soprattutto in questo l’amore cristiano rivela la sua
sconcertante grandezza: nella sproporzione fra il
dono e il beneficiario di questo dono, il che significa nell’assolto gratuità di tale dono.
Nel comandamento dell’amore Cristo riassume
l’essenza dei comandamenti e della legge nel suo
complesso. L’illimitatezza dell’agape cristiana è
espressa da queste indicazioni che si leggono nel
Vangelo di Matteo: «Avete udito che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Io però vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre
vostro che è nei cieli, il quale fa levare il suo sole
sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli
ingiusti. Se, infatti, amate coloro che vi amano,
qual ricompensa avrete? Forse non fanno lo stesso anche i pubblicani? Voi, dunque, siate perfetti
come il vostro Padre celeste è perfetto».
La Prima lettera ai Corinzi di Paolo contiene il più
esaltante inno dell’agàpe cristiana: «Se anche io
parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, se
non ho l’amore, sono un bronzo risonante o un
cembalo squillante. E qualora avessi il dono della
profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e se avessi tutta la fede al punto da trasportare
le montagne, se non ho l’amore, nulla io sono. E
se distribuissi, per sfamare i poveri, tutti i miei beni, anzi se donassi il mio corpo al fuoco, se non ho
l’amore, a nulla mi serve. L’amore è paziente,
l’amore è benigno, non porta invidia; l’amore non
si vanta, non si gonfia di orgoglio, nulla fa di sconveniente, non cerca il suo interesse, non si irrita,
non serba rancore per il male, non gode
dell’ingiustizia, ma si rallegra del trionfo della verità; tutti tollera a tutti, crede, tutto sopporta.
L’amore non verrà mai meno. Invece, se sono le
profezie, svaniranno; se è il dono delle lingue,
cesserà; se è la scienza, diverrà inutile. Poiché
possediamo la scienza e abbiamo la profezia in
modo imperfetto, e quando verrà ciò che è perfetto, l’imperfetto sparirà. Quando ero bambino, parlavo da bambino, e da bambino pensavo e ragionavo; ma dacché sono diventato uomo, mi sono
disfatto di ciò che era infantile. Ebbene noi vediamo ora come in uno specchio, in un’ombra; allora
invece vedremo faccia a faccia. Adesso io conosco imperfettamente; ma allora conoscerò appieno, come sono conosciuto. Al presente rimangono
quindi queste tre cose: la fede, la speranza, l’amore; ma tra queste la più grande è l’amore».
«Beati i poveri in spirito, perché ad essi appartiene
il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno
consolati. Beati i miti, perché possederanno la terra. Beati gli affamati e gli assetati della giustizia,
perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia. Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per
la giustizia, perché ad essi appartiene il regno dei
cieli. Beati siete voi quando vi oltraggeranno e vi
perseguiteranno e diranno, mentendo, ogni male
contro di voi per causa mia. Gioite ed esultate,
perché la vostra ricompensa è grande nei cieli; così, infatti, perseguitarono i profeti che vi hanno
preceduti».
Secondo la nuova tavola dei valori bisogna tornare
alla semplicità e purezza del bambino, perché colui che è il primo secondo il giudizio del mondo sarà l’ultimo secondo il giudizio di Dio, e viceversa.
Scrive Matteo: «In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Chi, dunque, è il
più grande nel regno dei cieli?”. E Gesù, chiamato
a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse:
“In verità vi dico: se non cambiate e non diventate
come bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Il
più grande nel regno dei cieli è chi si fa piccolo
come questo bambino; e chi accoglie nel mio nome un bambino come questo, accoglie me”». Scrive Marco: «Sedutosi, Gesù chiamò i dodici e disse
loro: “Chi vuoi essere primo sia l’ultimo di tutti e di
tutti servo”».
L’umiltà diventa, in tal modo, una virtù fondamentale del Cristiano: la via stretta che dà accesso al
regno dei cieli. E anche questa era una virtù totalmente sconosciuta ai filosofi greci. Cristo dice addirittura: «Chi vuoi seguirmi rinneghi se stesso,
prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Poiché chi vuoi salvare la sua vita la perderà, ma chi
perderà la sua vita per causa mia la salverà». E
questo era, per il filosofo greco, semplicemente incomprensibile. Anche l’ideale supremo del saggio
ellenistico che aveva compreso la vanità del mondo e di tutti i beni esterni e del corpo, ma che in se
medesimo poneva la certezza suprema e si proclamava autarchico, assolutamente autosufficiente, capace di raggiungere da solo il fine ultimo,
viene, di conseguenza, sgretolato. Questo ideale
dell’uomo greco, che aveva creduto in sé più che
in tutte le cose esteriori con estrema fermezza, era
stato, indubbiamente, un nobile ideale; ma il messaggio evangelico lo dichiara, ormai, illusorio e in
maniera categorica. Non solo la salvezza non può
venire dalle cose, ma nemmeno da se medesimi:
«senza il mio aiuto - dice Cristo - non potrete fare
nulla». Paolo sigilla il capovolgimento del pensiero
antico, in uno splendido passo della Seconda lettera ai Corinzi. Dopo aver pregato Dio tre volte, perché Dio allontanasse da lui una grave afflizione
che lo umiliava, ebbe questa risposta: «Ti basti la
mia grazia, perché la mia potenza si mostra appieno nella debolezza». Perciò Paolo conclude: «Molto volentieri, perciò, preferisco gloriarmi delle mie
debolezze, affinché Cristo collochi in me la sua
dimora».
9. I valori fondamentali del Cristianesimo: la
purezza e l’umiltà
II messaggio cristiano ha segnato senza dubbio la
più radicale rivoluzione dei valori della storia umana. Nietzsche ha parlato addirittura di totale sovvertimento dei valori antichi, sovvertimento di cui il
“discorso della montagna” è la programmatica
formulazione. Leggiamo nel Vangelo di Matteo:
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10. La resurrezione dei morti
la mediazione fra la tematica dell’anima e la tematica della risurrezione dei morti, con l’inserimento
della nuova tematica dello Spirito, costituirà uno
dei temi maggiormente dibattuti nella riflessione filosofica dei Cristiani, sia pure con differenti esiti.
II concetto di “anima” è una creazione greca, a
partire da Socrate, che ne fa l’essenza dell'uomo,
a Platone, che ne fonda con prove razionali
l’immortalità, a Plotino, che ne fa una delle tre ipostasi. Certamente la psyché è una delle figure teoretiche che meglio contrassegnano la cifra del
pensiero greco e il suo idealismo metafisico. Gli
stessi Stoici, pur facendo aperta professione di
materialismo, ammettevano una sopravvivenza
dell’anima (sia pure fino al termine della successiva conflagrazione cosmica). Il Greco, insomma,
dopo Socrate, ha additato nell’anima l’essenza vera dell’uomo, non ha saputo pensare se stesso se
non in termini di corpo e di anima, e tutta la tradizione platonico-pitagorica e lo stesso Aristotele (e
quindi la maggior parte della filosofia greca) hanno
ritenuto l’anima per sua natura immortale.
Il messaggio cristiano ha proposto il problema
dell’uomo in termini completamente diversi. Nei testi sacri il termine “anima” non ricorre nelle accezioni greche. Il Cristianesimo non nega che, con la
morte dell’uomo, sopravviva qualcosa di lui, anzi
parla espressamente dei morti come accolti “nel
seno di Abramo”. Tuttavia il Cristianesimo non
punta affatto sulla immortalità dell’anima, ma sulla
“risurrezione dei morti”. È, questa, una delle cifre
della nuova fede. E la risurrezione implica il ritorno
alla vita anche del corpo.
Proprio questo doveva costituire un gravissimo ostacolo per i filosofi greci: era assurdo che quel
corpo che da essi era visto come ostacolo e fonte
di ogni negatività e di ogni male, quel corpo dovesse rinascere.
La reazione di alcuni Stoici ed Epicurei al discorso
tenuto da Paolo all’Areopago in Atene è quanto
mai eloquente. Essi ascoltarono Paolo finché parlò
di Dio. Ma quando parlò di “risurrezione dei morti”,
non gli permisero di continuare a parlare: ci viene
riferito negli Atti degli Apostoli: «[…] parte si misero
a beffarlo, parte dissero: “Su questo argomento ti
ascolteremo un’altra volta”. Così Paolo dovette lasciare la loro assemblea».
E Plotino, nella rinnovata prospettiva della metafisica del Platonismo, scriveva, in aperta polemica
con questa credenza dei Cristiani: «quanto di anima è nel corpo non è altro che anima addormentata; e il risveglio verace consiste nella risurrezione - quella vera risurrezione che è dal corpo,
non col corpo; poiché risorgere con un corpo equivale a cadere da un sonno in un altro, a passare,
per così dire, da un letto ad un altro: ma il vero levarsi ha qualcosa di definitivo: non da un corpo solo ma da tutti i corpi; i quali son proprio radicalmente contrari all'anima: onde spingono la contrarietà fino alla radice dell'essere. Ne da prova sinanche il loro divenire, il loro scorrere, il loro sterminio, che non rientra certo nell’ambito dell’essere».
Invece, molti pensatori cristiani, dal canto loro, non
ritennero la dottrina del Fedone e dei Platonici negatrice della propria fede, ma, al contrario, cercarono di accoglierla come chiarificatrice. Quello del-
[Sintetizzato da G. REALE – D. ANTISERI, Storia della filosofia, I, La Scuola, Brescia 1995, pp. 394-408]
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