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La storia dei modelli cosmologici
LICEO CLASSICO “F. SCADUTO” BAGHERIA LA STORIA DEI MODELLI COSMOLOGICI. DAL MODELLO DI EUDOSSO AL MODELLO COSMOLOGICO STANDARD a cura del prof. Ciro Scianna • Il moto dei corpi celesti: da Platone a Keplero • La gravitazione e il moto dei pianeti • L’astronomia stellare e la nascita dell’astrofisica • La cosmologia moderna 1 Indice Il moto dei corpi celesti: da Platone a Keplero Il moto delle stelle e dei pianeti: le osservazioni astronomiche 4 I primi modelli teorici e il problema di Platone 6 Il modello di Eudosso 6 Il modello di Aristotele 8 Ipparco e il modello di Tolomeo 8 I modelli eliocentrici 11 Eraclide Pontico 12 Aristarco di Samo 13 Le difficoltà del modello eliocentrico e la rivoluzione del XVI e XVII secolo 13 Copernico 14 Tycho Brahe 15 Keplero 16 Le leggi di Keplero 18 Ellisse 18 Galileo e le nuove scoperte astronomiche 20 La gravitazione e il moto dei pianeti La meccanica di Newton come scienza cosmica 21 La legge di gravitazione universale 22 La gravità prima di Newton 22 La problematicità della teoria della gravitazione universale 25 I successi della teoria newtoniana della gravitazione 27 L’astronomia stellare e la nascita dell’astrofisica Il problema della parallasse stellare 30 Bessel 31 La misura delle distanze stellari 33 2 L’astronomia dell’Ottocento 36 Il diagramma di Hertzsprung-Russel 39 La cosmologia moderna Le galassie esterne e l’espansione dell’Universo. La legge di Hubble 40 Dalla legge di Hubble al Big Bang 43 Modelli cosmologici 44 Modelli cosmologici newtoniani 45 Modelli cosmologici relativistici 50 Gamow e il Big Bang 55 Teoria del Big Bang e suoi possibili ampliamenti. Il modello inflazionario 58 3 I l mo t o d e i c o r p i c e l e s t i : d a Pl a t o n e a K e p l e r o Tut t e l e anti che civilt à, dai Babil ones i agli Egizi ani , dai Ma ya agl i Azt echi , hanno prodotto complesse cosmologie (ovvero concezioni sulla struttura dell’Universo) collegate in vario modo alle osservazioni astronomiche. L’astronomia ha una speciale vocazione metafisica e spirituale e, prima ancora di diventare scienza, era soprattutto contemplazione ammirata del cielo e, come tale, patrimonio culturale di tutte le civiltà e di tutte le religioni. L’ammirazione del cielo stellato, oggi purtroppo sempre più difficile, genera in ognuno di noi, istintivamente, il senso del limite e dell’infinito, il nostro essere insignificanti e al tempo stesso capaci di comprendere la nostra collocazione nel Cosmo. L’interesse per l’astronomia nasceva da esigenze extrascientifiche di carattere mistico e religioso ma anche per esigenze pratiche: la possibilità infatti di effettuare osservazioni giornaliere abbastanza accurate anche a occhio nudo, permise di verificare la regolarità dei movimenti dei corpi celesti e di sviluppare le prime misure del tempo; il giorno, il mese, l’anno, sono tutte misure di tempo legate al ripetersi regolare di eventi astronomici. L’astronomia, comunque, come scienza nacque con i Greci, con Ipparco soprattutto (II sec. a.C., vissuto ad Alessandria). I Greci furono i primi a collegare strettamente cosmologia e astronomia ponendosi le domande fondamentali per la conoscenza scientifica, quelle stesse domande che si pongono tutti gli scienziati di fronte ai fenomeni naturali: Quale spiegazione semplice si può dare delle regolarità osservate? Con quale modello rappresentare il moto dei corpi celesti e l’Universo conosciuto? GEOCENTRICO (la Terra al centro dell’Universo) Modelli cosmologici ELIOCENTRICO (il Sole al centro dell’Universo) Ma cosa vedevano gli antichi astronomi (ovviamente ad occhio nudo) ? I l mo t o d e l l e s t e l l e e d e i p i a n e t i : l e o s s e r v a z i o n i a s t r o n o mi c h e 4 Il più evidente movimento che si può osservare nel cielo è quello del Sole. - Il Sole sorge ogni giorno approssimativamente ad Est e tramonta approssimativamente ad Ovest, descrivendo un arco nel cielo la cui massima altezza, a mezzogiorno, varia giornalmente nel corso dell’anno. La diversa durata del periodo d’illuminazione e la diversa altezza del Sole determinano il diverso riscaldamento della Terra e quindi le diverse stagioni. - Il secondo movimento osservabile è notturno: tutte le stelle compiono una rotazione (che continua anche di giorno ma non è visibile) di circa un grado ogni 4 minuti in verso orario, da Est verso Ovest, intorno ad un asse diretto verso la stella Polare (se si osserva dall’emisfero Nord (boreale)). Però le reciproche posizioni delle stelle non cambiano nemmeno in periodi molto lunghi, ragion per cui dagli antichi astronomi greci le stelle venivano dette “fisse”. - Un altro movimento osservabile è quello del Sole relativamente alle stelle fisse: il Sole si sposta di un certo margine ogni giorno rispetto alle stelle e verso Est. - Il movimento della Luna con le sue caratteristiche fasi. - Infine, l’ultimo movimento osservabile è quello dei pianeti. Quello dei pianeti è un movimento più complesso. Infatti essi sorgono e tramontano come il Sole, si muovono anch’essi giornalmente verso Est relativamente alle stelle fisse ma mostrano, in certi periodi dell’anno e sempre relativamente alle stelle, un moto retrogrado, cioè come se andassero all’indietro verso Ovest. La loro traiettoria vista dalla Terra appare quindi intrecciata. Inoltre, altro fatto notevole, tutti i pianeti presentano notevole variazione di luminosità durante l’anno. 5 I p r i mi mo d e l l i t e o r i c i e i l p r o b l e ma d i Pl a t o n e Riprendiamo adesso il discorso degli antichi modelli cosmologici. Intorno al IV secolo a.C. la filosofia greca, soprattutto ad opera di Platone, definì gli elementi costitutivi di una cosmologia scientifica, che si ponesse cioè l’obiettivo di spiegare il moto dei corpi celesti inserendoli in un determinato modello filosofico-naturale. Gli elementi costitutivi di questo modello erano i seguenti: a) l’Universo è sferico, perché la sfera è la forma perfetta per eccellenza; b) i moti di tutti i corpi celesti sono circolari ed uniformi; c) il moto dei pianeti, che apparentemente è irregolare, deve derivare da una combinazione di moti circolari uniformi; d ) la Terra è una sfera posta nel centro geometrico dell’universo. Sulla sfera esterna (quella dell’Universo) sono fissate le stelle e la rotazione di questa sfera produce il moto di rotazione delle stelle. I pianeti e il Sole si muovono invece tra le due sfere. Questo modello a due sfere rappresenta il primo modello cosmologico geocentrico in grado di dare una spiegazione unitaria alle diverse osservazioni astronomiche di cui abbiamo riferito precedentemente, tranne quelle relative al moto dei pianeti. Sinteticamente possiamo rappresentare lo sviluppo cronologico dei principali modelli geocentrici con il seguente schema: Modelli geocentrici Modello a due sfere Modello di Aristotele Modello di Eudosso Modello di Tolomeo I l mo d e l l o d i E u d o s s o Il modello cosmologico di Eudosso (allievo di Platone, vissuto nel IV sec. a.C.) rappresenta uno dei principali capisaldi di tutta la storia dell’astronomia antica. Il suo più grande merito è di aver liberato l’astronomia da ogni infiltrazione teologica e di averne fatto un sistema matematico del mondo. 6 Il suo modello dava una spiegazione abbastanza soddisfacente di gran parte dei dati osservativi astronomici. In questo modello ogni pianeta (in quei tempi se ne conoscevano cinque: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno), e così pure il Sole e la Luna, è posto su una sfera interna a un gruppo di sfere concentriche. Tutte le sfere del gruppo sono collegate tra loro e ruotano su assi diversi. La sfera più esterna è quella delle stelle fisse. Eudosso per spiegare il moto apparente del Sole, della Luna e degli altri pianeti introdusse un’ipotesi veramente geniale: ognuno di tali astri possiede non una sola sfera, ma un ordine di sfere, una interna all’altra, tutte concentriche e ruotanti con moto uniforme, ma con periodo diverso e intorno ad assi di rotazione differenti, ciascuno dei quali imperniato nella sfera precedente. Mentre per la rotazione uniforme della prima sfera di tale ordine ogni punto di esso descrive un cerchio, per la rotazione di due sfere collegate nel modo anzidetto ogni punto della seconda sfera descriverà una curva assai più complessa che un cerchio (Eudosso era in grado, per la sua competenza geometrica, di farsi un’idea abbastanza precisa di tali curve). Le cose si complicano ancora maggiormente al crescere del numero delle sfere collegate. Ebbene, Eudosso si convinse di poter dare con questo modello una spiegazione geometrica soddisfacente del moto apparente del Sole e della Luna, supponendo ciascuno di essi fornito di un ordine di tre sfere; per i pianeti, data la maggiore complessità del moto apparente, suppose che ciascuno possedesse un ordine di 4 sfere. Si avevano così in tutto ventisei sfere, più una ventisettesima delle stelle fisse. Il sistema ora accennato dava risultati indubbiamente buoni per i pianeti Mercurio, Giove e Saturno; assai meno soddisfacenti per Venere e ancora meno per Marte. Non dava comunque alcuna spiegazione delle loro variazioni di luminosità. I continuatori di Eudosso si trovarono quindi di fronte al compito di migliorare le spiegazioni del maestro, senza abbandonare però il modello generale da lui tracciato. Fu così che Callippo e Polimarco aumentarono il numero delle sfere da ventisette a trentatrè. In questo modo essi riuscirono poi a determinare con maggiore esattezza i solstizi e gli equinozi e la durata delle stagioni. 7 Anche Aristotele accetterà la teoria eudossiana delle sfere; ne accrescerà il numero però da trentatrè a cinquantacinque, e soprattutto le materializzerà, trasformandole da puri modelli matematici in realtà fisiche. I l mo d e l l o d i Ar i s t o t e l e Per Aristotele (IV sec. a.c.) l’Universo era costituito da cinquantacinque sfere trasparenti (cristalline) concentriche con la Terra, costituite da etere, la sostanza dei corpi celesti, incorruttibile ed eterna. Il sistema aristotelico, costituito da sfere fisiche e con la Terra immobile al centro di tutto, rappresentò per tutto il medioevo e fino al XVII secolo il punto di riferimento fondamentale della concezione dell’Universo. Aristotele inoltre legò il proprio modello cosmologico alla Fisica da egli stesso formulata. Nel quadro teorico della sua Fisica, egli formulò spiegazioni convincenti della sfericità, della stabilità e della quiete della Terra al centro dell’Universo. Da quel momento in poi non si potrà risolvere completamente il problema astronomico del movimento dei pianeti cambiando solamente l’astronomia: sarà necessario rivoluzionare anche la Fisica e con essa l’intera visione del mondo. La Fisica e la cosmologia aristotelica formarono, in breve, solide argomentazioni a favore dei modelli geocentrici. I p p a r c o e i l mo d e l l o d i T o l o me o Prima di parlare di Tolomeo è doveroso parlare di Ipparco, ritenuto il più grande astronomo dell’antichità, vissuto ad Alessandria nel II secolo a.C. Scrupolosissimo studioso, utilizzò non soltanto i risultati di un secolo e mezzo di lavoro dell’osservatorio di Alessandria, ma anche quelli dei babilonesi; inoltre eseguì egli stesso con meticolosa precisione numerose osservazioni astronomiche, servendosi di apparecchi ottici appositamente inventati. Riuscì così a compilare un famoso catalogo delle stesse fisse contenenti notizie e informazioni su 1080 stelle, dando per ciascuna di esse 8 la latitudine, la longitudine e lo splendore, suddiviso con una ripartizione divenuta poi classica in sei gradi. Questo catalogo (o atlante) stellare è consultato dagli astronomi moderni per conoscere le posizioni occupate nell’antichità da alcune stelle. Egli scoprì il fenomeno della precessione degli equinozi, cioè di quei punti della sfera celeste nei quali l’orbita del Sole incontra l’equatore celeste durante il moto annuale del Sole nello spazio. (Questo fenomeno è dovuto al fatto che l’asse di rotazione terrestre, essendo inclinato rispetto al piano dell’orbita di circa 23,5°, descrive nello spazio un cono attorno alla linea perpendicolare al piano dell’orbita stessa; il periodo del moto precessionale è di circa 26.000 anni. La causa di questo movimento fu scoperta più tardi da Newton). Sempre al fine di perfezionare i propri calcoli astronomici, creò quel ramo della geometria sferica che doveva più tardi trasformarsi nella trigonometria sferica e rettilinea. Per questo motivo Ipparco è considerato il vero fondatore dell’astronomia matematica. Il sistema astronomico di Ipparco respinse la teoria delle sfere di Eudosso, che non spiega le variazioni della distanza fra i singoli pianeti e la Terra (variazioni provate dal fatto che il medesimo pianeta in certe stagioni appare più luminoso, in altre meno), e introdusse due nuovi moti circolari, quello dell’epiciclo e quello del deferente. Ipparco suppose che sia i pianeti che il Sole e la Luna si muovessero lungo circonferenze di raggio minore (gli epicicli) con velocità uniforme e con il loro centro che ruotava a sua volta su una circonferenza di raggio maggiore (il deferente) il cui centro coincideva con il centro della Terra. Regolando opportunamente la velocità dell’epiciclo sul deferente e le dimensioni relative di epiciclo e deferente, il sistema spiegava il moto retrogrado del pianeta e la maggiore luminosità del pianeta durante il moto retrogrado. Malgrado le sue complicazioni, il modello di Ipparco riusciva a spiegare assai bene tutti i fenomeni astronomici allora noti e venne integralmente assorbito entro il sistema di Tolomeo. Della vita di Claudio Tolomeo si sa assai poco se non che è vissuto nel II secolo d.C. ad Alessandria e che si occupò di astronomia, di geografia, di fisica e di astrologia. 9 E’ il più noto astronomo alessandrino e certamente quello che influì di più sugli sviluppi successivi della cultura scientifica. Egli influenzò la cultura occidentale fino a Copernico, mediante la sua opera più importante nota con il titolo arabo di “Almagesto”, che significa “la Massima” (il vero titolo in greco era: “Mathematikè s ynt axi s ”; “Almagesto” forse è derivato dal greco: “e meghíste” che significa appunto “la Massima”). L’Almagesto contiene un sistema di astronomia talmente completo che per secoli si ritenne che tutta la scienza vi fosse racchiusa. Rispetto a Ipparco, Tolomeo non introdusse idee originali; elaborò ulteriormente il modello aggiungendo epicicli minori, ruotanti su altri epicicli a loro volta in rotazione su un deferente, e gli eccentrici, ovvero deferenti con un centro diverso dalla Terra. Diversamente da Ipparco, egli suppose in più che ogni pianeta risultasse fisso sopra una sfera epiciclica anziché sopra un cerchio. Riuscì comunque a delineare una teoria dell’Universo coerente e sistematica basata su ipotesi in sostanziale accordo con i dati delle osservazioni e in cui la matematica giocava un ruolo fondamentale per stabilire nessi rigorosi fra le varie proposizioni. La matematica dell’Almagesto è quella del calcolo delle corde, fondato sulle loro proprietà considerate in funzione dell’arco sotteso. Toccherà ai matematici arabi (e sarà uno dei loro metodi più notevoli) porre in luce gli incontestabili vantaggi derivanti dalla sostituzione di tale calcolo con la vera e propria trigonometria nel senso moderno del termine. Il principio cardine di tutta la concezione dell’Almagesto è l’immobilità della Terra. L’argomento fondamentale (prettamente aristotelico) da lui addotto a sostegno di questa tesi è la simmetria delle forze dell’Universo, simmetria che dovrebbe trattenere la Terra al centro del mondo. Anche la spiegazione fisica del moto delle sfere celesti è di carattere aristotelico: Tolomeo infatti l’ottenne ammettendo l’esistenza di una sfera esterna dell’Universo (la cosiddetta sfera motrice) priva di stelle, che darebbe il moto quotidiano alla sfera delle stelle fisse e poi giù giù alle successive sfere planetarie. Alla sfera delle stelle fisse egli deve in più aggiungere un altro moto per spiegare la precessione degli equinozi; e alle 10 sfere planetarie deve aggiungerne due. Questi moti richiedono nuove sfere motrici. Se oggi questa complessa e artificiosa costruzione ci appare manifestamente insostenibile, non è però difficile comprendere che essa dovette suscitare una ben altra impressione sui contemporanei di Tolomeo; ottenne infatti per secoli e secoli considerata, per l’universale la sua ammirazione coerenza interna, degli non studiosi meno e poté venir importante della sistemazione operata da Euclide della scienza geometrica. L’Almagesto racchiude la storia della scienza e, anzi, l’intera scienza di quei tempi, e resta il monumento scientifico e letterario di astronomia più prezioso che ci abbia trasmesso l’antichità. I mo d e l l i e l i o c e n t r i c i Modello geocentrico Eraclide Pontico T ycho Brahe Modello eliocentrico (modelli misti) Aristarco di Samo Copernico 11 E r a c l i d e Po n t i c o Eraclide Pontico fu discepolo di Platone e contemporaneo di Eudosso. Abbiamo già detto della difficoltà insolubile, nel modello eudossiano, legata alla diversa luminosità dei pianeti (specialmente di Marte e di Venere) nei diversi periodi della loro rotazione. Facendo perno su tale difficoltà Eraclide respinse il sistema di Eudosso. Studiando i moti di Mercurio e di Venere, Eraclide intuì che il loro centro di rotazione doveva essere non la Terra ma il Sole; suppose pertanto che, mentre il Sole gira intorno alla Terra, i due pianeti in questione girino nello stesso senso intorno al Sole secondo sfere di raggio minore. Spiegato in questo modo il diverso splendore di Venere, restava l’analogo problema per Marte; esso fu risolto un po’ più tardi (non si sa con sicurezza se dallo stesso Eraclide o da qualche pitagorico vicino a lui). Senza insistere oltre sull’argomento, tanto più che non risulta con precisione quali vedute avesse Eraclide sui restanti pianeti, basti osservare che la sua astronomia, anche se assai meno rigorosa (da un punto di vista matematico) di quella di Eudosso, rileva un’orientazione nuova, un carattere che l’avvicina a concezioni molto più moderne. Tanto è vero che un sistema s imi le verrà ri preso, di ci annove s ecoli più t ardi , da Tych o Brahe. Inoltre, è proprio basandosi sulle ipotesi di Eraclide che Aristarco di Samo, uno dei grandi scienziati alessandrini, giungerà a formulare l’ipotesi che vada collocato nel Sole il centro, non solo del moto di alcuni pianeti, ma di tutto l’Universo. A r i s t a r c o d i S amo Aristarco (III sec. a.C.) è celebre per essere stato il primo a lanciare l’ipotesi eliocentrica. L’opera in cui esponeva tale ipotesi purtroppo è andata perduta; ne abbiamo soltanto qualche notizia indiretta, specialmente da Archimede (che tuttavia non ne comprese il valore). La teoria eliocentrica di Aristarco, che costituisce il naturale sviluppo delle concezioni astronomiche di Eraclide, viene così riassunta da Archimede: 12 “La sua ipotesi è che le stelle fisse e il Sole rimangano immobili, che la Terra giri intorno al Sole seguendo la circonferenza di un cerchio, e che il Sole giaccia nel centro di tale orbita” (dall’Arenario di Archimede). Aristarco aveva quindi formulato una teoria che attribuiva alla Terra un moto annuo di rivoluzione attorno al Sole e un moto diurno di rotazione attorno a un asse inclinato rispetto al piano dell’orbita, secondo quanto riferito oltre che da Archimede, da Plutarco (~46-~130 d.C.) e Simplicio (VI sec. d.C.). Plutarco riferisce che Aristarco aveva cercato di “salvare i fenomeni” (ossia di spiegare le osservazioni) assumendo i moti di rotazione e di rivoluzione della Terra. Archimede nell’Arenario accenna a dimostrazioni dei fenomeni realizzati da Aristarco. Queste dovevano consistere nel mostrare che i complessi moti planetari osservati, con stazioni e retrogradazioni, potevano essere ottenuti combinando due semplici moti circolari uniformi attorno al Sole: quello assunto dalla Terra e un altro analogo per il pianeta. Il valore dell’ipotesi eliocentrica non fu capito nell’antichità e non ebbe sviluppi; perciò Aristarco rimase sostanzialmente un isolato. L e d i f f i c o l t à d e l mo d e l l o e l i o c e n t r i c o e l a r i v o l u z i o n e d e l XVI e XVI I s e c o l o Abbiamo visto come i modelli geocentrici e la sua massima espressione, il modello tolemaico-aristotelico fossero in grado di spiegare abbastanza bene anche i dettagli dei moti irregolari dei pianeti. Non c’era quindi, per un astronomo, la necessità di adottare un punto di vista diverso e in particolare di postulare un modello con la Terra che non fosse al centro dell’Universo e non fosse immobile. Anche perché l’esperienza umana sembrava essere in contrasto con l’idea di una Terra in movimento, dato che non erano ancora note le leggi della meccanica moderna e l’ipotesi della mobilità della Terra sembrava incompatibile con parecchi fatti della vita quotidiana, come per esempio la caduta dei gravi secondo la verticale (saranno le scoperte meccaniche di Galileo a risolvere questa e altre difficoltà). 13 Con la rinascita delle ricerche scientifiche nel ‘500 e nel ‘600, è soprattutto nel campo delle ricerche astronomiche che si compiono dei passaggi la cui importanza oltrepassa di molto i confini della pura e semplice astronomia e investono direttamente le più alte questioni filosofiche intorno all’uomo e al mondo. Lo sviluppo della grande rivoluzione si impernia su cinque nomi: C operni co, Tycho Brahe, Kepl ero, Gal il ei e Newton. Copernico N i c o l a u s K o p e r n i c k i (Copernico) n a c q u e a T h o r n i n P o l o n i a n e l 1 4 7 3 d a famiglia agiata. Compì gli studi all’università di Cracovia e successivamente in Italia nelle università di Bologna, Padova e Ferrara, completando la sua cultura specialmente in matematica. Tornato in patria, si dedicò prevalentemente a studi astronomici. Fu verso il 1505-1506 che ideò le linee fondamentali del suo sistema. Impiegò tuttavia molti anni per sistemare e limarne l’esposizione. Nel 1530 pubblicò un breve estratto di essa, ottenendo l’approvazione del papa Clemente VII, che anzi lo incitò a pubblicare l’opera “in extenso”. Malgrado questo incitamento, attese ancora dieci anni prima di darla alla stampa. Il giorno stesso in cui gli arrivava il primo esemplare del suo libro, Copernico moriva: era il 24 Maggio del 1543. L’opera, che avrebbe dovuto acquistare tanta celebrità, portava per titolo: “De revolutionibus orbium coelestium libri VI (Sei libri sulle rivoluzioni dei mondi celesti)”. In Italia Copernico aveva subito l’influenza del platonismo matematizzante di Pico della Mirandola e, attraverso di essa, aveva assorbito vari elementi dell’antica concezione pitagorica. Preso coscienza delle molte difficoltà insite nel sistema tolemaico, ebbe la geniale idea di cercarvi una soluzione nelle dottrine astronomiche dei pitagorici. Furono queste a suggerirgli di sostituire l’ipotesi geocentrica con quella della mobilità della Terra e, in particolare, quella di Filolao, che dotava la Terra di un moto di rotazione intorno a se stessa e di rivoluzione annua intorno al Sole. 14 Nell’adottare questa soluzione Copernico pensò dapprima che essa non modificava in nulla la costituzione del mondo, in quanto si trattava solo dello spostamento del centro del moto dalla Terra al Sole. In seguito, però, capì che lo spostare la Terra dalla sua millenaria immobilità (immobilità, per altro, garantita da una certa interpretazione della Scrittura) non avrebbe mancato di suscitare violente reazioni ispirate da una malintesa offesa alla fede. Per queste ragioni, sostanzialmente, Copernico ritardò di quasi quarant’anni la pubblicazione del celeberrimo De revolutionibus, con una prefazione del teologo luterano Andreas Hasemann, detto Osiander, che spiegava come la nuova teoria voleva essere soltanto un’ipotesi matematica, senza alcuna pretesa di rispecchiare la verità fisica. Tycho Brahe Il maggiore astronomo della generazione immediatamente posteriore a C operni co fu Tych o Brahe, nato in Danim arca nel 1546 e m orto a P raga nel 1601. E’ autore di un proprio sistema astronomico che integrava alcuni aspetti del sistema copernicano con quello tradizionale tolemaico. Da un lato, infatti, rimase fedele all’immobilità della Terra, dall’altro affermò che i pianeti ruoterebbero attorno al Sole, che a sua volta ruoterebbe intorno alla Terra. Era, nelle sue linee essenziali, l’antica teoria di Eraclide Pontico, arricchita soltanto di un più moderno apparato scientifico. Pi ù che un t eori co, Tycho Brahe fu, però, un grande oss ervatore. R ius cì infatti, pur senza avvalersi ancora del cannocchiale, a descrivere con mirabile precisione i movimenti della Luna e dei pianeti. Le tavole dei suoi studi di osservazione costituirono, qualche anno più tardi, un materiale preziosissimo per Keplero. 15 Keplero Giovanni Keplero nacque a Weil nel Wurttemberg (Germania) nel 1571. Fu il successore di Tycho Brahe, ma diversamente da questi, fu un copernicano convinto, fin da quando era studente. Mentre T ycho Brahe era prevalentemente un astronomo dedito all’osservazione diretta, Keplero era fondamentalmente un matematico e un astronomo teorico. Nel 1597 s cri ss e l a s ua prim a opera “M ys t erium Cos mographi cum ” (Mis t ero cosmografico) di evidente ispirazione pitagorica. Avendola sottoposta al gi udizi o di T ycho Brahe, ne ot t enne un parere abbast anza favorevol e e ri us cì in tal m odo ad accat tivarsene l’ami ciz i a. All orché T ycho s i st abi lì a Praga, chiamò Keplero a lavorare con lui e ad ereditare così il ricchissimo m at eri al e d’os s ervazi one che Tycho aveva raccolt o nell a sua att ivi t à. Keplero mantenne per tutta la vita la visione sottostante al suo “Mistero cosmografico”, una concezione del mondo sostanzialmente improntata al pitagorismo e al neoplatonismo, nella quale la matematica viene interpretata non come scienza dei concetti astratti ma come studio dei rapporti reali e delle configurazioni effettive degli oggetti. Considerò l’armonia come legge generale dell’universo, pensando che essa si esprima in rigorose proporzioni numeriche. Nel Mistero cosmografico Keplero difese con passione il sistema copernicano usando argomentazioni matematiche molto più dettagliate di quelle usate da Copernico nel suo De Revolutionibus. M a l ’opera pi ù im portant e è il suo “As t ronom ia nova s eu phys i ca coel esti s, tradita commentariis de motibus stellae Martis ex observationibus G.V. T ychonis Brahe” (Ast ronomi a Nuova ovvero fi si ca celes te tratt at a con i comm ent arii sul moto del pianet a M art e dall e oss ervazioni di T ycho Brahe), uscita a Praga nel 1609, dove vengono formulate le prime due leggi sul moto dei pianeti, ancora oggi note col suo nome. Kepl ero part ì dalle os servazioni di T ycho Brahe rel ati ve a Marte, il cui moto aveva sempre presentato irregolarità mai spiegate fino ad allora. Furono necessari cinque anni di lavoro (e dovette anche superare notevoli resistenze psicologiche) per convincerlo dell’impossibilità di conciliare i dati sperimentali con le due ipotesi di base dell’astronomia antica: la circolarità del moto e la sua uniformità. 16 Per la prima volta nella storia dell’astronomia, Keplero passò ad analizzare separatamente le condizioni di circolarità e di uniformità del moto. Innanzi tutto cominciò con il cercare di determinare con maggiore precisione l’orbita terrestre: trovò che l’orbita della Terra non era circolare perché il Sole si trovava in posizione leggermente eccentrica. Keplero allora decise di verificare anche l’ipotesi che l’orbita di Marte fosse circolare. Confrontò le distanze di Marte dal Sole ottenute in base alle osservazioni e dedusse che l’orbita di Marte non poteva essere una circonferenza, ma doveva essere una curva ovale. Dopo vari tentativi riuscì a concludere che la curva era un’ellisse, in cui il Sole era posto in uno dei due fuochi. Estese quindi a tutti i pianeti i risultati ottenuti nel caso di Marte, formulando la sua prima legge: “Le orbite dei pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi”. La seconda legge (così come la terza) rompe definitivamente con il dogma dell’astronomia antica dell’uniformità del moto degli astri e viene ricavata da keplero dall’osservazione che i pianeti si muovono più velocemente in prossimità del perielio che non all’afelio. Più precisamente la seconda legge suona in questo modo: “Le velocità orbitali dei pianeti non sono costanti, ma seguono una legge per cui in tempi uguali sono uguali le aree spazzate dal raggio vettore che congiunge il sole con il pianeta”. Soltanto dopo nove anni di studio pervenne alla formulazione della terza legge pubblicata nel 1619 nel libro “Harmonices mundi” (Armonia del mondo). La determinazione della curva che i pianeti descrivono intorno al Sole e la scoperta della legge dei loro movimenti, portava Keplero molto vicino al principio da cui queste leggi derivano (la legge di gravitazione universale e la legge del moto). I tempi, però, non erano ancora maturi, in quanto per giungere a ciò si presupponeva l’esistenza della dinamica e del calcolo infinitesimale. Keplero morì nel 1630, il 15 novembre, in una squallida locanda di Ratisbona, dove si era recato per sollecitare un’ennesima volta il pagamento di ciò che gli era dovuto. Non aveva ancora 59 anni. 17 Le leggi che ancora oggi portano il suo nome furono accettate definitivamente dagli astronomi quando furono riprese da Newton nel quadro della sua teoria della gravitazione universale. Le leggi di Keplero PRIMA LEGGE “Le orbite dei pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi”. SECONDA LEGGE “Le velocità orbitali dei pianeti non sono costanti, ma seguono una legge per cui in tempi uguali sono uguali le aree spazzate dal raggio vettore che congiunge il Sole con il pianeta ”. TERZA LEGGE “Il rapporto tra il quadrato del periodo di rivoluzione T e il cubo del semiasse maggiore R dell’orbita di un pianeta è costante: Ks = 2,96*10-19 , uguale per tutti i pianeti del sistema solare”. Ellisse L’el l i ss e è i l luogo geom et ri co dei punti P (x, y) del pi ano definito dall a seguente proprietà: “la somma delle distanze del generico punto P da due punti fissi F1 e F2 è costante”. F1 e F2 sono detti fuochi dell’ellisse. - PF1 + PF2 = AB = 2a - F1F2 = distanza focale = 2c , F1F2 = 2 OF1 = 2 OF2 = 2c - a = lunghezza del semiasse maggiore - 2a = lunghezza dell’asse maggiore - b = lunghezza del semiasse minore - 2b = lunghezza dell’asse minore - e = eccentricità L’eccentricità dell’ellisse è il rapporto tra la distanza focale F1F2 (2c) e la misura dell’asse maggiore (2a): e = c/a . Più piccola è l’eccentricità, più simile a una circonferenza è l’ellisse. Se l’eccentricità è uguale a zero, i due fuochi coincidono con il centro O e l’ellisse è uguale a una circonferenza. 18 L'equazione dell’ellisse in un sistema di assi cartesiani in cui i fuochi sono disposti sull’asse x e l’origine O nel punto medio del segmento F 1 F 2 , è l a s e g u e n t e ( e q u a z i o n e i n f o r m a canonica): (1) Se l'equazione dell'ellisse diventa : ossia una circonferenza di centro l'origine e raggio . Se il punto X rappresenta un pianeta nella sua rivoluzione intorno al Sole, posto ad esempio nel fuoco F1 , il punto A dell’orbita più vicino al Sole si chiama perielio, mentre B, il punto più lontano, afelio. 19 Galileo e le nuove scoperte astronomiche Il ruolo di Galileo nell’affermazione del sistema copernicano è storicamente riconosciuto. Nel contesto particolare dell’argomento di questo capitolo – la storia dei sistemi cosmologici – il riferimento all’opera di Galileo vale nel caso particolare delle osservazioni astronomiche da lui compiute con l’utilizzo del cannocchiale. Strumento che non fu certo inventato da lui ma che fu certamente da lui migliorato e, ancora più importante, utilizzato a fini scientifici. Nel luglio 1609, da Padova (dove insegnava matematica da quasi diciotto anni) Galileo si recò a Venezia e da viaggiatori provenienti dall’Olanda e dalla Francia sentì parlare di uno strumento ottico capace di ingrandire la visione di tre-quattro volte. In Italia se ne era già visto qualcuno nell’ultimo decennio del ‘500; a Roma anche i Gesuiti si erano cimentati in questo campo. Galileo, approfondendo lo strumento, ebbe il colpo di genio: va a Murano dove si producevano le migliori lenti del mondo (la Serenissima ne esportava in Oriente cinquemila all’anno); lì compra una lente convergente convessa e una lente divergente concava. E riesce a costruire un telescopio che ingrandisce di otto-nove volte, e poi fino a 20 volte. Con questo telescopio da venti ingrandimenti, nel 1610 a Firenze Galileo fece delle osservazioni astronomiche incredibili per il suo tempo. La prima fu quella che il numero effettivo delle stelle è almeno venti volte superiore al numero di quelle che riusciamo a vedere e che la Via Lattea è un conglomerato enorme di stelle. La seconda fu la scoperta che la superficie della Luna è coperta come la Terra da crateri e montagne. Questa osservazione della Luna portò Galileo ad un’altra decisiva conclusione. Prima di Galileo si pensava, sotto l’influsso delle teorie aristoteliche, che la Luna (e tutti gli altri oggetti celesti) fosse fatta di una materia diversa da quella della Terra. Lui svela che invece la Luna è molto simile alla Terra e che le leggi terrestri si possono applicare alla Luna e a tutto il cosmo. Compresa la legge sulla caduta dei gravi. La terza che la faccia del Sole presenta delle macchie scure che si spostano sulla sua superficie. La quarta fu la scoperta dei quattro satelliti di Giove (che egli chiamò pianeti medicei). La quinta che Venere gira attorno al Sole e ha delle fasi simili a quelle della Luna, che gira intorno alla Terra. Infine avanza la congettura che Saturno abbia dei satelliti (si tratta invece dei tre anelli , indistinguibili con il suo telescopio). Queste scoperte furono pubblicate nel libro Sidereus Nuncius (Messaggero Celeste) nel 1610. Le osservazioni astronomiche fatte grazie al cannocchiale valevano per Galileo come altrettante conferme del sistema copernicano, e intorno a questa dottrina negli anni seguenti si generò un intenso dibattito che coinvolse ambienti accademici ed ecclesiastici. In questo senso la scoperta più importante fu quella delle fasi di Venere perché soltanto nell’ambito del sistema copernicano questo 20 fenomeno veniva facilmente integrato. Nel sistema Tolemaico, infatti, Venere rimaneva sempre tra il Sole e la Terra e quindi era teoricamente impossibile osservarne le fasi dalla Terra. Senza il cannocchiale era tuttavia impossibile osservare direttamente il fenomeno. L a G r a v i t a z i o n e e i l mo t o d e i p i a n e t i : d a N e w t on a d E i n s t e i n L a me c c a n i c a d i N ew t o n c o me s c i e n z a c o s mi c a Dopo avere presentato nel primo libro dei Principia le leggi che regolano il moto dei corpi, Newton passa nel terzo libro, dal titolo suggestivo: Il sistema del mondo, ad una applicazione di queste leggi su scala planetaria, introducendo l’ipotesi della gravitazione. Con la gravitazione Newton introduceva, accanto all’inerzia, un’altra proprietà fondamentale e caratteristica della materia, consistente nella mutua attrazione tra i corpi. E’ utile rivedere lo sviluppo delle nostre conoscenze sul moto dei pianeti alla luce dei principi della dinamica. Quattro furono i punti di essenziale interesse nello sviluppo storico. 1) Copernico sottolineò che è il Sole e non la Terra il centro del sistema solare. Tradotto nel linguaggio dinamico moderno, Copernico ci offrì un sistema di riferimento (il Sole) molto più adatto di quello usato fino a quei tempi (la Terra) per la descrizione del moto del sistema solare. 2) Brahe eseguì accurate misure sul moto dei pianeti visto dalla Terra e fornì i dati indispensabili per i futuri progressi. 3) Keplero, dallo studio dei dati di Brahe, ricavò le tre semplici leggi empiriche del copernicano, moto fornì in dei pianeti. forma Keplero, semplice le adottando informazioni il sistema cinematiche relative al moto dei pianeti. 4) Newton scoprì le leggi generali del moto dei sistemi meccanici e la particolare legge della forza che descrive il moto dei pianeti, cioè la legge di gravitazione universale. Così nel corso di circa duecento anni abbiamo visto venire alla luce: a) l’opportuno sistema di riferimento; b) informazioni cinematiche precise; 21 c) le leggi empiriche del moto dei pianeti d) le leggi generali della meccanica e la legge della forza adatta per spiegare il moto dei pianeti. L a l e g g e d i g r a vi t a z i o n e u n i v e r s a l e Tra due corpi di masse m1 e m2 posti a distanza r si esercita una forza di attrazione che agisce lungo la congiungente i due corpi, proporzionale al prodotto delle loro masse ed inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza: F = G m1 m2 / r2 dove G è la costante di gravitazione universale avente lo stesso valore per qualsiasi coppia di corpi. E’ una delle costanti fondamentali della Natura. Il suo valore rappresenta la forza con la quale si attraggono due corpi di massa 1 Kg posti a distanza di 1 metro l’uno dall’altro. La prima determinazione sperimentale precisa del suo valore fu effettuata da Lord Cavendish nel 1798, 71 anni dopo la morte di Newton, per mezzo di una bilancia di torsione. Il suo valore è: G = 6,67 · 10-11 N·m2 / Kg2 L a g r a v i t à p r i ma d i N ew t o n Prima d’iniziare questo paragrafo sono opportune due precisazioni di carattere terminologico. Con il termine gravità s’intende la tendenza dei corpi a cadere verticalmente al suolo, dovuta all’attrazione che la Terra esercita su di essi; più propriamente, la forza che provoca tale caduta (detta anche forza di gravità o forza peso), risultante dell’attrazione gravitazionale terrestre (diretta verso il centro della Terra) e della forza centrifuga (perpendicolare all’asse terrestre), conseguenza della rotazione terrestre. Con il termine gravitazione s’intende invece la proprietà caratteristica e fondamentale, insieme con l’inerzia, della materia, consistente nel fatto che fra due corpi materiali si esercita sempre una forza di mutua attrazione. 22 Tentativi per spiegare la gravità come rientrante in una legge di attrazione più generale, si possono far risalire alle speculazioni dei Greci. I filosofi greci avevano spiegato la caduta dei corpi con teorie a fondamento delle quali stava o l’idea di un’attrazione tra materie simili (come in Empedocle, Anassagora, Democrito, Platone) o quella aristotelica di una tendenza dei corpi a un luogo naturale che è loro proprio. L’idea, originariamente gravitazione cosmica, platonica comprendente riappare, nel Rinascimento, eliocentrica e dell’Universo presente come caso nel suo Timeo particolare la di una gravità, insieme con l’affermazione della struttura nel trattato De revolutionibus di Copernico (1543). Nel capitolo nono del primo libro, Copernico scrive: “Quanto alla gravità, io la considero come una certa tendenza naturale, che il Creatore ha impresso in tutte le parti della materia, affinché tendessero ad unirsi in forma globulare per meglio conservarsi; ed è probabile che la stessa forza sia pure inerente al Sole, alla Luna e ai pianeti, affinché questi corpi possano mantenersi nella forma rotonda che loro vediamo”. Anche Tycho Brahe, s ebbene i n modo cont raddit tori o, amm ett e una forz a centrale nel Sole atta a mantenere i pianeti nelle orbite descritte intorno a lui. Un passo innanzi sulla strada della gravitazione universale fu compiuto con Keplero, dove nel suo Astronomia nova del 1609, parla di una “appetentia” tra i corpi, cioè appunto di una reciproca forza di attrazione che egli afferma inversamente proporzionale, a seconda dei casi, alla distanza o al quadrato della distanza. In questo libro, l’astronomo espresse due posizioni fondamentali: la gravità è la tendenza dei corpi ad unirsi e tutta la materia, pertanto, è soggetta alla forza e alla legge di gravitazione; la Luna gravita verso la Terra e viceversa, per cui se non fossero trattenute lontane l’una dall’altra dalla loro forza di rotazione, esse si congiungerebbero nel loro comune centro di gravità. Nel 1609, inoltre, Keplero enunciava le prime due leggi empiriche del moto dei pianeti scoperte sulla base dei dati ticonici relativi a Marte. Nel 1618 scopriva la terza legge. In tal modo tutto il sistema solare veniva legato insieme da una precisa espressione matematica. Ma si poneva il problema: quali devono essere le leggi più generali della natura da cui risulti il moto descritto empiricamente dalle leggi di Keplero ? 23 Mentre da una parte questo complesso di ricerche preparava la via alla scoperta di Newton, non mancavano dall’altra tendenze contrastanti. La ripugnanza ad ammettere la possibilità di forze che si esplichino a distanza tra corpi lontani, portò da parte di alcuni a negare senz’altro l’esistenza di tali forze (per esempio Galileo si rifiutava di ammettere un’influenza della Luna sulle maree) mentre altri ne tentavano più o meno artificiose spiegazioni meccaniche (accenniamo per esempio alla teoria dei vortici di Cartesio). Anche nell’ambiente più vicino a Newton, quello accademico di Londra, si fecero dei tentativi nella direzione della teoria della gravitazione ad opera s oprat tut to di R obert Hooke e di Edm ond Hal le y. E’ certo comunque che Newton fin dal 1666 iniziò a riflettere sulla possibilità di unificare la fisica di Galilei e le leggi di Keplero sui moti planetari, attraverso una legge di gravitazione. Tutti questi tentativi stimolarono comunque Newton a proseguire e a condurre a termine le sue ricerche. Nel 1684 l’astronomo Halley (celebre per la cometa a cui ha dato il nome) riscoprì ciò che Newton aveva per proprio conto scoperto fin dal 1666: che la terza legge di Keplero, nel caso di orbite circolari, porta di conseguenza a una forza attrattiva del Sole in ragione inversa del quadrato della distanza. Una lunga discussione si aprì quindi fra Halley e Hooke sul problema di determinare quale traiettoria dovrebbe descrivere in generale un corpo per effetto di questa attrazione. La ri s post a, che già Newt on poss edeva, fu da questi comuni cat a a Hall e y. Newton infatti dimostrò matematicamente che in generale una forza di tipo centrale (quale è la forza di gravitazione) applicata a un corpo in moto rettilineo uniforme produce una traiettoria ellittica con velocità areolare costante (prima e seconda legge di Keplero). (La velocità areolare o areale, dal latino areola, diminutivo di area, è l’area spazzata nell’unità di tempo dal raggio vettore che collega il pianeta al Sole). Inoltre dimostrò che, assunta vera la legge di gravitazione e dalla legge del moto, si ricava la terza legge di Keplero. Un altro grande risultato dimostrato da Newton consiste nel fatto che la forza di attrazione gravitazionale esercitata da un corpo esteso di massa m 24 equivale a tutti gli effetti come se tutta la massa del corpo fosse concentrata nel centro geometrico del corpo. L a p r o b l e ma t i c i t à d e l l a t e o r i a d e l l a g r a v i t a z i o n e u n i v e r s a l e Abbiamo già ricordato cosmica”) che nel (cfr.: terzo “La libro meccanica di dei Principia Newton Newton come scienza si dedica alla dimostrazione del fatto che a partire dalle masse, dalle distanze e dalle velocità del Sole, dei pianeti e dei loro satelliti, le leggi del moto (esposte all’inizio dei Principia) danno ragione di tutti i fenomeni conosciuti, se si assume la gravitazione come una forza centripeta universale che obbedisce alla legge dell’inverso del quadrato della distanza. La teoria della gravitazione universale non fece immediatamente presa nel mondo accademico e scientifico dei primi del ‘700. Veniva difficile accettare una spiegazione dei fenomeni celesti sulla base di una azione misteriosa esercitatesi nel vuoto, senza alcun tipo di contatto, tra corpi posti a enormi distanze. La causa della gravitazione rimaneva veramente nascosta. Newton stesso era consapevole di questa difficoltà. Alla fine dei Principia, nello Scolio Generale che compare nella seconda edizione dell’opera (1713), Newton esclude che possa trattarsi di una causa meccanica e ammette di conoscere solamente le proprietà della gravitazione che risultano dagli esperimenti. A questo punto Newton espone l’argomento celeberrimo sulle ipotesi: “In verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità e non invento ipotesi” (<<rationem vero harum gravitatis proprietatum mondum potui deducere et hypotheses non fingo>>). Con quest’ultima espressione Newton voleva rivendicare alla scienza una precisa autonomia fenomeni da da spiegare ogni e, causa esplicativa contemporaneamente, che risiedesse voleva fuori munirla di dei una metodologia per cui suo fine diventava non il perchè dei fenomeni ma il come, ossia il comportamento osservabile di essi. Non è il caso di ricordare in questa sede quale sia stata l’importanza storica di questo atteggiamento; basti soltanto ricordare che ispirò gli illuministi 25 della Enciclopedia e che ad esso si attennero rigidamente i positivisti inglesi e francesi dell’Ottocento. Un esempio di questa posizione di Newton è fornito dalle sue ripetute affermazioni di non conoscere la causa della gravitazione e dal suo dichiarare che allo scienziato deve bastare che il fenomeno esista e si comporti come viene previsto. Nello Scolio infatti continua: “Qualunque cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni, va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia delle qualità occulte. In questa filosofia, le proposizioni vengono dedotte dai fenomeni e rese generali per induzione”. Per quanto attiene alla fisica, dunque, “è sufficiente che la gravità esista di fatto, agisca secondo le leggi da noi esposte, e spieghi tutti i movimenti dei corpi celesti e del nostro mare”. Queste argomentazioni contenute nello Scolio Generale hanno influenzato, per circa due secoli, generazioni di intellettuali, i quali nutrirono l’opinione che al centro del metodo trionfante di Newton stesse il celebre motto “Hypotheses non fingo” e che l’azione gravitazionale fosse un’azione a distanza che si esercita nel vuoto. In realtà questa convinzione sulla gravitazione, come emergeva ufficialmente sostenuta da Newton nei suoi Principia, si presentava ben più problematica e insoddisfacente a Newton stesso nelle sue riflessioni private. Riguardo a questo, sono particolarmente interessanti le quattro lettere s cri tt e tra il di cem bre 1692 e il febbraio 1693 a Ri chard Bentl e y, che divennero note a un pubblico più vasto solo nel 1756. Bentley era un illustre filologo e studioso di problemi religiosi che nel 1687, quando era apparsa la prima edizione dei Principia, non aveva accettato l’opinione dei molti che respingevano le spiegazioni newtoniane come insensate. Grazie all’aiuto del matematico John Craige, cercò in un primo tempo di studiare dei testi che gli consentissero di leggere e capire i Principia. Rendendosi conto delle difficoltà insuperabili dell’impresa, si volse direttamente a Newton, il quale gli consigliò una lettura ridotta delle prime pagine del libro e dell’ultima sezione dedicata all’astronomia. Particolarmente interessante, per entrare nelle riflessioni private di Newton sulla gravitazione, è un passo presente nella terza lettera che riportiamo per intero: “E’ inconcepibile che la materia bruta e inanimata possa, senza la 26 mediazione di qualcosa di diverso che non sia materiale, operare ed agire su altra materia senza contatto reciproco, come dovrebbe appunto accadere se la gravitazione nel senso epicureo fosse essenziale o inerente alla materia stessa. E questa è la ragione per cui desidero che non mi si attribuisca la gravità come innata. Che la gravità possa essere innata, inerente e essenziale alla materia, così che un corpo possa agire su un altro a distanza e attraverso un vuoto, senza la mediazione di qualcosa grazie a cui e attraverso cui l’azione e la forza possano essere trasportate dall’uno all’altro, ebbene, tutto ciò è per me assurdità così grande, che io non credo che un uomo il quale abbia in materia filosofica una capacità di pensare in modo reale, possa mai cadere in essa. La gravità deve essere causata da un agente che agisca sempre secondo certe leggi; e ho lasciato alla considerazione dei miei lettori il problema se quell’agente è materiale o immateriale”. Questo passo è molto interessante e deve far riflettere. Chi legge i Principia non ha elementi sufficienti per capire l’effettiva posizione di Newton nei confronti della gravitazione se non quella affidata al celebre motto Hypotheses non fingo. Dal passo riportato traspare invece come, nel cuore stesso delle ricerche realmente svolte da Newton, le ipotesi svolgessero un ruolo fondamentale ed anche molto tormentato. Le difficoltà che Newton scorgeva nella nozione di forza agente a distanza sembrano averlo condotto, e giustamente, a ritenere che dovesse trattarsi solo di una tappa nell’approfondimento della conoscenza della realtà da parte dell’uomo. I s u c c e s s i d e l l a t e o r i a n e w t o n i an a d e l l a g r a v i t a z i o n e Ora, a parte le difficoltà filosofiche sopra accennate, la teoria newtoniana s’impose per il successo crescente delle previsioni a cui hanno condotto gli sviluppi matematici della meccanica celeste per opera soprattutto di Eulero (1707-1783), Clairaut (1736-1813), e (1713-1763), Laplace D’Alembert (1749-1827), che (1714-1783), riuscirono a Lagrange dare forma quantitativa sempre più precisa alle deduzioni, in larga parte qualitative, formulate da Newton. 27 Fra le prime conferme della teoria va posto, anzitutto, la soluzione al problema millenario delle comete. Edm und Hall ey, dopo l ’enunciaz ione dell a l egge di gravi taz ione univers al e e con i risultati dedotti dallo studio di 14 comete osservate fra il 1337 e il 1698, poté stabilire che il moto delle comete, come quello dei pianeti, è governato dalla gravitazione solare e poté pertanto rappresentare matematicamente l’orbita della grande cometa apparsa nel 1682, la famosa cometa periodica che da lui prese nome e da lui riconosciuta come la stessa cometa registrata dalle cronache del tempo nel 1607, nel 1531 e nel 1456. La previsione della ricomparsa della cometa di Halley fu opera di Clairaut, valutando un errore di circa un mese sui suoi calcoli, e fissando la ricomparsa per il 26 gennaio 1759. Ciò che avvenne fu che la cometa si presentò il giorno di Natale del 1758, con un mese e un giorno di anticipo sulla data prevista da Clairaut. Ulteriori conferme riguardano le scoperte dei pianeti Nettuno e Plutone, scoperte avvenute sulla base delle variazioni osservate nell’orbita di Urano. Come sappiamo, i pianeti noti fin dall’antichità erano cinque: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Urano è stato il primo pianeta a essere scoperto, nei tempi moderni, con l’uso del telescopio. Fra il 1690 e il 1770, esso venne osservato da vari astronomi, i quali, tuttavia, lo confusero con una stella. Fu W. Herschel, il 13 marzo 1781, ad accorgersi per primo che Urano si spostava rispetto allo sfondo delle stelle fisse; in un primo momento egli lo ritenne una cometa, ma le osservazioni eseguite nei mesi successivi permisero a J. De Saron e A. Lexell di stabilire (indipendentemente l’uno dall’altro) che si trattava di un pianeta, situato oltre l’orbita di Saturno. Verso la fine dell’Ottocento un giovane astronomo francese, J.J. Le Verrier, stava confrontando i suoi calcoli sul moto del pianeta Urano con le osservazioni relative alla sua posizione nei 63 anni successivi alla scoperta, quando si rese conto che qualcosa non quadrava. Lo scarto tra le osservazioni e i suoi calcoli era esageratamente grande, fino a venti secondi d’angolo (vale a dire come l’angolo sotteso da un uomo a circa sedici chilometri di distanza), e la differenza non era spiegabile con un errore sperimentale né tantomeno teorico. 28 Le Verrier sospettò che la discrepanza fosse dovuta alle perturbazioni indotte da un pianeta sconosciuto su un’orbita esterna a quella di Urano; si mise all’opera per calcolare che massa avrebbe dovuto avere l’ipotetico pianeta e che caratteristiche avrebbe dovuto avere il suo moto per spiegare le deviazioni osservate nell’orbita di Urano. Alla fine dell’estate del 1846 Le Verrier scrisse a J.G. Galle dell’Osservatorio di Berlino: <<Dirigete il vostro telescopio verso un punto dell’eclittica nella costellazione dell’Acquario, a 326° di longitudine, e vi troverete con un margine di errore di un grado, un nuovo pianeta simile a una stella di nona grandezza e dotato di un disco visibile>>. Galle seguì le istruzioni e scoprì il nuovo pianeta la notte del 23 settembre 1846. Il nuovo pianeta venne chiamata Nettuno. La scoperta di Plutone ricalca le stesse vicende di quella di Nettuno. Fu scoperto da C. W. Tombaugh all’Osservatorio di Flagstaff nell’Arizona il 23 gennaio 1930, a soli 5° dalla posizione calcolata da Lowell e Pickering: la sua esistenza infatti era già stata prevista in base alle perturbazioni riscontrate nelle orbite di Urano e Nettuno. Una conferma, come dire “terrestre”, della legge di gravitazione universale, si ha con l’esperimento di Cavendish, ovvero, con la prima determinazione sperimentale della costante G di gravitazione universale effettuata nel 1798, cioè circa un secolo dopo l’uscita dei Principia. L’esperimento di Cavendish costituisce un esempio, importante anche per la storia della fisica, di un esperimento in cui attraverso una misurazione di laboratorio viene ottenuta una quantità globale relativa a un corpo celeste. Il lavoro di Cavendish infatti s’intitola << Esperimenti per determinare la densità della Terra >> e assegna a quest’ultima il valore (5,44 + 0.22) g/cm3, in buon accordo con il valore corrente di 5,517 g/cm3. La misurazione di Cavendish fu effettuata mediante la bilancia di torsione, uno strumento di precisione precedentemente sviluppato per misurare forze elettrostatiche da Coulomb (1785-1789); in esso il momento della piccola forza da misurare viene compensato dal momento di torsione di un sottile filo di sospensione, la cui costante elastica è dedotta da periodo delle oscillazioni libere del sistema. Il dispositivo era stato realizzato da John Michell nel 1795 e alla morte di questi passò a Cavendish, che lo ricostruì ex novo, migliorandolo. Questo 29 metodo, straordinariamente perfezionato, venne poi utilizzato anche da Eotvos, Dicke e Braginsky per verificare il principio di equivalenza delle masse inerziale e gravitazionale, alla base della teoria della relatività generale. Sembrava quindi che Newton avesse scoperto la chiave dell’Universo fisico. Tuttavia, i tentativi fatti per spiegare le anomalie dell’orbita di Mercurio, con la presenza di un pianeta prossimo al Sole non ancora scoperto, rimasero senza frutti, e la soluzione definitiva, data da Albert Einstein nel 1916, avrebbe comportato l’elaborazione di un nuovo riferimento concettuale per la cosmologia e l’abbandono dei concetti newtoniani di spazio e tempo assoluti. L ’ A S T RO NO MI A S T E L L A RE E L A N A S CI T A DE L L ’ A S T RO FI S I CA I l p r o b l e ma d e l l a p a r a l l a s s e s t e l l a r e I Principia implicavano la verità dell’ipotesi copernicana: la piccola Terra orbitava attorno al massiccio Sole. Tuttavia mancava ancora una prova osservativa di questa ipotesi. La ricerca della parallasse annua delle stelle (il moto apparente annuo delle stelle causato dal moto dell’osservatore terrestre in orbita attorno al Sole) era reso complesso dal problema della rifrazione atmosferica, non ancora sufficientemente compreso. Misurazioni attendibili della parallasse annua sarebbero state effettuate solo nel corso degli anni '30 dell’Ottocento, quando telescopi di grande precisione furono rivolti verso le stelle che erano probabilmente le più vicino a noi. Uno di questi era un telescopio particolare di 16 cm di diametro detto eliometro, chiamato così perché originariamente progettato per la misura dei diametri angolari del Sole e dei pianeti, installato nel 1829 sulla torre dell’osservatorio di Konigsberg. Direttore dell’osservatorio era, fin dal 1810, Friedrich Bessel. 30 Bessel Bessel era nato nel 1784 a Minden da una buona famiglia borghese. Aveva trascorso l’adolescenza come apprendista in una ditta commerciale della vicina città portuale di Brema (Germania nord-occidentale), svolgendo il lavoro di contabilità con tale bravura da meritarsi, in via eccezionale, una piccola retribuzione. Interessatosi al problema della determinazione della longitudine in mare, Bessel aveva cominciato a leggere opere astronomiche e matematiche, fino a cim ent ars i per dil ett o nel calcol o dell ’orbit a del l a com et a di Hall ey. Olbers, un medico di Brema molto ferrato in astronomia, credette di riconoscere in quel lavoro giovanile un nuovo astro nascente e lo incoraggiò senza mezzi termini ad abbandonare merci e libri mastri facendolo assumere nell’osservatorio privato di Johann Schroter a Lilienthal, presso Brema, nel 1806. L’ambiente particolarmente stimolante e l’amicizia di numerosi scienziati che frequentavano quel luogo, tra i quali il grande Gauss, fecero sì che Bessel si inserisse subito nella problematica della grande scienza, in particolare nella ricerca di un sistema di riferimento per studiare i movimenti delle stelle e cercare di sottoporre anch’esse a quelle leggi meccaniche che si erano dimostrate valide per i pianeti e per i corpi minori del sistema solare. Ci vollero circa quattro anni affinché il giovane astronomo si impadronisse della pratica e delle nozioni necessarie per padroneggiare la meccanica celeste, facendosi così apprezzare tanto da essere proposto da un consigliere del sovrano di Prussia Federico Guglielmo III alla direzione del nuovo osservatorio di Konigsberg. A Konigsberg Bessel arrivò con un programma di lavoro ben definito nella sua mente. Esso consisteva nel costruire una base di posizioni stellari, un gruppo di dati certi e corretti sui quali lavorare negli anni a venire, quel punto di riferimento dal quale misurare i minuti spostamenti delle stelle sulla volta celeste. Gli astronomi, già dai primissimi anni dell’Ottocento sapevano che quei puntini luminosi che vediamo popolare il cielo non sono sempre tutti 31 fissi nella medesima posizione. Il loro spostamento, in ogni caso lentissimo tale da non poter essere percepito a occhio nudo neanche nel corso di un’intera vita umana, è un movimento complesso, in parte dovuto alle irregolarità e ai movimenti (anche i più elusivi) della sfera terrestre, in parte dovuto a veri spostamenti delle stelle nello spazio. Questi movimenti reali sono di grande importanza nel quadro che ci facciamo dell’Universo; per esempio l’analisi di alcuni di essi aveva mostrato che anche la nostra stella, il Sole, si dirige con il suo corteo planetario verso un punto ben identificabile sulla volta celeste. E’ possibile così arguire che, visto da un altro pianeta orbitante attorno a un altro sole, anch’esso disegnerebbe un lento e quasi impercettibile spostamento. Tutte le stelle sono corpi in moto, e l’Universo è simile a un brulicante formicaio filmato con un esasperato rallentatore. Ma se tutti i suoi componenti si muovono, come è possibile misurare con precisione l’entità dei singoli moti? Evidentemente “fissando” un fotogramma di questo film cosmico e prendendolo una volta per tutte come riferimento. Questo era esattamente ciò che Bessel voleva fare. La cosa non era facile a farsi. Creare ex novo un corpo di osservazioni di riferimento sarebbe stato lunghissimo e, alla fine, poco conveniente perché i successivi movimenti stellari si sarebbero potuti notare solo molti anni dopo, probabilmente dopo la morte dello stesso Bessel. Migliore sembrava piuttosto la prospettiva di usare osservazioni già eseguite, il più indietro possibile nel tempo, correggerle per tutti gli effetti spuri e ricavare con la massima precisione la posizione in cielo di un piccolo gruppo di stelle fondamentali. Queste osservazioni esistevano, perché nel corso del Settecento non pochi astronomi si erano dedicati a osservare e trascrivere la distanza di stelle luminose dal polo celeste e il momento in cui esse attraversavano il meridiano locale del loro osservatorio. Le migliori sembravano esser state fatte negli anni dal 1750 al 1762 dall’allora astronomo reale James Bradley all’Osservatorio di Greenwich, con ottimi strumenti di fabbricazione inglese e annotando tutte le condizioni ambientali al momento dell’osservazione. Ciò che ne venne fuori, nel 1818, è noto come i Fundamenta Astronomia pro anno 1755, giacché egli riportò tutte le posizioni stellari al medesimo istante, l’esatto inizio dell’anno 1755. Furono calcolati i moti propri delle 32 stelle utilizzando le differenze di posizione rispetto al catalogo di Piazzi, lo scopritore del primo asteroide (Cerere), e vi fu applicata per la prima volta una completa correzione pere gli errori strumentali. Fu un successo enorme. Tutti gli astronomi che dopo Bessel si sarebbero occupati di stabilire posizioni stellari terranno conto del metodo e dei dati contenuti nei Fundamenta. Un fiorire di cataloghi di vecchie e nuove posizioni sbocciò e si mantenne a lungo vivo in tutto il mondo occidentale, come se tutti volessero dedicarsi a fissare “istantanee” di quel lento, quasi impercettibile brulichio di movimenti governati dalle ormai monolitiche leggi della dinamica, silenziose padrone dei più profondi recessi dell’Universo. Nel 1830 Bessel diede alle stampe le Tabulae Regiomontane, raccolta di posizioni calcolate questa volta nel corso di un secolo, cioè per numerosi tempi diversi, di trentotto stelle di riferimento. Queste Tabulae sono delle cosiddette effemeridi, cioè previsioni della posizione delle stelle. Esse sono valide fino al 1850 e contengono anche un calcolo della precessione dell’asse di rotazione terrestre molto più preciso di quanto mai prima pubblicato. (Ricordiamo che la precessione è quel fenomeno che fa mutare la posizione del polo Nord in cielo, cosicché se oggi la stella polare è la stella α dell’Orsa Minore, al tempo dei navigatori fenici era Draconis e tra migliaia di anni sarà Vega nella costellazione della Lira). L a mi s u r a d e l l e d i s t a n z e s t e l l a r i Ritorniamo adesso al problema della misura della parallasse stellare. Bessel non era il primo a tentare di trovare la parallasse, cioè quella piccola ellisse che una stella doveva descrivere sullo sfondo dei campi stellari lontani a causa del moto orbitale della Terra. Ogni anno noi siamo trasportati dal nostro pianeta in un’orbita attorno al Sole che ha dimensioni relativamente grandi (il suo asse maggiore misura più di trecento milioni di chilometri), e perciò dovremmo notare una differenza di prospettiva tra una stella vicina e le lontanissime altre stelle 33 dello sfondo, causata appunto dal nostro muoverci nello spazio di fronte al paesaggio cosmico. L’entità di questo movimento apparente dipende dalla distanza della stella, anzi la distanza può essere da questo ricavata, essendo noto il percorso che noi osservatori compiamo trascinati dalla Terra. L’idea era già stata espressa da Galileo nei suoi Dialoghi. Dall’impossibilità di notare un qualsiasi cambiamento nella posizione delle stelle, questi aveva dedotto la piccolezza dell’orbita terrestre in confronto alla distanza delle stelle. L’impossibilità non è però un concetto assoluto, dipende dalla precisione degli strumenti e dall’accuratezza con cui i calcoli possono essere eseguiti. Certo non sarebbe stato possibile trovare le parallassi prima che fossero conosciuti fenomeni l’aberrazione della di diversa luce, scoperta origine ma di dall’astronomo simile reale effetto James come Bradley (1692-1762). La ricerca della parallasse fu comunque tentata prima di Bessel da alcuni astronomi, William Herschel (1738-1822) o l’astronomo reale inglese John Pond (1767-1836) per esempio, che non aveva però potuto arrivare a nulla se non al fatto che le ellissi parallattiche dovevano essere molto piccole, probabilmente al di sotto del decimo di secondo d’angolo. Altri astronomi annunciarono di aver misurato una parallasse per tutto il periodo fino al 1830, ma i loro resoconti non reggevano a un esame attento oppure le loro misure erano ancora troppo vaghe. Bessel studiò molto bene il problema di quale stella tenere sotto osservazione; sulle prime si poteva pensare che quanto più un astro è luminoso, tanto più avrebbe dovuto essere vicino. Tale discorso valeva però nella media, perché Bessel non sapeva se le stelle avessero tutte la medesima luminosità, anzi aveva forti indizi che ci fosse un’enorme disparità nella loro magnitudine intrinseca. Egli era però al corrente dei moti propri delle stelle, cioè del loro lento viaggiare nello spazio, e pensò di sostituire alla luminosità, il moto proprio delle stelle quale criterio più affidabile per stimare la loro distanza, cosicché riuscire a individuare una stella con il più evidente moto proprio dava una grande probabilità di azzeccarne una molto vicina. Bessel si occupò allora della stella 61 Cygni, di debole luminosità ma molto mobile (5,2 secondi d’arco all’anno). Per diciotto mesi quella stella fu 34 accuratamente osservata con l’eliometro di Konigsberg, un tempo sufficiente a far percorrere alla Terra una rivoluzione abbondante e alla stella la sua piccola ellisse apparente, finché nel 1838 Bessel spedì alla rivista Astronomische Nachrichten i risultati. L’ellisse parallattica era stata la prima volta disegnata, e il suo asse maggiore misurava 0,314 secondi d’arco (con un errore di ± 0,02 secondi), corrispondenti alla distanza di circa centomila miliardi di chilometri, ovvero poco meno di undici anni luce. Questo valore, a onore di Bessel molto poco diverso da quello oggi ottenibile (0,292”), gettava un regolo attraverso lo spazio, fissava la posizione della prima isola dell’oceano nel quale inoltrarsi a veleggiare alla scoperta di nuove terre lontane dall’angusto golfo del sistema solare, fissava la scala e le dimensioni di quell’Universo che fino allora era apparso lontano non si sa quanto. Il metodo della parallasse è il metodo più antico per determinare le distanze stellari. Vi sono poi altri metodi, basati su principi molto diversi, via via introdotti col perfezionarsi delle tecniche di osservazione e col progredire delle conoscenze astrofisiche. Uno di questi è quello che utilizza le Cefeidi. Le Cefeidi sono un’importante classe di stelle, così chiamate perché la prima stella di questo tipo fu scoperta nella costellazione di Cefeo, caratterizzate da variazioni di luminosità che si riproducono con grande regolarità. Tra le leggi statistiche cui obbediscono le Cefeidi ha particolare importanza la relazione periodo-luminosità scoperta da Henrietta Leavitt nel 1913. Secondo tale legge, la luminosità assoluta di una Cefeide è funzione lineare del logaritmo del periodo (espresso in giorni), corrispondendo i periodi più lunghi a Cefeidi più luminose; ne segue che, se si determina il periodo di variazione di luce di una Cefeide, risulta nota la sua luminosità assoluta e quindi, osservata la luminosità apparente, anche la distanza. Con le Cefeidi è possibile avere buone determinazioni di distanze per un gran numero di oggetti che contengono stelle di questo tipo, in quanto esse sono molto luminose e possono essere osservate anche a grande distanza. Le distanze degli ammassi globulari e di alcune galassie esterne più vicine sono state ottenute in questo modo. 35 L ’ a s t r o n o mi a d e l l ’ O t t o c e n t o : f o t o g r a f i a , s p e t t r o s c o p i a e d e f f e t t o D o p p l e r a l l a r g an o i c o n f i n i d e l l ’ U n i v e r s o . Gli sviluppi della cosmologia sono sempre connessi con le osservazioni astronomiche. Questa verità è particolarmente chiara per chi studia la storia dell’astronomia del XIX secolo e nota la grande differenza fra questo tipo di studi e quello dei secoli precedenti. Si può ben dire che nell’Ottocento ha avuto luogo una seconda rivoluzione copernicana che ha soppiantato il Sole come centro del mondo, prima a favore della nostra Via Lattea e poi a favore di un’eliminazione del concetto di centro dell’universo. Ma vi è di più: soltanto nell’Ottocento l’invasione delle tecniche fisicochimiche in campo astronomico trasforma le conoscenze astronomiche da pura osservazione in sperimentazione da laboratorio. Accanto all’astronomia matematica si stabilisce una nuova concezione della disciplina astronomica, quella fisico-sperimentale. E’ la nascita dell’astrofisica. Uno dei punti principali di questa rivoluzione consiste nell’introduzione della fotografia per opera di Fizeau nel 1841, che voleva studiare con questo mezzo le macchie solari. La prima fotografia astronomica fu un dagherrotipo della Luna, ripresa da un dilettante americano, J.W.Draper; nel 1850 il Direttore dell’Osservatorio di Harvard, W.C.Dond, riprese una serie eccellente di immagini della Luna, che furono presentate alla grande esposizione di Londra del 1851. Dal 1884 i fratelli Paul e Prosper Henry iniziano la fotografia stellare combinando un apparecchio fotografico con un telescopio che segue meccanicamente le stelle. Questo permise di ottenere registrazioni permanenti e oggettive del cielo, che era possibile esaminare successivamente con cura; con tempi di esposizione lunghi, gli astronomi erano in grado di rilevare e registrare oggetti di debole luminosità, che sarebbero per sempre rimasti nascosti alle loro osservazioni, anche se dotati dei più potenti telescopi. La seconda applicazione della fisica all’astronomia si ebbe con la spettroscopia, basata sull’analisi spettrale introdotta in forma sistematica da G. Kirchhoff. 36 Nei laboratori, i fisici facevano passare la luce emessa da varie sorgenti attraverso dei prismi, e studiavano la possibilità di correlare gli spettri così ottenuti con la natura fisica delle sorgenti e del mezzo utilizzato. In astronomia, queste conoscenze furono applicate, in un primo tempo, allo spettro della luce del Sole: nel secondo decennio dell’Ottocento, Joseph Fraunhofer, uno dei maggiori studiosi di ottica, svolse le sue ricerche sullo spettro solare e, in particolare, sulle molte linee scure che lo attraversano. Egli trovò che le radiazioni luminose provenienti dai pianeti avevano linee del tutto simili, mentre quelle delle radiazioni stellari erano differenti. La spiegazione classica, in termini di spettri di assorbimento e di emissione, fu data nel 1859 da Gustav Kirchhoff e Robert Bunsen. A William Huggins, un ricco dilettante inglese, le notizie arrivarono <<come una spruzzata d’acqua su un terreno secco e assetato>>, e subito escogitò uno spettroscopio da collegare al suo telescopio. Da allora, lo studio degli spettri stellari rappresenta uno dei più potenti mezzi dell’indagine astrofisica. Con le tecniche spettroscopiche divenne possibile individuare rapidamente i movimenti stellari. Fino allo sviluppo della spettroscopia stellare, la sola informazione disponibile sul moto di una stella era tratta da un confronto tra la sua posizione attuale e quella registrata molti anni prima: l’accumulo dei dati era quindi molto lento e la conoscenza ottenuta riguardava solo il moto trasversale, ad angolo retto rispetto alla linea di osservazione. Ma l’effetto Doppler per gli spettri stellari, secondo il quale lo spettro di una stella si avvicina al rosso oppure si allontana da esso a seconda che la stella si allontani o si avvicini all’osservatore, forniva informazioni istantanee sul moto lungo la linea di osservazione (ovvero sulla velocità radiale). Per esempio, se la stella fosse stata una binaria (una coppia di stelle orbitanti intorno al loro comune centro di gravità), allora lo spettro avrebbe dovuto avere due componenti, ciascuna delle quali spostata in un senso o nell’altro, dal momento che le velocità delle stelle orbitanti lungo la linea di osservazione variano. Un’altra importante applicazione della spettroscopia fu senza dubbio quella che consentì di misurare le distanze delle stelle con metodi ben più efficaci di ottici e trigonometrici, in uso fino a quel momento. Nel 1916 Walter S ydne y Adam s amm is e che, s apendo con i vecchi m et odi l e dist anze dalla 37 Terra di due stelle dello stesso tipo spettrale, si può calcolare la luminosità assoluta di tali stelle. Supponendo che le distanze delle due stelle e le loro luminosità siano di ordine assai diverso, si dovrebbe ritrovare l’effetto di questa diversità anche nei loro spettri. Poiché tale supposizione si rivelò esatta, Adams riuscì a calcolare da allora in poi le distanze di qualunque oggetto partendo dall’esame del suo spettro, senza bisogno di altri metodi. E ancora, lo studio dello spettro di righe stellari cominciò a dare informazioni sulla loro composizione chimica, sulla struttura e sullo stato fisico dell’atmosfera stellare insieme al suo campo magnetico. Nonostante la multiforme varietà degli spettri stellari, è stato possibile operare un’importante classificazione, la classificazione di Harvard, determinatasi grazie al lavoro fondamentale iniziato nel 1885 da Edward Pickering e proseguito da una sua assistente, Annie Cannon, che portò alla pubblicazione nel 1924 dell’Henry Draper Catalogne. Questo catalogo contiene 225.300 stelle, che sono classificate in sette classi spettrali o tipi spettrali, denominate con lettere maiuscole (O,B,A,F,G,K,M), ciascuna a sua volta suddivisa in 10 sottoclassi. Le classi sono ordinate secondo il valore decrescente della temperatura. La possibilità data dalla spettroscopia all’astronomia di classificare le stelle in pochi gruppi fondamentali, aprì poi la via all’applicazione dell’idea evoluzionistica alle stelle. I vari gruppi di stelle apparvero come gruppi di stelle in diversi momenti della loro esistenza, mostrando una diminuzione regolare della temperatura nei gruppi successivi della scala evolutiva. Con il lavoro di Huggins e di altri astronomi contemporanei negli ultimi quattro decenni del XIX secolo, l’astronomia estese enormemente i suoi confini. Inoltre, all’inizio del 20° secolo, furono individuate righe spettroscopiche in nebulose extragalattiche e, successivamente, furono così misurate alcune loro velocità radiali (Vesto Slipher, 1914); ciò aprì la via alla straordinaria scoperta di un ordine nell’Universo e dell’espansione cosmologica (E.P.Hubble, 1926). 38 I l d i a g r a mma d i H e r t z s p r u n g - Ru s s e l l La sintesi dell’astrofisica stellare ottocentesca viene compiuta all’inizio del XX secolo. Ejnar Hertzsprung (1911) e Henry Russell (1913) scoprirono, indipendentemente, una correlazione empirica fondamentale tra la luminosità intrinseca e la temperatura superficiale delle stelle. Questa correlazione, presentata graficamente nel cosiddetto diagramma di Hertzsprung-Russell o diagramma HR, è uno dei risultati fondamentali su cui è fondata l’astrofisica moderna perché permette il collegamento tra le osservazioni e i modelli delle stelle, e lo studio diretto della loro evoluzione. I punti rappresentativi delle stelle più vicine al Sole (distanze minori di 10 parsec) si dispongono nel diagramma HR lungo una banda, detta sequenza principale, che l’attraversa diagonalmente, dalle stelle di alta luminosità e alta temperatura (tipo spettrale O÷B, in alto a sinistra) fino a stelle di bassa luminosità e bassa temperatura (stelle nane M, in basso a destra). La loro posizione lungo la sequenza dipende dalla massa e ciò spiega perché le stelle più calde della sequenza principale sono anche le più massicce. Considerando anche stelle più lontane, nel diagramma HR si notano altre sequenze ben definite. Al di sopra della sequenza principale si trova la sequenza delle giganti, quasi parallele all’asse delle ascisse. Al di sotto della sequenza principale si trova la sequenza delle nane bianche, quasi parallela a quella principale, che sono stelle ad alta temperatura ma poco luminose, perché hanno dimensioni minori delle stelle della sequenza principale di uguale temperatura. Si stima che le stelle della sequenza principale siano l’85%, le nane bianche il 10% e, nel restante 5% siano compresi tutti gli altri tipi di stelle. L’importanza del diagramma HR risiede nel fatto che esso indica, insieme alle relazioni massa-luminosità e massa-raggio, la distribuzione dei parametri fisici delle stelle che ne determina la struttura, la stabilità 8° instabilità) e l’evoluzione nel tempo. In altri termini, lo stretto legame esistente tra la luminosità, la massa e la temperatura implica che tra le infinite terne di valori che, a priori, questi parametri possono assumere, 39 soltanto alcune sono compatibili con la formazione di stelle più o meno stabili, quali noi le osserviamo. L’importante risultato che ha permesso il progresso delle teorie sull’evoluzione stellare consiste nella comprensione del fatto che le stelle evolvendosi si muovono lungo particolari tracce del diagramma HR. Dai modelli teorici dell’evoluzione delle stelle, elaborati sulla base della meccanica quantistica relativistica e della teoria della relatività generale, confrontati con i dati di osservazione, si deduce che il parametro fondamentale di una stella, quello da cui dipenderà la sua storia futura, è la sua massa. L A CO S MO L O G I A MO D E R N A Dopo la narrazione dei grandi modelli cosmologici dell’antichità, la nascita della moderna cosmologia scientifica avviene con la scoperta di due grandi eventi, uno di carattere sperimentale e l’altro di carattere teorico: la legge di Hubble (1929) e la teoria della relatività generale (1916). Le galassie esterne e l’espansione dell’universo. La legge di Hubble Tra le due guerre mondiali una nuova categoria di corpi celesti salì di prepotenza sul palcoscenico: le nebulose extragalattiche. Fin dall’epoca di Galilei l’uso dei telescopi aveva rilevato come oggetti che, osservati a occhio nudo o con strumenti di bassa potenza, apparivano diffusi e nebulosi, fossero in realtà formati da un agglomerato di numerose stelle. Si sviluppò così l’idea di un universo popolato non di stelle, ma di sistemi stellari. Nel 1750 Thomas Wright pubblicò un’opera intitolata An original theory or new hypothesis of the universe in cui immaginava un modello di universo riempito di sfere, ciascuna delle quali era formata da un guscio di stelle. Wright fu anche il primo a fornire una spiegazione della Via Lattea. Le idee di Wright furono riprese da Kant nella sua opera Storia generale della natura e teoria del cielo (1755), dove le proprietà dei sistemi stellari 40 (quelli che oggi chiamiamo galassie), vengono descritte con ricchezza di dettagli. Si trattava però di formidabili intuizioni che non potevano a quell’epoca essere verificate sperimentalmente. Il problema era quello di determinare la distanza tra la Terra e questi sistemi, al fine di confrontare le loro dimensioni con quelle della Via Lattea. Dovettero passare quasi due secoli perché si avesse la prova scientifica che le nebulose a spirale sono sistemi stellari paragonabili al nostro. Fondamentale per questo fu la scoperta di alcune cefeidi nella nebulosa di Andromeda (la M31 del catalogo di Messier) da parte di Edwin Hubble nel 1924, utilizzando il telescopio da due metri e mezzo dell’osservatorio di Mount Wilson, il più potente dell’epoca. Questo permise ad Hubble di determinare con una certa precisione la distanza della nebulosa di Andromeda, valutata circa due milioni di anni luce, ponendo fine all’accesa controversia sull’appartenenza delle nebulose spirali alla nostra Galassia. Allo stesso modo, Hubble esplorò l’universo fino a una distanza di circa 1.000 megaparsec da noi (un parsec è circa 3 anni luce, ovvero circa 3·1016m) e cioè una regione che contiene circa 100 milioni di nebulose. Il carattere più sorprendente della loro distribuzione è il fatto che esse tendono ad agglomerarsi in ammassi, che variano per dimensioni da un paio di galassie a quindici o venti, come nel caso del nostro Gruppo Locale, fino ad ammassi contenenti varie migliaia di galassie, come quelli nella Vergine o nella Chioma di Berenice. Hubble studiò anche l’aspetto generale di molte galassie e nel 1926 le classificò in vari tipi. I tipi principali sono quelli a spirale, a spirale barrata e quelli ellittici: inoltre ve n’è una piccola percentuale di forma irregolare. Un altro grande campo di studi fu la cinematica di queste nebulose, vale a dire il loro movimento nello spazio. Il metodo d’indagine era spettroscopico e si basava sulla misura dello spostamento delle righe degli spettri ottici per effetto Doppler. Già era stato notato intorno al 1915 da Vesto Slipher che la maggior parte delle galassie esterne presentavano degli spostamenti Doppler verso il rosso delle loro righe spettrali e che questo spostamento (red shift) era tanto più cospicuo quanto più lontano sembravano le galassie. Questo venne immediatamente interpretato come se le galassie possedessero una 41 velocità radiale di allontanamento da noi, che faceva pensare a una recessione generalizzata, a una fuga da un non specificato centro, fuga tanto più veloce quanto più esse ne distano. Non si sarebbe potuto dire di più su questo sconcertante fenomeno finché non si fosse precisato esattamente in quale misura esso avesse luogo, finché non si fosse deciso proporzionalmente alla se la distanza velocità oppure di se lo allontanamento fa seguendo aumenta una legge matematica più complessa. Non appena terminato il lavoro di classificazione delle galassie, nel 1926, Hubble si rivolse a studiare questo nuovo problema con l’aiuto di due formidabili strumenti: il telescopio Hooker da due metri e mezzo e la relazione periodo-luminosità delle cefeidi, atta a fornire le distanze delle galassie. Entro un paio d’anni riuscì a raccogliere un numero di dati sufficiente a comporre un grafico e a discriminare tra la varie possibili forme matematiche della relazione. I dati si riferivano a ventiquattro galassie la cui distanza era da lui stimata fra trentamila e due milioni di parsec. Per Hubble non fu difficile scegliere la relazione analitica che meglio rappresentava i dati, enunciando così, nel 1929, quella che forse è la legge di Natura più profonda e ricca di significati: le galassie si allontanano da noi con una velocità che è proporzionale alla loro distanza. Questa scoperta ha segnato la fine dell’immagine statica dell’Universo e ha aperto la strada all’attuale concezione evoluzionistica, che oggi sappiamo si applica non solo all’Universo nel suo insieme , ma anche ai singoli oggetti di cui esso è composto, a cominciare dalle stelle, strutture dinamiche che nascono, si evolvono e infine muoiono. Questa concezione dinamica dell’Universo sarebbe stata probabilmente accettata con maggiore difficoltà, se non si fosse trovata in accordo almeno qualitativo con un modello di Universo proposto qualche anno prima (1922) dal russo Aleksandr Friedmann e ripreso poco dopo da Georges Lemaître, basato sulla teoria della relatività generale. Tale teoria, formulata da Einstein nel 1916, è allo stesso tempo una teoria della gravitazione e della struttura geometrica dello spazio-tempo in presenza di materia. Le sue conseguenze sono state finora tutte confermate sperimentalmente. 42 Per questa ragione e per la sua intrinseca coerenza, la relatività generale è oggi considerata come la base teorica appropriata per una descrizione globale dell’Universo e della sua storia. Dalla Legge di Hubble al Big Bang Il lavoro sperimentale degli anni venti del secolo scorso, ha posto l’uomo nella condizione di affermare, con un notevole grado di attendibilità scientifica, che l’Universo ha avuto un’origine, per quanto riguarda sia la sua dimensione temporale, sia quelle spaziali. Questa affermazione è interamente basata sul lavoro sperimentale di Hubble dell’interpretazione dell’osservato red shift delle galassie come dovuto a effetto Doppler. Riprendiamo brevemente le tappe principali di questo lavoro. L’osservazione telescopica ha rilevato la presenza,oltre alla nostra Galassia, di diversi miliardi di galassie, ognuna delle quali è a sua volta formata da miliardi di stelle. E’ possibile determinare la distanza di questi oggetti mediante la tecnica delle stelle variabili Cefeidi, in quanto la loro luminosità è intrinsecamente nota. I movimenti di questi vari oggetti celesti ci sono rivelati mediante la misura delle loro velocità radiali, tramite l’effetto Doppler, secondo il quale le righe emesse dallo spettro di una sorgente luminosa sono spostate verso il violetto se essa si avvicina a noi, o verso il rosso se essa si allontana da noi, e lo spostamento delle righe è proporzionale alla velocità di avvicinamento o di allontanamento della sorgente luminosa. Ora, l’indagine sistematica condotta da Hubble (e che continua ancora oggi) ha mostrato come tutte le galassie abbiano le loro righe spettrali spostate verso il rosso (il cosiddetto red shift) di un’entità proporzionale alla loro distanza. Ciò costituisce, come abbiamo visto, la legge empirica di Hubble: ogni galassia si allontana da ogni altra con una velocità proporzionale alla distanza; ciò nell’insieme costituisce un moto di dilatazione, il quale consente di dire che l’Universo si espande conservando la sua forma , ma con tutte le distanze relative moltiplicate per un fattore di scala che ora cresce con il tempo. 43 Questo significa, ammettendo che tale moto sia sempre continuato, che, facendo muovere all’indietro nel tempo le galassie con una velocità di valore pari a quella osservata, ma cambiata di segno, si arriva a “un istante iniziale”, in cui tutte le galassie erano sovrapposte, ovvero tutta la materia dell’Universo era concentrata in un volume piccolissimo, dal quale l’Universo è come esploso, proiettando le galassie in tutte le direzioni. La legge di Hubble permette di calcolare come quest’istante iniziale sia da collocarsi a circa una quindicina di miliardi di anni indietro. Tale quadro di genesi dell’Universo prende il nome di Big Bang (<<grande esplosione>>). Sono state avanzate altre ipotesi di spiegazione del red shift galattico che non sono però riuscite ad imporsi, in quanto ritenute dalla maggioranza dei fisici come ipotesi ad hoc, ovvero ipotesi che non spiegano nient’altro al di fuori del particolare fenomeno per il quale sono state appositamente escogitate. Vi sono, inoltre, altri dati sperimentali successivi a quelli ricavati da Hubble che vengono mirabilmente interpretati dal quadro espansionistico del big bang, mentre non sarebbero facilmente comprensibili in base alle suddette altre ipotesi. Ci riferiamo alle due scoperte della radiazione cosmica di fondo e l’abbondanza dell’elio cosmico. Tutto ciò fa sì che lo schema del big bang sia oggi considerato come ben sostenuto da tutti i dati osservativi, e pertanto altamente attendibile. Mo d e l l i c o s mo l o g i c i La cosmologia teorica moderna ha avuto inizio nel 1917 con la memoria presentata da Einstein all’Accademia delle scienze di Berlino dal titolo: “Ricerche cosmologiche sulla teoria della relatività generale”, dove Einstein applicò la sua teoria generale della relatività all’intero Universo, che immaginò uniformemente riempito di materia. Einstein adottò un modello statico dell’Universo, in cui l’autogravitazione è bilanciata da una forza repulsiva cosmica introdotta artificialmente nelle sue equazioni di campo. L’Universo è trattato da Einstein come un sistema dinamico descritto da equazioni relativistiche del moto le cui soluzioni possono definire, in linea 44 di principio, la geometria, l’evoluzione e il contenuto di materia. Il problema cosmologico viene affrontato non a partire da un sistema filosofico, ma è considerato l’applicazione di una teoria scientifica che può avere un riscontro osservativo. In altre parole, il modello di Universo non proviene da una particolare visione del mondo, ma è, invece, la soluzione di un sistema di equazioni che prescindono da una qualsiasi visione filosofica. A partire da questo esordio einsteiniano, i modelli cosmologici proposti sono stati molteplici e spesso contraddittori. La maggior parte dei modelli è caratterizzata da una singolarità iniziale che viene interpretata come origine dell’universo. Inoltre, l’evidenza sperimentale dell’espansione dell’universo, trova in essi una solida base teorica. Proprio partendo dell’espansione da questo, è dell’Universo interessante trovi una far sua vedere come il interpretazione dato anche nell’ambito della meccanica newtoniana. Può essere allora interessante iniziare il nostro esame dei modelli cosmologici, basandoci, in un primo tempo, invece che sulla relatività generale, sulla più semplice meccanica newtoniana in uno spazio euclideo. Mo d e l l i c o s mo l o g i c i n e w t o n i a n i In un primo tempo si pensava che la legge di gravitazione universale: F = -Gm1m2 / r2 , pur spiegando bene la dinamica dei corpi del sistema solare, non fosse adatta a trattare i fenomeni che avvengono su scala universale. Il problema che si presentava subito era che, in un universo infinito, la forza newtoniana agente su una massa unitaria posta in qualsiasi punto doveva essere infinita. Si supponga infatti una massa unitaria posta nell’origine del sistema di riferimento (e questa origine può essere scelta a piacere, in un universo omogeneo). Ogni guscio di raggio r e spessore ∆r contribuisce con una forza Fguscio = - G mguscio / r2 = - G4π ρ ∆r , dove abbiamo sostituito mguscio= 4π r2 ρ ∆r, essendo ρ la densità di materia. Se quindi il raggio dell’universo è infinito, abbiamo: 45 Ftotale = -4πG ρ Runiverso = infinito. Riesce dunque impossibile, con una forza di questo tipo, pensare di costruire una qualsiasi dinamica dell’universo, a meno di considerare l’universo come finito. E’ proprio questa via che sceglieranno nel 1934 Edward Milne e William McCrea, ma ciò era impensabile alla fine dell’Ottocento, quando la tendenza ufficiale era quella di attribuire dimensioni infinite all’universo. Se invece si esclude questa scappatoia, è necessario agire o sulla legge di forza stessa, o sulla densità di materia. Per curiosità storica, diciamo solo che la prima possibilità fu presa in esame da Neumann e von Seelinger nel 1896, col suggerimento che l’attrazione gravitazionale dovesse essere corretta nel modo seguente: F = (-G m1 m2 / r2) e L’effetto del termine e -r/r 0 -r/r 0. è di ridurre notevolmente l’azione della forza soprattutto per distanze superiori a r0. le masse poste a distanza maggiore di r0 eserciterebbero un’azione completamente trascurabile sulla massa posta all’origine, con il risultato che, anche per un universo infinito, si avrebbe: Ftotale = -4πG ρ r0. Questo tipo di proposta, pur fornendo un modello statico dell’Universo (altro requisito che appariva ovvio verso la fine dell’Ottocento) non ebbe fortuna e fu completamente dimenticato. Procederemo ora, come annunziato, alla costruzione, relativamente semplice e intuitiva, di modelli cosmologici newtoniani, basandoci sugli argomenti di Milne e McCrea (1934). Queste considerazioni, sfortunatamente, non furono fatte prima della scoperta della relatività generale, né prima delle osservazioni di Hubble, delle quali l’una richiedeva e le altre confermavano sperimentalmente il fatto che l’Universo in realtà sembra essere in evoluzione, e non statico. Fatte a posteriori, rimane loro il sapore di inattese conferme, che tuttavia aiutano nella difficile interpretazione delle grandezze che appaiono nelle non dissimili equazioni della relatività generale. Procedendo per analogia, consideriamo anzitutto un palloncino di gomma che viene gonfiato. La distanza fra due punti qualsiasi della sua superficie aumenta col crescere del raggio, mentre restano costanti i rapporti fra le varie distanze. Raddoppiando il raggio del palloncino tutte le distanze fra coppie di punti qualsiasi della sua superficie raddoppiano. In modo analogo 46 dovremmo poter descrivere la situazione nel caso dell’Universo, che qui considereremo come una nuvola di polvere omogenea, trascurando le condensazioni individuali di massa, che non dovrebbero importare su grande scala. Sia ρ (t) la densità di materia, dipendente dal tempo. La legge secondo cui qualsiasi distanza varia in funzione del tempo può allora essere scritta come r(t) = R(t) r0 , dove r0 è il valore della distanza in esame ad un tempo prefissato t0, e quindi R(t0)=1. La funzione R(t), che si chiama fattore di scala dell’Universo, può essere interpretata come il fattore che dà la dipendenza dal tempo della distanza tra due particelle di polvere (galassie) e che quindi governa la velocità di espansione dell’universo. Possiamo scegliere t0 come l’epoca attuale, sebbene non sia questa l’unica scelta possibile. A questo punto, non senza qualche mancanza di rigore, possiamo scrivere la legge di forza. Per far questo, si consideri una particella di polvere, di massa unitaria, a distanza r dall’origine, che può essere scelta a piacere. Rispetto a un osservatore fisso nell’origine, la forza gravitazionale a cui la particella è sottoposta è dovuta unicamente alla massa M contenuta nella sfera di raggio r, massa che rimane costante con l’espansione, se non è creata materia: tutte le particelle di polvere partecipano infatti dell’espansione. La seconda legge di Newton afferma che d 2r GM =− 2 ; 2 dt r sostituendo r(t) = R(t) r0 e ponendo r0 =1, si trova la corrispondente equazione per il fattore di scala R(t): d 2R GM =− 2 , 2 dt R Formalmente identica all’equazione a cui si può giungere considerando il moto di un punto sul contorno di una nuvola sferica di raggio R. Lo studio di questo sistema è molto intuitivo in quanto R assume ora il significato di raggio ed M di massa totale dell’universo. Questa equazione dice subito che non si può avere un universo statico se il potenziale è quello gravitazionale: la nube non muterebbe, cioè R(t) non subirebbe variazioni col tempo, solo se M fosse uguale a zero, e quindi non ci fosse massa (niente polvere, niente stelle, niente cosmologi). 47 Se invece M è diversa da zero, abbiamo delle soluzioni non banali che possono essere trovate con l’equazione di conservazione dell’energia 2 1 dR GM =E, − 2 dt R dove il primo termine rappresenta l’energia cinetica e il secondo l’energia potenziale, entrambe per unità di massa; E sarà quindi l’energia totale, e a seconda del valore che essa assume si può calcolare l’andamento di R nel tempo, e quindi il modello di Universo. Esaminiamo ora i vari risultati possibili: a) E=0. In questo caso l’energia totale è nulla, cioè l’energia cinetica uguaglia esattamente l’energia potenziale. L’attrazione gravitazionale non riesce a frenare l’universo se esso si sta espandendo, e quindi l’universo si espande fino all’infinito con velocità decrescente. Risolvendo l’equazione, si ottiene infatti che R(t) è proporzionale a t2/3 b) E>0. In questo caso l’energia cinetica predomina su quella potenziale. L’universo si espande indefinitamente, dapprima secondo la legge t2/3, e poi a velocità costante, R(t) diventando proporzionale a t. c) E<0. In questo caso l’universo non può espandersi all’infinito in quanto l’energia di legame, potenziale, è superiore all’energia cinetica. Qui si può determinare qual è il raggio massimo consentito in queste condizioni, ponendo la velocità uguale a zero (dR/dt=0) nell’equazione della conservazione dell’energia. In fatti la velocità è zero quando l’espansione termina, e inizia la contrazione. Rimane così fissato il raggio massimo di espansione: R max = GM . E Utilizzando unicamente la fisica newtoniana, è dunque possibile ottenere dei modelli di universo in cui si ha espansione illimitata, oppure espansione seguita da contrazione. Due cose bisogna notare: in primo luogo, come si è detto, rimane escluso un modello in cui le dimensioni dell’universo restano le stesse (modello statico); in secondo luogo, all’istante iniziale (t=0) si ha in ogni caso R=0, cioè una <<singolarità>> (inserire fig.di pag. 1236, cosmologia, enc. einaudi ). 48 Ma, se insistiamo nel volere un universo statico, occorre introdurre un termine in più, di segno opposto, cioè repulsivo. Matematicamente più semplice è il caso di una repulsione del tipo della forza centrifuga, senza volerci addentrare troppo nella spinosa questione di che cosa significhi una rotazione dell’universo. Questo termine deve essere trascurabile su distanze dell’ordine del sistema solare, ma deve essere importante su distanze dell’ordine del raggio dell’universo. Con questa modifica l’equazione del moto diventa: d 2 R GM 1 + 2 − λ R = 0. 3 dt 2 R Il termine 1/3 λ appare in questa forma, non essenziale, per ottenere una identità formale con l’equazione corrispondente che, come vedremo, risulta dalla relatività generale. Dall’equazione scritta discende una serie di modelli cosmologici assai più ricca che nel caso precedente. Intanto, per esempio, diviene possibile un modello statico: ponendo d2R/dt2 uguale a zero nell’equazione del moto, si ottiene un valore di R indipendente dal tempo, e diverso da zero, che può essere interpretato come il raggio dell’universo statico, o come scala statica di lunghezza, a seconda delle nostre stipulazioni iniziali. Una descrizione dei numerosi modelli ottenibili non è essenziale, basta sottolineare che i vari modelli possono essere raggruppati in tre classi: 1) modelli statici, in cui non variano le dimensioni dell’universo; 49 2) modelli in cui un’espansione iniziata da una singolarità, o da un nucleo iniziale di dimensioni finite, si protrae indefinitamente nel tempo fino a raggiungere dimensioni finite od infinite; 3) modelli in cui a una prima fase di espansione a partire da una singolarità segue una fase di contrazione che si conclude con un’altra singolarità. Mo d e l l i c o s mo l o g i c i r e l a t i v i s t i c i Il discorso newtoniana condotto nel costituisce paragrafo soltanto precedente sulla un’approssimazione base di della quello fisica che è possibile sviluppare sulla base della teoria della relatività generale, che si assume come la teoria fisico-matematica corretta della gravitazione. Alla base di quasi tutti i modelli relativistici sta il principio cosmologico, che stabilisce che l’Universo è omogeneo ed isotropo, e quindi nessuna galassia, nessuna direzione di osservazione possono essere considerate privilegiate. Come tutti i principi fisici anche quello cosmologico non è altro che una estrapolazione ottenuta a partire dalle osservazioni. Tutte le osservazioni indicano che, in media, su volumi abbastanza grandi, le galassie sono distribuite uniformemente. Più precisamente, questo significa che se consideriamo una porzione di Universo grande abbastanza, se confrontata con le distanze tipiche tra galassie vicine (assunte dell’ordine del Mpc), allora il numero di galassie in quella porzione è approssimativamente lo stesso di quello in un’altra porzione con lo stesso volume (omogeneità dell’Universo). La distribuzione delle galassie appare anche isotropa intorno a noi, cioè è la stessa, in media, in tutte le direzioni. Se assumiamo che noi non siamo in una posizione privilegiata tra le galassie, possiamo ragionevolmente concludere che la distribuzione delle galassie è isotropa intorno a qualsiasi galassia (isotropia dell’Universo). Il principio cosmologico, in sostanza, implica che osservatori in qualunque punto dell’Universo ne darebbero una descrizione sostanzialmente uguale, almeno per quanto concerne le proprietà su grande scala: se si vuole, è 50 questa la liberazione definitiva da qualunque residuo di illusione antropocentrica. Il principio cosmologico semplifica considerevolmente lo studio della struttura a larga scala, poiché implica, tra l’altro, che la distanza tra due galassie tipiche è assegnata da un fattore universale che è lo stesso per ogni coppia di galassie. In generale, risolvere la dinamica cosmologica, vuol dire ricavare l’evoluzione temporale di questo fattore di scala dalle equazioni di Einstein. Per essere più precisi, consideriamo una coppia qualsiasi di galassie a e b che partecipano al moto globale dell’Universo. La distanza tra queste galassie può essere scritta come ra,b(t) = R(t) roa,b , dove roa,b è indipendente dal tempo e R(t) è una funzione del tempo. La costante roa,b dipende dalle galassie a e b. Analogamente, la distanza tra le galassie c e d può essere scritta come rc,d(t) = R(t) roc,d , dove la costante roc,d dipende dalla scelta delle galassie c e d. Così, se la distanza tra a e b cambia di un certo fattore in un periodo di tempo definito,allora la distanza tra c e d cambia dello stesso fattore in quel periodo di tempo. La struttura a larga scala e l’evoluzione globale dell’Universo possono allora essere descritte dalla sola funzione del tempo R(t), detta appunto fattore di scala. Tale funzione può assumere il significato di raggio dell’Universo. Se va,b è la velocità di recessione di due galassie, l’una rispetto all’altra, si ha che: v a ,b = dra ,b dt = r o a ,b dR dR 1 = ra ,b = H ra ,b ; dt dt R 1 dR c h e a l t r o n o n è c h e l a l e g g e d i H u b b l e , c o n H = , costante di Hubble. R dt Torniamo ora al principio cosmologico che permette anche di costruire una metrica (distanza tra due punti molto vicini) particolarmente semplice, e quindi particolarmente gradevole da un punto di vista teorico. Si può dimostrare infatti (ed è quanto fecero Robertson e Walker indipendentemente l’uno dall’altro nel 1935) che unicamente sulla base di questo principio la distanza tra due punti infinitamente vicini dello spazio-tempo a quattro dimensioni può essere scritta come: 51 ds 2 = c 2 dt 2 − R 2 (t ) dx 2 + dy 2 + dz 2 2 kr (1 + 0 ) 2 4 , dove ro2 =x o2+ yo2 +z o2 è il valore dell a dist anza i n es ame ad un t empo prefissato to; k è l’indice di curvatura, inversamente proporzionale a R2, che determina in ogni istante la curvatura dello spazio tridimensionale e può essere positivo, negativo o nullo: - se k=0, lo spazio è descritto dalla geometria euclidea; - se k<0, lo spazio è descritto dalla geometria iperbolica; - se k>0, lo spazio è descritto dalla geometria ellittica o di Riemann. Notiamo che lo spazio euclideo e quello iperbolico sono detti <<aperti>>, mentre quello ellittico è detto <<chiuso>> (in quest’ultimo tutte le geodetiche sono linee chiuse). La descrizione fisica dell’espansione dell’Universo è contenuta nel fattore di scala R(t) che può essere determinato utilizzando le equazioni di Einstein della relatività generale. Si può dimostrare che se si inserisce la formula della distanza di Robertson e Walker nelle (sedici) equazioni di Einstein, si ottiene una formula del Mondo, che ammette parecchie possibilità di soluzione e, con ciò, diversi possibili corsi della storia dell’Universo. La formula è la seguente: d 2R 4πG 3p 1 =− ρ + 2 R + λR , 2 3 3 dt c dove p rappresenta la pressione, e λ è detta costante cosmologica. Quest’ultimo termine, assente dalla forma iniziale delle equazioni di Einstein, fu anche in questo caso introdotto perché divenisse possibile una soluzione statica, ragionevole. In che ancora seguito alla nel 1915 scoperta era di considerata Hubble, come Einstein l’unica si pentì amaramente di avere rovinato la bellezza delle sue equazioni con questa tardiva e forzata introduzione, chiamandola l’errore più grande della sua vita. Tuttavia, la costante cosmologica è stata più volte riproposta in seguito, con alterna fortuna. Come è facile verificare ponendo la pressione p uguale a zero, questa equazione diventa esattamente l’equazione a cui deve obbedire il raggio medio nella trattazione newtoniana corretta con un termine repulsivo. Vale a dire che il modello non relativistico corrisponde a una situazione in cui si 52 ammette che la pressione nel gas sia trascurabile: per questo si parla in genere di <<nuvola di polvere>>. I modelli relativistici, ricavati dall’equazione scritta sopra, possono discostarsi molto dai modelli non relativistici nel caso in cui la pressione non sia trascurabile:ciò dovrebbe accadere specialmente nei pressi della singolarità, cioè, in un modello di big bang, nelle fasi iniziali. All’epoca presente, invece, si osserva che il contributo dovuto alla pressione è trascurabile. Questa equazione, naturalmente, è stata l’oggetto di numerosi studi: se ne sono esaminate soluzioni particolari ed altri casi più generali: in seguito si è anche rinunciato all’omogeneità e all’isotropia della metrica, ottenendo delle equazioni di Einstein diverse e più complesse, a loro volta analizzate in dettaglio. Noi ci accontentiamo di considerare l’equazione scritta per un’analisi molto sommaria dei modelli d’Universo che da essa si ricavano, seguendo un ordine cronologico. 1) Modello di Einstein (1917). Einstein studiò il caso d2R/dt2=0, che fornisce un modello di Universo statico, non in espansione, descritto dalla geometria ellittica di Riemann. 2) Modello di de Sitter (1918). Willem de Sitter studiò il caso p=ρ=0, ovvero in assenza di materia, anch’esso corrispondente a un modello statico di Universo. 3) Modelli di Friedmann (1922,1924), corrispondenti al caso λ=0. Nel primo dei suoi due famosi articoli sulla cosmologia relativistica, Aleksandr Friedmann trovò soluzioni per modelli di Universo in espansione caratterizzati da geometrie spaziali chiuse, tra cui quelle che si espandono fino a un raggio massimo e quindi collassano in una singolarità. Due anni dopo, nel secondo articolo, precisò che vi sono anche soluzioni che si espandono illimitatamente, caratterizzate da una geometria iperbolica. Le soluzioni presentate da Friedmann corrispondono ai modelli standard della relatività generale. 4) Modello di Lemaître (1927). In esso si ha p e λ maggiori di zero. Il fattore di scala R(t) ha un comportamento interessante. All’inizio aumenta proporzionalmente a t2/3, si ha cioè un’espansione molto rapida. In seguito, la gravità rallenta l’espansione e vi è un periodo quasi statico (che sarebbe propizio alla formazione di condensazioni galattiche), dopo 53 il quale l’espansione riprende a crescere rapidamente a causa dell’effetto di repulsione del termine λ: sarebbe proprio questa la fase in cui ci troveremmo attualmente. Esso differisce dai modelli precedenti in quanto l’espansione sarebbe ora in fase di accelerazione (a causa della preponderanza del fattore λ), mentre negli altri modelli essa starebbe rallentando (a causa dell’autogravitazione). Questo è un problema cosmologico attuale, che potrà essere risolto in futuro migliorando le osservazioni relative al diagramma di Hubble sul red shift di galassie lontane. Lemaître spinse fino in fondo il ragionamento ripercorrendo a ritroso la storia dell’espansione fino al tempo più remoto. Concluse che tutto il cosmo deve essersi originato a raggio zero, da una primitiva inimmaginabile concentrazione della materia in un unico punto. A questo seme iniziale dal quale tutta la realtà fisica avrebbe dovuto nascere, Lemaître diede il nome di atomo primordiale. 5) Modello di Einstein-de Sitter (1932), ottenuto ponendo k=0 e λ=0. Nel 1932 Einstein e de Sitter unirono le forze ed eliminarono le differenze tra le rispettive vecchie teorie. Questa volta essi considerarono la possibilità che lo spazio abbia una geometria euclidea (k=0), cioè del tutto priva di curvatura, pur subendo una continua espansione. Essi trovarono che questa possibilità dipendeva dalla densità della materia nello Universo. A un certo suo preciso valore, che era funzione della velocità di espansione, cioè della costante di Hubble, l’Universo era privo di curvatura. Il valore trovato era dato dalla seguente formula: ρc = 3H 2 . 8πG Ci si riferisce spesso a questa densità come alla “densità critica” e al modello di Einstein-de Sitter come al “modello critico”, in quanto separa i modelli che si espandono illimitatamente con geometrie aperte e iperboliche da quelli che sono destinati a collassare in una singolarità e che hanno geometria sferica chiusa. Quando Einstein e de Sitter inserirono nella formula H=500 km s-1 Mpc-1 (quello fornito da Hubble stesso per la sua costante), trovarono ρc=4x10-25 kg m-3. Sebbene questo valore risultasse maggiore della densità media delle galassie osservata da Hubble, essi argomentarono che potesse essere dell’ordine di grandezza giusto perché nell’Universo potrebbe essere presente una considerevole quantità 54 di “materia oscura”. Era la prima volta che si parlava di materia oscura. L’evidenza astrofisica della materia oscura non tardò ad arrivare, con gli studi dinamici sugli ammassi ricchi di galassie, in particolare, sull’ammasso della Chioma di Berenice, ad opera di Fritz Zwicky del Caltech di Pasadena, in California, nel 1933. (inserire figura “Frontiere della vita” vol. I pag 28, con didascalia ESF, vol. VI, pag.433) Al giorno d’oggi è tuttora incerto a quale tipo di Universo apparteniamo. Le misure della densità media ρ basata sulla massa visibile delle galassie forniscono un valore di circa 10-28 kg/m3, nettamente inferiore alla densità critica ρc=2·10-26 kg/m3, assumendo per la costante di Hubble H il valore di 100 km/(s·Mpc). Ci sono però buone ragioni per pensare che nelle galassie o negli ammassi sia presente una quantità di materia oscura, di natura tuttora enigmatica, tale da poter fare aumentare la densità media di un fattore che va da 10 a 100, e così riportare il nostro Universo al tipo di modello chiuso, o sul limite di chiusura. G a mow e i l B i g B a n g Nel 1932, in seguito alla scoperta del neutrone, lo stato primordiale dello Universo fu pensato come un mare di neutroni tenuti fortemente insieme. Si suppose che i neutroni primordiali fossero decaduti in protoni e che, in interazioni nucleari successive, si fossero formati sia gli elementi chimici sia i raggi cosmici. Queste idee alimentarono l’approccio di George Gamow al problema dell’origine degli elementi chimici. 55 Nel 1948, Gamow pubblicò una teoria insieme a Ralph Alpher e Hans Bethe, l ’anno succes si vo batt ezz at a t eori a del Bi g Bang da Fred Hoyl e, dove venivano applicati gli ultimi successi della fisica nucleare ai modelli di Friedmann-Lemaître. L’articolo attirò l’attenzione sulla necessità di avere una fase calda e densa nell’Universo, nell’ipotesi di una sintesi cosmologica degli elementi. Infatti, il punto cruciale di questa teoria è l’ipotesi che l’Universo abbia avuto origine dalla deflagrazione iniziale di uno stato della materia ad altissima densità e temperatura. Piuttosto di credere che tutti gli elementi presenti siano il prodotto della nucleosintesi stellare, cosa che lasciava ben più di un dubbio data la loro quantità, Gamow ed Alpher supposero che si fossero formati nelle primissime fasi che seguirono all’esplosione iniziale, fasi in cui la temperatura era così alta da consentire il verificarsi delle reazioni necessarie. Con i calcoli da loro effettuati, trovarono un ragionevole accordo con le abbondanze osservate degli elementi, in particolare dell’elio cosmico. Il problema è il seguente: l’osservazione spettroscopica dei vari corpi celesti, e in particolare delle atmosfere stellari, rivela che, rispetto all’idrogeno presente nell’Universo nella proporzione di circa il 70% in massa, l’elio raggiunge circa il 23%, mentre il rimanente di tutti gli altri elementi, detti <<metalli>>, costituisce i pochi per cento residui. Ora, mentre le abbondanze di tutti questi <<metalli>> si spiegano come prodotti delle nucleosintesi stellari, la percentuale osservata di elio è troppo abbondante per essere riferita a tale origine, e occorre postulare un 23% circa d’elio come già presente nel Cosmo prima della formazione delle stelle. Ora tale dato viene spiegato naturalmente nel quadro teorico del big bang di Gamow: a un dato momento dell’espansione, le condizioni di temperatura e di densità sono tali da consentire a protoni e neutroni di combinarsi in deutoni, e questi a loro volta di sintetizzarsi in elio prima di venire distrutti da successive reazioni nucleari di fissione, come avveniva a temperature anteriori più alte, mentre la formazione di elementi più pesanti non ha luogo, perché, dopo formato l’elio, la temperatura è gia scesa di troppo per consentire la loro sintesi. Il fatto notevole è che la percentuale prevista dal big bang per l’elio così formatosi, grazie a calcoli accurati svolti alla fine degli anni ’60 da Wago56 ner, Fowl er e Ho yl e, è proprio quell a del 23% circa ri chi est a dal le osservazioni. Una delle conseguenze osservative previste da Gamow e collaboratori, sarebbe stata la presenza nello spazio di una radiazione fossile, del residuo cioè dell’esplosione primordiale o meglio della palla di fuoco che, nei primi istanti, sarebbe violentemente nata dall’esplosione. L’intensissimo bagliore di quei momenti, se veramente esplosione c’è stata, deve avere lasciato una traccia ancora osservabile a distanza di tanto tempo perché i raggi di quella ‘luce’ non possono essere usciti dall’Universo, non lo possono aver abbandonato, devono ancora essere in circolazione. Poiché l’Universo si è enormemente espanso da allora, questa radiazione deve essersi in proporzione diluita, affievolita tanto da risultare molto più debole. Bisogna inoltre tenere presente che essa giungerebbe ai nostri occhi dal passato più remoto e perciò rispetto a noi e alla nostra era essa deve apparire affetta da uno spostamento verso il rosso maggiore di quello di ogni altra immagine osservabile. Si calcolò che la sua lunghezza d’onda caratteristica, enormemente allungata dall’effetto Doppler, non potrebbe essere ormai minore di un millimetro. Come dire che la sua temperatura di corpo nero non dovrebbe superare i cinque gradi assoluti (-268 gradi centigradi). Quando Gamow fece questa predizione non ci si rese immediatamente conto che tale campo di radiazione avrebbe dominato su tutte le altre sorgenti di radiazione nella regione delle microonde (cioè delle lunghezze d’onda centimetriche) e che esso sarebbe stato in effetti direttamente osservabile con i radioricevitori. La previsione di Gamow era poi stata dimenticata, senonchè, nel 1965, due fisici della Bell Telephone: Arno Penzias e Robert Wilson, mentre eseguivano i controlli su un’antenna per le telecomunicazioni da loro progettata, notarono un effetto di interferenza nello studio di onde radio a 7 cm dovuto a un forte rumore di fondo, che li lasciò assai perplessi. Questo eccesso di rumore a 7cm lo valutarono uguale a quello che sarebbe stato prodotto, a quella lunghezza d’onda, da un corpo nero alla temperatura di 3 K e superava di circa un fattore 100 la stima del rumore proveniente da tutte le radiosorgenti conosciute. Il gruppo di Robert Dicke a Princeton stava tentando esattamente questo esperimento con la costruzione di un radiometro funzionante alla lunghezza d’onda di 3 cm, per controllare la proposta, fatta indipendentemente da 57 Dicke, secondo la quale l’Universo avrebbe dovuto essere riempito di radiazione dovuta alla palla di fuoco iniziale. I fisici di Princeton capirono subito che Penzias e Wilson avevano scoperto il segnale da loro cercato. Dopo alcuni mesi, due di questi fisici, Peter Roll e David Wilkinson, misurarono una temperatura di fondo di 3 K a una lunghezza d’onda di 3,2 cm, che confermava la natura di corpo nero dello spettro di fondo. Alla fine degli anni Sessanta, la radiazione di fondo cosmico di microonde e le abbondanze cosmiche degli elementi leggeri vennero universalmente riconosciute come prove inconfutabili della fasi iniziali calde dell’Universo e, perciò, la cosmologia astrofisica assunse come riferimento standard lo scenario del big bang. T e o r i a d e l B i g B a n g e s u o i p o s s ib i l i a mp l i a me n t i . I l Mo d e l l o I n f l az i o n a r i o La teoria della relatività generale, enunciata nel secondo decennio del Novecento, ha offerto la possibilità di trattare l’Universo nella sua globalità e di descriverne le proprietà generali. Da quella data ha inizio la moderna cosmologia, il cui sviluppo può essere diviso in tre distinti periodi. Nel primo, che dura fino al 1965, vengono esplorate le proprietà geometriche dell’Universo, definite soprattutto dai modelli evolutivi di Friedmann e verificate sperimentalmente dalla legge di Hubble. A partire dal 1965, quando viene scoperta la radiazione cosmica di fondo, si intensificano gli studi riguardanti l’evoluzione fisica dell’Universo e si elabora la teoria del Big Bang, di cui vengono studiate le proprietà. Nonostante i successi del modello standard del Big Bang, emergono parecchi problemi che non trovano spiegazione. Inizia così, nel 1980, la terza fase dello sviluppo della cosmologia relativistica, che contempla l’inflazione dell’Universo nelle primissime fasi. Nonostante il successo ottenuto, la teoria del Big Bang classico presenta alcune difficoltà o problemi. Primo fra tutti il cosiddetto problema dell’orizzonte. Il nostro orizzonte ha un raggio che, espresso in anni luce, è pari all’età in anni dell’Universo. Ne consegue che quando, per esempio, guardiamo la radiazione cosmica di fon58 do in due regioni opposte del cielo, queste, pur non potendo aver mai comunicato tra loro a causa della velocità finita della luce, si presentano a noi in modo perfettamente identico, come è indicato dall’altissimo grado di isotropia osservato. Come possono regioni diverse dell’Universo, che non sono mai state in contatto tra loro, decidere di presentarsi con le stesse caratteristiche? Il secondo problema posto dalla teoria del Big Bang classico è quello della piattezza dell’Universo. La densità media della materia nell’Universo, tenendo conto della materia oscura associata alle galassie e agli ammassi, è un decimo di quella critica, che caratterizza l’Universo piatto. Se si va a vedere qual era questo rapporto nell’Universo primordiale, si trova che esso differiva dall’unità per una quantità infinitesima. Viene pertanto da pensare che il vero rapporto tra densità media e densità critica sia proprio l’unità e che resti da scoprire la rimanente materia oscura. La teoria del Big Bang classico, tuttavia, non è in grado di spiegare perché il nostro Universo debba proprio essere caratterizzato dalla densità critica. Il terzo problema lasciato irrisolto dal Big Bang classico è quello della asimmetria materia-antimateria, che in un certo momento deve essersi creata per dar luogo all’attuale Universo dominato dalla materia, visto che nell’Universo primordiale doveva esserci una perfetta simmetria tra materia e antimateria. Un altro problema riguarda l’origine delle fluttuazioni di densità che, amplificandosi con lo scorrere del tempo, hanno dato origine all’attuale Universo, caratterizzato da un forte contrasto della densità di materia. Andando a ritroso nel tempo si dovrebbe trovare la causa che ha prodotto i germi delle fluttuazioni, una causa che non è però indicata dal Big Bang classico. Altri problemi erano rimasti senza risposta quando, verso il 1980, si è aperta la terza fase dello sviluppo della cosmologia relativistica segnata dalla proposta del cosiddetto modello inflazionario, il cui scopo era proprio quello di trovare una soluzione ai problemi or ora accennati. Il nome deriva da quella che è la caratteristica più saliente di questo modello, che consiste nell’ammettere che, attorno all’epoca corrispondente a 10-34 secondi dal Big Bang, l’Universo abbia subito un processo di accelerazione che ha fatto aumentare il suo volume di un fattore 1050. Questo processo di 59 inflazione trova la sua giustificazione nella presenza di forze che si eserciterebbero tra la materia nelle condizioni fisiche estreme presenti a quell’epoca. L’inflazione spiega i vari problemi a cui si è accennato. Il problema dell’orizzonte viene spiegato dal fatto che prima dell’inflazione c’è stato tutto il tempo necessario affinché le varie parti dell’universo potessero comunicare tra loro. Solo successivamente l’inflazione le porta a così grande distanze che esse non possono più comunicare tra loro data la finitezza della velocità della luce. E’ inoltre possibile dimostrare che, se l’Universo è sottoposto alla rapida accelerazione tipica del modello inflazionario, la sua geometria tende a diventare euclidea e pertanto la densità della materia tende a quella critica. Mentre per questi primi due problemi è bastato ammettere l’inflazione, senza fare uso della fisica sottostante, per gli altri due bisogna invece considerare le condizioni fisiche. Il problema dell’asimmetria tra materia e antimateria trova la sua origine nelle particolari condizioni che si sono venute a creare nel momento di transizione tra la fase GUT e quella successiva. Infine, la risoluzione del problema delle fluttuazioni rappresenta uno dei successi più brillanti del modello inflazionario. L’idea è che le fluttuazioni siano di origine quantistica e che si sviluppino con l’inflazione. Lo spettro delle perturbazioni che si ottiene in questo modo è proprio quello necessario per spiegare l’origine delle strutture cosmiche attualmente osservate. La teoria dell’inflazione, che all’inizio era stata proposta come mezzo per superare alcune difficoltà della teoria del Big Bang classico, tende ora a proporsi come una visione del mondo di ben più larghe proporzioni, dove il Big Bang del nostro Universo è da considerarsi un fenomeno molto limitato. Secondo il fisico Andrei Linde, l’universo inflazionario è un universo che si autoriproduce dando luogo a infiniti miniuniversi attraverso infiniti mini Big Bang di cui quello che ha dato origine al nostro Universo è solo uno dei tanti. Si torna così a un modello di durata eterna entro il quale nascono, si sviluppano e muoiono infiniti universi. Questa teoria non è priva di fascino. Essa dovrebbe tuttavia indicare quali siano le basi osservative che, come si è visto, costituiscono il fondamento di ogni modello cosmologico. Comunque, il quadro dell’Universo inflazio60 nario viene oggi considerato come molto promettente, in grado di fornire una veduta d’insieme quanto più coerente possibile con quanto conosciamo della cosmologia. 61