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Il procedimento sommario di cognizione

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Il procedimento sommario di cognizione
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MAURO BOVE
Il procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis ss. c.p.c.
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Ambito di applicazione. – 3. Fase introduttiva e
complicazioni oggettive e/o soggettive. – 4. Udienza. – 5. Istruzione sommaria e decisione. – 6.
Appello. – 7. Conclusioni.
1. La legge n. 69/2009 ha introdotto nel codice di procedura civile, agli articoli 702-bis ss., un
procedimento speciale denominato “sommario di cognizione” che non è al servizio certamente di
una tutela cautelare né mira semplicemente a costituire un titolo esecutivo, mediante un
accertamento che valga al momento e per il momento, da poter sempre mettere in discussione in
ogni sede utile. Qui siamo lontani dalla logica che era sottesa all’art. 19 del d.lgs. n. 5/2003 (rito
societario). E siamo lontani dalla logica che sottende in generale i procedimenti sommari che,
ancorati alla tutela di certi diritti e/o al tipo di richiesta fatta al giudice o alla presenza di determinati
presupposti (ad esempio una certa prova come accade nel procedimento monitorio), possono
sfociare solo in un provvedimento di accoglimento della domanda, fermo restando che il rigetto non
pregiudica la possibilità di una sua riproposizione, seguendo sempre il rito sommario o l’alternativo
rito ordinario.
Al contrario qui siamo in presenza di un modulo procedimentale, che l’ordinamento offre per
una amplissima area di diritti svincolandolo da precisi presupposti o dal tipo di tutela richiesta, che
sta all’attore scegliere, se vuole evitare il rito ordinario, ed al giudice diciamo così confermare
(vedremo poi in quale senso), senza che il convenuto possa far pesare la sua opinione1. E questo
modulo, nel quale s’instaura il contraddittorio tra le parti e si accerta il diritto potenzialmente in
riferimento a tutta la sua fattispecie (fatti costitutivi e fatti impeditivi, modificativi ed estintivi), se
rimane nell’alveo originario (“sommario”), giunge in ogni caso ad una decisione, sia essa di
1
Quindi trattasi di un procedimento speciale che, se pone capo ad una decisione che produce la cosa giudicata,
tuttavia è alternativo al processo ordinario, restando all’attore la scelta. Da questo punto di vista c’è una differenza
rispetto ai riti speciali a cognizione piena, come il rito lavoro, i quali nell’ambito della loro applicabilità escludono il rito
ordinario.
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accoglimento o di rigetto, decisione che acquista l’efficacia della cosa giudicata, se non viene
impugnata.
Insomma, siamo in presenza di un processo che ha delle peculiarità strutturali, che poi
vedremo, ma che funzionalmente è al servizio della tutela dichiarativa, ossia percorrendo questa via
si giunge all’accertamento del diritto così come vi si giunge attraverso la via tracciata dagli articoli
163 ss. c.p.c., potendo l’interessato ottenere qualsiasi tipo di tutela dichiarativa (di condanna, di
mero accertamento o costitutiva). Alla fine del gioco non abbiamo semplicemente un titolo
esecutivo sulla base di un accertamento c.d. zur Zeit (al momento e per il momento), bensì abbiamo
la cosa giudicata, ossia la soluzione definitiva della lite (sia la domanda accolta o rigettata), che non
può essere messa in discussione in altro e successivo giudizio2.
2. Il rito in parola è utilizzabile in alternativa al rito ordinario nelle “cause in cui il tribunale
giudica in composizione monocratica” (art. 702-bis, 1° comma, c.p.c.)3.
Leggendo questa disposizione anche in collegamento con il 3° comma dell’art. 702-ter, ai
sensi del quale il giudice che non ritenga possibile seguire il rito “sommario” fissa l’udienza di cui
all’art. 183, si può dire che il procedimento in parola non è utilizzabile:
1) nelle cause di cui all’art. 50-bis c.p.c., nelle quali il tribunale giudica in composizione
collegiale4;
2) nelle cause sottoposte ad altro rito speciale, come ad esempio il rito lavoro, posto che il rito
di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c. è in alternativa al rito di cui agli artt. 163 ss. c.p.c. (infatti il giudice
che non procede per la strada del “sommario” deve fissare l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.);
2
Questi caratteri essenziali sono stati già rilevati, oltre che dalla dottrina, anche dalla giurisprudenza. Vedi
un’ordinanza del 18 novembre 2009 del Tribunale di Varese (in Guida al diritto 2009, fasc. 50, 46-49), nella quale
giustamente si rileva come il procedimento in parola non possa iscriversi propriamente nell’alveo dei procedimenti
sommari, trattandosi piuttosto di un “rito semplificato” di cognizione, di una sorta di processo speciale, alternativo al
processo ordinario, idoneo a fornire quella stessa tutela dichiarativa a cui mira il processo ordinario.
3
Se questa è la regola generale, si potrebbe anche ammettere l’utilizzabilità del procedimento in parola per
esercitare un’azione possessoria ove il ricorrente rinunci alla fase interdittale, che in sé non è un passaggio necessario.
Uno spunto in questo senso, ancorché in termini dubitativi, in OLIVIERI, Il procedimento sommario di cognizione, in
AULETTA, BOCCAGNA, CALIFANO, DELLA PIETRA, OLIVIERI, RASCIO, Le norme sul processo civile nella legge per lo
sviluppo economico la semplificazione e la competitività, Napoli 2009, 79 ss., spec. 83.
4
Si segnala a tal proposito un’ordinanza del Tribunale di Prato del 10 novembre 2009 (in Foro it. 2009, fasc. 11,
Anticipazioni e novità, 16), nella quale si dichiara ammissibile il ricorso presentato ai sensi dell’art. 702-bis contenente
una domanda di revocatoria fallimentare, in quanto la giurisprudenza ritiene che trattasi di causa da decidere in
composizione monocratica.
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3) nelle cause di competenza del giudice di pace per il duplice motivo che, per un verso, la
disposizione fa esplicito rifermento solo alle cause di competenza del tribunale e, per altro verso, in
fondo anche quello di fronte al giudice di pace rappresenta un altro rito speciale disciplinato
peculiarmente dagli artt. 311 ss. c.p.c.5.
È evidente che, fatte le dette esclusioni, il rito sommario sia utilizzabile su scelta dell’attore ad
ampio spettro. In tutta l’area nella quale può giudicare il tribunale in composizione monocratica è
possibile agire, anziché secondo le forme degli artt. 163 ss., secondo le forme degli artt. 702-bis ss.,
senza che vi sia bisogno di soddisfare altri requisiti diciamo così formali. Insomma detto rito:
-non è al servizio della tutela di certi tipi di diritti,
-non presuppone l’utilizzazione di certi tipi di prova,
-non è limitato alla possibilità di chiedere solo un provvedimento di condanna, potendosi anzi
mirare anche ad una pronuncia di mero accertamento o ad una pronuncia costitutiva, rilievo
confermato dalla previsione di cui all’art. 702-ter, 6° comma, c.p.c. per cui il provvedimento finale
è soggetto a trascrizione6.
3. Se nelle opinioni della dottrina spesso l’idea di un processo sommario evoca l’immagine di
una struttura procedimentale scarsamente predefinita dalla legge, per questo c.d. procedimento
sommario è invece disciplinata in modo minuzioso la fase introduttiva del giudizio, comprendente
la proposizione della domanda e la costituzione delle parti.
La domanda assume la forma del ricorso che, da depositare preso il tribunale competente,
deve essere sottoscritto a norma dell’art. 125 c.p.c. e contenere le indicazioni di cui ai numeri 1, 2,
5
Conformemente LUISO, Il procedimento sommario di cognizione, in Giur. It. 2009, 1568; MENCHINI, L’ultima “idea”
del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, in Corr.
Giur. 2009, 1025 ss., in partic. 1026-1027.; BALENA, Il procedimento sommario di cognizione, in Foro it. 2009, V, 324
ss., spec. 325.; DITTRICH, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. Proc. 2009, 1582 ss., spec. 15851586. Si distingue la posizione di OLIVIERI, op. cit., 84-85, secondo il quale il procedimento in parola è utilizzabile
anche in alternativa al rito lavoro. Per critiche specifiche a quest’ultima tesi vedi DALFINO, Sull’inapplicabilità del
nuovo procedimento sommario di cognizione alle cause di lavoro, in Foro it. 2009, V, 392 ss. Al di là delle
argomentazioni tecniche, anche letterali, spese dai vari autori, a me sembra francamente irragionevole che il
legislatore, dopo aver creato per le cause di lavoro un rito speciale fondato su un’esigenza di maggior celerità, possa
attribuire all’interessato la facoltà di utilizzare un altro rito speciale in ipotesi ancor più celere. È come confessare
l’inutilità di quella tutela differenziata che si sostanzia nel rito lavoro! Peraltro, è anche vero che ogni sforzo
dell’interprete di fronte alla legge non riesce ad offrire soluzioni a perfetta tenuta. Vedremo, allora, come si orienterà
la prassi.
6
Vedi ancora MENCHINI, op. cit., 1027.
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3, 4, 5 e 6 nonché l’avvertimento di cui al numero 7) del terzo comma dell’art. 163 c.p.c. Insomma
l’attore deve sostanzialmente dire, in termini d’individuazione del diritto e di supporto della sua
pretesa in riferimento alle allegazioni in fatto e in diritto nonché ai mezzi di prova di cui intende
avvalersi, quanto avrebbe detto se avesse iniziato un processo ordinario. Né si può pensare che in
una fase successiva egli non possa più allegare e provare: queste attività ulteriori saranno possibili
nei limiti di cui all’art. 183 c.p.c., ove il giudice decida di passare al rito ordinario, ovvero
nell’udienza che sarà celebrata nell’ambito del procedimento sommario, se il giudice riterrà di
mantenersi in questo alveo.
Depositato il ricorso, il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio e lo presenta senza ritardo al
presidente del tribunale, il quale designa il magistrato a cui è affidata la trattazione del
procedimento7. A questo punto il giudice designato provvede all’instaurazione del contraddittorio
con il convenuto, fissando con decreto l’udienza di comparizione delle parti ed assegnando il
termine per la costituzione del convenuto, che deve avvenire non oltre dieci giorni prima
dell’udienza. Ricorso e decreto di fissazione dell’udienza sono notificati al convenuto almeno trenta
giorni prima della data fissata per la sua costituzione8. Non è specificato se la detta notificazione
debba avvenire a cura dell’attore o dell’ufficio, ma credo che sia preferibile la prima soluzione9,
invocando analogicamente quanto previsto nell’art. 415, 4° comma, c.p.c. nell’ambito del rito
lavoro, che prevede un meccanismo analogo.
Il convenuto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria della comparsa di risposta, nella
quale deve proporre le sue difese e prendere posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento
della domanda10, deve indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in
7
Peraltro, come è stato giustamente rilevato (BALENA, Il procedimento sommario di cognizione cit., 325, nt. 3), nulla
osta all’applicazione dell’art. 168-bis c.p.c. nella parte in cui prevede che nei tribunali divisi in più sezioni il presidente
assegna la causa ad una di esse e il presidente di questa provvede alla designazione del magistrato a cui è affidata la
trattazione.
8
Se, visto l’art. 39, 3° comma, c.p.c., è certo che gli effetti processuali della domanda siano da collegare al momento
del deposito del ricorso, resta il dubbio sulla decorrenza degli effetti sostanziali. Invero, il fatto che per la loro
produzione sia necessaria la notificazione dell’atto contenente la domanda (art. 2943 c.c.), non esclude che essi
possano retroagire al momento del deposito del ricorso.
9
10
Analogamente OLIVIERI, op. cit., 87.
La qual cosa a mio parere significa che egli deve anche contestare specificamente i fatti affermati dall’attore, se non
vuole che questi sia assolto dall’onere di provarli (art. 115 c.p.c.). Peraltro, se l’onere di contestazione incide sul
riparto dell’onere della prova, a me sembra ragionevole ritenere che esso vada assolto nei termini in cui sono possibili
ancora nuove produzioni o istanze istruttorie. Ed, allora, se, come a me sembra ragionevole (vedi infra), dette
produzioni o istanze sono ammesse fino alla prima udienza (e non oltre), anche la contestazione dei fatti allegati dalla
controparte deve avvenire al massimo entro questa udienza. Una contestazione successiva è sì possibile, ma comporta
per il convenuto un’inversione dell’onere della prova.
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comunicazione, nonché formulare le conclusioni. Come accade anche nel rito ordinario (art. 167
c.p.c.), il convenuto deve proporre nella comparsa di risposta, a pena di decadenza, le eventuali
domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio.
Insomma, se qui la proposizione della domanda segue la tecnica del ricorso, mentre nel rito
ordinario essa segue la tecnica dell’atto di citazione, non siamo però in presenza di due quadri
molto diversi l’uno dall’altro. Del resto, come è stato già rilevato11, posto che il procedimento in
parola potrebbe trasformarsi in un procedimento ordinario a partire dalla fissazione dell’udienza di
cui all’art. 183 c.p.c., era inevitabile che la disciplina della fase introduttiva di questo giudizio fosse
ricalcata sul modello del rito ordinario.
Ed, anzi, anche in questo c.d. procedimento sommario si possono avere addirittura
complicazioni. Dette complicazioni possono aversi certamente ad opera del convenuto, il quale può,
non solo proporre domanda riconvenzionale, con ciò creando una complicazione solo oggettiva, ma
può anche chiamare in causa un terzo e direi non solo sub specie di chiamata in garanzia, come dice
esplicitamente l’art. 702-bis, 5° comma, c.p.c., ma anche in riferimento a tutte le altre possibili
chiamate di cui all’art. 106 c.p.c., la cui esclusione non sarebbe comprensibile12.
Ma, ancorché non esplicitamente previsto, le complicazioni possono derivare anche
dall’attività dell’attore o da quella di terzi. Dal primo punto di vista, non si vede come si potrebbe
impedire all’attore di proporre una reconventio reconventionis o di attivarsi per la chiamata di un
terzo a seguito delle difese assunte dal convenuto nella comparsa di risposta13. Si ripropone qui la
stessa logica dell’art. 269, 3° comma, c.p.c., che si esplicherà nell’udienza fissata dal giudice. Né si
vede come potrebbero impedirsi l’intervento volontario del terzo ai sensi dell’art. 105 c.p.c., almeno
nei limiti in cui si tratta di un terzo che, se non intervenisse, potrebbe proporre opposizione ai sensi
dell’art. 404 c.p.c.
11
Cfr. LUISO, Il procedimento sommario di cognizione cit., 1568; MENCHINI, op. cit., 1027-1028; OLIVIERI, op. cit., 89.
Cfr. anche CAPONI, Un modello ricettivo delle prassi migliori: il procedimento sommario di cognizione, in Foro it. 2009,
V, 334 ss., in partic. 335.
12
Analogamente a quanto avviene nel processo ordinario, il convenuto deve, a pena di decadenza, dichiarare nella
comparsa di risposta la sua intenzione di chiamare in causa il terzo e chiedere al giudice lo spostamento dell’udienza. Il
giudice, con decreto comunicato dal cancelliere alle parti costituite, provvede a fissare la data della nuova udienza
assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo. La costituzione del terzo avviene seguendo le stesse
regole che valgono per il convenuto, per cui egli deve depositare una comparsa nella quale svolgere attività a pena di
decadenza.
13
Analogamente BALENA, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile (un primo commento della l. 18 giugno 2009,
n. 69), in Il giusto processo civile 2009, 749 ss., spec. 808.
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Altro è poi che, a seguito di simili complicazioni il giudice decida di mantenere il processo
nell’alveo del rito sommario, scelta le cui coordinate vedremo in seguito.
Da questa disciplina emergono almeno due grosse perplessità.
La prima attiene ai termini a difesa del convenuto che ammontano a trenta giorni, mentre nel
rito ordinario, dovendosi avere almeno novanta giorni dalla notificazione della citazione e l’udienza
e dovendo il convenuto costituirsi venti giorni prima di detta udienza, essi ammontano a settanta
giorni.
Ora, il convenuto non ha la possibilità di incidere nella scelta del rito effettuata dall’attore, per
cui, anche se questa scelta dovesse essere smentita dal giudice, che ritiene necessario procedere
secondo il rito ordinario, in ogni caso, quando il processo si trasformerà, stando alla lettera della
normativa sembra che il convenuto non possa recuperare il maggior termine a difesa. Per far fronte
a questo inconveniente, che rischia di far emergere un profilo di incostituzionalità, alcuni hanno
ritenuto che, in caso di conversione del rito da “sommario” ad “ordinario”, si debba recuperare quel
termine a difesa14. Ma questo modo di parare un’eventuale dubbio di costituzionalità è idoneo allo
scopo solo se ritiene che con la fissazione dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., provvedimento col
quale è marcato il passaggio al rito ordinario, al convenuto sia anche attribuita la possibilità di
depositare una comparsa nella quale fare tutte le attività di cui all’art. 167 c.p.c., cosa per nulla
scontata, visto il disposto dell’art. 702-bis, 4° comma, c.p.c. Invero, sembra piuttosto doversi
ritenere che le preclusioni derivanti da quest’ultima previsione restino tali ove il procedimento,
dopo essere iniziato secondo il rito sommario, prenda la via del rito ordinario, per cui in tal caso
sembra proprio che le parti siano rimesse in corsa per svolgere le sole attività elencate nell’art. 183
e non anche quelle elencate nella comparsa di risposta di cui all’art. 167 c.p.c. Se si accoglie questa
interpretazione, che francamente a me pare l’unica compatibile col quadro normativo, il rimedio al
problema sollevato sembra difficile da trovare.
Si potrebbe tentare di battere la strada di un’interpretazione costituzionalmente orientata
dell’art. 702-bis, 3° comma, in virtù della quale imporre al giudice di fissare anche il termine per la
notificazione al convenuto del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza badando a che siano
rispettati, nello spazio tra detta notificazione ed il termine per la costituzione del convenuto, i
termini a difesa previsti nel rito ordinario, ossia settanta giorni. Ma questa è una strada difficile da
percorrere, perché, anche a voler ammettere che il giudice debba fissare pure un simile termine,
sembra ardua la possibilità di affermarne la perentorietà, visto il tenore dell’art. 152 c.p.c.
14
Così BALENA, Il procedimento sommario di cognizione cit., 328. Nello stesso senso sembrano essere gli ordini di
servizio dei tribunali di Bologna e Genova, di cui, però, non ho notizia diretta.
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Ecco, allora, che ci troviamo di fronte ad un problema insolubile, stretti tra la difficoltà di
affermare un’interpretazione “creativa” come quella appena proposta e lo spettro della questione di
costituzionalità.
La seconda perplessità attiene all’eventualità che le complicazioni coinvolgano cause per le
quali non è ammessa la percorribilità della via sommaria (cause di lavoro, cause che devono essere
decise dal tribunale in composizione collegiale, cause di competenza del giudice di pace). A tal
proposito il secondo comma dell’art. 702-ter sembra non dare scampo nel senso che il giudice
dovrebbe dichiarare l’inammissibilità di una domanda di questo tipo. E così si esprime la dottrina15.
Ma mi domando se una simile conclusione sia necessaria e condivisibile in ogni caso.
Si faccia l’ipotesi di una domanda riconvenzionale che di per sé sarebbe di competenza del
giudice di pace. Ora, se il simultaneo processo tra due cause che autonomamente sarebbero di
competenza una del tribunale ed una del giudice di pace ben si può instaurare di fronte al primo,
perché mai si dovrebbe escludere il simultaneo processo sommario? Insomma, se le regole sul
simultaneo processo consentono uno spostamento di competenza, dal giudice di pace al tribunale,
perché mai questo spostamento non dovrebbe consentire anche di far rifluire nell’alveo del rito
sommario una domanda riconvenzionale che se fosse stata proposta da sola non avrebbe potuto
avvalersi di esso?
Altro è il discorso rispetto alle domande riconvenzionali da trattare col rito lavoro o dal
tribunale in formazione collegiale. Per queste sì che si deve predicare la loro inammissibilità nel
processo sommario.
4. Innanzitutto è possibile che il giudice decida di non decidere nel merito la causa. L’art.
702-ter prevede solo due casi in cui si ha la pronuncia di un’ordinanza di rigetto in rito: che il
giudice si dichiari incompetente o che egli dichiari la domanda inammissibile.
Sulla pronuncia d’incompetenza con ordinanza c’è poco da dire se non da notare, per un
verso, che la domanda proposta in via sommaria di fronte al tribunale per una causa di competenza
del giudice di pace subirà un rigetto, non per inammissibilità, bensì per incompetenza16 e, per altro
verso, che ormai la forma dell’ordinanza, per la dichiarazione di incompetenza, è quella prevista
anche nel rito ordinario. Ovviamente, però, trattasi di un’ordinanza sui generis, un’ordinanza che ha
la sostanza di una sentenza, posto che il giudice con essa si spoglia della causa, che a questo punto
15
16
MENCHINI, op. cit., 1028.
Nello stesso senso DITTRICH, op. cit., 1585. Ovviamente, posto che alla pronuncia d’incompetenza, segue la
possibile translatio iudicii, essa consente, a differenza della pronuncia d’inammissibilità, la salvezza degli effetti
sostanziali e processuali della domanda originariamente proposta in modo errato.
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può conoscere solo un momento impugnatorio per mezzo della proposizione del regolamento di
competenza.
Piuttosto qui restano in ombra due aspetti dubbi.
In primo luogo la genericità della norma potrebbe far pensare che in questo procedimento il
giudice possa rilevare ogni profilo d’incompetenza. Ma francamente non comprendo perché il
giudice dovrebbe potersi dichiarare incompetente anche per un profilo territoriale derogabile,
quando un simile rilievo d’ufficio non gli è consentito nel rito ordinario ai sensi dell’art. 38 c.p.c.
In secondo luogo, ove il giudice non si dichiari incompetente e trasformi il rito sommario in
rito ordinario fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., non si comprende se debba operare il terzo
comma dell’art. 38 c.p.c., ai sensi del quale il giudice può rilevare l’incompetenza per materia,
quella per valore e quella per territorio inderogabile appunto nell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.
Stando alla lettera delle disposizioni sembra proprio che debba sopravvivere ancora il potere di
rilievo d’ufficio alla consumazione dell’udienza nel rito sommario. Ma anche qui la dimenticanza
del legislatore potrebbe essere corretta dall’interprete. Invero, il senso di tutto l’impianto dell’art. 38
sta nel costringere i protagonisti del gioco processuale a rilevare profili d’incompetenza al loro
primo comparire sulla scena. Così il convenuto deve attivarsi nella comparsa di risposta ed il
giudice nell’udienza di cui all’art. 183 perché per lui è la prima circostanza utile per effettuare
rilievi. Ed allora, se questa è la logica, quando si parte col rito sommario, il primo momento utile è
quello dell’udienza di questo rito, per cui non si vede perché, non rilevato un profilo
d’incompetenza in detta udienza, il giudice dovrebbe poter ancora rilevare un profilo
d’incompetenza per una ragione puramente, se così possiamo dire, casuale, ossia come conseguenza
della decisione di passare al rito ordinario.
Insomma, il giudice, se ritiene di rilevare un profilo d’incompetenza, lo fa e lo deve fare
subito. Poi, quando passa a stabilire se procedere secondo il rito sommario o il rito ordinario, si
trova ormai su un piano diverso: egli ormai ha ritenuto che non vi siano ostacoli nella competenza e
si occupa del merito e non si vede perché dovrebbe poter tornare indietro ove ritenga di procedere
secondo il rito ordinario.
Si prevede poi che il rigetto in rito della domanda possa avvenire perché essa è inammissibile
in quanto è stata instaurata col rito sommario una causa al di fuori del campo di applicazione degli
artt. 702-bis ss. In questo caso l’ordinanza di rigetto è qualificata come non impugnabile. Di
conseguenza essa, se riguarda solo una delle cause cumulate, non è modificabile o revocabile dal
giudice che l’ha pronunciata, immaginando che il procedimento continui per le altre domande
ammissibili. Se, invece, era in gioco solo la domanda originaria dell’attore, allora il processo si
chiude e la relativa ordinanza, essendo qualificata come non impugnabile, non è soggetta ad
appello. Né credo a ricorso per cassazione, perché, per un verso, non sembra configurabile un diritto
(processuale) alla decisione in via sommaria e, per altro verso, resta pur sempre all’interessato la
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possibilità di ritentare la via della tutela sommaria o di azionare il diritto mediante le forme del rito
ordinario17.
A proposito di questo profilo di rito residua un dubbio: detta inammissibilità della domanda
sommaria è rilevabile solo in questa fase, prima di passare a valutare la trattabilità della causa nel
merito, oppure essa, non rilevata subito, può essere rilevata in un momento successivo e magari
anche in appello? Dall’art. 702-ter non emerge una chiara indicazione al proposito. È vero che
l’incipit del 5° comma (“Se non provvede ai sensi dei commi precedenti…”) sembra quasi voler
dire che quando il giudice passa a trattare nel merito la causa seguendo il rito sommario ogni profilo
di inammissibilità dovrebbe essere superato. Ma è pure vero che in linea di principio il legislatore,
quando vuole stabilire delle preclusioni anche a carico del giudice, si esprime in modo più
univoco18 di quanto si sia espresso nella norma in commento. Quindi, ancorché con qualche
perplessità, propenderei per l’idea che la pronuncia di inammissibilità sia possibile anche in una
fase avanzata del procedimento ed al limite pure in appello19, sempre che ovviamente il giudice non
abbia deciso, ai sensi del 3° comma dell’art. 702-ter, di trasformare il procedimento passando al rito
ordinario, eventualità che dovrebbe rendere ormai irrilevante il fatto che la domanda sommaria
fosse inammissibile.
Ma non è escluso che la decisione di non decidere nel merito la causa dipenda dalla carenza di
qualche altro presupposto processuale non sanato (nullità dell’atto contenente la domanda, difetto di
rappresentanza, autorizzazione o vizio che inficia la procura al difensore, difetto d’integrazione del
contraddittorio) o non sanabile (carenza di interesse ad agire, legittimazione ad agire, precedente
giudicato o sussistenza di un patto compromissorio). Allora si avrà sempre la pronuncia di
un’ordinanza, avverso la quale, se non è proponibile un rimedio peculiare, come ad esempio il
regolamento di competenza avverso una pronuncia che rilevi la sussistenza di un patto
compromissorio, è proponibile l’appello ai sensi dell’art. 702-quater c.p.c.
Se non vi sono impedimenti processuali, il giudice si pone il problema di trattare e decidere la
causa nel merito20. Qui si pone la domanda centrale di tutta la procedura in commento, i cui termini
17
Nello stesso senso LUISO, Il procedimento sommario di cognizione cit., 1568.
18
Si faccia l’esempio del 3° comma dell’art. 38 c.p.c.
19
Analogamente LUISO, Il procedimento sommario di cognizione cit., 1568-1569; MENCHINI, op. cit., 1033. Nello
stesso senso DITTRICH, op. cit., 1587, il quale tuttavia fa emergere con decisione l’irragionevolezza della scelta
legislativa. Detta irragionevolezza, a mio parere, si potrebbe attutire solo valorizzando il citato incipit del comma 5°
dell’art. 702-ter e rendendo così il profilo in questione rilevabile solo immediatamente all’inizio della giudizio di primo
grado.
20
Fermo restando che, ovviamente, gli impedimenti processuali rilevabili anche successivamente possono sempre
riemergere.
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emergono di fronte al giudice dal disposto del 3° comma dell’art. 702-ter. Ossia: ha la causa
bisogno di essere istruita in modo sommario o non sommario? Dai mezzi di attacco e di difesa spesi
dalle parti emerge la possibilità di procedere secondo il rito sommario o piuttosto l’esigenza di
procedere secondo il rito ordinario? Il giudice, se si convince di questa esigenza, con ordinanza non
impugnabile fissa l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., ossia con una decisione insindacabile e non
revocabile, nel senso che non si può tornare indietro, egli porta il procedimento sul binario del rito
ordinario. Se, al contrario, egli vede quella possibilità, allora alla prima udienza “il giudice, sentite
le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più
opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e
provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande”.
In base a cosa precisamente il giudice deve fare la sua scelta tra il seguire una via più
(pre)definita, ma lunga, ed una via più agile e più breve?
Ovviamente qui siamo lontani dalla logica del procedimento cautelare, nell’ambito del quale
la deformalizzazione dell’attività istruttoria è imposta dall’esigenza del provvedere presto. Detta
urgenza, fondata sulla valutazione di un periculum in mora, impone un “far presto” a scapito di un
“far bene”, fermo restando che poi il “far bene” sarà recuperato nel processo di cognizione21. Al
contrario nel procedimento di cui agli articoli 702-bis ss., che mira alla pronuncia di un
provvedimento che, lungi dall’essere funzionalmente destinato ad un suo superamento da un
successivo provvedimento di accertamento stabile del diritto, vuole rappresentare esso stesso
quell’accertamento, la deformalizzazione è consentita dal modo in cui nel caso concreto si presenta
la causa agli occhi del giudice. Il “far presto”, ossia la possibilità (non la necessità) di procedere per
una via semplificata, non è imposto dall’urgenza del provvedere, ma è consentito dalla semplicità
della causa per come in concreto essa si pone. E ciò è talmente vero che l’urgenza del provvedere è
comunque soddisfatta, eventualmente, dalla concessione di un provvedimento cautelare, anche se
poi l’interessato dovesse instaurare la causa di merito seguendo le forme di cui agli articoli 702-bis
ss., piuttosto che quelle degli articoli 163 ss. c.p.c.
A mio parere non si tratta tanto di “annusare” la causa, facendosi un’idea sulla manifesta
fondatezza o infondatezza della domanda22, quanto piuttosto di valutare nel caso concreto se la
21
Questa logica, che implica precise caratteristiche strutturali, non è venuta meno neanche nel momento in cui il
legislatore ha distinto tra cautela conservativa e cautela anticipatoria, collegando solo alla prima la necessità
d’instaurare il processo dichiarativo. Ancorché il provvedimento cautelare anticipatorio stia in piedi da sé, esso
comunque è concesso mediante un mero accertamento del fumus del diritto sostanziale azionato, rinviando ad un
successivo processo dichiarativo l’accertamento del diritto con forza di giudicato, a prescindere dal fatto che poi
questo processo dichiarativo sia effettivamente celebrato o meno.
22
Così, in un primo momento, LUISO, Il procedimento sommario di cognizione cit., 1569, il quale, però, in un secondo
momento è venuto su posizioni analoghe a quelle che si sostengono nel testo. Così in Diritto processuale civile, IV,
Milano 2009, 117-118, ove dice: “Probabilmente (…) dovrebbe essere la semplicità della dell’istruzione ad essere
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causa appare semplice sul piano istruttorio. Insomma, il giudice deve chiedersi se la causa richieda
o meno accertamenti di fatto complessi, numerosi o comunque di lunga indagine23. Naturalmente
con ciò il legislatore si è affidato alla sensibilità del giudice che gode di un ampio margine di
discrezionalità nella scelta, per cui in fondo ben poco si può dire in astratto sui termini di essa. A tal
proposito ben si è espresso, a mio parere, il Tribunale di Mondovì24 che ha rilevato come, proposta
domanda ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., la possibilità di proseguire secondo il rito sommario non
dipende tanto dal tipo di causa, perché non vi sono cause in sé complesse o semplici25, quanto
piuttosto dagli atteggiamenti che hanno in concreto assunto le parti, dai quali deriva “la quantità” di
attività istruttoria da compiere. Così nel caso deciso detto tribunale mantiene il processo nell’alveo
del rito sommario perché, considerata la sostanziale non contestazione dei fatti di causa e comunque
i documenti presentati, si trattava solo di procedere ad una consulenza tecnica per stabilire il valore
di un immobile, che, dice il tribunale, ben può essere eseguita con rapidità26.
Quindi, si ripete, se la causa non appare semplice sul piano istruttorio il giudice con ordinanza
fissa l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., passando al rito ordinario, scelta questa non sindacabile né
revocabile, nel senso che poi non si può tornare al rito sommario. Se, invece, la causa appare
semplice, allora il giudice procede secondo il rito sommario, fermo restando che egli può sempre
decisiva. Quindi con il rito sommario possono essere trattate le cause “semplici”: vuoi perché la domanda è
manifestamente fondata o infondata (…), vuoi perché si tratta di controversia di puro diritto o documentalmente
istruita, vuoi perché vi sono uno solo o pochi fatti controversi da istruire, e le prove sono di facile assunzione”.
23
Così MENCHINI, op. cit., 1030. Analogamente DITTRICH, op. cit., 1588.
24
Ordinanza del 10 novembre 2009, in Guida al diritto 2009, fasc. 50, 50-51.
25
Né, aggiungo, la complicazione oggettiva e/o soggettiva in sé del processo è decisiva, perché ben si può avere
anche un processo cumulato che si può svolgere pure secondo il rito sommario, se l’istruzione da compiere è
semplice.
26
Nell’ordinanza il Tribunale di Mondovì nomina il consulente e ne dispone la comparizione ad una certa udienza per
il giuramento, avvisando le parti che, data la struttura deformalizzata dell’istruttoria e considerata la celerità che deve
contraddistinguere il procedimento svolto nelle forme del rito sommario di cognizione, saranno accettate nomine di
ctp solo fino all’udienza di giuramento e non saranno osservate le nuove procedure di cui all’art. 195 c.p.c., anche in
virtù della semplicità ed unitarietà del quesito proposto. E si aggiunge: “I ctp, dunque, avranno l’onere di partecipare
attivamente al sopralluogo con il ctu e di evidenziare, in quella sede, le loro osservazioni in relazione al valore
commerciale del bene. Il ctu avrà termine di giorni 30 dal giuramento per il deposito in cancelleria della relazione
contenente una sommaria descrizione dell’immobile, la riproduzione fotografica dello stesso e la sua valutazione, con
motivazione delle conclusioni assunte e delle osservazioni svolte dai ctp nel corso delle operazioni peritali”. A questa
semplicità si collega anche la già citata (vedi supra la nt. 4) ordinanza del tribunale di Prato, il quale nel caso deciso
rileva come la causa non richiedesse alcuna istruttoria, in quanto la ricorrente aveva ribadito all’udienza che non
intendeva fare ulteriori istanze istruttorie e la resistente non ne aveva fatta alcuna, ritenendo che l’onere della prova
gravasse interamente sull’istante.
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ripensare alla sua scelta in un momento successivo disponendo successivamente il passaggio al rito
ordinario.
Residua il caso delle complicazioni, ossia che, per ragioni istruttorie, una causa sia trattabile
col rito sommario (perché semplice) ed altra col rito ordinario (perché più complessa). La legge dice
che in questa eventualità si ha la separazione (art. 702-ter, 4° comma, che evidentemente dovrebbe
essere applicato anche al di là del caso esplicito della domanda riconvenzionale). Ma una previsione
così secca, non certo in favore del simultaneo processo, va adattata col classico grano di sale alle
diverse situazioni. Invero, una cosa è che tra le cause vi sia una connessione debole (per titolo, per
oggetto con relazione di compatibilità, meramente soggettiva o impropria), altro è che vi sia una
connessione particolarmente implicata (per pregiudizialità dipendenza o per incompatibilità). Ora,
nell’ambito del processo ordinario, se nel primo caso il simultaneo processo è favorito dal
legislatore, entro certi limiti, solo per ragioni di economia processuale, nel secondo caso esso è
favorito anche e soprattutto per assicurare il coordinamento tra le decisioni sulle situazioni
giuridiche così connesse27.
Dobbiamo pensare che il legislatore abbia dimenticato questa differenza nella stesura del 4°
comma dell’art. 702-ter? Io non credo. Ed allora bisogna ritenere che detta norma si applichi
senz’altro alle ipotesi di connessione debole, mentre nelle altre ipotesi il giudice deve preferire il
mantenimento del simultaneo processo, ossia il passaggio alla trattazione secondo il rito ordinario di
tutte le cause connesse28.
5. Se il giudice sceglie di mantenersi sulla via del procedimento sommario, cosa significa
precisamente ciò? Cosa si può o non si può fare percorrendo questa via?
Il cuore del 5° comma dell’art. 702-ter rinvia al concetto a cui siamo avvezzi quando parliamo
di processo sommario. Ossia il giudice, osservato il principio del contraddittorio, procede nel modo
che ritiene opportuno, vale a dire svincolandosi dalle formalità del processo ordinario29. Ciò
27
28
29
Vedi, se vuoi, approfondimenti in BOVE, Lineamenti di diritto processuale civile, Torino 2009, 263 ss.
Nello stesso senso LUISO, Il procedimento sommario di cognizione cit., 1569; MENCHINI, op. cit., 1029-1030.
Sul significato di questa deformalizzazione emerge già un contrasto in giurisprudenza sull’applicabilità dell’art. 81bis disp. Att. c.p.c. Così, se il Tribunale di Mondovì (ordinanza cit.), fornisce risposta positiva, il Tribunale di Varese
(ordinanza cit.) nega l’applicabilità di detta norma nel rito sommario rilevando: “La funzione della calendarizzazione
delle udienze, infatti, risponde all’esigenza di “programmare”, con le parti, la durata del procedimento civile, con
indicazione dei singoli arresti procedimentali che si andranno a seguire nel tempo e tanto al fine di garantire un tempo
ragionevole di definizione del giudizio. Se, allora, questa è la ratio essa non si rileva sintonica con il giudizio sommario
ove (…) il rito è già per sua natura celere e snello. Ma vi è di più: l’introduzione del calendario andrebbe a vulnerare la
stessa natura ontologica del rito sommario. Si andrebbe, infatti, ad introdurre un elemento di rigidità nell’istruttoria
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significa che il giudice può assumere anche prove atipiche ovvero prove tipiche seguendo modalità
atipiche. Sempre, si ripete, rispettando il principio fondamentale del contraddittorio, che esprime
un’esigenza di parità tra le parti e tra le parti ed il giudice30.
Ciò detto, la questione forse più spinosa si sostanzia nel chiedersi se, dopo che il giudice ha
effettuato la scelta in favore dell’istruzione sommaria, si possano ancora allegare nuovi fatti,
rilevare nuove eccezioni in senso lato, far valere nuove fattispecie costitutive del diritto fatto valere,
senza mutare la domanda, fare nuove istanze istruttorie o produrre nuovi documenti.
A mio parere vi sono delle novità che non possono essere evitate.
Non vi è dubbio che alla parte debba essere dato il potere di allegare e provare in dialettica
con le attività di altra parte o del giudice. In ogni caso il principio del contraddittorio prevale
sempre sul principio di preclusione, per cui ogni parte può reagire senza limitazioni alle attività di
controparte, nonché ai rilievi del giudice. Né credo che si possa impedire l’intervento di un terzo
deformalizzata del procedimento semplificato (“il giudice provvede nel modo che ritiene più opportuno”). Non va
sottaciuto, poi, che l’art. 81-bis cit. segue l’art. 81 il quale è chiaramente modellato sul processo ordinario di
cognizione atteso che regola la fissazione delle singole udienze di istruzione”. A me non sembra che questo sia un
grave problema e piuttosto mi sembra che la posizione del Tribunale di Varese sia un po’ rigida. Il rito sommario è
deformalizzato nel senso che il giudice può svincolarsi dalla predeterminazione legale del suo agire, ma non si vede
perché non potrebbe egli organizzare il suo lavoro offrendo alla parti un minimo di prevedibilità di ciò che accadrà, in
particolare dei tempi. Non si dimentichi che la fissazione del calendario del processo, limitata all’eventualità che
debba svolgersi un’attività di assunzione probatoria, non serve ad accelerare i tempi del processo, bensì solo a renderli
prevedibili (cfr. PICOZZA, Il calendario del processo, in Riv. dir. Proc. 2009, 1650 ss.), per cui detto istituto, che peraltro
è solo una specificazione del generale potere di direzione del processo già attribuito al giudice dall’art. 175 c.p.c., è in
sé compatibile con il procedimento sommario in commento, anche se in esso non è necessario che venga utilizzato,
pur quando il giudice si mantiene nell’alveo del rito sommario nonostante che vi sia un’attività di assunzione
probatoria da compiere. Ammette anche qui l’utilizzabilità del calendario del processo OLIVIERI, op. cit., 91, il quale
parla di un potere-dovere. Se sul “potere” non c’è nulla da dire, avrei dubbi sul “dovere”. Condivisibile è, a me sembra,
l’opinione di PICOZZA, op. cit., 1658, la quale, per un verso, si limita a dire che la fissazione del calendario del processo
è solo una possibile opzione del giudice nell’ambito del procedimento sommario di cognizione e, per altro verso, fa
notare, più in generale, come un presunto dovere del giudice di fissare il calendario del processo appare in realtà privo
di sanzione sul piano della qualificabilità degli atti processuali, salvo, al più, il prefigurarsi di una responsabilità
disciplinare del magistrato per l’omessa predisposizione del calendario del processo o la violazione ingiustificata delle
sue indicazioni.
30
Cerca di porre dei paletti OLIVIERI, op. cit., 91, affermando, per un verso, l’inutilizzabilità di prove atipiche e, per
altro verso, la possibilità per il giudice di procedere d’ufficio agli atti istruttori solo quando la legge lo consenta in base
al principio di cui al primo comma dell’art. 115 c.p.c. Quest’ultimo limite è condiviso anche da G.F. RICCI, La riforma
del processo civile, Torino 2009, 113. Ma, francamente, non vedo come si possano tracciare questi paletti a fronte
dell’espressione utilizzata nell’art. 702-quater, 5° comma.
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che ben potrebbe intervenire anche in appello, ossia di quel terzo che, se resta tale, potrebbe fare
opposizione ai sensi dell’art. 404 c.p.c.
Né mi sembra che sia possibile impedire alla parte di introdurre novità sopravvenute, come i
fatti veramente nuovi, ossia quelli che accadono durante il corso del processo, o i fatti che risultano
rilevanti successivamente per la necessaria applicazione di norme sopravvenute.
Tutte queste novità non possono essere escluse ed anzi è propri dal loro emergere che
potrebbe nascere l’occasione per il giudice di ripensare alla sua scelta di mantenersi nell’alveo del
rito sommario.
Ma, al di là di queste novità necessariamente ammissibili, mi chiedo se sia ragionevole
affermare che, fatte salve le preclusioni di cui all’art. 702-bis, 4° e 5° comma, “le parti, non soltanto
nel corso della prima udienza, ma anche durante tutto il corso del processo, sino a che la causa è
trattenuta in decisione, sono libere di svolgere nuove attività (allegazioni di fatti, rilevazione di
eccezioni in senso lato, istanze istruttorie, produzioni documentali).”31.
Mi rendo conto del fatto che il quadro normativo non è univoco. Però accogliere l’opinione
appena riportata significa far correre al nuovo strumento il rischio di rivelarsi nella pratica un vero
fallimento. Il giudice, quando si trova a decidere se procedere per la via sommaria o meno, deve
poter contare su un quadro delle allegazioni, delle questioni e delle prove, sostanzialmente stabile,
se non si vuole correre il rischio di fare scelte sulle sabbie mobili. Ed allora non mi sembra
irragionevole ritenere che le parti possano svolgere ulteriori attività solo alla prima udienza, prima
che il giudice faccia la scelta tra il rito sommario e quello ordinario32. Del resto questa è la logica
anche del rito ordinario, nell’ambito del quale è dato alle parti di allegare e fare nuove questione
nell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., ed eventualmente nella sua appendice scritta, e non oltre, cioè
non quando si passa all’attività istruttoria. Né si dica che con ciò si tradirebbe la logica della
cognizione sommaria, posto che ad esempio è pacifico come nel procedimento cautelare da
svolgersi ai sensi dell’art. 669-sexies c.p.c. non vi siano preclusioni, perché, come ho già detto più
volte, gli artt. 702-bis ss. non disciplinano propriamente un procedimento sommario, bensì un rito
speciale semplificato, che, se non impone al giudice forme prestabilite nello svolgimento
dell’istruzione, non è detto che non possa tollerare preclusioni. Insomma qui siamo di fronte, non ad
un processo sommario, ma solo ad un processo con istruzione semplificata, perché la causa in
concreto fa emergere la semplicità della questione di fatto. Ma è evidente che, se si consentisse alle
parti di cambiare le carte in tavola, “si incorrerebbe nel rischio di favorire atteggiamenti difensivi
secundum eventum litis ovvero meramente orientati a provocare una conversione del rito ove al
31
Così MENCHINI, op. cit., 1031. Analogamente BALENA, Il procedimento sommario di cognizione cit., 326.
32
In particolare sulle preclusioni istruttorie a questo momento vedi la citata ordinanza del Tribunale di Varese.
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percorso scelto dal giudice per l’istruzione del sommario si ritenga di preferire il procedimento
ordinario”33.
Insomma, qui la partita va giocata subito ed il giudice deve poter decidere (tendenzialmente)
una volta per tutte e subito quale rito seguire. Oltretutto, se egli sceglie di convertire il sommario in
ordinario, la scelta avviene fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., udienza nella quale si
possono ancora svolgere molte attività. Ed allora sembrerebbe ancor più irragionevole interpretare
la normativa in modo da consentire ulteriori conversioni in fase più avanzata del procedimento
sommario.
Questo modo di impostare il discorso mi fa anche rigettare l’idea per cui il giudice
svolgerebbe qui un accertamento sommario in senso proprio, ossia superficiale, fondato su una
valutazione probabilistica o di verosimiglianza, cognizione da recuperare eventualmente
nell’ambito di un giudizio d’appello a cognizione piena34. Ripeto la mia idea: il procedimento in
parola non è sommario nel senso in cui viene utilizzata questa parola nell’ambito del procedimento
cautelare o nel senso in cui la si poteva utilizzare a fronte dell’art. 19 del d.lgs. n. 5/200335, ma è
sommario nel senso che esso è semplificato, cosa possibile per il modo in cui si presenta la causa36.
Insomma, qui il legislatore dà più spazio al giudice, non perché questi accerti provvisoriamente il
diritto sulla base di una probabile esistenza dei suoi fatti costitutivi ed inesistenza dei fatti
impeditivi, modificativi od estintivi, fermo restando la possibilità di un accertamento definitivo
nell’ambito di un processo a rito ordinario, ma solo perché le caratteristiche fattuali della causa sono
semplici. Ma, ciò detto, poi l’accertamento del giudice si ha nello stesso modo, ossia con la stessa
pienezza, in cui si avrebbe nel rito ordinario.
Il procedimento si chiude comunque col rigetto o l’accoglimento della domanda, da
pronunciarsi con un’ordinanza che, se non impugnata, produce gli effetti della cosa giudicata ai
sensi dell’art. 2909 c.c. Quindi, come ho già detto in precedenza, non siamo in presenza di un
procedimento sommario che può sfociare solo in un accoglimento della domanda, restando il rigetto
un qualcosa di irrilevante, che non impedisce la sua riproposizione. Siamo piuttosto in presenza di
33
Così il tribunale di Varese cit.
34
Così MENCHINI, op. cit., 1031.
35
In quel procedimento, che mirava alla costituzione di un titolo esecutivo sulla base di un accertamento non
incontrovertibile, l’attore doveva fornire, non la piena prova dei fatti affermati, ma solo la loro probabilità. Vedi, se
vuoi, maggiori precisazioni nel mio Evitare il processo?, in Il giusto processo civile 2008, 61 ss., in partic. 89.
36
Analogamente mi sembra BALENA, Il procedimento sommario di cognizione cit., 329.
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un rito speciale che pone capo in ogni caso alla decisione della lite, sia essa favorevole o meno
all’attore, decisione definitiva e non provvisoria37.
La sommarietà del procedimento anche qui si risolve solo nella sua maggiore semplicità, sia
perché il giudice non deve seguire necessariamente le formalità di cui agli artt. 281-quinquies o
281-sexies c.p.c., salvando sempre il principio del contraddittorio, per passare dalla fase della
istruzione alla fase della decisione. Sia perché la decisione assume la forma dell’ordinanza e non
quella della sentenza.
Ma detta ordinanza può avere ogni contenuto che può avere una sentenza, oltre, si ripete, a
poter avere gli stessi effetti. Quindi anche per quanto riguarda i limiti del giudicato (oggettivi,
soggettivi e cronologici) non c’è da tracciare differenze tra questa ordinanza e la sentenza
pronunciata nel rito ordinario.
6. L’ordinanza, ai sensi dell’art. 702-quater c.p.c., è impugnabile con l’appello nel termine di
trenta giorni dalla sua notificazione ad opera della parte ovvero, in mancanza, dalla sua
comunicazione ad opera dell’ufficio38. La norma non si occupa del caso in cui non vi sia stata né
notificazione né comunicazione. In un caso di questo genere, forse improbabile, ma pur possibile,
mi sembra che non si possa fare altro che ritenere applicabile il termine lungo per l’appello di sei
mesi dalla pronuncia dell’ordinanza39. Ciò per due motivi. Innanzitutto perché in caso contrario,
non iniziando a decorrere alcun termine, si dovrebbe addirittura ritenere che l’ordinanza non passi
37
Diversamente CAPONI, op. cit., 335, il quale ritiene che, visto il richiamo che l’art. 702-quater effettua al sesto
comma dell’art. 702-ter, solo il provvedimento di accoglimento produca gli effetti della cosa giudicata, ove non
impugnato. In conseguenza di questa sua interpretazione, egli ritiene che la disciplina sia affetta da illegittimità
costituzionale in quanto non collega la medesima efficacia anche all’ordinanza di rigetto. A mio avviso il problema non
sussiste perché non mi sembra corretta l’interpretazione di partenza. Invero, se il citato richiamo dovesse essere preso
alla lettera, dovremmo concludere che non produce l’efficacia di giudicato neanche il provvedimento di accoglimento
tutte le volte in cui esso non può costituire un titolo esecutivo o titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale o per la
trascrizione.
38
È appena il caso di rilevare come in un procedimento semplificato come quello in oggetto non dovrebbe aversi la
pronuncia di ordinanze aventi un contenuto corrispondente ad una sentenza non definitiva. Tuttavia, se ciò dovesse al
contrario accadere, a mio avviso ci troveremmo di fronte ad un provvedimento al quale va collegato lo stesso regime
giuridico della sentenza non definitiva, senza fare distinzioni. Sul punto vedi BALENA, Il procedimento sommario di
cognizione cit., 331-331, il quale, però, afferma l’immediata appellabilità (salvo riserva) delle sole ordinanze che
abbiano deciso una delle più cause cumulate. Esclude del tutto la possibilità di pronunce non definitive OLIVIERI, op.
cit., 95.
39
In senso conforme LUISO, Diritto processuale civile, IV, cit., 118; BALENA, Il procedimento sommario di cognizione
cit., 332; OLIVIERI, op. cit., 97. In senso contrario MENCHINI, op. cit., 1032.
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mai in giudicato, eventualità non ragionevole. In secondo luogo perché anche qui devono applicarsi,
in quanto compatibili, le norme generali sulle impugnazioni e le norme peculiari dell’appello,
sempre che la disciplina specifica non preveda altro40. E poiché la normativa specifica disciplina il
termine per l’appello solo per il caso che l’ordinanza sia comunicata o notificata, evidentemente
non si può fare altro che ricorrere alla disciplina generale delle impugnazioni ove nessuna di dette
attività sia compiuta e, quindi, non abbia mai cominciato a decorrere il termine di trenta giorni di
cui parla l’art. 702-quater c.p.c.
Circa la struttura generale di questo rimedio a fronte del giudizio “sommario” di primo grado
si pone la necessità di una scelta di fondo.
Per coloro che vedono nel giudizio sommario di primo grado un giudizio a cognizione
sommaria in senso proprio, ossia un giudizio in cui il giudice accerta in modo appunto sommario i
fatti di causa, fondandosi essenzialmente su valutazioni di probabilità se non addirittura di
verosimiglianza41, l’appello finisce per essere il momento in cui si recupera la cognizione piena
perduta nella sommarietà del giudizio di primo grado, insomma finisce per essere una sorta di
opposizione al provvedimento sommario, per mezzo del quale attuare il proprio diritto alla
cognizione piena prima di subire un provvedimento che abbia efficacia di giudicato. Seguendo
questa linea ricostruttiva si finisce per ritenere che in sede di appello gli interessati, non solo
possono proporre nuove domande e nuove eccezioni nei limiti di cui all’art. 345 c.p.c., ma possono
anche, per un verso, ottenere la rinnovazione delle prove assunte sommariamente in primo grado
nonché la valutazione in modo pieno ed approfondito di questioni risolte solo superficialmente nella
fase precedente e, per altro verso, alla luce dell’art. 702-quater, chiedere l’assunzione di ogni mezzo
di prova rilevante, che emerge per la prima volta in appello42.
Ma a mio parere le cose non stanno così, come ho già avuto modo di dire in precedenza. Il rito
che abbiamo di fronte è sommario solo perché semplificato ed il giudice accerta i fatti rilevanti in
modo pieno, godendo di maggior spazio di movimento solo perché la causa è semplice nei suoi
presupposti fattuali. Ed allora il giudizio di appello, lungi dall’essere una sorta di opposizione che
40
Così, si aggiunga che detta ordinanza è ovviamente impugnabile anche con la revocazione e l’opposizione di terzo.
uno spunto in OLIVIERI, op. cit., 95-96.
41
Si ricorda che il giudizio di verosimiglianza non attiene propriamente alla prova, ma all’allegazione del fatto. Cfr.
ancora le classiche pagine di CALAMANDREI, Verità e verosimiglianza nel processo civile, in Opere giuridiche, V, Napoli,
1972, 615 ss., in partic. 621-622.
42
Così MENCHINI, op. cit., 1032-1033. Anche LUISO, Il procedimento sommario di cognizione cit., 1569 afferma che
questo appello è aperto alle nuove attività istruttorie. Analogamente OLIVIERI, op. cit., 90, 98 e G.F. RICCI, op. cit., 115.
Una posizione intermedia è assunta da BALENA, Il procedimento sommario di cognizione cit., 333, il quale ammette
nuove prove in appello solo in quanto rilevanti ove nel giudizio di primo grado il giudice abbia deciso la causa
immediatamente senza aver dato tempo alle parti di integrare le richieste istruttorie iniziali.
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restituisce agli interessati un rito ordinario da svolgersi, in buona sostanza, in unico grado, è
piuttosto un’impugnazione in senso proprio, una revisione del giudizio di primo grado, che ha le
stesse caratteristiche del giudizio di primo grado. Ciò implica che l’art. 359 c.p.c., secondo il quale
tendenzialmente il giudizio di appello ha la stessa disciplina del giudizio di primo grado, deve avere
un peso anche qui. Così, ad esempio, a me sembra che l’appello avverso l’ordinanza sommaria
debba assumere la forma del ricorso43 e che poi la trattazione e la decisione debbano seguire quello
stesso rito semplificato che è stato seguito in primo grado.
Se si accoglie questa prospettiva la contraddittoria formula che utilizza l’art. 702-quater in
riferimento ai nuovi mezzi di prova va intesa avvicinandola a quanto prevede l’art. 345 c.p.c.44. Per
cui, se nuove domande o nuove eccezioni sono ammesse nei limiti di cui ai primi due commi
dell’art. 345, nuovi mezzi di prova sono ammessi solo se indispensabili e non meramente rilevanti,
a meno che l’interessato dimostri di non averli potuti spendere in primo grado per causa a lui non
imputabile45. Del resto, se così non s’intende il quadro delle cose e la disposizione specifica
contenuta nell’art. 702-quater, si rischia di vanificare lo scopo che ha indotto il legislatore ad
approntare il mezzo processuale in commento appesantendo l’appello fuori misura. Ed inoltre si fa
dire all’art. 702-quater che il giudice potrebbe ammettere mezzi di prova irrilevanti quando la parte
dimostra di non averli potuti proporre in primo grado, previsione a dir poco bislacca. Né credo che
l’ultimo inciso dell’art. 702-quater, secondo il quale il presidente del collegio può delegare
l’assunzione dei mezzi istruttori ad uno dei componenti del collegio, rappresenti un indizio
sufficiente per poter affermare che il legislatore abbia inteso concepire qui un appello “aperto”46.
Insomma, ogni causa che voglia essere decisa con forza di giudicato merita che si svolga un
accertamento serio, esaustivo, pieno. Ma è giustificabile e ragionevole, senza che ciò comporti una
carenza di garanzie costituzionalmente eccepibile, che il legislatore allenti le maglie strette del rito
ordinario quando la causa è semplice. Allora la semplificazione delle forme non significa
allentamento di quella serietà, esaustività e pienezza, ma solo adeguamento del mezzo al suo
43
Diversamente BALENA, Il procedimento sommario di cognizione cit., 332; OLIVIERI, op. cit., 97; G.F. RICCI, op. cit.,
115, i quali affermano che l’appello va proposto con atto di citazione.
44
Nello stesso senso mi sembra DITTRICH, op. cit., 1599.
45
Quando poi si abbia quella “indispensabilità” è cosa dubbia. A mio parere essa si ha solo quando è necessario dare
ingresso in appello a vere e proprie novità o quando emergono esigenze legate alla dialettica processuale. Insomma, le
parti possono esercitare nuovamente i loro poteri istruttori in appello quando è consentito di allegare nuovi mezzi di
attacco o di difesa ovvero quando, pur rimanendo nell’ambito dei fatti già allegati, è consentito fare nuove istanze
istruttorie o produrre nuovi documenti. Per approfondimenti vedi, se vuoi, BOVE, Sulla produzione di nuovi documenti
in appello, in Riv. trim. dir. Proc. Civ. 2006, 303 ss., in partic. 309 ss.
46
Così LUISO, Diritto processuale civile, IV, cit., 119. Parla di appello completamente aperto a nuove attività istruttorie
anche CAPONI, op. cit., 336.
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oggetto nel caso concreto. È ovvio però che solo il giudice può fare in concreto la valutazione sul
cosa serva.
Certo è possibile che il giudice sbagli. Ecco allora che l’errore potrà essere rimediato in
appello. Cioè una riapertura dei giochi con possibile rimessa in corsa anche dei poteri istruttori delle
parti può al più immaginarsi a fronte di un caso in cui il giudice di primo grado ha sbagliato a
scegliere il rito sommario, perché la causa non aveva quelle caratteristiche di semplicità che ne
giustificavano l’utilizzo. In tal caso e solo in tal caso, si ripete, il giudice dell’appello deve
consentire che sia recuperata quella cognizione ordinaria erroneamente perduta. Ma allora qui si
apre l’alternativa tra un recupero da effettuare di fronte al giudice dell’appello e un recupero da
effettuare di fronte al giudice di primo grado a cui la causa sia rimessa previo annullamento
dell’ordinanza pronunciata. In dottrina sono state per ora sostenute entrambe le soluzioni47.
Vedremo nella prassi se il problema concretamente emergerà e come esso eventualmente sarà
risolto.
7. Le opinioni tradizionali assunte alla luce dell’art. 111 cost., secondo il quale la
giurisdizione si attua mediante il giusto processo “regolato dalla legge”, ritengono ammissibile una
decisione della lite con una pronuncia idonea al giudicato assunta in via sommaria, ossia
nell’ambito di un modulo processuale lasciato alla discrezionalità del giudice, solo se è lasciata
all’interessato la possibilità di ottenere almeno un grado a cognizione piena48. Questo è il principio
di fondo che ha suggerito ad alcuni autori la costruzione dell’appello di cui all’art. 702-quater in
chiave oppositoria49.
47
Cfr. MENCHINI, op. cit., 1033 per la prima soluzione e BOVE, in Bove-Santi, Il nuovo processo civile tra modifiche
attuate e riforme in atto, Matelica 2009, 86 per la seconda soluzione, ancorché in termini dubitativi. Ovviamente, dato
il modo in cui costruisco il giudizio di appello, non mi pare condivisibile l’idea di chi, presupponendo una diversità
strutturale tra giudizio di primo grado (a cognizione “sommaria”) e giudizio di secondo grado (a cognizione piena),
nega qui l’utilizzabilità dell’istituto della rimessione al primo giudice: così OLIVIERI, op. cit., 97.
48
Per approfondimenti vedi, se vuoi, BOVE, Art. 111 cost. e “giusto processo civile”, in Riv. dir. Proc. 2002, 479 ss., in
partic. 498.
49
Vedi retro soprattutto la posizione di Menchini. Ma anche LUISO, Diritto processuale civile, IV, cit., 119-120
confluisce su questa posizione quando conclude dicendo: “… i procedimenti sommari di cognizione – e quindi idonei a
produrre un giudicato né più né meno come il processo a cognizione piena – in tanto sono conformi alle previsioni
costituzionali in quanto possa sempre essere chiesta ed ottenuta la conversione del processo sommario in un
processo a cognizione piena. Ebbene, sembra evidente che, al di là degli elementi esegetici sopra indicati, l’appello
avverso un’ordinanza sommaria, debba essere costruito come un giudizio di primo grado a cognizione piena, pena la
incompatibilità del processo sommario con i principi costituzionali”. Vedi anche OLIVIERI, op. cit., 99, il quale rileva
come l’appello “pieno” sia indispensabile per ritenere il procedimento sommario compatibile con l’art. 111 Cost.,
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Sembra, però, che sia giunto il momento di chiedersi se sia necessario mettere in discussione
questo convincimento e di valutare se e fino a che punto bisogna lasciare spazio all’idea di una
determinazione giudiziale della via da seguire, insomma all’idea per cui si deve lasciare uno spazio
di discrezionalità al giudice per stabilire come procedere. In astratto la cosa può anche apparire
ragionevole. Invero, perché si dovrebbero trattare secondo uno stesso modulo processuale cause
molto diverse l’una dall’altra? E, posto che detta diversità può emergere solo nel caso concreto, non
potendosi immaginare una tipizzazione in categorie diverse, è inevitabile affidarsi alla sensibilità ed
alla professionalità del giudice. È questa la proposta forte che deriva dai nuovi artt. 702-bis ss.
c.p.c., se così possiamo dire l’ideologia sottesa a dette norme.
È una strada costituzionalmente legittima? È comunque una strada pericolosa? L’interprete
che non voglia assumere posizioni pregiudiziali è sempre più in difficoltà a fronte di queste
domande, anche perché, visto lo stato in cui versa la giustizia civile in Italia, egli sente con forza il
bisogno di fare qualcosa. Sulla legittimità costituzionale si potrebbe, se così possiamo dire, scendere
a patti, purché si ravvisi un limite ragionevole. Sulla pericolosità tutto dipende dalla credibilità della
magistratura che è chiamata ad assumersi maggiori responsabilità, questione che sfugge ai poveri
strumenti di un processualcivilista.
Del resto non si dimentichi che vi possono essere ambiti nei quali l’affidarsi alla sensibilità
del giudice nel caso concreto sembra essere inevitabile, perché il legislatore non può in alcun modo
prefigurarsi in astratto lo scenario processuale che i singoli giudici potranno trovarsi di fronte. Si
pensi alla recente introduzione dell’azione di classe nell’ambito di un nuovo art. 140-bis del codice
del consumo, il cui comma 11 recita: “Con l’ordinanza con cui ammette l’azione il tribunale
determina altresì il corso della procedura assicurando, nel rispetto del contraddittorio, l’equa,
efficace e sollecita gestione del processo. Con la stessa o con successiva ordinanza, modificabile o
revocabile in ogni tempo, il tribunale prescrive le misure atte a evitare indebite ripetizioni o
complicazioni nella presentazione di prove o argomenti; onera le parti della pubblicità ritenuta
necessaria a tutela degli aderenti; regola nel modo che ritiene più opportuno l’istruzione probatoria
e disciplina ogni altra questione di rito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”.
Ora, se tanti dubbi suscita una normativa come quella di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c., che in
fondo in astratto è difendibile in nome della distinzione (opinabile, ma razionalmente afferrabile) tra
cause semplici e cause complesse, che dire di una normativa come quella appena citata in materia di
azione di classe, nella quale si dice al giudice semplicemente: salvo il principio del contraddittorio,
fai tu?
Ecco allora che l’interprete sente il bisogno di rivedere il suo bagaglio culturale tradizionale.
Ma per il momento, pur avvertendo il bisogno, non saprei francamente ancora come soddisfarlo.
rilievo dal quale trae l’altro per cui non si potrebbe utilizzare il procedimento in commento ove la legge stabilisca
l’inappellabilità della decisione.
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